NON POSSIAMO PERMETTERCI SPRECHI DI PENSIERO
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RECUPERIAMO MARCO MINGHETTI
Aprile 2013
INDICE
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BIOGRAFIA ………………………………………………………………………………………..3
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Marco Minghetti e le sue opere 5
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Introduzione 5
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un liberale dimenticato ** 6
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un liberale bolognese dal respiro europeo 25
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il liberalismo italiano tra scienza e politica 27
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I "limiti razionali" dell'economia
politica 31
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Libera Chiesa in libero Stato 38
·
Alle origini della partitocrazia 45
·
MARCO MINGHETTI: I PARTITI POLITICI E LA LORO
INGERENZA NELLA GIUSTIZIA E NELL'AMMINISTRAZIONE 55
·
PREFAZIONE 55
·
DEL GOVERNO PARLAMENTARE COME GOVERNO DI PARTITO
DEI PREGI E DEI DIFETTI CHE GLI SONO INERENTI 60
·
DI ALTRI MALI CONSEGUENTI DAL GOVERNO DI PARTITO.
SUE INDEBITE INGERENZE NELLA GIUSTIZIA E NELL’AMMINISTRAZIONE 69
·
SE SIA POSSIBILE UN GOVERNO PARLAMENTARE SENZA
PARTITI 105
·
DEI RIMEDI 120
·
______________________________________
·
MARCO MINGHETTI - DELLA ECONOMIA PUBBLICA E DELLA
SUA ATTINENZA COLLA MORALE E COL DIRITTO
______________________________________
·
Teledemocrazia: sudditi o cittadini ?
·
Piccola antologia del pensiero liberale
·
Società Libera e i poteri neutri
·
La libertà dei moderni tra liberalismo e democrazia
BIOGRAFIA
Marco Minghetti
1818 - Nasce a Bologna l’8 novembre, in un’agiata famiglia di proprietari
terrieri, da Giuseppe e Rosa Sarti. La madre appartiene a una famiglia
borghese di sentimenti liberali.
1828/1832 - con la morte del padre l’influsso della madre sulla sua
formazione si fa più esclusivo. Studia privatamente sotto la direzione del
barnabita di idee liberali Ugo Bassi.
1832/1845 - Inizia una lunga serie di viaggi all’estero che costituiscono la
sua vera formazione culturale (Parigi, Londra, Svizzera, Germania, Belgio,
Olanda e infine di nuovo Francia e Inghilterra). Nel frattempo stringe
rapporti con ambienti liberali, sia in Italia che all’estero.
1847/1849 - Sono gli anni del suo ingresso nella vita pubblica. Nel 1847 è
nominato membro della consulta di Stato; nel ‘48 è per poche settimane
ministro dei Lavori Pubblici dello Stato Pontificio. Eletto deputato, si
dimette senza esitazione, perché non approva lo scarso zelo con cui si
conducono le indagini sulla morte di Pellegrino Rossi. Rinuncia a presentare
la propria candidatura alla Costituente Romana.
1850/1856 - Abbandona temporaneamente l’attività politica ritirandosi in
campagna. Riprende i suoi viaggi all’estero.
1859 - Scrive Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e
col diritto, frutto dei suoi studi giovanili.
1860 - E’ eletto deputato, carica che conserverà fino alla morte, dalla VII
alla XVI legislatura. Il 1° novembre è nominato ministro degli Interni nel
gabinetto Cavour, carica che conserverà anche nel successivo ministero
Ricasoli.
1862 - E’ nominato ministro delle Finanze nel gabinetto Farini.
1863/1864 - Dal 24 marzo 1863 al 24 settembre 1864 è presidente del
Consiglio, conservando però al tempo stesso il portafoglio delle Finanze.
1869 - Torna al governo come ministro dell’Agricoltura, industria e commercio
nel gabinetto Menabrea.
1873/1876 - E’ di nuovo presidente del Consiglio, conservando sempre il
ministero delle Finanze. La sua ambizione è di aver raggiunto il pareggio di
bilancio dello Stato. Con la caduta del suo governo, cade anche la Destra
storica, ma l’attività politica di Minghetti continuerà sino alla fine dai
banchi dell’opposizione.
1881 - Scrive I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e
nell’amministrazione.
1886 - Si spegne a Roma il 10 dicembre, dopo aver tenuto a Torino un
memorabile discorso su Cavour, il suo vero maestro.
Marco Minghetti e le sue opere
Introduzione
Non è certamente casuale che Società Libera, in
occasione dell'edizione bolognese della nostra mostra sul liberalismo, abbia
voluto ricordare con un Convegno la figura e l'opera di Marco Minghetti.
Certamente siamo stati influenzati dall'origine bolognese dello statista e
dalla coincidenza che Nicola Matteucci, appassionato estimatore di Minghetti,
presiede il nostro Comitato Scientifico.
Ma, ancor più determinante, è stata la profonda convinzione che il messaggio
di uno studioso, di un uomo politico a cent'anni dalla morte conservi una
sorprendente attualità rispetto a usi e costumi della nostra convivenza
civile.
Il liberalismo di Minghetti non è gridato, vola alto con una concezione della
libertà pregna di responsabilità ed etica individuale. E' il liberalismo
dell'equilibrio e delle regole, la cui rilettura ci aiuta, anche oggi, a
comprendere meglio l'annoso dibattito sul ruolo e le funzioni dello Stato.
E' la stessa concezione del liberalismo a cui, come Società Libera,
guardiamo, convinti che vi debba essere sempre meno spazio per utilitarismi e
concezioni corporative della società. L'omaggio che abbiamo voluto riservare
a Minghetti, anche con la pubblicazione di questi atti, voglio qui
ricordarlo, trova nell'istituzione del premio annuale, istituito da Società
Libera e a lui dedicato, una continuità d'attenzione che come liberali noi
tutti gli dobbiamo.
Vincenzo Olita
Milano, marzo 2001
Marco Minghetti, un liberale dimenticato **
Nicola Matteucci*
1. Un pensatore dimenticato
Il bolognese Marco Minghetti fu deputato al Parlamento italiano dal 1860, il
primo dopo l'Unità, al 1886, l'anno della sua morte, nonché più volte
ministro e due volte presidente del Consiglio, dal 24 marzo 1863 al 28
settembre 1864 e dal 10 luglio 1873 al 18 marzo 1876. In questi ventisei anni
di impegno nella lotta politica il Minghetti scrisse anche tre grandi opere,
che ormai la memoria storica ha, in larga misura, dimenticato: Dell'economia
pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859), Stato e
Chiesa (1878) e, infine, I partiti politici e la ingerenza loro nella
giustizia e nell'amministrazione (1881); e soltanto di quest'ultima opera si
conserva il ricordo1.
Una rapida scorsa alla bibliografia degli studi su Minghetti mostra quanto
essa sia povera: non certo nella qualità ma nella quantità degli scritti,
dovuti in gran parte a bolognesi2, che hanno avuto il grande merito di
custodire il ricordo di una personalità d'eccezione, mostrandone il ruolo in
momenti decisivi nella storia del nostro paese. La sola monografia su
Minghetti, purtroppo non portata a termine, resta quella di una nostra
concittadina, Lilla Lipparini3. Eppure Benedetto Croce, nella sua Storia
d'Italia, parlando della Destra storica che aveva governato l'Italia dalla
morte di Cavour all'avvento della Sinistra, aveva ripetutamente sottolineato
il ruolo di Marco Minghetti: assieme al Ricasoli, al Lamarmora, al Lanza, al
Sella e allo Spaventa, egli fece parte di "una aristocrazia spirituale,
gentiluomini e galan-tuomini di piena lealtà", che "di rado un
popolo ebbe a capo della cosa pubblica"4. Il giudizio di Federico
Chabod, nelle sue famose Premesse alla Storia della politica estera italiana
dal 1870 al 1896, è ancora più netto: l'intelligente e colto Minghetti,
l'uomo delle amicizie europee" appare ormai come "la principale
figura della parte moderata"5.
Solo in tempi abbastanza recenti l'attenzione si è di nuovo rivolta al
Minghetti da parte di una generazione che è meno interessata alla storia
politica e più sensibile alla storia delle istituzioni e a quella dei
partiti, alla storia amministrativa e a quella delle finanze, anche se non
sempre si è sottolineata la stretta connessione tra l'uomo politico e il
pensatore politico, che fa di Minghetti un personaggio quasi unico.
Croce non ricorda le opere del Minghetti, Federico Chabod le dissolve nel suo
grande affresco di storia delle idee. Una sfortuna ancor maggiore ha
incontrato Marco Minghetti con gli storici del pensiero politico. Guido De Ruggiero,
nella sua Storia del Liberalismo europeo, doverosamente cita soltanto due sue
opere, ma non lo ritiene un vero pensatore politico, perché lontano dalla
filosofia6, mentre la testa forte della Destra sarebbe soltanto Silvio (o al
più Bertrando) Spaventa. Luigi Salvatorelli, nel suo saggio dal titolo Il
pensiero politico italiano dal 1700 al 18707, non ricorda neppure di sfuggita
il Minghetti. Ancora: nella collana degli "Scrittori politici
italiani", edita a Bologna e diretta da Felice Battaglia, il nome di
Minghetti non appare, quasi che le sue opere sfigurassero accanto a quelle
dei Turiello, dei De Sanctis, dei De Meis e dei Fiorentino. La sola eccezione
è rappresentata da Arturo Carlo Jemolo: nella sua famosa opera Chiesa e Stato
in Italia negli ultimi cento anni, la figura di Marco Minghetti, con la sua
ragionata tesi separatista, è messa in primo piano. Non solo: per lo Jemolo
nei sei "no" al Senato all'approvazione del Concordato è presente
la non morta fede nei valori del Risorgimento, nei valori che furono di
Cavour e di Minghetti8.
Questo silenzio sul pensatore Minghetti, anche da parte di coloro che sono
alla "ricerca di un'Italia liberale", stupisce davvero: eppure
Dell'economia pubblica ha avuto in Italia tre edizioni e una traduzione in
Francia; Stato e Chiesa due edizioni in Italia e due traduzioni, una in
tedesco ed una in francese; I partiti politici quattro edizioni in Italia ed
una parziale traduzione in tedesco. L'opera di Minghetti ha goduto all'estero
di una larga accoglienza e di un'ampia discussione, sia per le tematiche
affrontate, sia per il metodo seguito, sia per le soluzioni indicate: è,
quindi, un pensatore dalle larghe risonanze europee9.
Oggi gli scritti del Minghetti hanno una scarsa circolazione; e dire che la
sua pagina è semplice, ma non disadorna, elegante, ma non preziosa, senza
cedimenti letterari, di un'altissima leggibilità senza scadere nel
superficiale: nel suo stile c'è un classicismo reso essenziale e moderno da
un gusto argomentativo e didascalico, che mette a frutto la lezione
galileiana e manzoniana del "fare bene i conti" con i fatti, con la
diligenza signorile, ma attenta, dell'"osservatore" spregiudicato
del reale.
In Italia è, però, rintracciabile una presenza di Marco Minghetti più segreta
e più nascosta: non nel campo della filosofia o del pensiero politico, bensì
in quello delle nascenti scienze sociali. Infatti Vittorio Emanuele Orlando,
il fondatore della scuola italiana del diritto pubblico, vede in Minghetti
uno dei suoi maestri, mentre è sempre al Minghetti che esplicitamente
desiderano riallacciarsi economisti come Luigi Luzzatti, Giuseppe
Ricca-Salerno e Fedele Lampertico10. Anche Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto
ricordano il Minghetti come un maestro, come un uomo di "non comune
ingegno"11. Infine la più importante iniziativa editoriale sorta in
Italia per introdurre le scienze politiche, amministrative e sociali, quella
del Brunialti, ha come punto di riferimento il Minghetti, che era stato anche
un sostenitore di una Facoltà universitaria di scienze, appunto, politiche,
amministrative e sociali. Ma solo oggi si comincia a prendere coscienza di
questa storia più segreta della fortuna del Minghetti. Gli economisti più
ortodossamente liberisti - come Francesco Ferrara - non condivisero,
tuttavia, la politica economica disponibile all'interventismo statale del
Minghetti, come certamente Minghetti non si sarebbe riconosciuto nel freddo
realismo di Mosca e Pareto: nei due casi erano in gioco i valori politici.
Ridurre, però, il Minghetti a mero precursore delle scienze politiche,
amministrative e sociali rischia di mettere in ombra il nucleo filosofico del
suo pensiero politico.
Marco Minghetti uomo politico, ma anche pensatore politico di portata
europea: solo strappando Minghetti alla storia patria o alla storia del
Risorgimento si può rendergli debita giustizia. Infatti, nella seconda metà
dell'Ottocento, l'Italia venne investita, come le altre nazioni europee, da
profonde trasformazioni sociali, amministrative e istituzionali, che solo una
storia comparata può meglio chiarire. Solo la coscienza storica di questi
grandi processi in corso può farci penetrare meglio nel pensiero di Marco
Minghetti, che è un pensatore europeo, da non comprimere in una presunta
autoctona tradizione politica italiana.
In Marco Minghetti il momento del pensiero - o della riflessione teorica - e
quello dell'azione politica sono strettamente connessi: sono proprio i
problemi della pratica a spingerlo alla riflessione teorica, come questa, una
volta fissati i principi, resta la costante ispirazione dell'azione, pur con
quella indispensabile duttilità, così necessaria al politico che deve fare i
conti con la realtà. Il più bell'elogio di questa interna coerenza tra il
pensiero e l'azione è stato dato da uno studioso straniero, quando colse il
filo conduttore, che unifica in Minghetti il pensatore e l'uomo politico,
nell'esigenza di salvaguardare la libertà, mentre gli uomini di Stato -
generalmente - pensano soltanto a rafforzare il proprio potere12.
Più modestamente il Minghetti definì i suoi scritti negotia in otio, ossia un
momento di riflessione nelle pause della febbrile attività politica. Giova
soffermarsi un momento sulle date in cui queste opere sono state pubblicate:
Della economia pubb1ica e delle sue attinenze colla morale e col diritto fu
pubblicato nel 1859, prima del suo pieno ingresso nella vita politica, nella
quale appunto dovette mediare politicamente tra le ragioni dell'economia e
quelle dell'etica: gli ultimi scritti sulla Legislazione sociale (1882) e sul
Cittadino e lo Stato (1885) rispondono alla stessa iniziale impostazione
teorica del problema, anche se risentono della diversa situazione
costituzionale e sociale. Stato e Chiesa è pubblicato nel 1878 dopo la caduta
della Destra, ma soprattutto dopo il Sillabo (1864), che aveva approfondito
il fossato tra lo Stato liberale e la Chiesa cattolica: esso riprendeva i
temi di scritti giovanili, come le lettere sulla Libertà religiosa (1855).
Infine, il saggio in Italia assai più noto - quello su I partiti politici e
la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione - fu pubblicato nel
1881, nell'età del trasformismo di Agostino Depretis, quel trasformismo che
il Minghetti non certo osteggiò frontalmente, come altri esponenti della
Destra storica, ed anzi giustificò sul piano teorico, ma di cui riconobbe,
con realistica lucidità, i pericoli che potevano derivarne per quell'idea di
governo rappresentativo che lo aveva sempre animato: quel governo
rappresentativo, la cui peculiare natura viene in quest'opera felicemente
individuata.
Se il pensiero politico di Minghetti è così strettamente legato alla sua
esperienza di uomo, bisognerà cogliere nella sua formazione e nella sua vita
politica gli elementi salienti, che costituiscono il nucleo duro del suo
pensiero, o - in altri termini - il formarsi delle grandi "idee
madri" della sua riflessione teorica.
Pertanto questi accenni, solo apparentemente biografici, cercano di
individuare le concrete esperienze esperite e vissute, che sono alla radice
del suo pensiero politico.
2. Fra viaggi e letture
Sin dalle primissime battute dei suoi Ricordi13, Marco Minghetti, pur così
riluttante ad indugiare sulla sua vita privata, rammenta le sue origini
contadine: gli avi erano coltivatori diretti di un piccolo fondo. La fortuna
la fece il nonno con il commercio in età napoleonica, per cui egli si trovò
proprietario di circa 1.600 ettari. Non nobile, apparteneva alla classe -
come veniva definita allora - "mezzana"; ma fossero aristocratici
come Cavour o Bettino Ricasoli, o borghesi come Minghetti, Raffaello
Lambruschini o Stefano Jacini, la Destra storica aveva le sue radici nella
terra e nei suoi valori: i suoi esponenti erano sostanzialmente uomini di
campagna e non di città. Nel dirigere personalmente le loro proprietà erano
abituati ad una vita operosa e parsimoniosa, favorevole agli onesti agi, ma
lontana dal lusso, attenti al problema dell'amministrazione e del bilancio,
estremamente prudenti verso ogni forma di rischio, legati alle cose concrete,
con un forte senso pratico e con i piedi radicati sulla terra. La vita in
campagna era, per Minghetti, insieme "sana e savia"l4. Questo
dovrebbe far riflettere: il liberalismo matura in Italia in ceti agrari
(nobili e non), impegnati nella modernizzazione dell'agricoltura, e in
ambienti intellettuali, e non è certo l'espressione immediata del
capitalismo.
L'orizzonte di Marco Minghetti non si fermava però ai confini della sua
proprietà. Proprio perché impegnato nel miglioramento agricolo dei suoi
poderi, coltivando prodotti per l'industria quali la canapa e il baco da
seta, egli si impegnò personalmente nel processo di industrializzazione del
bolognese, sempre attento a tutte le invenzioni e innovazioni tecnologiche.
Minghetti non fu un avversario dichiarato della rivoluzione industriale, come
gran parte dei ceti agrari: egli avvertì che il processo era inarrestabile,
anche se era destinato a porre nuovi gravi problemi sociali. Avrebbe voluto
soltanto uno sviluppo equilibrato tra industria e agricoltura.
C'era poi in Minghetti - fortissima - la consapevolezza che, per ogni
politica di modernizzazione, era necessario far crescere le infrastrutture
della società civile, affidandosi non tanto allo Stato, ma a libere
associazioni o a consorzi. Per questo divenne il protagonista della Società
agraria di Bologna, nella quale introdusse la discussione di temi economici e
sociali; per questo impartì privatamente lezioni di economia politica e
progettò asili nido; per questo partecipò alla fondazione della Cassa di
Risparmio per i meno abbienti: come scriverà più tardi, era impensabile un
allargamento del suffragio senza una crescita della società civile, con
banche popolari, società di mutuo soccorso, cooperative. L'impegno di
Minghetti si muove su questo piano, quello della massima utilizzazione dello
strumento dell'associazione nella società civile. Quando la politica comincia
a bussare alle porte, diventa direttore del "Felsineo", un giornale
locale di ispirazione latamente liberale.
In campagna c'è una vita "sana e savia": ma, per appartenere al
mondo dei savi, bisogna anche conoscere. La formazione intellettuale di
Minghetti alterna lunghi viaggi e disordinate letture. In cinque viaggi
percorre tutta 1'Europa, dalla Francia all'Inghilterra, dalla Germania
all'Irlanda, dalla Svizzera al Belgio e all'Olanda. Non sono viaggi di
diverti-mento; e l'unica distrazione, per lui così amante dell'arte, è la
conoscenza dei tesori artistici degli altri paesi. Si impratichisce delle
lingue per poter parlare o leggere il francese, l'inglese e il tedesco;
frequenta corsi alla Sorbona o al Collegio di Francia; conosce personalmente
i principali uomini politici e i più noti dotti del tempo. Ma la sua attenta
curiosità è sempre rivolta alle realtà economiche e sociali degli altri
paesi: sin da fanciullo, in Inghilterra, aveva visto la prima ferrovia e la
prima prova di telegrafia elettrica, che gli diedero la sensazione che il
mondo stava entrando in un'età di rapida ed accelerata trasformazione.
Poi le lunghe pause dedicate alla lettura: ricostruire l'itinerario della sua
formazione intellettuale nei suoi ritmi cro-nologici è ancora impossibile.
Più facile è tracciare un qua-dro del mondo culturale con cui fu in contatto,
non limitandosi ai Ricordi o alle citazioni contenute nelle sue grandi opere:
bisognerebbe esplorare sistematicamente i suoi manoscritti, contenuti nei
cartoni depositati all'Archiginnasio, esaminare la sua Biblioteca e, infine,
seguire il suo epistolario, che, già in parte ordinato e inventariato,
meriterebbe di essere finalmente pubblicato. L'immagine di Marco Minghetti
uomo europeo troverebbe così una facile conferma.
Dovendo parlare del suo pensiero politico, ci limiteremo a ricordare alcuni
nomi di pensatori stranieri, per sottolineare ancora una volta la cultura
europea del Minghetti. Ma non possiamo passare sotto silenzio la forte
influenza, che ebbe su di lui il cattolicesimo liberale di Antonio Rosmini:
non solo lo liberò dal giovanile sensismo, ma influenzò in parte il suo
pensiero politico con la rivalutazione dell'individuo-persona e con l'avversione
verso il socialismo e il comunismo, anche se non restano tracce in lui della
teodicea sociale rosminiana15. Anche verso il "politico" Vincenzo
Gioberti il Minghetti riconosce un particolare debito; ma stupisce - o forse
non stupisce - che egli non citi mai Carlo Cattaneo. Nella generazione
precedente il pensiero del Minghetti si riallaccia a quello di Giandomenico
Romagnosi con la sua elaborazione di una filosofia civile, capace di
equilibrare ed armonizzare le antitesi, ma non bisogna esagerare su questa
influenza. Delle sue letture, oltre ai classici (Platone e Aristotele,
Machiavelli e Guicciardini), ricorderemo soltanto, tra gli inglesi, Adam
Smith e David Ricardo, Edmund Burke e John Stuart Mill: fra i francesi,
Benjamin Constant, Francois Guizot e Alexis de Tocqueville; fra i tedeschi,
Karl Wilhelm von Humboldt e Rudolf von Gneist; fra gli svizzeri Simonde de
Sismondi e Johann Kaspar Bluntschli. Sino al grande tornante storico,
rappresentato per il nostro paese dagli anni 1859-1860, Marco Minghetti non
ha mostrato una grande passione o una prepotente vocazione per la politica.
Parlando di se stesso, ironicamente un giorno affermò di voler far scrivere
sulla sua tomba "nacque per essere conservatore e fu condannato ad
essere rivoluzionario"16: rivoluzionario, certo, solo per prevenire
l'anarchia e il disordine, la demagogia e la violenza della
"plebe". Egli non fu certo un profeta o un protagonista del
Risorgimento, e in politica confessò di aver sempre preferito un ruolo non di
primo piano. Rispetto all'audacia di un Cavour appare un uomo
"respettivo", ma fortissimo fu in lui il senso di appartenenza a
una classe politica "eletta", con una ben precisa missione da
compiere, anche se essa nel paese era una minoranza.
Nato nel 1818 da famiglia di sentimenti liberali (lo zio Pio Sarti fu dopo il
1830 esule a Parigi), educato alle idee liberali dal barnabita Ugo Bassi,
Minghetti non rimase certo estraneo alle passioni del suo tempo e nei suoi
lunghi viaggi frequentò gli ambienti dell'emigrazione. Due incontri sono da
ricordare: nel 1845 conobbe a Londra Giuseppe Mazzini ed ebbe con lui diversi
colloqui, nei quali discusse a lungo la soluzione rivoluzionaria, che non
riteneva realistica. Più proficuo fu l'incontro, avvenuto pochi mesi prima,
con il bolo-gnese Pellegrino Rossi, di cui seguì un corso al Collegio di
Francia: non dobbiamo dimenticare che il Rossi fu autore di numerose opere di
economia e di diritto, un tempo famose, sebbene oramai dimenticate. Accettò,
così, di divenire, per poche settimane (10 marzo-1° maggio 1848), ministro
dei Lavori pubblici dello Stato pontificio, dimettendosi poi per militare
nelle file dell'esercito sardo alla guerra contro l'Austria, partecipando
alle battaglie di Goito e di Custoza. Dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi
si dimise pubblicamente da deputato, a causa dell'inerzia del governo nel
ricercare gli autori del delitto. Con il fallimento del progetto neoguelfo
egli non aderì alla Costituente romana del Mazzini, ma combatté anche contro
una mera restaurazione del governo pontificio. Senza saperlo, si muoveva
sulla stessa linea del ministro degli Esteri della Repubblica francese,
Alexis de Tocqueville, uno dei suoi autori prediletti. Questa rimase, però,
una breve parentesi politica, nella quale il Minghetti non lasciò alcuna vera
impronta: forse perché aveva solo trent'anni, o forse perché non condivise
sino in fondo il sogno neo-guelfo, come, invece, condividerà fra poco la
scelta piemontese, seguendo - in questo - il Gioberti del Rinnovamento.
L'incontro politico decisivo fu quello con il conte di Cavour: lo conosce nel
1851, a lungo discute con lui nel 1854 l'intervento del Piemonte in Crimea,
nel 1856 gli porta a Parigi un memorandum sulle condizioni dello Stato
pontificio: diventa, così, l'accreditato portavoce delle Romagne presso il
governo piemontese e, alla vigilia della Seconda Guerra d'Indipendenza,
diventa segretario generale del ministero degli Affari esteri del Piemonte.
Il primo novembre 1860 è ministro degli Interni del governo Cavour, il primo
che si era insediato dopo l'unità d'Italia.
Col Cavour, più anziano di lui di otto anni, il Minghetti scoprì di avere una
profonda affinità intellettuale e morale: li univano i comuni studi di
economia e di agricoltura, la passione per la discussione delle idee, la fede
nel governo parlamentare e, infine, la comune convinzione che la soluzione
del problema italiano si giocava essenzialmente sull'azione diplomatica
(piemontese) presso le corti europee e non passava certo attraverso le sette
e le rivoluzioni. Poco prima di morire il Minghetti commemorò a Torino
l'anniversario della morte del grande Conte: parole commosse, anche se
equilibrate e sorvegliate, nelle quali tuttavia traspare, assieme
all'ammirazione per l'audacia del suo maestro, la consapevolezza che negli
anni 1859-1860 tutto era accaduto troppo in fretta: il ceto moderato, che
aveva subito l'egemonia del Cavour, si sentiva preparato a governare uno
Stato nell'Italia settentrionale, magari con le Romagne e anche la Toscana,
ma poi la spedizione dei Mille e la conquista regia avevano reso più arduo ed
estremamente difficile il compito di governare l'Italia unita. E il grande
Conte era morto improvvisamente il 6 giugno 1861.
3. L'avventura politica
Iniziò così l'attività politica di Marco Minghetti. La Destra storica governò
per quindici anni dalla morte di Cavour (6 giugno 1861) all'avvento della
Sinistra (marzo 1876): fu questo un periodo di grande instabilità
governativa, dato che si avvicendarono ben tredici governi, la cui durata,
nel maggiore dei casi, non arrivò ad un anno. Sole eccezioni il governo Lanza
e i due ministeri Minghetti, soprattutto il secondo, che precedette l'awento
della Sinistra.
Minghetti fu più volte ministro, anche nei governi che presiedeva. E
interessante notare le sue opzioni: una (o due volte, se consideriamo il
ministero Cavour) ministro degli Interni, tre volte alle Finanze (da
ricordare i suoi importanti scritti in materia finanziaria), una alla
Agricoltura, industria e commercio (da ricordare la promozione delle due
famose inchieste, industriale e agraria). Come presidente del Consiglio ebbe
al suo fianco, agli Esteri, Emilio Visconti Venosta, il grande stratega della
diplomazia italiana, che molti considerano il suo allievo.
Queste scelte fanno pensare: Minghetti sembra preferire dicasteri allora
considerati non politici, nei quali più forte era l'impatto amministrativo,
anche se le grandi scelte a monte restavano politiche. Si tratta di una
chiara scelta politica: per consolidare l'unità italiana, dopo la politica
estera, il problema centrale era - come egli ripetutamente ribadì - la
"questione amministrativa": nel gennaio del 1860 Minghetti si
dichiarò ottimista per le prospettive politiche, decisamente pessimista per
il procedere amministrativo17. L'ultimo suo governo, che non poggiava su una
solida base parlamentare, fu essenzialmente un governo di tecnici, che egli
definì una working majority, disposta ad accettare voti dalla Sinistra
storica. Minghetti fu, così, uno dei pochissimi uomini, che ebbe - altissimo
- il senso dell'amministrazione, della sua autonomia dal politico e della sua
importanza nel funzionamento di uno Stato, che voglia essere libero:
un'amministrazione oggettiva e neutrale, tecnica, che consenta però alla
politica di poggiare su solide basi.
Minghetti si alternò alle Finanze con Quintino Sella: con orgoglio proclamò,
nel suo ultimo governo, di avere finalmente raggiunto il pareggio, convinto
di avere con questo risolto un grande problema politico, perché, con un
bilancio dissestato, si aprono le porte alle "rivoluzioni col codazzo
dell'anarchia e del dispotismo"18. Minghetti volle mettere ordine in
casa ed affrontare i nuovi problemi, che la trasformazione economico-sociale
imponeva: si trattasse del riscatto dei privati delle ferrovie o di promuovere
misure di legislazione sociale a favore dei bambini e delle donne, tutte
queste erano, per Minghetti, decisioni amministrative, che rispondevano
all'esigenza di una "casa" ben ordinata e non a principi ideologici
o filosofici.
A questo senso dell'amministrazione rispondevano anche i progetti che
Minghetti presentò, come ministro degli Interni, nel 1860-61 sulle autonomie
locali e non al fine di un mero decentramento burocratico. Essi prevedevano
un sindaco elettivo, l'erezione della Provincia - vero centro del sistema -
ad ente autonomo dotato di proprie competenze, l'elettorato attivo anche per
gli analfabeti che pagassero imposte dirette, e, infine, i Consorzi di
Province (che sono una cosa ben diversa dal regionalismo e dal federalismo),
anch'essi dotati di proprie competenze19. Fedele alla lezione di Alexis de
Tocqueville, il Minghetti riteneva, come il Cavour, che le autonomie locali
fossero la prima palestra della libertà politica; ma nell'ottobre 1861 venne
sconfitto con i decreti accentratori emanati dal governo Ricasoli. Eguale
sorte era già toccata ad Alexis de Tocqueville, nel 1848, nella Commissione
incaricata di stendere una nuova Costituzione per la Francia.
Fortissimo senso dell'amministrazione, dunque, ma anche grandissima
sensibilità nel cogliere il mutarsi degli equilibri politici e nel trovare un
nuovo punto di equilibrio. L'anglofilo Minghetti, con il suo ultimo governo,
mostrò di non credere più all'ortodossia del bipartitismo, cercando un
sostegno nella Sinistra storica: aprì così la strada al trasformismo di
Agostino Depretis, di cui - diversamente da molti dei suoi vecchi amici - fu
un sostenitore, con argomentazioni teoriche sotto l'influsso del Bluntschli.
Nel linguaggio politico "trasformismo" resta ancora una brutta
parola, nonostante che Benedetto Croce20 e Federico Chabod21, ed anche Adolfo
Omodeo22 e Rosario Romeo23, ne abbiano mo-strato la storica necessità per
l'equilibrio del sistema politico italiano. Le differenze tra la Destra e la
Sinistra si erano venute in quel quindicennio attenuando e sfumando, mentre
alle due estreme si erano venute formando e coagulando due nuove opposizioni,
in gran parte estranee (ad eccezione dei repubblicani) al moto risorgimentale
il sistema politico presentava così tendenze alla polarizzazione. Contro l'astratta
e dottrinaria teoria del bipartitismo il politico Minghetti giustamente
vedeva come, in Italia, la migliore attuazione del regime parlamentare
passasse, invece, attraverso un partito di centro o di centro-sinistro (come
si diceva allora): dal connubio di Cavour, al trasformismo di Depretis alle
mediazioni di Giolitti.
Riassumendo e concludendo questi accenni ai momenti salienti della biografia
di Marco Minghetti, conviene sottolineare tre momenti: la consapevolezza che
la società è uno spazio positivo per l'operosità umana e per l'azione
sociale, il cui dinamismo è una ricchezza per la comunità tutta, che non può
far dipendere le sue sorti solo dal governo; la scoperta che, per ben
governare, è indispensabile una razionale ed efficiente amministrazione,
astretta ai nuovi principi dello Stato di diritto. La tradizione inglese del
self-government, che non poteva non far breccia sul ceto terriero cui il
Minghetti apparteneva, aveva il suo apice nel governo rappresentativo; ma in
Minghetti questa tradizione si sposava - per necessità storiche - con la
tradizione continentale dello Stato amministrativo, che si voleva imparziale
e neutrale nei confronti del cittadino. Al di sopra il politico, che deve
favorire l'autonomia della società civile e dare impulso alla macchina
amministrativa.
Sul Minghetti uomo politico abbiamo, infine, opposte versioni: c'è chi lo
descrive cauto, prudente, attento a ponderare le opposte tesi sino al punto
di mostrare poca decisione e scarsa mancanza di energia24, per timidezza d'animo
o per la natura problematica della sua mente; c'è, invece, chi coglie il
nocciolo duro del suo carattere, scoprendo, al momento della decisione,
"una mano di ferro sotto il guanto di velluto"25. Ma in realtà,
forse, i due giudizi non sono inconciliabili, dato che, nel momento della
deliberazione, Marco Minghetti amava - per un'attitudine congenita alla sua
mente - ponderare tutti i dati, mentre, una volta presa una decisione, era
difficile farlo recedere: infatti, detestando la vanità, che per lui era un
grande peccato in politica, non cercò mai la popolarità o un facile
protagonismo.
4. Il progetto di un ordine politico liberale
Sullo sfondo di questa biografia di Marco Minghetti - colta nelle profonde
esperienze vissute - vanno esaminate le sue opere, perché - come si è detto -
esse nascono da problemi pratici e sono dirette a risolvere problemi pratici:
Minghetti non è certo un uomo che ami la pura speculazione, ma piuttosto un
politico - ripetiamo: un raro politico - che vuole rinfrancarsi e corroborarsi
nella riflessione teorica. Sbaglia, pertanto, chí dissolve o appiattisce il
suo pensiero, riducendolo a mero momento dell'azione, perché la mirabile
coesistenza in lui fra lo scrittore e il politico non si risolve, però, in
una perfetta coincidenza. Infatti, il politico Minghetti mostrò sempre una
grande duttilità e una notevole finezza nel perseguire solo il possibile,
sino al punto da essere accusato d'eccessiva arrendevolezza; ma lo scrittore
Minghetti mostrò una profonda coe-renza nei suoi principi e una ferma
intransigenza nei suoi valori, anche se fu pienamente consapevole che essi
dovessero di-versamente articolarsi a seconda delle varie situazioni
storiche. Pertanto l'interprete deve sapere tener ben distinti i due piani e
non mettere sullo stesso piatto un'opera e un discorso politico, perché
quest'ultimo nasce spesso nella contingenza e per la contingenza (lo stesso
vale per gli inediti). Stato e Chiesa, l'opera pensata per risolvere negli
anni a venire il problema politico centrale dell'Italia unita, non ebbe certo
- per ragioni diverse - il pieno consenso degli uomini del suo partito, come
Bettino Ricasoli, Silvio Spaventa, Emilio Visconti Venosta, Quintino Sella,
Pasquale Stanislao Mancini, Della economia pubblica, che ispirò la sua politica
economica, trovò avversari proprio negli economisti più decisamente
liberisti; e, infine, il saggio su I partiti politici suonò anche per alcuni
come un duro atto di accusa contro il trasformismo, che pure egli aveva
contribuito a promuovere.
Chi studia il pensiero del Minghetti si imbatte subito in una definizione,
vera soltanto perché ripetuta: Minghetti è un eclettico. In cosa poi consista
questo eclettismo non è dato chiaramente sapere. Si possono formulare
soltanto tre ipotesi. Minghetti sarebbe un eclettico perché si sarebbe
occupato di tre temi tra loro assai lontani; ma l'autentico pensatore
politico, che si pone - anche su un piano teorico - i problemi concretissimi
delle questioni politiche, non mira a costruire un sistema dottrinario apparentemente
coerente, bensì risolve, di volta in volta, i problemi storici del suo tempo:
è su questo piano che il Minghetti va giudicato, verificando soltanto se vi
sia una coerenza interna nel suo pensiero al livello della metodologia e dei
principi. Minghetti sarebbe un eclettico per la ricchissima erudizione, che
nutre le sue opere; ma l'autentico pensatore politico deve essere
estremamente attento alla realtà che lo circonda, nelle teorie e nelle
prassi, e solo gli autodidatti credono di poter fare da soli nel dare un
modello di società. Minghetti, in vero, ha una conoscenza diretta di quanto
avviene e si scrive in Francia, in Inghilterra, in Germania e Stati Uniti.
Infine, Minghetti sarebbe un eclettico perché, con il principio
dell'"armonia" o della "proporzione",
dell'"architettonica" o dell'"ordine", o - in sintesi -
della "medietà", sembra voler conciliare teorie diverse; ma allora
l'accusa dovrebbe essere quella di sincretismo, mostrando, però, come quell'armonia
non regga sul piano di una filosofia pratica, che, per sua natura, deve
essere aperta ai contenuti delle diverse discipline, che studiano il
comportamento dell'uomo nella società politica. Certamente Marco Minghetti
non è un pensatore geniale e originale come Alexis de Tocqueville, ed è
piuttosto un coerente sistematore di quanto nei campi più diversi e disparati
pensatori liberali avevano scritto; e il suo merito consiste nella coerenza
del suo progetto politico.
I temi, che il Minghetti affronta nelle sue opere, sono i temi forti e duri
della filosofia e della teoria politica: il rapporto tra la morale e
l'economia, la coesistenza dello Stato con la Chiesa, l'ufficio dei partiti
nel loro nesso con le istituzioni. Sono proprio i temi che, in chiave più
speculativa e meno politica, affronterà nel nostro secolo il liberale
Benedetto Croce. Pertanto la domanda corretta, che ci dobbiamo rivolgere, è
la seguente: su questi temi, che superano la contingenza storica, il
Minghetti ha ancora qualcosa da dirci, non ovviamente nelle immediate
soluzioni pratiche, ma nelle profonde idee ispiratrici? Infatti il Minghetti
possiamo leggerlo mossi soltanto da una doverosa curiosità storiografica, che
deve ricostruire il patrimonio della nostra tradizione politica anche nei
suoi pensatori minori; ma può anche essere letto per instaurare un dialogo
con lui sotto l'urgere dei nostri problemi. In questo secondo caso le sue
opere acquistano una dimensione di classicità, perché sono sottratte al
tempo. Un problema di tale portata non può essere certo risolto in questa sede;
ma questo interrogativo bisogna finalmente pur porselo.
Nel pensiero politico di Marco Minghetti vi è - a nostro avviso - una
profonda coerenza nel metodo e nei principi. Nel metodo, che è, insieme,
razionale e storico: egli fermamente respinge, per la sua natura
profondamente illiberale, il dottrinarismo settecentesco, o meglio quel
razionalismo costruttivistico dell'Illuminismo francese, che, posti alcuni
principi, da essi deduce tutta l'ideale architettonica della società, e, di
conseguenza, pretende di rimodellare e di ricostruire tutto dalle fondamenta.
Egli aveva appreso il senso della storia, che non è nostalgia verso il
passato, dal liberalismo francese dell'età della restaurazione; e questo
senso della storia si era facilmente sposato alla tradizione empiristica di
un John Stuart Mill, nella misura in cui queste diverse tradizioni imponevano
di fare i conti con la realtà, che sempre si presenta in guise diverse. Ma in
questa realtà, così diversa e così sfuggente, la mente umana rischia di disperdersi
e poi di perdersi: il Minghetti, sin dagli scritti giovanili, insiste sul
fatto che la diversità della storia, la molteplicità delle esperienze è tutta
riconducibile alla profonda unità della specie umana e all'identità della sua
natura, all'uomo cioè, che può mutare nelle sue manifestazioni storiche, pur
restando sempre uguale a se stesso. In altri termini, egli cerca l'unità
nella molteplicità, senza mai perdere nessuno dei due momenti, forse
suggestionato da Giambattista Vico, di cui conosceva le opere.
La chiave del suo pensiero politico, va, così, rintracciata nella sua
antropologia filosofica (sottolineo: filosofica). Negli uomini, secondo
Minghetti, troviamo le stesse "disposizioni o facoltà", che però si
mescolano diversamente: primordiale ed elementare è la spinta all'utile, che
si riferisce "ai bisogni fisici e materiali", ma poi viene il
desiderio del vero, l'amore per il bello, e, infine, la tendenza verso il
bene, nella quale la morale, sovente, si confonde o si identifica con la
religione. Bello e vero, utile e giusto sono, per Minghetti, valori ben
distinti, anche se fra loro "in strettissima relazione", dovendo
però ciascuno esercitare le "funzioni sue proprie" e perseguire il
suo "fine speciale"26. Unità, quindi, nella distinzione:
quell'unità, che deve esprimersi nell'armonia, nell'equilibrio;
quell'armonia, dove tutti gli elementi collaborano assieme, mentre la loro
dissonanza provoca soltanto uno squilibrio nell'individuo e una crisi nella
società.
In Minghetti, forse per una reminiscenza platonica, questa distinzione delle
"disposizioni o facoltà" (e quindi dei valori) è valida sia per
profilare un ideale di uomo, sia per prospettare una società a più
dimensioni. Ma, venendo a tempi più recenti, attraverso Minghetti si può scoprire
il significato liberale della "Filosofia dei distinti" di Benedetto
Croce (interprete del Vico), anche se il filosofo napoletano giunge a questa
teoria attraverso una via meramente speculativa, mentre il nostro Minghetti
la prospetta per un impegno civile, senza però approfondire sino in fondo la
sua giovanile intuizione.
Da questa premessa antropologica egli trae la conclusione che il vero
progresso non risiede tanto nello sviluppo materiale finalizzato al mero
"ben essere", ma nel "perfezionamento" o
nell'incivilimento, possibile solo nelle "facoltà intellettuali e
morali". Non si tratta di due strade opposte, perché bisogna
contemperare le due tendenze, cercando quelle istituzioni "che sono
mezzo al maggior possibile benessere e perfezionamento degli uomini". Entra
in scena, in tal modo, anche la politica, come arte regia o architettonica
per l'ordine nella vita sociale: "quando gli elementi della società non
sono nelle debite relazioni, non conducono a civiltà vera"27. A questo
punto è opportuno sottolineare due cose: da un lato, il Minghetti mostra
l'autonomia e il ruolo delle istituzioni rispetto alla dinamica economica;
dall'altro, la sua teoria della storia o dell'incivilimento28 non è debitrice
- come alcuni credono - verso la teoria positivistica dell'evoluzione (e
tanto meno a quella della lotta per la vita), perché le sue fonti si trovano
negli scrittori settecenteschi e dell'età della restaurazione, che hanno
messo a fuoco il lento formarsi della vita civile, cioè l'incivilimento.
"Fossi e cavedagne benedicon le campagne": questo antico detto
delle terre emiliane può farci penetrare nella psicologia del Minghetti,
pensatore politico intento a tracciar fossi, più o meno profondi, o ad aprire
cavedagne, più o meno percorribili, fra i diversi campi della politica e
della società. Nessuno l'ha notato, ma tutte le sue opere politiche,- sin dal
titolo, s'ispirano al principio della distinzione, a distinzioni che non sono
empiriche, ma di concetti, e pertanto appartengono alla filosofia e alla
teoria politica: politica e morale, Stato e Chiesa, partiti e istituzioni
sono distinzioni al fondo delle quali si agita lo stesso problema pratico,
quello di una libertà da realizzare in un ben delineato ordine politico. Su
questo piano concettuale naufragano i così ripetuti rilievi rivolti al
Minghetti di eclettismo o di sincretismo. Eclettica è forse l'informazione o
la letteratura su cui fonda la sua indagine; ma il Minghetti non è persona di
scuola che ripete le parole del maestro Sincretistico può apparire il suo pensiero
a chi non ha colto questo difficile problema dell'unità nella distinzione,
che è un problema teorico, ma che in Minghetti nasce dalla pratica e per la
pratica: il suo è il problema di un possibile, ma libero, ordine politico,
ottenuto trasferendo la distinzione delle facoltà umane alle dimensioni della
società. L'analisi delle sue singole opere potrà ora meglio chiarire questo
problema.
Sulle orme di Adam Smith e David Ricardo il Minghetti analizza la nuova
scienza economica, la quale si occupa delle leggi che governano la
produzione, la ripartizione, lo scambio e il consumo delle ricchezze. Il
rilievo fondamentale, che muove all'economia classica sulle orme di John
Stuart Mill, è quello di essersi occupata soltanto del momento della
produzione della ricchezza, non di quello della sua distribuzione,
dell'economia e non dell'economia pubblica. Minghetti è fautore e sostenitore
del progresso economico, ma non è un ideologo del mero sviluppo, quando
questo entra in disarmonia con i valori etici, producendo ricchezza, ma non
incivilimento. La produzione è il regno del mercato, la distribuzione è
quello della politica, di una politica, però, che non uccida il mercato.
Il vero problema del Minghetti è così diverso da quello di Adam Smith, anche
se gli riconosce il grande merito di aver dedicato la sua attenzione al
problema etico. Nell'Economia pubblica il problema centrale è quello di
mostrare come l'economia sia "distinta, ma non segregata, connessa, ma
non confusa"29 con la morale; e ritiene di natura filosofica il problema
di stabilire la loro relazione. Da questo suo assunto derivano tre
conseguenze: in primo luogo, il puro economista ha ragione nel suo campo, che
però è astratto e unilaterale, per cui, solo se dilata il proprio orizzonte
conoscitivo acquista una percezione della realtà più chiara e più profonda, e
può così risolvere problemi altrimenti difficilmente superabili per lui. In
secondo luogo, nel delineare una filosofia della pratica bisogna evitare di
porre in assoluta contraddizione l'utile (o il piacere) e il buono (o il
dovere), ma anche di identificarli, seguendo l'utilitarismo: l'economia, pur
distinta dalla morale, resta - in ultima istanza - circoscritta e limitata
dai grandi principi dell'etica. In terzo luogo, la politica è - come si è detto
- lo strumento per realizzare l'armonia fra questi due momenti, fra l'aumento
della ricchezza e una vita sociale ben ordinata: per agire bisogna conoscere
l'economia, ma essere consapevoli di questo suo limite. Tutta questa
impostazione nasce da una sfiducia nel puro liberismo, negli automatismi del
mercato, perché Minghetti considera troppo potente - come causa di disarmonia
e di disordine - la tendenza agli interessi materiali, non più equilibrata da
fattori morali: per questa ragione si rende talvolta necessario l'intervento
del governo sia nel campo della carità legale o pubblica, perché lo Stato -
oltre a garantire i diritti - deve tutelare i deboli, sia quando gli
individui - da soli o associati - non sono in grado di affrontare e risolvere
problemi di interesse generale.
Stato e Chiesa, invece, si ispira al più rigido separatismo, ostile ai
compromessi concordatari, risultato dalla "fatalissima"30 ricerca
della via del mezzo. Ma il separatismo implica, però - e qui è presente la
lezione di Alexis de Tocqueville - la ricerca di un'unione morale nelle
coscienze e, quindi, nella società, senza una contrapposizione di valori, per
evitare quel disordine che inevitabilmente nasce quando la Chiesa, col
clericalismo, diventa un partito, e lo Stato, con il laicismo positivista, si
fa portatore di una nuova religione intollerante: il Minghetti aspira -
ricordando il Manzoni e il Rosmini - ad una conciliazione della religione
cattolica con le moderne libertà liberali. A fondamento della sua tesi
separatista c'è un preciso valore: non quello della tolleranza, proprio degli
Stati più o meno assoluti, ma quello del diritto per ciascun individuo alla
libertà di religione e di culto, in un regime di eguaglianza. Vengono, così,
posti - alla Humboldt - chiari limiti allo Stato: la sua funzione primaria è
la tutela o la garanzia - alla Constant - dei diritti individuali e quella
secondaria è la salvaguardia degli interessi generali della società. Solo in
questo senso abbiamo uno Stato giuridico, il quale ha il monopolio della
coazione, ma al quale non compete di intervenire nella coscienza dei
cittadini, privilegiando una religione, definendo un dogma, proclamando una
eticità statale. Sul piano della religione e della morale lo Stato deve
essere neutrale, perché in questo campo sovrana è soltanto la coscienza,
salvo però sempre il suo diritto-dovere di difendere i diritti degli altri
cittadini nonché l'ordine pubblico in caso di violazione. Questa concezione
dei limiti dello Stato (o dello Stato giuridico) si fonda su una ben precisa
premessa teorica: lo Stato è soltanto un organo (necessario) della società,
ma non è la società e con essa non coincide. La società è assai più vasta e
più complessa, ed esercita funzioni che non sono dello Stato, il quale
pertanto non può avere una dignità superiore al tutto, essendo di essa
soltanto una parte31.
Nell'ultima sua grande opera la distinzione tra partiti e amministrazione è
assoluta, anche se entrambi, sia pure in guise diverse, concorrono,
adempiendo alla propria funzione, alla realizzazione dell'ordine politico. Il
problema teorico e pratico, che l'italiano Minghetti affronta, è - come si è
detto - quello di conciliare il sistema costituzionale inglese e il sistema
amministrativo continentale, il governo parlamentare e la burocrazia, o, in
sintesi, la politica e l'amministrazione. Il governo parlamentare (o
rappresentativo della società civile) non può essere che un governo di
partito: è, questa, la prima chiara difesa in Italia in chiave teorica del
partito politico, che il Minghetti fonda in un dimenticato scritto di Edmund
Burke. Il partito, proprio in quanto "parte" rispetto al tutto, si
fonda su un insieme di uomini animati da un idem de repubblica sentire, cioè
da una particolare interpretazione (e qui si distacca dal Rosmini) del bene
comune: I'indirizzo generale del paese appartiene alla politica, cioè ai
partiti. Ma vi è anche una distinzione radicale tra il fare e l'applicare una
legge: l'amministrazione e la giustizia, preposti a questo secondo compito,
devono essere imparziali, neutrali ed oggettivi, cioè non di
"parte". Queste strutture burocratiche e gerarchiche costituiscono
"una grande macchina" al servizio di tutti i cittadini, per cui
"la giustizia di partito e l'amministrazione di partito sono la
negazione dell'essenza e dello scopo medesimo dello Stato"32. In questo
caso non abbiamo più "partiti" politici, ma vere e proprie
"fazioni" che sottomettono l'interesse pubblico ai loro propri
interessi, abusando delle istituzioni, che devono essere al servizio di
tutti. Ma la partitocrazia - cioè l'ingerenza dei partiti nella giustizia e
nell'amministrazione - non è, per Minghetti, una conseguenza necessaria del
regime parlamentare. Il Minghetti, per difendere l'amministrazione dalle
fazioni, recupera da Rudolf von Gneist il concetto tedesco di Rechtsstaat;
tuttavia è necessario rilevare una differenza rispetto ai suoi colleghi
d'oltralpe. I tedeschi avevano allora una monarchia costituzionale o
limitata, non un governo parlamentare, per cui affidavano allo Stato - e non
certo ai partiti - il monopolio del "politico"; e nell'unità dello
Stato il momento amministrativo aveva un ruolo preponderante nella figura del
re, capo dell'esecutivo. Riassumendo e concludendo: è facile vedere come, in
opere così. diverse per argomento, sia operante una stessa teoria dello Stato
(limitato) o meglio del governo rappresentativo, proprio perché il Minghetti
usa il termine Stato in una accezione estremamente debole. Il governo
rappresentativo è solo il momento politico della società civile, non la sua
sintesi: esso è limitato dalla funzione primaria che ha, che è quella di
garantire i diritti dei cittadini; le sue altre funzioni si limitano alla
tutela dei deboli e agli interessi generali, ma non ha compiti religiosi,
etici o educativi". Se deve intervenire nell'economia e nella società,
lo deve fare soltanto per risolvere problemi pratici, non in nome di astratte
e dottrinarie teorie: non si tratta di governare di più o di meno, si tratta
di governare meglio33. Uno Stato tutto delineato, quindi, in vista della
libertà, un bene nel campo economico, nel campo religioso, nel campo
politico, tenendo però presente che "tutte le libertà si attraggono e si
danno la mano", per cui, alla fine, la libertà è una ed indivisibile:
essa è il bene più prezioso dell'uomo34. "Il soffio della vita non può
venire che dalla coscienza individuale": il sereno ottimismo del
Minghetti affonda in questa profonda convinzione, per cui egli teme una sola
cosa: "da sfiducia nella libertà"35.
Una rilettura delle opere del Minghetti dimostra quanto poco il suo pensiero
sia eclettico, anche se abbraccia i campi più diversi e più disparati del
sapere pratico. Certo, egli parla continuamente di armonia, di ordine, di
temperamento, di giusta proporzione, di "assiomi medi", di tendenza
media contro ogni unilateralità. Si è vista in questa sua insistenza una mera
estensione al campo della teoria della politica del juste milieu, del giusto
mezzo fra gli estremi, proprio del liberalismo dell'età della restaurazione.
Ma, in tal modo, non si è approfondito il quadro concettuale, che sta dietro
alla teoria dell'armonia del Minghetti: la sua teoria dei distinti lo porta a
mettere in luce la diversità delle funzioni di una società ben ordinata,
funzioni che devono essere armonizzate nella loro autonomia e non già mediate
per confonderle Inoltre la sua mentalità analitica lo porta a ridefinire il
concetto autentico, che si nasconde dietro alle parole comuni, per evitare
ogni confusione pratica di tipo trasformistico, che nell'eclettismo può trovare
il suo fondamento. Nel rigido separatismo fra Stato e Chiesa, nella radicale
separazione tra politica ed amministrazione non c'è, certo, traccia di un
giusto mezzo politico, perché queste distinzioni sono l'espressione di una
radicale coerenza teorica. Il problema dei rapporti tra l'economia e la
morale è - come si è detto - assai più complesso, perché il fine è quello di
mediarle e non già di separarle. Ma la soluzione, che il Minghetti offre sul
piano teorico, non si fonda certo su un opportunistico e contingente giusto
mezzo, su un com-promesso politico fra le opposte forze in campo. Nel
pensiero di Marco Minghetti c'è, però, un'altra novità: le distinzioni sono
l'impianto teorico - Minghetti direbbe "filosofico" - sul quale
egli innesta la valorizzazione delle allora nascenti (in Italia) scienze
sociali, per cui tanti lo riconobbero poi in questo campo come un precursore.
L'affermazione della distinzione dello Stato dalla Chiesa lo porta a porre le
basi del diritto pubblico, cioè di una teoria giuridica dello Stato. La
scoperta dell'autonoma funzione burocratica lo porta a farsi promotore dello
studio delle scienze amministrative, le quali forniscono una cultura non
politica, ma essenziale ai complessi meccanismi di uno Stato moderno. Più
complesso, invece, è il rapporto tra economia e morale, rapporto che, in
ultima istanza, ha solo nella politica il suo momento di mediazione, perché
essa resta l'arte architettonica del vivere sociale. Ma la soluzione di
questa mediazione il Minghetti non l'affida al politico puro, che fiuta il
giusto mezzo per raggiungere un mero compromesso. Per conciliare praticamente
questa antitesi fra economia e morale bisogna, innanzitutto, conoscere le
leggi dell'economia per non sperperare inutilmente ricchezza; in secondo luogo
bisogna conoscere la situazione del paese, perché l'azione dello Stato nel
campo economico deve essere di mera "supplenza" all'impossibilità
degli individui e delle associazioni di provvedere da soli, con il fine
ultimo, però, di favorire non la crescita dello Stato, ma quella della
società civile, nella quale gli uomini debbono essere stimolati dallo Stato
ad agire da soli o fra loro associati. Col termine "supplenza" il
Minghetti volutamente indica una politica provvisoria, destinata a non essere
più legittima, quando vengono meno i presupposti storici che l'hanno
favorita. E ancora: per decidere, bisogna conoscere la realtà in cui si
opera, adottare un metodo sperimentale, lontano da ogni estremismo
ideologico, pronti a rettificare la rotta, se si hanno risultati perversi;
inoltre bisogna calcolare il rapporto dei costi con i benefici o quello dei
fini con i mezzi atti a raggiungerli. Per fare della politica il ponte fra
l'economia e la morale era pertanto necessaria una cultura politica nuova,
che si fondasse sulle scienze sociali, delle quali oggi - giustamente - si
comincia a riconoscere essere stato il Minghetti in Italia un precursore. La
mediazione e il giusto mezzo, per essere positivi, devono così fondarsi sul
conoscere. Gli scritti dell'ultimo Minghetti, quali la Legislazione sociale o
il Cittadino e lo Stato, pur avendo una finalità più pratica, restano fedeli
alle premesse teoriche del suo primo volume, quello sull'Economia pubblica.
Marco Minghetti fu pienamente consapevole di vivere in un'età di crisi,
segnata non solo da grandi rivolgimenti politici e da profonde trasformazioni
sociali ed economiche, ma anche dall'incertezza delle menti e
dall'irrequietezza degli animi, in seguito al processo di secolarizzazione
provocato dalla scienza36. A questo contrappose con coerenza il suo progetto
di ordine politico, fondato sull'armonia e sulla giusta proporzione, sulla
chiarezza concettuale e sulla distinzione delle funzioni, per avere un ordine
libero. Questa costruzione concettuale rispondeva, in fondo, al suo
temperamento, sempre calmo ed equilibrato, lontano dalle polemiche e privo di
rabbie, portato a dare ad ogni cosa il suo giusto posto.
5. I pregiudizi ideologici e filosofici di un oblio
Abbiamo iniziato sottolineando la scarsa cittadinanza, che ha il pensiero di
Marco Minghetti nella storia del pensiero politico italiano. Per concludere,
giova tornare su questo tema, perché un così generalizzato silenzio non può
essere ascritto soltanto a dimenticanza o a malevolenza. A guardare le cose
sino in fondo tre possono essere i motivi storici di tale dimenticanza, due
dei quali affondano nel periodo stesso in cui il nostro stese le sue opere,
un periodo di profonda trasformazione e di mutamento dei valori politici.
Marco Minghetti, anche per la sua età, non appartiene alla stagione eroica
del Risorgimento; egli ne è perfettamente consapevole, tanto che, nel noto
discorso del 1875 a Cologna Veneta, affermò che alla sua generazione era
spettato il compito non della poesia, ma quello della prosa, un motivo della
pubblicistica del tempo, a cui forse il Croce si ispirò per le prime battute
della sua Storia d'Italia. Uomo della prosa e dell'ancor più prosaica
amministrazione, in Minghetti non troviamo la passione dei grandi miti del
nostro Risorgimento: non certamente quelli della Sinistra, come la
rivoluzione e la repubblica, ma neppure quelli condivisi dalla Destra, come
la nazione, l'unità e l'indipendenza. Quando scrive cominciano a maturare
altre passioni e altri ideali, che non potevano, per forza di cose,
riallacciarsi al suo insegnamento di cattolico liberale moderato: il
dibattito politico è sempre più occupato dall'opposizione cattolica, che non
poteva, naturalmente, avere il suo testo in Stato e Chiesa, e dai movimenti
socialisti, che non potevano certo ispirarsi alla Legislazione sociale, opera
destinata allora ad apparire paternalistica. Inoltre nel secondo dopoguerra
si è privilegiata la ricerca - sotto sollecitazioni politiche - del filone
democratico (e socialista) del nostro Risorgimento, quasi per tracciare una
continuità dai giacobini al Partito d'Azione: ci si muove però in un
orizzonte meramente ideologico, che non si confronta con la tradizione
liberale, per soppesare lo spessore dei diversi autori e per verificare
l'attualità delle loro soluzioni istituzionali e delle loro indicazioni
politiche per i problemi di oggi.
In secondo luogo, dal 1870 assistiamo in Europa ad un grande tornante, nel
quale i valori politici della prima metà dell'Ottocento vengono dimenticati o
osteggiati. Per vie diverse trionfano nazionalismo e imperialismo, realismo
politico e statalismo (alla Bismarck), industrialismo e capitalismo, edonismo
e decadentismo, positivismo e materialismo. Un mondo di valori del tutto
estraneo a Marco Minghetti: egli ispirò la politica estera saggia e prudente
di Visconti Venosta, una politica nazionale senza alcun accenno
nazionalistico o imperialistico; accettò e anche promosse
l'industrializzazione italiana, ritenendola necessaria, ma sempre da
controllare da parte di quel mondo di savi, che solo nella terra hanno le
loro radici; contro l'edonismo e il decadentismo scrisse sin da giovane37,
polemizzando contro la tendenza agli interessi materiali del suo secolo; dal
positivismo (anche liberale)38 e a maggior ragione dal materialismo si sentì
sempre estraneo, perché li considerava incapaci di risolvere il suo problema,
che era un problema di libertà morale ed insieme politica. Fu accusato di
bismarckismo, ma il suo realismo politico era quello di tutti gli uomini
politici: era il senso della realtà e non una dottrina politica, che
azzerasse i valori e gli ideali39.
Nella legislazione sociale continuamente ammoniva doversi seguire, se
possibile, la via inglese, che puntava sulle libere associazioni della
società civile, e non quella bismarckiana, che tutto affidava allo Stato,
perché questa scelta finiva per ridurre il cittadino a mero suddito.
Marco Minghetti, vissuto in un'età di transizione, resta però profondamente
legato ai valori del Risorgimento, anche se non si abbandona mai a grandi
miti o ad ostentate passioni. E un uomo europeo nel pensare e nell'agire, per
cui l'idea di nazione non sfocia nel nazionalismo; e l'unità e l'indipendenza
resta per lui eminentemente un problema di politica estera. Il valore della
libertà si è ormai tradotto in un compito assai più prosaico, quello pratico
della costruzione di uno Stato rappresentativo di diritto, in un periodo in
cui diventa dominante e centrale il problema amministrativo: il problema
politico fondamentale, quello della Costituzione, era stato risolto con la
monarchia e il governo rappresentativo, e ora si trattava di costruire
l'amministrazione dello Stato, dalle autonomie locali alle finanze, dalla
promozione dello sviluppo economico alla legislazione sociale, per non
dimenticare il problema centrale di ogni amministrazione liberale, quello
dello Stato di diritto. Un lavoro più oscuro, che spesso sfugge agli studiosi
che amano puntualizzare le idee-passioni, perché sono esse a creare nuove
stagioni storiche. Minghetti resta solo un esecutore, un amministratore degli
ideali liberali del Risorgimento, ma con una profondità di pensiero che altri
raramente ebbero.
La scarsa o scarsissima attenzione verso il pensiero del Minghetti è dovuta,
però, anche ad un'altra causa, e questa, forse, è la più importante. Tutti
gli storici sottolineano che, nella Destra, la vera testa pensante fu quella
di Silvio Spaventa, rappresentante dello hegelismo napoletano (e non del
pensiero meridionale). Questo è dovuto ad un grave pregiudizio filosofico,
che porta a non intendere, o meglio a fraintendere, la vera natura del
pensiero politico, che non può essere ridotto ad una mera identificazione del
"politico" con lo Stato: in questo caso, infatti, nell'Ottocento,
fra i maestri, si salva solo lo Hegel e devono essere ignorati i Tocqueville
o i Mill. Un pregiudizio filosofico imposto fra le due guerre, dall'idealismo
con le sue teorie dello Stato etico, e ripreso, nel secondo dopoguerra da un
certo marxi-smo, che riscopriva in Spaventa il ruolo dello Stato nella realizzazione
della giustizia e dell'eguaglianza.
Sul piano pratico Marco Minghetti e Silvio Spaventa potevano consentire su
molte cose, sul riscatto delle ferrovie, sulla critica delle degenerazioni
del parlamentarismo, nel quale i deputati erano soltanto portavoce di
interessi locali o corporativi e non di valori generali, sulla difesa di una
giustizia amministrativa40 contro le ingerenze della partitocrazia, che
poteva far facilmente leva sulla mentalità di una burocrazia cresciuta sotto
gli Stati assoluti. Ma entrambi, in un pacatissimo dialogo a distanza negli
anni 1879-18814l, erano perfettamente consapevoli che i loro presupposti
teorici erano assai lontani, anzi opposti. Lo storico non può privilegiare,
perché "forte", il presupposto teorico di Silvio Spaventa contro
quello "debole" di Marco Minghetti, perché nel loro dialogo
assistiamo al perenne scontro fra monisti e pluralisti, fra chi privilegia lo
Stato, massima sintesi dell'unità politica, e chi guarda alla società civile,
come ad un nuovo spazio per il vivere libero.
Per gli hegeliani di Napoli lo Stato è la verità dell'individuo, della
famiglia, della società civile, per cui lo Stato "che ci comanda, ci
obbliga e ci sforza al bene comune, è il nostro volere stesso": lo Stato
è "la coscienza direttiva" che deve guidare una nazione42, dirigere
tutta la vita del paese. Il "formale" Stato di diritto non basta,
se non realizza un'eguaglianza "sostanziale"43, convertendosi - per
dirla con termini attuali - in Stato di giustizia (attraverso l'azione
amministrativa). Marco Minghetti, invece, non vede nello Stato il
protagonista dell'azione sociale e gli riconosce soltanto una mera funzione
di supplenza quando gli individui da soli o associati - sono carenti. Proprio
per questo non usa come termine chiave la parola Stato, ma quella di go-verno
rappresentativo, che altro non è che un governo dei partiti, al quale egli
vuole sottrarre soltanto l'autonomia, nel suo compito specifico,
dell'amministrazione. L'unità politica non è un fatto imposto dall'alto, ma un
processo che sale dal basso, tramite i partiti, gli organi di autogoverno
locale, i consorzi pubblici e privati, gli enti morali autonomi, le li-bere
associazioni della società civile44. Per la sua visione pluralistica il
Minghetti è ostile ad ogni monismo, che definisce "cattolicismo
statuale". E pensiero debole, questo? Io credo che - oggi - tutti noi
stiamo vivendo, con i nostri peculiari problemi, proprio in quella tradizione
o in quel filone di pensieri, a cui - a pieno diritto - Marco Minghetti
appartiene come pensatore politico. Sono ancor oggi ogni giorno sul tappeto
la questione del problematico rapporto fra le ragioni dell'economia e quelle
dell'etica, la riscoperta della distinzione tra Stato e Chiesa, la difesa
dell'amministrazione dalle ingerenze della partitocrazia, la ricerca di un
equilibrio fra professionismo politico e compe-tenza tecnica.
Una città, una regione, un paese può trovare forza ed alimento nel prendere
coscienza di una parte della propria storia: le piazze e le strade, che
s'intitolano ai protagonisti del nostro passato, dovrebbero ogni tanto
animarsi anche dei loro pensieri e accompagnarci, così, nel nostro camminare
nella città politica.
1 Questi volumi, assieme ai saggi dal titolo La
legislazione sociale (1882) e Il cittadino e lo Stato (1885), sono stati
ripubblicati in M. Minghetti, Scritti politici, a cura di Raffaella Gherardi,
Roma, Direzione generale delle informazioni dell'editoria e della proprietà
letteraria artistica e scientifica, 1986; questa edizione si avvale di una
Prefazione di Rosario Romeo, di una Introduzione e di una Bio-bibliografia di
Raffaella Gherardi. A questa edizione, quando è possibile, faremo sempre
riferimento.
2 Cfr. soprattutto i lavori di A. Berselli e di U. Marcelli in Gherardi
Bio-bibliografia, cit.
3 L. Lipparini, Minghetti, con prefazione di N. Rodolico, 2 voll., Bologna,
1942.
4 B. Croce, Storia d'ltalia dal 1871 al 1915 (1927), Bari, 1943, p. 5.
5 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I,
Le Premesse, Bari, 1951, p. 652
6 G. de Ruggiero, Storia del Liberalismo europeo (1925), Bari, 1945, pp.
344-359
7 L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 (1935),
Torino, 1943. E.A. Albertoni, nella sua Storia delle dottrine politiche
italiane, Milano, 1985, p. 317, dedica al Minghetti due righe.
8 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino,
1948, p. 656, ma cfr. pp. 156-8, 297-9 e passim. Un allievo di A.C. Jemolo ha
scritto un intelligente volume sul tema: cfr. G. Caputo, La libertà della
Chiesa nel pensiero di M. Minghetti, Milano, 1965.
9 Cfr. R. Gherardi, Introduzione a Minghetti, in Scritti politici, cit.
10 Ibidem
11 V Pareto. Scritti politici Torino. 1974 vol. 1, p. 378. ma cfr. anche pp.
523 e 547
12 Così Armand Lévy, citato da R. Gherardi nella già ricordata Introduzione,
p. 5.
13 M. Minghetti, Ricordi, 3 voll., Torino, 1888-1890, vol. I, p. 2.
14 Ibidem, p 152.
15 Cfr. Minghetti, Della economia pubblica, in Scritti politici, cit, p. 597
16 Cit. in R. Zangheri, Bologna, Roma-Bari, p. 32. Ma cfr. anche M.
Minghetti, La legislazione sociale, in Scritti politici, cit., p. 783.
17 Cfr. Zangheri, Bologna cit., p. 35.
18 M. Minghetti, Discorso ai suoi elettori prununziato a Legnago alli 4
ottobre 1874 Roma, 1874.
19 Sui progetti del Minghetti cfr. A. Petracchi, Le origini
dell"ordinamento comunale e provinciale italiano Venezia, 1962; C.
Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a
Ricasoli Milano, 1964; R Gherardi, Le autonomie locali nel liberalismo
italiano (1861-1900) Milano, 1984.
20 Croce, Storia d'Italia cit., pp. 18-20, 75.
21 Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., pp. 385, 638-9.
22 A Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, Firenze, 1945, vol. I, p.
144.
23 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. I, Bari, 1969, pp. 539-40.
24 Così Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., p. 652, che
segue il giudizio di Riccardo Bacchelli
25 L'affermazione è del Crispi, riportata da D. Zanichelli nella sua
Introduzione a M. Minghetti, Scritti vari, a cura di A. Dallolio, Bologna,
1896, p. LXIII; e su questa linea si muove giustamente R. Romeo nella
Prefazione già citata, agli Scritti politici: basti pensare al comportamento
del Minghetti nella repressione del brigantaggio o dei tumulti scoppiati in
seguito all'annuncio della Convenzione di settembre (1864), Convenzione per
la quale dovette dimettersi da Presidente del Consiglio, ma che fu
un'abilissima e spregiudicata mossa diplomatica.
