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FERMO E LUCIA
di Alessandro Manzoni
INTRODUZIONE
( PRIMA INTRODUZIONE CONTEMPORANEA ALLA STESURA DEI PRIMI
CAPITOLI)
«La Storia si
può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte: poiché
richiamando dal sepolcro gli anni già incadaveriti, gli passa di nuovo
in rassegna, e li ordina di nuovo in battaglia: onde i perspicaci ingegni che
in questo arringo raccolgono palme conservano al loro nome quella
immortalità che agli altri conferiscono. Ma questi nobili campioni della
memoria non fanno all'obblio se non furti splendidi e rapiscono soltanto le
spoglie le più ricche e brillanti, imbalsamando coi loro inchiostri i
fatti dei prencipi e potentati, e personaggi, tessendo come in feral tela le
battaglie, e trapuntando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta
che formano un perpetuo ricamo di azioni gloriose. Però non essendo alla
debolezza del mio ingegno concesse queste vittorie, ed avendo io osservato nel
lungo giro dei miei anni molte e straordinarie vicende le quali mi sono
sembrate degne di memoria, ma di memoria defraudate saranno e per essere
avvenute in gran parte a persone meccaniche e di bassa condizione e non avere
portata mutatione nelle ruote degli stati: ho stimato di lasciarne una
ricordanza ai posteri o almeno ai miei discendenti, collo scolpirle in queste
carte, parendomi che le cose private di questi tempi sieno meritevoli di quella
osservazione che i dotti danno alle cose mostruose, perché in picciolo teatro
vi si veggono luttuose tragedie di calamità, e scene di malvagità
grandiosa. Onde si vede esser vero quel detto che il mondo invecchiando
peggiora, ma non credo che sarà vero d'ora in poi, perché avendo il male
ormai passato i termini della comparazione, ha toccato l'apice del superlativo,
e il pessimo non è di peggioramento capace. Si vedrà anche come
l'umana malizia ha saputo superare tutti i ritegni, e spezzare tutti i freni
più ben temprati, avendo potuto moltiplicare ogni sorta di sevizie,
perfidie ed atti tirannici a dispetto delle leggi divine ed humane. E
considerando che questi stati sieno soggetti alla Maestà del re
Cattolico che è quel sole che mai non tramonta, e che sovra di essi con
riflesso lume qual luna risplenda chi ne fa le veci, e gli amplissimi senatori
quali stelle fisse vi scintillino, e gli altri magistrati come erranti pianeti
portino la luce in ogni parte, venendo così a formare un nobilissimo
cielo, si vedrà che gli atti tenebrosi che a malgrado di tante
provvidenze si sono moltiplicati essere altro non possono che arte e fattura
diabolica, poiché l'humana potenza del male bastare a tanto non dovrebbe.
Narrando adunque come fedele spettatore li accidenti singolari da me osservati,
tacerò per degni rispetti molti nomi di personaggi e di luoghi che
potrebbero servire come di indizio e di guida a trovare i personaggi nel covile
oscuro della dimenticanza: né per ciò si dirà che questa sia
imperfezione alla suddetta mia storia; a meno che non fosse letta da persone
ignare della filosofia, e gli uomini dotti ben vedranno che nulla manca alla
sostanza; perché essendo fuori di ogni dubitazione che il nome altro non
è che purissimo accidente...».
Aveva
trascritta fino a questo punto una curiosa storia del secolo decimosettimo,
colla intenzione di pubblicarla, quando per degni rispetti anch'io stimai che
fosse meglio conservare i fatti e rifarla di pianta. Senza fare una lunga
enumerazione dei giusti motivi che mi vi determinarono, accennerò
soltanto il vero e principale. L'autore di questa storia è andato
frammischiando alla narrazione ogni sorta di riflessioni sue proprie; a me
rileggendo il manoscritto ne venivano altre e diverse; paragonando
imparzialmente le sue e le mie, io veniva sempre a trovare queste ultime molto
più sensate, e per amore del vero ho preferito lo scrivere le mie a
copiare le altrui; stimando anche che chi ha una occasione per dire il suo
parere sopra che che sia non debba lasciarsela sfuggire.
Le mezze
confidenze del narratore e le ommissioni frequenti dei cognomi dei personaggi,
e dei nomi dei luoghi, non fanno a dir vero oscurità: veggio nullameno
per esperienza che sono fastidiose a chi legge, e avrei desiderato trovare
altrove ciò che è solamente indicato nel manoscritto, ma non mi
venne fatto: in qualche luogo però le indicazioni di luogo sono
così chiare e moltiplici che il nome si è potuto trovare
certamente e facilmente, ed allora l'ho scritto.
È qui
il luogo d'antivenire un'accusa la quale per grave e pericolosa ch'ella sia,
potrà leggermente esser data a questo scritto: cioè che non sia
altrimenti fondato sopra una storia vera di quel tempo, ma una pura invenzione
moderna. Prego coloro i quali fossero disposti ad ammettere questo sospetto, a
riflettere che essi verrebbero ad accusare l'editore niente meno che di aver
fatto romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale
ha gloria di non averne o pochissimi. E benché questa non sia la sola gloria
negativa di questa nostra letteratura pure bisogna conservarla gelosamente
intatta, al che ben provvedono quelle migliaja di lettori e di non lettori i
quali per opporsi a ogni sorta d'invasioni letterarie si occupano a dar se non
altro molti disgusti a coloro che tentano d'introdurre qualche novità.
Oltre di che questo genere, quand'anche non sia altro che una esposizione di
costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati è altrettanto falso e
frivolo, quanto vero e importante era ed è il poema epico e il romanzo
cavalleresco in versi. Per queste ragioni ognun vede quanta debba importare
all'editore di allontanare da sé questo sospetto. Certo, il migliore espediente
sarebbe di mostrare il manoscritto, ma a questo egli non può indursi per
altri e pur degni rispetti. Il più degno dei quali si è, che se
il manoscritto fosse mostrato a pochissimi ed amici, l'incredulità durerebbe,
e se a molti si diffonderebbe l'opinione che la vecchia e originale storia
è molto meglio scritta che la nuova e rifatta, che v'era in quella un
certo garbo, una certa naturalezza, un sapore di verità, un'aria di
contemporaneità che è svanita affatto nella copia. Si direbbe che
veramente il reo gusto del secolo si fa sentire nello stile del vecchio
scrittore ma che però vi è una certa fragranza (dico bene?) di
lingua che ben fa vedere che di poco era spirato quell'aureo cinquecento, quel
secolo nel quale tutto era puro, classico, lindo, semplice, nel quale la buona
lingua si respirava per così dire coll'aria, si attaccava da sé agli
scritti, dimodoché, cosa incredibile e vera! fino i conti delle cucine e gli
editti pubblici erano dettati in buono stile. Che se nel secolo susseguente
tutto si alterò, almeno almeno la corruttela non era straniera, era un
lusso un abuso delle ricchezze patrie, una sazietà del bello o almeno
non si leggevano ancora libri francesi, perché la Francia non aveva ancora
quegli insigni scrittori che per disgrazia delle lettere ebbe dappoi.
Non volendo
adunque mostrare il manoscritto originale, ha l'editore pensato un altro mezzo
per convincere i lettori della realtà di questa storia. I dubbj su di
essa non possono nascere da altro che dal non trovare verità nel
costume, nei fatti, e nei caratteri del tempo rappresentato: poiché se si
venisse a concedere che questa verità si trova, allora il dire che la
storia è inventata potrebbe quasi quasi parere più che un biasimo
una lode, dal che bisogna guardarsi ben bene. Ora per certificare i più
increduli che i costumi sono veramente quelli del tempo, l'editore propone loro
di fare ciò ch'egli stesso ha fatto per giungere a questo convincimento.
A dir vero molte gli parevano tanto strane, ch'egli non sapeva risolversi a
crederle realmente avvenute, perloché si pose a frugare molto nei libri e nelle
memorie d'ogni genere che possono dare una idea del costume e della storia
pubblica e privata del Milanese nella prima metà del secolo decimosettimo.
Tutte le sue ricerche lo condussero a risultati talmente somiglianti a
ciò che egli aveva veduto nel manoscritto che non gli rimase più
dubbio della veracità della storia che vi si contiene. Per comodo di chi
volesse rifare queste ricerche egli pone qui una scelta delle letture opportune
a mettere chicchessia in caso di giudicare da sé questo fatto.
Nota di
libri, memorie etc.
......
Ma di questi
libri, dirà taluno; alcuni sono difficili a ritrovarsi, e la più
parte nojosi a leggersi, e scritti in uno stile tra il goffo e il lezioso, tra
il barbaro e il pedantesco. Alcuni poi sono in latino e come pretendere che si
leggano libri latini per convincersi se una storia è vera o supposta?
Chi non sa che le signore non imparano pur troppo il latino, e che le signore
appunto sono quelle che più si dilettano di leggere storie private?
dimodoché i mezzi di fare questa verificazione sarebbero appunto interdetti a
chi più probabilmente avrà letta la storia. Rispondo anche a
questa obbiezione, pregando il lettore a non farmene più altre per non
farmi perdere il tempo in ciarle, e ritardare così quello che importa
cioè il racconto.
Rispondo
dunque: che fra i pochi lettori di questa storia, vi saranno certamente molti,
i quali benché virtualmente sappiano che nel passato vi sono stati gli anni
1628-29 e -30, non hanno però mai pensato a questi anni, e che molto
meno sanno che cosa in quegli anni si facesse, come si vivesse, se vi sia stato
un po' di fame, di guerra, e dl peste, e di quelle altre coserelle che si vedranno
in questa storia. Questi ch'io dico penseranno dunque a quest'epoca per la
prima volta leggendo questa storia, e da essa ne ricaveranno tutte le notizie.
E appena avranno letta qualche pagina cominceranno a trovare che la tal cosa
non è verisimile, che la tal altra non ha il colore del tempo e simili
scoperte. Ora fra questi lettori scommetterei che forse non vi sarà una
sola signora. In generale elle non conoscono la maniera dotta e ingegnosa di
leggere per cavillare lo scrittore, ma si prestano più facilmente a
ricevere le impressioni di verità, di bellezza, di benevolenza che uno
scritto può fare; quando non vi trovino nulla di simile, chiudono il
libro, lo ripongono senza gettarlo con rabbia, e non vi pensano più.
Sicché io confido che la veracità di questa storia esse la sentiranno
senza discuterla, che non si divertiranno a sottilizzare per trovare il falso
dove non è; e per conseguenza la nota riportata di sopra è
affatto inutile per loro.
V'è
poi un'altra obbiezione che non si può lasciare senza risposta, una
obbiezione che l'editore farebbe a se stesso quando fosse certo che non
verrà in capo a nessuno. La pubblicazione di questa storia non è
cosa affatto inutile, non è una occasione di far perdere qualche ora a
pochi lettori? Lettori miei, se dopo aver letto questo libro voi non trovate di
avere acquistata alcuna idea sulla storia dell'epoca che vi è descritta,
e sui mali dell'umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può
facilmente arrivare per diminuirli e in sé e negli altri, se leggendo voi non avete
in molte occasioni provato un sentimento di avversione al male di ogni genere,
di simpatia e di rispetto per tutto ciò che è pio, nobile, umano,
giusto, allora la pubblicazione di questo scritto sarà veramente
inutile, l'obbiezione sarà ragionevole, e l'editore avrà un
dispiacere reale del tempo, e che ha fatto gittare agli altri, e del molto
più che egli stesso vi ha speso.
INTRODUZIONE RIFATTA DA ULTIMO
«L'Historia
si può veramente chiamare una guerra meravigliosa contro la Morte;
perché togliendoli di mano gl'anni già suoi prigionieri, anzi già
fatti cadaveri, li chiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo
in battaglia. Ma li illustri Campioni che in tal arringo fanno messe di palme,
rapiscono soltanto le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando coi
loro inchiostri i fatti de Prencipi e Potentati e qualificati Personaggi,
tessendo come in feral tela i conflitti di Marte, e trapontando coll'ago
finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un perpetuo ricamo di
azzioni gloriose. Però alla mia debbolezza non è lecito
solleuarsi a tal argomenti, e sublimità pericolose; essendo che la
Politica rinchiusa nelli latiboli delli Gabinetti come la Dea cacciatrice
negl'horrori del fonte, secondo che attesta Ouidio, se qualche Atteone spinge
lo sguardo troppo curioso a spiare i suoi segreti, sprizzandoli l'acqua
misteriosa nel fronte, lo tremuta in ceruo, con diuenir bersaglio de veltri.
Solo che hauendo io hauuto notitia di fatti degni di memoria, auuegnaché
successi a gente meccaniche et di piccol affare, ho stimato bene di lasciarne
una ricordanza a posteri con scolpirli in queste carte. Nelle quali si vedranno
in piccol teatro luttuose Traggedie di calamità, et scene di
malvaggità grandiosa, con intermezi di imprese virtuose, et bontà
angeliche che s'oppongono all'operationi diaboliche. Et veramente considerando
che questi Stati sijno soggetti alla Maestà del Re Cattolico, che
è quel Sole che mai non tramonta, et che sopra di essi, con riflesso
lume, qual Luna non mai calante risplenda chi ne fa le veci, et gl'amplissimi
Senatori quali Stelle fisse vi scintillino, et gl'altri Magistrati come erranti
Pianeti portino la luce per ogni doue, venendo così a formare un
nobilissimo cielo, altra caggione non si può dare delli fatti tenebrosi,
prepotenze, sevitie ed atti tirannici che si vanno moltiplicando, se non se
arte e fattura diabolica: poiché l'humana malitia per se sola, forza bastante
hauer non dovrebbe per deludere la vigilanza di tanti Heroi, che vanno
continuamente trafficandosi per il pubblico emolumento. Perloché descrivendo
questo racconto auuenuto nelli tempi di mia gioventù, abbenché la
più parte delle Persone in esso nominate sijno passate ad altra vita,
pure tacerò per degni rispetti li loro nomi, et il medemo farò
delli luoghi, solo indicando li territorij senza specificar il paese. Nè
alcuno dirà che questa sij imperfezzione del racconto, a meno non sij
persona del tutto ignara della Filosofia: che quanto agl'huomini dotti, ben
vedranno nulla manca alla sostanza di detto racconto; perché essendo fuori
d'ogni dubitatione che i nomi altro non sono se non purissimi accidenti...»
Tale
è il proemio d'una curiosa storia, che avevamo animosamente impresa a
trascrivere da un dilavato autografo del secolo decimo settimo, ad intento di
pubblicarla. Ma copiate le poche righe che abbiam qui poste per saggio, il
fastidio che provammo d'una prosa così fatta ci fece avvertire a quello
che ne proverebbero i lettori, e intralasciare una fatica che sarebbe
probabilmente gittata. È ben vero che il nostro anonimo dopo essersi sul
principio sbizzarrito in concettini e in figure, piglia poi nel racconto un
andamento più posato e più piano, e solo di tratto in tratto
spicca qualche salterello d'ingegno, dove il soggetto lo richiede a parer suo.
Ma quando egli cessa d'esser gonfio diviene così pedestre! così
sguaiato! Anzi, come il lettore ha potuto accorgersene, ha l'arte di riunire
queste qualità opposte in apparenza, e d'esser rozzo insieme e affettato
nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo: arte del
resto comune a quasi tutti gli scrittori del suo tempo, nel paese dove egli
scrisse.
Ogni
epoca letteraria ha un carattere generale suo proprio, una maniera, per dir
così, che si fa scorgere a prima vista negli scritti dozzinali, e dalla
quale i più distinti e originali non vanno mai esenti del tutto. In
Italia poi, spesso e forse ad ogni epoca, oltre la maniera generale v'ebbe in
ciascuno Stato e principalmente in ciascuna città capitale una maniera
particolare per dir così una sotto-maniera che era una modificazione di
quella: ne riteneva alcuni caratteri e ne aveva altri suoi proprii. Erano come
tante varietà d'una specie. Di tutte queste differenze si ponno trovare
ad ogni caso molte cagioni nelle varie circostanze dei diversi stati: una
cagione comune è l'essere in ciascuno di essi adoperato nei discorsi un
dialetto particolare anche tra le persone colte. Ogni lingua, ogni dialetto
oltre i segni d'idee per così dire semplici e che hanno segni sinonimi
in ogni altra lingua, ha segni particolari, e ancor più frasi che
esprimono o accennano un giudizio o pongono la questione in un modo
particolare. La moltitudine di questi vocaboli e di queste frasi particolari dà
ad ogni dialetto un carattere, un colore suo proprio, e v'introduce una specie
di criterio individuale.
Quando
l'uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il
dialetto di cui egli s'è servito nelle occasioni più attive della
vita, per l'espressione più immediata e spontanea dei suoi sentimenti,
gli si affaccia da tutte le parti, s'attacca alle sue idee, se ne impadronisce,
anzi talvolta gli somministra le idee in una formola; gli cola dalla penna e se
egli non ha fatto uno studio particolare della lingua, farà il fondo del
suo scritto.
Di
questo colore municipale si è fatto in varii tempi rimprovero a molti
scrittori: che deturpasse gli scritti non v'ha dubbio: quanto agli scrittori,
prima di rimproverarli così acremente si sarebbe dovuto pensare che non
è cosa tanto facile prescindere da quelle formole alle quali sono unite
per abito tutte le memorie, tutti i sentimenti, tutta la vita intellettuale.
Non è cosa facile certamente; e non è pur certo se questo sia un mezzo
di far buoni libri.
Questa
irruzione inevitabile di ciascun dialetto negli scritti generalmente parlando,
ha quindi contribuito grandemente a dare agli scritti d'ogni parte d'Italia un
carattere speciale: carattere così distinto che un uomo il quale abbia
un po' frugato nelle opere buone e triste dei varii tempi della letteratura
italiana, potrà dal solo stile d'un'opera argomentar quasi sempre non
solo il secolo ma la patria dello scrittore, e apporsi. Lo stile lombardo per
esempio ha un carattere suo proprio riconoscibile in tutti i tempi, e quasi in
tutti gli scrittori. Due classi ne ritengono meno degli altri: quegli che hanno
fatto uno studio particolare della lingua toscana; e quegli altri che trattando
materie generali, discusse dai primi scrittori di Europa, si sono serviti di
uno stile per dir così europeo etc. etc.
Nella
seconda metà del secolo decimo settimo, quando scriveva il nostro
autore, quella maniera che dominava in tutta la letteratura italiana e ha
conservata una turpe celebrità sotto il nome di secentismo; e che
consisteva principalmente in uno sforzo per trovare il maraviglioso ebbe nei
diversi paesi d'Italia diverse modificazioni, e tendenze principali: dove fu
principalmente una affettazione di sagacità raffinata, dove una
esagerazione impetuosa d'idee di sentimenti e d'immagini. In Lombardia, dove
pochissime idee erano diffuse e ventilate, donde nessun libro veramente
importante era uscito fin allora, dove la lingua toscana si studiava pochissimo
e da pochissimi, e da nessuno per così dire le lingue straniere, le
quali del resto non avendo ancora opere ben pensate non potevan comunicare idee
in Lombardia dove alcuni pochi studii erano coltivati in un modo pedantesco, e
molti studii trascurati anzi sconosciuti, il linguaggio comune doveva esser
rozzo, incolto, inesatto, arbitrario, casuale; e lo era infatti al massimo
grado. Sur un tal fondo si ricamava poi di quelle arguzie, si appiccava quella
ricercatezza che era la tendenza generale di tutta la letteratura italiana; e
ne usciva quel complesso di goffaggine prosuntuosa, d'ignoranza affermativa,
quella continuità d'idee storte espresse in solecismi, lo scrivere
insomma di cui si è dato un saggio. E il nostro autore non era uno dei
peggiori del suo tempo: era anzi alquanto al di sopra della proporzione media:
ma in verità s'io avessi avuta la pazienza di trascrivere la sua storia
voi non avreste quella di leggerla.
La
storia però ci parve interessante, e ci sapeva male ch'ella dovesse
rimanersi sempre sconosciuta. Ci siamo quindi risoluti di rifarla interamente,
non pigliando dall'autore che i nudi fatti.
Ma,
rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi
abbiamo noi sostituito? Qui giace la lepre.
Che
giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata qua
e là, non solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola,
qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l'abbiamo presa,
perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte d'Italia, si
fanno intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo
conosciute frasi dello stesso valore, le quali fossero non solo intelligibili,
ma adoperate negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le
avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando di buona voglia l'imitazione
d'una verità locale alla purezza della lingua; persuasi come siamo che
quel primo vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si
possa conciliare col secondo.
Oh!
dirà qui taluno, è questa una giustificazione o una burla? Come
pensate voi a scusarvi di quella picciola libertà, quando una
così grande e così strana ne avrete presa in ogni luogo? quando
tutta questa vostra dicitura è un composto indigesto di frasi un po'
lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che
non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e
per estensione o dall'una o dall'altra di esse? quando perfino conciliando,
come il nostro autore, due vizii opposti avete più d'una volta peccato
di arcaismo e di gallicismo in un solo vocabolo? dimodoché non si potrà
forse nemmeno dire dove specialmente pecchi questa lingua che adoperate, e non
si può dire se non che è cattiva lingua. Voi fate come chi dopo
aver pesto un galantuomo a furia di sassate gli chiedesse poi scusa di avergli
fatta qualche picciola macchia su l'abito.
Ringrazio
prima di tutto, molto cordialmente il cortese che mi fa questa censura; perché
dessa prova ch'egli ha letto o tutto o almeno in gran parte il mio scritto. E
appresso, lo prego di scusarmi se non gli posso rispondere. Non è
già ch'io non abbia ragioni da addurre per mia discolpa, non è
nemmeno perché io mi vergogni di diffondermi in un sì frivolo argomento
come sarebbe la mia propria giustificazione: giacché lasciando da parte questa
miserabile applicazione, la questione generale è per sè vasta e
importante. E questo appunto è il motivo per cui non posso rispondere al
cortese censore; perché le ragioni son troppe. Ci bisognerebbe un libro: e il
cortese censore sarà d'accordo con me che di libri uno per volta
è sufficiente, quando non è troppo.
Basta
all'autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi
legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno
per gloria lo scriver male. Per gloria! quand'anche ella fosse impresa
difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe
toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all'autore che egli parli di
sè: è un privilegio delle prefazioni, un picciolo e troppo giusto
sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio
dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo
in opera. I doni dell'ingegno non si acquistano, come lo indica il nome stesso;
ma tutto ciò che lo studio, che la diligenza possono dare, non istarebbe
certamente per me ch'io non lo acquistassi.
Che
cosa poi significhi scriver bene non credo che alcuno possa definirlo in
poche parole, e per me, anche con moltissime non ne verrei a capo. Ecco
però alcune delle idee che mi sembra doversi intendere in quella
formola. A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi,
che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori
(moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate
nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un'altra lingua, quando
che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono
passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso
senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate
all'uno e all'altro uso. Parole e frasi divenute per quest'uso generale ed
esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le
riconosca appena udite; dimodoché se un parlatore o uno scrittore per caso
adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un
senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare
che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario,
né ricordarsi (memoria negativa che debb'esser molto difficile) che quella
parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti
appellarsene alla memoria, all'uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali
fossero mille, converranno tosto del sì o del no.
Parole
e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l'egregio cavino
dallo stesso fondo, e dopo d'averli uditi successivamente, un uomo colto senta
fra di loro differenza d'idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di lingua.
Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e immedesimate col loro
significato, che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa
servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza
oscurità e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l'idea
comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in quell'uso
particolare.
Per
bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie
due condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l'ingegno) le
conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che
abbia posto studio nell'udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa
condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi adottate
esclusivamente per convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e
parlatori, come d'accordo, abbiano formata questa lingua ch'egli debbe
scrivere, gli abbiano preparati i materiali. Se in Italia vi sia una lingua che
abbia questa condizione, è una quistione su la quale non ardisco dire il
mio parere. È ben certo che v'ha molte lingue particolari a diverse
parti d'Italia, che in una sfera molto ristretta di idee certamente, ma hanno
quell'universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una,
nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa
arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un
barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse
altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n'ha un'altra
in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di
tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc.
ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la quale,
fino ad una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc.
era al livello delle cognizioni europee, lo sia ancora, se possa somministrare
frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto libri sempre
pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un'altra
quistione su la quale non ardisco dire il mio parere.
Frattanto,
desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori convengano una
volta dove sia questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico tutti, o il
grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono aver ragione soli
in una tal materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel che
convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è:
è quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se
esista o no questo universale o quasi universale uso d'una lingua comune. E a
dir vero il solo cercarla è un gran pregiudizio ch'ella non vi sia.
Certo dove ella v'è, non si fa la quistione, e se uno la proponesse, non
sarebbe pure inteso.
TOMO PRIMO
CAPITOLO I
IL CURATO DI...
Quel
ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene non
interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni
e per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si viene tutto ad
un tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un corso
diretto e continuato di modo che dalla riva si può per dir così
segnare il punto dove il lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo
congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all'occhio ed
all'orecchio questa trasformazione: poiché gli argini perpendicolari che lo
fiancheggiano non lasciano venir le onde a battere sulla riva ma le avviano
rapide sotto gli archi; e presso quegli argini uno può quasi sentire il
doppio e diverso romore dell'acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli
cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata dalle pile di macigno scorre
sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale. Dalla parte che
guarda a settentrione e che a quel punto si può chiamare la riva destra
dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato alla estrema falda del Monte
di San Michele, il quale si bagnerebbe nel fiume se l'argine non vi fosse
frapposto. Ma dall'opposto lato il ponte è appoggiato al lembo di una
riviera che scende verso il lago con un molle pendio, sul quale per lungo
tratto il passaggero può quasi credere di scorrere una perfetta pianura.
Questa riviera è manifestamente formata da tre grossi torrenti i quali
spingendo la ghiaja, i ciottoli, e i massi rotolanti dal monte, hanno a poco a
poco spinte le rive avanti nel lago, ed erano abbastanza vicini perché le
ghiaje gettate da essi a destra e a sinistra abbiano potuto col tempo toccarsi
e formare un terreno sodo. Allora hanno cominciato a correre in un letto
alquanto più regolare, poiché questi stessi depositi hanno loro servito
d'argine, e il successivo loro impicciolimento cagionato dall'abbassamento dei
monti, dal diboscamento, e dalla dispersione delle acque gli ha rinchiusi in un
letto più angusto. Così il terreno che li divide ha potuto essere
abitato e coltivato dagli uomini. Il lembo della riviera che viene a morire nel
lago è di nuda e grossa arena presso ai torrenti, e uliginoso negli
intervalli, ma appena appena dove il terreno s'alza al disopra delle
escrescenze del lago e del traripamento della foce dei torrenti, ivi tutto
è prati campagne e vigneti, e questo tratto d'ineguale lunghezza
è in alcuni luoghi forse d'un miglio. Dove il pendio diventa più
ripido son più frequenti, e assai più lo erano per lo passato,
gli ulivi; al disopra di questi e sulle falde antiche dei monti cominciano le
selve di castagni, e al di sopra di queste sorgono le ultime creste dei monti
in parte nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli verdissimi, in
parte coperte di carpini, di faggi, e di qualche abete. Fra questi alberi
crescono pure varie specie di sorbi, e di dafani, il cameceraso, il rododendro
ferrugigno, ed altre piante montane le quali rallegrano e sorprendono il cittadino
dilettante di giardini che per la prima volta le vede in quei boschi, e che non
avendole incontrate che negli orti e nei giardini è avvezzo a
considerarle colla fantasia come quasi un prodotto della coltura artificiale
piuttosto che una spontanea creazione della natura. Dove però la mano
dell'uomo ha potuto portare una più fruttifera coltivazione fino presso
alle vette, non ha lasciato di farlo, e si vedono di tratto in tratto dei
piccioli vigneti posti su un rapido pendio, e che terminano col nudo sasso del
comignolo. La riviera è tutta sparsa di case e di villaggi: altri alla
riva del lago, anzi nel lago stesso quando le sue acque s'innalzano per le
piogge, altri sui varj punti del pendio, fino al punto dove la montagna
è nuda, perpendicolare, ed inabitabile.
Lecco
è la principale di queste terre e dà il nome alla riviera: un
grosso borgo a questi tempi, e che altre volte aveva l'onore di essere un
discretamente forte castello, onore al quale andava unito il piacere di avervi
una stabile guarnigione, ed un comandante, che all'epoca in cui accade la
storia che siamo per narrare era spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre,
dalle montagne al lago, da una montagna all'altra corrono molte stradicciuole
ora erte, ora dolcemente pendenti, ora piane, chiuse per lo più da muri
fatti di grossi ciottoloni, e coperti qua e là di antiche edere le
quali, dopo aver colle barbe divorato il cemento, ficcano le barbe stesse fra
un sasso e l'altro, e servono esse di cemento al muro che tutto nascondono. Di
tempo in tempo invece di muri passano le anguste strade fra siepi nelle quali
al pruno e al biancospino s'intreccia di tratto in tratto il melagrano, il
gelsomino, il lilac e il filadelfo. Una di queste strade percorre tutta la
riviera ora abbassandosi, ora tirando più verso il monte, ora in mezzo
alle vigne, ed ora sulla linea che divide i colti dalle selve. Questa strada
è talvolta seppellita fra due muri che superano la testa del passaggero,
dimodoché egli non vede altro che il cielo e le vette dei monti: ma spesso
lascia un libero campo alla vista la quale quasi ad ogni passo scopre nuovi
ampi e bellissimi prospetti. Poiché guardando verso settentrione tu vedi il
lago chiuso nei monti, che sporgono innanzi e rientrano, e formano ad ogni
tratto seni, o ameni o tetri, finché la vista si perde in uno sfondo azzurro di
acque e di montagne; verso mezzogiorno vedi l'Adda che appena uscita dagli
archi del ponte torna a pigliar figura di lago, e poi si ristringe ancora e
scorre come fiume dove il letto è occupato da banchi di sabbia portati
da torrenti, che formano come tanti istmi: dimodoché l'acqua si vede
prolungarsi fino all'orizzonte come una larga e lucida spira. Sul capo hai i
massi nudi e giganteschi, e le foreste, e guardando sotto di te, e in faccia,
vedi il lungo pendio distinto dalle varie colture, che sembrano strisce di varj
verdi, il ponte ed un breve tratto di fiume fra due larghi e limpidi stagni, e
poscia risalendo collo sguardo lo arresti sul Monte Barro che ti sorge in
faccia, e chiude il lago dall'altra parte. Ma non termina quel monte la vista
da ogni parte, poiché di promontorio in promontorio declina fino ad una valle
che lo separa dal monte vicino; e come in alcune parti la stradetta si eleva al
disopra del livello di questa valle, da quei punti il tuo occhio segue fra i
due monti che hai in prospetto un'apertura che dalla valle ti lascia travedere
qualche parte dell'amenissimo piano che è posto al mezzogiorno del Monte
Barro. La giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto
concorre a renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo,
se avendovi passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le
vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è
impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le
memorie di quegli anni.
Su
questa stradetta veniva lentamente dicendo l'ufizio, ed avviandosi verso casa,
una bella sera d'autunno dell'anno 1628, il Curato di una di quelle terre che
abbiamo accennate di sopra. (Questa è la prima reticenza del nostro
storico). Talvolta tra un salmo e l'altro metteva l'indice nel breviario al
luogo dov'era rimasto, e tenendo così socchiuso il libro nella destra
mano, e la destra nella sinistra dietro le spalle, continuava il suo passeggio
guardando in qua e in là, e ripigliando i pensieri oziosi che erano
stati sospesi così così nel tempo che aveva recitata l'ultima
parte di ufizio. Uscendo poi da questa meditazione egli girava gli occhi
intorno, e arrestava lo sguardo sulle cime del monte, osservando come aveva
fatto tante altre volte sul monte i riflessi del sole già nascosto, ma
che mandava ancora la sua luce sulle alture, distendendo sulle rupi e sui massi
sporgenti come larghi strati di porpora.
Ripigliato
poscia il breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse ad una rivolta
della strada dov'era solito di alzar gli occhi dal libro e di guardare quasi
macchinalmente dinnanzi a sè, e così fece anche quel giorno. Dopo
la rivolta la strada andava diritta forse un centinajo di passi, e poi si
divideva; a destra saliva verso il monte, e dall'altro lato scendeva nella
valle fino ad un torrente. Da questa parte il muro non giungeva che all'anche
del passaggero, e lasciava libera la vista del pendio sottoposto, fino al
torrente, e ad un pezzo di monte che lo rinchiudeva dall'altra parte. In faccia
a colui che aveva voltata la strada, e alla separazione delle due strade v'era
una cappelletta sulla quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, e
terminate in punta che nella intenzione del pittore, e agli occhi degli
abitanti del vicinato volevano dir fiamme, e fra l'una e l'altra certe altre
figure da non potersi descrivere, che volevano dire anime del purgatorio; anime
e fiamme color di mattone su un fondo bianco con qualche scrostatura in varie parti.
Al rivolgimento dunque della strada alzando gli occhi verso la cappelletta il
nostro Curato vide una cosa che non si aspettava e che non avrebbe voluta
vedere. Due uomini stavano uno rimpetto all'altro ai due capi della strada: uno
seduto a cavalcioni sul muricciuolo con l'un piede appoggiato sul terreno della
strada e l'altro penzoloni giù lungo il muro, l'altro in piedi
appoggiato al muro con una gamba sopra l'altra, e le braccia incrocicchiate
sotto le ascelle. L'abito e il portamento non lasciavano dubbio della loro
professione. Avevano entrambi una reticella verde in capo la quale cadeva su
una spalla terminata in un gran fiocco di seta: due grandi mustacchi inanellati
all'estremità, il lembo del farsetto coperto e avviluppato da una cintura
lucida di cuojo, ripiena di cartoccini di polvere, ed alla quale erano appese
due pistole con uncini: un picciol corno ripieno di polvere appeso al collo
come i vezzi delle signore: alla parte destra delle larghe e gonfie brache una
tasca donde usciva un manico di coltellaccio, due legacce rosse al disotto del
ginocchio a un dipresso come i cavalieri della giarrettiera: uno spadone
dall'altro lato con una elsa di lamette d'ottone attorcigliate come una cifra;
al primo aspetto si mostravano di quella specie d'uomini tanto comune a quei
tempi, che avevano nome di bravi, specie che ora si è del tutto perduta
come tante altre buone istituzioni.
Che
quei due stessero lì aspettando qualcheduno era cosa troppo evidente; ma
quello che più spiacque al Curato fu di accorgersi per certi atti che
quegli che aspettavano era egli poiché al suo apparire si erano guardati
alzando la testa, con un moto che dava a divedere che avevan detto tutti e due
a un tratto: egli è desso: e quegli che stava a cavalcioni tirò
la sua gamba sulla strada e si alzò, l'altro si staccò dal muro;
e si avvicinarono rivolti verso il curato. Questi tenendo sempre il breviario
aperto dinanzi come se leggesse, alzava gli occhi per ispiare i loro movimenti
e vedendoli inviarsi così verso di lui, mille pensieri alla rinfusa gli
corsero pel capo. Domandò subito in fretta a se stesso, se tra i bravi e
lui vi fosse qualche uscita di strada a dritta o a sinistra, e gli sovvenne
tosto di no. Pensava se avesse qualche inimicizia, se potesse temere qualche vendetta,
e in quel turbamento il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava
alquanto; ma i bravi si avvicinavano. Pose la mano nel collare, come per
ricomporlo e intanto piegò indietro la testa e guardò colla coda
dell'occhio fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse, e non vide nessuno.
Diede un'occhiata al disopra del muricciolo, nei campi; nessuno: guardò
sulla via che gli era dinanzi; nessuno fuorché i bravi. Che fare? tornare
indietro, non era a tempo: fuggire; era lo stesso che farsi inseguire, o peggio.
Non potendo fuggire il pericolo gli corse incontro; perché i momenti di quella
incertezza erano allora così penosi per lui che non desiderava altro che
di abbreviarli: allungò il passo, recitò un versetto a voce
più alta, compose la faccia a tutta quella quiete ed ilarità che
potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso, e quando fu accostato
dai due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò sui due
piedi.
«Signor
curato»: disse uno di quei due, piantandogli gli occhi in faccia.
«Chi
mi comanda?» rispose subito il curato alzando gli occhi dal libro e tenendolo
spalancato e sospeso con ambe le mani.
«Ella
ha intenzione», proseguì l'altro, «di sposare domani Fermo Spolino, e
Lucia Zarella».
«Non
lo posso negare»: rispose il curato col tuono d'un uomo convinto d'una trista
azione; e soggiunse tosto: «io non c'entro: fanno gli aggiustamenti fra di
loro, vengono da noi, noi siamo i servitori del pubblico...»
«Bene
bene», interruppe il bravo, «questo matrimonio non si deve fare, ma né domani
né mai». «Ma, Signori miei», replicò il curato colla voce d'un uomo che
vuol persuadere un impaziente, «ma signori miei, si degnino di mettersi nei
miei panni: se la cosa dipendesse da me...»
«Orsù»
interruppe ancora il bravo che pareva avesse giurato di non lasciargli compire
un periodo, «se la cosa andasse a ciarle, ella ne avrebbe più di noi: ma
noi non sappiamo né vogliamo sapere altro: era nostro dovere d'avvisarla e
l'abbiamo fatto». «Ma loro signori son troppo giusti, e ragionevoli...»
«Ma»,
interruppe questa volta quell'altro che non aveva parlato fino allora, «ma il
matrimonio non si farà e» (qui una buona bestemmia) «chi lo farà
non se ne pentirà perché non ne avrà tempo e...»
«Zitto,
zitto», ripigliò quell'altro, «il signor Curato sa che noi siamo
galantuomini, e non vogliamo fargli del male, se egli opererà da
galantuomo. Signor Curato, ci ha intesi, l'illustrissimo Signor Don Rodrigo
nostro padrone le fa i suoi complimenti». «Se mi sapessero suggerire;...» disse
il curato: «Oh! suggerire a lei che sa il latino!», rispose il bravo con un
riso tra lo sguajato e il feroce. «Ella troverà un mezzo, Signor curato,
e sopratutto non si lasci uscire una parola di questo avviso che le abbiamo
dato per suo bene, perché altrimenti sarebbe per lei come se avesse fatto quel
tal matrimonio. Buona notte Signor Curato». Così dicendo, si
svilupparono dal curato, il quale pochi momenti prima avrebbe dato qualche gran
cosa per isfuggirli, e allora avrebbe voluto prolungare la conversazione, e
avviandosi dalla parte donde egli era venuto, presero la strada, cantando una
canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero Curato pigliò delle
due strade quella che andava a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba
dopo l'altra, che gli parevano ingranchite, e con animo che il lettore
comprenderà meglio dopo d'avere appreso qualche cosa di più
dell'indole di questo personaggio, e della condizione dei tempi in cui gli era
toccato di vivere.
.......
L'impunità
era organizzata, e aveva molte altre cause di simil genere, e la trepidazione
nell'eseguire le gride nata da queste cause, e la sicurezza già antica
nei trasgressori educati a soperchiare. Ora questa impunità minacciata
ed insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva ad ogni minaccia e ad ogni insulto
fare nuovi sforzi per conservarsi, aumentare la sua forza, resistere,
atterrire, tenersi unita, e così faceva difatti. Quindi la grida al suo
nascere trovava molta gente che aveva già prese le disposizioni
necessarie per continuare a fare ciò ch'ella veniva a proibire. Nessuna
libertà nelle cose oneste perché col fine di aver sotto la mano ogni
uomo per prevenire e punire ogni delitto, le gride assoggettavano ogni mossa
del privato al volere arbitrario di mille magistrati, ed esecutori d'ogni
sorta. Ma chi si era messo in istato di guerra colle gride, e cogli ordini
d'ogni specie, chi aveva già disposti i suoi mezzi di difesa nella forza
aperta, o nelle astuzie legali, o nella protezione, o nella connivenza allora
comune e scandalosa dei giudici, chi poteva e voleva ammazzare o dar la mancia
ad un birro, quegli era libero nelle sue operazioni, al sicuro delle gride, e
in caso di rivolgerle anche contro gli altri quando i suoi mezzi privati non
fossero stati bastanti. Accadeva a taluno di costoro di morire di morte violenta,
di esser sbanditi, vivevano in continuo sospetto, che vuol dire, erano nella
condizione di tutti i loro contemporanei. Quegli stessi che non avevano un
animo provocatore ed ingiusto si trovavano come costretti di guardarsi e di
stare sulle difese, il che teneva per dir così una quantità di
forze sempre in presenza e dava a tutta la società un'aria di sospetto,
di offesa. Ad ogni momento tutto era pronto, per venire alle mani.
L'uomo
che teme l'offesa e che vuole offendere, cerca compagni, quindi la tendenza
universale a quei tempi di arruolarsi per dir così, in classi, in corpi,
in maestranze, in confraternite. Alcune classi già anticamente
costituite avevano anche per questa circostanza una forza preponderante e
spaventosa, quindi gli altri per non trovarsi sempre individui contra una
società, dovevano esser contenti di trovare un motivo per riunirsi, di
avere deliberazioni, massime comuni, privilegi, e una bandiera, e di potere,
quando fossero toccati, rivolgere le forze solidali di molti a loro difesa. Il
clero era geloso sostenitore delle sue immunità, e come ad esso stava in
gran parte il decidere fin dove giungessero, non si deve domandare se le
estendesse fin dove potevano, e fin dove non potevano giungere. Che gli
ecclesiastici vuoti di spirito sacerdotale, ambiziosi, violenti, avari
riponessero tutta la religione in questa immunità non è da
stupirsene, poiché è chiaro che è cosa molto comoda l'avere una
scomunica da opporre ad una ragione, e cessare ogni pericolo con un privilegio
d'inviolabilità indefinita. Ma quello che merita più
considerazione si è come i buoni non cedessero ai tristi in questa
specie di zelo, come uomini pii e d'una virtù molto superiore alla
onestà, uomini certamente di alto ingegno, potessero combattere
acremente, lungamente, mettere tutto a repentaglio per pretese, le quali non
sembra che non possano conciliarsi col minimo grado di riflessione, e con un
grano di buona fede. Per ispiegare questo fenomeno si dice che erano idee del
tempo alle quali i migliori e più sinceri intelletti pagavano tributo
come gli altri. Ma questa spiegazione non ha senso se non si trovano le cagioni
per cui essi pure dovessero affezionarsi a queste idee, quando il loro amore
per la verità, e la loro attitudine a trovarla dovevano condurli a scoprire
il debole di queste idee. Le quali cagioni appariscono chiare a chi dà
una occhiata allo stato della società in quei tempi. Tante erano le
volontà d'impedire ogni esercizio delle facoltà le più
legittime, d'inceppare ogni diritto, e queste volontà erano così
potenti, che il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a malgrado
di esse, senza avere una forza propria. Quindi tribunali civili e criminali per
assicurare ai suoi membri una giustizia imparziale o per opporre una parzialità
ad un'altra, quindi minacce spirituali e temporali ad ogni attentato contro le
persone o i beni del clero, quindi forza per eseguire le sue leggi etc.
Malgrado queste immunità, le quali con nome non affatto improprio allora
si chiamavano libertà, il Clero si trovava ad ogni istante inceppato da
altre forze organizzate, non è quindi da maravigliarsi se i meno
ambiziosi le credessero non solo necessarie, ma insufficenti, se cercassero di
estenderle, se vedessero nella diminuzione di quelle, la diminuzione della
religione stessa, e se gridassero altamente che chi le intaccava, voleva
rendere impossibile l'esercizio della religione stessa. Tutto questo non
è detto per provare che avessero ragione di pensare e di operare a quel
modo, ma per ridurre il torto alla sua giusta misura, e per ricondurlo alle sue
vere cagioni, e per riflettere che vi hanno degli inconvenienti che oltre il
male diretto che fanno, ne producono dei grandissimi forzando quasi gli uomini
a cercare dei rimedi che non sono né ragionevoli, né perfettamente onesti, e
che oltre l'effetto per cui sono posti in opera ne producono molti altri
impreveduti e pessimi.
Abbondio
non nobile, non ricco, non animoso, si era presto avveduto di essere nella
società come il vaso di terra cotta in compagnia di molti vasi di bronzo
sempre in movimento. Aveva quindi secondata assai lietamente la volontà
dei suoi parenti che lo avevano avviato allo stato ecclesiastico. A dir vero il
suo fine principale non era stato quello di servire agli altri col ministero.
Egli aveva pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe
rispettata e forte, nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite
degli altri. Ma non basta appartenere ad una classe per goderne tutti i
vantaggi, come ognun sa: bisogna anche che l'individuo sappia dirizzare a suo
uso il più che può delle forze che la sua società
può mettere in opera, e non v'è organizzazione comune che
dispensi l'individuo dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio non
poteva adottare un sistema nel quale fosse necessaria una qualunque parte di
risoluzione, di attività, di resistenza, e altronde alla fin fine il
pover'uomo non domandava altro che quiete, vivere e lasciar vivere, come si
dice. Il suo sistema era dunque di evitare tutti i contrasti, e di cedere in
quelli che non avesse potuto evitare. Se egli era assolutamente forzato a
prender parte fra due contendenti, stava dalla parte più forte,
procurando però di far vedere all'altro ch'egli non gli era
volontariamente avverso, che potendo fare a suo modo sarebbe stato neutrale:
pareva che gli dicesse: — Ma perché non avete saputo essere il più
forte? io sarei allora con voi. — Con queste arti il pover'uomo era riuscito a
poter giungere senza forti burrasche fino all'età di cinquant'anni.
Ma
il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio a se stesso di esser
mosso da principj bassi e da non confessarsi; e si era quindi fatto (come
accade sempre) una dottrina sua propria, secondo la quale la sua condotta era
ragionevole anzi la sola ragionevole e onesta. Quando poi si vide in
virtù di questa sua buona condotta, bastantemente al coperto dalle
offese altrui, pensò, come accade, ad attaccare, e divenne un rigido
censore delle azioni e degli uomini che non tenevano la sua condotta, quando
però questa sua censura potesse esercitarsi senza alcuno anche lontano
pericolo.
Chi
era stato percosso e non era in caso di far vendetta era almeno almeno un
imprudente, un ammazzato era certamente un torbido, e se non lasciava parenti
irritati della sua morte, era un birbante; ma chi aveva commesso un omicidio
poteva esser certo che Don Abbondio non gli avrebbe mai trovato un difetto.
Quello poi che più gli dava collera era il vedere qualcuno dei suoi
confratelli pigliare le parti di un debole, difenderlo contro una soperchieria.
Questo chiamava egli un comprarsi le brighe a contanti, un volere addirizzare
le gambe ai cani. I potenti, i ricchi, i facinorosi, i protettori, i protetti,
insomma i vittoriosi d'ogni genere erano per lui uomini d'oro, e ne parlava
sempre col mele alla bocca. E se qualche seccatore trovava da apporre ad alcuno
di questi, mettendo il discorso sopra qualche grossa bricconeria commessa da
alcuno di questi grandi galantuomini, Don Abbondio si metteva a declamare
contro quel vizio di pretendere che gli uomini sieno perfetti. E quanto a
quelli che avevano sofferto di quella bricconeria, egli sapeva trovar loro
qualche torto, il che non è mai difficile, perché tra lo scellerato e
l'onesto, la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così
netto che l'uno stia tutto da una parte, e l'altro tutto dall'altra. E
sigillava sempre il discorso col suo assioma favorito, proferendo il quale
rifletteva con compiacenza sopra di sè: e l'assioma era: che ad un
galantuomo che vuol viver quieto, che sa stare nel fatto suo, non accadono mai
brutti incontri.
S'immagini
ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don Abbondio.
L'impressione di spavento per quei visi e per quelle minacce, l'idea d'un
pericolo associata a ogni momento dell'avvenire, il frutto di tanti anni di
studio e di politica perduto in un giorno, l'unica teoria sulla quale era
fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto,
pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita. Poiché
se si avesse potuto mandare in pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe stato
finito, essendo la coscienza di Don Abbondio bastantemente soddisfatta della
idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà delle ragioni, e
non istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il
mondo, troverà strano questo ritardo, e molto più una ripulsa,
mormorerà, e che cosa rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato da
questi pensieri il nostro Curato per sollevarsi un poco si scatenava in suo
cuore contro chi era venuto a togliergli per sempre la sua pace. Egli non
conosceva Don Rodrigo che di nome, e di vista, e non aveva avuta altra
relazione con lui che di fargli una grande scappellata quando lo incontrava e
di riceverne un mezzo saluto di protezione. Gli era occorso talvolta di
difenderlo, quando si parlasse di qualche soperchieria da lui fatta, e aveva
detto forse cento volte che Don Rodrigo era un degno cavaliere. Ma ora gli
diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali l'aveva difeso in altre occasioni.
Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei due sposi che in fondo erano la
prima cagione di una tanta sua angustia. Ragazzi, — andava ripetendo — ragazzi,
non pensano che a maritarsi e non si fanno carico dei fastidj in cui pongono un
galantuomo.
Colla
compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e
andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva
Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo
mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri
sul volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di
Don Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in
tutta la persona che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi
della vecchia Vittoria.
«Ma
che cosa ha, Signor padrone?»
«Niente
niente».
Questa
risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la
contò per una risposta, e proseguì.
«Come,
niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad
intendere?...»
«Quando
dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente,
o è cosa che non posso dire». Vittoria, vedendolo più presso alla
confessione che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre
più incalzando.
«Che
non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della
sua salute? Chi rimedierà?...»
«Tacete,
tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò».
Quando
Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la cosa era
grave, e giurò a se stessa di non lasciare andare a dormire il Curato
senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa
ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?»
«Sì sì, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in
sospetto». «Ma io non dirò niente se ella mi toglie da questa
inquietudine». «Non direte niente come quando siete corsa a ripetere alla serva
del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete
messo nel caso di domandargli scusa, come quando...» Vittoria sarebbe qui
montata sulle furie se non avesse avuto un secreto da scavare, e se non avesse
pensato che nulla allontana da questo intento come il piatire sopra cose
estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma in aria sommessa: «Oh per amor del
cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben castigata, non aveva
creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor
padrone, se io parlo...» «Via, via, non giurate». «Ma vorrei poterla soccorrere,
chi sa che io non abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre servita di
cuore e con attenzione, ma ella sa», e qui fece voce da piangere, «ella sa che
i misterj non li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...»
In
fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde fattigli
ripetere seriamente i più grandi giuramenti le narrò il
miserabile caso, mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo, e
l'inquietudine del fatto che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi
e ristette colla posata alzata nel pugno che tenne puntato sulla tavola.
«Misericordia!» sclamò Vittoria: «oh gente senza timor di Dio, oh
prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!»
«Zitto zitto, a che serve tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?»
«Oh! vedete», disse il curato in collera, «i bei pareri che mi dà
costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse
ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela». «Sa il cielo se me ne
spiace, Signor padrone, ma bisogna pensarci». «Sicuro, e nell'imbroglio son
io».
«Pur
troppo», disse Vittoria, «ma non si lasci spaventare: eh! se costoro potessero
aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare ma non strafare:
e qualche volta cane che abbaja non morde». «Lo conoscete voi questo cane? e
sapete quante volte ha morso?...» «Lo conosco e so bene che...» «Zitto, zitto,
questo non serve». «Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma
intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone».
«Ma
se non ho voglia». «Ma se le farà bene», e detto questo, si
avvicinò al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto come per
dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla
tavola: il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo
di tempo in tempo qualche esclamazione, come: — Una bagattella! ad un
galantuomo par mio: — ed altre simili, se ne andò a letto colla
intenzione di consultare tranquillamente, e ordinatamente sui casi suoi.
CAPITOLO II
FERMO
La
consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza, e
la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere
invitata, e ricevere L'incarico di proporre il partito, e così fu. Senza
annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi
accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che
si doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu nemmeno discusso, che si
pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal
tempo, ma questo anche fu rigettato perché non v'era spazio per eseguirlo. La
celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza
di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il
colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci, e rendiconti. Fu però
riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di
agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo
esperimento; passò in rassegna tutti i mezzi di superiorità e
d'influenza che l'autorità, la scienza, (in paragone di Fermo), e la
pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli
giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente
nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare, e appena
appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione, vi
andò colla lieta impazienza di un giovane che in quel giorno deve
sposare quella ch'egli ama. Era Fermo un tessitore di seta, sorta d'industria
che da una grande attività era allora in decadenza, ma non però
al segno che l'operajo abile non potesse onestamente vivere del suo lavoro.
L'emigrazione di molti lavoranti suppliva per così dire alla diminuzione
del lavoro lasciandone a sufficienza a quelli che rimanevano. In progresso di
tempo crescendo a dismisura le cause che avevano diminuita quella industria,
essa fu ridotta quasi a niente. Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo
di terra che faceva lavorare, e che lavorava egli stesso nel tempo in cui era
disoccupato dal filatojo, dimodoché non aveva a contrastare col bisogno. Era in
quel giorno vestito dalla festa con piume di vario colore al cappello, col suo
coltello dal bel manico, e mostrando in tutto l'abito e nel portamento un'aria
di festa e nello stesso tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli
uomini i più quieti, come infatti era Fermo. L'accoglimento serio,
freddo, misterioso di Don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi
gioviali e risoluti di Fermo. Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo
fra quei due: «Son venuto, signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che
ora le convenga che noi veniamo alla Chiesa».
«Di
che giorno intendete?»
«Oggi,
Signor curato; non siamo intesi così?»
«Oggi?»
replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi,
non posso».
«Come
non può? che cosa è accaduto?»
«Prima
di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma
grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch'ella ha da fare
è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»
«E
poi, e poi, e poi...»
«E
poi che cosa, Signor curato?»
«E
poi ci sono degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli?
che imbrogli ci ponno essere?»
«Avete
buon tempo voi altri, che non vi pigliate briga di niente, e vi fate servire, e
non avete conti da rendere. Ma io sono troppo dolce di cuore, procuro di
togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di fare quello che gli altri
vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio».
«Ma
per carità, non mi tenga così sulla corda; mi dica che cosa
c'è».
«Sapete
voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio che
non levi il sonno a chi lo ha fatto?»
«Ma
queste formalità non si sono già fatte?»
«Fatte,
fatte, pare a voi, perché la bestia son io che trascuro il mio dovere per non
far penare la gente. Ma ora, so io quel che dico, non posso più fare a
questo modo».
«Ma
via, quale è la formalità com'ella dice, che bisogni fare? La si
farà subito».
«Ecco:
nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra
professione, libero, industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un
luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a poco a poco vivere d'entrata:
ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».
«Ma
a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un poco di bene
voglio maritarmi; io non son venuto adesso a domandarle un parere, ma a sapere
quando mi vuol maritare».
«Sapete
voi quanti sono gl'impedimenti dirimenti?»
«Che
vuole che sappia io d'impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa manca, ed io
farò tutto».
«Error, conditio, votum, cognatio,
crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...»
«Si
piglia ella giuoco di me? Ella sa che io non so il latino».
«Dunque
se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi
rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello che
vuol da me, perché io non capisco niente».
«Tutti
questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce n'è una
filza».
«Insomma
al mio matrimonio c'è un impedimento?»
«Ve
ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio
sapere quale è l'impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo
disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno che cercava
di contenere.
Don
Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo conosceva come
giovane buono e l'aveva provato sempre rispettoso e quieto, e tra perché il
dover sempre arzigogolare pretesti, mentre aveva una buona ragione che non
poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si abbandonò e rispose con
tuono di corruccio e d'impazienza. «Voglio, voglio, tocca a voi dir: voglio?»
Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo che già
aveva voluto scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel
caldo crescente delle sue risposte. «Lo voglio per...» gridò con una
subita trasformazione, «e s'ella crede di farsi beffe di me perché son povero
figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch'io uno
sproposito come qualunque signore».
«Via
via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon giovane
ch'eravate?»
«Mi
dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se
volete ch'io possa parlare tranquillatevi».
«Son
tranquillo, e parli».
«Sappiate
adunque che è nostro dovere, dovere preciso di fare ricerche, ricerche
esatte per vedere se non ci sieno impedimenti».
«Ma
se ve ne fosse, perché non me li sa indicare?»
«Ma
non basta il non saperne, bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e poi
bisogna informarsi di molte altre cose, altrimenti?... il testo è
chiaro: Antea quam matrimonium denunciet, cognoscet quales sint...»
«Non
voglio latino. Ma perché non le ha fatte prima queste ricerche?»
«Ecco
mi rimproverate la mia troppa bontà. Ma adesso, mi son venute... basta,
so io».
«Insomma
quanto tempo ci vuole?»
«Molto,
molto».
«Quanto?»
«Almeno
un mese».
«Un
mese?» sclamò Fermo con volto burbero e sorpreso.
«Via
in quindici giorni si procurerà...»
«Signor
Curato...»
«Ebbene
voi non volete intender ragione, vedrò se in una settimana...»
«Or
bene, aspetterò una settimana, mi esporrò alle ciarle, ed ai
fastidj di questo ritardo. Ma la prevengo che questo ritardo non mi
renderà di buon umore, né disposto a contentarmi di ciance. S'ella vuol
farmi una ingiustizia, si ricordi che tutto quello che può accadere
è sulla sua coscienza. La riverisco». E così detto se ne
andò facendo un inchino frettoloso, e molto meno riverente del solito, e
lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima.
Il
povero sposo che, entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e di
festa, non aveva sentito altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla
stizza che lo rodeva, andava però riflettendo sui discorsi e sul
contegno del Curato, e trovava tutto pieno di mistero...
L'accoglimento
freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di
rimbrotto senza un perché, quel farsi nuovo del matrimonio che pure era
concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo quando che sia,
parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le
insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto: il complesso
insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così
incoerente, e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così
nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi
tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in forse di
ritornare al Curato per incalzarlo a parlare, ma sentendosi caldo, temette di
non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana
non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa
questa trista nuova. Sull'uscio del Curato si abbattè in Vittoria che
andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe
potuto cavar qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei:
«Sperava
che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria».
«Ma!
quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi
un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non celebrare il
matrimonio oggi come s'era convenuto».
«Oh!
vi pare ch'io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile avvertire
che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole
esser creduto.
«Via,
ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».
«Mala
cosa nascer povero, il mio Fermino».
Per
timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo,
dirò soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla
positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri
colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella
sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a
Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo meno svegliato di Fermo,
e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era
accorto, che qualche signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi
sopra Lucia, etc.,parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo
dovere, del timore che uno scellerato impunito può incutere ad un
galantuomo, fece insomma intender tanto che a Fermo non mancava più che
di sapere un nome. Finalmente per timore come si dice, di cantare, si
separò da Fermo raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di
ciò che le aveva detto.
«Che
volete ch'io taccia», disse Fermo, «se non mi avete voluto dir nulla».
«Eh!
non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma
vi raccomando il segreto». Così dicendo si mise a correre per un
viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata. Fermo che aveva acquistata
tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il
Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta
alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere i fatti suoi che
gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello
stesso salotto, e gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che
novità è questa», disse Don Abbondio.
«Chi
è quel birbante», disse Fermo colla voce d'un uomo che non vuole esser
più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch'io sposi
Lucia?»
Don
Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta, Fermo vi
balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse e si pose la chiave
in tasca.
«Ah!
ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?»
«Fermo,
Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all'anima
vostra».
«Che
pensare? Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano avrebbe
detto: non vedo più lume. E continuò: «lo voglio sapere subito,
subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la mano al coltello
che però non si cavò di tasca. «Jesummaria!» sclamò Don
Abbondio.
«Lo
voglio sapere», gridò ancor più forte il giovane.
«Volete
voi la mia morte?»
«Voglio
sapere ciò che ho ragione di sapere».
«Ma
se parlo, io son morto. Non m'ha da premere la mia vita?»
«Ah!
le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in questo
momento. Parli».
«Oh
povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?»
«Le
prometto di fare uno sproposito se non parla subito».
Di
botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro
più tremante, e l'occhio più stralunato. Don Abbondio vide che
non poteva cavarsela che col proferire una parola, e articolò: «Don...»
«Don», replicò Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il
resto: «Don Rodrigo» disse finalmente il Curato. E non l'ebbe appena proferita,
che sentendo cessato il pericolo imminente, e vedendo che Fermo non aveva
più pretesto da minacciarlo, la paura si cangiò in collera e
cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una bella azione. Mi avete reso
un bel servizio». «Signor Curato», interruppe Fermo che provava una gioja
trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le
domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella
avrebbe avuto più pazienza».
«Sì
sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno,
aprite».
Fermo
sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e
gli domandò di nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite»,
replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la
presentò al curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa
una violenza. Il Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della
via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo.
Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora», disse il curato, «di non dir
niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e
da
lui che molto anco volea
chiedere
e udir qual lume al soffio sparve.
Don
Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò
Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse
volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in
situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e
non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla
senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima,
e si posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe
bisogno d'andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente. Lo spavento
del giorno passato, l'agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella
mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando del
brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria.
Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio
ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli
come a guardia della casa, e di far sapere che il curato aveva la febbre. Dati
questi ordini si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci
di lui per un lungo tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto
diretto colla nostra storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei
lettori che non capiscono che l'uomo timido il quale lascia di fare il suo
dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il
quale cercando il male, e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una
gran forza d'animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere
solleciti per quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non
morì di quella febbre.
Fermo
toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del villaggio, si
avviò a gran passi quasi senza avvedersene da quella parte che conduceva
al palazzotto di Don Rodrigo, ch'egli desiderava in quel momento d'incontrare
come un amico dopo una lunga assenza. I provocatori, i soperchianti, tutti
quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male
che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono.
Fermo era come l'abbiam detto un giovane tranquillo, ed innocuo, ma in quel
punto il suo cuore non batteva che per l'omicidio. Andava dunque per affrontare
lo scellerato quando pensò che a quella casa benché discosta alquanto
dall'abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo l'avvicinarsi con
mire ostili; giacch'ella era una specie di picciol forte con una guarnigione di
bravi. Egli sentì tosto che ad una sola parola irriverente che avesse
detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza parlare, intorno a
quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori lo
avrebbero dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta, pensò
che l'unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo
uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una macchia o un
muricciuolo. In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per tornare
a casa a prendere il suo archibugio. Andando, egli s'immaginava di starsene
appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di
vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava
una maledizione, e correva verso il confine per mettersi in salvo. E mentre
tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: — E
Lucia... che ne sarà? — Appena la catena delle idee feroci che lo
dominava in quel punto fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo
entrarono in folla. Si ricordò la consolazione che aveva tante volte
provata pensando di esser mondo di sangue, gli avvisi di suo padre, le
preghiere ripetute e sollecite di sua madre moribonda, pensò
all'inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò da quel sogno di
sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di gioja di non aver fatto
niente. — Dio mi ajuterà — disse, e deposto ogni pensiero di pigliar
l'archibugio, continuò la sua strada per andare ad informare Lucia e la
madre del tristo stato delle cose. In mezzo alla ripugnanza che sentiva a
dovere dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene per
togliersi un fiero sospetto dal cuore. La prepotenza di don Rodrigo non poteva
venire da altro, che da una sua brutale passione per Lucia. E Lucia ne era ella
informata? Così arrovellato giunse nel cortiletto della casa, e
sentì un gridio nella stanza superiore dov'era Lucia e s'immaginò
che sarebbero amiche e comari, e non si volle mostrare. Una fanciulletta che si
trovava nel cortile gli corse incontro gridando: «lo sposo, lo sposo!» «Zitto,
zitto», disse Fermo, «sali da Lucia, pigliala in disparte e dille all'orecchio,
ma all'orecchio ve', che ho da parlarle, e che l'aspetto nella stanza terrena,
e non lo dire a nessun altro».
La
fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza segreta
da eseguire.
Lucia
usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche se la
rubavano, e le facevano forza perché si lasciasse vedere, ma ella si schermiva
con quella modestia un po' guerriera delle foresi, chinando la faccia sul busto
e facendole scudo col gomito. Aveva i neri capegli spartiti sulla fronte con
una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle chiome dietro il capo
in una treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti cerchi, e trapunta da
grossi spilli d'argento che s'aggiravano intorno alla testa in guisa d'una
diadema, come ancora usano le donne del contado milanese. Al collo una collana
di molte fila, di granate alternate con bottoni d'oro a filigrana. Un bel busto
di broccato a fiori, le maniche corte fino al gomito dello stesso colore,
allacciate sopra le spalle con nastri di seta, e terminate da due gran
manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta terminata all'allacciatura
con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di seta
e ricamate sul piede. Oltre questo che era l'ornamento particolare di quel
giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza, la quale era
allora accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni
dell'animo suo in quel giorno. Poiché appariva nei suoi tratti una gioja non
senza un leggier turbamento, un misto d'impazienza, e di timore e quella specie
di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e
che temperato dalle emozioni gioconde e liete non turba la bellezza, ma l'accresce,
e le dà un carattere particolare. La picciola Santina entrò nella
stanza, non fece vista di nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era
staccata dalle donne, le disse la sua parolina all'orecchio, e se ne
andò, per timore di non lasciarsi scorgere di quello che aveva fatto.
Lucia disse, «torno», e scese in fretta in fretta. La faccia stravolta e il
portamento agitato di Fermo la spaventò. «Che c'è di nuovo?» gli
chiese ansiosamente. «Lucia», disse Fermo, con una voce nella quale più
non si distingueva che la tristezza, «Lucia per oggi è finita, e Dio sa
quando saremo marito e moglie». «Perché perché?» chiese ancor più
spaventata Lucia. Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella
mattina, tacendo però il nome di Don Rodrigo.
«Ah!
non può essere che quel demonio in carne», sclamò Lucia pallida,
e sconfortata. «Chi?» domandò Fermo. «Don Rodrigo». «Dunque voi
sapevate?...»
«Pur
troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato per buone ragioni; ora vi
dirò il tutto: lasciate che possiamo esser sole con voi». Così
detto salì in fretta le scale, ritornò nella stanza dove le donne
erano radunate, e componendo il volto come potè meglio: «Il signor
Curato», disse, «è ammalato, e per oggi non si fa nulla». Detto questo
salutò le donne e ripartì.
Quando
non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era abbastanza
imbarazzante in una sposa per motivare la sua subita scomparsa. La
società si disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà
e per curiosità di saper tutto, e le donne uscirono per potere
verificare il fatto, e far congetture.
Ma
la verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle
donne gli antecedenti che noi racconteremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO III
IL CAUSIDICO
I
tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati per la stessa causa ma in
diverso modo. Fermo si trovava nello stato di un uomo il quale ad un tratto
dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una sventura della
quale non conosce che una parte; è ansioso di sapere il di più,
vuole essere informato di tutto, aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne
può aspettare che non accrescano il suo rammarico, che non peggiorino la
sua condizione. Al dolore, al rancore, alla rabbia, si aggiungeva ora il
martello della gelosia. Egli aveva sempre avuta piena fede in Lucia, ma un
mistero di questo genere, un silenzio in questa materia lo tormentava, egli era
come spaventato di conoscere che Lucia aveva una cosa sul cuore, e ch'egli non
ne aveva saputo nulla. Agnese, la madre di Lucia era pure stupita, scandalizzata
di essere all'oscuro d'una cosa simile: ella che sapeva tante cose che non la
toccavano per nulla, ignorare una cosa tanto importante della sua Lucia! Agnese
le avrebbe fatto un rabbuffo terribile, se in questo caso il bisogno
d'ascoltare non avesse vinto d'assai quello di parlare. Lucia... ma dalle sue
parole il lettore intenderà lo stato del suo animo. «Parla! parla!
Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia atterrita,
costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò: «Santissima
Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo segno! Quel
senza timore di Dio di Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre
la seta. Andava da un fornello all'altro facendo a questa e a quella mille
vezzi l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e
si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo v'era
chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: "badate a
fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e borbottava poi:
"gli è un cavaliere; gli è un uomo che può fare del
male; è un uomo che sa mostrare il viso". Quel tristo veniva
talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui. Un giorno mi trovò
mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me più
libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: "ci
vedremo": i suoi amici ridevano di lui, ed egli era ancor più
arrabbiato. Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po'
di baruffa colla Marcellina, per avere un pretesto, e vi ricorderete mamma
ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire per grazia di
Dio, e per quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre di modo
ch'egli non mi potè cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui,
mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete mamma ch'io vi dissi
che aveva paura d'andar sola e non ci andai più: mi aspettava quand'io
andava a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla, forse ho fatto male. Ma
pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei sua
moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora...» Qui le parole
della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto. «Birbone!
assassino! dannato!» sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e
mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello. «Ma perché
non parlarne a tua madre?» disse Agnese: «se io l'avessi saputo prima...» Lucia
non rispose perché la risposta che si sentiva in mente non era da dirsi a sua
madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I singulti di Lucia la
dispensavano dall'obbligo di parlare. «Non ne hai tu fatto parola con nessuno?»
ridimandò Agnese. «Sì mamma, l'ho detto al Padre Galdino, in
confessione». «Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha
detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non
vedendomi non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se
durava la persecuzione egli ci penserebbe». «Oh che imbroglio! che imbroglio!»
riprese la madre. Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò
Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è
l'ultima che fa quel birbante». «Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò
Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per amor del cielo, Dio
c'è anche pei poveri! Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del
male?» «No, no per amor del cielo», ripeteva Agnese. «Fermo!» disse Lucia, «voi
avete un mestiere, ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non
senta più parlare di noi». «Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e
moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo
pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto.
«Sentite!» disse Agnese: «sentitemi che son vecchia». Era questa una
confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma
necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue parole. «Io ho
veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non
è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono
talvolta imbrogliate imbrogliate perché non abbiamo la pratica per uscirne. Ma,
sapete, c'è della gente che si ride degli imbrogli. Fate a modo mio
Fermo. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa
mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe, andate a Lecco:
sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo». «Bene andate da lui,
presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può
regalare gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli
parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che
andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato
tornavano a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per disperazione
cade nell'acqua, e si trova in casa sua. Fate così Fermo». Nelle
situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di
pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio definitivo e
determinato presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo di
consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non nuoce, e nello stesso
tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si
troverà una uscita.
Fermo
adunque abbracciò molto volentieri il parere. Lucia vi aggiunse la sua
approvazione. Agnese superba di averlo dato pigliò i capponi,
riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le avvolse e
le strinse con uno spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date
e ricevute parole di speranza uscì per una porticella dell'orto, onde
non esser veduto dai ragazzi che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo
sposo. Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi
andò a prendere il viottolo che guida a Lecco, fremendo, ripensando alla
sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola. Lascio poi
pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie
così legate, e tenute per le zampe nella mano d'un uomo agitato da tante
passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il braccio in un momento
d'ira o di risoluzione, o di disperazione, dava scosse terribili a quei
prigionieri e faceva balzare le loro quattro teste spenzolate le quali si
andavano beccando l'una l'altra, come succede troppo sovente fra compagni di
sventura. In poco d'ora Fermo giunse a Lecco, e s'avviò alla casa del
dottore. All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i
poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dottore,
dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai
capponi, e si rincorò pensando che non veniva colle mani vuote. Entrato
in cucina chiese alla fantesca del signor dottore: la fantesca vide le bestie,
e come avvezza a simili doni vi pose le mani sopra, mentre Fermo le andava
ritirando, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava
qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui,
e passate nello studio». Fermo fece un grande inchino al dottore, che lo
accolse umanamente con un: «venite figliuolo», e lo fece entrare con sè
nello studio. Era questo una stanza con un grande scaffale di libri vecchi e
polverosi, un tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno
tre o quattro seggiole, e da un lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio
quadrato coperto di vacchetta inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle
quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della
copertura, che s'incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da
camera, cioè coperto d'una lurida toga che gli aveva servito molti anni
addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a Milano per
qualche gran causa. Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste parole:
«Figliuolo, ditemi il vostro caso».
«Vorrei
dirle una parola in confidenza», rispose Fermo. «Son qui per questo», rispose
il dottore: «parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone. Fermo stette ritto
dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello.
«Vorrei
sapere da lei che ha studiato...» «Già», interruppe il dottore,
«già voi altri siete tutti così; invece di contare il fatto
spiccio a chi può ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se
doveste esaminare il causidico. Ma via, qualche minuto di più non fa
niente: parlate a modo vostro».
«Ella
ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio. Vorrei
dunque sapere se a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio,
c'è penale».
—
Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva
capito) ho capito, — e pensò subito al modo di cavare partito da quello
ch'egli aveva immaginato. Si fece dunque serio, ma in guisa di chi teme per uno
che vuol soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono
inarticolato che accennava il sentimento che espressero più chiaramente
le sue prime parole: «Caso serio, figliuolo, caso contemplato. Avete fatto bene
a venire da me. Non è mica vedete una di quelle cose che si decidono con
leggi vecchie, scritte in latino, nelle quali ci è sempre una decisione
per una parte e per l'altra. È un caso chiaro, deciso in una grida,
confermata da una grida, tenete, dell'anno scorso, dell'attuale signor
governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo», e qui si alzò,
pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne
prese una, e segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche
cosa, signor dottore». «Orbene ecco il vostro caso».
«...quel prete non faccia quel che è
obbligato per l'officio suo: ecco ci siamo: non è questo il caso
vostro». «Pare che abbiano fatta la grida per me». «Vedete figliuolo? ora
mò sentite la penale...
Mentre
il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che
risguardavano il caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il
dottore aveva bisogno, Fermo compitando lentamente, seguiva coll'occhio la
lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle
benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto. Il dottore
alzò gli occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah!
figliuolo vi siete fatto radere il ciuffo: avete avuto prudenza: ma volendo
venire da me non faceva bisogno: si vede che non mi conoscete: non sapete
quello ch'io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di questo». Per aver la
ragione di questa uscita del dottore, bisogna che l'ignaro apprenda e il dotto
si ricordi che a quei tempi coloro che facevano il mestiere di bravi, e che
vivevano di soprusi fatti spontaneamente o per mandato, usavano molti ingegni
per travisarsi, e non esser riconosciuti, e togliere così una prova materiale
del delitto. L'uso più comune era quello di portare un lungo ciuffo che
ordinariamente lasciavano cadere dietro la testa, e si gettavano poi sul volto
come una visiera al momento di affrontare qualcheduno, di far qualche impresa
che era meglio di poter poi negare. Per togliere questo abuso si erano fatte
gride sopra gride, le quali proibivano che si portassero capelli lunghi, sotto
pena... e discendendo al particolare ordinavano al barbiere come dovesse tosare
uno, intimando a chi lasciasse capelli più lunghi dell'ordinario la pena
di 100 scudi, o tre tratti di corda colla solita estensione di pena maggiore
all'arbitrio di S.E. Quale effetto producessero queste gride è manifesto
dalle diverse date di quelle.
La
grida si ristampava di tempo in tempo coll'avvertenza che ciò era
necessario perché fino allora non aveva giovato a nulla: e come nella medicina,
si cresceva la dose. Il ciuffo era dunque come un'insegna di bravo, e di
scapestrato. Da questa foggia è nato un termine metaforico tuttavia in
uso nel dialetto milanese: e non vi sarà forse alcuno, dei miei lettori
milanesi che non si ricordi di aver sentito, nella sua adolescenza, alcuno de'
suoi parenti, o il maestro del collegio, o il servo che lo conduceva a scuola,
o la fante dare di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un
ciuffetto. Prego il lettore di perdonarmi questa digressione e come necessaria,
e in grazia della condizione che gli ho data, e ripiglio il dialogo.
«In
verità, da povero figliuolo», rispose Fermo, «ch'io non ho mai portato
ciuffo in vita mia».
«Non
facciamo niente» riprese il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra
maligno e impaziente: «se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice
bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la
verità al giudice. Io non ho tempo da perdere. Se volete ch'io v'ajuti,
voi dovete contarmi tutto dall'a alla zeta, sinceramente, come al confessore.
Dovete dirmi chi vi ha dato il mandato: sarà naturalmente persona di
riguardo; ed allora io andrò da lui a fare un atto di dovere: non gli
dirò mica, vedete, ch'io sappia da voi che vi ha mandato egli: fidatevi:
gli dirò che vengo ad implorare la sua protezione per un povero giovane
calunniato. E tutto si aggiusterà a vostra soddisfazione: capite bene
che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse
tutta vostra, via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio imbrogli, e pur ché
non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi
d'impiccio, con un po' di spesa. Basta che mi sappiate dire chi è
l'avversario, che forse forse troveremo modo di appiccicargli qualche
criminale, e forse forse lo metteremo in panni più stretti dei vostri, e
lo faremo venire a domandar grazia. Ma come vi ho detto, se non avete un uomo,
un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro, e se la cosa si deve
decidere fra la giustizia e voi così a quattr'occhi, state fresco. Io vi
parlo chiaro: le scappate bisogna pagarle: se volete dormir quietamente sopra
questa faccenda; denari, e sincerità, parlare col cuore in mano, e poi
obbedire, fare quello che vi sarà suggerito».
Mentre
il dottore faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando coll'attenzione
d'un uomo che sognando, s'immagina di cercar qualche cosa, ed ora gli pare
d'averla trovata, di mettergli le mani sopra, e poi la vede scomparire, e ne va
di nuovo in cerca: tanto era lontano dal sospettare l'equivoco preso dal
dottore. Quando questi ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e tra un poco di
collera, però quella collera che un buon uomo di contado può
avere contra un signore che sa, e tra un certo orgoglio di farsi vedere libero
da quei timori che il dottore supponeva, rispose: «Oh signor dottore: la cosa
non è così: io non ho minacciato nessuno: io non faccio di queste
azioni, e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho
mai avuto che fare con la giustizia.La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo
da lei per informarmi come io possa farmi dar ragione; e son ben contento
d'aver veduta quella grida». «Diavolo!» disse il dottore, «che confusione mi
avete fatta? tant'è siete tutti così, possibile che non sappiate
farvi intendere?» «Ma signor dottore, mi scusi io non le ho contata la cosa,
ora le conterò. Deve sapere ch'io doveva sposare oggi», e qui il povero
Fermo si commosse, «doveva sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha
mai dato da dire a nessuno, e avevamo fatto tutto da galantuomini, e il curato
che doveva sposarci oggi non volle perché... perché gli fu minacciata la vita.
Quel prepotente di Don Rodrigo...»
Il
dottore si fece serio davvero, e dando sulla voce a Fermo: «Eh!» gridò,
«che mi venite a contare di queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi
altri che non sapete misurare le parole, e non venite a farli con un galantuomo
che sa che cosa vuol dire parlare. Andate, andate; non sapete quel che vi
diciate: io non m'impaccio con ragazzi, non voglio sentire discorsi in aria».
«Lo giuro!» «Andate vi dico, siete un ragazzo, pare che parliate ad un uomo che
non abbia mai sentito giurare. Andate, io non c'entro: imparate a parlare: non
si viene così a sorprendere un galantuomo». Con queste frasi spezzate,
il dottore spingeva verso la porta Fermo, il quale andava ripetendo: «ma senta,
ma senta». Il dottore aperta la porta chiamò Felicita, e le disse:
«restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente,
non voglio niente». Felicita dacché era ai servigi del dottore non aveva mai
eseguito un ordine simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch'ella non
esitò ad obbedire: prese le quattro povere bestie, e le diede a Fermo,
guardandolo con un'aria di compassione spregiante che pareva volesse dire:
costui deve stare in cattivi panni, ne ha fatta una grossa. Fermo voleva far
cerimonie, ma il dottore fu inespugnabile; e Fermo attonito, e trasognato, e
stizzito dovette ripigliarsi le vittime rifiutate, e partirsi di là
senza poter riposare il suo pensiero in altra determinazione, che di tornarsene
a casa sua, a riferire alle donne il tristo risultato della sua consulta.
Lucia
al suo partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale
coll'umile abito quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della madre,
e a rispondere singhiozzando alle minute interrogazioni ch'ella le andava
facendo, mischiandole di qualche rimprovero sul suo aver sempre taciuto. Fra
questi tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il
suo arcolajo a dipanar seta. Ma la povera sposa andava pensando a quello che si
potesse fare; il primo ripiego che viene in mente ai poverelli è quello
di aver parere ed ajuto, e Lucia si sovvenne del Padre Galdino. Andare al
convento, ch'era distante forse due miglia; ella non ardiva, in questo
frangente, e aveva ragione, pensava dunque di cercare qualche garzoncello
disinvolto e fidato, per cui potesse fare avvertire il buon Capuccino. Mentre
ella stava per informare la madre del suo disegno s'ode picchiare all'uscio, e
nello stesso momento un sommesso ma distinto «Deo gratias...» Lucia,
immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un inchino,
entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia pendente
alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa attorcigliata e stretta nelle due
mani sul petto. «Frà Canziano» dissero le due donne. «Il Signore sia con
voi», disse il frate: «vengo per la cerca delle noci; e come il raccolto
è stato buono voi ne darete a Dio la sua parte, affinché ve ne dia un
altro eguale o migliore l'anno venturo; se però i nostri peccati non
attireranno qualche castigo». «Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri» disse
Agnese. Lucia si alzò, e si avviò all'altra stanza, ma prima di
entrarvi ristette dietro le spalle di frà Canziano che rimaneva ritto
nella medesima positura, e ponendosi l'indice sulla bocca diede alla madre una
occhiata che domandava il segreto con tenerezza, con supplicazione, con
fierezza, e anche con una certa autorità. Partita Lucia, frà
Canziano disse ad Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure fare oggi: ho
veduto nel paese come una confusione, come qualche cosa che indichi una
novità; che c'è?»
«Il
Signor curato è ammalato, e bisogna differire», rispose in fretta
Agnese, e per cangiare di discorso richiese come andasse la cerca.
«Poco
bene, buona donna, poco bene. Vedete tutto quello che ho. Son tutte qui», e
così dicendo si tolse la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli
occhi di Agnese; «son tutte qui, e per raccogliere questo ho mendicato in dieci
case». «Mah! l'anno è scarso, fra Canziano, e i poverelli mancano di
pane, quando il pane è caro tutto si misura più per sottile».
«Perché
l'anno è scarso, buona donna? pei nostri peccati; e per far tornare
l'abbondanza che rimedio c'è? l'elemosina. Eh! quando io era cercatore
in Romagna, la limosina delle noci era tanto abbondante, che bisognò che
un benefattore ci facesse la carità d'un asino, perché il cercatore non
poteva durare. E si faceva tant'olio al convento che i poveri venivano a
prendere ogni volta che ne avevano bisogno. Ma in quel paese avevano più
carità perché avevano avuta una grande scuola. Sapete di quel miracolo?»
«No in verità: contate contate». «Oh! dovete dunque sapere che molti anni
prima ch'io andassi in quel convento v'era stato un padre che era un santo; il
padre Agapito. Un giorno d'inverno ch'egli passava per un viottolo in un campo
d'un nostro benefattore, uomo dabbene anch'egli, dunque il padre Agapito vide
il benefattore vicino ad un gran noce, e quattro contadini colle scuri al piede
per gettarlo a terra; e avevano già fatta una fossa intorno per
iscoprire le radici. — Che fate a quella povera pianta? disse il nostro
religioso. — Eh padre sono anni che non fa più frutto ed io penso di
farne legna. — Non fate non fate, disse il padre; sappiate che quest'anno la
porterà più noci che foglie. — Il benefattore che sapeva con chi
parlava, ordinò subito ai lavoranti che gettassero di nuovo la terra
sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che continuava la sua strada, —
Padre Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà pel convento.
— Si sparse la voce della profezia, e tutti correvano a guardare il noce:
infatti a primavera, fiori a furia, e poi noci noci a furia.
Ma,
Dio non volle che il benefattore avesse la consolazione di abbachiare quelle
noci, e lo chiamò a sè prima del raccolto. La consolazione
toccò al figliuolo, ma fu corta perché era un poco di buono, come
sentirete. Ora dunque, al raccolto il cercatore andò per riscuotere la
metà che era dovuta al convento; e colui si fece nuovo affatto, ed ebbe
la temerità di rispondere che non aveva mai inteso dire che i frati
sapessero far noci. Il cercatore fece la sua denunzia al convento. Sapete ora
che cosa avvenne? Un giorno dunque quello scapestrato aveva invitato alcuni
suoi amici dello stesso pelo, e così gozzovigliando, egli raccontava la
storia del noce, e rideva dei frati. Quei giovinastri ebbero voglia di andare a
vedere quello sterminato mucchio di noci, ed egli li condusse al granajo. Ma,
sentite mò ora; apre la porta, va verso il cantuccio dove era il gran
mucchio, e mentre dice: — guardate —, guarda egli stesso e vede, che cosa? un
bel mucchio di foglie secche di noce. Questo fu un castigo, e benché il fatto
sia di molti anni addietro, ad ogni raccolto di noci se ne parla tuttavia in
quel paese».
Qui
ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a
fatica, tenendo i due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra
Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la
bocca di quella per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto
attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede
un'occhiata che voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in
elogj, in augurj, in promesse, in ringraziamenti; e rimessa la bisaccia si
avviò; ma Lucia, fermatolo: «vorrei un servizio da voi», disse. «Vorrei
che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura, e
che mi faccia la carità di venire da noi poverette, subito subito,
perché io non posso venire alla Chiesa».
«Non
volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino».
«Non
mi fallate».
«State
tranquilla»; e così detto partì un po' più curvo e
più contento che non quando era arrivato.
Il
Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i suoi, e in tutto il
contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa specie di
ordine che gli si mandava da una donnicciuola di venire da lei; la commissione
non gli parve strana niente più che se gli si fosse commesso di
avvertire il Padre Galdino che il Vicario di provvisione e i sessanta del
consiglio generale della Città di Milano lo richiedevano per mandarlo
ambasciatore a Don Filippo Quarto Re di Castiglia, di Leone etc. Non vi era
nulla di troppo basso né di troppo elevato per un Cappuccino: servire
gl'infimi, ed esser servito dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii
colla stessa aria mista di umiltà, e di padronanza; essere nella stessa
casa un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva
nulla, cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la
chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un Cappuccino, faceva tutto a un
dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di nulla. Uscendo dal suo
convento per qualche affare, non era impossibile che prima di tornarsene si
abbattesse o in un principe che gli baciasse umilmente la punta del cordone, o
in una mano di ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di loro gli
bruttassero la barba di fango. La parola frate in quei tempi era proferita
colla più gran venerazione, e col più profondo disprezzo; era un
elogio e un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri
riunivano questi due estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta
professione di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio,
e alla venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione poi
data generalmente al loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di
nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la
varietà del sentimento che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto
loro. Varj pure e moltiformi erano e dovevano essere i motivi che conducevano
gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto. Uomini compresi
della eccellenza di quello stato che allora era esaltata universalmente, altri
per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo,
come allora si diceva, nel secolo, altri per fuggire una persecuzione, per cavarsi
da un impiccio, altri dopo una grande sventura, disgustati del mondo, talvolta
principi o fastiditi, o atterriti del loro potere; molti perché di quelli che
entrano in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un
sentimento vero di amor di Dio e degli uomini, per l'intenzione di essere
virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perché quando si è persuasi
d'una verità bisogna dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha
tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti) questa loro
intenzione non era una pia illusione, l'errore d'un buon cuore e d'una mente
leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa o non
considera le circostanze e le idee di quei tempi: era una intenzione ragionata,
formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con queste intenzioni
molti abbracciando quello stato facevano del bene tutta la loro vita; anzi
molti che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero accresciuti i mali
della società, diventavano utili con quell'abito indosso. Ho fatta tutta
questa tiritèra perché nessuno trovi inverisimile che fra Canziano,
senza fare alcuna obbiezione, senza stupirsi, si sia incaricato di dire,
nullameno che al Padre Guardiano, che s'incomodasse a portarsi da una
donnicciuola che aveva bisogno di parlargli.
Partito
Fra' Canziano: «tutte quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di
miseria! e per noi che rimarrà? sei fuor di te per la disgrazia».
«Mamma», rispose Lucia, «perdonatemi; ma voi vedete quanto importi di parlar
subito al Padre Galdino che ci può dar parere e soccorso. Se io avessi
fatta una elemosina come gli altri, Fra Canziano avrebbe dovuto girare Dio sa
quanto, prima di aver la bisaccia piena, e di tornare al convento; e colle
ciarle che avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe dimenticata la mia
commissione...»
«Via,
hai pensato bene, e poi è tutta carità; purché faccia buon
frutto».
Mentre
le donne stavano in questi ragionamenti, Fermo, si avviava verso il villaggio
ripassando nella sua mente gli strani discorsi del dottore, passando d'una
passione nell'altra, proponendo ora un disegno or l'altro, e non potendo
riposarsi in alcuno. — Tutti così: siete fatti tutti così: andava
dicendo fra sè: oggi me lo sento dire per la seconda volta: siam fatti
così: come siamo dunque fatti noi poverelli? che cosa pretendo io da
costoro? andava forse a domandare la carità? Pretendo la giustizia, per
bacco, (ommettendo molte altre più che esclamazioni, perché Fermo non
aveva mai tanto sagrato in tutta la sua vita, come fece in quel giorno).
Pretendo alla fine delle fini di sposare una donna secondo la legge di Dio.
Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d'accordo per mandare gli stracci
all'aria! Ma, se mi riducono alla disperazione... — Con questi pensieri giunse
alla casetta delle due donne ed entrando colla faccia adirata, e vergognosa
nello stesso tempo per la trista riuscita, gittò i capponi sur un
tavolo; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie per quel
giorno.
«Bel
parere che mi avete dato» diss'egli ad Agnese, «mi avete mandato da un buon
galantuomo, da uno che ajuta veramente i poverelli». E qui raccontò il
suo abboccamento col dottore. Agnese voleva replicare, e sostenere che il
parere era buono, e che se non aveva avuto buon effetto la colpa doveva essere
di Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a Fermo ch'ella sperava di aver
trovato un miglior consigliero. Il nome del Padre Galdino diede qualche
speranza a Fermo; ma Fermo accolse anche questa speranza, come accade a quelli
che sono nella sventura e nell'impaccio. «Ma, se il Padre», diceva, «non vi
trova un ripiego, lo troverò io in un modo o nell'altro». Le donne
consigliarono la pace e la pazienza, e la prudenza. «Domani», disse Lucia, «il
Padre Galdino verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche
rimedio che noi poveretti non sappiamo nemmeno immaginare».
«Lo
spero», disse Fermo; «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela
fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente».
«Addio
Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non è lontano
il tempo che potremo star sempre insieme. Usate prudenza, non fatevi vedere,
non parlate». Agnese aggiunse altri consigli, e Fermo partì colle
lagrime agli occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in tempo queste
portentose parole: «A questo mondo v'è giustizia finalmente». Tanto
è vero che un uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello
che si dica.
CAPITOLO IV
IL PADRE GALDINO
Era
un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le
più alte cime erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte,
ma che stava per ispuntare dietro a quella montagna che dalla sua forma
è chiamata il Resegone (segone), quando il Padre Galdino a cui Fra
Canziano aveva esposta fedelmente l'ambasciata si avviò dal suo Convento
per salire alla casetta di Lucia. Il cielo era sereno, e un venticello
d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava qua e là.
Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si vedevano
splendere le viti per le foglie colorate di diversi rossi; e i campi già
seminati, e lavorati di fresco spiccavano dall'altro terreno come lunghi strati
di drappi oscuri stesi sul suolo. L'aspetto della terra era lieto; ma gli
uomini che si vedevano pei campi o sulla via mostravano nel volto
l'abbattimento e la cura. Ad ogni tratto s'incontravano sulla via mendichi
laceri e macilenti invecchiati nel mestiere, fra i quali molti si conoscevano
per forestieri che la fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove
la carità consueta non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto
ai pitocchi indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano
guardati in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si vedevano alcuni i
quali dal volto dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa la mano e
di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano cheti a canto
al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza dirgli nulla, perché
la sola parola che indirizzavano ai passaggeri era per chiedere l'elemosina, e
un capuccino, come ognun sa non aveva niente. Ma il buon Padre Galdino si
volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e
diceva loro in aria di compassione: «andate al convento, fratello; finché ci
sarà un tozzo per noi, lo divideremo». I contadini sparsi pei campi non
rallegravano più la scena di quello che facessero i poverelli.
Salutavano essi umilmente il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come
l'andasse: «Come vuole padre?» rispondevano: «la va malissimo». Alcuni, che in
tempi ordinarj non avrebbero osato fermare e interrogare il Padre Guardiano,
fatti più animosi per la miseria dei tempi gli dicevano: «Come
anderà questa faccenda, Padre Galdino?»
«Sperate
in Dio che non vi abbandonerà. Povera gente! il raccolto è
proprio andato male?»
«Grano
non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate e il lavoro cessa da
tutte le bande».
Questa
vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon
Capuccino, il quale camminava col tristo presentimento in cuore di andare ad
udire una qualche sventura.
Ma
perché aveva egli in cuore questo presentimento? E perché si pigliava tanto a
cuore gli affari di Lucia? E perché al primo avviso si era egli mosso come ad
una chiamata del Padre Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?
Se
il lettore non fa tutte queste interrogazioni per malevola impazienza né per
cavillare il povero narratore, ma per una sincera volontà d'imparare e
di essere informato della storia, legga quello che siamo per dirgli intorno al
nostro buon frate, e sarà soddisfatto.
Il
Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessant'anni; e il suo aspetto
come i suoi modi annunziavano un antico e continuo combattimento tra una natura
prosperosa, rubesta, un'indole pronta, ardente, avventata, impetuosa, e una
legge imposta alla natura e all'indole da una volontà efficace e
costante. Il suo capo calvo e coperto all'intorno secondo il rito capuccinesco
di una corona di capelli che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di
tempo in tempo per un movimento di spiriti inquieti, e tosto si abbassava per
riflessione di umiltà. La barba lunga e canuta che gli copriva il mento
e parte delle guance faceva ancor più risaltare le forme rilevate della
parte superiore del volto, alle quali una antica abitudine di astinenza aveva dato
più di gravità che tolto di espressione, e due occhj vivi,
pronti, che talvolta sfolgoravano con vivacità repentina: come due
cavalli bizzarri condotti a mano da un cocchiere col quale sanno per costume
che non si può vincerla, pure fanno di tratto in tratto qualche salto,
che termina subito con una buona stirata di briglie.
Il
signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che facendosi
poi frate prese il nome di Cristoforo) il Signor Ludovico era figlio d'un ricco
mercante cremonese, il quale negli ultimi anni suoi, vedovo, e con questo unico
figlio rinunziò al commercio, comperò beni stabili si pose a
vivere da signore, cercò di far dimenticare che era stato mercante, e
avrebbe voluto dimenticarlo egli stesso. Ma il fondaco, le balle, il braccio
gli tornavano sempre alla fantasia come l'ombra di Banco a Macbeth: in mezzo ai
conviti, e alle riverenze dei parassiti; e il pover'uomo passò gli
ultimi suoi anni nella angustia, parendogli ad ogni tratto di essere schernito,
e non riflettendo mai che in verità vendere e comprare non è cosa
turpe, e che egli aveva fatta questa professione in presenza di tutto il
pubblico senza rimorso. Fece educare signorilmente il figlio come s'usava in
allora, cercando d'imitare, in quanto gli era permesso dalle leggi, dalle
consuetudini, e dal timore del ridicolo. Gli diede maestri di lettere, e di
esercizi cavallereschi; e morì lasciandolo ricco e giovanetto. Ludovico
aveva contratte nella sua educazione abitudini signorili, e le ricchezze
avevano attirati adulatori che lo avevano avvezzo ad esigere molti riguardi;
quando volle mischiarsi coi principali del paese, l'accoglimento o piuttosto le
ripulse che n'ebbe fecero un contrasto molto spiacevole colle sue abitudini. A
rendere la sua situazione più angustiosa, e ad accrescere il suo mal
umore inquieto contribuiva anche non poco l'indole sua onesta ed iraconda ad un
tempo, che gli rendeva insopportabile lo spettacolo delle angherie e dei
soprusi che commettevano alla giornata quelli ch'egli non era portato ad amare.
Viveva egli lontano da essi, ma come non poteva non vederli, e non sentirne
parlare, ad ogni occasione mostrava apertamente il disprezzo e il rancore che
sentiva per essi. Questo sentimento unito alla bontà e all'amore della
giustizia ch'era grande in lui, lo portava ad assumere volentieri le difese
degli oppressi; e con molte sconfitte e con qualche riuscita, con molte spese,
con molti raggiri, con molta audacia, e con qualche guajo che aveva corso si
era fatta una riputazione di protettore, ch'egli era sempre più
impegnato a sostenere, e che gli aveva procurato il favore di molti, e l'odio
caldo e risoluto di alcuni potenti.
Quando
un povero andava a raccontargli un sopruso che gli era stato fatto, ed a
raccomandarsi alla sua protezione parlando come se la tenesse per sicura, come
se gli fosse dovuta, il signor Ludovico si trovava quasi forzato a pigliare
l'impegno, dal timore di perdere ad un tratto tutta la sua riputazione. Ma non
è da domandare se in questa sua carriera aveva avuto impicci, disgusti,
e pentimenti. Oltre i contrasti fortissimi, i pericoli, le inimicizie
crescenti, le spese per le quali aveva molto diffalcato del suo patrimonio;
egli si trovava poi spesso anche in lite colla sua coscienza, la quale come
abbiam detto era sincera e bene intenzionata. Talvolta colui che veniva a
richiamarsi, e che bisognava torre da un impegno, non valeva niente meglio del
suo persecutore, ed esaminando ben bene i fatti dell'una e dell'altra parte si
sarebbe trovato che se uno meritava la galea l'altro avrebbe dovuto andare a
fargli compagnia: talvolta il caso era chiaro, il ricorrente era onesto, e
meritava soccorso davvero; ma che? pigliata in mano la sua causa, per opporsi
ad una batteria di raggiri, di soprusi, di violenze, di busse, Ludovico aveva
dovuto mettere in opera tanti raggiri, tanti soprusi, tante violenze, menar
tanto le mani egli stesso che terminato l'affare, ripensando ai casi suoi, egli
si rimaneva con un nemico potente di più, con molti quattrini di meno, e
con dei rimorsi alla coscienza. Questo dopo una vittoria, non dico niente poi
delle sconfitte: e furono molte. Era poi tormentato dall'idea del biasimo che
gli era dato da molti d'imprudente e di accattabrighe, invece della lode
ch'egli si sarebbe aspettata.
Così
combattuto sempre tra la sua inclinazione, e gli ostacoli, rispinto sovente,
urtato ad ogni passo, stanco ad ogni momento su questa strada ch'egli aveva
scelta, più volte gli era passato per la mente il pensiero che nasce
dagli imbrogli e dai contrasti, il pensiero di uscirne e di attendere all'anima
sua col darsi alla solitudine, cioè col farsi frate, cosa che in quei
tempi si chiamava uscire dal secolo. Ma questo che non sarebbe stato forse che
un disegno per tutta la sua vita, divenne una risoluzione per uno di quegli accidenti
che nelle sue circostanze non gli potevano mancare. Andava egli un giorno per
una via di Cremona, accompagnato da un antico fattore di bottega che suo padre
aveva trasmutato in maggiordomo, e che gli era stato fidato fino dall'infanzia.
Aveva costui nome Cristoforo: era un uomo di circa cinquant'anni, aveva moglie
ed otto figli; e tutta la famiglia sussisteva colle paghe del padre, e col di
più che vi aggiungeva la liberalità di Ludovico, il quale e per
buon cuore e per un po' di boria non avrebbe mai lasciato mancar nulla ad un
uomo che gli apparteneva. Vide Ludovico venir da lontano un signor tale col
quale egli non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nimico, e
ch'egli pagava della stessa moneta: caso molto comune; perché è uno dei
diletti di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiato senza
conoscersi. Costui si avanzava ritto, colla testa alta, colla bocca composta
all'alterigia e allo sprezzo, mostrando di non voler scendere verso il mezzo
della via.
Ora
bisogna sapere che Ludovico aveva il suo lato destro al muro, e che per
conseguenza aveva il diritto (bel diritto!) di passare accanto al muro, e che
l'altro doveva dargli il passo, ma come abbiam detto, costui accennava
tutt'altro che la voglia di farlo. Anzi quando furono presso, guardando d'alto
in basso Ludovico, gli disse con aria di comando: «Tiratevi a basso».
«A
basso voi», rispose Ludovico: «la strada è mia».
«Coi
pari vostri, la strada è sempre mia».
«Sì
s'ella appartenesse ai soperchiatori».
«A
basso, vile plebeo, o ch'io ti dò quella educazione che non ti poteva
dare tuo padre».
«Voi
mentite ch'io sia vile: ma non è da stupire che siate così
prodigo di quello che avete in tanta copia».
«Tu
menti ch'io abbia mentito», disse con furia e con disprezzo quel signore: e
questa risposta era di prammatica, come ora sarebbe dire: — benissimo — a chi
vi domanda della vostra salute: indi soggiunse; «e se tu fossi cavaliere come
son io, ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che tu sei il
mentitore».
«È
buona sorte per voi l'esser cavaliere; così potete essere insolente e
dispensarvi di sostenere la vostra insolenza, come vile che siete».
Così
dicendo pose mano alla spada.
«Temerario»,
gridò quel signore, «io spezzerò questa», e la cavò pure
così dicendo «dopo che sarà macchiata del tuo sangue».
Così si avventarono l'uno sull'altro. Cristoforo venne in ajuto del suo
padrone e cavò il suo coltello; e due servitori che accompagnavano il
signore andarono addosso a lui e a Ludovico. La gente si ritirava da ogni parte,
e giacché nessuno di quelli che s'abbattevano nella via era interessato per
amicizia, o per onore a pigliar parte nella disputa, la quale da duello divenne
tosto un fatto generale. Il signor Ludovico e il suo Cristoforo dovevano
difendersi contra tre, e il combattimento era tanto più diseguale che
Ludovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico che ad
ucciderlo; ma il signore voleva la vita dell'avversario. Ludovico aveva
già toccata in un braccio una pugnalata d'un servitore; e il nemico gli
cadeva addosso per finirlo, quando Cristoforo vedendo il suo padrone
nell'estremo pericolo s'avventò col pugnale al signore, il quale rivolta
tutta la sua ira contro di lui lo passò colla spada. A quella vista
Ludovico scordato ogni ritegno cacciò la sua nel ventre del provocatore,
il quale cadde quasi ad un punto col povero Cristoforo: i servitori veduto il
padrone sul terreno, si diedero alla fuga: e Ludovico rimase solo e ferito, e
circondato dal popolo che accorreva, vedendo finita la guerra. «Che è?
che è? — Come è andata? Son due morti. — Gli ha fatto un
occhiello nel ventre. — Chi? a chi?» Grida e confusione; e il povero Ludovico,
col compagno ucciso, e quel che è peggio col nemico ucciso da lui, si
trovava in mezzo ad una folla che lo stringeva d'ogni parte. Ma, come è
facile da supporre, il favore era piuttosto per lui che per l'avversario, e
tutti cercavano di salvarlo. Il caso era avvenuto vicino ad una Chiesa di
Capuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel
complesso di cose e di persone che si chiamava la giustizia. Il povero ferito
fu quivi condotto o portato dalla folla, e quasi fuori di sè pel furore,
pel rimorso, e pel dolore i padri lo accolsero dalle mani del popolo, che lo
raccomandava ai suoi ospiti, dicendo: «è un uomo dabbene, che ha fatto
freddo un birbone».
Ludovico
non aveva mai prima d'allora versato sangue; e benché l'omicidio fosse a quei
tempi cosa tanto comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo
raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione che Ludovico ricevette
dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova e terribile, fu
una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico,
l'alterazione de' suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal
furore, all'abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in un
punto l'animo dell'uccisore. Strascinato al convento egli non sapeva quasi dove
fosse e che si facesse; e cominciò appena a comprendere la sua situazione,
quando si trovò in un letto della infermeria, nelle mani del frate
chirurgo (i capuccini ne avevano sempre alcuno) che aggiustava faldelle e bende
sopra due ferite leggieri ch'egli aveva ricevute nello scontro.
Un
padre che assisteva più frequentemente ai moribondi, e che aveva spesso
reso di questi uficj sulla via, fu chiamato tosto sul luogo del combattimento;
e tornato pochi momenti dopo, entrò nella infermeria, e fattosi al letto
dove Ludovico giaceva: «Consolatevi», gli disse; «almeno è morto bene, e
mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo». Questa
parola fece rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli risvegliò
più vivamente e più distintamente i sentimenti che erano confusi
e affollati nel suo cuore, dolore per l'amico, pentimento e rimorso di
ciò ch'egli aveva fatto, e nello stesso tempo un senso forte e sincero
di commiserazione e di amore per l'infelice ch'egli aveva ucciso: Ludovico
allora avrebbe volentieri data la sua vita per ricuperare quella del suo
nemico. «E l'altro?» domandò al padre. L'altro era spirato.
Frattanto
le uscite e i contorni del convento erano affollati di popolo curioso: ma
giunta la sbirraglia fece smaltire la folla, e si pose in agguato a una certa
distanza dalle porte; ma in modo che nessuno potesse uscirne inosservato. Un
fratello del morto, due suoi cugini, e un vecchio zio vennero pure armati da
capo a piede; e facevano la ronda intorno, guardando con aria di minaccia gli
accorsi del popolo, i quali mostravano nei volti quasi una sorta di trionfo e di
contentezza.
Appena
Ludovico potè riflettere più pacatamente, chiamato un frate
confessore, lo pregò che andasse a casa della moglie di Cristoforo, che
l'assicurasse ch'egli non aveva fatto nulla per cagionare la morte del suo
amico, e nello stesso tempo le desse parola ch'egli si riguardava come il padre
della famiglia. Quindi pensando ai casi suoi, il pensiero di farsi frate che
tante volte come abbiamo detto gli era passato per la mente, gli si
presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione. Chiamò il
guardiano, e gli aperse il suo cuore, e n'ebbe in risposta, che bisognava
guardarsi dalle risoluzioni precipitate, ma che s'egli persisteva, non sarebbe
rifiutato. Allora egli fece chiamare un notajo, e fece in buona forma una
donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel
patrimonio) alla famiglia di Cristoforo; una somma alla madre, come se le
costituisse una contraddote, e il resto ai figli.
Gli
ospiti di Ludovico erano impacciati assai. Consegnarlo alla giustizia,
cioè alla vendetta de' suoi nemici, oltreché l'esser cosa vile e crudele
(ragione che è più potente quando è accompagnata da
altre), sarebbe stato lo stesso che rinunziare al privilegio di asilo,
screditare il convento presso tutto il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti
i capuccini dell'universo per aver lasciato ledere il diritto di tutti, tirarsi
contra tutte le autorità ecclesiastiche, le quali allora si
consideravano come tutrici di questo diritto. Per l'altra parte la famiglia
dell'ucciso era potentissima, forte di aderenze, irritata, e si faceva un punto
d'onore di vendicarsi, e minacciava della sua indegnazione tutti quelli che
mettevano un ostacolo alla vendetta. E quand'anche ai parenti fosse poco
importato della morte del loro congiunto (cosa che la storia non dice
però) tutti avrebbero esposta la loro vita per avere nelle mani
l'uccisore; e come toglierlo dalle mani dei capuccini sarebbe stato un esempio
insigne, di cui si sarebbe parlato per più d'una generazione, e che
avrebbe renduta sempre più rispettabile la casa, così erano tutti
impegnati, accaniti a riuscirvi.
La
risoluzione di Ludovico era il miglior ripiego per cavare i frati da questo
viluppo. Vestendo l'abito di capuccino, egli faceva una specie di riparazione,
rinunziava a tutte le massime di puntiglio e di vendetta che allora si
consideravano come leggi eterne e naturali di onore, rinunziava ad ogni
nimicizia, ad ogni gara, era insomma un nemico che depone le armi e si arrende.
I parenti poi potevano anche credere e dire che Ludovico si era indotto a
ciò per disperazione e per timore; e ridurre un uomo a rinunziare tutto
il fatto suo, a tagliarsi i capelli, a crescersi la barba, a camminare a piedi
nudi, a non possedere un quattrino, a dormire sulla paglia, a vivere di
elemosina, poteva parere un castigo bastante anche all'offeso il più
superbo. Il Padre Guardiano andò umilmente dal fratello del morto, e
dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di
servirla in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della chiesa,
parlò del pentimento di Ludovico (che era vero), e della sua
risoluzione, come se chiedesse un consiglio o quasi un permesso. Il fratello
diede nelle smanie, che il capuccino lasciò passare, dicendo di tempo in
tempo: «è un troppo giusto dolore»: parlò alteramente, e il
capuccino raddoppiò di umiltà e di complimenti; fece intendere
che in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una soddisfazione; e
il capuccino che non ne era persuaso, non gli contraddisse però;
finalmente domandò, impose come una condizione che l'uccisore di suo
fratello partirebbe tosto da Cremona. Il capuccino, che aveva già
pensato di far così, mostrò di accordar questo alla deferenza
ch'egli e tutti i suoi avevano per l'illustrissima casa, e tutto fu conchiuso.
Contenta
la famiglia per le ragioni che abbiam dette, contenti i frati, contenti quelli
che avrebbero dovuto punire Ludovico, perché dopo la donazione fatta da lui di
tutto il suo avere, la persecuzione che gli si sarebbe fatta non avrebbe
portato che impicci e fatiche, contento il popolo il quale vedeva salvo un uomo
che amava, dalle persecuzioni di prepotenti che odiava; e che nello stesso
tempo ammirava un conversione; contento finalmente ma per motivi diversi e
più alti il nostro Ludovico; il quale non desiderava altro che di
cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli altri che
potesse compensare il male ch'egli aveva fatto, e raddolcire il sentimento
insoffribile del rimorso. Così Ludovico a trent'anni si avvolse, come si
direbbe poeticamente, nelle ruvide lane, diede un eterno addio al mondo ed al
barbiere, e fu novizio. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita al
timore lo afflisse un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa
ingiustizia. Ognuno sa che quando uno si affigliava ad una regola, lasciava il
nome di battesimo, e ne prendeva un altro; Ludovico assunse quello di
Cristoforo.
Appena
Fra Cristoforo ebbe assunto l'abito, il guardiano gl'intimò che andrebbe
a fare il noviziato a Modena, e partirebbe all'indomani. Il novizio gli si
gettò allora ai piedi, e lo chiese d'una grazia. «Io parto», diss'egli,
«da questa città dove ho sparso il sangue d'un uomo, e vi lascio i
congiunti di esso e un fratello, quelli che io ho offesi, senza aver fatta una riparazione.
Permettetemi che io quanto è da me ripari almeno col fratello
l'ingiuria, e tolga se si può il rancore dal suo cuore». Al guardiano
parve che questo passo, fatto con tutte le precauzioni, riconcilierebbe al
tutto il convento colla famiglia e gli disse che gli darebbe risposta, e
andò difilato dal fratello dell'ucciso, esponendogli la richiesta di Fra
Cristoforo. Dopo qualche sbruffo di collera, e qualche esitazione: «venga
domani» diss'egli, e indicò l'ora. Il guardiano si assicurò che il
novizio non arrischiava nulla, e gli diede la licenza desiderata.
Il
signore superbo pensò tosto che poteva dare molta solennità a
questa riparazione, e soddisfare così in un punto la vendetta e
l'orgoglio, e crescere la sua importanza presso tutta la parentela, e presso il
pubblico: e fece avvertire in fretta tutti i parenti che all'indomani al mezzo
giorno restassero serviti (così si diceva allora) di venire da lui per
ricevere una soddisfazione comune. Al mezzogiorno la casa era piena di signori
d'ogni età e d'ogni sesso, tutti in grande apparato, con grandi cappe e
con durlindane infinite con... Il cortile e le anticamere e la strada
formicolavano di servi, di paggi, e di bravi. Fra Cristoforo vide tutto
l'apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un picciolo contrasto fu contento
che la riparazione fosse clamorosa. — L'ho ucciso in pubblico, diss'egli fra
sè, alla presenza dei suoi nemici: quello fu lo scandalo; questa
è riparazione —. Così con gli occhi bassi, col padre compagno al
fianco, attraversò la folla che lo riguardava con una curiosità
poco cerimoniosa, salì le scale, e con una confusione che cercava di
vincere giunse di sala in sala alla presenza del fratello il quale era
circondato dai parenti più prossimi.
Fra
Cristoforo gli si gettò ai piedi e disse: «Io sono l'omicida di vostro
fratello. Sa Iddio se io vorrei restituirvelo a costo del mio sangue; ma non
potendo che farvi inutili scuse, vi supplico di accettarle per Dio, e di
perdonarmi». Tutti gli occhi erano rivolti sul povero novizio e sull'uomo a cui
egli parlava, e s'intese un mormorio di pietà, e di rispetto. Il signore
che stava in atto di degnazione forzata e d'ira compressa, e si preparava a
goder d'un trionfo, fu turbato, e chinandosi verso l'inginocchiato: «Alzatevi»,
disse; «l'offesa... ma l'abito che portate... non solo questo; anche per voi...
Si alzi padre... Mio fratello... non lo posso negare; era... era un po'
caldo... ma, quello che Dio ha voluto... Non se ne parli più... Padre si
alzi per amor del cielo»; e presolo per le braccia lo sollevò...
Fra
Cristoforo alzato quasi a forza, e tenendosi pur chino rispose: «Se quegli che
io non oso nominare ha fallato, ha avuto pur troppo un severo castigo, e spero
che Dio misericordioso si sarà contentato di questo, e gli avrà
dato il suo perdono; ma io son qui, e non ho altro motivo per pretenderlo da
lei che la sua bontà, e i meriti del signore».
«Perdono!»
disse il signore: «ma padre Ella non ha bisogno... pure giacché lo vuole:
certo, certo io le perdono di cuore, in nome anche di tutti», e qui si
guardò intorno, e gli astanti: «sì sì» gridarono ad una
voce «tutti tutti». Allora il signore mosso dall'aspetto del frate, e dal
sentimento di tutti gli astanti, gettò le braccia al collo di
Cristoforo, il quale stringendolo più basso ricevette da lui e gli
rendette il bacio di pace.
Tutti
allora furono intorno a Fra Cristoforo, e la conversazione divenne generale. Il
signore che aveva voluto in questa occasione far pompa di tutto, aveva fatto
preparare un rinfresco sontuoso, e fatto cenno ad un cameriere, si
riavvicinò a Fra Cristoforo il quale stava in atto di accomiatarsi, e
gli disse: «Padre mi dia una prova di amicizia col gradire una picciola
refezione, e fare un po' di festa con noi». Intanto giunsero i rinfreschi. Il
signore volle servire pel primo il buon novizio: il quale scusandosi con
umiltà cordiale: «Queste cose» disse «non sono più per me; ma
tolga il cielo ch'io rifiuti i suoi doni: io sto per pormi in viaggio, si degni
di farmi portare un pane, perché io possa dire di aver goduta la sua
carità, di aver mangiato il suo pane, di aver questo segno del suo
perdono».
Il
signore commosso ordinò che così si facesse e tosto giunse un
cameriere riccamente vestito, che portando un pane sur un bacile d'argento lo
presentò al Padre, il quale presolo e ringraziato, lo pose nella sua bisaccia.
Il signore alzando la voce disse al cameriere: «si mandi pane bianco e vino al
convento per tutta la comunità». Dopo alcuni momenti Fra Cristoforo
chiese licenza, ed abbracciato di nuovo il signore, e tutti quelli che lo
stringevano e che volevano pure abbracciarlo, si sviluppò da essi a
fatica, ebbe a combattere nelle anticamere per isbrigarsi da quelli che gli
baciavano il lembo dell'abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò
nella via portato come in trionfo, ed accompagnato da una folla di popolo fino
alla porta donde uscì cominciando il suo pedestre viaggio verso il luogo
del suo noviziato.
Il
fratello dell'ucciso e il parentado, che si erano preparati ad assaporare quel
giorno la trista gioja dell'orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioja
serena del perdono e della benevolenza. La conversazione rimase più
pacata, più semplice, senza apparato, cordiale: e invece di trattenersi
di riparazione, di puntigli, di ricantare le storie delle soddisfazioni prese,
e dei sopramani vendicati, non si parlò che del Padre Cristoforo, e
delle virtù dei capuccini; e taluno che per la cinquantesima volta
avrebbe raccontato come il Conte Muzio suo avo aveva saputo fare stare quel
Marchese Stanislao che ognun sa che Rodomonte era, parlò invece della
vita penitente di un Fra Benedetto, morto molti anni prima. Sciolta la brigata,
il signore, ancora tutto commosso si maravigliava di tratto in tratto fra
sè di ciò che aveva detto, di ciò che aveva sentito, e
borbottava fra i denti: «Gran Frate, Frate singolare! Se rimaneva ancor
lì per qualche momento, quasi quasi gli avrei domandato io scusa
perch'egli mi abbia ammazzato il fratello!» Però è da notarsi che
tutti i convitati partirono di là un po' migliori di quello che vi
fossero andati, e ch'egli stesso fu per tutta la sua vita un po' meno superbo e
un po' più indulgente.
Il
Padre Cristoforo camminava con una consolazione quale non aveva provata mai
dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva essere
consacrata. Ai novizj era imposto silenzio; e Cristoforo serbava senza fatica
questa legge, tutto assorto nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e
delle umiliazioni che avrebbe incontrate per espiazione del suo fallo.
Fermandosi all'ora della refezione presso un benefattore, egli si mangiò
con una specie di voluttà il pane del perdono: ma ne risparmiò un
tozzo, e lo ripose nella sporta onde serbarlo come un ricordo perpetuo.
Non
è nostro disegno di narrare la vita fratesca del nostro buon padre:
diremo dunque soltanto ch'egli passò il suo noviziato sostenendo
alacremente le dure discipline di quello stadio, e sottomettendosi bravamente
alle prove, talvolta assai strane a cui erano posti i novizj; facendo per
ragione ciò che gli appariva ragionevole, e pensando pel resto che un
omicida non doveva esser trattato con molte cerimonie. Divenuto frate professo
egli si consacrò specialmente in quanto dipendeva dalla sua scelta a tre
sorta di servizi: assistere moribondi, comporre dissidj... e proteggere gli
oppressi. A questa ultima occupazione era egli portato dalla antica abitudine,
la quale operava in lui con motivi più puri, e da un resto di spirito
guerriero che le umiliazioni e le macerazioni non avevano sopito. Il suo
linguaggio come le sue azioni mostravano a chi l'avesse attentamente considerato
i segni di questo spirito indeboliti ad ogni momento da uno sforzo continuo, ma
non mai cancellati del tutto.
Era
a quei tempi comunissima a tutte le classi di persone l'usanza d'infiorare il
discorso di quelle parole delle quali quando si vogliono stampare non si pone
che l'iniziale con alcuni puntini, di quelle parole che esprimono o ciò
che vi ha di più sozzo o ciò che vi ha di più riverito, di
quelle parole le quali quando scappano ad un signorino nella puerizia, fanno
fare viso dell'arme alla mamma, e la fanno sclamare: «ohibò! dov'hai tu
inteso questo: nella via o dai servitori certamente» (e l'avrà inteso
dal signor padre) di quelle parole che non sono sconosciute nelle sale fastose,
e che formano la terza parte dei colloquj del popolo, al quale dicono alcuni
sapienti che converrebbe abbandonarle; ma questi sapienti non dicono bene,
perché comunque gli uomini sieno classificati, non vi ha alcuna classe d'uomini
alla quale convenga ciò che è turpe. Quest'uso era adunque comunissimo
in allora, e chi ne vuol la prova dia una occhiata alle leggi che bestemmiavano
pene atroci per impedir la bestemmia, guardi alla cura che i vescovi prendevano
per togliere questa vergogna dal clero stesso. Il signor Ludovico aveva fatto
un tale uso di queste frasi che la lingua del Padre Cristoforo durava fatica a
rimandarle tutte le volte che si presentavano, cioè ad ogni primo impeto
di passione di qualunque genere; ma il Padre Cristoforo faceva stare la sua
lingua. Solamente in certi casi rari, nei quali la passione era tanto viva che
quasi quasi Cristoforo tornava per un momento Ludovico, veniva ad un
componimento. Si proferivano le parole, ma trasformate: ad alcune consonanti
radicali n'erano sostituite altre che toglievano il senso ordinario alla
parola, e lasciavano soltanto travedere una lontana intenzione, quasi un
bisogno di proferirla. Così mutato, trasformato, temperato era l'animo,
in modo però che riteneva alquanto dell'antica sua natura.
Abbiamo
già detto che la Lucia si confessava dal Padre Cristoforo, e che gli
aveva confidate le sozze persecuzioni di Don Rodrigo. È quindi naturale
che il Padre accorresse alla chiamata di Lucia con ansia tanto più
grande, che avendole egli dato consiglio di non palesar nulla, e di starsene
quieta sperando che la burasca passasse, temeva ora che il suo consiglio fosse
stato cagione di qualche nuovo pericolo; ed alla sollecitudine di carità
che gli era naturale, si aggiungeva quello scrupolo delicato che tormenta i
buoni.
Ma
frattanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del Padre Cristoforo, egli
è giunto, si è affacciato alla porta; e le donne lasciando il
manico dell'aspo che facevano girare e stridere, si sono alzate, dicendo ad una
voce: «Oh Padre guardiano!»
CAPITOLO V
IL TENTATIVO
Il
qual padre guardiano si fermò ritto sulla soglia, e vedendo le due donne
sole, abbassò gli occhi, e si raccolse un momento, come era uso a fare
dacché era divenuto capuccino, tutte le volte che si trovava solo in presenza
di qualche persona di quel sesso terribile, che non avesse l'età
prescritta alle fantesche dei curati. Rialzando poi lo sguardo, s'accorse al
volto turbato delle due donne che i suoi presentimenti non erano fallaci; e
soprastato alquanto sulla soglia come per aspettarne la trista conferma, disse
con quel tuono di interrogazione che si risente già di ciò che
deve significare una risposta troppo preveduta: «E bene?» Lucia rispose con uno
scoppio di pianto. La madre cominciò dal chiedere scuse infinite al
padre guardiano dell'avere ardito incomodarlo, ma egli si avanzò e
postosi sur un sedile contesto di alga, troncò tutte le scuse, e dopo
aver detto a Lucia: «quetatevi povera figliuola», domandò di essere
informato di tutto brevemente. Il buon Padre ben si accorgeva di mettere una
condizione un po' dura e difficile; Agnese gli raccontò tutta la trista
storia del giorno antecedente fra le interruzioni del guardiano, che faceva
abbreviare le ciarle e che chiedeva schiarimenti, e che di tempo in tempo
diceva qualche parola di compassione e di conforto a Lucia che singhiozzava
amaramente. Quando la storia fu terminata; «Dio benedetto!» sclamò il
Padre Cristoforo: «fino a quando li lascerai fare costoro?» Indi volgendosi
tosto alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha visitate: povera Lucia! mah!
non vi perdete d'animo: Dio vi ajuterà, ve lo prometto io: oh non vi ha
mica creata perché foste tormentata da costui: Dio ha i suoi fini, e al termine
delle cose si vede la sua mano. Ascoltate; io vi prometto di non abbandonarvi:
oh non vi abbandonerò certo; mah! Dio sa quello che io potrò
fare: e chi sa che Dio non voglia servirsi di un uomo da nulla come son io per
cambiare un prepotente, e per sollevare dei poverelli. Lasciate ch'io pensi un
momento che cosa si possa fare per andare incontro al pericolo più pressante,
e poi Dio provvederà». Così dicendo appoggiò il gomito
sinistro sul ginocchio, e la fronte nella palma, e colla destra strinse il
mento barbuto, come per concentrare e tener ferme tutte le forze della sua
mente; Lucia stava aspettando con fiducia e con dolore, e la madre mandava
giù giù lo sguardo quanto poteva per ispiare qualche cosa dei
pensieri del padre, il quale fece mentalmente questo monologo: — Poffare, che
quell'uomo dovesse giungere a questo segno! Eh non è il primo pur
troppo! Ma non ci sarà chi possa farlo stare? Vediamo. Quello che
più importa sarebbe di far succedere subito il matrimonio. Per... dinci:
il signor curato fa una gran villania, e io gli parlo fuor dei denti... ciarle,
ciarle: egli sa che io non dò pugnalate, e mi lascerà dire, o mi
risponderà bravamente. Ma posso fargli paura anch'io: se trovassi il
modo di fargli venire un comando, ma un comando, e con un buon rabbuffo:
Monsignore illustrissimo non vuole di queste infami porcherie, sì ma
intanto, che cosa può accadere? No no bisognerebbe mettere in salvo
questa povera colomba e mettere un freno a quel birbante. Il fatto è
chiaro: la legge c'è; e la giustizia,... quando fosse stimolata. Eh qui
non facciamo niente: costui gli spaventa tutti: toccare Don Rodrigo,
già! per amor di Dio! chi l'oserebbe? Ma il mondo poi non finisce qui:
costui fa il tiranno spaventa questi poveri foresi che lo credono più
potente che non è! E il cordone di San Francesco ha legate altre spade
che quella di costui: se potessi mettere in moto le mie barbe a Milano... E
intanto? e poi? e poi? E chi sa se non sarei contraddetto da alcuni dei nostri?
costui fa il protettore dei cappuccini, l'amico del convento: e i suoi bravi si
sono ricoverati talvolta da noi... e chi sa come si rappresenterebbe la cosa? e
quando si vedesse che si tratta di soccorrere una povera figlia che non
può compensare con altrettanta protezione! Ah! se fosse una gran
signora! Ma se fosse una gran signora non sarebbe in questo caso. Oh poveretti
noi! Oh che tempi! Quando io credeva che facendomi cappuccino sarei fuori di
questo mondo infame! Eh non se ne va fuori che quando si muore. E fare un
tentativo presso Don Rodrigo? Ehn! che cosa varranno le parole d'un povero
frate su quel diavolo in carne? Eppure non c'è altro da fare. Chi sa che
adoperando preghiere, qualche minaccia lontana: fargli sentire che c'è
qualcheduno che sa quel che si può fare contra uno scellerato
soperchiatore? Forse non sarà che un infame cappriccio venutogli
dall'aver tanto fatto impunemente: e quando vedrà che l'affare
può diventar serio... Sì non c'è altro, non c'è
altro. Se non altro si vedrà come giuoca costui, e si guadagnerà
tempo.
Il
Padre Cristoforo si fermò in questa determinazione, pei motivi che
abbiamo riferiti, e che in verità bastavano se non a farne sperar molto,
a renderla almeno preferibile ad ogni altra: ma dietro a tutti questi motivi ve
n'era un altro che dava un gran peso a tutti questi, e che quantunque agisse
così potentemente non era distintamente avvertito da lui. Il Padre
Cristoforo era portato a cogliere con premura una occasione di trovarsi a
fronte d'un soperchiatore, di resistergli se non altro con esortazioni, di
confonderlo, e di provargli ch'egli aveva il torto, e di combatterlo e di
vincerlo come che fosse.
Mentre
il buon frate stava ancor meditando, Fermo il quale per tutte le ragioni che
ognuno può indovinare non sapeva star lontano da quella casa, erasi
affacciato alla porta, e visto il padre assorto, e le donne che gli facevano
cenno di non disturbarlo, sdrucciolò per un angolo della porticella
nella stanza, e costeggiando il muro andò a riporsi tacitamente in un
angolo della stanza. Quando il Padre si alzò per comunicare alle donne
il suo disegno, s'accorse di Fermo, e gli fece un saluto che esprimeva una
affezione resa più intensa dalla pietà, e Fermo ne fu commosso.
«Ha
saputo?» disse Fermo.
«Pur
troppo ho inteso la vostra disgrazia» rispose il Padre; «ma tu non ti perderai
d'animo come queste poverette, e sopra tutto aspetterai che Dio ti ajuti, e Dio
ti ajuterà».
«Benedette
le sue parole», rispose Fermo: «ella non è di coloro che danno sempre
torto ai poverelli, e che rimproverano una disgrazia come se fosse una colpa.
Ma il signor curato e il signor dottore...»
«Non
pensare a questo che è inutile: io sono un povero frate, ma ti ripeto
quello che ho detto a queste donne: per poco ch'io sia non vi
abbandonerò». «Oh lei non è come gli amici del mondo. Sciaurati!
dopo tante promesse fatte nell'allegria, che darebbero il sangue per me, che mi
avrebbero sostenuto sempre, che se avessi avuto briga con qualcuno per
cavaliere ch'ei fosse... e poi: se vedesse come si ritirano: oh nessuno
più ne vuol sentire a parlare...»
Mentre
Fermo parlava il Padre Cristoforo lo guardava coi suoi occhi scintillanti, e
prendeva un'aria severa di modo che Fermo si andava accorgendo che le parole
sue non erano gradite, ed ora voleva lasciar cadere il discorso, ora tentando
di raggiustare la faccenda, si andava incespicando e pronunziava parole
sconnesse... «voleva dire: cioè Padre, non m'intendo mica...»
«E
che Fermo! dunque tu avevi cominciato a guastare l'opera mia, prima ch'ella
fosse intrapresa! Tu pensavi a difenderti della violenza colla violenza!
Ringrazia il cielo che sei stato disingannato a tempo. Come! tu speravi
soccorso da questi che tu chiami amici? Soccorso per liberarti dalla
ingiustizia? Poveretto! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita e il
suo riposo per sagrificarlo alla giustizia, alla giustizia altrui? Sì;
pel denaro, per la vendetta, pel diletto di far male l'uomo disprezza il pericolo;
sì allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioja ad affrontare
il suo simile: ma perché uno non sia oppresso, ma perché non s'impedisca una
cosa giusta, ma perché le cose vadano come dovrebbero andare, tranquillamente
ordinatamente, tu credevi che troveresti chi si armerebbe con te contra un
potente? Gli uomini non provano per questo quella gioja feroce che fa
desiderare di affrontarsi coll'uomo: o se ve n'ha di tali sono tanto rari...; e
— a queste parole Fra Cristoforo strinse fortemente la mano a Fermo — e anche
questi han torto. Ringrazia il cielo che non ti ha dato il tempo di confidare
in questi ajuti tanto da far qualche cosa della quale ti saresti pentito.
Ascolta, Fermo, io son pronto a fare quello che posso per voi; ma vi pongo una
condizione».
«Comandi,
padre guardiano».
«Tu
mi devi promettere che ti fiderai di me, che non affronterai, che non
provocherai nessuno...»
«Promettete
promettete», dissero le donne.
«Prometto
prometto», disse Fermo.
«E
bene» continuò il buon frate; «importa assai che di questo affare si
parli il meno possibile: perché i discorsi potrebbero rendere inutili i miei
sforzi per farlo terminar bene: io spero che quelli che tu chiamavi amici non
parleranno, per la stessa ragione che gli ha distolti dall'operare. Io andrò
oggi a parlare con quell'uomo dal quale viene tutto questo male, e non dispero
di far tutto finire: in ogni caso, vi prometto di nuovo di non abbandonarvi
mai. Frattanto voi state ritirati, schivate i discorsi, e sopra tutto non vi
mostrate; questa sera o domani avrete nuove di me». Detto questo egli
interruppe tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì inculcando
di nuovo la quiete e la prudenza; e s'avviò al suo convento.
Ivi
andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise alla parca mensa, e
allora più parca del solito per la carestia che cominciava a farsi
sentire dappertutto, e dopo raccomandati al vicario gli affari del suo picciolo
regno, si pose in via verso il covile dell'orso che si trattava di ammansare;
senza riporre a dir vero, molta speranza nel suo tentativo.
Il
Castellotto di Don Rodrigo era posto sul pendio della montagna discosto due
miglia dalla casetta di Lucia, un po' più basso e più verso
settentrione, e a tre miglia circa dal convento il quale come abbiam detto era
al piano del fiume, e nel paesetto posto sulla riva sinistra. Questo
castellotto posto sulla cima d'uno di quei piccioli promontorj fra i quali si
dividono le grandi montagne, era fuori dell'abitato. Intorno al castellotto
erano tre o quattro casette di contadini che lavoravano i fondi di Don Rodrigo,
e che gli facevano da servitori e da bravi secondo l'occorrenza: vecchj che
parlavano dell'antico onore della casa e delle loro prodezze giovanili, e le
proponevano in esempio ai giovani: giovani che cercavano di emulare quei fatti
gloriosi, e donne che sentivano pure un nobile orgoglio della loro condizione
di suddite ad un cavaliere che sapeva farsi rispettare, e di madri e mogli
d'uomini che si facevano temere. Quando però, il che non era caso raro,
alcuno degli uomini loro tornava col capo rotto a casa, o si trovava minacciato
della vendetta di qualche offeso furibondo, o in un altro di quegli impiccj in
cui doveva farli cader sovente il modo loro di vivere, le donne urlavano
allora, mostravano con furore i ragazzi sul volto ai mariti, predicavano la
pace e il timor di Dio, e non si mettevano in silenzio che dopo aver toccata
qualche bussa. L'aspetto delle abitazioni di costoro dava un indizio della vita
tra il rustico e l'eroico che essi menavano, poiché guardando dalle porte si
vedevano nelle loro stanze terrene appesi alla rinfusa gli archibugj e le
zappe, la reticella e il berretto piumato col cappello pastorale di paglia.
Quando
il Padre giunse dinanzi al Castellotto trovò la porta chiusa, segno che
il padrone stava a tavola e non voleva esser frastornato. Le rade e picciole
finestre che davano sulla via erano chiuse da imposte cadenti per
vetustà ma difese da grosse ferriate, e quelle del piano terreno tanto
elevate che un uomo avrebbe appena potuto affacciarvisi salendo sulle spalle
d'un altro.
Tutto
al di fuori era silenzio, e un passaggero avrebbe potuto credere che quella
casa fosse abbandonata, se quattro creature, che erano poste in euritmia al di
fuori, non avessero dato un indizio di abitazione, e nello stesso tempo un
simbolo della ospitalità di quei tempi. Due grandi avoltoj colle ali
tese erano inchiodati ciascuno sur una imposta; ed uno già mezzo
consumato dal tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro, non
aveva quasi più nemmeno la figura d'un bel cadavere: e due bravi (quei
due medesimi che avevano messa quella bella paura in corpo al curato) sdraiati
ciascuno sur una delle panche di pietra poste al di qua e al di là della
porta, facevano guardia oziosa al castello del signore aspettando di godere gli
avanzi della sua mensa. Il Padre stava per ritirarsi ed aspettare in qualche
distanza che la porta si aprisse; ma uno de' bravi avendolo veduto: «padre» gli
disse: «ella vuol riverire il Signor Don Rodrigo: aspetti aspetti, qui non si
mandano indietro i religiosi, noi siamo amici del convento», e così
dicendo si alzò, e senza dar retta al frate che voleva ritornarsene,
battè due colpi del martello sulla porta; a quel segno giunse
borbottando un servo; ma quando ebbe veduto il Padre, lo fece entrare tosto
dicendogli che avvertirebbe il padrone, e attraversato un angusto cortile lo
condusse per alcuni salotti quasi fino alla porta della sala del convito. A
misura che il frate si avvicinava col suo duca, sentiva un romore crescente di
forchette e di coltelli, un sordo fragore di piatti di stagno posti l'uno
sull'altro, e sopra tutti un frastuono di voci discordi che tutte volevano
coprire le altre. Il frate desideroso allora più che mai di attendere
miglior congiuntura stava litigando sulla porta col servo per ottenere di
aspettare in un canto della casa che il pranzo fosse terminato, quando la porta
si aperse, e Don Rodrigo che stava di contro veduta la barba e il cappuccio, e
accortosi della intenzione modesta del buon Frate: «Ehi ehi» disse «non ci scappi
Padre, avanti, avanti». Il padre, mal suo grado si avanzò, in mezzo ai
clamori e alle dispute dei convitati, i quali accorgendosi ad un per volta del
sopravvenuto lo salutavano con quell'aria di rispetto ironico ed affettato che
gli amici di Don Rodrigo dovevano avere per un cappuccino.
Bisogna
confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando,
è un più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi
s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più
colossali, vi si scorgono scelleratezze più raffinate, più
ingegnose, più recondite, più ardite che non nel corso reale
degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a
compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli
onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di
forze, e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio ancor che
trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di
linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non
dà sempre agli uomini realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla
parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa
difficile in favore della giustizia sono obbligati a pensare ai mezzi per
giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera
senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti
riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente
in uno stato di esitazione, di cautela, e di studio, che gli fa sovente
scomparire, in faccia ai loro avversarj risoluti ed incoraggiati dalla forza e
dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o
sciocco, o perverso degli spettatori. L'uomo retto sente, a dir vero con certezza
e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un
risultato, una conseguenza d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la
quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime fa ridere
l'avversario, il quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è
posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non
ha che sè per testimonio e per approvatore, e che vede negli altri
contraddizioni e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è
disposto a dubitare: o almeno si trova in quello stato di contrasto che fa
comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra
in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe
quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più placida
e più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore, e
nell'animo interno mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna
che si crederebbe rimorso; dimodoché a poco a poco finisce per essere soperchiato
non solo nei fatti ma anche nel discorso, e nel contegno, e sta come un
supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.
Si
è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo,
il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più
stretta giustizia, e la cessazione della più vile iniquità, si
rimase come confuso, e vergognoso quando si trovò così solo con
tutte le sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di
amici di Don Rodrigo, e in sua presenza. Era questi in capo alla tavola: alla
sua destra sedeva il giovane Conte Orazio cugino di Don Rodrigo, suo compagno
di libertinaggio e di soperchieria, e che villeggiava con lui: alla sinistra il
Podestà, che Don Rodrigo aveva invitato non senza perché, potendo
trovarsi in un impegno dal quale si sarebbe cavato meglio quando la Giustizia
fosse tutta disposta in favor suo. Il Podestà mostrava di ricevere
l'onore di sedere famigliarmente a tavola d'un cavaliere con un rispetto misto
però d'una certa libertà che gli dava il suo uficio; accanto a
lui, e con un rispetto il più puro e il più sviscerato sedeva il
nostro Dottor Duplica, il quale avrebbe voluto essere il protetto di tutti
quelli che eran da più di lui, e il protettore di tutti quelli che gli
erano inferiori: due o tre altri convitati di ancor minore importanza
attendevano a mangiare e a sorridere con una adulazione ancor più
passiva di quella del dottore: e quando questi approvava con un argomento o con
una lode che voleva esser ragionata, essi non sapevano dire più in
là di: «certamente».
«Da
sedere al padre», disse Don Rodrigo; e un cameriere avvicinò una scranna
sulla quale si pose il Padre Cristoforo facendo qualche scusa al signore di
esser venuto in ora inopportuna, a parlargli d'un affare d'importanza.
«Parleremo,
quanto Ella vorrà, ma intanto portate da bere al Padre». Il Padre voleva
schermirsi, ma Don Rodrigo in mezzo al trambusto dei litiganti gridava: «No
per... non mi farà questo torto, padre: non sarà mai detto che un
cappuccino si parta da questa casa senza aver gustato del mio vino, né un
creditore insolente senza avere assaggiato della legna dei miei boschi». Queste
parole produssero un riso universale e interuppero un momento la quistione che
si agitava caldamente fra i commensali. Un servo portando sur un bacile
un'ampolla, come allora usava, di vino, e un lungo bicchiero a foggia di
calice, lo presentò al Padre, che non volendo resistere ad un invito
tanto pressante dell'uomo che voleva farsi propizio, non esitò a
mescere, e si pose a sorbire lentamente il vino.
«Le
torno a dire, Signor Podestà riverito, che l'autorità del Tasso
non serve al suo assunto, che anzi è contro di lei», riprese ad urlare
il Conte Orazio: «perché quel grand'uomo che conosceva tutte le regole e tutti
i puntigli della cavalleria più soprafina ha fatto che il messo di
Argante prima di esporre la sfida ai cavalieri cristiani, domandi licenza a
Goffredo...»
«Ma
questo», replicava non meno urlando il Podestà, «questo è un
sopra più, un mero sopra più: giacché il messo è di sua
natura inviolabile per diritto delle genti, jus gentium, e secondo quel
proverbio, — ella m'insegna che i proverbi sono voce di Dio secondo quell'altro
proverbio che dice: vox populi vox Dei — quel proverbio: ambasciator non
porta pena; dico che non avendo il messaggero detto nulla in persona propria,
ma solamente presentata la sfida in iscritto, secondo tutte le regole, non
doveva mai...»
«Con
buona licenza di questi signori», interruppe Don Rodrigo il quale questa volta
contra il suo solito aveva voglia di troncare la quistione: «rimettiamola nel
Padre Cristoforo, e si stia alla sua sentenza».
«Bene,
benissimo», disse il Conte Orazio al quale parve cosa molto graziosa il far
decidere una questione di cavalleria da un cappuccino; mentre il
Podestà, a cui pareva un po' ostico l'esser sottoposto ad un giudizio
mostrava leggermente il suo malcontento con un suono inarticolato accompagnato
da una quasi invisibile mossa di spalle. «Ma, da quel che mi pare d'avere
inteso», disse il Padre, «non sono cose di cui io mi debba intendere».
«Solite
scuse di modestia di loro Padri», disse Don Rodrigo; «ma non mi
scapperà: Eh via! sappiamo bene ch'ella non è venuta al mondo
colla barba, e col cappuccio, e il mondo lo ha conosciuto. Via via. Ecco il
fatto».
«Il
fatto è stato...» gridò il Conte Orazio.
«Lasciate
pur dire a me che sono neutrale, cugino», riprese Don Rodrigo. «Il fatto
accaduto in Milano è: che un Cavaliere spagnuolo mandò la sfida
ad un cavalier milanese: e il portatore non trovando il provocato in casa,
consegnò la lettera ad un fratello del cavaliere; il quale, letta che
l'ebbe diede alcune bastonate al portatore...»
«Ben
date, bene applicate» gridò il Conte Orazio; «fu una vera
ispirazione...»
«Del
demonio», interruppe il podestà «battere un ambasciatore! persona sacra!
anch'Ella padre, mi dirà se questa è azione da cavaliero...»
«In
verità signor Podestà ch'io non avrei mai potuto credere che un
par suo desse tanta importanza alle spalle di un mascalzone».
«Ma
Signor conte, ella mi fa dire dei paradossi ai quali io non ho mai pensato. Io
parlo dell'offesa fatta alla livrea del Cavaliere spagnuolo, e non delle spalle
del messo: parlo sopra tutto delle leggi di cavalleria. Mi dica un po' se i
Feciali, che erano quelli che gli antichi romani mandavano ad intimar le sfide
ai popoli con cui si mettevano in guerra, domandavano il permesso di esporre
l'ambasciata; e mi trovi un po' uno scrittore che faccia menzione che un
feciale sia mai stato bastonato».
«Che
mi parla di antichi romani, che in queste cose erano rozzi, e principianti?...
non v'erano stati ancora paladini nel vero e stretto senso della parola: ma ora
che le cose si sono raffinate, che l'esperienza ha resi gli uomini ben
più delicati, e che abbiamo scrittoroni i quali hanno immaginati tutti i
casi escogitabili, e hanno scavato coll'acume del loro ingegno fino all'ultimo
fondo di queste questioni, ora, io dico e sostengo, che un messo che non
domanda la licenza di esporre una ambasciata di sfida è un temerario,
violabile, violabilissimo, e che a bastonarlo si acquista indulgenza».
«Ebbene
mi risponda un po' a questo. Il portatore non è disarmato? e offendere
un disarmato non è atto proditorio? Dunque il cavaliere milanese...»
«Piano
piano, che bell'equivoco mi fa ella Signor podestà?...»
«Come?»
«Ma
lasci rispondere. Atto proditorio è ferire colla spada un cavaliere
disarmato. Confesso che infilzare colla spada un plebeo senza necessità
sarebbe azione tanto vile, quanto bastonare un cavaliere: ma qui si tratta di
bastonate date ad un plebeo; e lei non mi troverà una regola che imponga
di dire guarda che ti bastono, come si dice: mano alla spada... E lei Signor
Dottore riverito, invece di farmi dei sogghigni, per darmi ad intendere che è
del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni colla sua buona tabella, per
ajutarmi a fare entrare la ragione in capo a questo signore?»
«Io...»
rispose alquanto sconcertato il dottore, «io godo di questa dotta disputa; e
benedico quel grazioso accidente che ha dato occasione ad una guerra di ingegni
sottili, e di labbra eloquenti che serve d'istruzione e di diletto agli
ascoltatori; di modo ché non vorrei, anche potendo, metter daccordo due
combattenti che fanno sì bella mostra delle loro forze. Ho detto, potendo,
giacché io non m'arrogo di fare il giudice... e se non m'inganno il nobile
padrone di casa ha nominato un giudice... qui il padre...»
«È
vero», disse Don Rodrigo, «ma come volete che il giudice parli quando gli
avvocati non vogliono tacere!»
«Son
muto», rispose il Conte Orazio: il Podestà fece pur cenno che tacerebbe.
«Ah!
finalmente! A lei padre», disse Don Rodrigo con una serietà beffarda.
«Ho
già fatte le mie scuse col dire che non me ne intendo», rispose Fra
Cristoforo dando il bicchiere ad un servo.
«Scuse
magre», gridarono tutti: «vogliamo la sentenza».
—
Mascalzoni... cioè poveri traviati; pensava fra sè il Padre
Cristoforo, credete voi che starei qui a sentire le vostre pappolate se non si
trattasse di cavare una innocente dagli artigli di quel lupo che voi
accarezzate vilmente?
Ma
come s'insisteva d'ogni parte: «Ebbene», disse, «poiché lor signori non
vogliono credermi quand'io dico che non me ne intendo, vedrò di far dire
a loro la stessa cosa. Il mio debole parere dunque in tutto questo si è,
che a ben fare non vi dovrebbero essere né sfide, né portatori, né bastonate».
«Nè
cavalieri spagnuoli, né cavalieri milanesi, voleva forse dire padre»: rispose
il Conte Orazio: «ed io aggiungo: nemmeno padri cappuccini. Oh vorrebb'essere
un bel vivere, padre... come si chiama il padre?»
«Padre
Cristoforo».
«Padre
Cristoforo ella ci vorrebbe ricondurre a vivere di ghiande. Senza sfide e senza
bastonate! sarebbe un bel mondo! impunità per tutti i paltonieri, e il
punto d'onore andato. Ma scommetto che il Padre ha voluto scherzare perché sa
benissimo che la sua supposizione è impossibile».
Don
Rodrigo il quale non vedeva volentieri che il suo schiamazzatore cugino facesse
tante questioni col podestà che gli premeva di tenersi amico,
approfittò della sentenza del padre Cristoforo per divertire il discorso
dalla questione, e rivolto al dottore con aria di protezione e di scherno.
«Oh»
disse, «voi dottore che siete famoso per dar ragione a tutti, vediamo un po'
come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo».
«In
verità», rispose il dottore, rivolgendosi al padre, «io non so intendere
come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e
l'uomo di mondo, non abbia posto mente che la sua sentenza, buona, ottima e di
giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una
disputa cavalleresca: perché ogni cosa è buona a suo luogo: ma credo
anch'io che il padre Cristoforo ha voluto terminare con uno scherzo ingegnoso
una questione broccardica».
Il
Padre Cristoforo non rispose, e perché come è facile indovinarlo era
stomacato da lungo tempo della disputa e dei disputanti, e perché sapeva che il
dottore non si curava di esser persuaso: e finalmente perché sarebbe stato impacciato
a rispondere; giacché quantunque nel suo cuore egli pensasse veramente
ciò che avevano espresso le sue parole; le ragioni della sua sentenza
erano tanto lontane dalle idee di quel tempo ch'egli stesso avrebbe durato
fatica a trovarle.
Il
dottore il quale vide che i due litiganti stanchi di avere impiegata la bocca
in parole si erano rimessi a guadagnare sul piatto il tempo perduto, e temendo
che non si valessero delle forze riacquistate per ricominciare una guerra nella
quale egli era già compromesso, pensò di toccare un'altra
materia, e disse: «Del resto signori miei giacché si è parlato di
cavalieri spagnuoli e di cavalieri milanesi, o viceversa, giacché ho un eguale
rispetto per gli uni e per gli altri; credo che presto vedremo anche dei cavalieri
alemanni, se le notizie che girano sono fondate, cosa che loro signori sapranno
meglio di me».
«Le
lettere ch'io ricevo da Milano», rispose Don Rodrigo, «mi danno che è
voce comune che gli alemanni ottengono il passaggio per andar contro Mantova, e
che pur troppo si crede che il passaggio sarà per di qui, giacché i
comaschi muovono cielo e terra per fare a noi questo regalo...»
«Non
si sturbi, non si sturbi...» rispose sorridendo il podestà: «non
verranno alemanni né a Como, né qui».
«Ed
io le dico» ricominciò il Conte Orazio, «che si assicura che sono
già in marcia per Lindò, e si nomina il generale che sarà
il celebre Conte di Colalto, e che si dà la nota dei reggimenti fra i
quali vi è quel rinomatissimo reggimento dei più scelti e forbiti
diavoli in carne che abbiano mai portato moschetto, il reggimento del famoso
principe di Valdistano, o Vallistai come lo chiamino...»
«Il
nome legittimo in lingua alemanna», interruppe il podestà, «è
Vagliensteino, come l'ho inteso più volte proferire dal nostro signor
comandante spagnuolo».
«Ebbene
il reggimento di Vaglien... quello che è: e oltre di questo vi è
il reggimento di Galasso, del Barone Aldringhen ed altri simili, tutta gente
che ha combattuto contro i Luterani, e che non ha timor di Dio né degli uomini,
e che dove passa non lascia un filo d'erba».
«Per
me», riprese Don Rodrigo, «non ho voglia di aspettarli qui, e» continuò
sogghignando verso il Conte Orazio, «se non avessi un affaruccio da sbrigare,
sarei già a Milano».
«Il
vostro affare è già bell'e disperato, e se non avete altro potete
partire».
«Voi
vorreste aver guadagnata la scommessa; ma piano, caro mio, se gli alemanni non
vengono in questi giorni, la scommessa la pagherete». Queste parole e il
sorriso infernale con cui furon dette e risposte furono un lampo pel padre
Cristoforo il quale s'accorse fremendo e tremando, che l'oggetto della
scommessa doveva essere l'innocente Lucia. Il dottore intese forse quanto il
padre, ma non tremò né fremè, né fece vista di nulla.
«Attenda
a tutto bell'agio ai suoi affari, sulla mia parola signor Don Rodrigo e non
pensi a privarci della sua rispettabile persona; che già gli alemanni
non sognano nemmeno di passare per di qua. Per mettere il piede sul nostro
territorio che ha l'onore di appartenere alla monarchia spagnuola, bisogna
ottenere il permesso del re Cattolico Don Filippo Quarto nostro signore che Dio
guardi. Ora il permesso a chi tocca concederlo o negarlo? Niente meno che al
Conte Duca, al gran d'Olivares, a quel modello dei politici, a quell'uomo che
si può chiamare il favorito dei principi e il principe dei favoriti. Ora
pensino le signorie loro, se un Olivares vuol permettere il passaggio...»
«Ma
le dico che si radunano a Lindò...»
«Appunto
questo è quello che mi persuade di più che non passeranno in Italia.
Certe cose io le so dal nostro signor comandante spagnuolo, il quale si degna —
brav'uomo! — di trattenersi meco con qualche confidenza. Sapranno ch'egli
è un figliuolo d'un creato del Conte Duca, e che sa qualche cosa di
questo gran ministro. Ebbene fra le strepitose doti del Conte Duca la
più strepitosa forse è quella di saper nascondere i suoi disegni:
di modo che quegli stessi che lo servono più da vicino, quegli che
scrivono i suoi dispacci non sanno mai che cosa passi in quella testa, e molte
volte anche dopo che un affare è stato conchiuso, nessuno ha potuto
indovinare quale era in esso l'intenzione del Conte Duca. È una volpe,
col dovuto rispetto, un furbo che farebbe perder la traccia a chichessia; e
quando accenna a destra si può esser certi che batterà a
sinistra, ed è perciò che nessuno può mai indovinare
quello ch'egli sia per risolvere. Onde quand'io veggo truppe alemanne venire
alla volta d'Italia, tanto più dico, che sono destinate per altra parte;
perché chi regola tutto anche fuori della monarchia è il Conte Duca; che
ha le mani lunghe quanto la vista».
«Ma
per dove crede lei che siano destinate tutte queste truppe?»
«Per
dove? non per l'Italia certo. Potrebbero esser destinate a gettarsi nella
duchea di Borgogna per far diversione ai francesi, i quali (tutto per invidia
del Cardinal di Riciliù contro il Conte Duca, perché vede benissimo che
non può competere con quella testa) i quali francesi dico per invidia
soccorrono gli olandesi che si trovano all'assedio di Bolduc. E questa
congettura, per dir tutto, la tengo dal signor comandante spagnuolo».
«Ma
sappia signor podestà che le notizie che noi abbiamo da Milano, vengono
da personaggi in confronto dei quali...»
«Via
via, cugino», interruppe Don Rodrigo «che il signor dottore è impaziente
di dare egli una decisione questa volta».
«Io
decido e sentenzio», disse il Dottore, «che le cene di Eliogabalo sarebbero
vinte al confronto dei pranzi del nobile signor Don Rodrigo, e che la carestia
non ardisce approssimarsi a questa casa dove regna la splendidezza sua capitale
nemica».
Tutti
fecero plauso al dottore e viva a Don Rodrigo; e tutti subito si misero a
parlare della carestia. Qui tutti furono d'una sola opinione; ma il fracasso
era forse più grande che se vi fosse stato disparere: giacché tutti
esprimevano energicamente la stessa opinione con diverse frasi, ma tutti in una
volta. «Carestia!» diceva uno, «non c'è carestia sono gli
accapparratori, birbanti». «I fornaj, i fornaj» gridava un altro. «Impiccarli!
dei buoni esempj, senza pietà. E quei birboni impostori che con un'aria
pietosa hanno la sfrontatezza di dire che il pane è caro perché il
raccolto è stato scarso, e che il grano manca! Impiccarli, impiccarli!
sono i peggiori: tutte invenzioni per nascondere gli accapparramenti».
«Hanno
detto che non vogliono vendere finché un terzo degli abitanti non sia morto di
fame e il frumento non costi cento lire al moggio. Oh scellerati! impiccarli!»
«Il
grano c'è: questo è un fatto innegabile: dunque bisogna farlo
saltar fuori: e il mezzo è pronto: impiccare quelli che lo nascondono».
«Dov'è
tutto il male? nella carezza del pane: e chi lo vende caro? i fornaj: e per
farli mutar vezzo, impiccarne uno o due».
«Eh
ci vuol altro che uno o due: sono tutti birbanti, col pelo sul cuore.
Impiccarli, impiccarli!» Chi ha mai intesa e goduta l'armonia che fa in una
fiera di campagna, una troppa di cantambanchi, quando prima di spiegare i suoi
talenti dinanzi al rispettabile pubblico, ognuno accorda il suo stromento,
facendolo stridere più forte che può affine di poterlo sentire in
mezzo al romore degli altri, che procura di non ascoltare, s'immagini che tale
fosse la conversazione di economia politica dei nostri commensali. In mezzo a
questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e dando urtoni e
gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni
arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato di quello che in
Lombardia si chiama vino della chiavetta, e del quale, per un privilegio
singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del
vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però
cangiarla del tutto: il gridio continuò per una buona mezz'ora: le
parole che si sentivano più spesso erano ambrosia e impiccarli.
Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata: e
Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al padre
Cristoforo, e lo condusse seco in una stanza vicina.
CAPITOLO VI
PEGGIO CHE PEGGIO
Ognuno
può avere osservato che, dalla peritosa sposa di contado fino a... fino
all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e per dirla in milanese il
più navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari, certi moti
insignificanti dei quali fanno uso quasi involontariamente quando, trovandosi
con persone colle quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che
dire, o aspettano il momento di dir cosa la quale non è attesa né
sarà molto gradevole a chi deve intenderla. La differenza che passa tra
gl'intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal
dialetto del mio paese, il quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra
specie) la differenza è che i primi coi loro moti incerti, e vacillanti
e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo, e vi si vanno sempre
più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello
stesso tempo un esercizio di eleganza e di superiorità. Tutte le classi
hanno una provvisione particolare, e caratteristica di questi atti, e questa
distinzione era più osservabile nei tempi in cui le classi erano
più distinte per abitudini, e anche pel costume di vestire, il quale si
prestava naturalmente ad usi diversi di questo genere. Si potrebbe qui fare una
erudita enumerazione di questi gesti, cominciando dai personaggi più
celebri e dalle condizioni più note degli antichi romani, o anche degli
Egizj, ma sarebbe troppo provocare l'impazienza del lettore avido certamente di
seguire la nostra interessante storia. Diremo soltanto che gli atti più
usuali dei cappuccini per avere come dicono i francesi une contenance,
erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi indietro
dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella larga manica sinistra
e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di palpare ad uno ad uno i grossi paternostri
del rosario che tenevano appeso alla cintola. Questa ultima operazione appunto
faceva il Padre Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don
Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il
lettore sa che il buon padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di Don
Rodrigo non occorre parlare, giacché ognun sa che nessuno è tanto
sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare. Stava
egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di quello
che il padre fosse per dirgli, sospetto che il contegno un po' irresoluto del
padre aveva quasi cangiato in certezza. Gli accennò con sussiego che
sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio con queste parole:
«In
che posso obbedirla, padre?»