26 M. Minghetti, Intorno alla tendenza agli interessi materiali che è nel
secolo presente (1841), ora in Scritti vari, cit., pp. 24-28. Ma cfr. anche
Della economia pubblica, in Scritti politici, cit., p. 423, e Stato Chiesa,
in Scritti politici, cit., pp. 457-8, 585.
27 Minghetti, Della tendenza agli interessi materiali, cit. pp. 25-28.
28 Minghetti, Ricordi, cit. vol. I, pp. 84-5, Stato e Chiesa, cit, pp. 589
ss.
29 Minghetti, Della economia pubblica, cit., pp. 114, 295, 297.
30 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., p. 476.
31 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., p 482.
32 Minghetti, I partiti politici, in Scritti politici, cit, p. 647.
33 M. Minghetti, Discorso all'Associazione Costituzionale delle Romagne
pronunciato in Bologna il 17 novembre 1878, Bologna, 1878, pp. 14-15.
34 Minghetti, Della economia pubblica, cit., pp. 418, 253.
35 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., pp. 472, 553.
36 M. Minghetti, Dalla economia pubblica, cit., p. 349, e Stato e Chiesa,
cit., pp. 569 ss.
37 Minghetti, Intorno alla tendenza agli interessi materiali, cit
38 Minghetti, Ricordi, cit., vol III, pp 55, 79
39 "Noi credevamo alla giustizia e alla libertà, oggi si crede alla
forza, ed al numero": così il Minghetti a Luigi Torelli il 21 ottobre
1886, in Chabod, Storia della politica estera italiana, cit, p. 104.
40 Cfr. Minghetti, I partiti politici, cit., pp. 711, 725-737: in fondo il
Minghetti sembra però preferire i tribunali ordinari a quelli
amministrativi.
41 La polemica fra Marco Minghetti e Silvio Spaventa (e anche Francesco De
Sanctis) va letta nella seguente sequenza: 21 marzo 1879: S. Spaventa, La
politica e l'amministrazione della Destra e l'opera della Sinistra (ora in La
politica della Destra, a cura di B. Croce, Bari, 1910, pp. 25-52), 8 gennaio
1880: Discorso di M. Minghetti nella Associazione Costituzionale di Napoli
(Firenze, 1880); 7 maggio 1880: S Spaventa, La giustizia nell'amministrazione
(ora in La politica della Destra, cit., pp. 53-106);1881: M. Minghetti, I
partiti politici; 1882: S. Spaventa, L'allargamento del suffragio e i partiti
politici (inedito, ora in La politica della Destra, cit., pp 459-476); 20
settembre 1886: Il potere temporale e l'Italia nuova (ora in La politica
della Destra, cit., pp. 181-202).
Sempre polemico con Marco Minghetti, del quale non conosce le opere, è
Francesco De Sanctis, che ora lo attacca duramente per il Discorso tenuto a
Napoli: egli avrebbe utilizzato un suo saggio per una bassa polemica contro
la Sinistra, dimostrando di essere incapace di salire a "quell'altezza
dalla quale io guardava" (cfr. F. De Sanctis, I partiti e l'educazione
della nuova Italia, Torino, 1970, pp. 389 e 95 ss.). Marco Minghetti rispose
con I partiti politici, dimostrando, invece, di sapersi porre ad un livello
concettuale ben superiore a quello del De Sanctis. Il dibattito sui partiti e
sul parlamentarismo inizia con Stefano Jacini (I conservatori e l'evoluzione
naturale dei partiti politici in Italia, Milano 1877) e impegna tutti i
principali pubblicisti del tempo sino a Gaetano Mosca e Vittorio Emanuele
Orlando, un dibattito che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito.
42 S. Spaventa, La politica della Destra, cit., pp. 198-199, 226-227, e anche
pp. 65-66.
43 Ibidem, pp. 419-420.
44 Minghetti, I partiti politici, cit., pp. 718 ss. e passim.
*Professore Emerito di Filosofia Morale -
Università di Bologna
** Il saggio appare nel volume Filosofi politici
contemporanei - Ed. Il Mulino, 2001, pp. 187-218
Marco Minghetti: un liberale bolognese dal
respiro europeo
Carlo Monaco*
A tutti voi benvenuti a questo incontro che ha
come oggetto di riflessione le opere ed il pensiero di Marco Minghetti.
Ringrazio prima di tutto gli organizzatori, l'associazione Società Libera,
che oggi offre alla città di Bologna un'importante occasione di riflessione;
infatti non solo questa iniziativa su Marco Minghetti si svolge qui in questa
sala ma nel pomeriggio, in Palazzo Re Enzo, verrà inaugurata una mostra sul
liberalismo. Il filo conduttore di queste iniziative è una riflessione
attorno ai temi della libertà.
Questa parola fondamentale nella storia della nostra cultura non è proprietà
di alcuno, è proprietà, direi, di tutta la cultura politica democratica. La
riflessione sul rapporto della libertà, che è una sorta di opzione primaria
della cultura politica, con gli altri aspetti legati o al tema della
nazionalità o al tema del lavoro e dell'uguaglianza, costituisce il nucleo
fondante di tutta la riflessione politica.
Qualche parola in più va detta sulle ragioni di un convegno su Minghetti.
C'è una ragione un di campanile, nel senso che Bologna non sempre ha
valorizzato fino in fondo personaggi ed esperienze intellettuali di questa
città. Proprio nelle settimane scorse la nostra amministrazione comunale ha
istituito un premio letterario internazionale dedicato a Riccardo Bacchelli,
scrittore che ebbe grande successo da vivo, ma che poi é passato anche lui
nel dimenticatoio; eppure é un grandissimo scrittore bolognese.
Quindi sicuramente questo elemento della bolognesità è una delle ragioni che
ci porta a riflettere su Minghetti. Però non vorrei che questo venisse
interpretato come un limite, nel senso che è solo l'occasione, diciamo così,
non è l'essenza del problema; infatti il ruolo politico di Marco Minghetti ha
un'importanza nazionale nella storia d'Italia e perfino europea all'interno
della riflessione sul liberalismo. Essendo stato protagonista di prim'ordine
della vita politica negli anni immediatamente precedenti e successivi
all'Unità d'Italia, il suo ruolo politico merita di essere approfondito.
Il dibattito chiarirà tutti i termini del problema, ma io mi permetto anche
di sottolineare la straordinaria attualità dei temi che sono stati al centro
dell'azione e del pensiero di Minghetti. Sono tutti temi che abbiamo ben
presenti, mutati i termini ovviamente, nel dibattito dei nostri giorni.
Per esempio si è dibattuto molto, appena dopo l'Unità d'Italia, sul tema del
centralismo e del decentramento. Oggi questa discussione si sviluppa sotto
l'etichetta del Federalismo; si usano altre terminologie, ma il rapporto tra
il potere centrale dello stato e le articolazioni territoriali è stato uno
dei primi grandi dibattiti già alle origini.. Minghetti entrò in conflitto, i
relatori preciseranno meglio, con Ricasoli e con altri proprio perché era
favorevole all'istituzione delle Regioni e ad un sistema federale del nostro
territorio.
Questo è un problema sul quale Minghetti ha scritto e ha riflettuto. Le
scelte effettive dei governi furono di segno diverso.
L'altro problema di grandissima attualità è il rapporto che deve esistere tra
pubblico e privato, nazionalizzare o no le ferrovie, come organizzare i
sistemi dei servizi pubblici. I termini, ripeto, oggi sono cambiati,
sicuramente i problemi sono più complessi, però la natura del resta immutata.
Di qualche attualità è ancora il tema del rapporto tra Chiesa e Stato:
laicità, qualità della legislazione, la legislazione matrimoniale, la
legislazione sulla famiglia, che hanno visto storicamente liberali e
cattolici su posizioni spesso divergenti e conflittuali.
Forse il tema sul quale l'attualità è maggiore è scritto nel titolo stesso di
uno dei libri di Marco Minghetti sull'ingerenza dei partiti politici nella
giustizia e nell'amministrazione. E' un titolo molto significativo;
aggiornandolo, forse oggi dovremo parlare sull'ingerenza del sistema della
giustizia rispetto alla politica. In particolare sull'amministrazione, sul
rapporto tra partiti politici ed amministrazioni, cioè governi locali degli
enti e del territorio, il dibattito è di strettissima qualità. Se non altro
per il fatto che l'attuale amministrazione comunale di Bologna, che ho
l'onore di rappresentare, si è caratterizzata con il tentativo di dimostrare
che l'attualità delle scelte amministrative non può essere dedotta
meccanicamente dell'orientamento politico.
Questa è la sfida che abbiamo lanciato in questa città; anche culturale,
dunque.
Tutte queste ragioni credo che giustifichino, insomma, lo scopo di questo
convegno. Perciò ringrazio i relatori altamente qualificati, studiosi di
lunga esperienza che hanno accettato di parteciparvi.
* Assessore del Comune di Bologna
Marco Minghetti: il liberalismo italiano tra
scienza e politica
Raffaella Gherardi*
"Non si può, crediamo, fare al Minghetti
come pubblicista elogio maggiore di questo; egli è l'unico in Italia che
splendidamente rappresenti quella scuola di pubblicisti inglesi nei quali si
fondono, si contemperano e vicendevolmente si completano l'uomo di Stato e lo
scrittore, la pratica della cosa pubblica e la nozione scientifica di
essa." (V.E. Orlando, 10 dicembre 1881)
La citazione sopra riportata, da parte di uno dei più illustri esponenti
della dottrina giuridica nonché della politica dell'Italia liberale tra Otto
e Novecento, Vittorio Emanuele Orlando, può essere assunta a manifesto del
criterio di fondo adottato quale giudizio positivo dall'intellighenzia
italiana ed europea contemporanea a proposito della pubblicistica
minghettiana. Da Gaetano Mosca a Émile de Laveleye i più bei nomi del
pensiero politico italiano ed europeo saranno infatti concordi nel
sottolineare come riflessione teorica e politica attiva siano sfere
strettamente congiunte e integrantesi in Marco Minghetti (1818-1886), emulo,
in ciò, del grande Gladstone che egli conobbe e di cui fu amico. L'aspetto
ritenuto più importante del liberalismo di Minghetti consiste, appunto,
nell'aver saputo evitare gli sterili lidi di una teoria pura, asetticamente
disancorata dalla concreta prassi politica, così come, dal punto di vista di
quest'ultima, egli è stato in grado di utilizzare da vicino le direttive
dell'analisi scientifica, evitando i rischi di strategie improntate a un
carattere contingente e meramente empirico. Come uomo politico Marco Minghetti
è uno dei principali artefici della fondazione e della costruzione dello
Stato nazionale; chiamato alla politica attiva dallo stesso Cavour ed eletto
per la prima volta deputato per la Destra liberale nel 1860 egli verrà
costantemente rieletto dalla VII alla XVI Legislatura, rivestendo più volte
la carica di Ministro (degli Interni, delle Finanze, dell' Agricoltura,
Industria e Commercio) e di Presidente del Consiglio (dal 1873 al 1876 egli
presiede l'ultimo ministero della Destra storica e raggiunge l'obiettivo del
pareggio nel bilancio). Protagonista di primo piano della Destra di governo1
e delle sue scelte di politica interna e internazionale, dopo l'avvento al
governo della Sinistra, egli continuerà a svolgere un'intensa attività
parlamentare e il suo nome comparirà tra i firmatari di importantissimi
progetti di legge (per esempio in tema di legislazione sociale); egli sarà
inoltre, a partire dai primi anni Ottanta, insieme con Agostino Depretis,
inventore del cosiddetto "trasformismo" che rappresenterà, a
giudizio di molti, una delle più durature costanti della politica italiana,
ben al di là dei limiti cronologici dell'età liberale. Di contro ai rischi
corsi dal giovane Stato unitario da parte dei "rossi" (i nascenti
movimenti socialisti) e dei "neri" (i cattolici), Minghetti terrà
costantemente fermo a un liberalismo che sappia far perno sul centro degli
schieramenti parlamentari e darsi carico di un'attenta opera di riforme, tese
a smussare gli estremismi di volta in volta in campo. Riforme amministrative
e riforme sociali rappresenteranno le linee maestre di tale strategia, in
nome della costruzione di uno Stato che, facendosi forte dell'apporto della
"classe media" deve saper svolgere un'attenta opera di composizione
dei conflitti nell'età nuova che si va profilando all'orizzonte: l'età
dell'amministrazione. Anche dai banchi del parlamento così come in molti suoi
discorsi extraparlamentari Minghetti, vera e propria punta di diamante del
liberalismo italiano contemporaneo, rivendicherà con forza a sé e al suo
partito il merito di aver saputo intraprendere la via di uno
"sperimentalismo" che segue la legge della "lenta
evoluzione", secondo i dettami delle moderne scienze sperimentali,
sperimentalismo ormai affermatosi, a livello metodologico, anche sotto il
profilo delle nuove scienze politiche e sociali (dall'economia, alla scienza
delle finanze, alla scienza dell'amministrazione, alla sociologia etc.). Più
volte, in sintonia con i più grandi esponenti del pensiero politico liberale
italiano di fine Ottocento egli dichiarerà ormai chiusa la cosiddetta
"età della costituzione", l'età cioè in cui si trattava di condurre
la lotta contro i regimi assolutistici e per la formazione dello Stato
unitario, in nome del costituzionalismo e della salvaguardia dei diritti
individuali (battendosi quindi per ottenere la costituzione, costituzione che
l'Italia unita si è già data estendendo al Regno lo Statuto albertino del
1848). Ben diversi sono per Minghetti gli obiettivi che il liberalismo degli
ultimi decenni dell'Ottocento deve perseguire, soprattutto, nella fattispecie
italiana, una volta portata a termine la costruzione dell'unità con Roma
capitale (1870): per l'Italia si tratta infatti di affrontare da vicino la
"questione finanziaria", la "questione amministrativa" e
la "questione sociale", quest' ultima, in particolare, secondo le
linee dei grandi modelli europei, in primo luogo il modello inglese e il
modello tedesco. Sullo sfondo c'è naturalmente un processo di amministrativizzazione
della politica che egli, come i suoi più illustri contemporanei italiani ed
europei (basti citare in tal senso le opere di Lorenz von Stein), ha ben
presente e che rappresenterà un riferimento obbligato anche per le sue più
importanti opere teoriche, al di là delle singole tematiche prese in esame,
pur di per sé rilevanti per il dibattito politico.
Se i contemporanei erano concordi nel riconoscere in Minghetti un maestro dal
punto di vista della riflessione politica, tale dimensione verrà man mano
sfuocandosi nel corso del Novecento da parte della storiografia, sotto il
profilo, almeno, dell'analisi complessiva e della metodologia d'indagine del
"politico". Il nome di Minghetti resterà in ombra anche da parte di
numerosi storici italiani che analizzeranno le differenti eredità teoriche
del liberalismo italiano della seconda metà del diciannovesimo secolo. Sarà
per iniziativa di Nicola Matteucci che la figura di Marco Minghetti come
pensatore politico ritornerà alla ribalta, dopo molti decenni di oblìo della
dimensione suddetta, da parte degli storici del pensiero politico2. Nel
centenario della morte dello statista bolognese, la pubblicazione degli
Scritti politici e il convegno internazionale tenutosi a Bologna, dal 7 al 10
ottobre 1986, su Marco Minghetti e la cultura politica europea3
rappresenteranno un momento fondamentale per un nuovo confronto con l'opera
minghettiana nel suo insieme, spettro d'osservazione privilegiato sia della
politica che della cultura politica del liberalismo italiano ed europeo4.
A partire dalla sua prima, grande opera dal titolo Della economia pubblica e
delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859) (opera che verrà
tradotta in francese nel 1863), Minghetti scenderà sul campo del grande
dibattito metodologico e politico relativamente ai princìpi della scienza
economica e alle molteplici dimensioni dell'interventismo statale; egli si
dimostrerà poi in grado di misurarsi con i grandi temi del liberalismo
contemporaneo, dal rapporto tra la Chiesa e lo Stato (l'opera Stato e Chiesa,
pubblicata nel 1878, fu tradotta in tedesco nel 1881 e in francese nel 1882),
alla problematica dei partiti politici nel governo parlamentare (l'opera I
partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione
del 1881, sarà un punto di riferimento obbligato per la pubblicistica
successiva in proposito). Il filo rosso delle sue considerazioni terrà ben
fermo alla chiave di volta del rapporto tra il cittadino e lo Stato e dei
compiti che quest'ultimo deve assumersi direttamente o, invece, lasciare alla
società civile, di fronte all'evolversi della civiltà contemporanea.
Nel sottolineare più e più volte il suo rifiuto di ogni apriorismo, egli
innalza, ne Il cittadino e lo Stato (1885) un vero e proprio inno a un'
ottica scientifico-sperimentale che gli appare come la sola, appropriata
guida di una politica che si possa configurare al tempo stesso come scienza e
prassi concreta. Il tema classico della libertà dell'individuo nei confronti
dello Stato segue dunque l'itinerario di uno sperimentalismo che traccia con
precisione i limiti delle diverse polarità in campo:
Io credo che la determinazione dei limiti della libertà del cittadino e della
ingerenza dello Stato non si possa fare a priori, ma che si debba esaminare
ogni speciale questione, pesare e notare ogni circostanza, procedere insomma
sperimentalmente. E' questa la conseguenza naturale del principio che io posi
dalle prime parole di questo scritto, cioè che il problema non si può
sciogliere in modo assoluto, ma relativamente alle condizioni di tempo, di
luogo, di civiltà di un popolo.5
Egli avrà comunque cura di ribadire costantemente il postulato liberale
secondo il quale lo Stato non deve sostituirsi alla iniziativa privata, ma
soltanto integrarla:
La prima [condizione] è che lo Stato non deve sostituirsi alla iniziativa
privata, ma integrarla e compierla. Laddove quella basti, l'ingerenza dello
Stato è soverchia e perciò non buona. Ciò che la giustifica, e la rende
opportuna è la necessità di provvedere ad interessi generali, ai quali non
giunge l'azione dei singoli cittadini, o delle loro libere associazioni. Il
determinare poi questa necessità è opera di accurato esame delle condizioni
speciali del tempo, del luogo, della vita economica di un popolo, in
relazione al fine che si vuol conseguire; è frutto di esperienza e non può
essere indicato a priori.
Ancora una volta e di nuovo a Bologna, il convegno su Marco Minghetti e le
sue opere, tenutosi in data 11 novembre 2000, ha ora il compito di rivisitare
il ruolo di Minghetti come statista e, soprattutto, come
osservatore-scienziato della politica e delle sue problematiche fondamentali;
si tratta inoltre di mettere in rilievo se e fino a che punto le opere
suddette possano risultare significative per l'indagine odierna della
complessa sfera del "politico". Gli atti che qui vengono presentati
testimoniano, (alla luce delle tematiche politiche e scientifiche più vive
del passato-presente, attentamente indagate da parte degli illustri studiosi
partecipanti al convegno), quanto l'indagine di Minghetti continui a
rappresentare una sfida anche per la politica del ventunesimo secolo.
1 Per una puntuale indagine sul ruolo svolto da
Minghetti come uomo di governo della Destra cfr. A.BERSELLI, Il governo della
Destra. Italia legale e Italia reale dopo l'Unità, Bologna, Il Mulino, 1997.
2 Cfr. N.MATTEUCCI, Introduzione a N.MATTEUCCI-R.LILL, Il liberalismo in
Italia e in Germania dalla rivoluzione del del'48 alla prima guerra mondiale,
Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 7-14. Matteucci svilupperà ancora più
compiutamente la sua tesi sull'importanza del pensiero politico di Minghetti
in N.MATTEUCCI, Marco Minghetti pensatore politico, in R.GHERARDI-N.MATTEUCCI
(a cura di), Marco Minghetti statista e pensatore polit
I, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1986. Gli atti del convegno
suddetto sono pubblicati nei due volumi seguenti: R.GHERARDI-N.MATTEUCCI (a
cura di), Marco Minghetti statista e pensatore politico. Dalla realtà
italiana alla dimensione europea, Bologna, il Mulino, 1988;
N.MATTEUCCI-P.POMBENI (a cura di), L'organizzazione della politica. Cultura,
istituzioni, partiti nell'Europa liberale, Bologna, Il Mulino, 1988.
4 Cfr. in tal senso, oltre alla mia Introduzione a M.MINGHETTI, Scritti
politici cit., pp. 1-54, R.GHERARDI, L'arte del compromesso. La politica
della mediazione nell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1993.
5 Cfr.M.MINGHETTI, Il cittadino e lo Stato, in M.MINGHETTI, Scritti politici
cit., p. 813. Questo scritto fu pubblicato dalla "Nuova Antologia",
come lunga recensione dell'opera di Spencer allora appena pubblicata in
italiano L'individuo e lo Stato. Per la citazione successiva cfr. Ibidem, p.
825.
* Professore Ordinario di Storia delle dottrine politiche Università di
Bologna
I "limiti razionali" dell'economia
politica
Roberto Scazzieri*
1.Premessa: economia politica e 'filosofia
dell'economia'
I contributi di Marco Minghetti all'analisi economica occupano un campo di
considerevole ampiezza, che va dagli scritti sugli 'interessi materiali' e le
questioni agrarie (Minghetti, 1841a, 1841b, 1844, 1846, 1853) al contributo
sulla teoria classico-marxiana del valore di scambio pubblicato nel Giornale
degli Economisti (Minghetti, 1886). Il momento centrale di questa produzione
scientifica riguarda però il tentativo minghettiano di gettare le fondamenta
di una vera e propria disciplina, che 'avrebbe dai moderni il titolo di
Filosofia della Economia' (Minghetti, 1859, p. xi).
Le ricerche di Minghetti sulla 'filosofia della economia' confluiscono e
trovano presentazione organica nell'opera Della economia pubblica e delle sue
attinenze colla morale e col diritto, conclusa a Bologna nel novembre 1858 e
pubblicata a Firenze nel 1859 dall'Editore Le Monnier (Minghetti, 1859).
Gli obiettivi dell'analisi di Minghetti sono individuati con chiarezza nel
capitolo introduttivo, dove l'autore osserva che il suo scritto 'non è un
trattato formale di economia pubblica' (p. v). Al contrario, obiettivo dello
scritto è 'circoscrivere' i limiti dell'economia politica, e assegnare ad
essa 'il posto che [...] le compete' nel sistema delle conoscenze (p. v). Il
punto di partenza della riflessione di Minghetti è la convinzione che
l'individuazione precisa della distinzione fra settori di indagine sia
condizione necessaria per lo sviluppo della conoscenza scientifica, e che 'all'esame
analitico ' debba fare seguito 'il riassunto sintetico' (p. VIII), cosicchè
ogni scienza possa alla fine vedersi 'distinta, ma non segregata dalle altre;
connessa, ma non confusa con quelle' (ibidem).
2. I presupposti dela teoria economica e le
'attinenze' dell'economia politica
Gli obiettivi fissati da Minghetti per la 'filosofia della economia' sono
quindi collegati alla ricostruzione analitica della struttura concettuale
dell'economia politica, in modo da mettere in luce i punti di partenza degli
schemi di teoria economica e i loro presupposti in concezioni più generali
sulla natura delle azioni umane e delle interazioni fra soggetti. Su questo
piano, Minghetti individua un collegamento interessante fra controversie
scientifiche e 'chiusura' dei sistemi assiomatici, osservando che, almeno in
parte, le controversie fra economisti derivano dal processo di
'frammentazione' necessario durante la fase di consolidamento analitico della
disciplina (pp. vii-viii). In questa prospettiva, Minghetti propone una sorta
di 'esplicitazione dei presupposti' che dovrebbe ridurre lo spazio delle
controversie e degli 'errori economici'. In particolare, i presupposti
dell'economia politica sono individuati da Minghetti nelle ipotesi su criteri
morali e norme giuridiche che si trovano spesso alla base delle
generalizzazioni economiche.
In questa prospettiva, Minghetti avvia la propria riflessione sull' 'oggetto
e metodo' dell'economia politica attraverso una ricostruzione delle
'unsettled questions' dell'analisi economica a lui contemporanea1. In
particolare, Minghetti osserva che 'la discordia e il contrasto fra gli
scrittori' in materia economica siano in parte notevole
ascrivibili ad un difetto di individuazione dell'oggetto specifico
dell'economia politica (p. 69). Infatti, secondo Minghetti, un criterio
metodologico di carattere generale richiede che 'la definizione di una
scienza' si debba cercare 'non solo in lei stessa, ma ... nelle sue attinenze
con tutte le altre' (p. 70). Nel caso dell'economia politica, Minghetti
osserva che il campo di indagine proprio di questa disciplina si può derivare
dalla considerazione che 'gli scrittori economici, anche inconsciamente, sono
costretti a presupporre dei dati morali, anteriori e superiori alla scienza
loro, dei quali si giovano come di norma' (p. 93). In particolare, gli
economisti presuppongono la società 'organata in forme regolari, con una
partizione di uffici, ed un governo che tuteli in alcun modo i diritti degli
individui' (p; 93). In modo analogo, 'tutto ciò che si riferisce alla rendita
della terra assume dal diritto naturale la giustificazione della proprietà'
(ibidem). Infine, il problema della 'attinenza' fra interesse privato e bene
pubblico rinvia a dati che riguardano le discipline morali, e non può essere
considerato in modo indipendente dalle teorie della giustizia e dell'equità
(p. 94).
3. Le 'libere operazioni' e i 'limiti razionali'
dell'economia politica
Il riconoscimento delle 'attinenze' fra l'economia politica e le 'discipline
morali' consente di individuare i 'limiti razionali' dell'economia politica
(p. 96), cioè quell'insieme di postulati 'senza dei quali essa non potrebbe
bene comprendere tutte le sue leggi, né risolvere tutti i suoi problemi'
(ibidem). In questa prospettiva, Minghetti identifica l'oggetto dell'economia
politica nelle 'operazioni libere degli uomini sulle cose, in quanto esse
sono atte ad appagare i loro bisogni' e negli 'effetti che ne conseguono' (p.
73). Infatti, le une e gli altri 'costituiscono una serie di fatti speciali,
importanti, necessariamente collegati fra loro' (ibidem).
In conclusione, Minghetti ritiene che lo studio dell'economia politica
presupponga un duplice processo di collegamento e di distinzione. Le
'operazioni libere degli uomini sulle cose' (volte a soddisfare bisogni),
insieme ai loro effetti, individuano un ambito specifico di indagine che
consente di distinguere l'economia politica dalle altre discipline morali.
D'altra parte, le condizioni specifiche che permettono ai soggetti di
soddisfare bisogni attraverso operazioni libere sulle cose non possono essere
determinate all'interno dell'economia politica, e rinviano a codici etici e a
istituzioni giuridiche e politiche . In altri termini, i 'limiti razionali'
posti all'economia politica da postulati che rinviano ad altre discipline
morali consentono alla stessa disciplina di individuare con maggiore
precisione il proprio ambito, e permettono ai soggetti di realizzare
concretamente 'libere operazioni' nelle forme appropriate a specifiche
condizioni storiche.
4 Gli scambi e la società civile
L'attenzione di Minghetti per i limiti razionali del ragionamento economico è
alla base delle sue osservazioni riguardanti la natura degli scambi e le
caratteristiche dell'interesse proprio (self-interest). In particolare,
Minghetti fa riferimento alle osservazioni di Richard Whately nelle sue
Introductory Lectures on Political Economy (Whately,1847; prima edizione
1831), in cui si definisce l'economia politica come 'catallattica' o 'scienza
degli scambi'. A questo proposito, Minghetti scrive che l'economia presuppone
'come condizione necessaria, un ordinamento civile' (p. 103), e che nella
società civile 'il fatto economico fondamentale è lo scambio' (ibidem, nostro
corsivo). Tuttavia sarebbe errato pensare che 'lo scambio sia il primo e
quasi il solo elementare fatto economico' (p. 105). Infatti, secondo
Minghetti, l'insieme dei fatti economici elementari comprende, oltre allo
scambio, il lavoro umano e il risparmio (ibidem). In conclusione, Minghetti
identifica l'ambito proprio dell'economia politica in una particolare
intersezione tra fatti elementari riguardanti il comportamento dei singoli
(il lavoro e il risparmio) e fatti elementari riguardanti l'interazione fra
individui (lo scambio). In questo modo, l'economia politica viene
caratterizzata come disciplina morale che si occupa del raggiungimento di
stati mentali (di appagamento o soddisfazione) utilizzando 'cose materiali [
...] come strumento' (p. 107). Il raggiungimento di tali stati mentali
avviene attraverso 'libere operazioni' che presuppongono: (i) la libertà
'etica' di scelta consentita dall'autonomia del soggetto che utilizzi
'principii e ... condizioni morali' (p. 108); (ii) la libertà 'civile' di
scelta consentita dall'esistenza di ordinamenti che fanno riferimento ad un
criterio di giustizia (ibidem). Questo punto di vista mette in evidenza il
carattere 'misto' dell'economia politica secondo Minghetti, e quindi la sua
complessa articolazione come punto di equilibrio tra analisi di
configurazioni determinate dalle 'operazioni libere' dei soggetti e studio
delle condizioni morali e civili che rendono in concreto possibile
l'esercizio della libertà di scelta.
L'identificazione dell'economia politica come disciplina che si occupa della
concreta 'struttura della prassi' nel caso di operazioni libere atte ad
appagare bisogni conduce Minghetti a studiare con attenzione i presupposti
morali di quella classe di operazioni (i presupposti morali delle scelte
economiche). Infatti, le scelte economiche si riferiscono ad ambiti
particolari e determinati di scelta, che riflettono gli schemi mentali e
quindi i criteri morali dei soggetti. Le 'operazioni libere' dei soggetti in
campo economico richiedono l'esercizio del 'libero arbitrio' (libertà di
scelta) ma quest'ultimo non si identifica con l'utilizzazione di un singolo
criterio di scelta, quale il self interest (o self love), la benevolenza,
oppure l'utilità benthamiana (pp. 191-194). In particolare, la libertà di
scelta si esprime anche attraverso l'identificazione delle alternative fra
cui scegliere, e la messa a fuoco di queste ultime riflette 'principii e
[...] condizioni morali' (p. 108).
5. Produzione della ricchezza, 'ripartizione' dei
prodotti e condizioni morali
Questo punto di vista suggerisce a Minghetti un insieme di criteri per
orientare il giudizio relativo ad aspetti particolari dell'economia politica.
Nel caso della produzione e del progresso tecnico, Minghetti osserva che
criteri morali possono suggerire una 'messa a fuoco' di alternative che
orientano la libertà di scelta verso soluzioni graduali e cambiamenti meno
traumatici: 'la prima ed immediata conseguenza delle macchine e della cultura
in grande, sovrattutto dove il mutamento accadde repentino e vasto, fu una
perturbazione industriale' (p. 228). Tuttavia presupposti morali possono
modificare le caratteristiche della libertà economica, non tanto nel senso di
sottoporla a condizioni e vincoli esterni quanto nel senso di orientare la
scelta verso un diverso insieme di alternative. In questo modo è possibile
'temperare quei passaggi, e renderli meno aspri; e, quasi direi, fare che
gradatamente e senza scosse si compiano' (p. 229). Il particolare punto di
vista di Minghetti suggerisce in questo passo una possibilità interessante
anche per l'analisi economica contemporanea: le fasi di cambiamento
strutturale, quindi le fasi di 'trapasso da una condizione di cose ad
un'altra' (p. 228), possono determinare squilibri e costi sociali elevati; ma
la perturbazione industriale non è un fenomeno necessario, o almeno non è
necessaria una perturbazione di ampiezza data. Infatti, l'ampiezza delle
perturbazioni connesse a fasi di cambiamento strutturale può essere ridotta
attraverso opportune modificazioni delle funzioni di comportamento dei
soggetti, oppure attraverso modificazioni del campo di alternative a loro
disposizione.
Nel caso della distribuzione del prodotto complessivo fra gli individui (e
fra le classi sociali), Minghetti distingue fra due criteri fondamentali: (i)
ripartizione in base alla 'efficacia rispettiva' dei fattori produttivi (come
capitale e lavoro); (ii) ripartizione in base alle proporzioni relative dei
fattori produttivi impiegati (p. 284). I due criteri sono entrambi presenti
nella distribuzione effettiva dei prodotti. Tuttavia, Minghetti considera che
il secondo criterio (proporzioni relative) sia rilevante soprattutto nel
breve e medio termine, quando per l'influenza delle relazioni fra domanda e
offerta dei fattori produttivi esso 'modifica tanto il primo elemento sul
quale, per così dire, è innestato, che talora sembra da sé solo produrre ogni
effetto' (p. 284). D'altra parte, il criterio della 'efficacia rispettiva' dei
fattori produttivi manifesta la propria influenza soprattutto nel lungo
termine: 'nella distribuzione de'prodotti, [dapprima] la proporzione fra i
capitali e le braccia sembra determinare il modo di riparto; ma sotto vi sta
a modo di legge e di ragion prima la efficacia rispettiva del capitale e del
lavoro all'opera della produzione' (p. 284). Diversa è la posizione dei due
criteri distributivi per quanto riguarda il ruolo di presupposti e condizioni
morali. Infatti, un criterio di giustizia può essere alla base della
distribuzione "naturale" che collega la ripartizione dei prodotti
all'efficacia rispettiva dei fattori produttivi. Invece la
"distribuzione effettiva" dei prodotti secondo le proporzioni
relative tra fattori (e quindi secondo la scarsità relativa di tali fattori)
riflette criteri morali solo in modo indiretto, attraverso l'influenza di
questi ultimi sulla domanda e offerta di risparmio e lavoro.
6. Sulle conseguenze morali degli scambi: dalla
'catallattica' alla 'catallassi'
La ricostruzione razionale delle situazioni di scambio consente a Minghetti
di condurre un'indagine raffinata della relazione fra scambio e condizioni
morali. Il punto di partenza dell'analisi di Minghetti è l'osservazione che
la 'giustizia dello scambio' non può essere individuata nella determinazione
di una 'norma allo scambio' distinta dal 'consenso dei contraenti' (p. 304).
In questa prospettiva, lo scambio 'giusto' è semplicemente una relazione di
scambio caratterizzata dalle due condizioni di 'veracità' e 'libertà'
(ibidem). Nel primo caso, si esclude 'ogni maniera d'inganno' nella
comunicazione fra i contraenti (ibidem). Nel secondo caso, si esclude che i
contraenti siano costretti allo scambio da forme di coercizione fisica o
morale. L'attenzione per le condizioni morali dello scambio suggerisce a
Minghetti l'esistenza di una relazione costitutiva fra scambio e benevolenza,
e gli consente di individuare, assai prima di Hayek, il nesso fra le
relazioni di scambio della 'catallassi' e il 'passaggio' dall'inimicizia
all'amicizia. A questo proposito, Minghetti osserva che 'la voce greca
significa permuta, cambio; e ancora conciliazione, alleanza' (p. 306 n).
Questa osservazione è di grande interesse, perché mostra come l'attenzione di
Minghetti per la struttura degli scambi vada al di là della 'catallattica
oxoniense' proposta da Richard Whately (1847) e ripresa in anni recenti da
Sir John Hicks (Hicks, 1976). Infatti per Whately come per Hicks è centrale
la considerazione della transazione come trasferimento di beni (o servizi)
che risulta mutuamente vantaggiosa per i contraenti (Whately, 1847, pp. 3-6;
Hicks, 1976, p..212). Invece per Minghetti, che pure conosce bene gli scritti
di Whately, l'aspetto centrale dello scambio è costituito dalle sue
conseguenze morali piuttosto che dai risultati sul piano allocativo.
Minghetti riconosce che la varietà delle attitudini umane e della loro
ripartizione rende lo scambio una condizione necessaria per l'allocazione
efficiente delle risorse fra i diversi soggetti (p. 304). Tuttavia su questo
aspetto Minghetti non ritiene utile ' il soffermarvisi' (ibidem). Più
importante è invece, nella sua analisi, il fatto che 'lo scambio essendo una
delle forme dell'associazione umana [...] la sua radice è essenzialmente
buona' (ibidem). In particolare, secondo Minghetti, è convinzione consolidata
negli usi linguistici che lo scambio 'moltiplicando le relazioni [generi ]
benevolenza' (p. 306). Queste ultime osservazioni allontanano Minghetti dalla
concezione 'catallattica' di autori come Destutt de Tracy (1823) e Whately
(1847) , e lo accostano in modo significativo e per certi aspetti
sorprendente alla concezione della società civile come 'catallassi' (catallaxy)
proposta in anni più vicini a noi da Friedrich August von Hayek (1978). In
particolare, la concezione della 'società degli scambi' delineata da
Minghetti appare vicina alla concezione hayekiana della società civile come
struttura relazionale aperta, caratterizzata da atteggiamenti e propensioni
comuni, ma non da una 'volontà comune' (Hayek, 1978, pp. 179 - 190).
6. Alcune conclusioni
La riflessione economica di Minghetti, soprattutto nel saggio Dell'economia
pubblica, si colloca all'intersezione di differenti linee di ricerca, tutte
originate all'interno della grande tradizione dell'economia politica
classica, della quale anche Minghetti fa parte. In particolare, Minghetti
guarda con molta attenzione all'analisi della società civile elaborata nel
corso del diciottesimo secolo in Scozia e Inghilterra (ma non solo), filtrata
nella Wealth of Nations di Smith (Smith, 1776) e confluita nella sistemazione
concettuale di Giandomenico Romagnosi (Romagnosi, 1835). Questo punto di
vista costituisce un elemento di originalità degli scritti economici di
Minghetti, e distingue la sua posizione scientifica da altri sviluppi teorici
interni alla tradizione classica. In particolare, Minghetti si distingue sia
dalla concezione ricardiana dell'economia politica come scienza 'materiale'
delle interconnessioni tecnologiche e della distribuzione delle ricchezze,
sia dalla concezione dell'economia politica come scienza allocativa degli
scambi (catallattica) seguita da Destutt de Tracy (1823), Whately (1847) e
altri economisti.
In termini più specifici, l'economia politica di Minghetti parte dalla
considerazione dei nessi ('attinenze') fra società civile e analisi della
riccchezza, inserisce l'analisi della divisione del lavoro e del progresso
tecnico all'interno di una teoria degli ordinamenti civili, e mette in
risalto il collegamento costitutivo fra catallattica (scienza degli scambi) e
società civile.
Queste caratteristiche dell'analisi economica di Minghetti la collegano
direttamente alla matrice morale e civile della tradizione smithiana, ma al
tempo stesso la rendono prossima a importanti linee di riflessione della
letteratura economica più recente.
1 Il riferimento è allo scritto di John Stuart
Mill sulle 'unsettled quations of political economy' (Mill, 1844), la cui
prima edizione è presente nella biblioteca privata di Minghetti (Gavelli,
1986, p. 168).
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Whately, R. (1847) Introductory Lectures on Political Economy, delivered at
Oxford in Easter term, 1831, terza edizione riveduta e ampliata, London, John
W. Parker.
* Professore ordinario di Analisi Economica
Università di Bologna
Libera Chiesa in libero Stato
Piergiuseppe Monateri*
La questione del rapporto fra Stato e Chiesa può
essere posta e affrontata ad almeno tre livelli differenti.
Innanzitutto essa può venir posta a livello puramente giuridico, ed è questo,
in primo luogo, il modo, anche se non l'unico, in cui l'affronta Minghetti.
Ciò che colpisce è che Minghetti affronta la questione giuridica dal punto di
vista della comparazione. Diversamente, cioè, dai giuristi della sua epoca, e
di quelle successive, fino quasi al secondo dopoguerra, Minghetti non si
incammina verso l'analisi dogmatica delle definizioni giuridiche, e delle
loro conseguenze in termini di regole operazionali(1). Egli, piuttosto, pone
il problema come questione empirica, volto ad osservare come si è attuata, e
come si è risolta, la separazione Stato-Chiesa in Belgio, in Irlanda, negli
Stati Uniti d'America; compiendo, quindi, un'operazione intellettuale molto
diversa da quelle che nel giure italico venivano compiute alla sua
epoca.
Un secondo modo di affrontare la questione è quello di porre la vera e
propria questione dell'autorità sopra l'etico "Ueber das
Sittlichkeit" per utilizzare l'espressione dello Hegel, nella sua
Filosofia del diritto. In realtà, se noi guardiamo il fondo delle cose, ciò
che veramente ci interessa non è qui tanto sapere se è la legge dello Stato,
o il patto in quanto trattato internazionale, che regola i rapporti
Stato-Chiesa, ma la definizione dell'autorità sopra quell'ambito di spazio
che noi chiamiamo "etico". Uno spazio che nella cognizione moderna
dei gazzettieri è semplicemente ridotto alla questione dei rapporti sessuali,
della procreazione assistita, o quant'altro mai fatto in provetta, quando
invece le questioni sono ovviamente molto più fondamentali e spinose, ed
occorre che i laici tornino ad esserne consapevoli, e a rimeditare, quindi,
sulla questione che qui si pone come essenziale, e cioè quella dell'autorità
sopra l'etico.
Infine, un terzo punto di vista , che ancora riallaccia Minghetti
all'attualità, è quello di vedere i rapporti fra Stato e Chiesa come tratto
culturale essenziale, che distingue una civiltà dall'altra. Qui la
riflessione di Minghetti si sposa molto bene con il recente libro di Paolo
Prodi, per rimanere nell'ambito bolognese, sull'origine e la storia della
giustizia. Un libro per me essenziale, soprattutto rispetto ai riferimenti
liberali classici di Minghetti, nel mostrare come un certo modo di risolvere
le questioni tra Stato e Chiesa distingua nettamente una civiltà dall'altra.
Basti pensare all'Islam, alla Cina del confucianesimo di Stato, all'Ortodossia,
all'Europa a base culturale cattolica, all'Europa a base non cattolica, e
agli Stati Uniti d'America. Allora qui veramente i rapporti tra Stato e
Chiesa si pongono come questione essenziale nel mondo della globalizzazione;
come ridefinizione delle eredità culturali e delle nuove identità. Si pensi a
quanto il problema del Cristianesimo pesi sulla definizione
dell'"heritage" a cui fare riferimento nella definizione stessa
dell'identità europea.
Cominciamo, allora, dall'analisi giuridica comparatistica di Minghetti.
Quali sono, in estrema sintesi, i capisaldi del suo pensiero?
Innanzitutto Minghetti dedica molta attenzione al Belgio, e pochissima alla
Francia.
E' proprio trattando del Belgio che egli pone il suo principio per cui
"la chiesa rinunzi alle inframmittenze politiche è che sia indipendente
dal bilancio dello Stato e che nella sua sfera d'azione ragionevole ed equa
non incontri ostacoli o molestie".
Questa proposizione sembra di per sé banale, ma in realtà non lo é affatto,
nel senso che la soluzione belga era quella di una certa integrazione del
sostentamento della chiesa a spese del bilancio dello Stato. Una soluzione in
realtà diversa da quella che si era realizzata durante la Rivoluzione
Francese con i "preti costituzionali", rispetto al clero
refrattario, ma soprattutto contraria a buona parte del pensiero laico
dell'epoca. Un pensiero che era piuttosto antireligioso che laico, laddove
non si voleva soltanto una chiesa "libera associazione", che non
incontrasse ostacoli o molestie, ma si voleva conculcare l'opera della
chiesa. Un aspetto del laicismo che oggi pochi amano ricordare, ma che non
per questo non è esistito.
L'idea cardine di Minghetti è molto tipica, è quella della chiesa come
associazione privata, la quale deve essere però essenzialmente libera e,
infatti, passando all'analisi degli Stati Uniti d'America, rintuzza le
polemiche di chi paventa che la chiesa libera associazione cominci
immediatamente a possedere ospedali, scuole, partecipazioni finanziarie, ciò
che in effetti già avveniva in America, con evidente influenza sui parlamenti
e sulle amministrazioni locali.
Secondo Minghetti tale influenza non deve importare : non si può utilizzare
lo Stato per conculcare l'organizzazione stessa della chiesa, tant'é che,
infatti, in modo molto forte, Minghetti sostiene che lo Stato non potrebbe
interferire con l'amministrazione fiduciaria dei beni ecclesiastici. Si
tratta, all'epoca, di una presa di posizione forte perché, durante la
Rivoluzione Francese,tale interferenza si espresse pienamente. Tutto il
Codice Civile francese è un codice di battaglia politica, sebbene sia stato
poi presentato come una geometria della Ragione nel campo giuridico. In
realtà il Code Napoléon è improntato a una netta contrarietà ai rapporti
fiduciari, a differenza dei sistemi di Common Law che non hanno mai
conosciuto la Rivoluzione, e dove il "Trust" domina. Il diritto
francese temeva che tramite i rapporti fiduciari si potessero ricreare i
rapporti feudali, ecclesiastici, di Ancien régime. Perciò il Code civil ne ha
orrore, e in ciò si distingue nettamente dal diritto anglo-americano, dove
appunto i beni delle chiese sono posseduti in Trust, cioè tramite rapoprti
fiduciari, e dove le Trust companies sono ormai le grandi rivali delle
società per azioni, soprattutto nel settore non-profit.
Un secondo caposaldo del pensiero di Minghetti è l'adesione alla legge delle
guarentige (13 maggio '71). Tale legge è da approvare. Punctum dolens è la
qualifica di sovrano attribuibile al pontefice. Sul punto Minghetti
preferisce mescolare principi e considerazioni pratiche. In principio
preferirebbe non riconoscere sovranità alcuna al pontefice, se non fosse che
l'idea del Papa come esule fuori Roma , quale "sublime mendico" per
l'Europa, giustamente lo spaventa dal punto di vista politico, e ne conclude
che bisogna quindi evitare di ridurre il pontefice a gran cappellano, a
"limosiniere", del Re d'Italia.
Qui, allora, la questione della "sovranità" si pone come
essenziale, e bisogna, innanzitutto ricordare come il problema della sovranità,
della Santa Sede non fu affare solamente italiano, e che l'attributo di
soggetto internazionale alla Santa Sede deriva non dalla legge delle
guaretinge, ma da un riconoscimento internazionale. Ovvero, sul punto, la
questione dei rapporti Stato-Chiesa non si pone come pura materia italiana,
ma come questione di diritto squisitamente internazionale, laddove la
comunità degli Stati Europei riconosce la soggettività internazionale della
Santa Sede.
Ancora una volta tale riconoscimento non si pone affatto come banale, ma
rappresenta piuttosto una vistosa eccezione. Infatti normalmente la
soggettività internazionale viene riconosciuta o agli Stati, o a gruppi di
insorti che riescano a controllare stabilmente un determinato territorio, per
via del potere di fatto che essi hanno su quel territorio. La Santa sede non
era uno Stato, e, all'epoca, non aveva un territorio. In tal modo, quindi, si
creava un soggetto di diritto internazionale ad hoc, invocando la
consuetudine, cerimoniale, che riconosceva al pontefice il rango di un Capo
di Stato.
Un modo di procedere che può stupire il laico, ma non il giurista, che quando
deve inventare qualcosa che non ha fondamento, invoca con facilità la
consuetudine immemmore. In tal caso, essendo stato il Papa un soggetto
politico rilevante per l'Europa, la consuetudine viene interpretata nel senso
della soggettività internazionale. Naturalmente, però, non mancarono le
querelles de chapelle. Alcuni giuristi tedeschi, come sempre estremamente
logici, sostennero che se si ha un soggetto di diritto internazionale, non si
può non riconoscergli un territorio. Perché? perché putacaso il Papa inciti i
sudditi tedeschi alla ribellione, la Germania non potrà esercitare la
legittima sanzione internazionale non avendo un territorio da aggredire. Essa
non potrà esercitare la legittima vendetta, che le compete secondo il diritto
internazionale, e quindi si avrebbe un soggetto di diritto internazionale
privo di responsabilità internazionale, il che é assurdo. In tale situazione
la Germania, potrebbe unicamente rivolgersi al Re d'Italia, che dovrebbe
comminare le sanzioni sul Papa, ma di nuovo avremmo un soggetto di diritto
internazionale, che però è suddito di un altro soggetto internazionale, il
che nuovamente è assurdo. Quindi avere un soggetto di diritto internazionale
senza territorio porta ad assurdità incompatibili, onde bisogna riconoscere
un territorio a questo soggetto.
Ecco allora che i due capisaldi del pensiero di Minghetti si rivelano in
realtà un poco traballanti: e cioè, da un lato, l'idea della Chiesa come
associazione privata, assolutamente libera, che non deve incontrare ostacoli
da parte dello Stato; e però, dall'altro lato, l'idea della soggettività di
diritto internazionale di tale associazione.
In questo pensiero ritroviamo, da un lato, l'idea della chiesa come
"club di tennis". Infatti dire che la chiesa è un'associazione
privata, nei nostri ordinamenti derivati dal Code Napoléon, significa dire
che essa è regolata dall'art. 36 ss. C.c., che recita semplicemente che le
associazioni private sono regolate dagli accordi tra gli associati. Il
legislatore si occupa soltanto dei rapporti coi terzi, ma non si occupa mai
del rapporto interno. L'associazione è veramente l'istituzione regolata
soltanto dal contratto, ma non come nel contratto di vendita e di appalto
dove c'è fior fior di norme che si applicano come un "block" alle
operazioni economiche che facciamo. Semplicemente non si dice nulla, non ci
sono norme supplettive. L'associazione privata è relegata nell'insignificanza
giuridica. Conosciamo tutti benissimo la battaglia rivoluzionaria di contro
le varie associazioni, siano esse ecclesiastiche o sindacali. Quindi la
chiesa viene assimilata ad un club di tennis, così come lo saranno
sostanzialmente i partiti politici, nonostante il loro enorme ruolo. Con la
conseguenza, un po' paradossale, per cui quando rapiscono il presidente della
Democrazia Cristiana, cosa rapiscono? Rapiscono l'equivalente, per
l'ordinamento, di un presidente di una società di tennis e di cannottaggio,
senonché sappiamo che questa è una grande ipocrisia, e che non è affatto
così. Ma questa impostazione era, in realtà, un progetto politico, per
ridurre la chiesa ad un club di tennis, e tuttavia un club di tennis dotato
di soggettività internazionale, cui si riconosce, se non altro per ragioni di
opportunità politica, di essere un soggetto di diritto alla pari degli Stati
Uniti d'America, alla pari dell'Impero Turco, ma allora è evidente che questa
soluzione è traballante in sé; e, infatti, condurrà, come sviluppo
inevitabile, alla costituzione dello Stato della Città del Vaticano. Laddove
tra Stato della Città del Vaticano e Santa Sede si realizza un'unione reale,
secondo la definizione dei giuristi, in quanto l'organo supremo dell'uno e
dell'altra è lo stesso organo, non in virtù di una mera concordanza
personale, ma in virtù della realizzazione dei suoi scopi istituzionali, e
quindi di una vera necessità delle cose. Ne segue che il problema dei
rapporti fra Stato e Chiesa è interessantissimo, dal punto di vista della
metafisica del diritto, proprio all'interno dello Stato della Città del
Vaticano.
Come, allora, i due capisaldi di Minghetti vengono tenuti insieme? Io direi
soprattutto in virtù della "mitologia".
Il primo mito, che domina il pensiero liberale sel suo secolo, è quello
secondo cui la separazione fra Stato e Chiesa è un portato della razionalità
dello Stato laico moderno. E' lo Stato laico che si costituisce come tale e
ha bisogno perciò di separarsi dalla Chiesa e assumere piena giurisdizione
sul diritto. La versione più nota e complessa di questo mito è naturalmente
offerta nella già ricordata Filosofia del diritto di Hegel. Se noi ben
guardiamo al di là di questa mitologia, possiamo renderci conto di come la
separazione dei due dominii, giuridico-mondano ed ecclesiale, sia in realtà
molto più enracinée nella nostra cultura, e lo dice molto bene Paolo Prodi,
riprendendo la teoria di Harold J. Berman dell'82, e cioé la duplicità dei
fori che si crea in Occidente col separarsi della chiesa dall'insieme dei
doveri e delle sudditanze feudali.
La chiesa di Gregorio VII non vuole l'investitura feudale dei vescovi, che
erano vescovi conti, vescovi principi, marchesi, perché non vuole sottostare
al potere feudale, e vuole essere al di fuori di questo sistema di fedeltà :
ciò che veramente attua la separazione dei due ordini è la riforma
Gregoriana. La riforma Gregoriana crea anzitutto, per la prima volta nella
storia dell'umanità un ordinamento giuridico in senso moderno, giacché il
primo ordinamento giuridico europeo nel senso moderno è quello della Chiesa.
Maestro Graziano, per tutti, è il costruttore della "stufenbau"
cioé della gerarchia delle norme, della teoria moderna delle fonti del
diritto, e saranno gli Stati europei a copiare tale modello di
organizzazione: la Chancery del Re d'Inghilterra copierà la cancelleria del
Papa, i cui brevis diventeranno i writs del diritto inglese, e così via.
Forse questa duplicità di fori, che si crea con Gregorio VII, non è un
risultato voluto, ma il fallimento di un tentativo teocratico.
Però questa duplicità dei fori, che si crea comunque per iniziativa della
Chiesa, é in realtà, badate bene, coessenziale alla civiltà occidentale,
perché questa pluralità dei fori è unica della civiltà occidentale.
Certamente non si realizza nell'Islam, dove la Sharia, e la stessa
rivelazione divina, è la base della legge del diritto. Non si realizza
neanche nella Cina confuciana, dove anzi il tratto giuridico scompare
addirittura, a favore dell'elemento moraleggiante, e burocratico, che
amministra le regole giuridiche sulla base di una ricopertura filosofica di
Stato, ma con frammittenze religiose costanti. La nostra immagine della Cina
deve molto all'orientalismo dei lumi. Voltaire, ma anche Rousseau(2) ,
utilizza spesso la Cina come contraltare della Francia dei suoi tempi, piena
di preti e gesuiti: la Cina Repubblica di atei laici, esempio di morale.
Un'immagine ideologica, giacché sappiamo che l'imperatore in Cina aveva
funzioni religiose enormi. Era lui che poteva sacrificare al cielo, che
poteva iniziare i raccolti e così via, tant'é che non a caso per la Città
proibita, come è noto, si creerà un arrengement molto simile a quello della
Città del Vaticano. Quando Yuan Shi Kai attua la prima Rivoluzione Cinese,
nel 1912, concede praticamente alla città proibita uno status
indipendente(3), così che fuori delle sue mura c'è una Repubblica, ma
all'interno c'è un imperatore come rex sacrificulum, cioé un re addetto alle
funzioni religiose , senza le quali la vita cinese non potrebbe
procedere.
Una vera pluralità di fori non si realizza neanche nell'Ortodossia con la sua
impronta cesaro-papista , né si realizzerà compiutamente nelle chiese
nazionali protestanti e nei loro rapporti costanti con lo Stato. Tale
pluralità dei fori che fa così parte della nostra cultura occidentale, della
"Western legal Tradition" , è proprio un lascito del Cattolicesimo
romano, e ce la dobbiamo tenere cara, perché, giustamente, la pluralità dei
fori contrasta l'attuale evoluzione verso un "diritto a una sola
dimensione". Cioé del diritto che si occupa di tutto, il che poi in
termini pratici significa che tutto può essere portato nell'aula di un
giudice: dalla ricetta del medico, all'affetto familiare, al modo che i
genitori hanno di educare i figli, sottraendo tutto ciò all'etica,e alla
morale per affidarlo al giuridico. La nostra civiltà, in virtù di evidenti
trapianti di modelli culturali dall'America, và in direzione del diritto ad
una dimensione, rischiando di perdere, in realtà, quella pluralità dei fori
che è un suo tipico elemento distintivo.
Allora che dire in conclusione? Che la questione del rapporto Stato-Chiesa
così come è impostata dal pensiero liberale, e quindi da Minghetti, conduce a
considerare la Chiesa come associazione privata, libera, ma di diritto
internazionale, con l'arrière à penser che tutto ciò sia una creazione della
razionalità laica dello Stato moderno. Questa impostazione a me sembra una
classica operazione ideologica, nel senso di ideologia come sostituzione di
un mito alla realtà.
La Chiesa non può essere considerata una associazione privata: questo è un
errore di fondo del pensiero. Un errore ancora più grave in bocca ad un
cattolico che a un laico. Un laicista può ancora pensare di operare affinché
la Chiesa sia ridotta al rango di un'associazione privata. Ma un cattolico
non può pensarlo(4). La visione stessa quindi di ridurre la Chiesa ad
un'associazione è una pecca del pensiero liberale, sia laico che cattolico.
Può essere un progetto, ma non una descrizione.
Si badi all'importanza che questa riflessione assume ai nostri giorni per la
ridefinizione dello spazio europeo. Ebbene questo Cattolicesimo romano, in
senso forte per distinguerlo dal Cristianesimo, questo Cattolicesimo romano è
alla base di buona parte della civiltà dell'Europa Continentale, ivi compreso
la Germania, che ha una storia protestante negli Sati del Nord, ma
sicuramente profonde radici cattoliche in quelli del sud. Questo
cattolicesimo romano dobbiamo tenercerlo caro, anche da laici perché noi
comunque di questi quadri viviamo, di essi é fatta la nostra cultura, di
queste piazze, di queste chiese, e questo retaggio ha una sua notevole
importanza nel tipo di civiltà che andiamo a creare, sopratutto rispetto alla
civiltà americana, dove invece il cattolicesimo romano si pone in modo
diverso, perché ovviamente è una delle tante chiese, una delle tante sette, e
come tale viene trattata(5).
Questo cattolicesimo romano è essenziale su un punto: si pensi alla
definizione della dignità umana cardine della carta dei diritti europea; una
classica "battaglia di parole" da intellettuali, ma in cui gli
intelletuali americani hanno dimostrato di avere i nervi scoperti. Whitman di
Yale scrive ora un articolo per ipotizzare una continuità tra il concetto
europeo di dignità umana e quello nazista di onore(6). McCormick, sempre di
Yale, ipotizza una continuità nell'ideea di Europa come Grossraum tra Carl
Schmidt e Adenauer(7). Naturalmente salta agli occhi come questo sia un modo
antagonista e ideologico di procedere. Quanti autori, o singoli pensatori,
hanno concepito l'idea di Europa come Grossraum? Isolare Schmidt e Adenauer,
e utilizzare l'etichetta tedesca, invece di una banale etichetta come
Enlarged Space, o Grand Espace, è un modo per gettare un dubbio
sull'operazione della stessa costruzione dell'Europa intorno a questa
concezione. Lo stesso valga per l'accostamento tra Onore nazista e Dignità
umana. Infatti se c'é un concetto giuridico che non comapre nel Bill of
Rights americano è quello della dignità umana(8). Vi compaiono quasi tutti i
concetti giuridici di libertà: il cittadino non può essere conculcato nel suo
diritto a portare liberamente armi, il congresso non può varare una legge per
far sì che un cittadino debba ospitare in casa sua, a sue spese, un soldato della
milizia; vi è anche una concezione molto ampia del free speech , molto più
ampia di quella europea; però il concetto di dignità umana fa saltare i nervi
nel dibattito intellettuale normale fra europei ed americani, dimostrando
l'esistenza di una tensione e una rivalità, che fino a due anni fa erano
insospettabili ed insospettate.
Questi rilievi assumono particolare rilevanza rispetto all'adesione verso il
modello americano sempre mostrata dal Minghetti. Un'adesione condizionata
dagli stessi crittotipi che hanno portato all'edificazione del mito americano
proposta da Tocqueville. Un mito che in fondo noi accettiamo come dato,
sopratutto all'interno del pensiero liberale; ma che si dovrebbe rivedere.
Chi altri se non Tocqueville, all'epoca, credeva veramente che l'America
fosse la democrazia principe nel mondo? Quale statista inglese, quale
statista francese dell'epoca lo avrebbe pensato ? Nemmeno gli storici
americani lo pensano. Gli storici americano adorano il periodo che giunge
fino a Monroe, l'era dei buoni sentimenti, ma il periodo in cui trionfa il
mito coniato da Tocqueville non l'adora nessuno: era quello di Tammany Hall,
il periodo in cui New York era amministrata soltanto sulla base della
corruzione politica, l'epoca della legge al di là del Pecos. La democrazia
americana era un mito. Tocqueville, e il liberalismo di fine '800, ivi
incluso quello di Minghetti, hanno trasformato un processo molto duro e molto
brusco nel modello per eccellenza della democrazia, quando ci sono invece
molti altri modelli di liberalismo, da quello francese a quello tedesco, che
potrebbero essere ripresi in considerazione con vigore e con interesse.
Ciò dimostra, ancora una volta, la forza e la permanenza dell'impostazione di
Minghetti nel dibattito italiano, ma mostra pure la via di una sua critica, e
di un suo superamento.
1 Magistrale ad esempio sul punto il modo in cui
il Mortati affronterà la medesima questione.
2 Il cui pensiero sembra quasi ricalcato sui primi versi del "Classico
dei tre caratteri" o San Zi Jing (cfr. l'edizione a cura di Wang Ying
Lin, Milano, 1999), libro su cui generazioni di giovani cinesi sono stati
edicati fino alla Rivoluzione culturale, e la cui prima rima si esprime nel
modo seguente "La natura delgi uomini all'origine è buona ed onesta. Gli
uomini sono simili per attitudine e temperamento, ma differiscono per le
abitudini". Sull'orientalismo nella cultura europea cfr. ovviamente
Edward W. Said, Orientalism, New York, 1979, ed in particolare su Voltaire e
Rousseau v. pp. 76 s., 119, 125, 138 et passim.
3 Sul punto cfr. Reginald F. Johnston, Twilight in the Firbidden City,
Oxford, 1934, p. 78 ss., 95 ss.
4 Per puri motivi di sostegno della gerachia ecclesiastica nei confronti di
Hans Kueng, Arturo Carlo Jemolo giunse ad adottare la teoria della Chiesa
come "club di tennis" sostenendo che una associazione privata può
espellere chi vuole secondo le proprie regole, senza che altri abbia a
lamentarsene. Ma come può la Chiesa in quanto luogo in cui si manifesta
l'assistenza dello Spirito essere considerata come una associazione in cui si
espellono i membri indisciplinati. Semplicemente la Chiesa, luogo della
rivelazione, e dell'assistenza dello Spirito, non è nella disponibilità delgi
uomini: non è retta dagli "accordi tra gli associati". Questo potrà
esser vero solo d'una setta che, appunto, si ponga al di fuori della
tradizione e della "successione" apostolica.
5 Naturalmente io mi rifiuto di considerare gli anglicani dei veri
protestanti, venendo da famiglia protestante. Gli anglicani non sono
protestanti, sono cattolici che disconoscono la pienezza dell'autorità della
Curia romana, ma sono cattolici in tutto, nel modo di pensare. Infatti non ho
mai capito come Weber abbia potuto far passare la tesi che il protestantesimo
ha a che fare con la nascita del capitalismo, visto che esso nasce in
ambiente anglicano, dove di protestantev'era ben poco
6 James Whitman, From Nazi "Honor" to European "Dignity",
Paper for the Workshop at the European University Institute, 29 - 30 Sept.,
2000.
7 John P. McCormicck,
Carl Schmitt and Europe, ", Paper for the Workshop at the European
University Institute, 29 - 30 Sept., 2000.
8 È lo stesso J. Whitman, op.cit., 1, a rilevare che "This drive for
"dignity" has given a distinctive shape to European Law, setting it
sharply apart from the laww of the United States in particular", per
proseguire però dicendo "But does contemporary European
"dignity" really represent such a clear break with Fascism? When we
look closely at the record, the story il messier that one might like"
<sic>.
* Professore ordinario di Sistemi Giuridici
Comparati Università di Torino
Alle origini della partitocrazia
Luigi Compagna*
A centoventi anni dalla prima edizione, I partiti
politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione
(Zanichelli, Bologna, 1881) meritano una rilettura. Della Destra Minghetti
era stato l'ultimo Presidente del Consiglio, ma fu grazie a I partiti che si
percepì in Europa come e perché la stagione di quella Destra fosse ormai
esaurita. Il libro dimostrava quanto certe trasformazioni ci fossero state e
fossero state profonde, ma anche fossero esagerati certi timori (sulla fine
della libertà parlamentare, sul potere dittatoriale delle cosiddette macchine
di partito, sul carattere "plebiscitario" del liberalismo
organizzato e via dicendo).
Minghetti faceva oggetto delle sue riflessioni di politica costituzionale le
nuove realtà dei partiti. Ma sottolineava parimenti l'attitudine del vecchio
Stato liberale a non farsene travolgere, ma anzi a farsi sempre più Stato e
sempre più liberale. Nonostante i partiti, o magari proprio grazie ai
partiti, avevano potuto radicarsi in occidente la centralità dei parlamenti,
i compromessi all'interno di essi, la continuità delle classi dirigenti più
salde (tradizionali o rivoluzionarie che fossero).
Libro concepito e realizzato al modo di un "classico" della storia
del pensiero politico, quello di Minghetti aveva preso avvio da un
"fatto personale". Francesco De Sanctis aveva denunciato argomenti
e toni offensivi del Parlamento in un discorso del "trasformista"
Minghetti del gennaio del 1880 e Minghetti ritenne doveroso replicargli. Come
si addice alla trattazione di un fatto personale, secondo la sua replica si
svolse tutta e soltanto sul piano generale dell'analisi politica e
dell'indagine storiografica.
Forse anche per questo, nella Commemorazione, fatta insieme a Ruggero Bonghi
nel 1887, Francesco Crispi ebbe a definire Minghetti "il più nobile
cavaliere del Parlamento italiano". Ed è difficile ancor oggi sfuggire
al peso di tale definizione, nel ricostruire la stagione e l'occasione in cui
nel 1881 apparvero I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e
nell'amministrazione.
"Questo libro - si legge nella sua Prefazione - ebbe origine da un fatto
che in linguaggio parlamentare chiamasi fatto personale; poiché taluni
giudicarono che in un discorso pubblico da me tenuto a Napoli l'8 gennaio
1880 vi fosse offesa alle prerogative del Parlamento. Laonde a me parve
necessario di spiegare più chiaramente i miei concetti, e di mostrare che
lungi dal voler menomare il prestigio delle nostre istituzioni, io ero
sollecito di preservarle da ogni corruzione. E non avendo potuto farlo colla
parola viva dinanzi ai deputati nella Camera, pensai di supplirvi collo
scritto. Che se mi mosse un sentimento di legittima difesa, pure ho cercato
di serbarmi nei limiti della massima temperanza; e se il lettore trovasse ciò
nonostante qualche traccia di pungente o di amaro, sappia che ciò è contrario
ad ogni mia intenzione. Quello che ho dovuto fare per necessità si è di
soffermarmi alquanto lungamente sul fatto personale. Ma pigliando quinci le
mosse, ho inteso principalmente di esaminare un quesito generale dei più
importanti e dei più ardui nelle scienze politiche: tanto più arduo in quanto
che solo ora comincia ad essere studiato, ma nei più cospicui trattati di
Diritto costituzionale non se ne trova quasi menzione.
Il problema è il seguente: - In qual modo si possa assicurare la imparzialità
nella giustizia e nell'amministrazione sotto un governo di partito - giovi
dichiararlo più distintamente. Il Governo costituzionale, e più ancora il
governo parlamentare, quale oggi prevale agli altri in molte parti
dell'Europa e dell'America con varie forme, è sempre un governo di partito.
Esso come ogni umana cosa ha pregi e difetti che gli sono inerenti, e per
l'indole sua stessa inevitabili, quand'anche il partito che governa si tenga
strettamente nella cerchia dell'azione politica. Ma ogni partito tende
naturalmente ad uscirne e ad esercitare un'ingerenza indebita nella giustizia
e nell'amministrazione, e ciò al fine di conservare e di estendere la sua
propria potenza. Gli effetti che da questa indebita ingerenza derivano sono
gravissimi, e producono perturbazioni e iattura ai diritti e agli interessi
dei cittadini che le istituzioni libere sarebbero invece destinate a
tutelare".
L'orizzonte di Minghetti nei I partiti è ben più
ampio, come si vede, di quel profilo della giustizia dell'amministrazione,
che il suo discorso di Napoli del gennaio aveva tracciato e che sarebbe stato
poi sviluppato a Bergamo il 7 maggio da un discorso di Silvio Spaventa,
destinato a diventar più famoso di quello di Minghetti a Napoli, proprio
perché, appunto, più circoscritto. Ma non si tratta soltanto di un orizzonte
più ampio.
Evocata da Minghetti e recepita da Spaventa, la giustizia
dell'amministrazione era un tema di assai più facile acquisizione
intellettuale e politica rispetto a quello dei partiti e dell'ingerenza loro.
Sia in Italia, sia in Europa, sia nella comparazione fra sistemi americani ed
europei, di un diritto naturale dei partiti a farsi diritto costituzionale il
liberalismo del secolo XIX stentava a trovare la consapevolezza e la
determinazione fatte valer su questo terreno dal costituzionalismo di Hume e
di Burke nel secolo XVIII.
Tocqueville, certo, aveva considerato i partiti "un male dei governi
liberi" e guardato ai "grandi partiti" rispetto ai
"piccoli partiti" con lo stesso occhio col quale Hume e più ancora
Burke avevano contrapposto i partiti alle fazioni. Lo avrebbe riscontrato
Nicola Matteucci in un lavoro del '68 nel primo numero de "Il Pensiero
Politico" specificamente dedicato a questi aspetti del pensiero di
Tocqueville. Ma non c'è dubbio che nel 1881 I partiti di Minghetti andassero
assai più avanti di Tocqueville, cioè più indietro, nel tempo: ad incontrare
proprio il costituzionalismo britannico del secolo precedente nelle sue più
profonde ed incisive intuizioni. Burkeana, oltre che esplicitamente
antirousseauiana, la sua definizione del partito: "una spontanea unione
di uomini che si adoperano a conseguire il fine del bene generale qual è da
loro inteso, e con mezzi legittimi". Burkeana, dettata da empirismo non
volgare, anche la sua preoccupazione di "indebite ingerenze" in
grado di manifestarsi "là dove il reggimento costituzionale non si svolse
storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliazioni e di
adattamenti, ma successe di subito a un reggimento assoluto, sia che lo
Statuto venga ottriato dal Principe stesso o strappato da impeto
popolare". Burkeano il riconoscimento di una connessione fra partiticità
e vitalità delle tradizioni politiche: "laonde non bisogna credere, come
certe anime timide, che i partiti politici siano una debolezza, malattia
nello Stato moderno: imperocché sono al contrario segno di vita, sana e
forte. Il non appartenere ad alcun partito non è virtù del cittadino, e il
dire di uno statista che è estraneo ai partiti non è lode ma biasimo".