Questo
era il suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire
chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.
Il
tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere ogni
imbarazzo al padre Cristoforo; perché risvegliando quell'uomo vecchio che il
padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto quello che v'era in lui
di più franco e di più risoluto: cosicché invece di farsi animo
dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a rispondere sullo stesso tuono,
per non guastare l'opera delicata che stava per intraprendere.
Onde,
con modesta, ma assoluta franchezza, rispose:
«Signor
Don Rodrigo il mio sacro ministero mi obbliga a passare un officio con
Vossignoria. Io desidero ardentemente che nessuna mia parola possa spiacerle: e
per antivenire ad ogni disgusto debbo assicurarla che in tutto quello ch'io
sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto quello di qualunque altra
persona».
Don
Rodrigo non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando
le ciglia, e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e
sprezzante. Il Padre fece le viste di non avvedersene, e continuò, con
qualche esitazione, perché le parole ch'egli stava per proferire non
esprimevano veramente quello ch'egli sentiva:
«Qualche
tristi hanno abusato del nome di Vossignoria illustrissima per minacciare un
parroco, ed atterrirlo dal fare il debito suo, e sopraffare indegnamente due
poveri innocenti. Vossignoria può con una parola confondere questi
ribaldi, disingannare quelli che potessero aver dato fede alle loro parole, e
sollevare quelli che ne patiscono. Lo può, e ardisco dirle, lo deve. La
sua coscienza, la sua sicurezza, il suo onore sono interessati in questo
sciagurato affare».
«Della
mia coscienza, padre, non mi si deve parlare che per rispondermi quando mi
piaccia di parlarne; la mia sicurezza... ma non posso credere ch'ella abbia
avuta l'intenzione ardita di farmi una minaccia; e suppongo che questa parola
le sia sfuggita senza riflessione. Quanto al mio onore, io potrei esser grato a
chi ne sente premura in cuor suo, ma sappia che ne ho la cura io, e che
chiunque osa prendersi questa cura per me, io lo riguardo come colui che lo
offende».
La
fredda ed altiera impudenza di Don Rodrigo avrebbe fatta perder la flemma al
Padre, se questi non ne avesse fatta una provvisione per trenta anni, e se non
fosse stato compreso dell'importanza del negozio che stava trattando. Con
questo pensiero, riprese: «Signor Don Rodrigo: sa il cielo se io ho disegno di spiacerle:
ella pure lo sa: non volga in ingiurie quello che mi detta la carità,
sì una umile carità: con me ella non potrà venire a
parole, io son disposto ad ingojare tutto quello che le piacesse di dirmi: ma
per amor del cielo, per quel Dio innanzi a cui dobbiamo tutti comparire
(così dicendo il padre aveva preso fra le mani e poneva dinanzi agli
occhi di Don Rodrigo il teschietto di legno che era appeso in capo al suo
rosario, e che i cappuccini portavano per un ricordo continuo della morte) per quel
Dio, non si ostini a volere una misera, una indegna soddisfazione a spese
dell'anima sua, e delle lagrime dei poverelli: pensi che Dio gli ha cari come
la pupilla dei suoi occhj, e che le loro imprecazioni sono ascoltate
lassù: risparmi l'innocenza e la...»
«Padre
Cristoforo», interruppe bruscamente D. Rodrigo: «il rispetto ch'io porto al suo
abito è grande; ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe
il vederlo in dosso ad uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa».
Questa
parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma fatti tutti i vezzi
d'un uomo che tranghiotte in fretta una amarissima medicina, egli rispose: «Lo
dica pure, purché non lo creda; e già non lo crede. Ella sa che le
ingiurie che io posso ascoltare per questa causa non mi avviliscono, ella sa
che il passo che io faccio ora non è mosso da fini spregevoli: ella non
mi disprezza in questo momento. Faccia Dio che non venga un giorno in cui ella
si penta di non avermi ascoltato. Non metta la sua gloria nel... Qual gloria, signor
Don Rodrigo! Qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Fare il male
è concesso sovente all'ultimo degli uomini: il più vile dei
banditi può far tremare. Non v'è disonore a ritrarsi dalla
iniquità: la codardia sta nel fare delle azioni inique per timore di
scomparire dinanzi ai tristi. Signor Don Rodrigo, le parole ch'io proferisco
ora dinanzi a lei sono numerate, un giorno le potrebbero esser fatte scontare
ad una ad una da Colui che me le ispira».
«Sa
ella», disse interrompendo con istizza ma non senza qualche raccapriccio Don
Rodrigo, «sa ella che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, io
so benissimo andare in chiesa come fanno gli altri? Ma in casa mia. Oh!» e
continuò con un sorriso affettato, «io non posso lagnarmi di Dio che
m'abbia fatto nascere in basso luogo, ma ella mi tratta per da più che
io non sono alla fine. Il predicatore in casa! non l'hanno che i principi
regnanti».
«E
quel Dio che domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle
loro reggie, quel Dio le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo
ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregare per una
innocente...»
«Insomma,
padre», disse alzandosi dispettosamente Don Rodrigo; «io non so quello ch'ella
mi voglia dire: io non capisco altro se non che vi debb'essere qualche
fanciulla che le preme assai: vada a fare le sue confidenze a chi le piace; e
non si permetta di seccare più a lungo un gentiluomo».
Il
Padre Cristoforo vedendo Don Rodrigo alzarsi, come perduta la pazienza,
temè che questi rompesse affatto il discorso, e levatosi egli pure col
maggior garbo che potè, e con aria quasi supplichevole, dissimulando
quello che potevano avere di frizzante le parole che aveva intese, rispose:
«Sì la mi preme; ma non più di lei: io veggio in entrambi dei
fratelli di redenzione, e delle anime che mi sono più care del mio
sangue. Don Rodrigo io sono un nulla dinanzi a lei, ma il mio rispetto, ma la
mia riconoscenza potranno forse valere qualche cosa per la intensità loro
se non per la mia persona. Non mi dica di no: salvi una innocente, una sua
parola può far tutto».
«Ebbene»,
disse Don Rodrigo, «giacch'ella crede ch'io possa far molto per questa persona;
giacché questa persona le sta tanto a cuore...»
«Ebbene?»
riprese ansiosamente il Padre Cristoforo al quale l'atto e il contegno di Don
Rodrigo non permettevano di abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare
le sue parole.
«Ebbene»,
proseguì Don Rodrigo: «le consigli di venirsi a mettere sotto la mia
protezione. Non le mancherà più nulla, e non son cavaliere, se
alcuno ardisce inquietarla».
«La
vostra protezione!» riprese il padre Cristoforo, dando indietro due passi,
appoggiandosi fieramente sul piede destro, e mettendo la destra sull'anca,
levando la manca coll'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia
due occhi infiammati: «la vostra protezione! bene sta che abbiate parlato
così; che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura, e
non vi temo più».
«Come
parli, frate?...»
«Parlo
come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più
far paura. La vostra protezione! Io sapeva che Lucia era sotto la protezione di
Dio: ma voi, voi me lo fate sentire ora con tanta certezza, che non ho
più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia dico: vedete come io
pronunzio questo nome colla fronte alta, e con gli occhi immobili».
«In
questa casa...»
«Ho
compassione di questa casa: ella è segnata dalla maledizione. State a
vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a
quattro scherani! Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua
immagine per darvi il diletto di tormentarla! voi avete creduto che Dio non
saprebbe difenderla! Vi siete giudicato. Ne ho visti di più potenti, di
più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro preda, mentre non
avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava in
silenzio dietro alle loro spalle per coglierli. Lucia è sicura di voi,
ve lo dico io povero frate, e quanto a voi, ricordatevi che verrà un
giorno...»
Don
Rodrigo che combattuto tra la rabbia, e il terrore non trovava parole per
rispondere, quando sentì che una predizione stava per venirgli addosso,
prese la mano tuttavia alzata del padre, e coprendogli la voce gridò:
«Levamiti
dinanzi, plebeo incappucciato, poltrone temerario».
Queste
parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo.
All'idea di strapazzo e di villania era nella sua mente così bene, e da
tanto tempo associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che a quel
complimento gli cadde ogni spirito d'ira e di entusiasmo, e non gli
restò più altro da fare che di udire tranquillamente quello che
piacesse a Don Rodrigo di aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli
artigli del gentiluomo, abbassò il capo e rimase immobile, come quando
nel forte della burrasca il vento cade, un'antica pianta ricompone naturalmente
i suoi rami e riceve la gragnuola come la manda il cielo.
«Villan
rifatto!» proseguì Don Rodrigo: «così rimeriti accoglienze alle
quali non sei avvezzo, e che non son fatte per te: ma tu adoperi da par tuo.
Ringrazia quel sajo che ti copre quelle spalle di paltoniere, e ti salva dalle
carezze che si fanno ai pari tuoi per insegnar loro a parlare. Esci colle tue
gambe per questa volta; e la vedremo».
Così
dicendo, accennò una porta opposta a quella per cui erano entrati: il
padre Cristoforo chinò il capo, come salutando, e se ne uscì per
quella, tranquillamente, lasciando don Rodrigo a misurare a passi concitati il
campo di battaglia.
Non
è da credere che l'animo del buon frate fosse pacato come il suo
aspetto; ma in mezzo al turbamento naturale nelle sue circostanze, egli sentiva
più di fiducia che non ne avesse prima di quell'infelice colloquio. Le
parole di sicurezza ch'egli aveva dette a Don Rodrigo, non erano state un'arte
per atterrir l'avversario: esprimevano un sentimento sincero e distinto. Gli
pareva che la superbia e l'iniquità di Don Rodrigo fossero salite a
quell'altezza, dove la provvidenza le arresta, e le rovina. Questi calcoli
riescono spesse volte fallaci, e l'ingiustizia a questo mondo talvolta sale,
sale, sale, quando si crede che giunta al colmo, non possa che precipitare: ma
Fra Cristoforo la pensava così come abbiam detto; e sperava più
che mai che la cosa si terminerebbe con una uscita inaspettata e favorevole
all'innocenza. Ma quale uscita? Non avrebbe egli saputo dirlo: ma credeva
confusamente che una se ne troverebbe.
Quand'ebbe
chiusa dietro sè la portiera, vide nella stanza dov'entrava, e che
riusciva nel cortile, vide una persona che si andava tirando pian piano dietro
la parete come per non esser veduta dalla stanza del colloquio; e s'accorse che
era un servo il quale era stato ad origliare, e continuò a camminare
senza far vista di nulla, per uscir nel cortile. Ma il servo fattosigli vicino
gli disse sottovoce: «padre, ho inteso tutto, e le vorrei parlare».
«Dite
tosto».
«Non
posso qui: guai se il padrone o altri mi sorprende. Ma io so tante cose, e non
mi regge la coscienza né il cuore... Vedrò di venir domani al suo
convento».
«Dio
vi benedica; ma intanto?»
«Non
si farà nulla prima. Vada vada».
«Dio
vi ricompenserà: io non uscirò domani, e mi troverete
certamente».
«Vada
vada per amor del Cielo, e non mi tradisca».
Il
volto del buon frate rispose a queste parole più chiaro che non avrebbe
potuto qualunque discorso; il servo rimase, e il padre uscì nel cortile,
quindi nella via, e respirò più liberamente quando si vide fuori
di quella caverna. L'inaspettata proposta del servo confermò e crebbe la
sua fiducia. — Ecco, diss'egli tra sè, un filo che la provvidenza mi
pone in mano. — Così pensando guardò in alto e vide che il sole
era poco discosto dalla cima del monte; e che non rimaneva che un'ora e mezzo
di giorno. Allora benché affaticato per la via che aveva già fatto, e
per quello che aveva detto e inteso, studiò il passo affine di poter
riportare un avviso qual ch'e' fosse alle donne, come aveva promesso, e
trovarsi al convento prima di sera. Era questa una delle leggi più
severe del codice fratesco: e le trasgressioni erano punite con rigore, e talvolta
le recidive con crudeltà, perché oltre la disciplina, l'onore del
convento era interessato a prevenire delle assenze che avrebbero fatto dire Dio
sa che. Al qual proposito si può osservare che ogni volta che gli uomini
hanno potuto dividersi in classi, in crocchi, in picciole società, e
farsi leggi particolari, per lo più invece di approfittare di questa
esenzione dalle leggi comuni per istabilire una certa condiscendenza utile a
tutti i contraenti, hanno aguzzati gl'ingegni per trovare rigori e pene
più raffinate: di modo che parrebbe quasi che tormentare altrui sia
più dolce che assicurar se stesso.
Ma
nella casetta di Lucia dal momento che il padre ne era partito non si era stati
in ozio: si eran messi in campo e ventilati disegni dei quali è necessario
informare il lettore. Partito il padre, Fermo e Lucia stavano in silenzio
osando appena di sogguardarsi di tratto in tratto, e non si parlando che con
sospiri: poiché le speranze che avevano nella spedizione del buon padre erano
tanto leggere e indeterminate, che temevano entrambi di farle svanire col
comunicarle.
Lucia
andava tristamente ammanendo il desinare, e Fermo stava in tra due, volendo ad
ogni momento partire per togliersi dallo spettacolo di Lucia così
accorata, e non sapendo staccarsi. Ma Agnese dopo aver meditato un poco, dopo
aver più volte risposto a se stessa di sì col capo, con una voce
piena di pensiero ruppe il silenzio e disse: «Sentite, figliuoli. Se aveste
coraggio e destrezza quanto è di mestieri, se vi fidate di vostra madre
(quel vostra fece trasalire Lucia) io m'impegnerei a cavarvi di questo
impiccio, meglio forse e più presto del padre Cristoforo, con rispetto
del suo studio».
Lucia
si fermò sui due piedi con più ansia che speranza in una promessa
tanto magnifica; e Fermo: «Coraggio!» disse: «destrezza! dite, dite quel che si
può fare».
«Non
è vero», proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, il punto
principale sarebbe vinto, che a tutto il rimanente vi sarebbe rimedio?» «Oh
maritati» rispose Fermo: «e poi quel che Dio vuole». Lucia non aperse bocca; ma
un rossore che le velò tutta la faccia parve ripetere parola per parola
ciò che Fermo aveva detto.
«Maritati
che foste», continuò Agnese, «coi pochi risparmi di Fermo, e coi nostri,
colla nostra poca abilità, possiamo vivere anche via di qui: per me non
ho che questa poveretta al mondo, e grazie al cielo non vi sarei di peso,
giacché il pane me lo guadagno. Lontani dalla persecuzione di questo tiranno
senza timor di Dio, noi potremmo far casa, e vivere in santa pace, non è
vero, figliuoli?»
«Sicuro»,
rispose Fermo, «ma tutto sta nell'essere maritati».
«Ebbene,
come vi ho detto, coraggio e destrezza; fare quello che vi dirò io, e la
cosa è facile».
«Facile!»
dissero ad una voce quelli per cui la cosa era divenuta tanto stranamente, e
dolorosamente difficile.
«Facile,
a saperla fare»; replicò Agnese. «Bisogna fare un matrimonio gran
destino». — La buona donna voleva dire clandestino.
«Cospetto!»,
disse Fermo: «mi par bene di avere inteso altre volte questa parola, ma non so
che cosa voglia dire. Ma come fare il matrimonio se il curato non vuole? Senza
il curato non si può fare».
«Bisogna
che il curato ci sia, e questo è facile, ma non fa bisogno ch'egli
voglia, che è il punto».
«Spiegatevi
meglio».
«Ecco
come si fa. Bisogna aver due testimoni, destri e ben informati. Si va dal
parroco. Lo sposo dice: — Signor curato, questa è mia moglie: — la sposa
dice: Signor curato, questo è mio marito: — il parroco sente, i
testimonj sentono, e il matrimonio è fatto, e sacrosanto come se lo
avesse fatto il papa. Ma bisogna che il curato senta, che non v'interrompa,
perché se ha tempo di fuggire prima che tutto sia detto, non si è fatto
niente. Bisogna dire in fretta, ma chiaro, sentite: come faccio io: — questa
è mia moglie: questo è mio marito: — (e faceva mostra di una
volubilità di lingua che in verità possedeva in un modo
singolare). Quando le parole son proferite, il curato può strillare,
strepitare fare quello che vuole, siete marito e moglie».
«Possibile!»
sclamò Lucia.
«Oh
vedete», disse Agnese «che nei trent'anni che sono stata al mondo prima di voi
altri, non avrò imparato niente. La cosa è certa e una mia amica
che voleva pigliar marito contra la volontà dei suoi parenti, ha fatto
così. Poveretta! che arte ha usata per riuscirvi, perché il curato stava
sull'avviso, ma ha saputo cogliere il momento, ha pigliato colui che voleva, e
se ne è pentita tre giorni dopo».
«Se
fosse vero, Lucia!...» disse Fermo, riguardandola con aria di una aspettazione
supplichevole.
«Come!
se fosse vero», ripigliò Agnese: «Io mi cruccio per voi, e non son
creduta. Bene bene; cavatevi d'impiccio come potete: io me ne lavo le mani».
«Ah
no! non ci abbandonate», disse Fermo.
«No
no»: riprese Agnese: «me ne lavo le mani: sentite, io son donna che sopporto
ogni cosa per quelli a cui voglio bene, ma non voler credere alle mie parole, e
non voler fare quello che dico io; questo non lo posso sopportare».
Chi
avesse tentato direttamente con preghiere di smuovere Agnese irritata, avrebbe
facilmente avuto da fare per molto tempo: ma Lucia ottenne l'effetto in un
momento, senza porvi astuzia, facendo una obbiezione:
«Ma,
perché dunque», diss'ella, «questa cosa non è venuta in mente al Padre
Cristoforo?» Questa interrogazione impegnò la buona Agnese a rispondere,
e a giustificare il suo assunto.
«Bisogna
saper tutto», diss'ella. «Al Padre Cristoforo che ne sa molto più di me,
la cosa sarà venuta in mente prima che a me: ma io so bene perché non ne
avrà voluto parlare».
«Perché?»
domandarono i due giovani.
«Perché?...
perché... i religiosi dicono che è una cosa che non istà bene».
«Come
possono dire che non istia bene, quando dicono che non si può disfare»,
disse Fermo.
«Se
non istà bene», disse Lucia, «non bisogna farla».
Per
rispondere a Fermo era necessario un ragionamento troppo sottile per Agnese: si
volse ella adunque a Lucia, e disse: «Non bisogna dirla prima di farla, perché
allora sconsigliano: ma quando sarà fatta, che cosa vuoi che ti dica il
Padre Cristoforo? — Ah figliuola è stata una scappata, non me ne tornate
a fare una simile! — Tu gli prometterai di non tornarvi: non è vero? non
son cose che si facciano due volte. E allora il Padre Cristoforo ti
assolverà».
Lucia
non si mostrava convinta di questo raziocinio; ma Fermo tutto rincorato disse:
«Ebbene quand'è così la cosa è fatta. Lucia, voi non mi
verrete meno, non mi avete voi promesso d'esser mia? Non abbiamo noi fatto ogni
cosa da buoni cristiani? E se non fosse stato questo... non saremmo noi marito
e moglie?»
«Fatta!
fatta!» disse Agnese: «adagio. E i testimonj? E trovare il modo di acchiappare
il signor curato, che da due giorni se ne sta rincantucciato in letto, e che
quando vi vedesse comparire a un miglio di distanza, scapperebbe come il diavolo
dall'acqua santa?»
«Ho
trovato il modo; l'ho trovato», disse Fermo, battendo il pugno sulla tavola e
facendo trasalire e fremere le stoviglie apparecchiate pel desinare: «l'ho
trovato. Vado, e torno. Bisogna ch'io parli con Toni; e se posso acconciare la
faccenda con lui, l'è fatta; e vengo subito ad informarvene».
«Ma
ditemi prima quello che intendete di fare» disse precipitosamente Agnese, alla
quale pareva pure di dover esser consultata la prima.
«Non
ho un momento da perdere: bisogna ch'io lo colga in casa a quest'ora:
altrimenti, chi sa se potrei trovarlo. Vado e torno, per sentire il vostro
parere; senza il vostro parere non si farà nulla. Cara Agnese, io vi
considero come se foste la madre che ha patito: sono nelle vostre mani. Persuadete
Lucia». Così detto sparì.
Non
ci voleva meno di queste parole perché Agnese perdonasse a Fermo di farle
aspettare una confidenza e di intraprendere qualche cosa senza il suo
consiglio.
«Ragazzo!»
diss'ella quando fu partito «purché non me ne faccia una e non mi guasti tutto.
Basta: mi ha promesso di non far nulla senza la mia licenza».
Necessità,
come si dice, assottiglia l'ingegno: e Fermo il quale nel sentiero retto e
facile di vita che aveva percorso fin allora non aveva mai avuto occasione di
far molto uso della sua penetrazione, ne pensò in questo caso una, che
avrebbe fatto onore ad un giurisperito. Corse alla casetta di Tonio, la quale
era nel villaggio dove risiedeva il parroco, a forse trecento passi di distanza
dalla abitazione di Lucia. Quando Fermo entrò nella cucina, la moglie,
la vecchia madre di Tonio stavano sedute alla mensa, e tre o quattro figli
ritti intorno aspettando il desinare che Tonio stava cucinando. Ma non si
vedeva sui volti quell'allegria che ordinariamente anche i poverelli mostrano
in quel momento: la carestia aveva costretti i poverelli ad una sobrietà
ancor più rigida che per l'ordinario, e tutti cogli occhi fissi sulla
pentola nella quale Tonio tramestava accidiosamente una bigia polenta di fraina
(o se volete di poligonum fagopyrum ) pareva che invece di rallegrarsi
della vista del desinare pensassero tristamente a quella buona parte di
appetito che rimarrebbe intatta dopo sparecchiato. In quel momento Tonio
riversò la polenta sulla tafferia di faggio che stava appronta a riceverla,
e il largo orlo che rimase vuoto all'intorno fece ancor più chiaramente
risaltare la povertà del convito. Nullameno le donne rivolte
cortesemente a Fermo, gli dissero se voleva restar servito: complimento
che il contadino di Lombardia non lascia mai di fare quando mangia seduto sulla
sua porta a chi s'abbatte a passarvi quand'anche stesse mangiando l'ultimo
boccone del suo piatto. «Vi ringrazio», rispose Fermo: «io vengo per dire
qualche cosa a Tonio; e se vuoi Tonio, per non incomodare le tue donne vieni a
pranzar meco all'osteria, e parleremo». La proposta fu per Tonio tanto gradita
quanto meno aspettata; e le donne che in un'altra occasione forse avrebbero
avuto che dire su questa partita videro con piacere che si scemasse alla
polenta un concorrente, e il più formidabile. Tonio non domandò
altro, e partì con Fermo.
Giunti
all'osteria del villaggio, seduti a tutto loro agio in una perfetta solitudine
giacché la miseria aveva fatti sparire tutti i frequentatori di quel luogo di
delizie, fatto recare quel poco che si trovava, vuotato un boccale di vino,
Fermo con aria di mistero disse a Tonio: «Se tu vuoi farmi un picciolo
servizio; io posso e voglio farne uno grande a te».
«Parla,
parla, comandami pure», rispose Tonio, versandosi da bere, «oggi andrei nel
fuoco per te».
«Tu
sei in debito di venticinque lire col signor curato per fitto del suo campo che
lavoravi l'anno passato».
«Tu
sei sempre stato un martorello, Fermo: non sai che all'osteria non si fa
menzione di debiti? Ecco, io mi sentiva una voglia che sarei andato nel fuoco
per te, ma con questo discorso tu mi hai fatto passare tutta l'allegria, e
quasi non ti son più obbligato».
«Se
ti parlo del debito», rispose Fermo «è per darti il mezzo di
soddisfarlo. Eh! non ti farebbe piacere? saresti contento?»
«Contento?
per diana se sarei contento. Non pel curato vedi: ma per togliermi la
seccatura: se la faccenda continua così non potrò più
andare alla Chiesa: non mi vede una volta che non me ne gitti un motto, o
almeno almeno non mi faccia un cenno con quella sua brutta cera. E poi e poi,
egli si tiene in pegno la collana d'oro di mia moglie; e prevedo che
quest'inverno se l'avessi, la cangerei in tanta polenta; non in vino», e qui
fece un sospiro, «in polenta. Ma...»
«Ma,
ma; se tu mi vuoi rendere un servizio, io ti darò le venticinque lire».
«Il
servizio è fatto» rispose Tonio; «non fa nemmeno bisogno che tu mi dica
che cosa è».
Fermo,
gli fece promettere sul bicchiere il segreto, e continuò:
«Tu
sai che io sono promesso a Lucia Zarella. Il curato mi va cercando cento scuse
magre per tirare in lungo: io vorrei spicciarmi. Mi hanno mò detto che
presentandomi al curato con due testimonj, e dicendo io: questa è mia
moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e
fatto. M'hai tu inteso?»
«Tu
vuoi ch'io venga per testimonio?»
«Appunto».
«Il
matrimonio è fatto, è fatto», rispose Tonio baldanzosamente,
versandosi un altro bicchiere di vino. «Così vi fossero molti tribolati
come te, e in caso di spendere venticinque lire».
«Ma
bisogna che tu mi trovi un altro testimonio».
«Bisogna
che lo trovi io ah? io perché son più destro di te. Bene è
trovato. Quel martoraccio di mio fratello Gervaso, farà quello che gli
dirò io: basta che tu mi dia tanto ch'io gli possa pagar da bere;
perché, a questo mondo, niente per niente: è un proverbio che lo sa
anche Gervaso, lo sanno anche quelli che non sanno dire il Credo».
«Farò
di più», disse Fermo, «lo condurremo qui a stare allegro con noi».
«Benone»
rispose Tonio.
Fermo
pagò lo scotto, ed uscirono quindi entrambi pieni di speranza; Fermo
avvisò il compagno che si tenesse pronto per l'indomani sull'imbrunire;
gli raccomandò di nuovo il segreto, quindi si avviò alla casa di
Lucia, e Tonio alla sua cantando ad alta voce, come non aveva più fatto
da molti mesi.
Ma
in questo frattempo Agnese aveva penato in vano a persuadere Lucia. In tutto il
tempo del desinare (il quale non era grazie a Dio più scarso
dell'ordinario, perché tanto le donne, quanto Fermo erano dei più agiati
del contorno) e dopo quando le furono ritornate all'aspo, Agnese pose in opera
tutta la sua eloquenza, ma invano.
Lucia
rispondeva sempre con un dilemma senza però saperlo presentare in forma:
«O si può fare», diceva, «e perché non dirlo al padre Cristoforo? o non
si può fare, e non si deve fare». Non già che questo rifiuto non
fosse più amaro a Lucia che lo proferiva che alla madre; ma Lucia non
avrebbe voluto per nulla al mondo far contra la sua coscienza. «Abbiamo bisogno
più che mai», diceva ancora, «dell'ajuto di Dio, e se facciamo
ciò che non istà bene, come lo potremo sperare?» Così
spesero tutto quel tempo in argomentazioni; e uno che le avesse intese
disputare, e tornar da capo ognuna a ripetere le stesse ragioni, avrebbe potuto
credere che la fosse controversia fra due dotti, piuttosto che disputa fra due
donnicciuole.
Fermo
giunse che si disputava tuttavia. Ma Agnese, alla quale allora premeva
più di sapere che di parlare, «ebbene Fermo», disse, «avete trovato il
bandolo? Dite, vediamo un po'».
Fermo
snocciolò tutto il disegno; e terminò con un «ahn!» interiezione
milanese la quale significa: sono o non sono un uomo? si poteva trovar di
meglio? ve lo sareste aspettato? e cento altre cose simili.
Agnese
crollò il capo, e disse: «non avete pensato a tutto».
«Che
ci manca?» rispose Fermo, punto, e spaventato nello stesso tempo.
«E
Perpetua?» gridò Agnese; «e Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Come
volete ch'ella vi lasci entrare dal curato? Pensate s'ella non avrà
ordini severissimi di tenervi lontani più che un ragazzo da una pianta
di pomi maturi. Come farete ad ingannare Perpetua?»
«Povero
me! non ci ho pensato, io».
«Sentite,
se non ci fosse altra difficoltà, a Perpetua ci penso io», rispose
Agnese, la quale giacché l'iniziativa gli era stata tolta, era almeno contenta
di mostrare che era necessaria la sua sanzione. «Ecco come la cosa si dovrebbe
fare. Sull'imbrunire, capite bene che quella è l'ora giusta, Tonio va
alla porta del curato, picchia, viene Perpetua, Tonio le dice di avvertire il
curato ch'egli è lì per pagare. Voi altri due intanto vi
apparecchiate dietro l'angolo della casa a man sinistra. Quando Perpetua torna
per aprire a Tonio, io mi trovo sulla porta, e quando Perpetua ha detto a
Tonio: — andate su —, io mi mostro a Perpetua, la chiamo, e le dico queste
parole magiche: — ho da parlarvi di quel tale affare. — Con quest'amo vedete io
la tiro con me dalla destra fin dove voglio; ma basterà che io
l'allontani tanto che voi possiate pian pianino introdurvi nella porta lasciata
aperta da Tonio, e tenergli dietro pian pianino per le scale, e poi fermarvi
nella stanza vicina a quella dove sarà il curato, ed essergli addosso
poi nel momento opportuno». Agnese chiuse il discorso alla sua volta con un
«ahn?» prolungato in aria di trionfo, levando il mento, ed avanzando la faccia
verso Fermo.
«Benedetta
voi...!»
«Mah!»
interruppe Agnese: «tutto questo serve poco, perché Lucia si ostina a dire che
è peccato».
Fermo
pos'egli pure in campo la sua eloquenza: fece mille interpellazioni a Lucia, e
rispose sempre egli per mostrare che i dubbj di essa erano vani: ma Lucia fu
inconcussa.
«Sentite»,
diss'ella, «fin qui abbiamo fatto tutto col timor di Dio; proseguiamo a questo
modo, e Dio ci ajuterà. Io non capisco tutte queste vostre ragioni: vedo
che per far questa cosa bisogna camminare a forza di bugie, di nascondigli. No
no Fermo: io voglio esser vostra, ma colla fronte scoperta, il bandolo lo
troverà la provvidenza».
La
disputa, come era da supporsi, divenne generale. Fermo insisteva rimproverando
Lucia di poco amore, e ripetendo i suoi argomenti con una forza e una amarezza
sempre crescente: Lucia addolorata, tenera, ma ferma li ribatteva
singhiozzando, ed Agnese predicava all'una, dava sulla voce all'altro secondo
l'occasione. Tutt'ad un tratto, un calpestio affrettato di sandali, e un romore
di tonaca sbattuta, somigliante a quello che produce in una vela allentata il
soffio ripetuto del vento, annunziò il Padre Cristoforo. Si fece
silenzio, e Agnese ebbe appena il tempo d'imporre sotto voce a Lucia di non dir
parola del disegno contrastato.
CAPITOLO VII
...
Il
Padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon generale, il quale,
perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non iscorato,
soprappensiero, ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il
bisogno lo chiede, a premunire i luoghi che potrebbero esser minacciati, a dare
ordini, disposizioni, avvertimenti.
«La
pace sia con voi», diss'egli, entrando, tutto ansante, ma con voce ferma. «Non
v'è nulla a sperare dall'uomo: tanto più bisogna confidare in
Dio». Benché nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del Padre Cristoforo,
giacché il vedere un potente recedere da una soperchieria per preghiera e senza
esser sopraffatto da una forza superiore era cosa più inaudita che rara,
nullameno la trista certezza fu un colpo per tutti.
Ma
Fermo ne prese più sdegno che accoramento. Le ripulse replicate di
Lucia, i suoi disegni così ben meditati, e le sue speranze al vento, il
non saper più come uscire per altra via d'impaccio, un lungo diverbio,
avevano cresciuta e riscaldata la stizza che egli covava già da due
giorni: l'amore, però, e il rispetto che Lucia gli ispirava anche
rifiutando ciò ch'egli bramava sopra ogni cosa, avevan temperata questa
stizza, e impedito ch'ella non iscoppiasse in escandescenza. Ma quando a quella
passione compressa si presentò un oggetto odioso per ogni parte, quello
che ne era l'oggetto principale, la passione non ebbe più freno.
«Vorrei
sapere», gridò Fermo colla bava alla bocca e come non aveva mai gridato
in presenza del Padre Cristoforo, «vorrei sapere che ragione ha detto quel
cane, per sostenere che Lucia non ha da esser mia moglie».
«Povero
Fermo!» rispose il Padre, con un accento di pietà e d'amorevolezza. «Sai
tu che se alcuno potesse costringere quei signori a dire le loro ragioni, le
cose non andrebbero a questo modo».
«Dunque
ha detto il cane che egli non vuole, perché non vuole?»
«Non
ha detto nemmen questo. Piacesse a Dio che per commettere l'iniquità gli
uomini fossero costretti di confessarla apertamente; l'iniquità
trionferebbe meno sulla terra».
«Ma
che parole ha dette quel tizzone d'inferno?»
«Io
le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere. Dimmi, se tu dopo un lungo
giro uscissi da un sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini,
sapresti tu descrivere la via che hai percorsa? noverare i tuoi passi, segnare
le giravolte e gl'inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità
potente sono come il lampo che abbaglia e fa terrore, e non lascia vestigio.
Essa può minacciarti di vendetta perché tu abbi sospetto di lei, e nello
stesso tempo farti intendere che il tuo sospetto è certezza: può
dirti: guai a te se non mi comprendi, guai a te se mostri di comprendermi:
può insultare, e mostrarsi offesa, schernire e chieder ragione,
atterrire e lagnarsi, essere impudente e irreprensibile. Non cercar più
altro. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo, non ha
mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di voler nulla; ma... pur
troppo quello che voi mi avete rivelato, quello che io non avrei voluto
credere, è vero. Mah! confidenza in Dio come v'ho detto: questa è
l'ora dell'uomo, ma va passando. Voi, poverette, non vi perdete d'animo, e tu,
mio Fermo... oh! credi ch'io so pormi ne' tuoi panni, ch'io sento quello che
passa nel tuo cuore... ma abbi pazienza: io so che questa parola è
amara: ma è la sola che ti possa dire un uomo che non sia tuo nemico.
Dio stesso, che è onnipotente, non te ne vuol dir altra, per ora. Io
parto, e vi lascio nelle mani di Dio... Oh il sole è caduto e
arriverò tardi: ma poco importa. Fatevi animo: Dio mi ha già dato
un segno di volervi ajutare. Domani non ci vedremo: io rimango al convento; ma
per voi. Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al convento,
alla Chiesa, e pel quale io possa farvi sapere quello che occorrerà: io
sarò avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che colui
non sospetta, che finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche
protezione, e la vedremo. Sento una voce che mi dice che tutto finirà
presto e bene. Fede, coraggio, e buona sera». Detto questo s'avviava
frettolosamente, quando udì Fermo dire, mormorare con voce contenuta dal
rispetto, e velata dalla collera, ma intelligibilmente: «la finirò io».
La faccia e l'atteggiamento di Fermo non lasciava dubbio sul senso di queste
parole.
«Misericordia!»
sclamò Agnese. Lucia si volse supplichevolmente al Padre Cristoforo,
come se volesse dire: — ammansatelo —.
«Tu
la finirai!» disse rivolgendosi il Padre Cristoforo, ed appostandosi sulla
porta: «no Fermo, tu non sei da tanto: non tocca a te. Dio solo può
finirla, e guai a te se tu ardisci di prevenire il suo giudizio».
«Nasca
quel che può nascere, ad ogni modo la voglio finire. Sì la voglio
finire. È di carne finalmente lo scellerato».
«Fermo,
in nome di Dio», disse Lucia.
«Dio!
Dio!» disse Agnese. «Voi perdete la testa: non sapete quante braccia egli ha ai
suoi comandi? e quand'anche... oh misericordia! contra i poveri c'è
sempre la giustizia».
«Non
gli parlate di questo», interruppe il Padre: «egli non se ne cura. Ascoltami
Fermo: voglio che tu mi ascolti. Io ti leggo in cuore: io so che il tuo
pericolo non ti fa terrore; so che in questo momento l'idea della morte non ti
spaventa né per gli altri né per te. Ma ascolta. Tu eri nella gioja e nella
speranza; un uomo ti si è parato sulla via, e ti ha gettato nella
angoscia e nella miseria: tu credi che tolto di mezzo quest'uomo, ti ritroverai
al posto dove tu eri prima d'incontrarlo. Povero ingannato! la tua via è
cangiata, ti è forza intraprenderne un'altra: guai a te se ti poni in
quella dell'omicidio. Poni che tutto ti riesca a tuo grado: ebbene! che avrai
tu fatto? l'odio è dolce ora al tuo cuore: ma sai tu... sai...» e
così dicendo prese la mano di Fermo e la strinse a segno di dargli
dolore... «sai tu come si volge il cuore dell'uomo che ha versato il sangue? Ve
n'ha che rimangono quelli di prima; ma tu non sei uno di loro: guai a te! son
reprobi. Io ho perduto degli amici cari, ben cari... ma se Dio mi concedesse di
poter far rivivere un uomo, credi tu ch'io sceglierei uno di essi? Quegli ch'io
vorrei poter risuscitare col mio sangue è un uomo a cui io non aveva mai
fatto il torto più leggiero, e che mi ha insultato. Poni che tutto ti
riesca, poni che non vi sia giustizia, che tu sposi tranquillamente... che la
colomba si unisca allo sparviero. Ma sarai tu Fermo? avrai sposato Lucia? Tu
non sarai Fermo, te lo dico io: tu non penserai come ora: in ogni tuo pensiero,
per quanto importante egli sia per essere, per quanto lieto, oltre quello che
ci sarebbe per tutti, per te ci sarà sempre un morto di più.
Avrai tu figli? Guardati dal trovarti in casa quando questa sfortunata
farà loro ripetere i comandamenti di Dio, e dirà loro: non fare
omicidio. Potrai tu ricordare con tua moglie, le speranze e le traversie che
hanno preceduto il tuo matrimonio: potrete voi dire una volta: ma Dio ci ha
ajutati? Quand'ella si sveglierà al tuo fianco, penserà tremando
che è coricata con uno che ha ucciso; e quando la collera più
leggera, un primo moto d'impazienza apparirà sul tuo volto; ella
crederà di scorgervi le prime tracce dell'omicidio. No Fermo; vedi:
è notte; io già son colpevole di avere indugiato a tornare al
convento; ma io non mi parto di qui se tu non mi giuri in faccia a quella
Vergine» (e accennò una immagine attaccata al muro della stanza) «di
aver deposto ogni pensiero di vendetta».
«Io
per lei ho tutta la stima, ma colui...»
«Ti
parlo io per me? Che hai tu a perdonarmi? A colui, sì a colui tu devi
perdonare. Io te l'ho detto, e tu non hai più scusa: la maledizione del
cielo cadrebbe sopra di te. Tu sei giovane e più robusto di me, ma se tu
non vuoi gettare a terra un vecchio che non ti ha fatto mai del male, tu non uscirai
di qui prima d'aver fatto quel giuramento».
Fermo
esitava; Agnese stava attonita ed in aspettazione colla bocca aperta. «Ebbene
Fermo» disse Lucia, come costretta, ed in modo che il Padre non intendesse
tutto il senso delle sue parole: «fate quel che vi dice quest'uomo del Signore,
ed io vi prometto che io farò tutto quello che si potrà, tutto
quello che vorrete perch'io possa esser vostra moglie».
«Lo
giuro», disse Fermo.
«Chiama
in testimonio quella Vergine», disse il Padre Cristoforo, «che tu non
attenterai alla vita del tuo nemico, che tu farai tutto per evitarlo».
«Così
la Vergine non mi abbandoni», disse Fermo, commosso, ma risoluto.
«E
non ti abbandonerà»; rispose il Padre gettandogli le braccia al collo.
«Addio: ricordatevi del garzoncello. Dio sia con voi».
Lucia
lo salutò piangendo.
«Padre,
padre», gridò Agnese, trattenendolo, «quanto sono mortificata che in
grazia nostra Ella torni così tardi al convento». Il Padre Cristoforo
pensò che il miglior modo di corrispondere a questo complimento era di
non perder tempo in altre parole, e partì.
«Me
lo avete promesso», disse Fermo a Lucia.
«Ve
l'ho promesso e lo manterrò»: rispose Lucia colle lagrime agli occhi,
«ma vedete, come me lo avete fatto promettere. Dio non voglia...»
«Perché
volete farmi un tristo augurio, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a
nessuno».
Agnese
voleva riparlare della spedizione, e pigliare i concerti, ma Lucia pregò
che tutto si rimettesse all'indomani, e Fermo partì agitato lasciando le
donne più agitate di lui.
Intanto
il Padre Cristoforo, benché fiaccato e frollo delle corse, dei disagi, delle
inquietudini, e delle parlate di quel giorno, aveva presa correndo la via per
giungere al più presto al convento; e andava saltelloni giù per
quel viottolo sassoso torto, e reso ancor più difficile dalla
oscurità; andava il povero frate, parte ruminando gli accidenti della
giornata, e quello che poteva soprastare, parte pensando all'accoglienza che
riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta. Vi giunse pur
finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello,
aspettando quel che Dio fosse per mandare. Il frate portinajo aperse, e accolse
il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto di sussiego, di
soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini
(tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche
suo fallo o anche per qualche sventura sembra loro stare in cattivi panni. «Il
Padre Guardiano le vuol parlare», disse costui al nostro amico, il quale
seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a
toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale
gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare
per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.
Giunto
alla cella del guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria
del guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò
la testa sul petto e disse: «Padre son balordo». Era questa, chi nol sapesse,
la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore.
Bisogna sapere che il guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre
Cristoforo avesse commesso un mancamento. Un lettore di otto anni potrebbe qui
domandare, perché faceva il volto serio, se era contento; e gli si
risponderebbe, che appunto era contento perché il Padre Cristoforo gli aveva
dato il diritto di fargli il volto serio. La condotta del nostro amico era
tanto irreprensibile che il guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso
sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di
riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di
esser daddovero il padre guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il
dottore, senza disputare, dava però a divedere chiaramente di non
approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi confratelli e
del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto
con gli altri; biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che
veniva che i frati e il guardiano avevano per lui più rispetto che
amore. E il rispetto veniva in parte anche dalla fama di santo che il padre
Cristoforo aveva al di fuori; e che apportava al convento onore e limosine. Non
è quindi da stupirsi se il guardiano si dilettasse nel vedersi davanti
balordo quel padre Cristoforo, e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui, e
il sentimento della propria autorità.
«È
questa l'ora», diss'egli gravemente, «di ritornare al convento?»
«Padre,
confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo».
«E
perché vi siete dunque tanto indugiato? perché avete violata una regola che
conoscete così bene?»
«Fui
trattenuto da un'opera di misericordia».
Il
guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire; e vide tosto che se avesse
voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al padre
Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde gli parve meglio fargli una
ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole. Gli disse
che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di
orgoglio, e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene
che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere, e
poi attendere alle opere di surerogazione; e altre cose di questo genere.
Aggiunse poi che egli, padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta
importanza fosse la regola da lui infranta, e per la disciplina, e per evitare
ogni scandalo; ma che per l'età sua, e per esser questo il primo suo fallo
contro la regola, e perché si teneva certo che non v'era altro che la
violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di
coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate; e così lo
congedò, e si gittò sul duro suo pagliaccio; più soddisfatto
però che se si fosse posto sul letto il più delicato: poiché non
è da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro
dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano.
Questa
fu la mercede che il nostro padre Cristoforo ebbe della sua giornata spesa come
abbiam detto. Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo. Egli recitò
il suo buon miserere, e lo concluse dicendo: «Dio, fate misericordia a
me, e a quel poveretto che io... toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la
mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia, e benedite il Padre guardiano.
Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli, e
degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei
zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i
laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei
ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli
indemoniati, dei vivi, e dei morti. Così sia». Quindi si gettò
anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire; che ne ha bisogno.
Ma
i nostri tre altri personaggi passarono la notte come sono tutte le notti che
precedono una giornata destinata ad una impresa scabrosa e di incerto esito.
Agnese appena levata cominciò a spiegare a Lucia tutte le parti del
disegno, ad istruirla a puntino sul da farsi e da evitarsi in ogni operazione,
e a combattere di nuovo le obbiezioni che Lucia aveva fatte nel giorno
antecedente. Ma Lucia ascoltò le istruzioni, promise di eseguirle, e non
oppose più nulla. Data la sua promessa, ella stimava inutile ogni parola
che tornasse a mettere in questione ciò ch'era stabilito: e non è
senza ragione che noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo
sesso, ma nella specie.
Del
resto non è ben chiaro se nella rassegnazione di Lucia non entrasse
anche un po' il pensiero ch'ella sarebbe stata di Fermo, e se, giacché
l'iniquità degli uomini aveva voluto che questa si facesse come per
forza, ella non era un po' contenta che forza le si facesse. La poveretta ad ogni
modo era abbattuta, piena d'incertezza, d'angoscia, e di tristi presentimenti:
in quella agitazione insomma in cui pone una grande aspettazione, e che
è più dolorosa che la prostrazione che nasce dopo la sventura.
Fermo
non fu tardo a lasciarsi vedere, e concertò colle donne l'operazioni
della giornata, prevedendo ogni contrattempo, parando ogni ostacolo, e
ricominciando ad ogni tratto a descrivere la faccenda come si racconterebbe una
cosa fatta. Appena partito Fermo, Agnese andò nella casa vicina a cercare
un garzoncello suo nipote, chiedendolo ai parenti per quel giorno per fare un
servizio. Quando l'ebbe ottenuto, lo introdusse nella sua cucina, gli diede da
colazione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico, e si stesse un po' in
Chiesa, un po' sulla piazza del convento, ma sempre in vicinanza, aspettando
che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare. «Il Padre Cristoforo, quel bel
vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che chiamano il santo...»
«Ho
capito», disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che dà
spesso qualche immagine».
«Appunto
Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto: ma non ti sviare, ve': bada di non
andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell'acqua, né
a veder pescare, né a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, né...»
«No
no, medina mia: non sono poi un ragazzo».
«Bene,
abbi giudizio, e quando tornerai vedi, queste due belle parpagliole
nuove sono per te».
«Datemele
ora, che...»
«No
no, tu le giuocheresti. Va' e portati bene che avrai anche di più».
Nel
rimanente di quella lunga mattina, accaddero alcune cose che posero in sospetto
ed in agitazione l'animo già conturbato delle donne. Un mendico
più rubesto e di più florido viso che non fossero per l'ordinario
i suoi confratelli, con qualche cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto,
entrò a domandare per Dio, gettando gli occhi qua e là come per
ispiare. Quand'ebbe ricevuto un pezzo di pane, lo ripose con molta indifferenza
lasciando quasi travedere che quello non era il suo fine principale. Si
trattenne anzi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione,
facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere
sempre il contrario di quello che era; e finalmente, congedato se ne
andò. Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi
travestiti, di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e giunti dinanzi
alla porta allentavano il passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol
guatare, e non dar sospetto. Le donne socchiusero la porta, per togliersi da
questa persecuzione che dava loro molto da pensare. Ma questa precauzione fu
causa che il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perché
avendo Agnese un tratto visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un
po' di spiraglio, guatò più attentamente, e vide attraverso la
picciola fessura un uomo che stava adocchiando nella stanza: ella si
alzò, e l'uomo sparì.
Finalmente
all'ora del pranzo la persecuzione cessò. Agnese rincorata non udendo
più pedate sospette, si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio,
guardava nella via, a dritta e sinistra; e non vide più nulla che le
desse da pensare. Nullameno ne rimase alle donne, e particolarmente alla
timidetta Lucia, una perturbazione indeterminata, che le tolse una gran parte
della risoluzione di che ella aveva bisogno in una tale giornata.
Alle
ventitrè ore tornò Fermo, come era stato convenuto, e disse:
«Tonio e Gervaso son qua fuori, noi andiamo all'osteria a cenare, come siamo
intesi, e al tocco dell'avemmaria, verremo a prendervi. Coraggio, Lucia, tutto
dipende da un momento». Lucia sospirò, e rispose: «oh sì,
coraggio»: con una voce che smentiva la parola.
Fermo
e i due suoi compagnoni trovarono questa volta l'osteria più popolata.
Sul limitare stesso, colla schiena appoggiata ad uno stipite, colle mani sotto
le ascelle, coll'occhio teso, e con una faccia tra l'annojato e l'agguatante,
stavasi un uomo, che non aveva cera né di contadino, né di viaggiatore, né di
benestante; non pareva uno sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che
faccenda egli s'avesse. Un uomo più sperimentato di Fermo, guardandolo
attentamente l'avrebbe detto un servo travestito. Questi non si mosse, e
mirò fisamente Fermo, il quale si torse entrando per fianco nella picciola
apertura lasciata da quella cariatide. I suoi compagni l'imitarono se vollero
entrare.
Ad
un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora,
gridando quindi tutti e due ad un fiato come si farebbe in una controversia fra
due dotti: fra i due giuocatori stava un gran fiasco di vino dal quale andavano
essi versando a vicenda. Questi pure adocchiarono Fermo con una
curiosità molto significante. Finalmente ad un altro desco erano tre
vestiti da contadini, ma con un contegno che indicava abitudini più
guerresche che casalinghe. E questi pure gli occhi addosso a Fermo: quindi
occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta. Fermo insospettito,
e incerto guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei loro aspetti
una interpretazione di questo mistero: ma quelli non indicavano altro che un
buon appetito. L'ostiere stava aspettando gli ordini dei sopravvenuti, Fermo lo
fece venire con sè in una stanza vicina; e comandò da cena.
«Chi
sono quei forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava
stendendo sul desco una tovaglia grossolana.
«Chi
sono? Che m'importa chi essi sieno?» rispose l'ostiere. «Non sapete che la
prima regola del nostro mestiere è di non impacciarsi dei fatti altrui?
Tanto è vero che fino le nostre donne non son curiose. Quel che ci preme
si è che quelli che frequentano la nostra casa sieno galantuomini; come
sono certamente questi di cui mi chiedete».
«Ma
se non li conoscete, come sapete che sieno galantuomini?»
«Le
azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni. Quegli che bevono il vino e
non lo criticano, che mostrano sul banco la faccia del re, senza taccolare, e
che non fanno questioni con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da
consegnare a uno, lo aspettano fuori e lontano dall'osteria per non far torto,
quelli sono i galantuomini».
Fermo
non ne potè cavar altro: la cena fu servita, ma l'umore diverso dei
convitati fe' sì ch'ella non fosse molto lieta. I due fratelli avrebbero
voluto assaporarne tranquillamente e prolungarne le delizie; e a Fermo parevano
mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perché la presenza e
gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir meglio,
cresciuta l'inquietudine.
«Che
bella cosa», disse Gervaso, «che Fermo voglia pigliar moglie, e abbia
bisogno...»
«Zitto,
zitto», disse tosto Fermo, «per amor del cielo».
La
cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci crediamo dispensati dal
farne la descrizione. Diremo soltanto che Fermo, osservando per sè una
rigida sobrietà, largheggiò nel mescere ai suoi convitati, per
metter loro addosso del coraggio per ogni evento.
Terminata
la cena dovettero i tre compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle facce
sconosciute, le quali tutte si rivolsero a Fermo come la prima volta.
Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori dell'osteria, si volse addietro, e vide
che due lo seguivano: sostette allora coi suoi compagni, piantando gli occhi in
faccia a quelle ombre, come se dicesse: — vediamo che cosa vogliono da me costoro.
— Ma i due quando s'accorsero che Fermo si era accorto di essi si fermarono un
momento, si parlarono sotto voce, e tornarono indietro. Se Fermo fosse stato
tanto presso da intendere le loro parole, avrebbe inteso che uno di essi diceva
al compagno: «s'è addato di qualche cosa: torniamocene per non guastar
tutto: è troppo per tempo: non vedi che il paese è pieno di
gente? lasciamoli andare tutti al nido».
V'era
infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente in
un villaggio al cader della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla
quiete solenne della notte. Le donne venivano dal campo portandosi in collo i
bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai quali facevano
ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini colle vanghe e colle
zappe sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le povere
cene: si udivano saluti di quelli che s'incontravano, e colloqui brevi e tristi
sulla scarsezza del ricolto e sulle sventure di quell'anno tristissimo. Frattanto,
si udiva il tocco misurato e solenne della squilla che annunziava la fine della
giornata.
Quando
Fermo vide che i due indiscreti s'erano ritirati, continuò la sua strada
fra le tenebre crescenti, ripetendo a bassa voce ai fratelli gli avvertimenti sul
modo di condurre a buon termine l'impresa. Quando giunsero alla casetta di
Lucia, era notte fatta.
Fra
il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto un barbaro
che non era privo d'ingegno, l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi,
e di paure. La povera Lucia era da molte ore nelle angosce di questo sogno:
Agnese, la stessa Agnese così risoluta, e disposta all'operare, era
sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma al
momento in cui l'azione comincia, e l'animo che fino allora tollerava i
pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda, e tornando, è
costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora
egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio che lo agitavano
succede un altro terrore, e un altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente
come una apparizione nuova, inaspettata, si scoprono mezzi e ostacoli non
pensati: ciò che sembrava più difficile si trova talvolta fatto
quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano il
loro uficio ad un passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca
alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.
Un
matrimonio clandestino era per Lucia Zarella quello che l'uccisione di un
dittatore per Marco Bruto. Quando s'intese bussare sommessamente alla porta,
Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire
ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo piuttosto che eseguire la
risoluzione presa; ma quando Fermo entrato disse: «son qui, andiamo»; quando
tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già
determinata, Lucia non ebbe spazio né cuore di far contrasto e come
strascinata, prese tremando un braccio della madre, e un braccio di Fermo, e s'avviò
senza far motto colla brigata avventurosa.
Zitti,
zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero in vicinanza della casa del
nostro Don Abbondio il quale era ben lontano, pover'uomo! dal pensare che una
tanta burasca si addensasse sul suo capo. Qui si separarono come erano
convenuti: Lucia, Agnese e Fermo presero per un viottolo tortuoso che girava
attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro
di fianco della casa vennero a porsi presso all'angolo di essa, Fermo e Lucia
per trovarsi nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro
verrebbe, Agnese per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno. Toni
destro col disutilaccio di Gervaso che non sapeva far nulla da sè, e
senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e
toccarono il martello.
«Chi
è, a quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in
quel momento: era la voce di Perpetua. «Malati non ce n'è: dovrei
saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?»
«Son'io»,
rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor
curato».
«È
ora da cristiani questa?» rispose agramente Perpetua: «che discrezione? tornate
domani».
«Sentite:
tornerò o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi ed ero
venuto per pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si
può aspetterò un'altra occasione, questi so come spenderli, e
verrò quando ne abbia guadagnati degli altri».
«Aspettate,
aspettate: vado e torno: ma perché venire a quest'ora?»
«Se
l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete,
me ne vado».
«No
no: aspettate un momento; torno con la risposta».
Così
dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai
promessi, e detto sotto voce a Lucia: «coraggio: è un momento; come a
far cavare un dente», venne a porsi dinanzi la fronte della casa, aspettando
che Perpetua aprisse per far vista di passare.
Perpetua
venne infatti tostamente, aperse la porta, e disse: «dove siete?» Quando i due
fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò
Perpetua fermandosi un momento sui due piedi.
«Buona
sera, Agnese», disse Perpetua, «donde a quest'ora?»
«Vengo
dalla filanda», rispose Agnese, «e se sapeste... mi sono indugiata appunto in
grazia vostra».
«Oh
perché?» rispose Perpetua: indi rivolta ai due fratelli: «entrate», disse, «ed
aspettate che vengo anch'io». Quegli entrarono.
«Perché»,
ripigliò Agnese, «una donna, pettegola! non sanno le cose e voglion
parlare... credereste? si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo
perch'egli non vi ha voluto. Io sosteneva che voi l'avete rifiutato...»
«Certo
sono stata io, ma chi è costei?»
«Questo
non fa... ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene
tutta la storia per confonder colei».
«Bugiarda,
bugiarda», disse Perpetua. «È una bugiarderia, la più nera.
Sentite, come andò la faccenda: e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio,
socchiudete la porta, e salite pure ch'io verrò poi». Tonio rispose di
dentro che sì. Perpetua cominciò la sua storia, e Agnese si
avviò passo passo verso l'angolo della casa opposto a quello dietro cui
erano in agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo
voltò seguita da Perpetua: e voltatolo tossì per dar segno. Il
segno fu inteso, e Fermo traendo Lucia la quale correva come un leprotto
inseguito, in punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono
delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli che gli stavano
aspettando. Chiusero sommessamente il chiavistello per di dentro e salirono insieme,
mentre Agnese moltiplicava le inchieste per trattenere la fante. I quattro
congiurati tutti diversamente commossi ascesero le scale, e posati che furono
sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: «Deo gratias», ed entrò col
fratello, mentre Don Abbondio che gli aspettava rispose: «Avanti». Fermo e
Lucia ristettero dietro la porta: senza moversi, senza alitare: l'orecchio il
più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore
di Lucia. Toni entrato socchiuse la porta dietro di sè. Don Abbondio
convalescente della febbre, e non guarito della paura stava seduto su un
vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un
vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un
lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha dopo d'aver
sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e
sulla tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e
sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre. Presso alla lucerna era il
breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale....
«Ah!
ah!» fu il saluto di Don Abbondio.
«Il
signor Curato dirà che siamo venuti tardi», disse Toni inchinandosi,
come pure fece più goffamente Gervaso.
«Venite
tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio. «Basta, vediamo».
«Sono
venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni
cavando un gruppetto di tasca.
«Vediamo»,
replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e
furono trovate irreprensibili.
«Ora
signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera
Tecla».
«È
giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una
chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una
parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa
per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse
l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, «c'è tutto?»
disse, indi lo consegnò a Toni.
«Ora»,
disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».
«Non
vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio. «Ecco volete darmi anche
quest'incomodo».
«Che
dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»
«Bene,
bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro
nel calamajo. Perpetua, dov'è costei? Perpetua!»
«Perpetua
era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor
Curato: cerchi il calamajo che farà più presto».
Così
brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e
calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la
composizione. Frattanto Toni, e Gervaso com'era convenuto si posero dinanzi
allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per ozio andavano
soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti
senza essere intesi. Don Abbondio tutto nella sua quitanza non badava ad altro.
Al fruscio dei quattro piedi che era il segno convenuto, Fermo strinse la mano
di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè, e pian piano
entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro
i due fratelli. Don Abbondio finito ch'ebbe di scrivere rilesse attentamente,
da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, e prima di alzare gli occhi
dalla carta: «sarete contento?» disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni
allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso
dall'altra, e i due sposi apparvero in mezzo come all'alzare d'un sipario. Don
Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì,
s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo
che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: «Signor curato, in
presenza di questi testimonj, questa è mia moglie».
Le
labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva
già lasciata cadere la quitanza, fatto un salto, afferrata colla manca e
sollevata la lucerna, e tirato colla destra a sè un tappeto che copriva
il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la
seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua
dolce voce tremante aveva appena potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio
gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto e
tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca perch'ella non potesse
proseguire, gridava a testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento!
ajuto! ajuto!» Il lucignolo della lucerna che Don Abbondio aveva lasciata
cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia
appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo pareva una statua
sbozzata in creta, cui un rozzo fattore dell'artefice copre, da testa, con un
umido panno. Cessata ogni luce Don Abbondio lasciò la poveretta la quale
già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico
com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina,
v'entrò, vi si chiuse, e continuò a gridare: «tradimento!
Perpetua! accorr'uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una
schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua!
dov'è costei!» Nella stanza tutto era confusione: Fermo, inseguendo come
poteva il curato, aveva trascinata con sè Lucia alla porta, e bussava
gridando: «apra apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a
terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso
spiritato gridava, e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.
In
mezzo a questo serra serra, non possiamo a meno di fermarci un istante per fare
una riflessione. Fermo il quale strepitava in casa altrui, che vi s'era
introdotto frodolentemente, che assediava il padrone in una stanza, pare un
soperchiatore, un torbido; e pure gli era un poveretto a cui si negava la
ragione la più limpida, la più sacra. Don Abbondio impaurito,
minacciato mentre tranquillamente attendeva ai fatti suoi pare l'oppresso, la
vittima, l'uomo onesto, e pure era egli in realtà il soperchiatore.
Così va il mondo; o... voglio dire, così andava nel secolo decimo
settimo.
Don
Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra
che dava sul sagrato, a gridare accorr'uomo. Batteva la più bella luna
del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe
lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente con un gran mazzo
di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale dopo suonata l'avemaria era
rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare. «Lorenzo!»
gridò il curato, «accorrete, gente in casa! ajuto». Lorenzo si
sbigottì, ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi
urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso
ch'egli non chiedeva, e di farlo senza suo rischio. Corse indietro alla porta
della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò,
andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa
campana, e tirò a martello.
CAPITOLO VIII
LA FUGA
—
Ton, ton, ton, ton, — i contadini appena corcati balzano a sedere sul letto: —
che è? che è? La campana: fuoco? banditi? — Le donne pregano e
consigliano i mariti di non si muovere, di lasciar correre gli altri: gli
uomini si alzano dicendo: — vado soltanto alla finestra —: i garzoni caccian la
testa dal fenile: i più curiosi e bravi sono già nella via colle
forche e coi fucili: altri gl'imitano, e i poltroni come se si lasciassero
vincere dalle preghiere ritornano al covile.
Frattanto
Perpetua che nelle ciarle s'era dimenticata di se stessa, ma che noi non
abbiamo dimenticata, aveva inteso come un romore, un gridio, e aveva interrotto
il discorso per avviarsi verso casa, cercando invano di rattenerla Agnese, la
quale pure stava sulla corda non vedendo tornare nessuno; e all'udire quel
gridìo fu pure presa da una grande inquietudine. Ma quando la campana a
martello si fece udire, corsero entrambe verso la porta. Toni aveva finalmente
ricolta la quitanza, e pigliando a tentone Gervaso nelle tenebre, aveva
pigliata la porta e scendeva saltelloni dalla scala: Lucia pregava fievolmente
Fermo di cavarla da quella caverna; e quando egli udì quel tocco funesto
gli parve pure mill'anni d'esserne fuori, e trovò la porta come gli
altri. Perpetua correndo affannata con Agnese, si abbattè in Toni e il
fratello che uscivano, e gli assalì d'inchieste alle quali essi non
dierono risposta, ed usciti nella via, s'avviarono a casa.
Per
buona sorte Fermo e Lucia usciti nella via, presero la strada opposta a quella
donde veniva Perpetua, ed ella entrò a furia in casa senza vederli, e vi
si chiuse. Agnese che guardando fiso gli aveva visti uscire, gli raggiunse, e
tutti e tre voltarono in fretta, in silenzio, palpitando, il canto, e
s'avviarono pure verso casa. Intanto la gente traeva da tutte le parti alla
chiesa: già i più lesti erano entrati nel campanile e avevano
inteso da Lorenzo che la gente era in casa del curato. Ma guardando al di fuori
videro le porte chiuse, e tutto quieto: taluni però osservando
più per minuto s'accorsero che una finestra era appena socchiusa e
intravvidero per lo spiraglio la faccia lunga di Don Abbondio, il quale avendo
sentita sgombrata la stanza vicina, e conoscendo cessato il pericolo,
cominciava ad essere inquieto e malcontento del troppo soccorso. «Che cosa
è stato?» domandò uno degli accorsi: «Sono fuggiti», rispose il
curato, «tornate a casa, vi ringrazio». «Fuggiti, chi?» «Cattiva gente, cattiva
gente, tornate a casa, non c'è più niente». Qui cominciarono risa
di alcuni, rimbrotti di alcuni altri, domande dei sopravvegnenti, discorsi
d'ogni genere. Lorenzo lasciata finalmente la corda uscì dalla Chiesa, e
si pose in mezzo ai crocchj a render ragione dell'aver così messo a
soqquadro tutto il paese. Ma in mezzo ai paesani si videro passare in ordine di
battaglia alcuni armati e di sinistro aspetto: erano gli amici che abbiam
già veduti all'osteria. A quelli che li vedevano nasceva sospetto che
fossero banditi, e che per cagion loro si fosse suonato a stormo: chi si ritirava,
chi si univa in crocchio, e già da molti si parlamentava del partito da
prendersi.
Ma
siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e ad ogn'uomo che vedevano
parevan dire: — tu non sei quello —, così nessuno volle gittare la prima
pietra, e a poco a poco la folla svanì, ognuno si ritirò a casa,
e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua.
Ma
i tre personaggi che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non
rispondendo alle inchieste e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla
casa di Lucia; quando un garzoncello che andava guardando attentamente tutti
quelli che passavano, al vederli, mise un sospiro che pareva volesse dire: —
gli ho trovati una volta —; si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel
lembo della veste, e disse con voce bassa e affannata: «Tornate indietro per
amor del cielo!» Era Menico, e fu tosto riconosciuto. «Perché?» dissero tutti e
tre. «Indietro, indietro, vi dico non tornate a casa, venite al convento;
così mi ha detto il padre Cristoforo». La proposta parve a tutti strana,
e in altri momenti udendola da un Menico non vi avrebbero posto mente; ma nei
momenti di confusione e di paura, tutti i consigli pajono buoni. Quelli
ristettero: ma Menico continuava: «Venite con me pei viottoli, vi
condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto per istrada». «Ma la
casa...» disse Agnese.
«Niente
niente, venite con me, lo ha detto il Padre Cristoforo: Dio vi liberi dal
tornare a casa». Essi seguirono il ragazzo, il quale in quel punto era
più presente a sè che essi non fossero, ed entrati per una
callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di strada
comoda, poteva condurre al convento.
Quantunque
il lettore possa aver facilmente indovinato quale fosse il novo pericolo di
Lucia, e donde il buon Frate ne avesse avuto l'avviso, pure è dovere
dello storico il raccontare per esteso tutta la faccenda. Per procedere
ordinatamente è mestieri tornare a Don Rodrigo che abbiamo lasciato
solo, avendo noi preferito di accompagnare il Padre Cristoforo.
Don
Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala, le pareti
della quale come ora diciamo erano coperte da grandi ritratti di famiglia.
Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo della sala, si mirava in faccia un suo
antenato guerriero, terrore dei nemici, colle gambiere, colla corazza, coi
bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la mano manca posta sul
fianco e la destra sullo spadone a foggia di bastone. Quando Don Rodrigo era
sotto a questo antenato, e voltava, ecco in faccia un altro antenato,
magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta seggiola di velluto, con
una lunga toga nera, tutto nero fuorché un collare con due ampie facciuole:
aveva una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una supplica,
e pareva dicesse: — vedremo —: di qua una matrona terrore delle sue damigelle,
di là un abate terrore dei monaci, tutta gente insomma che spirava
terrore. In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo
che un frate avesse osato prender con lui il tuono di Nathan, e ammonirlo, anzi
minacciarlo. Formava un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come
soddisfare ad un tempo alla passione e all'onore; e talvolta, sentendosi
fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e quasi
stava per deporre il pensiero di soddisfarsi.
Finalmente,
per fare qualche cosa, chiamò un servo, e ordinò che facesse le
sue scuse alla brigata, dicendo ch'egli era trattenuto da un affare urgente.
Quando il servo tornò a riferire che quei signori erano partiti lasciando
i più umili ossequj e i più vivi ringraziamenti: «E il conte
Attilio?» domandò, sempre passeggiando, don Rodrigo. «È uscito
con quei signori». «Bene: sei persone di seguito pel passeggio: la mia spada;
il cappello; il pugnale di gala». Il servo partì facendo un inchino, e
Don Rodrigo, salì nella sua stanza, si cinse una ricca spada, depose il
pugnale che aveva in cintura, e ne prese uno di gala col fodero a rilievi
d'oro, e con un bel diamante sul pomo, si gettò la cappa sulle spalle,
si coperse col cappello a grandi piume, e colla palma lo inchiodò sul
capo; e si dispose ad uscire. A dir vero, egli non andava né per faccenda né
per diporto; ma sentiva un bisogno indistinto e confuso di uscire in gran
pompa, di circondarsi della sua forza per mostrare agli altri ed a sè
stesso ch'egli era pur sempre quel Don Rodrigo. Al piede della scala
trovò i sei seguaci tutti armati, i quali fatta ala ed inchino, gli
tennero dietro. Più burbero, più superbioso, più
accigliato del solito uscì egli e si pose a camminare verso Lecco
ricevendo inchini profondi, simili a genuflessioni dai contadini in cui
s'abbatteva: i bravi che lo seguivano non avrebbero lasciato di punire il
contegno poco ossequioso d'uno smemorato, o d'un temerario. Don Rodrigo
rispondeva con una leggera mossa di capo. I signorotti pure facevano riverenza
a colui che, senza contrasto, era il più potente di loro, e Don Rodrigo
corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quando però Don Rodrigo
s'incontrava nel signor Castellano spagnuolo, l'inchino allora era egualmente
profondo dall'una e dall'altra parte; si vedevano come due potentati i quali
non hanno fra loro nessuna relazione né di pace né di guerra, ma che per
convenienza fanno onore al grado l'uno dell'altro. Dopo aver passeggiato, Don
Rodrigo si presentò in una casa dove si teneva brigata, e dove fu
accolto con quella cordialità rispettosa che è riserbata a quelli
che fanno paura, e finalmente a notte avanzata tornò al suo castellotto.
Il
Conte Attilio era giunto da poco; e fu servita la cena, alla quale Don Rodrigo
pareva ancora alquanto sopra pensiero.
Il
Conte ruppe il silenzio, dicendo con aria maligna:
«Cugino,
quando pagate questa scommessa?»
«Il
giorno di San Martino non è venuto».
«Bene;
ma tanto fa che la paghiate ora; perché passeranno tutti i santi del paradiso
prima che...»
«Questo
è quello che si ha da vedere».
«Cugino,
voi volete nascondervi da me: ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver
vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra».
«Che?...»
«Che
il Padre..., il padre... che so io? quel frate insomma vi ha convertito».
«Questa
pensata è veramente una delle vostre».
«Convertito,
cugino, convertito, vi dico. Io per me ne godo: sapete che bella cosa sarebbe
vedervi tutto compunto e cogli occhi bassi. E che gloria per quel padre! Come
sarà tornato a casa pettoruto! Non son mica pesci che si pigliano ogni
giorno e con ogni rete. Siate certo che vi citerà per esempio; e quando
andrà a far qualche missione un po' lontano, parlerà dei fatti
vostri. Mi par di sentirlo con quella voce nel naso, predicare a questo modo: —
In una parte di questo mondo, che per degni rispetti non nomino, viveva,
uditori carissimi, un cavaliere dissoluto, amico più delle femine che
dei servi di Dio, il quale avvezzo a far d'ogni erba fascio...»
«Basta
basta», interruppe Don Rodrigo mezzo sogghignando, e mezzo arrovellato. «Se
volete raddoppiar la scommessa, io son pronto».
«Diavolo!
che aveste voi convertito il padre!»
«Non
mi parlate di colui: e quanto alla scommessa, aspettate san Martino».
La
curiosità del Conte era stuzzicata; egli non fece risparmio d'inchieste,
ma Don Rodrigo le deluse tutte, rimettendosi sempre al giorno della prova, e
non si arrischiando di comunicare al suo avversario disegni che non erano
ancora né incamminati, né assolutamente risoluti.
Ma
quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le
passioni che si erano combattute nel suo animo non vi rimaneva altra che il
desiderio di soddisfarsi.
Quel
poco di compugnimento, che il colloquio del padre Cristoforo aveva messo
addosso, era svanito insieme coi sogni della notte, e la memoria stessa di
averlo sentito non serviva che a raddoppiargli la stizza. Le sensazioni
posteriori a quel colloquio, il passeggio coi bravi, gl'inchini, le canzonature
del Conte avevano ritornata...................................... e quei tristi
credendosi scoverti, si ritirarono in buon ordine come abbiamo detto. Ma quel
buon servo che aveva già promesso al Padre Cristoforo di tenerlo
avvertito, seppe quello che si tramava; trovò il modo di correre al
convento, informò il Padre, il quale spedì tosto Menico, come
abbiamo veduto.
I
nostri tre fuggitivi camminarono qualche tempo in silenzio, dietro il loro
picciolo guidatore, il quale superbo di andar così di notte, per un
affare, come un uomo, superbo di essere nella brigata, quello che dava
consiglio, che avvisava al da farsi, che rincorava, che aveva la mente
più riposata, guardava attentamente la via, scegliendo i tratti
più brevi, e i più fuor di mano, e rivolgendosi alle rivolte con
aria d'importanza, a dire: «per di qua».
Avevano
fatto un terzo circa della via, ed erano lontani dal paese, tanto che guardando
indietro non si vedevano più i radi lumi delle lucerne che le donne
sporgevano dalle finestre ponendovi la mano sopra di traverso per non esser
vedute e per mandar la luce sulla via per dove tornavano a casa gli uomini a
subire un interrogatorio: e nessuno dei tre aveva ancora avuto animo di
comunicare agli altri i pensieri che lo agitavano: s'udiva solo di tempo in
tempo Agnese sclamare: — poveri morti benedetti, ajutateci —, Lucia invocare la
Vergine, e Fermo mormorare qualche esclamazione di sdegno. Fu la prima Agnese
che proferì un periodo compiuto. «E la casa?» diss'ella: «l'abbiamo
lasciata in abbandono, senza nemmeno porvi una custodia: sulla fede di questo
ragazzo, che Dio sa come ha inteso».
«Come!»
rispose con un poco di stizza e di albagia, Menico: «come! sentirete, sentirete
or ora dal Padre Cristoforo. Buon per voi che io vi abbia saputi trovare. Guaj
se andavate a casa: mi ha detto il Padre, che doveste uscirne subito subito, e
temeva ch'io non fossi in tempo». «Bembè sentiremo», rispose Agnese. Ma
Lucia andava stretta al braccio della madre, rifiutando dolcemente l'appoggio
di Fermo, ed arrampicando la prima sui muricciuoli che avevano a superare per
non essere ajutata da lui, e in mezzo a tutte le agitazioni tremando pure di
trovarsi così di notte per via con lui, per quel pudore che non nasce
dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, e somiglia
al sospetto del fanciullo che trema nelle tenebre senza sapere che cosa ci sia
da temere. Le parole di Agnese furono il principio d'una conversazione
generale: addomesticati già un poco alla loro nuova e inaspettata
situazione, si posero tutti e tre a favellar sotto voce (il che spiacque assai
a Menico, al quale pareva pure di meritar fiducia dopo la sua impresa) a
favellare dell'accaduto e di quello che poteva soprastare. La povera Lucia
parlò poco: e quello che me la rende più cara e più
pregiata si è ch'ella non si lasciò sfuggire una parola che
rinfacciasse alla madre ed a Fermo l'ostinazione loro a volerla tirare a quella
impresa ch'era così mal riuscita: non proferì mai quelle parole:
«l'aveva detto io».
Finalmente
per viottoli di campi, e per selve senza sentiero giunsero i viaggiatori ad un
torrente che dal monte chiamato Resegone scende nell'Adda e si chiama Bione,
nome che invano altri cercherebbe in un dizionario geografico. Il torrente era
al di là dal convento, ma non è da dir per questo che Menico
avesse fallita la strada, giacché era stato mestieri allungarla per ischifare
la via comune e battuta. Scesero alcuni passi col torrente, e quindi volgendo a
diritta divennero sulla piazzetta che si apriva dinanzi al convento ed alla
chiesicciuola unita a quello.
«Adesso
vedrete», disse Menico sottovoce: si affacciò alla porta della chiesa,
la sospinse dolcemente, e quella in fatti si aperse, e la luna, entrando per lo
spiraglio illuminò la barba d'argento, e la tonaca del Padre Cristoforo,
che stava ivi ritto ad aspettare. Quando egli vide che con Menico v'erano i tre
che egli dubbiosamente aspettava, disse a bassa voce: «Dio sia benedetto: siete
fuori di pericolo», e gli fece entrare. A canto del nostro Padre Cristoforo si
trovava un altro cappuccino. Era questi il laico sagrestano che egli con
preghiere e con ragioni aveva determinato a vegliar con lui, a lasciare aperta
la chiesa, e a starvi in sentinella per accogliere quei poveri minacciati; e
non vi voleva meno dell'autorità del padre, e della sua fama di santo
per condurre il laico ad una condiscendenza piena non solo d'incomodo, ma di
pericolo. Quando furono entrati: «Chiudete ora la porta senza far fracasso»,
disse il padre Cristoforo. Ma il laico al quale pareva già d'aver fatto
troppo, crollò la testa, e disse: «Chiudersi di notte in chiesa con
donne...! mi pare...» e continuava a crollare la testa.
—
Vedete un po', diceva fra sè il padre Cristoforo: se fosse un
masnadiero, Fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo, e una
innocente che si vuol salvare dagli artigli del lupo...
«Omnia
munda mundis» disse impetuosamente volgendosi a Fra Fazio, e dimenticando
che Fra Fazio non sapeva il latino. Ma questa dimenticanza fu appunto quella
che ottenne l'intento. Se il Padre avesse voluto addurre ragioni, Fra Fazio non
avrebbe mancato di ragioni da opporre, e la cosa sarebbe andata in lungo, Dio
sa anche come sarebbe finita; ma quando egli udì quelle parole d'un
suono così pieno e solenne, e dette così risolutamente, gli parve
che in esse dovesse essere tutta la soluzione dei suoi dubbj, rispose: «Ha
ragione», e volse a bell'agio la chiave nella toppa, e i nostri profughi si
trovarono chiusi nel santuario in salvo da ogni pericolo.
Il
Padre Cristoforo si pose ginocchioni ad orare un momento; e tutti lo imitarono:
quindi levato: «Figliuoli miei», disse, «Iddio non vi vuole ancora in riposo,
ma voi avete un segno della sua protezione, e un'arra ch'egli non vi
abbandonerà». E qui raccontò ai poveretti il pericolo a cui erano
sfuggiti, e proseguì: «Vedete che per ora è necessario
allontanarvi di qua: vi siete nati, è casa vostra, non avete fatto torto
a nessuno, ma il serpente talvolta fa disertare l'uomo dalla sua dimora, e gli
uomini pure si cacciano su questa terra come se vi fossero posti per divorarsi
l'un altro. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con
fiducia, senza rancore; è il mezzo di abbreviarla e di renderla utile.