Certo, in Italia, a differenza che in Gran Bretagna, come era chiaro a
Minghetti, la questione dei partiti era ancora impregnata di valori, scelte,
problemi, riconducibili alla rivoluzione nazionale. Parlamentari,
extra-parlamentari, anti-parlamentari, i partiti esistenti eran difficilmente
accreditabili nel nostro paese come i migliori strumenti per governare la
costituzione: alcuni sarebbero potuti apparire cavallo di Troia delle forze
anti-sistema; altri di ciò ne avrebbero potuto approfittare per teorizzare e
praticare eccessi di "ingerenza". La ricerca di "onorevoli
connessioni" fra loro recava in sé il rischio di contaminazioni
incestuose, stante la gracilità dello Stato liberale e la precarietà degli
stessi soggetti politici.
Minghetti non è che neghi, o sottovaluti, tutto questo. Ma alla questione dei
partiti, almeno dal punto di vista della "scienza politica", non
intende affatto rinunciare. "La questione - per lui, come piace
constatare a Paolo Pombeni - di che cosa siano o debbano essere i partiti è
una questione del sistema politico liberale in quanto tale e non di
componenti isolate". Non gli mancava consapevolezza di come, quanto,
perché fosse arduo trasferire nell'Italia del 1876-'81 la Gran Bretagna dei
governi Walpole. Neanche in Gran Bretagna, del resto, gli "old
whigs" di burkeana memoria potevan ormai più ergersi a garanti della
"costituzione", intesa nel senso di "country-tradition".
La politica in Europa, aveva compreso Minghetti, per esser politica liberale,
nella seconda metà del XIX secolo, doveva farsi carico di giustificare se
stessa da sola, non potendosi più supporre che questa giustificazione fosse
qualcosa di percepibile da tutta la comunità nazionale: in Gran Bretagna in
forza della "Glorious Revolution" del 1688, in Italia in forza
della proclamazione del Regno del 1861. Nel 1848 si era avvertita, per un
verso, una fortissima inattesa ed inedita dimensione extraparlamentare della
politica e, per altro verso, l'emergere di un conservatorismo politico, ben
diverso da quello dei vecchi "court-parties", cioè delle
solidarietà istituzionali delle antiche classi dirigenti.
Per diventare, o ridiventare, strutture naturali della politica nazionale,
gli stessi partiti inglesi si ridisegnano, si rimescolano, si ridefiniscono,
in una stagione segnata da una sequenza di riforme elettorali (1832, 1867,
1884/5), non priva di implicazioni di teoria politica sul loro ruolo, ambito,
limite6 . Fin dai primi anni cinquanta, grazie all'aver potuto far conoscenza
a Londra di Palmerston, Gladstone, Russel, il citoyen d'Europa Minghetti si
sente partecipe di questi decisivi passaggi della "scienza
politica".
Nella storia del costituzionalismo italiano, Minghetti ed Arcoleo rimarranno
fra i pochi (insieme ai Balbo e ai D'Azeglio, prima di loro, non certo ai
Mosca e agli Orlando, dopo di loro) a considerare i partiti politici come il
maggior elemento di originalità e ad un tempo di classicità del modello
costituzionale inglese e, quindi, fra i pochi ad esser a loro modo nel loro
tempo scienziati della politica. Si pensi alla definizione di "scienza
della politica" avanzata da Gaetano Arangio-Ruiz nella prefazione alla
sua storia costituzionale italiana del 1898, dove si parla di lavoro
"diretto a trarre dai fatti storici l'ammaestramento per i suoi giudizi,
per le proposte di riforma da apportare alle leggi ed alle istituzioni, al
fin di eliminare i mali, di far più rifulgere i pregi"
Il che è per l'appunto quanto Minghetti faceva nel 1881. La sua terapia
seguiva una triplice direzione: diminuire le attribuzioni
dell'amministrazione, lasciando ampio margine alla libertà individuale ed
alla iniziativa privata; decentrare l'amministrazione, in modo che essa fosse
compiuta localmente o da enti autonomi; infine, ammettere i ricorsi contro
l'amministrazione stessa, da giudicarsi e risolversi in una sede
giurisdizionale indipendente, una sorta di tribunale amministrativo supremo
sul modello austro-ungarico. Egli giungeva così a far intravvedere e sentire
operante, con la cautela di non pervenire mai a definirlo, un vitale nesso
tra Amministrazione e Costituzione. Entrambe, ovviamente, a lettere
maiuscole.Il che si doveva fare per tener conto, senza farsene "ricattare",
del fatto storico della rivoluzione nazionale italiana, che aveva appena
abbandonato gli assetti assolutistici per introdurre forme di governo
rappresentativo.
"Questa transizione, però, non era stata senza difficoltà, rilevava tre
anni fa un politologo come Carlo Guanieri, nell'Introduzione alla più recente
edizione italiana de I partiti, apparsa nel gennaio del 1997 per iniziativa
di Società Aperta, undici anni dopo gli Scritti Politici, curati da Raffaella
Gherardi. I nuovi ordinamenti avevano dovuto non solo superare l'opposizione
di coloro che si sentivano legati ai passati regimi, ma soprattutto
confrontarsi con istituzioni, come l'amministrazione, create e sviluppate dai
regimi assoluti. Si trattava di un compito estremamente delicato, anche perché,
secondo la tradizione prevalente in Europa continentale, anche la giustizia,
benché con i suoi caratteri specifici, era collocata all'interno degli
apparati amministrativi" .
Sicchè, proprio il tema della "giustizia nell'amministrazione" -
minghettiano, spaventiano, della Destra storica italiana (seppur poi la
Quarta Sezione del Consiglio di Stato avrebbe visto la luce in tempi
successivi, col governo Crispi) - esigeva un nuovo raccordo fra
Amministrazione e Costituzione: perché l'una non fosse né potesse sentirsi
"corpo separato" rispetto all'altra. Accanto al saggio di
Minghetti, il 1881 registrava, con lo stesso timbro, pure quello di Giorgio
Arcoleo, Il Gabinetto nei governi parlamentari, che faceva anch'esso
rientrare a pieno titolo i partiti nella dinamica della forma di
governo.
I libri di Minghetti e di Arcoleo reinserivano il costituzionalismo di Burke
nella Gran Bretagna del secolo XIX, riconnettendo al volto dei partiti il
volto di quella peculiare istituzione politica che ormai, alla fine dell'ottocento,
improntava di sé tutto il sistema inglese: il Gabinetto. All'Inghilterra dei
partiti, quella di Gladstone e Disraeli, radicatasi un secolo e mezzo dopo
quella di Walpole e Bolingbroke, l'anziano statista bolognese e il giovane
studioso siciliano erano arrivati grazie ad una intensissima e appassionata
consuetudine con la dottrina tedesca, attingendo a Blüntschli (tradotto a
Napoli negli anni settanta), a Röhmer, a Gneist (Arcoleo anche a Laband).
Se si prende come termine a quo la sconfitta elettorale subita da un governo
in carica (quello del duca di Wellington nel 1830) e come termine ad quem
l'instaurarsi definitivo e generalizzato di un tipo di lotta politica che
facesse del risultato elettorale il cardine del sistema (come dalla metà degli
anni '80), la vicenda politica e costituzionale britannica offre uno sviluppo
sempre più costituzionale dei partiti e sempre più partitico della
Costituzione. Si assiste ad una sempre più accentuata rivalutazione
dell'esecutivo, come momento squisitamente politico del government, già
affiorato nel precedente costituzionalismo liberale ed ora lucidamente
descritto dai classici Elements of Politics di Henry Sidgwick del 1891 (che
sarebbe davvero ingiusto ed ingeneroso non vedere largamente e non in superficie
anticipati dieci anni prima dai libri di Minghetti su I partiti e di Arcoleo
su Il Gabinetto).
Perfino in Inghilterra al principio degli anni '40 la realtà dei due partiti
storici sembravano più un portato della tradizione ideale che un effettivo
dato politico ed organizzativo. In Parlamento l'instabilità delle
appartenenze era la regola. Gli stessi Gladstone e Disraeli, prima di
divenire simboli di liberalismo aperto il primo e di conservatorismo popolare
l'altro, avevano vissuto appartenenze diverse ed incerte. Fra il '48 e gli
anni '70 in Europa l'irrompere in politica di "nouvelles couches",
per usare la fatidica espressione di Gambetta11, non aveva risparmiato
l'Inghilterra, i suoi partiti, il suo parlamentarismo, la sua società.
Se esiste un sistema costituzionale europeo, nel senso in cui ne parla Paolo
Pombeni, esso implica per i partiti politici "l'assegnazione di un ruolo
preciso e definito alla loro azione ed il consenso su una loro funzione
certamente positiva". Dalla legittimità di una libertà delle opinioni si
deve dedurre la legittimità di una loro istituzionalizzazione permanente.
Almeno due capitoli, il ventottesimo ed il ventinovesimo (intitolato Parties
and party government), degli Elements di Sidgwick del 1891 avrebbero già
potuto leggersi sui libri di Minghetti e Arcoleo del 1881.
"Il concetto del Gabinetto in Inghilterra - si legge in una pagina de I
partiti di Minghetti, che si direbbe scritta a quattro mani con l'Arcoleo de
Il Gabinetto - fu opera lenta, e ognor progressiva durante due secoli. Come
ben osserva il Gladstone: la teoria del governo misto e dei tre poteri,
trasmessaci dagli antichi e soprattutto da Cicerone è troppo fredda e cruda,
né corrisponde all'indole della costituzione inglese, mancandovi un elemento
conciliatore, una specie di organo di compensazione, che mantenga in bilancia
le forze politiche, le coordini fra loro, e le indirizzi ai fini del civile
consorzio....Il gabinetto è forse la più singolare creazione del mondo
politico nei tempi moderni, non per la sua dignità, ma per la sua
sottigliezza, elasticità e varietà, ed apparisce come il complemento di un
intero sistema: sul quale sembra poter sfidare tutti i pericoli anche nelle
età future, né a tale scopo altro richiede che una perfetta lealtà, e una
discreta intelligenza in coloro che lo adoperano. Questa istituzione che ha
tanta parte nella vita politica inglese, agisce per tacito consenso, senza
che la legge scritta o la costituzione contengano pur un verso che determini
le sue relazioni col monarca, col parlamento e colla nazione, né tengono le
relazioni dei suoi membri fra loro e col loro capo. Essa non fu il portato di
un'idea preconcetta, né l'attuazione di un disegno filosofico o di un
principio astratto; ma l'azione lenta di forze invisibili gli diede la
struttura che il mondo oggi ammira. Crebbe senza rumore, e si può dire di
essa quel che il poeta dice del tempio di Gerusalemme: non risuonarono acciai
battenti del pesante martello, ma il superbo edificio sorse come una palma
gigantesca. Ora questa istituzione mentre dà maggior unità e consenso a tutti
gli atti del governo, per quanto riguarda la questione che trattiamo, ha reso
e tende a rendere più equa e temperata l'azione di ciaschedun ministro, e ad
attutire in esso gli spiriti partigiani che deploriamo" .
Ritornare col lessico dei nostri giorni al
Gabinetto come istituzione di party government, che i Minghetti e gli Arcoleo
indicavano nel 1881 come forma irrinunciabile di parliamentary government,
non è affatto difficile. Una partiticità esplicita e visibile doveva
subentrare ad una partitocrazia implicita e invisibile. D'altro canto, questo
soprattutto aveva significato Gladstone e la sua idea del Gabinetto nella
trasformazione e ricomposizione del liberalismo d'oltre Manica in quegli
anni.
Cavouriano impenitente, Minghetti aveva continuato, negli anni seguiti alla
morte di Cavour, a coltivare simpatia intellettuale per Gladstone.
Riferimenti continui a Gladstone, Macaulay, Burke rendono I partiti di
Minghetti un libro di trasparente filosofia whig, nella stessa accezione per
cui Hayek, ne La società libera, amava anch'egli definirsi un old whig, al
quale sarebbe piaciuto poter ancora "parlare con lord Acton di Burke,
Macaulay e Gladstone come dei tre più grandi liberali".
Proponendosi la trasformazione e ricomposizione dei partiti storici italiani,
di quella Destra e di quella Sinistra legate al piccolo mondo antico del
parlamentarismo subalpino, ma certo incomparabili ai "nuovi" vecchi
partiti politici del grande mondo moderno britannico, Minghetti incontrò un
singolare destino. Gli toccò di favorire quel fenomeno di formazione
contingente delle maggioranze sulla presidenza del consiglio che prese il
nome di "trasformismo"; gli toccò di avere come inflessibile
oppositore del trasformismo proprio quel Crispi, destinato poi fra il 1887 e
il 1896 a fare del criterio della centralità del presidente del consiglio una
sorta di principio "monarchico" di garanzia dello Stato nazionale;
gli toccò, insomma, anticipare nelle sue pagine del 1881 tutte le pene (crispine,
giolittiane, fasciste, democratiche) sofferte dall'Italia a trovare un
proprio ubi consistam di costituzionalismo liberale.
La lotta contro l'uso partigiano della giustizia e dell'amministrazione aveva
per Minghetti l'obiettivo di garantire i diritti di libertà dei cittadini. A
tenere il potere del governo - e del parlamento da cui trae la sua
investitura - il più possibile distinto e separato da quello
dell'amministrazione, e soprattutto della giustizia, lo aveva guidato la
preoccupazione di una pericolosa concentrazione di potere in capo alla
maggioranza politica: preoccupazione in comune con i grandi liberali del
secolo, da Tocqueville a Mill.
Nefasta gli pareva già allora la spinta dei partiti a controllare
l'amministrazione al fine di adoperarla per mantenere ed espandere il
consenso elettorale; perniciosa l'idea di mettere l'amministrazione della
giustizia in diretta concorrenza con le altre istituzioni, allargando
smisuratamente i confini della responsabilità penale a scapito di quelli
della responsabilità politica. E non c'è dubbio che l'ascesa e la discesa dei
partiti di massa nell'ultimo cinquantennio italiano ci abbia fatto vivere
molte delle degenerazioni paventate da Minghetti. Ivi compreso quel perverso
sconvolgimento di ogni costituzionalismo liberale, che egli avrebbe voluto
esorcizzare in forza del Gabinetto all'inglese, quando ad una prassi di
mediazione delle questioni politiche riguardanti rapporti, accordi e
contrasti tra i partiti operata dal governo andò subentrando una prassi di
mediazione delle questioni di governo e dei rapporti, accordi e contrasti che
esse comportano operata dai partiti.
De te fabula narratur: sembrano dire, a centoventi anni di distanza, le
considerazioni di Minghetti rispetto ad una storia che ha visto il più
imperioso apogeo (fino al più scomposto declino) dei partiti di massa,
l'arrembante esorbitanza di pubblici ministeri autonominatisi giudici in
forza di poteri impliciti (fino alla dottrina e prassi della ricerca
esplicita del consenso) nell'esercizio della azione penale.
Sull'amministrazione e sulla giustizia l'"ingerenza loro" si è
dilatata fino a registrare negli ultimi anni, nati molto spesso proprio in
seno all'amministrazione, alla giustizia e, comunque, al di fuori di ogni
circuito di democrazia liberale, l'avvento di "partiti personali":
quelli che Hume aveva considerato tipici del mondo medievale . A rileggere
oggi Minghetti la sensazione è di una storia d'Italia avvitata su se stessa
senza mai aver trovato quell'ubi consistam di costituzionalismo liberale che
aveva spinto l'intellettuale Minghetti sulle orme di Burke, Macaulay,
Gladstone, con la stessa loyalty di cui lo statista Minghetti aveva dato
prova nei confronti di Cavour.
All'Inghilterra Minghetti, non diversamente da Spaventa, arrivava attraverso la
Germania. Non tanto tramite l'hegeliano di centro Karl Rosenkranz, il quale
in una nota conferenza del 1843 sul concetto di partito aveva fatto derivare
il partito dal concetto di stato, sicché lo stato sarebbe la forma
contenitrice della libertà etica di un popolo ed il partito strumento dalla
dialettica del continuo perfezionarsi di tale libertà. Ed ancor meno tramite
il saggio del 1853 di Robert von Mohl, teso a raccordare integralmente
"partiticità" e "statualità". Piuttosto, tramite quel
maestro di dottrina giuridica, Rhudolf Gneist, che con più acume di ogni
altro, secondo Minghetti, aveva nel 1869 indicato gli effetti di un governo
di partito impiantato sull'ordinamento amministrativo di uno stato monarchico
assoluto.
"Insomma,- era la conclusione che Minghetti deduceva da Gneist, pensando
alla politica costituzionale italiana - allorché si congiunge insieme il
sistema costituzionale inglese col sistema amministrativo continentale non ne
deriva già come in Inghilterra un partito che governa, ma un governo
partigiano, e il ministero non è come in Inghilterra il centro degli
ordinamenti legislativi, ma è lo strumento d'interessi collegati che hanno in
loro balia tutte le forze di un'amministrazione assoluta. Laonde a breve
andare si manifesta la sua impotenza a tutelare il diritto dei cittadini, e
per rimbalzo a mantenere integre le stesse istituzioni politiche, le quali
non bastano da sole a costituire un governo secondo la legge".
Insomma se lo Stato di diritto arretra, si insinua lo Stato etico: magari
come società dei partiti, incapace di farsi Stato dei partiti.
Se è vero che, come volle definirlo Crispi, Minghetti fu "il più nobile
cavaliere del Parlamento italiano", non c'è dubbio che nel 1881 egli si
proponesse di esserlo altrettanto Del governo parlamentare come governo di
partito (per citare il titolo del capitolo primo del libro). Non a caso, I
partiti facevano proprie le parole con le quali si concludeva l'altro libro
edito nel 1881, Il Gabinetto nei governi parlamentari, che parevano anch'esse
scritte a quattro mani da Minghetti ed Arcoleo, a proposito di quel
"difetto nello spirito delle istituzioni più o meno dissimulato dal
rapido e progressivo sviluppo delle forme rappresentative. Ciò che al volgo
non pare, e cerca raggiungere l'ideale suo con l'allargamento del suffragio,
con l'onnipotenza parlamentare, combattendo l'ingerenza dello Stato, la
burocrazia, le tradizioni, la gerarchia, proclamando come diritto
fondamentale la partecipazione di tutti ai poteri pubblici, considerati come
mezzi al benessere di ciascheduno, in modo che l'organismo dello stato
medesimo diventi un problema sociale da risolvere: ma la scienza deve
preoccuparsi della instabilità continua delle istituzioni, della mancanza di
senso giuridico della vita pubblica, del pericolo che la Politica uccida il
Diritto... Il problema più grave delle società moderne è: come accordare un
governo secondo legge con un governo secondo i partiti? Senza la prima
attenenza mancherebbe la tutela dei diritti, senza la seconda mancherebbe la
guarentigia delle forme parlamentari".
A Minghetti le parole di Arcoleo sembravano una
forma di accompagnamento musicale alle sue. Esse ritmavano il necessario
confine fra politica "liberale" e politica "sociale"; per
richiamare l'irrinunciabile distinzione fra priorità di liberalismo e
pressioni della democrazia. La problematica dell'indirizzo politico, di
solito poco presente nei giuristi dell'età liberale, veniva intuita da
Arcoleo nei suoi tratti caratterizzanti lo svolgimento della forma di
governo, peraltro per fissarne argini giuridici in grado di contenere,
appunto, l'"ingerenza loro".
Non dovevano i partiti, rispetto all'ordinamento, diventare istituzioni di
diritto pubblico. Come in Johan Kaspar Blüntschli, a garantire il Diritto dal
non esser ucciso dalla Politica, Minghetti ed Arcoleo credevano che la giusta
imparzialità dello Stato avrebbe parificato e a suo modo pacificato la giusta
parzialità dei partiti. Essi, a voler proseguire con il lessico di Arcoleo,
dal canto loro sarebbero anche serviti a garantire la Politica dal non esser
uccisa dal Diritto. "I più grandi uomini politici romani ed inglesi -
aveva notato Blüntschli - furono sempre magistrati e ministri imparziali, e
noti capi di partito".
Ovviamente, la lettura di Minghetti e Arcoleo dell'esperienza costituzionale
inglese degli ultimi cinquant'anni non coincideva con quella, assai più
incentrata sulla tradizionale dialettica Corona-Parlamento, che sempre in
quel 1881 veniva suggerita da Attilio Brunialti. Decisivo per entrambi era il
gladstoniano "quarto potere" del Gabinetto: "pouvoir
conciliateur, una sorte de clearing-house des forces politiques, qui attire
tout a lui,met tout en ordre et en balance". Entrambi, comunque, alla
Gran Bretagna di Gladstone, capace di far respirare all'Europa qualcosa di
nuovo, anzi d'antico, cioè il costituzionalismo di Hume e di Burke, erano
approdati attraverso un sentimento kantiano dello Stato di diritto appreso
dalla dottrina tedesca. Il che, per Arcoleo, era avvenuto per risorse di
storicismo insite nella sua formazione.
Esisteva, secondo Gneist, nella realtà inglese un fondamentale profondo
fattore di equilibrio: l'autonomia nell'applicazione e nell'esecuzione delle
leggi. Tale fattore - Self-government rettamente inteso, al di fuori di ogni
fraintendimento continentale - impediva, e sempre avrebbe impedito, il
degenerare dello "spirito di partito" nel reggimento della cosa
pubblica in "spirito di fazione", arginando ab origine ogni
prepotenza dei vincitori sui vinti, secondo Minghetti.
Il Self-government inglese, concepito nel suo vero senso, non già di
decentramento o di esercizio di locali franchigie, ma d'una obbedienza
spontanea alle leggi generali della "civil society", era il solo
efficace correttivo della "tirannia" delle maggioranze e
dell'alternarsi dei partiti politici al governo dello Stato. E questo modulo
d'amministrazione non toglieva al governo alcuna delle sue necessarie
attribuzioni, né restringeva arbitrariamente la sfera di competenza del
potere centrale. Anzi, esso presentava l'opportunità di consentire una
giurisdizione amministrativa equa e ad un tempo severa, con la quale si
esercitava un controllo permanente su tutti i pubblici funzionari stipendiati
ed onorifici.
Tanto il Self-government quanto la giurisdizione amministrativa che ad esso
era sottesa, sviluppata con una vastissima giurisprudenza di precedenti
parlamentari e giudiziari, si trovavano in Inghilterra già radicati nel
tessuto delle istituzioni e dei costumi, prima che la naturale evoluzione del
sistema parlamentare producesse come obbligata conseguenza il governo di
gabinetto. Nella piena sicurezza che l'applicazione della legge non venisse
deviata, e magari fuorviata, in senso partigiano, la nazione inglese poteva
rimettersi con fiducia al governo della maggioranza ed alla competizione fra
i partiti.
"La nazione inglese - secondo Gneist - era divenuta nel XVIII secolo su
tali basi una società governantesi da se stessa nel suo intimo organismo. La
fiducia nella volontà arbitraria del re, un tempo così potente, era stata
scossa profondamente dalle gravi colpe degli Stuardi, da quattro cangiamenti
di dinastia, da un abuso senza esempio del potere politico ed ecclesiastico.
La poca importanza della burocrazia e la posizione precaria dell'esercito
permanente accanto all'importanza d'una potente aristocrazia territoriale ed
al diritto delle Camere di consentire il bilancio, posero sempre più il
centro di gravità del Governo nel Parlamento, specialmente nella Camera
Bassa.
Ma prima ancora che si affermasse questa onnipotenza del Parlamento,
l'Inghilterra aveva stabilito il Governo giuridico e lo aveva assicurato
contro gli abusi dei partiti politici. Limiti precisi erano stati posti
all'ingerenza dei partiti nel Governo, l'approvazione del bilancio fu
sottoposta alla legge, il controllo del Parlamento nell'amministrazione era
limitato dai tribunali e così si era garantito il carattere di un governo
secondo le leggi. L'interpretazione delle leggi e l'intiera sfera
dell'amministrazione interna furono sottratte all'arbitrio ministeriale.
I capi di partito che dal Parlamento passano nel Consiglio ristretto della
Corona trovano funzioni ben definite, con una giurisprudenza amministrativa
completa, e con una precisa giurisdizione in ogni contestazione
amministrativa. Ogni ministro ha davanti a sé una sfera ben tracciata d'attribuzioni,
nella quale il più zelante uomo di partito non può rendere equivoca la norma
amministrativa, o mutarla altrimenti che per via di legge, cioè col consenso
del re e dell'Alta Camera. Non si cambia una massima, non un copista
nell'amministrazione comunale e provinciale, in seguito al mutarsi dei
ministri. Che un ministero Whig od uno Tory sia al potere, ciò non ha
influenza sull'amministrazione interna del paese".
La storia d'Italia ha avuto tutt'altro corso.
Settimane addietro, proprio alla riunione a Roma dei circoli di Società
libera del 28 ottobre del 2000 Gianfranco Ciaurro, intellettuale che ha avuto
esperienze ai vertici dell'amministrazione della Camera dei deputati, del
Consiglio di Stato, ministro del primo governo Amato e più recentemente anche
Sindaco di Terni, ha ricordato uno dei casi meno vistosi eppur più ricorrenti
di "ingerenza loro". Si tratta dell'ormai diffusissimo
"bypassare" l'amministrazione con strutture consultive del potere
politico, da esso scelte, retribuite con contratti di diritto privato e per
un arco di tempo che "bypassi" la durata in carica di chi ha titolo
a procedere alle nomine. Minghetti sarebbe inorridito da questo spoil-system
all'amatriciana.
Anche perché lo spoil-system non gli piaceva neanche all'americana. Proprio
il quadriennale "power of public plunder" era fra le ragioni
annoverate da Minghetti a favore della superiorità della monarchia inglese
sulla repubblica statunitense: nella funzione stabilizzatrice, a tutela delle
minoranze, del re costituzionale liberali come Minghetti continuavano a
ravvisare un'importante risorsa di "potere neutro".
Quel "potere neutro" che molti in Italia si dichiarano oggi
orgogliosi di cancellare o di arruolare. C'è chi su "proprie"
strutture consultive costruisce il "proprio" partito personale. Un
politologo come Giuseppe Calise ha posto il fenomeno al centro della sua
analisi della crisi dei partiti "reali" nell'Italia di oggi e
dell'emergere dei partiti "personali". Insomma l'amministrazione
intesa e praticata fuori della costituzione, se non contro la costituzione, è
degenerazione - tutta a lettere minuscole - più attuale che mai.
L'Italia di Minghetti, di Spaventa, della Destra proprio non lo meritava. Del
resto liberali "thatcheriani" e liberali "blairiani"
nelle cronache nostrane imperversano. Sono liberalismi facili. Quello
gladstoniano è, invece, un liberalismo in salita: nel 2000, forse, ancor più
arduo che nel 1881.
* Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche LUISS Roma
MARCO MINGHETTI: I PARTITI POLITICI E LA LORO
INGERENZA NELLA GIUSTIZIA E NELL'AMMINISTRAZIONE
PREFAZIONE
di Carlo Guarnieri
Se vogliamo, a distanza di quasi 120 anni,
riflettere ancora sulle proposte che Marco Minghetti avanzava nel suo I
partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione,
dobbiamo innanzitutto riassumere, almeno brevemente, il contesto in cui il
suo intervento si colloca. Erano infatti più di 30 anni da che il modello
britannico di governo parlamentare era stato stabilmente introdotto in Italia
e 20 da quando l’unificazione lo aveva esteso a quasi tutto il paese. Così,
anche l’Italia era entrata a far parte di quel gruppo di nazioni dell’Europa
continentale, sempre più numeroso, che aveva abbandonato gli assetti
assolutistici per introdurre forme di governo rappresentativo.
Questa transizione, però, non era stata senza difficoltà. I nuovi ordinamenti
avevano dovuto non solo superare l’opposizione di coloro che si sentivano
legati ai passati regimi ma soprattutto confrontarsi con istituzioni, come
l’amministrazione, create e sviluppate dai regimi assoluti. Si trattava di un
compito estremamente delicato, anche perchè, secondo la tradizione prevalente
in Europa continentale, anche la giustizia, benchè con i suoi caratteri
specifici, era collocata all’interno degli apparati amministrativi. La
necessità di cogliere la favorevole congiuntura internazionale per unificare
il paese - ma insieme anche la fragilità del risultato raggiunto - aveva
spinto la classe politica liberale a subordinare a questa impresa tutti gli
apparati dello Stato. L’ascesa al governo della Sinistra, nel 1876, pur contribuendo
ad allargare la base di consenso alle nuove istituzioni, non sembrava aver
prodotto le conseguenze positive attese dall’alternarsi di partiti diversi
alla guida del governo. Anzi, di lì a poco, anche di fronte alla pressione
delle forze rimaste estranee al regime costituzionale, la divisione fra
Destra e Sinistra cominciò progressivamente a sfumare, facendo venire meno in
Parlamento una chiara distinzione fra maggioranza e opposizione.
Sui caratteri della politica nei regimi parlamentari Minghetti, in polemica
con molti dei suoi contemporanei, è netto: la politica dei sistemi che hanno
adottato la forma parlamentare è politica di partito o, meglio, il governo di
partito è in questi regimi non solo inevitabile ma, tutto sommato, benefico.
Fra l’altro, solo il partito può dare sufficiente stabilità ai sistemi
rappresentativi. I vantaggi di questo assetto superano perciò di molto gli
svantaggi, che peraltro possono essere notevolmente limitati con opportuni
accorgimenti. È una posizione che Minghetti elabora a seguito di un’ampia
analisi storico-comparativa degli assetti istituzionali dei principali paesi:
Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, ma anche Spagna, Portogallo e
Grecia, questi ultimi per certi versi molto simili all’Italia. Proprio dal raffronto
fra sistemi politici diversi Minghetti arriva alla conclusione della
sostanziale superiorità dei governi di partito e della possibilità di evitare
molti dei difetti che ad esso vengono normalmente attribuiti. Da qui derivano
appunto le sue indicazioni riformatrici per affrontare le disfunzioni che
sono emerse in Italia.
Se però la capacità analitica e prescrittiva di Minghetti non è certo, almeno
per i suoi tempi, in discussione, cosa possiamo oggi ritenere della sua
analisi e, magari, delle sue raccomandazioni? In altre parole, quali
mutamenti si sono verificati rispetto ai tempi in cui Minghetti scriveva e
quale valore va loro attribuito? Se guardiamo al sistema politico, il periodo
che ci separa da Minghetti ha visto, anche in Italia, soprattutto la completa
affermazione del partito di massa come principale attore politico e poi, in
questi ultimi tempi, la sua crisi. Semmai, in Italia, l’affermarsi del
partito di massa è avvenuta in modo tormentato, attraverso due radicali
mutamenti di regime - dal liberalismo pre-fascista al fascismo e poi da
questo alla democrazia repubblicana - che hanno lasciato delle tracce - per
lo più negative - sul nostro sistema politico. Dai passaggi traumatici da un
regime all’altro, dall’ascesa al potere di un partito nemico della democrazia
liberale, dalla sconfitta militare e poi dall’affermarsi di partiti nuovi,
estranei e in parte anche ostili alla tradizione costituzionale del
Risorgimento, le nostre istituzioni sono uscite infatti notevolmente
logorate, soprattutto in termini di autonomia e capacità. Ma anche
l’espansione del potere dei partiti di massa non è stata priva di difficoltà.
Come è stato di recente rilevato , i partiti italiani hanno sì svolto in
questo dopoguerra un ruolo politico preponderante, ma il loro impatto sulle
decisioni politiche è stato molto inferiore a quella che sembra essere stata
l’apparenza. Forte sulle microdecisioni particolaristiche, è stato invece
molto più debole sulle politiche di livello intermedio - quelle di maggior
rilievo per il funzionamento di un sistema politico - mentre sempre forte è
stata la loro capacità di influire sulle metapolitiche, cioè sulle grandi
scelte relative agli assetti politici di base. Il risultato dell’importanza
crescente della competizione particolaristica è stato però che la spinta dei
partiti a controllare l’amministrazione, almeno al fine di adoperarla per
mentenere ed espandere il consenso elettorale, è stata - ed è ancora oggi -
molto più forte di un tempo.
Mutamenti di rilievo si sono verificati anche nell’amministrazione e
soprattutto nella giustizia. È ormai luogo comune sottolineare l’espansione
delle funzioni dello Stato avvenuta in quest’ultimo secolo. Lo Stato
"guardiano notturno" è stato sostituito dallo Stato del benessere
che, pur con crescente fatica, cerca di provvedere a bisogni sempre più
diversi e numerosi. Ormai lo Stato non svolge più solo le tradizionali
funzioni d’ordine - che potevano essere facilmente definite in modo
esecutorio, come conseguenza dell’applicazione di regole generali - ma
fornisce servizi e interviene per influenzare lo sviluppo economico e
sociale, compiti il cui dispiego richiede che si vada al di là della semplice
logica esecutoria per introdurre invece decisioni basate sul criterio
dell’efficacia nel raggiungimento dei fini e, talvolta, dell’accettabilità
delle decisioni da parte degli interessati. Non è necessario qui discutere
se, e in quali termini, questo sviluppo vada considerato più o meno
positivamente. Quello che va sottolineato è che, in conseguenza di queste
trasformazioni, i compiti dell’amministrazione, per essere svolti con
efficacia e efficienza, con sempre maggiore difficoltà possono essere
ingabbiati in un sistema di regole generali. Avviene però così che ci si
trovi spesso di fronte al dilemma se intralciare l’azione amministrativa con
regolamentazioni minute o rassegnarsi ad un ulteriore dilatazione dei suoi
poteri. D’altra parte, di fronte a questa alternativa si è quasi sempre
reagito, con una buona dose di schizofrenia, moltiplicando i controlli di
natura formale e allo stesso tempo tollerando lo sviluppo di ampi - ed
arbitrari - poteri di fatto. Poco o nulla si è fatto per migliorare in
generale le qualificazioni professionali dei dipendenti pubblici e per
introdurre le nuove capacità professionali richieste dai nuovi compiti
dell’amministrazione, elementi che sono in realtà la principale garanzia di
buon rendimento ma anche di correttezza amministrativa: infatti, il
funzionario capace è anche colui che meglio rispetta i diritti del cittadino.
Al contrario, molto si è fatto per mortificare le competenze professionali ed
espellere dalla nostra pubblica amministrazione anche quelle ancora presenti
ai tempi di Minghetti. Così, delicate funzioni tecniche si sono spostate
all’esterno dell’amministrazione, indebolendone sempre di più le reali
capacità di controllo. La venerazione del formalismo giuridico -
progressivamente affermatosi dall’inizio di questo secolo - è stata alla base
di questa tendenza, anche se la stessa qualità della formazione dei giuristi
si è col tempo deteriorata, in parallelo con l’indebolimento del vecchio
assetto meritocratico, che certi livelli di capacità comunque garantiva.
La crescita e il diversificarsi dell’amministrazione che i nuovi compiti
hanno portato con sè hanno avuto poi un’altra importante conseguenza, cioè
l’aumento del numero degli impiegati oltre che la loro crescente
differenziazione e disomogeneità. Così, si è sviluppato un fenomeno ai tempi
di Minghetti ancora sconosciuto: il sindacalismo del pubblico impiego. Ormai,
i sindacati dei dipendenti pubblici, talvolta in collegamento con le altre
organizzazioni sindacali, svolgono un ruolo cruciale all’interno dei processi
di decisione politico-amministrativa, frapponendosi ad attori tradizionali
come il governo ed i cittadini e favorendo spesso il processo di
deprofessionalizzazione che abbiamo appena ricordato. Non paradossalmente, la
crescita delle garanzie degli impiegati pubblici è stata effetto e causa di
questo fenomeno. Così, la presenza di questo nuovo attore pone oggi la
questione dei rapporti fra politica e amministrazione in termini molto
diversi dai tempi di Minghetti, dato che i politici di governo devono
trattare con una nuova categoria di politici, i dirigenti delle
organizzazioni sindacali, spesso dotati di risorse non indifferenti.
Mutamenti di forse ancor maggiore spessore hanno investito poi
l’amministrazione della giustizia. Il primo elemento da sottolineare è il
mutamento del rapporto fra giudice e legge, definito tradizionalmente in
Europa continentale in termini di subordinazione del primo alla seconda. È
cambiato il carattere della produzione legislativa: come conseguenza del
maggiore intervento dello Stato, leggi sempre più numerose investono settori
sempre più ampi della vita sociale e politica. L’esperienza dei regimi
totalitari ed autoritari che si sono affermati fra le due guerre mondiali in
molti paesi dell’Europa continentale ha portato all’introduzione del
controllo giudiziario di costituzionalità, stabilendo uno strumento per
verificare l’adeguatezza di ogni norma legislativa ai principi fondamentali
che reggono i regimi politici e quindi spingendo il giudice ad un
atteggiamento critico nei confronti della norma legislativa. Naturalmente, il
moltiplicarsi delle norme di riferimento ha accresciuto i margini di libertà
di cui il giudice gode nel risolvere i casi. Così, la legge e in generale le
norme giuridiche esercitano oggi un’influenza costrittiva minore del passato
sia perchè spesso in contrasto fra loro sia perchè formulate in modo più o
meno volutamente vago sia infine perchè talvolta deliberatamente delegano al
giudice ampi poteri. Peraltro, l’espansione del raggio d’azione del diritto
legislativo non ha risparmiato neanche quello penale, aumentando il numero di
condotte sanzionabili penalmente e soprattutto sfumandone i contorni. Così,
anche il ruolo di chi è chiamato a richiedere l’applicazione della legge, il
pubblico ministero, ne è uscito fortemente rafforzato, dato che ormai è in
grado di intervenire con efficacia all’interno di quasi tutti i processi
politico-amministrativi. La conseguenza principale è che il giudice, anzi
l’intera magistratura, a causa del nuovo, forte potere di cui dispone, è
diventato oggetto di pressione politica da parte di chi intende approfittare
di questi nuovi canali decisionali. L’amministrazione della giustizia è
entrata così in diretta concorrenza con le altre istituzioni politiche:
ricerca il consenso dei cittadini cercando di dare risposta alle domande che
costoro in misura crescente le indirizzano. Inoltre, punto questo
estremamente importante, anche all’interno della magistratura si sono
affermate forme di sindacalismo. Semmai, qui la loro rilevanza è molto
maggiore che nell’amministrazione perchè maggiore è il potere che esercitano.
L’istituzione di un organo di autogoverno come il Consiglio superiore della
magistratura, composto a larga maggioranza da magistrati eletti direttamente
dai propri colleghi, ha contribuito a rafforzare questa tendenza, dato che i
vari raggruppamenti di magistrati svolgono un ruolo cruciale nel processo
elettorale. Da questo punto di vista, l’Italia sembra essere all’
"avanguardia" fra i paesi dell’Europa continentale, il paese dove
questo fenomeno si è sviluppato in modo più pieno.
Le soluzioni che Minghetti proponeva nel suo saggio del 1881 non sono quindi
più proponibili oggi. Del resto, alcune di esse sono state applicate. Per
restare nel campo della giustizia, l’indipendenza dei giudici è oggi
certamente molto più garantita di un tempo e le loro garanzie sono state estese
al pubblico ministero, anche al di là dei suggerimenti di Minghetti. Non si
può dire però che oggi la magistratura italiana risenta meno di un secolo fa
di logiche di parte. Anzi forse verrebbe di dire il contrario. Semmai è
cambiata la qualità della politicizzazione: venute meno le interferenza
ministeriali, fortemente diminuiti di incidenza gli interventi dei
parlamentari, sono oggi altre le vie dell’influenza politica. Essa scorre
oggi soprattutto per tramite del Csm, luogo istituzionale che concentra ormai
tutte le decisioni cruciali in tema di amministrazione della giustizia e dove
i rappresentanti della classe politica - i membri laici eletti dal parlamento
- incontrano i rappresentanti della magistratura, cioè gli esponenti delle
varie correnti del sindacalismo associativo. Perciò, le interferenze
sull’attività giudiziaria non giungono più tanto da ministri prepotenti -
anche per la semplice ragione che non le possono più esercitare - ma da
fluttuanti alleanze fra gruppi di magistrati e gruppi di politici,
rappresentanti più o meno diretti di quei partiti che abbiamo visto essere
poco capaci di orientare le politiche di rilievo ma abbastanza efficaci
nell’influenzare le microdecisioni. Ma è far torto a Minghetti ritenere che
le sue prescrizioni abbiano contribuito a tali deviazioni. Le sue proposte
nascono da uno spirito non dottrinario, pragmatico, che si rivolge ad un
contesto specifico e si basa sull’osservazione e sulla discussione, pronto a
rivedere le proprie posizioni se sembrano inadeguate agli obiettivi che si è
posto. È qui infatti che sta l’attualità di Minghetti, nello spirito con cui
affronta i problemi del nuovo Stato unitario: è qui che possiamo ancora
imparare.
Ancora di rilievo è infatti la sua lezione di metodo, un metodo di analisi
dei problemi politici e amministrativi empirico - perchè attento alla realtà,
all’applicazione concreta delle norme - e comparativo, perchè, non chiuso
nella considerazione provinciale di un solo sistema politico, cerca di
apprendere dal confronto con altre esperienze . È evidente che la ricerca di
rimedi non può non percorrere questa strada. Anzi, qui alcune delle proposte
generali di Minghetti non hanno perso d’attualità: ridurre l’area
dell’intervento dello Stato, decentrare, sviluppare i controlli sull’amministrazione
sono misure che, adattate ai tempi e combinate magari in modo diverso,
possono ancora oggi essere applicate con profitto. L’attenzione al dato
empirico spinge poi Minghetti a considerare l’importanza della formazione dei
funzionari, a sottolineare i limiti di una preparazione esclusivamente
giuridica e a raccomandare l’istituzione di apposite facoltà o scuole di
scienze amministrative, dove abbiano spazio anche gli studi empirici del
funzionamento della pubblica amministrazione . Basta, credo, questa sola
notazione per comprendere l’attualità di Minghetti: a distanza di più di un
secolo si tratta ancora di una raccomandazione solo in minima parte
realizzata. Pochi sono ancora i luoghi dove tali studi sono coltivati in
Italia. Nell’università e nei centri di formazione pubblici prevale ancora, e
talvolta nelle forme più deteriori, lo studio formalistico delle norme
giuridiche, a spese di ogni considerazione della loro applicabilità e delle
loro reali conseguenze. La formazione dei nostri funzionari pubblici resta
ancora prevalentemente, se non esclusivamente, giuridica.
Quanto a una radicale separazione fra politica, giustizia e amministrazione,
essa è, a ben vedere, difficile da realizzare in concreto, e forse neanche
augurabile, tanto più nelle condizioni dei regimi democratici contemporanei
che, lo abbiamo appena visto, si caratterizzano per una forte
interpenetrazione fra Stato e società. Ma le prescrizioni di Minghetti, al di
là dei contenuti specifici, vanno intese soprattutto per i fini generali che
intendono perseguire e cioè in quanto strumento per garantire i diritti di
libertà dei cittadini. La lotta contro l’uso partigiano della giustizia e
dell’amministrazione ha proprio questo obiettivo, quello di garantire i
cittadini da interventi di questo tipo separando, nella misura del possibile,
il potere del governo - e del parlamento da cui trae la sua investitura - da
quello dell’amministrazione e soprattutto della giustizia: "la libertà
per noi moderni consiste nel rispetto di tutti i diritti, e a guarentire
questo rispetto l’elezione è di per sè insufficiente" (p.158). In altre
parole, la lezione di Minghetti è un richiamo, ancora una volta,
all’importanza di separare i poteri, cioè le grandi istituzioni politiche,
per evitare una pericolosa concentrazione di potere in capo alla maggioranza
politica che già, legittimamente, controlla il governo. È quindi un richiamo
alla necessità di dotare le istituzioni pubbliche di un’autonomia sufficiente
a farle funzionare secondo la loro propria logica. Come si può vedere, in
questi termini il messaggio di Minghetti è tutt’altro che datato. Anzi,
proprio quelle trasformazioni cui abbiamo poco sopra fatto cenno ci indicano
la loro concreta attualità. L’ascesa dei partiti di massa nel nostro sistema
politico è stata un fenomeno probabilmente inevitabile e, tutto sommato,
positivo, dato che ha contribuito a superare le profonde fratture che avevano
travagliato la vita dello Stato liberale, ma non è stata priva di risvolti
negativi. Di alcuni abbiamo già fatto cenno. Un aspetto forse più di fondo è
che questa affermazione si è diffusa per tutte le istituzioni pubbliche e si
è innestata su una forma preesistente di monismo istituzionale: è così
avvenuto che il "cattolicesimo statuale" di cui parlava Minghetti è
stato sostituito dal "cattolicesimo dei partiti". Ancora oggi
questi atteggiamenti, che hanno esercitato una forte influenza durante tutto
il periodo repubblicano, mirano, di diritto o di fatto, a concentrare il
potere negli organi rappresentativi. Non si vuole qui certo negare
l’importanza e la necessità di rafforzare la capacità decisionale di queste
istituzioni che, anzi, spesso quelle posizioni non condividono, in quanto
ritengono che la difesa delle posizioni di individui e gruppi stia
soprattutto nella complessità delle procedure decisionali degli organi in cui
il potere viene concentrato. Quello che si vuole sottolineare è che questo
rafforzamento deve accompagnarsi ad una migliore articolazione delle
istituzioni del nostro sistema politico che permetta loro di funzionare da
garanzia dei diritti di libertà del cittadino. Vanno perciò pienamente
condivisi gli argomenti di chi sostiene la necessità di superare il monismo
istituzionale che ha caratterizzato il periodo repubblicano - e che per certi
versi sembra aver ispirato anche l’azione della magistratura in questi ultimi
anni - per arrivare ad una concezione veramente pluralistica del nostro
assetto istituzionale, basata su articolazioni e poteri indipendenti . Per
realizzare questo tipo di assetto, però, il problema non è solo quello di
individuare garanzie e procedure idonee, è anche, se non soprattutto, un
problema di persone: in termini concreti - e ci riallacciamo qui ad un tema
che abbiamo appena trattato - si tratta di creare meccanismi in grado di
assicurarci un personale all’altezza dei compiti, provvedendo altresì - per
usare un termine minghettiano - alla loro "educazione".
DEL GOVERNO PARLAMENTARE COME GOVERNO DI PARTITO
DEI PREGI E DEI DIFETTI CHE GLI SONO INERENTI
Io prendo per dato che, qualunque sia la forma di
governo, gli uomini che hanno nelle mani la somma della cosa pubblica, in
generale mirano al bene del civile consorzio. Codesta proposizione per taluni
sarà da porre fra le illusioni più ingenue, e degna appena di entrare in
qualche utopia. E ci recheranno innanzi il tiranno "che libito fè licito
in sua legge", le oligarchie le quali oppressero le classi misere per
mantenere nella propria le ricchezze, la potenza, i privilegi; i governi
della borghesia dove i mediocri ed intriganti tengono il campo; e infine le
democrazie antiche e moderne nelle quali dominatrice è l’invidia che calca i
buoni, ed esalta i pravi. E coroneranno questi esempi con un argomento tratto
dallo studio della natura umana; avvegnaché l’uomo mira all’utile proprio non
all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello, e rinfrescheranno una
massima che soprattutto nel secolo scorso ebbe gran voga, cioè che così
l’uomo singolo, come l’unione di molti, e ogni classe della società e ogni corporazione
tendono sempre ad esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per
invadere gli altrui; onde la scienza delle costituzioni parve la scienza dei
freni.
In tutto ciò havvi molto di vero, e nondimeno volgendo lo sguardo
all’andamento generale degli eventi umani, non a questo o a quel fatto
peculiare, io sono d’avviso contrario per due cagioni che dirò breve, non
essendo qui luogo ad entrare in una discussione morale dell’indole dell’uomo.
Ma parmi certo che a chiunque regge la cosa pubblica si parano innanzi ogni
giorno molte deliberazioni da prendere, nelle quali l’interesse proprio non
ha parte, o ne ha una remotissima, per modo che soverchia la previdenza
comune, e in questi casi l’uomo tende a fare il bene, salvo pochi efferati né
quali il male per sé stesso e cagione di diletto1 . E l’altra considerazione
è che l’interesse di ciascuno nella più parte dei casi consente
coll’interesse generale, e spesso quel che a noi pare gara, conflitto, e
pugna torna a maggior utilità a tutti. Veramente gli economisti hanno abusato
di questo argomento quando vollero dedurre dalla illimitata concorrenza in
ogni tempo e in ogni luogo il massimo dei beni della società, ma ciò non
toglie che normalmente la concorrenza non sia elemento necessario e benefico;
e forse Adamo Smith ritrasse questo vero con colori più temperati e più
genuini dei suoi seguitatori. Ma oltre a ciò si vuol notare che se la somma
dei mali prodotti dagli uomini che governano e ammaestrano i popoli più o
meno direttamente superasse la somma dei beni, non si spiegherebbe il
progresso della civiltà, anzi la società a breve andare si dissolverebbe, e
cadrebbe in totale ruina. E questo mi pare argomento precipuo contro il
pessimismo storico. Laonde facendo pur ragione dei cattivi governi e dei
tristissimi loro effetti, non posso rinunziare al concetto onde io presi le
mosse; cioè che il complesso delle azioni di coloro che reggono la cosa
pubblica, è generalmente indirizzato più al bene che al male: maggiore o
minore, secondo i luoghi ed i tempi, ma pur in tal grado che presa una lunga
tratta di secoli, il bene può prevalere al male sulla terra.
Dalle considerazioni di filosofia morale passando a quella di filosofia
politica, gli studiosi si posero ad investigare qual sia la forma di Governo
nella quale possa presumersi che il massimo degli effetti buoni si consegna
con facilità e con sicurezza; e non ricorderò la sentenza di Aristotele
professata eziandio dai più grandi uomini a lui posteriori sino ai dì nostri,
che il governo misto sia da preferirsi; ma dirò solo non esservi un tipo
assoluto di tal fatta, acconcio a tutti i popoli in ogni età e sotto ogni
plaga di cielo. La storia dimostra primieramente che gli ordini di governo
debbono conformarsi allo stato economico, intellettivo e morale, insomma alla
civiltà dei popoli, e dimostra inoltre che non vi ha forma di governo che sia
scevra d’inconvenienti. Per la qual cosa il filosofo e l’uomo di stato sono
costretti a scegliere quella che ne contiene minor numero relativamente alle
altre e che comporta un certo grado di civiltà e favoreggiarla come ottima.
Ma dal sopraddetto discende eziandio questo vero, che qualunque essa sia,
v’ha mestieri di contrappesi e di freni che impediscono ad ognuno che
partecipi alla potestà sovrana di trasmodare. Or quando una società è giunta
a certo grado di coltura ivi si sveglia un desiderio intenso e se ne diffonde
il sentimento, della partecipazione dei cittadini al governo, la quale
partecipazione può essere di due sorta: consultiva e deliberativa. Consultiva
è quando vi sono ordinati consessi di uomini prudenti che il Governo
interroga per avere informazione, consiglio, apparecchio di leggi;
deliberativa quando la potenza di fare le leggi, e lo stanziamento delle
entrate e delle spese appartengono ai cittadini o direttamente o per mezzo
dei loro rappresentanti.
E qui c’incontriamo nel regime rappresentativo, onde fu resa possibile la
partecipazione dei cittadini al governo anche nelle grandi e popolose
nazioni, e del quale tanto fu scritto che sarebbe superfluo ritornavi sopra.
Ma da questa forma generica si passa al regime costituzionale del quale sono
cardini fondamentali la rappresentanza elettiva del popolo in una e spesso
anche in due assemblee, e la responsabilità ministeriale sotto un’autorità
suprema che concilia i conflitti e modera l’andamento della complicata
macchina. Però nello stesso reggimento costituzionale vi sono forme diverse.
In alcuni paesi come la Germania e l’Austria, le assemblee pur votando le
leggi e il bilancio, non hanno se non per indiretto ingerenza nell’andamento
quotidiano della cosa pubblica, e nell’indirizzo politico interno ed esterno.
Se il ministro dee alla lunga mettersi d’accordo colle assemblee, non perciò
hanno queste un influsso immediato nella sua formazione. Ma in altri governi
costituzionali non solo le Assemblee esercitano un quotidiano sindacato sulla
potestà esecutiva, ma questa non può durare se non in quanto abbia la fiducia
dell’assemblea elettiva che col suo voto la designa o l’abbatte. Quest’ultima
forma che è propriamente quella che si chiama governo parlamentare si ritrova
in Inghilterra, nel Belgio, in Spagna, in Grecia, in Italia ed in Francia.
Ho citato anche la Francia fra questi governi; avvegnaché l’esser di
monarchia e di repubblica non muti punto la sostanza sua nella parte che noi
consideriamo. Che il magistrato supremo sia ereditario ovvero elettivo, a
vita o a tempo, ciò non toglie né menoma quegli effetti che noi vogliamo
esaminare. Ma dallo studio di queste varie forme di liberi reggimenti, sembra
derivarne come conseguenza necessaria, che la somma della cosa pubblica debba
essere affidata a coloro che esprimono in un dato momento la opinion pubblica
nella sua maggior parte, e nelle sue più spiccate tendenze: e che qualora
codesta opinione muti, anche gli uomini cedano il governo ad altri che meglio
la rappresentino. Insomma pare inevitabile che nei reggimenti liberi al
mutarsi della opinione generale della nazione, segua un alternarsi di partiti
al governo, però in grado diverso di estensione e di rapidità. Fra tutti poi
il governo parlamentare più ancora di quello strettamente costituzionale e
rappresentativo, sembra non potersi disciogliere dalla condizione di essere
un governo di partito.
E qui bisogna definire la parola partito. Io ritornerò fra breve sulle sue
origini, ma dico che oggi s’intende per partito un’accolta di uomini aventi
voce nella cosa pubblica i quali concordano nelle massime fondamentali circa
il modo di governare, e cooperano tutti insieme affinché siffatto modo e non
altro si tenga.
Sotto il governo assoluto è evidente che l’opinione del Capo dello Stato è la
sola decisiva. Se il più delle volte esso porge ascolto e si piega al
consiglio dei suoi ministri, se questi alla volta loro sentono l’influsso
dell’opinione pubblica, però la finale deliberazione spetta ad un solo il
quale non ha obbligo di consultare chicchessia, né di render conto ad alcuno
del suo operato. Vero è che anche nei governi assoluti formasi a poco a poco
una abitudine di regolarità e di legalità che è rappresentata da quella che
chiamasi burocrazia la quale talvolta tien fronte anche ai soprusi dei
superiori, ma veri e propri partiti politici non appariscono. Vi sono bensì
forze occulte, sette, cospirazioni, congiure nel popolo, e nelle corti
intrighi di anticamera, e quindi mutazioni di politica e paci e guerre per
azione segreta di ministri, o di cortigiani: ma non è ciò che noi trattiamo
al presente.
Quando invece i cittadini pigliano parte alla cosa pubblica, allora si
formano e si manifestano partiti diversi. Pongasi pure in tutti lo scopo
sincero del bene della patria, ma nel giudizio dei mezzi che vi conducono non
può non esservi diversità di opinione fra gli uomini. Onde discende che
coloro i quali intendono di seguire certi concetti loro comuni, e vogliono
che si operi ad un medesimo modo nelle parti più sostanziali del pubblico
reggimento, fanno accordo fra loro, e se non espressa pur vi ha una tacita
intesa che li collega. L’idem de republica sentire è insomma il fondamento
che natura pone al partito politico: ma siccome non tutti possono idem
sentire in tutto, indi nasce la distinzione dei partiti.
Molte poi sono le cagioni che a formarli cooperano. Dapprincipio la natura e
la disposizione dell’animo per la quale altri è spontaneamente avventuroso e
amatore di novità, altri cauto e peritoso teme che ogni cambiamento sia un
male, e questi sarà di necessità più conservatore di quello. Alla natural
disposizione bisogna aggiungere la tradizioni di famiglia, perché se qualche
antenato si è illustrato nella difesa di alcuni principi, molto probabilmente
il figlio o il nipote si terranno legati quasi dall’onore del casato a
professare le medesime idee con vivacità e fierezza, e di ciò abbiamo in
Inghilterra copiosissimi esempi. Segue l’educazione i cui effetti nella
maggior parte degli uomini sono sommamente notevoli. E infine le circostanze
in mezzo alle quali un uomo è vissuto, gli amici della sua giovinezza, i
maestri, i compagni di studio determinano nella sua mente una maniera di
giudizio che diviene abituale, e nella quale poi l’amor proprio, il
sentimento di coerenza e di dignità lo mantengono tenacemente.
Finalmente a tutte queste cose sovrasta, e profondamente le modifica
l’interesse privato, potentissima molla dei pensieri e delle azioni, che
spinge l’uomo ad abbracciare un partiti piuttosto che un altro, secondo la
speranza ch’egli ha di trovarvi potenza, ricchezza ed onori. Però l’interesse
non è la sola molla del cuore umano come taluni pretesero. Il dimostrarlo né
si appartiene a questo libro, né sarebbe qui opportuno; ma per riguardo ad
opinioni politiche, io ricordo di aver udito raccontare nella mia infanzia di
due bolognesi dei quali la legislazione napoleonica, improvvisamente
introdotta, mutò in tutto le condizioni. L’uno che doveva essere erede di un
gran patrimonio fidecommissario rimase pressoché misero, e l’altro per
libertà del testare divenne ricchissimo. Eppure questi perseverò nell’essere
nemico giurato dei nuovi ordini, quegli si gettò a piene vele nella tempesta
della rivoluzione. Pertanto si può concludere che i partiti hanno una
necessità razionale e storica e che molte e varie cagioni determinano gli
uomini ad aderire all’uno più che all’altro. Questo riguarda il singolo
cittadino o, per usare una locuzione moderna, il subbietto.
Ma ci è un’altra cagione obiettiva che contribuisce alla formazione dei
partiti, e dipende da ciò che le leggi sono proposte da pochi, ma discusse e
deliberate da molti, riuniti in una o più assemblee. Ora per guidare
un’assemblea ad un dato fine è d’uopo disciplinarla. Se ciascun membro di
essa in ogni articolo di legge volesse far prevalere il proprio concetto a
quello degli altri, e perciò votasse sempre e soltanto secondo il proprio
giudizio individuale, ne verrebbe tale una confusione nel risultamento delle
discussioni e delle votazioni da rendere l’opera legislativa dell’assemblea
piena di discrepanze. E il Ministero che dovrebbe goderne la fiducia sarebbe
di giorno in giorno messo a repentaglio di perderla. Quando invece si formano
due grandi opinioni o partiti, in favore e contro i principii generali che
informano la legge, ivi ognuno del trionfo di questi principii pospone una
parte delle sue opinioni secondarie, sicché l’opera legislativa riesce
coordinata e fra sé medesima congruente. Così il fatto stesso di procedersi
per mezzo di assemblee rende necessaria la costituzione dei partiti. E
finalmente vi sono taluni casi nei quali è mestieri che un’assemblea voti
delle leggi o delle imposte che sono impopolari. Indarno il deputato singolo
cercherebbe in sé medesimo, o nel puro sentimento del dovere la forza di
sfidare questa impopolarità: ciò che lo anima, lo rinfranca, lo induce a
farlo, è il sentirsi strettamente unito a molti altri suoi colleghi che hanno
gli stessi interessi e gli stessi obblighi, e che prendono con lui la
responsabilità della deliberazione. Aggiungasi infine che la Costituzione dei
partiti induce necessità di stabilire principi direttivi chiari e coerenza
nel seguirli: e però fermezza di carattere in coloro che li abbracciano, e
nelle assemblee deliberanti una disciplina efficace.
Cesare Balbo in quel suo libro della monarchia rappresentativa in Italia che
sventuratamente rimase incompiuto2 pigliò apertamente la difesa delle parti
politiche non solo dal lato della necessità ma della utilità; disse virtù dei
governi liberi in generale far che le fazioni diventino parti, virtù dei
governi rappresentativi in particolare, portar le parti della piazza alle
aule parlamentari, virtù della educazione politica ridurre le parti di
numerose e complicate che si mostrano talvolta, ridurle dico a due sole,
quella che sostiene il ministero e la opposizione. Imperocché il ministero
non sia che l’una delle parti che ha i suoi capi al governo. E invocò nelle
parti la disciplina: nemico a quei centri, mezzi centri, centri destri,
centri sinistri quasi rose di venti e di tempeste: nemicissimo a quelli che
si dicono indipendenti, e che si destreggiano fra l’una parte e l’altra senza
convincimento di sorta alcuna.
Che se guardiamo all’Inghilterra come esemplare, ci è facile di scorgere che
la divisione dei partiti è la tessera che ci conclude attraverso la storia di
quella grande nazione. Il Macaulay nel suo libro ne registra per dir così la
data del nascimento3 : "Quel giorno, dic’egli, in cui le Camere di nuovo
si radunarono (narra del Parlamento, chiamato lungo, che dopo aver seduto per
dieci mesi, e pigliato un riposo di sei settimane, si riuniva di nuovo
nell’ottobre 1641) è una delle date più notevoli della storia inglese.
Imperocché da quel giorno presero ordinata forma i due grandi partiti che
d’allora in poi occuparono a vicenda il governo. In un certo senso può dirsi
che esistevano anche prima, e allora solo divennero manifesti, anzi può dirsi
che v’erano stati sempre, e sempre vi saranno. La differenza loro trae
origine da differenze naturali di temperamento, d’intelletto, d’interesse le
quali non verranno meno sinché le menti umane non cessino dall’essere tirate
in opposta parte dal compiacimento dell’abitudine, o dalla vaghezza della
novità. Non solo in politica, ma in letteratura ed in arte, nelle scienze
stesse, nella chirurgia, nella meccanica, nella nautica, perfino nella
matematica se ne scorgono i segni. In ogni tempo vi furono uomini che
guardavano con affetto a tutto ciò che è antico, a anche dopo esser stati
convinti della bontà ed utilità di una innovazione, non seppero risolversi ad
accettarla che a mal in cuore. In ogni tempo vi furono uomini di vivide
speranze, e di calda fantasia che inoltrandosi arditamente non tennero conto
dei rischi e degli inconvenienti che le innovazioni seco adducono,
volenterosi di chiamar progresso qualsiasi mutamento. Negli uni e negli altri
v’ha una parte da approvare, ma gli esemplari loro migliori si trovano non
lungi dalla comune frontiera. Color che più si dilungano da quel mezzo da una
parte sono retrivi e bachettoni, dall’altra empirici spensierati o
temerari".
E il Grey4 notò similmente che il governo parlamentare è essenzialmente un
governo di partito, avvegnacché la condizione precipua della sua esistenza è
che i ministri della Corona possano dirigere l’opera del Parlamento, e
l’esperienza ha provato che nessuna assemblea popolare può essere diretta con
perseveranza senza capi riconosciuti, e senza un buon ordinamento di partiti.
E basta leggere gli scrittori speciali5 per esser persuaso di quanta
efficacia il sistema delle parti sia stato al governo della cosa pubblica, e
al bene nazionale.
Burke, uno degli ingegni più robusti e più acuti nelle scienze politiche,
definisce e difende il tema così: "Un partito è una riunione di uomini
collegati insieme per favorire in comune coi loro sforzi il bene della
nazione, inteso da essi secondo certi principi sui quali sono tutti
d’accordo. Gli uomini che pensano liberamente possono in qualche punto non
pensare egualmente: però siccome la maggior parte dei provvedimenti che si
debbono pigliare, hanno relazione o dipendenza da qualche principio che si
reputa di grandissima importanza per l’andamento della cosa pubblica, così è
da credere che sarebbe disavventurato colui che nella scelta dei suoi amici
politici non accordasse con essi delle dieci almeno nove volte". E
altrove: "I buoni effetti dello spirito di partito in Inghilterra son
molteplici e importanti. Il primo è che dà stabilità alle opinioni varie,
sottili, fuggevoli degli uomini politici, rannodandole in modo duraturo e
principii saldi e costanti. Il vero uomo di parte ha in sé certe norme
generali di politica, simili alle leggi universali della morale, secondo le
quali risolve qualsivoglia questione nuova e dubbiosa. La fede nella
giustizia di quei principii lo mette in grado di resistere alle tentazioni
dell’interesse, e ai sofismi coi quali vengono innanzi o si propugnano
speciosi disegni; la sua condotta acquista un abito fermo, che si collega
alla dirittura della mente, e all’integrità dell’animo. Infine la unione di
più persone negli stessi pensieri accresce il vigore necessario a sostenere
provvedimenti che rimarrebbero negletti o ineffettuabili, e talora a prima
giunta repugnanti, i quali nondimeno mercé gli sforzi gagliardi e indefessi
di un partito, finirono per diventar legge e produrre frutti copiosi di
pubblica utilità ".
A questi pregi altri ancora se ne potrebbero aggiungere. Prima di tutto gli
uomini per la speranza di poter salire al governo quandocchessia
legittimamente, e far trionfare le opinione loro, sono indotti a vincere la
naturale impazienza che li spingerebbe a combattere a tutta oltranza ciò che
alla volontà loro si oppone, e a minacciare eziandio la pace pubblica
piuttosto che rassegnarsi ad attendere con longanimità che venga la volta
loro di governare. E’ questo un altro risguardo dell’idea già espressa che i
partiti spengono le fazioni, e che le divisioni utili spengono le dannose: la
qual cosa fu avvertita anche dal Macchiavelli come avrò occasione di
ricordare più volte. E certo se il partito opposizione in Francia al tempo di
Luigi Filippo, non fosse stato sempre troppo rigidamente tenuto lontano dalla
cosa pubblica, si può verosimilmente credere che la rivoluzione del 1848 o
non sarebbe avvenuta, o avrebbe ritardato di assai tempo. In questo senso
potrebbe dirsi che sia stato anche giovevole all’Italia che il partito della
Sinistra sia venuto al governo nel 1876.
Taluni scorgono eziandio nelle gare dei partiti e nell’alternarsi loro alla
direzione della cosa pubblica una feconda necessità di acuire l’ingegno e di
scoprire ognora nuove provvisioni e nuove sorti di beni pel popolo a fine di
guadagnare la fiducia. Imperocché come afferma un recente scrittore, in un
paese libero nessun partito può arrogarsi il monopolio degli statisti abili,
e neppure può dirsi in certi momenti esente da errori .
Ma il Grant Duff disse un giorno che nella mutabilità dei ministri, la quale
è effetto appunto di codesto alternarsi delle parti al governo di che
parliamo, scorgeva anche un altro vantaggio, quello cioè che di sciogliere le
questioni tecniche dalle pastoie dicasteriche. La burocrazia, diceva egli,
finirebbe alla lunga col signoreggiare i ministri ed imporrebbe loro una
decisione a suo grado. Ma l’intelligenza fresca del nuovo ministro vi si
oppone, ed impedisce che l’amministrazione irruginisca, divenga troppo
sollecita delle forme, e invada anche il campo della politica.
Da ciò si vede che la formazione dei partiti ha le sue cagioni naturali,
razionali, storiche, e di civile utilità. Non so che in Inghilterra questa
teoria sia stata contrastata da alcuno, che anzi forma per dir così un
articolo del credo di quegli uomini politici. Non già che non si avvertissero
nel passato, e non si avvertano anche oggi gli inconvenienti del sistema, ma
i vantaggi sembrano di gran lunga maggiori. Pure fra coloro che fecero più
amara critica dei partiti havvi lord Brougham del quale gioverà ricordare le
considerazione .
Ciò che colpisce la sua mente innanzi tutto è che quando un partito ha il
governo nelle mani, l’altro che ne rimane escluso, non può rendere alla cosa
pubblica tutti i servigi ai quali sarebbe atto. Ecco, dic’egli, uomini
illustri, saggi, eloquenti, patriotti ardentissimi. Perché militano essi
sotto opposta bandiera? Se mirano a servire la patria collo stesso obbietto
del pubblico bene, perché i loro atti si contrariano invece di unirsi? Perché
adoprano gagliardi sforzi e pongono talvolta in atto virtù eroiche non al
fine di resistere a nemici della terra nativa, ma per combattersi fra loro?
Invero chi ben guardi direbbe che la sostituzione è una grande anomalia
perché esclude dal servire la patria una metà degli uomini più capaci, e
costringe codesta metà a logorar le sue forze in un conflitto coll’altra,
anzicché riunirle insieme, e rivolgerle al bene di tutti. Dicono i teorici,
segue il Brougham, e i caldi propugnatori del sistema, che la origine dei
partiti sta nella differenza delle opinioni e dei principii: ma chi ficca gli
occhi al fondo ci trova invece di questo testo romantico un testo più
positivo, quello degli interessi. La storia inglese è secondo il parer suo
quella di alcuni grandi uomini e di alcune nobili famiglie che si contendono
la potestà, le ricchezze, gli onori. E le due parti ebbero quasi sempre molte
idee comuni, ma quel che era bene per gli uni diventa un male se proposto
dagli altri. Le leggi di coercizione, e la sospensione anche temporanea della
costituzione, erano abborrite dai Whigs se le proponevano i Tories: venuti sù
quelli, essi stessi le proponevano egualmente. I Whigs quando ritornavano
nell’opposizione, erano per la pace e per le economie; saliti al governo non
si curavano né dell’una né delle altre. Se Burke e Fox fossero stati ministri
al momento della grande ribellione americana, non avrebbero certo ricusato di
reprimerla né si sarebbero ritirati dall’ufficio per questa cagione: ma
essendo invece all’opposizione, divennero caldi fautori degli americani. E
perché la emancipazione dei cattolici, e le altre riforme che i Tories
avevano fieramente combattuto, furono poi da essi stessi messo innanzi per
ciò solo che riguardavano codeste riforme come mezzo di conservare il
governo? Però lo stesso autore fa poco appresso un’altra considerazione che
in parte distrugge l’efficacia del suo argomento ed ‘ la seguente. Posto
ancora che i partiti si formino per interesse e per cupidità, non è men vero
che sono costretti a scegliere un certo indirizzo e professare certi principi
determinanti che espongono al popolo con accento di persuasione. E siccome il
popolo non pone in dubbio la sincerità loro e poco si briga d’investigare se
le opinioni professate siano o no un mezzo di afferrare il governo, ma le
accetta in buona fede, così l’opinione popolare finisce per esercitare un
influsso notevole sui suoi capi, e per così dire li incatena anche loro
malgrado, alle massime che hanno proclamato. Ma rimane pur sempre vero che da
codesto sistema due mali inevitabilmente provengo: la impotenza nella quale
tutta una schiera di uomini abilissimi è messa di servire utilmente il paese,
perché non appartiene al partito che governa; e la perdita di forze utili che
nel giuoco dei partiti troppo sovente si logorano per combattersi a vicenda
anche a discapito del vero e del giusto.
Nondimeno dopo tutte queste considerazioni il Brougham non sa escogitare
miglior forma di reggimento, anzi non immagina pure che un’altra le si possa
sostituire, onde la necessità di accettare gli inconvenienti in risguardo ai
benefici, dei quali a vero dire usufruì largamente il gran Cancelliere: se
non che potrebbe dirsi che mentre esso fu eccessivo ed ingiusto
nell’assegnare ai partiti come origine il solo interesse privato, non fu poi
abbastanza profondo nell’analizzare gli inconvenienti.
E per vero anche rimanendo nello stesso ordine di idee da lui messe avanti,
quello cioè che una parte degli uomini più eletti sono rimossi per cagioni di
partito dal prestare utili servigi alla patria, egli avrebbe potuto andare
più innanzi, e deplorare altre conseguenze; come questa per esempio che un
ministro abilissimo talvolta sia costretto a rinunziare al suo ufficio per
una questione che non lo riguarda punto, e forse appena tocca l’indirizzo
generale della cosa pubblica. Poniamo un militare valoroso, sapiente
ordinatore di eserciti, servo nel mantenere la disciplina, pronto a cogliere
e usufruttuare al bene della sua nazione ogni miglioramento che la scienza e
l’arte discoprono: eppure quest’uomo potrà esser costretto a lasciar le
redini del suo dicastero per una questione di tariffe doganali, di relazioni
fra Stato e Chiesa o checché altro, quando il primo ministro ne abbia fatto
argomento di fiducia o di sfiducia dell’assemblea. E però non è destituita di
fondamento l’osservazione di uno scrittore americano che nel governo
parlamentare rade volte l’uomo può esercitare a prò della patria tutte le
facoltà ond’è dotato, e n’é impedito tal fiata per cagioni al tutto estranee
alla propria abilità. E se si aggiunge che il Parlamento piglia gran parte
della sua giornata, non solo per giustificarsi quanto ha operato, ma altresì
per maneggiare quella che chiamasi tattica delle assemblee, e che perciò egli
deve in cose estranee al còmpito suo, dissipare parte di quelle forze che più
utilmente sarebbero state adoperate nell’ufficio assegnatogli, se ne trae la
conclusione che la forma parlamentare non sia atta a cogliere il massimo e
miglior lavoro che ciaschedun uomo potrebbe, secondo la sua idoneità, fornire
allo Stato.
Chi volesse ritrarre tutti gli argomenti che dalle condizioni dei partiti
hanno cavato le varie scuole filosofiche o politiche che per varie cagioni
avversano il reggimento costituzionale, avrebbe gran messe. Ma non potendo
dilungarmi troppo, né entrare in considerazioni spesso estrinseche al
subbietto, dico solo che il Brougham ha dimenticato più altri inconvenienti
che pur colpiscono la mente di chi media sull’argomento.
Gravissima è per me la contraddizione fra il motivo onde gli uomini politici
sono innalzati al governo della cosa pubblica, e una delle tendenze più
spiccate del tempo moderno. Imperocché il progresso delle scienze, e la
divisione del lavoro che ognor più si attua in ogni maniera di opere, e di
produzione, sembrano richiedere che il governo sia posto nelle mani non solo
degli uomini più capaci in modo generico, ma di quelli che sono più
specialmente versati, e propriamente periti nelle parti che debbono
esercitare. Avverta bene questo punto il lettore, che al nostro tempo ogni
pubblico servigio tende a diventare scientifico e tecnico. Ora la forma
parlamentare e il governo di partito sono l’antitesi di questo principio.
Imperocché nella scelta di un ministro più che della competenza si dee tener
conto delle opinioni politiche che egli professa: laonde se le due cose si
trovano riunite in un uomo, egli è più per accidente che per intrinseca
necessità. Si direbbe quasi che l’uomo di partito debba avere per virtù
infusa tutte le attitudini, avvegnacché non sia raro il caso che venga
chiamato indifferentemente a reggere le finanze, la marina o i lavori
pubblici. Il quale difetto si riscontra eziandio presso di noi, e fa pietà
veder tal fiata collocati a reggere un dicastero tecnicissimo degli uomini
che in vita loro nulla mai conobbero, nulla mai studiarono della materia.
Un altro difetto dei governi di partito è la esagerazione delle proprie idee
che nasce dal continuo considerare i fatti sotto un solo aspetto, e
dall’abitudine di contraddire ad ogni idea opposta alla propria, e quindi la
ostinazione nell’errore, la quale si coonesta col nome di fedeltà al partito,
e si glorifica come virtù. Di tal guisa l’uomo diviene unilaterale nei suoi
giudizi; e riesce poi inetto a scorgere ciò che può esservi altrove di vero;
e questa esagerazione delle proprie idee, e questa ostinazione nel negare ciò
che può esservi di buono nelle idee diverse, abitua gli spiriti alla
parzialità dei giudizi e il difetto ripetuto diventa vizio. Finalmente si
forma quello spirito politico che se non nerro il nostro abate Galiani
parlando degli inglesi chiamava monacale, onde un’accolta d’uomini che pur hanno
libero pensiero, e digiogata volontà, si acconciano a severa disciplina
infrenatrice dell’uno e castigatrice dell’altra; e si vantano di vivere in
soggezione, fino al punto che qualunque deviazione dalle idee del partito
pare loro apostasia e delitto. Lascio stare il patronato e la clientela che
si forma di questa guisa, per la qual cosa si cerca sempre di innalzare gli
amici proprii, colmarli di favori, respingere gli altri, e chiuder loro al
possibile l’ardito a salire: ma di ciò più innanzi. Egli è certo che pel
maggior bene della cosa pubblica sarebbe a desiderarsi che i dissensi fra
coloro che rappresentano il popolo fossero men lati, e men aspri che sia
possibile, e si cercasse colla persuasione di accostarli, o almeno di toglier
loro ogni acerbità. Ma in quella vece lo spirito di parte infervorandosi
produce l’effetto contrario, rende cioè ogni dissenso più spiegato ed acre,
più ancora che nol sarebbe per sé medesimo naturalmente. Di guisa che può
dirsi che se la discrepanza delle opinioni è cagione prima dei partiti, la
costituzione dei partiti a sua volta stimola la discrepanza delle opinioni, e
ne allontana la conciliazione. Imperocché quando si sono formate delle
aderenze e delle tradizioni, sciolto un problema che formava oggetto di
disputa si va in traccia di un altro: sicché in taluni casi non è la
questione variamente intesa e risoluta che giustifica il partito, ma è il
partito che suscita la questione nel proprio interesse.
Ognun vede che di fronte ai pregi del governo di partito stanno non pochi
difetti. Oltre a quelli accennati da Lord Brougham, io vi scorgo la negazione
della tendenza scientifica e tecnica, la parzialità e la esagerazione delle
idee, la repugnanza infine a conciliare i dissidi col partito avverso, anche
laddove il farlo sia agevole ed utile alla patria.
Sarebbe possibile aver un governo libero, costituzionale, parlamentare, senza
che sia governo di partito? Questo fu proposto da alcuni, e fu anche tentato
di risolvere, ma ne parlerò più particolarmente nel capitolo terzo. Per ora
mi ristringo a dire che i difetti che abbiamo descritto sopra sembrano insiti
a tutte le forme di libero governo, ed esercitano un influsso notevole sulla
politica, sull’indirizzo generale interno ed esterno, e più o meno eziandio
sulla formazione delle leggi. Ma non sono i soli difetti. Ve n’hanno altri i
quali non sembrano così connaturali al governo di parte, ma che però
facilmente vi si aggiungono ed arrecano mali gravissimi. Uopo è dunque che li
esaminiamo con qualche diligenza, poiché, come porta anche il titolo del
libro, è intorno ad essi che si svolge principalmente la nostra trattazione.
DI ALTRI MALI CONSEGUENTI DAL GOVERNO DI PARTITO.
SUE INDEBITE INGERENZE NELLA GIUSTIZIA E NELL’AMMINISTRAZIONE
I mali che intendo descrivere in questo capitolo
non sono così insiti al governo parlamentare, che non sia agevole immaginarlo
anche spoglio di questa triste accompagnatura. Si potrebbero dire
accidentali, sebbene la forma del governo vi presti occasione ed aiuto, ma
riescono assai più pericolosi di quelli che abbiamo discorso. E sono di varie
maniere; e chi volesse comparare il corpo sociale col corpo umano, direbbe
che gli uni sono morbi acuti, e cronici gli altri.
Ma dei primi non intendo intrattenermi. Così come non mi sono proposto
d’investigare il valore del governo parlamentare in sé stesso e in confronto
degli altri, in tal guisa non mi soffermo ad esaminare come possa rimutarsi
per la violenza dei partiti. Veramente qui non si tratta più di partiti
propriamente detti, ma di fazioni. ben potrebbe oppormisi che una volta
costituito il partito, sia facil cosa, e la storia ne porge abbondevoli
esempi, che ove esso senta di non poter giungere per vie legittime al
governo, si sforzi di afferrarlo con audaci usurpazioni. Poterono i francesi
nel luglio 1830 addurre a cagione del rivolgimento loro le ordinanze
contrarie alla Carta, ma la Carta era fondata sulla inviolabilità della
Corona, e sulla responsabilità dei ministri, sicché a buon diritto si
dovevano accusare e condannare questi; non dovevasi espellere la dinastia. Ma
a Luigi Filippo non poté neppure imputarsi la costituzione violata, sibbene
una soverchia rigidezza nel non allargare le franchigie, e anche
pusillanimità, e poca cura della dignità nazionale. E che dire della Spagna
dove un manipolo di soldati abbatteva gli ordini costituti, e ne costituiva
dei nuovi, finché altri mosso da pari libidine di potere e parimente
assecondato da ambizioni militari, rinnovasse la prova di rovesciarli in
senso opposto? Che dire del Portogallo, dove un vecchio ottuagenario
sprofondato nei debiti, per cupidigia di danaro, sforzava il Re a mutare
ministri contro la volontà della nazione? Che dire della Grecia che mutò non
solo ministri, ma Re? Felice l’Italia dove finora né plebea violenza, né
soldatesca indisciplina poté attentare allo Statuto; e dove la dinastia è
fondata sull’affetto e sulla devozione popolare. Questo stato di cose durò
prima dodici anni in Piemonte, e dura da oltre venti anni in Italia, e se il
filosofo può osservare che troppo è breve il periodo per state a piena
fidanza , che come in Inghilterra, le fazioni non pervengano mai a
impossessarsi della cosa pubblica, nondimeno dai fatti passati giova prendere
fiducia nell’avvenire.
Oltre a queste che chiamerei catastrofi, v’ha un altro guaio nei governi
elettivi ed è che lo spirito di parte mette in opera mezzi disonesti per far
eleggere i suoi, e mira a falsificare la rappresentanza nazionale, di che gli
esempi non sono rari. Laonde si fecero leggi dovunque per punire le frodi, le
venalità, le intimidazioni, i brogli elettorali. Ed è singolare che
l’Inghilterra donde prendiamo sempre giustamente gli esempi, n’é stata
grandemente inquinata in ispecie nel secondo passato. E non pure inganni e
brogli e corruzioni per essere eletto, ma per acquistare voti e per
cattivarsi proseliti dentro la Camera. Sarei troppo lungo se volessi riferire
ciò che gli scrittori inglesi unanimamente descrivono, soprattutto dei tempi
di Roberto Walpole primo ministro, del quale si narra che soleva dire aver
egli la tariffa della coscienza di tutti i deputati. E sebbene queste colpe
degli elettori e degli eletti siano venute colà sempre scemando, nondimeno si
riconobbe necessario di stabilire nuove e più severe leggi punitive, l’ultima
delle quali se non erro è del 1854. Ma io mi passo anche di questa categoria
di mali che pur sono accidentali, e intramezzano fra quelli che ho detto di
violenza, e gli altri dei quali entro a parlare.
Imperocché i mali dei quali intendo discorrere appartengono ad un’altra
categoria diversa da tutte quelle che ho sopra indicato; e come non si
riferiscono ai difetti che si apparvero per dir così inseparabili dal governo
di partito, così neppure a catastrofi violente di Stato, né a brogli
frodolenti di elezioni. Invero la forma parlamentare muove la inclinazione,
appresta la facilità, lo sdrucciolo ad incorrervi, pure non si dee
riguardarli come sì fattamente connaturali in essa da non potersi evitare
almeno in gran parte. E ciò basta perché siano studiati accuratamente in sé
medesimi, e nei rimedi loro. Perché se alle fortunose catastrofi, se alle
storiche corruzioni, se alle inevitabili imperfezioni del governo
parlamentare si aggiungono anche altri mali che non appartengono all’essenza
sua propria, e che impediscono la sicurezza e la prosperità del cittadino,
può addivenire, come io dissi sopra, che a lungo andare quel Governo non solo
apparisca dannoso e contrario al bene pubblico, ma eziandio spregevole alle
popolazioni.
Innanzi tutto bisogna distinguere l’indirizzo generale della politica dalla
pubblica amministrazione, e dalla giustizia. L’indirizzo generale della
politica comprende i criteri ed i metodi da seguirsi nella condotta degli
affari interni e nelle relazioni coi potentati stranieri, e concetti secondo
i quali si mantengono o si riformano le leggi esistenti, o se ne propugnano
di nuove, e infine certi provvedimenti straordinari richiesti da pubbliche
necessità. E questo propriamente è il campo assai vasto dove la diversità
delle opinioni e l’azione dei partiti apparisce legittima. Codesto indirizzo
generale politico può adunque mutarsi col mutare del ministero, e sovra di
esso al Parlamento si appartiene esercitare continuo sindacato.
Ma tale non è la giustizia né la pubblica amministrazione. La giustizia è in
vero un ramo della potestà esecutiva, ma un ramo che indipendente opera, e
per mezzo di tribunali sentenzia del diritto dei cittadini e lo restaura se
violato, riconosce i delitti e li punisce: fondamento precipuo dell’ordine
sociale. Laonde il primo tratto si mostra dover essere estranea in tutto alle
mutazioni di partito. La qual verità è teoricamente riconosciuta da ognuno,
anzi non si fa altro che parlare della imparzialità dei magistrati, anche da
coloro che in fatto la insidiano.
Diversa dalla giustizia è l’amministrazione pubblica, della quale è bene
delineare le fattezze generali, imperocché il cittadino ha attinenze con essa
quasi in ogni momento della vita. Il Messedaglia1 notò molto accuratamente la
distinzione fra il giudice e l’amministratore. Il giudice non agisce
direttamente, e per effetto immediato della sua funzione, ma lascia che
agiscano gli altri, ed egli si limita a dirimere i conflitti, mantenere a
ciascheduno la sua posizione di diritto, reprimerne la violazione. Inoltre
esso risponde soltanto della legalità e giustizia delle sue decisioni secondo
coscienza, ma non mai delle conseguenze di utilità o di danno che ponno
derivarne. Quindi la sua funzione è assolutamente passiva, repressiva,
irresponsabile. L’amministratore per lo contrario deve agire in virtù del
proprio ufficio, ed al fine dell’interesse pubblico. La legge che lo riguarda
non è solo una norma che egli debba far rispettare da altri, ma è la norma
dei suoi proprii atti: la sua funzione è quindi essenzialmente attiva,
preventiva, responsabile.
L’azione dell’amministratore è complessa. Si può distinguere la direzione che
si estrinseca colle ordinanze, coi decreti, colle istruzioni; l’ispezione
all’adempimento delle leggi e dei regolamenti; l’esecuzione di tutto ciò che
per legge, o per facoltà speciale dee fare o crede necessario di fare pel
pubblico bene; il sindacato dei corpi civili che gli sono soggetti; e
finalmente il giudizio sui ricorsi. Ma di questa parte dei giudizi, e della
distinzione fra il contenzioso amministrativo e il contenzioso giudiziario
tornerà opportuno il discorrere là dove parleremo dei rimedi. Ciò che abbiamo
detto sopra ci pare bastevole a delineare la distinzione fra giustizia e
amministrazione. A mostrare poi la importanza di quest’ultima basti
l’osservare che non c’è cittadino che o per le tasse, o per la leva, o per la
polizia, o per i servigi pubblici, o per le scuole, o per la proprietà, o per
l’industria, per pel lavoro non si trovi quasi quotidianamente in attinenze
coll’amministrazione: si direbbe quasi ch’ella c’involge da ogni parte;
imperocché nelle moderne costituzioni ha preso anche in molti rispetti il
posto della Chiesa come in tutte le funzioni dello Stato civile dal
nascimento sino alla morte.
Basta scorrere col pensiero le attribuzioni di tutti i ministeri onde è
composto un governo moderno per iscorgere la vasta tela dell’amministrazione
pubblica. Dico di tutti i ministeri, in quanto che anche quello di Grazia e
Giustizia è un organo amministrativo dirigente, non è per potestà
giudicatoria. Il ministero dell’interno ha nella società odierna un compito
amplissimo. La sua azione preventiva si stende a tutto ciò che riguarda la
sicurezza pubblica ed è quella parte che si chiama propriamente polizia, la
quale comprende la vigilanza e la prevenzione dei reati, e la immediata loro
repressione. E quando il tribunale abbia pronunziato una condanna, ad esso
appartiene la custodia dei rei, e l’ordinamento dei luoghi di pena. Né la
vigilanza preventiva riguarda solo i reati, ma inoltre tutto ciò che può
mettere a repentaglio la sanità pubblica, od offendere il costume. Quindi
appartiene al ministero dell’Interno fare provvisioni nei casi di malattie
epidemiche, di epizoozie e ancora sull’esercizio delle farmacie, sulla
vaccinazione, sulle arti insalubri, od pericolose e va dicendo. Un altro
compito dell’amministrazione interna è l’alta tutela dei corpi locali,
Provincie, Comuni, Opere Pie tanto per la osservanza della legge quanto per
alcuni interessi generali. E quando esse vengono meno agli uffici assegnati
loro dalla legge, ne emenda il difetto inscrivendo nei bilanci loro le spese
obbligatorie, ne approva i resoconti e di alcune istituzioni nomina persino i
direttori. Spettano ad esso gli archivi pubblici, ed eziandio alcune parti di
beneficenza. L’ordinamento dell’esercizio di terra e dell’armata di mare, e
tutto ciò che serve alla difesa Stato è affidato all’amministrazione della
guerra e della marina. Quindi leva di soldati e di marinai, costruzioni di
fortilizi e di navi, caserme, armamenti, approvvigionamenti, e a tutti
codesti fini contratti di ogni genere; né ciò solo, ma altresì scuole di
guerra, e di nautica. E invero una parte notevole dell’istruzione pubblica, o
direttamente o indirettamente, appartiene all’amministrazione. E’ lo Stato
che abilita i giovani che escono dalle Università o dagli Istituti ad
esercitare le professioni che diconsi liberali: e ancora che determina i
programmi e il tempo degli studi che a tal uopo si richieggono. E’ lo Stato
che mantiene o sussidia le Università, gli Istituti scientifici, le Accademie
di belle arti, i Musei e i Ginnasi e i licei e le scuole normali, che infine
aiuta i Comuni a diffondere la istruzione elementare; le quali cose sono per
la maggior parte di ragione amministrativa. Colla costruzione delle strade e
colla manutenzione loro, coi porti, coll’inalveazione dei fiumi,
coll’apertura di canali, e con altre opere pubbliche di ogni maniera, lo
Stato agevola le comunicazioni dei paesi fra loro, favorisce l’agricoltura,
l’industria, i commerci e talvolta anche li incoraggia direttamente con
premi, e con pubbliche mostre. In taluni casi guarentisce la qualità dei
prodotti come nell’uffizio del marchio e in quello delle carte valori; in
altri casi come nella pubblicazione delle statistiche fornisce utili notizie
a tutti coloro che ne ponno abbisognare. Vigila gli Istituti di credito, i
mercati e le borse. La pesca, la caccia, le foreste, le miniere, certe specie
di coltivazioni sono soggette a norme amministrative prestabilite. E lo Stato,
fornisce esso medesimo pubblici servigi importantissimi come le poste, i
telegrafi, le ferrovie da esso esercitate. Inoltre una parte degli uffici
suoi delega o lascia esercitare ai corpi locali, alle Provincie e ai Comuni.
Di che si vede quanto ampia sia la sfera dell’amministrazione, la quale non
solo attua le leggi e i regolamenti, ma piglia provvedimenti minutissimi e
quotidiani. E questo còmpito gli porge facoltà di prescrivere certi atti,
d’impedirne altri, di farne spese, e persino di espropriare il cittadino
mediante proporzionata indennità. E per fare tutto ciò ha d’uopo di una
grande macchina composta di pubblici uffici fornita d’impiegati
gerarchicamente ordinati dai più alti minimi; e ha d’uopo altresì di mezzi
pecuniari, al quale fine riscuote le tasse che sono state decretate dal
Parlamento, ed esercita ogni negozio della finanza. E questa raccolta di
danaro, e questo esercizio di negozi forma un altro ramo vastissimo di
amministrazione. Da ciò nascono rapporti infiniti dello Stato cogli agenti
suoi propri e per mezzo di essi coi singoli cittadini, e similmente cogli
Enti morali.
Ciò che si detto sopra brevemente è più a modo di esempio che di
particolareggiata enumerazione, basta ad argomentare che se la imparzialità è
necessaria nella giustizia, non lo è meno dell’amministrazione. E quindi
l’azione dei partiti non solo dovrebbe essere assolutamente esclusa come suol
dirsi dal santuario della giustizia, ma eziandio dai dicasteri
amministrativi. Non si creda già che io voglia escludere il Parlamento
dall’esaminare e sindacare se i regolamenti furono fatti in conformità della
legge, se questa e quelli furono eseguiti appuntino, se nella materia nella
quale l’amministrazione procedette secondo i propri criteri, la sua azione fu
necessaria ed utile. Ma ciò per molta parte non porge argomento a differenze
di opinioni, o lo porge soltanto là dove si tratta dell’indirizzo generale,
il che appartiene alla politica. In tutti i particolari, e qualunque sia il
partito che abbia nelle mano il reggimento, esso dovrebbe lasciare che
l’amministrazione proceda senza riguardo al partito stesso, ma sibbene al
solo intento di conseguire i vari fini di utilità pubblica che si ricercano
nel miglior modo e più spedito che si possibile.
Ed eccoci pervenuti al punto fondamentale sul quale desideriamo che
l’attenzione degli studiosi si rivolga. Imperocché per raccogliere tutto in
un concetto, se l’essenza e lo scopo dello Stato sta nel rendere giustizia a
ciascheduno, e nel fare il bene di tutti, se le istituzioni politiche non
sono altro che mezzi e guarentigie per l’ottenimento di quel fine, che non
vede che la giustizia di partito e l’amministrazione di partito sono la
negazione dell’essenza e dello scopo medesimo dello Stato? L’ufficio dello
Stato è di sottoporre l’interesse di ogni cittadino e di ogni classe
all’interesse pubblico, il governo di partito inverte la gerarchia e
sottopone l’interesse pubblico ai suoi propri interessi: laddove ove ciò
fosse inevitabile nella forma costituzionale e parlamentare, si dovrebbe
concludere che vi è contraddizione fra questa forma di governo e il fine
razionale della società.
Ma sebbene ciò apparisca in massima evidente agli occhi di tutti, pure non
può negarsi che Ministri, Senatori, Deputati e uomini politici di ogni sorte
hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione, e
farvi penetrare spiriti partigiani per trarle a profitto di sé medesimi e
degli aderenti loro o almeno per conservare forte e vigoroso il partito,
diffonderlo coi benefici e colle minacce, e mantenere il governo nelle
proprie mani. Codesto periodo che spunta sempre dov’é governo il partito,
cresce e giganteggia là dove il reggimento costituzionale non si svolse
storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliazioni e di adattamenti;
ma successe di subito ad un reggimento assoluto, o sia che lo Statuto venga
ottriato dal Principe stesso o strappato da impeto popolare. Imperocché
l’amministrazione era ordinata conformemente all’indole e alle tradizioni di
una potestà dispotica, ne possiede tutti i congegni e le abitudini, sì
dell’arbitrio nel comandare sì della disciplina nell’obbedire. Ora tengasi
questo a mente, che un organismo fazionato ad obbedire ciecamente a chi
comanda senza riguardo a guarentigie, addiventa facile istrumento di un
partito quando questo ha in mano il governo.
Un dotto scrittore germanico, Rodolfo Gneist, che ha meditato queste cose con
più acume di ogni altro2 vien divisando così gli effetti di un governo di
partito impiantato com’egli dice sull’ordinamento amministrativo di uno Stato
monarchico assoluto. Il 1° effetto è l’abuso metodico delle forze governative
specialmente della polizia nell’interesse della maggioranza temporanea contro
la minoranza e delle classi più potenti contro le più deboli. Infinite
tentazioni ha il governo di valersi delle leggi e dei regolamenti per
molestare o nelle persone o negli averi coloro che la pensano in modo diverso
dal partito signoreggiante; quindi, premi ai suoi satelliti, vessazioni agli
oppositori. 2° Abuso metodico nella ripartizione degli impieghi per
accordarli ai suoi favoriti. Si pretende che l’impiegato partecipi a tutti i
pregiudizii del partito signoreggiante, o almeno facilmente vi si accomodi.
Né il silenzio basta sempre a preservarlo dalla persecuzione, e s’inventarono
le parole di bene o male intenzionato che furono argine di condiscendenza o
di animavversione. 3° dalle due cause precedenti nasce un’alterazione e
trasformazione profonda in tutto il diritto pubblico. La partecipazione
dell’impiegato al conflitto fra cittadini e cittadini divenendo condizione
necessaria alla conservazione del suo ufficio, lo abitua a giudicare le
legittimità di un atto non in sé medesimo ma a tenore della opinione politica
che domina. Le regole di avanzamento sono manomesse, le concessioni
industriali, le cautele della sicurezza pubblica, il diritto domicilio
perdono il loro natural valore, insomma tutti gli atti dello Stato sono
trasformati in promesse o in minacce. Lo scopo precipuo è quello di vincere
nelle elezioni. E mentre il Parlamento colla votazione del bilancio stima
d’infrenar il Ministero, questo invece con indebite ingerenze introduce i
suoi creati in parlamento, e lo padroneggia disonestamente, né rimette del
suo arbitrio se non quando sente certe correnti d’opinioni esser troppo forti
per resistervi, o quando teme di provocare conati rivoluzionarii. Insomma
allorché si congiunge insieme il sistema costituzionale inglese col sistema
amministrativo continentale non ne deriva già come in Inghilterra un partito
che governa, ma un governo partigiano, e il ministero non è come in
Inghilterra il centro degli ordinamenti legislativi, ma è lo strumento
d’interessi collegati che hanno in lor balìa tutte le forze di
un’amministrazione assoluta. Laonde a breve andare si manifesta la sua
impotenza a tutelare il diritto dei cittadini, e per rimbalzo a mantenere
integre le stesse istituzioni politiche, le quali non bastano da sole a
costituire un governo secondo la legge. Il cambiamento di sistema adunque non
ha mutato in questo caso la sostanza delle cosa, ma solo ha accelerato il
processo di dissoluzione.
Fin qui ho riepilogato le idee dello Gneist. Ora se guardiamo ai fatti che
l’esperienza ci ha posto innanzi, vediamo che sebbene l’Inghilterra possa
citarsi anche in ciò a modello, pure non fu al tutto immune di tal lebbra.
Vero è che il self-government (governo autonomo) preservò la nazione dei più
gravi mali. Imperocché la mercé di esso il cittadino inglese è veramente
libero e l’amministrazione é essenzialmente locale e indipendente dal governo
centrale, il quale non può aversi alcuna azione continuata e diretta. Ma per
opposte cagioni nelle azioni del continente europeo la tendenza biasimevole
di che parliamo fu di gran lunga maggiore, soprattutto nella Francia, nella
Spagna, nella Grecia, nella Italia. Si dirà che anche gli Stati Uniti
d’America ne porgono scandalosi esempi, ed è vero: ma quivi per ragioni
peculiari che esporrò più innanzi, sebbene l’ingerenza partigiana abbia
prodotto alcuni effetti speciali iniquissimi, non impedisce alla società di
correre il suo arringo con tale operosità che non fu mai veduta l’uguale nel
mondo.
Ho detto che anche l’Inghilterra non andò esente da difetti. E veramente
quello che fu chiamato patronage (patronato) fé sue prove di grande
parzialità e talora non senza scandalo. Fino a Giorgio III la Corona
praticava il patronato direttamente dando cariche ed emolumenti, inventando
quei posti che si chiamano sinecure per beneficare i suoi favoriti,
assicurando la successione degli uffici, assegnando pensioni segrete.
Parecchi atti del Parlamento, soprattutto quello del 1782 nel quale fu
segnalata l’opera del Burke, posero qualche freno a siffatti abusi. Ma le
grandi famiglie whigs spiegarono uno zelo straordinario nel patronato e
quando furono al potere collocarono gli amici loro e i parenti non solo negli
uffici dipendenti dai ministeri, ma in quelli dello colonie e della chiesa.
Nella inchieste e nelle discussioni che seguirono alla guerra di Crimea
apparve eziandio non ultima causa di molti guai, la facoltà di comprare i
gradi di ufficiale nell’esercito. Ora il metodo degli esami introdotto nel
servigio militare, e nel civile, e sopra ogni altra cosa la ognor crescente
ritrosia della pubblica opinione, tenace dell’autonomia personale e locale,
hanno sì fattamente temperato gli slanci di questo patronato, che al nostro
tempo Sir James Graham giunto alla fine della sua lunga vita poté affermare
risolutamente nessun abuso notevole essere più da temere per questa parte. Né
diversa è l’opinione di E. Fischel nel suo libro sulla costituzione inglese
il quale dice così: "La vicenda dei partiti non ha alcuna influenza sui
funzionari dell’amministrazione, avvegnaché i partiti stessi abbiano gran
cura della imparzialità dei servigi pubblici. L’amministrazione Inglese è
come una base di bronzo sulla quale si può collocare or l’uno or l’altro
ministero senza scuoterla. Sia capo del governo Lord Russell o Lord Derby il
piedistallo rimane immobile3 ".
Bensì per amor del vero, dobbiamo aggiungere che scrittori odierni come il
May e più tardi il Todde4 che ne invoca l’autorità, affermano senza
esitazione essere giusto il privilegio del ministero di preferire nella
nomina degli impiegati gli amici politici e sostenitori suoi ed osservano che
fra le facoltà che appartengono ad un governo ve n’ha poche più essenziali, e
più efficaci di questa delle ricompense. Il patronato, dicono essi, può
adoperarsi a promuovere gli interessi e consolidare la forza del partito; e
dentro certi limiti e quando non vi sia violazione di legge, giova come mezzo
di rimunerare i servigi passati, e di assicurarsi futuri aiuti. Però si
avverta che l’uno e l’altro di questi scrittori subordinano cotale privilegio
alla pubblica utilità. Tale è il concetto in Inghilterra; quando alla pratica
odierna ogni atto di tal genere si contiene in termini moderatissimi, e per
le ragioni dette sopra non può produrre effetto notevole, né pericolo grave
alcuno per l’avvenire.
In Francia le cose ebbero tutt’altro andamento: l’amministrazione fondata da
Napoleone I parve così coordinata, così perfetta (e lo era davvero sotto
l’aspetto delle prontezza e della efficacia di azione del governo, e della
puntuale obbedienza degli impiegati) che non solo non si pensò a mutarla, ma
i Borboni ritornando nel 1814 sul trono la conservarono e la riconfermarono.
Ma gli statisti non videro che soprapponendo a questa amministrazione un
governo parlamentare all’inglese, le due cose non solo non si unirebbero ma
l’una finirebbe con guastar l’altra.
L’Hello nel suo libro sul reggimento costituzionale ha rappresentato
vivamente lo stato delle cose a’ tempi della prima restaurazione, e della
monarchia orleanese. Ei descrive gli agenti dell’amministrazione trasformati
in agenti elettorali, e l’elettore spinto al voto più dagli stimoli loro che
dalla coscienza del proprio dovere; quindi il deputato stesso fatto
sollecitatorie degli affari de’ propri elettori, correre d’ufficio a
mendicare il favore dei ministri. Ma in ogni ministero, egli soggiunge, si
tiene un conto aperto al deputato: da un lato tutto le grazie che gli si
accordano, dall’altro il suo voto alla Camera nei momenti solenni, col quale
deve saldar le partite. E gli effetti di questo mercato si reputano tanto
utili, che l’amministrazione accredita essa medesima il deputato come
necessario mediatore negli affari. Essa lascia capire che ogni petizione, sia
pur giusta, per ottenere esaudimento con speditezza, vuol essere accompagnata
dalla raccomandazione del deputato, ed a lui ne partecipa l’esito prima che
ad ogni altro, affinché possa farsene merito presso i suoi protetti.
Similmente nella nomina degli impiegati più che delle doti pregevoli si tien
conto della protezione, e chi vuol salire sa che è spalleggiato meglio dal
favore altrui, che dalla diligenza propria. Di guisa che l’abilità elettorale
in prima e l’abilità parlamentare poi danno il tratto alla bilancia delle
ricompense. Così la natura delle istituzioni si falsifica e il governo
rappresentativo non è che una larva di morale e di civiltà5. L’ingerenza
della Camera nella distribuzione di ogni piccolo impiego, dice il Carnè6
diede esca ad una sorda opposizione del corpo amministrativo contro il
reggimento parlamentare, e fu questa una delle cause meno avvertite ma più
efficaci del discredito in cui cadde nell’animo delle popolazioni. La Camera
divenne un vivaio di ufficiali pubblici, e la possibilità che la deputazione
fossa scala agli impieghi e agli onori scatenò le più volgari ambizioni.
Chi discorra i gravami espressi sotto la prima restaurazione e nel tempo di
Luigi Filippo, troverà ripetute le accuse delle quali abbiamo levato solo due
saggi. Si finì per credere che i deputati erano servi degli elettori, e
cortigiani del governo, il quale a sua volta per poter fare assegnamento
sopra la maggioranza era costretto a soddisfare le meno oneste lor brame, o
almeno a lusingarne la vanità, e pascerli di speranze. Lo stesso Guizot che
tanta parte ebbe nel reggimento durante quel periodo, non può trattenersi
nelle sue memorie dal riconoscere quei difetti, ed elevandosi come ei soleva
a considerazioni generali afferma le seguenti proposizioni7: "Grande è
il disaccordo fra il governo rappresentativo istituito colla Carta del 1814 e
la monarchia amministrativa fondata da Luigi XIV e da Napoleone I. Là dove
come in Inghilterra e negli Stati Uniti di America, in Olanda ed in Belgio,
l’amministrazione è libera come la politica, e gli affari locali si trattano
e si decidono sul posto senza attendere impulso o risoluzione dell’autorità
centrale, il reggimento rappresentativo si concilia agevolmente cogli ordini
amministrativi perché questi non vi si collegano se non in poche e importanti
occasioni, ma quando la potestà nazionale ha il duplice compito di governare
colla libertà, e di amministrare colla centralità, di sostenere in parlamento
la pugna per i grandi interessi dello Stato, e contemporaneamente regolare
ovunque sotto la sua responsabilità quasi tutti i più minuti affari del
paese, ivi uno di questi due inconvenienti non tarda guari a scoppiare; o il
ministero intento agli affari generali e alla difesa propria trascura gli
affari locali, e li lascia disordinarsi ovvero li cura facendoli servire ai
propri interessi, e l’amministrazione intera dal suo apice alla sua base non
è più che uno strumento nelle mani dei partiti che si contendono il governo
della cosa pubblica. Non è mestieri insistere su questi inconvenienti che
oggi sono divenuti un tema comune degli avversari del sistema
rappresentativo... Ma è chiaro che bisogna risolvere il problema di svolgere
tutte le forze locali di esercitare autorità nella cerchia loro, e far
penetrare nell’amministrazione lo spirito di libertà... La monarchia
costituzionale costretta sin dal suo nascere a vincere le difficoltà della
libertà politica, e insieme a portare il peso della centralità amministrativa
fu messa alla prova di due responsabilità contraddittorie che soverchiarono
l’abilità e la forza che si può richiedere ad ogni governo".
Questo lato della questione che il Guizot accenna non è il solo, ma è pur
assai importante. E non sfuggì alla perspicacia di Cesare Balbo che dice8:
"Dove gli impieghi dipendenti dal ministero sono numerosissimi e sparsi
in tutto il suolo nazionale... i ministri diventano oltrapotenti; la macchina
mirabile trovata a distruggere l’antico e franco assolutismo, non ha fatto
che produrre uno nuovo ed insincero. Qui ci basterà osservare che tutte
queste amministrazioni così numerose e così concentrate nelle mani dei
ministri sono istituzioni di Napoleone e molto bene inventate da lui a suo
scopo, molto male subite poi... Il nec plus ultra delle slogicature fu in un
paese, dove sotto il governo assoluto non s’era stabilito mai l’ordinamento
amministrativo napoleonico, e si stabilì contemporaneamente colla monarchia
rappresentativa. E questo è il paese di Macchiavelli!"
E chi bene addentro rifletta scorgerà quanta analogia passi fra questo
concetto e quello che io esprimeva presentando al Parlamento nel 13 marzo
1861 il disegno di un nuovo ordinamento del Regno, e adoperava queste parole:
Se gli ordini costituzionali in alcune parti d’Europa non fecero buona prova,
egli è da attribuirsi principalmente a ciò che il Comune e la Provincia non
vi erano ben ordinati né abbastanza liberi per la qual cosa trovandosi il
cittadino da sé solo di fronte all’onnipotenza dello Stato si corre non solo
alla democrazia, ma alla dittature e al dispotismo.
Ma tornando alla Francia non solo nell’amministrazione ma eziandio nella
giustizia s’infiltrava la indebita ingerenza della politica. Un uomo di
grande vaglia ed autorità, il vecchio duca di Broglie, lo diceva apertamente
come si vede nelle opere postume pubblicate da suo figlio9, e confessava
esservi state a sua memoria talune scelte di giudici manifestamente
partigiane e riprovevoli, talvolta odiose e ributtanti: nelle quali però
nessuno osava apertamente lagnarsi. Di vero lo stesso autore cerca la ragione
dello sconcio in ciò che un ministro può muovere a suo arbitrio una schiera
di migliaia dio giudici, e questo ministro è uomo politico, e per conseguenza
uomo di parte, e quindi ha amici ed avversari. Or come supporre che, per
quanto buon volere ed imparzialità si sforzi di avere, pure non ceda alle
sollecitazioni, alle importunità degli amici, al desiderio di rimeritare i
servigi di chi lo aiuta, lo sostiene, e partecipa alle sue idee e ai suoi
sentimenti?
E non è a credere già che la repubblica abbia mutato il triste andazzo,
perché il male non ha nulla che fare, come dissi, con la eredità o la
elezione del supremo magistrato, anzi scorgiamo lucentemente che peggiore col
succeder delle forme parlamentari alle costituzionali. Poche settimane or
sono un deputato francese vantasi di avere per suoi rancori in pena di una
sentenza datagli contro per affari civili, ottenuto dal ministro il
trasferimento di un magistrato, come erra di più forte vendetta10. E mentre
scrivo queste pagine mi accade di leggere le seguenti parole: "Oggi
prevale il concetto di governare ed amministrare il paese, curando oltre
misura gli interessi del partito che governa: si cercano delle guarentigie
contro la possibilità di cambiamenti, allontanando da ogni funzione
amministrativa e municipale coloro che non hanno le idee e le vostre
passioni, si vorrebbe se fosse possibile escluderli da ogni vita pubblica e
perseguitarli a oltranza. Questa è politica di partito non di stato.
Imperocché a chi non fraintende il senso delle parole, un partito può avere
una politica di stato quando soddisfa a tutte le esigenze dell’ordine, della
giustizia, della libertà, degli interessi nazionali, mentre se la sua
politica è di partito, immola tutti questi beni alle sue passioni e agli
interessi suoi proprii. La politica di stato ha un’ideale, più o meno utile,
più o meno retto nella scelta dei mezzi, ma codesto ideale sovrasta alle
ambizioni personali: la politica di partito mira a mantenere la potenza nel
cerchio dei propri aderenti e adopera del continuo espedienti a tal fine,
senza pensare agli interessi della nazione. E più oltre: I ministri non sono
indipendenti nell’amministrazione: i senatori e i deputati hanno l’ingerenza
massima sopra i funzionari, e sopra la trattazione degli affari, e le
pretensioni loro passano nel gabinetto o nel consiglio dei ministri solo per
esservi confermate. Ma questi padroni dei ministri hanno degli altri padroni
a lor volta e sono i membri dei comitati che li fecero eleggere. Questi
intimano gli ordini loro agli eletti ed essi li trasmettono ai ministri che
ci appongono la loro registrazione11".
Che più? Leggo citati alcuni brani di un discorso del Procuratore generale
innanzi alla Corte di appello di Parigi che non si perita di manifestare
questi pensieri: "I giudici di pace sono oggi più solleciti di sapere
quali siano le opinioni politiche dei loro giudicabili, che del merito dei
loro processi, e si domandano se una buona elezione non valga che un buon
giudizio... A me è lecito di sollevare il velo della mia amministrazione, ma
io vi farei stupire, mostrandovi quanti vi sono i quali credono dio poter
verificarsi mediante una denunzia politica di cattivi processi che hanno
perduto in tribunale12."
Continuo questa rassegna in altri paesi, ma debbo avvertire il lettore che
non da esame accurato e personale dei fatti io traggo le informazioni che
seguono, ma le trovo scritte in libri ed effemeridi pregiate; sicché potrebbe
in esse insinuarsi inesattezza, o qualche torto giudizio, del quale io non
vorrei esser tenuto in colpa.
Nella Spagna è antico e universale il lamento: anzi non è raro il caso di
leggere le lodi dell’amministrazione francese, la quale almeno conserva una
certa integrità, in mezzo alle rivoluzioni politiche, e procede senza scosse
e senza interruzioni: laddove in Ispagna quella che nel 1870 il Castelar
chiamò empleomania è un male cronico ed esiziale. Perché quando il ministero
cade, trae seco nella caduta buona parte dell’amministrazione. Vi sono in
Ispagna, dice Mazade13, degli impiegati moderati, degli impiegati
progressisti, ma indarno si cercano impiegati che servano lo Stato anziché i
partiti. Fra le condizioni richieste alle riforme, prima sarebbe quella di
sbandire dall’amministrazione la politica che la perverte e fuggir tal
costume, onde ogni più rea opera si giustifica in nome del partito. E vi fu
un periodo (auguriamo che sia in sul declinare) nel quale entrare al
ministero della cosa pubblica era notoriamente il mezzo più efficace di
arricchire in breve ore, e non pur sé medesimo, ma i parenti e i famigliari.
Però anche oggi si legge scritto da uno che sciaguratamente fu vittima del
proprio zelo: "La mancanza di giustizia, l’arbitrio amministrativo, la
centralità eccessiva, la rassegnazione del popolo danno al governo della
Spagna potestà più larga che in alcun altro Stato. All’avvicinarsi delle
elezioni può cambiare a suo grado perfetti, giudici, impiegati, sono ai
membri del municipio e ai consigli generali, accelerare o ritardare a suo
grado la soluzione dei ricorsi amministrativi, esaudirli o negarli, chiudere
gli occhi sui contribuenti che sono addietro nei pagamenti delle imposte,
ovvero usare con loro spietato rigore nel riscuotere, accordare o negare
sussidi per opere pubbliche. All’uopo si ricorre alle minacce, alle violenza,
alla falsificazione dello scrutinio14."
Peggio ancora in Grecia, e n’è prova che dopo oltre cinquant’anni di
costituzione libera, i progressi veri dell’amministrazione, dell’istruzione,
dei lavori pubblici, dell’agricoltura, della ricchezza sono troppo scarsi, ed
anche la sicurezza pubblica è sempre mal guardata. Leggesi in uno scritto che
dipinge la Grecia contemporanea: "Le persone più rispettabili sdegnano
di far parte della Camera e ne fan parte invece taluni di abominevole fama..
La faccia degli intriganti e degli ambiziosi s’inframette nella politica. Le
sessioni intere si logorano in sterili declamazioni, in grossolane ingiurie,
di personali accuse: e poi quando s’approssima l’ultimo giorno della sessione,
si votano senza discussione tutti i progetti presentati... Una delle più
caratteristiche fattezze del Parlamento greco è questa, che al principiar
della sessione tutti i gregari sono ministeriali, ma a poco a poco passano
all’opposizione, e sol quelli che hanno ottenuto un impiego restano fedeli,
sicché a vero dire non v’è ministero che possa reggersi a lungo contro le
coalizioni15". E’ da sperare che si sia esagerato, ma non si può negare
che altri indizi provano mali veri e disonesti.
L’Italia sta nel mezzo: il morbo è in essa ancora men grave che non è in
Spagna ed in Grecia, parte la novità delle istituzioni, parte per l’indole
degli abitanti, e lo stato della civiltà; ma temo sia già grave che in
Francia, e ch’essa volga rapidamente verso le due penisole che le stanno ad
occidente e ad oriente. Ma prima di parlare dell’Italia conviene che io dica
alcuna cosa degli Stati Uniti d’America.
Negli Stati Uniti d’America la corruzione nelle regione politiche, se mi è
lecito adoperar questa metafora, è grandissima e notoria. Sin dall’epoca che
il Tocqueville scriveva il suo libro magistrale egli non si ristette dal
descriverla e condannarla, e narrò che molti uomini dabbene, fra i più
eminenti per ingegno e per virtù rifuggivano dal prender parte alla cosa pubblica.
Il che è il contrapposto dell’antico concetto che il governo debba
naturalmente venire nelle mani degli ottimi. Ma dal tempo di Tocqueville in
appreso, la corruzione è smisuratamente cresciuta, e scandali recenti l’hanno
messa ognora più in aperto. Ora la cagione principalissima di questa
corruzione reputasi la maniera onde sono costituiti i partiti; imperocché fra
il popolo e i suoi medesimi eletti s’interpone una classe di uomini
accaparratrice o sforzatrice del voto. Questa è la classe dei (politicians)
politicanti, i quali si circondano di una schiera di agenti ai capi,
addestrati a servir il partito senza scrupoli, che corrono per le città e per
le campagne, ingannano, avviluppano, minacciano, sicché l’azione dell’ingenuo
cittadino è annullata, se non è pronto a gittarsi cogli altri nella mischia a
capo fitto o ad ordire cospirazioni contro cospiratori; ed anche in questo
caso, secondo ogni probabilità l’opera sua tornerebbe vana perché non
preparata da acconci ordinamenti. Il metodo del caucus unione dei politicanti
più audaci e più inframettenti, ha per fine d’imporre il voto alle
moltitudini. Questo per le elezioni: ma gli eletti poi hanno naturalmente un
debito da sodisfare a coloro che li portarono in seggio, ed essi medesimi
cercano lucro e potenza anche per vie oblique, donde gli accordi, gli anelli
(rings) come colà si chiamano, e ciò tanto nel partito che s’intitola
repubblicano quanto in quello che prende nome di democratico, e questi anelli
somigliano a quel che in Italia si direbbe camorra o mafia. Laonde avviene
che, compiuta la elezione e soprattutto quella del presidente, un nugolo di
pretendenti si cala intorno ad esso, e ciascuno fa valere i suoi diritti ai
migliori impieghi per l’opera prestata, imperocché è noto che il nuovo capo
della repubblica può licenziare tutti gl’impiegati, e nominarne altri a lui
meglio affetti: e inoltre è mestieri contentare i capitalisti i quali hanno
fornito i denari per le spese della elezione, colla mira di far qualche
operazione di finanza col governo, o di ottenere qualche concessione di
miniere, di ferrovie, o di altre imprese. Così ogni quattro anni si rinnova
quella che con frase scolpita un recente scrittore americano chiamò la balìa
del pubblico saccheggio16.
Già da gran tempo fu chiesto da molti che una legge regolasse lo stato degli
impiegati; e gli uffici fossero conferiti secondo il merito, e mantenuti
stabilmente in chi adempì al proprio dovere; ma le istanze tornarono vane.
Fin dal 1867 una società di Filadelfia propose un premio a chi meglio
sciogliesse il problema dell’ordinamento delle elezioni al fine che il corpo
politico fosse sinceramente rappresentato. Fra le dissertazioni pubblicate17
parecchie effigiavano al vivo gli inconvenienti del governo di partito e
affermavano non potersi onninamente chiamare libere istituzioni quelle che
tali sconci permettevano, né democratico un reggimento nel quale il popolo
tanto è lungi dal dirigere la cosa pubblica che al contrario è diretto da
minoranze artificiose, collegate in setta, e dove il privato cittadino non
solo è destituito di ogni azione nella politica nazionale, ma quasi non osa
avere una volontà.
Mi sia permesso levarne alcuni saggi curiosi e non abbastanza noti ancora
appo noi, i quali mettono raccapriccio; imperocché gli effetti più terribili
del sistema incominciarono a vedersi chiaramente durante la guerra civile fra
il nord ed il sud della repubblica.
Era presidente in quel tempo Abramo Lincoln, uomo noto per grande probità,
tantoché dal popolo aveva avuto il soprannome di onesto vegliardo (honest old
Abe). Eppure anch’egli dovette cedere alle violenze e pressure del partito18.
Un tale Cameron, svergognato nelle sue capacità, svergognatissimo nell’ambire
uffici superiori ad ogni suo merito, questo Cameron uno dei caporioni fra i
politicanti, fu da esso loro fiancheggiato perché Lincoln gli assegnasse un
portafoglio; ma la natura onesta del Presidente vi repugnava. Fu udito
esclamare più volte: che dirà il popolo di me sapendo che io accolgo il
Cameron fra i miei consiglieri? E ciò nonostante dové sobbarcarsi, e chiamò
costui a reggere prima il dicastero della marina e poi quello della guerra.
Non appena egli è assunto il nuovo ufficio, di subito trasferisce la
commissione dell’acquisto dei vascelli da un comandante marittimo com’era costume,
ad un proprio cognato, del quale è detto in una inchiesta posteriore fatta
dalla Camera che "gli mancava ogni ombra di esperienza, ed ogni capacità
in materia nautica, ed era al tutto ignorante del servizio navale e
dell’acquistare o costruire vascelli, alle quali cose può asseverarsi che,
prima di quel tempo, in sua vita egli non aveva pensato mai un’ora sola; e
nondimeno comprò delle navi per otto milioni (di lire italiani) e confessò di
aver preso in sette settimane 250 mila lire per compenso dell’opera
sua". Non meno profligatamente andarono le cose della guerra. I
politicanti della Camera eran divenuti i sensali delle intendenze militari,
quando non erano essi stessi colonnelli o generali. Chi legge le relazioni
dei comitati che esaminarono appresso la gestione finanziaria di quel tempo,
prova un senso di ribrezzo e d’indignazione. E non solo vi fu dispersione e
furto sfacciato nelle spese dell’esercito e della marina, ma il tesoro
nutriva ed arredava in parte l’esercito avversario. Sotto il pretesto di un
commercio di cotone fra il mezzodì e il settentrione, si mandavano
provvisioni e fornimenti all’esercito che si doveva combattere, e ciò
facevasi con permessi della tesoreria firmati dallo stesso Lincoln che era
inconsapevole del tradimento che commettevasi. Imperocché a ragione il
comitato designa quel supposto traffico come un tradimento alla patria. Di
tal guisa dal 1870 durante la guerra di secessione il governo solo spese
quasi ventotto mila milioni (di lire italiane), e il gen. Schofield19 uomo
autorevole quant’altri mai non si peritò di affermare che quella guerra
poteva finirsi con la metà di vite umane, e di danaro sprecato, se fosse
stata condotta con senno e con onestà. Per finirla colla storia di questo
Cameron quando gli scandali furon giunti al colmo, il Presidente Lincoln si
decise a destituirlo. Ma qui ancora fatto il primo passo, bisognò ritrarlo;
imperocché tali erano intorno a lui le ingerenze e gli scalpori, che convenne
fingere che il ministro avesse dato spontaneo la rinuncia, e destinarlo
ambasciatore della Repubblica a Pietroburgo.
Nel tempo di che parliamo, cioè durante la guerra di secessione si videro
esempi notevoli di associazioni ordinate al fine di violar la legge sotto il
manto di legalità; e queste associazioni furono abili a soverchiare a lor
grado e muovere Corti di giustizia e assemblee legislative degli Stati,
ottenendo sentenze da quelle e riforme opportune da queste per imporre tasse,
aumentare le emissioni di carta moneta, perturbare i commerci. In somma pochi
smisuratamente arricchiti dalle spoglie di moltissimi.
Come ne Governo centrale così nei governi degli Stati e nei municipi si
manifestarono frequenti le menzogne e le frodi: ed è troppo nota la vicenda
di Tamany-Ring di Nuova-York perché io mi indugi ad esporla. Fatto è che una
mano di politicanti, vera banda di malfattori, s’impossessò
dell’amministrazione della città, impose giudici e impiegati suoi partigiani,
dilapidò i danari del comune, rubò a man salva molti milioni, e poté
tiranneggiare parecchi anni in mezzo alla incuria o al terrore degli
amministrati. Io non ho presente agli occhi, ma ricordo, un discorso tenuto
dal Mundella nell’atto stesso che lasciava New York per ritornare in
Inghilterra, dove esprimeva nobilmente il suo cordoglio per queste enormezze.
Chi voglia prender contezza di smisurate corruzioni, fra i vari libri, prenda
a leggerne uno curiosissimo dei signori Adams20. Ivi si vedrà narrata la
storia di una delle più cospicue ferrovie quella dell’Erie, fatta preda di un
gruppo di avventurieri senza onore, senza credito, senza beni di fortuna: i
quali mediante questa impresa riuscirono ad agire sinistramente sulla
politica e sulla economia nazionale. Si vedrà narrata similmente quella che
fu chiamata cospirazione dell’oro, per la quale con artefici frodolenti, e
spacciando false novelle si alzava e si abbassava l’aggio della moneta
metallica a intervalli rapidissimi, rovinando famiglie e popolazioni per
saziare l’ingorda brama di avidi speculatori. Ed è a notare eziandio che nei
partiti e nella politica sì è fatto un gergo di parole come quello dei
galeotti e dei cammoristi e questo come tutti i gerghi muta alla giornata
secondo le circostanze21.
Non è dunque da meravigliare se un senso di tristezza occupa gli animi di
molti, e se l’Adams se ne sia fatto interprete con queste singolari
considerazioni che appaiono dettate da animo sdegnoso. Le generazioni si
susseguono sperando di lasciare i figli loro in condizione migliore, ma
s’ingannano. Si suppone che non vi siano più pirati, né briganti, né
truffatori al giuoco o in cricca: ma ci s’illude. I pirati hanno trasportate
le loro imprese in terra e le conducono più o meno d’accordo colla legge,
ottenendone tale profitti che mai non avrebbero potuto sperare quando
scorazzavano in mare; anche i briganti non vivono più nelle grotte delle
montagne ma si pavoneggiano nelle piazze, e non pigliano più quei soprannomi
terribili e minacciosi di un tempo, ma si fanno chiamare col nome proprio e
col titolo di colonnello, di generale, di presidente. E il giuoco di
vantaggio s’è convertito in un affare, e si tratta come una operazione di
cambio. Cosicché si può con verità dire, che strappando la maschera
ingannatrice al secolo XIX, si troverà che la sua gentilezza tanto vantata
copre la brutalità del secolo XII, anzi si dovrà concedere che questo era men
reo e men disonesto del presente.
Né si può dire che ciò avvenisse solo in momenti di agitazione, e di
disordine, quando ferveva la guerra civile, o poco dopo, quasi fiotti di mare
venuti dopo la tempesta. Imperocché altri casi gravissimi seguirono
subitamente sotto la presidenza del generale Grant. Taluno dei suoi ministri
ebbe a sostenere processi di concussione e di peculato; e poiché questi fatti
non erano stati ignorati dal presidente, ciò contribuì non poco ad impedire
che fosse eletto per una terza volta. Il Molinari nelle sue lettere22 dice
che Verre non ispogliò la Sicilia tanto crudelmente quanto i carpet baggers
saccheggiarono il mezzodì, e descrive con grande vivezza quelle associazioni
anonime che si formano nell’America coll’intento prossimo d’impossessarsi del
governo, ma col proposito ulteriore di spogliare il paese23.
Colla presidenza dell’Hayes parve che un’aurora di moralità imbiancasse
l’orizzonte. Imperocché in una sua lettera riguardante la nomina degli
impiegati egli osò esprimersi con queste parole: "Sono già quaranta anni
che si svolge un sistema che ha per divisa: le spoglie al vincitore. La
regola antica, vera, che l’onestà e la capacità costituiscono i soli titoli
agli impieghi e che non v’ha fuor di quelli altro diritto, codesta regola ha
ceduto alla regola opposta, doversi guardare soprattutto ai servizi che uno
ha reso al partito politico, e ogni partito la mette in opera. E notasse bene
che questa regola s’è andata peggiorando nell’attuarsi. Perché dapprima era
il Presidente direttamente o per mezzo dei capi dei vari uffici che sceglieva
gli impiegati, ma a poco a poco la designazione di essi è passata nelle mani
dei membri del Congresso legislativo. Gli impiegati pubblici sono divenuti
così la mercede dei servigi resi a un partito, e peggio ancora dei servigi
resi ai capi del partito. Or questo sistema annulla ogni indipendenza negli
uffici pubblici, e mentre spinge a prodigare le spese, colloca nella
amministrazione agenti incapaci. Indi la tendenza ad operare disonestamente,
indi un affievolirsi della vigilanza dei superiori, e venir meno la
responsabilità che assicura nel servizio pubblico probità, ed efficacia.
Imperocché i funzionari indegni non possono essere prontamente revocati né
rigorosamente puniti. Bisogna dunque che la riforma sia generale, intera e
dalla radice. Noi dobbiamo tornare alle massime e alle pratiche dei fondatori
delle nostre istituzioni, e se è necessario, scrivere nelle leggi quelle
massime per non diparticene mai più. Uopo è che l’impiegato dia tutta l’opera
sua all’amministrazione col solo intento del pubblico bene, e sia assicurato
che sino a tanto che adempia onestamente e convenientemente le sue funzioni,
egli conserverà il suo impiego".
Né dalle parole furono discordi gli atti. Egli incaricò il segretario di
stato Sherman di fare una inchiesta sulla condotta del generale Arthur che
aveva l’ufficio di collettore delle dogane a New-York. E poiché lo Sherman
nella sua relazione mostrò che gravi abusi in quelle dogane si commettevano,
parte insciente, parte consenziente il collettore, l’Hayes lo destituì e fu
bell’esempio, e imitabile. Ma non pare che producesse nel pubblico grande
effetto, poiché nessuno ha pronunziato il suo nome per la rielezione, e lo
stesso Generale Arthur fu eletto vice-presidente24. Vero è che alla
presidenza fu elevato il Generale Garfield uomo di grande saviezza ed
integrità; ma la sua virtù gli fu per avventura cagione di perdere la vita.
Imperocché colui che lo assassinò a tradimento, il Guitteau, non era mosso da
fanatismo politico, ma da vendetta privata, perocch’egli pretendeva in
ricompensa delle sue fatiche elettorali un posto che gli fu dal presidente
negato. E’ da credere che l’orrore fortissimo, suscitato nel popolo degli Stati
Uniti da questo delitto, sarà freno salutare al suo successore, e come si
vede nella storia che talvolta gli eccessi sono principio di ammenda nella
legislazione e nel costume, così giova sperare che affretti la riforma assai
più che non avrebbero potuto farlo le argomentazioni e i discorsi degli
scrittori.
Ma onde mai questo fatto nuovo negli annali del mondo, che la corruzione
delle classi politiche non siasi rapidamente diffusa per tutto il popolo, e
che un governo abbia potuto sussistere in tali condizioni? La spiegazione di
tal fatto vuolsi ripetere da molte cagioni. E primieramente la vigoria, e se
mi è lecito dir così la giovanilità gagliarda di quel popolo, facile a
superare ogni morbo avventizio. Quando l’agricoltore trapianta dal vivaio al
campo gli olmi e li dispone in filari, s’accorge dopo breve tempo che in
taluni le muffe hanno attecchito, e ne ingialliscono la scorza: i piantoni
vigorosi o le respingono, o se ne liberano in brev’ora, mostrando una buccia
fresca e lucida, mentre i deboli o non possono liberarsene, o ne rimangono
tisici. Tale in molte cose, è la condizione dell’Europa rispetto a quella
dell’America.
Aggiungi lo smisurato territorio nel quale la popolazione crescente può
stendersi e trovar lavoro, e rimunerazione condegna. Imperocché allora
principalmente le agitazioni intestine e le contese civili cominciano a
scoppiare, quando la popolazione moltiplicandosi, riesce difficile trovar il
modo onde campare la vita come accade nella vecchia Europa. Colà invece terre
fertilissime da coltivare, boschi vetusti da abbattere, miniere di carboni,
di olii, di pietre, di metalli da scavare, e tutto risponde l’un cento della
tua fatica e del tuo capitale. E’ un fatto nuovo nel mondo l’ardire, la
temerità colla quale s’intraprendono colà le opere più ardue
dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, ed è parimente maraviglioso
lo svolgimento della produzione e della ricchezza. I grandi guai della guerra
civile, le dispersioni infinite di denari e di uomini furono riparate in poco
d’ora, e ben poté dire il presidente Hayes nel suo ultimo messaggio che la
presente condizione finanziaria degli Stati Uniti, considerata in relazione
alla crescente ricchezza della repubblica, alla estensione e varietà delle
sue attitudini, è più fortunata di quella di ogni altro paese al nostro
tempo: anzi non fu mai sorpassata da verun paese in qualsiasi periodo della
storia25.
Anche si vuol attribuire il fatto di che parliamo alla razza anglo-sassone
fondatrice di quelle colonie, la quale ha un’indole seria ed operosa, e dove
l’amor della famiglia, il rispetto delle leggi, e il sentimento religioso
tengono un grande predominio.
E infine il Governo sia locale sia federale ha una cerchia assai ristretta di
attribuzione, e la massima parte degli atti amministrativi è interamente
sottratta alla ingerenza governativa. Lo Stato vi ha l’ufficio di tutelare la
sicurezza e di difendere la integrità territoriale, poco più; tutto il resto
è lasciato alla libertà del privato e delle associazioni spontanee. L’America
Settentrionale si trova in ciò al punto opposto di quello Stato moderno
tutore, educatore, distributore della ricchezza quale è descritto da parecchi
scritti che lo vagheggiano come tipo ideale.
Ad ogni modo la differenza sta in ciò che in Europa lo Stato e il governo che
lo rappresenta è guardato con riverenza, spesso con invidia, come organo
superiore della società, laddove in America si accetta quella teorica del
passato secolo che lo Stato è per così dire un male necessario, che fa
maggiore, anzi spesso minore di ogni altra opera civile di scienza, d’arti,
d’industrie. Il popolo americano ha attuato l’autonomia del cittadino quanto
è possibile, e mostra nella storia di avere il còmpito di svolgere al più
alto grado di condominio dell’uomo sulla natura, traendone ogni possibile
benefizio, e per così dire di foggiarla a civiltà, dissodando un continente
fertilissimo che era incolto, e introducendo tutte le maniere d’industrie e
di commerci coi metodi più perfezionati della meccanica e della chimica. E
questo compito fu maravigliosamente eseguito per iniziativa privata, senza
direzione del governo. Tu odi sovente l’americano parlare del governo in
termini dispregiativi, ed ei non si briga di migliorarlo salvocché non
venisse meno interamente al suo ufficio. Perdoni il lettore se io introduco
un paragone volgare, ma egli è che l’ho udito dalla bocca stessa di un
americano. Ho udito dirgli: io so bene che nell’amministrazione avvengono
indegnità e dilapidazioni e peculati, e che ciò torna ad aumento di tasse: ma
a me giova piuttosto pagare un tanto di più che occuparmene, imperocché il
tempo che vi spenderei se lo dedico ad altre opere mi rende il decuplo ed
anche maggiormente. Il nostro caso è quello del signore che ha un cuoco che
gli ruba e sel sa: ma pazienta finché il furto non è eccessivo e finché il
pranzo è discreto. Certo se costui rubasse a man salva, e per di più gli
apprestasse cibi guasti o mal cotti, allora si risolverebbe a discacciarnelo:
similmente facciamo noi americani quando il male passa un certo segno. E così
le prevaricazioni del governo di Grant ci mossero a non rieleggerlo più
Presidente e così spazzammo via il tammany ring di Nuova York quando la
misura fu colma. Fino a quel punto lasciamo fare, e andiamo per la nostra via
più fruttuosa, più libera, e che ci infastidisce meno; e ci pare che ogni
altro impiego del nostro ingegno e della nostra attività valga meglio di
quello che mescolarsi nella vita pubblica26. Tale in generalità è il concetto
che allontana molti da quell’arringo, dove in Europa è per taluni adempimento
di un dovere, per altri premio di lunghi sforzi, per altri ancora palma di
nobile ambizione: tali sono le cagioni per cui un governo corrotto non
corrompe la moltitudine del popolo.
Ma durerà codesto stato di cose perpetuamente? Quando la popolazione che,
parte per sé medesima, parte per l’immigrazione, si moltiplica così
rapidamente, sarà divenuta numerosa rispetto al terreno da coltivare e alle
industrie da esercitare, potrà la cosa pubblica procedere come oggi, potrà lo
Stato non inframmettersi di molti servizi? o non avverranno colà ancora
quegli sconci, quelle discordie, quei rivolgimenti onde la storia del vecchio
mondo è intessuta? Fino ad ora, come ho detto, la grande moltitudine degli
abitatori de quel paese segue il suo cammino, nonostante la corruzione della
classe politica e ci dà in molte parti della civiltà maravigliosi esempi e
degnissimi d’imitazione27. E chi potrebbe parlare di quel grande popolo senza
un sentimento di stupore e di ammirazione? Ma poiché la indagine dell’avvenire
oltrepassa il tema che io mi sono proposto, e parmi di aver già dimostrato
abbastanza che tutti i governi parlamentari di qua e di là dell’Atlantico
patiscono di questo male; torno all’Italia, che, come dissi, tiene il mezzo a
parer mio fra la Francia e le due penisole iberica ed ellenica nel generare i
cattivi effetti del governo di partito.
E qui è mestieri ripetere che essendo mio scopo di mostrare i mali dei
partiti, non intesi farne io medesimo arma di partito come a taluni forse dei
miei accusatori poté parere. Certo parve al Desanctis del quale ho citato
sopra parecchi brani, il quale parlando poscia a Foggia l’11 marzo 1880
diceva queste parole: "Io voglio prendere la parola per un fatto
personale. Scrissi alcune pagine in un giornale intitolato il Diritto, e di
quelle pagine l’onorevole Minghetti si fece arma contro la Sinistra. Egli
m’impiccoliva; egli non si pose a quell’altezza dalla quale io guardava. Non
guardavo io alla Destra o alla Sinistra, non è in questo o quel particolare
che si deve cercare lo spirito di un uomo; la mia mira era più alta. Io
guardavo ad uno stato morboso d’Italia e ne facevo la diagnosi. E il morbo è
questo, che abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e l’indifferenza dei
molti, questo è lo spettacolo che ci danno i popoli nei tempi della decadenza
o della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I patriotti si ritirano. La
fede nelle patrie sorti s’indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e
all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle passioni e degli
interessi più volgari".
Passando io per quella città tre giorni appresso, ed essendomi narrato delle
cose dette dall’onor. De Sanctis, poiché mi si offeriva opportuna occasione
di parlare a quella medesima popolazione che lui aveva udito, risposi
fortemente negando la ingiusta accusa. Imperocché mio intendimento era di
notar questo male come uno di quelli che si manifestavano nei governi
parlamentari, ed al quale bisognava rivolgere attento lo sguardo per cercarne
i rimedi con sollecitudine, qualunque sia il partito che regge la somma delle
cose. La mia sentenza era generale, e fu mossa solo da un grande amore delle
nostre istituzioni, parendomi che la corruzione rapidamente si dilati, e
l’amministrazione sia minacciata da una lebbra, la quale se si estende ancora
produrrà questo effetto: che il Governo invece di essere tutore dei diritti e
degli interessi dei cittadini, sarà mancipio di una classe o piuttosto di una
fazione. Sicché io lascio stare questa immeritata accusa, e ripeto che il mio
intento non riguarda persona alcuna, né questo o quel partito, ma vuol
provare che il male c’è, che s’allarga ogni giorno e che diverrà esiziale, se
non vi si pone qualche riparo. Che se talvolta al mio intendimento mal
rispondesse lo stile, io prego il lettore di considerare che questo scritto
ebbe origine da una difesa personale, e che il risentimento comecché giusto
nella origine può avere sparso su di esso, anche contro mia voglia, una certa
asprezza.
Nei primi tempi della nostra rivoluzione molte cagioni impedirono che il male
scoppiasse. Prima di tutto la novità, e l’imperizia, perché gli effetti di
questa indebita ingerenza non si sentono che per esperienza; e i vantaggi
privati che se ne possono trarre dagli uomini politici, vengono a poco a
poco, e anche la libidine dell’arbitro si risveglia gradatamente e scapestra
per impunità. Leggo che per giungere alla massima perfezione nella rea loro
arte, tre generazioni di politicanti occorsero in America28. Nei primi
momenti del nostro risorgimento l’entusiasmo soffocò le male passioni.