Per me siate certi che penso a voi, e che troverò più mezzi per
ajutarvi che altri forse non crede. Frattanto io ho pensato a trovarvi per
qualche tempo un rifugio ove possiate starvi in sicuro finché si trovi il modo
di ritornare sicuri a casa vostra, e di giungere all'adempimento dei vostri
giusti e santi desiderj. Usciti di qui, voi v'incamminerete in silenzio al lago
presso allo sbocco del Bione, ivi vedrete un battello: direte: — barca: — vi
sarà risposto: — per chi? — replicate — San Francesco —: e la barca vi
accoglierà e vi trasporterà all'altra riva, dove troverete un
baroccio, il quale vi condurrà a salvamento». Chi domandasse come il
Padre aveva ai suoi comandi tante persone, e le aveva potute così
disporre ai servigi dei suoi protetti, mostrerebbe di non sapere che cosa
potesse un cappuccino che aveva fama di santo. Prese quindi in disparte Agnese,
le diede una lettera, le disse a chi doveva consegnarla assicurandola che con
quella troverebbe assistenza, e le raccomandò, che facesse in modo che
Fermo dopo averle accompagnate al luogo della loro dimora proseguisse il suo
viaggio. Quindi consegnò a questo un'altra lettera colle opportune
istruzioni.
Rimaneva
da pensare alla custodia delle case, le quali erano prive dei loro custodi
naturali. Le chiavi furono consegnate al Padre: quelle di Agnese per esser date
in mano d'una sua sorella, e quelle di Fermo per un suo cognato. Il Padre
ricevette le commissioni d'entrambi, procurando di acquietare la sollecitudine
di Agnese.
I
viaggiatori partivano quasi brulli di denaro: ma avevano dei risparmj in casa;
indicarono al Padre il luogo del deposito, ed egli promise di far loro tenere
il tutto sicuramente e presto. Finalmente con voce commossa, e contenendo le
lacrime: «Dio sia con voi», disse: «partite senza ritardo: il cuore mi dice che
ci rivedremo presto».
Certo,
il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire. Ma che sa
egli il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Il
sagrestano aperse la porta, commosso anch'egli, i viaggiatori partirono dando e
ricevendo un addio con voce sommessa e alterata; e la porta si richiuse.
Andarono quegli pian piano com'era stato loro segnato alla riva del lago; quivi
mutate le parole, entrarono nel battello, e il barcajuolo puntando il remo alla
riva, lo fece staccare, e remigando a due braccia, prese il largo verso la riva
opposta.
Il
lago era sgombro, non soffiava un respiro di vento, e la superficie dell'acqua,
illuminata dalla luna giaceva piana e liscia senza una increspatura, come un
immenso specchio. I remi che tagliando l'onda con tonfo misurato uscivano ad un
colpo grondanti, e segnando di infinite stille lo spazio sul quale precorrevano
per rituffarsi nell'acqua, rompevano solo la piana superficie del lago; l'onda
segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa segnava una striscia fuggente,
che si andava allontanando dal lido. I viaggiatori silenziosi, volgendosi
addietro, guardavano le montagne e il paese che la luna illuminava. Si
distinguevano i villaggi, i campanili, le capanne: il castellotto di Don
Rodrigo colla vecchia sua torre, alto sulle capanne, pareva un feroce ritto
nelle tenebre che in mezzo ad una folla di coricati nel sonno vegliasse
meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio
verso il sito della sua umile casa, e vide un pezzo di muro bianco che usciva
da una macchia verde scura, riconobbe la sua casetta, e il fico che ombreggiava
la porta: e seduta com'era sul fondo della barca, poggiò il gomito sulla
sponda, chinò su quello la fronte come per dormire; e pianse
segretamente.
Addio,
monti posati sugli abissi dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali,
conosciute a colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che
visse fra voi, come egli distingue all'aspetto l'uno dall'altro i suoi
famigliari, valli segrete, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branco
disperso di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi
vi conosce dall'infanzia! quanto è nojoso l'aspetto della pianura dove
il sito a cui si aggiunge è simile a quello che si è lasciato
addietro, dove l'occhio cerca invano nel lungo spazio, dove riposarsi e
contemplare, e si ritira fastidito come dal fondo d'un quadro su cui l'artefice
non abbia ancor figurata alcuna immagine della creazione. Che importa che nei
piani deserti sorgano città superbe ed affollate? il montanaro che le passeggia
avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della maraviglia nel mirare
edificj che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a
fatica pietra sopra pietra. Le vie, che hanno vanto di ampiezza, gli sembrano
valli troppo anguste, l'afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa
del monte non aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto timido e
delicato come il cittadino, si lagna del clima e della temperie, e dice che
morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col sole, non riposava
che al mezzo giorno e al cessare delle fatiche diurne, passa le ore intere
nell'ozio malinconico ripensando alle sue montagne.
Ma
questi sono piccioli dolori. L'uomo sa tormentar l'uomo nel cuore; e
amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei momenti passati
lietamente affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non
temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto una
certa maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più
quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente
trasformata. Dolore speciale: la contemplazione della perversità d'una
mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo
simile. Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle
prime speranze; casa nella quale sedendo con un pensiero s'imparò a
distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma desiderata con un
misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e
sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna. Addio chiesa dove nella
prima puerizia si stette in silenzio e con adulta gravità, dove si
cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente
le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire,
Chiesa, dove era preparato un rito, dove l'approvazione e la benedizione di Dio
doveva aggiungere all'ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della
santità. Addio! Il serpente nel suo viaggio torto e insidioso, si posta
talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la
sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l'uomo il quale ad
ogni passo incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è
obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi
figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile usurpatore, e
parte. E l'uomo pure caccia talvolta l'uomo sulla terra come se gli fosse
destinato per preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia
del potente oltraggioso: ma i passi affannosi del debole sono contati, e un
giorno ne sarà chiesta ragione.
La
barca giunta alla riva, urtando sull'arena scosse Lucia, la quale dopo avere
asciugate in segreto le lagrime, si alzò come dal sonno. Fermo
uscì il primo, porse la mano ad Agnese, questa uscita la porse a Lucia,
e tutti e tre resero tristamente grazie al barcajuolo, il quale rispose:
«Niente, niente, siamo quaggiù per ajutarci». Fermo voleva cavare una
parte dei pochi quattrinelli che si trovava in tasca; ma il barcajuolo li
rifiutò come se gli fosse proposto un furto. Trovarono il barroccio,
v'ascesero, e continuarono silenziosamente la via. La notte aveva già
passato il mezzo, e la luna illuminava tuttavia il cammino che dopo aver
seguito, abbandonato, e ripreso più volte il corso dell'Adda, corse per
lungo tempo di valle in valle fra monti che andavano sempre diminuendo
d'altezza.
L'aurora
mostrò loro delle colline, il cui aspetto sarebbe stato lieto per animi
lieti. Ma oltre la sventura che teneva sotto di sè i nostri viaggiatori,
la dura condizione dei tempi avrebbe impedita ogni gioja in qualunque
viaggiatore: giacché sur una terra ridente non s'incontrava che l'uomo tristo e
squallido dalla fame, che usciva per domandare soccorso non dovendo trovare
quasi che il suo simile bisognoso di soccorso.
A
giorno fatto giunsero al luogo della fermata; e discesero ad una osteria dove
li condusse la loro guida, la quale pose a riposare il suo cavallo, per
ritornarsene, e ricusò pure ogni pagamento. Qui Fermo avrebbe voluto
sostare almeno tutta la giornata, ma Agnese e Lucia lo persuasero a partire, ed
egli partì, tutto incerto dell'avvenire, ma certo almeno che un cuore
rispondeva al suo, e viveva delle sue stesse speranze.
TOMO SECONDO
CAPITOLO I
DIGRESSIONE.
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LA
SIGNORA
Avendo
posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto creder
così al lettore ch'egli troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo
in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà sospesa alquanto da
una discussione sopra principj; discussione la quale occuperà
probabilmente un buon terzo di questo capitolo. Il lettore che lo sa
potrà saltare alcune pagine per riprendere il filo della storia: e per
me lo consiglio di far così: giacché le parole che mi sento sulla punta
della penna sono tali da annojarlo, o anche da fargli venir la muffa al naso.
La
discussione viene all'occasione della osservazione seguente che mi fa un
personaggio ideale.
—
I protagonisti di questa storia, — dic'egli, — sono due innamorati; promessi al
punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle circostanze condotte
da una volontà perversa. La loro passione è quindi passata per
molti stadj, e per quelli principalmente che le danno occasione di manifestarsi
e di svolgersi nel modo più interessante. E intanto non si vede nulla di
tutto ciò: ho taciuto finora ma quando si arriva ad una separazione
secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine del capitolo
passato, non posso lasciare di farvi una inchiesta: — Questa vostra storia non
ricorda nulla di quello che gl'infelici giovani hanno sentito, non descrive i
principj, gli aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non li
dimostra innamorati?
—
Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi
la parte la più elaborata dell'opera: ma nel trascrivere, e nel rifare,
io salto tutti i passi di questo genere.
—
Bella idea! e perché, se v'aggrada?
—
Perché io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere
d'amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione.
—
Poffare! nel secolo decimonono, ancora simili idee! Ma i vostri riguardi sono
tanto più strani, in quanto l'amore dei vostri eroi è il
più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste
descriverlo in modo di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare
altrui ad un sentimento virtuoso.
—
Armatevi di pazienza, ed ascoltate. Se io potessi fare in guisa che questa storia
non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno
detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora
forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non
potrebbe certamente aver nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe
inutile per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo,
quand'anche fosse trattato da tutt'altri che dal mio autore e da me; perché
quale è lo scritto dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo
può sentirlo? Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per
esempio d'una vergine non più acerba, più saggia che avvenente
(non mi direte che non ve n'abbia), e di anguste fortune, la quale perduto
già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca
di tenere occupato il cuor suo coll'idea dei suoi doveri, colle consolazioni
della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare
né torre; ditemi un po' che bell'acconcio potrebbe fare a questa creatura una
storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto
saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso che un giovane prete il quale coi
gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la
preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli
rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando
troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di
distrazione, ponete il caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa
storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia
da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei
sentimenti ch'egli debbe soffocare ben bene nel suo cuore, se non vuole mancare
ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua
vita una contraddizione che tutta la alteri. Vedete quanti simili casi si
potrebber fare. Concludo che l'amore è necessario a questo mondo: ma ve
n'ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e
che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa
bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno
scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli animi:
come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza,
l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v'ha mai eccesso; e
lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po' più nelle cose di
questo mondo: ma dell'amore come vi diceva, ve n'ha, facendo un calcolo
moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla
conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente
l'andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno
per un prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d'amore
che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea
sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei.
—
Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali, e peggio; idee che
tendono a soffocare ogni slancio d'ingegno, e ben diverse dalle idee grandi
della vera religione...
—
La religione ha avuto scrittori del genio il più ardito ed elevato,
pensatori profondi, e pacati ragionatori d'una esattezza scrupolosa, e tutti
tutti questi senza una eccezione hanno disapprovate le opere in cui l'amore
è trattato nel modo che voi vorreste. Oh ditemi di grazia come mai io
posso persuadermi che tutti questi non han saputo conoscere quel che si voglia
la vera religione, e che voi avete trovata senza fatica la verità,
dov'essi con uno studio di tutta la vita non hanno saputo pescare che un errore
grossolano?
—
Così voi condannate tutti gli scritti...?
—
Sono i giudici che condannano: per me vi dico solo il perché io abbia esclusi
tutti quei bei passi da questa storia. Ma se volete dei giudizj, e delle
condanne, voi ne troverete nei casi in cui è lecito anzi bello il
condannare, cioè quando uno giudica se stesso. Vedete quello che hanno
pensato dei loro scritti amorosi quegli scrittori (del cristianesimo intendo) i
quali si sono acquistata fama di grandi, e nello stesso tempo di più
castigati.
Vedete
per esempio, il Petrarca e Racine.
—
Il Petrarca viveva in tempi...
—
Non parliamo del Petrarca, perché io spero che leggeremo presto intorno a lui
il giudizio d'un uomo il quale ne dirà, quello che né voi né io non
giungeremmo a trovare. Vi tratto, come vedete, senza cerimonie, perché siete un
personaggio ideale.
—
Ebbene, Racine. Non è ella cosa convenuta fra tutti gli uomini che hanno
due dita di cervello, e che non sono un secolo indietro dagli altri, che il
pentimento che Racine provò per le sue tragedie è una debolezza
degli ultimi suoi anni, debolezza indegna di quel grande intelletto, debolezza
che fa compassione?
—
Vi sono stati due Giovanni Racine. Uno per aver la grazia dei potenti,
adulò in essi apertamente il vizio, ch'egli conosceva per tale, e per
giustificare appunto le sue tragedie, beffò degli uomini pei quali aveva
in cuor suo un rispetto sentito, e sostituì gli scherni personali ai
ragionamenti per evitare la quistione: punse acerbamente quanto potè ed
umiliò con epigrammi stizzosi certi tali, che non la natura certo, ma il
giudizio di una gran parte del pubblico aveva fatti suoi emoli; e nello stesso
tempo si rose internamente, si accorò, perdette la sua pace ad ogni
critica che sentiva fare delle sue opere: tormentato e tormentatore pei
meschini interessi della letteratura, e della sua letteratura. Questi è
quel Giovanni Racine che scriveva rime d'amore.
L'altro,
viveva ritirato tranquillamente nel seno della sua famiglia: se non si
allontanò affatto dai potenti, almeno parlò ad essi (caso raro,
quasi unico in quei tempi) delle miserie degli uomini che essi avrebbero dovuto
sollevare, o non creare: non solo non cercava più gli applausi, non solo
non provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con dolore: non solo non si
arrovellava ad ogni critica; ma quando un uomo non provocato lo fece segno ad
un pubblico insulto, non se ne lagnò, e invece di ricevere scuse,
rispose con ringraziamenti. Egli che era stato cortigiano nella sua giovinezza,
rifiutò di sedere alla mensa di un principe per non privare i suoi figli
della sua compagnia. In pace con sè, col genere umano, e coi letterati,
egli trascorse vent'anni libero da quelle passioni che avevano agitata la sua
prima età, e non si può proprio dire per questo che fosse
rimbambito, poiché scrisse «Atalia». Questi è quel Giovanni Racine, che
si pentiva di avere scritte rime d'amore. Che di questi due uomini il debole
fosse il secondo, si può certamente dire, se ne dicono tante! ma per me,
non posso persuadermene.
—
Dunque secondo voi, aveva ragione di pentirsi: dunque se non fosse rimasto che
un esemplare delle tragedie amorose di Racine, se questo esemplare fosse stato
in vostra mano, se Racine ve lo avesse chiesto per abbruciarlo, per privare la
posterità d'un tale monumento d'ingegno, voi avreste...? non ardisco
quasi interrogarvi.
—
Io glielo avrei dato subito perché quel brav'uomo potesse aver la soddisfazione
di gettarlo sul fuoco. Come! voi credete che si sarebbe dovuto esitare a
togliergli dal cuore questa spina? Gliel avrei dato subito, perché il
dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di Racine era un sentimento
più importante, che non sia stato e non sia per essere il piacere che
hanno dato e che sono per dare le sue tragedie fino alla consumazione dei
secoli.
—
Queste sono ciarle; ma avete pensato che con questi stralci voi vi andate
scemando sempre più il numero de' lettori; e che se avrebbero potuto
essere centinaja, sa il cielo se li conterete a dozzine?
—
Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non arrivo a sentire la forza di questo
inconveniente.
—
Ma voi volete privarvi volontariamente dei mezzi più potenti di
dilettare, di quei mezzi che anche in mano della mediocrità possono
talvolta produrre un grande effetto?
—
Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che
non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la
più servile, l'ultima delle professioni. E vi confesso che troverei
qualche cosa di più ragionevole, di più umano, e di più
degno nelle occupazioni di un montambanco che in una fiera trattiene con sue
storie una folla di contadini: costui almeno può aver fatti passare
qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie; ed è
qualche cosa. Ma, per non ingannarvi, avvertite che in tutte queste ciarle che
abbiam fatte finora, non abbiam detto nulla o quasi nulla sul fondo della
quistione. Voi non lo avete toccato; ed io sono rimasto, rispondendovi, in
quella sfera dove vi siete posto: abbiam ciarlato di fuori, come si usa. Che se
volete veder qualche cosa sul fondo della quistione, andate di grazia a quegli
scrittori di cui abbiam fatto cenno; o pure pensateci un po' seriamente voi stesso.
—
Pensarci? Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a porre
insieme le idee di un Vandalo e d'una donnicciuola...
—
Sparisci; e torniamo alla storia.
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Dove
siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo dire. Abbiam
già avvertito che delle due classi fra le quali era divisa la
società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi,
d'uomini che avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva alla
prima. La sua timida discrezione raddoppia però a questo punto della
narrazione: e il progresso della narrazione stessa ne fa vedere il motivo. Le
avventure di Lucia nel suo novello soggiorno si trovano implicate con intrighi
tenebrosi, rematici, misteriosi, terribili, di persone che deggiono essere
state potenti, e imparentate assai: e l'autore si scopre impacciato tra il
desiderio di raccontare quello che sa, e il terrore di offendere di quelle
famiglie il mormorare contra le quali era un peccato punito in questo mondo.
Quindi egli va col calzare del piombo, e narrando i fatti, sopprime tutte le
indicazioni che potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste
indicazioni anche quella del luogo. Ma in questa parte almeno egli non è
stato destro abbastanza, e noi possiamo annunziare senza timore d'ingannarci il
luogo dove si è fermata Lucia: poiché l'autore senza avvedersene ci ha
dato un filo che condurrebbe alla scoperta anche un ragazzo. Egli dice in un
passo del suo racconto che Lucia giunse ad un borgo nobile e antico al quale di
città non mancava che il nome; altrove parla del Lambro che vi scorre:
altrove ancora dice che v'era un arciprete: con queste indicazioni non v'ha in
Europa uomo che sappia leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.
La
madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo, solette in
una osteria di Monza, senza alcuna pratica del paese, senza alcuna conoscenza,
non avendo in così alto mare altra bussola che la lettera del Padre
Cristoforo. La lettera era diretta al Padre Guardiano dei Cappuccini. Agnese
chiese conto del convento alla moglie dell'albergatore; la quale non lo diede
che dopo aver tentata ogni via per avere un pagamento anticipato di un
così picciol servizio, in tante informazioni, sul nome e sulla
qualità delle donne, sui motivi del loro viaggio, sugli affari che
potevano avere col Padre Guardiano. Ma le donne, alle quali era stato dal loro
protettore raccomandata la discrezione, seppero ingannare le ricerche della
ostessa, la quale fu obbligata di insegnar loro gratuitamente la via del
convento. Si mossero quindi tosto benché dovessero risentirsi del travaglio
della notte e del giorno antecedente: la lepre cacciata non sente la stanchezza
che quando ha trovato un ricovero.
Agnese
a cui l'aspetto di Monza non era nuovo perché v'era passata molti anni
addietro, né imponente perché aveva soggiornato a Milano, camminava francamente
guidando e incoraggiando Lucia, la quale andava rasente il muro tutta
sospettosa. Girando di via in via, e ad ogni rivolta di canto trovando ancora
vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia mista di non so quale afa, come
chi vede una brutta grandiosità. Ma il sentimento predominante di
accoramento e di terrore non le dava campo di esprimere quello che allora
provava, né di provarlo distintamente e con forza. Giunte alla porta del
convento, tirarono il campanello, e al portinajo che sopravvenne chiesero del
padre guardiano al quale avevano una lettera da consegnare. Quando Lucia vide
una tonaca cappuccinesca le parve di essere in paese conosciuto, e si riebbe alquanto.
Il padre guardiano non si fece aspettare, salutò le donne, prese la
lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse con una voce che
annunziava la compiacenza: «Oh! il mio Padre Cristoforo». Il Padre Cristoforo
era stato suo collega nel noviziato; e d'allora in poi essi avevano contratta
una amicizia da chiostro, voglio dire una amicizia cordiale, intima più
che fraterna, simile a quelle che si narrano di qualche pajo d'uomini
dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società
separate con vincoli particolari dalla società universale degli uomini.
Queste frazioni, questi crocchj creano fra tutti i membri che li compongono un
vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di benevolenza,
vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj accaniti e
mortali, ma forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno
della picciola società, e per dare a quegli stessi che si odiano una
apparenza, e una condotta da amici ogni volta che essi si trovino in contrasto
cogli estranei. Quando poi una conformità di sentimenti e di
inclinazioni, crea fra due individui di queste società una benevolenza
particolare ella è tanto più forte quanto più essi si sono
scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.
Il
padre guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhj dal
foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento.
Quand'ebbe
terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano
sul mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver
trovato quello di che aveva bisogno: «Non c'è altri che la Signora: se
la Signora vuol pigliarsi l'impegno...» Fece quindi a bassa voce ad Agnese
alcune interrogazioni alle quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete
seguirmi? Io spero di aver trovato ove collocare in sicuro questa buona
ragazza». Le donne si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui
suggerito: e il padre: «venite con me» disse; «statemi soltanto alcuni passi
addietro; perché, vedete, il paese è maligno, e Dio sa quante storie si
farebbero se si vedesse il padre guardiano con una bella giovane, voglio dire
con donne per la via». Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al
guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata. Giunti al monastero, il
guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele
alla moglie del fattore la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla
via, progredì nel cortile promettendo di tornare a momenti.
L'interrogatorio
della fattora fu come doveva essere, più imperioso, più astuto,
più pressante d'assai che non fosse stato quello dell'albergatrice; e
Agnese schermendosi a stento, andava già componendo una filastrocca
nella sua mente, perché vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar qualche
cosa, quando per buona sorte, ritornò il padre guardiano con faccia
giuliva ad annunziare alle donne che la Signora si degnava riceverle. La
fattora le lasciò partire guardando con dispetto il guardiano ch'era
venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando
il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo da tenersi colla
Signora: «Siate umili, e riverenti, raccomandatevi alla sua protezione,
rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per
farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me».
Agnese
e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza, e di pensiero di
questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al padre chi ella fosse:
probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così modesto, e
per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora; ma,
come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta,
la quale sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però
solo quel tanto che non si potrebbe tacere.
Era
la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco che era stata posta
dall'adolescenza in quel monistero, e vi aveva assunto il velo, e fatta la
professione. Aveva essa l'incarico di vegliare sulle fanciulle che erano nel
monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra delle
educande; ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità
che queste le davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che
di Signora; ed era da tutte riguardata, come la protettrice, la donna principe
del monistero; e con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi
servigi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di
cella.
La
sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del monistero;
e i cappuccini i quali di generazione in generazione, o per meglio dire di
vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto di amicizia
col monistero, godevano essi pure di questa protezione. Ecco perché il padre
guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è
condotta ora dinanzi a lei.
Dal
cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al
parlatorio; prima di porvi il piede il guardiano, accennando la porta aperta
disse sottovoce alle donne: «qui è la Signora», come per farle
rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia non aveva mai
veduto un monistero: ponendo tutta timorosa il piede sulla soglia del parlatorio,
si guardò intorno per vedere dove fosse la Signora a cui si doveva fare
l'inchino, e non iscorgendo persona, stava come smemorata, quando osservando il
padre che andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò,
e vide un pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi il doppio
con una doppia grata la quale togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la
lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in
piedi, e le s'inchinò profondamente come avevano già fatto gli
altri due.
L'aspetto
della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po'
conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni. Un velo nero teso
orizzontalmente sopra la testa scendeva a dritta e a manca dietro il volto,
sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte che
si vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava un candido
avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte liscia ed elevata
si corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si
riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido movimento. Due occhi pur
nerissimi si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione
dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in
quegli occhi un non so che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea
che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito,
talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi
accompagnavano. Le guance pallidissime, ma delicate scendevano con una curva
dolce ed eguale ad un mento rilevato appena come quello d'una statua greca. Le
labbra regolarissime, dolcemente prominenti, benché colorate appena d'un roseo
tenue, spiccavano pure fra quel pallore; e i loro moti erano, come quelli degli
occhi, vivi, inaspettati, pieni di espressione e di mistero. Una gorgiera
bianca, increspata lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito:
la nera cocolla copriva il rimanente dell'alta persona, ma un portamento
disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni rivolgimento, forme di alta
e regolare proporzione. Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa
di studiato, o di negletto, di stranio insomma che osservato in uno colla
espressione del volto dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare. La
stoffa della cocolla e dei veli era più fine che non s'usasse a monache,
il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla
tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli; il che
mostrava o dimenticanza o trascuraggine di tener secondo la regola, sempre
mozze le chiome già recise nella cerimonia solenne della vestizione.
Questa
stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso nei gesti
della Signora. S'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso, come se
temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio; talvolta
dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se ne intendesse
una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta dopo una lunga e manifesta
distrazione, si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua
mente non aveva avvertiti.
Queste
cose non si facevano scorgere a Lucia non avvezza a scernere monaca da monaca,
e neppure ad Agnese: l'occhio del padre guardiano era certamente più
esercitato, ma perciò appunto era avvezzo ad osservare senza maraviglia
nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi s'era già da
molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora. Ma ad un
viaggiatore che l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere
non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi
separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle
commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.
In
quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta in piedi, presso la grata,
appoggiata ad essa mollemente con una mano, intrecciando le bianchissime dita
nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata osservando quelli che si
presentavano, e specialmente Lucia.
«Reverenda
madre, e signora illustrissima», disse il padre guardiano colla fronte bassa, e
con la destra tesa sul petto; «ecco quella innocente derelitta, per la quale
imploro la valida sua protezione». E sulle ultime parole accennava alle donne
che accompagnassero con atti e con inchini la sua supplicazione; la povera
Agnese dopo d'aver fatto al padre un cenno del volto che voleva dire: — so quel
che va fatto — raddoppiava gl'inchini, rannicchiandosi, e risorgendo come se
una molla interna la facesse muovere, e Lucia s'inchinò pure, da
inesperta, ma con una certa grazia che la bellezza, la giovinezza, e la
purità dell'animo danno a tutti i movimenti. La Signora curvò
leggermente il capo verso il padre guardiano, fece alle donne cenno della mano
che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di
sedersi, sedette e sempre rivolta al padre, rispose: «Ho appreso dai miei
antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi
ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a
qualche cosa. È una buona ventura per me il potere render servizio a'
nostri buoni amici i padri cappuccini». Queste parole furono accompagnate da un
sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno.
Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe: «Non
mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno con
sè il loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di
far conto sul ricambio dei nostri buoni padri. Il mondo è pieno di
tristi e d'invidiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento
in cui possa aver bisogno di una buona testimonianza, e d'ajuto».
Il
guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima parte della
quale significava che la Signora non avrebbe mai bisogno di nessuno, e la
seconda che i padri avrebbero tenuta a guadagno ogni occasione di far cosa
grata alla Signora. Questa proseguì: «Ma via; mi dica un po' più
particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio
che si possa fare per essa».
Lucia
arrossò tutta, e chinò la faccia sul seno. «Deve sapere,
reverenda madre», cominciò Agnese, «che questa mia povera figliuola,
perché io sono sua madre...»
Il
guardiano le gittò un'occhiata e interruppe.
«Questa
giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio confratello:
essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel quale possa stare
sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per sottrarsi a dei
gravi pericoli».
«Pericoli!»
disse la Signora. «Quali pericoli? di grazia, padre guardiano. Mi dica la cosa
per minuto: ella sa che noi altre monache siamo vaghe d'intendere storie».
«Sono»,
rispose il padre, «pericoli dei quali la reverenda madre, non conosce nemmeno
il nome, beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe offendere le
purissime vostre orecchie, e contristare l'illibatezza dei vostri pensieri,
signora illustrissima».
«Oh!
certamente!» rispose precipitosamente la signora, senza molto badare
all'aggiustatezza della risposta; e si fece tutta di porpora. Era verecondia?
Chi avesse osservata una subitanea ma viva espressione di scherno e di dispetto
che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più
se lo avesse paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance
di Lucia.
La
Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e
stava per rivolgere il discorso a Lucia, quando il guardiano, tenendo di non
aver mal detto, ripigliò così il discorso: «Non tutti i grandi
del mondo, si servono dei doni di Dio a gloria di lui, e a vantaggio del
prossimo, come fa la Signora illustrissima. Un cavaliere prepotente e senza
timor di Dio, ha tentato ogni via, giacché deggio pur dirlo, per insidiare la
castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di lusinga
gli andavano falliti, non temè di ricorrere alla forza aperta,
tentando... insomma di farla rapire. Ma Dio non l'ha lasciata cadere in quei
sozzi artigli, e le ha invece preparato un ricovero sotto le ale
incontaminate...»
«Ma
voi», disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia, «voi che dite di codesto
signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli
sozzi».
«Signora,
madre, illustrissima», balbettò Lucia che sarebbe stata confusa a dover
rispondere su questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una
persona sua pari e conosciuta. Ma Agnese venne in soccorso: «Illustrissima
signora», diss'ella, «il suo parlare è troppo alto per questa povera
figliuola. Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore colui,
come il diavolo l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi
compatirà se parlo male, perché noi siam gente come Dio vuole; del
resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro pari,
timorato di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto un po'
più di giudizio; so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo
amico intrinseco qui del padre guardiano, è religioso al pari di lui, e
davantaggio, e potrà attestare...»
«Voi
siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata», disse la Signora, dando
sulla voce ad Agnese. «Non so che fare dei parenti che rispondono pei loro
figliuoli». Agnese voleva aprir bocca, ma la signora con tuono ancor più
brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole non servono a nulla».
Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di
sinistro, di feroce che quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la
alterava di modo che chi avesse osservato quel volto in quel punto ne avrebbe
conservata una immagine disgustosa per sempre. I suoi guardi erano fissi sopra
Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico. E
continuò: «Voi fate conto forse, che perché io son qui rinchiusa, fuori
del mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad intender qualunque cosa.
Povera donna! appunto perché son qui, sono men facile ad essere ingannata su
certe materie. Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è
sempre un uomo compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è
così allegro! in così bella situazione! così tranquillo!
è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia; vorrebbero
anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a far vita beata: ma... pur
troppo sono legati nel mondo. Scusi il mio caldo, padre, ma ella sa meglio di
me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno queste cose, la menzogna la
più imperterrita, la più persistente, la più solenne
è quella che sta sul labbro di colui che vuole sagrificare i suoi figli,
e far loro violenza. Questi sono i peccati, contra i quali si dovrebbe
predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno».
A
queste parole, la Signora, si pose a sedere tutta turbata, ed ognuno si sarebbe
avveduto che un pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere,
dominava allora la sua mente, e che gli affari di Lucia non erano che un
oggetto di considerazione secondaria.
Agnese
intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le avesse tirata
addosso questa tempesta, il guardiano voleva pure animar Lucia a parlare, ma
questa animata già dalla circostanza, si avvicinò alla grata, e
in tuono modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto la
mia buona madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava», e
qui arrossò, «lo sposava io... di mio genio, mi perdoni se parlo da
sfacciata, ma è per difendere mia madre: e quanto a quel signore...»
«Buona
fanciulla», interruppe la Signora con voce raddolcita, «credo un po' più
a voi, ma non vi credo ancora del tutto. Vi ha due linguaggi che si somigliano;
quello che parte dal fondo del cuore, e quello d'una figlia oppressa che dice
il falso per terrore, e protesta di amare ciò ch'ella abborre più
al mondo. Voglio sentirvi da sola a sola. Padre guardiano, se ella conoscesse
per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non
istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me,
piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...»
«Il
Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani questo
affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza,
ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi. Stimo però cosa
molto savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato
questa faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto,
la determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia
perseguitata».
«Lo
spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di far
dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò
fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua
intromissione. Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare. La fattora
del monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa
giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai
pochi servigj ch'ella faceva. Ne parlerò colla madre Badessa, ma da
quest'ora, le dò la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta».
Il guardiano proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò
gentilmente, ma lasciando però capire che ella faceva assegnamento sulla
riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una delle monache che le
facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad Agnese che
andasse alla porta del chiostro, per intendersi con la monaca e con la fattora,
e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed a
Lucia. Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della
decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia rimase sola con la
Signora a subire l'esame.
CAPITOLO II
LA SIGNORA, TUTTAVIA
Le
parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano
certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto
quel colloquio per comparire una monaca come le altre. Ma quando ella si
trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva le
osservazioni di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i
suoi discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che
prima di riferirli è necessario raccontare la storia di questa Signora,
e rivelare le passioni e i fatti che rendevano tale il suo linguaggio.
Questi
fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria
fossero comuni molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità
di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per
narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di
questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia
alcun dubbio. Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano
etc., scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere
informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di
osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti
racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella
nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per
render più compiuta la storia particolare della Signora. Queste cose
però, quantunque rese più che probabili da una tale
testimonianza, e quantunque essenziali al filo del nostro racconto, noi le
avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non avessimo
potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora,
che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i
primi fatti della Signora, ma deve creare una impressione d'opposto genere, e
consolante. Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e
ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli
uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno
terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo
inutile, comunque uno le esponga. Senza esaminare il valore di questo modo di
sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di
sopprimere un libro.
Che
se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di
cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano
l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un'altra
digressione, e a rispondergli così: — Il manoscritto unico, in cui
è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia
mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non
vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è
raccontata vi annojasse, giacché dagli uomini si può aspettar tutto; in
questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica.
Il
Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e
di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non
avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle
sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non
di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il
risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men
degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto
ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la
convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo
dovere del suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi
nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali
gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia nata in tali circostanze, e
destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si
sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro
non lo poteva fuggire. Tale fu il destino della Signora dal primo momento della
sua vita; e quando una donzella della signora Marchesa venne con l'aria confusa
di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: «è una femmina»; il
signor marchese rispose mentalmente: — è una monaca —. Si pose quindi a
frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato
portato da una santa la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata
monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare richiamasse al
solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto
apposta per la sua neonata. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi
che le furono posti fra le mani; e il padre, facendola saltare talvolta sulle
ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa. A misura ch'ella si avanzava
nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza
non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e
nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione
all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo trasporto pei
piaceri e pel fasto. Di tutte queste disposizioni il padre favoriva quelle
soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo considerava
come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia
come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli
alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che
manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero. Della bellezza né
egli, né la madre, né un fratello destinato a mantenere il decoro della
famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu informata dalle donzelle, alle
quali prestò fede immediatamente. Benché la condizione alla quale il padre
l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata,
nessuno le disse però mai: — tu devi esser monaca —. Era questa come una
idea innata; e quando veniva il caso di parlare dei destini futuri della
fanciulla, questa idea si dava per sottintesa. Accadde per esempio che alcuno
della casa correggendola di qualche aria d'impero troppo oltracotante, gli
diceva: «tu sei una ragazzina, questi modi non ti convengono; quando sarai la
madre badessa, allora comanderai, farai alto e basso». Talvolta il padre le
diceva: «tu non sarai una monaca come le altre: perché il sangue si porta da
per tutto dove si va»; e simili discorsi nei quali la Signora apprendeva
implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca.
Confusa
con questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra,
che per esser monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa
tanto certa non era però fatta, e che il farla o non farla sarebbe
dipenduto da una sua determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti si
acconciavano nella sua mente come potevano: perché se un uomo non dovesse star
tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe
più tranquillità. A sei anni fu posta in un monistero e per
educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa. Quale coltura
d'ingegno potesse riceversi a quei tempi in un monastero, è facile
argomentarlo dalla coltura universale, e questa si può argomentare dai
libri che ci rimangono di quell'epoca. Ora basti il dire che nella prima metà
del secolo decimosettimo non uscì ch'io sappia in Milano un libro, non
dico insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: dimodoché dalla
ignoranza universale si può francamente supporre che alle giovani di
quel tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è di
più chiaro, di più certo, di meglio digerito nelle cognizioni
umane, la storia romana. Ma quello che più importa di dire nel caso
nostro si è che quella parte di educazione che i fanciulli riuniti in
comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora un
effetto contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi. Fra le
giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate
a splendidi matrimonj, perché così voleva l'interesse delle famiglie
loro. Geltrudina nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava
magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, e a quello splendido che la
fantasia dei fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano
loro, la sua fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più,
perché le era stato detto tante volte: — tu non sarai una monaca come le altre
—. Ma ella s'accorse con maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle
sue compagne non sentivano punto d'invidia di questo suo avvenire; e alle immagini
circoscritte e scarse che può somministrare anche ad una fantasia
adolescente il primato in un monastero, opponevano le immagini varie e
luccicanti di sposo, di palagi, di conviti, di villeggiature, di veglie, di
tornei, di abiti, di carrozze, di livree, di braccieri, di paggi.
Queste
immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel ronzio,
quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori, appena colti, collocato
davanti ad un'arnia. Sulle prime ella volle competere con le compagne, e
sostenere la superiorità della condizione, che le era destinata; ma
quanto più ella cercava di magnificare le sue dignità future,
tanto più le esponeva ad un terribile genere di offesa, il ridicolo;
sentimento che quelle spavalducce applicavano più naturalmente e
più saporitamente alle dignità che vantava Geltrude, appunto
perché le vedevano esercitate dalle loro superiore; sorta di persone per le
quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione, come lo scherno. E
quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi contro
le avversarie, perché le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose
delle quali si ride in questo mondo: si ride bensì di chi le desidera
senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente; e questo ridere mostra
l'alta estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le
stimano, non esprimono il loro giudizio con la derisione.
Geltrudina
quindi per non restare al disotto non aveva altro a rispondere, se non che,
ella pure avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio, essere
strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto, se lo avesse voluto,
che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti. Quell'idea che le stava
rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario
perch'ella fosse monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse
allora, e divenne perspicua e predominante. Con questo pensiero ella si teneva
bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e di rancore
contra quelle sue compagne le quali erano ben altrimenti sicure, e ch'ella
avrebbe amate se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un
confronto doloroso. Perché questa sventurata non aveva un animo ostile, non si
dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e
tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò che poteva
essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto
di avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto
impunemente sfogarlo. In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a
quella età così critica, che separa l'adolescenza dalla
giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra
nell'animo, solleva, ingrandisce, adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza
tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova. Assoluta innocenza di
pensiero; massime e pratiche di Religione ragionata; occupazioni utili e
interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa
e libera nei parenti o negli educatori, sono i mezzi sicuri per trascorrere
impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla,
saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita. Ma le
circostanze della povera Geltrude erano ben diverse: tutto tendeva per essa a
realizzare ogni pericolo di quella età e a renderla turbolenta, e
funesta per l'avvenire. Pochissimi lavori, e lo studio del canto sopra parole
d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero impadronirsi della
mente di Geltrude, e trattenerla dal vagare in un mondo ideale. Gli esercizj
corporali consistevano in un giro quotidiano dell'orto claustrale. La
confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi con
persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua
scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata.
E,
quanto alla Religione, ciò che è in essa di più
essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni, e
vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni
soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette
in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai
istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato
nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione. Non vogliamo qui parlare di
alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per
verità sacrosante, e s'insegnavano insieme con le verità,
pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj
dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all'idea della
Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali
perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la distruzione; ma
pregiudizj che in gran parte non tolgono l'essenziale, e si possono combinare
con un sentimento di pietà profonda e sincera, e con una vita non solo
innocente, ma operosa nel bene, e sagrificata all'utile altrui, del che tanti
esempj hanno lasciati i tempi trascorsi, e ne offrono fors'anche i presenti.
Ma,
come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a
quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni
sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il padre principalmente,
che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe
stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e
sè questa obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata:
caso difficile, ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi.
Supponendo adunque che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto
rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per
non usare della semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che
poteva lasciar qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non
desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse
monaca. Il Marchese Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni
aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un
uomo di pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna
prendere gli uomini come sono, e non pretendere da essi gli effetti di una
perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non si determina a nulla in
questo mondo. Così per prevenire all'interesse che il secolo poteva
offrire a Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello
della potenza e del dominio claustrale. Egli aveva pensato ed operato colla
dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il quale desse il fuoco alla casa
di un nimico posta a canto alla sua, con la intenzione che quella sola dovesse
andare in fumo ed in faville. Ma il fuoco appiccato ch'ei sia non si lascia
guidare dalle intenzioni dell'incendiario, va dove il vento lo spinge, e si
trattiene a divorare dove trova materia combustibile; e le passioni svegliate
una volta non ricevono più la legge di chi le ha ispirate, ma si volgono
agli oggetti che la mente apprende come più desiderabili. L'orgoglio di
giovane vagheggiata, adorata, supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e
fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi ben vestiti, era ben
più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello tutta s'immerse
la fantasia orgogliosa di Geltrudina. Cominciò dunque a far castelli in
aria, a figurarsi un giovane ai piedi, a levarsi spaventata, e fuggire dicendo:
— come ha ella ardito di venir qui? — e non ricordava più che il giovane
senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla. Ma quella fuga e
quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva
coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la
più parte delle commedie. Richiamava alla memoria quel poco che aveva
veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi
indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e
rifaceva tutto per suo uso, ma in un modo più splendido. Questi pensieri
l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella
confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sott'occhio, e si
confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che si
aspettava da lei.
Le
monache si accorsero di questa sua risoluzione ch'ella non cercava nemmeno di
nascondere affatto; poiché malgrado la fermezza di questa risoluzione,
Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre di sua
bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte: poiché in quel
caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre;
operazione passiva che le pareva molto più facile, che di pronunziare
quelle parole: «non voglio». La poverina faceva come colui che avendo da dire
qualche cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e gli manda le sue
idee in un bel foglio di carta. Ma se la determinazione traspariva, i motivi
erano celati alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di
indifferenza che la faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di
chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione profonda che
è data a quella età, e che forse non ritorna più in
nessuna altra epoca della vita, e che appena appena potrà aver
riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli uomini di
questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri.
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto o saputo
osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo
al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola stizza se non altro nella
quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa
dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della
pubertà v'è una parte di stranio, di fantastico, di individuale
che non si confida, né s'indovina, a quel che dice il manoscritto.
Venne
finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per
qualche tempo nella casa e nel mondo. Il passo era spiacevole assai pel
Marchese Matteo, ma inevitabile, perché una ragazza allevata in un monastero
non poteva far la domanda di esservi ammessa ai voti se non dopo esserne stata
fuori per qualche tempo. Era questa una formalità destinata ad
assicurare alle figlie la libera scelta dello stato; giacché ognun vede che
sarebbe stato troppo facile di fare abbracciare il monastico ad una giovane,
che rinchiusa nel chiostro dall'infanzia non avesse mai avuta idea di altro
modo di vivere.
Nessuno
ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare
la validità di un atto qualunque; assegnando anticipatamente i caratteri
che quell'atto deve avere per essere un atto daddovero. Invenzione che mostra
affè molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perché la
più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per
decidere se una cosa sia fatta o non fatta. Ma tutte le invenzioni dell'ingegno
umano partecipando della sua debolezza non sono senza qualche inconveniente: e
le formalità ne hanno due. Accade talvolta che dove gli uomini hanno
deciso che una cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali
modi, la cosa si fa realmente in modi tutti diversi e che non erano stati
preveduti. In questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta. E non
andate a farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è
fatta; egli lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa
stessa una distinzione profonda; vede, e vi insegna che la cosa materialmente
è fatta, legalmente non è.
Dall'altra
parte accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto, deciso,
statuito che, dove si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente il tal
fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare
impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei
caratteri senza fare la cosa stessa. In questo secondo caso bisogna riguardare
la cosa come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a
riflettere, o di semplicità rustica affatto colui che, ostinandosi ad
esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è. Guaj se si
desse retta a queste chiacchere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a
pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo mondo. Ma questi
caratteri, se non infallibili, sono almeno stati scelti dopo accurate
osservazioni, senza passioni, né secondi fini, in tempi nei quali gli uomini
fossero abbastanza esercitati nel riflettere su quello che vedevano per
circostanziare i fatti che dovevano essere dopo di loro? Ah! qui è la
quistione; ma per trattarla con qualche fondamento converrebbe fare la storia
del genere umano; dal che ci asteniamo, e perché a dir vero, non l'abbiamo
tutta sulle dita, e perché siamo per ora impegnati a raccontare quella di
Geltrude, in quanto ella è necessaria a conoscere la storia ancor
più vasta degli sposi promessi.
Per
accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era
prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine
che in questo tempo ella dovesse esser condotta a vedere spettacoli, ad
assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare
per farsi monaca. E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un
ecclesiastico, il quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta
forza, e se ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma
libero e ragionato. Queste formalità però avevano certamente il
secondo inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e
la giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia. La cosa poteva accadere in
molti modi: ch'ella sia talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e
troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia almeno la discrezione di
non affermar mai di quelle verità che sono contrastate, perché la sua
affermazione diverrebbe un argomento di più contro di esse.
Benché
Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il giorno
della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei. Oltrepassare quelle
mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta campagna, e quel ch'è
più entrare nella città, furono sensazioni più forti che
non fosse il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare. Per uscirne
vittoriosa aveva la poveretta composto un piano nella sua mente. — O vorranno
ottenere il loro intento colle buone, diceva ella tra sè, o mi
parleranno brusco. Nel primo caso io sarò più buona di essi,
pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro
che di non essere sagrificata. Nel secondo caso, io starò ferma; il
«sì» lo debbo dire io, e non lo dirò.
—
Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne né l'una
né l'altra cosa ch'ella aveva pensata. I parenti avvertiti dalle monache delle
disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per
qualche tempo nessuna proposizione né con vezzi, né con minacce. Solo dal
contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche
parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non
già di ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno venire in
capo ad alcuno della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia.
Così ella non trovava mai un varco per venire alla dichiarazione che era
pure indispensabile; e i modi secchi, laconici, altieri che si usavano con lei
non le davano nemmeno il campo di potere avviare un discorso fiduciale ed
amichevole il quale di passo in passo la conducesse a toccare il punto sul
quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere. Che s'ella
sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava pure a volere
famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza lamentarsi implorava
velatamente un po' di amore, se si abbandonava ad espressioni confidenziali, e
affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più diretto e
più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che
l'amore della famiglia non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei
dipendeva l'esser trattata come una figlia di predilezione. Allora ella era
costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze che aveva tanto
ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto. Si accorava e si andava
sempre più perdendo d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva
a qual altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il non veder mai un volto amico,
ma le immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata la
rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e
splendido che ognuno, e i giovani particolarmente, si formano nella fantasia,
per fuggire dalla considerazione di oggetti che attristano. Ritornava ella
dunque più che mai a quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi
giocondi coi quali conversare. Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella
era tenuta ritirata quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti
doveva venir dopo quella domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di
non fare. Rinchiusa per una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata
dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse, non mai condotta in
altre case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del
monastero, che, senza contare tutte le altre difficoltà, non era a
questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi l'unico suo difetto, giacché del
resto, bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza,
sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza, nulla gli mancava.
V'era rischio per altro che s'egli tardava troppo ad esistere l'immaginazione
di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto gli trasferisse la bontà che
aveva per lui, al primo ente reale che non fosse troppo diverso da questo
immaginato da rendere impossibile lo scambio.
L'occasione
si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude. Noi ommettiamo i
particolari di questo sciaurato affare, diremo soltanto che la prima lettera di
risposta ch'ella aveva scritta ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di
questa, fu tosto consegnata al Marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu,
come era da aspettarsi, strepitoso.
Il
paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il Marchese Matteo che
aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della
sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza al ragazzaccio, per non
aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se
egli si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di
donna Geltrude, la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non
vi sarebbe stato asilo per lui. Queste minacce erano a quei tempi molto
frequenti, e facevano pure colpo assai, perché ognuno era avvezzo a vederne
molte ridotte ad effetto. Ciò non di meno per esser più certo
della segretezza del paggio il Marchese Matteo nel forte del rabbuffo gli
appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a ragione che il paggio sarebbe
stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale per una parte poteva
lusingare la sua vanità, quando ella avesse finito con un incidente
doloroso e umiliante. Alla donna di casa che aveva intercettato il corpo del
delitto furono date molte lodi, e nello stesso tempo una prescrizione di
segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le fecero
comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per lei.
Ma
il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a
scendere sul capo di Geltrude. Il Marchese Matteo dopo d'averla caricata di
strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto si sentiva
veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua
stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla
colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla
stessa donna che aveva scoperti gli altari.
Geltrude
aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata
dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche la memoria
del fallo, che basta a rattristare la situazione la più gioconda, e
l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come né quando, la cosa sarebbe
finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più
terribile; l'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile,
e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il
fratello la prima volta dopo il suo fallo la faceva trasalire di spavento. In
questa agitazione continua si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un
sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso ancor
più forte dalla educazione, il timore della vergogna: sentimento non
solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che come tutti gli
altri può diventare passione violenta e perniciosa quando non sia
diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio. La sola idea del pericolo che la
sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse
risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un
congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più
odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso.
Ella
sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto
ottener da lei quello che si fosse voluto. E sentiva nello stesso tempo quanto
fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacché il primo
requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto
essere di non aver nulla da rimproverarsi.
La
compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua
ritiratezza angosciosa. Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua
colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la odiava. E la donna non amava la
fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco dissimile da
quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso. La
conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio
reciproco. Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni
splendidi della fantasia: perché questi sogni erano tanto in opposizione col
suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini
erano tanto legate con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con
incredula avversione, e ricadeva come un peso abbandonato, nella considerazione
delle circostanze reali.
Cominciò
quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita
che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a
trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere.
L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era
abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva
perduta ogni forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore per
signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi,
e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si
permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò
che accade realmente nell'animo. Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a
dir vero non vi aveva preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla
tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era
meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce,
divenne un sollievo. Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e
si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere
una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi tutta ad
una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in
parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro, e
una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e
quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la
più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve
un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo
nel quale si trovava. L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione
le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per
tentazioni, e le combatteva. In questa incertezza, ella desiderava di rivedere
il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una
immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa
nella famiglia.
Dopo
molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena di
entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva
istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli
rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una
risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla
proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si
sarebbe fatta per lo meglio.
CAPITOLO III
V'ha
dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di
essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa
che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una
apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena
sbocciato, che s'abbandona sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue
fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno.
L'animo
vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con
alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione
non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e pura
volontà non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti
che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal
prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei
quali tanto più si dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto
più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli
appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima
preziosi per legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili
suoi fini.
Il
Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a
fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche
profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal
ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che la figlia
gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere
il ferro mentre ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude
ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude
v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura,
giunse senza alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi
piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: «perdono». Il Marchese con una voce
poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che
questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che
bisognava insomma meritarlo. Geltrude in tanto più turbata ed atterrita
in quanto ella era venuta con la speranza di tosto ottenerlo, chiese che
dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il Marchese non
rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di
Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia.
Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida
sur una piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di
collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo
invincibile, perché egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza
della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore
il vender gatta in sacco. Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce,
e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la
vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo,
che le dava ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di pericoli
per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza...
«Ah!
sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal
ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività
della sua fantasia. Il Marchese, — ci ripugna dargli in questo momento il
titolo di padre — la prese in parola, le annunziò il più ampio
perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della
vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che
fanno paura, perché lasciano indovinare a quali improperj esporrebbe il cangiar
di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si
succedevano nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto:
dubitava di essersi troppo avanzata, o d'essere stata strascinata più
innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero era però dubbio e
confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente,
manifestarlo, accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del
Marchese, sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.
Il
Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per metterli,
diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima e
nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro accorsero immediatamente. La
Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che
quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne
era uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un
sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto
chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi
muricciuoli. S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che
riguardava il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre
articoli che abbiamo accennati. Del resto i disegni del Marchese sul
collocamento di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava
interesse della famiglia, e alle mire avare e ambiziose in allora tanto
universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione
non poteva non approvarli. L'affezione materna però le faceva desiderare
che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona madre che abbia
una figlia tanto scrignuta e contraffatta da non poter esser chiesta da
nessuno, desidera ch'ella preferisca il celibato al matrimonio. Al giovane
Marchesino era stato detto fino dall'infanzia che le entrate della casa erano
appena appena proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una
picciola parte sarebbe stato un decadere se non nella sostanza almeno
nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente come un dovere in Geltrude
di chiudersi in un chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi
l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco
costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto
lieto alla madre e al fratello. «Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia
questa l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco» aggiunse «la
consolazione della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente
quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di
consigli.
È
risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo spavento
e la preghiera al Padre, come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli
ripetè francamente: «ha promesso di prendere il velo». Le lodi e gli
abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con
lagrime che furono credute di consolazione. Il Marchese Matteo si diffuse
allora a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano
per rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia. Parlò delle
distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri
avevano di possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna del
monastero, dal momento in cui vi avrebbe riposto il piede. La madre e il
fratello applaudivano: Geltrude era come posseduta da un sogno.
«Oh!»
s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si dimentica il
principale: bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache,
altrimenti non si conclude nulla». Detto questo fece chiamare tosto il
Segretario. Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la
fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di
stendere la supplica. Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per
pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe
dicendo: «Presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già
conosciamo la vostra abilità». Il Segretario scrisse, e il foglio fu
dato a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome,
come le comandò il Marchese. Il quale preso il foglio, e consegnatolo al
Segretario perché lo portasse addirittura cui era indiritto; comandò che
si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario, che si dicesse
ch'ella era guarita dalla sua indisposizione — era il pretesto preso per dar
ragione della sua assenza continua —, e che tosto le si facessero apprestare
abiti più sontuosi. Quindi rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese
quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza per richiedere
alla Badessa di esser ricevuta. «Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento,
«perché non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e
sarà ancor più contenta quando il primo passo sia fatto».
«Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa. «La giornata è bellissima».
«Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per partire. «Ma...»
cominciò Geltrude, e non potè continuare. «Piano, piano,
cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude
è stanca, e vuole aspettare fino a domani. Volete voi che andiamo
domani?» domandò a Geltrude con uno sguardo che nello stesso tempo
mostrava il sereno e minacciava il temporale. «Domani», rispose con debole voce
Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel
proferire quella parola si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo,
il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro. «Domani», disse
solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il
resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude
avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni,
rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere
distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un po' quella
macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere almeno
come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la
conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso. Le distrazioni si tenevano
dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una povera
fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende
chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla. Mentre
s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella
stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo
più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noja
intollerabile. La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte
riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie
non le lasciò il tempo di raccozzar due idee. Del resto a misura che
l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po'
d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva.
L'acconciatura era appena finita che venne l'ora del pranzo. I servi la
inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di congratularsi per la
ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che
essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude. A tavola
Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva
corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi. Il
Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del
ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si
sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la
parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione. I complimenti
erano per la sposina — così si chiamavano le giovani che erano per farsi
monache — e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta
era una conferma. S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella
stessa una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben
chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché
come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da
lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa?
Partite le visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale
era stata esclusa per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata.
Lo spettacolo e il romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi
incessanti del padre, della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano
sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i
pensieri sulla sua situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un
povero cielo. Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le volte
rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano in fretta coi doppieri,
annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata.
Si
montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa
gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione. La
sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima. Chi si faceva prometter da
lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della
madre tal altra sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del
monastero. Se alcuno non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o
trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si
sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una
offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento. Finalmente la
brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude stordita,
intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti
sui complimenti che aveva ricevuti. «Ho finalmente», disse il Marchese Matteo
«avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari.
Domani mattina», soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per
andare a Monza come ha stabilito Geltrude». Geltrude condotta finalmente dalla
Marchesa nella stanza che le era preparata vi rimase con una donna che era
stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto
presso di lei il tristo uficio di carceriera.
Questo
cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo ella in quel giorno il
padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu
tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una
delle passioni che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella vedeva
di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse
un ricambio continuo, una gara di sgarbi. Geltrude in certi momenti di
divozione le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi
in quel giorno trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta
la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che
con queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto
le dava stizza: mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi
sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna
le aveva usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne
lamentò al padre. Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non
istette a domandarle come ella pure avesse trattata la donna; ma promise che
darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò immediatamente ai
servigi di Geltrude un'altra donna di casa. Era questa la vecchia governante
del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio. La vecchia alla
quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice,
aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva poste tutte le sue
compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese ella era stata la
prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte
d'entrata al Marchesino. Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta
che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali era un
personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della signorina che
aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude,
a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della
vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie, e di
sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio della
casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri dove s'erano
chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di
quella casa. Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e
che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato invano
domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò
degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite
di grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la
città aveva parlato. «Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»;
e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza.
Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le
visite. Verrebbe poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva
esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo
sarebbe in movimento. Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche
curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché
stanca e stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità
che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal pensata e male scritta. La
vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude, quando Geltrude era già
coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva. Le cure di rado tolgono il sonno
alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude.
Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che
dalla voce agra della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché si
preparasse al viaggio di Monza.
«Alto,
alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita,
rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno. La Signora Marchesa
si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il Marchesino
è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di
partire quando che sia. Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era
tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma
quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia
della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa
volta avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar
lei. Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor
Marchese; ma poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor
Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli. Poveretto! con due
paroline però s'acqueta subito. Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando
così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude
infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto
dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva
fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante, stava cogli
occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per la sua mente
come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento
nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi
guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e
leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle
esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un
tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza. Il nome del
Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle
parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella
mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a
volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non
restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di schivare
quella collera. Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e
pei suoi modi aspri, sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il
Marchesino era quegli che più sovente aveva il monastero in bocca; e
perché le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui, la tenevano in
uno stato continuo di paragone umiliante. Lo temeva essa però, ma fino
ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno,
ella era meglio fornita di lui, di quando in quando ella si vendicava con un
motto di molti giorni di una pesante persecuzione. Era quindi fra loro come un
continuo stato di guerra. Ma quando dopo la sua prigionia Geltrude comparve
davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli
occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale
non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si sentì soggiogata
per sempre. Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento d'impazienza
potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per
gittarle un motto, un rimprovero che alludesse a quello, la faceva tremare. Si pose
ella quindi a sedere in fretta, e pure in fretta cominciò a vestirsi.
Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era troppo lontano; che
il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sagrificio era ben
lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine per grossolano e
sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri con
l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino; ma un effetto
dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori
non ragionevoli.
Geltrude
si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella
sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla. Il Marchesino, al quale
corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno
d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava
nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver
fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo.
Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse. «Avete
scelto una bella giornata: buon augurio». «Buon augurio» ripeterono la Marchesa
e il Marchesino. Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese
accennò amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava
alquanto in forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che
avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come un di noi». Appena
Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente
una tazza di ciocolatte.
Prendere
il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso
ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano piccioli
fili, che legavano sempre più la povera Geltrude. Essa non confermava
con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non
diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a
lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover
dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre
più apparenza di stranezza scandalosa. Preso il fatal ciocolatte, il
Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di
consiglio amorevole le disse. «Orsù figlia mia, diportatevi bene:
scioltezza, e buon garbo». E qui le diede le istruzioni su quello che doveva
fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda. «Benissimo, a
meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi
aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla... Non mi date in
fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da un
contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che
sangue uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia;
il vostro fallo è cancellato e dimenticato». Quand'anche Geltrude avesse
avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso,
che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe
immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni. Ella
arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si
gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un
servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e
a ricomporsi. Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si
montò in cocchio, e si partì. Gl'impicci, le noje, e i pericoli
del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di
sangue nobilissimo furono il tema del discorso durante il tragitto. All'entrare
nel borgo, al vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere
il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si
fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena di curiosi;
e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese,
e s'avviò quasi senz'altro pensiero. Attraversando il cortile si vide la
porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache. In prima fila alcune
anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano
immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre
dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in
ultimo sollevate sopra sgabelletti. Si vedevano pure qua e là luccicare
più basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave,
ed apparire qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più
destre e le più animose delle educande che serpendo tra una monaca e
l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che
era in verità troppo giusto.
Geltrude
come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai
parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È
inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo
straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché. Geltrude fu
accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni. Dopo i primi
saluti, la badessa nel modo con cui si fa per formalità una domanda
della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava
in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son
qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella
doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel
suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi
irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte
ch'ella non potè proseguire, e ristette un istante guardando come
incantata la badessa, e la folla che la circondava. Così guatando ella
vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di
quelle faccette e più negli occhi un'espressione mista di malizia e di
compassione, che diceva chiaramente: «Ah! c'è incappata la brava!»
Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro,
l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di
coraggio. E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che
si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per
indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per
esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una
espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì.
Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a
tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al
padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò riflettendo che dopo
quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per tornare
indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il
partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in quel
momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa a
vestir l'abito». Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a finir la sua
frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude
furono seguite da una acclamazione generale. Chetato il tumulto, la badessa
tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata data in
iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva letti i celebri
romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io
accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime
che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di
averne ottenuta la licenza. Bensì senza riguardi, accuseremo il tempo
che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta
desiderosa non meno che desiderata. E voi, carissima figlia, con l'acume del
vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina della
decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore; e da me umilissima
superiora».
Le
acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto
perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La
badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò
allora che la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse:
«Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire
tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada». L'ordine fu dato ed
eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione.
Geltrude passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e
d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a
un di presso lo stesso senso: — l'avevam sempre detto che sareste nostra —.
Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di
passare nel parlatorio. A questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli,
la folla si diradò, e la badessa con alcune delle anziane si
avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia
milanese vi andava pel di fuori.
V'ha
due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare
ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più
riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e
l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato
dalla speranza. Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di
quella stretta comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi
di volere prima di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di
progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta. Con
questo pensiero ella fu condotta nel parlatorio. Qui rinnovati i complimenti,
la badessa pregò gli ospiti di aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva
porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota, e ne
rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.
Due
secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che
noi crediamo di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota,
rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di
dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini
ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale
esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero un più
grande effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò
fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta
severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una
tale censura sarebbe anzi a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente
ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di
fabbrica monastica, quando ha potuto averne. Si parla soltanto di questo fatto,
perché può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta
delle leggi che non sono eseguite.
Dopo
un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser
trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti
che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto, e
rispinte con molta modestia.
Mentre
la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie
riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era
costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano,
la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor
Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità... debbo
dirle... che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa... la
Superiora, quale io sono indegnamente... tiene obbligo di avvertire i parenti
che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella
scomunica... Mi scuserà...»
«Benissimo,
benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza. Ma già
ella non può dubitare...»
«Oh!
Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio dovere;
ma s'immagini...»
«Certo,
certo, madre badessa». Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si
separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e
andarono a mescersi ognuno alla sua brigata. Dopo alcuni altri complimenti, il
Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della
badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più
stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse
partita la mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che
anello!
Ma
la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o
prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei?
Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente
dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del
monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra
le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.
CAPITOLO IV
Appena
cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle
riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder partire i signori, e la
nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu
assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo
contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di
queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di
che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia. Ma tutti gli elogi non furono
per Geltrude. La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della
badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che
contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì,
sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa». Il
discorso sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che
ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude
doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione. E qui come
conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei
contorni era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e
variate descrizioni; e le parlò di molte sposine ch'egli aveva
incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa
semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere. Il
Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva
più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una
occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa,
malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei
tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che
cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in
cosa indifferente.
La
Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi
della carozza. Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e
alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito
dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.
Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza
interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata. Dopo cena
il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a
Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come
sposina. «Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere
per Geltrude una madrina degna della nostra casa». La madrina, mio giovane
lettore, era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle
conversazioni, di presentarla, e di vegliare sovr'essa. Siccome il Marchese
proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come
invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto
per parentesi che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò
tosto: «Vi sarebbe...» «No no», interruppe il Marchese, «la prima condizione
d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso
universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto
giudizio che merita che si faccia una eccezione per lei». E qui rivolto a
Geltrude col piglio di chi fa una grazia singolare, continuò: «Ognuna
delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate
questa sera alla conversazione, ha le condizioni necessarie per esser madrina
d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser
preferita: scegliete».
Geltrude
incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare
sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta
con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un
disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel qualunque vantaggio che
le dava il potere scegliere. Nominò dunque la dama che in quel giorno le
era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più
carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che
nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto
quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in
una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia. La dama scelta da Geltrude
aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il
marito d'una sua figlia ch'ella amava assai. «Ben scelto, ben scelto», disse il
Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a
farne la domanda alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata
fatta da Geltrude: che son certo che la dama aggradirà doppiamente la
domanda».
Noi
non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui fu
condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti
dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante volte la
stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i
sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta
la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime
alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che appare
negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le qualità auree
di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava
una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire
ogni cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro.
Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione
del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace. Si destava
talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al
passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: — Oh che
sproposito! — si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare
indietro. La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi
raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta
cangiato in un pieno abbattimento. Tornavano allora alla mente le
difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto
schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si
gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente
non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di
pigliare il velo. Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse
ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude
ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al
chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava
ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi
l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare. Quando dopo
questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva
spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere
che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era posta in una
circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un
nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo
poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più. Benché
alcune volte in quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza
all'impegnarsi davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò
ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il
retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto
in una situazione così dura e così difficile, ch'ella non poteva
né pure pensare di farlo. Ella era come chi trovandosi sur un ripido pendio,
vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi
un luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che
bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta,
disastrosa. E la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma siccome
chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento
presente, non vuol mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi
così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea
d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava
da percorrere un momento di più forte speranza. Questo momento era
quello dell'esame che un ecclesiastico deputato dal vicario delle monache
doveva fare della sua vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola
con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe
offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso,
di conoscere ella stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare
sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di quello che
potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi
pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il
momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo
affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo
esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna
muoversi; e il momento venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a
Geltrude che in quel giorno il Signor... ecclesiastico mandato dal vicario
delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione. Ma come quella
conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con
l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario
aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione
nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza
forzata d'ogni altro custode.
«Orsù,
Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta
di coronar l'opera. Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da esso
dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino
di tutta la vita. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto
di vostro consenso, anzi a vostra richiesta. Se in tutto questo frattempo vi
fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma
ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate. Io mi
sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete
dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di
avere una smentita. Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi
potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due
partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che
io ho presa leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho
fatte tante pubblicità senza riflessione... che so io... che ho preteso
far violenza alla vostra vocazione... o di svelare i veri motivi della
richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento. Il primo partito non
può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa.
Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come una figlia
colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima
colpa...»
Il
tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso
aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia
dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le
foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e
crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e
la fè sciogliere in uno scoppio di pianto. «Via via... che è
stato?» disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto
occupato delle conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che
ella potesse toccare altri tanto sul vivo. «Che è stato? io ho parlato
in una supposizione impossibile... pure doveva pensare anche ad un tal caso...
per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle
risposte che oggi siete per dare. Il Signor... vi domanderà se la vostra
risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato,
consigliato... che so io?... ed io doveva avvisare di pesare ben bene la
risposta, perché ella sia tale da non pormi nella necessità, di farne
un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle; voi farete il vostro dovere da
brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di
consolazioni. Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola:
rasserenatevi, non fate che il Signor... vi trovi in uno stato che possa dare
dei sospetti... mi fido di voi». Così dicendo partì, lasciando
Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane
del suo carattere in quella circostanza. Geltrude pianse amaramente, si
sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione
era così piena di dolori, di incertezze, e d'angustie, che la poveretta
prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di
estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento. Ma qual
si fosse il partito al quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella
stessa sentiva ripugnanza e vergogna a presentarvisi in un aspetto che
annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un aspetto
tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo. Pretendono alcuni che le
figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro
animo che l'animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non
quegli individui del genere umano che si chiamano di preferenza uomini. Ma
tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai
messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex
professo negli scritti: giacché essi peccano tutti verso le donne o di
galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana. Con questa osservazione
non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che
sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni
infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere;
ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre
lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il
Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e
agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate.
Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la
madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in
modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.
I
lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di
vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per
cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno
difficoltosa che la condotta negli affari della vita. Per servire a questo privilegio
noi diremo qualche cosa del Signor...
Era
un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la
cosa la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue
intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e
nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam dire
con questo ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri,
supporre il male, attenersi a quell'indegno proverbio che dice, — chi pensa
male pensa una volta sola —: ohibò: questo è un eccesso
più comune, e peggiore. Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose
che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire
sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a tanto che da un attento esame
egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma con quella maggior certezza che
è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana. Il caso di
Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di
pensare. Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli aveva ad esaminare ne
aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di conservarsi
nel chiostro per esser pura e santa. Il Signor... aveva creduto con gioja al
primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale si
trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla prevenzione
dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a sentire
l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una
buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la
risoluzione esisteva. — Oh! — dirà taluno, — se egli non avesse creduto
al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude
era una finta, o il Marchese un tiranno impostore. E doveva egli pensar
così senza alcun fondamento? — Ohibò, di nuovo: non doveva pensar
nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare, il
buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una
cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo. Il
Signor... pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa
quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò
di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo
paura: non me ne maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella
saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella risoluzione che a lei
forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente
il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo
interrogarla minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione
per ispirazione».
«Signore»,
rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo,
«io ho desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo dipende la scelta
della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da
ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere
più chiaramente quale sia la mia vocazione».
«Bene,
bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor... «così mi
piace. Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono
talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia. Per decidere bisogna dubitare,
o fare come se si dubitasse. La prego, per ora, si faccia forza: per quanto
ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si
tratta di risolvere ora. Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e
si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione. Come le è
venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se
il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e
di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione
più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre l'effetto
ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore,
e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano. Geltrude
rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare
l'istoria del paggio?... Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a
tutto costo. Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e
tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti?
Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude
era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe
cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in
seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che
sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude. Che s'ella avesse attribuita la
sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consigli, a
leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel
momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le
ripassarono in processione nella memoria. Le parve dunque che il solo mezzo per
uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse
all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità né punti da
discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava
mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si
risolse. Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che
la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per dir
così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette
all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e
disse: «È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita
inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del
mondo». Queste parole furon porte con l'apparenza della più ferma
persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor...
un segno una prova di riflessione posata. E in quel momento furon contenti
ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere
uscita d'impaccio come che fosse. Da quel momento Geltrude non pensò
nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il Signor...
oltre ogni sua speranza. Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate
minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato
religioso... «No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti
desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno
lasciata libera». Il Signor... si scusò di averle fatta una simile
interrogazione. «Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così
degno! s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il
mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza». L'esame
finì con le giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per
iscaricarsi la coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona
da un pio proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo
cordiale per confermarla in quello; e partì con la persuasione di non
aver mai trovata un'anima così ben disposta. Del resto noi siamo ben
lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame
all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col
suo carattere, la cosa doveva avere a un di presso quell'esito, qualunque fosse
l'esaminatore.
Geltrude,
ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato,
che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre. Questi era
in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le
commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le
prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il
Marchese respirò. Le fece animo, la colmò di lodi, la
soffocò di promesse; tutto questo con una eloquenza di tenerezza
sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di avere ottenuto il suo
fine; ma le parole di Geltrude sembravano di chi ha liberamente scelto, ed
è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi fa quello che uno
desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni rimorso, è una
virtù concessa a tutto il genere umano.
Da
quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una
interiore, ed era di persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua
scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano
renderle gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel
pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o
mondane, tutto purché fosse consolazioni. L'altra occupazione era di accelerare
quanto più si poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione,
per uscir di casa, per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al
tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore
quell'intollerabile: — potrei forse ancora —. Questo suo desiderio s'accordava
troppo con quelli del Marchese perch'egli non cercasse ogni via di soddisfarlo;
e in fatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo tutte le dispense per
far presto.
Così
mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto. Diremo
dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito;
che scorso il tempo del noviziato nel quale la sua risoluzione parve sempre
più spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che poteva
farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far
credere il contrario, trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione,
con una pompa straordinaria, e quale si conveniva alla casa. Il sacrificio fu
consumato, il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano
che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del
cielo non discese sovr'esso.
È
uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione
cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all'uomo che ricorra ad
essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo. Quegli stesso, che per
violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via
falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj. Poiché, se la
via ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere,
gli dà l'idea chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e
la forza di farlo, che che ne possa conseguire; e se la via è soltanto
difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa
dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei
mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente,
soave e deliziosa. Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere,
perché erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per
continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice ma irrevocabile,
tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della vocazione.
Con quest'ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d'ogni
genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta: e il secolo stesso
anzi l'età in cui ella visse ha dato esempj dei quali si è
conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la
forza, e dopo d'essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure,
vi trovarono la rassegnazione e la pace; una pace quale si trova di rado negli
stati eletti più liberamente. Che dico? Geltrude stessa fu uno di questi
esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben altri errori anzi
delitti, dopo sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato. Ma
per non precorrere ora agli eventi col racconto, diremo che Geltrude dopo la
sua professione, continuava ad opporre nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e
alle consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione:
e questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e
particolarmente nelle cose che potevano lusingare il suo orgoglio.
Il
lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude
era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella era
stata tanto desiderata nel monastero. In fatti il monastero aveva acquistato
nel marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava ormai come
parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia. Ma questo
vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta. Lo
pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini che
avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo
delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in
tempo ella non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che
avevano cantato per farla venire nella loro gabbia. E queste beccatelle le
suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro
acquisto. Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata,
tanto più libera delle altre provava talvolta un certo conforto iracondo
nel valersi di questi vantaggi, e nell'esercitare in tal modo la sua
superiorità. Una superiorità d'un altro genere era pure per essa
una occasione continua di cercare consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua
bellezza: ma quali consolazioni, per amor del cielo! pari a quelle che provava
Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch'egli aveva trovate nei
frantumi del vascello sul quale era naufragato. Anzi non pari, perché quel
solitario le gettò in disparte con disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse
un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più; ma
la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi
affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire. Ben è vero
che ella si andava paragonando con le altre, e si trovava più bella,
ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di
voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato
della madre celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla
poveretta il dolce in bocca. Spendeva una parte del suo tempo nell'adornarsi
come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre
l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del
suo volto, e a dir vero questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva
dato un volto che per poco che gli si lavorasse attorno stava bene. Per far
questo aveva Geltrude trovato un mezzo molto ingegnoso. Gli specchj come ognun
sa erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude nei
primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le
regole; ma la infelice scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto
ch'ella teneva appeso nella sua camera una lastra di latta levigatissima, e a
quella si consultava segretamente. Ma quando dalle sue consulte ella aveva
conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella
se lo udiva ripetere dalle più mondane o dalle più adulatrici fra
le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva tutt'altro che soddisfatto. E quando
poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte di piacere così
mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più rabbia che
pentimento. Così la meschina si precludeva l'adito alle consolazioni
reali di cui il suo stato era ancora capace, perché per giungere a quelle la
prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole
afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla
riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti
che aveva abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad
essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per
magra che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma oltre le
distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella godeva per la
condiscendenza delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il
grado più elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata
eletta Maestra delle educande. E per una distinzione singolare le erano state
assegnate due giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizj,
quasi damigelle. Quel posto era per Geltrude una occasione continua di
esercitare le passioni più pericolose ch'ella covava. Fra le educande
che le erano state affidate si trovavano ancora alcune di quelle che le erano
state compagne, e Geltrude così vicina ad esse di età non aveva
ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità puerili del sodalizio:
ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le dava la sua autorità.
Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di pentimento dello stato che
aveva abbracciato, ella provava un certo rancore contra quelle giovanette
destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era
più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di vederle liete
d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto per toglierla
loro, cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la pazza
ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei momenti,
poverette quelle educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare indietro il
suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare per lungo
tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò
ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente,
l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza
indiscreta e antisociale. Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore
al chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a
tutte quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non
solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava;
si mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro
discorsi, e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli
avevano incominciati.
In
queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e con ogni
cosa circostante ella passò i primi anni del chiostro, non senza qualche
ritorno di divozione, e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva ben
presto nelle sue abitudini predominanti. Questa vita di noja e di contrasto era
tanto penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava
disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di
sensazioni fosse stato possibile. Ma la clausura, le grate, le regole, la
facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri
soltanto vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere
impunemente, o con lusinga d'impunità una simile licenza alle sue
azioni. Finalmente la sventura di Geltrude volle che l'occasione si
presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e come
diremo nel seguente capitolo.
CAPITOLO V
Il
quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle,
era annesso al monastero, ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un
corridojo. Era un cortiletto quadrato, ricinto a terreno da un porticato
continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un basso ed unico piano
di abitazione. Il lato appoggiato a quella parte del chiostro ove dimoravano le
suore, era un lungo stanzone, che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle
educande; un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di
dormitorio: il terzo diviso in varie camere era l'appartamento della Signora e
delle sue damigelle; il quarto finalmente più stretto degli altri era
tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del chiostro, il quale
abbracciava il cortiletto da tre lati. L'altro, e appunto quello occupato
dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile, o
per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa. Era dessa
elevata al di sopra del quartiere delle educande, ma quello che se ne poteva
vedere da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una
parte di casa civile: erano tetti e tettucci diseguali di altezza e di forma
soprapposti l'uno all'altro come a caso. Ma in uno di quei tetti v'era un
pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo, e adito a passare su quei
tetti, e dal quale si poteva guardare nel cortiletto delle educande.