L’Italia si riscuoteva da secolare oppressione, dopo infiniti contrasti e
martirii, e gli uomini che avevano per lei operato e patito, ponevano ogni
onore ed ogni ambizione nel condurre a termine la gloriosa impresa. A ciò
s’aggiungano i pericoli che ne assiepavano da ogni banda, e minacciavano a
tutte l’ore di distruggere l’edificio le cui parti non erano ancora
assolidate da cemento di legge o di consuetudine. Non è dunque maraviglia se,
posto la grandezza della impresa, la natura degli uomini, il tempo, il fine,
i pericoli in mezzo ai quali versavasi, quel morbo di che parliamo non desse
tai segni di sé medesimo quali diè più tardi manifesti. E nondimeno anche in
quel primo periodo, soprattutto nei governi provvisori, non mancarono le ingiustizie,
ma furono mosse non tanto da interesse privato quando da reazione e da odio
contro il passato. Imperocché sebbene si fosse stabilita la massima di
rispettare i diritti acquisiti, e di non far vendette; anzi si andasse
tant’oltre da liquidare le pensioni a coloro stessi che avevano perseguitato
acremente i vincitori odierni (e ciò sarà gloria perpetua del nostro
rivolgimento), non mancò qualche caso nel quale vi furono destituzioni, o
trasferimenti, o dinieghi di pensione, parziali ed ingiustificati, e non
mancarono neppure casi, anzi furono più frequenti, di largizioni, di premi, e
di compensi poco o nulla meritati. Imperocché a tutti coloro che spingevansi
innanzi in atto di vittime della tirannide passata, e che avevano subito
processi, condanne, o esiglio, pareva aver diritto che lo Stato d’ora innanzi
li mantenesse lautamente a spese comuni. Vi furono dunque atti poco misurati
e poco lodevoli, ma quanto a vere e proprie ingerenze di deputati
nell’amministrazione e ad arbitrii di ministri, non negherò qualche caso di
simpatia, e di avversione non conforme a giustizia, ma fu certamente raro.
Anzi era costume in quel tempo di dire che per ottenere un favore da alcun
ministro, bisognasse ricorrere ai suoi avversari, ch’esso mirava sempre a
propiziarsi29. La qual querela ripetuta con insistenza dagli amici, e di cui
anche alcuni uomini notevolissimi si fecero banditori, prova che se una
ingerenza parlamentare nell’amministrazione c’era, non poteva essere né ampia
né profonda poiché esercitavasi in ispecie a prò degli oppositori. Oggi per
verità, sarebbe difficile affermarlo, poiché i ministri medesimi non cessano
dal deplorare di esser fatti vittima dei loro amici, a cui si sforzano
qualche volta e nelle esigenze più enormi di resistere. Ma lasciamo ciò,
affinché io non paia contraddire al proposito d’imparzialità che ho sopra
accennato.
Il più grave effetto della ingerenza indebita si manifesta in quella parte
della potestà esecutiva delle leggi che è la più essenziale, la più delicata,
quella che ha mestieri di essere immune da ogni estranea azione, dico la
giustizia.
Lo aveva dipinto già Guicciardini, severamente condannando la parzialità dei
giudici del suo tempo: "Inumana e tirannica era quella parola con la
quale pareva loro scaricare anzi per dir meglio ingannare la coscienza, e che
già era venuta in proverbio, che negli Stati s’avevano a giudicare gli
inimici con rigore e li amici non favore: come se la giustizia ammetta queste
distinzioni, e come se la si dipinga con le bilancie di due sorte, l’una da
pesare le cose degli amici, l’altra quelle delli inimici"30. E altrove
raccomanda che la giustizia civile sia netta e piana, e chi ha lo Stato in
mano non se ne travagli e non se ne intrometta per via diretta o indiretta,
di che nulla può essere più pernicioso. E se a scusare le ingiustizie si
allega la necessità di farsi dei partigiani caldi, egli risponde che
"questo modo non potrebbe essere più dannoso, perché è d’infamia grande
e fassi di molti inimici cioè non solo quelli che sono oppressi ma etiam
tutti quelli che sono d’attorno e veggono che una tale disonestà sia
comportata31 ".
In verità qualunque sia l’opinione che altri si formi sopra le attribuzioni
che lo Stato deve avere dirimpetto alla libertà e spontaneità sì dei privati
che delle associazioni, tutti però in un punto concordano che il rendere la
giustizia sia il suo fine primo e principalissimo. E si potrebbe dire che la
civiltà di un popolo si misura dalla imparzialità ond’è resa la giustizia,
sicché laddove nell’animo delle moltitudini possa ingenerarsi il dubbio della
sincerità della sentenza, e nascere sospetto dei magistrati, ivi può
reputarsi che ogni altra parte della cosa pubblica si scuota e crolli. Una
delle maggiori grandezze di Roma antica è certo nei suoi magistrati. Le repubbliche
del medio evo, sentirono tutta l’importanza di avere un giudice imparziale, e
poiché le città loro erano travagliate da fazioni, cercarono un podestà
estraneo a quelle, anzi forestiero, affinché le tradizioni, le affinità, le
parentele non lo distogliessero dal render giustizia. E la stessa istituzione
dei giurati non altro esprime nelle sue origini se non l’intendimento che si
amministrata imparzialmente la giustizia. Davide Hume meditando sugli uffici
del tribunale in risguardo al mantenimento dell’ordine sociale e al progresso
dell’umanità, viene a questa conclusione: "Tutto il nostro sistema
politico, e ciascuno degli organi suoi, l’esercito, la flotta, le due Camere
e va dicendo, tutto ciò non è che mezzo ad un solo ed unico fine, la conservazione
e la libertà dei dodici grandi giudici d’Inghilterra". Si credé pertanto
che uno dei grandi progressi della moderna civiltà consistesse nella
inamovibilità dei giudici, parendo non esservi cosa più contraria alla
imparzialità e più corruttrice che la tema di perdere il proprio ufficio per
cagioni politiche, più corruttrice ancora secondo Banjamin Constant che
l’antico costume di comprare le cariche32. E Pellegrino Rossi afferma che da
momento che in Inghilterra il giudice non poté più essere destituito per volontà
del governo, la nobiltà dei sentimenti, l’indipendenza delle opinioni, la
fermezza nel resistere a tutte le seduzioni, divennero retaggio della
magistratura inglese. E soggiunge che dalla facoltà del ministro di
trasferire un giudice da una ad altra sede viene un affievolimento del
principio fondamentale dell’inamovibilità. Imperocché il giudice, così come
oggi è costituito, ha bisogno di volger gli occhi verso il governo: soltanto
laddove la perpetuità dell’ufficio è cambiata colla fissità della sede ivi
può dirsi assolutamente indipendente33.
La rivoluzione italiana in molte provincie rispettò i tribunali quali erano
sotto i governi passati, in talune altre e soprattutto nelle provincie
meridionali fu trascinata da quella smania che suol dirsi di purificazione,
di cui nessuna può essere più funesta all’amministrazione della giustizia.
Invero lo Statuto nostro all’art. 69 decreta che i giudici nominati dal Re ad
eccezione di quelli del mandamento sono inamovibili dopo tre anni di
esercizio. Se non che la espressione generica lascia dubbi sulla
interpretazione, non distinguendo la inamovibilità dell’ufficio da quella
della sede. Laonde più volte l’argomento fu trattato nel Parlamento, e con
varia sentenza: due tendenze opposte spuntavano, l’una di assicurare o i
magistrati, non permettendo che potessero essere trasferiti, o posti in
aspettativa o a riposo, senza il consenso loro, o almeno senza peculiari
guarentigie; l’altra di lasciare al ministro maggiore libertà di azione, e
facoltà di trasferirli, presupponendo che il ministro non lo farebbe che per
utilità del servizio e con savii accorgimenti, e in caso estremo confidando
che potrebbe sempre essere chiamato a rendere conto in Parlamento34. Ma
prevalse soprattutto nel Senato il concetto della guarentigia.
Finalmente con R. decreto del 3 ottobre 1873 il Ministro Vigliani fissava le
norme da seguirsi sulla materia. Il decreto disponeva che le nomine,
promozioni e trasmutamenti dei consiglieri della Corte, e dei funzionari
della magistratura giudicante nei tribunali, dovessero essere precedute dalle
relative proposte fatte da una Commissione scelta nella magistratura
medesima, e che trattandosi di tramutare un giudice inamovibile senza il suo
consenso, questi dovesse essere udito in persona o per iscritto sui motivi
del provvedimento. Ma poiché il partiti che era allora al governo ne fu
rimosso, un nuovo decreto del 5 gennaio 1878 abolì il precedente, allegandone
due ragioni, l’una che esso pareva ostacolo al retto e celere andamento
dell’amministrazione giudiziaria, l’altro che ritardava la unificazione della
magistratura, ad affrettare la quale pareva necessaria la balìa del ministro.
Così d’un tratto per diversi motivi furono tramutati in sei mesi ben 122
magistrati, anzi 211 se si tenga conto anche di coloro che furono promossi.
Io non pongo in dubbio le buone intenzioni del ministro, ma egli è certo che
vi fu un momento nel quale parve che la magistratura perdesse quella
sicurezza che è la migliore guarentigia della sua indipendenza. Gli animi
anche degli onesti ne furono commossi, gli uomini fiacchi di carattere, come
suole in simili casi, irruppero nella servilità. Anche il Ministero Pubblico
pigliava una insolita baldanza: e poiché le accuse spesso soverchiano le
colpe, si andava sino al punto d’imputargli qua di esercitare una ingerenza
eccessiva e contraria allo imparziale adempimento della giustizia, là di
rispondere alle dimande del ministro più secondo le esigenze dei partiti che
secondo la verità. Furono mosse perciò interpellanze in parlamento, e più
tarsi si cerco di correggere la cattiva impressione prodotta nella pubblica
opinione istituendo presso il Ministero una Commissione consultiva di
magistrati la quale esprimesse il suo avviso in tutti i casi di che si
tratta. Però notava che nel suo libro il Mirabelli che "il prestigio
dell’ordine giudiziario è stato mortalmente ferito né può ritornare al suo
stato sano e vigoroso senza togliere di mezzo la cagione del male".
Imperocché quando la indebita ingerenza della politica nella giustizia si fa
sentire, i magistrati come tutti gli altri impiegati dello Stato van
ricercando il loro patrono, del quale diventano satelliti, e lo spirito di
clientela soppianta il dovere dell’ufficio. E più si radica questo vizio più
è difficile sbarbicarlo, ed introdurre una riforma che tenderebbe a scemare o
togliere all’autorità governativa gli arbitri. Imperocché "nella
privazione o nel vincolo della facoltà del governo centrale l’affarista
scorge diminuita la materia della sua attività, onde concentra tutti i suoi
sforzi ad allargare i poteri del governo, covrendo questo schifoso egoismo
colla speciosa formula doversi in ogni materia aumentare o conservare la
piena libertà di azione dei ministri perché sia intera la loro responsabilità
dinanzi al Parlamento35 ".
Ho toccato sopra della ingerenza del ministro pubblico nella giustizia. Certo
è che un magistrato il quale vigili la esecuzione della legge, che
rappresenti l’interesse della società, e promuova la azione pubblica contro i
reati sembra indispensabile. Ma non sì che abbia il carattere di una
vigilanza diffidente, e di un’azione continua, e talora molesta del governo
sui tribunali. Avvegnacché la nostra legge all’articolo 129 definisce appunto
il pubblico ministero come rappresentante del potere esecutivo presso
l’autorità giudicatrice. E questo aspetto fu per avventura una delle cagioni
per le quali l’Inghilterra sentiva una grande ripugnanza contro tale
istituto; ripugnanza la quale pare faccia luogo ad un sentimento contrario,
tanto che fin dal 1875 la Corona in un suo discorso annunciava al Parlamento
britannico un progetto di legge per introdurre negli ordini giudiziari il
Ministero pubblico, il che significa che l’opinione generale cominciava a
mutarsi su questo capo. E’ anche fortemente dubbioso se l’intervento del
Ministero pubblico nelle cause civili sia utile, perché ivi già si trovano a
fronte le due parti contendenti dinanzi al giudice cui spetta di pronunziare
la sentenza. Checché sia di ciò, egli ci pare che codesta istituzione, quale
si trova ordinata appresso di noi, apra un varco ad indebite ingerenze del
governo sulla giustizia.
Inoltre la balìa del Ministero pubblico viene accresciuta da ciò, che sopra
talune materie, la legislazione non è ben chiara, o almeno l’interpretazione
delle leggi l’ha resa oscura; di guisa che il procuratore del re non procede
per azion pubblica con norme costanti, ma ha mestieri di esservi eccitato dal
governo. Laonde si vedono atti e trattamenti disformi, e a sbalzi; e talora
tradursi innanzi ai tribunali associazioni sovversive e comunistiche, talora
lasciarle fondare e liberamente e apertamente dilatarsi; e in simil modo in
qualche caso perseguìti i giornali, in altri identici casi non darsene per
inteso. Leggiamo di sovente offese contro al Re e contro al Pontefice,
leggiamo apologie di fatti qualificati nel codice come crimini o delitti,
provocazioni all’odio fra le classi; non di rado ancora sulle stampe si fa
scempio dei buoni costumi, senza le regie procure vi ponga, attenzione: E poi
ad un tratto ecco una specie di foga per la quale da un capo all’altro della
penisola le regie procure si agitano, denunziano, sequestrano. Di che la
opinione popolare fa questo giudizio, senza pur avvertirne la gravità, che
l’azione loro non è spontanea ma ordinata dal Ministero centrale. La quale
differenza nel modo di procedere in circostanze identiche perturba il senso
morale, e non è senza scapito del rispetto dovuto alla legge.
Potrà osservarsi da taluno che anche in Inghilterra vi sono delle leggi, le
quali per dissuetudine hanno dismesso dell’efficacia loro, e rimangono come
armi dimenticate nell’arsenale legislativo e solo se ne traggono e si
adoperano in casi straordinari. Ma la comparazione non regge, perché questa
disusanza è venuta cola a poco a poco, e per effetto del mutarsi delle idee e
delle abitudini civili, è un portato dello svolgersi e del contemperarsi
delle leggi e del costume; mentre qui le due opposte correnti della
rilassatezza e del rigore si alternano a sussulti, e inoltre trattasi di
leggi recenti; onde la pubblica opinione non intende come appena appena fatte
debbano trascurarsi e per qual motivo non sieno messe in atto. Pertanto agli
occhi della moltitudine anche questa apparisce una ingerenza indebita del
governo nella giustizia.
Infine un male gravissimo vien dagli avvocati patrocinati i quali siedono
nella Camera dei deputati, perché quando si presentano al tribunale per
difendere una causa, s’ammantano di un cotal prestigio che suona minaccia o
promessa quel giorno che diventeranno ministri. Ed è poco lieto lo scorgere
com’essi si scambiano l’un l’altro l’incarico del patrocinio delle cause a
seconda che salgono o scendono dal governo. Dicono che essendo brevissima la
vita ministeriale non possono smettere definitivamente le clientele loro, e
di ciò traggono argomento di loro probità, ed hanno regione. Ma ciò non prova
altro fuorché gli avvocati patrocinati non dovrebbero in generale impigliarsi
nella vita parlamentare, e più di rado ancora essere assunti al ministero.
Per rimanente questa ingerenza vera o no, purtroppo è creduta, e ve ne sono
state apparenze. Si è visto da taluno sollevare nella Camera interpellanze
circa l’interpretazione di una legge in seguito ad una sentenza proferita
contro i suoi clienti dal tribunale di prima istanza, e mentre prendeva
ancora la lite in appello. Si sono viste cause difese e vinte contro lo Stato
da deputati eminenti, in onta all’opinione e all’aspettativa universale. E
poniamo che ai giudici apparisse chiarissima la ragione della parte in favore
della quale sentenziavano, ma sarebbe stato desiderabile che nessun
prossimano avanzamento avesse dato ansa a sospetti, che sempre tornano in
detrimento del prestigio onde la magistratura vuol essere adorna. Io non ho
competenza in questi argomenti, ma è mesto di leggere le critiche fatte da un
esimio giureconsulo alla decisione di una recente controversia matrimoniale.
Appreso le quali critiche egli conclude così: "Io ho voluto con questo
mio lavoro critico contribuire a far sì che le grandi piaghe ond’è afflitta
la vita politica della povera Italia non invadano anche la vita giuridica. Ho
voluto contribuire a far sì che l’equivoco predominante nelle divisioni dei
partiti politici, e nelle dottrine di ciascuno di questi, non sembri
annidarsi anche nell’amministrazione della giustizia; che non sembrino
doversi distinguere due giustizie, l’una di destra e l’altra di sinistra, in
rispondenza alle divisioni parlamentari. Còmpito certamente odioso, ma
altrettanto doveroso per chi, oltre all’esser cittadino italiano, è anche
insegnante ed educatore della gioventù". parole gravi e degne di esser
meditate da chiunque ami la verità, la giustizia e la patria.
Della ingerenza dei deputati nella nomina di qualche magistrato sarebbe
difficile dare la prova ma è una di quelle cose notorie, di che la coscienza
pubblica fa testimonio. Nondimeno qualche indizio se ne può addurre,
traendolo da fatti i quali mostrano come la cosa non sia creduta né illecita
né tampoco irregolare. Un deputato con un candore inverisimile eppur vero, si
scusa dai molesti assalti di un giornale che lo accusava di fare istanze
presso il Ministero per esulare dal tribunale i giudici della sua provincia,
e gli risponde così: Come mai può farmisi una imputazione tanto bislacca?
Basta solo confutarla il dire che il tribunale è tale oggi trovasi,
specialmente per opera mia, e che alcuni dei giudici che attualmente ne fanno
parte furono da me espressamente suggerito al ministero, certo com’era di
rendere un vero servigio al paese nostro e di agire nell’interesse della
giustizia. Ecco un uomo che stima certo di fare un’opera buona, anzi se ne
vanta. E similmente non credevano di far opera men che onesta coloro i quali
rivolsero al Guardasigilli la seguente petizione il 31 agosto 1877 e la
diedero poscia alle stampe: "I sottoscritti deputati ... non possono a
meno di sciogliere un debito di somma stima verso l’egregio ... col pregare
vivamente l’onor. Ministero di Grazia e Giustizia, ad emettere senza
ulteriore indugio un decreto che dia soddisfazione all’opinione degli uomini
imparziali e solleciti del pubblico bene e nello stesso tempo chiuda una
polemica fastidiosa e molesta sul conto di un uomo intemerato cui solo la
implacabile ira di parte addenta e osteggia. Al posto di procuratore generale
della Corte di Appello ... niuno sarebbe più adatto del prelodato ... sia pei
non comuni meriti a sapere, di rettitudine, di alacrità che l’onorano, sia
per l’anzianità che vanta, sia per le immeritate contrarietà di cui fu
vittima per lo passato, vuoi infine per servigi non ordinari tributati con
rara costanza al paese, e al partito che ora ha i suoi degni rappresentanti
al governo della nazione. I sottoscritti assicurano l’illustra Ministro di
essere interpreti dell’opinione sana del pubblico nell’invocare l’additata
nomina e nutrono fiducia che sarà accettata". Potrei narrare altri fatti
di ingerenze indirette apparse in taluni giudizi criminali: un uomo che aveva
falsificato il suo nome e la professione, e che era già stato condannato per
volgari reati, compariva sul banco degli imputati, munito di commendatizie di
deputati. Ma parmi tutto ciò che ho detto soverchiare il bisogno.
Aggiungerò solo che per le medesime cagioni non apparve sempre né dovunque
egualmente pronta e severa la percezione dei delitti; e che le grazie, gli
indulti, le amnistie rappresentano un lato gelosissimo della questione, come
ne rappresenta un altro lato l’indecoroso spettacolo teatrale che si permette
alle Corti d’assise nei processi criminali più clamorosi.
Tutto ciò fa sì che uomini provetti di età e ragguardevoli temono forte, e
taluni anzi osarono affermare che sotto i governi che dominarono l’Italia dal
1815 al 1860 la giustizia fosse meglio amministrata, e il ceto dei
magistrati36 più rispettato e più rispettabile di quello che sia oggidì. Io
non mi piego a tale giudizio: però volendo essere imparziali, bisogna
riconoscere che dove non si trattasse di politica, in generale i tribunali di
quel tempo sentenziavano con sufficiente austerità in tutto ciò che si
riferiva vuoi al codice civile o al codice penale; taluni poi tra essi
godevano una fama meritata di sapienza e d’illibatezza. Il male nasceva, e
giganteggiava tosto, quando trattavasi di delitti di stato. Ivi si formavano
tribunali statarii, abborracciati a furore, con procedure irregolari, e parte
militari, e ne uscivano sentenze iniquissime: vendetta anziché giustizia. Né
sarà mai ricordato con tanta indignazione che basti, come certi governi
assoluti, sia che la potestà spettasse ad una monarchia, o ad una oligarchia,
o a tribuni popolari, ponessero i tribunali al servigio delle proprie
passioni. Da Tacito sino ai testimonio della rivoluzione francese nel 1793,
gli storici abbondano di fatti giudiziari abbominevoli, onde uomini innocenti
furono ingiustamente condannati e tradotti al patibolo per appagare le
passione di coloro che tiranneggiavano. Gran vanto del governo costituzionale
è di aver introdotto negli ordini potestativi congegni atti a frenare le
esorbitanze di ogni suo elemento, e di aver separato la magistratura
giudiziaria degli altri uffici esecutivi. Nel suo normale esercizio, ciò
dovrebbe avere questo effetto che le porte del tribunale rimanessero
perpetuamente chiuse allo spirito di parte; ma in fatto non sempre avviene,
perché lo spirito di parte è inquieto, e vuol che tutti partecipino alle sue
pugne, e s’infiltra dovunque e nulla lascia d’intatto ai suoi rancori e alle
sue cupidigie. E la storia c’insegna che quanto più i ministri e le assemblee
sono inetti o cattivi, tanto si sforzano a trovare nel verdetto del giudice
un’apparenza di ragione, e ad accomodare i tribunali alle voglie loro. Di che
poi scende nel popolo il dubbio che la giustizia abbia abbandonato il suo
santuario, ed è questa, come dissi già, la peggiore iattura che in una
nazione civile possa incontrare.
Ma lo stato non è solo tutore del diritto, a mezzo dei tribunali per
reintegrarlo se offeso, e punire i violatori. Esso inoltre amministra
nell’intento di fare il pubblico bene. Non è qui luogo ad esaminare quali
siano i limiti dentro i quali si debba ristare l’azione dello Stato, e se
alcuna delle attribuzioni che ha oggi non sia soverchia e possa utilmente
deporsi, per lasciarne la cura ai privati cittadini, e alle libere loro
associazioni. Di ciò ho avuto occasione di parlare lungamente in altri
scritti, e mi tornerà in acconcio di riparlare nel capitolo dei rimedi. Qui
trattandosi del fatto, mi conviene prendere l’ordinamento dello Stato com’è
nella nazioni civili e soprattutto in Italia. Ed ho delineato sopra quanta
sia l’importanza dell’amministrazione, quali siano le fattezze che la
diversificano dalla giustizia.
Qui ovvio si presenta la mente per primo un quesito, ed è il seguente:
L’amministrazione dee proceder sciolta da ogni legge e per proprio arbitrio?
E la risposta vien sulle labbra di tutti negativa; ma si dirà che abbondano
le leggi e i regolamenti in molti rami d’amministrazione. Sta bene; nondimeno
non si può negare che una certa libertà di giudizio e di azione in parecchi
casi è indispensabile all’amministratore, il quale dee agire a seconda delle
opportunità, e in vista del bene pubblico. Guardando al fatto, nei paesi
nostri, questa larghezza è grandissima e in molti casi l’amministrazione si
svolge secondo il giudizio dei pubblici funzionari. Pertanto è lecito
desiderare che i regolamenti, i decreti, le istruzioni abbiano qualche cosa
di più strettamente conforme alla legge, e producano effetti giuridici:
quando più di chiarezza e di precisione hanno gli obblighi e i diritti dei
cittadini, tanto può dirsi che si procede nel cammin vero della civiltà. Però
siano pur le norme ben determinate, il governo quando amministra ha sempre
mestieri di una certa larghezza, ed è giudice della convenienza di fare o di
tralasciare tale atto, d’impellere o di negare tale opera.
Ora questa larghezza offre un campo immenso ai partiti per scorazzarvi con
piena balia, e spesso anche s’attentano a soperchiare i regolamenti e i
decreti. Non è più nell’interesse generale ma in quello del partito o di
singoli individui che si fanno gli atti amministrativi. Il favore e
l’avversione, l’indugio o il diniego di provvedere, l’abuso e il sopruso
divengono consuetudine e quindi poi nasce quella irrequietezza, e quello
scontento che rende ai popoli le istituzioni discare. E’ questo il male sul
quale abbiamo invocato le meditazioni e gli studi degli uomini desiderosi del
pubblico bene. E mi sia lecito ancora a costo di peccare di ripetizione lo
insistervi. Perché l’amministrazione sia retta e ottenga il fine suo che è
l’utilità generale, è necessario che sia imparziale. Ora poniamo che lo spirito
di parte s’insinui in essa, che i suoi atti siano regolati dallo intento di
giovare al partito, di assicurare il trionfo, di mantenere la potestà
pubblica nelle sue mani, di spegnere e di menomare le forze del partito
opposto, di esercitare vendetta contro gli avversari, chi non vede la lunga
serie di guai e la corruzione che da questo stato di cose derivano?
Abbiamo detto che occorrono all’amministrazione quanto più sia possibile
norme fisse e giuridiche. Pur nondimeno per quanto un governo e i suoi agenti
siano savi e bene intenzionati, non è possibile che talvolta non errino, ma
quando il male non eccede i limiti della naturale fragilità, il riparo non si
appalesa così urgente. Può a dir vero la previdenza legislativa antivenirvi,
ma più spesso la necessità e la urgenza del rimedio si appalesano solo dopo
dure esperienze. Ad ogni modo e nell’uno e nell’altro caso, quando havvi
opportunità di un riordinamento amministrativo, il quesito si mostra sotto
questa forma: "Il cittadino che si sente leso da un provvedimento
amministrativo (e sotto il nome di cittadino si comprende anche ogni ente
morale e lo stesso agente del governo) a chi deve ricorrere, e come può
conseguire giustizia e riparazione?37".
Si risponderà: al tribunale ordinario. Ma non tutte le questioni possono
essergli recate dinanzi, né esso è competente a tutte risolverle, come
mostrerò in appresso. Qui stiamo al fatto; e il fatto è che sebbene l’Italia
pei suoi ordini sia uno dei paesi nei quali è massimo il numero delle
controversie che appartengono al contenzioso giudiziario, pur nondimeno assai
ne rimangono fuori di questa cerchia. In simiglianti casi vi sono è vero
alcuni corpi che hanno giurisdizione amministrativa come la Corte dei conto
nella liquidazione delle pensioni e nell’esame dei conti, e il Consiglio si
stato e finalmente alcune Commissioni speciali in qualche materia, ma anche
questo campo è ristrettissimo. Nel maggior numero dei casi nei quali è
ammesso il ricorso amministrativo, esso va dinanzi all’autorità superiore a
quella, contro la quale il cittadino si grava. Ora se quest’autorità è
sempre, quasi per naturale istinto, inclinata a sorreggere il proprio agente,
se il raro, e a mal suo grado s’induce a dargli torto, questa inclinazione si
trasforma in abitudine, ed ingiustizia volontaria quando vi si mescolano le
passioni di parte, ondeché il ricorso diventa una vana formalità, e non
arreca sostanziale ammenda.
Parmi opportuno di soffermarmi alquanto su questo punto, per mostrare
entrambe le proposizioni; che v’ha cioè indebita ingerenza della politica
nell’amministrazione, e che manca il modo di farsi rendere giustizia. L’on.
Spaventa in un discorso pronunziato a Bergamo il 6 maggio 1880 e che per la
verità delle cose espresse fece negli animi viva impressione, ha trattato il
tema che abbiamo per le mani. Egli pure ha preso le mosse dagli effetti del
governo parlamentare nelle pubbliche amministrazioni, e ne ha mostrato gli
inconvenienti. Che se le mie prime affermazioni di Napoli porsero a lui
occasione di esporre quelle idee, io posso rallegrarmi di avervi dato
impulso, e debbo dire a mia volta che il suo discorso di Bergamo fu per me
incitamento e conforto a scrivere questo libro. Lo Spaventa esaminò con
severo criterio la questione sotto gli aspetti che ho sopra indicati; la incertezza
cioè e il difetto di norme giuridiche le quali limitino e regolino le facoltà
dell’amministrazione, e la possibilità di trovare chi e come ammendi il torto
cagionato al cittadino o al corpo morale.
Ricordai antecedentemente la sentenza dello Gneist che i primi segni
dell’azione indebita del partito nell’amministrazione scorgonsi nella
polizia. Paragonando egli la Francia, la Grecia, l’Inghilterra venne a questo
giudizio per mo’ di conclusione, che il grado di legalità e di rettitudine
che si riscontra nella polizia preventiva, è per dir così la misura del grado
di legalità e di rettitudine in ogni altro ramo della cosa pubblica. Lo
Spaventa anch’egli si parte dalla legge di pubblica sicurezza, nella quale
trova ben dodici punti dove l’autorità è sciolta da ogni vincolo, e può agire
secondo che più le sembri opportuno. A ciò si aggiunge la parte che riguarda
le ammonizioni estese ampiamente colla legge del 1864. Questa legge fu
giustificata dalle tristissime condizioni e veramente straordinarie della
sicurezza pubblica nelle provincie meridionali a quel tempo, ma venuto lo
Stato in condizioni normali non è scevra di pericoli per la libertà del
cittadino. E infine ei discorre sulla materia delle associazioni nella quale
non solo non v’è norma precisa, ma pende incerta anche la giurisprudenza.
Imperocché tutti consentono che il silenzio dello Statuto abbia ad
interpretarsi come favorevole alla libertà, ma tutti riconoscono similmente
che la libertà dee avere dei limiti. La discrepanza nasce quando si tratta di
ben determinare questi limiti, e fra tutte le determinazioni possibili quella
che ne fu data dal ministro dell’interno alla Camera, il 20 marzo 1880, parve
allo Spaventa che fosse la più lontana dal vero, e celasse sotto apparenza di
libertà un enorme arbitrio.
Per ben chiarire l’argomento della incertezza delle norme giuridiche nella
amministrazione, e il difetto della giurisdizione a cui ricorrere,
bisognerebbe prender ciascheduna legge e regolamento, e discorrendoli parte a
parte scorgere in che vadano emendate. Lo Spaventa ne toccò taluna, ed io ne
aggiungerò qui parecchie altre, ma più per esempio che colla presunzione di
supplire ad un lavoro di lunga lena che richiederebbe attentissimo esame, e
non di un solo ma di più uomini esperti nell’amministrazione, che congiungano
alle nozioni teoriche la quotidiana e minuta pratica.
Il ministro dell’Interno ha una specie di alta vigilanza sugli enti morali
Provincie, Comuni, Opere pie. Ma ella è ben più che un’altra vigilanza: è un
vero ed ultimo appello in tutte le questioni più importanti, come la
regolarità delle elezioni comunali e provinciali, lo scioglimento delle
rappresentanze loro, la convenienza dei provvedimenti di sicurezza e d’igiene
pubblica presi d’urgenza dai sindaci. Ora su questi punti chi può negare che
molti arbitrii siano possibili? Il senatore Zini nel suo discorso al Senato
sul bilancio del ministero dell’Interno del 1879, e in quello sul bilancio
del 1880 e nei suoi due volumi dei criteri di governo in Italia, dei quali
dirò alcun che più oltre, ha citato parecchi fatti di tal genere fra i quali
il seguente. In un Comune, in occasione della rinnovazione del quinto dei
consiglieri, nacquero contestazioni davanti al seggio elettorale: questo,
secondo che gliene dà facoltà la legge, decise e proclamò il risultamento
dello scrutinio. Fu portato ricorso al Consiglio comunale, e confermò il
giudizio del seggio. Fu ricorso in appello, e la deputazione provinciale fu
di avviso conforme. La denunzia fu recata al Re in Consiglio di stato, il quale
trovò giusto il pronunziato del seggio elettorale, del Consiglio comunale,
della deputazione provinciale. Nonostante questi quattro opinamenti concordi,
il ministro dell’interno annullò lo scrutinio o per dir più esatto corresse
di suo moto proprio lo scrutinio, introducendo piuttosto l’un che l’altro
cittadino nel consiglio comunale. Similmente in più recenti occasioni, il
ministro dopo aver interrogato il Consiglio di Stato in sezione sopra una
modificazione di circoscrizione elettorale, ed avutone responso negativo,
interrogato di nuovo il Consiglio in sezioni riunite ed avuta conferma del
primo parere, pure ordinò che gli elettori fossero trasmutati da uno ad altro
Collegio.
Un altro argomento vitale è quello delle spese obbligatorie. In caso
d’inadempimento, se al difetto del Comune supplisce la deputazione
provinciale, al difetto della Provincia supplisce il prefetto, e nell’uno e
nell’altro caso il ricorso è risoluto definitivamente dal ministro
dell’interno. Gravissimo è il fatto di uno scioglimento del Consiglio
provinciale o comunale. Lo prevede la legge ma vi pone per condizione gravi
motivi di ordine pubblico (art. 235). Ora qual guarentigia vi è che il
ministro abbia siffatti motivi, o non sia piuttosto spinto da interessi di
partito? Nessuna. Qui non si interroga neppure il Consiglio di Stato, e
neppure si pubblica nella Gazzetta ufficiale una relazione che di quei gravi
motivi dia contezza, anzi è venuto in costume che non si pubblica neppure il
decreto di scioglimento. Questo atto rilevantissimo nella vita locale, rimane
quasi un atto interno. E se trattandosi di grandi città si ode talvolta una
interpellanza in Parlamento, lo scioglimento del Consiglio di piccoli Comuni
passa senza che altri pur lo sappia o ne muova querela, tanto più quando è
fatto d’accordo col deputato del luogo, e per servire alle sue passioni.
Per la sanità pubblica che pur dipende dal ministro dell’interno, havvi una
gerarchia di Consigli, ma questi non hanno che un solo attributo di
giurisdizione (art. 25, Legge 20 marzo 1865) quando ne siano richiesti dal
prefetto, e al fine unico di deliberare provvedimento disciplinari contro gli
esercenti professione sottoposta alla vigilanza loro: a questa giurisdizione
sono sottoposti medici, chirurgi, flebotomi, levatrici, dentisti, erbaiuoli,
semplicisti, droghieri, veterinarii. In ogni altra parte della sanità
pubblica i Consigli sono chiamati solo ad esprimere un parere. Ed è a notare
quel che ho avvertito sopra, che il Sindaco ha diritto per l’articolo 104
della legge comunale e provinciale di fare i provvedimenti contingibili ed
urgenti, e di far eseguire gli ordini relativi a spese degli interessati.
Intorno a ciò nacquero molte contese, e furono portate davanti ai tribunali.
Ma questi dichiararono sempre che il giudicare se le spese erogate dal
sindaco erano state debitamente messe a carico del privato, avrebbe importato
conoscere della opportunità e convenienza dell’atto che il Sindaco compie
come delegato dell’amministrazione, il che in verun modo poteva competere
all’autorità giudiziaria.
Né diverso è il caso delle Opere pie, dove sotto pretesto di riordinarle
possono dai ministri prendersi le più arbitrarie disposizioni. Lascio stare
la nomina di commissari stipendiati, scelti fra gli uomini parlamentari, e
mantenuti in ufficio fuor di legge, senza ricostituire un’amministrazione
normale. Lascio stare l’ordine impartito ai prefetti di cancellare dal
bilancio delle Opere pie le spese di culto prescritte dalle tavole di
fondazione in quei casi, nei quali l’adempimento di esse non avesse sanzione
giuridica, e fosse soltanto raccomandato alla coscienza degli amministratori.
Ma non si può tacere della riforma della Cassa di risparmio di Milano.
Imperocché se ciò poteva idealmente reputarsi utile, non era però
praticamente urgente come la riforma di tante altre Opere pie, delle quali da
ogni banda si lamentava la mala amministrazione, senza che il ministro
degnasse pur volgervi un pensiero. Qui invece tutti eran concordi
nell’ammirare la probità somma, la oculatezza, la parsimonia colla quale
l’istituto era amministrato, e si lodava per ogni regione d’Italia di essersi
fatto iniziatore di concorsi a premio, al fine di regolare e migliorare le
associazioni di mutuo soccorso, e fornirle di utili statistiche: eppure si
volle a tutta forza precipitarne la riforma. Che se pur tanto si voleva fare,
non era necessario passar sopra alle clausole della legge, al parere del
Consiglio di stato, e alla opposizione della Corte dei conti. Tutto ciò
invece fu messo in non cale, e ben può reputarsi che la politica non vi fu
estranea. Ma posto il decreto, come e a chi poteva la Cassa di Risparmio di
Milano ricorrere per violazione di statuti, o per irregolarità nel modo della
riforma? La voce del Consiglio di stato, e quella della Corte dei conti s’eran
fatte udire indarno, il tribunale non era competente. Il ministro
dell’interno poteva dire anch’egli: "Papa locutus, causa finita".
In materia di polizia industriale la nostra legislazione è rudimentale. Per
tutte le industrie e mestieri, all’esercizio dei quali è necessaria una
licenza, questa si concede dall’autorità politica del circondario, dopo il
voto della giunta municipale, e i permessi possono revocarsi. La deputazione
provinciale, a richiesta della giunta municipale o di persona interessata,
dichiara quali manifatture, fabbriche, e depositi debbono considerarsi come
pericolosi, insalubri, incomodi. Questa dichiarazione approvata dal prefetto
ha per conseguenza di impedire nel comune l’impianto e l’esercizio di tali
manifatture, fabbriche e depositi, e contro queste decisioni, che pur toccano
interessi considerevoli, non v’ha altro ricorso possibile che in via
gerarchica.
Passo ai lavori pubblici. E’ noto che tutte le controversie circa la
classificazione delle strade comunali siano o no obbligatorie, la
costituzione dei consorzi, i contributi relativi, sono decise in ultima
istanza dall’autorità ministeriale. Similmente le questioni che riguardan le
acque pubbliche (salvo che non si tratti di risarcimento per danno dati), i
consorzi idraulici, la classificazione dei porti, la costituzione e i
concorsi dei relativi consorzi. Vero è che in parecchi casi debbonsi udire i
pareri della deputazione provinciale, e in moltissimi casi è richiesto
l’avviso del Consiglio superiore del lavori pubblici, ma codesti sono voti
consultivi che non obbligano il ministro.
E qui è da notare che nei paesi retti a governo parlamentare la materia dei
lavori pubblici è una delle più vessate dall’ingerenza dei deputati;
imperocché essi in tanto acquistano favore nel Collegio e lo conservano, in
quanto valgano ad ottenere una strada, un sussidio, una anticipazione a
preferenza degli altri e se ne vantano. Abbiamo assistito ad un largo
dibattito sopra un piano di costruzioni ferroviarie durante il quale furono
introdotte mutazioni di classe, nuove linee, e modificazioni sostanziali
delle prime proposte: il pubblico attribuivalo ad influsso di varii gruppi di
deputati. Un somigliante esempio s’è veduto nella legge per le strade, porti
ed altri pubblici lavori, dove il ministro avendo proposto una spesa di 165
milioni, fu dalle esigenze parlamentari, e per contentare interessi locali,
trascinato ad introdurre assai più di lavori che non aveva creduto
necessario, e a portare la somma a 225 milioni. Il relatore si querelava del
diluvio delle dimande, il ministro dolevasi che l’elenco dei lavori fosse
avviluppato e fatto con troppa fretta, altri trascorrevano a più acerbe
accuse: ma fu indarno. Arroge che questa legge abborracciata, lascia molte
incertezze nella sua interpretazione, se la costituzione delle nuove strade
provinciali sarà eseguita dallo Stato ovvero dalle provincie stesse, se i
Consiglieri di queste che devono pur essere interrogati avranno voto
deliberativo, ovvero espresso il parere dovranno sobbarcarsi alla spesa loro
imposta e va dicendo. Tutto ciò mostra che noi continuiamo a far leggi
incerte, indeterminate, donde per necessità scaturisce l’arbitrio
ministeriale del quale il cittadino o l’ente civile offeso non trova ricorso
possibile. E il Senato non tralasciò di notare e nell’uno e nell’altro caso
questi difetti: dubitò eziandio se di tal guisa rimanessero inalterate le
prerogative d’entrambi i corpi legislativi, e notò che dal punto di vista
tecnico questa maniera d’improvvisare in fatto di lavori pubblici poteva produrre
lamentevoli conseguenze. Alle quali considerazioni si piò aggiungere altresì
risguardando l’avvenire che tutti questi lavori, ordinari e straordinari sono
ripartiti in una serie di molti anni, per la qual cosa la preferenza da darsi
agli uni sugli altri nel tempo di loro esecuzione, addiverrà occasione e
stimolo a nuove ingerenze parlamentari.
Leggasi l’inchiesta sulle ferrovie, e si vedrà qua e colà uscir fuori delle
deposizioni in questo senso: che i deputati invece di fare i legislatori
fanno i sollecitatori d’affari ferroviari. Uno degli interrogativi,
testimonio competente ed autorevole, risponde così: "Bisognerebbe che
l’amministrazione delle ferrovie fosse libera da tutte le influenza
parlamentari; a questa sola condizione, essa potrebbe camminare bene. Ma mi
si permetta di ripeterlo, nessuna amministrazione, e molto meno una
amministrazione ferroviaria, che ha infiniti rapporti col pubblico, potrà
procedere regolarmente e bene, se vi si mescolano le influenze e le esigenze
parlamentari. Basti un esempio. Tutti vogliono i treni diretti, e appena
stabiliti s’affollano le domande dei deputati per le fermate alle stazioni
del loro collegio, le quali per essere di poca o nessuna importanza non
dovrebbero essere ammesse, ma che purtroppo lo sono, a cagione della
influenza dei deputati del Ministero... Se si trovasse un Ministero il quale
potesse dire di no ai deputati ed un Consiglio che non si lasciasse imporre
dei medesimi, quando questi cercano di far pressione e per la loro
benemerenza elettorale, od anche pel solo desìo di far valere la loro
protezione, credo che a qualche buon risultato si potrebbe venire". E un
altro testimone lamenta anch’egli "i treni diretti soltanto di nome, che
si fermano a tutte le stazioni. Quelle fermate sono dovute spesso
all’influenza dei deputati, e coll’orario alla mano egli potrebbe dire a quel
deputato si debba quasi ogni fermata38 ".
E per verità quando si combatteva il concetto dell’esercizio ferroviario
governativo non mancarono molti i quali nella discussione39 accamparono il
pericolo che nella scelta degli impiegati, e nella condotta della impresa le
ragioni politiche prevalsero alle tecniche. Ciò pareva anzi all’on. Crispi
una conseguenza inevitabile perché "tal’è, diceva egli, la natura degli
uomini. I governi sono la rappresentanza dei partiti, ogni partito ha sempre
desiderio di vincere, e di vincere qualche volta schiacciando i propri
avversari; quindi è nel suo interesse di costituirsi un esercito d’amici, una
truppa di proseliti, della quale possa servirsi nelle circostanze".
Ma ritornando là donde mi sono dipartito, e restringendo il mio dire alle
controversi che possono nascere fra i privati e l’amministrazione in materia
di lavori pubblici, quivi ancora il ricorso è dall’autorità inferiore alla
superiore, e mancano forme giuridiche. Inoltre la decisione ultima spetta
sempre al ministro abbenché debba in molti casi udire il parere del
Consiglio; e non solo egli giudica definitivamente, ma gli è lecito eziandio
di ritornare dopo qualche tempo sopra la decisione pronunziata che gli altri
tenevano per definitiva, e appresso nuovo esame di mutarla. Laonde molte
questioni durano lunghissimamente, e queste variazioni a libito ministeriale,
posto che qualche volta correggano un errore commesso, possono apportare gravissime
conseguenze.
In fatto d’istruzione pubblica la legge lascia parimenti non poche incertezze
e lacune, alle quali non si è supplito abbastanza coi regolamenti, e questi
si rimutarono alla lor volta, o furono emendati da circolari a iosa, ed anche
mancò la puntuale osservanza della legislazione scolastica. Per dare un
esempio, basti il guardare la questione dell’istruzione religiosa nelle
scuole elementari. Dove la legge dice una cosa, altra decisero taluni Comuni,
il Consiglio di stato opinò per la legge, il ministro pei Comuni, e la Camera
stimò con un ordine del giorno, che non ha nessun valore legislativo, aver
tutto composto. D’altra banda giova il riconoscere che in molti casi il
Consiglio superiore d’istruzione pubblica era efficace freno al ministro, in
ciò soprattutto che dirigendo i concorsi alle cattedre seppe tenerne sovente
lontano uomini mediocri o incapaci. Eppure, salvo il caso di provvedimenti
disciplinari da prendersi contro i Professori, il voto del Consiglio era
meramente consultivo, e il ministro potea trascurarne l’avviso senza che ne
rendesse ragione. Che se in talune materie aveva l’obbligo di consultarlo, in
molte era libero, e solo a decidere. Nonostante parve che anche in questi
ristretti termini, il Consiglio fosse d’impaccio alla libertà del ministro e
ne fu mutata la composizione e l’ordinamento per legge. Questi ebbe facoltà
di scegliere a suo grado le commissioni esaminatrici per le cattedre vacanti.
Ora apparisce chiaro come assai più difficile riesca ad un solo uomo di ben
comporle per ogni facoltà di studi; e se anche egli vi ponesse la migliore
intenzione, non eviterebbe qualche taccia di parzialità, di che oggi si odono
dovunque levare alte le grida. Similmente il ministro libero dalle pastoie
del Consiglio, mostrò di prendere sulla istruzione mezzana provvisioni che
contrastavano alla legge; i sussidi non apparvero dati con eque lance, in
generale l’arbitrio ministeriale è lamentato in questo ministero più
fortemente che in ogni altro.
Certo non mancarono irregolarità e talvolta soprusi nei primi tempi del
nostro risorgimento: uomini dappoco, e talvolta anche di fama men che onesta
furon chiamati all’insegnamento solo perché si vantavano di patriottismo,
ovvero erano preti spretati e frati sfratati, il che fu esempio pessimo e
cagione di danni all’insegnamento, dal quale molti padri di famiglia per ciò
abborrivano. Ora il favore è passato ai politicanti, e abbiamo veduto
introdursi negli uffici nuovi, ispettori e presidi mutati di circolo o
promossi, per merito di faccenderia elettorale e fatto man bassa sovra
impiegati provetti e rispettabili. Non parlo degli incoraggiamenti alle arti,
né degli invii di commissari e congressi e ad esposizioni internazionali,
dove la politica talvolta designò tali uomini che erano al tutto ignari della
materia, e l’Italia ne scapitò al cospetto degli stranieri. certo è che abusi
partigiani d’ogni maniera non mancarono.
Il ministro di agricoltura e commercio ha balìa in molti punti che le leggi
non determinano precisamente, e v’ha una materia sopra tutte delicatissima
come quella del credito nella quale le sua facoltà sono quasi effrenate.
Imperocché esso può trovar modo si concedere o negare alle società anonime la
facoltà di costituirsi in corpi morali, e può eziandio favoreggiare o
contrariare gli istituti di credito. Furono accusati fieramente i ministri
dopo il 1859 di aver dato irregolarmente alla Banca nazionale, fondata per il
solo regno di Sardegna, estensione e privilegio di emissione in tutti il
regno d’Italia. Non intendo di esaminare se il decreto eccedesse le facoltà
amministrative, ma se accesso vi fu, può trovar accettevole scusa in quei
primi momenti delle annessioni; e ben è lecito affermare che la istituzione
delle sedi e delle succursali della Banca in ogni capoluogo di provincia
tornò utile all’industria e al commercio nazionale. Ma venne un tempo di
reazione nel quale si voleva assalire da ogni parte la Banca e scuoterla, e
se il partito di opposizione fosse andato allora al governo ne avrebbe forse
fatto scempio, con grane iattura della cosa pubblica. La salvò nel 1874 una
legge, la quale consorziando i vari istituti, e mettendo limite alla
emissione dei biglietti, attutì i clamori e temperò le animavversioni.
Nondimeno resta pur sempre una lata potestà nel ministro in questa parte del
credito pubblico.
La legge sulla pesca (4 marzo 1877) è in generale vaga ed incompiuta, ma ciò
che è veramente indeterminatissimo si è quanto riguarda la concessione di
tratti di spiagge, acque demaniali, e mar territoriale; imperocché si
contenta di porvi due riserve, che la concessione non possa eccedere i
novantanove anni, e che sia subordinata alle condizioni d’interesse generale,
e al conseguimento del fine richiesto. Invece la legge sui boschi (20 giugno
1877) dà adito ai ricorsi contro le decisioni del comitato forestale circa i
terreni vincolati, i rimboschimenti, le possibilità e i modi di ridurre a
coltura agraria i terreni boschivi, e attribuisce al Consiglio di stato una
vera giurisdizione amministrativa, poiché ad esso spetta la finale decisione.
Il che io indico per mostrare la differenza e talvolta anche la incoerenza
che regna nel nostro diritto amministrativo. Nella legge sulle miniere (20
marzo 1859 parziale ad alcune provincie) la concessione, e la chiusura fu
riguardata sempre come atto amministrativo che apparteneva al ministro,
sentito il Consiglio delle miniere; ma le questioni circa l’interpretazione,
gli effetti e l’esecuzione dei decreti di permesso di ricerca, e di
concessione, circa la costruzione di officine, circa i rapporti fra
l’amministrazione e i concessionari erano devolute al contenzioso
amministrativo che esisteva ancora quando la legge fu fatta. Abolito questo,
con regolamento 20 dicembre 1865 molte delle predette quistioni furono dal
ministro avocate a sé, e serbate alla sua propria libera decisione.
Nel ministero della guerra toccherò un punto solo ma gravissimo, quello della
leva. Contro le decisioni del Consiglio di leva si può ricorrere; ma a chi?
al ministro. E con quali guarentigie? Il ministro dee udire il parere di una
commissione composta di un ufficiale generale, due ufficiali superiori, e due
consiglieri di stato che esaminano i ricorsi senza forme precise di
procedimento. E inoltre il parer loro non vincola il ministro, che può a suo
grado pronunziare l’ultima sentenza. M’affretto a dire che l’opinione
pubblica ha riconosciuto in generale una grande giustizia e imparzialità in
codeste decisioni. Ma oltrecché non mancarono tavolta gravi parole anche
davanti ai tribunali, questa imparzialità di fatto si deve alla rettitudine
degli uomini preposti a quegli uffici ma non toglie la possibilità di un
pericolo, contro il quale gli ordini nostri dovrebbero averci premunito. Ad
ogni modo sia questa lode d’Italia nel passato, e augurio dell’avvenire, che
lima di spirito partigiano non poté rodere sinora il ferro adamantino
dell’esercito nazionale.
Anche nel ministero della marina, contro le decisioni del Consiglio di leva
presieduto dal capitano del porto v’ha ricorso al ministro, che sentita una
Commissione analoga alla sopradetta potrà riformare il primo giudizio. I
comandanti delle regie navi che trovandosi in paesi lontani, e temendo di
avventurare la missione loro affidata, provassero necessità di rifornirsi di
marinai, possono levarne sotto la propria responsabilità dai bastimenti
mercantili nazionali che fossero ancorati nei porti esteri, sino a
concorrenza del quarto dell’equipaggio loro. La legge (18 agosto 1871), dice,
che dove risiede un’autorità consolare quest’ordine di leva è dato dalla
medesima, parla eziandio di un risarcimento da darsi delle spese di rinvio
dei marinai, ma non accenna in alcun modo come l’armatore della nave, che
fosse stato non equamente scemata dei suoi marinai, possa farsi rendere
giustizia, e conseguire almeno un compenso dei danni sofferti. Dal Codice
stesso di marina i capitani e gli ufficiali di porto sono chiamati a
giudicare controversie surte in assenza di una parte, e senza appello (art.
15 Regol. per il Codice della marina mercantile). Lo stabilire tonnare, ed
opere di piscicultura, le concessioni temporanee di spiaggia sono affidati
interamente all’arbitrio del ministro. Solo il giudizio per la legittimità
delle prede e per la confisca sarà promosso dinanzi ad una speciale
commissione da istituirsi con decreto reale.
Di questo difetto di guarentigie non può dirsi immune neppure il ministero
delle finanze. Però se la necessità di stringere i freni, di riscuotere gli
assegnamenti, d’imporre e attuare nuove tasse, obbligò a dure leggi, non
tolse che qualche cautela fosse data a difesa del privato. Vero è che il
pensiero principale se non unico degli uomini che allora reggevano le
finanze, era quello di riordinare ed assettarle; ogni altro avvedimento
cedeva a questo intento, ma è strano che dopo il 18 marzo 1976 non si sia fatto
quasi nulla per ripararvi, mentre una delle precipue cause della caduta del
ministero su l’accusa e lo scalpore infinito che si menava per le vessazioni
e per le fiscalità. Nondimeno la revisione dei fabbricati si eseguì appresso
senza migliorare i procedimenti di accertamento, i quali sono pur gli stessi
della tassa di ricchezza mobile: una commissione di prima istanza
mandamentale, una commissione di appello provinciale, una commissione
centrale di revisione quasi a forma di cassazione. Ma la definizione del
reddito imponibile appartiene alla commissione provinciale, dinanzi alla
quale il ricorrente può essere inteso, in contraddittorio del rappresentante
del fisco, ma è l’uopo che ne sia da lui fatta espressa domanda. Quanto alle
dogane, havvi a costa del ministro un collegio di periti, e in caso di
controversia fra il contribuente e gli ufficiali di dogana rispetto alla
qualificazione delle merci, il ministro delle finanze, udito questo collegio,
risolve a suo grado tali controversie con decisione motivata. Rispetto al
dazio di consumo, tutta la materia degli abbonamenti coi Comuni è nelle mani
del ministro. Certo quando un Comune si accorgesse che, accettando la somma
da lui determinata, ci perderebbe irremissibilmente delle spese, si
sobbarcherà piuttosto all’appaltatore governativo; ma non è men vero che se
non vi ha da parte di chi governa le finanze grande giustizia ed equità,
codesta potrebbe essere sorgente di favori e di dispetti senza alcuna
guarentigia: e so ben io per esperienza, di quante difficoltà ed amarezze sia
apportatrice una ferma risoluzione d’imparzialità. Potrei noverare qualche
altro punto nelle tasse di registro, e nelle questioni per la riscossione
delle imposte dirette, dove occorrerebbe qualche clausola in difesa del
contribuente; ma il lungo tema mi caccia, e qui più che per analisi accurata
io procedo per esemplificazione.
Anche in queste materie finanziarie, nelle quali la ferita è sensibile ad
ognuno, tornerebbe adunque opportuna una revisione delle leggi e dei
regolamenti per dare maggiori guarentigie al privato cittadino, ed aiutarlo a
meglio conseguire una riparazione, se torto gli sia fatto. Né giova che
siansi mandate circolari agli operosi agenti finanziari esortandoli a
procedere con forme di mitezza e di cortesia. Questi suggerimenti non davano
alcuna cautela d’imparzialità, e inoltre la questione vuol essere riguardata
anche sotto l’aspetto degli interessi dell’amministrazione. la quale non deve
andar soggetta alle inclinazioni personali, ai favori, ai capricci degli agenti
e del ministro. Però se da qualche anno si videro meno durezze, si videro più
condiscendenze illegali, quando specialmente c’era di mezzo qualche deputato.
Ho udito io stesso le seguenti parole da uomini competentissimi nel dicastero
del demanio o delle tasse: se voi volete che queste imposte fruttino, fate
che sia chiusa la porta delle raccomandazioni ai deputati. E qui giova dire
che le regole generali non mancano per metterci argine, ma l’abitudine vinse
ogni decreto del ministro, e le raccomandazioni continuano a piovere da ogni
banda. Mi si assicura che negli archivi della direzione delle imposte dirette
esistono documenti autentici i quali provano denunzie di redditi di ricchezza
mobile smaccatamente inferiori al vero, ma accettate per deferenza;
adoperamenti, interessati, per abbassare i redditi attribuiti ad altri, o per
ottenere larghe transizioni su quote di macinazione attribuite a mugnai, i
quali avevano già sperimentato giudizialmente i loro diritti ed erano stato
condannati in prima in seconda istanza ed in Cassazione. E’ noto che il
Consiglio di stato ha dovuto respingere talune proposte d’accordo con mugnai
nelle quali il favore sfolgorava troppo manifestante.
Il Consiglio di stato e la Corte dei conti è vero i due consessi che guardano
la conformità degli atti e dei contratti alla legge, e ove occorra metton
freno all’arbitrio ministeriale. Ma come dissi il Consiglio di stato non ha
giurisdizione che in pochissimi casi e da qualche anno a questa parte si è
preso l’andazzo in cose gravi di udirlo e poi di fare l’opposto dei suoi
pareri. Anche la Corte dei conti ha indarno cercato di opporsi ad alcuni
decreti che violavan la legge, rifiutandone la registrazione. Ma poiché si
può ordinare la registrazione con riserva, il ministero che ha la maggioranza
nella Camera, procede oltre, sicuro in ogni caso di conseguire non solo come
dicesi un bill d’indennità, ma un bill di glorificazione, se violando la
legge abbia servito gl’interessi e le passioni del suo partito.
L’enumerazione degli atti amministrativi che si compiono senza guarentigia o
con guarentigia insufficiente del cittadino, è ben lungi dall’esser qui
spiegata in tutti i rami della cosa pubblica. Io ho voluto levarne qualche
saggio per dimostrare che niuno dei ministeri ne va esente. Né volli fare
atto d’accusa contro alcuna persona, ma dimostrare che là dove è aperto il
varco, la politica s’insinua e le passioni di parte tentano di pigliare il
luogo della imparzialità.
Ma se ciò risponde ad uno dei fini del presente volume, a ben più alte
considerazioni ci chiama questa enumerazione, pur così imperfetta com’è.
L’amministrazione come dissi c’involve da tutte parti; con essa siamo in
cotidiane relazioni, i nostri interessi sono nelle sue mani. Ora si vede che
una non piccola parte degli atti amministrativi si compie, di guisa che colui
che se ne creda offeso non può far ricorso ai tribunali, perché sarebbero
incompetenti a giudicare. Gli rimane solo il rinfranco il ricorso in via
gerarchica. E’ desso sufficiente in una società libera o progredita? Non è
questo un grave difetto del nostro diritto pubblico interno? Non è principio
di corruzione? Ma quel rimedio a ciò? Risponderò a questa domanda nell’ultimo
capitolo: qui indico soltanto che la Prussia e la Germania posero il problema
dinanzi ai Parlamentari loro, e questi stimarono di averlo risoluto ordinando
una serie di provvedimenti, dei quali darò ragguaglio più oltre.
Mi resta anche a toccare un altro genere di rapporti, delicatissimi quanto
gli altri di che ho detto sopra, ed è quello che passa fra il governo e i
suoi medesimi impiegati. Imperocché l’ideale di una buona amministrazione
dovrebbe comprendere la stabilità dell’impiegato, la sua indipendenza da ogni
influsso politico, le sue promozioni regolari per anzianità o per merito. Ora
qui cominciamo altre dolenti note. Poterono i prefetti esser traslocati,
rimutati, e persino messi in aspettativa, e poi in disponibilità, e poi a
riposo, senza che ne fosse addotta altra ragione che la opportunità del
servizio: ma bucinavasi che in taluni casi la ragion vera fosse perché non
garbavano ai deputati della provincia, o alla maggioranza di essi. Abbiamo
letto scritture di prefetti che, per eccesso di zelo o per timore di peggio,
pubblicamente lamentavano di non essere riusciti nelle elezioni a sconfiggere
il partito di opposizione, come se il prefetto fosse mandato a reggere una
provincia non per bene amministrare, ma per fare gli interessi della parte
politica. Che se i prefetti, e i sottoprefetti sono da tal banda i più
travagliati della gerarchia, ciò non toglie che anche in ogni altro dicastero
non avvengano ingiusti spostamenti per ragioni meramente elettorali, con
gravissimo danno del misero impiegato. E anche fuori di questa contingenza,
nella quale la parte politica par che s’imponga, non è raro il caso che un
impiegato per la sciagurata nota di male intenzionato rimanga immobile nella
sua carriera, mentre un altro che si reputa bene intenzionato levasi di botto
ad alti gradi indipendentemente da merito singolare. Abbiamo veduto sospendere
concorsi ad un impiego già inoltrati, e non darvi più seguito perché codesti
favoriti rimanessero nell’ufficio e acquistassero titolo ad occuparlo
definitivamente, godendone intanto i lucri. Abbiamo veduto rimettere in posto
tali uomini che già erano stati giudicati indegni non pure di occuparli
effettivamente, ma di ricevere pensione di riposo. Qui ancora non vi è altra
guarentigia che il beneplacito dei superiori. Un sol caso, quello della
destituzione, è sottoposto al giudizio di una commissione.
E poiché ho parlato delle ingerenze politiche, ve n’ha una che sebbene non
illegale, pure sotto l’aspetto morale spicca maravigliosamente, ed è
l’essersi contravvenuto più volte alla legge delle incompatibilità
parlamentari la quale prescrive che durante il tempo in cui il deputato
esercita il suo mandato, e sei mesi dopo, non potrà essere nominato a verun
ufficio retribuito. Vero è che la legge soggiungeva che tali disposizioni
andrebbero in esecuzione solo coll’aprirsi della quattordicesima
legislatura40 ma quando si pensa alla fretta, e direi quasi all’impeto onde
questa legge fu presentata e sancita in Parlamento, come se veramente da essa
dipendesse il buon andamento e la moralità delle nostre istituzioni, e quasi
la salute della patria, a ragione può chiedersi se l’obbligo morale del
ministero a mantenerla non cominciasse dal giorno medesimo in che fu
promulgata. Eppure se si paragone il tempo trascorso dalla fondazione del
regno d’Italia sino alla promulgazione di detta legge con quello posteriore
sino alla rinnovata legislatura, si vedrà che il caso era stato relativamente
assai più raro prima che non fosse di poi. Finalmente chi non ricorda i
settanta deputati datti Commendatori tutti in una volta. La cosa menò gran
vampo, e credo veramente che un esempio simigliante non si trovi in nessun
altro paese, e proverebbe che se noi siamo i sezzai nella vita
costituzionale, però nelle sue men nobili arti possiamo arrogarci di avere il
primato. Ma i ciondoli non bastano a contentar tutti, e chi andasse a
consultare i registri di qualche Banco di emissione, vedrebbe che l’ufficio
di deputato non gli fu di poco giovamento per la facilità di scontar
cambiali, e di queste ne troverebbe taluna che sta per avventura sepolta
silenziosamente fra le partite che chiamansi in sofferenza, ma cui si addice
nome più proprio quello di crediti inesigibili.
Ma non vorrei accusare più l’un partito che l’altro, e parmi di nuovo udire
che, sin dalla origine del regno d’Italia, occorsero, fatti di questa
indebita ingerenza della politica nell’amministrazione. E cogliendo al volo
la mia citazione dello Zini, mi si rimbeccherà che il suo libro dei criteri e
dei modi di governo nel regno d’Italia, pubblicato nel marzo 1876, raccoglie
appunto molti fatti contro le amministrazioni precedenti. E’ vero. Questo
libro comparso nel momento in cui la sinistra saliva al potere, ebbe grande
opportunità e parve un atto d’accusa contro il partito che dalle origini del
regno sino al 1876 aveva tenuto il governo della cosa pubblica. Piacque forse
più per le passioni che lusingava, di quello che fosse inteso per ciò che
v’era di giusto e di vero. Imperocché il punto che l’autore aveva preso a
trattare ha molta analogia con ciò che sin qui ho discorso. Io mi trovo
alquanto a disagio nel parlare, e chi ha letto questo libro dello Zini, e le
sue istorie non penerà ad intenderlo: però mi sforzerò di essere esatto nel
riferire, equo nel giudicare. Or dunque egli censura innanzi tutto quello
zelo di autorità pel quale il ministro rifugge dal sindacare l’operato dei suoi
agenti, e dice che ciò conduce a nascondere errori, dissimulare fuorviamenti,
negare colpe, scambiando la dignità e inviolabilità della legge con
l’interesse del partito. Hinc mali labe, non volersi rimuovere gli autori
degli scandali a pretesto di non iscemare l’autorità dei reggitori della cosa
pubblica. E fin qui sono del suo parere interamente. Appresso egli tocca del
primo periodo del governo nuovo e degli arbitrii che vi furono commessi:
modificate circoscrizioni amministrative per conformarle alle giudiziarie, e
anche senza questo pretesto: soppresse violentemente da un R. Commissario
tutte le amministrazioni delle Opere pie di una provincia contro il disposto
delle tavole di fondazione, per surrogarvi la Congregazione di carità.
Critica le mutazioni introdotte per semplice decreto nell’ordinamento del
Consiglio dei ministri, la riunione nel medesimo prefetto delle attribuzioni
civili e militari: denunzia modi illegali ed iniqui adoperati per estirpare
il brigantaggio delle provincie napoletane, mandati agenti provocatori per
sorprenderli, e talune uccisioni fatte in simulata fuga, messe guardie e
piantoni a spese delle famiglie dei renitenti alla leva, e dei disertori, e
tagliati acquedotti per assestar terre che davan loro rifugio. Accusa i ministeri
precedenti di aver soldato e sovvenuto la stampa, di aver tramutati e rimossi
buoni prefetti perché non grati a qualche deputato influente, e per la
medesima ragione tolleratone altri, sebbene dessero manifesti segni di mal
costume. Poi dipinge quelli che chiama proconsoli, cioè: questori e delegati
ai quali si menava buono qualunque sopruso, purché sapessero farsi belli di
aver sventate congiure immaginarie, e salvata la società da pericoli non mai
esistiti; e intendenti e agenti della finanza allora premiati quando
tribolavano maggiormente i contribuenti. Vede il lettore che io non attenuo
le accuse.
Questi fatti poniam che in parte siano veri, in parte sono esagerati. E nel
primo periodo della nostra unità nazionale, trovano se non giustificazione
almeno scusa nella novità del regno, e nei pericoli ond’era attorniato. Così
per esempio la persecuzione del brigantaggio poteva riguardarsi come stato di
guerra, e non è equo sentenziarne col criterio dei tempi normali. E’ da
pensare alla diversità di legislazione in sette Stati, e all’incertezza della
giurisprudenza in un periodo di formazione. E’ anche da notare che dalla
salvezza delle finanze dipendeva il credito e l’onore del nuovo Stato. Laonde
l’autore errò a mio avviso giudicando certi fatti, come se lo Stato fosse in
condizioni ordinarie e non piuttosto straordinarissime, e attribuendo a colpe
di uomini ciò che era effetto del tempo, e delle circostanze almeno per la
massima parte. E non è da tralasciare questa considerazione, che mano a mano
che lo Stato si assolidava, e pigliava ordini comuni, quegli inconvenienti
venivano diminuendo. Ad ogni modo poi non si dee aver vergogna di confessare
che v’ha del vero nel libro dello Zini, che inconvenienti vi furono, che
errori si commisero, benché io per parte mia so e sento di poterli chiamare
involontari. Se non che l’autore medesimo avendo sperato che il 18 marzo 1876
ponesse fine non solo, ma riparo a questi inconvenienti, fece manifesta la
sua buona fede, quando più tardi e nelle lettere e nei discorsi che ho citati
sopra, riconosce che le sue speranze erano state frustrate, che la cosa
pubblica era andata peggiorando, che si erano rivelati fatti non mai prima
veduti, che le guarentigie della giustizia amministrativa venivano ognora più
scomparendo, che la parola riparazione era diventata uno scherzo melanconico.
Prima di chiudere il presente capitolo, voglio fare un’avvertenza che è
capitale. Io ho parlato sempre del governo, e delle sue indebite ingerenze
dell’amministrazione; ho mostrato i danni dello spirito di partito che vi
penetra e la guasta. Ma non vorrei che altri credesse che codesto spirito nei
paesi liberi rimanga solo nelle alte sfere del Parlamento, dei ministeri,
degli uffici centrali. Esso si svolge egualmente nella Provincia e nel
Comune, e vi produce i suoi letali effetti. Che se questi sono assai minori
in estensione, sono maggiori in intensità, imperocché i rancori locali
attizzano le ire, e la tirannide del tuo vicino è più vessatrice ed odiosa di
quella di un’autorità remota e centrale, la quale se non altro dà alle cose
una importanza meno sproporzionata al vero esser loro, e non è mossa
comunemente da astii personali. Laonde si può dire che fra arbitrio ed
arbitrio, sia meno penoso sobbarcarsi a quello del ministro, che a quello di
una autorità locale elettiva. Pertanto allorché investigheremo i rimedi al
male che abbiamo descritto, sarà mestieri che noi discendiamo
dall’amministrazione nazionale alle locali, e che cerchiamo come si possa
estendere e mantenere la imparzialità non solo nella prima ma eziandio nelle
seconde.
In Italia vi sono delle Provincie amministrative in modo eccellente: vi sono
anche dei Municipi condotti con regolarità esemplare, e nei quali si direbbe
rivivere la vigoria e il sentimento intraprendente de’ nostri antichi padri.