Era
severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici, che dovessero
togliere ai vicini ogni vista nel loro chiostro; ma o fosse che, per essere
quella parte di casa disabitata, le monache non avessero mai badato a quel
pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi da quella servitù eccedesse
la possibilità del monastero, o che non si potesse venirne a capo senza
quistioni, il fatto è che da quel pertugio si guardava nel cortiletto
delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il padrone di
quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad un uomo di
quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi
s'intende nei nostri; perché a quei tempi tante cagioni favorivano la
scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, ella giungeva ad un
segno del quale grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza
comune del vivere presente. I mezzi d'impunità erano allora varj ed
infiniti; la frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la
vergogna: gli animi erano avvezzi ed allevati per dir così nel sangue:
da questi fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo
stesso tempo la perversità delle idee rendeva quei fatti più
comuni, e più tollerati. La vendetta, per esempio, era comunemente
stimata non solo lecita, ma onorevole, ma comandata in alcuni casi; e benché i
ministri della religione non l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni
pubbliche a questa massima perversa, benché non avessero anzi cessato giammai
di inveire contra la vendetta e contra le massime che la autorizzavano, pure
l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una distinzione
che a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua
assurdità non è ancora del tutto caduta in disuso: si diceva che
i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la vendetta
secondo la religione era viziosa, ma ch'ella era un dovere secondo le leggi
dell'onore: così si diceva e non dai più perversi, né dai
più stolti. Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto
draconiane; e domandavano sangue per molti casi; senza che questo onore così
delicato si stimasse poi offeso, se per necessità, il sangue si
fosse dovuto versare a tradimento, o per mano di sicarj. Ne veniva di
conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso diveniva
causa di un altro, e così all'infinito, e che l'orrore al sangue si
diminuiva con l'abitudine, anche negli uomini che non erano sanguinari, e che
si era formato come un sentimento universale che una certa misura di
animosità, di crudeltà e di delitti fosse una condizione
necessaria inevitabile della società; chi avesse detto che quello era un
male temporario, e speciale sarebbe stato deriso come un ottimista, un
utopista, un sognatore metafisico: appena uno si sarebbe degnato di
rispondergli: «gli uomini sono sempre stati e saranno sempre così».
Portate le idee comuni a questo punto di licenza in molti, e di tolleranza e di
rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro che gli uomini i
quali avevano una tendenza distinta alla perversità, per giungere al
colmo di essa, pigliavano le mosse da un punto ben più avanzato, ben
più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei nostri giorni;
trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai nostri giorni a
giungervi, e vi giungevano. L'omicida ai nostri giorni, quand'anche fosse
impunito sarebbe un oggetto di orrore, oggetto forse di più profondo
orrore sarebbe chi senza commettere l'omicidio di propria mano ne avesse dato
l'ordine ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali, dovrebbero temere di
perdere tutte le dolcezze della comune società. Quindi l'uomo, che in qualunque
condizione, aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente. Ma
allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere non toglieva
alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso a giustificarsi e
a render ragione dinanzi alla opinione pubblica: non si trattava che di provare
che il caso richiedeva l'omicidio, che il delitto era una azione tollerata, o
prescritta dalle leggi della opinione stessa. La speranza di poter fare questa
giustificazione, dinanzi ad una opinione già tanto perversamente
indulgente, e di farla accettare col terrore doveva essere, ed era uno stimolo
ai tristi potenti per correre allegramente la loro via. Bastava quindi un
leggero interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi fra i
tristi ad attentati, ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i
più avvezzi al delitto, benché vi fossero tratti da un interesse molto
maggiore, da una passione molto più violenta. Sarebbe un soggetto degno
di curiosità, la ricerca delle cagioni per cui quelle idee e quei
costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte le nazioni
d'Europa, sieno poi stati da migliaia di scrittori, e da milioni di parlanti
attribuite poi esclusivamente agli Italiani. Ma noi invece di avviarci in una
nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da farci
perdonare: torniamo quindi alla storia.
Il
padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane
scellerato: e si chiamava il signor Egidio: perché di cognomi, come abbiam
detto, l'autor nostro è molto sparagnatore. Suo padre, uomo dovizioso
bastantemente non aveva avuta altra mira nell'educarlo, che di renderlo
somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non
aveva quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di soddisfazioni e di
fare stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle
braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani. La madre, ch'era di
un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa
educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta
malattia cagionata dai continui spaventi. Il padre fu ucciso dopo una
brevissima quistione da un suo emolo membro di una famiglia emola della sua da
generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza. La prima
sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una schioppettata nelle
spalle dell'uccisore di suo padre. Questa impresa però lo pose da quel
momento in un continuo pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il
numero de' suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo
padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di
massime e di condotta: Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto
più che aveva bisogno della loro assistenza. Ma i garbugli e il macello
non piacevano a lui, come al padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva
addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve
lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui. La sua
passione predominante era l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle
precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava,
e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare
altrimenti.
L'abbaino
che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto
che visse il padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande.
Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli
osservare che quello era un dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano sui
tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel
picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le
monache si togliessero quella servitù. Egidio divenuto padrone, si
risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più importante che
suo padre non lo aveva creduto.
Un
consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno
spettacolo da non trasandarsi quando lo aveva così a portata; e la
santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro,
tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua
sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati,
ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni. Si affacciava egli
dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà, che non
bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude
non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò
egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce,
si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella,
fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la
tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita. Egidio animato da
quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà
del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i
disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla. Un giorno mentre le
educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore
addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel
cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso
sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia
vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha
disposti. Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore
di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e
macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava
errando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso
donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente
le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la
fece avvertire il punto ch'ella cercava. Guardò ella allora più
fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio
sulla intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella
infelice: qual che fosse fin'allora stata la licenza dei suoi pensieri, il
sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte:
chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse
come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino,
e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi
tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si
avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi
salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante,
fu assalita da una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a
ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e
trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente
ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella
immaginazione per venire più chiaramente a comprendere come, perché
ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in
iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma
più ella esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima,
e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con
quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa
strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava un certa
sicurtà a tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una
curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e guardava
senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. Finalmente dopo
lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in
uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non
esser sola. Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel
cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro le
spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e
così saper meglio come regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che
questo era un sofisma della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e
senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano
le educande: qui, o fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò
ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide
il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la
chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce
commossa: «lavorate da brave»; e se ne andò difilato a passeggiare nel
giardino del chiostro. L'atto repentino, e la commozione della voce non diedero
nulla da pensare né alle educande né alle suore, avvezze le une e le altre agli
sbalzi frequenti dell'umore della Signora. Ma ella stava peggio nel giardino
che già non fosse nelle sue stanze. Le venne un pensiero, che avrebbe
dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità. —
Ma; e se mi fossi ingannata? — Questo dubbio non le veniva che allor quando la
manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come
un dovere. — Prima di parlare — diceva fra sè — voglio esser certa;
troverò il modo di farlo con prudenza. E finalmente — concluse fra
sè in un accesso di passioni diverse — finalmente che colpa ci ho io? questo
monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa. Così non
foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano pensarvi quelle
che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada come sa andare. Io non
voglio pensarci.
Queste
parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro,
che d'allora in poi ella non avrebbe pensato ad altro. Il nostro manoscritto,
segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi
saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è
necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli
orribili eccessi d'un altro genere, ai quali la strascinò la sua caduta.
L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude
cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella
disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni
della disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza,
finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con
quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo
della sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò
per un istante una falsa gioja. Alla noja, alla svogliatezza, al rancore continuo,
succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una occupazione forte, gradita,
continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude
ne fu come inebbriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà
ingegnosa degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il
martirio. L'avvenire gli apparì come pieno e delizioso. Alcuni momenti
della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad
aspettarli, a prepararli gli sembrò una esistenza beata, che, non
lascerebbe né cure, né desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice
il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme
ch'egli tocca dall'usurajo. L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio
s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu
più che di nome.
Già
prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude era accaduto un
gran cangiamento, tutte le inclinazioni viziose che vi erano come addormentate
si risvegliarono più forti e più adulte, e a tutte queste si
aggiunse l'ipocrisia. Cominciò ella nei primi momenti a divenire
più attenta nell'esteriore, più regolare, più tranquilla;
cessò dagli scherni, e dal rammarichio; di modo che le suore si
congratulavano a vicenda della mutazione felice. Ma quando all'effetto naturale
del fallo si aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno
può immaginarsi quali diventassero le idee di Geltrude. Tutto ciò
che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran tempo
associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato
odioso e sospetto: i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò
era una invenzione dell'astuzia, un'arte per godere a spese altrui, accolti dal
cuore e presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e
sinceri. Vi ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di
più profondo, di più verosimile che non appaja nelle massime del
dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto: di modo che il
pervertimento può parere facilmente un progresso di ragione. Ben
è vero che al di là di quelle teorie ve n'ha una più
profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato
trovarla se non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma
Geltrude non aveva né l'uno né l'altro di questi ajuti. Ella fu dunque una
docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali
di perversità a cui l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi
permetteva di arrivare.
Ma
non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi
passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa. Geltrude aveva a poco a poco
trasandate quelle cure di apparente regolarità che si era prescritte; la
licenza a cui si era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni
contegno; e così si rilasciò tanto che negli atti e nei discorsi
divenne più libera e più irregolare di prima. Insieme a quelle
cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni che
aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di
nascondere; e le trascurò tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno
che le due damigelle, che le stavano più vicine avevano qualche
sospetto. Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era
il suo solo consigliere. Questi ne fu pure atterrito, ma a mille miglia meno di
Geltrude, e per la diversità delle circostanze, e perché tanto era
minore il suo pericolo che non quello della donna, e per la diversità
dell'animo: perché quello di Egidio era duro e grossolano; e in Geltrude il
timore della vergogna era una passione furiosa come si è veduto dalla
sua condotta anteriore. Pensò egli quindi più freddamente al modo
di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui una nuova
occasione di soddisfare alle sue passioni. Per riuscirvi, egli coltivò
il terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun
rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio che
fu di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la
sospettavano. Lo scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di
tutto il predominio che aveva sull'animo di Geltrude, adoperò tutte le
dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute. L'albero della
scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la
passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo colse. Con la direzione del
serpente, ella trasfuse prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due
suore il pervertimento che era necessario per renderle sue complici, e
consumò il proprio avvilimento nella loro colpa. Venuta in questo fondo,
la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita
contra ogni pudore si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni attentato; e
l'occasione non tardò a presentarsi.
Una
delle due suore addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche
sospetto, lo confidò ad un'altra suora sua amica, facendosi promettere
il segreto: promessa che le fu tenuta perché la Signora era troppo potente, e
il segreto troppo pericoloso; e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura. Non
era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere
interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e
non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per
vederne, come si dice, l'acqua chiara. Quando però la suora che aveva
ciarlato divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste
della curiosa, ma di disdirsi, e di farle credere che il sospetto era
ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente disingannata.
Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava
sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di
origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde
un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la
trattò con tali termini di villania, che la suora dimenticata ogni
cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva
qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva. La Signora
non ebbe più pace.
Che
orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero
deliberarono sul modo di imporre silenzio alla suora. Il modo fu pensato e
proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con difficoltà,
con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude fece più resistenza
delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire
piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente vinta dalle
istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad
una transazione con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che
sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di
nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi
gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue
l'animo di quella che fu scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla
suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti, in modo
da crescerle la curiosità. E la curiosità era stimolata in essa
dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza, aveva
essa stessa bisogno di esser sicura. La traditrice, mostrando che non le
convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle
sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella
speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla, le
propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella
sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche
cosa. La meschina cadde nel laccio. Venuta la notte ella si trovò nel
corridojo, dove la suora omicida le venne incontro chetamente, e la condusse
nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per
partirsi, promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il
letticciuolo e la mura, raccomandandole di non muoversi finch'ella non la
chiamasse. Uscì quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo
scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile
coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con
la sua compagna. Nella cella non v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza
vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce. La scellerata parlando
con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da
farle credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna,
andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi
rannicchiata, quindi giuntale presso le si avventò, e prima che quella
potesse né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la
lasciò senza vita.
CAPITOLO VI
Accorse
al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le
colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal
loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto. Egidio le fermò,
e chiese premurosamente se la cosa era fatta. «Vedete», rispose tremando
l'omicida. «Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare
il resto»; e dava tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da
farsi per togliere ogni vestigio del delitto. Avvezze, come elle erano, ad
ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su gli animi
loro, a colui che faceva loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate,
e come illuse dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se
si trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora il
silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato. «E la Signora, perché
non viene ad ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi, e
più». «Andate a chiamarla», rispose Egidio: l'omicida che cercava anche
un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da
quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di
Geltrude. Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore del delitto, e lo
vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il colpo, e
fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della
sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il terrore che
non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e disse: «abbiamo fatto
ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in
ordine: venite ad ajutarci». «No no, per amor del cielo», rispose Geltrude.
«Che c'entra il cielo?» disse l'omicida. «Lasciami, lasciami» continuò
Geltrude. «Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?»
«Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai ch'io sono una povera
sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...» Gli
atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile
l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua presenza, e
tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: — non è
nulla —. «Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che
avrebbe voluto essere un sorriso di scherno: «non vuol venire: è una
dappoca». «Non importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che impacciare;
ecco tutto è finito senza di lei». «Resta ancora...» volle cominciare
l'omicida, ma non potè continuare. «Ebbene» disse Egidio, «questa
è mia cura; datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me». Le donne
obbedirono: Egidio carico del terribile peso ascese per una scaletta al solajo:
e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio.
Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata
che toccava il monastero, discese per bugigattoli e per andirivieni dei quali
egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva forse mai
servito; quivi in una buca scavata da lui, il giorno antecedente, depose il
testimonio del delitto; lo ricoperse, e pigliati da un mucchio che ivi era,
cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo, proponendosi
di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se avesse
potuto. Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello
stato di prima; e poi... che avevano a dirsi? L'omicida, ruppe il silenzio,
dicendo: «andiamo a cercare la Signora»; l'altra le tenne dietro senza
rispondere.
Bussarono
sommessamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in agguato, e disse
macchinalmente: «chi è?» «Chi potrebb'essere?» rispose l'omicida: «siam
noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte come jeri». Geltrude
aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza di quell'orrendo
quartiere: volse in giro entrando un'occhiata sospettosa, e disse: «che faremo
qui?» «Quel che faremmo altrove», rispose l'omicida. «Perché non andiamo nella
mia stanza?» replicò Geltrude. «È vero», disse quella che non
aveva mai parlato; «è vero; andiamo nella stanza della Signora». Ognuna
delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far
qualche cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno;
e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi: quando una faceva una
proposta, le altre vi si arrendevano, come ad una risoluzione. Geltrude si
avviò, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza
di Geltrude.
«Accendete
un altro lume», disse questa.
«No,
no», rispose questa volta l'omicida: «ve n'è anche troppo: abbiamo
ristoppate le finestre, è vero, ma se qualche educanda vegliasse...»
«Santissima...!»
proruppe con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò
l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per
uscirle dalle labbra.
«E
perché dunque», continuò rimessa alquanto, «perché avete lasciato il
lume nell'altra stanza?»
«Perché...»
rispose l'omicida: «non si ha testa da far tutto».
«Andate
a prenderlo».
«Andate,
andate... andiamo insieme».
Le
due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta aspettando che
tornassero col lume. Lo deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di
nuovo intorno a quello che ardeva da prima. Stavano così tacite,
guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano
ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un
colpevole. Ma l'omicida più agitata, e agitata in modo diverso dalle altre,
cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e
del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tenere
afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro
pari. Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perché
nei concerti presi antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli
materiali: non avevano pensato che al modo di commettere il delitto
segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il delitto aveva loro
appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel
loro contegno, nel loro volto. Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe
indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe chiusa all'oscuro
nella sua stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla. Ma in questo
concerto stesso, quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto
più terribile era di decidere a quale delle due serventi sarebbe toccato
di avvertire le suore della indisposizione di Geltrude, per evitare che, non
vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a
chiederne novella. Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico.
L'omicida aveva una buona ragione per esimersi; ma questa ragione, poteva ella
parlarne? Dire: — io sarò più confusa, più tremante,
perché... — Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con
più furore. Geltrude indovinò, anzi sentì quella ragione,
e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato facile
e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore
che governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse
romore per non disturbarla.
Egidio
intanto eseguiva gli altri concerti che erano stati presi, o per dir meglio
ch'egli aveva proposti; giacché il disegno era tutto suo. Occultata la vittima,
egli uscì di notte fitta, accompagnato da alcuni suoi scherani, come
soleva non di rado per qualche spedizione. Gli dispose in un luogo distante da
quello a cui aveva disegnato di portarsi, e gli lasciò come a guardia,
lasciando loro credere che andasse ad una delle sue solite avventure. Quindi
per lunghi circuiti si condusse ad un campo disabitato col quale confinava
l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro. Ivi, dopo d'aver ben guardato
intorno se nessuno vi fosse, si trasse di sotto il mantello gli stromenti da
smurare che aveva portati nascosti con le armi; e pian piano in una parte del
muro già intaccata dal tempo, e ch'egli aveva fissata di giorno, aperse un
pertugio, tanto che una persona potesse passarvi. Riprese i suoi ferri, si
ravvolse nel mantello, e camminando non senza terrore minacciato com'era da
più d'un nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi
lieto, s'avviò con essi, gittò per via qualche motto misterioso
di altre avventure, e tornò alla sua casa. Il mattino vegnente una suora
mancò; si corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono
a ricercarla; ed una che andava per frugare nell'orto, vide da lontano... —
Possibile? un pertugio nel muro. — Chiamò le compagne a tutta voce: si
corse al pertugio; «è fuggita; è fuggita». La badessa venne al
romore: lo spavento fu grande; la cosa non poteva nascondersi; la badessa
ordinò tosto che il pertugio fosse guardato dall'ortolano, che si
mandasse per muratori, onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere
la sfuggita. Il lettore sa che pur troppo ogni ricerca doveva riuscire inutile.
L'occupazione che questo affare diede a tutte le monache fece che le tre che
erano la trista cagione di tutto, fossero lasciate in pace, o per meglio dire,
sole.
È
facile supporre che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacché di
essa sola esige la nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più
stravolto. Combattuta continuamente tra il rimorso e la perversità, tra
il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue
tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui che
ella risguardava come l'origine dei suoi più gravi, più veri e
più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso,
l'infelice era nel suo interno ben più conturbata, e confusa che non
apparisse nel suo discorso, per quanto poco ordinato egli fosse. Una immagine
la assediava perpetuamente, e non è mestieri dire quale. Tentava ella di
rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata
di collera e con la minaccia sul labbro quell'ultimo giorno. Ma l'immagine
s'impallidiva sempre nella sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la
testa alta, con l'occhio acceso, con una mano sul fianco; la vedeva
indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere, se la sentiva pesare
addosso. Per togliere ogni sospetto, e nello stesso tempo per dare un altro
corso alle sue idee, procurava ella di toccar materie liete o indifferenti di
discorso; ma ora il rimorso, ora la collera contra tutti quelli che le erano
stata occasione di cadere in tanto profondo, ora una, ora un'altra memoria si
gettavano a traverso alle sue idee, le scompaginavano, e lasciavano nelle sue
parole un indizio del disordine che regnava nella sua mente. E quella regola
nei discorsi, quel contegno nei modi ch'ella non poteva avere naturalmente, e
per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva i mezzi per trovarlo nella esperienza
e per comandarselo. La sua esperienza non era altro che del chiostro, di quel
poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di
ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un
guazzabuglio composto di questi elementi, ed ella non aveva potuto attingere
d'altronde cognizioni per fare almeno una scelta in questi elementi. Le sue
parole e il suo contegno sarebbero state uno scandalo insopportabile in un
secolo meno bestiale di quello; ma allora la stranezza universale non lasciava
spiccare la sua al punto da farne un oggetto di maraviglia singolare.
Due
anni erano già trascorsi da quel giorno funesto al tempo in cui la
nostra Lucia le fu raccomandata dal padre cappuccino, il quale, come pure ogni
altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un cervellino,
ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.
Siamo
stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra
storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l'impressione che ce
n'era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era una
impressione d'orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando
ne produce l'orrore sia non solo innocua ma utile.
Abbiamo
lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola nel parlatorio con la
Signora. Il dialogo fra quelle due così dissimili creature
continuò a questo modo:
«Ora»,
disse la Signora, «parlate con libertà. Qui non c'è né madre né
padre; e ditemi il vero, perché le bugie che mi potreste dire, le ravviserei
tosto come una antica conoscenza: non temete di nulla: qualunque sia il vostro
caso, io vi proteggerò, purché siate sincera con me». Lucia pose la
picciola destra sul cuore, e con quell'accento che toglie ogni dubbio, rispose:
«Signora, la verità è quello che ha detto mia madre, e che ha
scritto il padre Cristoforo: io non ho mai giurato finora, ma se Ella,
reverenda signora vuole ch'io giuri in questa occasione, io son pronta a
farlo».
«Non
dite più, che vi credo», rispose la Signora. «Ma contatemi dunque tutta
questa storia». E qui cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo
sapere tutti i particolari della persecuzione di Don Rodrigo, e delle relazioni
di Lucia con Fermo.
Questa
curiosità era come ognuno può figurarselo assai molesta alla povera
Lucia. All'istinto del pudore ed alla ripugnanza naturale di parlare di se
stessa su questa materia, si aggiungeva il timore anche di dire qualche cosa di
sconvenevole in presenza della reverenda madre. Lucia che aveva parlato con un
uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un
matrimonio clandestino si riguardava come una donna esperta e più forse
che non conveniva, nelle cose del mondo, come una scaltritaccia al paragone di
una monaca, velata, rinchiusa, separata dal consorzio degli uomini, e pigliava
le inchieste della Signora a un di presso come si fa a quelle talvolta
indiscretissime dei ragazzi, dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di
non rispondere direttamente e di mandare in pace l'interrogante.
E
quanto le domande erano più avanzate, Lucia le attribuiva ancor
più ad una pura e santa ignoranza. Rispose dunque sopra Fermo, che quel
giovane l'aveva chiesta a sua madre e che essendo a lei dalla madre proposto il
partito, ella lo aveva accettato volentieri, e che tanto bastava per
conchiudere un matrimonio. Ma per ciò che risguardava Don Rodrigo, per
quanto Lucia ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrare in qualche
particolare, per ispiegare alla Signora la persecuzione ch'ella aveva sofferta,
e contra la quale cercava un ricovero.
«Egli
pativa dunque davvero per voi», domandò la Signora.
«Io
non so di patire», rispose Lucia, «so bene che avrebbe fatto meglio per l'anima
e per il corpo a lasciarmi attendere ai fatti miei, senza curarsi d'una
tapinella che non si curava niente di lui».
«Poveretto!»
sclamò la Signora, con una certa aria di compassione, nella quale pareva
tralucesse quasi un rimprovero a Lucia.
«Poveretto?»
riprese questa, «Poveretto? Oh Madonna del Carmine! Ella lo compatisce,
illustrissima!»
«Sì,
poveretto», rispose la Signora. «Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi
vi volesse male, giacché sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene.
Birbone, cattivo, tiranno! Che parolone, figliuola, per una quietina, come
parete! E la carità del prossimo?... Se gli aveste provati i tiranni
davvero...! Vorrei un po' che mi ripeteste le ingiurie che vi diceva, per
vedere quanta ragione avete di chiamarlo con questi nomi».
«Le
ingiurie dei signori», rispose Lucia con quella sicurezza che non manca mai a
chi comincia un discorso con una persuasione viva ed intima, «le ingiurie dei
signori, sono tremende pei poverelli; ma se gli era pur destino che quel
signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che io sarei ben
contenta che m'avesse detto ogni sorta d'ingiurie piuttosto che quello che mi
è toccato sentire da lui. Io non avrei risposto, le avrei sofferte,
è il destino di noi poverelli; e quando egli si fosse stato stanco,
l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla mia patria, come una
sbandata, a domandare un ricovero per amor di Dio; sarei... pensi, Signora,
s'io posso dir bene di lui. Non ch'io gli desideri del male, no grazie a Dio,
ma quanto al bene ch'egli mi poteva volere... Santissima Vergine, che razza di
bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e, so
ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si trovano sui
libri, ma le cose del mondo non è obbligata a conoscerle, e certe cose
che potrei contare sarà meglio tacerle».
«Vi
ho detto di parlare con sincerità: dite pur tutto»; rispose la Signora
ridendo, e senza quell'imbarazzo che le aveva cagionata una proposizione
somigliante nella bocca del padre guardiano.
«Spero
dunque di poter parlare con prudenza», riprese Lucia, «ma di poterle far
toccare con mano che cosa poteva essere il bene di quel Signore. Sappia che io
non sono stata la prima, a cui per mala sorte egli abbia badato. Eh!... le cose
si sanno purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho potuto a meno di
non saperlo, perché eravamo amiche, e me ne piange il cuore tuttavia. Questa
poveretta — non la nomino — diede retta al bene di quel signore; e sa ella che
ne avvenne? Cominciò a disubbidire ai suoi parenti; quando fu ammonita
si rivoltò; la casa le venne in odio, non ebbe più amiche,
disprezzava tutti, e diceva — puh villani! — come avrebbe potuto fare una gran
dama. Quando i parenti s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e
poi, rispose in modo da fargli tacere per paura. Comparve con un vestito troppo
bello per una ricca sposa, e credeva la poveretta che tutti avrebbero fatte le
maraviglie, e l'avrebbero inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi le
facevano dietro mille visacci. Un fior di giovane, mi compatisca se parlo male,
che voleva ricercarla in matrimonio, non la guardò più; nessuno
le parlava, nessuno voglio dire della gente come si deve, perché i cattivi se
le avvicinavano per la via con una famigliarità come se le fossero
sempre stati amici, e fino, a parlare con poca riverenza, i birri, la
salutavano ridendo, e le gittavano parole da non dire. Poveretta! di tratto in
tratto pareva più lieta che non fosse mai stata, ma le lagrime che
spargeva in segreto! e quante volte la vedevamo da lontano piangente, e si
nascondeva da noi: e io mi ricordava di quando ell'era allegra come un pesce,
di quando ridevamo insieme alla filanda. Basta: la disgraziata non potè
più vivere nel suo paese, e un bel mattino, fece un fagottello, e
finì a girare il mondo».
«Girare!»
interruppe la Signora, «non è poi la peggior disgrazia».
«E
tutto questo», continuò Lucia, «senza parlare dal tetto in su; perché
all'altro mondo, Dio sa come andranno le cose. Ma povera la mia Bettina! oh
poveretta me, ho detto il nome... spero che Dio le farà misericordia;
perché poi finalmente è stata tradita. Ma per me dico davvero, che se
per andare in paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi
parrebbe ancora molto dura».
«Ma
quel signore», riprese la monaca, «era egli di stucco? non la sapeva far
rispettare? lasciava la briglia sul collo a quei tangheri?»
«Fortunata
lei», rispose Lucia, «che non sa come vanno queste cose. Il signore dopo
qualche tempo non si curò più di quella meschina; e si venne a
sapere che un giorno ch'ella si lagnava con lui d'essere disprezzata, egli le
rispose: — si provino un po' a farvi qualche sgarbo in mia presenza, e vedranno
—. Tutto quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non era
niente. Ma tutto questo non bastava a disingannarla: soffriva, ma non sapeva
staccarsi da colui. Finalmente bisognò che fossi tormentata io per farle
conoscere il suo stato. Quando costui, sfacciato!... cominciò a pormi
gli occhi addosso, allora...»
«È
un vile birbante», interruppe la signora, «avete ragione: avete fatto bene a
voltargli le spalle, e io vi proteggerò».
«Dio
gliene renda il merito. Le diceva ben io che se avesse saputo...»
«Sì
sì, è un birbante: son tutti così costoro. Date loro retta
sul principio: voi, voi sola siete la loro vita: che cosa sono le altre? nulla;
voi siete la sola donna di questo mondo, e poi;... Fortunata voi che potete
sbrigarvene. Vi avrebbe voluta vedere amica di Bettina... amica! e sprezzarvi
tutte e due; e vi so dire io come vi avrebbe trattate; peggio che da serve. Se
aveste fatto il primo passo...»
Lucia
teneva gli occhi sbarrati addosso alla signora, come stupefatta ch'ella ne
sapesse tanto addentro. Geltrude rinvenne e s'avvide che questo suo modo di
disapprovare il seduttore non era più conveniente alla sua condizione di
quello che fosse stato quel primo compatimento, e che invece di togliere il
sospetto o almeno lo stupore che quello poteva aver fatto nascere, lo avrebbe
accresciuto, e si ripigliò dicendo:
«Del
resto, son cose che io non posso conoscere; ma già l'avrete inteso anche
dai predicatori che quelli che seducono le povere figliuole sono i primi a
sprezzarle. E se da principio, io ho mostrato qualche dispiacere per colui,
è perché non vi eravate bene espressa; io credeva che alla fine egli
avesse intenzione di sposarvi».
«Sposarmi!
sposarlo!» esclamò Lucia, maravigliata di questo pensiero che supponeva
l'accordo di due volontà, d'una delle quali ella sentiva, e dell'altra
sapeva che ne erano le mille miglia lontane. Geltrude credette che Lucia non
alludesse ad altro ostacolo che alla differenza delle condizioni. «E perché
no?» rispose, e abbandonandosi alla intemperanza della sua fantasia
continuò: «Perché no, sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo. Sareste
la Signora Donna Lucia: che maraviglia! non sareste la donna più
stranamente nominata di questo mondo. Avete sentito come mi chiamava quel buon
uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? — Reverenda madre.- Io,
vedete, sono la sua reverenda madre. Bel bambino davvero ch'io ho». E a questa
idea si pose a ridere sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi a
passeggiare nel parlatorio... «madre!...» continuò... «avrei dovuto
sentirmelo dire, non da un vecchio calvo e barbato:...
CAPITOLO VII
Come
una troppa di segugi dopo aver tracciata invano una lepre, ritorna sbaldanzita
con le code pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma pronta ad abbajare
e a ringhiare per dispetto contra ogni altro in cui si abbatta per via;
così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli artigli
vuoti al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in
salvo alla meglio la bella fera che quel birbone inseguiva. Don Rodrigo
passeggiava inquieto aspettando il ritorno de' suoi bravi, aprendo di tempo in
tempo la finestra, e guardando al lume della luna e tendendo l'orecchio.
Fremeva d'impazienza, che la spedizione tornasse, ma in questa impazienza misto
al desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più
grossa che Don Rodrigo avesse fatta fino allora. Se allo sparire di Lucia, il
rapitore fosse stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a Milano, l'affare
poteva esser serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un bando contra il
rapitore, come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo
desse vivo o morto nelle mani della giustizia. Veramente Don Rodrigo aveva
veduto passeggiare sicuramente più d'uno colpito da un tal bando; e
sapeva d'aver egli pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da scherani,
e temuto com'era, nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come
quella di attaccarlo, e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era
almeno una seccatura forte.
Dall'altra
parte pensava egli che essendo gli offesi povera gente, nessuno si sarebbe curato
di prendere impegno per essi... Ma c'era di mezzo quel benedetto frate (Don
Rodrigo non diceva veramente benedetto) quel frate che era un brigante, un
ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi nei fatti altrui, e che avrebbe
potuto trovare appoggi, far comparire le cose... Ma anche pel frate v'erano
rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi d'impegni, e di brighe.
— Quel che importa per ora, — continuava Don Rodrigo, — è che il Griso
faccia il suo dovere, e che questa smorfiosetta non mi faccia uno scandalo che
levi a romore il paese. Diavolo! Ho avuto un pensiero molto ardito; ma quel che
è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per bacco! Non
voglio? non posso: coraggio coraggio Don Rodrigo! bisogna ammansarla con le
buone; la madre?... eh quando vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi
un po' far chiasso: vorrei vedere!... Il parroco non fiaterà... ha
già avuta una bella paura, ed ora sarebbe anch'egli in colpa... eh
già colui è un birbone che farebbe di tutto per salvar la pelle...
Non vengono costoro?... Sta a vedere che si saranno ubbriacati... No no il
Griso non è un ragazzo, e avrà condotte le cose con giudizio: non
è mica una bagattella... non vorrei che me la malmenasse: non è
avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha sempre avuto che fare con uomini...
basta gli ho fatta una buona ammonizione. Stà... per bacco, è la
mia gente... — Così pensando corse alla finestra, e vide i segugj venir
quatti quatti, col Griso alla testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la
lepre, ma la lepre non v'era.
—
Diavolo!... diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto.
Aperta
ai bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed entrati e andati
a riposare com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla fatica
tollerata, non all'effetto ottenuto, il Griso come portava la sua carica, che
in quel momento nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a
render conto a Don Rodrigo.
«Ebbene?»
disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor capitano, signor
spaccone...»
«È
dura», rispose il Griso con rispetto, ma non senza rancore, «è dura di
sentir rimproveri dopo aver faticato fedelmente, e cercato di fare il suo
dovere...»
«Ma
dunque?...»
Il
Griso si fece da capo, e raccontò tutti i preparativi, come la
spedizione era ben condotta, e come la casa fu trovata vuota, e come
sonò a stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché, e come si era
tornati senza aver fatto nulla, ma senza aver lasciato traccia.
«Mancomale»
rispose Don Rodrigo; e si posero a far congetture senza potersi fermare ad una
che li accontentasse. «Basta», conchiuse Don Rodrigo: «domani piglia
informazioni; sarà meglio che mandi uno dei contadini fidati, nella
bettola più vicina alla casa di Lucia, tanto che domani io vegga la cosa
chiara». Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a
dormire.
Dormi,
povero Griso, dormi che tu devi averne bisogno. Povero Griso! Correre qua e
là tutto il giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di zotici mal
disciplinati, pigliar sopra di te tutto il pensiero, e tanta parte della
fatica; porti a rischio di aver qualche nuovo disparere con la giustizia, e di
veder questa volta messo a prezzo il tuo capo, per rapto di donna honesta;
stare al caldo e al gelo; e poi, e poi raccoglier rimbrotti. Ma tu non cominci
oggi a vivere, e devi sapere che il mondo è tristo, che gli uomini sono
ingrati. Va a riposarti, povero Griso: un giorno poi, quando ti porrai a letto
per morire, se a letto morrai; forse questa giornata ti verrà in mente;
forse il pensiero di non aver potuto oggi farti onore, e di essere stato
sgridato per ricompensa, sarà quello che ti darà meno di
gravezza. Ma non pensare ora a questo, perché forse non dormiresti.
All'aurora
il Griso fu in campo, tutto desideroso di venire in chiaro di ciò che
fosse avvenuto di Lucia, per soddisfare alla curiosità del padrone e
alla sua propria, e per avvisare i mezzi di riparare alla mala riuscita del
giorno antecedente. Non era la sola vanità né il dispetto che
stimolavano il Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo aveva
posto, e lo teneva sotto le sue ali in salvo dalla giustizia, e che gli dava
facoltà di camminare francamente, e di farsi temere; da questa
riconoscenza era nato nel suo cuore un affetto, un attaccamento per Don
Rodrigo, che i rimproveri, e le asprezze di questo potevano affliggere, ma non
distruggere; né rendere inoperoso. Scelse adunque il Griso gli uomini
più opportuni a raccogliere notizie, e gli spedì attorno, ed egli
stesso andò, per ispiare schiarimenti sui fatti misteriosi della notte
trascorsa.
Ma
gli abitanti del villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non ne
sapevano essi stessi la cagione, e quello che avevano veduto non era per essi
che una sorgente di curiosità, o al più un motivo di congetture e
di fandonie. Quando il mattino rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e
di Fermo, i sospetti divennero ancor più complicati, e la
curiosità più animata: ognuno domandava a tutti quelli in cui si
abbatteva, e se ne formarono come accade molte storie, perché s'ignorava la
vera. Quei pochi che la sapevano o tutta o in parte, e che avrebbero potuto
soddisfare o almeno metter sulla via la curiosità degli altri, quei
pochi se ne stavano zitti, e si facevano più nuovi degli altri. Toni
fece un severo precetto a Gervaso e alle sue donne di non parlare, e fu egli
stesso molto fedele a questo suo precetto di cui sentiva l'importanza; appena
uno sperimentato osservatore avrebbe potuto arguire ch'egli sapeva qualche cosa
più degli altri dal poco chiedere ch'egli faceva, e dal suo ristringersi
nelle spalle protestando di non saper nulla quando altri ne lo chiedeva. «Io
attendo ai fatti miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io sappia?» Don
Abbondio era ricorso al suo ripiego diplomatico di porsi a letto e di sviare
così i curiosi. Se ne stava egli ora cheto cheto, maladicendo la mala
ventura, che negli ultimi suoi giorni gli faceva scontare quel poco di bene che
aveva goduto negli anni passati, e rendeva inutili tutte le cure della sua
prudenza. Di tempo in tempo rimbrottava Perpetua e accagionava della sua
disgrazia la cervellinaggine di quella. Ma Perpetua non penuriava di argomenti
per provare al padrone che la colpa doveva ricadere tutta sopra di lui; e il
combattimento finiva per stanchezza d'ambe le parti. Questi piati però
non uscivano dalle mura di Don Abbondio, perché era interesse troppo evidente
d'ambe le parti di sopire l'affare e di stornare i sospetti dalla
verità. Ma tra coloro che erano stati in parte testimonj ed attori di
tutta quella scena ve n'era uno a cui l'esperienza non aveva potuto ancora dare
le profonde idee di prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a Toni e a
Don Abbondio. Sa il cielo se il lettore si ricorda di quel garzoncello spedito
da Agnese al Padre Cristoforo, e mandato da questo ad avvertire Lucia del
pericolo che le soprastava, di quel picciolo Menico che era stato nelle tenebre
guida dei fuggitivi. Menico il quale era pur dolente della fuga delle sue
parenti, ma che almeno in questa sventura aveva avuta la felice occasione di
far qualche cosa, non ebbe pace finché non confidò quello che aveva
fatto a dei ragazzi suoi coetanei, i quali venivano a contargli le congetture
che avevano intese, e ai quali egli aveva da raccontare qualche cosa di
più fondato. I ragazzi corsero a casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese
e Fermo erano andati la notte al convento. Le congetture divennero allora un
po' più uniformi e più fondate, giacché tutti avevano qualche
sentore della turpe caccia che Don Rodrigo dava a Lucia.
Gli
spioni del Griso riseppero tosto con gli altri queste particolarità; e
il Griso gli spedì tosto a Pescarenico per cavare più sicure
notizie.
I
barcajuoli avevano detto qualche cosa. Povera gente! avevano cooperato ad
un'opera buona, e l'assoluto silenzio era un peso troppo difficile da portarsi.
Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano attraversato il lago, e che avevano
continuato il loro viaggio per terra. Queste cose vennero pure agli orecchi del
Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo che poco mancava a sapere
su che albero l'uccello fosse andato a posarsi.
Don
Rodrigo era uscito quella mattina col conte Attilio e col solito seguito di
bravi, e s'erano aggirati pei campi e per le ville con l'apparenza d'andare a
caccia ma con l'intenzione di scoprire quello che si facesse, e di stornare i
sospetti mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e d'incutere spavento. I
sospetti erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente
rispetto, e sui visi inchinati dei contadini in cui si abbatteva, potè
scorgere qualche cosa di misterioso che annunziava un pensiero celato di
cognizione, e una gioja compressa per la trista riuscita del suo infame
tentativo. Don Rodrigo faceva osservare quelle facce al suo compagno, e si
rodeva; ma non ardiva né poteva fare alcun risentimento perché all'oscurarsi
del suo sguardo gl'inchini diventavano più umili, e gli aspetti
più sommessi, e non ci sarebbe stato verso di appiccare una lite senza
troppo scoprirsi.
Giunti
a casa i due cacciatori leggiadri trovarono il Griso che gli aspettava con le
notizie. Quand'egli ebbe fatta la sua relazione, Don Rodrigo si volse al
cugino, come per chiedergli consiglio. Il Conte Attilio era uno sventato, ma
l'affare era tanto serio ch'egli stesso lo era divenuto, e disse: «Se mi aveste
chiesto parere quando avete cominciato a divagarvi con questa smorfiosa, da
buon amico vi avrei detto di levarne il pensiero, perché era cosa da cavarne
poco costrutto; ma ora l'impegno è contratto, c'entra il vostro onore, e
quello della parentela: ora si direbbe che vi siete lasciato metter paura, e
che non l'avete saputa spuntare. Dal modo con cui vi conterrete in questa
occasione dipenderà la vostra riputazione e il rispetto che vi si
porterà nell'avvenire».
«Avete
ragione».
«E»,
continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra un
buon parente ed amico: non si tratta ora più di scommesse e di scherzi».
«Avete
ragione. Griso, che cosa dicono questi villani?»
«Il
signor padrone può ben credere che in faccia mia nessuno avrebbe osato
proferire una parola poco rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano
contenti».
«Ah!
contenti» rispose Don Rodrigo, «vedranno, vedranno. Il Podestà è
tutto mio... ma nulladimeno... che ne dite cugino?... sarà bene di
prevenirlo favorevolmente».
«Certo»,
rispose il Conte Attilio, «non bisogna tralasciare nessuna precauzione».
«E
poi», continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo in impaccio. Siccome
si parlerà della fuga di costoro, e la giustizia forse non potrà
schivare di far qualche ricerca, bisognerebbe trovare una storia che spiegasse
la fuga, e che rivolgesse i sospetti in tutt'altra parte».
«Si
potrebbe per esempio», disse il Conte Attilio, «sparger voce che quel villano
ha rapita la ragazza e fargli mettere un bando, in modo che non ardisse
più di comparire in paese».
«Non
va male», rispose Don Rodrigo, «ma...»
«Se
mi permettono questi signori», disse umilmente il Griso, «avrei anch'io un
debole parere».
«Sentiamo»,
dissero entrambi.
«Fermo»,
rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e questa è una gran
bella cosa».
«Come
c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio.
«I
lavoratori di seta», continuò il Griso, «non possono abbandonare il
paese, è un criminale grosso. Ecco che il signor Podestà quando
voglia, come è giusto, servire l'illustrissima casa, potrà fare
un ordine di cattura contra Fermo come lavoratore fuggitivo; poi si dirà
che se Fermo ritorna, guai a lui; e Fermo non sarà tanto gonzo da venire
a giustificarsi in prigione».
«Ma
bravo il mio Griso», proruppe Don Rodrigo, mentre lo stesso Conte Attilio
faceva un sorriso di approvazione.
«Ma
bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica. Per bacco, ch'egli
non l'avrebbe trovata più a proposito».
«Eh
Signore», rispose il Griso, con affettata modestia, «ho avuto tanto che fare
con la giustizia, che qualche cosa devo saperne».
«Del
resto», continuò Don Rodrigo, «per quanto grande sia l'abilità
legale del Griso, non voglio ch'egli balzi di scanno il nostro dottore. Fa
ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui. Tu intanto abbi
cura di vedere il bargello e di dirgli che questa volta venga più presto
del solito a ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore,
e avrà un regalo di più... Così si potrà andare
innanzi a fare tutto quello che sarà necessario... Purché la cosa non si
risappia a Milano...»
«Che
diavolo di paura vi nasce ora», interruppe il Conte.
«Caro
cugino, la cosa non è finita; costei la voglio...»
«Va
bene».
«E
non so dove bisognerà andare a cercarla, che passi bisognerà
fare...»
«E
bene, a Milano hanno altro da pensare che a questi pettegolezzi. C'è la
carestia, c'è il passaggio delle truppe, c'è mille diavoli. E poi
quand'anche se ne parlasse a Milano, sarebbe la prima che avremmo spuntata?»
«Va
bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa quali protezioni potrà
avere; e vi assicuro che non istarà quieto fin ché... Quel frate
è il mio demonio, e... non posso farlo ammazzare».
«Il
frate lo piglio sotto alla mia protezione», rispose sorridendo il Conte Attilio.
«Non pensate a lui: me ne incarico io».
«Eh
se sapeste!...»
«Via,
via, che ora non saprò fare stare un cappuccino. Vi dico che, se avete
in me la più picciola fede, non prendiate pensiero di lui, che non ve ne
potrà dare. Domani a sera sono a Milano; e dopo due o tre giorni udrete
novelle del frate».
«Non
mi state a fare un guajo che mi ponga in maggiore impiccio...»
«Quando
vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se volete vi dirò prima il modo
semplicissimo che ho pensato per torvelo d'attorno, modo tanto semplice che
l'avreste immaginato anche voi se non foste un po' conturbato».
Infatti
Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti diversi, e tutti rei, tutti
vili, tutti faticosi, era un oggetto di pietà senza stima agli occhi
stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato orrore e stomaco
nell'animo di chiunque gli avesse meno somigliato che quei due signori. La
passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e cresciuta da poi
dalle ripulse e dal disdegno, era diventata violenta quando conobbe un rivale.
La fantasia ardente e feroce di Don Rodrigo si andava allora raffigurando
quella Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se l'andava raffigurando umana,
soave, affabile con un altro, egli immaginava gli atti e le parole, indovinava
i movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un villano; e la
vanità, la stizza, la gelosia aumentavano in lui quella passione che per
qualche tempo riceve nuova forza da tutte le passioni che non la distruggono, o
ch'ella non distrugge, da tutte quelle che possono vivere con essa. Tutte
queste passioni lo avevano allora spinto ad impedire con minacce il matrimonio
di Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per
impedirlo a buon conto, perché ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo,
per isfogare in qualche modo la rabbia e l'amore, se amore si può dire
quel suo. Quindi allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e
Fermo erano partiti insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono
più acutamente che mai. Egli pensava qual prova Lucia aveva data di
amore per Fermo e di orrore per lui, abbandonando così timida,
così inesperta la sua casa paterna, i luoghi conosciuti, andando forse
alla ventura; pensava che in quel momento essi erano in cerca d'un asilo per
essere riuniti tranquillamente, e risolveva di fare, di sagrificare ogni cosa
per impedirlo. Dall'altra parte avvezzo bensì a non rifiutarsi mai una
soddisfazione quando non gli doveva costare altro che una bricconeria, ma
avvezzo a commetterne in un campo ristretto e conosciuto, si atterriva al
pensiero di uscirne, di dovere intraprendere una ricerca difficile e pericolosa
per porsi poi ad una impresa chi sa quanto vasta, chi sa quanto difficile e
pericolosa. Tanta era l'agitazione di Don Rodrigo, ch'egli pensava in quel
momento non senza terrore alle Gride contra i Tiranni. (Così chiamavano
le Gride coloro che sopraffacevano come che fosse i deboli, quasi con questa
espressione querula e paurosa volessero confessare l'impotenza di contenere
quelli e di difender questi.) Ben è vero che quelle gride erano per lo
più inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come noi lo
sappiamo ora dal trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la dichiarazione
espressa che le antecedenti non avevano prodotto alcun effetto. Ma però
queste gride stesse potevano essere un'arme potente, quando una mano potente le
afferrasse contra chi le avesse violate; e v'era di mezzo un frate, un
personaggio cioè alla influenza ed alla attività del quale nessuno
poteva anticipatamente prevedere un limite: e questo frate pareva risoluto a
proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In
questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza, facendo ad
ogni momento nuove interrogazioni al Griso, e affettando sicurezza dinanzi al
Conte Attilio; finalmente conchiuse col dire: «Per ora non c'è altro da
fare che di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te Griso; e poi, e
poi... non son chi sono se... non è vero cugino?»
«Senza
dubbio», rispose il Conte, al quale alla fine non premeva realmente in tutta
questa faccenda che di far pensare che nello stesso caso egli avrebbe saputo
giungere ai suoi fini senza esitazione e senza fallo. Così fu sciolta la
conferenza, e il Griso partì.
Don
Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe stata cosa molto utile l'avere
il podestà a pranzo, per mostrare sicurezza, e per far vedere ai
malevoli che la giustizia era per lui; e lo fece invitare, pregando il Conte
Attilio di non disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni. Venne il
podestà, e il dottore; si stette allegri, si parlò ancora della
marcia delle truppe, e della carestia: ma degli affari del paese, della campana
a martello, della fuga, né una parola. Soltanto Don Rodrigo accennò
indirettamente questa faccenda nel modo il più gentile ed ingegnoso,
come si vedrà. Fece egli in modo che il podestà lodasse
particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile ad ottenersi, perché
il vino era buono, e il podestà conoscitore. Allora Don Rodrigo: «Oh,
signor podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di suo
aggradimento mi permetterà...»
«Non
mai, non mai, Signor Don Rodrigo, se avessi saputo ch'ella sarebbe venuta a
questi termini, avrei dissimulata la mia ammirazione per questo incomparabile...»
«Bene
bene, signor Podestà, ella non mi farà il torto...»
«Don
Rodrigo conosce la stima...»
Il
Conte Attilio interruppe la gara, la quale era già realmente composta:
Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo, e il podestà tornando
poi a casa, trovò sei tarchiati contadini che erano venuti a deporre
nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo.
Dato
l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato, benché
sembrasse mutarlo affatto, e passare dal vino all'economia politica; ma chi
appena osservi la serie delle sue idee, scorgerà il filo recondito che
le tiene.
«Che
dice», continuò adunque Don Rodrigo, «che dice il signor podestà
di questo spatriare che fanno i nostri operaj?»
«Che
vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da non potersi
comprendere. Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto
più se ne vanno. Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi:
sono pecore, una va dietro all'altra».
«Eppure»,
continuò Don Rodrigo «pare che questa cosa stia molto a cuore di Sua
Eccellenza».
«Capperi!
veda con che sentimento ne parla nelle gride. Ma costoro, parte per ignoranza,
parte per malizia non danno retta, armano mille pretesti, ma la vera ragione si
è la poca volontà di lavorare, e il disprezzo temerario delle leggi
divine ed umane».
«Ma
per buona sorte», disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva detto non
tutto ma quanto bastava a fargli intendere come Don Rodrigo desiderava di esser
servito, «per buona sorte abbiamo un signor podestà che non si
lascerà illudere da pretesti, e saprà tenere mano ferma...»
«Mano
ferma, signor podestà», riprese Don Rodrigo: «mano ferma: il primo che
c'incappa, farne un esempio».
«Io
so», disse con gravità misteriosa il Conte Attilio, «che Sua Eccellenza
tiene gli occhi aperti su questo sviamento degli artefici, e sulla esecuzione
delle gride che lo proibiscono perché il Conte mio zio del Consiglio segreto,
qualche volta in confidenza si è spiegato con me... basta non voglio
ciarlare; ma son certo che quando tornato a Milano andrò a fare il mio
dovere dal Conte mio zio, egli non lascerà di farmi mille
interrogazioni... In verità avere dei parenti in alto è un onore,
ma un onore un po' pesante. Non si può parlare con loro che non vogliano
ricavare qualche notizia: non si sa come sbrigarsene».
«Mi
raccomando ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il Podestà:
«una buona parola trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie tanto
rispettabili...»
«È
pura giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la
parola ha da ottenere il suo effetto, da far colpo, sarà bene che si
vegga qualche dimostrazione esemplare dello zelo del Signor podestà in
questa materia».
«È
mio dovere, e starò sull'avviso».
«Oh
le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché come diceva sapientemente
il signor podestà, è una pazzia universale in costoro». Quindi
prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai fatti ad una idea generale,
continuò: «Vedano un po' le signorie loro come son fatti gli uomini, e
particolarmente la gente meccanica che non sa riflettere. Comincia a mettersi
fra gli artefici questa smania di sviarsi, di cambiar cielo. La sapienza di chi
governa vede il male, e tosto applica il rimedio della proibizione e delle
pene. Si può far di più? eppure costoro, presa una volta quella
dirittura di andarsene a processione, proseguono ad andarsene come se nessuno
avesse parlato. Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi. Ma coi pazzi
come bisogna fare? Castigarli».
È
facile supporre che con questi ragionamenti il signor podestà si
trovò disposto a credere poi, o a fingere di credere alle insinuazioni
incessanti del dottor Duplica, e alle deposizioni degli onorevoli suoi
ministri, che Fermo si era spatriato in contravvenzione alle gride. Il signor
podestà non si lasciò scappare una occasione, che gli si era
tanto raccomandato di afferrare, e nel giorno susseguente fatte fare ricerche
di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo, gli fece
intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo rilasciò
l'ordine di catturarlo s'egli ritornava. Non importa di accordare quei due
ordini: basta che con questi si ottenesse l'effetto desiderato, che era di
toglier la volontà a Fermo di ritornare.
Intanto
il Griso non ommetteva cura per iscoprire il covo dei fuggitivi; ed ecco come
vi riuscì. Mandava egli esploratori qua e là per le piazze e per
le taverne per raccogliere i discorsi che potevano dar qualche lume su questo
avvenimento. Colui che aveva condotto il baroccio dei profughi, non tacque, e di
confidenza in confidenza, il Griso venne a risapere, e potè riferire a
Don Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza, che Fermo aveva proseguito
il viaggio fino a Milano, che Lucia ed Agnese erano state raccomandate al
guardiano dei cappuccini.
Parve
a Don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com'egli aveva temuto,
e che il bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà. Monza non
era più lontana che venti miglia; Fermo era separato dalle donne; quando
si prendessero buoni alleati, senza dei quali Don Rodrigo sentiva di non poter
far nulla a quattro miglia del suo castellotto, l'impresa non era disperata.
V'era però ancora di mezzo un cappuccino; ma si sarebbe veduto fino a
che segno egli era da temersi.
«Ora
mio bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter tempo in
mezzo. Ho bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte di
Monza costei è andata a posarsi; e tu devi andare sul luogo a pigliarne
informazioni sicure».
«Signore...»
«Che
è, Griso? non ho io parlato chiaro?»
«Signore
illustrissimo,... io son pronto a dar la vita pel mio padrone, ma so anche
ch'ella non vuole arrischiar troppo i suoi sudditi»
«Ebbene,
non sei tu sotto la mia protezione?»
«Qui
sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e tutti mi
portano rispetto; ma in Monza, s'io fossi riconosciuto... Sa Vostra signoria
che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi potesse consegnare alla giustizia,
crederebbe di aver fatto un gran colpo?»
Don
Rodrigo stette un momento sopra pensiero. È una certa consolazione per
chi considera lo stato insopportabile di angoscia e di terrore in cui a quei
tempi gli uomini arditi e perversi tenevano i deboli, il vedere che i perversi
pure erano in continua angoscia, e dovevano starsi sempre come si dice con
l'olio santo in saccoccia. Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con
buone ragioni vergognar il Griso della sua pusillanimità.
«Che
diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora un can da pagliajo, che non sa
che abbajare sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano,
e non ardisce di allontanarsi quattro passi? Ebbene, piglia con te un pajo di
compagni... il Pelato, e... il Saltafossi... e va. Io non ho nimicizia con
nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La faccia di bravo non ti
manca, e cospetto non incontrerai nessuno che non sia contento di lasciarti
passare. Quanto alla giustizia, dovresti vergognarti di avervi pensato un momento.
Bisognerebbe che i birri di Monza fossero bene stanchi di vivere per azzuffarsi
con tre malandrini che vanno tranquillamente pei fatti loro».
«Sia
per non detto, illustrissimo signore: io parto immediatamente».
«Bravo:
hai amici in Monza?»
«Eh
Signore io ho amici e nemici per tutto il mondo. Sono stato in prigione con uno
che sta per bravo dal Signor Egidio... e abbiamo fatta una amicizia da spartire
colle pertiche, conosco...»
«Bene
tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso. Una mano lava l'altra, e le
due il viso. Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare e tornare».
«Vado
e torno; e se osassi...»
«Che?»
«Pregar
Vossignoria illustrissima di non dire ad alcuno che il Griso ha dubitato un
momento. Vede bene, ognuno nel suo mestiere ha a cuore la sua riputazione».
«Va,
va, balocco che sei: credi tu che io abbia bisogno di essere pregato per tenere
in credito la mia gente?»
Il
Griso partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel
monastero, sotto la protezione della Signora, che però la Signora
l'aveva ricevuta per compiacere al padre guardiano, che nessuno pensava che
altrimenti ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda giacché Lucia non
le apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel monastero, ma fuori del chiostro,
che si lasciava poco vedere, e sempre di chiaro giorno: che la madre aveva
disegnato di tornarsene a casa lasciando Lucia così bene appoggiata.
Tutte queste cose riferì il Griso a Don Rodrigo, il quale lodatolo, e
ricompensatolo, si pose seriamente a pensare quale risoluzione fosse da
prendersi.
Tentare
un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli non conosceva bene,
in un monastero, a rischio di tirarsi addosso la signora, e tutto il suo
parentado, del quale Don Rodrigo conosceva molto bene la potenza, e la ferocia
in sostenere le protezioni una volta abbracciate, era impresa da non porvi
nemmeno il pensiero. Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola senza la
madre, e a chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per conoscere
le occasioni e per approfittarsene, per evitare i pericoli, l'impresa poteva
forse essere agevole non che possibile. Bisognava dunque ricorrere ad un
alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre a termine spedizioni di
questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un pensiero, che gli era
passato più volte per la mente, che non aveva mai abbandonato, il
pensiero di raccomandare i suoi affari al Conte del Sagrato.
Le
ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello
che abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose. Al
prudentissimo nostro autore è sembrato di avere ecceduto in
libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome quest'uomo.
Due scrittori contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti,
biografi entrambi del Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel
personaggio misterioso, ma lo dipingono succintamente come uno dei più
sicuri e imperturbabili scellerati che la terra abbia portato, ma non ne danno
il nome, e né meno il soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro
manoscritto insieme con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e
che basterà a dare una idea del carattere di quest'uomo. Abitava egli in
un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; e quivi menava
una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti gli abitatori
del contorno, non riconoscendo superiore a sè, arbitro violento dei
negozj altrui come di quelli nei quali era parte, raccettatore di tutti i
banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a commetterne di
nuovi, appaltatore di delitti per professione. «La sua casa» per servirci della
descrizione che ne fa il Ripamonti «era come una officina di commessioni
d'ammazzamento: servì condannati nella testa, e troncatori di teste: né
cuoco né guattero dispensati dall'omicidio; le mani dei valletti insanguinate».
E
la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una lunga
esperienza d'impunità era venuta a tanto, che dovendo egli un giorno
passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente
bandito, cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba,
passò sulla porta del palazzo ove abitava il governatore, e
lasciò alle guardie una imbasciata di villanie da essergli riferita in
suo nome.
Avvenne
un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate si
presentò un debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui
della molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il negozio a
modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo
altra speranza che nella protezione onnipotente del signor Conte. Il creditore,
un benestante d'un paese vicino, non era sul calendario del Conte, perché senza
provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure mostrava di
non volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti
suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti. Al Conte fu molto gradita
l'opportunità di dare una scuola a questo signore: trovò irrepugnabili
le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò un servo,
e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in
mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso,
perché io ho riconosciuto che costui non gli deve nulla: ascolterai la sua
risposta: non replicherai nulla quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia,
tornerai tosto a riferirmela». Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal
creditore, al quale il lupo espose l'imbasciata, mentre la volpe stava tutta
modesta a sentire. Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale
intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal
sentimento della sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora
allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli non
riconosceva il signor Conte per suo giudice. Il lupo e la volpe partirono senza
nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola
disse: «benissimo». Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava
il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini,
che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi.
Terminati gli uficj, i più vicini alla porta uscendo i primi e guardando
macchinalmente sul sagrato videro quell'esercito e quel generale, e ognun
d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere si
rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza
darla a gambe. Il Conte, al primo apparire di persone sulla porta si era tolto
dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le due mani in apparecchio di
spianarlo. Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti
archibugj secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo
più armati, ma non osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano
al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita. Tanta era la fede
publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si
curarono di pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i
più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un pericolo oscuro,
impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa. I
sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno
al lato che gli era più comodo per uscire, ma alla vista di
quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e la folla usciva come
acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un
canto dell'apertura. Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il
creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli spianò lo schioppo
addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far
largo. Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato,
e la folla non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di
coglierlo separato. Quegli che gli erano più lontani s'avvidero che
quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da cento
bocche. Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta
compresa da quell'amore della vita, da quell'orrore di un pericolo impensato
che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad alcun altro
più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla,
e la folla lo sfuggiva pur troppo s'allontanava da lui per ogni parte, tanto
ch'egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto,
cercando il nascondiglio il più vicino. Il Conte lo prese di mira in
questo spazio, lo colse, e lo stese a terra. Tutto questo fu l'affare di un
momento. La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il
Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col suo accompagnamento.
Se
quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno
aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore,
e di sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al Conte senza che il fatto
non gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea,
che tutti avevano associata alla persona. Il Conte sapeva che lo disegnavano
con questo soprannome, ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che
ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch'egli sapeva fare; o
forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche menzione di
Scipione l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome
dal luogo illustrato da una grande impresa.
Teneva
egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato milanese e nel veneto, e dal
suo castello posto a cavaliere ai due confini dirigeva gli uni e gli altri,
facendo ajutare o perseguitare quegli che si rifuggivano da uno Stato
nell'altro, secondo l'occorrenza, tramutandone alcuno talvolta, quando qualche
operazione lo domandasse, o anche quando alcuno avesse in uno stato commessa
qualche iniquità tanto clamorosa che la giustizia per averlo nelle mani
facesse sforzi straordinarj, che esigessero sforzi straordinarj per difenderlo.
Allora la fuga del reo era una buona scusa ai ministri della giustizia del non
far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto che dopo qualche
tempo non se ne parlava più, né meno sommessamente, e il reo ricompariva
con faccia più tosta che mai. Questo maneggio serviva non poco ad agevolare
tutte le operazioni del Conte, perché le si compivano tutte senza molto
impaccio dei ministri della giustizia, i quali potevano sempre allegare
l'impossibilità di porvi un riparo. Quanto alle operazioni che il Conte
eseguiva di propria mano, la giustizia non se ne mostrava accorta; ed era
regola ricevuta di prudenza, che erano di quelle cose in cui ogni dimostrazione
avrebbe prodotti più inconvenienti che non il dissimularle.
Le
sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti. Pochi erano i tiranni
della città, e di una gran parte dello stato che non avessero qualche
volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche vendetta o qualche
soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi, o il fatto da
eseguirsi era nelle sue vicinanze. E non basta, fino ad alcuni principi
stranieri tenevano comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta per
qualche uccisione d'importanza, e quando il caso lo richiedesse gli mandavano
rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano certamente per chi misura la
probabilità degli avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei
suoi tempi; ma fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel
secolo. Nella sua professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli
pieno di affabilità nel contrattare, e nell'eseguire metteva, ed esigeva
una somma puntualità. Accoglieva con molta riserva certamente per non
incorrere nel pericolo al quale era sempre esposto, ma con molta piacevolezza,
quelli che venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il sopracciglio,
stipulava con parole spicce, ma pacate, non andava in furia contra chi non
avesse voluto stare alle sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato,
non volendo né disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i
quali avevano per la scelleragine più inclinazione nella volontà,
che determinazione di coraggio. Ma stretti i patti, colui che non gli avesse
ben fedelmente serbati con lui, doveva esser bene in alto per tenersi sicuro
dalla sua vendetta.
Don
Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di fama?) ma
di persona, per essersi talvolta avvenuto in lui. In tutti questi incontri Don
Rodrigo sentendo la sua inferiorità, aveva deposto ogni orgoglio e aveva
cercato con molte espressioni di rispetto di porsi in grazia al Conte; non
ch'egli pensasse allora che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto
per non farsi un tale nemico.
Confermato
nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia, e convinto che le
sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don Rodrigo di andare in
cerca di chi volesse prestargli le sue; fatta questa risoluzione, non v'era da
titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte era appunto per lui quel
che il diavolo fece.
CAPITOLO VIII
Il
mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito da
caccia, col fedel Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una
quadriglia di bravi, si mosse verso il castello del Conte, come altre volte
Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe l'opera
buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a
Doppie. La via era di cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva
lentamente, e per dare agio alla scorta pedestre di seguirlo; e perché il
cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era piano
obbligava il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la
zampa con sicurezza. I villani che si abbattevano su quella via, al vedere
spuntare il convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, per dare a
Don Rodrigo il comodo d'un libero passaggio; e quando erano giunti al medesimo
punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi
di chiedere scusa a Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino. Don Rodrigo
che già cominciava a godere nella sua mente un'anticipazione della
potenza che gli avrebbe data l'alleanza che andava a contrarre, gli guarda con
un volto fosco e sprezzante, come se dicesse: — vi siete rallegrati troppo
presto a mie spese; lo so; ma vedrete chi sono —. Giunto dinanzi al convento
che si trovava su la sua strada, Don Rodrigo rallentò ancor più
il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre
Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v'era nessuno: la porta della chiesa
era aperta, e si sentivano i frati cantare l'uficio in coro. In mezzo alla sua
ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni
che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da quei frate: pensò
che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla
collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un «ah! ah!» il cui
senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare
la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch'egli era molto
internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e
facendo col volto un cenno che voleva dire: — a quest'ora il frate sarà
servito —.
Pochi
passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che si
gettano nel lago, dai monti che lo ricingono. Questo si chiamava e si chiama
tuttavia il Bione, nome che non si troverà in alcun dizionario
geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di
esser memorato. Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago,
e per un brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo
d'acqua, e dopo le grandi piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo
fiume d'acqua che in un momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che
rimangono. In quel momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in
un deserto di sassi: noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a
questo passaggio qualche incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne
illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la
storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che
d'ogni altra cosa non possiamo dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo
attraversò il letto in retta linea, tenuto pel freno dal Griso il quale
dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così com'era giusto un poco
l'onore di star più vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono
un po' più in giù sur un ponticello stretto a piedi asciutti.
Varcato
il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al luogo
dove allora era il confine dello stato veneto; e quindi presero un viottolo
ripido a sinistra che conduceva al castello del Conte. Appiedi della ultima
salita che dava al castello v'era una rozza e picciola taverna; e sulla porta
della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder gente
armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci
nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come
tegole con le quali stavano giucando; stettero a guardare con sospetto chi
veniva. Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per
rivolgerlo sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli
chiese molto famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella
compagnia?» In altro luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la
superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi così
interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli sapeva di
essere negli stati del Conte, e s'avvedeva che parlava con dipendenti da
quello, onde fingendo di non trovare nulla di strano in quel modo, rispose
umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E
chi è Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più
amichevole ma non meno risoluto.
«Sono
il signor Don Rodrigo...»
«Bene;
ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che quelli del
signor Conte; e s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una
passeggiata con me».
Don
Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di quel
proverbio: si Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e
disse: «avrò molto piacere di far questi pochi passi a piede: e voi
intanto», disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi a
refiziarvi, e a godere della compagnia di questa brava gente». Mentre quivi si
parlamentava, scendevano per l'erta a varie distanze uomini del Conte che
dall'altura avevan veduti armati a fermarsi; ma colui che s'era offerto di
accompagnare Don Rodrigo, accennò loro che erano amici, e quegli
ritornarono. Don Rodrigo sceso, e date le briglie in mano al Griso
cominciò a salire con la sua guida; la quale non volendo forse avere
offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che non si sapesse,
fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere. «Se il Signor
Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato
ordine perch'ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere
quanto il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere del
mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il
nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici
vecchi del signor Conte».
«Certo,
certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e non
pretendo che egli abbia a far complimenti con me».
—
Questi è un signore davvero, — pensava tra sè continuando la sua
salita Don Rodrigo. — Vedete un po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone
in casa sua. S'io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei riuscire:
ma è poi anche vero che fa una vita da romito. A voler godere un po' il
mondo non bisogna star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco. —
Così Don Rodrigo si racconsolava della sua inferiorità; e nel
resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch'egli aveva preparati pel
Conte. Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece
aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del
Conte. Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando Don Rodrigo ad
entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani, lo condusse
a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don
Rodrigo s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può
egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti
affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli
corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di
sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si
potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie,
alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a
qualche distanza.
Era
il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con una
faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato, ma
da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e
indisciplinata.
«Dovrei
scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado
a Vossignoria Illustrissima».
«Lasci
queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non
so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere
stato qualche volta fortunato...»
«Mi
ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A
dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore, in
un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato
quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a
chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo».
«Al
diavolo anche l'amparo», rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste
parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto,
e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si
protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo». E qui avvedendosi che Don
Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì
e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie.
Mi dica schiettamente in che posso servirla».
Don
Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e
finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel
villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il
Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava
più dell'evento. «Non intendo però», continuò titubando,
«che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per
favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...»
«Patti
chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le
labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo...
presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini
di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A
queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a
parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: — l'avresti avuta per
centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo —; e Don
Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie.
— Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho
promesso al mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si
scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò:... frate
indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la voglio... Si
è parlato troppo... non son chi sono... — Fatta così la
risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte,
l'accordo è fatto».
«Cinque
e cinque, dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia
capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una
formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte,
significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell'atto di proferire la
formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le
darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la
persona, e starà agli ordini di Vossignoria...»
«Non
fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui
cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate,
e fattosi dire un'altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo
scrisse, e notò pure il monastero.
«Ma
non vorrei che nascessero abbagli».
«So
quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di
dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo»,
replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile».
«Ad
un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona
sarà consegnata».
«Così
farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte
darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio».
«Al
corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei
uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse
la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani».
«Non
ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto,
e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son
uomo d'onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del
castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò
largamente lo scotto, e si avviò verso casa.
Non
aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi
aveva già dato principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo
una lettera a quell'Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a
venire al Castello per un negozio di somma premura.
È
d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi
quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più
intrinseco e il più riverito. Il giovane Egidio appena rimasto solo
aveva implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il
Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non
ordinarie, e che aveva pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie
parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di denari e d'uomini, e
sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di
mestieri.
Si
formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni
occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa
sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli
obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d'avere in
lui un difensore invincibile. Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli
parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per
esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era
contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise
a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia
non affatto sgombra di diffidenza.
Il
messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e
verso il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due
cavalieri, e con quattro pedoni che l'accompagnavano, distinzione riserbata a
quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata
al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte. In fatti gli uomini di Egidio e
quelli del Conte s'erano trovati insieme in più d'una impresa, ed erano
per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno
scambievole ajuto. Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello,
incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente
inchinato l'amico del padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio,
ed era una ripetuta stretta di mani, e un dare e rendere di saluti a cui si
appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo. «Benvenuto il
Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino
bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh!
Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di Milano, fin
che viene la mia ora!» «Bravo un'altra volta! Ehi! e quel tale che ti faceva
l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza cena», rispose il
Nibbione, stendendo il braccio sinistro e appoggiando orizzontalmente la mano
destra alla guancia. «Bene», rispose lo Spettinato: «così va fatto:
meglio pagare che riscuotere». «Così m'ha insegnato mio padre»,
replicò il Nibbione. Con questi bei ragionamenti giunse la trista
brigata alla vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo
veduto salire l'amico gli si faceva incontro. Quando Egidio lo scorse,
balzò da cavallo, gittò la briglia a uno de' suoi uomini, e corse
a lui: si abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell'uno
e dell'altro seguitarono riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta,
andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo gli ordini dati dal Conte.
Quando
i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava gli
affari più reconditi, scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in
questo modo.
«Mio
caro Egidio, e posso dir figlio. Ho un affare a Monza, pel quale m'è
d'uopo un amico fidato, e un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra
di te».
«Vorrei
vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di
esservi più amico di me».
«La
mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora
mettetemi alla prova».
«Ho
bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva,
o morta?» domandò Egidio.
«Viva,
viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene»,
disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia, né il
feudatario, né il podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih!
ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa gente? Quando io
gli avessi tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli
andare. Non sono buoni da nulla né vivi né morti».
«Che
so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l'arciprete, né
tampoco un prete, né un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare
col Cardinale, che sarebbe uomo da mettere a soqquadro tutta Roma e tutta
Madrid, finché non ne avesse veduta l'acqua chiara: purché non sia nessuno di
questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene»,
disse il Conte «quello ch'io vorrei che tu prendessi non è nessuno di
questi uccellacci che hai nominati: è il più picciolo reatino che
tu possa immaginare. Solamente, è rimpiattato in una certa fratta che ci
vorrà destrezza assai a cavarnelo».
«Vediamo»,
rispose confidentemente Egidio.
Il
Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse:
Lucia Mondella, e continuò: «è una contadina di questi contorni
che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua casa, sotto la protezione
della Signora; protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano
dei cappuccini».
«Ne
ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia molto
più del Conte, ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i
suoi rapporti con la Signora erano un segreto al quale non ammetteva nemmeno
gli amici più intrinseci.
«Prendi
tu l'impegno?» domandò il Conte.
«Senza
dubbio», rispose Egidio.
«E
la Signora?»
«La
Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa
donna; così almeno ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano
con l'ortolano, o con qualche altro mascalzone del monastero. E poi, faremo la
cosa in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo venga».
«Sai
tu ch'ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla
uscire?»
«M'impegno
di trovarlo. E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale
settimana; ma piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà
molto».
«Bravo!
e hai tu bisogno d'uomini in ajuto?»
«Ho
bisogno certo d'uomini, non tanto per compire l'opera, come per distornare i
sospetti. Quando io vi darò avviso, voi mi manderete dei vostri uomini
forestieri, dei più destri e determinati; costoro si lasceranno vedere
qualche tempo prima; si parlerà in paese di loro: quando la donna
sarà scomparsa...»
«Va
bene, si dirà che è stata rapita da forastieri, sconosciuti, da
Bergamaschi».
«Rapita,
o fuggita con essi: quel che si vorrà: o anche l'uno e l'altro perché ho
veduto in più d'un caso che il raccontare una storia in diverse maniere
serve molto a confondere le teste, e a tener lontani i sospetti dalla
verità del fatto».
«Tu
parli come un vecchio, e sai operare da giovane», rispose il Conte. «Io ti
manderò gli uomini che mi richiederai: e non avranno altro ordine che di
ubbidire ai tuoi».
Così
fu conchiuso l'orribile accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani
ripartirebbe di buon mattino, e che appena giunto a casa, avviserebbe ai mezzi
di condurre a buon fine l'impresa.
La
sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia non molto
dissimile da quella che Don Rodrigo aveva presa della sua. Si aspettava bene il
Conte che Egidio avrebbe abbracciata l'impresa, e trovato il modo di compierla,
ma ch'ella dovesse parergli così agevole, non lo avrebbe immaginato. Si
preparava anzi a fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli ostacoli
che Egidio gli avrebbe opposti; e fra questi il primo gli pareva che dovesse
essere la Signora: ma il lettore sa che questo che al Conte sembrava ostacolo
dovette tosto affacciarsi alla mente di Egidio come un mezzo validissimo. Ed
è questo uno dei molti vantaggi dei lettori di storie: il sapere certe
cose ignorate dai personaggi più importanti di esse; il veder chiaro
dove i più accorti ed oculati personaggi camminano all'oscuro: vantaggio
che dovrebbe ispirare ad ogni lettore bennato molta riconoscenza a coloro che
glielo procurano, che alla fin fine sono gli scrittori di quelle storie.
Nel
resto di quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa
però che poteva essere in quel luogo e fra quei due. All'indomani, dopo
molti affettuosi congedi, Egidio partì, promettendo che ben presto
manderebbe al Conte buone novelle dell'affare; discese al lago, entrò
nel battello del Conte, traghettato all'altra riva dell'Adda coi suoi, si
ripose a cavallo, e prese la via di Monza.
In
quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati, di tradimenti, l'uomo che
si allontanava quattro passi da casa sua, camminava sempre con sospetto a guisa
d'un esploratore in vicinanza del nemico; e più d'ogni altro i
facinorosi e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte conti
accesi di offese o di minacce, com'era Egidio. Benché mandasse alcuni passi
innanzi a battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci
fossero insidie, o se giungessero nemici, pure andava egli stesso guardandosi a
destra e a sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni siepe, alzandosi
di tempo in tempo su le staffe per veder dietro i muri dei campi, piegandosi
per vedere dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere
dietro le spalle, e affisando da lontano chiunque veniva, perché poteva essere
un nemico, o il sicario nascosto di un nemico.
Alla
metà circa della via, incontrò egli una caravana di carretti e di
pedoni, e li riconobbe da lontano per quelli che erano veramente cioè
pescivendoli che tornavano da Milano dopo avere smaltita la loro merce, e che
camminavano di conserva per assicurarsi dai masnadieri. Esaminando però
attentamente ogni persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi, gli
parve di riconoscere una donna, che si stava accosciata sur un carretto,
coperta il capo d'un fazzoletto rannodato sotto il mento, la quale veggendo
venire armati guatava con una curiosità mezzo spaventata. Egidio la
mirò più fisamente, s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e
si rallegrò pensando che a Monza troverebbe un impiccio di meno
nell'esecuzione del suo mandato.
Era
la nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno
imbasciate promesse dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del
come andassero le cose, qual partito si dovesse finalmente pigliare; tornava al
paese, per saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo una occhiata alla
casa ed alle masserizie. Lucia alla quale i pericoli passati, la fuga, il
trovarsi come smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo
di peggio avevan restituita quasi tutta la timidezza della infanzia, aveva
più volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla partire,
aveva pianto, e pregato, ma, finalmente stanca essa pure della incertezza, e
più ansiosa di saper qualche cosa di quello che non ne confessasse,
rassicurata dal trovarsi in un asilo così guardato, e così santo,
s'acquetò, e lasciò che la madre ne andasse; e Agnese se n'era
venuta, senza cruccio della figlia che le pareva d'aver lasciata, come si dice,
su l'altare. Noi torneremo indietro con la buona donna verso le nostre
montagne, lasciando andare lo sciagurato Egidio al suo viaggio.
Quando
Agnese si trovò al punto dove la strada che conduceva al suo tugurio si
divideva da quella che dovevan fare i pescivendoli per giungere a casa loro,
cioè quando ebbe passato il ponte dell'Adda, scese di carretto, e preso
il suo fardello cominciò a piedi le due miglia che le restavano di
viaggio, camminando non senza sospetto. Si confortava però pensando che
Don Rodrigo non l'avrebbe voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno stato
tanto scellerato da farle far male alcuno, senza suo profitto. Giunta vicino a
casa, v'andò quanto più celatamente potè per viottoli, e
infatti non fu scorta da veruno; picchiò, le fu aperto da quella sua
cognata che stava a guardare la casa, trovò le cose in ordine; chiese
novelle del Padre Cristoforo alla cognata che non potè rispondergli se
non che da quel primo giorno non lo aveva più veduto comparire; e dopo
d'avere esitato qualche momento, si fece animo, e prese la via del convento.
Tutta ansiosa si fece alla porta, e tirò il campanello, al suono del
quale, ecco venire un occhio ad una picciola grata della porta a spiare chi sia
arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza la porta, e al luogo
dell'apertura un lungo, vecchio, e magro frate portinajo con la barba bianca
sul petto che dice:
«Chi
cercate buona donna?»
«Il
padre Cristoforo».
«Non
c'è».
«Starà
molto a tornare?»
«Mah!»
«Dov'è
andato?»
«A
Palermo».
«A...?»
«A
Palermo», ripetè posatamente il frate portinajo.
«Dov'è
questo luogo?» domandò di nuovo Agnese.
«Eh!
hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e la mano destra e trinciando
l'aria verticalmente per significare una lunga distanza.
«Oh
diavolo!» sclamò Agnese.
«Ohibò,
buona donna», disse pacatamente il frate: «che c'entra colui? non chiamatelo
qui fra di noi, che poniamo ogni cura per tenerlo lontano».
«Ha
ragione, Padre, ma io sto fresca».
«Bisogna
aver pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere la porta.
«Ma»,
disse Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a fare in quel
paese?»
«A
predicare», rispose il cappuccino.
«Ma
perché è andato via così all'improvviso senza dirmi niente?»
«Gli
è venuta l'obbedienza dal padre provinciale».
«E
perché l'hanno mandato lui che aveva da far qui, e non un altro?»
«Se
i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, non vi sarebbe
obbedienza».
«Va
benissimo; ma questa è la mia ruina».
«Ci
vuol pazienza, buona donna. Pensate al contento che proveranno quei di Palermo
a sentirlo predicare: perché, vedete il padre Cristoforo è cima di
predicatori; è un santo padre in pulpito».
«Oh
il bel sollievo per me!»
«Vedete
se v'è qualche altro nostro padre che possa tenervi luogo di lui,
rendervi qualche servizio, nominatelo, e lo andrò a chiamare».
«Oh
Santa Maria!» rispose Agnese con quella riconoscenza mista di stizza che fa
nascere una offerta dove si trovi più di buona volontà che di
convenienza: «chi ho da far chiamare, se non conosco nessuno: quegli sapeva
tutti i fatti miei, mi dava tutti i pareri, aveva amore per noi poveretti».
«Dunque
abbiate pazienza», rispose di nuovo il frate, disponendosi ancora a partire.
«...Ma,
ma...» domandò ancora Agnese, «quando sarà di ritorno?...
così a un dipresso?»
«Mah!»
rispose il frate. «Quando avrà terminato il quaresimale, cioè a
Pasqua, aspetterà un'altra obbedienza per sapere se deve restar
là dove è andato, o tornar qui, o portarsi ad un altro luogo dove
comanderanno i superiori: perché, vedete, noi abbiamo conventi in tutte le
quattro parti del mondo».
«Oh
la bella storia!» sclamò Agnese.
«Questo
è quello che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la
porta sul volto ad Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi un qualche tempo
come smemorata, riprese tristamente la via della sua casa, pensando come
potrebbe riparare una tanta perdita e arzigogolando i motivi di una sì
subitanea disparizione, senza poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente.
Non
così il lettore, il quale quando voglia continuare la sua lettura,
troverà qui tosto la spiegazione di tutto il mistero. Il Conte Attilio,
tornato a Milano, s'era tosto portato ad inchinare il conte suo Zio del
consiglio segreto. Era questi un vecchio ambizioso, geloso della parte di
potere che gli era venuto fatto di afferrare, e geloso non meno dell'onore
della sua famiglia e di tutto il parentado, al modo che s'intendeva l'onore a
quei tempi.
Era
egli per due sorelle, zio dei due cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio
novelle dell'altro nipote Don Rodrigo.
«Che
fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato
come lui, e devi sempre trovarlo irreprensibile».
«Mi
ha imposto di baciare umilmente la mano all'Eccellenza del signor zio, alla
quale è sempre devotissimo».
«Sì
sì... mantiene bravi tuttavia?»
«Oh
Signor zio, bravi... non si può veramente chiamarli bravi: tiene un
corteggio di servitori conveniente alla sua nascita, e al decoro della
parentela».
«Sì
sì... ma Sua Eccellenza il signor Governatore non vuole i corteggi a
questo modo, e si lascia qualche volta intendere che toccherebbe ai Ministri, e
ai loro parenti dare l'esempio».
«Ma
vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore di giorno in giorno...»
«Oh
questo sì; ma non tocca a te il dirlo».
«Ad
ogni modo, il mondo è pieno di gente che non porta rispetto né alla
nascita né al nome, se uno non lo sa far rispettare».
«Anche
questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto e
all'orecchio di Sua Eccellenza non si deve temere di soperchiatori».
«Certo,
che con l'amparo del signor Zio noi potremmo aver soddisfazione di
qualunque offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il Signor Zio che ha
tanta bontà di cuore, avrebbe disturbi ad ogni momento per causa nostra.
Così i temerarj si contengono col solo timore».
«Temerarj,
temerari: io so molto bene che Don Rodrigo non è molestato da nessuno,
se non cerca egli di molestare altrui».
«Eh!
signor Zio ella sa quanti si trovano che presumono di essere superiori ad ogni
autorità, e si fanno arditi contra chicchessia. C'è per esempio
un frate nel convento di Pescarenico, eh! signor Zio, non si può
immaginare che superbia abbia costui».
«Che
c'entra questo frate con Rodrigo?»
«Ci
vuole entrare per forza, signor Zio. Costui è pieno di premura,
probabilmente spirituale, per una foresotta di quei contorni, e la guarda con
un sospetto... guai se alcuno le si avvicina. Che cosa va a mettersi in capo
questo frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua colomba. E
tutto questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta
passando: ma come le dico, la carità di questo frate è molto
permalosa. Ora non può credere le cose che ha dette costui di Rodrigo, i
visacci che gli ha fatti, il tuono di minaccia con cui lo guarda, come se fosse
un ragazzo plebeo».
«E
questo frate sa che Don Rodrigo è mio nipote?»
«E
come lo sa! Si figuri, che non faccio per censurare mio cugino, ma è il
suo debole, lo dice ad ogni occasione, e lo compatisco; quando si ha un onore
di questa sorte, non si vorrebbe tenerlo celato».
«E
non ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo
è mio nipote?»
«Eh
pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno ricordare».
«E
che dice egli?»
«Dice...
dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri della
terra».
«Come
si chiama questo frate?»
«Fra
Cristoforo da Cremona. Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido;
ha sempre voluto cozzare con la gente bennata; in gioventù ha avuti
incontri con cavalieri; ha un bell'omicidio su la coscienza e si è fatto
frate per salvare la pelle: un cervello caldo».
Il
Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra Cristoforo fu registrato sur
una terribile vacchetta, con due righe di commento.
«Sicuramente»,
borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta; «il cordone di San
Francesco! Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo a
proposito, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia».
«Per
uscirne con poco impegno, e con tutto il decoro della parentela», disse il
Conte Attilio, «il mio sottomesso parere sarebbe che V.E. con la sua consumata
politica trovasse il modo di fargli cambiar aria, e di sopire il negozio, senza
entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo frate, e
son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita
a un cavaliere; è un uomo, Signor Zio, da dare uno schiaffo con forza, e
da riceverne uno con umiltà: questi cervelli alla lunga possono
impacciare chi che sia, e mettere in impegni...»
«Chi
domanda pareri a Vossignoria?...» interruppe il Conte Zio annuvolando la
fronte. Il nipote che lo conosceva, perché avendo spesso bisogno di lui lo aveva
esaminato con l'occhio acuto dell'adulatore, aveva benissimo preveduto che quel
personaggio si sarebbe offeso della intenzione di consigliarlo; ma sapeva nello
stesso tempo che il consiglio gli sarebbe rimasto nella memoria, che sarebbe
stato seguito perché era conforme alle idee del personaggio; e quanto
all'offesa sapeva per esperienza che una umile parola di adulazione bastava a
farla dimenticare.
«Ah!
ah!» sclamò egli, come ridendo della sua propria dappocaggine, «È
vero, è vero; sono pure uno sventato; ma: i paperi vogliono menare a ber
l'oche». Il Conte Zio fu contentissimo della riparazione; e disse: «Bene, bene,
i pareri tu gli hai da sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di
non far parola con alcuno di questo impegno». Il nipote promise l'obbedienza, e
si congedò certo e lieto della riuscita.
Il
Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere il nodo prima
che si ravviluppasse a segno che fosse mestieri di tagliarlo. Il grande scopo
di questo signore era di ottenere un po' di potere, il più che fosse
possibile: e uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far credere
che ne avesse molto. Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo
mezzo, e in certi momenti in cui il prurito di far mostra della sua profondità
nella politica, superava nel suo animo la circospezione che gli consigliava a
nasconderla (il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione
a molti furbi di scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro
affari; che è un peccato) in quei momenti dico, egli era solito di fare
intendere la sua teoria con una frase di Virgilio che gli era rimasta in mente
dalla scuola, e che egli interpretava a suo modo: possunt quia posse
videntur. — Chi aveva intese queste parole dalla sua bocca poteva esser
certo di essere ai primi posti della confidenza del Consigliere segreto. Questa
dottrina poi, come accade, era in lui divenuta abito, e passione. In questo
frangente si trattava di non permettere che un cappuccino affrontasse e facesse
stare un parente del Signor consigliere, d'impedirlo senza tirarsi addosso i
cappuccini, e di far credere a chi era informato della inimicizia, e ai
cappuccini stessi, che il frate era stato vinto, e aveva dovuto ritirarsi. —
Giovanastri senza giudizio, — pensava egli fra sè — la darò io ad
intendere a quel Rodrigo. — Ma intanto bisognava andare al riparo, e tutto
pesato il Conte Zio fece pregare con quei rispetti e con quei pretesti di
cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare alla sua casa. Il
Padre Provinciale non si fece aspettare.
Due
potenze, due dignità, due vecchiezze, due esperienze consumate, si
trovavano a fronte. Il Padre provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere
segreto volesse fare di lui né in nome di chi, per quali interessi avesse a
parlargli, stava in guardia; e il Consigliere si proponeva di farlo fare a modo
suo, e di farlo partire contento di aver servito un così potente
signore.
Dopo
le prime accoglienze che furono al solito sviscerate, e dignitosamente umili,
poi che il Cappuccino ebbe espressa magnificamente la sua stima pei
Consiglieri, e il Consigliere pei Cappuccini, il Conte entrò in materia,
cercando pure al solito di tasteggiare il suo interlocutore, e di procedere per
via d'interrogazioni che obbligassero ad una risposta, e di eludere nello stesso
tempo le interrogazioni dell'altro, il tutto con l'apparenza della più
schietta cordialità.
«Mi
sono presa questa sicurtà d'incomodare Vostra Paternità
reverendissima», diss'egli, «per un affare che deve conchiudersi a comune
soddisfazione. E senza più, le dirò sinceramente di che si
tratta, senza raggiri, col cuore in mano, come uso con tutti e specialmente con
le persone che venero particolarmente. Ecco il fatto. Nel loro convento di
Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre Cristoforo da Cremona?»
«Vostra
Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale.
«Mi
dica un po' schiettamente in amicizia, Padre Molto Reverendo, che informazioni
tiene di questo soggetto?» riprese il Consigliere segreto aspettando la
risposta. Ma il Padre Provinciale non era uso di rispondere alla prima
chiamata, e molto meno in un caso simile. S'accorse egli che il Conte voleva
cavare da lui tutte le notizie possibili prima di fargli conoscere il suo
disegno, e propose di condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto.
— Perché — pensava il Padre — chi sa per qual cagione questo signore vuol
essere informato del Padre Cristoforo. Potrebbe forse avergli posto addosso gli
occhi per servirsene in qualche maneggio, e allora non mi converrebbe
screditarlo; potrebbe volergliene per qualche puntiglio, e allora non mi
converrebbe pigliar le parti di fra Cristoforo prima di saper bene di che si
tratta, e fino a che punto lo potrò sostenere. In ogni caso prima di
farmi cantare, dovrà cantare egli più chiaro.
—
Fatte rapidamente queste riflessioni, il Padre rispose: «Se V.E. vuol
compiacersi di dirmi più chiaramente perché le preme il Padre
Cristoforo, spero di poterle dare tutte le cognizioni che posso averne io
medesimo».
—
Sempre politico il Padre Provinciale, — disse in suo cuore, il Conte. — Eh
già gli sanno cavare dal mazzo. — E tosto rispose ad alta voce:
«Ecco
il fatto, Padre molto reverendo. Questo padre Cristoforo non le ha dato
più volte da pensare per cavarlo da impegni in cui s'era posto per poca
prudenza, e per voglia di accattar brighe? Dica liberamente, non è un
cervello un po' caldo?»
—
Ho inteso, — disse fra sè, il Padre — è un impegno: Benedetto
Cristoforo! ma bisognerà sostenerlo. — E rivolgendosi al Conte rispose,
indirettamente al solito:
«Liberamente,
com'Ella desidera le dirò che il nostro Padre Cristoforo, l'ho sempre
conosciuto per buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi doveri di
cappuccino irreprensibile».
—
Ah! Ah! — disse ancora fra sè il Conte — bisogna dunque tirarti con gli
argani! — E con le labbra disse al Padre: «Ella sa pure che siamo amici, e fra
noi non si deve parlare politicamente. Io sono informato molto bene che questo
religioso è un po' inquieto, ama di comprarsi le quistioni, e di cozzare
con le persone di qualità. Cose che non vanno bene, non vanno bene,
Padre molto reverendo: Ella conosce il mondo, e m'insegnerà che queste
cose non vanno bene».
—
È tutta mia colpa, — disse sempre in soliloquio il Padre; — doveva
pensare che quel benedetto Cristoforo con quel suo fuoco mi avrebbe strascinato
in qualche impiccio: lo sapeva che era un uomo da far girare di pulpito in
pulpito, e da non lasciar mai quieto per tre mesi in un convento vicino a case
di signori. Ma vediamo in che stato è la cosa, e come si può
rimediare. — E per pigliar tempo, rispose al Conte:
«Se
Vostra Eccellenza è informata di qualche mancamento di questo padre, Le
sarò grato di farmene partecipe, acciò ch'io possa mettervi
rimedio».
«Pensieri
degni della sua prudenza, padre molto reverendo: principiis obsta. Ecco
il fatto, senza andirivieni. Questo religioso ha preso a cozzare con mio
nipote, e la cosa potrebbe farsi più seria. Senza parlare di me, che ho
troppa venerazione per Vostra paternità e per tutta la compagnia, per
fare nulla senza sua intelligenza in questo proposito; mio nipote ha molte
aderenze. Quand'anche io non me ne volessi impacciare, i parenti di padre e di
madre... sono persone... sono famiglie...»
«Cospicue»
disse il padre.
«E
accreditate», continuò il Conte: «e mio nipote ha il sangue caldo. Io le
parlo da buon amico. Mio nipote è giovane, e questo religioso, da quel
che sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi diede un'occhiata
per lasciar supporre al padre che vi erano notate di gran cose, e
continuò con un'aria misteriosa: «questo religioso ha ancora tutte le
inclinazioni della gioventù. I giovani non hanno giudizio, e tocca a noi
che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh?...»
«Eh!
pur troppo», disse il padre.
Chi
fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel momento una
mutazione curiosa nel volto dei due personaggi, che per la prima volta prendeva
l'espressione d'un sentimento sincero: qui non avea luogo la politica, e il
cuore parlava.
«Ella
è così, padre», continuò il Conte. «Tocca dunque a noi il
rappezzare gli sdruciti che i giovani fanno».
«Tra
me e lei (così disse il signor Conte) tra me e lei si potrà sopir
l'affare».
Queste
parole furono molto gradite al Provinciale. È vero, ed ognuno lo sa, che
a quei tempi i membri d'una congregazione religiosa erano affatto indipendenti
da ogni podestà secolare, e non avevano quindi nulla a temere da essa. E
quando questa si trovava in collisione con alcuno di loro, e voleva prescrivere
qualche cosa, la più forte, la sola minaccia che usasse e che potesse
usare si era che avrebbe richiesto al papa che i renitenti, quelli che avessero
contrafatto agli ordini fossono mandati fuori dello stato come diffidenti di
S.M.; il che si può vedere nelle gride contra gli omicidi, banditi, i bravi,
dove questa minaccia è fatta ai regolari che gli ricoveravano, e
ponendoli così in luogo d'asilo gli involavano dalle mani della forza
secolare. In un'epoca posteriore fu pensato al modo di render più forte
questa minaccia, e di estendere la pena; e questo sforzo merita d'esser
ricordato e come un attestato insigne della impotenza della forza civile a
raggiungere gli ecclesiastici, e come un esempio notabile di stolta e feroce
iniquità. L'onore di questo trovato appartiene al Signor Don Luigi de
Revavides, Marchese di Fromista e Caracena Conte di Pinto. Estese egli questa
minaccia d'esser trattati come diffidenti di S.M. anche ai parenti più
prossimi di quegli ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed
immuni certi banditi. 23 Agosto 1651, ed altre. Ma i modi di nuocere non erano
quegli soli che le grida prescrivevano, e la inimicizia di un uomo, e di una
famiglia potente era un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di disturbi. Il
Provinciale si trovò dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir
l'affare; non si trattava più che del modo di farlo, con la convenienza
delle due parti. E siccome la cosa non aveva fatto grande scandalo, e si
trattava più d'antivenire che di riparare, così la cosa non era
difficile. Dopo che i due sorboni ebbero ancora molto interrogato, poco
risposto, mercanteggiato, e giuocato di scherma, il Padre Provinciale disse al
Conte che per considerazione della persona di Lui, per amor della pace egli
trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in un altro lontano, con la
condizione che nessuno si vantasse di questo come d'una vittoria: e il Conte lo
promise; l'affare fu conchiuso, e i due contraenti si separarono contenti l'uno
dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.
Gran
cura ponevano quei vecchj pensatori in un negozio, di gran parole spendevano,
ci pensavano assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo conveniente;
ma bisogna anche confessare che facevano poi cose grandi. In fatti questo
abboccamento produsse l'effetto di fare trottare il nostro povero Padre
Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio.
Fu
dunque spedita al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e
con l'obbedienza l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della strada da
farsi per non toccare Milano, e l'avviso di dargli un compagno nella missione,
che nello stesso tempo osservasse tutte le sue azioni. Mentre il nostro povero
Frate pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo
chiamò a sè, e con molta consolazione gl'intimò l'obbedienza,
gli comandò di prendere il suo bordone, gli presentò il compagno
che era già avvertito, e gli disse «vade in pace». Cristoforo non
pensò nemmeno a domandare un rispitto che era certo di non ottenere:
pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto si accusò di
aver mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa;
alzò gli occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla
provvidenza; salutò umilmente il guardiano, prese la sua sporta, si
cinse le reni con una correggia di pelle come usavano i cappuccini viaggiatori,
disse una parola cortese al padre compagno, uscì del convento, e si pose
su la via che gli era stata prescritta.
CAPITOLO IX
Quando
Egidio si avvenne nella nostra povera Agnese, andava appunto fantasticando sul
modo di soddisfare al più presto ai desiderj del suo degno amico, e di
dargli con la prontezza del servizio una prova di audacia e di destrezza
singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa Agnese gli si
gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento. Come staccare da essa
Lucia che le stava sempre appiccata alla gonnella? Rapire Lucia quando fosse in
compagnia della madre era esporsi ad un vero scandalo: la resistenza che la
madre avrebbe tentato di opporre poteva render necessaria qualche violenza che
avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe fatto perder tempo,
forse sfuggire l'opportunità; le sue grida potevano attirare dei
guastamestieri, o almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo in Monza
avrebbe sclamato, ricorso, parlato e fatto parlare. Al contrario quando Lucia
non avesse in paese persona a cui calesse di lei particolarmente, i discorsi
sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura
quella spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire.
Si andava dunque Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata
da Monza, ma non sapendo quando ciò fosse per accadere, si rodeva di
dover rimettere ad un tempo non ben determinato l'impresa e l'onore dell'impresa.
Ma alla vista di Agnese che tornava a casa, Egidio si sentì libero d'una
grande incertezza, risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a
Monza, e continuò a maturare il suo disegno: i suoi pensieri camminavano
più spediti, e per mettere del paro ad essi il suo cavallo gli diede una
voce ed un colpo di sprone, dicendo ai seguaci a piedi che erano obbligati di
trottare un po' affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata è
bella». Giunto a Monza, entrato in casa, scavalcato, deposte le armi più
gravi e più lunghe, egli corse tosto per la via da lui solo conosciuta
alla porta abominevole che egli aveva aperta nel solajo, entrò con le
solite precauzioni nel solajo dell'abitazione vicina, fece i soliti segni, la
signora che stava sull'avviso, intese, avvertì le sue complici; le quali
andarono a chiudere le porte del quartiere che comunicavano col chiostro, e la
sciagurata corse incontro ad Egidio tutta ansiosa.
«Sia
lodato il cielo» diss'ella «che vi riveggo! Oh che giorni ho passati! e che
notti! Che paura ho avuta questa volta!» e mentre ella parlava una specie di
consolazione angosciosa, e di rincoramento agitato dipingevano sulle sue guance
come due pezze di rossore che contrastavano tristamente col pallore di tutta la
faccia.
«Le
solite sciocchezze?» disse Egidio con impazienza.
«Oh!
sciocchezze! So io quel che soffro; e fossero anche sciocchezze, a chi tocca
aver compassione di me? Mai mai, non avete voluto compiacermi. Se provaste
un'ora quello ch'io sento tutto il giorno! tutta la notte! Non posso
più, non posso più vivere con colei così vicina. Qua
giù, qua sotto, a pochi passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci
siete...! l'ho veduta sempre, sempre: l'ho veduta smuovere a poco a poco il
mucchio di sassi, e poi metter fuori il capo, e poi venir su... avrei gridato
se non avessi temuto di far correre tutto il monastero... e poi entrare qua
dentro per questo pertugio, senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui...
quello sgabello son ben sicura d'averlo bruciato: e pure quando colei arriva,
si trova sempre a quel posto, ed ella vi si adagia, e non vuol partire. Mi pare
che se fosse lontana dove io non sapessi, non potrebbe venire così a
tormentarmi».
«Donne
indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le accoglienze gioconde
che mi fate».
«Non
andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho io? a chi mi posso
confidare?» e continuò con voce più sommessa, «quelle altre non
mi consoleranno, vedete, se racconterò loro che siete in collera con me,
state in pace, e fatemi questo piacere una volta. Voi sapete far tante cose!
Non sarete più contento, quando mi vedrete tranquilla?»
«Ma
sono queste cose da pensare, e da dire?» rispose Egidio. «È un affare
finito, che non dà più impaccio, e volerne andare a cercare uno
di questa sorta? perché? per una pazzia? Che volete ch'io faccia? Ch'io desti
il cane addormentato? Senza una ragione al mondo? come l'ho da portare? dove?»
«Scendete
una notte solo», disse Geltrude, «già voi non avete paura, — fortunati
gli uomini! — prendetela portatela al fiume, gittatela in un pozzo
abbandonato...»
«Bel
divertimento! bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di rabbia e di
scherno «bella commissione che mi date! Pazzie! E tutto per tirar fuori quello
che è ben nascosto! Savio disegno! Sapete voi dirmi un luogo dove possa
star più nascosta che ora non è?»
«È
vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che fare d'un morto!»
«Che
farne?» rispose Egidio, «niente: sta bene dov'è. Dimenticatela, pensate
quello che pensano tutte le vostre suore: è andata alle Indie su una
nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo credono tutti...»
«Ma
non è vero», rispose Geltrude.
«Che
fa questo?» disse bruscamente Egidio.
«Fa
tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io
prima... credeva che purché lo sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non
fosse avvenuta, ma ora...»
«Ora
è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio.
«Oh
ecco come son trattata!» disse con accoramento Geltrude; «mi strapazzate perché
patisco; siete voi quello che mi strapazzate, voi... Che colpa ho io se sono
una poveretta? Vorrei anch'io non curarmi di nulla, esser come voi... voi siete
un uomo, voi mi date animo... ma no no... voi avete troppo coraggio, troppa
presenza di spirito... mi fate quasi... paura... penso... penso che se... mi
odiaste... ah i morti non vi danno travaglio!»
«Che
pazzie! che pazzie!» disse Egidio con istizza sempre crescente.
«Ebbene»,
disse Geltrude in tuono supplichevole, «compiacetemi, levatemi questa spina del
cuore, allontanate colei da questa abitazione; voi vedete ch'io non posso
allontanarmi io».
«Via»,
rispose Egidio, fingendo di acconsentire alla domanda «vi compiacerò;
è un impiccio, è un fastidio, è un pericolo, ma per voi lo
farò».
«Oh
davvero!» disse Geltrude, «non lo dite per acquetarmi, come avete fatto altre
volte... vi ricordate?... promettetelo da vero».
«Possa
essere...!»
«Non
giurate, per amor del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata; «non fate
imprecazioni, perché noi siamo in uno stato che una picciola parola può
bastare... potrebb'essere intesa ed esaudita in quel momento che la
proferiamo».
«Via
ve lo prometto da uomo onorato», rispose Egidio, affettando
tranquillità: «ve lo prometto; e non se ne parli più. Ho bisogno
anch'io che voi mi compiacciate in un affare d'importanza; e non mi si deve
dire di no, non si deve opporre nemmeno un dubbio».
«Che
posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella
villanotta che v'è stata data in guardia», rispose Egidio, «quella
Lucia...»
«Ebbene?...»
«Ho
promesso di consegnarla ad un amico al quale non voglio né posso rifiutar
nulla; e voi dovete darmi ajuto a liberarmi dalla mia parola».
A
questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza, le presse al
petto, si strinse tutta, levò al cielo uno sguardo nel quale brillava
momentaneamente un raggio dell'antica innocenza, e con voce supplichevole e
commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più
per pietà. Chi sa che quel che abbiamo fatto non possa ancora essere
perdonato? V'era, una scusa, ma qui non ve n'è. Perché fare ancora delle
cose, che si vorranno dimenticare e non si potrà? Non ne abbiamo
abbastanza?»
«Ah!
ah!» rispose Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi
nascono gli scrupoli eh! Più conto fate d'una villana, che conoscete
appena da otto o dieci giorni che di me. Questa è quella che voi amate».
«Io
amarla!» rispose Geltrude, «io colei! non la posso soffrire, è una
superba, non fa che parlare della sua innocenza, e quando ne parla mi guarda
con certi occhi come se sapesse qualche cosa, e fingendo rispetto volesse
insultarmi. L'ho accolta, sapete, perché bisogna nel nostro stato farsi
più amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per
carità, questa lasciatemela, mi diventerà cara, e quando un altro
pensiero verrà a tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei,
e dirò fra di me: — ecco, anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed
è qui».
«Pazzie,
pazzie», disse Egidio: «parlate come una bambina sciocca. Lasciate che sul
principio si lamenti e un giorno poi riderà dei suoi terrori, e
sarà contenta».
«No,
non sarà contenta», rispose Geltrude con la rapida risoluzione di chi ha
il vivo sentimento che le parole che ha udite sono menzogne.
«Va
bene, va bene», disse Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte
diabolicamente affettato: «non ne facciamo più: e già vedo che
non possiamo andar d'accordo: è tempo perduto con voi: siamo troppo
differenti nel pensare: ma a tutto si può rimediare; i mattoni son
lì tutti come contati; e ad ogni volta mi dò la briga di riporli
al loro posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro sta come
prima, tutto è finito».
«No,
no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete ch'io faccia?»
«È
vero», continuò l'uomo abbominevole, come se persistesse nel suo
proposito, «è vero che vi sono anche quelle altre...»
«Zitto,
zitto per pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi
diventare il ludibrio di quelle...»
«Quelle,
quelle» riprese Egidio «saranno certamente più pronte a rendermi un
servizio».
«Dite,
dite, che volete ch'io faccia?»
«Chiamatele»,
rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il mezzo di condurre a capo
questa grande impresa».
«Dite...»
«Chiamatele,
dico», riprese Egidio, e Geltrude strascinata ancora una volta un passo
più innanzi nella via della perversità, avvezza ad ubbidire,
ubbidì e andò a chiamare le sue complici. Egidio sapeva quello
che aveva detto; e quelle due sciagurate erano in fatti più tranquillamente
e più risolutamente perverse di Geltrude. Geltrude dei loro discorsi,
del loro contegno sentiva talvolta orrore, disprezzo, ne riceveva una specie di
scandalo; ma questi sentimenti ricadevano terribilmente su la sua coscienza,
perché ad ogni volta Geltrude era costretta a ricordarsi che dessa era quella,
che aveva fatti far loro i primi passi nel cammino dove ora la precorrevano.
Non parlo che di questi sentimenti, perché gli altri tutti orribili e tutti
fastidiosi che dovevano nascere in quegli animi in quella situazione non sono
da descriversi: basti dire che con tante cagioni di vicendevole ripugnanza una
sola cosa le teneva unite, la partecipazione d'un sangue, l'avere una sola
coscienza: vivevano insieme come lo sbigottimento e l'audacia, il desiderio di
rimpiattarsi e il desiderio di assalire, il rimorso e il delitto vivono insieme
nell'anima d'un masnadiero.
Rivisitate
accuratamente le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi che fossero ben
chiusi, le tre sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo più rimoto
del quartiere dove Egidio le stava aspettando. L'orrendo concilio fu ragunato:
le sciagurate aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio avesse a
propor loro, e nello stesso tempo stavano col capo levato all'indietro
origliando se un qualche romore si sentisse, se qualche suora venisse a
bussare, per accorrer tosto, per intrattenerla con qualche pretesto prima di
aprire, e dar così tempo ad Egidio di sparire senza lasciare alcun
sospetto. Egidio espose loro in due parole il suo desiderio: ch'egli aveva bisogno
di tenere Lucia per servire un suo caro amico, che esse dovevano dargli ajuto,
che la cosa doveva esser fatta presto e in modo che il sospetto non cadesse né
sovra di esse né sovra di lui.
In
una brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi, ognuno
diventa più onesto, il sentimento comune rinforza quello d'ogni
individuo che parli, le parole d'ognuno divengono più rigide, più
degne, più scrupolose, suppongono sempre un convincimento profondo della
persuasione della virtù; e così pur troppo, in una brigata di
tristi, ognuno diventa più tristo, perché chi ragiona dinanzi ad un
uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente parlando, non teme nulla
più che di stonare dagli altri. Geltrude che alla prima proposta di quel
fatto, ne aveva conceputo tanto orrore, risoluta ora di obbedire allo spirito
infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri mostrasse più
ardore, più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude
avvezza ad essere strascinata, e a far sempre qualche cosa di più di
ciò che sul principio aveva ricusato di fare, rispose tosto che pigliava
essa l'impegno, che ne aveva i mezzi più di chicchessia. Le altre triste
protestarono tosto che esse erano pronte a secondarla in tutto. Egidio le
chiese se essa avrebbe saputo far andare Lucia sola in una strada solitaria.
«Domani», rispose Geltrude. «Domani è troppo presto», disse Egidio; «la
rete non potrà esser tesa che dopo domani». «Dopo domani», rispose
ancora Geltrude. La congrega si sciolse, ed Egidio corse tosto a spedire un
messo al Conte del Sagrato, per chiedergli i bravi dei quali avevano convenuto.
Il messo partì nella notte stessa, giunse all'alba al castello; il Conte
diede tosto gli ordini ai bravi che dovevano andare all'impresa: impose loro di
obbedire ad Egidio, e di non nominarlo, di aspettare i suoi comandi, e di non
andare a casa sua né di cercarlo in alcun luogo, e i bravi scesero all'Adda, e
s'imbarcarono. Nello stesso tempo spedì egli una carrozza leggiera da
viaggio con un cocchiere quale conveniva a tal signore; gli ordinò di
farsi tragittare su un altro punto del fiume, di non mostrare di avere alcuna
relazione con quegli altri amici che partivano, di appostarsi vicino a Monza
nel luogo che era indicato nella lettera di Egidio, e di aspettare pure gli
ordini di questo.
Quanto
alle ciarle da spargersi per via e alle fermate, onde far stornare dal vero le
congetture dei curiosi, il Conte ne lasciò l'invenzione alla prudenza,
ed alla sagacità dei suoi uomini; perché gli aveva scelti tra i
più provati, e più destri, e tali che sapessero conformare la
condotta e i discorsi alle circostanze che egli non poteva prevedere.
Contemporaneamente, a paro per un'altra via il messo di Egidio tornò al
suo padrone, e gli portò la risposta nella quale il Conte, con un gergo
da loro soli inteso lo avvertiva di ciò ch'egli aveva ordinato. Egidio,
lasciato riposare il messo, lo rispedì alle poste dov'erano giunti gli
uomini del Conte, e li fece istruire di ciò che avevano a fare. Tutta
quella giornata fu spesa in preparativi. Il giorno appresso (la nostra storia
lo registra, ed era il ventuno di novembre) Egidio diede avviso a Geltrude che
tutto era in pronto, e ch'ella dovesse mantenere la sua parola, operar tosto
secondo le istruzioni ch'egli le aveva date.
Geltrude
scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare Lucia. La nostra poveretta
innocente corse volonterosa alla chiamata. Dopo la partenza della madre,
rimasta come smarrita, senza consiglio, senz'altro appoggio che quello della
Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso di lei. Ben è vero
che quel non so che d'inusitato e di strano ch'ella aveva trovato nei discorsi
e nel contegno di essa gli aveva lasciata una impressione d'incertezza e quasi
di timore, ma ella era tanto lontana dal sospettar pure le vere cagioni di
quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre l'avevano rassicurata; e
Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori erano molto
differenti dai poverelli. Si presentò ella dunque a Geltrude con quell'aria
di fiducia affettuosa, con quella gioja riconoscente, che il debole sente alla
presenza del forte che è per lui; le andò incontro, come la
pecora va incontro al pastore che le si avvicina, che allontana le altre e
stende la mano per accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato
fuori del pecorile il beccajo a cui l'ha venduta in quel momento.
La
festa ingenua di Lucia, e la sua aria fiduciale era un rimprovero e una
distrazione terribile per la Signora, la quale tosto interruppe alcune semplici
parole di affetto e di riconoscenza che l'innocente tutta peritosa aveva
incominciate, protestò di non voler ringraziamenti, e postasi in aria di
premura e di mistero le annunziò che l'aveva fatta chiamare per
comunicarle cose molto importanti. Lucia si fece tutta attenta, e Geltrude
ripetendo la lezione del suo infernale maestro cominciò ad
impastocchiarla con una storia misteriosa, di pericoli, e di speranze, di mezzi
posti in opera da lei, di ostacoli, di ajuti, tutto per liberare Lucia dalla
persecuzione di Don Rodrigo, e per farla essere tranquillamente sposa di Fermo:
accennando molto di più che non dicesse, e allegando motivi di prudenza
per non dir tutto, ripetendo ad ogni momento che un po' di coraggio e molta
precauzione poteva tutto salvare, e una picciola indiscrezione perder tutto;
che l'occasione era pronta, e per coglierla non bisognava perder tempo; e
terminò con dire che le bisognava in quel momento un uomo da cui potesse
aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto operoso, che il solo uomo del mondo
che fosse da ciò era quel padre guardiano dal quale Lucia era stata
scorta al monastero; che ella aveva bisogno di parlare con lui ma che le
mancava il mezzo di farlo avvertire con sicurezza, giacché dopo d'aver riandate
tutte le persone, tutti i modi per questa spedizione, trovava in tutti il
pericolo di farsi scorgere, di sventare il segreto, di metter sull'avviso
quelli a cui importava il più di tener tutto nascosto, e di perdere
così l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che insomma
per condurre bene a fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse un
po' di risoluzione, si snighittisse, e facesse tosto, e segretamente e sola
questa commissione. Lucia a questa proposta rimase sopra di sè, poiché
allontanarsi dal monastero, andarsene soletta per un paese che era per lei come
l'America, era un gran pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando
non si vorrebbe aderire ad una proposta: si mise a discuterla, per poter
conchiudere che non era la sola cosa da potersi fare: disse che la Signora
avrebbe potuto trovare altre persone fidate e discrete, domandò
schiarimenti, volle sapere più addentro come la commissione fosse
necessaria, e come essa fosse la sola che la potesse eseguire. Ma la Signora
memore sempre della scuola di Egidio, mostrò prima di offendersi,
rispose ancor più misteriosamente alle domande, lagnandosi di Lucia che
pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non poteva, e che non volesse
fidarsi di chi senza un interesse, per pura pietà si prendeva tanta cura
di lei; e conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io la buona donna a
pigliarmi di questi travagli: si tratta di voi, finalmente; io me ne lavo le
mani: ho fatto ancora più ch'io non dovessi». Lucia commossa in un punto
di vergogna e di timore, stava per piangere; e la signora vedendola arrivata a
quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più
amorevolmente, la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le
sarebbe mai mancata se ella avesse avuta fede in lei; e infervorata com'era
nell'impresa di tradire la poveretta per servire lo scellerato Egidio, con
ipocrisia sfrontata le disse che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un
giorno a se stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il
mezzo della salute, e rovinata se stessa, la madre, e l'uomo a cui ella s'era
promessa. Lucia non seppe più resistere, si accusò di aver
resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando
quello che le era offerto, piena di una novella fiducia disse: «vado tosto».
Geltrude l'accomiatò, lodandola, facendole animo, e ripetendo le
più liete promesse e indicandole la via per andare al convento. Lucia
ritenendo a forza il pianto chiese scusa alla Signora della sua poca fede, e
della sua ingratitudine. «Sono una poveretta senza pratica», diss'ella; «ma
già ella tutte queste brighe non se le deve pigliar per me, ma per
Quello di lassù, che gliele rimeriterà tutte», e abbandonandosi
alla grata, colle braccia tese, continuò: «se non fossero questi ferri,
mi pare che le getterei le braccia al collo, ed ella non se lo avrebbe a male,
perché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore».
«Sì
sì, Lucia, addio, addio», disse Geltrude.
«Dio
la benedica» rispose Lucia, e staccatasi dalla grata, si volse, e si
avviò verso la porta del parlatorio.
—
Che orrenda parola! — disse in suo cuore Geltrude: Dio gliele
rimeriterà tutte, e alzando gli occhi vide Lucia, che stava per
passare la soglia. Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni di
Geltrude, questa, impegnata ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla
disputa stessa non aveva pensato ad altro che a giungere al suo fine, ma quando
vide il cangiamento di Lucia, quando vide la sua fede sicura, intera, amorosa,
e pensò che la tradiva, quando vide la vittima andare così senza
sospetto all'orribile sagrificio, un sentimento improvviso, indistinto,
irresistibile le fece pronunziare quasi macchinalmente queste parole: «Sentite
Lucia». Lucia ristette, si rivolse, ritornò alla grata. Ma, nel momento
che Lucia spese a fare quei pochi passi, l'immaginazione di Geltrude aveva
già veduto Egidio furibondo per essere stato ingannato, aveva già
udite le sue imprecazioni, le sue minacce, s'era già pentita del suo
pentimento, e quando Lucia ristette alla grata per intendere ciò che
Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude confermata nella iniquità:
«senti Lucia», le disse, «ricordati bene di tutte le avvertenze che ti ho date;
procura di tirarti in mente la strada che tu hai fatta venendo qui; se fossi in
dubbio, domanda con indifferenza e con franchezza a qualche buona donna che
passi per via; va in modo di non dar sospetto: fatti animo, ché già non
è il viaggio di Madrid: va e torna presto».
«Oh»,
disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse di nuovo, s'avviò
verso la porta, e passò la soglia. Geltrude corse a chiudersi nella sua
stanza. Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il resto del
manoscritto ne fa più menzione. Noi però, trovando descritti dal
Ripamonti gli ultimi casi di questa sventurata, stimiamo che monti il pregio
d'interrompere un momento la narrazione principale, per accennarli. Ci sembra
anzi una specie di dovere per noi, quando abbiamo raccontati i delitti, di non
tacere il pentimento, di non tacere che l'orrore a noi così facilmente
ispirato da quelli, la religione ha potuto ispirarlo ancor più forte e
più profondo all'anima stessa, che gli aveva acconsentiti e commessi.
Riferiremo quei casi in compendio; chi volesse conoscerli più in
particolare, li troverà esposti in bel latino nella Storia patria
del Ripamonti, al libro sesto della quinta decade. Siccome egli non vi pone
alcuna data, così non possiam dire di quanto sieno posteriori alle cose
già da noi narrate.
La
condotta, il linguaggio, l'aspetto abituale delle tre sciagurate suore, le loro
stesse precauzioni, per distornare i sospetti, ne fecero, com'era naturale,
nascere dei nuovi, che dopo d'aver serpeggiato nel monastero, si diffusero al
di fuori. Due vicini di quello che ebbero la sciagura di ricevere qualche prima
confidenza di quei sospetti, un fabbro ed uno speziale, accennarono
copertamente in qualche discorso, che in un monastero del paese accadevano cose
orrende e turpi: l'uno e l'altro furono trovati uccisi. Un terrore misterioso
invase tutti gli animi nel monastero e fuori; ai susurri che già
cominciavano a farsi sentire nelle brigate, successe un silenzio cupo e
significante, e nelle relazioni più intime, gli sguardi, i cenni, le
parole sospese esprimevano o accennavano un sospetto e uno spavento comune.
Questi romori così vaghi e generali com'erano, furono riferiti al
cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano. Egli dolente e turbato
d'essere così tardi avvertito, si portò a Monza sotto colore
d'una visita generale, e venne a colloquio colla Signora, per esplorare dalle
sue parole lo stato dell'animo suo; e ne uscì con più grave e
più fondato sospetto. D'allora in poi, la Signora, irritata dai sospetti
che vedeva starle sopra, agitata dalle certezze della coscienza; esaltata per
così dire dal suo stesso turbamento, perdè tutta la prudenza
della colpa, le sue azioni divennero affatto indisciplinate, i suoi discorsi
strani, furiosi, inverecondi. La giurisdizione criminale su le persone addette
allo stato religioso era allora esercitata dai vescovi. Il cardinale fece torre
la Signora da quel monastero, e trasportarla in un convento di convertite nella
città. Ivi l'infelice infuriò per qualche tempo: tentò di
fuggire, tentò di uccidersi, ricusò il cibo, diede del capo nelle
muraglie; urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale:
contra il quale tale era l'odio di lei, ch'ella ebbe a dir poscia che tutte le
inimicizie che gli uomini chiamano mortali, erano un giuoco appo di quella
ch'ella sentiva per lui.
Intanto
lo scellerato vicino ripose il piede nel monastero, e parte colla persuasione,
parte colle minacce astrinse le altre due sue vittime a seguirlo, e di notte
con esse fuggì. Ma, o fosse disegno premeditato di quell'animo atroce, o
ebbrezza di scelleraggine, poco distante dal paese, in riva al Lambro, una dopo
l'altra le trafisse con un pugnale, gittando l'una nel Lambro, e l'altra in un
pozzo rasciutto ed abbandonato nei campi. Ma le ferite non furono mortali, ed
entrambe le donne furono salve per diversi eventi e rinvenute, e riposte a
guarire in un altro monastero del borgo.
La
Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si
mutò; rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore
ineffabile, in lagrime inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel
momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno
ciò che non poteva più riparare. Il Cardinale ch'ella
chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch'ella
esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò
sovente. Pagò egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i
parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi da
dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne
parlare. Le due compagne la imitarono nella penitenza. Ma il miserabile
pervertitore di tutte, bandito nella testa, dopo d'avere errato qua e
là, cangiato più volte d'abiti, e di nome, chiese asilo in
città ad un amico, che lo accolse; ma come amico d'un tale uomo, o per
timore, o per ottener grazia di qualche altro delitto, lo fece uccidere in un
sotterraneo della casa, e presentò la sua testa al giudice, come era
prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso dei banditi
costituivano carnefice ogni cittadino, e offerivano o danari, o impunità
per altri delitti in mercede all'assassinio.
---------
Lucia
uscì nella via, e s'incamminò con grande attenzione, con gran
riserbo, con un gran battito al cuore, tutta raccolta in sè, studiando
la strada, con le indicazioni che aveva avute, e con la memoria che le restava
della strada già fatta. Giunse così all'uscita del borgo (perché
il convento dov'ella s'avviava era al di fuori in picciola distanza): riconobbe
la porta per dov'era entrata la prima volta, e prese a sinistra la via che
l'era stata insegnata.
Tutte
le strade del Milanese erano a quel tempo anguste tortuose, e nel pian paese
profonde e come quivi si dice invallate, a guisa di un letto di fiume, fra due
rive di campi alte non di rado un uomo, e orlate di piante che intrecciate al
pedale di rovi, di biancospini, e di pruni riunivano in alto i rami loro in
volta dall'una all'altra parte: e tali sono ancora in gran parte le strade
comunali. Quando Lucia si trovò soletta in una strada simile, si
pentì quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo per
giunger presto, proponendo fermamente di non ritornar dal convento a casa senza
una qualche scorta. Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una carrozza
da viaggio ferma nel mezzo della via, e fuori della carrozza innanzi allo
sportello che era aperto due uomini che guardavano su e giù per la via
come incerti del cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali
vanno in carrozza sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e
le parve d'aver trovata una salvaguardia alla metà appunto del cammino,
nel luogo più lontano dall'abitato, e dove il bisogno era più
grande.
Continuò
adunque più animosamente a camminare; e quando fu presso alla carrozza
tanto che si potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che stavano
al di fuori dire con una pronunzia e con un linguaggio che lo fece conoscere a
Lucia per bergamasco: «Ecco una buona donna che c'insegnerà la strada».
Giunta a paro della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto più
cortese che non fosse la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste voi
insegnarci la strada di Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto
dinanzi a Lucia in modo da sbarrarle la via, ma come un uomo che sta per udire:
«Loro signori», rispose Lucia, «sono voltati a rovescio: Monza è per di
qua» (alzando la mano e stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino
la carrozza, e vadano per questa strada, e saranno a Monza in poco più
d'un miserere». Così detto, voleva continuare il suo cammino, e
s'avvicinava alla riva per passare senza urtare quel forastiero che stava
lì ritto come un termine, e senza dirgli che facesse largo, cosa che
alla nostra povera forese sarebbe sembrata troppo famigliare. «Un momento»,
disse colui che le aveva già parlato, ritenendola dolcemente: «noi siamo
ben impacciati in queste strade dell'altro mondo: non potreste voi farci la
cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci la strada fino a Monza?»
«Signori
miei», disse Lucia arrossando, e maravigliandosi della proposta, «io ho fretta
d'andare pei fatti miei; vadano per di qua, e non possono fallire». «Voi siete
bene schifa», rispose il malandrino, e mentre egli proferiva queste poche
parole, l'altro che era nella via, afferrò d'improvviso Lucia pei
fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza nella
carrozza, dove fu tosto presa, ritenuta, posta a sedere da due che vi erano: il
malandrino che aveva parlato la seguì, l'altro chiuse lo sportello, e il
cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo. Lucia
al sentirsi presa levò un grido, lo raddoppiò quando si
sentì alzata e ficcata nella carrozza, ma quando vi fu, una manaccia
villana le cacciò un fazzoletto sulla bocca, e le soffocò il
grido nella gola: Lucia si divincolava ma era tenuta da tutte le parti, faceva
forza per pingersi verso lo sportello, per farsi vedere alla strada, ai campi,
ma due braccia nerborute la tenevano per di dietro come conficcata al fondo
della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano per dinanzi, mentre
tre bocche d'inferno dicevano con la voce più dolce che era lor concesso
di formare: «Zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi male; non
è niente, non è niente». Lucia tra per la sorpresa, tra per lo
terrore che andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti
orrendi che le passavano in furia per la mente, tra per lo sforzo che faceva e
quello che pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue idee si abbujarono,
cominciò a veder come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le
stavano dinanzi, un sudore freddo le coperse il volto, allentò le
braccia, lasciò cadere indietro la testa, abbandonò la persona al
fondo della carrozza, e svenne.
«Coraggio,
coraggio» dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più nulla.
«Diavolo!»
disse uno dei malandrini; «par morta».
«Niente,
niente», disse un altro, «ci vorrebbe un po' d'aceto da mettergli sotto il
naso».
«È
lì covato l'aceto...» disse il terzo: «se potesse servire quel fiasco di
vino che è riposto lì sotto il sedile».
«Che
vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere».
«Vedete
che mala ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi arso di sete in una
osteria disabitata, a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto ci
vorrebbe...»
«Taci
gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo.
«Ohe!»
disse il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero avremmo
fatta una bella spedizione».
«Noi
abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo; «se fosse
accaduta una disgrazia non è nostra colpa».
«Che
morta?» disse il terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto:
eh! le donne ne hanno per meno d'assai: or ora tornerà in sè».
Mentre
quegli sciagurati tenevano questo consiglio, ed esprimevano la loro
inquietudine in uno stile degno del loro animo, la carrozza era uscita dalla
via più battuta, aveva imboccata una stradella di traverso pei campi, e
continuava rapidamente il suo cammino.
Intanto
colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio rimasto nella strada
quando la carrozza partì, si guardò intorno, e certo che nessuno
lo aveva scorto spiccò un salto sul pendio d'una riva, abbrancò
un ramo della siepe, con un altro salto fu sull'alto della riva, e si
appiattò in un polloneto di castagni che conservavano ancora tanto delle
lor foglie da nascondere un birbone. Il primo grido di Lucia era stato inteso
nei campi di qua e di là da pochi lavoratori che v'erano, e questi
accorsero alla riva per guardare nella strada che fosse, ma cercando di
adocchiare nascosti dalla siepe per non entrare in qualche impiccio, per non
toccarne, per non essere citati come testimonj, per non arrischiarsi in somma,
che è il pensiero il più comune nei tempi in cui i violenti fanno
la legge. Mettevano la faccia ai fori della siepe e guatavano: altri vide una
carrozza che si allontanava di galoppo, e stette lì qualche tempo a seguirla
col guardo a bocca aperta; altri non vide nulla e si fermò pure qualche
tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui la carrozza non era
ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca d'arcobugio che
usciva dallo sportello, e si ritirò tosto, fingendo di non aver nemmeno
badato. Tornati poi a casa, raccontarono quello che avevano veduto, e si sparse
la voce che qualche cosa era accaduta. Il bravo d'Egidio quando sentì
tutto quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava
su una via diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità
se ne andò a render conto al padrone dell'esito felice della spedizione.
Egidio lo ricompensò di quattrini e di lodi, e lo mandò tosto
attorno per raccontare la novella nel modo che ad entrambi e ai loro amici
conveniva che fosse creduta, o almeno per confondere il giudizio pubblico e
stornarlo dalle congetture che potevano condurlo alla verità. Il bravo
tolse con sè, senza saperlo, quella dea che ha tanti occhi quante penne,
e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere una bella dea) e si avviò.
Il campo più opportuno ad un tal uomo e ad un tale ufficio, la taverna,
era allora deserto a cagione della carestia che di giorno in giorno cresceva e
si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e bere non era
più per nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per tutti un
bisogno difficile da soddisfare. Andò dunque in su la piazza, luogo
sempre popolato di oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in
cui erano forzati all'ozio anche i più operosi. Quella piazza di Monza
come tutte le piazze, tutte le vie, tutti i campi della Lombardia presentava il
più tristo spettacolo. Poveri di professione che dopo d'avere invano
domandato un soccorso ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila
l'uno appresso dell'altro appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di
tempo in tempo nelle spalle, aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella
destra, e tenendo stretta tra il braccio sinistro e le costole una arida
scodella di legno, aspettando l'ora d'andare a ricevere quel poco nutrimento
che si poteva distribuire alle porte dei conventi, dei monasteri, di qualche
facoltoso caritatevole. Qua e là crocchj di artigiani senza lavoro, di
contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati ma che in
quell'anno sapevano di dover combattere con la fame, tutti tristi, sparuti,
scorati: i più rubesti, i meglio pasciuti che si vedessero erano qualche
bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a cui servivano, e ai quali
nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un pronto
pagamento. I discorsi abituali di quei crocchj erano miseria e disperazione:
vociferazioni contra i fornaj e contra gli accapparratori, imprecazioni
mormorate sommessamente contro i potenti, contra i magistrati, racconti di
grano partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti
in altre terre dello stato. Pochi giorni prima una gran parte del popolo si era
sollevata in Milano; e dopo quel sollevamento estinto con le promesse, e
seppellito coi supplizj, si erano pubblicate leggi quali il popolo le
desiderava. Questo fatto era stato in tutta la Lombardia ed era ancora il
soggetto dei discorsi; e il fatto come le conseguenze era narrato diversamente,
come suole accadere: ognuno arrecava qualche nuova circostanza che dava luogo a
qualche nuova riflessione. Ma in quel momento in Monza l'avvenimento locale
occupava tutti i pensieri, e tutte le bocche: in tutti i crocchj si parlava di
Lucia. Il bravo si avvicinò ad uno di quelli, come uno sfaccendato, e
stette ascoltando. «Erano due carrozze di signori bergamaschi» diceva un
barbassoro, «accompagnate da uomini a cavallo: la giovane si mise a fuggire pel
campo di Martino Stoppa, ma fu raggiunta, e portata via di peso». E continuò
con voce più sommessa in aria misteriosa: «debb'essere qualche gran
tiranno bergamasco». «Io ho inteso da chi l'ha inteso da uno che v'era», disse
un altro, «che le carrozze erano tre, e che la gente le fece fermare; ma quei
signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi capite, i galantuomini hanno
dovuto dar luogo». «Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come le cose si
contano. A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la
giovane era daccordo, che si era trovata lì per andarsene, e che quegli
che l'ha portata via era un suo innamorato». «Oh», disse uno, «se la cosa fosse
così, se ne sarebbe andata senza schiammazzo». «No», rispose il bravo,
«perché aveva promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva
far credere di esser rapita. Così dicono quelli che pretendono d'essere
informati». «Ohe!» disse un altro barbassoro, «che la fosse una mostra per
ingannare i merlotti!» Questa opinione dopo un breve dibattimento prevalse;
perché essendo quella che supponeva nel fatto una malizia più raffinata,
veniva a supporre più fino accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse
rifiutata poteva passare per un semplicione da lasciarsi ingannare alle
più grossolane apparenze di virtù.
Quando
il degno servitore di Egidio vide che la sementa non era gittata in terreno
sterile e che avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo: «Oh
avete il buon tempo voi altri: per me m'accontenterei che sparissero tutte le
giovani purché venissero pagnotte abbastanza». Quegli altri ad uno ad uno se n'andarono
chi qua chi là a riferire la storia; si disputò assai; le
opinioni rimasero divise, ma la più preponderante fu quella che dava
occasione di ragionare profondamente sulle astuzie delle donne che fanno la
semplice, sulla dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta quella mozzina.
Il tiro della povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si riferirono
di lei mille altre astuzie. Il romore giunse ben presto al monastero:
già la fattora tornata a casa, non trovando Lucia, sulle prime pensò
ch'ella fosse andata alla Chiesa del monastero; non vedendola poi ricomparire,
stava per andarne in cerca, quando s'intese che Lucia era stata rapita, o si
era fatta rapire. Il monastero fu sottosopra. La Signora (quando ci siamo
rallegrati di non aver più a parlarne ci era uscito di mente che avremmo
dovuto far qui menzione di essa: ma ce ne sbrigheremo in due parole) la Signora
a tutto addottrinata fece le maraviglie, mandò gente in cerca, non volle
credere che Lucia le avesse fatto un tiro di questa sorta, disse che era pronta
a metter la mano nel fuoco per quella ragazza. Mandò finalmente a
chiamare il padre guardiano che gliel'aveva raccomandata. Ma il padre guardiano
al quale pure erano giunti i diversi romori del fatto era in istrada, per udire
dalla Signora come la faccenda fosse. La Signora si mostrò con lui come
con gli altri tutta maravigliata: disse che sperava ancora che Lucia verrebbe,
che sarebbe una di quelle tante ciarle che mettono attorno gli scioperati. «Se
m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non lo posso credere di quella ragazza. Ad
ogni modo io sono tanto più afflitta di questo tristo accidente, in
quanto io aveva pensato seriamente ad ajutare questa povera giovane, e credeva
di aver trovato ajuti nelle mie aderenze per metterla al sicuro dal suo
persecutore. Aveva anzi molto desiderio di sentire il parere del padre
guardiano, ma ora questi disegni non servono più a nulla».
È
chiaro che la Signora gittò queste poche parole, per potere in caso
spiegare la commissione da lei data a Lucia, se mai questa potesse un giorno
rivelarla; per potere allora far vedere che non era stato un pretesto per
allontanarla, e darla in mano ai rapitori. Ma della commissione la Signora non
ne parlò al guardiano; probabilmente perché non voleva che si dicesse
che Lucia si era posta su quella strada per suo ordine, e ne nascesse qualche
sospetto. Se questa fosse una storia inventata, non mancherebbe certamente
qualche lettore il quale troverebbe un gran difetto di previdenza nella
perfidia ordita da Egidio e dalla Signora, poiché se Lucia avesse un giorno
potuto parlare, se si fosse risaputo che quando fu presa ella andava per ordine
di Geltrude, quanto maggior sospetto non sarebbe caduto sopra di questa, per
avere essa taciuta al guardiano una circostanza tanto importante, della quale
doveva così ben ricordarsi, che non avrebbe certo dissimulata se avesse
operato schiettamente. Quei lettori i quali vorrebbero che in una storia anche
le insidie fossero fatte perfettamente, se la prenderebbero coll'inventore: ma
questa critica non può aver luogo perché noi raccontiamo una storia
quale è avvenuta. Del resto questo stesso difetto ci dà il campo
di porre qui una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo
racconto: che è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice
del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai
tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre qualche traccia
della mano che le ha ordite. L'uomo che intraprende una buona azione, quando
sia un po' avvezzo a riflettere prevede sovente che non sarà senza
inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo buona nelle cose di questo
mondo se dovessero nelle loro birberie essere esenti da ogni
perplessità.
CAPITOLO X
La
carrozza correva tuttavia velocemente, gl'indegni guardiani di Lucia,
consultavano non senza sollecitudine su lo stato di essa, guardandola
fisamente, cercando nel suo volto pallido e immobile le apparenze della vita,
aspettando ansiosamente ch'ella ne desse alcun segno; quando la poveretta
cominciò a rinvenire come da un sonno profondo, diede un sospiro, e
aperse gli occhi. Penò qualche tempo a distinguere i luridi oggetti che
la circondavano, e a raccappezzare le idee già confuse, e incerte che
avevano preceduto il suo deliquio, a confrontarle con le prime, che si
affacciavano alla sua mente ritornata: finalmente a poco a poco riprendendo le
forze riprese tutto il pensiero, e comprese la sua orribile situazione. I
bravi, senza ardire di porle le mani addosso, e guardandola con un certo
rispetto le andavano facendo animo, e ripetendo: «coraggio, non è
niente, non vogliamo farvi male: siamo galantuomini». Il primo uso che fece
Lucia della vita fu di gittarsi con forza verso lo sportello per vedere dove
fosse, se gente passasse, se potesse lanciarsi al di fuori ad ogni pericolo: ma
appena potè scorgere che il luogo ch'ella attraversava rapidamente era
un bosco, che anima vivente non v'era: che le braccia villane che l'avevano
già conficcata la prima volta al fondo della carrozza, ve la
conficcarono di nuovo. Levò ella allora un altro grido, ma la stessa
manaccia tornò in furia con lo stesso fazzoletto, e il padrone di quella
manaccia disse nello stesso momento: «Facciamo i nostri patti: noi non vi
faremo male, non vi toccheremo, ma voi non cercherete né di fuggire né di
gridare: già è inutile, ma pure se voleste tentarlo, noi siamo
qui, amici o nemici, come vorrete».
«Lasciatemi
andare», disse Lucia con voce soffocata dallo sdegno e dallo spavento:
«lasciatemi andare subito, subito: io non son vostra, lasciatemi andare».
«Non
possiamo», rispose il malandrino.
«Dove
mi conducete? dove sono? voglio andare al convento dei cappuccini».
«Ohibò
ohibò», disse sogghignando colui, «che le ragazze non istanno bene coi
cappuccini. Venite con noi di buona voglia».
«No
no», rispose Lucia alzando la voce; ma il fazzoletto fu alzato.
«Lasciatemi
andare per amor di Dio», ripigliò ella con voce più fioca. «Dove
mi conducete?»
«In
casa di galantuomini, vicino a casa vostra», rispose il malandrino.
«No
no», disse ancora Lucia: «lasciatemi andare».
«Ma
se questo è contra i nostri ordini», rispose un altro.
«Chi
vi può dare questi ordini?» domandò Lucia: «ricordatevi della
giustizia, ricordatevi dell'inferno, ricordatevi della morte».
«Pensieri
tristi», replicò quello dal fazzoletto: «voi ci volete far malinconia, e
noi vi conduciamo a stare allegra».
«Santissima
Vergine ajuto!» gridò Lucia, ma il malandrino con volto iracondo le
protestò che s'ella gridava un'altra volta, il fazzoletto sarebbe
rimasto sulla sua bocca fino a ch'ella fosse giunta al luogo destinato. E
sforzandosi d'esser garbato aggiunse: «già siamo vicini: parlerete con
chi può comandare: noi siamo servitori che facciamo il nostro dovere:
è inutile che ci diciate le vostre ragioni».
«Oh
per amore di Dio, della Madonna», riprese Lucia in tuono supplichevole, con
voce interrotta da singulti, e senza pur pensare ad asciugare le lagrime, che
le rigavano tutta la faccia: «per amore di Dio, lasciatemi andare: io sono una
povera creatura, che non vi ha mai fatto male: vi perdono quello che mi avete
fatto, e pregherò Dio per voi: se avete anche voi una figlia, una
moglie, una madre, qualche persona cara a questo mondo, pensate quello che
patirebbero se fossero in questo stato: pensate all'anima vostra; fate una
buona opera che vi può salvare: fatemi questa carità, acciocché
Dio vi usi misericordia, lasciatemi qui».
«Non
possiamo» risposero tutti e tre; commossi alquanto da quel lamento. «Non
possiamo», ripetè il capo; «ma non abbiate paura, fatevi animo; già
non vi conduciamo in un deserto: state tranquilla: se volete parlare noi vi
risponderemo; se volete tacere, noi non parleremo: non temete, nessuno vi
toccherà»; e così dicendo si ristringeva contra la carrozza
lasciando più spazio a Lucia perché stesse meno disagiata, perché non
fosse oppressa da una vicinanza ch'egli stesso sentiva in quel momento quanto
dovesse essere incomoda e ributtante. Gli altri due, si andavano pure
ristringendo dal loro lato, facendo luogo a Lucia, e tenendosi come in distanza,
stornando gli occhi da quel volto accorato, ma fermi nel loro atroce proposito
di eseguire la commissione: come il villanello che a fatica si è
arrampicato all'albero per togliere un uccelletto dal nido, e lo tiene nelle
mani, e lo sente dibattersi e tremare, e sente il cuore della povera bestiola
battere affannosamente contra la palma che lo stringe; prova pure qualche
pietà: allenta le dita alquanto per non affogare la povera bestiola, per
non farle male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no! il
figlio del padrone gli ha chiesto l'uccelletto, gli ha promessa una bella
moneta s'egli sapeva snidarlo e portarglielo vivo. Lucia dopo avere ancora
indarno pregato; «ditemi dove mi conducete», richiese di nuovo.
«In
casa di galantuomini, e non vi possiamo dire altro», rispose quegli che le
stava vicino. Lucia vedendo che le preghiere riuscivano inutili come la
resistenza, e stanca dell'ambascia, e dello stento, incrocicchiò le
braccia sul petto, si strinse nell'angolo della carrozza, in silenzio: e
perduta ogni speranza di soccorso umano, si rivolse a Dio da cui tutto sperava;
e pregò fervidamente da prima col cuore; indi cavato di tasca il rosario
che teneva sempre con sè, cominciò a recitarlo con voce sommessa.
I bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva, e
sospirando tutti il fine di quella spedizione: e Lucia di tempo in tempo
fermandosi nella sua preghiera a Dio, per voltarsi a coloro in forza dei quali
ella si trovava, e ricominciava a supplicarli: ma non udiva rispondersi altro
che: «non possiamo». La sua preghiera era esaudita, ma il momento non era
venuto.
Erano
già due ore che la carrozza correva, sempre per istrade deserte,
attraversando boscaglie, e campi abbandonati alla felce ed alla scopa (una gran
parte del territorio milanese era allora ridotta a quello stato dalle guerre,
dalle gravezze insopportabili, dall'ignoranza, dalla specie di barbarie insomma
in cui erano gli abitanti, e i legislatori). Il sole declinava verso
l'orizzonte quando Lucia sentì un romore continuo sempre crescente, come
di un'acqua rapidamente corrente. Era l'Adda infatti a cui la carrozza si
avvicinava: il bravo che stava sulla serpe accanto al cocchiere urtò col
gomito chiamando quelli di dentro; uno di essi pose la testa fuori dello sportello,
e l'altro gli disse: «il battello c'è». «Ah! bravo» dissero tutti e tre
quei di dentro. Lucia, vedendo che si stava per fare qualche cosa da cui doveva
decidersi il suo destino, ricominciò le sue preghiere, ma il vicino
lieto di essere alla fine della sua incombenza, e di non aver più a
combattere con le istanze di quella infelice, le impose silenzio dicendo:
«Zitto zitto; abbiamo altro in capo che di darvi retta ora: siamo occupati». La
carrozza si fermò presso la riva, quel della serpe fece un segno a cui
fu risposto dal battello, e tosto ne uscirono tre bravi con una vecchia, e si
avviarono verso la carrozza. Lucia strillava, i bravi le comandavano di tacere
replicando: «non abbiate paura, e già tutto è inutile; son tutti
nostri amici». Lucia allora si rannicchiò tutta alla carrozza invocando
la Vergine nel cuore, e proponendo di lasciarsi piuttosto uccidere che di
uscire volontariamente da quel luogo, il quale per quanto orrendo le fosse le
pareva un asilo poiché vi aveva passate due ore, e non sapeva dove, a che
sarebbe strascinata quando ne fosse fuori. Mentre si stava così tutta
rannicchiata, udì chiamarsi da una voce femminile, aperse gli occhi e
vide allo sportello la vecchia rivolta verso di lei. Una donna parve in quel
momento a Lucia un angiolo del paradiso: si sollevò, e con volto
supplichevole, e con una certa fiducia le disse: «Oh brava donna, che fate voi
qui? ajutatemi, se questi sono vostri amici pregateli che mi lascino venire con
voi; salvatemi, salvatemi».
«Scendete
e venite con me», rispose la vecchia; indi rivolta ai bravi raggrinzando la
fronte e scontorcendo la bocca: «Maladetti», disse, «le avete fatto paura?»
«Ma
la vedete sana e salva...?» rispondeva il capo; quando Lucia, chinandosi e
sporgendosi dalla carrozza a prendere con le mani le braccia della vecchia:
«non dite niente», interruppe, «quel che è stato è stato, purché
mi lascino venire con voi».
«Scendete,
venite», disse la vecchia.
«Ma
con voi sola», rispose Lucia.
«Andiamo
andiamo», disse ancora la vecchia, e presa Lucia la strascinava, mentre i bravi
della carrozza l'ajutavano a scendere quasi portandola.
«No
no», disse Lucia.
«Zitto,
zitto», disse la vecchia, «venite colle buone».
«Ma
voi siete d'accordo con questi scellerati», gridava Lucia.
«Zitto
zitto», continuava a dire la vecchia, e così Lucia fu portata al
battello.
Guardò
intorno e non vide altro che la boscaglia la riva e il fiume e il battello;
alzò gli occhi, e vide al di sopra delle cime dei monti la cima tagliata
a sega del Resegone, alle falde del quale era la sua casa, dov'era sua
madre, dove aveva passati i primi suoi anni nella pace; e l'accoramento le
tolse anco la forza di gridare; tutta grondante di lagrime, affannata, quasi
fuor di sè, fu posta a sedere nel battello sotto la tenda: la vecchia le
si pose accanto: il capo di quelli che erano venuti in carrozza saltò
pure nel battello, stette al di fuori coi bravi venuti per acqua; i quali tosto
puntati i remi alla riva ne fecero allontanare il battello, pigliarono l'alto
del fiume, diedero dei remi nell'acqua, e il battello partì. Appena
Lucia ebbe ripreso un po' di fiato, si pose ginocchioni dinanzi la vecchia,
domandandole dov'era condotta, pregandola di farla deporre su qualche riva,
pregandola pei nomi i più temuti ed amati dai cristiani; ma la vecchia
inflessibile, immobile, non rispose altro che «zitto, zitto». Lucia
ricominciò a pregare Colui che ode anche quando non risponde, si
abbandonò alla sua provvidenza. Dopo forse due altre ore di viaggio, il
battello approdò: la notte precipitava, e Lucia sbigottita, tremante,
non sapeva più in che mondo si fosse: fu tolta in questo stato dal
battello, posta in una lettiga, e portata al castello del Conte del Sagrato.
La
vecchia accompagnava la lettiga, entrò insieme in casa, la fece deporre
in una stanza, dove rimase sola con Lucia, dicendo a coloro che l'avevano
portata, che andassero ad avvertire il Signor Conte. Ma il Signor Conte aveva
già intesa dal Tanabuso la relazione del rapimento, del viaggio e
dell'arrivo. «Ebbene», aveva egli detto al Tanabuso, «fatto?»
«Fatto»,
rispose Tanabuso.
«A
dovere?»
«A
dovere».
«Non
c'è stato bisogno di spiegar le unghie?»
«Tutto
è andato quietamente»; e qui fece il Tanabuso la sua narrazione. E
aggiunse: «Tutto è corso a verso, com'ella vede, signor padrone; ma una
sola cosa ci ha dato un po' di disturbo».
«Che
è?» chiese il Conte.
«Quella
ragazza», rispose il Tanabuso... «quella povera ragazza... un tal guaire, un
tal piangere, un tal pregare... restar lì come morta..., guardarci un
po' come diavoli, un po' con gli occhi pietosi... che... che...»
«Che?»
disse il Conte; «sentiamo un po' questa che vuol essere nuova, ribaldonaccio».
«Che
mi ha fatto compassione».
«Ohe!»
disse il Conte, «bisognerà che ti dia doppia mancia per quello che ha
patito il tuo povero cuore».
«Possa
io diventare un birro se non è così», rispose il Tanabuso; «mi ha
fatto compassione. Dico la verità Signor padrone, avrei avuto più
caro che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata, alla lontana, prima
di sentirla discorrere».
«Ora»,
riprese il Conte, «lascia da parte la compassione, cacciati la via tra le
gambe, vanne diritto al castello di quel Don Rodrigo... Sai dov'è
posto?». Il Tanabuso accennò di sì: «fagli dire che sei mandato
da me, dagli questo segno nelle mani, e torna a casa. La giornata è
stata faticosa, ma tu sai che il tuo padrone vuole esser servito ma sa anche
pagare...»
«Oh
illustrissimo!...»
«Taci,
e vanne tosto... ma no, aspetta: dimmi un poco come ha fatto costei per moverti
a compassione. Che abbia un patto col demonio?»
«Niente,
niente, signor padrone, era proprio il crepacuore che aveva quella povera
ragazza. Se non avessi avuto un comando del mio padrone...»
«Ebbene?...»
«L'avrei
lasciata andare».
«Oh!
andiamo a vederla costei; e tu aspetta, partirai domattina... dopo aver
ricevuto i miei ordini... tanto fa che quello inspagnolato aspetti qualche ora
di più... Domattina sii all'erta per tempo».
Il
Tanabuso partì, facendo un inchino, e il Conte s'avviò alla
stanza dove Lucia stava in guardia della vecchia.
Bussò,
disse: «son io», e tosto il chiavistello di dentro corse romoreggiando negli
anelli, e la porta fu spalancata. Lucia si stava seduta sul pavimento,
acquattata, accosciata nell'angolo della stanza il più lontano dalla
porta, nel luogo che entrando le era sembrato il più nascosto, si stava
quivi aggomitolata, con la faccia occultata, e compressa nelle palme, tutta
tremante di spavento, e quasi fuor di sè: al romore che fece la porta,
alla pedata del Conte che entrava trasalì, ma non levò la faccia,
non mosse membro, anzi fece uno sforzo per ristringersi ancor più tutta
insieme; e stette con un battito sempre crescente aspettando e paventando
quello che avvenisse.
«Dov'è
questa ragazza?» disse il Conte alla vecchia.
«Eccola»,
rispose umilmente la malnata.
«Come?»
disse il Conte, «l'avete gettata là come un sacco di cenci».
«Oh
s'è posta dove ha voluto».
«Ehi!
quella giovane», disse il Conte avvicinandosi a Lucia: «dove diavolo vi siete
posta a sedere? alzatevi; non voglio farvi male... lasciatevi vedere».
Lucia
non si mosse.
«Peggio
per voi», disse il Conte; «se volete fare il bell'umore. Ah! ah! non sapete
dove siete. Pretendereste voi di resistermi? Abbassate subito quelle mani ch'io
voglio vedervi».
Queste
parole furono dette con un tuono così minaccioso, che le mani di Lucia
obbedirono quasi senza il comando della volontà: e Lucia lasciò
vedere la sua faccia spaventata e dolente. Alzò ella allora gli occhi al
volto del Conte che la stava guardando attentamente; e dopo un momento, gli
disse con una voce, in cui al tremito dello sgomento era mista la sicurezza
d'una indignazione disperata: «Che male gli ho fatto io?»
«E
che male voglio io fare a voi, scioccherella?» rispose il Conte, con voce
più mite. «Credete forse d'essere condotta al macello? Verrà un giorno
che riderete di tutto questo vostro spavento, e riderete forse anche di me, che
vi rispondo ora così sul serio».
«Ridere!
oh Dio!» rispose Lucia «ridere!» e guardando un momento come smemorata, diede
in un nuovo scoppio di pianto.
«Sì
sì, tutte voi altre fate così», replicò il Conte.
«Ma
perché», riprese Lucia, «mi fa ella patire le pene dell'inferno? Mi dica che
cosa le ho fatto? Oh non mi faccia più patire così: Dio glielo
potrebbe rendere un giorno...»
«Dio:
Dio: sempre Dio coloro, che non hanno niente altro: sempre rinfacciar questo
Dio, come se gli avessero parlato. Dov'è questo vostro Dio?»
«È
da per tutto, è qui», rispose Lucia: «è qui a vedere s'ella si
muove a pietà di me, per usarle pietà in ricambio un giorno. Oh
abbia misericordia d'una poveretta, mi lasci andare, lasci ch'io mi ricoveri in
qualche Chiesa, su le montagne, in un bosco. Oh lo vedo; tutto dipende da lei:
con una parola ella mi può salvare: dica questa parola. Non so dove
sono, ma troverò la strada per andare da mia madre. Oh Dio! non è
forse lontana: ho visto i miei monti: oh s'ella sentisse quel ch'io patisco!
non conviene ad un uomo che ha da morire, far tanto patire una creatura
innocente: mi lasci andare; oh se pregherò Dio per lei! la
benedirò sempre». E animata nel suo discorso si levò da sedere,
si pose in ginocchio, giunse le mani al petto, e continuò: «Che cosa le
costa dire una parola? Non iscacci una buona ispirazione, un sentimento di
pietà. Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!»
—
Che pazza curiosità ho avuto di venirla a vedere — pensava tra sè
il Conte. — Dugento doppie! ne ho bisogno. Costoro vogliono esser ben pagati;
eh! hanno ragione: espongono la loro vita: ma vorrei piuttosto toglierne
cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro.
«Non
mi dica di no», continuava Lucia, sempre singhiozzando, «sono una povera
figlia. S'ella provasse a pregare, a pregare, a cercar misericordia senza
poterla ottenere! E se le accadesse una disgrazia!... ma no, no io
pregherò per lei il Signore e la Vergine... mi lasci andare...»
«State
di buon animo», rispose il Conte, senza intenzione di nulla promettere, senza
sapere egli stesso che senso avessero le sue parole, ma spinto da un bisogno di
far cessare quell'angoscia e quel lamento, di consolare quella creatura.
«Oh»,
disse Lucia, «Dio la benedica, ella mi lascia andare».
«State
di buon animo», ripetè il Conte, «cercate di riposare... domani...
parleremo...»
«E
voi», rivolto alla vecchia, «voi», disse, «fate ch'ella non abbia da lagnarsi
pure di una parola torta. Ora vi si allestirà la cena... ristoratevi, e
dormite tranquilla».
«No,
no», rispose Lucia, «mi lasci andar subito...»
«Domani...
domani ci parleremo», replicò il Conte, e con un rapido movimento
andò verso la porta, ed uscì.
Lucia,
tutta piena della speranza di ottenere la sua liberazione si alzò, e
volle correr dietro al Conte, ma quando si trovò sull'uscio non
ardì movere un passo più in là, né chiamare: tornò
indietro come spaventata, e si raccosciò di nuovo nel suo angolo.
«Volete
dunque cenare?» le disse la vecchia.
«No
no; badate bene a non partire di qua» rispose Lucia, «ricordatevi di quello che
vi ha detto il vostro padrone: chiudete la porta». La vecchia obbedì, e
tornata: «mettetevi a letto e dormite dunque», disse.
«No:
io non mi voglio movere di qui» replicò Lucia.
«Che
pazzie?...»
«Non
voglio», replicò di nuovo Lucia, risolutamente: quel coraggio di
disperazione ch'ella si sentiva da quando a quando era stato accresciuto e
corroborato da quella compassione ch'ella aveva veduta nel Conte, dalle parole
di speranza che egli le aveva date, e dagli ordini ch'egli aveva lasciati con
impero alla vecchia.
—
Ih! ih! che fummo ha costei, — disse tra sè la mala vecchia. — Maladette
le giovani che hanno sempre ragione e quando sono svergognate e quando fanno le
smorfiose.
«Badate
a non ispegnere quella lucerna», disse Lucia.
«Sì
sì», rispose la vecchia, e senza più rivolger la parola a Lucia
si coricò brontolando.