Ma delle une e degli altri ve n’ha purtroppo che procedono male, e
l’interesse pubblico vi soggiace a quello di pochi, perché l’amministrazione
è guasta e viziata. Là i partiti pigliano la politica per manto, ma in realtà
traggono origine il più delle volte da odii inveterati fra le famiglie
principali del Comune, e l’una tende a porre l’altra sotto gravi pesi e
quando riesce ad assicurarsi la maggioranza, nessun riparo vi può far la
gente. Imperocché il partito vincitore occupa il Municipio, la Provincia, i
Consigli direttivi delle opere pie, delle scuole, e talvolta anche degli
istituti di credito, escludendone interamente i suoi oppositori; e quivi
scapestra a suo libro. Le tasse son votate nell’interesse del partito
trionfante, e la sproporzione che si vede in qualche luogo fra le imposte
dirette e le indirette n’è argomento manifesto. Si legge di qualche Comune
dove le guardie daziarie, veri satelliti dei padroni loro, lascian passare la
roba degli aderenti e compensano il bilancio comunale gravando la mano su
quelle degli avversarii. Le rendite del Municipio alimentano i parenti e gli
amici: dànnosi loro gli appalti delle opere pubbliche. E gli appaltatori, e
gli avvocati che li difendono signoreggiano senza freno. La polizia essendo
in mano del sindaco, i certificati di buona condotta, le informazioni al
pretore per le ammonizioni, i provvedimenti urgenti di sicurezza e di igiene,
servono al partito. La lista elettorale è compilata nell’intento di
iscrivervi i nomi dei partigiani, e di cancellarne gli avversari. Se altri
ricorre, la sentenza della Corte d’appello che ne ordina la rettificazione,
spesso arriva tardi o ad elezione già fatta41. Né la tutela della deputazione
provinciale consegue il fine pel quale è ordinata, imperocché, lasciando
stare che in alcuni luoghi i sindaci e gli assessori della giunta sono
contemporaneamente membri della deputazione, se questa è formata collo stesso
spirito, e composta di uomini che si sono già accordati fra loro, invece di
vigilare e correggere gli abusi li trascura o li ribadisce. Ed i caporioni in
compenso delle reticenze colpevoli e degli affettati obblii, ricevono tutti
gli aiuti necessari per diventare deputati, mentre i capi del Comune e di
tutti gli istituti che ne dipendono, gli esattori, gli appaltatori pagano il
debito loro, rendendosi agenti elettorali. In vero spetterebbe al prefetto
rintuzzare questa cattività, e sventare queste trame, ma si cerca di
nascondergli il vero, o di aggirarlo con falsi ragguagli. Che se ciò
nonostante vede tutto, e da probo e severo amministratore sente in cuore
l’obbligo di mettervi riparo, come può egli vincere la resistenza delle
deputazione provinciale, della giunta comunale, del deputato politico? A gran
pena ei salverà sé medesimo, destreggiandosi, e godendo di benefici del
tempo; al più ne farà relazione al governo aspettandone le risoluzioni. Anche
in questi casi il ricorso e le querele dei singoli cittadini vanno dispersi
al vento, e l’art. 110 della Legge comunale e provinciale dichiara che i
sindaci non possono esser chiamati a render conto dell’esercizio delle loro
funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposti a
procedimento per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del Re, e
previo il parere del Consiglio di stato. Il problema dunque si pone negli
stessi termini che ho detto sopra rispetto al governo: il cittadino e l’ente
civile che si crede leso da un’atto amministrativo delle rappresentanze
comunali e provinciali, a chi dee ricorrere? e quali procedimenti debbono stabilirsi
perché il ricorso ottenga giustizia?
Conchiudo questo ormai troppo lungo discorso. Nel capitolo precedente mostrai
che la forma di governo costituzionale, e sopratutto parlamentare sembra aver
di necessità indole di governo di partito, in questo senso che l’indirizzo
generale politico vi appartiene e quell’accolta di uomini, che esprimono le
tendenze della pubblica opinione, nella sua maggioranza, in un dato momento.
Mostrai eziandio che il governo di partito ha alcuni inconvenienti insiti per
guisa che non sembrano potersegli torre senza per così dire alterarne
l’essenza. Né il discutere altre forme di governo o la possibilità stessa di
un reggimento diversamente ordinato conveniva alla mia trattazione. Ma oltre
i difetti politici congiunti ad ogni governo di partito, ve ne sono altri nei
quali esso sdrucciola assai facilmente, e che non gli sembrano così
connaturati da doversi dire che necessariamente e inevitabilmente lo seguano.
Questi difetti nascono quando lo spirito di parte, dalla politica s’insinua
nell’amministrazione, e nella giustizia civile e penale.
L’esperienza ci ha dimostrato che anche l’Inghilterra, che è l’esemplare di
questa forma, di governi ponderati e parlamentari, non fu scevra di tale
difetto, ma in piccole proporzioni, e se risanò ben presto per vigoria degli
animi, e per virtù della locale amministrazione decentrata. In America il
male scoppiò con terribile intensità, e perdura, anzi, cresce tanto da
togliere al Parlamento e gli ufficiali pubblici credito e rispetto. Ma la libertà
individuale è colà tanto grande, e le attribuzioni del governo così minime
dirimpetto all’attività sociale, che quella putredine sta ristretta in un
piccol cerchio di politicanti, e per ora almeno il popolo continua il suo
cammino, e, pur conoscendo e sovente spregiando i suoi reggitori, gli pare
che il tempo possa spendersi in alcun che di meglio che nel correggerli. Nei
paesi germanici, il parlamentarismo non essendo così spiegato, non vi generò
tanti guai, nondimeno poco bastò per rendere avvertito il pericolo, e per
tentare di porvi un rimedio. Maggiori inconvenienti si manifestarono nei
popoli così detti di razza latina, laddove l’amministrazione è accentrata,
nella Francia, nella Spagna, nella Grecia. Nell’Italia, sebbene venuta da
poco tempo a libertà non fu difficile avvertirne i segni fin dalla prima
origine: gl’inconvenienti crebbero rapidamente col cessare del periodo eroico
del nostro risorgimento, e vanno prendendo proporzioni spaventose.
Se le cose dovessero continuare di questo passo, è evidente che il governo
parlamentare perderebbe ogni prestigio, e verrebbe in uggia alle popolazioni,
le quali più che di guarentigie politiche, hanno bisogno di giustizia austera
e di amministrazione imparziale. Questa difficoltà aggiunta alle altre che
rendono cotal forma di reggimento assai delicata nel suo esercizio, potrebbe
porgere occasione a inquietudini, commovimenti, e sommosse, per l‘antico e
falso vezzo di sperare che mutata la forma di governo i mali cessassero;
mentre invece diverrebbero più gravi e più modesti. Però bisogna por mente ad
essi con sollecitudine, ed esaminare i mezzi di prevenirli e di rimediarvi;
se non in modo assoluto ed intero, almeno per la maggior parte e per la più
pungente. Io mi farò adunque ad indagare quali rimedi possano escogitarsi,
affinché oltre ai danni, direi così, inevitabili in un governo di parte, non
ne sorgano altri accidentali ma anche più temibili; o come, sorti che siano,
possano essere tolti. E perché la ricerca sia più piena, mi farò prima ad
esaminare se fosse possibile un governo parlamentare senza esser governo di
partito.
SE SIA POSSIBILE UN GOVERNO PARLAMENTARE SENZA
PARTITI
Io ho delineato nel capitolo primo i pregi ed i
difetti del Governo di partito che sono per così dire da esso inseparabili.
Ho quindi toccato nel capitolo secondo di altri difetti che facilmente vi si
aggiungono e sono anche più pericolosi perché s’insinuano nella giustizia e
nell’amministrazione, e gustandole traggono la società a mali altrettanto
gravi e intollerabili quanto quelli del dispotismo. Natural cosa era che gli
avversari del governo costituzionale ne traessero argomenti a fortemente
combatterlo, e così fecero. Taluni hanno spinto il furore sino a chiamarlo
barbarico a cagione appunto del sistema della gara e vicenda dei partiti, e
delle differenze e contrapposizioni fra i pubblici poteri. Ma costoro messi
poi alla prova d’immaginare qualche cosa di più perfetto falliscono, o
disviano sovente in pedanterie rancide o in astrattezze impraticabili.
Imperocché essi non considerano ciò che toccai sopra, cioè che disputando di
forme di governo si tratta non d’immaginare l’ottimo, ma di riconoscere ciò
che arreca maggior numero di beni, e minore di mali, e similmente che la
stessa forma di governo non si attaglia egualmente alle condizioni di tutti i
tempi e di tutti i luoghi; e come oggi sarebbe impossibile applicare la
costituzione di Solone o di Licurgo o le istituzioni politiche romane, così
il governo parlamentare è quello che sembra meglio rispondere alle esigenze
della moderna società. Pertanto io lascio costoro alla orgogliosa ed
ignorante baldanza onde maledicendo a tutti, sé medesimi adorano.
Ma se il governo costituzionale, divenuto in alcuni paesi parlamentare,
sembra rispondere meglio alle condizioni della moderna società, pur nondimeno
esso fu introdotto troppo di recente nel mondo, perché possiamo giudicarlo
colla testimonianza dei fatti. La sola Inghilterra ci dà una prova di oltre
due secoli, veramente meravigliosa, ma oltrecché ivi la costituzione aveva
sue radici antichissime nella tradizione, e nel costume ancor più che nelle
leggi, si può dire che la vera forma parlamentare come oggi s’intende non vi
si esercita e non da trent’anni. Ebbe adunque ragione il Principe Alberto
marito della regina Vittoria quando pronunziò quella sentenza che a taluni
inglesi seppe di forte agrume: rapresentative government is on its trial. Che
se il governo rappresentativo in Inghilterra si può riguardare come ancora in
prova, che diremo noi degli Stati continentali d’Europa, nei quali appena
comincia a svolgersi e mostrare i suoi effetti? Certamente la Francia non ci
ha dato un esempio lusinghiero colle sue vicende di monarchia e di
repubblica, e si comprende che molti n’abbian sentito disdegno e ribrezzo. Si
comprende ancora che la mente di alcuni desiderosa del semplice, si mostri
insofferente di far dipendere la buona condotta della cosa pubblica da un sistema
delicato e complicatissimo di freni, di valvole, di contrappesi e di
equilibrio: ma questi non sono argomenti sufficienti per condannarlo, che
anzi nella natura quanto più gli esseri salgono sulla scala della perfezione,
e più sono complessi e di molteplici organi forniti: e d’altra banda
bisognerebbe aver in mente un altro sistema diverso dalle monarchie e dalle
repubbliche rappresentative consuete, e che più si attagliasse ai nostri
tempi, e quindi farne soggetto di comparizione. E invero il consiglio più
pratico e direi il solo che vien dato è di ritornare alla signoria di un
solo, che però si suppone savia, scientifica da corpi tecnici, e intenta solo
al maggior bene delle moltitudini. Si fa presto a dirlo, ma anche di ciò
abbiamo avuto saggi dolorosi. E a me pare veramente che sia da concludere col
Principe Alberto che il governo rappresentativo è in prova, e che studiandone
al lume della esperienza gli effetti, sia da tentare via via di correggerne
le imperfezioni, e di renderlo veramente efficace e benefico a tutte le
classi della società. Ma codesta è troppo ampia materia al mio assunto, il
quale è d’investigare se possa intendersi un governo parlamentare senza
partiti, e per conseguenza senza gli inconvenienti che da essi derivano. Ove
ciò apparisse possibile, quivi sarebbe il rimedio assoluto, ed è perciò che
l’indagine si chiarisce in questo luogo opportuna. Questa possibilità di
sollevare il governo al di sopra dei partiti è vagheggiata da molti, e non
solo nei casi straordinari, ma eziandio nei casi ordinari. E ciò spiega quel
certo favore che accompagna sempre coloro che si presentano ai comizi o nelle
assemblee un proposito di personale indipendenza, e una volontà risoluta di
giudicare ed operare, in ogni singolo caso, secondo quello che stimano bene
della patria, all’infuori di ogni partito.
E piglierò le mosse da un grande filosofo, il maggiore forse dei filosofi del
nostro tempo, Antonio Rosmini, il quale non solo nella speculazione astratta,
ma eziandio nelle indagini giuridiche e politiche mostrò acume d’intelletto,
dirittura di guidicio, libertà di sentimenti, e piglierò il cap. 15 della
Società e del suo fine nella Filosofia della Politica, là dove egli
manifestamente invoca come ideale la fine dei partiti, e spera che possa
conseguirsi mercé una sana educazione del popolo. E dice così: "Ciò che
impedisce la giustizia e la moralità sociale sono i partiti politici. Ecco il
verme che rode la società, che confonde le previsioni dei filosofi, che rende
vane le più belle teorie. I partiti politici si possono riferire a tre
origini, gli interessi materiali, le opinioni sostenute da antiche credenze e
inveterate consuetudini, e le passioni... In qual modo adunque la civile
associazione di difenderà dal pericolo dei partiti? Ecco uno dei più difficili
problemi per l’uomo di stato, per la filosofia politica. Contro il pericolo
predetto dei partiti che tolgano la calma ai governanti e ai governati sono
proposti due espedienti:
1° Equilibrio dei partiti che si collidono. Sistema dell’antagonismo sociale.
2° Prevalenza di un partito sull’altro in modo che questo non abbia mai né
volontà né potenza di ribellarsi. Sistema dell’assolutismo.
Il primo può bensì fare che la società non rimanga sacrificata alla balìa di
un solo partito, ma non può mai appagar gli uomini, mantenendoli in uno stato
d’irritazione. Inoltre se può esservi equilibrio per un certo tempo fra i
grandi partiti (democratico, aristocratico, monarchico) non vi può essere fra
i minori, che sono innumerevoli come gli interessi, le opinioni, le
consuetudini. Finalmente chi può mantenere l’equilibrio dei partiti? o è un
partito esso stesso, ed entriamo nel secondo espediente, o è un Ente al
disopra dei partiti, e allora si dimanda qualche cosa di estraneo ad essi, il
punto fermo di Archimede.
Né la società è meglio garantita nel secondo caso (e qui ne allega alcuni
esempi). Vero è che un partito impossessatosi del governo acquista dal posto
in cui si trova delle viste di giustizia e di equità che non aveva prima. Ma
lasciando da parte la riflessione, che dee sempre trascorrere un poco di
tempo prima che il partito cangiatosi in governo abbia preso le abitudini di
giustizia e di moralità proprio dei governi, noi avremo allora un equo
governo perché l’un dei partiti governa, ma perché un partito ha cessato di
esser partito ed è diventato un equo governo. Inoltre le minorità a poco a
poco si ordinano, s’infiammano e finiscono per rovesciare il partito
dominante". La conclusione dell’autore è che i due mezzi sono inefficaci
e che nessuna combinazione politica è sufficiente a guarentire stabilmente la
società del cattivo effetto dei partiti politici. Rimedio solo è
nell’impedire che nascano, colla sana educazione delle generazioni venienti.
Qui primieramente è da notare che l’autore definisce il partito così:
"Col vocabolo di partito politico noi significhiamo un certo numero
d’uomini che si associano espressamente o tacitamente per influire sulla
società e farla servire al proprio vantaggio. Il partito ha per iscopo il
proprio vantaggio non la giustizia, la equità, la virtù morale. Partito
adunque ed equità, giustizia e virtù morale sono cose opposte". Ora se
il governo della cosa pubblica non avesse altro criterio che la giustizia e
la virtù, si potrebbe consentire coll’autore, imperocché due partiti in quest’ordine
d’idee, non sono ammissibili. Ma il governo della cosa pubblica sotto la
suprema regola del giusto e dell’onesto, ha un altro criterio ed è il più
frequente, quello cioè dell’utilità pubblica. Pertanto se intorno all’utilità
pubblica possono aversi idee diverse senza offendere la giustizia, non è così
assurda l’esistenza dei partiti come parve all’autore. Ed invero per seguir
l’esempio che dà egli medesimo non è egli agevole a comprendersi che altri
favoreggi la democrazia, l’aristocrazia, la monarchia senza perciò offendere
la giustizia e l’equità? per concludere a tal modo bisognerebbe prendere le
mosse da più alta sentenza: che non vi è pensiero né atto meramente lecito,
ma che tutti sono doverosi. Se il filosofo roveretano avesse posto mente a
ciò, avrebbe inteso meglio la quasi impossibilità di togliere i partiti, e
soprattutto non avrebbe definito il partito come una riunione di uomini
aventi per unico fine l’interesse privato, e la potenza lor propria.
Certamente se si prende le mosse da quella definizione, bisogna combattere a
tutta oltranza l’esistenza stessa dei partiti, perocché sono il contrapposto
del bene pubblico. Ma il problema, mi sia lecito dire, è mal posto.
Imperocché tenendo pur fermo che in materia di giustizia non vi possono
essere più partiti, ma posto che sulla utilità pubblica siano naturali e
inevitabili le discrepanze di giudizio, come si può condannare una spontanea
unione di uomini che si adoperi a conseguire il fine del bene generale qual è
da loro inteso, e con mezzi legittimi? Così adunque dovrebbe porsi
ragionevolmente il problema: con quali modi si può impedire che un partito si
curi solo dell’utile privato, e si valga di mezzi non legittimi. Nicolò
Macchiavelli lo aveva visto chiaramente laddove dice: "Coloro che
sperano che una repubblica possa esser unita, assai di questa speranza
s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuociono alle repubbliche, ed
altre giovano. Quelle nuocono che sono dalle sette e dai partigiani
accompagnate; quelle che senza sette e senza partigiani si mantengono. Non
potendo dunque provvedere un fondatore d’un repubblica che non siano
nimicizie in quella, ha da provvedere che non ci siano sette... Le nimicizie
di Firenze furono sempre con sette e perciò furon sempre dannose, né stette
mai una setta vincitrice unita, se non intanto quanto la setta inimica era
viva1". Per repubblica Macchiavelli intende sempre un governo libero, e
per setta formata di partigiani quel che Rosmini chiama partito, cioè una
accolta di uomini aventi per fine unico l’interesse privato e per mezzi la
forza e la frode. Dove anche Macchiavelli giudica che le sette siano esiziali
alle repubbliche, ma non le naturali divisioni; e conforme a questo concetto
egli reputa che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e
potente la Repubblica2.
Certo è che per stare alla storia moderna, il medio evo ebbe sette anzicché
partiti, sebbene anche nell’intimo senso dei Guelfi e dei Ghibellini si trovi
un’idea morale; ma le passioni imperversavano, la violenza era stimata il
solo mezzo per trionfare e l’odio e la vendetta rendevano le discordie
implacabili. Il Burckardt nel suo bel libro del Rinascimento italiano afferma
che in quell’epoca cominciassero a piegarsi i partiti, siccome noi li
intendiano. Colla fine della libertà e colla formazione delle grandi
monarchie e dei principati assoluti, i partiti vengono meno: anzi la
stanchezza di loro iniquie opere fu una delle cagioni principalissime perché
i popoli si volgessero ad un Principe. Nel secolo passato, quando dalla
filosofia mosse di nuovo la scintilla che doveva accender negli animi il
desiderio di uno stato libero, questo punto non si trova, per quanto è a mia
notizia, esaminato da alcuno di quegli scrittori che s’immaginavano di
ricostruire la società dai fondamenti. Essi volevano rifare al XVIII secolo
Atene, e Sparta e Roma, e pur facevano astrazione dalle fazioni che avevano
insanguinato quelle città, e forse l’essere cessato i partiti da due secoli
aveva loro fatto obbliare intieramente questo pericolo. Solo il Montesquieu
ne dà un accenno. "Le divisioni si pacificano più agevolmente negli
stati governati a monarchia, perché il sovrano ha nelle sue mani una potenza
coercitiva che riconduce i due partiti; ma in una repubblica sono più
durevoli, perché il male s’attacca alla potenza stessa che potrebbe
guarirle". Montesquieu vede nella repubblica (ed egli con questo nome
intende come Macchiavelli ogni paese libero) un partito che s’impossessa
della cosa pubblica, e quindi lungi dal far cessare la divisione ha interesse
a tenerla viva, o almeno non può spegner l’altro: ma non va più oltre di
questa semplice considerazione. Nell’Enciclopedia che raccoglie il fiore
della dottrina francese del secolo scorso, trovi alla voce partito la
definizione che segue: "Una fazione, potenza, o interesse, che si
considera opposto ad un altro". Né Voltaire, né Rousseau che diedero
come il vangelo alla rivoluzione francese, fanno motto della questione che
ora ci occupa. Napoleone I trovò la Francia stanca delle fazioni e volle porsi
sopra di loro, e le schiacciò come diremo appresso. In quel tempo il Burke
formulava forse pel primo la teorica dei partiti come ho detto sopra, ma i
francesi poco l’avvertivano. Più tardi gli scrittori più eminenti di diritto
costituzionale come il Benjamin Constant e gli altri che lo seguirono
appresso, non ne fanno quasi menzione, o almeno non veggono le difficoltà che
potevan sorgere dal contrapporsi dei partiti e dall’alternarsi loro al
governo.
Del Rosmini ho dato ragguaglio sopra: il Gioberti collega la questione delle
parti colla dialettica e ne parla così: "Le voci di parte e di setta
accennando disgiuntamente e rottura di un tutto, significano un non so che di
privativo, di manchevole, il vizioso, e però nella buona lingua le parti e
sette politiche si chiamano anche divisioni, quasi eresie speculative e
scismi pratici verso l’opinione e unità nazionale. E invero ciascuna di esse
rappresenta un solo aspetto dell’idea moltiforme che genere ed abbraccia
compitamente il concetto ed il fatto, il genio e l’essere della nazione... E
siccome nel lavorio dello spirito l’affetto ritrae dal concetto, elle sono
rissose e non pacifiche, intolleranti e non conciliative, parziali e non
eque, eccessive e non moderate, volgari e non generose, sollecite di se stesse
anzi che della patria, e licenziose intorno ai mezzi per sortire l’intento
loro. Tanto che assommata ogni cosa tengono più o meno del rovinoso e del
retrogrado anche quando si credono progressive o conservatrici. Non si vuol
però inferire che tutto sia falso nei loro dettati, o reo delle loro
pratiche, perché se fosse, non potrebbero avere vita, credito e potenza. Ogni
setta è l’esagerazione di un vero e di un bene parziale, nei quali sta il
merito e il vizio, l’efficacia e l’impotenza loro, atteso che anche il vero
ed il bene si corrompono ogni volta che trasmodano a pregiudizio di altri
beni, e di altri veri... Le parti sono effetto della civiltà immatura, come
le scuole della scienza primaticcia e manchevole; e quasi una reliquia
dell’antica barbarie, ma migliorata. Nella barbarie il conflitto è violento e
si spedisce colle armi... oggi per ordinario la pugna si esercita nel campo
delle idee e dei maneggi, sostituendo il pensiero e la parola, e spesso
l’arte e l’astuzia, talvolta anche i raggiri e la frode ai colpi e alla
forza; il che è certo un notabile avanzo, imperocché la lotta ridotta a
questi termini, se non è pacifica né generosa in se stessa, è pero men
brutale e malefica per gli effetto. E, a mano a mano che la civiltà cresce,
le parti si emendano, diventano più eque e tolleranti, più benevole e
disposte agli accordi: passano dai libelli e dai conventicoli ai giornali e
ai parlamenti: pigliano una forma più moderata e sincera: di private e spesso
clandestine diventano pubbliche, di nocive utili; e si chiamano opposizione:
la quale è in politica un progresso dialettico, e somiglia alla dissonanza
artificiosa nella musica, alla critica, e all’obbiezione nella dogmatica e
polemica dottrinale. D’altra parte esse vanno scadendo d’importanza e rimettendo
di forze, per guisa che se la cultura potesse quandocché sia toccare il
colmo, elle affatto si dileguerebbero. Ma siccome l’idea e la dialettica
compiuta non possono raggiungersi che per via di avvicinamento; così il
progresso della civiltà verso le sette, consiste nel migliorarle rivolgendole
sempre più al bene, e rendendole meno attuose pel male ".
Sismondi nel suo bel libro delle Costituzioni dei popoli liberi, parlando del
regime rappresentativo, pone in luce che ciò che costituisce la sincerità del
governo libero si è che tutte le opinioni, tutti gli interessi possano essere
schiettamente espressi, dibattuti, pesati; e nota che i deputati vengono al
Parlamento recando i desideri, i bisogni di una provincia, di una città, di
una classe, di una facoltà, di una professione: ma qui si ferma, e non
esamina come questi deputati, secondo i desideri e i bisogni che
rappresentato, tendano ad aggrupparsi e disciplinarsi nella forma di partito.
Fu presso ai Tedeschi che lo studio dei partiti pigliò un metodo e una forma
scientifica. Teodoro Röhmer scrisse intorno a ciò un libro degnissimo di
menzione6 che poi è stato da molti in parte copiato. Scrisse eziandio più
tardi il Treitschke, e mirò ad esprimere i mali dei partiti, ma quegli che ha
esaminato a fondo la questione più di ogni altro è il Blüntschli7 il quale
che là dove è operosità di vita politica, ivi sorgono di necessità i partiti,
giacciono invece dove il popolo è neghittosamente indifferente ovvero
oppresso dalla violenza; di guisa che la mancanza di casi è degno
d’inettitudine o di oppressione, la esistenza loro di vitalità e di
gagliardia.
I partiti politici, secondo il Blüntschli sono dunque tanto più vigorosi
quanto la vita politica è più ricca e più libera. La storia della repubblica
romana, lo svolgimento della monarchia inglese e dell’Unione americana non si
spiega altrimenti che col conflitto dei partiti. Le rivalità loro, e gli
sforzi generano le migliori istituzioni politiche e traggono in luce forze
che prima eran nascoste. Laonde non bisogna credere, come certe anime timide,
che i partiti politici siano una debolezza, e una malattia dello stato
moderno: imperocché sono al contrario argomento di vita sana e forte. Il non
appartenere ad alcun partito non è punto virtù del cittadino, e il dire di
uno statista che è estraneo ai partiti non è lode, ma biasimo. Però giova
notare che partito come dice il vocabolo stesso, è frazione di un tutto, per
la quale cosa non può senza orgoglio ed usurpazione prendere il luogo dello
Stato. Esso può combattere gli altri partiti, ma non gli è lecito finger
d’ignorare l’esistenza loro né sforzarsi di distruggerli. Solo nelle
monarchie v’ha un uomo che deve rimanere al di fuori e al di sopra dei
partiti, ed è il Re. A lui spetta accordare a ciascun di essi protezione e
tutela nei limiti del diritto comune, e tenendo conto del corso mutevole
dell’opinione pubblica, accogliere nei consigli del governo quel partito che
meglio la rappresenti. Però il partito non dee confondersi colla fazione.
Questa ne è la degenerazione e il corrompimento, e riesce perniciosa allo
Stato quanto il partito gli è utile. Avvegnacché ciò che distingue il partito
nel vero e legittimo suo senso è che esso non esclude gli altri partiti, ed
ha un intento politico il quale è in accordo coi fini dello Stato: ma diventa
fazione quando sottopone il tutto alla parte, gl’interessi dello Stato ai
propri. La fazione è l’egoismo che trionfa e usufrutta lo Stato a proprio
vantaggio. Il partito ha sempre due interessi, uno particolare ed uno
generale come ogni cittadino come ogni corporazione: ma deve sottoporre
l’interesse particolare all’interesse generale. Sicché può dirsi che il
partito diviene fazione, e la fazione diviene partito per inversione dei
poli, secondocché vi prevale l’interesse generale o il particolare.
Queste cose aveva scorto anche il Balbo chiaramente:" Le diverse
opinioni sullo Stato sono dapertutto. Ma sotto ai governi assoluti non si
possono esprimere legalmente e quindi si producono le fazioni che sono
appunto le parti non legali. E le fazioni poi diventano congiure, sette,
società segrete, tumulti di palazzo, e di piazza; sventure tutte e vergognose
nazionali. All’incontro quando le opinioni diverse sullo Stato possono
esprimersi, ed aspirare al governo legalmente, esse da fazioni diventano
parti politiche legittime, legali, virtuose, onorevoli, e talora gloriose,
utili allo Stato." Codeste considerazioni del Balbo come quelle del
Blüntschli che ho riferito, sono atte a rispondere in gran parte alle cose
dette dal Rosmini, mediante la distinzione fra partito e fazione che è pur
quella intraveduta dal Macchiavelli; solo vuolsi aggiungere che è facile il
trapasso dall’esser di partito a quello di fazione, e per conseguenza la
trasformazione di un organo le cui funzioni, secondo gli autori menzionati,
sono utili alla sanità del corpo intero, in un fomite di malattia che lo
corrompe e lo dissolve.
Nel libro medesimo di che ho parlato sopra, il Blüntschli viene investigando
le origine dei partiti, e li divide in sei classi. Quelli che attingono i
loro principi ad una confessione religiosa, mescolando l’ecclesiastico ed il
civile, some sarebbe il partito clericale o protestante; ovvero che
s’appoggiano sopra interessi territoriali o regionali, per esempio un partito
del settentrione e del mezzodì, e questi sono assai pericolosi. Già
Washington aveva detto: prendete guardia di non distinguere i partiti dalla
postura geografica. Quelli che hanno origine dagli interessi di classe e li
rappresentano, come era nei secoli scorsi la nobiltà, il clero, il terzo
stato; di che anche la Germania odierna ci dà un esemplare nei così detti
Junker o feudali, e tale sarebbe anche un partito di operai che sorgesse: e
codesti parimente sono funesti. Imperocché normalmente i partiti debbono
aggregarsi per idee politiche, non solo astraendo da confession religiose, da
territorio o da regioni diverse del paese, ma eziandio da ordini distinti
nella società. Segue la classificazione dei partiti secondo i principi
costituzionali, e qui ci si parano innanzi quelli che prendono nome dalla
forma del governo, monarchici o repubblicani, unitari o federali,
accentratori o decentratori. Queste divisioni ebbero ed hanno la ragion
d’essere loro nelle grandi questioni sulla costituzione degli Stati che da un
secolo agitano il mondo; ma è evidente che una volta costituito lo Stato in
una data forma, e assicurata la sua durata sopra solide basi, debbono
scomparire. Io però osserverei al Blüntschli che per quanto una costituzione
sia assodata, pure vi sarà sempre una tendenza o all’accentramento o al
decentramento, ad unità o a federazione, a dare al monarca un potere più
forte ed efficace, o a pareggiarlo al presidente di una repubblica; e
siffatte tendenze senza essere la sola bandiera dei partiti, ne saranno pur
nondimeno uno degli amminicoli importanti. Il quinto modo di aggrupparsi è
come partito governativo e partito di opposizione. E’ il modo antico inglese
onde si poté dire che nella costituzione della Gran Bretagna è sempre un
partito quello che governa. Il fatto è che entrambi i partiti, whigs e tories
tennero a vicenda e secondo l’indirizzo della pubblica opinione, il governo
della cosa pubblica, e che per conseguenza ogni partito diventò a sua volta
ministeriale e di opposizione. Ed era questo l’ideale che si formava il
nostro Balbo, cioè due partiti sole quelle del ministero e quella
dell’opposizione. Però il Blüntschli avverte al duplice pericolo;
dell’opposizione sistematica che recalcitra anche ad intenti che in cuor suo
giudica buoni, e del partito governativo ad oltranza che non ha altro fine
fuorché di sostenere il ministero, ed è composto da impiegati o da uomini
inclinati a servire l’autorità qual che ella sia e in qualunque forma; i
quali però sono a lungo andare per i ministeri un debolissimo appoggio, e
talora eziandio un pericolo. L’ultima forma che il Blüntschli chiama la più
pura e la più elevata è quella che facendo astrazione dalla religione, dalla
classe, dalla regione, dall’interesse, s’informa a principii veramente
politici e che accompagnano sempre lo svolgersi dello Stato libero. Così fu
gran progresso per l’Inghilterra quando i whigs s’intitolarono liberali, i
tories conservatori, lasciando da parte la tradizione, e fondandosi sui due
elementi di conservazione e di progresso che sono entrambi essenziali alla vita
di una nazione.
Il Blüntschli dà il tipo di quattro partiti di cui due sono normali e gli
altri due ne sono per così dire l’esagerazione e cioè il partito liberale, e
il partiti conservatore, indi il partito radicale ed il retrivo. E non alieno
dall’accogliere la comparazione del Röhmer che paragonava il partito radicale
alla infanzia, il liberale alla giovinezza, il conservatore alla virilità, il
retrivo alla vecchiaia. A me duole di non poter intrattenermi nell’esame
delle idee che ogni partito vien formandosi sulla nozione e la forma dello
Stato, sul concetto di diritto, di libertà, di nazionalità, infine sulle
questioni economiche. Ma in ciò egli era già stato preceduto dal Gioberti,
che rispetto all’Italia aveva diviso i partiti in democristiano, conservatore,
puritano e municipale con poca differenza dalle quattro categorie adottate
dal Blüntschli: l’uno e l’altro augurando che conservatori e liberali si
alleassero, ed escludessero gli estremi. Ma io mi dilungherei troppo dal
pensiero fondamentale di questo capitolo che vorrebbe indagare la possibilità
di un governo libero che non sia di partito.
Pertanto parmi di poter da tutte le cose sopra esposte indurre le
proposizioni seguenti. E’ inevitabile che nei governi liberi si generino
opinioni diverse non tanto sul fine che è la prosperità e il miglioramento
dei cittadini, quanti sui mezzi più acconci a raggiungerlo. Ho già toccato
delle differenze naturali che si riscontrano negli ingegni, nelle tradizioni,
nell’ambiente in cui ciascuno fu educato, soprattutto negl’interessi. E ho
mostrato che coloro che concordano nei concetti principali, relativi alla
condotta della cosa pubblica, sono sospinti naturalmente a riunirsi insieme,
ed a congiungere i loro sforzi per far prevalere i pensieri che hanno comuni.
Da ciò la origine del partito. Sembra difficile concepire nei paesi liberi
uno andamento diverso. Piuttosto si potrebbe dire, allargando il nostro
esame, che ciò avviene non solo nella politica, ma eziandio in ogni altra
parte della vita scientifica e civile. Persino la teologia non ne va immune,
se consultiamo la storia. Vero è che la Chiesa cattolica ha sciolto il
problema delle spegnimento dei partiti collo stabilire un’autorità ultima e
suprema che definisce in modo infallibile i punti necessari alla eterna
salute (o essa risieda nel Concilio presieduto dal Pontefice, come molti
credevano un tempo, o nel Pontefice solo quando pronunzia ex Cathedra come
oggi s’insegna): ma ciò presuppone una perenne ispirazione dello Spirito
Santo, che non ha difetto mai quando si tratta delle cose essenziali alla
Fede. Se non che, in fuori di questa ristretta cerchia, anche la teologia
cattolica ha molte materie nelle quali una certa varietà di giudizi è
permessa e, come dice Sant’Agostino, intorno ad esse vuolsi lasciare ai
fedeli la libertà8; e quindi nasce la discrepanza di talune opinioni anche
fra i più ortodossi. Or questa discrepanza che è se non il principio del
partito? Ma presso i protestanti che non hanno questa autorità infallibile, i
partiti sono molti e ardente, i quali manifestano nelle varie lor confessioni
tuttocché abbiano una credenza comune nella divinità della Bibbia.
Lo stesso accade nella scienza in quella parte almeno che non è dimostrata in
modo assoluto, e rimane opinabile onde la filosofia antica e moderna fu
divisa in scuole: e così la medicina, l’economia, la legislazione e persino,
secondo Macaulay, le scienze fisiche, e le matematiche. Invero questo
concetto piò rannodarsi ad alcune leggi generali che regolano la natura
fisica e morale. E risalendo sino ad Empedocle a chi non è noto che la sua
filosofia poneva nella discordia il principio creatore e conservatore del
mondo? Donde i versi del poeta che attribuisce all’amore il principio della
dissoluzione
... io pensai che l’universo
Sentisse amor: per lo qual è chi creda
Più volte il mondo in caos converso.
La quale teorica variante trasformata si trova sparsa in tutti i filosofi
dell’antichità e del medio evo sino ai moderni, fra i quali Hegel sentenziò
che la contraddizione è il ritmo della vita dello spirito. Gli stesso
positivisti odierni non si discostano da un’idea analoga, avvegnacché dicono
che l’unità non si estrinseca che per la diversità: ed i Darwiniani da una o
più cellule primitive fanno evolvere tutte le specie. Finalmente l’Herbert
Spencer fonda la sua dottrina in ciò che dall’omogeneo semplice ed indefinito
erompe l’eterogeneo complesso e definito.10 Il che in sostanza non è che un
riconoscere come legge di natura il contrasto che precede e fa luogo
all’armonia. Ma lasciando queste speculazioni, e venendo alla politica,
nessuno potrà maravigliarsi che se si trova la divisione ed il partito nella
scienza e nell’arte, là dove si tratta d’interesse che toccano ciascheduno da
vicino, quivi eziandio si manifesti.
Ma le sue gradazioni sono diverse. Anche nei reggimenti meramente
consultativi il partito fa sentirsi, e l’opinione della maggioranza finisce
per avere un predominio, però con azione lunga che procede inosservata, e
spesso interrotta. Nei governi prettamente costituzionali come la Germania e
l’Austria-Ungheria, lo influsso dei partiti è maggiore, ma non sempre
decisivo, e rimane contrappesato, talvolta dal volere del sovrano, talvolta
dalle tradizioni burocratiche, o dallo spirito militare. Nei giorni
parlamentari è massimo. perocché l’assemblea non solo ha potestà di far leggi
e sindacare la condotta quotidiana dei ministri, ma la sua espressa fiducia è
per essi condizione vitale, comecché la scelta loro appartenga al Principe.
Dall’altra banda è di sommo rilievo considerare che un’assemblea non potrebbe
far opera efficace e perseverante se non è organizzata, e se per conseguenza
non v’ha chi sappia e possa dirigerla; or spronandola, or frenandola; sicché
è mestieri che abbia capi riconosciuti, ed una maggioranza loro fedele.
Citano taluni ad esempio Napoleone I, e dicono che egli aveva fondato uno
Stato moderno civile, con assemblee deliberanti, e che nondimeno la massima
fondamentale dell’esser suo era il soprastare ai partiti. Imperocché secondo
la sentenza fa lui proferita al Consiglio di Stato, governare con essi è lo
stesso che mettersi in loro Balìa. Io non mi piegherò mai, aveva egli detto,
a tale servaggio, e voglio giovarmi di tutti coloro che hanno ingegno e non
rifiutano di meco procedere.11 Certamente quando Napoleone raccolse in sua
mano la somma delle cose, i partiti s’erano dilaniati sì crudelmente, e
avevano immolato ai loro insani furori tante vittime, e così profondamente
perturbato tutta l’amministrazione pubblica, che s’era ingenerato nel popolo
un cordiale odio contro di essi. Cosicché al giovane corso già famoso per le
vinte battaglie, e pei felici negoziati coi potentati stranieri, tutti si
rivolsero come a salvatore, affinché pigliasse la grande impresa di
pacificare gli animi, e di riordinare lo Stato. E così avviene ed avverrà
sempre, se i partiti dimentichi del fine come cioè dell’utile pubblico, si
lacerino per motivi d’interesse o di rancori privati e anche se le pugne loro
imperversino in guisa da togliere al cittadino la sicurezza degli averi e
della persona. Allora i diritti politici appaiono agli uomini piuttosto un
pericolo che un privilegio, ed essi sono pronti a farne gitto in favore di
chi porge loro in cambio la quiete e l’ordine. Così avvenne di napoleone, e
vi si aggiunge il suo genio singolare, e maravigliosamente atto ad intendere
gli istinti popolari e le condizioni del tempo in cui visse. Né la sua fu
tirannide a solo profitto e gloria dell’Imperatore, né fu governo paterno che
si trascinasse sulle orme del passato pur di non offendere troppi interessi;
ma fu dittatura acclamata dal popolo francese per introdurre nelle leggi e
negli istituti pubblici tutto ciò che lo spirito moderno aveva immaginato di
più nobile e di più vantaggioso per l’universale. E a lui invero si
appartengono i codici, e l’ordinamento della magistratura giudiziaria, e
quello dell’amministrazione in ogni sua parte, a lui la regola e la severità
della finanza, a lui l’Università, e lo svolgimento grandioso dei lavori
pubblici. Cosicché non a torto, nonostante il suo furore guerresco, egli poté
dire, parlando un giorno al Consiglio di stato, che sino al suo secolo due
potestà sole s’eran vedute nel mondo, la militare e la ecclesiastica; e
ch’egli intendeva ora costituirne una terza, cioè la potestà civile.12 Ma
questa costituzione e le riforme in ogni parte della cosa pubblica da lui
prendevano le mosse, non dal libero dibattito di rappresentanti del popolo.
La sua macchina si muoveva per tre ruote: il Consiglio di stato che, sotto
l’indirizzo dei suoi suggerimenti, edificava il tempio delle leggi, il Corpo
legislativo al quale dette leggi eran poste innanzi; ed esso senza alcuna
iniziativa propria le accettava; e infine il Senato, corpo meramente
destinato a conservare la costituzione e gli ordini pubblici. Il tribunato,
comecché avesse tarpate le ali, non poté durare, e fu casso, perché ogni
opposizione ancorché lieve pareva intollerabile: così era perseguìta la
stampa e ogni manifestazione che si discostasse dai suoi intendimenti: tanto
che ben può dirsi che il governo napoleonico fu un governo ampiamente
consultativo e anche democratico, ma non un governo libero, perché
padroneggiava sopra tutti e sempre la volontà di un solo, quale ogni
cittadino doveva inchinarsi.
E qui mi accade di fare una osservazione. Se il governo napoleonico era
arbitrario in politica, e non ammetteva contraddizioni, però in materia di
giustizia e di amministrazione era ordinariamente severo ed imparziale. E ciò
spiega il gran favore che accompagnò l’opera sua interna, e quella tradizione
che rimase generalmente della bontà degli ordini napoleonici, che noi abbiamo
udito decantare per tutto il tempo della nostra giovinezza. Eppure il popolo
francese non poté appagarsi lungamente di quella forma di governo; e lo
provano due cose, l’una che Napoleone stesso riconoscendo i pericoli di
un’autorità illimitata, meditava anche nell’apogèo della gloria, di porre
freni a’ suoi successori, affinché se non abusassero, l’altra che egli
medesimo al ritorno dall’isola dell’Elba stimò coll’atto addizionale, dare una
costituzione sul modello inglese. Né avvenne diversamente a Napoleone III, il
quale dopo molti anni di governo assoluto, sentì la necessità di ridonare
alla nazione molti dei diritti che egli aveva in sé raccolti, e di porre la
piena autorità, sebbene i plebisciti l’avessero in lui più volte confermata.
Quel governo adunque, che usa chiamarsi oggidì cesareo, dura ed ha gran forza
sino a che si tratta di liberare uno Stato dall’anarchia, e di riordinarlo, o
di conquistare territori, e potenza nel mondo: ma quando per l’efficacia sua
propria ha ottenuto il primo fine, e le circostanze gl’impediscono di
raggiungere il secondo, subito nasce nei popoli il desiderio di partecipare
maggiormente alla cosa pubblica. Sicché questa dittatura ci apparisce
piuttosto come un freno temporaneo e riparatore, che come una forma stabile e
ordinata di reggimento.
Altri pigliando le mosse da ciò che noi abbiamo toccato sopra, cioè che nel
governo costituzionale la pugna dei partiti sia men cruda, e i danni loro men
gravi in raffronto al governo parlamentare, opinano che convenga tenersi
stretti al primo e non lasciarsi trascinare al secondo, o tentar di
ricondurvisi una volta disviati. Ma, prima di tutto, se è vero che molti
difetti si accrescono e spiccano maggiormente colla forma parlamentare, però
è da riconoscere enziandio che ne esistono i germi anche nella forma
costituzionale la più ristretta. E veramente in Inghilterra l’una ha
surrogato l’altra a poco a poco, ma il mutamento s’è compiuto propriamente
durante il regno della Regina Vittoria. E nondimeno anche in antico i partiti
c’erano, e ferventissimi, anzi più inframettenti che non siano oggi. E la
Germania similmente, che è uno Stato prettamente costituzionale, ha già
avvertito quei pericoli onde abbiamo discorso, e s’è messa a studiarne il
riparo con quell’alacrità ed acutezza che è propria del genio di quella
nazione. E inoltre una volta che il passo della forma costituzionale alla
parlamentare è fatto, riesce difficile revocarlo. L’Italia s’è, per dir così,
ricreata in quest’ultima forma, e sarà già grande merito se saprà tenervisi
ferma, senza scender anche più in basso: voglio dire che ciascuno dei tre
poteri, il Re, il Senato, e la Camera elettiva conservino i loro diritti e li
esercitino con fermezza. Imperocché pur troppo veggiano i sintomi di una
degenerazione; la quale consiste nella tendenza di annullare le prerogative
della Corona, nello irritarsi al ogni opposizione del Senato e volerne
sforzare, e finalmente nell’atteggiarsi dei ministri quasi ad agenti e commessi
dell’assemblea elettiva. Dico che questa è una degenerazione, e rende il
governo monarchico peggiore della repubblica, soprattutto là dove il
presidente è eletto dal popolo, perché ivi almeno la potestà esecutiva ha una
intonazione e una vigoria sua propria, indipendente dai voleri mutabili e
spesso capricciosi delle assemblee.
Tuttavia vi sono stati alcuni che hanno immaginato possibile il governo
parlamentare senza partiti, e di questi anche recentemente a mia notizia due,
uno inglese W. Thornton ed un altro americano A. Stickney, dei quali per
esaurir l’argomento mi è d’uopo tener parola.
Lo Thornton prende le mosse precisamente dall’Italia, la quale offre a parer
suo uno spettacolo miserevole, colla vicenda continua dei ministeri; onde
l’amministrazione rimane incerta o perturbata e manca nella condotta della
cosa pubblica ogni legame di tradizione e coerenza. Questa idea era già
stata, in generalità, accennata dal Laveleye, il quale avrebbe voluto che
qualche dicastero, come quello della guerra, dell’istruzione, dei lavori
pubblici fosse retto da amministratori tecnici e permanenti. Questi sarebbero
venuti una volta l’anno a difendere il bilancio dinanzi all’assemblea, e
senza assoggettarsi a mutazioni ministeriali d’indole politica, avrebbero rinunziato
all’ufficio sol quando vi fosse una ragione tecnica o di personale
responsabilità. Di ciò avrò l’occasione di parlare in altro capitolo che
riguarda i rimedi. Ora seguitando l’inglese, questi prende le mosse dal
concedere che in ogni assemblea, per quanto i suoi componenti siano per
singolo indipendenti, vi sono di necessità due andazzi di pensiero, l’uno
favorevole, l’altro avverso alle innovazioni. Ma egli vorrebbe che i ministri
sapessero acconciarsi sempre alla maggioranza della Camera, e fossero per dir
così gli esecutori della sua volontà, senza tenersi punto obbligati a
licenziarsi per un voto contrario, salvocché questo implicasse una censura
diretta ovvero una mancanza di fiducia espressa contro la rettitudine o
l’abilità del ministro. Similmente rallentando i vincoli che uniscono i
membri di un gabinetto, e dando a ciascheduno una maggior padronanza e
scioltezza di azione nel dicastero proprio, sì avrebbero per avventura e,
anche di rado, mutazioni di un ministro, ma non mai di tutti insieme, e cesserebbero
quelle perturbazioni che oggi si lamentano.
Qui prima di tutto è da osservare che il ministero secondo questo ideale, non
dee mai avere un piano proprio di buon governo, mai nessuna fede o
presunzione ferma, ma in ogni cosa sottomettersi alla opinione della
maggioranza e non solo sottomettersi ma farsene esecutore. In secondo luogo
ogni ministro qui procede per la sua via senza curarsi del nesso che
costituisce l’indirizzo generale della politica. Infine si dà alla assemblea
elettiva una potestà illimitata, di modo che il Senato e la Corona divengono
quasi un fuor d’opera. Essa sola decide, ma in tal caso i danni di una Camera
unica, la quale dispone di tutto, son tanto gravi da fare di questo governo
non un tipo di bontà, ma un principio di disordine. Imperocché un’assemblea,
per quanto eletta, è sempre moltitudine, quindi non può né ideare né tampoco
seguire un piano ben congegnato se altri non la guidi e non gli mostri un
fine alto, e i mezzi per giungervi, e non la costringa talora coll’autorità
di una meritata fiducia, a non disviarne. E se fra i ministri v’ha chi abbia
il fermo convincimento di alcune verità, come potrà patire di essere semplice
strumento dell’assemblea? Vi si acconceranno per avventura i mediocri, non
color che sentano di avere tanto ingegno da guidare altrui. Laonde il disegno
di che parliamo muove da idee confuse e si mostra impraticabile: in ogni caso
si risolverebbe in una cattiva repubblica, privata di un elemento
importantissimo qual è il presidente eletto dal popolo.
La vera repubblica: tale è il titolo, tale lo scopo dello scrittore
americano, il quale dopo aver deplorato le condizioni della sua patria, e
mostrato i funesti effetti della divisione dei partiti, propone che si esca
una buona volta, e per sempre dal presente stato di cose. Il quale a suo
avviso produce tre effetti disastrosi: il primo che gli uomini non sono
chiamati a fare ciò che meglio saprebbero e potrebbero; il secondo che
quand’anche siano chiamati ad un ufficio i più adatti non si può ottener da
loro il massimo di opera utile: il terzo che la corruzione penetra da per
tutto e tutto guasta e conduce a rovina. Già ne levai alcuni saggi nel
capitolo secondo, e fu codesto libro che mi porse alcuni esempi spaventevoli
della partigianeria che imperversa negli Stati Uniti. Ad evitare questi mali
egli propone in primo luogo che ciascun impiegato pubblico sia destinato ad
una sola qualità di lavoro, e debba compierlo nel modo più assiduo, efficace,
e produttivo possibile. A tal fine è mestieri che il suo ufficio non sia a
tempo (come è oggi in America) ma permanente, e che cioè duri finché egli
rende buon servigio. Indi che la sua nomina non venga dal popolo (come di
presente) ma dai suoi superiori conforme certi titoli prestabiliti,
finalmente che i superiori stessi abbiano la potestà di rimuoverlo, se fa
male. Fin qui si tratta di riordinare i dicasteri secondo il sistema europeo.
Segue che alla cima di tutti questi officiali pubblici sia un Capo del potere
esecutivo, eletto dal popolo, ma anch’egli a vita, e responsabile di tutto
l’andamento dell’amministrazione verso l’assemblea di che diremo or ora: che
in disparte da questa gerarchia esecutiva, vi sia un corpo di giudici, sia
pur questo eletto dal popolo, ma stabile anzi inamovibile: che la potestà
sovrana infine risieda in un’assemblea, cui spetti far le leggi, decretar le
imposte, e finalmente rimuovere qualunque impiegato esecutivo compreso il
capo dello Stato, e i giudici medesimi, quando nella medesima sentenza
concorra una maggioranza di due terzi dei voti. Ma l’assemblea non avrebbe né
facoltà di nominare impiegati, né ingerenza sulla nomina loro, né azione
diretta sulla amministrazione, ma solo un alto sindacato. I membri di
quest’assemblea sarebbero anch’essi a vita, non a tempo, e rimunerati in guisa
da poter dedicare tutta l’opera all’ufficio loro, senza darsi pensiero di
future elezioni.
La nomina degli ufficiali pubblici, fatta a vita e non a tempo, fatta dal
superiore e non ad elezione di popolo, fatta secondo certe regole che
stabiliscono i titoli della idoneità che si richiede ad occupare un dato
posto e non a capriccio; tutto ciò, come dissi, è già in Europa. E sebbene
abbia qui fornito occasione ad accuse infinite e gravissime contro quello che
chiamasi spirito burocratico, nondimeno io credo che il nostro metodo sia di
gran lunga migliore dell’americano, dove si tramutano e si rinominano tutti o
molti impiegati al mutarsi del presidente. E’ chiaro ed è dimostrato
dall’esperienza che quel metodo fruttifica la più ampia messe immaginabile d’interessi
partigiani, ed è giustamente accusato di convertire la carriera dei pubblici
impiegati in un lotto, mentre lo Stato ne ritrae il servizio minore e men
buono. Ma quand’anche il sistema europeo fosse introdotto in America, certo
non sarebbe sciolto interamente il problema. Di che fanno testimonianza i
nostri continui lagni. Quanto al capo dello Stato nominato a vita sarebbe
questa una specie di monarchia elettiva, con tutti i difetti che furono in
essa riconosciuti dall’esperienza, e che resero questa forma di governo la
meno sicura e la meno desiderata dai popoli. Avvegnacché la natura umana è
così fatta, che il presidente a vita o il monarca elettivo abbia un grande
stimolo a perpetuare la potenza e gli onori nella propria famiglia, e cospiri
sempre a convertire la propria dignità in ereditaria. Né gli riesce difficile
il conseguirlo, se fu benefico e glorioso, anzi quanto maggiori sono le sue
qualità tanto più il suffragio popolare lo spinge a porsi al di sopra della
costituzione. Che se è mediocre e fiacco non potrà osar tanto, ma si studierà
di arricchire la famiglia e i favoriti, come dimostrano infiniti esempi
storici, e il così detto nepotismo n’è un commentario perpetuo. Né più
lodevole è quell’assemblea sindacatrice, la quale per l’una parte non dà
indirizzo alcuno alla politica interna ed esterna, e per l’altra non attinge
mai nelle elezioni rinnovellate le forze vive dalla pubblica opinione. Dal
giorno che i suoi membri sono eletti, essi per dir così si distaccano dal
popolo che solo potrebbe loro infondere succo e sangue, e ne permangono
separati; ond’é assai presumibile che non partecipino alle mutazioni dei
pensieri e dei sentimenti generali; e un bel giorno si sentano in tutto
staccati dalla nazione. Si dirà che le elezioni avverrebbero per morte, ma è
troppo lento questo succedersi, per corrispondere al voto della democrazia. E
quanto al sindacato dei pubblici ufficiali, dove quest’assemblea effigia per
dir così l’antico costume dorico, svoltosi nel collegio degli efori, sarebbe
assai raro il caso di rimozione del capo del potere esecutivo, e di altri
impiegati, non solo perché occorrerebbero due terzi dei voti della assemblea,
ma perché il presidente della repubblica colla sua autorità vitalizia e
coll’influsso che necessariamente accompagna le aspettative lunghe,
eserciterebbe una influenza stragrande sopra i membri dell’assemblea. E forse
si formerebbe fra loro una specie di compromesso, pel quale ciascheduno
vorrebbe vivere la vita quieta, senza troppo brigarsi del rigoroso
adempimento dei propri doveri. Cosicché questa forma di governo che non mi
par nuova, perché almeno in parte si è veduta nell’antichità, e non ha fatto
buona prova, potrà chiamarsi, se così piace al suo autore, la vera
repubblica, ma non è un vero governo libero.
Finalmente a prova della possibilità di un governo libero senza essere
governo di partito, si additerà qualche cantone della Svizzera, dove nel
Consiglio di stato, che è la potestà esecutiva, si trovano riuniti uomini di
opinioni diverse anzi opposte. Il che avviene per effetto del modo della
elezione, la quale non viene dall’assemblea ma direttamente dal popolo. E
così manca uno dei cardini del sistema parlamentare, cioè che il potere
esecutivo non possa reggersi che sostenuto dalla fiducia dell’assemblea elettiva.
Ma oltre a ciò, due cose sono a notare: l’una che questa convivenza di uomini
che professano idee opposte non è utile ai pubblici servigi, l’altra che se
dura nei tempi ordinari, vien meno e si spezza tosto che sorge una questione
importante. Ed anche così come quel Consiglio si trova composto, lungi dal
cooperare schiettamente con tutte le forze al comune fine, i membri di esso
si astiano, e ne nasce un palese contrasto che rallenta l’andamento regolare
degli affari, ovvero una guerra sorda che lo arresta.
Adunque sembra che nella condizione presente delle cose, e nella forma
costituzionale e più ancora nella forma parlamentare, la esistenza e la
vicenda dei partiti sia inevitabile. Dico nella condizione presente delle
cose, perciocché io non intendo di pronunziare qui un giudizio assoluto e
perpetuo. Passato è il tempo nel quale di certe proposizioni generali si
facevano del’idoli dinanzi ai quali non restava altro che chinar reverenti la
fronte, come quelli che dovevano regnare in ogni plaga di paese ed in tutti i
secoli. A me è d’avviso che quel credo, che fu con tanta passione difeso
dagli scrittori liberali della prima metà di questo secolo, meriti di esser
riveduto e notevolmente corretto; non già che ne restino parti
importantissime confermate dalla esperienza, ma del sicuro altre svaniranno o
perderanno di loro importanza. Che se mi fosse lecito far conghietture
sull’avvenire, direi che il progredire della scienza e della civiltà dee
restringer la cerchia dei partiti, ed attenuarne i dissensi. Imperocché mano
a mano che una verità è stabilita in modo indubitato, questa vien sottratta
alla parte opinabile, e tutti si accordano intorno ad essa. Così per esempio
dal giorno che si è riconosciuto non esser lecito sforzare la coscienza
dell’uomo, e le sue credenze dover esser sottratte alla inquisizione
punitiva, i delitti di religione sono stati cancellati dai codici, e non è
più luogo a conflitto sulla tolleranza dei culti13 . Similmente, per cercare
un altro esempio in materia al tutto diversa, le questioni monetarie poterono
far parte dei programmi di partito in Inghilterra, e secondo l’uno o l’altro
se ne diedero soluzioni diverse: ma noi abbiamo veduto un ministero
conservatore qual era quello di lord Beaconsfield scegliere senza esitazione
nelle file del partito liberale un uomo competentissimo, qual era il Goschen,
sicuro che egli rappresentava schiettamente anche le proprie idee.
E un’altra prova di questo menomarsi della distanza fra i partiti, la
rinvengo eziandio in Inghilterra e la deduco da questo fatto frequente, che
spesso un partito combatte, impedisce, ritarda le proposte dell’altro, e poi
viene esso stesso a dar loro l’ultima mano e ad eseguirle; come fu il caso
dell’emancipazione dei cattolici, della libertà dei commenti, della riforma
elettorale che messe innanzi dal partito whig furono poi recate in legge ed
attuate dal partito tory. E che altro significa ciò, se non che una quantità
di soggetti cessano di essere disputati, certe nuove forme sono da tutti
accettate come rispondenti alla pubblica opinione, e lo stesso indirizzo
politico non è più diametralmente opposto? Per usare il linguaggio dei
matematici, l’angolo di divergenza fra i due partiti s’è fatto ognora minore,
e non solo un partito non si vergogna di prendere dall’altro alcune idee, ma
stima ciò esser suo debito e sua gloria. Finalmente anche i Parlamenti si
dividono non più in due parti soli, ma in un maggior numero, quasi
gradazioni, e sfumature, per le quali si passa dall’uno all’altro. Ora queste
stesse gradazioni e sfumature provano che la differenza nel programma delle
due parti non è più così recisa, e così molteplice com’era altra volta, ma
che s’è formato un certo raccostamento di opinioni fra loro. Ho detto sopra
che la tendenza scientifica del nostro tempo produce l’effetto d’introdurre
l’elemento tecnico in ogni parte della cosa pubblica; e l’elemento tecnico è
il contrapposto dell’elemento politico, e quanto più quello prevarrà tanto
più questo restringerà la sua efficacia, se pure non si trovi come in
meccanica una risultante delle due forze. Ad ogni modo è da credere che
nell’avvenire non sarà possibile chiamare al ministero di agricoltura una
maestro di musica, o a quello di marina un avvocato.
E similmente lo svolgersi della civiltà e la mitezza del costume non concederà
più certi rancori, e certe violenze, che in nome del partito, erano altra
volta nobilitate. I dissensi diverranno men aspri, le discordie meno
stridenti, e fra i due campi si disegnerà un terreno neutrale, dove sarà più
facile lo incontrarsi, senza venir meno alla dignità del carattere. Ma
intanto, se vogliamo esser pratici, fa mestieri considerare le cose quali
sono al presente. Laddove è libertà di opinioni politiche, laddove la
maggioranza decide le questioni, udita la discussione in contraddittorio, ivi
convien rassegnarsi ad avere un governo di partito. Suppongasi pure che
ciascun partito si proponga egualmente per fine il bene della patria, ma i
modi di conseguirlo sono diversi, secondo i principi donde l’uno e l’altro
han preso le mosse. E ciò posto, è mestieri sopportare questi inconvenienti,
che sono per così dire inerenti a tale costituzione. Ma poiché altri e più
gravi mali sono evitabili, fa d’uopo rivolgere attento lo studio ai mezzi di
por freno a questi e di prevenirli, o quando già esistono di estirparli. Né
le difficoltà del tema devono spaventare alcuno dall’affisarlo perché, come
ho detto altrove, si tratta o di consolidare le istituzioni sicché elleno
siano amate e difese dal popolo, ovvero di cadere in quella specie di
scetticismo politico che è il terreno più acconcio alle minoranze audaci per
mettere a soqquadro lo Stato, e precipitare la nazione in un mare di guai.
DEI RIMEDI
Troppo spesso avviene che gli uomini vedendo i
mali che nascono dagli ordinamenti ond’è retta la civil compagnia nella età
loro, e non sentendosi da tanto di emendarli, sono tentati per disperato di
mutarli di pianta, laddove se guardassero anche ai mali che da altri
ordinamenti derivano, tempererebbero d’assai i loro mutabili ardori. Il vero
è che il filosofo che studia le varie forme di governo, quando s’incontra nel
governo costituzionale, e soprattutto nel governo parlamentare, dovrà porre i
difetti che abbiamo sopra accennati, e non sono i soli, sull’uno dei piatti
della bilancia, ma dovrà anche contrappesarli nell’altro piatto coi vantaggi,
e se questi danno il tratto, pronunzierà favorevole la sentenza. E pur
divisando i rimedi agl’inconvenienti che vengono dal governo di partito,
dovrà rassegnarsi a sopportarne parecchi, perché nel consorzio umano è vano
sperare di aver tutto netto e senza difetto. Le quali cose si attagliano non
a questo solo capo, ma ad ogni altra istituzione. Imperocché la migliore non
sarà mai tale da assicurare ogni bene, e impedire ogni male; ma sarà quella
che, in un dato luogo e tempo, va accompagnata dai minimi danni, e produce i
massimi appagamenti possibili. Un’altra osservazione preliminare mi occorre
di fare, ed è che la politica, come il diritto e l’economia, non solo hanno
attinenza colla morale ma sottostanno ad essa. E per conseguenza il rimedio
vero ed efficace alle indebite ingerenze della politica dell’amministrazione
non si può trovare altrove che nella educazione nazionale. La quale opera per
due modi: l’uno è che dove il costume è buono, i comizi eleggono
rappresentanti onesti e capaci; in secondo luogo se un deputato prevarica, o
influisce sinistramente, si solleva nella pubblica opinione quel risentimento
nobilissimo, che è uno dei più fermi sostegni della moralità. Perché gli
uomini si astengono dal misfare quanto sanno che al misfatto segue universale
la condanna. Al contrario, là dove colui che ha commesso una mala azione è
accolto con eguali riguardi e favori dell’uomo illibato, là dove si chiama
scaltrezza e abilità il sopraffare e l’abusare, ivi per vero i rimedi
esteriosi, quali che siano, hanno poco valore, a quella guisa che nel corpo
dove sono viziati gli umori, indarno la medicina si affatica di curare un
morbo parziale. Laonde tutto ciò che io son per dire va soggetto alle
considerazioni predette, cioè che senza moralità pubblica nessun
provvedimento ha virtù specifica, ma rimane un mero spediente più o meno
efficace.
Il difetto che noi ci proponiamo di emendare consiste nella indebita
ingerenza del partito politico rappresentato dal ministero, e dalla
maggioranza parlamentare nella giustizia e nella amministrazione. La
imparzialità della magistratura, e il rispetto del quale questa dee essere
accompagnata dovunque, è la prima e sostanziale condizione del viver libero.
Qui cadrebbe veramente in taglio la frase così sovente e vanamente ripetuta
che la moglie di Cesare non dee essere neppur presa in sospetto. Ma quali
sono i mezzi per sottrarre la magistratura ad ogni influsso politico, quali
sono i rimedi, se tali influssi vi hanno penetrato per purgarnela e impedirne
i sinistri effetti nell’avvenire? In questa materia io mi sento assolutamente
deficiente di cognizioni proporzionate all’uopo, per la qual cosa mi
contenterò di notare alcuni punti che mi sembrano comunemente accettati, e
almeno a me si mostrano come forniti di efficacia salutare.
Dissi che comunemente si ammette che il primo fondamento della indipendenza
della magistratura sta in quella prerogativa che chiamasi inamovibilità, o
irrevocabilità, quella prerogativa cioè che la legge attribuisce ad un
pubblico officiale, per la quale colui che n’è investito non può esserne
privato fuorché per ispontanea rinunzia, per colpa, o per morte naturale o civile.
E questa a ne pare una delle più importanti guarentigie del nostro diritto
pubblico rispetto ai giudici. Che se talvolta l’ira partigiana invoca le così
dette purificazioni, sotto il qual pretesto si vuol far luogo ai cupidi e
agli ambiziosi, l’opinione pubblica sino ad ora condannò severamente simili
conati. Ma non basta che il giudice non possa esser privato del suo ufficio:
uopo è ancora che non possa esser trasferito ad arbitrio di luogo in luogo.
Nella massima parte delle nazioni libere d’Europa, se non erro, la
inamovibilità del grado si allarga alla sede. Anche ho toccato sopra come il
Vigliani stimasse a ciò provvedere con un decreto del 3 ottobre 1873, come
poi quel decreto dal ministro che gli succedette fosse abolito e come ancora
la magistratura porti i segni della fiera percossa, e duri il senso di una
istituzione perturbata. Io non so se il decreto Vigliani avesse potuto
porgere occasioni a qualche inconveniente, e di questo non oso giudicare: ma
parmi manifesto che il rimettere all’arbitrio del ministro i trasferimenti di
sede dei giudici sia una facoltà grandemente pericolosa, e contraria a quello
stabile assetto che esercita tanto prestigio nelle popolazioni, e che noi
desideriamo come argomento di matura civiltà. Né giova invocare la responsabilità
del ministro come ben mostrò l’Inghilleri in un suo discorso1, ed io stesso
ne parlerò più distesamente altrove per indicare quanto e in quali limiti
abbia valore. Ma lasciando stare le considerazioni generali, allorché il
partito che governa ha per sé una maggioranza sicura in Parlamento, questa
non solo lo assolve ma lo glorifica anche dell’ingiustizia, se gli sembri che
sia nell’interesse del partito stesso. E finalmente è mestieri eziandio che
la carriera del magistrato sia assicurata nei suoi gradi, in guisa che senza
gravi cagioni non possa mancargli quell’avanzamento al quale ogni uomo
naturalmente intende. Ed è evidente che bastano alcune nomine o promozioni
fatte a volta di cervelli politici, per confondere il sentimento della
gerarchia, ed offender diritti o giuste aspettative. E così la speranza di
avanzamenti precoci e il timore di abbandoni immeritati menomano la
indipendenza della magistratura.
Bisogna dunque che la legge stessa disponga di tutte queste cose, che le
nomine e le promozioni siano fatte con certe garanzie. E non si tema che il
Governo rimanga disarmato e impotente a correggere i difetti di un tribunale.
Perché le norme regolari delle nomine e delle promozioni, non possono mai
toglierli del tutto la libertà sì nello scegliere il giudice fra coloro che
hanno le condizioni richieste, sì nel destinargli la prima sede, sì nel
ripartire periodicamente le funzioni, sì nel vigilare l’adempimento delle
discipline giudiziarie, sì nel promuovere ove occorra dal tribunale contro un
giudice o l’applicazione delle pene disciplinari, o il trasferimento della
sede, o la rimozione dall’ufficio. Laonde se è utile e necessario che una
legge regoli lo stato degli impiegati tutti dell’amministrazione, e dia loro
secure guerentigie, questa necessità ed utilità si manifesta in sommo grado
quando si tratta della magistratura giudicatrice. E il medesimo dico eziandio
della legge sulla responsabilità loro: parendomi errore voler esentare il
magistrato da ogni colpa di dolo, o di violazione di legge. Che anzi qui la
prova può esser più facile che nell’amministrazione propriamente detta;
imperocché sono entrambi rami nei quali si diparte l’esecuzione della legge.
E quindi non possono darsi che due sole potestà, quella che fa la legge e
quella che la eseguisce, l’ultima delle quali secondo il differente obbietto
e il diverso modo di azione si distingue in giudiziaria e amministrativa.
Dissi nel capitolo secondo che la istituzione del Ministero pubblico qual è
oggi, cioè come rappresentante del governo presso l’autorità giudiziaria,
apre il varco ad indebite ingerenze: dissi come apparisca in alcuni casi
molesta e perturbatrice. Ma nello stesso tempo indicai la necessità di un
magistrato che vigili l’esecuzione della legge, che rappresenti l’interesse
della società e che promuova l’azione pubblica contro i reati. Da ciò ne
segue che bisogna modificare codesta istituzione senza annullarla bensì
adattandola al nuovo concetto, e sottraendola agli influssi governativi.
Quali siano i modi speciali di conseguire questo fine io non mi sento in
grado specificamente d’indicare, ma fra le altre modificazioni questo mi
parrebbe importante di dare ai procuratori del Re quella medesima
inamovibilità che si richiede pei giudici sedenti nel tribunale.
So bene quanto la istituzione dei giurati sia tenuta in pregio presso le
razze anglo-sassoni. Non si riguarda solo come un dovere del cittadino di
render la giustizia, ma come uno dei suoi diritti e dei più cari e dei più
segnalati nella vita libertà. Di ciò sin dai tempi antichi abbiamo esempi e
presso Greci e presso i Romani2. Ma l’Inghilterra ha perfezionato codesta
istituzione, la quale è siffattamente entrata nel costume che qualunque altra
franchigia sarebbe possibile a togliersi prima di questa. E non solo fu
estesa dai giudizi penali ai civili in parte, ma fu trasportata in tutte le
sue colonie, anzi in tutti i paesi che fan parte del suo dominio. Ed io delle
cose inglesi estimatore grandissimo, sarei inclinato a credere che avrà suo
svolgimento e sua durata anche altrove. Pure non posso interamente vincere
due cagioni di dubbietà: l’una che si trae dall’indole dei nostri popoli,
l’altra dalla tendenza scientifica, che io ho indicato sopra, d’introdurre
dovunque l’elemento tecnico. So bene che Seneca ha detto "de quibusdam
etiam imperitus judex (qui la parola imperitus allude proprio a mancanza di
tecnicità, di studio delle leggi) dimettere tabellam potest (cioè pronunziar
la sentenza) ubi fuisse aut non fuisse pronuncitatum est (quando cioè si
tratta del mero fatto)"3. Nondimeno è da considerare che in molti casi
il fatto e il diritto s’innestano, si confondono talmente che riesce arduo
discernerli. Ad ogni modo la scelta dei giurati è un tema arduo e bellissimo,
come pure la facoltà della recusazione sia da parte del pubblico ministero
sia da parte del giudicabile. Qui ancora abbiamo l’antico testo:
"neminem voluerunt majores nostri non modo de existimatione cujusquam,
sed ne pecuniaria quidem de re minima, esse judicem, nisi qui inter
adversarios convenisset"4. Il riconoscimento antecedente dei giudici è
posto dunque come condizione del riconoscimento del giudizio. Ma appo noi
questa recusazione corre il rischio di essere strumento di compiacenza o
anche di sentimenti partigiani. Ad ogni modo io mi tengo a questo voto, che
colla scorta della esperienza l’istituzione sia condotta a maggior
perfezione, e possa un giorno come in Inghilterra divenir succo e sangue nel
popolo, imperocché rimanendo com’oggi è, troppo sarebbe macilenta e stentata
a guisa di una pianta in terreno disadatto che non porta frutti saporosi.