Lucia
rimase nel suo angolo. Era questo per lei, in quella orrenda giornata il primo
momento di riposo; ma quale riposo. I pensieri che l'avevano assalita
tumultuosamente, ad intervalli nel giorno, tornarono tutti in una volta ad
assediare la povera sua mente. Le memorie così recenti, così
vive, così atroci di quelle ore, di quel viaggio, di quell'arrivo, si
affollavano alla sua fantasia; l'avrebbero oppressa se fossero state memorie
d'un pericolo trascorso: e che dovevano fare, nel mezzo del pericolo stesso,
nella durata, nella orribile incertezza dell'avvenimento! Qual passato! e qual
presente! quel silenzio, quella compagnia, quel luogo. Qual notte! e per
giungere a qual domani! L'infelice intravedeva ben qualche cosa della orditura
spaventosa del laccio dove era stata tirata, ma rifuggiva dal pensiero di
scoprirne più in là. Di quando in quando le parole di speranza
del Conte la rincoravano: le andava ripetendo fra sè, s'immaginava di
essere l'indomani fuori di quell'antro con sua madre, ma un altro avvenire
possibile rispingeva questa immaginazione, e a tutta forza veniva a collocarsi
nella sua mente. Tremava, si faceva animo, sperava, disperava, pregava: le
forze del corpo finalmente cedettero ad un tale combattimento dell'animo, e
Lucia fu presa da una febbre violenta. Le sue idee divennero più vive,
più forti, ma più interrotte, più mescolate, più
varie, si urtarono più rapidamente, e la confusione togliendole una
parte della coscienza, rese sofferibile una angoscia che altrimenti ella non
avrebbe potuto sofferire e vivere. Nel calore della febbre, le parve ad un
tratto che la preghiera sarebbe stata più accetta, certamente esaudita,
se con la preghiera ella avesse offerte in sagrificio quelle che altre volte
erano state le sue più liete speranze. L'unica speranza di quel momento,
quella di uscire da quel pericolo, le parve con questo divenire più
fondata, più ferma: aperse gli occhj, li girò con sospetto e con
ansietà nel barlume di quella stanza; tese l'orecchio, e non udì
altro che il russare della vecchia; si levò chetamente, stette ginocchioni;
e votò alla Vergine di viver casta, senza nozze terrene, s'ella poteva
uscire intatta da quel pericolo. Proferito il voto, o, quello che a Lucia parve
tale, ella si sentì come racconsolata; si raccosciò nel suo
angolo, e passò il resto della notte in un letargo febbrile, interrotto
da sussulti, e da vaneggiamenti.
Il
Conte partito da quella stanza andò secondo il suo costume a visitare i
posti del suo castello, a vedere se le guardie erano poste ai luoghi stabiliti,
se tutto era in ordine, e si chiuse nella sua stanza. Ma l'immagine di Lucia
non l'aveva mai abbandonato nel suo giro; ma quando egli si trovò solo
nella sua stanza, senza più nulla da fare che d'ascoltare i suoi
pensieri, e di dormire se avesse potuto, quella immagine più viva,
più potente si pose a sedere nella sua mente, e vi stette.
—
Che sciocca curiosità da femminetta, m'è venuta, — andava egli
pensando, — di andare a vedere questa giovane? Ho dovuto sentire dalla sua
bocca di quelle cose che nessun uomo vivente avrebbe ardito dirmi sul volto. Le
ho sentite, e mi seccano. Perché non è figlia d'uno spagnuolo? o di
qualcuno di quei sozzi birbanti che m'hanno bandito: che avrei goduto di
sentirla guaire, di vederla tremante ai miei piedi. Ma costei non mi ha mai fatto
male... Ecco, lo andava ripetendo... pareva sapesse che questa era la corda da
toccare per farmi compassione... Compassione!... ma certo io ho avuto
compassione: la sento ancora... e qualche cosa di peggio... Che diavolo ho io
addosso questa notte?... Ha fatto compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva
ragione quella bestia, quando disse che sarebbe stato men male averle data una
schiopettata... Poveretta! una schiopettata... no credo che mi avrebbe fatto
compassione anche morta. Eh sciocchezza! i morti almeno non si stanno a
guardare, non si sentono, non vi si mettono ginocchioni davanti... è un
conto saldato. Dicono mo' i preti che un giorno hanno a risuscitar tutti
quanti! Poh! imposture! imposture, non è vero, non è vero.
Vorrebb'essere una bella processione.
E
qui cominciarono a schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli
aveva cacciati o fatti cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor
giovanetto aveva passato con una stoccata per una rivalità d'amore, fino
all'ultimo che aveva fatto scannare per servire alla vendetta di un suo
corrispondente; tutti coi loro volti, nell'atto del morire, e quelli che egli
non aveva veduti, ma uccisi soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i
volti e gli atti.
—
Via, via, sciocchezze, — diceva: — sono io diventato un ragazzo? domani a
giorno chiaro riderò di me. E se domani a sera costoro mi tornassero in
mente? che dovessi passar sempre la notte così? Diavolo! comincio ad
invecchiare: vorrebb'essere un tristo vivere, e un tristo... morire. Che cosa
m'ha detto quella poveretta? «Oh Dio perdona tante cose per un'opera di
misericordia...» Che sa mai quella contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo
ha creduto. Imposture. Ho sempre detto imposture, e quando aveva proferita
questa parola, bastava... ma adesso non serve... tornano sempre quei pensieri.
Sono io quello? Sono stato tanto tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto
l'animo di farne tante, tante... Ebbene! ne ho fatte troppe... se non le avessi
fatte... in verità sarebbe meglio. A buon conto l'opera di misericordia
sono in tempo di farla. Poniamo che appena fatto il giorno io entri nella sua
stanza: la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito, subito: «vi
lascio in libertà, vi farò condurre a casa». Oh come si cangerà
in volto! che cose mi dirà! mi darà delle benedizioni che mi
faranno bene. Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà. e
ricordarmene per pensarvi la notte. Oh! sono fanciullaggini... ma a buon conto
io non posso dormire. Ma quando verrà giorno! Che notte eterna! Mi pare
quella notte ch'io passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario di
Vercellino che doveva tornare dal festino di corte... Ecco, io stava lì
cheto, cheto; quando sentiva una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli, ed
io ritto e cheto nel mio angolo: sento una pedata che mi par quella, sporgo il
capo, guardo, è colui: fuori, addosso col mio stocco: mandò un
gemito, e mi cadde sulle gambe, gli diedi una spinta, e me ne andai... Oh che
coraggio aveva allora! era un uomo! e in un momento sono diventato... che cosa
son diventato? che è accaduto? non son sempre quello? Ecco anche quel
Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva pensare così un
giorno, era meglio che avessi pensato così sempre. Vieni o luce
maledetta, ch'io possa uscire da questo covaccio di triboli, e andare a vedere
quella ragazza. Ma devo lasciarla andare? Vedremo: vedremo come mi
sentirò. Se potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei
coll'animo di questa mattina!
In
questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato quasi tutta la
notte; finalmente, non essendo il giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si
assopì. Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua veglia, trasmutati
ora alquanto e rivestiti di forme più strane e più terribili lo
accompagnarono nel sonno. Era già levato il sole, e il Conte stava
affannoso sotto il giogo di quei sogni rammentatori, quando a poco a poco egli
cominciò a risentirsi scosso come e quasi chiamato da un romore
monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il sonno e la veglia, e finalmente
tutto desto, e gettato un gran sospiro, riconobbe un suono festoso di campane,
e pensò che potesse essere, né gli sovvenne di cosa che potesse essere
allora cagione di festa. Si alzò, si vestì rapidamente, e prima
d'andare alla stanza di Lucia (che la risoluzione gliene era rimasta) si fece
alla finestra della sua stanza che dominava il pendio, prima rapido, poi
più lento e quasi piano fino al lago; e qua e là villaggi sparsi,
e case solitarie. Guardò intorno, e vide contadini e contadine in abito
da festa per tutti i viottoli avviarsi verso la strada che conduceva al
Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi quelli che s'incontravano in
aria di premura e di festa. — Che diavolo hanno in corpo costoro? — diss'egli
fra sè, e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione
di quel movimento e di quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera
antecedente che il Cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto
improvvisamente a Lecco per visitare le parrocchie di quei contorni; che quella
mattina doveva trovarsi ad una chiesa (che nominò, ed era alla
metà della via, distante circa due miglia dal castello) e che tutti
accorrevano a vedere quell'uomo il quale dovunque si portasse attraeva sempre
folla.
Il
Conte congedò con un cenno del capo il fidato, e rimase ancora un
momento alla finestra a guardare, dicendo fra sè: — Come sono contenti
costoro! E perché? Perché è arrivato un uomo che si porrà un
bell'abito, e darà loro delle parole, e alzerà le mani tagliando
l'aria in croce. Oh! come saltano: sembrano cavriuoli: eh! avranno forse...,
certo, dormito meglio di me! Tanto contenta questa canaglia... ed io... Voglio
andare anch'io; voglio veder quest'uomo, che li fa esser tanto vogliosi, tanto
contenti. Andrò, andrò. Voglio parlargli; voglio un po' sentire
se ha qualche cosa anche per me! vedere quel volto, sentire queste sue parole
che fanno sparire le afflizioni. Voglio vedere se ha ancora quegli occhj che
hanno fatto abbassare i miei... cospetto... cinquant'anni sono. Era uno strano
giovanetto! E ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio
d'allora certamente! Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che
fare? che dirgli? Certo mi mostrerà due occhj più arrovellati di
quel giorno... Non importa: voglio andare a sentire che parole ha costui, per
render la gente così allegra.
L'occhiata
che aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di
rimembranza nella mente del Conte era stata data nella occasione che
ricorderemo brevemente. Federigo Borromeo, giovanetto allora di 15 anni si
trovava nella chiesa di Giovanni in Conca nel giorno solenne di quel santo; e
aveva pregato e invitato poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e
quivi assisteva pensoso e riverente al rito che si celebrava. Quando una
brigata di giovanetti, di adolescenti delle principali famiglie della
città, entrata a turba nella Chiesa per curiosità, e visto in
quel luogo il giovane Federigo, che sempre con l'esempio, e talvolta con le
parole gli faceva vergognare del loro vivere superbo scioperato molle e
violento, s'accordarono di fargli fare una trista figura, di vendicarsi, e di
divertirsi un momento a sue spese. Rotta la folla s'avvicinarono all'altare, e
appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare i più strani e beffardi
atti del mondo, storcer le bocche, torcere il collo come chi irride un
ipocrita, cacciare un palmo di lingua, sghignazzare. Il Conte che fu poi del
Sagrato era tra essi, anzi queglino erano con lui; perché egli non era mai
stato secondo in nessun luogo, e in nessun fatto. Federigo, contristato e mosso
a pietà ed a sdegno nello stesso tempo, ma non confuso, girò su
quella turba un'occhiata che esprimeva tutti questi affetti con una
gravità tranquilla, ma più potente dell'impeto indisciplinato di
quei provocatori; quindi piegate le ginocchia dinanzi all'altare, pregò
per essi, i quali partirono col miserabile contegno di chi è stato vinto
in una impresa in cui il vincere stesso sarebbe vergognoso.
Torniamo
al Conte vecchio: il quale stette in fra due, se doveva prima andare alla
stanza di Lucia. Dopo aver pensato qualche tempo: — no — diss'egli fra
sè —: non la vedrò: non voglio obbligarmi a nulla; voglio venirne
all'acqua chiara con questo Federigo. Potrei lasciarla andare, e pentirmi. Se comincio
a fuggire da uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita, non
son più un uomo. Parlato che avrò con costui, mi
convincerò che sono sciocchezze, e sarò più forte di
prima... o se... costui... mi facesse... cangiare... son sempre a tempo.
Andiamo, sarà quel che sarà.
Chiamò
un'altra donna alla quale in presenza del Tanabuso impose che si portasse sola
alla stanza di Lucia, che vedesse che nulla le mancasse, e che sopratutto
ordinasse alla vecchia guardiana di trattarla con dolcezza e con rispetto: e
che nessun uomo ardisse avvicinarsi a quella stanza.
Dato
quest'ordine, pensò se dovesse pigliar seco una scorta; e — oh! via, —
disse, — per dei preti e per dei contadini? Vergogna! Se vi sarà alcuno
che non mi conosca non avrà nulla da dirmi: per quelli che mi conoscono...!
Così
il Conte solo, ma tutto armato uscì dal castello, scese l'erta e giunse
nella via pubblica, la quale brulicava di viandanti: la turba cresceva ad ogni
istante: a misura che la fama del Cardinale arrivato si diffondeva di terra in
terra, tutti accorrevano. Ma in quella via affollata il Conte camminava solo:
quegli che se lo vedevano arrivare al fianco, s'inchinavano umilmente, e si
scostavano come per rispetto, e allentavano il passo per restargli addietro:
taluno di quelli che lo precedevano, rivolgendosi a caso a guardarsi dietro le
spalle, lo scorgeva, lo annunziava sotto voce ai compagni, e tutti studiavano
il passo, per non trovarglisi in paro. Giunto al villaggio, sulla piazzetta
dov'era la Chiesa, e la casa del Parroco, trovò il Conte una turba dei
già arrivati, che aspettavano il momento in cui il Cardinale entrasse
nella Chiesa per celebrare gli uficj divini. E qui pure tutti quelli a cui si
avvicinava, svignavano pian piano. Il Conte affrontò uno di questi
prudenti, in modo che non gli potesse sfuggire e gli chiese bruscamente come
annojato che era di quel troppo rispetto, dove fosse il Cardinale Borromeo.
«È lì nella casa del curato», rispose riverentemente
l'interrogato. Il Conte si avviò alla casa fra la turba, che si divideva
come le acque del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei, ed entrò
sicuramente nella casa. Quivi un bisbiglio, una curiosità timida,
un'ansia, un non saper come accoglierlo. Egli, rivolto ad un prete gli disse
che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di essergli tosto annunziato. Il
prete che era del paese, fu contento d'avere una commissione del Conte per
allontanarsi da lui, e riferì l'imbasciata ad un altro prete del seguito
del Cardinale. Quegli si ritirò a consultare coi suoi compagni; e
finalmente di mala voglia entrò per dire a Federigo quale visita si
presentava.
CAPITOLO XI
Giunti
a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche momento con
gioja, come il viaggiatore del deserto s'indugia a diletto alla frescura
ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli abbia trovata una sorgente di acqua
viva. Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del quale apporta
una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla
mente che già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i più
eletti che abbiano lasciato ricordo di sè sulla terra: or quanto
più un po' di riposo nella considerazione di lui debb'essere giocondo a
noi che da tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude,
stolida, schifosa perversità, dalla quale certamente avremmo da lungo
tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a
forza intento!
Federigo
Borromeo fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali adoperarono
una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca «di
ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di
ciò che è santo, di ciò che è amabile, di
ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e
lode di disciplina». Nato coi più bei doni dell'animo, il primo uso che
egli fece della sua ragione fu di coltivarli con ardore e con costanza, di
custodirli con una attenzione sospettosa, come se fino d'allora egli ponesse
cura a conservare tutta bella, tutta irreprensibile una vita, che in progresso
di tempo avrebbe avute età così splendide: e infatti la vita di
lui è come un ruscello che esce limpido dalla roccia, e limpido va a
sboccare nel fiume: tutto ciò che si sa di lui è gentilezza, e
sapienza: e gli errori stessi che la prepotenza dell'universale consenso aveva
imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati e quasi scusati da una
intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della vita è stata
per lui un esercizio di tutte le virtù. Fanciullo grave e sobrio,
giovane pensoso e pudico, uomo operoso quant'altri mai fosse, senza mai nulla
intraprendere, né maneggiare, né condurre a fine per un interesse privato di
qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le
virtù più difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo
che escludessero i pregi più comuni in quella età a tutti gli
uomini. Nutrito tra le pompe e lo splendore delle ricchezze, fra quel basso
corteggio che coglie i fortunati del secolo alle prime porte della vita, per
corromperli, per cattivarli, per farli fruttare, egli scorse dai primi suoi
giorni che l'umiltà, e la staccatezza sono verità, bellezza, e le
prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste cugino San Carlo, in
presenza di quella virtù severa, e malinconica, l'animo puerile di
Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì l'ammirazione
e la docilità volonterosa per la virtù. Si diede ardentemente
allo studio dalla fanciullezza: ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la
confusione e la stoltezza delle cose insegnate, il sopracciglio comicamente
grave dei maestri lo svogliarono dall'apprendere; e fu questo, o doveva essere
il primo segno della eccellenza del suo ingegno. Stomacato dei libri e delle
lezioni si diede tutto all'armi e ai cavalli; ma durò in quegli esercizj
sol tanto quanto bastasse a mostrarlo disposto ad ogni esercizio che domandi
una prontezza di qualunque genere. Il fanciullo voleva sapere, e andava
interrogando tutti quegli che egli credeva sapienti; e da tutti gli veniva
risposto, che i libri e la scuola soltanto potevano condurlo alla scienza. Sospinto
da questa uniformità di consenso, egli tornò voglioso ai libri ed
ai maestri; e finì a stare con quelli perseverantemente, vincendo con la
volontà le ripugnanze delle quali egli non poteva allora comprendere la
ragione profonda. Giovanetto fra i giovanetti nello studio di Pavia, egli
trovò quivi stabilite consuetudini, massime, opinioni che distribuivano
lode e biasimo alla differente condotta; e non ne fece alcun conto:
regolò la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe fatto in un
eremo, senza esitazione, senza braveria; e solo da prima, opposto quasi in
tutto al tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che davano la
gloria, facendo quelle che rendevano ludibrio, fu in poco tempo oggetto della
venerazione dei suoi condiscepoli. Uomo fatto poi, cardinale, arcivescovo,
sempre continuò in quella disciplina, di meditare ciò che fosse
il comandato, e il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli
uomini se non ciò che potesse essere una vera ed utile correzione per
lui, o il segno di una irritazione e di una resistenza dannosa ai resistenti, e
che potesse essere impedimento al bene ch'egli intendeva di operare. Fu quindi
moderato ed umile tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i
contrasti, non avendo di mira che la cosa da farsi, e il perché, e l'effetto.
Veduta la bellezza, l'utilità, e la possibilità d'un disegno,
egli lo intraprendeva, ne curava attentamente il complesso e i minimi
particolari con quella unità di attenzione che non sorprende chi
rifletta alla unità ch'egli aveva del fine. Edificò dai
fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome di Ambrosiana, la dotò
di libri, di manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse
professori, e nello stesso tempo poneva cura che le reliquie della sua mensa
piuttosto povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e date ai
poverelli; tutto era per lui benevolenza, e cura degli altri. Così egli
chiamò da lontano professori di lingue orientali per introdurre se
avesse potuto, ogni coltura in quella rozza, ostinata, e presuntuosa barbarie
nella quale egli sentiva di vivere; spedì uomini dotti quanto allora si
poteva per l'Italia, per la Francia, per la Germania, per la Spagna, per la
Grecia, nella Siria, a fare incetta di libri, di manoscritti, di ogni cosa che
potesse essere stromento di studio e di coltura: e diede ad essi istruzioni,
avviamenti, consigli: e per la medesima accuratezza di ben fare, in questa
stessa carestia di cui abbiamo già toccato qualche cosa in questa
storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva, alla sua casa, alle case dei
poverelli, pensò anche di mandare attorno sacerdoti, che raccogliessero
i poverelli che mancanti di soccorso cadevano sfiniti per le vie, e dessero
loro i conforti della religione: e insieme coi sacerdoti mandò facchini
che portassero pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto, per
nutrire, per confortare coloro che cadessero per inedia; e tutti questi
particolari erano meditati da lui, perché tutto quello che fosse utile era per
lui importante, e l'idea grande e generale della carità era dal suo
cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari. Così amava
egli oltre ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre
nell'esercizio delle sue più nobili facoltà. E da tanta operosità,
da tante cure del suo ministero, da tanti impicci in cui era tirato dalla
confusione che in quelle cure stesse avevano introdotta la confusione delle
idee, e le passioni degli uomini, egli sapeva togliere ancora assai tempo per
impiegarlo nello studio degli scritti i più stimati di qualunque tempo e
di qualunque nazione, e nel lavoro dei molti scritti ch'egli ha lasciati.
Noi
non vogliamo qui esaminare tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire ch'egli
ebbe principalmente le virtù più difficili, cioè le
più opposte ai vizj che signoreggiavano la generazione dei suoi
contemporanei. Già forse l'amore dell'argomento ci ha trasportati ad una
prolissità nojosa; ma non possiamo a meno di non avvertire una di queste
virtù, perché è quella che non certo per la sua importanza ma per
la rarità ci sembra degna di osservazione; ed è la
tranquillità e il contegno mirabile di Federigo. In un tempo in cui
opinioni, fatti, discussioni, odj, amicizie, delitti, giudizj, tutto era
avventato e precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per
dir così di spiritato, e di fantastico, Federigo fu temperato,
aspettatore, ponderato, lento nel credere, nell'operare, nell'affermare, tutto
condì con una temperanza, che raddolcì in parte quell'impeto
indisciplinato, e fu se non altro ammirata da quegli stessi che ne erano
incapaci.
È
cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo,
già ai nostri tempi, in una posterità così poco remota,
sia non dirò dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come
si fa degli uomini più illustri, che a questo nome sia appena associata
una idea languida d'un merito incerto, d'una eccellenza indeterminata, che
questo nome pronunziato fuori della patria di Federigo, e della società
di quelli che più particolarmente si applicano alle cose nelle quali
egli fu attore, o passi inavvertito, o riesca anche nuovo, e invece di
risvegliare la memoria di una rara preminenza faccia nascere la
curiosità di sapere che abbia fatto colui che lo portava, e che l'elogio
che noi vi abbiamo unito abbia avuto bisogno di schiarimento e di prove. E
forse ancor più stupore deve nascere al pensare che un uomo dotato di
nobilissimo ingegno, avido di cognizioni, e perseverante nello studio,
sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società
più varie degli uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni
cura nel comporre opere d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone
tra i più fecondi e i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo
che aveva tutti i doni per farne d'immortali, non sieno ora quasi conosciute
che dai loro titoli, nei cataloghi di quegli scrittori che tengono memoria di
tutto ciò che è stato scritto in un tempo, in un paese. Ma la
spiegazione di questo fenomeno si può forse trovare nella condizione dei
tempi in cui scrisse Federigo. A produrre quelle parole o quei fatti che
rimangono presso ai posteri oggetto di una ammirazione popolare non basta la
potenza di un ingegno né la costanza di una volontà: è duopo che
queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da
sè qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le
età rimasti insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da una
folla d'uomini non insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro studj, curiosi
delle stesse cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o almeno
combattendo contra errori, abitudini, idee, che avessero qualche cosa
d'importante, di problematico, in quelle dottrine che sono un esercizio
perpetuo dell'intelletto umano, trovarono in somma una massa di notizie e di
opinioni, un complesso di coltura, sul quale fondarsi, dal quale progredire, al
quale applicare gli aumenti e le correzioni per cui la memoria del genio
rimane.
Che
se pure è viva tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi
rozzissimi, lo è perché quei tempi erano sommamente originali, e quelle
opere ne conservano il carattere, e mostrano ai posteri un ritratto osservabile
d'una età che nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci. Ma Federigo Borromeo
visse in tempi di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad
un tratto, fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria scolastica, in
tempi nei quali l'ingegno che per darsi alle lettere, a qualunque studio di
scienza morale, cominciava (ed è questa la sola via) ad informarsi di
ciò che era creduto, insegnato, disputato, a porsi a livello della
scienza corrente, si trovava ingolfato, confuso in un mare tempestoso di
assiomi assurdi, di teorie sofistiche, di questioni alle quali mancava per prima
cosa il punto logico, di dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze. Non
v'è ingegno esente dal giogo delle opinioni universali, e già una
parte di queste miserie diventava il fondamento della scienza degli uomini i
più pensatori. Che se anche i più acuti, profondi fra essi,
avessero veduta e detestata tutta la falsità e la cognizione, di quel
sapere, avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove si trovano
le idee e le formole potenti, solenni, perpetue; a chi avrebbero eglino parlato?
E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è verecondo,
delicato, e se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il
clamore, l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè, e tace.
O per dir meglio prima di parlare, prima di sentire in sè le alte cose
da rivelarsi, egli ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui
saranno rivelate, di trovare un campo dove sia tosto raccolta la sementa delle
idee ch'egli vorrebbe far germogliare: la sua fiducia, il suo ardimento, la sua
fecondità nasce in gran parte dalla certezza di un assenso, o almeno di
una comprensione, o almeno di una resistenza ragionata. Veggansi per esempio le
opere di eloquenza di due sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse
nella età posteriore a quella di Federigo, Segneri e Bossuet. Veggasi
quali idee, quale abitudine di linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano le
orazioni funebri di questo negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche
del Segneri che opinioni egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli
doveva attignere i suoi mezzi, le sue prove per persuadere quegli ingegni, a
quali costumanze egli doveva alludere; nella differenza dei due popoli
ascoltanti è certamente in gran parte la spiegazione della somma
distanza fra le opere di due ingegni ognuno dei quali era grande. Prima che un
popolo il quale si trova in questo grado d'ignoranza possa produrre uomini per
sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a poco a poco da quella
universale abiezione, che riportino su gli errori, su la inerzia comune molte
vittorie d'ingegno difficili, e che saranno dimenticate; che attirino con
grandi sforzi le menti a riconoscere verità che sembrano dover essere
volgari, che preparino agli intelletti venturi una congerie d'idee delle quali
o contra le quali si possano fare lavori degni di osservazione; e che
finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza e
perspicuità delle idee migliorino a poco a poco il linguaggio comune,
dimodoché i sommi ingegni possano avere uno stromento che renderanno perfetto,
ma che pure hanno trovato adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia che
ad essi soli è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare,
ardite, ma sommamente ragionevoli, nelle quali sole possono vivere i grandi
pensieri. Questo fa d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più
perfezionata d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo parlato.
Allora gl'ingegni singolari attirati dalla luce del vero da qual parte ella si
mostri, si levano dalla moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto
che essi scorgono il più alto. Cominciano allora le ire di molti, e i
lamenti di altri contra l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza
delle cose patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento
del linguaggio e del gusto; e non si può negare che queste ire e questi
lamenti non atterriscano alcuni, e non gli contristino a segno di far loro
abbandonare la via di studio intrapresa; giacché fargli ritornare al falso
conosciuto è cosa impossibile. Ma v'ha pure di quegli ingegni ai quali
è per così dire comandato di fare; e questi tenendosi in
comunicazione con un'altra età o con un'altra società d'uomini,
dicono ai loro contemporanei cose che questi ascoltano da prima con disprezzo e
con indifferenza, quindi in parte pure con qualche curiosità quando la
fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno scrittore,
imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti concordi sul merito
dello scrittore quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così,
un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia un po' di
coltura, e fra quella a sovrastare alcuni scrittori dei quali vivono le opere e
la memoria; ma i principj di quel risorgimento non furono un progresso, un
perfezionamento delle idee allora dominanti; fu una nuova coltura introdotta in
opposizione alle idee predominanti; sul che tutti concordano. Ma intorno alla
sorgente di questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate.
Alcuni, anzi moltissimi, hanno creduto, e detto che dal fondo della ricchezza
letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi scrittori più
antichi sieno state tolte le idee le quali hanno rinovellato lo spirito della
letteratura, e ricondotto il colto pubblico al senso comune; e che
principalmente dai canzonieri del Petrarca e del Costanzo sia stata tolta la
luce che dissipò le tenebre del seicento. Infatti i primi riformatori,
si posero, come alla faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime che
l'immortale Costanzo vergò, per placare, se fosse stato possibile,
quell'empia tigre in volto umano, su la quale è così diviso e
combattuto il sentimento della posterità. Poiché, quando si pensa ai
dolori intimi, incessanti, cocenti che quella tigre fece tollerare a quel
celebre sventurato, non si può a meno di non sentire per essa, voglio
dire per la tigre, un certo orrore, un rancore vendicativo. Ma quando poi si
venga a riflettere che senza quei dolori non sarebbero stati partoriti quei
sonetti e quelle canzoni, che senza quei sonetti e senza quelle canzoni, l'Italia
si rimarrebbe forse forse tuttavia nell'abisso del gusto perverso, allora si
prova una certa non solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua
crudeltà fu occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto, si
vede allora quanto sia vero che le grandi cognizioni non vengono all'intelletto
degli uomini che per mezzo di grandi dolori. Questo è detto nell'ipotesi
di coloro i quali tengono che la rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un
certo qual senso comune, che ebbe luogo nel principio del secolo decimottavo,
abbia cominciato dalla poesia, e sia venuto nella poesia dallo studio ripreso
dei cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma
non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i quali
tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi, che fiorirono
appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e
più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro
idea d'una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di
discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e
di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione
ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di
scienza, di sentimento a cui erano giunti alcuni con una meditazione
particolare. Scorgono costoro che questi italiani cominciarono ad imparare
dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei
giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la
letteratura italiana di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro
scritti una cura più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero
con una mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca,
e diffusero a poco a poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che
avevano attinto. Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma la
principale, la prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto
letterario degli italiani. I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano
in un bell'impiccio; perché mettendola fuori, sono certi di acquistarsi il
titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione; perché è doloroso il
trovarsi tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di
acquistarsi un titolo brutto e odioso. E in verità noi vorremmo avere
qualche autorità, qualche appicco, qualche entratura coi loro avversari,
per poterli pregare di provare soltanto con ragioni di fatto che quella
opinione è falsa, e di lasciare da banda quel titolo affatto estraneo
alla questione, e fuori di proposito. E infatti, se fosse a proposito, dovrebbe
applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione sieno, i quali riconoscano
che la loro possa essere stata coltivata con gli studj d'un'altra: ora noi non
applichiamo generalmente questa misura; poiché quando troviamo negli scritti
d'un francese quella opinione che la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta
la luce delle lettere per mezzo dei grandi scrittori d'Italia; noi non
chiamiamo quella opinione una ingiuria fatta da quegli scrittori alla loro
patria, ma una generosa confessione del vero; non gli chiamiamo cattivi
cittadini, ma uomini veggenti, candidi, imparziali. Ricordiamoci adunque che
l'adoprar peso e peso, misura e misura, è cosa abbominevole; e siamo coi
nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli stranieri; senza
pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che si potranno
dire quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano un
granchio.
Per
vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più ragionevole,
bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti. La prima; in che
consistesse principalmente la corruttela delle lettere nel seicento, se questa
corruttela sia stata una deviazione forzata dalla via tenuta nel cinquecento,
quali idee si siano perdute, quali pervertite da un secolo all'altro; giacché
la corruttela delle lettere non può essere altro che smarrimento, o
pervertimento d'idee, a meno che non si voglia ammettere una letteratura che
non sia composta d'idee. L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento
siano state le idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno
riprodotta una letteratura ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa
che le lettere in Italia non erano più come lo erano state per un
secolo, una buffoneria, un mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi
con attenzione a questa parte per udire con la speranza di una istruzione, d'un
diletto razionale, quali siano le idee uscite dall'Italia e ricevute in parte
del patrimonio comune della coltura Europea. Raccolti i sommi capi di queste
idee della letteratura italiana risorta, bisognerà ancora cercarne la
sorgente; vedere se sieno state riprese, svolte dagli scritti del cinquecento,
o da che altra parte sieno venute a fare impeto nella letteratura italiana.
Quanto alla prima questione... ma qui una buona ispirazione ci avverte che
siamo fuori di strada; che musando così in ciarle di discussione mentre
si tratta di raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse
già perduti i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una
trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta
appunto a gettarsi nella storia nel momento il più critico, sulla fine
d'un volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un pretesto, una
tentazione fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove è
mestieri di una nuova risoluzione, d'un generoso proposito per riprendere e
quasi ricominciare il penoso mestiere del leggere. Noi tronchiamo dunque
subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali l'avessero letta
fin qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a
mezzo di questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il
capitolo avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in nostro
nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a piè pari al principio del
prossimo volume, che la continueremo senza interruzione, seguendo fedelmente il
manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.
TOMO TERZO
CAPITOLO I
Il
Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in
quell'ora ritirato in una stanza, dove dopo aver recitate le ore mattutine,
impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che il popolo fosse
ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e le altre
funzioni del suo ministero. Entrò con un passo concitato ed inquieto il
cappellano crocifero, e con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso,
disse al Cardinale: «Una strana visita, Monsignore illustrissimo».
«Quale?»
richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza. «Quel famoso
bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti... il Conte del
Sagrato... è qui... qui fuori, e chiede con istanza d'essere ammesso».
«Egli!»
rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare».
«Ma...»
replicò il cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe
conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze...»
«E
non è egli una buona ventura», disse il Cardinale, «che ad un tal uomo
venga voglia di presentarsi ad un vescovo?»
«È
un uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano.
«E
anche di mutar vita», disse il Cardinale.
«Monsignore
illustrissimo», insistette il cappellano «lo zelo fa dei nemici, sono arrivate
più volte fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono
vantati...»
«E
che hanno fatto?» interruppe Federigo.
«Ma
se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi,
costui che non si spaventa di nulla, venisse ora... fosse mandato, Dio sa da
chi per fare quello che gli altri...»
«Oh!
che disciplina è questa», interruppe ancora sorridendo serenamente il
vecchio, «che un officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete
voi che la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede
qualche cosa, domanda qualche cosa di più? e che a questo modo, di
cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri
d'un vescovo?»
«Ma
questo è un caso straordinario», continuò il cappellano caparbio
per premura: «Vostra Signoria non può così esporre la sua vita.
Costui è un disperato, Monsignore illustrissimo; lo rimandi; troveremo
qualche onesta scusa...»
«Ch'io
lo rimandi?» rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale. «Per farmene
un rimprovero per tutta la vita, e renderne poi conto a Dio? Via via.
Già egli ha troppo aspettato. Fatelo entrar tosto, e lasciatemi solo con
lui».
Il
cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino
partì per obbedire, dicendo in cuor suo: — non c'è rimedio: tutti
i santi sono ostinati —, epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il
più sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.
Uscito
nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli
altri presenti si stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare
sommessamente, il cappellano gli si accostò, e gli disse che Monsignore
lo aspettava; facendo nello istesso tempo, in modo da non essere veduto dal
Conte, un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: —
Quell'uomo benedetto; accoglierebbe Satanasso in persona.
Il
Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso l'archibugio, e
facendolosi passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura
dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e fatto un fascio di
tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli
consegnò quel fascio dicendo: «sotto la vostra custodia». «Signor
sì», disse il prete, e, non senza impaccio, allargando ben bene le mani,
e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza come avrebbe
fatto d'un bambino da portarsi al Fonte. Restava ancora un pugnale, di cui il
manico d'avorio intarsiato d'oro sporgeva tra il farsetto e la veste: e gli
occhi erano rivolti sul Conte, per osservare se egli compisse la buona opera di
disarmarsi e desse anche questo al curato: ma il Conte non n'ebbe pure
l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui:
gli sarebbe sembrato di andar nudo.
Il
cappellano aperse la portiera, ed introdusse il Conte; il Cardinale si
alzò, gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e
accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì.
Il Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale,
abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto.
Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni
avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di
questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli
toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio, avevano tramutate ed
offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio,
l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una
lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i
patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza,
una per così dire bellezza senile, la quale spiccava ancor più in
quella semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti ambiziosi
tutto ravvolgeva il vecchio. Stava questi aspettando che il Conte parlasse,
onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del discorso; giacché Federigo
benché non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva
voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio
personaggio avesse dinanzi; e avendo presa di questa venuta una speranza
indeterminata di qualche bene, non avrebbe voluto dire né far cosa che potesse
guastare. Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare con la
serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella
espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i
dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate; ma il Conte stava
sopra di sè, perché era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da
una inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse
dire ed udire dal Cardinale. Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio
con queste parole: «Monsignore illustrissimo... dico bene? In verità
sono da tanto tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che
si convengono... che si usano».
«Voi
non potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un
uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile».
«Sì?»
rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune...
dei preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che
per servire altrui. Ma per voi... tutti dicono che non è un semplice
linguaggio di cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere
se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente,
così inalterabilmente umile? Se fossi venuto, per soddisfare ad una mia
curiosità?»
«No,
no», replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto
il buon vescovo, «non è curiosità in voi di vedere
quest'uomiciattolo che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che
una cagione più importante vi conduce».
«Lo
sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete
discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per... via mi fareste
piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga:
parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare».
«E
che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una
buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una
buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una
buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che io son
venuto qui strascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi,
che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia,
una vergogna di essere dinanzi a voi... così, come una pinzochera... Oh
ditemi un po'; quale è questa buona nuova».
«Che
Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo»; rispose
tranquillamente il Cardinale.
«Dio?
ci siamo», replicò il Conte. «Dio! quella parola che termina tutte le
quistioni. Dov'è questo Dio?»
«Voi
me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi?
Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che
v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una
speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo
riconosciate, che lo confessiate?»
«Certo!
certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi tormenta, che
mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto
quello che dicono, non ho altra consolazione che di pensare che nemmeno il
diavolo non mi vorrebbe».
Il
Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da
spiritato, ma Federigo con una calma solenne, che comandava il silenzio e
l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi? Quello che
d'altri non farebbe. Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe
dare. Fare di voi un gran testimonio della sua forza... e della sua
bontà. Poiché finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete oggetto
di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si
lamenta, è un giudizio facile, poiché è sopra altrui, fors'anche
in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perché vorrebbe far
terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio
sarà una confessione, allora Dio sarà glorificato. Questo
può far Dio di voi; e salvarvi».
«No:
Dio non vuol salvarmi», replicò il Conte, con un dolore disperato.
«Non
vuole?» disse il Cardinale. «Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del desiderio
della vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità
che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio che ci ha redento, non
sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La
faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si
ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non
conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente.
«Dio
grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo:
«che ho mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi facessi
degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo,
egli stese la mano per prendere quella del Conte. «No», gridò questi,
«no: lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica.
Non sapete quanto sangue è stato lavato da quella che volete stringere?»
«Lasciate»,
disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, «lasciate ch'io
stringa con tenerezza — e con rispetto — questa mano che riparerà tanti
torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti
poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici».
«È
troppo!» disse il Conte singhiozzando. «Lasciatemi, Monsignore... buon
Federigo: un popolo affollato vi aspetta... tanti innocenti, tante anime
buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi
trattenete... con chi!»
«Lasciamo
le novantanove pecorelle», rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro,
sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita. Quella buona
gente, sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il
suo vescovo. Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il prodigio della
misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono
ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone
nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera, ch'egli
esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non
ancor conosciuto».
Al
fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo
aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come
strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il
Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui. Le lagrime
ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani
incolpevoli di questo cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da
gran tempo non avevano posato che le armi della violenza e del tradimento.
Sciolti
da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte:
«parlate: parlate; apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più
vi tormentano; quello che hanno di più amaro si perderà passando
su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di
giocondità, sarà una giocondità esso medesimo: non vi
lasceranno altra puntura che il desiderio di riparare al già fatto.
Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora:...»
«Ah
sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui si può
riparare tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma non è
compiuto. Lodato Dio, che non lo è. Per farvelo conoscere è
d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia confessione, quello ch'io sono: uno
scellerato... e un vile birbone; ma non importa: quello che importa, è
di cessare una crudele iniquità». Federigo stava ansioso attendendo, e
il Conte narrò dell'infame contratto di Lucia, del rapimento,
dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei primi pensieri
che a cagione di queste gli erano venuti. Il buon vescovo impallidì alla
storia dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando intese
ch'ella si trovava ancora al castello: «Ah!» disse «è salva, è
intatta: togliamola tosto da quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le
ore dell'angoscia! abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?»
«Dio!»
sclamò il Conte; «che uomo son io, se mi si richiede come un dono
ciò ch'io non ho in poter mio che per la più vile prepotenza! se
mi si chiede per misericordia di non essere più un infame!»
«Il
male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è
il bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi benedica. Dio vi ha benedetto.
D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù, e di
beneficenza. Sapete voi di che paese sia questa poveretta?»
Il
Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata
entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto quel tempo era
stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata, umile, commossa del
Conte, e su quella del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella
sua tranquilla compostezza; restò colla bocca aperta, girando gli occhi
dall'uno all'altro; ma il Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione
mezzo estatica e mezzo stordita dicendogli: «Fra i parrochi qui radunati vi
sarebbe mai quello di...?»
«V'è,
Monsignore illustrissimo», rispose il cappellano.
«Lodato
Dio!» disse il Cardinale: «chiamatelo, e con lui il curato di questa chiesa».
Il
cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano
il suo ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un colloquio che gli
teneva tutti sospesi. Tutti gli occhi furono rivolti sopra di lui: egli
alzò le mani, e movendole l'una contro l'altra con un gesto come
involontario, tutto trafelato come se avesse corso due miglia, disse: «Signori,
signori: haec mutatio dexterae Excelsi. Il signor curato della chiesa e
il signor curato di... sono chiamati da Monsignore».
Il
curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria
illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini.
Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue
opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale:
la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto
il bene possibile: credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era
profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la
carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch'egli
possedeva in un grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare. Se
ogni uomo fosse nella propria condizione quale era egli nella sua, la bellezza
del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più
confidenti. I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo
celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi
accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo
dovess'esser commosso, poiché un gran giusto ne era partito. Ma dieci miglia lontano
di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai:
e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù
che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di
fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso.
All'udirsi
chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava pregando
tacitamente, e si mosse senz'altra premura che di obbedire, senz'altra
curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche opera utile e pia da
intraprendere.
L'altro
chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio era
stato in gran parte cagione di tutto questo guazzabuglio: egli non poteva
sapere, né avrebbe mai pensato che questa chiamata avesse la menoma relazione
con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre.
Si avanzò anch'egli incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi
con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del Cappellano,
quelle sue parole che annunziavano oscuramente cose grandi, e ciò che
più stava a cuore di Don Abbondio, cose quiete.
Ambedue
i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava col
Cardinale. Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi, e guardava
l'uno e l'altro ma specialmente il Conte; e aspettava che si dicesse qualche
cosa per esser certo che non v'erano imbrogli. Il Cardinale, prese in disparte
il curato di Chiuso, e dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la
sua intenzione di spedir tosto in lettiga una donna al castello a prender
Lucia, affinché questa alla prima nuova della liberazione si trovasse con una
donna, il che sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e una
sicurezza, non meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier
tosto fra le sue parrocchiane la donna più atta a questo uficio per
saviezza, e la più pronta per carità ad assumerlo. «Ne corro in
cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona». Detto
questo uscì; i radunati nell'altra stanza lo guardarono curiosamente, ma
nessuno lo fermò per interrogarlo, giacché si sapeva ch'egli era
così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare senza rispetto
quando il dovere lo richiedesse.
Il
Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli disse: «Una
buona nuova per voi, Signor curato di... Una vostra pecorella che avrete pianta
come perduta, vive, è trovata; e voi avrete la consolazione di
ricondurla al vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio la
provvederà».
«Monsignore
illustrissimo, non so niente»; rispose Don Abbondio, il primo pensiero del
quale era sempre di scolparsi a buon conto, e di lavarsene le mani.
«Come!»
disse Federigo, «non conoscete Lucia Mondella, vostra parrocchiana, che era
scomparsa...?»
«Monsignore
sì», rispose tosto il curato, che non voleva passare per un pastore
spensierato.
«Or
bene, rallegratevi», disse il cardinale, «che Dio ce la restituisce: e questo
signore» continuò (accennando il Conte) «è lo stromento di che
Dio si serve per questa opera buona. In altro momento voi mi informerete dei
casi e delle qualità di questa giovane».
—
Ahi! ahi! — pensava fra sè Don Abbondio. — Bell'impiccio a contare la
storia! Questa donna è nata per la mia disperazione.
«Per
ora», proseguì Federigo, «quello che preme è di riaverla e di
riporla nelle braccia di sua madre, e in casa sua, se potrà esservi
sicura. Andrete voi dunque con questo mio caro amico» (e così dicendo
prese la mano del Conte il quale lasciava dire e fare troppo contento che un
tal uomo lo governasse e parlasse per lui) «andrete al suo castello
accompagnando una buona donna di questo paese che ricondurrà quella
giovane nella mia lettiga. Per far più presto, darò ordine tosto
che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui. Vedete»,
continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò che
dice, «vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del
nostro ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate, e servi
inutili che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è
visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza misericordiosa».
Le
parole del Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente
perdute. Don Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che
consolazione; si trattava di ricondurre in trionfo, alla presenza
dell'arcivescovo quella Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un
po' sporcamente, nella cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui
l'ultima persona a cui avrebbe voluto render ragione era certamente quel
Federigo Borromeo. Ma questo non era ancora il peggio: si trattava di far
viaggio con quel terribil Conte, di entrare nel suo castello senza saper
chiaramente a che fare: tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare
in tanti anni della audacia, della crudeltà, della bizzarria, della
iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione: e metteva in
moto tutta quella sua naturale paura. Ma questa timidezza stessa poi non gli
permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così preciso
dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso. Vedendo poi quello
pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don Abbondio stava guatando,
come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare sicuramente un suo
cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a
cento persone; sente il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura,
la miglior bestia del mondo; guarda il padrone e non osa contraddire per non
offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda il cane e non gli si
avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e
non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi
perché teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro,
manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte che l'ha portato in quel
gagno, in quella compagnia: tali erano i sensi e gli atti del nostro povero Don
Abbondio. Pure componendosi al meglio che potè, fece egli un inchino al
Cardinale per accennare che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte
accompagnato con un sorriso che voleva dire: — sono nelle vostre mani: abbiate
misericordia: parcere subjectis —. Ma il Conte tutto assorto nei suoi
pensieri, sbalordito egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a
riconoscersi, per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una
certa gioja tumultuosa, corrispose appena macchinalmente con una piegatura di
capo, e con un aspetto sul quale si confondevano tutti questi sentimenti in una
espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don Abbondio ancor
più sopra pensiero di prima.
Il
Cardinale, si trasse in un angolo della stanza col Conte che teneva per mano, e
gli disse: «Vi par egli, amico, che la cosa vada bene così? Siete contento
di queste disposizioni?»
«E
che?» rispose il Conte commosso e umiliato, «dopo aver tanto tempo fatto il
male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare nel ripararlo? e da
Federigo Borromeo?»
«Da
Dio tutti e due», rispose questi, «perché siamo due poveretti. Andate»,
continuò poi con tuono affettuoso e solenne; «andate, figliuol mio
diletto a toglier di pene una creatura innocente, a gustare i primi frutti
della misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto non è vero? noi passeremo
insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in questa giornata?»
«Se
io tornerò?» rispose il Conte. «Ah! se voi mi rifiutaste, io mi rimarrei
ostinato alla vostra porta come il mendico. Ho bisogno di voi! Ho cose che non
posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire ad altri che a
voi. Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete dirmi».
Federigo
in risposta gli strinse la mano, si avvicinò ad un tavolino, scosse
un'altra volta il campanello; e tosto entrò un ajutante di camera; cui
egli impose che facesse tosto apprestar la lettiga la quale stesse agli ordini
del curato di Chiuso, e facesse bardare due mule, che dovevano servire di
cavalcatura ai due presenti. Dato l'ordine, riprese la mano del Conte e
s'avviò verso la porta della stanza; ma veduto passando il nostro Don
Abbondio che stava tutto pensieroso e come ingrugnato, pensò il buon
cardinale che quegli forse avesse avuto per male di vedere quel facinoroso
così accarezzato e distinto, e sè negletto in un canto. Si
fermò tosto, e rivolto al curato con un sorriso amorevole, e quasi di
scusa, e con quel tratto cortese tanto raro a quei tempi, in cui i modi comuni
erano trascuratezza superba, o cortigianeria iperbolica, gli disse: «Figliuolo,
voi siete sempre con me nella casa del nostro Padre comune; ma questi,
questi... perierat et inventus est». Don Abbondio rispose con un sorriso
forzato al quale voleva far dire: — certo è una gran consolazione —: ma
in cuor suo tra sè e sè, rispose con una frase proverbiale
lombarda: — meglio perderlo che trovarlo —.
Il
Cardinale si avviò ancora verso la portiera; quando fu presso l'ajutante
di camera spalancò le imposte, e Federigo, traendo per mano il Conte che
lo seguiva con gli occhi bassi e con la fronte umiliata, uscì nell'altra
stanza dove il clero che lo accompagnava nella visita, e quello raccolto dalle
parrocchie del contorno, stava ragunato aspettando. Tutti gli sguardi furono
levati in un punto ai volti di quella coppia mirabile, sui quali era dipinta
una commozione diversa, ma egualmente profonda: una gioja, una tenerezza, una
estasi tranquilla sui tratti venerabili di Federigo, e su quelli del Conte i
vestigi d'una grande vittoria e d'un grande combattimento, il contrasto tra le
feroci passioni che partivano e le nuove virtù, un abbattimento che
mostrava tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. A
più d'uno dei riguardanti sovvenne allora di quelle parole d'Isaia: Il
lupo e l'agnello pascoleranno insieme; il leone participerà alla
profenda del bue. Il Cardinale s'arrestò un momento poco al di
là della soglia, abbracciò ancora il Conte, il quale non ebbe
tempo di ritirarsi, e gli disse: «v'aspetto»; salutò della mano Don
Abbondio, e mostrò di volersi avviare alla sacristia: parte del clero lo
precedette, altri lo circondarono, alcuni gli tennero dietro, e la comitiva
partì, giunse alla sacristia, dove il cardinale si vestì degli
abiti solenni, ed uscì nella chiesa affollata a celebrare gli uficj
divini. Quando fu cantato il Vangelo, il Cardinale parlò dall'altare al
popolo, come era suo costume. In quel tempo in cui la carestia era l'idea la
più famigliare, e l'affare il più importante, si diffuse egli con
eloquenza cordiale a parlare di pazienza e di liberalità; a far sentire
ai poverelli il bene che potevano cavare dai patimenti irrimediabili, agli
agiati il bene che potevano farsi col rimediare a quei patimenti che avessero
potuto: e le parole dell'uomo di Dio, produssero ivi come da per tutto il
doppio effetto ch'egli cercava; perché quelle parole erano rese ancor più
potenti dal soccorso e dall'esempio. Le largizioni abituali di Federigo le
quali non avevano altro limite che il suo avere, gli avevano data una fama
già antica di carità singolare: ma le angustie di quel tempo
avevano resa la sua carità ancor più attiva, e più ingegnosa;
e da per tutto si parlava del gran numero di poveri da lui nudriti
quotidianamente nella città, e dei mezzi da lui trovati per soccorrerli,
per non perderne uno se fosse stato possibile. Peregrinando poi nella diocesi
per visitarla, egli non avrebbe avuto il cuore di vedere delle miserie senza
sollevarle, di esortare altrui alla pazienza, alla carità, con le mani
chiuse: quindi i poverelli dei paesi dov'egli arrivava erano certi di trovare
un soccorso, di non patire per quel tempo che avrebbero avuto fra loro il
pastore. Nè questo solo esempio si contentava egli di dare: sobrio in
ogni tempo, in quelli della carestia egli si misurava ancor più
scarsamente il cibo: voleva detrarre a sè tutto ciò che poteva
sollevare altrui; non gli pareva di compatire davvero ai suoi poveri se non
pativa con essi; voleva mostrare col fatto che i disagi del vitto erano pur
tollerabili, che si poteva anche in mezzo a quelli benedire il Signore, che si
poteva non solo sostenerli con rassegnazione, ma eleggerli volonterosamente. I
quali sensi sono espressi in quelle sue belle parole: Sarebbe cosa molto
disdicevole vedere grasso il pastore e macilenti le pecore. Ma nel
discorso, che Federigo tenne in quel giorno uscivano di quando a quando come
dall'abbondanza del suo cuore parole più magnifiche, più tenere
sulla misericordia, sulla conversione, sulla vita futura, le quali erano intese
da quelli che lo avevano veduto col Conte, e in parte anche dal popolo, nel
quale s'era sparsa confusamente la notizia della gran mutazione: e quelli che
erano soliti di udirlo ebbero a dire che in quel giorno v'era nel suo dire
qualche cosa d'ispirato e di celeste oltre l'ordinario. Terminato il discorso,
compiuto il Sagrificio, attese egli alle altre funzioni del suo ministero per
lunghissima ora, con quell'ardore suo solito, con quella intensità
volonterosa e continua, che non lasciava nemmeno da sospettare che vi fosse
nelle sue azioni uno sforzo da lodare, un tedio vinto, una tolleranza virtuosa
della fatica.
Intanto
il Conte e il curato erano rimasti soli nella stanza: e la coppia era in un
altro senso non meno mirabile di quella di prima.
Don
Abbondio nojato del presente e inquieto dell'avvenire, ruminava fra sè
che cosa potesse dire a colui, per assaggiarlo, per conoscere l'umore della bestia,
giacché di voglia o di forza, doveva trovarsi con quella, e accompagnarla nella
sua caverna: ma il pover uomo non sapeva raccappezzare un pensiero, una frase
che stesse bene. — Potrei, — andava masticando fra sè, — potrei dire: mi
rallegro... buono! se mi domanda di che, come posso rispondere? mi rallegro
vuol dire che finora non c'era da rallegrarsi, vuol dire che egli era un gran
birbone. Costui è un matto furioso. E se la piglia per traverso?
È meglio parlare di cose estranee. — E appena avuta questa ispirazione,
Don Abbondio stava per dire: la giornata è un po' rigida; ma non
è da stupirsene; siamo tra le montagne e ai ventidue di novembre. Ma si
pentì tosto anche di questa risoluzione: perché diceva egli fra
sè: — non vedi come è accipigliato, meditabondo, turbato? Se gli
fo motto di simili corbellerie, mi può rispondere in furia, e togliermi
il coraggio di andare... andare! bisogna andare. Oh che faccenda! oh che
impiccio! Oh quando potrò contarla a Perpetua, e dire: è andata
bene!
Così
si angariava il pover uomo, cercando nella sua mente qualche materia di
discorso, e rigettando questa perché troppo ardita, quella perché troppo
volgare; come un povero scrittore che abbia a fare con un pubblico difficile.
Se il Conte avesse potuto sospettare che la mente di Don Abbondio era ad una
simile tortura, gli avrebbe tosto cercate le parole più atte a dare
sicurezza anche ai pusillanimi; avrebbe fatto in modo d'infondere ogni coraggio
a Don Abbondio: poiché il timore ch'egli ispirava sarebbe stato per lui in quel
momento un rimprovero doloroso, un ricordo di tutto ciò che v'era stato
in lui di feroce e d'ingiusto, di ciò ch'egli allora detestava, e voleva
riparare. Ma per disgrazia di Don Abbondio, era il Conte talmente occupato dei
suoi pensieri, talmente distratto da tutto ciò che non era, egli, il
cardinale, e Lucia, che non si avvedeva per nulla della tempesta che bolliva
nell'animo del suo compagno, e a dir vero non si ricordava quasi ch'egli fosse
presente.
Giunse
alla fine l'ajutante di camera, a dire che tutto erA in pronto. Don Abbondio
guardò allora al Conte, il quale alla prima parola intesa
s'avviò; s'accorse allora di Don Abbondio, e lo riverì, come si
fa a persona che sopraggiunga; e quindi trovandosi già presso alla porta
continuò il suo cammino seguendo l'ajutante di camera. Don Abbondio che
aspettava questo momento per vedere se il Conte gli usasse un atto di cerimonia
anzi di civiltà, e pigliarne buon augurio, fu contristato della poca
buona creanza del Conte; e gli tenne dietro con l'animo sempre più
sconsolato. Ma il Conte, come abbiam detto, era troppo sopra pensiero per
ricordarsi del cerimoniale.
Scesi
nel cortiletto della casa parrocchiale, trovarono la lettiga, con entro la
donna istrutta dal buon curato; e presso alla lettiga le due mule tenute per la
briglia da due palafrenieri. Salirono entrambi in silenzio; i lettighieri
uscirono per porsi sulla via che conduceva al castello, e i due cavalieri su le
mule sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la cui compagnia fu molto
gradita a Don Abbondio, seguirono posatamente la lettiga.
CAPITOLO II
La
casipola del curato era, ed è tuttavia, attergata alla chiesicciuola di
quel paesello: la cavalcata per porsi in via doveva girare il fianco della
chiesa, e passare davanti alla fronte sulla quale è voltato un arco che
appoggiandosi dall'altra parte sul muro della strada forma tetto sopra di
questa. Già su la porta del curato cominciava la folla di coloro che non
potendo capire in Chiesa, né stare in luogo dove si vedesse quello che vi si
faceva, cercavano almeno di starvi più presso che si potesse. Quella
pompa singolare si affacciò alla turba, e i lettighieri che erano
contadini del luogo domandarono il passo ai primi che lo impedivano, con un
certo garbo inusitato che era loro ispirato dal sentimento indistinto che
servivano a qualche cosa di santo e di gentile, dall'aver veduto il cardinale,
dalla commozione che appariva su tutti i volti. La folla faceva largo guardando
ognuno quella comitiva con maraviglia e con curiosità, e il Conte con un
riserbo che non era più quel solito terrore. Così pian piano la
comitiva si avanzava, quando giunse sotto il portico, dove si dovette
rallentare ancor più la marcia per la folla di popolo chiusa fra i due
muri; il Conte, guardando nella Chiesa dalla porta che era spalancata, si
trasse il suo cappello piumato, e inchinò la fronte fino su la chioma
della mula: atto che eccitò un mormorio di gioja e di stupore nel popolo
che poteva vederlo, e si propagò per tutta la folla, ognuno raccontandone
il motivo ai suoi vicini. Don Abbondio si trasse pure il suo gran cappello
senza piume, s'inchinò, sentì i suoi confratelli che cantavano, e
provò forse per la prima volta un sentimento d'invidia in una tale
occasione. — Oh quante volte, — diss'egli in cuor suo, — queste funzioni mi son
parute lunghe come la fame; e non vedeva l'ora d'andarmene in sagrestia a
piegare la mia cotta; e adesso torrei volontieri di star lì a cantar
fino a sera; in quella santa pace; e invece bisogna andare... Ma Dio benedetto!
— sclamò egli internamente come l'uomo che è vivamente penetrato
dal sentimento che gli si fa torto, — giacché m'avete ficcato in questo
impiccio, almeno almeno, ajutatemi.
Superata
tutta la folla, il corteggio seguì pianamente il suo cammino; ma siccome
la disposizione d'animo dei due personaggi a cavallo era sempre la stessa, anzi
i pensieri dell'uno e dell'altro diventavano sempre più intensi a misura
che si avvicinava la meta, così il cammino si faceva in silenzio, e noi
non possiamo riferire che i soliloqui dell'uno e dell'altro.
—
Gran cosa, (è il soliloquio di Don Abbondio) gran cosa, che a questo
mondo vi debbano essere dei ribaldi e dei santi, che gli uni e gli altri
debbano avere l'argento vivo addosso, che quando hanno una ribalderia, o
un'opera santa da fare, debbano sempre tirare per forza in ballo gli altri,
quelli che vorrebbero attendere ai fatti loro; e che tanto gli uni quanto gli
altri debbano venir tra i piedi a me, pover'uomo, che non m'impaccio degli
affari altrui, e che non cerco altro che di starmene quieto a casa mia! Quel
birbone di Don Rodrigo s'ha da ficcare in capo di sturbare un matrimonio,
proprio nella mia parrocchia, e m'ha da venire una intimazione di quella sorte!
Un pazzo che ha nascita e quattrini, casa ben piantata, e parenti in alto, e
potrebbe godersi la sua vita tranquilla, signorilmente: attendere a dare dei
buoni pranzi, stare allegro, e fare degli allegri: signor no: ha da desiderare
la donna d'altri, tanto per venire a molestarmi. Oh questa ragazza benedetta
vuol essere la mia morte! Deve proprio capitare in mano di costui (e
così dicendo guatava sottecchi il Conte quasi per vedere se poteva
arrischiarsi a strapazzarlo mentalmente); e costui che è sempre stato
lontano dai vescovi come il diavolo dall'acqua santa, ha da venir qui in
persona, a cercare l'arcivescovo, senza che nessuno ce lo abbia mandato per
forza, proprio per metter me in impaccio: e questo arcivescovo, benedett'uomo
che vorrebbe dirizzar le gambe ai cani, a cui pare che il mondo rovini quando
la gente sta ferma, che deve sempre far qualche cosa egli, e far fare qualche
cosa agli altri; subito, subito, tutto va bene, gran consolazione, la pecora
smarrita, credere tutto, darvi dentro, e far trottare il curato. Che si abbiano
concluso fra loro, Dio lo sa: ma, cospetto non bisogna andar così in
furia a questo mondo. La santità non basta, ci vuole un po' di prudenza,
e sì che dovrebbe avere imparato: ha avuto delle belle brighe, a forza
di cercarne, e di voler fare andar le cose a modo suo: ma pare che vi
c'ingrassi: non ne lascia scappare una; la carità va bene; ma la prima
carità dovrebb'essere per un povero curato, che un vescovo, un vero
vescovo di giudizio lo dovrebbe tener prezioso come la pupilla degli occhj
suoi. Chi sa costui che cosa gli ha contato? che fini ha? potrebb'essere una
trappola: ahi! ahi! ahi! Ma se anche, come spero, fosse convertito costui (e
qui guardava il Conte) dovrebbe sapere Monsignore illustrissimo che dei
peccatori inveterati non è da fidarsi così subito, bisogna
provarli: i primi momenti sono bruschi; e la forza dell'abito fa ricadere uno
quasi senza che se ne avvegga, e intanto... chi è sotto è sotto:
ahi! ahi! ahi! S'aveva mò a mandar così un povero curato
galantuomo sotto la bocca del cannone?
Don
Abbondio era a questo punto della sua meditazione quando la cavalcata giunse
alla taverna dove cominciava la salita, e ne uscirono bravi secondo il solito,
i quali videro con istupore il Conte con un prete dietro una lettiga. Pensarono
che potesse essere, non lo seppero indovinare, e non fecero altro che
inchinarsi al Conte, il quale con viso serio proseguì il suo cammino. Ma
Don Abbondio, continuava: — ci siamo. Oh che faccie! Questa è la porta
dell'inferno! E costui vedete che faccie stralunate fa anch'egli! Un po' pare
Sant'Antonio nel deserto quando scacciava le tentazioni, un po' pare Oloferne
in persona! Dio m'ajuti; e lo deve per giustizia.
Infatti
i pensieri che si affollavano nella mente del Conte passavano per dir
così rapidamente sulla sua faccia, come le nuvolette spinte dal vento
passano in furia a traverso la faccia del sole; alternando ad ogni momento una
luce arrabbiata, e una fredda oscurità. Pensava a quello che avrebbe
detto e fatto, mettendo il piede nel suo castello, trovandosi con quegli dai
quali in un punto s'era fatto così diverso. Avrebbe voluto rendere
gloria a Dio, confessare il cangiamento che era accaduto nel suo animo,
rinnegare la sua scellerata vita in faccia a quelli che ne erano stati i
testimonj, i complici, gli stromenti. — Ma... — diceva un altro pensiero, — guai
se costoro, credono un momento ch'io non sia più quello da stendere in
terra colui che ardisse resistermi!
Così
pensando egli pose macchinalmente la mano al luogo dov'era solito tenere una
pistola, e si ricordò di averle lasciate con le altre armi in casa del
curato. — Ohe! — continuava fra sè — Perché mi obbedirebbero costoro? e
se veggiono che questo pane infame è finito per loro, chi sa che cosa la
rabbia può suggerire a costoro! E quello che importa è di non far
parole, di non perder tempo, di ricondurre Lucia tranquillamente: quella
poveretta! il pegno del mio perdono! — Se in questa casa, se in questa caverna,
cessa un momento la disciplina, il terrore del padrone, diventa un inferno!
peggio di prima! Costoro saltano il confine, e sono in sicuro: eh gli ho
avvezzi io così! — Ma che! dovrò io dunque umiliarmi a fingere
dinanzi a costoro! a questi scellerati! Scellerati? costoro? chi sono costoro?
i miei scolari, i miei amici, quelli che ho ammaestrati io! Facciamo il bene
per l'unica via che è aperta. Bisogna dissimulare; si dissimuli. —
Così pensando egli si guardò attorno, e visto che nessuno dei
suoi era in vicinanza, alzò la voce, ordinò ai lettighieri di
restare, scese da cavallo, si avvicinò alla lettiga, e salutata la buona
donna che v'era seduta le disse sottovoce: «L'opera di carità che voi
fate ora, vuol esser condotta con prudenza assai. Lasciatevi regolare da me in
tutto; e sopra ogni cosa non dite parola che a quella poveretta, e a chi
ardisse interrogarvi, dite che parli con me. Voi entrerete nella stanza
dov'è quella giovane, le direte brevemente che siete venuta a liberarla;
non ne dubiterà, quando vedrà il suo curato: sarà
spaventata, poveretta! vedete di annunziarle la cosa in modo che la sorpresa
non le faccia male; la lettiga verrà nella stanza, e ripartiremo tosto».
La buona donna rispose che farebbe come le era detto. Mentre il Conte le dava
questa istruzione Don Abbondio, il quale fino allora si era spaventato ad ogni
bravo che s'incontrava, e che per consolarsi guardava ai lettighieri e ai
palafrenieri, stava tutto in incertezza per questa fermata, e sospirava. Il
Conte spiccatosi dalla lettiga si avvicinò alla mula di Don Abbondio che
aspettava quello che avvenisse con gli occhi sbarrati, e gli disse sotto voce:
«Signor Curato; ella non ha bisogno che io le insegni ad esser prudente; ma in
questa casa, è necessaria una prudenza che io solo pur troppo posso
conoscere appieno. Se le sta a cuore la riuscita di questo pio disegno, non
dica parola, non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, né di
quello che si vuol fare, né di quello ch'io penso. Perdoni, signor curato, se
non le dico di più, se non le faccio più scuse dell'incomodo
ch'ella patisce per mia cagione, ma Ella ne spera la ricompensa dal cielo, e
verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia
riconoscenza».
La
voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il poveretto
che è stato colto dalla caduta d'una fabbrica, e vi si trova sepolto
vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse quella del
Conte al povero nostro Don Abbondio.
«Ah!
signor Conte», diss'egli, confondendo il sentimento che voleva esprimere con
quello che provava realmente, «Ella mi dà la vita. Dio sia benedetto!
queste sono grazie di lassù. Tocca a me farle scusa se sono stato
incivile...»
«Zitto,
per amor del cielo», interruppe il Conte: «ad altro tempo le cerimonie: Ella
non faccia vista di nulla, si contenga in modo che nessuno possa sapere qui
s'ella giunge in casa d'un amico... o d'un tiranno». «Lasci fare, lasci fare a
me»; rispose Don Abbondio. Il Conte salì di nuovo su la mula, e volto ai
lettighieri, e ai palafrenieri disse loro: «Silenzio, e obbedienza: non dite né
rispondete una parola in quel castello; non parlate nemmeno fra voi; silenzio
insomma... e il primo di voi che fiata... Ma no!» continuò,
ravvedendosi, in tuono più dolce, «figliuoli non fiatate, perché
potreste far molto male a voi e ad altri. Andiamo». I lettighieri che deposta
la lettiga avevano ascoltata a bocca aperta questa arringa, ripresero le
cinghie su le spalle, continuarono la loro strada, le mule seguirono: e si
giunse alla porta del castello.
Gli
scherani del Conte che al suo avvicinarsi al castello s'incontravano sempre
più frequenti, già stupiti di quel suo uscir solo al mattino in
un giorno di tanto movimento e di tanto concorso, lo erano ancor più
allora di vederlo tornare al seguito d'una lettiga chiusa, a paro d'un prete,
con quelle cavalcature sconosciute: ma quello che portava al sommo il loro
stupore si era di vedere il loro padrone senz'armi. Quella partenza aveva dato
luogo a molte congetture, e fatta nascere una aspettazione di qualche cosa di
nuovo, ma il ritorno invece di soddisfare la curiosità la cresceva e la
impacciava davantaggio. Era una preda? Come l'aveva fatta il padrone solo? e
perché il vincitore tornava disarmato? O che diamine era? Chinandosi umilmente
davanti al padrone che passava, cercavano essi di spiare sul suo volto qualche
indizio di questa faccenda, ma il volto del Conte era impenetrabile: e gli scherani
rimanevano a guardarsi l'un l'altro con la bocca aperta.
Alla
porta, il Conte scese dalla mula, e fece cenno di fare altrettanto a Don
Abbondio che lo guardava attentamente, appunto per non perdere un cenno; e
veduto questo si lasciò tosto sdrucciolare dalla sua mula. Il Conte
disse ai palafrenieri: «aspettate qui»; disse al curato di seguire la lettiga;
andò egli dinanzi, e disse ai lettighieri: «seguitemi». Tutto si fece
com'egli aveva imposto: il Conte entrò col suo seguito nel cortile, si
avviò alla stanza dov'era Lucia, ed entrato in quella che le era vicina;
fece restare i lettighieri, si chiuse dentro, e comandò che la lettiga
fosse posta a terra. Aprì allora lo sportello, diede la mano alla buona
donna, la fece uscire e disse sotto voce in modo da non essere inteso che da
quelli che lo vedevano: «In quella stanza è la giovane da condursi via:
e con lei una vecchia malandrina... una vecchia. Io la chiamerò fuori:
voi entrate, e voi pure Signor Curato. Annunziate a quella giovane che è
libera, che deve partir tosto con voi, che la cosa deve passare quietamente;
non perdete tempo: quando ha inteso, quando è disposta, bussate, la
lettiga verrà nella stanza: fatela sedere in essa, ponetevi al suo
fianco, tirate le cortine, e venite qui: io vi aspetto: andrò innanzi,
poi la lettiga, poi il signor curato; dritto alla porta; quivi saliremo sulle
nostre mule, e ripartiremo. E voi», disse rivolto ai lettighieri: «zitti».
Così detto condusse la buona donna e il curato sulla soglia della porta
chiusa che dava alla stanza di Lucia, bussò: s'udì la voce della
vecchia che disse: «chi è egli?» «Io»: rispose il Conte: la vecchia
aprì, e vide le due facce inaspettate col padrone, restò come
incantata. «Uscite» le disse il Conte; quella uscì tosto, e i due
salvatori entrarono. «Fermatevi qui» disse allora il Conte alla vecchia; e non
disse altro: egli la vecchia e i lettighieri stettero tutti immobili, egli a
tender l'orecchio e a numerare i momenti, i lettighieri ad aspettare, e la
vecchia a smemorare.
Lucia
aveva passata la notte in un letargo agitato da sogni tormentosi e da
risvegliamenti più tormentosi ancora. Al mattino la vecchia destandosi,
aveva chiamata Lucia, e non udendo risposta, s'era levata in fretta aveva
aperte le finestre, e avvicinatasi alla captiva, chinatasi a guardarla, le
aveva chiesto se dormisse, se volesse togliersi da quel cantuccio, e ristorarsi
di cibo che doveva averne bisogno. «No, lasciatemi quieta, ricordatevi del
vostro padrone», era stata la sola risposta di Lucia. La vecchia brontolando
s'era ritirata, e per far qualche cosa s'era posta a rifare il suo letto;
quindi era andata ad una tavola dov'erano le reliquie della cena, vi si era
seduta, e s'era messa a mangiare, accompagnando questa operazione con le parole
e con gli atti ch'ella credeva più opportuni ad eccitare l'emulazione di
Lucia, e a vincere il suo proposito: poiché la vecchia non poteva supporre che
si resistesse a lungo ad una tentazione di questa fatta, principalmente dopo un
lungo digiuno come quello che aveva patito Lucia. Cominciò dunque a
sclamare: «Ih! quanta roba! ce n'è per quattro bravi! e che grazia di
Dio!» Quindi stese un mantile e cominciò a trinciare un pezzo di
stufato, regolando ogni movimento in modo che il romore eccitasse nella mente
di Lucia una immagine chiara di quello ch'ella faceva. E questa sua cura era
spinta al segno (la delicatezza dei lettori ci perdoni se per seguire
fedelmente il manoscritto in tutto ciò che può essere una
rappresentazione del costume, ripetiamo anche questa particolarità) che
postasi a mangiare, ella andava rimasticando nella sua bocca sdentata il
boccone, producendo con affettazione quei suoni, che a ragione proscrive
Monsignor della Casa; perché ella s'immaginava che in quei suoni vi fosse
qualche cosa di appetitoso: la sua educazione, e le sue antiche abitudini
avevano talmente elevata sopra le sue idee l'idea di mangiare di quei bocconi
che non sono concessi a tutti, che tutto ciò che era associato a questa
idea era per lei, importante, leggiadro, irresistibile. «Buono!» diceva di
tratto in tratto. «Buono! viva l'abbondanza! muoja la carestia! Bella cosa
vivere in casa dei signori!» E pure di tratto in tratto dava una occhiata alla
sfuggita al cantuccio, ma vedendo Lucia insensibile, si adirava
dell'inutilità dei suoi artifici così reconditi; e mescolava alle
esclamazioni di ammirazione e di gioia, un brontolio sordo di «ehn! ehn!
smorfia, smorfia, smorfia!» Venne finalmente all'ultima prova e al più
forte esperimento: prese con la sua destra rugosa e scarnata un fiasco che stava
sulla tavola, con la sinistra un bicchiere, e fattili prima cozzare un tratto e
tintinnire, sollevò il fiasco, lo inclinò sul bicchiere, lo
riempì, se lo pose alla bocca, tracannò un sorso, ritirò
il bicchiere, battè due o tre volte un labbro contra l'altro, e
sclamò: «Ah! questo risusciterebbe un morto! Bella felicità
averne dinanzi un buon fiasco! Al diavolo i rangoli, e i pensieri! Non mi duole
più nemmeno d'esser vecchia; ma se fossi giovane ih! come vorrei
godermela!» Detto questo ripose il bicchiero alla bocca, lo vuotò, e
cheta cheta si volse al cantuccio, e rimase tra lo stupore e la stizza, vedendo
che anche l'incanto più forte non aveva prodotto alcun effetto.
«Non
volete mangiare un boccone e bere un sorso?» diss'ella a Lucia. «No»: fu la
risposta proferita in modo da non lasciare alla vecchia la lusinga che la
insistenza produrrebbe maggior effetto. Finalmente la vecchia si levò
dalla tavola, prese una scranna, la portò presso una finestra, e tolta
la sua rocca si pose a filare, pensando ai casi suoi ed aspettando la venuta
del padrone con molta inquietudine.
Per
comprendere i pensieri stranamente molesti che ronzavano nella mente della
vecchia filatrice è necessario avere una idea di quella mente, e dei
casi che l'avevano modificata.
Era
costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte, o per
dir meglio del padre del Conte, dieci anni prima di questo. Ciò ch'ella
aveva inteso, ciò ch'ella aveva veduto dai suoi primi anni le avevano
dato un concetto grande, indeterminato, predominante del potere e del lustro
dei suoi padroni. La massima principale ch'ella aveva attinta dalle istruzioni,
dagli esempj, da tutto, era che bisognava obbedir loro: che ciò fosse
per dovere, fosse per interesse, fosse per destino erano questioni che non
s'erano mai presentate al suo spirito: ella sapeva che bisognava obbedire. Ebbe
ella poi l'onore di sposare il custode del castello quando i padroni non
facevano ivi che una breve villeggiatura, abitando in Milano la maggior parte
dell'anno. L'uficio del marito doveva presentare cento occasioni che
rinforzassero ed estendessero l'idea che la nostra allora giovane donna aveva
del potere della famiglia per lei sovrana; e le parti ch'ella doveva prendere
nei servizj del marito le furono occasione di applicare la sua obbedienza, di
esercitarla, e di avvezzarla a tutto. Quando il Conte divenne padrone, quel
potere divenne ancor più grande e più attivo, in proporzione
dell'attività violenta dell'animo di lui; e coloro che erano ministri di
questo potere dovettero divenire ancor più obbedienti, e più
soperchiatori, essere più spaventati e fare più spavento; pochi
servitori ai quali la coscienza disse che era troppo, si ritirarono; quegli che
rimasero crebbero nella perversità, come una pianta velenosa cresce di
grandezza e di forza malefica quando si trova in un terreno confacente. Il
marito della nostra eroina episodica fu di quelli che rimasero.
Quando
poi il Conte, carico già di delitti, e bandito capitalmente venne ad
abitare stabilmente il castello, che fu per lui un asilo ed un campo allo
stesso tempo, per condurvi quella vita della quale abbiamo dato un cenno,
è facile immaginarsi quale dovesse essere allora l'attività e
l'obbedienza di coloro che stavano al suo servizio e presso a lui. La sciagurata
fu madre di una figlia che a suo tempo fu sposata ad uno scherano del Conte, e
di due figli che furono scherani, e furono soprannominati il Nato-in-casa e lo
Spettinato. Alla morte del marito, ella rimase senza servizio determinato, ma
destinata a tutti quelli, che potevano essere prestati da una donna accostumata
com'ell'era. Tener disposto il pranzo pei bravi a qualunque ora tornassero da
una spedizione, medicare i feriti, accudire insomma ad essi, era la sua
occupazione più ordinaria: quasi tutte le sue idee erano ricavate dai
loro colloquj; ma tutte erano dominate da una idea principale, quella di non
dispiacere al padrone. Le impressioni della infanzia l'avevano abituata ad una
riverenza tremante per lui, vissuta ai suoi servizj ella non poteva immaginare
che fuori di lui vi potesse essere per essa un asilo, un sostegno; e aveva
tanto inteso dire, tanto aveva veduto degli effetti della collera di lui, che
il minimo grado di quella collera la metteva in un'angoscia mortale. In tutto
ciò che ella aveva a fare e a dire non aveva quindi da gran tempo altra
cura che di accontentarlo, ogni altra regola taceva dinanzi a questo unico
interesse che era quasi divenuto un istinto: anzi ogni altra regola si era a
poco a poco quasi smarrita affatto dalle sue idee. Quei pochi pensieri e
documenti di religione che le erano stati dati confusamente nella infanzia
erano obliterati dal disuso, dal non sentirli mai rammemorare; e l'idea di
giusto e d'ingiusto che pure è deposta come un germe nel cuore di tutti
gli uomini, svolta nel suo, fin dal principio insieme con le passioni del
terrore e della cupidigia servile, accomodata per abito ai principj che
tuttogiorno sentiva predicare, ed alle azioni che vedeva compiersi e alle quali
ella partecipava, era divenuta una applicazione mostruosa di tutte queste idee
e di tutte quelle passioni. La volontà capricciosa, irregolare, violenta
del Conte era per lei una specie di giustizia fatale; spiacergli era colpa o
sventura, male insomma. La ragione o il torto stavano per essa nella
approvazione o nel malcontento del terribile padrone: poiché quale altro motivo
di ragione comune poteva aver luogo in quella casa, e fra quelle persone? quale
principio generale di equità avrebbe potuto essere invocato da coloro
che non li riconoscevano nei rapporti con gli altri, che li violavano tutti? E
come mai avrebbe potuto aver ragione una volta quella che servendo alle
soperchierie, e rallegrandosene rinunziava di fatto ad ogni principio di
diritto, e nello stesso tempo non aveva forza alcuna, non aveva una minaccia
per sostenere un diritto quando il suo interesse la portasse a sentirlo e ad
ammetterlo? A tutte queste abitudini di servitù, e di annegazione
perversa, si aggiungeva un sentimento, in origine migliore, che li rinforzava;
il sentimento della riconoscenza. Avvezza costei a ricevere il suo
sostentamento dal Conte, riconosceva la vita come un dono della volontà
di lui: come un beneficio della sua potenza. E avvezza pure a risguardarsi
dalla infanzia come cosa del suo signore provava un certo orgoglio di consenso
per quella sua potenza, pel terrore ch'egli incuteva, le pareva di essere
qualche parte di un sistema molto importante. La gioja orrenda ch'ella aveva
provata tante volte nella sua vita pel buon successo delle imprese del Conte, gioja
che nasceva da tutti i sentimenti abituali che abbiamo descritti, l'avevano
resa non indifferente, ma propensa ai patimenti altrui, ed ella gli procurava
con compiacenza ogni volta che il timore del padrone le avesse permesso o
consigliato di farlo. Bersaglio sovente degli strapazzi e degli scherni dei
bravi, ella aveva imparato a tollerare, rodendosi quando non poteva ripetere;
ma quelle poche volte che le era lecito di straziarli impunemente senza
dispiacere del padrone, le uscivano dalla bocca cose tanto argute, tanto
profonde, tanto inaspettate, che il diavolo vi avrebbe trovato da imparare.