Piacemi ripetere ancora che non è in me competenza a discutere con profondità
questa materia: oltredicché ciascuno di questi argomenti, per essere trattato
a fondo, richiederebbe un libro speciale, ed io non fo che toccarne i sommi
capi. Nondimeno aggiungerò che il numero dei tribunali parmi abbondi
soverchiamente. Certo se si pigliasse per base organica della magistratura la
terza istanza, il primo grado verrebbe occupato dal giudice singolare. E pur
mantenendo la base organica attuale, non hanno ragion d’essere molti
tribunali a cui mancano le cause da giudicare, e inoltre cinque Corti di
cassazione. Ora diminuendo il numero dei giudici sarebbe più facile nel
nominarli procedere con rigorosa scelta, scartando gli uomini di mediocre
levatura, e di dubbiosa moralità. E se oltre a ciò si accrescesse lo
stipendio loro, e si ponessero in condizioni tali da poter vivere con decoro
e convenienza, codesto ancora contribuirebbe a sollevarne la dignità.
Imperocché la sufficienza dei mezzi a ben vivere colla famiglia, non solo
sottrae l’uomo alle tentazioni, ma eziandio ispira un sentimento
d’indipendenza che è custode di virtù.
Risguardando la parte penale nasce dubbio se la indulgenza così grande nel
determinare e nell’infliggere i castighi non celi vaghezza di falsa
popolarità o influssi partigiani: della quale indulgenza, lasciando stare
ogni disquisizione astratta e tenendomi al metodo sperimentale e storico, io
non dirò altro se non che essa sembra convenir meno all’Italia dove i delitti
abbondano di numero e di ferocia5 di quello che alla Francia, alla Germania,
alla Inghilterra, dove assai minore è la delinquenza. Eppure quegli Stati
perseverano nelle severità del codice, e nel rigore della esecuzione. Quanto
poi al procedimento, egli è certo che in un paese libero non può ammettersi
la procedura scritta o segreta, ma sibbene la orale e pubblica. Ma qui ancora
è d’uopo esaminare i modi pei quali la pubblicità non addivenga a sua volta
un ostacolo alla imparzialità del magistrato. Laddove il giudizio piglia
sembianze di uno spettacolo, al quale si va ad assistere per moda, come la
donna romana ai ludi dei gladiatori nel tempo della decadenza, laddove
l’incolpato non che arrossire e mostrar pentimento inorgoglisce sfrontatamente,
e si vanta del suo delitto, o per lo contrario, come pur si vede talora, ai
si sente in faccia al popolo vilipeso e calpestato innanzi la condanna:
laddove il difensore non ha altro fine che di far pompa di eloquenza e di
cattivarsi gli applausi della moltitudine; in un ambiente siffatto è lecito
dubitare se la giustizia sempre trionfi. A tutto ciò si richieggono dei
freni, ma io lascio agli uomini esperti nella materia di divisarli.
Conchiuderò solo che se la giustizia è la più importante parte del governo,
se anzi è l’elemento vitale d’ogni società, pure i rimedi sono men difficili
ad apprestare, e si può eziandio soggiungere che oggidì sono meno urgenti.
Ora passando all’altra parte delle indebite ingerenze di che trattiamo, cioè
quella che si manifesta nell’amministrazione, qui mi sento alquanto più ad
agio, sebbene intenda di accennare piuttosto che di dimostrare. Ricorderò
prima quel che dissi nel capitolo secondo, cioè che nei paesi nostri
l’amministrazione c’involve da ogni parte, e abbiamo con essa continue
relazioni. Non v’è cittadino che o per le contribuzioni, o per la leva, o per
la polizia, o per i servigi pubblici, o per le scuole, o per la proprietà o
per le industrie, o pel lavoro non si trovi direi quasi quotidianamente a
fronte dell’amministrazione. La quale colle sue ordinanze e coi suoi atti
tocca all’interesse di tutti, vigila all’osservanza delle leggi e dei
regolamenti, e non solo decide sulle controversie, ma eseguisce le proprie
decisioni. Questo carattere di attività preventiva e responsabile è ciò che
la differenzia dalla giustizia giudiziaria, che sentenzia ma richiesta,
reprime sempre ma non previene, e non ha altra responsabilità fuor quella
della legalità delle sue decisioni secondo coscienza. Ora posto questo intimo
nesso che esiste appo noi fra i cittadini e l’autorità esecutrice in quanto
amministra, chiara apparisce la tentazione del partito che è al governo, di
insinuarsi nell’amministrazione e di valersi di questo potente mezzo e di
influssi così frequenti ed estesi per assicurarsi durevole potenza. In questo
caso è troppo facile che l’interesse pubblico venga sottoposto all’interesse
del partito, e di coloro che lo compongono.
Il quesito pertanto si presenta in questa forma: E’ egli possibile sottrarre
l’amministrazione alle ingerenze dei partiti? V’ha egli un rimedio come oggi
suol dirsi radicale, cioè che sterpi il male dalla radice? In verità questa
panacea non esiste, ma dallo studio che può farsi presso altre nazioni civili
si scorge che per tre modi si può temperare la perniciosa ingerenza di che
parliamo, e correggerne gli effetti.
O diminuendo le attribuzioni dell’amministrazione pubblica, e lasciando alla
libertà individuale e alla iniziativa privata la cura non solo degli
interessi parziali e locali ma eziandio in parte degli interessi generali.
O decentrando l’amministrazione in guisa che essa sia guidata e compiuta
localmente, e da enti morali autonomi.
O finalmente nel caso che l’amministrazione sia fornita di molte
attribuzioni, e guidata dal governo centrale, ammettendo ampiamente i ricorsi
e disponendo in guisa che siano risoluti e giudicati indipendentemente da
esso; il che presuppone che i regolamenti amministrativi abbiano effetti
giuridici e che vi sia una giurisdizione speciale.
Col primo di questi mezzi si toglie per così dire la materia soggetta
all’abuso, col secondo si tronca l’azione diretta del Ministero e del
Parlamento sull’amministrazione locale, col terzo si rivendica legalmente il
diritto violato. Del primo modo abbiamo un esemplare negli Stati Uniti, del
secondo nell’Inghilterra, del terzo nella Germania.
Qui si presenta, come in mille altre cose civili, la questione dei limiti
dello Stato, e l’altra che le è connessa se nella società moderna, esso sia
naturalmente indotto ad accrescere gli uffici suoi, ovvero a deporli
gradatamente. In questa materia si riscontrano due opinioni estreme; gli uni
riguardano lo Stato come un ostacolo alla libertà che convien sforzarsi
quanto è possibile di rimuovere, gli altri come una tutela provvida e
benefica che bisogna sempre rafforzare. Ma se la questione è ardua a
sciogliersi in tesi generale, lo è assai meno considerata storicamente, cioè
in relazione ad un dato tempo e luogo. Ed io ho avuto opportunità di
trattarne sebbene per incidenza in parecchi scritti6. A me pare che il fine
dello Stato sia duplice, primieramente la tutela del diritto, in secondo
luogo, la cura di quegli interessi veramente generali ai quali per sé stessi
non possono supplire i cittadini e le varie lor maniere di associazione. E
siccome lo Stato è un organismo naturale ed essenziale, mentre gli uomini si
riuniscono in società, così ne viene che abbia anche un terzo fine quasi
sostegno o condizione degli altri, cioè la conservazione propria e delle sue
istituzioni fondamentali.
In questo concetto molti per avventura concorderanno: ma la difficoltà nasce
nell’attuazione. Imperocché se il primo di questi uffici può dirsi perpetuo
ed assoluto, non è così del secondo, anzi si allarga e si restringe secondo i
bisogni della società. Quindi nacque e nasce gran disputa sulla opportunità
dell’ingerenza dello Stato in molte materie. E v’ha chi stima che nella forma
odierna della società nostra, e col progresso della civiltà, lo Stato dee
pigliare un numero ognor maggore di servigi e di uffici e regolare nuove
rapporti tra i cittadini fra loro e collo Stato medesimo. Di ciò abbiamo
esempli frequenti nella parte economica: la trasformazione della industria
per la quale di piccola e casalinga che ell’era, è divenuta manifattura in
grande, ha richiesto delle nuove leggi che assicurino i cittadini poniamo
dagli effetti insalubri di alcune officine, o tutelino la vita e la sanità
dei fanciulli, e delle donne che vi sono impiegati. E la serie di leggi che
gl’inglesi hanno fatto recentemente e che chiamano legislazione sociale è la
prova che persino quella nazione che tanto aborriva dall’assegnare al governo
nuove attribuzioni, ha dovuto sobbarcarsi alle necessità del nostro tempo.
Codesto è vero; cioè a dire che dallo svolgersi della civiltà nascono nuove
relazioni che vogliono essere giuridicamente determinate. Ma è vero altresì
che molti altri punti un tempo erano soggetti all’azione dello Stato, ora
sono lasciati alla libertà individuale. Si pensi qual era nei secoli scorsi
l’ingerenza dello Stato nelle materie religiose; non pago di penetrare entro
alle domestiche pareti, di scrutare la coscienza del cittadino, voleva
sforzare le sue credenze. Si pensi qual era la sua ingerenza nella
manifestazione del pensiero per mezzo della stampa, quale nella conservazione
dei privilegi delle classi nobili; si pensi a tutti gli statuti che
ordinavano le arti, le maestranze, prescrivevan loro metodi e dando rigide
forme all’industria ne punivano ogni trasgressione; e si vedrà che da un
secolo a questa parte si è fatto un gran spolvero di leggi restrittive della
libertà e il governo ha deposto molti carichi che gli parevano connaturali. E
basta il por mente agli Stati Uniti d’America per essere persuaso che una
società può progredire, arricchirsi, giganteggiare col minimo d’ingerenza del
governo. Ad ogni modo io credo che a mano a mano che i cittadini e i consorzi
loro si abilitano colla istruzione e col risparmio a sopperire a certi
uffici, lo Stato non ha più mestieri d’integrarne l’opera, e dee restringere
il suo compito. Anzi a questo restringimento dee mirare per gradi come ad
intento nobilissimo, in quantocché lascia ognor più largo campo all’attività
spontanea dell’uomo e ne solleva la dignità. Né questo sistema può dirsi che
contraddica razionalmente a quello che i tedeschi chiamano Stato di diritto
(Rech[ts]-Staat) e che pare loro il portato più nobile della moderna civiltà:
lo Stato cioè dove i doveri e i diritti di ciascheduno sono regolati dalla
legge, dove i cittadini sono pienamente guarentiti ed ogni adito è tolto
all’arbitrio. Il quale concetto essi contrappongono al buon governo di un
tempo, assoluto ma paterno, (Polizei-Staat) dove l’autorità ha piena balìa di
penetrare per dir così nella vita del cittadino. Dico che non v’è
contraddizione, perché questa norma giuridica, questa garanzia del diritto
può riscontrarsi tanto in una nazione dove l’azione preventiva del governo
sia estesa, quanto in una nazione dove invece la libertà individuale abbia un
vasto campo: anzi naturalmente sarebbe in quest’ultimo caso più facile e più
pratico il conseguirla, come è più facile e più pratico determinare e sancire
pochi anziché molti rapporti civili.
Ma per tornare agli Stati Uniti d’America, ci parrebbe impossibile il recare
in Italia immediatamente le consuetudini, e gli ordini di quel paese. Lo
scrittore brioso che ha fatto il confronto fra Parigi e New York7, può ben
deplorare tutte le inutili pastoie che impediscono al cittadino francese di
operare con la prontezza e spontaneità del cittadino americano; ma non
potrebbe immaginarsi che in un momento si facesse la trasformazione dei
costumi dell’una nell’altra città. Le condizioni speciali dell’America e
soprattutto i terreni ampissimi da coltivare, tanto ampi che bastano non pure
agli indigeni, ma agli emigrati che in gran numero l’Europa versa ogni anno
in quelle contrade, permettono molte libertà, che non sarebbero consentire
altrove, specialmente dove la popolazione vive agglomerata, e le terre sono
tutte occupate. E quand’anche non vi fossero queste così notevoli differenze
fra il nuovo mondo e l’Europa, non si potrebbe neppure immaginare il trapasso
immediato dai nostri ordini a quelli, avvegnacché chi è avvezzo alle fasce
quando gli son tolte traballa e cade. Ma qui come in altre simiglianti
questioni, la differenza è di tendenze: ché laddove gli uni vogliono fare
dello Stato non solo un presidio dei diritti, non solo un sussidio
dell’attività privata a generale interesse, ma il tutore l’educatore perenne
del cittadino: gli altri in tanto accettano la tutela ed educazione dei
cittadini in quanto è necessariamente richiesta dalla condizione dei
medesimi; e non basta a questi il dire che taluni atti potrebbe fargli
meglio, e più compiutamente lo Stato; perché d’altra banda pongono sotto gli
occhi i vantaggi che ritrae l’uomo dall’esercizio libero delle sue facoltà,
il tirocinio, e la responsabilità morale. La prima di queste teoriche
somiglia per dir così a un cattolicismo statuale, ed è singolare a pensare
che negando la unità della Chiesa si voglia surrogarla collo Stato; laddove
può rispondersi che se vi fosse cosa che potesse giustificare l’accentramento
e la tutela sarebbe appunto la necessità di non errare in ciò che riguarda la
eterna salute.
Concludiamo che se le leggi si moltiplicano per regolare nuovi rapporti fra i
cittadini, e da questa parte il còmpito dello Stato cresce, per un’altra
parte quella cioè della tutela e della integrazione, le sue funzioni scemano
d’intensità, poiché collo svolgersi della civiltà il cittadino si abilita man
mano ad operare da sé medesimo. E di quanto le funzioni dello Stato vanno
scemando, di tanto l’amministrazione è sottratta all’azione diretta del
governo e per natural conseguenza anche alle ingerenze della politica.
Potrebbe adunque il pregio di fare un rivista di tutte le leggi e di tutti i
regolamenti vigenti nel Regno collo scopo chiaro e determinato di cancellare
ogni disposizione che vincoli la spontaneità del cittadino, e non sia
necessaria all’ordine sociale. E di cotali disposizioni se ne troverebbero
non poche, le quali possono essere tolte di mezzo o modificate nel senso di
lasciare maggior libertà al privato, senza che perciò ne corra alcun pericolo
l’andamento della cosa pubblica. Ma codesto rimedio che pure noi suggeriamo
come utile, di scemare le forze del Governo accrescendo la libertà è di sua
natura lento; onde sembrerà a taluni che meglio possa convenire all’uopo e
sia più pratico l’altro metodo che abbiamo indicato come vigente in
Inghilterra, cioè il decentramento.
Della parola decentramento si è usato ed abusato, e forse molti l’adoperano
anche oggidì senza averne ben chiara l’idea. Il decentramento, come lo si
intende generalmente, ha luogo in due forme, o per delegazione governativa ai
suoi agenti, o per facoltà attribuite a corpi elettivi. Ha luogo per
delegazione quando, rimanendo ferme nel governo tutte le attribuzioni che ha
di presente, pur esse sono esercitate a suo nome da funzionari locali senza
uopo di ricorrere al governo centrale: il che può praticarsi in modo assai
più largo che oggidì non si faccia. Imperocché v’ha sempre nei dicasteri
ministeriali la smania di richiamare al centro le decisioni anche dei minimi
affari, la nomina anche degli infimi impiegati. E questo nuove in due modi,
prima perché rende il disbrigo degli affari stessi più complicato e più
tardo, secondo perché il funzionario locale non sente più alcuna
responsabilità dei suoi atti, e anche laddove in effetto gli compete facoltà,
trova più comodo di rispondere a ciascuno se essere mero esecutore di ordini
superiori. Il prefetto, per esempio, dovrebbe avere allargata la sfera della
sua azione, mentre formalmente rappresenta tutto il ministero. E qualora i
capi dei differenti servizi come il procuratore del Re, l’intendente di
finanza, l’ingegnere del genio civile, il provveditore degli studi, il
direttore delle poste e va dicendo, formassero il suo consiglio ordinario, io
non so perché la nomina di tutti gl’impiegati inferiori non potrebbe essere
attribuita loro interamente. E similmente l’esercizio per gran parte del
bilancio di spesa. Imperocché votato il bilancio del Parlamento, nulla vieta
che sia ripartito per provincie, assegnando la somma corrispondente al
prefetto ed ai capi di servizio da spendere. Dal prefetto potrebbe nella
condizion presente delle cose dipendere il servizio sanitario, quello delle
carceri e tutto ciò che riguarda agricoltura, industria, commercio: da esso
venire il consentimento ai comuni, provincie, ed Opere pie di acquistare e
permutare proprietà: e così va dicendo. Gli stessi funzionari sopra indicati,
perché non avrebbero maggiori facoltà che non abbian ora? A me pare che gli
intendenti dovrebbero in materia d’imposte dirette e di ricchezza mobile
giudicare ed eseguire sui richiami per errori materiali, per cessazione di
redditi, per iscrizioni duplicate sui ruoli; in materia di demanio e, dentro
certi limiti di tempo e di somma, annullare crediti mesigibili, transigere
piccole cause, affittare o riaffittare beni demaniali, dare licenza di
esecuzione ai contratti. In materia di gabelle provvedere agli errori materiali
e di trascrizione, egli errori di calcolo nella liquidazione delle tasse
doganali ed altro. Similmente nei lavori pubblici parmi che il capo del Genio
civile della provincia, una volta stabilito il piano dei lavori, dovrebbe
avere anche per le opere idrauliche di prima e seconda categoria maggiori
facoltà di attuazione, come pure dovrebbe avere balìa, sempre dentro certi
limiti di tempo e di somma di provvedere a tutte le opere di urgenza per le
quali ogni indugio può riuscire funesto. Io sono ben lungi dal trattare a
fondo l’argomento, intendo solo di segnarne alcuni lineamenti.
Veniamo al secondo punto che è quello di allargare le attribuzioni dei corpi
locali e dare a questi maggior libertà. Certo la legge che abbiamo non è
avara verso il comune e la provincia: direi anzi che a quest’ultima assegna
un compito che in certi casi soverchia le sue forze, come la cura dei
mentecatti, dei trovatelli. E dico che le soverchia, perché i trovatelli son
portati anche da provincie vicine alle maggiori città, si moltiplicano i
manicomi con dispendio esuberante, si è costretti perciò di risparmiare in
lavori produttivi, infine le provincie povere sono schiacciate dal peso di
codesti oneri. Però mi sia lecito di fare una osservazione preliminare.
Quanto maggiori sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un Ente locale,
tanto bisogna assicurasi ch’esso abbia le forze corrispondenti a bene
reggerlo. Dico le forze non solo morali ma materiali: cosicché l’ordinamento
amministrativo dei comuni e delle provincie si collega in modo indissolubile
all’ordinamento loro finanziario. Un piccolo comune o una piccola provincia,
posto che trovasse fra i suoi cittadini uomini capaci di sopraintendere a
tanti atti pubblici, avrebbe pur sempre mestieri di poter attingere ai suoi contribuenti
i mezzi pecuniari che a tal fine occorrono. A lume di questo criterio
gioverebbe esaminare sino a che punto le attribuzioni degli Enti locali
possono essere ampliate. Certo vi sono delle funzioni che il Governo non può
delegare ad alcuno: tale è la difesa della patria, la rappresentanza esterna,
il mantenimento del diritto privato e pubblico, l’osservanza generale delle
leggi, la giustizia e la finanza. Ma altre funzioni potrebbero essere
delegate, e in certi paesi lo sono, come dal ministero dell’interno la
polizia preventiva, le carceri di custodia, la sanità pubblica; da quello dei
lavori pubblici le strade, le acque, i porti minori; da quello
dell’agricoltura, industria e commercio la navigazione interna, le foreste,
la caccia, la pesca, infine tutto o parte del pubblico insegnamento, delle
biblioteche, degli archivi. Ma questo decentramento richiede, come dissi, una
forza materiale e morale proporzionata nell’Ente che assume le predette
funzioni, ed io persisto a credere che ciò non possa fondatamente sperarsi se
non da consorzi di provincie. Quando nel 1861 presentai un disegno di legge
sul riordinamento del nuovo regno d’Italia, v’introdussi un elemento nuovo
che era la regione. Dico nuovo rispetto all’ordinamento amministrativo
vigente, ché storicamente la regione aveva antichissime tradizioni sì nel
medio evo, sì presso i romani. La opportunità del disegno per quel tempo
traevasi da questo motivo principale: che la unificazione amministrativa non
doveva a mio giudizio farsi affrettatamente, imperocché essa avrebbe ferito,
come ferì, molti interessi, offese molte abitudini, suscitò molte
animaversioni. E perciò la regione era principalmente un organo transitorio
affinché si operasse lentamente il trapasso de sette legislazioni ed ordini
diversi secondo i diversi Stati, a coordinamento ed unità. Oggi quella
unificazione fu compiuta con molti spostamenti e molti dolori, ma fu
compiuta, né potrebbe più la regione avere quel medesimo fine. Però potrebbe
averne un altro; se si volessero dare ad Enti locali, e a corpi, elettivi
quelle funzioni che ho detto sopra togliendole al governo centrale,
converrebbe di necessità che questi Enti fossero più potenti delle provincie,
o almeno di molte delle nostre provincie, e supposto ancora che il Governo
cedesse loro tanto parte d’imposte quanta corrisponde alle relative spese che
oggi sostiene; pure tornerebbe opportuno formare dei consorzi parte obbligati
parti facoltativi. Dei quali io non temeva allora la tendenza troppo
autonomica, e politicamente separativa, né la temerei ora, purché i diritti e
i doveri loro fossero ben definiti, e non si desse alle rappresentanze
interprovinciali carattere e procedimento di piccoli parlamenti. Ai quali
consorzi di provincie starebbero ottimamente anche i mentecatti ed i trovatelli,
come pure la formazione di quei regolamenti d’indole alquanto generale, che
mal si conviene a provincie piccole di fare. Fra le leggi che proposi a quel
tempo una ve n’era che stabiliva le regole per la formazione dei consorzi sì
obbligati sì facoltativi non solo fra privati, corpi morali, e comuni ma
eziandio fra provincie. Ma la legge posteriore del 20 marzo 1865 sui lavori
pubblici dispose dell’ordinamento dei consorzi ma per pochi casi, strade,
scoli opere idrauliche di difesa, e determinò il modo onde i consorzi si
costituiscono fra privati, corpi morali e comuni, e i modi anche onde si
mantengono, e qui ancora lasciò molte cose incerte o in balìa dell’arbitrio
ministeriale. Ma quanto a consorzi interprovinciali, anche ristrettivamente a
questo solo fine, non ne fece parola, limitandosi a dire che potranno essere
istituiti per legge. Converrebbe dunque riprendere questa materia,
determinate quali attribuzioni si possono dare ai consorzi di provincie e non
solo di strade e di acque, ma come accennai di polizia, di giudicatura,
d’istruzione e va dicendo: e quando vi sarebbe obbligo di consorziarsi,
quando facoltà; il modo di costituzione, la durata, e i tributi pecuniari.
Per questa via soltanto riuscirebbe agevole esonerare da molti affari il Governo
centrale.
Rispetto ad allargare la libertà dei comuni e delle provincie io penso che
sia oggi conveniente ancora più che nel 1861 rendere il sindaco elettivo; e
togliere al prefetto la presidenza della deputazione provinciale: ma che
nello stesso tempo convenga che cessi nelle deputazione ogni autorità
tutoria. L’amministrazione e la tutela non si vogliono confondere: libera
l’una ai corpi locali, l’altra, per quanto riguarda l’osservanza delle leggi,
spetti allo Stato. Ho detto altrove che un argomento di abusi e di scandali
nell’ordine dei fatti onde favelliamo, fu l’art. 235 della Legge comunale e
provinciale che dice potere il Re per gravi motivi di ordine pubblico
disciogliere i Consigli. Imperocché codesta facoltà può divenire talvolta
nelle mani dei ministri una minaccia e una punizione per quei Consigli che
ripugnino a mostrarsi ossequenti alle voglie di alcuni deputati che vanno per
la maggiore; e manca persino la pubblicità di simili deliberazioni e i
decreti ne sono sottratti alla registrazione della Corte dei conti, laonde
parecchi Consigli soprattutto di piccoli comuni perirono nel silenzio per
alta vendetta. Né il Consiglio disciolto poteva più fare richiami, e intanto
i commissari inviati apparecchiavano nuove elezioni secondo gli intendimenti
del governo e dei deputati più influenti. E’ mestieri pertanto che la legge
determini precisamente i casi nei quali il Consiglio può esser disciolto, ne
chiarisca il procedimento, e lasci adito a una reintegrazione se il diritto
fosse stato violato.
Codesti sono modi di decentramento, ma non sono i soli. Ho insistito in tutti
i miei scritti intorno ad un altro modo che è quello delle istituzioni
autonome formanti Enti morali. Finché lo Stato avrà che fare con cittadini
disgregati, finché gli atomi disciolti si troveranno di contro quel
oltrapotente corpo che si chiama lo Stato, ogni conato di resistenza anche
giusta sarà vano. Ed è perciò che le democrazie sgranate (per servirmi di
questa metafora introdotta dal Romagnosi) si acconciano facilmente ad un
padrone, e pur ch’egli rispetti l’uguaglianza, calpesti e suo talento la
libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che
la compongono, le disciplina e si rende atta per l’una parte a compiere
maggiori cose, per l’altra a resistere ad ogni usurpazione. Io ho sovente
considerato quanto poco di valore abbiano avuto ed abbiamo le istituzioni in
Italia: sotto certi riguardi ne hanno forse meno che in ogni altra contrada
d’Europa. E se nel rivolgimento che ci condusse all’unità della patria,
abbiamo risoluto agevolmente dei problemi che altrove sarebbe stato durissimo
di affrontare, se di questo facile successo ci diamo vanto legittimo,
nondimeno è mestieri considerare che ciò prova anche la fiacchezza di ogni
corpo morale, che alla volontà ed anche agli arbitri di un governo non osa
tener testa. Ora guardando l’avvenire, importerebbe assaissimo il costituire
nuove istituzioni secondo la forma che la civiltà moderna consente, e dal
loro vita e vigore. Imperocché ciò che fu utile a noi quando si trattava di
distruggere il vecchio, potrebbe diventar pericoloso se per un momento la
maggioranza del Parlamento fosse nelle mani di quelli che si appellano
radicali. Ora niente vieta, e l’esperienza credo ne confermerebbe, i buoni
effetti che le università, le accademie, le diocesi, le parrocchie, molte
Opere pie, e sodalizi di mutuo soccorso e associazioni d’industria, di
commercio, d’agricoltura potessero costituirsi sotto determinate regole in
Enti giuridici, salvo l’alta vigilanza dello Stato.
Pertanto senza entrare in maggiori particolari che qui non avrebbero luogo,
io concludo che per tre canali può derivarsi la fonte dell’autorità dal
centro alla circonferenza: per delegazione che il governo centrale ne faccia
ai suoi agenti, per ampliazione di attribuzioni e maggior libertà ai corpi
locali elettivi, per istituzione di Enti giuridici autonomi. Al governo
rimarrebbe sempre la difesa nazionale, la garanzia dei diritti, l’indirizzo
generale politico interno ed esterno, la vigilanza suprema per l’osservanza
delle leggi, la cura di alcuni interessi importanti e veramente nazionali.
Ma non è ancora risoluto con questo il problema del cedentramento. Gli agenti
del governo, i corpi locali elettivi ed autonomi, gli stessi Enti morali
possono riprodurre tutti i mali che si attribuiscono al governo centrale. E’
questo un punto sul quale molti di coloro che parlano sempre di decentramento
non hanno recato mai attenzione, e così i piani loro rimangono davvero
campati in aria. Pare ad essi quel che pareva agli antichi che la libertà in
ciò soltanto consista di eleggersi chi li governi; laddove la libertà per noi
moderni consiste nel rispetto di tutti i diritti; e a guarentire questo
rispetto l’elezione è di per sé insufficiente. E di vero la indebita ingerenza
della politica nell’amministrazione non cessa per ciò che abbiamo sopra
descritto, ma trasporta per così dire i suoi penati dal centro alla
circonferenza. Il deputato non salirà e scenderà più le scale ministeriali,
non avrà più mestieri d’intime relazioni coi capi dei dicasteri centrali: ma
farà opera di imporsi alle autorità delegate, al prefetto, all’intendente, al
capo del Genio civile. E quanto ai corpi elettivi locali, la politica vi
penetrerà similmente: ma siccome si tratta di cose minori, supplirà
coll’acerbità della passione alla poca importanza della questione. Così noi
veggiamo che taluni consigli provinciali e comunali ti hanno proprio l’aria
di parlamentini: vi si fanno le interpellanze, gli ordini del giorno, vi si
provocano le crisi ministeriali, e la maggioranza vi esercita una tirannide
sfrenata sulla minoranza. In questi casi la condizione del cittadino è
peggiore, avvegnacché come ebbi occasione di notare di sopra , il tuo
avversario prossimo è più duro, più terribile del lontano. Questo ha sempre
un certo senso degli interessi nazionali che lo tempera, ed è scevro da
quelle ire borghigiane che sono rinfocolate alla dalla ristrettezza degli
argomenti, dall’insistenza quotidiana sui medesimi, dal pettegolezzo che li
ripercuote e li ingrandisce.
Chi ha mai dubitato delle libertà locali dell’Inghilterra? Chi anzi non
propone ad esempio gli ordini suoi come esemplari di decentramento? Eppure
l’elezione entrò ben tardi come elemento organico in alcune amministrazioni
locali, e si ampliò nelle parrocchie e nei borghi. Il vero pernio del
decentramento inglese sta nella istituzione dei giudici di pace, la quale
benché antichissima e forse anzi per ciò stesso, fu poco esaminata e mal
notata: ma esercita nella costituzione inglese un ufficio importantissimo8.
Che se come dissi il concetto moderno della libertà sta nel rispetto massimo
dei diritti e delle azioni del cittadino sinché non viola i diritti altrui,
ragion vuole che questi siano determinati per legge, e che il giudizio di
loro violazione non appartenga alla potestà esecutiva.
Il giudice di pace in Inghilterra ha funzioni svariatissime: è magistrato di
polizia inquirente, giudice, e funzionario amministrativo. Come il suo titolo
annuncia, egli ha per fine di serbare la pace nel civile consorzio9. Perciò
riceve denuncie da tutti e soprattutto dagli ispettori governativi incaricati
di accertare che le leggi siano osservate; ordina comparse di imputati e di
testimoni, e li ascolta, esige prove, e forma l’istruzione e l’accusa che
sarà trasmessa alla Corte. Può dimandare cauzioni di buona condotta da
persone pregiudicate, spedisce mandati d’arresto, vigila i mendicanti, i
vagabondi, gli uomini perniciosi, impedisce le riunioni pericolose alla
pubblica pace. Come giudice, pronunzia sentenze per i reati minori contro le
persone e le proprietà, e per le contravvenzioni alle leggi di finanza, di
tasse, di caccia, di pesca e va dicendo; è giudice anche in talune materie
civili, per esempio sul pagamento delle decime, sui conflitti fra fabbricante
ed operaio, fra proprietario e contadino. Come funzionario amministrativo
approva i ruoli delle tasse dei poveri, e ne accerta i conti definitivi, dà
potere di esecuzione coattiva contro i contribuenti morosi, vigila sulle
opere pubbliche, sulle industrie insalubri, e perturbatrici: stabilisce in
alcuni casi previsti dalle leggi il domicilio o lo sfratto di un cittadino.
Queste ed altre sono le attribuzioni dei giudici di pace.
Ma chi elegge o nomina questi giudici di pace? quanti sono? come operano?
Questi giudici di pace non sono eletti, e si potrebbe anche dire che non sono
nominati, nel senso della parola quale noi l’intendiamo comunemente, sebbene
vi sia una nomina formale che direi quasi riconoscimento da parte del Gran
Cancelliere. Essi sono per la massima parte dei benestanti i quali
appartengono a famiglie onorate, vivono sulle loro terre, hanno una rendita
abbastanza copiosa, e formano quella mezzana aristocrazia terriera gentry che
è nerbo della nazione. A loro si aggiungono negozianti che hanno cessato dagli
affare, capitalisti, ecclesiastici, professori, giurisperiti, ingegneri,
medici, che cessano dal prestare l’opera loro per lucro. Gli avvocati e
procuratori patrocinanti ne sono espressamente esclusi. L’uomo che si trova
in queste condizioni, ed è maggiore d’età, si presenta al Lord luogotenente
della Contea il quale è un ufficiale onorario della Corona, e si fa
inscrivere nell’elenco dei giudici di pace, il che non può essergli rifiutato
salvo che per gravi motivi. Ed ecco perché io dissi che l’ufficio anzicché
esser effetto di una nomina, rampolla quasi da un diritto, Però questa
iscrizione non dà che il titolo onorario: perché divenga effettivo occorre
una convalidazione che gli è data dal Gran Cancelliere mediante una specie di
bolla, writ, che dalla parole colle quali comunica si appella dedimus
potestam e investe colui al quale è data di tutte le facoltà richieste
all’esercizio delle sue funzioni. Ma questa concessione e comunissima anzi
non si negherebbe neppur essa, se non per causa d’indegnità. Di oltre a
diciotto mila giudici titolari che vi sono, solo otto mila fanno veramente
ufficio attivo; e sono a vita generalmente, ed hanno potestà e giurisdizione
nel distretto nel quale vivono, e talora nell’intera contea. Operano in molti
casi da soli, in altri casi si richiede la compagnia di due che siano
consenzienti nei giudizi. Ma inoltre v’hanno sessione speciali, alle quali
sono invitati tutti i giudici di pace del distretto per un obbietto
determinato. In queste assemblee si nominano gli ispettori dei poveri, i
constabili o agenti di polizia, si rivedono i conti delle opere stradali, si
decide sui ricorsi contro l’iscrizione per la tassa dei poveri, si formano le
liste dei giurati, si accordano licenze per aprire vendite di commestibili e
di liquori, permessi di caccia, e va dicendo. V’hanno poi le sessioni
trimestrali che si tengono nel marzo, giugno, ottobre e decembre, e quivi
l’ufficio dei giudici di pace è ancor più importante. Amministrativamente
costituiscono la rappresentanza principale e la più diretta degli interessi
della contea: impongono tasse, fanno regolamenti obbligativi nei limiti della
legge, stabiliscono tutto ciò che riguarda le spese della pubblica sicurezza,
della giustizia, degli edifici dei tribunali, delle carceri, possono modificare
persino talune circoscrizioni amministrative, provveggono ai mentecatti,
ordinano il sindacato dei pesi e misure; inoltre come tribunale giudicante
sentenziano su contravvenzioni e reati, maggiori di quelli che sono di
competenza del giudice singolare, e fanno ufficio di giudici istruttori e di
camera di accusa contro reati e crimini anche più gravi. Finalmente egli è a
queste corti trimestrali che sono portati i reclami contro i giudici e gli
atti dei giudici singolari i quali sono tenuti responsabili personalmente,
quando l’atto loro possa reputarsi fatto con malizia. Ma dalla corte stessa
trimestrale, per quanto riguarda le funzioni sue giudiziarie, vi ha appello
al tribunale chiamato Banco della regina, e anche più su sino alla Camera dei
Lords.
Questi cenni, comecché imperfetti, bastano a mostrare la importanza dei
giudici di pace inglesi, e la parte notevolissima di essi non pure come
magistratura inquirente e giudicante, ma altresì amministrativa. La quale
istituzione sorge spontanea dai costumi e dalle tradizioni del paese, non dee
sua vita, come dissi, alla elezione popolare, né tampoco alla nomina regia
sebbene ne abbia la forma esteriore; è insomma un portato della storia
inglese, e in essa è principalmente riposto quello che noi chiamiamo decentramento
e la maggiore tutela della indipendenza, e della libertà del cittadino e di
tutti gli Enti giuridici. Tale istituzione come dissi è il pernio
dell’organizzazione locale inglese. Ma è arduo per non dire impossibile
trasferirla così com’è sul continente, e conviene adattarsi a ciò che le
consuetudini, e le naturali disposizioni dei cittadini ivi comportano in
materia di decentramento.
Ma prima di procedere oltre è mestieri esaminare alcune considerazione di
Silvio Spaventa nel discorso che ho citato sopra là dove parla "dei
poteri delegati ai cittadini non come agenti dello Stato, sebbene come
ordine, investiti da esso di questi poteri da usare non nell’interesse
proprio ma generale, responsabili dell’uso che ne fanno e non stipendiati, ma
per la loro posizione sociale in grado di attendere gratuitamente agli uffici
loro commessi" ed è questo proprio il self-government come gli inglesi
lo intendono. Quivi egli roca innanzi alcuni dubbi: primieramente la tendenza
prelevante nella società moderna a ripartire il lavoro secondo gli obbietti a
cui l’attività umana si volge; e questo principio della divisione del lavoro
si stende anche agli uffici della vita pubblica. Quando oggi un cittadino ha
pagato l’imposta, egli non si crede in coscienza obbligato a dover fare altro
per lo Stato: il fungere oltre a ciò un ufficio pubblico pargli, come
direbbero teologi, opera di supererogazione. Una seconda difficoltà nasce
dalla condizione presente della proprietà stabile, imperocché per la facilità
dei trapassi e la divisione ereditaria è impedito che si formi una classe
durevole di possidenti ricchi, ed educati a sobbarcarsi e a portare il carico
della cosa pubblica. Né oggi la proprietà stabile è il centro di gravità
delle relazioni sociali, ma piuttosto la proprietà mobile, e i possessori di
questa son di tutti i meno disposti ad assumere uffici estranei alle
occupazioni loro abituali. In terzo luogo, supposto che questa ch’egli chiama
delegazione dello Stato, si attui da noi con maggiore larghezza, vi mancherebbe
ogni garanzia di giustizia. I mali che abbiamo deplorato si
moltiplicherebbero, trasferendone la sede in ogni Consiglio o corpo locale
dove la passione di parte, e la prepotenza della maggioranza sarà anche più
impura e più acre che non al centro. Di quest’ultima difficoltà ebbi testé
anch’io a far parola nell’ordine della mia argomentazione.
Queste tre obbiezioni sono gravi e bisognerà ad una ad una analizzarle. La
divisione del lavoro che ha penetrato in ogni parte della società, e n’è
divenuta per così dire una qualità fondamentale concorda con quell’altra
tendenza di che ho toccato sopra, cioè quella che mira ad introdurre
l’elemento tecnico dell’amministrazione della cosa pubblica, e quindi ad
assegnare ciaschedun ufficio ad uomini idonei che per istudi ed educazione
siano i meglio accomodati per adempierlo e non già ad altri. Però è da notare
in primo luogo che per la ripartizione del lavoro avviene nella società
civile il medesimo che avviene nei corpi formati da natura: che quanto più
sono complessi, ed ogni funzione peculiare ha suo peculiare organo che la
esercita, tanto diventa più necessario e più forte un organo comune
coordinatore di tutte le azioni. E se tu guardi la macchina del corpo umano,
mirabilmente più molteplice per varietà, e dove appunto gli organi hanno
ciascuno suo peculiare funzione, ivi è massimo l’accentramento nel cervello.
In secondo luogo come la divisione del lavoro portata ad estremo grado nella
industria finirebbe per spegnere ogni intelletto, e ogni sentimento nell’operaio,
se non si cerca di bilanciarne gli effetti con altre occupazioni materiali e
mentali, in simil guisa il tecnicismo messo nei singoli servigi pubblici
farebbe perdere di vista il tutto, e smarrire il concetto generale politico
ed amministrativo, onde le parti s’avvivano. Bisogna dunque contemperare
l’una cosa coll’altra, e congiungere dirò così l’elemento umano e comune
all’elemento speciale e tecnico. Né io crederei vantaggioso affidare tutti
gli affari pubblici ad una burocrazia chiusa ed immobile; eppure sarebbe
questa la conseguenza ultima della obbiezione che s’informa al principio
della divisione del lavoro e alla competenza tecnica. Reputo inoltre che per
quanto ogni cittadino abbia una occupazione personale nella industria,
nell’agricoltura, nel commercio, cui rivolge come a fine l’attività propria,
pure non tutto il suo tempo è in ciò adoperato, e qualche frazione gliene
rimane per consacrarlo alla cosa pubblica. E d’altra parte una legittima
ambizione, il piacere di esercitare sane influenze, la soddisfazione di
essere eletto ad un ufficio pubblico, gli rendono gradito il sedere nei
consigli del comune e della provincia. Che se veramente altri fosse persuaso
che, pagata l’imposta, non è in coscienza obbligato a far nulla pel consorzio
civile nel quale vive, bisognerebbe emendare questo errore, e mostrargli che,
come nella sua giovinezza la legge lo piglia e lo costringe a servir la
patria col braccio nella milizia, così nella sua virilità il sentimento
morale lo obbliga a servirla coll’intelletto e coll’opera.
Né tampoco mi par vera in tutto l’asserzione, che la proprietà stabile,
avendo cessato di essere per di così il pernio della società, e sovrastando
invece la proprietà mobile, i possessori di questa si rifiutino di assumere
uffici che li frastornano dalle loro abituali occupazioni. Queste al par di
quelle della proprietà terriera, non sono esclusive: anzi si dà
frequentemente il caso che lasciano l’attività del cittadino più libera dalla
cura degli affari. Parlo di coloro per esempio che posseggono titoli di
rendita dello Stato o di compagnie, dove tutta l’amministrazione del
portatore di azioni o di obbligazioni si riduce a riscuotere le cedole
semestrali e i dividenti. Si dirà che le occupazioni industriali e
commerciali richieggono spesso il trasferirsi da un luogo all’altro, e
scemano in qualche guisa l’affetto al luogo natio; ma se la premessa è vera,
non è vera la conseguenza; anzi noi scorgiamo gli uomini che hanno fatto
qualche fortuna in lontani paesi, non appena possono avere dei risparmi da
investire, cercar qualche possesso che li riconduca alla terra che li vide
nascere. E poi questa mobilità da luogo a luogo, non è essa una delle
caratteristiche del tempo in che viviamo? eppure in certi paesi non impedisce
di accudire agli affari pubblici. Ma vi è un’altra considerazione da fare; ed
è che lo svolgimento della ricchezza e la sua diffusione hanno accresciuto
moltissimo il numero di coloro che possono attendervi o vivano essi di solo
risparmio, o vivano parte dei profitti di un capitale e parte di lavoro
odierno. Le classi che potevano fornire in altro tempo gli amministratori
della provincia, del comune, degli istituti educativi o benefici, erano
ristrettissime; oggi si può quasi dire che abbracciano il maggior numero; e
poiché piace al cittadino di esser chiamato dalla fiducia dei suoi
conterranei ad adempiere alcuni di questi uffici, non sarà difficile
affidarli gratuitamente.
Finalmente la storia disdice le induzioni contrarie, imperocché la vita
libera, e la partecipazione dei cittadini al governo, nacque e si ordinò
nelle città manifattrici e commerciali prima che in ogni altri luogo. Che se
questo fatto della divisione del lavoro nell’America reca l’effetto di
allontanare i più fra gli ottimi della cosa pubblica, ciò debbe attribuirsi
ad alcune cause specialissime che ho già toccato innanzi. L’una è che le
facoltà del magistrato sono scarsissime dirimpetto alla libertà individuale,
sicché poco attraggono le ambizioni: l’altra è che gli emigranti formano una
parete non piccola della popolazione,, i quali manifestamente non hanno
tenerezza o predilezione per un luogo più che per l’altro: la terza poi è il
còmpito immenso agrario ed industriale che sta innanzi a quei popoli ed offre
larghissimi guadagni. Si direbbe che sono dalla Provvidenza destinati a
coltivare ed incivilire quel continente vastissimo, e che il sentimento e la
foga di questa impresa non consente loro di pensare ad alcun altro intento.
Ma in un paese dove le attribuzioni governative sono molte, dove chi le
esercita riscuote il rispetto, e si procaccia gli onori, dove il movimento
industriale non ha né piò avere quella rapidità vertiginosa che tutto
trascina al di là dell’Atlantico, il rifiutarsi a prender parte alla cosa
pubblica non sarebbe già segno di un progresso civile, ma al contrario di
regresso, e di decadenza, e preparerebbe in un avvenire non remoto il
dispotismo sotto qualsivoglia forma. Noi dunque non abbiamo per ora nessun
timore di accrescere le facoltà dei corpi locali elettivi, imperocché
speriamo che si troveranno dovunque gli uomini pronti a sobbarcarsi
agl’incarichi comuni, e a servir gratuitamente il loro paese.
Resterebbe un altro aspetto della questione, ed è che, dirimpetto allo
impiegato tecnico e stipendiato, quei cittadini faranno meno bene, e si avrà
tempo e spese impiegate con minore effetto utile. Ma di questo aspetto della
questione ho già detto innanzi alcuna cosa. E ripeto che quand’anche le
autorità elettive non facessero meglio né più rapidamente degli agenti del
governo, quand’anche le gestioni loro fossero più dispendiose (di che in
molti casi dubito fortemente, ma concedasi) sarebbe nondimeno desiderabile
che a quelle in preferenza di questi fosse affidata la direzione di molti
affari pubblici. Imperocché ciò educa il cittadino, lo rende affezionato alla
propria terra nativa, svolge il patriottismo, e la dignità personale, e
finalmente contenta molte ambizioni legittime, le quali potranno essere
appagate da un ufficio amministrativo, e altrimenti avrebbero una mira più
alta, cioè la deputazione politica. Al tempo di Luigi Filippo, così poco
importanti e poco stimate erano le funzioni locali, che non appena uno
mostrava ingegno, o era roso da cupidigia di primeggiare, una sola via vedeva
aperta a sé, e quivi intendeva gli sforzi cioè a farsi eleggere deputato: e
questa specie di pletora fu una delle cause della rivoluzione che lo balzò
dal trono.
Ora posto che le amministrazioni comunali e provinciali siano più libere, che
il sindaco venga eletto dal Consiglio, e la deputazione provinciale avendo il
suo proprio presidente amministri al tutto indipendentemente dal prefetto,
posto che divenga possibile la formazione dei consorzi interprovinciali, e
che sia favoreggiata la costituzione di enti morali autonomi, resta ad
esaminare la terza obbiezione dello Spaventa che vede ripetersi negli enti
locali i mali deplorati oggi nelle amministrazioni locali. Questa obbiezione
mi era già venuta innanzi spontanea, e l’ho descritta sopra. Intorno ad essa
notai che l’alta vigilanza sopra l’andamento degli Enti locali non dee
appartenere a loro stessi ma allo Stato. Io esprimeva questo concetto sin dal
1861 presentando il complesso delle leggi per l’ordinamento amministrativo
del Regno: e diceva queste parole: "In uno stato ben ordinato la
superiore vigilanza non dee mai venir meno. E questa vigilanza versa intorno
a due punti, il primo è che le leggi siano osservate e nella sostanza e nella
forma, e che comuni e provincie siano mantenute nel limite della loro
competenza, il che appartiene al Governo di guardare: l’altro punto riguarda
quegli atti dei comuni e delle provincie che vincolino l’avvenire (o tocchino
ad interessi nazionali). E in questo caso ancora la vigilanza deve essere
governativa, imperocché chi rappresenta veramente la società tutta intera e
le generazioni avvenire, chi ha diritto di impedire che le parti non lodano
gli interessi del tutto, si è lo Stato".
Pertanto nel mio concetto dovrebbero cessare dell’aver vigore l’art. 82 § 2
della legge comunale e provinciale che pone gli stabilimenti di carità e di
beneficenza sotto la vigilanza del consiglio comunale, e l’altro articolo 172
§ 17 che dà una potestà analoga al Consiglio provinciale, e finalmente l’art.
179 che attribuisce alla deputazione provinciale, presieduta com’è oggidì dal
prefetto, la tutela sopra i comuni, i consorzi, le Opere pie. Ma si dirà:
pongasi pure che la vigilanza in via diretta o per mezzo d’ispettori
appartenga all’autorità governativa; ma ciò non scioglie ancora il quesito,
cioè di guarentire i diritti di tutti, e di porgere adito a tutti i reclami
contro la violazione loro. Se l’autorità comunale o provinciale non deve
esser giudice di se stessa, neppure il ministro e l’agente di esso dev’essere
giudice definitivo. Importa che vi sia un’autorità indipendente e un
procedimento con tutte le garanzie di giustizia e di verità, che
quell’autorità pronunzi sentenza non solo intorno agli atti dei corpi morali
ma altresì nelle contestazioni di essi coi cittadini, e di questi e di quelli
col governo. A questo patto solo possono svolgersi i benefici effetti del
decentramento, a questo patto solo può esservi vera libertà individuale e
locale.
Il primo pensiero che sorge nell’animo è di dare ai tribunali esistenti
questa facoltà di giudizio, e ci parve di averlo fatto nel 1865 quando
abolimmo il contenzioso amministrativo. Ma l’esame di quella legge,
l’indagine delle materie di che si tratta di giudicare, e finalmente la
esperienza ci provano che l’opera tentata allora lasciò una notevole lacuna.
Lo dimostrerò più oltre. Quindi il nostro pensiero si rivolge alla Germania e
ai tentativi di essa, dopo la costituzione dell’Impero, per isciogliere
l’arduo problema10.
Per avere un concetto chiaro di questo ordinamento in Prussia bisogna riunire
quattro leggi: 13 dicembre 1872, 23 giugno 1875, 3 luglio 1875 e 26 luglio
1876. Erano i Circoli un’antica istituzione prussiana che colla prima di
queste leggi furono riordinati con maggior autonomia e con costituzione più
democratica. I Circoli sono o urbani o rurali. Ogni città che raggiunge la
popolazione di venticinque mila anime può costituire un Circolo indipendente.
E ve ne sono quattordici che dalla popolazione suindicata vanno sino a un
milione di abitanti. Poi vi sono i Circoli rurali che sono duecento quindici
di numero, e la cui popolazione sta fra un minimo di quindici mila e un
massimo di centomila. A lor volta i Circoli rurali si ripartono in baliaggi
costituiti da uno o più comuni. Ognuno di questi ha sue peculiari
attribuzioni gerarchicamente ordinate sino alla Dieta del Circolo che ne ha
moltissimi. Questa è elettiva da tre gruppi: l’uno dei grandi proprietari
rurali, l’altro dei comuni rurali, il terzo della città se nel Circolo ve ne
sono. La Dieta ha il suo magistrato esecutivo composto dal Landrath nominato
dal governo sopra una terna propostagli da essa, e di sei membri da essa pure
eletti e rinnovabili per terzi ogni due anni: obbligatoria per un triennio è
la pubblica funzione e gratuita, salvo casi previsti dalla legge, pena il
pagamento di un ottavo ad un quarto di più nelle imposte del Circolo.
Sopra il Circolo è la provincia, la quale per la sua estensione e popolazione
potrebbe chiamarsi veramente regione e ve ne sono cinque sole la Prussia, il
Brandeburgo, la Pomerania, la Slesia, e la Sassonia. Le attribuzioni delle
provincie sono grandi, la Dieta provinciale è composta dei delegati eletti
dalle Diete dei Circoli rurali ed urbani, in media due per circolo. Anch’essa
ha il suo magistrato esecutivo tutto elettivo, compreso il capitano o
direttore della provincia, che però deve essere confermato dal governo ed ha
la soprintendenza di tutti i servigi amministrativi. Dura da sei a dodici
anni nel suo ufficio che reputasi di grado molto alto, e bene rimunerato. Fra
la provincia e il Circolo v’è un altra circoscrizione il distretto (Bezirk)
che per popolazione e per territorio somiglia anzi supera la nostra
provincia, poiché va da mezzo milione a un milione di abitanti. Questo
distretto non ha un carattere di amministrazione autonoma, essendo governato
da un Consiglio nominato dalla Dieta provinciale; ma per lo contrario ha una
importanza grande nella giurisdizione amministrativa ed è ciò di che ci
intratteniamo al presente.
Venendo adunque a descrivere l’ordinamento della giurisdizione
amministrativa, uopo è innanzi tutto dire che la Giunta del circolo ha alcune
funzioni amministrative ma principalmente di giurisdizione. Dico che ha
funzioni amministrative nella gestione degli affari propri di quella
circoscrizione, e nella tutela dei comuni rurali, ma soprattutto ha funzioni
giurisdizione, la legge determina non solo le materie su cui può sentenziare,
ma eziandio il procedimento che è tutto speciale ed ha forme se non
identiche, analoghe alle giudiziarie. Cosicché la detta Giunta opera nelle
prime funzioni e nelle seconde con regole e modi totalmente distinti. Ma
praticamente fa opera più spesso di corpo giudicante che di consiglio
amministrativo, ed è al Landrath che spetta la parte sostanziale
dell’amministrazione. Sopra al detto tribunale di Circolo sta quello di
Distretto; ed è al tutto scevro di attribuzioni propriamente amministrative,
ma ha solo quelle di giurisdizione. E’ composto di cinque membri due dei
quali scelti dal re e inamovibili, l’uno di carriera giudiziaria, l’altro di
carriera amministrativa, e di tre eletti dalla dieta provinciale, i quali si
mutano ogni tre anni. Finalmente vi ha la Corte suprema a Berlino, la quale è
in alcuni casi tribunale primo ed unico, in altri di revisione, in altri di
cassazione per mantener l’unità della giurisprudenza.
Tale l’organismo. Posto il quale è uopo dire come tutte le materie
amministrative siano divise in due categorie: quelle di amministrazione pura
nelle quali, come appo noi, non v’è richiamo se non in via gerarchica, e
l’ultima decisione appartiene al ministro o al suo delegato; e quelle di
amministrazione contenziosa dove è lecito portare il richiamo dinanzi al
tribunale, e trattarlo colle forme giudiziarie. E le materie contenziose a
lor volta sono di due qualità: le controversie nelle quali un interesse
privato sancito dalle leggi si trova in contrasto coll’interesse pubblico
affidato all’amministrazione; le controversie fra gli associati in pubbliche
corporazioni per effetto di diritti e di doveri nascenti dai rapporti
sociali. E si noti che in taluni casi, come quando si tratta di provvedimenti
di polizia locale delle città e delle campagne, la legge lascia l’opzione fra
il ricorso in via gerarchica, e l’azione contenziosa.
Adunque il problema della giustizia amministrativa è stato sollevato e
risoluto in occasione di un grandi riordinamento politico. La formazione
dell’Impero germanico ha dato origine a questa riforma, la quale ebbe altresì
il duplice fine: di toglier via certi avanzi del reggimento feudale nelle
campagne, e di preservare l’amministrazione dai mali effetti del governo
parlamentare. La maggior parte degli atti amministrativi che annoverai nel
capitolo terzo, e sui quali in Italia non è ricorso altro che all’autorità
superiore in gerarchia a quella che li ha eseguiti, sono portati in Prussia
dinanzi al tribunale amministrativo, dico tutto ciò che si riferisce alle
deliberazioni illegali delle rappresentanze locali, agli affari comunali e
provinciali, alla polizia preventiva, alla rurale, alla sanitaria, agli
affari scolastici, alla caccia, alla pesca, alle foreste, ai lavori pubblici,
e finalmente tutto che si riferisce alla disciplina degli impiegati e alle
pene loro inflitte dai superiori11.
E’ degno di nota lo studio profondo, vario che si è fatto in questa materia
in Germania negli ultimi tempi: noi non ne abbiamo in generale quasi idea.
Gli effetti del nuovo ordinamento amministrativo sembrano sino ad ora
produrre buoni frutti. Né il numero degli affari è stragrande, imperocché non
ha superato quello di cinque a sei mila in tutti i tribunali amministrativi,
e di mille pel Consiglio supremo. La differenza sostanziale col sistema
francese, dove pure, sino dal principio dell’amministrazione napoleonica,
v’ha il contenzioso amministrativo, la differenza dico è in due punti. Primo,
il consiglio giudicante in Francia è il Consiglio di prefettura, cioè un
ufficio stesso dell’amministrazione attiva, in Germania è un tribunale
indipendente: che se v’ha miscela di attribuzioni nella Giunta di circolo,
pure come accennai l’autorità massima rispetto all’amministrazione attiva spetta
al Landrath: inoltre appena si sale di un grado, il tribunale diventa
autonomo: in secondo luogo i regolamento che servono di norma al giudizio
hanno quivi forza di legge, mentre in Francia sono naturalmente più
indeterminati ed acquistano vario valore secondo le interpretazioni
dell’amministrazione stessa. Ma di ciò più oltre.
L’esempio della Prussia fu seguito dagli altri Stati dell’Impero germanico
con qualche variazione, e in parte anche imitato dal Portogallo nella sua
legge del 6 maggio 1878. Ivi il tribunale di distretto eletto sopra terna
proposta dal Consiglio provinciale è presieduto dal governatore civile, però
havvi un tribunale supremo amministrativo, e fu pubblicato contemporaneamente
a questo ordinamento un codice amministrativo12.
L’istituzione di una Corte suprema di giustizia amministrativa nella
Antustria-Ungheria data dalla legge 22 ottobre 1875 e merita special
menzione, come quella che soprapposta ad autorità locali in un ordinamento
assai decentrato, coordina e mantiene in esse il rispetto della legge e
l’unità della giurisprudenza. Ha per ufficio di conoscere i ricorsi che le
sono recati innanzi da ogni cittadino che si crede leso nei suoi diritti da
decisione o da provvedimento illegale di un’autorità amministrativa. E il
ricorso può essere fatto tanto contro le decisioni e i provvedimenti
dell’amministrazione centrale, quanto contro quelli delle amministrazioni
provinciali, compartimentali e municipali. A questo tribunale pertanto non si
può ricorrere per alcuno di quegli affari nei quali l’amministrazione è
fornita di un potere discrezionale e per gli altri affari vi si ricorre solo
dopo avere sperimentato i richiami ordinari in via amministrativa e
gerarchica. Esso non giudica d’altro che del diritto e della legalità o
illegalità degli atti. Ma se il tribunale supremo accoglie il ricorso del
cittadino, e con sentenza motivata lo dichiara giusto, le autorità sono
tenute di ottemperarvi, anzi i principii della sentenza addivengono norme
dell’azione futura delle autorità amministrative. La differenza col tribunale
supremo germanico sta in ciò che questo è propriamente una Corte d’appello
dalle sentenze dei tribunali di prima istanza, e il tribunale austro-ungarico
potrebbe compararsi se non in tutto in parte una Corte di Cassazione. Invero
esso talvolta annullando l’atto dell’autorità amministrativa, o perché la
determinazione dei fatti apparisca incompiuta, o perché talune forme
essenziali della procedura non furono osservate, annullando dico l’atto per
questa cagioni, rinvia l’affare di nuovo dinanzi all’autorità stessa
amministrativa. Ma nessuna restituzione in integro può aver luogo contro le
decisioni di questa Corte suprema. V’ha un’autorità sola che le sovrasta nel
caso di conflitto di competenza fra essa e i tribunali ordinari, ed è il
tribunale supremo dell’Impero sancito dalla costituzione. Il procedimento è
fissato dalla legge, il dibattito orale. Tale è la guarentigia che
l’Austria-Ungheria dà al cittadino contro gli abusi dell’amministrazione, ed
a siffatta guarentigia si dà grandissima importanza eziandio come mezzo di
preservare il governo parlamentare dalla corruzione.
Ora può egli farsi qualche cosa di analogo in Italia? e sino a qual punto si
può andare?
Prima di tutto giova ricordare che l’Italia ebbe sino al 1866 varie forme di
contenzioso amministrativo, la più parte delle quali però si rannodava al
sistema francese. In Piemonte i Consiglieri d’intendenza erano i primi
giudici, il Consiglio di stato e la Corte dei conti giudicavano in appello
secondo la materia. In Napoli analogo ordinamento; prima istanza, al
Consiglio di Prefettura (ma secondo la legge i consiglieri non erano
ufficiali di carriera sibbene notabili della provincia, ed erano modestamente
rimunerati) appello alla Corte dei conti, alla Camera di giustizia e
dell’interno, al supremo Consiglio di cancelleria. In Parma la istituzione
del contenzioso amministrativo era foggiata alla francese ed ebbe molta
importanza e meritata. In Toscana, eccetto nei contratti di accollo per le
strade e per le pensioni, non vi era vera e propria giurisdizione di
contenzioso amministrativo; la massima parte delle controversie andava
innanzi ai tribunali ordinari. Anche in Lombardia e in Modena l’autorità
amministrativa decideva essa la massima parte delle questioni senza erigersi
a tribunale collegiale con speciale procedura. Laonde può dirsi che
l’ordinamento del contenzioso amministrativo era diverso secondo i vari Stati
d’Italia, sì per la natura degli oggetto che sotto quel titolo si
comprendevano, sì per la giurisdizione alla quale erano sottoposti, per la
forma della procedura e per l’efficacia delle garanzie. Costituito il regno
d’Italia, e volendosi procedere al unificare dovunque questa materia, il
ministro dell’interno nel 186213 propose l’abolizione del contenzioso amministrativo.
Egli notò che la massima parte degli affari compresi sotto questo titolo
erano vere e proprie controversie di diritto privato, le quali non
richiedevano una giurisdizione speciale, ma potevano e dovevano rimettersi ai
tribunali ordinari. Per darne un esempio, ogni volta che l’amministrazione
pubblica agisce come qualunque cittadino o ente morale nell’interesse suo
proprio, non nell’interesse generale, non v’è ragione perché le sue
controversie non vadano dinanzi a quelli. Poniamo che nasca una lite di
servitù o di confine fra un podere demaniale ed il potere di un privato: non
vi è ragione perché questa lite debba essere sottratta alla giurisdizione
comune. Similmente una volta che l’amministrazione pubblica ha stipulato un
contratto, se nascono differenze fra essa e gli assuntori, il tribunale
ordinario può essere giudice delle conseguenze del contratto; così dicasi
delle cause di contravvenzione e va dicendo. Ma codesta osservazione del
Ministro aveva un valore generale? tutto ciò che era giudicato altre volte
proprio del contenzioso amministrativo poteva esser dato o restituito ai
tribunali ordinarii? il ministro proponente poneva a sé medesimo tale
questione, e riconosceva che no: "Oltre agli affari, diceva esso14, che
possono esser deferiti ai tribunali ordinari, ve ne sono altri di vera e
pretta amministrazione i quali erano stati attribuiti alla giurisdizione
amministrativa di primo e di secondo grado, al fine di dare agli
amministratori una maggiore guarentigia dei loro diritti, conciliabili col
regolare andamento della cosa pubblica. Occorreva quindi esaminare se,
abolendo il contenzioso amministrativo, tali affari dovessero riservarsi
all’amministrazione attiva, con regole e forme proprie le quali fossero nel
tempo medesimo di sufficiente garanzia agli interessati". Il ministro si
risolveva per questo partito e ne diceva la ragione e l’utilità. Pareva ad
esso che mantenendo una speciale giurisdizione amministrativa si corresse
questo pericolo, che la massima parte degli affari avrebbe continuato a
portarsi dinanzi ad essa: sia per quella naturale propensione che è nei
cittadini a continuar pel sentiero battuto, e valersi delle forme più
semplici e spiccie, sia anche per evitare quistioni delicate di competenza.
Egli non taceva l’inconveniente a cui s’andava incontro, cioè che
l’amministrazione rimaneva più sciolta e porgeva guarentigie minori nelle
materie che non potevano portarsi dinanzi ai tribunali; non lo dissimulava,
sforzavasi bensì in parte di ripararvi. Lasciava integra la giurisdizione
contenziosa delle Corte dei conti, in materia di contabilità e di pensioni,
integra quella del Consiglio di stato per le materie in cui provvede in prima
ed ultima istanza, integre le facoltà delle Commissioni speciali, alle quali
fosse per legge deferita qualche giurisdizione speciale amministrativa: però
eran questi parziali ordinamenti, e l’inconveniente non era ovviato
interamente. Il problema era posto in chiaro, e non meno chiaramente messe in
evidenza le obbiezioni. "intendo bene che si ammetterà, diceva il
ministro, come progresso la restituzione ai tribunali ordinari di tutte le
questioni che potevano dirsi loro sottratte, ma si accuserà come regresso che
taluni affari che erano sottoposti ad un giudizio collegiale siano
abbandonati alla decisione della potestà amministrativa". Ma egli
sperava che tali affari fossero ridotti al minimo possibile, e per
preservarsi dall’arbitrio disponeva che l’autorità amministrativa dovesse
decidere con decreto motivato, ammesso la rappresentanza delle parti, e uditi
i consigli amministrativi che nei diversi gradi sono stabiliti dalla legge.
Quel disegno di legge ritardato per diversi eventi tornò alla Camera e fu
discusso nel 1864. La discussione fu assai vivace, e l’abolizione del
contenzioso amministrativo ebbe contraddittori vigorosi, come il Cordova, il
Rattazzi, il Crispi. Quegli oratori notarono che l’amministrazione in alcuni
casi rimaneva in balìa dell’arbitrio assai più di quel che fosse
antecedentemente, ma come nota giustamente lo Spaventa, nessuno degli
avversari intravide il lato nuovo della questione relativo alle guarentigie
necessarie al diritto pubblico di un paese sotto un governo parlamentare
ossia di partito, né è da credere che i fautori della legge avessero una
coscienza più chiara di questa nuova faccia del problema. Ora che da
diecisette questa legge è vigente, è lecito riguardarla al lume della
esperienza. Ed io credo che sia stata autrice di utilità, riconducendo ai
tribunali ordinari tante questioni che appartengono al diritto privato, e che
a proposito volevansi giudicate dai Consigli di prefettura. Ma la lacuna che
lo stesso ministro proponente aveva indicata, e che più manifestamente fu
messa in aperto durante la discussione, esiste veramente, ed è maggiore di
quel che allora fu supposto; e diviene più pericolosa ove si consideri
l’amministrazione nei riguardi di che tratta questo libro; e quindi se è
possibile colmare questa lacuna, né palese la convenienza. Certo gli effetti
della maggior libertà amministrativa degenerati in arbitrio hanno tardato a
farsi sentire. Qui ancora i grandi fini ai quali l’Italia mirava, e che a sé
traevano le menti di tutti, valsero a preservare per un tempo
l’amministrazione dagli arbitrii e dagli abusi. Ma venne il giorno in cui gli
spiriti partigiani s’infiltrarono per entro di essa, e influirono sulle sue
decisioni come ho mostrato addietro, sicché il bisogno di compiere la legge
del 1875 si rese più manifesto. A chi dunque dovrà riformare l’ordinamento
amministrativo il problema si para innanzi di nuovo reso dall’esperienza più
pratico, e illustrato dagli studi e dagli esempi della Germania.
Soffermiamoci alquanto in questo punto, e cerchiamo di chiarirlo, avvegnacché
esso sia importantissimo nella presente trattazione. La distinzione degli
atti civili in amministrativi e giudiziari è antichissima poiché sempre vi
furono nella società disposizioni di interesse pubblico al tutto distinte
dalle sentenze del pretore; nondimeno le due cose vennero spesso confuse. I
tribunali in qualche evento cassavano dei provvedimenti meramente
amministrativi, l’amministrazione a sua volta sospendeva l’esecuzione di
talune sentenze. E fu gran pregio dell’opera napoleonica l’aver disgiunto
meglio l’una dall’altra materia, abbenché nel suo ordinamento (che sino ad
oggi continua in sostanza ad essere vigente in Francia) l’amministrazione
usurpò molte spettanze giudiziarie, nel che noi dopo la legge del 1865 siamo
invece assai più corretti. Codesta è una questione di limiti come oggimai si
mostrano tutti gli ordinamenti che pigliano da varie scienze i loro
principii. E’ più agevole segnare queste distinzioni con gli esempi di quello
che con una definizione, e porgerne in copia sarebbe facilissimo. Però il
lettore non ha che a ricordare quanto noi abbiamo detto sopra nel Cap. III
rispetto all’Italia: e anche senza di ciò, pur solo riflettendo all’argomento
potrà supplirvi colla sua esperienza quotidiana. Pure a maggior chiarezza
indichiamone alcuno. Pongasi che una legge sia promulgata per la quale
debbano espropriarsi certi dati terreni di ragion privata al fin di aprirvi
una strada ferrata. Fin qui l’opera è legislativa. Appresso il Ministero dei
lavori pubblici la delineare dai suoi ufficiali il tracciato e lo rende noto
al pubblico. Suppongasi che taluno creda quel tracciato poco conveniente e a
sé stesso dannoso; a chi può egli ricorrere? Sarebbe egli possibile di andare
dinanzi ai tribunali per simile piato? Qual legge applicherebbe il tribunale
sul merito di un tracciato di ferrovia? Mancherebbe ogni base di sentenza.
Codesto adunque appartiene all’amministrazione, ed oggi il cittadino che ha
obbiezioni le porge al ministro dei lavori pubblici il quale, sentito il
consiglio superiore, pronunzia il giudizio. Ora supponiamo deciso e accettato
il tracciato: trattasi di fornire il risarcimento agli espropriati e pongasi
che l’offerta del governo non paia sufficiente al proprietario. Qui il
tribunale è competente perché trattasi di un diritto privato e di attribuire
a ciascheduno il suo. Potrà il tribunale delegare dei periti i quali valutino
il terreno, ma esso è competente a deliberare. Però si dirà; se il tribunale
ha avuto facoltà di eleggere periti prima di giudicare l’indennità dovuta al
proprietario, perché non potrebbe valersi similmente di periti, per giudicare
il merito del tracciato ferroviario? La ragione è questa che nell’un caso la
perizia determina la quantità del compenso, ma il diritto al compenso, è
sancito dalla legge: nel secondo caso il tribunale determinerebbe la legge
stessa, il principio (figura del tracciato) contro il quale il cittadino ha
ricorso. Facciamo un altro esempio e basti. Taluno chiede di erigere in città
una fabbrica di prodotti, che possono reputarsi insalubri, o pericolosi, o
anche sol rumorosi e perciò incomodi al pubblico. Il Prefetto sentito il consiglio
comunale nega, o concede il permesso con certe determinate condizioni. Se
nega, può il petente rivolgersi al tribunale ordinario? Come potrebbe questo
conoscere le ragioni igieniche o edilizie, e sentenziare sulla convenienza
della permissione? Ma se al cittadino fu concessa la creazione della
fabbrica, e se egli adempì tutte le condizioni che gli furono prescritte, e
venne dopo un giorno nel quale all’autorità municipale parve che la fabbrica
divenisse intollerabile entro le mura della città, e il prefetto ne ordinò la
chiusura, allora sì che il tribunale è competente giudicando sulle norme del
diritto costituito, e può colla sua sentenza o mantenere la fabbrica, o
determinare il proporzionato ristoro che si dovrà darne al possessore,
qualora per ragioni amministrative si voglia chiuderla.
Ma per tornare al proposito nostro cercasi qual sia il criterio, quale la
nota caratteristica onde si possa saggiare e discernere le materie
contenziose giudiziarie dalle materie contenziose amministrative: intorno a
che parecchie formule furono recate innanzi, ma forse nessuna ancora compiuta
e per ogni parte scientificamente soddisfacente. Si è detto: appartiene al
contenzioso giudiziario ogni controversia che può esser decisa con un testo
preciso di legge, di ordinanza, o di decreto: imperocché nel testo medesimo
si trova già anticipatamente la soluzione della questione, e il tribunale non
ha altro ufficio che di dedurla. Ogni controversi invece che sorge da un atto
discretivo del governo non può esser portata dinanzi ai tribunali, ma
appartiene al contenzioso amministrativo. Vi è certamente del vero in questa
definizione, ma non è intera né chiara. Ogni nuovo regolamento, ogni decreto
che fissasse i termini precisi elle obbligazioni del cittadino in una materia,
farebbe per ciò solo passare le controversie relative ad essa
dall’amministrazione alla magistratura giudiziaria. Eppure non è sempre così.
Tutti i tribunali amministrativi nella Germania e altrove giudicano colla
norma di regolamenti ai quali fu dato effetto giuridico, e noi dobbiamo
desiderare che anche le materie amministrative siano regolate da discipline
fisse e non a discrezione.
Altri pone per criterio questo; che i diritti sono materia propria della
autorità giudiziaria, gli interessi dell’autorità amministrativa; il mandato
della prima è di proteggere e mantenere il diritto, dichiarandolo se negato,
reintegrandolo se violato, rifacendone i danni se è stato leso. Però la sua
facoltà, che non può toccare il merito di un atto amministrativo, si estende
anche a giudicare della sua illegittimità, quando esso pecchi per violazione
di forma, per difetto di competenza o per eccesso di potere15. Anche qui c’è
parte di vero, ma se il diritto suppone sempre un interesse sancito dalla
legge positiva, vi sono interessi che la legge non determina ma sono protetti
da ordinanze, da regolamenti, da consuetudini. Invero se noi avessimo la
Corte di equità come in Inghilterra, si potrebbe sostenere l’argomento; ma
appo noi né tutti i diritti sono portati dinanzi ai tribunali né tutti gli
interessi cessano in certi casi di piatire dinanzi a loro; e la distinzione
diventa talora sottilissima, e difficile quando si tratta di scendere alla
pratica.
Si è detto infine che la differenza apparisce da ciò che il tribunale giudica
del diritto privato, del mio e del tuo fra due contendenti che cercano
innanzi ad esso le loro ragioni, e la Corte decide applicando la legge al
caso: invece spetta all’amministrazione (e per conseguenza anche ai tribunali
amministrativi dove esistono) tutto ciò che è di diritto pubblico interno,
cioè che sorge dai rapporti dei cittadini e degli Enti giuridici collo Stato,
in quanto autorità regolatrice e tutrice. Ricordi il lettore qual che abbiamo
detto sopra, che lo Stato in alcune circostanze conduce la gestione de’ suoi
affari come un privato, e quando ha fatto un contratto è obbligato similmente
ad osservarne le clausole, e in questi casi si presenta dinanzi al tribunale
anch’esso come ogni altri cittadino. Ma il più delle volte lo Stato impera
come potestà pubblica, e similmente le autorità locali sì delegate che
elettive: ed è degli atti fatti a fine di pubblica utilità che si tratta di
presente. Questo criterio corrisponde alla definizione datane dal Romagnosi:
"essere per sé stesse questioni di pubblica amministrazione tutte quelle
che cadono sopra oggetti di loro natura appartenenti alla ragione pubblica,
considerata tanto in relazione alla persona individuale dello Stato, quanto
in relazione ai cittadini contemplati nelle loro generalità"16. Però
anche questo criterio non può ammettersi in tutta la sua ampiezza, e di vero
ne seguirebbe quel che l’autore stesso logicamente deduce, che appartiene
all’autorità amministrativa decidere di tutte le controversie sopra
obbligazioni o diritti che nascono dal fatto dell’Amministrazione pubblica,
ossia da un atto amministrativo. Ora vi sono degli atti amministrativi che
possono violare il diritto privato, e a giudicare dei quali basta il testo
del codice civile; sicché non v’è ragione di sottrarli ai tribunali ordinarii.
Mediante un’accurata analisi dei casi di controversia, si può supplire in
parte a queste teoriche un po’ troppo assolute, pur riconoscendo che talvolta
è difficile determinare la competenza con precisione ed anticipatamente. Ma è
chiaro che sono di competenza giudiziaria tutte le questioni di stato civile,
e anche politico, tutte le questioni di proprietà o di obbligazioni,
contratti ecc., tutte le questioni intorno a un diritto privato che si ben
determinato e definitivamente acquisito. E rispetto alle questioni che
nascono da atti amministrativi, al giudice ordinario si appartiene
pronunziare della legalità di essi; né parmi esatto quello che taluni
affermano che il giudice non possa mai annullare l’atto amministrativo: così
per esempio se il fondo per il culto prendesse possesso di un ente, e
l’apprensione fosse dichiarata illegittima, l’atto stesso rimarrebbe
annullato. Quanto al contenzioso amministrativo giova notare in primo luogo
che la controversia non è solo fra il privato cittadino e l’amministrazione
dello Stato, ma fra cittadini ed Enti morali, fra Stato ed Enti morali ed
anche fra il governo e i suoi agenti. Così appartiene a questo genere di
contenzioso ogni controversia che nasce fra Stato e Comune in materia di
attribuzioni: similmente se si tratta di aver trapassato le proprie facoltà,
poniamo il caso avvenuto non è guari che un municipio si faccia esercente di
un’industria, e per questo modo danneggi gli esercenti privati, limitando la
libera concorrenza. Così tutte le questioni di disciplina interna dei
pubblici ufficiali, e di responsabilità gerarchica, così dello stato degli
impiegati e va dicendo. Quando poi al ricorso del privato cittadino contro
l’amministrazione pubblica, anche qui è da notare che la controversia prende
sempre origine da un atto amministrativo, che l’amministrazione non vi è mai
o quasi attrice ma è convenuta, e difende la propria libertà d’azione; e che
il criterio di interpretazione nel giudicare deve essere più largo nel
giudice amministrativo che nel giudice civile. E in vero in molti casi l’atto
amministrativo rimane inalterato, e si attribuisce solo un ristoro al
ricorrente, mentrecché la potenza del tribunale ordinario reintegra il
diritto che è stato offeso, e restituisce le cose in pristino per quanto è possibile.
Le suddette avvertenze mi sembra che conducono naturalmente alla soluzione
del problema, e tuttavia il tema è ben lungi dall’essere esaurito, e manca
ancora la formula scientifica che raccolga ed esprima tutti i casi in una
proporzione generale. Io stesso sento che nel mio discorso v’ha qualche cosa
di vago e di oscuro. Ma per tornare dalla digressione al soggetto principale,
posto che la vita civile è intessuta di atti amministrativi indirizzati
all’utile pubblico, ma che possono tornare di nocumento al privato e posto
che dev’essere permesso contro questi atti il ricorso, e la querela, ma non
dinanzi all’autorità giudiziaria perché non è competente a giudicare, qual
via dovrà tenersi? A chi rivolgersi? Ho notato più sopra, e giova ripeterlo,
esservi qualche atto o provvedimento la cui indole urgente, il cui giudizio
discretivo, il cui effetto momentaneo impedisce che possa mai essere deferito
a tribunali né giudiziarii né amministrativi, ma questa non è, e non deve
essere la regola generale. L’arbitrio dell’amministrazione deve limitarsi il
più che sia possibile e il ricorso del cittadino deve avere una protezione od
una guarentigia efficace. La Germania, come ho detto sopra, v’ha posto mano
ordinando tutta una gerarchia di tribunali amministrativi parallela ai
tribunali giudiziari, e questo ordinamento sembra aver fatto buona prova.
E nondimeno io non oserei consigliare al mio paese tutta la macchina immensa
della giurisdizione prussiana, né tampoco è mio intendimento di proporre un
ordinamento preciso, descrivendolo nelle sue varie parti e quasi
apparecchiando uno schema di legge da discutere. Non è questo il compito del
libro presente, pago di segnare alcune linee generali. Però siccome anche
questa semplice delineazione vuol avere qualche forma pratica, parmi che in
Italia si potrebbe provvedere a ciò col metodo austro-ungarico, cioè colla
creazione di un tribunale amministrativo supremo. Che se questo sembrasse
insufficiente, perciocché detto tribunale conosce solo del diritto e la
esperienza confermasse tale insufficienza, si potrebbe supplirvi ordinando i
Consigli di prefettura in modo alquanto diverso da quello che è stabilito
agli articoli 5 e 6 della legge comunale e provinciale. E poiché accenno a
questa idea piacemi di chiarirla alquanto maggiormente. Ho detto altrove che
il Consiglio di prefettura dovrebbe per ciò che riguarda l’esecuzione degli
atti importanti e per mantenere in continuo accordo i vari servigi, comporsi
dei capi di servizio stessi; e mantengo questo concetto. Ma diverso è il
Consiglio di chi io parlo: io parlo di quello che esiste già secondo gli
articoli 5 e 6 della nostra Legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865,
la quale dice che il Consiglio di prefettura si compone di un numero non
maggiore di tre consiglieri e di due aggiunti, e che le sue attribuzioni gli
sono commesse dalle leggi. Ora di questi cinque potrebbe il Governo
sceglierne due, uno fra i funzionari della carriera amministrativa e l’altro
fra quelli della carriera giudiziaria, altri due venire dalla elezione del
Consiglio provinciale per un periodo di cinque o sei anni, il quinto
procederebbe per delegazione della Corte dei conti per attendere più
particolarmente al còmpito dell’esame di tutti i bilanci consuntivi dei
comuni e delle Opere pie. A questo corpo, che diventa una specie di tribunale
amministrativo, sottoporrebbe il prefetto le violazioni della legge che gli
Enti morali avessero commesso, e ricorrerebbero i cittadini e gli Enti morali
pei gravami fra loro o verso l’amministrazione.
E qui non posso fermarmi a determinare i particolari, né posso rispondere a
una quantità di piccole obbiezioni che mi si affollano innanzi, perché come
già accennai, non si tratta di porgere uno schema di legge a discussione, ma
di dare le linee generali di un disegno per soggettarlo ad esame e a
correzione. Nondimeno non posso pretermettere due difficoltà che si
presenteranno alla mente del lettore, e che appaiono gravi al primo sguardo.
L’una è che tale ordinamento sarebbe troppo complicato: ma esso non aggiunge
che un solo organo agli esistenti, e altri ne annulla o ne semplifica. I
Consigli di prefettura restano quali sono di numero, ma con una parte dei
loro membri elettivi, e con attribuzioni più chiare e distinte. Molte
commissioni speciali e corpi collegiali che vennero sorgendo mano a mano
soprattutto in materia di contenzioso finanziario, possono finire cedendo le
attribuzioni loro ai Consigli di prefettura. Un solo corpo realmente nuovo vi
sarebbe cioè la Corte suprema amministrativa, ma in un paese che ha cinque
cassazioni e tanti tribunali civili che soverchiano il bisogno, la
diminuzione di una piccola parte di questi sarebbe compenso più che
sufficiente alla formazione di un nuovo ed unico tribunale. La Corte dei
conti rimarrebbe com’è al presente
La seconda obbiezione è che con ciò si menoma l’importanza dei Consigli
superiori che esistono presso i Ministeri, e tali sono il Consiglio di stato
che nel sistema francese è il pernio del contenzioso amministrativo, il
Consiglio dei lavori pubblici, d’istruzione pubblica, d’industria e commercio
e simiglianti. Io non lo credo punto. Le attribuzioni, siccome il titolo
dice, sono di consiglio e precedono l’atto; non sono di giurisdizione se non
in pochissimi casi, cioè per Consiglio di stato, nei casi indicati all’art.
10 della legge 20 marzo 1865, e di questi anche con altra legge del 31 marzo
1879 cessò il più importante che era la decisione sui conflitti che insorgono
fra l’autorità ma: ed un altro caso di giurisdizione è quello del Consiglio
d’istruzione superiore per le pene da infliggersi ai professori. Adunque
l’importanza di tali facoltà non è di gran momento, e l’opera loro non è meno
necessaria né meno proficua come sussidio, avviso, indirizzo del Ministro;
dirò anzi che questi in certi casi non dovrebbe poter operare diversamente
dall’avviso loro. Certo le leggi che li riguardano andrebbero lievemente
ritoccate, ma non alterandone la sostanza.
Lo Spaventa, nel discorso che ho più volte citato, indicò anch’egli le tre
maniere di rimedi che ho spiegato, maggior libertà individuale,
decentramento, giurisdizione amministrativa, ma venendo alle riforme
pratiche, si tenne pago a proporre alcune poche modificazioni alle leggi
vigenti. Laonde io penso che la differenza col mio disegno nasca
principalmente da ciò che ci temette scostandosi dagli ordini presenti di
incorrere la taccia di troppo speculativo e remoto dalla pratica, e volle
colla parità delle apparenti mutazioni rassicurare gli animi, laddove il
progresso che l’opinione pubblica ha fatto di poi in questa materia, permette
di tagliar più sul vivo. Ad ogni modo se queste differenze si vogliano
divisare, elleno mi paiono le seguenti: lo Spaventa manterrebbe nelle
deputazioni provinciali il diritto di revisione, di tutela e di giudizio
amministrativo, purché il prefetto ne rimanga il presidente. Io invece lascio
alla deputazione piena autonomia e facoltà di amministrare la provincia; ma
gli tolgo ogni prerogativa tutoria, perché a mio avviso non le si conviene.
Similmente egli vorrebbe svolgere le facoltà giurisdizionali di alcuni corpi
amministrativi, laddove io preferirei di raccoglierne le attribuzioni nei
Consigli di prefettura. Infine egli modificherebbe nella composizione e nelle
attribuzioni il Consiglio di stato per accostarlo alquanto ad un tribunale supremo
amministrativo, io invece propongo la creazione di questo tribunale. Dissi
che le idee espresse dall’onorevole Spaventa hanno cominciato a penetrare
negli animi, e ciò può scorgersi anche nell’ultimo progetto di legge che il
Depretis aveva presentato al Parlamento per una riforma del Consiglio di
stato, perché vi si proponeva appunto di afforzare alcune attribuzioni
esistenti, di estenderle oltre i limiti odierni, e
di modificare la composizione del collegio17. Ma a me pare più semplice e più
efficace l’istituzione di un tribunale proprio, lasciando al Consiglio di
stato la sua grande e propria attribuzione di consigliere del governo.
L’idea di trasformare i consigli di prefettura non è nuova e la espose primo
in Italia, a mia notizia, Costantino Baer in una serie di articoli che
avrebbero meritato tutta la meditazione e lo esame degli uomini politici e di
coloro che studiano sulle condizioni della società odierna; ma passarono
invece poco osservati, perché la opinione non era matura ancora a tali indagini18,
e poi Roma e l’acquisto della capitale rapivano ancora a sé le menti di
tutti. In quegli articoli ei proponeva che i Consigli di prefettura nominati
dal Governo fra i notabili del paese e rinnovabili periodicamente avessero i
seguenti uffici: 1° Imporre ai comuni ed alle provincie l’adempimento degli
obblighi previsti dalle leggi mediante sentenza resa esecutiva. 2° Omologare
come fanno i tribunali per gli atti di giurisdizione volontaria tutti gli
atti di amministrazione che le leggi dichiarano sottoposti all’autorizzazione
del governo. 3° Giudicare dei conti consuntivi. 4° Giudicare della
responsabilità degli ufficiali pubblici e dell’adempimento dei loro doveri.
5° Decidere sulla conformità alle leggi dei regolamenti generali per servizi
affidati ai comuni ed alle provincie. 6° Giudicare in prima istanza delle
questioni elettorali. 7° Decidere sui reclami in materia di tasse comunali,
salvo che sia questione di diritti da lasciarsi ai tribunali. Il prefetto
faceva secondo lui l’ufficio di pubblico Ministero presso i consigli. Come
ognun vede il concetto che io ho esposto in questa parte, non differisce
sostanzialmente dalle predette idee19. Soltanto io estenderei il giudizio sui
ricorsi non solo alle materie di finanza ma a tutta l’amministrazione.
Ed ora parmi tempo di raccogliere le vele. Ho studiato di mostrare per quale
via gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Germania abbiano cercato di
porre freno al male di che parliamo. M’è parso che l’Italia non si trovi in
grado di seguire una sola di queste vie poiché la sua indole, le sue
tradizioni, il modo di suo svolgimento vi porrebbero troppo forti ostacoli.
Resta adunque che l’Italia attinga a ciascuno di questi tre esemplari ciò che
v’ha di meglio e di più confacente ai suoi costumi, e me faccia un tutto
organico che abbia importanza nazionale. Pertanto noi dovremmo sforzarci di
togliere tutte le pastoie alla libertà individuale che non sono punto
necessarie, al qual fine gioverebbe riprendere in esame parecchie leggi, e
soprattutto i regolamenti fatti dal governo, o approvati da esso, per
sterparne tutto ciò che non è strettamente richiesto dagli interessi generali
e dai fini dello Stato: e la parte restante e necessaria, salvarla e
coordinarla insieme dandole anzi un valore maggiore come dirò appresso. In
secondo luogo noi dovremmo fare opera di decentramento in ogni pubblico
servigio ed ufficio, sia per delegazione di facoltà data alle aziende
provinciali e comunali, sia togliendo ogni diretta ingerenza del governo
nell’amministrazione loro vera e propria, sia finalmente agevolando e
favoreggiando la costituzione di associazioni autonome aventi carattere di
Ente giuridico, e avvalorando quel che gli inglesi dicono diritto
d’incorporazione sotto determinate leggi e cautele. Finalmente noi dovremmo
costituire la giustizia amministrativa, togliendo all’amministratore stesso
il sindacato dei suoi propri atti, e il definitivo pronunciato sui medesimi,
e ammettere il richiamo amministrativo per quelle controversie che non posson
essere giudicate dai tribunali ordinari. Al qual uopo è mestieri dare ai
regolamenti effetto giuridico e creare una giurisdizione amministrativa.
Forse basterebbe un tribunale supremo amministrativo, ma ove si creda
necessario dare guarentigie anche negli ordini inferiori, ho indicato i
lineamenti di un disegno che mi sembra non difficile ad eseguirsi.
V’ha chi invoca un codice amministrativo; v’ha chi nega potersi in guisa
alcuna codificare l’amministrazione e i più fra i francesi propugnano questa
ultima idea20. In Italia un’autorità molto competente esprimeva pur dinanzi
il medesimo concetto21. "Il regolamento, dice il Mantellini, che volesse
descrivere ogni atto della vita civile di un popolo e di chi lo governa o
amministra rischierebbe di costituire il governo nella impossibilità di
muoversi e di agire per riuscire manchevole e arbitrario ad un tempo... E fra
l’arbitrio dell’uomo e l’arbitrio della regola, si rischia meno col primo che
col secondo. La regola che non risponde né può risponder di nulla,
necessariamente tracciata a priori in previsione dei casi avvenire, la si
applica strida o non strida, convenga o disconvenga col caso avvenuto o colle
sue fattispecie, si abbia per opportuna oppure no. E l’opportunità che è la
prima legge, il criterio costante da seguire nell’amministrazione dipende da
un insieme di circostanze che non si ripete e da un giudizio di prevalenza
delle une sulle altre che cambia da caso a caso".
Questa teoria ha una parte di vero, ma solo una parte; né io tacqui esserci
veramente dei casi nei quali il giudizio e l’atto amministrativo sono
determinati da un complesso di elementi che definire non si ponno, e questo
giudizio e questo atto dell’amministrazione bisogna accettarli senza dar
luogo a richiamo o al più rimettersene all’autorità superiore in gerarchia.
Ho detto inoltre non esservi legislazione amministrativa che possa tutto
definire e coercere sino nei particolari. Ma ho parimenti detto sopra che
nelle materie politiche e sociali, ella è questione di limiti più che di
principii. Già l’esperienza ha dimostrato quante controversie che altra volta
erano reputate amministrative potevan decidersi dai tribunali ordinari come
controversie di diritto privato. La legge del 1865 e la giurisprudenza da
quel tempo sino ad oggi lo hanno determinato sufficientemente. Ma
l’esperienza ha mostrato ancora che molte controversie che si volevano
evitare del tutto per non offendere l’azione libera dell’amministrazione,
possono dar luogo a ricorso e a giudizio. V’ha una quantità di atti
amministrativi che si riferiscono a materie di polizia, d’imposte, o
stradali, o idrauliche o sanitarie e va dicendo, alle quali non solo si
possono prescriver delle norme, ma le norme sono già in gran parte
prescritte, mediante regolamenti, circolari, istruzioni. E si tratta di dare a
queste regole maggiore precisione e fissità,, e di statuire che l’autorità
che compie l’atto non sia quella medesima che giudichi dei richiami, ma
un’autorità diversa e collegiale che porga nella sua composizione, nella
procedura, nelle forme del giudizio le maggiori guarentigie possibili al
cittadino.
Già sin dal 1829 in alcuni suoi scritti sagaci e profondi il duca di Broglie
aveva preso ad esaminare lo stato del contenzioso amministrativo in Francia,
e a farne la critica22. il suo pensiero era di fare un lavoro di
discriminazione delle materie che erano allora di sua spettanza (ed oggi
ancora in massima parte gli spettano) e divideale in tre categorie. La prima
doveva comprendere tutte le controversie che oggi si reputano amministrative
e veramente sono di diritto privato e debbono sottoporsi ai tribunali
ordinari, avvegnacché sotto il nome di contenzioso amministrativo, dic’egli,
il governo anche oggi decide una quantità di questioni giudiziarie, che
posson dirsi usurpate alla giurisdizione ordinaria, e che è un dovere il
restituirle: la seconda tutte le controversie che sono materia peculiare di
contenzioso amministrativo e sulle quali pur mantenendo gli ordinamenti
vigenti invoca talune modificazioni a guarentigia del cittadino: La terza
finalmente le questioni che non si possono portare né dinanzi al tribunale
ordinario né dinanzi ai Consigli amministrativi; ma debbono essere decise
unicamente dall’autorità che le ha fatte sorgere. Il concetto da me espresso
muove dalle stesse premesse del duca di Broglie. Inoltre mi sembra che non
debba esserne troppo ardua la esecuzione, specialmente in Italia, dove la
legge del 1865 e la giurisprudenza conseguente ha restituito ai tribunali
ordinari tutto ciò che era di loro appartenenza.
Ma invocando che le norme amministrative le quali oggi si trovano sparse in
regolamenti, istruzioni, circolari ecc., siano più precisamente fissate per
servire di fondamento ad un giudizio, non posso tacere che questo lavoro
vorrebbe essere compiuto, estendendolo anche a talune materie che si
lasciaron finora quasi a belle posta fuori della legge. Noi italiani, e anche
i popoli che sogliono chiamarsi di razza latina, abbiamo una cotale
repugnanza a stabilire regolamenti che abbian forza di legge, e siamo
propensi a darne piuttosto al governo la balia, e abilitarlo a provvedere con
decreti ed ordinanze che si rinnuovano, si contraddicono, e lasciano sempre
incertezza e modalità nelle regole amministrative. In Inghilterra le leggi
sono particolareggiate, minute e si stendono sin dove ne sia d’uopo. E
inoltre ogni anno di Parlamento vota centinaia di bill privati che hanno
forza di legge, e dai cittadini, sono invocati per interessi loro propri.
Sarebbe argomento degnissimo di esame, sino a qual punto in un reggimento
costituzionale possa stendersi la facoltà del governo o essergli delegata dal
Parlamento di provvedere alla esecuzione della legge mediante regolamento,
decreti, e circolari che hanno sempre qualche parte di legislativo: ma il
lungo tema mi caccia. Però questa facilità di lasciare tanta balia al governo
deriva eziandio da un certo timore di affisare taluni punti delicati della
vita politica, nei quali piuttosto che venire ad un determinazione precisa,
preferiamo di dare a chi comanda sconfinato arbitrio, il che è sorgente da un
lato di abusi, dall’altro di accuse e di rimprocci. Chi non ricorda le
discussioni seguite in Parlamento e fuori sul diritto di associazione e sui
suoi limiti, sul prevenire e sul reprimere? Anch’io vi presi parte non lieve,
e non vorrei ripetere le cose dette, ma chiederò solo: per qual motivo non si
osa fissarne le regole per legge? Oggi l’associazione è libera: tutti vi
consentono, ma tutti consentono similmente che siffatta libertà come ogni
altra ha i suoi limiti. Or bene, sian chiariti questi limiti: così né al
Governo sarà lecito oltrepassarli a danno del cittadino, né il cittadino
potrà servirsi di una libertà indefinita per attentare alla sicurezza dello
Stato.
Il medesimo dicasi delle leggi che possono occorrere in certi eventi
straordinari. Poniamo che il territorio nazionale sia improvvisamente
occupato, poniamo una insurrezione interna a mano armata, poniamo una
provincia dove briganti scorazzino e incutendo il terrore impediscano il
regolare procedimento, dell’azione della polizia e del tribunale. In queste
ricorrenze le leggi generali non bastano, e tutti i paesi forti vi hanno
provveduto con leggi speciali determinando bene le circostanze e munendo
l’autorità di facoltà così dette eccezionali, ovvero vi provvedono volta per
volta. In Inghilterra non è raro il caso che le franchigie costituzionali
siano in parte sospese: oggi anche per l’Irlanda furono prese disposizioni
severissime. In Francia fu supposta la necessità dello stato d’assedio, e fu
statuito che le Camere debbano esse stesse bandirlo allorché seggono, se no
il governo lo decreti di proprio moto, salvo ad esse decidere appresso della
convenienza e della legalità del decreto23. In Germania la legge determina le
norme, i limiti, le competenze speciali dello stato d’assedio, ma lascia largo
margine al Governo di proclamarlo quando lo crede necessario. In Italia si è
sempre sfuggito con cura di definir questi casi, pur conoscendo in fatto che
la potestà esecutiva operi tutto ciò che stima necessario alla salute
pubblica: salus publica suprema lex. Così Genova fu posta in istato d’assedio
il 3 agosto 1848 né il parlamento subalpino se ne diede per inteso:
similmente la provincia di Sassari, con decreto del 29 febbraio 1852 e la
Camera l’approvò con un ordine del giorno puro e semplice. Il Ratazzi decretò
lo stato d’assedio nelle provincie siciliane il 27 agosto 1862, il 20
settembre nelle provincie napoletane. Ma ciononostante quando nel 1875 il
governo chiese la balìa di poche e ben determinate facoltà straordinarie per
le provincie che erano infestate dal brigantaggio, trovò una opposizione
forte, cavillosa, focosissima sostenuta anche fuori dal Parlamento da molti,
e riuscì a mala pena a condurre in porto una legge gretta e stentata che per
fortuna non fu necessario attuare, per le migliorate condizioni della
sicurezza pubblica, ma che probabilmente da sé sola non sarebbe stata
efficace. Eppure non mancavano taluni fra i più furiosi oppositori, i quali
assediavano l’ufficio del ministro per dirgli: fate ciò che stimate
necessario, anche oltre le leggi, ma non ci chiedete anticipate facoltà,
riescite, e sarete approvati e lodati. E questo fece il ministero dopo il 18
marzo 1876: e non si può disconoscere che ottenne in Sicilia effetti
notevolissimi, ma trapassò senza scrupolo la legge e i diritti sanciti dallo
Statuto, negando sempre nei suoi giornali di farlo, e il pubblico tenendogli
bordone con tacito plauso, e le poche rimostranze fatte nella Camera si
attutirono come se fossero rivelazioni imprudenti. Questo stato dell’opinione
pubblica è a mio avviso morboso, e contrario alla buona e ordinata
costituzione di un reggimento libero; permettendo che si oscilli tra
l’impotenza a reprimere il male, e l’arbitrio governativo giustificato da
susseguenti voti sopra assai più che non paia, e ci riconduce al concetto che
bisogna quanto è possibile determinare con leggi precise tutto ciò che
riguarda i diritti dei cittadini e gli interessi sostanziali della società.
Oltre la triplice riforma dei nostri ordini amministrativi, occorrono a mio
avviso altre due leggi per compiere un sistema di guarentigie amministrative.
l’una sullo stato degli impiegati, l’altra sulla responsabilità di tutti gli
amministratori della cosa pubblica.
E’ utile e necessario stabilire per legge i diritti e i doveri degli impiegati?
La scuola che favoreggia il governo assoluto lo nega, imperocché vede
nell’impiegato un servizio del Principe il quale può prenderlo e licenziarlo
ad arbitrio. La scuola democratica giunge alle stesse conseguenze, perché il
popolo non si differenzia dal sovrano assoluto là dove può tutto. Laonde o
egli stesso direttamente elegge a certi tempo rettòri e giudici e impiegati,
senza altra giustificazione che un bollettino gittato nell’urna: ovvero se
concede ai capi del governo le nomine degli impiegati, tiene i primi
dirimpetto a sé responsabili di tutto, e non si cura degli agenti inferiori
né li riconosce come funzionari dello Stato. La scuola germanica sin
dall’epoca della restaurazione, nel 1815, rivolse a ciò le sue mire e lo
Stein nell’ordinamento dell’amministrazione prussiana pose fra gli ordini
essenziali la legge sullo stato degli impiegati. Fin d’allora furono scorti i
vantaggi e gli inconvenienti di questo sistema, e li notava più tardi, con
quella precisione che è propria della sua eloquenza il principe Bismarck in
un suo discorso al Reichstag, sul diritto elettorale, e sulla eligibilità
degli impianti "Noi abbiamo, diceva egli, nella Prussia in qualche modo
due costituzioni che corrono parallele: la vecchia del governo assoluto che
trovava la sua difesa contro l’arbitrio nella inamovibilità non pare potersi
accordare. Il governo prussiano checché faccia, e si muova, sentesi da ogni
parte impacciato. Esso non può revocare un impiegato che abbia obbedito alle
istruzioni dategli, stando alla lettera delle medesime; ancorché ne abbiano
franteso lo spirito. Eppure anche codesto ha i suoi grandi vantaggi: né io
vorrei a verun costo immolare l’integrità del funzionario prussiano, la sua
dignità, il sentimento che lo sottrae alle tentazioni di uno scarso e spesso
insufficiente salario; laonde preferisco di sopportare animoso gli
inconvenienti di un governare impacciato al gittarmi impreparato in altre
difficoltà"24. In Francia v’hanno norme per l’ammissione, per
l’avanzamento, per le pensioni: ma garanzie vere e proprie in favore
dell’impiegato non vi sono: se ne eccettui la magistratura, la quale però da
ultimo ebbe anch’essa a patire iatture. Vi supplisce in gran parte la
tradizione solida, e rispettosa dei diritti acquisiti, salvo nei momenti di
rivoluzione, quando la smania delle così dette purificazioni vela la
cupidigia e la vendetta. In Inghilterra dove, come dicemmo altrove, il
maggior numero degli uffici pubblici rampolla da una posizione sociale e si
adempie gratuitamente, poco era da provvedere sull’argomento: la massima
parte degli impiegati veri e propri s’intendeva assicurata del suo ufficio
sino che non demeritasse (during good behaviour) e il principio colà tanto
operativo della sequitas ed bona fides aveva stabilito per essi una
inamovibilità di fatto. Però mano a mano che alcune forme continentali
penetrano nella costituzione britannica, si sente la convenienza di regolare
lo stato degli impiegati, e dal 1853 si cominciò dal sancire gli esami di
concorso per l’ammissione.
Un punto fondamentale da determinare è quello della responsabilità diretta
dell’impiegato, principio ammesso sostanzialmente in Germania, e per isbieco
introdotto nella nostra legge di contabilità all’art. 60 ma di ciò più oltre.
Non poté la legge sullo stato deg’impiegati essere recata innanzi nei
primordi del regno d’Italia: imperocché si trattava di disfare tutte le
amministrazioni passate, e di ricomporle in unico stampo, di guisa che
sarebbe stato impossibile il riuscirvi senza una certa libertà d’azione. Ma
non appena l’ordinamento parve almeno nelle sue parti principali assodato,
cioè sin dal 1864 il Minghetti disegnò di presentare un apposito di legge, e
ne accettò l’invito dalla Camera in un ordine del giorno, ma le vicende de’
tempi ne impedirono l’esecuzione. Più tardi il Lanza dapprima al senato nel
marzo 187025, poscia nel 1871 alla Camera dei deputati26 presentava il
progetto di legge che determinava le categorie degli impiegati, i titoli
richiesti e gli esami che si dovevan sostenere per essere ammessi: dava norma
alle promozioni e ai trasferimenti, alle disponibilità e alle aspettative.
Stabiliva per quali motivi l’impiegato potesse essere punito e con quali
ammende, fino alla destinazione, e fissava le guatentigie di esso dirimpetto
al Governo: ancora delineava i casi di collocamento a riposo, e i diritti a
pensioni che all’impiegato spettavano. La Giunta parlamentare fece una
relazione accurata e sostanzialmente accettò le idee del ministro; ma non
ebbe luogo discussione. Più tardi ancora, nel 1876, l’on. Depretis ripresentò
un altro progetto27 ma in termini più ristretti perché abbassava il grado di
cultura richiesta dal suo predecessore per l’ammissione agli impieghi: e
lasciava al ministro troppo maggiore larghezza nel licenziare gli impiegati
dal servizioPubblico ogni volta che ei lo giudicasse conveniente al servizio
mesedimo. Portato innanzi alla Camera questo disegno, toccava quasi il porto
dopo parecchi giorni di discussione, quando non so qual vento lo respinse in
ignoti mari, donde non uscì più mai sino ad oggi. Ora io credo che questa
legge dello stato degli impiegati sia una delle cose essenziali al fine che
noi ci proponiamo, e dovrebbe quindi senza indugio essere proposta al
Parlamento in tali termini, da sottrarre l’impiegato stesso all’arbitrio, al
capriccio, alle influenze parlamentari. A tal fine converrebbe ch’essa
offrisse guarentigie sicure all’impiegato non solo di non esser dimesso, ma
neppure scaraventato da un capo all’altro della penisola, per ciò solo che
non seppe sobbarcarsi alle voglie di un deputato, né consentì di farsi
strumento dei soprusi di un partito, o addiventare un agitatore zelante di
elezioni. Ma d’altra parte converrebbe che stabilisse eziandio regole e
discipline severe contro l’impiegato che parteggia! questo dupplice argomento
renderebbe l’ufficiale pubblico più indipendente, e frustrerebbe le indebite
ingerenze della politica nell’amministrazione. Per ora egli non ha verace
difesa, ed a provarlo basterebbe una sentenza recente della Corte di
Cassazione la quale dichiara l’autorità giudiziaria incompetente, e
l’impiegato privo di ogni azione per ammenda di danni nel caso di
destituzione. E v’ha di peggio; ché lo spirito pubblico non si commove punto
alle ingiustizie di tal fatta; anzi udiamo risonare il plauso a cambiamenti
repentini e radicali, e il ministro andare lodato non che impunito, perché,
dicesi, diede prova di forza e seppe spezzar le maglie della burocrazia.
Ma è possibile questa legge senza menomare la responsabilità del ministro? La
responsabilità, dice la scuola radicale, deve essere solo e tutta di lui:
ogni altra menomerebbe la pienezza di sue facoltà, e del sindacato
parlamentare. Certamente il concetto della responsabilità dei ministri è
fondamentale nel governo costituzionale. Le sue origini in Inghilterra
risalgono alle origini stesse della monarchia28 e il principio che il Re non
può far male e che esso è inviolabile, si collega intimamente a ciò che ogni
suo atto debba essere controfirmato da un ministro che n’è responsabile.
"E’ mirabile, dice il Balbo, questa istituzione, questo mezzo termine,
questo ritrovato non di nessun uomo, ma dei tempi progrediti in civiltà,
questa combinazione della irresponsabilità del Principe colla responsabilità
dei ministri, che fa possibile ed effettiva la riunione di tutti i vantaggio
della monarchia e della repubblica nella monarchia rappresentativa"29.
V’ha poi una responsabilità collettiva fra tutti i ministri, e per quanto può
attenersi al subietto di questo libro, essa fu ben definita da Lord Derby30.
L’essenza di un governo responsabile è il vincolo mutuo fra i suoi membri pel
quale essi agiscono come partito, vanno insieme, consertano i loro atti, e se
un di essi cade (salvo casi speciali) cadon tutti con esso. Ma di
responsabilità ve n’ha di più specie: ve n’ha una tutta privata, quando il
ministro opera come ogni altro cittadino; e ve n’ha una veramente e
propriamente ministeriale nell’esercizio delle funzioni del governo, la quale
può dar luogo a mettere i ministri in istato di accusa secondo l’art. 36
dello Statuto. Ciò presuppone manifestamente un delitto di alto tradimento,
un attentato alla sicurezza dello Stato, la violazione delle leggi
costituzionali. Spesso si è parlato della necessità di una legge precisa su
questa materia, e ve n’ha eziandio qualche esempio. In verità tutta la parte
che riguarda il procedimento può ben determinarsi, come pure la sanzione
delle pene. Ma definire la responsabilità dei ministri è grandemente
difficile, e coloro che si commentarono si ristettero ai termini generali di
tradimento, concussione, prevaricazione. La legge austriaca del 25 luglio
1870 che è pure la più precisa parla anche essa di opere o di omissioni colle
quali si viola la costituzione e la legge.
Ma come ognun vede, non è questa la responsabilità che al nostro fine
vogliamo propriamente sottoporre ad analisi. V’ha una responsabilità che non
è giudiziaria o penale, ma piuttosto politica, ed è quella che si manifesta
col sindacato del Parlamento. Un ministro, poniamo, lascia gli affari in
disordine, favorisce gli uni a preferenza degli altri, ha poca parsimonia del
pubblico denaro, adopera una spietata fiscalità, suscita colle sue esosità
liti allo Stato, rasenta per arbitrii la violazione della legge senza però
che apparisca manifesta la intenzione di trasgredirla. Codeste sono tutte
colpe per le quali non si può metterlo in istato d’accusa: ma la Camera può
esaminarle, discuterle, e pronunziare il suo giudizio con una mozione, o con
un ordine del giorno che lo costringa a rassegnare il suo ufficio. Or ecco
appunto il caso al quale alludono i partigiani della scuola più sfrenata,
dandovi una estensione esagerata. Essi dicono: a che giova stabilire la
responsabilità per gli ufficiali pubblici? essi sono meri strumenti del
ministero e debbono esser tali. Il ministro è responsabile per tutti loro
davanti alla Camera: è in lui che debbono convergere tutte le accuse. Or qui
ci troviamo fra un astrattezza e una ipocrisia. E’ una astrattezza quella di
supporre che il ministro possa davvero prender sulle sue spalle la responsabilità
di tutto ciò che gli agenti dell’amministrazione in ogni parte del regno.
Questo carico sarebbe tanto grave e sproporzionato, che per la sproporzione
sua stessa si risolverebbe in nulla. Se un ufficiale pubblico ha commesso un
atto scorretto nell’interpretazione e nella esecuzione della legge e del
regolamento, chi vorrà perciò condannare seriamente il ministro, quando
anch’esso non lo abbia punito e talora per sentimento di solidarietà cerchi
di difenderlo? E’ poi un’ipocrisia quella di supporre che la decisione del
Parlamento abbia sempre un valore di efficace riparazione. Il Parlamento
assolverà o come dicesi oggi, darà un bill d’indennità, al ministro che ha
commesso un’ingiustizia per assecondare la passione del partito, e fors’anche
un ordine del giorno consacrerà la violazione del diritto. Questo è il punto
sul quale insisto, e al quale io prego il lettore di rivolgere il pensiero.
Imperocché la responsabilità ministeriale estesa così largamente non ha
significato alcuno, o se ne ha uno è di servire la maggioranza in tutti i
suoi capricci.
E facciasi pure la legge della responsabilità ministeriale, ma restano due
quesiti. Gli ufficiali pubblici sono responsabili e possono esser chiamati in
giudizio pei loro atti? Provvede a ciò bastantemente il codice civile e
penale? O è necessaria una legge speciale? Nella presente legislazione, i
prefetti, i sotto prefetti e coloro che ne fanno le veci, come pure i
sindaci, non "possono essere chiamati a render conto dello esercizio
delle loro funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né
sottoporsi a procedimento per alcun atto di tale esercizio, senza
autorizzazione del Re previo parere del Consiglio di Stato"31. Questa
disposizione di legge che abbiamo imitata dalla Francia pur temperandola, non
può andare in accordo colla responsabilità vera degli impiegati. Uopo è che
questi possano esser tradotti in giudizio per violazione di legge, ed
eziandio per risarcimento di danni; insomma che l’azione penale e civile sia
aperta contro di loro. Ma fino a che limite? Ecco un problema delicato quanto
mai. A risolverlo non mi par che basti citare gli articoli del codice
civile32 "che qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri,
obbliga quello per colpa del quale è accaduto il danno, a risarcirlo; e che
ciascuno è obbligato non solo pei danni cagionati per fatto proprio, ma
eziandio delle persone delle quali deve rispondere". E’ d’uopo bensì
esaminare a fondo quali sono i casi nei quali l’impiegato è responsabile,
quali i casi nei quali è responsabile per lui lo Stato, e finalmente quando
né egli né lo Stato può esser convenuto. Per accusare un ufficiale pubblico o
dimandargli un risarcimento di danni, è d’uopo che vi sia parte di lui o
accesso di potere, o diniego di giustizia, o offesa alle leggi, o negligenza
colpevole dei suoi doveri. Rispetto poi allo Stato, e ai casi nei quali lo si
possa chiamare responsabile di danni in via principale o sussidiaria, il tema
è lungi dall’essere chiarito in ogni sua parte. Certamente quando lo Stato
agisce e contratta come qualunque ente civile esso trovasi esposto al
rifacimento del danno secondo il diritto comune. Ma la forte questione non è
ivi: è nei casi nei quali lo Stato impera e provvede come ente politico, o
agisce nell’interesse della società. Imperocché non può accusarsi di
intenzione malvagia, mentre intende anzi a tutelare il pubblico bene, non può
accusarsi d’aver scelto un ufficiale più che un altro, perché la nomina
degl’impiegati è fatta secondo certe regole preordinate; e infine la società
civile non è come alcuni reputano identica a una società d’assicurazione.
Anche s’ingannano coloro che paragonano lo Stato ad un appaltatore di opere,
perché l’uno dispone e fa nell’interesse pubblico, mentre l’altro fa
nell’interesse proprio, e se corre rischio talvolta di perdere, nel più dei
casi guadagna, e tale è il suo intento. Poniamo che lo Stato modifichi le
tariffe doganali abbassandole, non v’è chi abbia diritto di ripetere da esso
i lucri che gli cessano dal cessare delle tariffe più alte. Invece certi atti,
pur collegati colle funzioni essenziali dello Stato, possono produrre danni
meritevoli di risarcimento, per esempio se ordini lavori di difesa alle ripe
di un fiume che apportino la ruina di edifizi, o scemino la proprietà di un
privato sulla ripa opposta. Notisi che la Corte di cassazione ha pronunziato
in parecchie circostanze non essere applicabile allo Stato la regola di
diritto privato relativa ai delitti o quasi delitti, e questa tesi è
vigorosamente sostenuta dall’avvocato erariale33.
Finalmente non mi par che basti neppure la distinzione dello Stato quando
agisce e contratta come Ente civile, e risponde come ogni altro ente degli
effetti della sua gestione, dall’altro caso quando lo Stato provvede come
Ente politico nell’interesse generale, avvegnacché vi sono dei casi nei quali
tal distinzione è sottile, onde riesce difficile distinguere gli atti che
dall’una o dall’altra forma promanano. Da tutto ciò discende quello che
accennai sopra, cioè che la materia aspetta ancora una trattazione completa e
definitiva. Mi sia lecito ripetere anche qui ciò che più volte ho detto:
trattasi una questione di limiti, e questi limiti stessi si rimuovono a
seconda delle condizioni dei popoli e del progredire della civiltà. Ma
qualunque sia la teoria e la giurisprudenza che in tal materia prevalga, egli
è certo che quando siano fissate le regole rispetto alla responsabilità dello
Stato e dei suoi agenti, regole analoghe vogliono statuirsi rispetto alla
provincia ed al comune, e devono eziandio riferirsi agli amministratori di
Opere pie e di pubblici Istituti.
Un altro punto da esaminare è sino a qual grado l’ufficiale pubblico può
essere difeso dirimpetto al tribunale, dell’ordine preciso del suo superiore,
il quale sottentrerebbe in sua vece come reo convenuto. Il Mancini in un suo
disegno di legge non ammetteva l’eccezione dell’obbligo di obbedienza
gerarchica, per liberare l’esecutore dell’atto abusivo della solidaria
responsabilità del danno, qualora l’ordine dato dal superiore fosse
manifestamente illegale, ma codesta è dizione troppa vaga, e veramente
pericolosa in quanto ché abiliterebbe l’ufficiale subordinato ad una continua
discussione sul valore degli ordini che gli fossero dati. Certamente se il
superiore ti comanda di commettere un’azione che non abbia attinenza
coll’obbligo del tuo ufficio o che, se pur l’ha, costituisca per se medesima
un delitto, la legge morale e il sentimento della giustizia, impongono di
rifiutare; ma vi sono degli atti, in materia poniamo di prevenzione per
cagione di pubblica sicurezza, la legalità dei quali dipende da molte
circostanze e fra queste eziandio dall’opportunità e dalla possibilità della
riuscita: ora lasciando illimitata discussione a chi deve eseguire l’atto
stesso, si avrebbero inconvenienti ad ogni ora, e il rimedio sarebbe più
pericoloso del male: tanto più che concedendo la giustificazione per
obbedienza gerarchica, la persona contro la quale si può procedere per
violato diritto c’è, anzi dal fatto stesso dell’ordine dato è specificata e
la responsabilità non vien meno passando dall’uno all’altro34. Il nostro
codice penale sui reati per abuso di autorità, attentato alla libertà
individuale, e violazione di domicilio, dichiara35 essere sciolto da ogni
responsabilità l’ufficiale o impiegato che ha agito per ordine dei superiori
in oggetti della competenza loro, e pei quali oggetti era ai medesimi dovuta
obbedienza.
Ma è ella veramente necessaria questa legge sulla responsabilità, o non basta
già il diritto comune? Non si trova nei nostri codici, nelle nostre leggi,
nel nostro Statuto tanto da provvedere ad ogni giusta esigenza? La tesi venne
sostenuta con molta sagacità e con soda erudizione dall’egregio Professore
Adeodato Bonasi36 il quale trovò nondimeno anch’egli una lacuna perciò che
riguarda i ministri. Imperocché lo Statuto avendoli sottratto alla
giurisdizione ordinaria, manca tuttora la procedura che debba seguirsi in
questo giudizio speciale. Parvegli eziandio che dovessero abrogarsi quelle
disposizioni, le quali senza alcuna ragione di grande interesse che le legittimi,
potrebbero essere di ostacolo alla piena applicazione del diritto comune a
tutti i pubblici funzionari. Consento nell’uno e nell’altro punto, ma non mi
credo abbastanza competente ad affermare o negare la proposizione generale
sostenuta dal Bonasi, la quale meriterebbe un’ampia disamina37, e confesso
che ne rimango in dubbio, per la qual cosa parlai di una legge fatta apposta.
Egli stesso riconosce che fra il codice e certe leggi speciali come quella di
pubblica sicurezza non vi è un coordinamento sufficiente e che bisognerebbe
rivederle in questo intento. Ora io aggiungo che almeno in occasione di
codesta revisione, oltre il desiderato coordinamento, debba esaminarsi
accuratamente se qualche deficienza non si riscontri, ed a questa supplire.
Certo non è ben chiaro, quando il pubblico ufficiale possa chiamarsi in
giudizio, né tampoco è noto a tutti quando gli amministratori dei comuni,
delle provincie, delle Opere pie, degli Istituti autonomi siano responsabili
anche civilmente. Ciò vuol essere posto in piena luce, imperocché è parte
sostanziale della giustizia amministrativa.
Ho detto delle tre vie per le quali si può procedere al fine che ci siamo
proposto; ho parlato inoltre di due leggi, l’una sullo stato degli impiegati,
l’altra sulla responsabilità degli agenti del governo e degli amministratori
della cosa pubblica, che dovrebbero far parte sostanziale dell’ordinamento di
che trattiamo. Ora mi conviene eziandio accennare all’importanza di dare
nelle nostre università allo studio del diritto amministrativo un più ampio
svolgimento, e di fondarvi una vera facoltà politica e amministrativa38. Gli
studi meramente giuridici tennero e tengono tuttavia il campo, ed è naturale
in quanto che offrono agli studiosi una carriera rapida e lucrosa, quella dell’avvocato.
Se non che il progresso degli studi rese manifesto che il diritto privato non
era che una parte del diritto generale, e quindi le facoltà giuridiche si
arricchirono di cattedre di diritto pubblico, costituzionale, e
internazionale. Talvolta anche vi si unì quella di diritto amministrativo, e
di economia, ma quasi accessorie e di completamento. Ora ciò non basta, e se
l’amministrazione deve essere esercitata da uomini esperti, uopo è che vi sia
un corso di studi destinato a formarli. Laonde mentre le cattedre che ho
accennato sopra sarebbero comuni ad entrambi gl’insegnamenti, ve ne sarebbero
altre speciali alla facoltà giuridica o alla facoltà politica amministrativa:
queste si dovrebbero bipartire come due rami da un tronco, ed avrebbero alla fine
propri esami e diplomi. Converrebbe perciò allargare il campo di tutte le
scienze che all’amministrazione si attengono: e per esempio non solo trattare
il diritto costituzionale, ma più propriamente gli uffici del governo, le sue
relazioni colle istituzioni ed associazioni civili, la sua azione ossia la
politica: così il diritto internazionale si svolgerebbe nell’arte
diplomatica, così l’economia andrebbe corredata dagli insegnamenti affini
come la statica, la finanza, e la ragioneria. Né dovrebbe mancare la parte
tecnica, almeno in modo ausiliare, come per esempio l’igiene pubblica, la
condotta delle acque, l’ordinamento della difesa nazionale. Laonde ben fece
Ruggiero Bonghi allorché, essendo ministro della pubblica istruzione, col
regolamento 11 ottobre 1875 decretava potersi istituire in alcune università
corsi speciali di discipline politiche e amministrative, e il de Sanctis più
tardi (10 dicembre 1878) fondava in Roma un corso di scienze
economico-amministrative. Codesti germi bisognerebbe spargere, imperocché se
non si comincia dal dimostrare scientificamente quale debba essere il compito
del governo dal dimostrare scientificamente quale debba essere il compito del
governo, che cosa sia amministrazione pubblica, delineandone le differenze
colla giurisprudenza, sarà difficile che nella pratica sia rettificato e si
migliori l’andamento delle cose, e si tronchino dalla radice gli abusi di che
abbiamo parlato. Egli è alla gioventù che esce dalle scuole pubbliche,
innamorata del giusto e del buono non solo nella ragion privata, ma eziandio
nella pubblica, che si appartiene di preparar l’opinione, affinché siano
recati in atto legislativo i provvedimenti atti a riparare questi mali,
fondandolo lo Stato giuridico nella sua pienezza.
Intanto a menomare i mali discorsi, ed a preservare il sistema costituzionale
dagli abusi più manifesti e più dannosi, io indicherò alcuni rimedi
indiretti, ed altri secondari o piuttosto espedienti che pure avrebbero
qualche efficacia sul migliore andamento della cosa pubblica. E innanzi tutto
gioverà che ciascuna delle potestà che la nostra costituzione pone come
essenziali, operi secondo suo diritto e secondo suo dovere, e che la inerzia
e la mala abitudine non finiscano per cedere l’impero ai più audaci ed
impronti. Così per mio avviso la Corona dee accuratamente serbare le
prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi,
imperocché quelle prerogative ben usate sia nella scelta dei ministro sia
nello scioglimento della Camera possono in talune circostanze salvare il
paese. E fra le prerogative della Corona pongo eziandio quella di vigilare
che il suo governo non istenda radici partigiane nella giustizia e
nell’amministrazione, e dove ne vegga i segni ammonirlo e trattenerlo. Credo
che un ministro, richiamato dal Re all’osservanza della equità nel momento
che gli porge a firmare un decreto di nomina o di promozione, si
rassegnerebbe ossequente all’ammonizione e ne prenderebbe norma per
l’avvenire; tanto più che qui non si tratta d’indirizzo generale politico, ma
di fatti peculiari.
Un altro punto importante è quello che oggi chiamasi formazione e condotta
del Gabinetto, cioè del Consiglio dei ministri in quanto essi sono e si
sentono in solido sotto un capo che è il presidente del consiglio medesimo:
ora il Gabinetto è mediatore fra la Corona e il Parlamento, e fra i due rami
del Parlamento medesimo. Il concetto del Gabinetto in Inghilterra fu opera
lenta, e ognor progressiva durante due secoli. Come bene osserva il
Gladstone, "la teoria del governo misto e dei tre poteri, trasmessaci
dagli antichi e soprattutto da Cicerone nel suo libro della Repubblica, è
troppo fredda e cruda, né corrisponde all’indole della costituzione inglese,
mancandovi un elemento conciliatore, una specie di organo di compensazione,
che mantenga in bilancia le forze politiche, le coordini fra loro, e le
indirizzi ai fini del civile consorzio... Il gabinetto è forse la più
singolare creazione del mondo politico nei tempi moderni, non per la sua
dignità, ma per la sua sottigliezza, elasticità e varietà, ed apparisce come
il complemento di un intero sistema: il quale sembra poter sfidare tutti i
pericoli anche nelle età future, né a tal uopo altro richiede che una
perfetta lealtà, e una discreta intelligenza in coloro che lo adoperano. Questa
istituzione che ha tanta parte nella vita politica inglese, agisce per tacito
consenso, senza che la legge scritta o la costituzione contengano pur un
verso che determini le sue relazioni col monarca, col parlamento e colla
nazione, né tampoco le relazioni dei suoi membri fra loro e col loro capo.
Essa non fu il portato di un’idea preconcetta, né l’attuazione di un disegno
filosofico o di un principio astratto; ma l’azione lenta di forze invisibili
gli diè la struttura che il mondo oggi ammira. Crebbe senza rumore, e si può
dire di essa quel che il poeta (Heber’s Palestine) dice del tempio di
Gerusalemme: - Non risuonarono acciari battuti dal pesante martello, ma il
superbo edificio sorse come una palma gigantesca"39. Ora questa
istituzione mentre dà maggior unità e consenso a tutti gli atti del governo,
per quanto riguarda la questione che trattiamo, ha reso e tende a rendere più
equa e temperata l’azione di ciaschedun ministro, e ad attutire in esso gli
spiriti partigiani che deploriamo40.
Sebbene il Presidente dei ministri sia libero nella scelta dei colleghi che
vuol presentare all’approvazione del Re, pure codesta scelta non dovrebbe che
in rari casi e come per eccezione uscir fuori dai due rami del Parlamento.
Nello spirito della costituzione è ovvio che l’uomo il quale è assunto al
governo abbia avuto occasione di esprimere pubblicamente la propria opinione,
si trovi in grado di difendere non solo ciò che è proprio del suo dicastero
ma anche la politica in generale, infine ch’ei pure eserciti una autorità
acquistata precedentemente sopra i membri del parlamento. Laonde il
Presidente del Consiglio pur cercando uomini esperti delle materie da
reggere, dovrà avere anche di mira l’elemento politico finché questo titolo
predomina sovra l’elemento tecnico. Ora in Italia noi abbiamo veduto avvenire
di recente il contrario, e in cinque anni una diecina di ministri essere
inopinatamente pescati fuori delle acque parlamentari. E perché poi avessero
qualche requisito politico, almeno apparente, si creavano senatori di botto,
quasi questo bastasse ad informare in essi l’arte parlamentare: né ciò era
senza scapito del Senato, prodigandosene il g rado quasi in difetto di ogni
altra qualità: certo non aggiunge prestigio o autorità a colui che di tal
grado sia investito improvvisamente e soltanto per occasione41.
Fu suggerito talvolta l’esempio inglese di die segretari generali di ogni
ministero, l’uno dei quali permanente, ed amministrativo, l’altro, politico e
transitorio insieme col ministro. Questi pubblici ufficiali permanenti (dice
il Wood)42 mantengono tutte le tradizioni dell’ufficio, e sbrigan tutti gli
affari ordinari. Essi porgon consiglio, e sino ad un certo punto mettono
freno ai nuovi ministri, sorti senza sufficiente esperienza; ma siccome
d’altra banda la permanenza in un ufficio tende a cambiar l’usato sentiero in
solco, per ciò il cambiamento del capo, quando è assistito da colui che sta
sempre nell’ufficio, produce utili effetti in ogni parte
dell’amministrazione.
Può chiedersi se convenga mantenere presso i principali ministeri un
Consiglio, come dicono, superiore e si è molto disputrato se meglio convenga
avere una responsabilità per così dire accentrata in un solo o divisa in
molti. Ma siccome il Consiglio non è un vincolo assoluto al ministro se non
in pochi casi dalla legge prescritti, e siccome d’altra parte importa
mantenere fissità nella giurisprudenza, e nell’interpretazione delle leggi,
uniformità nei contratti, e nelle concessioni; ed alla compilazione dei
regolamenti e dei disegni di legge non basta l’opera degli impiegati comuni
né quella di aiutatori avventizi, perciò è da riconoscere la necessità e
l’utilità di codesti Consigli, dei quali anzi parmi che si dovrebbe afforzare
il prestigio e l’autorità. E l’esperienza dimostra che sono freno salutare, e
quando il ministro ha voluto commettere un arbitrio, ha dovuto calpestarne
gli avvisi, sicché io non esisto punto ad adffermate la convenienza loro
anche a moderare il governo di aprtito, e le sue tendenze sinistre ad
insinuarsi nell’amministrazione e quindi ad esprimere il voto che non solo si
debbano mantenere ma eziandio rinvigorire.
Queste questioni costituzionali hanno moltissimi aspetti, ciascuno dei quali
vorrebbe essere trattato con ampiezza di considerazioni, ma ciò mi
distorrebbe dal mio tema, ed io ne tocco solo in quanto possano
indirettamente ad esso collegarsi. A qual risguardo a me pare che sarebbe
anche da rivedere la legge delle incompatibilità parlamentari. Io dubito
forte se il magistrato giudicante possa in nessun caso attorarsi nei
combattimenti della politica. Parmi eziandio che la presenza nella Camera del
Sindaco di un comune o dei membri della deputazione provinciale, sia cagione
prossima a tentazioni. Perché costoro non possono per così dire far
astrazione degli interessi lcoali che rappresentano, e il ministro concedendo
o negando, proferisce loro una troppo grave seduzione a sacrificare il voto
politico allo interesse della città o della provincia nativa. Sopratutto,
notai fra i più gravi danni di alcune provincie che la deputazione la quale
dovrebbe essere intesa unicamente a ben amministrarle diventa invece centro
elettorale, e si fa autrice o complice di politiche ingerenze. Io credo poi
che dannosa e pericolosa sia la frequenza di avvocati esercenti nelle
assemblee deliberanti. Le cagioni son molte e notorie, e dalla esperienza
riconfermate: chi vuol avere contezza dell’azione malaugurata che hanno gli
avvocati nei parlamenti legga il Colletta, il Balbo, il Gioberti43. Ma
considerando la cosa solo nel riguardo di che si tratta, è evidente che la
professione loro li rende inchinevoli a farsi patrocinatori di questo o di
quell’affare. e anche rispetto ai tribunali toccai il danno che dai deputati
oranti nel foro e dagli influssi loro anche involontariamente deriva alla giustizia.
La nostra Camera è composta per un terzo di avvocati, non so se tutti
patrocinanti: certo la massima parte. Ora non sarebbe egli possibile almeno
mettere un limite al numero di essi, provvedendo col sorteggio? come si fa
oggi per le classi dei magistrati, e dei professori quando superano il numero
di dieci, e per tutti glialtri impiegati quando superano il numero di venti:
servolo non m’interno.
Checché ne sia delle incompatibilità parlamentari, un punto gravissimo per
l’avvenire delle istituzioni è questo, che il deputato, mentre nella Camera
dev’essere tutto cioè avere la pienezza della sua rappresentanza e delle sue
prerogative, quando è fuori di parlamento non possegga privilegio sopra
alcuno degli altri cittadini. Io credo cattiva la usanza, e generatrice di
vanità e corruzione, onde il deputato è visitato e careggiato dai prefetti e
dagli impiegati nelle provincie, gli si dà un posto migliore nelle ferrovie,
eprsino leggo che in alcune mostre, come a spettacoli, mentre tutti pagano,
egli ha l’ingresso libero e gratuito. Perché tali favori? Spacciando
pretezione e grandezza si falsa il carattere austero del deputato, e se le
due iniziali M.P. (Member Parliament) sono in Inghilterraun titolo di
rispetto personale, non danno però che io sappia alcun vantaggio materiale, e
neppure apparenza di maggioreggiare. Né saprei lodare le domande che si fanno
e si esauriscono d’inviare deputazioni a qualsivoglia cerimonia abbia un poco
d’importanza. Si innalza un monumento? Si apre una sala? Si accompagna un feretro?
Ecco subito una deputazione del Senato e della Camera la quale è ricevuta con
onori reali a suon di tamburo, come la sovranità sia impersonata in essa, e
poi vengono cerimunie e banchetti e feste d’ogni maniera. Persino le
Commissioni che vanno per inquirente sopra elezioni o sopra qualsiasi altro
argomento sono ricevute dalle autorità, e festeggiate dalle popolazioni, il
che farebbe in Inghilterra la più grande meraviglia. Tutto ciò a me sembra
non iscevro da pericolo di guastare lo spirito delle istituzioni, e di dare
al popolo idee false, perché spontaneo gli nasce il pensiero che presentando
le suppliche ai deputati, da costoro pioveranno le grazie, e assai meno si
briga di sapere se facciano o no buone leggi.
Parecchie modificazioni nel regolamento della Camera tornerebbero utili al
fine che ci proponiamo. Tale sarebbe quella di scemare l’importanza delle
Giunte e massime dei relatori loro. Egli è soprattutto nella Giunta generale
del bilancio che apparvero inconvenienti non lievi. Lasciamo stare che la
Giunta non paga di riferire com’è suo còmpito, vuol ingerirsi talvolta nei
modi di amministrazione, e anche nella politica. Ma ogni ministro sa che il
relatore di un bilancio è un personaggio col quale talvolta bisogna venire a
patti. Il ministro avrà per esempio proposto un aumento di dotazione ad un
capitolo del bilancio perché lo stima necessario al pubblico servizio. Il
relatore glielo nega sotto colore di rigorose economie, ma poi cede pur che
si aumenti anche la dotazione di un altro istituto che interessa la sua
provincia. E il ministro non crede di mancare al suo dovere facendo un atto
di favore, perché il vantaggio del servizio pubblico in generale scusa la
propria coscienza. Invero non sarebbero lecite le conferenze fra i relatori
della Giunta e gli impiegati superiori dei ministeri, ma si tengono. Allo
stesso ministro le dimande dovrebbero essere indirizzate per iscritto a mezzo
della presidenza della camera, chiamandolo dove occorre a dare di persona
schiarimenti alla Giunta plenaria; ma queste buone pratiche a poco a poco
vanno in disuso, non già che manchino le corrispondenze scritte, o le
adunanze ove il ministro intervenga, ma le une e le altre sovente non sono
che la forma esteriore di ciò che in privati colloqui è stato concordato.
E poiché mi è accaduto di aprlare di bilancio, un punto importante sarebbe di
sottrarre alla discussione annua quella parte delle spese pubbliche che nasce
da leggi in atto, le quali non si tratta in quel momento di mutare. Così gli
inglesi non ritornano mai, come noi facciamo, a rimettere in discussione
tutta quella parte di bilancio che si chiama intangibile, ma discutono
soltanto qualla parte che ha bisogno di speciale legge, o stanziamento che si
rinnuova ogni anno. Né certamente il bilancio è appo loro una specie di
tessera per introdursi a parlare di tutte le cose possibili, posto che ogni
cosa ha una relazione più o meno remota con esso; ma il dibattito vien
sobriamente mantenuto nei limiti richiesti dalla ragione o dalla opportunità.
Finalmente un altro punto che a prima giunta non pare aver diretto rapporto
coll’argomento che trattiamo, e pure ne ha moltissimo, è la frequenza delle
crisi ministeriali, e il nascer loro all’oscuro, sovra incidenti, non sopra
questioni vitali. Si comprende che quanfo vi ha una grande questione di essa
possa avere un significato di fiducia o di sfiducia in quanto che anticipa il
giudizio della Camera44, ma in generale questo porre le questioni di fiducia
in un episodio insignificante, o peggio ritirarsi senza discussione, o peggio
ancora serbar dopo il silenzio intorno alle cagioni della crisi, e al
programma del nuovo ministero, tutto ciò corrompe le vitali sorgenti della
vita costituzionale. Ben a ragione Guglielmo Pitt alla Camera, che gli era
ostile, domandava un fair play cioè una solenne occasione di dibattito prima
di rassegnare l’ufficio. Procedendo diversamente si formano nell’ombra
accolte d’uomini che pensano diversamente fra loro, ma che per rancori o
cupidigia di potere son pronti a trovarsi d’accordo anche cogli avversari,
pur di nmegare al Gabinetto le forze della sussistenza. Ma questo punto
vorrebbe essere svolto ampiamente, e richiederebbe per se solo un libro:
imperocché è uno dei più sostanziali per l’esercizio regolare della
costituzione.
Io ho toccato a tanti e sì vari oggetti al solo intento di mostrare che, se
ogni potestà costituzionale adempiesse attivamente gli uffici propri, se il
Gabinetto serbasse quell’unità che gli è congenita sotto la vigilanza del suo
capo, se non cedesse che a sfiducia espressa in questioni vitali, se i
Consigli superiori che assistono il ministro fossero resi più forti e più
liberi nel senso stesso di ogni dicastero, se si introducesse un segretario
generale permanente e che mantenga le tradizioni dell’amministrazione
centrale, se le incompatibilità fossero meglio regolate, se il bilancio in
alcune parti sostanziali fosse sottratto alle disputazioni annue, se il
regolamento della Camera fosse migliorato, se la posizione del deputato
altissima nell’assemblea legislativa perdesse ogni trattativa fuori di essa;
se insomma la costituzione dello Stato fosse praticata più secondo gli abusi
onde abbiamo parlato. Ma di questo genere (di) rimedi al tutto indiretti
sarebbe il numero grandissimo, e si troverebbe in ogni ordine di fatti pubblici.
Ed a me par tempo di finire.
Dissi già nella prefazione che l’accusa mossami di avere in un discorso
tenuto a Napoli offeso le prerogative del Parlamento, m’indusse a pigliar la
penna. Ma dalle considerazioni sul caso particolare fui naturalmente condotto
a meditare sopra i modi onde le istituzioni parlamentari si svolgono, e mi
apparvero in tutta la gravità loro taluni problemi, che sinora gli scrittori
più sommi di diritto costituzionale o hanno trascurato, o appena accennarono
non dando ad essi la debita importanza. Imperocché l’ordinamento del governo,
la maniera delle elezioni, le guarentigie della rappresentanza non sono al
certo l’obbietti precipuo al quale mira il cittadino. Il quale vuole godere
la massima libertà personale che sia compatibile colla sicurezza sociale,
vuole che la giustizia sia fatta sempre e imparzialmente, vuole che
l’amministrazione sia condotta con facilità, speditezza, e regolarità e col
rispetto del diritto di tutti. E’ questo, secondo la frase moderna, il
contenuto vero e sostanziale delle istituzioni politiche, le quali perciò si
riguardano piuttosto come mezzi al fine di assicurare siffatti beneficii al
cittadino. Ciò posto, la ragione e la esperienza dimostrano che il governo
parlamentare è un governo di partito, e come tale ha la tendenza a
favoreggiare gli amici, e ad opprimere gli avversari, e quindi s’ingerisce
indebitamente nella giustizia e nell’amministrazione, e ne perturba
l’andamento, e ne guasta gli effetti salutari. Di tal guisa la forma
distrugge la sostanza, e i mezzi tanto tantati a guarentigia. Si trovano
essere i contraddizione col fine. Ora se questi fatti fossero inevitabili,
bisognerebbe concluderne che il governo parlamentare poco s’addice a più
matura civiltà. Io son lungi dal pronunziare siffatta sentenza, anzi mi
sforzai di delineare alcuni rimedi che mi parrebbero convenienti a prevenire
il male o a ripararlo; ma non dubito di affermare che il problema proposto
affaticherà ancora lungamente le menti degli studiosi. Io sarò pago di averli
chiamato a meditare intorno a siffatto tema, e di avere lumeraggiato taluno
dei suoi aspetti più di nota. Ma ciò che mi pare indubitabile si è questa
conclusione: che la durata e la efficacia del sistema parlamentare
dipenderanno molto dal suo collegamento con ordini tali, i quali salvino la
giustizia e l’amministrazione dalla ingerenza dei partiti politici.
Marco
Minghetti - Della economia pubblica e della sua attinenza colla morale e col
diritto
Teledemocrazia:
sudditi o cittadini ?
Piccola
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Libera e i poteri neutri
La
libertà dei moderni tra liberalismo e democrazia
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