Intendete
ora perché la vecchia guardando Lucia, faceva saltare il fuso con istizza, e di
tempo in tempo lo lasciava oscillare penzolone per aria, tutta assorta nei
pensieri del terrore? Dagli ordini che il padrone le aveva dati partendo, e dal
tuono con cui gli aveva proferiti, ella aveva compreso, che al padrone premeva
quella ragazza, ch'egli l'aveva fatta pigliare e la riteneva chi sa perché?, ma
che voleva ch'ella fosse contenta. Vedendo ora che tutti i suoi tentativi per
raddolcirla erano inutili, che la obbedienza, il garbo quasi servile, gl'inviti
amichevoli non avevano servito a nulla, stava in angoscia pensando a quello che
avrebbe detto il padrone, quando tornando avrebbe trovata Lucia in quello stato
di abbattimento. Poter dire: — io non ci ho colpa — non era un pensiero che
rassicurasse la vecchia, perché ella era solita a vedere che il padrone
misurava il suo tratto con gli uomini dalla soddisfazione o dalla noja che
sentiva, e non da altro. Che colpa avevano tanti ch'egli aveva mandati
all'altro mondo? e alla sorte dei quali ella stessa aveva applaudito? Tentava
ella dunque di tempo in tempo Lucia con qualche parola dolce, nella quale a dir
vero ella stessa poneva poca fiducia, dopo d'aver veduto Lucia resistere alla
tentazione del mangiare: e in fatti non otteneva da Lucia altra risposta che un
«no» talvolta replicato, al quale ella ammutoliva: e si stava come abbiam
detto, aspettando con la venuta del padrone la rivelazione del destino.
Ma
la povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, intero, e
per dirla con un calzante modo milanese non aveva mai potuto dormire serrato,
così a giorno fatto, nella luce chiara, non era desta perfettamente. Le
memorie, i terrori, le speranze si agitavano e si succedevano nella sua mente
con quell'impeto volubile, con quel vigore incerto dei sogni, e il corpo
sbattuto, estenuato dai travagli, dal digiuno e dalla febbre non concedeva allo
spirito il pieno esercizio della coscienza.
In
questo stato era Lucia sempre rannicchiata, quando fu bussato dal Conte, la
porta s'aperse, la vecchia uscì, e la buona donna entrò con Don
Abbondio. Tutto questo fu un istante; ma un istante di nuovo batticuore per Lucia
alla quale se lo stato presente era intollerabile, ogni mutazione era
però una contingenza di spavento. Fissò ella gli occhi nei
sopravvegnenti, vide una donna e si rincorò, vide un prete, e le sue
speranze si accrebbero; guardò più attentamente: — è egli
o non è? son'io trasognata? È il mio curato! — La buona donna si
avvicinò a Lucia che senza quasi pensarvi si alzò, e salutatala
con un volto di pietà cortese, si pose l'indice della destra su le
labbra, e stesa la manca la abbassava e la rialzava lentamente come si dipinge
il Salvatore che acquieta i flutti del mare di Tiberiade, e disse con voce
sommessa, allegramente: «veniamo a liberarvi».
«È
dunque la Madonna che vi manda?» disse Lucia con un giubilo ancora incerto, ma
pur vivissimo.
«Può
essere», rispose la buona donna.
«Chi
siete? come avete potuto...?» cominciò Lucia alla buona donna; indi
tosto rapita da un'altra brama di sapere, si rivolse al curato, e
continuò: «e lei, signor curato: come...?»
«Ah!
vedete?» rispose Don Abbondio: «son qui io, il vostro curato, a liberarvi, dal
lago dei leoni, senza riguardi per me, in una giornata fredda, a cavallo...»
«E
mia madre?» domandò ancora Lucia, a cui le idee si succedevano in folla.
«La
vedrete presto, oggi», rispose Don Abbondio: «ma prima dovete vedere ben altro
personaggio...»
«Chi?
dove?» richiese Lucia.
«Monsignore
illustrissimo, che ci aspetta, che vuol vedervi. Ma abbiate giudizio: badate a
quel che dite; voi non potete avere pratica di quello che va detto e taciuto ai
signori grandi. Vi chiederà delle vostre vicende: non istate a troppo
ciarlare: vi può far del bene; ma bisogna guardarsi dal toccar certe
corde: non parlate del matrimonio, perché, vedete, se sapesse che avete voluto
sorprendere il curato, fare un matrimonio clandestino, guai, guai...!»
«Chi
è Monsignore illustrissimo?» domandò Lucia.
«È
il cardinale arcivescovo», rispose Don Abbondio, «un uomo di Dio, ma bisogna
saperlo pigliare, perché...»
«Andiamo
tosto», disse la buona donna.
«È
vero», disse Don Abbondio, «andiamo perché qui non è troppo sano stare:
ma ricordatevi di quello che v'ho detto».
«Come
faremo ad uscire?» disse Lucia: «e se ci veggono?»
«Non
temete», disse la buona donna: «il padrone del castello viene egli stesso a
cavarvene: qui fuori è la lettiga, voi entrerete con me, e partiremo col
signor curato».
«Ho
da vederlo ancora il padrone?» chiese ansiosamente Lucia, per la quale il Conte
era ridivenuto orrendo, da poich'ella aveva veduti due visi umani. E
continuò: «ho paura di lui: ho paura».
«Che
paura?» disse Don Abbondio, «siete con me, ed è mio amico. Risolvetevi».
«Non
lo vedrete», disse la buona donna: «noi ci chiudiamo nella lettiga e si parte,
e in un momento siamo a Chiuso».
«Ah!
Chiuso!» sclamò Lucia: «dov'è quel buon curato! andiamo, andiamo.
Oh Madonna santissima, vi ringrazio! Me lo sentiva in cuore che non mi avreste
abbandonata!»
La
buona donna aperse un filo della porta tanto da poter far un cenno, che fu
tosto veduto dal Conte, il quale comandò ai lettighieri di andare
nell'altra stanza. Queglino vi portarono la lettiga, Lucia vi entrò, e
la buona donna dopo lei, si tirarono le cortine, i lettighieri uscirono, il
curato dietro: nell'altra stanza il Conte si accompagnò con lui, disse
alla vecchia: «aspettatemi qui un'ora, e se non torno andate a fare i fatti
vostri». Nel cortile, alla porta del castello, il Conte e il curato a cavallo,
la lettiga davanti, giù per la discesa, e diritto a Chiuso. A misura che
la caravana si avanzava nel suo viaggio, tutti quelli che la componevano,
respiravano più liberamente. Appena la buona donna fu nella lettiga, al
momento che i portatori la sollevavano per partire, ella raccomandò a
Lucia di non parlare finch'ella non gliene desse avviso. Ma poi che dallo
scalpito delle mule che seguivano s'accorse che era varcata la soglia,
cominciò a guardare un po' fuori delle cortine, e vista la strada
libera, ruppe ella stessa il silenzio dicendo a Lucia: «Povera giovane! l'avete
passata brutta! Ma Dio ha pensato a voi, e tutto è finito».
Queste
parole diedero campo a Lucia d'interrogare la buona donna; che cercava di
soddisfare alle sue domande, dicendo quel poco che sapeva, e come lo sapeva.
Lucia a poco a poco vedeva un po' più di lume nelle sue strane e
terribili avventure: le risposte della buona donna la rimettevano sulla via, e
l'ajutavano a spiegare tanti misteri della sua sventura e della sua inaspettata
salute; tanto che in quel viaggio Lucia potè farsi una idea del suo
stato, comprendere qualche cosa, ed uscire da quella affannosa confusione
d'idee nella quale lo strano, l'insolito, di quello che si vede e si soffre non
lascia riposare la mente in alcuna, non lascia altra certezza che quella di
esistere, e questa stessa diviene un tormento.
«Oh
quando potrò vedere mia madre!» sclamò Lucia appena si
sentì rassicurata, e potè discernere quello che era reale, quello
che era possibile. La buona donna le promise che appena suo marito tornerebbe
dalla Chiesa, ella lo determinerebbe ad andarne in cerca, ad informarla, a
condurla presso di lei.
Don
Abbondio pigliava fiato ad ogni passo; la conferenza che il Cardinale avrebbe
con Lucia, gli dava un po' di briga per le cose che si dovevano rivangare di
quel tale matrimonio: vedeva in lontano dei pericoli per parte di Don Rodrigo;
ma il sentimento predominante era allora la gioja di uscire sano e salvo da
quella spedizione. Pieno di questo sentimento, Don Abbondio aveva una
parlantina che nessuno gli avrebbe supposta vedendolo così silenzioso
nella prima andata; e non avrebbe rifinito di ciarlare col Conte, se questi
avesse fatto tenore ai suoi inviti. Ma il Conte benché lieto di ricondurre
Lucia al Cardinale, era tuttavia troppo compreso da tanti sentimenti per
prestarsi alla garrulità di Don Abbondio. Ed oltre il resto era anche un
po' umiliato internamente dell'inquietudine che aveva provata nella spedizione,
delle precauzioni che aveva prese in casa sua, di una prudenza che gli pareva
pusillanimità. Ma il Conte non si conosceva: s'era fatta nel suo animo
una rivoluzione della quale egli non s'era reso ben conto: v'eran nati dei
sentimenti, vi s'erano svolte delle disposizioni ch'egli non aveva ancora
potuto ben raffigurare: e non s'avvedeva che questa pusillanimità era
una nuova sollecitudine pia e gentile per una debole innocente, una delicatezza
fin allora estrania all'animo suo, un timore che non si sarebbe presentato a
quell'animo se non si fosse trattato che d'un proprio pericolo.
Giunsero
a Chiuso che il Cardinale, il clero e il popolo erano ancora nella Chiesa. La
buona donna fece andar la lettiga a casa sua, dove discese, e condusse Lucia
già tutta rassicurata, e tosto le fece animo a ristorarsi dopo un
sì lungo digiuno. L'invito era ben altrimenti gradevole che non nella
bocca della vecchia del castello, e Lucia, che sentiva il bisogno di nutrimento,
accondiscese con riconoscenza. Intanto Don Abbondio e il Conte entrarono nella
casa del curato, e quivi si stettero ad aspettare il Cardinale.
Questi
non tardò molto a venire, precedendo velocemente il clero che gli faceva
codazzo, ed entrato nella stanza, e veduti i due tornati, chiese tosto con
ansietà: «È qui?»
«È
qui», rispose il Conte.
«L'abbiamo
condotta sanamente», rispose Don Abbondio.
«Dio
sia lodato!» sclamò il cardinale: «e ve ne rimeriti entrambi». E preso
in disparte il Conte, mentre gli altri si ritiravano: «Non siete più
contento ora?» gli chiese. «Vedete, se Dio ancor non sa che fare di voi?»
Quindi per quella gentile e minuta sollecitudine ch'egli metteva anche nelle
cose più gravi: «voi dovete essere affaticato», disse al Conte, «certo
voi non mi abbandonerete oggi: e... ma questa mattina voi non avete certo
pensato a far colazione?»
«No
davvero», rispose il Conte.
«Bene,
bene», rispose il Cardinale, «io voglio cominciare a provare se posso farmi
obbedire da voi», e traendolo per la mano si avvicinò al buon curato di
Chiuso, che se ne stava cheto fra gli altri, e gli disse, con aria sorridente:
«Signor
curato, voi siete tanto umile che sarebbe dabbenaggine il non far da padrone in
casa vostra. Io invito il signor Conte a pranzare con noi».
Il
curato che non lasciava mai scappare l'occasione di rispondere con un testo
della Bibbia, disse levando le mani al cielo, e poi stendendole amorevolmente
verso il Conte: «Benedictus qui venit in nomine Domini».
Don
Abbondio invitato anch'egli, si rifiutò dicendo di non volere
abbandonare per lungo tempo il suo ovile; uscì dalla casa del curato,
entrò in quella dove era ricoverata Lucia, alla quale raccomandò
ancora fortemente di non parlare di matrimonio col cardinale, quindi, se ne
andò a casa. Intanto la refezione fu pronta, e il cardinale si sedette a
mensa, tenendosi presso da un lato il curato, dall'altro il Conte e poscia gli
altri ecclesiastici del suo seguito in un ordine consueto. La frugalità
di Federigo era tanto al di qua della temperanza, che virtù in lui,
sarebbe divenuta indiscrezione se egli avesse voluto imporla agli altri: quindi
nel suo palazzo la mensa dei famigliari non si misurava dalla sua; anzi in
paragone di questa si poteva dir lauta. Quando poi visitando la diocesi egli era
ospite dei parrochi, questi sapevano troppo bene che un trattamento fastoso non
era il mezzo di entrare in grazia a quell'uomo, e si regolavano in conseguenza.
Il curato di Chiuso poi aveva un modo di pensare molto singolare. Egli riteneva
che trattare sontuosamente un uomo il quale predicava a tutta possa la
povertà e la modestia, sarebbe stato un dirgli coi fatti se non in
parole: — io vi credo un ipocrita —. Per altra parte, la borsa del curato era
ordinariamente e tanto più in quell'anno, fornita a un di presso come
quella d'un figlio scialacquatore che abbia il padre spilorcio: e l'aspetto poi
della miseria universale era tanto terribile, e tanto presente ad ogni momento
che un trattamento fastoso avrebbe fatto ribrezzo anche a chi non avesse avuta la
carità delicata e profonda del Cardinale Federigo e del Curato di
Chiuso. Da tutti questi fatti venne di conseguenza che la tavola di quel giorno
somigliò molto più alla tavola ordinaria del cardinale che a
quella dei suoi famigliari.
Ma
quella conversazione, resa così singolare dalla presenza del Conte, fu
gioconda. Il Cardinale, benché atterrato dalle fatiche e angustiato dalle cure
continue, e dalla vista continua dei mali, pure aveva sentita in quel giorno
una consolazione che traspariva nella sua faccia, e si diffondeva nei suoi
discorsi, e passava nei suoi commensali. Il Conte stesso, quantunque la sua
vita intera pesasse in quel giorno su la sua memoria, quantunque tanti fatti si
presentassero alla sua mente, spogliati di quella maschera con cui gli aveva
veduti nel momento della esecuzione, e lasciassero ora vedere la loro forma
vera e spaventosa, pure sentiva una certa pace in quel nuovo consorzio fra
quelle idee che gli facevano intravedere una nuova vita di mente, un nuovo
interesse, una serie di pensieri coi quali si potesse vivere. Dopo la mensa
usava il Cardinale nelle sue visite di prendere un breve riposo, e poi di
continuare le faccende pastorali per le quali era venuto. Ma in quel giorno non
v'era riposo per lui che nello stare più che poteva unito all'animo del
Conte per uniformarlo al suo; e la vigna di quel buon prete Morazzone era tanto
ben coltivata che aveva poco bisogno della ispezione di Federigo. Si
levò egli dunque, e preso per mano il Conte che lo seguì
volenteroso, si chiuse in una stanza con lui. Del colloquio ivi tenutosi non
v'è traccia nel nostro manoscritto, né a dir vero noi ne facciamo carico
all'autore, maravigliati come siamo ch'egli abbia potuto pescar qualche cosa di
quel primo abboccamento; quando il Ripamonti stesso, un famigliare del
Cardinale, e biografo di lui protesta che delle cose passate tra questo e il
Conte nel secondo colloquio nulla ha trapelato. Quel poco però che il
Ripamonti dice degli effetti di questo secondo colloquio serve molto a dare una
idea della importanza della mutazione d'un uomo in quei tempi, e a dipinger
meglio il Conte. Noi crediamo far cosa opportuna traducendo quel poco dal bel
latino di quello scrittore poco conosciuto, e che meriterebbe certamente di
esserlo più di tanti altri, e perché in tanta perversità di idee,
di cognizioni, di giudizj, e di stile, egli (che che ne dica molto leggiermente
il Tiraboschi) fu uno di quelli che più si avvicinarono a quella
castigatezza e a quella semplicità che da se stessa si attacca alle
parole dove è espresso il vero; e perché in qualche parte delle sue
storie, e principalmente nella vita del Card. Borromeo, e nella Descrizione
della peste di Milano, si trovano osservazioni e pitture, di costume, che
invano si cercherebbero altrove, e che possono arricchire la storia tanto
scarsa dell'animo umano. Ecco il passo del Ripamonti.
«Che
sia stato detto in quel colloquio, non è a nostra notizia; perché, né
fra noi v'era chi fosse ardito d'inchiederne il Cardinale; né mai quell'altro
ne fece motto con chicchessia. Certo dopo il colloquio, tanta e sì
repentina fu la mutazione d'animo e di costumi di quell'uomo, che nessuno
dubitò di attribuire il prodigio alla efficacia di quel colloquio; e
tutta quella famiglia di scherani vide in quel fatto la mano del Cardinale, e
lo colse in odio come colui che le aveva tolto il suo guadagno. L'altra
famiglia pure che sparsa ed appostata nei due Stati viveva degli ordini
sanguinolenti di costui, s'accorse dal cessare delle orribili paghe della nuova
mansuetudine di lui. Ad un tempo, molti dei principali della città uniti
con lui in occulta società di atroci consigli e di funeste faccende,
poiché videro le faccende già accordate e avviate rimanersi a mezzo
abbandonate da lui, s'apposero tosto ch'egli aveva cangiato vita, né poterono
disconoscere l'autore d'un tanto cangiamento. E dovettero pure avvertirlo
alcuni principi stranieri che da lontano avevano adoperato quest'uomo a qualche
grande uccisione, e gli avevano più volte mandati ajuti, e ministri: ma
sospesi andavano fantasticando la cagione del cangiamento; fin che fu loro
manifestata dalla fama. Io, siccome non avrei voluto per ingrandire il fatto
aggiungervi nulla del mio; così non debbo pure toglier fede a ciò
che è toccato con mano. Vidi io stesso poco dopo quell'uomo ancora in
salda e rubesta vecchiezza; non aveva dell'antica ferocia che i vestigj e le
marche con che la natura manifesta le inclinazioni e le pecche d'ognuno: ma
queste marche stesse apparivano temperate e quasi coperte dalla recente
mansuetudine: e indicavano una natura disciplinata e vinta, come da una forza
poderosa».
Le
notizie, che si ricavano da questo passo, quantunque ravvolte in termini tanto
generali, ci sono sembrate adatte a supplire almeno in parte alla scarsezza del
nostro autore, il quale dopo aver eccitata tanta curiosità su quel
personaggio e sulla sua conversione, non ne accenna altro effetto che la
liberazione di Lucia; forse perché gli altri gli sono paruti estranei al suo
racconto, o fors'anche perché a parlarne, gli conveniva rimescolare più
maneggj, e toccare più persone che non comportasse la sua squisita
prudenza.
Riferisce
egli però compendiosamente le prime disposizioni che il Conte diede in
quel giorno stesso al nuovo governo della sua famiglia; e noi le ripeteremo
dietro la sua relazione. Staccatosi dal Cardinale egli si avviò solo, a
piede, e disarmato com'era al castello, e fece la strada e l'entrata con quella
sicurezza e fortezza d'animo che non aveva avuta nella spedizione del mattino:
perché egli non aveva ora una innocente da mettere in salvo: i pericoli se ve
ne aveva, erano tutti per lui; e il disprezzo dei pericoli fatto già in
lui un sentimento abituale, acquistava allora una nuova forza, una nuova
ragione dai suoi nuovi pensieri. La sua condotta di tanti anni lo aveva posto
in una situazione tale che per assicurare la sua vita, egli aveva mestieri di
molto più mezzi e riguardi che non abbisognassero al comune degli
uomini; e una delle prime riflessioni che gli erano occorse dopo il suo
proposito di nuova condotta si era che una gran parte di questi mezzi non
poteva più conciliarsi con questa sua nuova condotta. Ma egli aveva
sentito con persuasione (e probabilmente fu questo uno dei capi che egli
discusse in quel colloquio col Cardinale), aveva sentito che le ingiustizie
passate non potevano rendergli necessarie nuove ingiustizie, che egli doveva
assicurare la propria vita solo perché questo era un dovere, e che era un
dovere soltanto fin dove per adempirlo, non si dovesse ricorrere che a mezzi
leciti; che i pericoli che potevano nascere per lui nel suo nuovo genere di
vita inoffensiva ed espiatoria erano una conseguenza del male da lui fatto a
man salva per sì lungo tempo, una punizione ch'egli doveva subire.
Quindi tutta la vigoria d'animo ch'egli impiegava altre volte nell'offendere,
s'era ora trasformata in una vigorosa disposizione a tollerare: era un
dissimile ma eguale anzi più forte coraggio: e continuò a
produrre l'effetto solito di questo dono, quello di far rispettare colui che ne
è fornito.
Entrato
il Conte nel castello, comandò che si ragunassero tutti i suoi... non
sapeva trovare un nome che tutti gli abbracciasse... «Tutti gli uomini» disse,
dopo d'avere esitato un momento. L'apparizione misteriosa del mattino, la
ripartita e l'assenza avevano destata una grande curiosità: erano
già corsi fino al castello romori che annunziavano la conversione del
Conte, e il tripudio di tutti gli abitanti del vicinato, e di quelli che erano
concorsi in quel giorno all'arrivo del Cardinale: tutti i bravi, che si trovavano
al castello, o nei primi dintorni, vennero alla chiamata con molta
ansietà. Congregati che furono, il Conte con viso fermo, con voce
risoluta, e senza tergiversare, dichiarò a tutti ch'egli aveva proposto
di mutar vita, che si doleva e si vergognava della passata, che a tutti
chiedeva perdono degli orribili esempj, e degli incitamenti che aveva loro dati
a mal fare, che quanto era in lui egli gli avrebbe tutti ajutati con un nuovo
esempio, e coi mezzi ch'erano in sua facoltà ad operare diversamente:
che quelli i quali fossero del suo parere, rimanendo con lui, potevano esser
certi ch'egli avrebbe avvisato tosto al modo d'impiegare la loro opera in un
modo utile ed onesto, e ad ogni modo avrebbe diviso con essi fino all'ultimo
tozzo di pane; ma che protezione per ribalderie non ne avrebbe più data
ad alcuno: e che finalmente quelli ai quali non piacesse di sottoporsi a questa
nuova regola, dovessero partirsi dal suo servizio, ch'egli era dolente di
perdergli, ma risoluto.
La
più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie e forti
impressioni nel popolo d'Atene, quanto il breve discorso del Conte in quel
picciolo popolo selvaggio. Ma per quanto diversi fossero i pensieri che
sorbollivano in quei cervelli ad un tale annunzio, l'effetto esterno fu un
solo: un cupo silenzio. Molti di quei ragunati erano contadini del Conte,
stabiliti sui suoi poderi, avvezzi dall'infanzia ad obbedirgli, e taluni fra di
essi erano divenuti scellerati per obbedienza, tutti questi non vedevano un
avvenire un po' sicuro che rimanendo con lui, e questi risolvettero di
sottomettersi alle nuove condizioni, e di rassegnarsi a divenire galantuomini.
Altri fuorusciti di mestiere, venuti da altri paesi, senza famiglia, né
avviamento, bestemmiavano in cuor loro la risoluzione del padrone, ma tanto era
il predominio che il carattere di lui aveva preso sull'animo loro, che non
ardivano fare un motto di lamento. Questa idea di conversione era confusa nei
loro cervellacci, e non potevano nemmeno immaginarsi che in un uomo come il
Conte potesse produrre l'effetto di fargli sopportare una risposta arrogante:
pensavano che una temerità usatagli produrrebbe il solito effetto, con
la sola differenza che il temerario morrebbe ora per le mani d'un santo.
Così incerti l'uno dell'altro, nessuno osava fiatare il primo; e la
sommissione dei primi che si manifestava sui loro volti e nel contegno,
toglieva ancor più a quei secondi l'animo di poter dire o far nulla che
potesse spiacere al Conte. Quel tripudio poi, quel rincoramento che s'era
manifestato nella popolazione gli rendeva ancor più irresoluti,
avrebbero potuto ridersi di questa gioja impotente finché avevano il Conte per
loro, alla lor testa, ma quando la folla era con lui, e sarebbe stata contra
loro, si trovavano come smarriti.
Dopo
quel breve silenzio, il Conte si rivolse a quello che più gli era
vicino, e gli chiese risolutamente quale fosse il partito ch'egli sceglieva, e
così di mano in mano con tutti. Dava lodi e promesse a quelli che
chiedevano di rimanere, ammoniva gli altri, e quando ripetevano di voler
partire, chiedeva loro quanta parte di salario fosse loro dovuta; vi aggiungeva
una gratificazione, scriveva la somma sur una cartolina che teneva nella mano
sinistra, la dava a colui che voleva partire, gli comandava di andare
dall'intendente a farsi pagare, e di uscir tosto dal castello. Tutti pigliavano
la carta, e se ne andavano senza far motto. In tutti questi parlamenti il
carattere del Conte aveva fatto naturalmente, e senza che il Conte lo sapesse
bene, ciò che fatto a disegno sarebbe stato un miracolo di presenza di
spirito e di artificiosa prudenza, e forse non avrebbe potuto così bene
riuscire. Nelle ammonizioni ch'egli dava a coloro, nelle esortazioni a meglio
riflettere, nelle preghiere stesse, fino nelle scuse non v'era mai un momento
in cui il suo interlocutore potesse sentire una superiorità, intravedere
in lui punto di debolezza, d'irresoluzione, di abbassamento, che invitasse
nemmeno uno di quegli animi ad elevarsi e a cadergli addosso. Quale divenisse
il castello dopo la partenza di quei più facinorosi, il manoscritto non
lo dice, né ci è venuto fatto di trovarne notizia altrove. Il nostro
autore dice che il Conte andò ogni giorno ad abboccarsi col Cardinale
finché durò la visita di esso in quei contorni: di un solo di questi abboccamenti
egli riferisce le particolarità, e il nome del Conte del Sagrato non
ricompare poi più nel manoscritto.
CAPITOLO III
Quando
il Cardinale, terminate le funzioni di quella mattina, si ritirò dalla
Chiesa nella casa del curato, tutto il popolo che era stivato nella chiesa, o
ammucchiato al di fuori, si sciolse poco a poco, e ognuno s'avviò a
casa. Quando il marito della buona donna entrò nella sua, la donna gli
corse incontro, gli presentò la ospite inaspettata, e gliene fece in
succinto la storia. Il marito fu molto lieto che la sua donna fosse stata
prescelta a quell'uficio, ed avesse una parte nella storia di quel giorno, e fu
anche tocco assai dalle sventure della nostra Lucia: di modo che quando la
donna gli propose di andare al paese di Lucia, ch'era discosto circa tre
miglia, e di annunziare ad Agnese ciò ch'era accaduto, e di condurla
alla figlia, l'uomo accolse la proposta con giubilo: le funzioni, la predica
del Cardinale, la solennità e la pompa straordinaria avevano messo un
certo entusiasmo nell'animo d'ognuno degli spettatori: e questo sentimento,
messo in comune in quel concorso di popolo, ritornava con maggior forza
sull'animo di tutti: non è quindi da farsi maraviglia, se Tommaso
Dalceppo, all'udirsi proporre una faccenda che era tanto in armonia con quel
suo sentimento, non pensò né alla fatica, né all'incomodo, ma
gioì nella conformità di quello che sentiva e di quello che
doveva fare. Mangiò un boccone in piedi, tolse una mula che aveva in
istalla, e partì di volo.
La
buona donna (perché la bontà vera e abituale ispira tutti i pensieri
della gentilezza, la quale non è altro che l'espressione o la finzione
della bontà) la buona donna pensò che Lucia dopo tante scosse
avrebbe gustata volentieri la solitudine e il riposo, e offerse di ritirarsi in
un'altra stanza. Lucia accettò l'invito al riposo con nuove parole di
riconoscenza, e rimase soletta.
Ma
quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo
corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di
dormire, e il riposo non consistette in altro che nella facoltà di
trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti,
senza terrore, non però con giocondità. V'ha dei mali e dei
pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o veduti da presso:
tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia
di Scilla, e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: forsan
et haec meminisse iuvabit, e che il Caro tradusse un po' lunghettamente:
E
verrà tempo
Un
dì, che tante e così rie venture
Non
che altro, vi saran dolce ricordo.
Il
cuore si rallegra doppiamente nel paragone d'una quiete presente con una
angoscia passata, le immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste
del ricordo di una certa fortezza. Ma v'ha un'altra specie di mali e di
pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza, restano
nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è
rivelato un grado ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto
tristo: nei quali si è conosciuta in sè una suscettibilità
di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a
distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero
avere di penoso, e si associa così a tutte le idee: quei mali e quei
pericoli, nei quali non v'è stato nessuno splendido esercizio di
attività morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non
si possono sentire a rammemorare senza ribrezzo, e senza vergogna, persino da
chi vi si è trovato e n'è uscito innocente; e i mali di Lucia
erano di questa seconda specie.
Certo
nella inaspettata salute di quel giorno v'era per Lucia una gioja, e la riconoscenza
all'ajuto del cielo che santificava quella gioja, la rendeva ancora più
viva: ma era stata una gioja ben turbolenta e confusa nei primi momenti; ed ora
col crescere della calma quella gioja era alterata continuamente dalle
rimembranze recenti e dai pensieri dell'avvenire. L'animo che è liberato
da una grande sventura, è come la terra daddove è sterpato un
grand'albero: per qualche tempo ella appare sgombra, e vuota: ma a poco a poco
comincia ad esser segnata qua e là di piccioli germogli, quindi a coprirsi
di erbacce, e mostra chiaramente che quello che si chiama riposo della terra
è una metafora, o un errore. Così i guai che erano stati sepolti
e come soffocati nell'animo quando una grande sciagura lo riempiva e per dir
così, lo aduggiava, cominciano a spuntare e a ricomparire poco da poi
che la sventura è cessata.
Lucia
ripensava con amarezza i mezzi che l'infame Rodrigo aveva saputi mettere in
opera a perseguitarla, e si angustiava di quello che avrebbe potuto fare
nell'avvenire. Come essere al riparo di un sì scellerato tiranno,
vivendo presso a lui? o dove andare? come trovare il sostentamento in quei
tempi così scarsi, e quando i risparmj degli anni addietro fossero tutti
consumati? Ma l'idea più penosa per Lucia, e quella che rendeva tutte le
altre più penose (giacché abbiamo promesso di non tacer nulla al lettore
di quello che è venuto a nostra notizia) il pensiero invano respinto, e
che si mesceva a tutti gli altri, era quello del voto fatto nella notte
antecedente. Lucia non confessava a se stessa d'esserne pentita, ma lo era; le
sembrava orribile sconoscenza il rammaricarsi dell'offerta posta sull'altare
per ottenere un gran dono, rammaricarsene quando il dono era ottenuto, le
sembrava che questo sentimento le avrebbe attirate nuove sventure, e queste
meritate, e quindi riprovava il sentimento, ma non poteva farlo scomparire.
L'invincibile di tutte le difficoltà, l'amaro di tutte le privazioni,
l'inestricabile di tutti gl'impacci le pareva che venisse dal non poter essere
di Fermo; con lui tanti inconvenienti sarebbero svaniti, e tutti gli altri
sarebbero divenuti tollerabili! ma il pensiero di Fermo era per lei una
tentazione, quasi un delitto, e doveva sempre rispingerlo. La poveretta non era
istrutta abbastanza per conoscere che quella promessa fatta in una agitazione
febbrile, senza meditazione, quasi senza piena coscienza non era un voto; e che
ella già legata con una promessa solenne a Fermo non aveva il diritto di
sciogliere senza consenso e senza colpa di lui, un legame già stretto da
due volontà libere e concordi; e ignorava anche i mezzi, che la
religione la quale consacra i voti dell'uomo, offre per liberarlo dai voti,
quando il loro adempimento invece d'essere una occasione di maggior bene,
divenga un ostacolo. Lucia aspettava con ansietà amorosa di rivedere la
madre, ma tremava di doverla abbracciare con questo segreto nel cuore,
ripugnava di rivelarglielo; e sentiva che il silenzio sarebbe stato
impossibile.
Era
la poveretta in questi pensieri, e sa il cielo fin quando vi avrebbe durato,
quando lo scalpito d'un quadrupede che si fermò nel cortiletto, un
salire precipitoso per la scaletta di legno, le annunziò Agnese: la
porta si aprì impetuosamente; Lucia fu nelle braccia di sua madre, e
tutte le altre idee svanirono. Noi non descriveremo le sensazioni delle due
donne in quel rivedersi. Questa è la frase della quale si servono tutti
i narratori quando si trovano ad un punto simile al nostro; e fanno bene. Il
lettore conosce i casi e il carattere di quelle due poverette, e deve immaginarsi
ciò che hanno sentito e detto. Dopo i primi sfoghi cominciarono le
inchieste e i racconti, e il soggetto di essi è pure già
conosciuto. Una sola di queste rivelazioni vuol essere ricordata
particolarmente: Lucia non sapeva nulla della fuga di Fermo, e questa notizia
che la madre le diede, le cagionò le più varie e opposte
commozioni. L'assenza di Fermo era certo dolorosa per lei; ma quando seppe
ch'egli era in sicuro, provò quasi una torbida consolazione nel pensiero
che la tentazione era lontana, che l'esecuzione del suo voto diveniva
più facile, che se non altro non verrebbe così presto la
necessità di parlarne. Lucia ed Agnese erano in colloquio, quando il
buon curato entrò nella casa, cercò di Tommaso (perché egli non
s'intratteneva col bel sesso che in casi di somma necessità), e gli
disse che il Cardinale domandava Lucia, e la buona donna che era stata a
prenderla. Questa andò ad avvertire le donne della chiamata: Lucia si
alzò per partire, la madre le tenne naturalmente dietro, e le tre donne
uscirono dalla casa, e attraversando una folla di curiosi, giunsero alla casa
del curato, e furono condotte alla presenza di Federigo.
Quando
il buon vescovo doveva parlar con donne, cosa che lo impacciava pure alquanto,
aveva per massima di non riceverne mai una sola, quando non fosse decrepita, e
voleva che una matrona le fosse sempre di compagnia. Nel caso presente invece
d'una matrona ve n'aveva due, e tutto era più che in regola. Pure
secondo il suo costume egli fece tenere spalancata la porta, e si pose in un
luogo dove potesse esser veduto da chi era nell'altra stanza, e così
accolse le tre donne che erano impacciate almeno al pari di lui, ma per
tutt'altri motivi. Il riserbo abituale, e il contegno modesto di Federigo non
potè fare che non gli apparisse sul volto un non so che di affetto soave
nell'accogliere Lucia e nel farle animo: ringraziò pure cordialmente la
buona donna del pio uficio da lei prestato, e chiese chi fosse la terza: quando
seppe che era la madre di Lucia, si rallegrò pure con lei, e la salutò
cortesemente. Quindi pregate le due ultime di scostarsi alquanto si trattenne
con Lucia sulle sue vicende, interrogandola con quella delicatezza che
richiedeva il pudore di Lucia e il suo; poiché in quella canizie egli
conservava la purità ombrosa di una fanciulla. Ma le inchieste ch'egli
faceva a Lucia non erano mosse da una vana curiosità, e ne pure dal solo
interessamento per quella infelice innocente: erano venute all'orecchio di
Federigo voci sorde, confuse sul conto della Signora, che gli davano da
pensare: e in questa occasione egli sospettava con angoscia che la condotta
della Signora con Lucia potrebbe rivelare qualche cosa di quella donna che era
per lui un tristo mistero. Lucia con tanto più di schiettezza e di
libertà, quanto essa non sospettava nemmeno di accusare, credeva anzi di
lodare, soddisfece alle domande di Federigo, nel quale il sospetto crebbe.
Fin
qui per Don Abbondio le cose andavano benone. Le circostanze essenziali della
storia stavano senza parlare del matrimonio ricusato, e Lucia aborriva il
discorso del matrimonio. Ma il Cardinale che disegnava di riparlare altra volta
con Lucia e non voleva in quel giorno così burrascoso per lei tenerla
più a lungo, chiamò a sè le due donne presenti e lontane;
e disse a ciascuna ciò che era più opportuno: ringraziò di
nuovo la buona donna, consolò Agnese, e l'animò ad ammirare la
provvidenza che dopo d'averle dato tanti timori per la figlia, l'aveva liberata
con modi inaspettati, e l'aveva fatta conoscere ad uno che aveva il dovere, e
qualche mezzo per proteggerla. Quella benedetta Agnese fra le risposte che
diede con un imbarazzo che in lei era un po' comico, perché voleva non averne,
disse anche queste tremende parole: «Già, la colpa in gran parte
è del Signor curato». «Come? di che curato?» domandò il
Cardinale. «Oh bella! del nostro», rispose Agnese. Il Cardinale domandò
una spiegazione, e Agnese spiattellò tutta la storia del matrimonio,
senza far motto del clandestino. Federigo che non voleva fare alcuna
dimostrazione prima d'avere inteso il curato, per non manifestare un giudizio
che forse avrebbe dovuto ritrattare, tacque, ma si legò al dito anche
questa. Si rivolse alla buona donna, e le chiese se fino a tanto ch'egli avesse
provveduta Lucia d'un asilo, non le sarebbe stato grave di tenerla presso di
sè. La buona donna fu contentissima, il Cardinale la ringraziò; e
pensò a darle qualche segno di ricompensa; e veduto dal suo abito e dal
contegno che un dono di moneta l'avrebbe umiliata, prese da un picciolo scrigno
un libretto di orazioni ben ornato, e un rosario prezioso, e la pregò di
ritenere queste memorie della sua riconoscenza. La buona donna ripose con molta
gioja il dono che si conserva tuttavia dai suoi discendenti con molta
pietà, e si fa vedere con molto amor proprio. Le donne partirono:
Federigo accudì a quello che gli rimaneva di faccende per la visita; e
sul far della sera partì da Chiuso accompagnato da una gran folla, e
s'incamminò alla volta di Maggianico, paese famoso per le sue campane.
Ma
quella dea che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi quante penne, e tante lingue
quanti occhi, e (ma questo pare più naturale) tante bocche quante
lingue, e finalmente tante orecchie quanti occhi lingue e bocche (debb'essere
una bella dea) questa ultima sorella di Ceo e di Encelado, partorita dalla
Terra in un momento di collera, veloce al passo e al volo, che cammina sul
suolo e nasconde il capo tra le nuvole, che vola di notte per l'ombra del cielo
e della terra, né mai vela gli occhi al sonno; e di giorno siede sui comignoli
dei tetti o su le torri, e spaventa le città, portando attorno il finto
e il vero indifferentemente, costei aveva già prima della notte diffusa
nei paesi circonvicini la storia delle avventure di quel giorno. Per fare
intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato formole che
a dir vero appartengono esclusivamente alla poesia, ma saremo scusati da
coloro, i quali sanno che ad imprimere vivamente una immagine nelle fantasie il
mezzo più efficace è l'allegoria, e singolarmente quella già
nota e consecrata delle antiche favole: poiché quando si vuol fare immaginar
bene una cosa, bisogna rappresentarne un'altra: così fatto è
l'ingegno umano quando è coltivato con diligenza. Siccome però a
voler cavare dalle allegorie il senso vero ed ultimo, quello che si vuol trasmettere,
è necessario in ultimo pensare alle cose che le allegorie fanno
intendere, così non lasceremo di dire che tutti gli abitanti del
contorno, che erano convenuti quel giorno in Chiuso, tornando la sera alle case
loro, raccontarono ciò che avevano veduto, ripeterono ciò che
avevano inteso, commentarono le circostanze che per sè non avrebbero
bastato a dare idea d'un fatto compiuto, e inventarono gli episodj che erano
indispensabili per dare continuità alla storia. Ma il fondo delle loro
relazioni era vero; e questo fondo aveva abbondantemente di che eccitare una
grande maraviglia e un grande interesse. Il Conte del Sagrato era nome d'una
terribile celebrità nei contorni, e assai più lontano; e una
conversione tanto inaspettata, e che doveva portare tanti cangiamenti era un
argomento all'universale di una pia maraviglia, di esultazione, e di
riconoscenza a Dio, e di nuova venerazione per l'uomo di Dio che ne era stato
lo stromento. E quello che rendeva ancor più interessante quella
conversione era l'averne veduto un effetto immediato, un testimonio vivo,
già tanto interessante per sè: una povera giovane restituita
volontariamente dal carcere privato alla libertà e alle braccia di sua
madre. Ma pei parrocchiani di Don Abbondio, l'interesse era ancor più grande
che per gli altri; per essi la povera giovane era Lucia, quella Lucia che
avevano veduta fra loro modesta, bella, irreprensibile, allegra, che avevano
pianta sommessamente smarrita, della quale si sussurravano mille notizie
diverse, e tutte lagrimevoli, e della quale ora i suoi vicini potevano dire:
«l'abbiamo veduta noi oggi con Agnese andare dal Cardinale che le voleva
parlare in persona».
Al
mattino seguente la fama si posò anche sul comignolo del castellotto di
Don Rodrigo; ed è facile immaginarsi che la novella ch'ella portava fece
sull'animo suo tutt'altro effetto che sull'animo di quella povera moltitudine.
Quella Lucia ch'egli aspettava da un giorno all'altro d'avere segretamente
negli artigli, ora pubblicamente libera; sventate e divolgate ad un punto le
sue trame abbominevoli; e quel suo alleato nel quale egli fidava, che con la
sua cooperazione doveva dare l'autorità del terrore al fatto, e far
morire il biasimo anche nelle bocche dei più arditi, ora disertato,
divenuto un oggetto di fiducia per gli avversarj. Don Rodrigo si sforzava di
ridere, e guardava in faccia ai suoi bravi per attingere coraggio o
indifferenza; ma s'accorgeva che i bravi guardavano in faccia a lui con la
stessa intenzione; e per non trovare il coraggio, il mezzo più sicuro
è d'essere in molti a cercarlo: anche quel poco che ognuno si sentiva,
se ne va: il Griso stesso era avvilito. Costoro s'erano tutti radunati nel
castello, come in un asilo, perché non pareva loro di star bene in nessun altro
luogo. Girando il mattino, s'erano avveduti che tirava un'aria estrania,
inusitata: avevano osservata su tutti i volti, una esaltazione, una risolutezza
che aveva abbattuta la loro che veniva in gran parte dall'abitudine di
mostrarla soli. Prima d'allora quando un contadino s'avveniva in uno scherano,
e vedeva in lui non solo la forza sua e le armi che portava, ma tutta la
potenza dei suoi compagni e del capo, passava a canto con una umile riverenza;
se fosse stato insultato lo avrebbe tollerato in pace, perché era certo che gli
altri che lo avessero veduto, sarebbero stati molto contenti di esserne fuori,
e non avrebbe avuto un ausiliario: ora l'occasione di esternare un sentimento
unanime aveva fatta sentire a tutti una fratellanza, una comunione di idee e di
causa; ognuno era certo che la cosa era intesa da mille come da lui; e ognuno
comunicando agli altri il suo nuovo coraggio, ne riceveva da essi, per la
ragione inversa di quello che era accaduto ai bravi e a Don Rodrigo.
La
liberazione di Lucia era l'argomento dei discorsi di tutti quelli che
s'incontravano; la gente si fermava in crocchj a parlarne; un bravo che
passasse in veduta dei crocchj, aveva tutti gli occhj addosso a sè: e la
espressione di tutti quegli sguardi era una, quella dell'orrore. Tutti
parlavano sicuramente della pietà che avevano provata, del timore che
avevano avuto per quella innocente, mettevano fuori i pensieri che avevano
compressi, o comunicati sotto voce, alla sfuggita, e trovando una
conformità negli altri, sentivano che a quei pensieri era unita una forza.
La giustizia aveva trionfato, il cielo s'era manifestato per l'innocente, e
questa manifestazione che pareva una promessa d'aiuto accresceva ancor
più l'animo di tutti. Un potente scellerato aveva pubblicamente abjurata
col fatto la iniquità, e l'aveva così vilipesa e indebolita nello
stesso tempo. L'iniquità era conosciuta, e perdendo un protettore
terribile, aveva acquistato un nemico pur terribile: un Cardinale, un santo, un
nobile, uno che aveva mezzi di persuasione, di forza, di autorità, di
aderenze.
Quella
poi che rinforzava l'effetto di tutte queste considerazioni, era la notizia
sparsa che il Cardinale veniva a visitare anche quella parrocchia, che si
fermerebbe qualche tempo nei contorni, che ci sarebbe folla d'uomini condotti
dallo stesso sentimento pio, avverso alla ingiustizia. E già si diceva
che il castellano di Lecco, quello Spagnuolo di cui il podestà aveva
tanta stima, si disponeva ad incontrare il Cardinale, in gran pompa, coi suoi
soldati: tutta la forza, tutto lo splendore era per la pietà e per la
giustizia. Ognuno pensava che gli scellerati avrebbero dovuto convertirsi come
il Conte, o perdersi d'animo, e fuggire.
Don
Rodrigo, dopo una breve esitazione, prese quest'ultimo partito. La violenza
quando è assistita dalla fortuna, ama a mostrarsi, ella ha con sè
come un argomento della sua bontà, o della sua ragionevolezza, poiché
ottiene il suo intento; ma quando è abbandonata dalla fortuna, quando
non valgono altri argomenti che quelli del diritto, del senso universale della
giustizia, che le mancano, quando appare non solo come ingiustizia, ma come
sbaglio, allora la violenza vorrebbe nascondersi anche a se stessa. Don Rodrigo
pensava che cosa mai avrebbe potuto fare di conveniente, che stesse bene in
quei giorni, e non trovava nulla, nemmeno un soggetto di discorso con chi
venisse a visitarlo. E d'altra parte s'immaginava bene che nessuno sarebbe
venuto. Quei signori che lo avevano adulato fin allora, si sarebbero allora
avveduti ch'egli era un ribaldo, il podestà doveva in quei momenti far
dimenticare le sue relazioni con l'uomo che avrebbe dovuto reprimere e punire;
al più il dottor Duplica, il quale non voleva mai inimicarsi senza
speranza un signore, sarebbe stato quei giorni a poltrire in letto, per
potergli dire un giorno che una malattia gli aveva tolto il bene di ossequiare
il Signor Don Rodrigo. Questi non vedeva così distintamente tutte queste
disposizioni, ma le sentiva confusamente come per istinto. D'altra parte, come
condursi col Cardinale? Tutti i signori del contorno sarebbero andati a
visitarlo, ed egli rimanersi solo a casa? Che direbbe lo Zio del consiglio
segreto? Andare dinanzi al Cardinale, egli? gran Dio!
Ordinò
dunque che tutto si apparecchiasse pel ritorno in città, e al più
presto. Quando la carrozza fu pronta, vi fece salire tre bravi: il Griso come
il più terribile fu posto alla vanguardia sulla serpe, tutto armato; al
resto della famiglia fu dato ordine di venire a Milano l'indomani, e si
partì. Dopo i primi passi Don Rodrigo vide coi suoi occhi, la via piena
di viandanti che andavano in folla a Maggianico, altri per vedere il Cardinale,
per assistere alla solennità: giovani, vecchi, benestanti, e poveri in
quantità che sapevano di non tornare con le mani vuote. Guardò
alla sfuggita, e conobbe in un punto su tanti volti quale era il sentimento
universale per lui: fremette, si promise di vendicarsi, ma s'accorse che la
menoma dimostrazione in quel momento poteva far nascere una guerra della quale
l'evento finale non sarebbe stato dubbio: dissimulò dunque,
ritirò la testa nella carrozza, guardò i suoi bravi, e lesse sui
loro volti pallidi il desiderio di esser fuori di quella processione e lontani
dal paese. Sentì un romore dietro, stette in silenzio tendendo
l'orecchio, e comprese ch'erano urli e fischi. Allora mormorò fra i
denti: — vorrei che il Griso avesse giudizio, che non mi facesse scene —.
Avrebbe voluto dare al Griso questo consiglio della paura, ma la paura gli
comandava di non muoversi, di non farsi vedere; e stette in quella
ansietà inoperosa fino a che la carrozza, giunta al punto dove la strada
si divideva, imboccò quella che conduceva a Milano, e si separò
dalla folla che traeva a Maggianico. Don Rodrigo e i suoi scherani respirarono
allora dallo spavento; ma i pensieri che rimasero a Don Rodrigo non furono
molto più sereni. Il cocchiere sferzò i cavalli per allontanarsi
al più presto, e tutti i viaggiatori, senza dir motto, lo lodarono in
cuore, e si rallegrarono, sentendo che la carrozza andava celeremente, senza
impedimenti in una strada solitaria. Buon viaggio!
Intanto
il buon Federigo attendeva in Maggianico a spicciare le faccende e a celebrare
le funzioni solite della visita. Il Conte del Sagrato era venuto quivi di buon
mattino con la folla, e dopo il Cardinale era egli il personaggio che traeva a
sè tutti gli sguardi. I terrazzani e i concorsi si avvicinavano a lui
per curiosità e per interesse, e si ritraevano per una antica abitudine
di spavento; ma visto poi il curato che passando su la piazza, e accorto del
Conte gli si accostò, e si fermò a salutarlo cordialmente,
più rassicurati si ravvicinavano ancora, come una troppa di pulcini
ombrosi non avvezzi ancora a conoscere la massaja fuggono in confusione al suo
comparire, poi vedendola tranquilla senz'atto di minaccia, e vedendo la chiocchia
alla quale si riparavano, andarle vicino senza sospetto, le tengono dietro, e
tornano, però non senza esitazione, all'oggetto che gli aveva
spaventati. Federigo aveva dato ordine che appena giunto il Conte gli fosse
annunziato, e lo accolse nei primi momenti di riposo. Frattanto egli e Lucia
erano il soggetto di tutti i discorsi: i paesani di quella chiedevano
avidamente notizie della ultima storia della poveretta, e raccontavano in
cambio le sue prime vicende. Questi discorsi furono riferiti al Cardinale, che
fu lieto assai della partenza di Don Rodrigo; e si fermò sempre
più nel disegno di far tornare Lucia alla sua casa per avvisare poi ivi
ai mezzi di porla per sempre in sicuro. Prima di partire da Maggianico
pregò egli il curato di portarsi a Chiuso, e di far sapere a Lucia
ch'egli pensava a lei, e che stesse di buon animo
...
Dopo
due, tre o quattro giorni spesi dal Cardinale nella visita di altrettante
Chiese (questa indeterminazione è nel manoscritto); venne la volta di
Don Abbondio; il quale non dico che desiderasse questa visita; ma se
l'aspettava. Quando si seppe che sul vespro di quel giorno il Cardinale
arriverebbe al paese, coloro che erano rimasti a casa (giacché una gran parte
del popolo andava quotidianamente dov'egli si trovava) si suscitarono e
ragunati si mossero per andargli incontro. Don Abbondio era stato quei
dì un po' malato; giacché credo di avere accennato altrove, che la sua
salute era soggetta ad alterazioni improvvise quanto quella d'un diplomatico:
ma in quel giorno dovette risolversi di star bene; si pose alla testa di quella
folla, e andò sulla via per la quale Federigo doveva venire.
Non
erano ancora molto distanti dal paese quando si cominciò a vedere
l'altra folla che veniva, e a distinguere la lettiga e il corteggio a cavallo;
l'incontro e l'accompagnamento si avvicinarono, i due romori si mischiarono, le
due turbe si trasfusero in una, e nel mezzo si trovò la lettiga ferma
del Cardinale, e Don Abbondio allo sportello a fare il suo complimento. Nelle
accoglienze e nelle risposte di Federigo cercò il nostro scaltrito Don
Abbondio di scrutinare se Lucia avesse chiaccherato qualche cosa del
matrimonio: ma invano: la sincerità ponderata di Federigo rendeva il suo
volto impenetrabile come avrebbe potuto fare la più imperturbata dissimulazione.
Nella sua lunga e affaccendata carriera aveva egli da gran tempo imparato con
quella scienza sperimentale che fa sapere e sentire, e conoscere le cose, delle
quali si aveva prima soltanto la formola, aveva dico imparato che le relazioni
d'una parte sola non mettono mai chi le ascolta in caso di dare un giudizio,
che la parte la quale parla la prima o maliziosamente o senza volerlo altera
sempre gli elementi necessarj di questo giudizio: di modo che, se uno da questa
prima relazione riceve una persuasione, e la dimostra, quando poi ascolta
l'altra parte è per lo più costretto a dire con un'aria un po'
scimunita: «Ah! io non sapeva; non m'immaginava; non mi avevano detto».
E
aveva esperimentato che molte volte da due relazioni contraddittorie, ed egualmente
confuse o artificiose, aveva ricavato facilmente il mezzo di venire a quella
verità che non era stata nudamente espressa né dall'una né dall'altra;
più facilmente che non l'avesse potuto mai ricavare da una sola
relazione fatta con la buona fede e giudiziosamente. Si era quindi fatta una
legge di sospendere realmente il suo giudizio fin che non avesse inteso colui
di che altri si doleva; e di non contare intanto per nulla quello che gli era
stato riferito. Quindi non aveva ancora una opinione in mente su questo fatto,
e sincero com'era, non lasciava trasparire nessuna opinione: a segno che Don
Abbondio non vedendo negli atti e nel volto di lui nulla che indicasse
malcontento o sospetto, tenne per fermo che il Cardinale non sapesse nulla, e
ne fu molto consolato.
Il
corteggio raddoppiato andò verso la Chiesa, e quivi il Cardinale entrato
come potè tra i plausi e gli urti, e pregato alquanto, cominciò
le sue funzioni da un breve discorso ch'era uso di fare al popolo sulla visita
ch'egli stava per intraprendere, e quindi si ritirò nella casa del
Curato.
Per
quanto quei buoni terrazzani avessero voglia di accogliere il loro vescovo con
dimostrazioni straordinarie di venerazione e di affetto premuroso, non lo
poterono fare, perché i plausi e gli urti fino all'ultimo grado erano diventati
l'accoglimento ordinario per lui, e quel primo entrare nelle Chiese, ch'egli
andava a visitare, non era la minima delle sue pastorali fatiche, né il
più leggiero pericolo. Da per tutto era mestieri prima di tutto ch'egli
avesse molta sofferenza, e quindi che quelli del suo corteggio gli servissero
da guardie, diradando la turba come potevano, allontanando quelli che volevano
baciare o tirare la sua veste, facendo in modo in somma che a forza d'amore e
d'ossequio il buon uomo non fosse sconquassato. Questa amorevole persecuzione,
ormai antica, aveva cominciato per lui dai primi giorni del suo episcopato:
poiché, quando egli fece il suo ingresso nel Duomo di Milano (che, a dirla
senza vanità, è un ampio edificio) egli fu talmente compresso che
molti nobili che lo circondavano trassero le spade per allontanare la folla;
tanto v'era allora d'incomposto anche nella riverenza e nella protezione; e
malgrado questa minaccia, forse invece d'un vescovo santo, sarebbe rimasta in
duomo una reliquia, se due preti tarchiati e giovani non avessero tolto da
quella stretta il Cardinale, e sollevatolo sulle loro braccia non l'avessero
portato in salvo fino all'altare. Come dovessero poi stare le ossa di quei due
galantuomini ognuno se lo può immaginare.
Ma
se le accoglienze dei paesani di Lucia al Cardinale non poterono essere
più clamorose né più calde che le altre, avevano però una
espressione di una riconoscenza speciale, che Federigo potè distinguere:
anzi egli intese più d'una volta nelle benedizioni che gli erano date,
unito al suo nome suonare quello di Lucia. Il buon vecchio tripudiò in
cuore, e per quella gioja che dà sempre agli onesti il vedere
l'espressione pubblica d'un sentimento onesto ed umano, e perché con un tal favore
del popolo gli parve che Lucia potesse con sicurezza tornare almeno per allora
a casa sua. Ritiratosi pertanto come abbiam detto nella casa di Don Abbondio,
il Cardinale s'informò da lui e da qualche altro prete su lo stato delle
cose per rapporto a Lucia, e potè esser certo che ogni pericolo era
cessato per lei, giacché il suon gran nimico, e gli scherani di questo se
n'erano iti con la coda tra le gambe, e quand'anche fossero stati sfrontati a
segno di rimanere, i difensori di Lucia sarebbero stati dieci volte in numero
più del bisogno. Quando ebbe questa certezza Federigo ordinò che
l'indomani di buon mattino la sua lettiga andasse a prendere Lucia e la madre,
e impose all'ajutante di camera che si portassero provvigioni di vitto alla
casetta delle donne perché le poverette e Lucia principalmente non provasse
quei mancamenti e quei disagi che le avrebbero renduti increscevoli i primi
momenti del ritorno, e prolungato in certo modo il sentimento amaro
dell'assenza.
All'indomani
alzatosi al solito di buon mattino, attese il Cardinale alle consuete
operazioni, s'intrattenne alquanto col Conte del Sagrato, il quale non aveva
mancato di venire a quella stazione della visita, come negli altri giorni;
poscia andò nella Chiesa come era uso. Le funzioni non erano ancora
terminate che Lucia giunse con Agnese alla soglia della casetta paterna. Agnese
aveva parlato per tutta la strada; la sua gioja pel ritorno trionfale, la gioja
di ricondurre salva a casa la figlia da tanti pericoli, quella d'esser divenuta
conoscenza di Monsignore illustrissimo, l'aspettazione dell'accoglimento che le
farebbero i parenti, i conoscenti, tutti i paesani, erano sentimenti espansivi
e distinti, che si prestavano assai bene alla sua loquacità naturale. Ma
i sentimenti di Lucia erano misti, intralciati, ripugnanti: erano di quelli sui
quali la mente s'appoggia con una insistenza dolorosa, per distinguerli e per
dominarli: di quei sentimenti che non cercano di esser comunicati, né trovano
ancora la parola che li rappresenti. Rivedeva ella la sua casa, quella dove
aveva passati tanti anni tranquilli, che aveva tanto desiderato e sì
poco sperato di rivedere; ma quella casa che non era stata per lei un asilo,
quella casa dove aveva data una promessa che non credeva di poter attenere,
dove aveva tante volte fantasticato un avvenire, divenuto ora impossibile. Era
terribilmente in forse di Fermo: Agnese non le aveva potuto dire se non quello
ch'ella stessa sapeva confusamente; che Fermo cioè, dopo il tumulto di
Milano del giorno di San Martino, aveva dovuto fuggire dalla città, e
uscire dallo Stato per porsi in salvo. E quand'anche Fermo fosse tornato
tranquillamente, le ansietà di Lucia si sarebbero cangiate, ma non
avrebbero cessato, perché ella non poteva più esser sua. Tremava ancora
nel pensiero che Fermo potesse essere informato del suo ratto, della sua
prigionia, e non sapere esattamente com'ella aveva fuggito ogni pericolo: la
poveretta mentre aveva rinunziato a Fermo, avrebbe voluto ch'egli sapesse
ch'ella era in tutto degna di lui. Avrebbe voluto che Fermo fosse informato del
voto ch'ella aveva fatto senza ch'ella glielo dicesse, che egli l'approvasse
con dolore, che non pensasse mai ad altra, né più a lei, o per meglio
dire (giacché questa non era l'idea precisa di Lucia) avrebbe voluto che Fermo
facesse tutti i giorni una risoluzione di non più pensare a lei.
L'assenza del Padre Cristoforo accresceva ed esacerbava tutti questi cordoglj:
le mancava l'aiuto, e il consiglio; quegli a cui ella confidava anche i mezzi
pensieri, quegli le cui parole la rendevano sempre più tranquilla, e
più conscia di se stessa. Quanto a Don Rodrigo, egli era messo almeno
per qualche tempo fuori del caso di far paura; e la rimembranza di quest'uomo,
trista certo e schifosa per Lucia, non accresceva però le sue
inquetudini. Pensava però che Don Rodrigo sarebbe tornato, e rimasto, e
che il Cardinale non avrebbe potuto sempre aver l'occhio sopra di lei per
difenderla; e da questo pensiero deduceva la necessità di trovare
qualche dimora più sicura, e sperava che il Cardinale stesso ne avrebbe
tolto l'incarico.
Così
dopo d'avere abbracciata la Zia che l'accolse piangendo, Lucia la lasciò
con Agnese che se ne impadronì per raccontarle tante tante cose, e si
ritirò nella sua stanza. Ivi dopo d'aver ringraziato Dio dell'averla
ricondotta quivi oltre e contra la speranza, si mise a rivisitare tutte le sue
masserizie, come per provare se potesse ricominciare la sua vita passata; ma
non v'era oggetto nella casa, non v'era angolo al quale non fossero associate
idee divenute dolorose e ripugnanti. Lucia prese come macchinalmente il suo
arcolajo, e sedette a dipanare la matassa di seta che aveva lasciata a mezzo
quando Fermo venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino.
Dopo
pochi momenti, ecco giungere Perpetua affannata a dire che Monsignore tornato
di Chiesa aveva chiesto se Lucia era arrivata, e che udendo di sì aveva
ordinato che fosse tosto chiamata. «Il signor Curato poi», aggiunse Perpetua
sottovoce, «mi ha imposto di dirvi o Lucia che vi ricordiate del parere che vi
ha dato a Chiuso: ehn? sapete? di non dir nulla di quel tale affare; Agnese
m'intendete? del matrimonio? guardatevi dal parlarne, perché, perché, i
Cardinali passano, e i curati restano». Le due donne si guatarono in viso come
per dire l'una all'altra: — ora mò? non siamo più in tempo —. Ma
Agnese fatta una faccia tosta disse a Lucia: «certo non bisogna dir nulla»; e
mettendo la bocca all'orecchio di Lucia, continuò: «del matrimonio
clandestino. Guaj, vedi, è un guajo grosso». Lucia con queste due
ingiunzioni l'una delle quali era ineseguibile, e l'altra poteva dipendere
dalle domande che il Cardinale le avrebbe fatte, s'incamminò, tutta
pensierosa e agitata, con le due donne alla casa del curato. Per la via
incontrarono la folla che uscita, dalla Chiesa si diffondeva nel contorno; e
Lucia fu accolta con acclamazioni, e fermata ad ogni passo con saluti, fra
quali vergognosa con gli occhi bassi e gonfj, entrò nella casa
parrocchiale, e fu tosto condotta nella stanza dov'era Federigo, il quale la
ricevè con le solite precauzioni.
Dopo
alcune inchieste cortesi sul suo viaggio, sul piacere ch'ella aveva provato nel
rivedere la sua casa, Federigo la interrogò di nuovo sull'affare del
matrimonio: Lucia dovette rispondere, e raccontò tutta la faccenda fino
al clandestino, dove si fermò come un cavallo che ha veduto un'ombra, e
ristà con una sosta improvvisa e singolare che non è quella
solita d'allora che è giunto al termine del suo viaggio. Federigo, che
s'avvide di qualche cosa, domandò a Lucia che risoluzione avesse presa
ella, sua madre, lo sposo quando si videro chiusa la via a quella unione che
desideravano e che chiedevano legittimamente. Agnese, udendo questo
cominciò a far certi visacci a Lucia cercando di non lasciarli scorgere
al Cardinale (cosa non molto facile), e questi visacci volevano dire: —
rispondi: «niente, abbiamo aspettato con pazienza». — Lucia stava interdetta:
Federigo che vedeva tutto (l'avrebbe veduto un cieco nato), disse ad Agnese con
un contegno tranquillo e serio: «Perché non lasciate essere sincera la vostra
figlia?» e volto a Lucia: «parlate liberamente», continuò: «Dio vi ha
assistita: dategli gloria col dire la verità». Lucia allora
spiattellò tutta la storia del clandestino; e la narrazione divenne
allora liscia, verisimile, e ben congegnata.
«Avete
confessata una colpa», disse tranquillamente Federigo: «Dio ve la perdoni, e...
a chi v'ha dato una tentazione così forte di commetterla. Ma d'ora in
poi, buona figliuola, e voi buona donna, non fate più di quelle cose,
che non raccontereste volentieri».
Quindi
passò a chiedere a Lucia dove fosse Fermo; che ora il matrimonio poteva
e doveva esser tosto conchiuso.
Questo
era un punto ancor più rematico. «Le dirò io...» cominciava
Agnese, ma il Cardinale le diede un'occhiata la quale significava ch'egli
sperava la verità più da Lucia che da lei, onde Agnese
ammutì; e Lucia singhiozzando rispose: «Fermo, povero giovane non
è qui: s'è trovato in quei garbugli di Milano, e ha dovuto
fuggire; ma son certa ch'egli non ha fatto male, perché era un giovane di timor
di Dio».
«Ma
che ha fatto in quel giorno?» chiese ancora il Cardinale: «quale è la
sua colpa?»
«Non
ne sappiamo di più», rispose Lucia.
Il
Cardinale giacché altri non v'era a cui domandare, si volse ad Agnese la quale
rianimata disse: «Se volessi, potrei inventare una storia per contentare
Vossignoria illustrissima, ma sono incapace d'ingannare una gran persona come
Ella è; e non sappiamo proprio niente di più».
«Dio
buono!» disse il Cardinale: «insidie, colpe, sciagure, incertezze, ecco il
mondo dei grandi e dei piccioli. Ma voi», disse a Lucia, «che pensate adunque
di fare intanto?»
«Io»,
rispose Lucia, «io vedo che il Signore ha deciso altrimenti di me, che non mi
vuole in quello stato; e ho messo il mio cuore in pace. E se trovassi dove
vivere tranquillamente, fuor d'ogni pericolo..., se potessi esser ricevuta
conversa in un monastero...: consecrarmi a Dio...»
«Oh
che furia!» sclamò Agnese.
«Voi
vi siete promessa, buona giovane», disse Federigo: «vi siete allora risoluta a
promettere senza riflessione, leggiermente?»
«Questo
no», disse Lucia arrossando.
«Bene»,
disse Federigo: «potrebbe ora dunque esser leggiero il ritrattarvi. Se
quest'uomo fosse innocente, se potesse sposarvi, che mutamento è
accaduto nelle vostre relazioni? Nessun altro che una serie di sventure ad
ambedue, e non è questa una ragione per separarvi. Questo non è
il momento di pigliare una risoluzione. Sospendete, fate ricerche, aspettate
che Iddio vi riveli più chiaramente la sua volontà. L'asilo
intanto ve lo troverò io».
Lucia
fu tentata più d'una volta di rivelare il voto, ma una vergogna
insuperabile la ritenne. Federigo l'assicurò che non sarebbe partito da
quei contorni prima d'avere stabilito qualche cosa per lei, e dopo qualche
altra parola di consolazione e di avviso, la lasciò partire con Agnese.
Fece
poscia venire a sè il curato, il quale, inchinandosi al Cardinale gli
guardò in faccia per vedere se v'era scritto il matrimonio, ma non
potè rilevar nulla. La sua incertezza però fu breve, giacché le
prime parole di Federigo furono queste: «Signor curato, perché non avete voi
unita in matrimonio quella giovane Lucia col suo promesso sposo?»
—
Donne ciarlone! — voleva sclamare Don Abbondio, ma s'avvide tosto che questa
non era una risposta che stesse bene, né una risposta; e disse titubando:
«Monsignore illustrissimo, mi scusi... ma non posso parlare».
«Come?»
disse il Cardinale con volto serio e dignitoso: «non sentite che voi siete ora
qui per render conto al vostro superiore? e che avendo tralasciato, negato di
fare ciò che nella via ordinaria, era il vostro dovere, avete a dirne
una buona ragione, o a confessarvi colpevole?»
Queste
parole fecero tosto rientrare in sè Don Abbondio. Egli aveva peritanza
dell'arcivescovo, e paura di Don Rodrigo, e come questo sentimento era
incomparabilmente più forte nell'animo suo, così aveva quasi
fatto svanire il primo. Pensava Don Abbondio che Federigo rimproverava, ma che
Don Rodrigo dava, e al paragone i rimproveri gli parevano poca cosa, e
l'autorità stessa non gl'imponeva troppo quando pensava al rischio della
persona. Ma quando vide l'autorità spiegarsi, e volere essere
riconosciuta si trovò come annichilato: la riverenza presente divenne in
quel momento più forte del terrore lontano.
Replicò
adunque umilmente: «Monsignore, io sono il più sommesso degli inferiori
di Vossignoria illustrissima... ma ho detto così... Vede bene,
Monsignore, ognuno ha cara la sua pelle. Non tutti i signori sono santi, come
Vossignoria. Basta, dirò tutto: ma so che parlo ad un prelato prudente,
che non vorrebbe perdere un povero curato».
«Dite
sicuramente», replicò il Cardinale, «io desidero di trovarvi senza
colpa».
«Deve
dunque sapere Monsignore illustrissimo», ripigliò Don Abbondio «che la
vigilia appunto del giorno stabilito per quel benedetto matrimonio (parlo a
Vossignoria, come in confessione) io me ne tornava a casa tranquillamente,
senza una cattiva intenzione al mondo, sallo Dio, quando... quando mi si
presentarono in su la via, (al mio Superiore e ad un Signore tanto discreto,
dico tutto) mi si presentarono faccia a faccia, come sono solo io ora dinanzi a
Vossignoria illustrissima, due uomini, per parlare onestamente, con certi
visi... parevano coloro che posero San Vincenzo su la graticola; con archibugi,
pistole, spadoni, spuntoni..., parati a festa insomma... Vossignoria non ha mai
veduto nulla di somigliante, e mi si affacciarono, dico, mi fermarono, e mi
intimarono in nome d'un certo Signore (i nomi non servono a nulla) che io mi
guardassi bene, per quanto aveva cara la vita (mi pare che fosse un parlar
chiaro) dal fare quel tal matrimonio. Ecco la storia genuina. Io adunque ho
stimato che l'ostinarmi contra la forza sarebbe stato un dare occasione a
costoro di commettere un sacrilegio, e che, io mi sarei renduto reo d'un vero
suicidio».
«Non
avete avuto altro motivo?» domandò pacatamente Federigo.
«Non
basta, Monsignore?» replicò Don Abbondio. «O forse mi sono male
spiegato: dico che se avessi fatto il matrimonio, costoro mi avrebbero data una
schioppettata nella schiena. Eh! Monsignore!»
«E
vi par questa una ragione bastante per ommettere un dovere preciso?»
«No?»
disse precipitosamente Don Abbondio con una sorpresa tanto viva che quasi
sarebbe paruta stizza. «La pelle! la pelle! non è una ragione bastante?»
Il
Cardinale, alzando gli occhi in faccia a Don Abbondio disse con una
indegnazione composta: «Ma quando vi siete presentato alla Chiesa, alla Chiesa
dei martiri per ricevere questa missione che esercitate, quando avete assunti
volontariamente questi doveri del ministero, la Chiesa vi ha ella fatto conto
della pelle? Vi ha ella detto che quei doveri erano senza pericoli? Vi ha detto
che dove il pericolo cominciasse ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha
espressamente dichiarato che vi mandava come un agnello fra i lupi? Vi ha
promessa la sicurezza temporale per ricompensa? o la vita eterna? Non sapevate
voi che v'erano dei violenti nel mondo? La pelle! Offeritela per le mani dei
violenti in sagrificio alla fede e alla carità, e la Chiesa la
raccoglierà come un nobile tesoro, la conserverà di generazione
in generazione, di sacerdozio in sacerdozio, come un oggetto di culto, come un
testimonio della forza che le è stata data dall'alto, come un tempio
dove lo Spirito avrà operate le sue maraviglie. Ma per conservarla
qualche tempo di più, per salvarla a spese della carità e del
dovere! non faceva certo mestieri della unzione santa, della imposizione delle
mani, della grazia del sacerdozio. Come! al soldato che riceve pochi soldi di
paga, che combatte per una causa che non conosce non è lecito dire: ho
voluto salvare la vita! non è lecito, è turpe; supporre ch'egli
lo possa pensare, è una ingiuria e non una scusa! e sarà scusa
per noi! Dio buono, per noi che predichiamo le parole della vita, che
rimproveriamo ai fedeli il loro attacco alle cose terrene, che facciam loro
vergogna, che gli chiamiamo ciechi perché non sentono il valore della promessa,
o perché operano come se non lo avessero compreso! Che più? per questa stessa
vita del tempo, la Chiesa non ha ella pensato a voi? non vi nutrisce ella della
sostanza dei poveri? non vi munisce di riverenza e d'ossequio? non vi copre
ella d'un abito, che prima pure che si sieno vedute le vostre opere vi attrae
la venerazione, perché vi segna come un uomo trascelto, come uno di quegli che
non hanno altra professione che di fare il bene? E perché vi distingue ella
così, se non a fine che possiate farlo? QUEGLI da cui abbiamo la
missione e l'esempio, il precetto e la forza di eseguirlo, quando venne su la
terra ad illuminare i ciechi, a congregare i dispersi, ad evangelizzare i
poveri, a curar quelli che hanno il cuore spezzato, a ben fare, a salvare, pose
Egli per condizione di aver salva la vita?»
Don
Abbondio teneva bassi gli occhi, il capo, le mani; il suo spirito si dibatteva
tra quelli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco che lo tengono
elevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirato.
Vedendo poi che il Cardinale taceva come chi aspetti una risposta, dopo aver
molto cercato, articolò finalmente queste parole: «Non so che dire:
avrò fallato: è giusto che i superiori abbiano ragione. Quando la
vita non si ha da contare per nulla, non so che dire. Vossignoria illustrissima
parla bene... Bisognerebbe però», aggiunse con voce meno spiegata
«essersi trovato al busillis».
CAPITOLO IV
Ebbe
appena Don Abbondio proferite queste ultime parole che se ne pentì,
s'accorse d'aver detta una insolenza, e si aspettò che questa volta
Monsignore monterebbe affatto in bestia. Ma alzando dubbiosamente lo sguardo,
fu molto maravigliato in vedere la faccia di quell'uomo, ch'egli era destinato
a non poter mai né indovinare né comprendere, in vederla passare da quella gravità
riprensiva ad una gravità tutta compunta e pensosa. «Pur troppo!» disse
il Cardinale: «tale è la nostra miseria. Dobbiamo ripetere dagli altri
quello che forse non sapremmo dare noi; dobbiamo riprendere altrui, e sa Dio
quello che avremmo fatto noi nel caso stesso. Ma guaj se io dovessi prender la
mia debolezza per misura del dovere altrui! Pure è certo ch'io vi debbo
l'esempio: non debbo essere il fariseo che impone altrui insopportabili
carichi, ch'egli non vuol pure toccare colla punta del dito. Or bene: se voi
m'avete veduto trascurare qualche mia obbligazione per pusillanimità,
ditemelo francamente, correggetemi, fatemi ravvedere».
Vedendo
Federigo che Don Abbondio non rispondeva, e sospettando ch'egli forse fosse
rattenuto dal timore di offenderlo, riprese con tuono umile e cordiale: «Dite,
che dinanzi a quel Dio che ci ascolta, io vi protesto, che non che sdegnarmene,
vi sarò grato, e v'avrò più caro che mai non vi avessi».
Ma i pensieri di Don Abbondio erano tutt'altri da quelli che s'immaginava il Cardinale.
—
Oh che tribolatore! — pensava Don Abbondio. — Anche sopra di sè! purché
frughi, rimescoli, esamini, critichi, è contento. Ora io andrò a
fargli l'esame di coscienza! Farebbe meglio a non farmi tanta inquisizione sui
fatti miei, che dei suoi io non mi piglio briga. — Ma come bisognava pure dir
qualche cosa ad alta voce, ecco ciò che disse Don Abbondio.
«Oh
Monsignore, mi burla! Chi non conosce il petto forte, l'animo coraggioso di
Vossignoria illustrissima?» A questa dichiarazione fece poi nel suo cuore Don
Abbondio questo commento: — Anche troppo, che un po' di giudizio starebbe
meglio: lasciare andar l'acqua all'ingiù, e non andare a comprarsi le
brighe, nelle faccende cercare tutti i musi duri per cozzare e fino nelle
visite andare a pescare tutti i pericoli, schivare le strade piane, e andare in
cerca dei greppi e dei precipizi per fiaccarsi l'osso del collo.
Il
Cardinale rispose al complimento di Don Abbondio: «Io non vi domandava una lode
che mi fa tremare, perché chi può sapere come mi giudichi Chi vede
tutto? ma voi dovete sapere che quando a servire il prossimo in quelle cose,
dove egli ha ragione nei nostri servigj è necessaria una risoluzione
coraggiosa, allora questa risoluzione è di stretto dovere. Ditemi
dunque: che avete voi fatto dopo quella intimazione che avete detto?»
«Che
ho fatto, Monsignore?» disse Don Abbondio. «Mi son messo a letto con la
febbre». E aggiunse in cuor suo: — Stiamo a vedere che rimprovero mi
farà per aver avuta la febbre.
«Vi
tolse essa il sentimento e la favella?» domandò il Cardinale.
«Monsignor
no», rispose Don Abbondio: «ma le so dire che fu una febbre fiera: sono
spaventi che non gli auguro a nessuno».
«La
carne è inferma», ripigliò Federigo: «ed è questa la
nostra miserabile condizione: ma lo spirito fu egli pronto? Che avete voi fatto
per quei due poveretti, dei quali voi, e voi solo allora conoscevate il
pericolo?»
«Ma
che cosa doveva fare, col nome di Dio?» disse Don Abbondio.
«Debbo
io dunque dirvelo?» ripigliò Federigo: «non l'avete sentito? non lo sentite
pur ora? Al vedere un tanto pericolo venir sopra due anime innocenti, che vi
sono date in custodia, le vostre viscere non si sono commosse? Non avete
tremato per essi? Non avete provato il tormento della carità? Il vostro
corpo si abbattè sotto lo spavento: guai al tristo superbo, che ne
pigliasse argomento di beffa e di dispregio: per questa debolezza che non
è della vostra volontà, non sento altro che una pietà
rispettosa: ma nella umiliazione del vostro terrore, ma nelle angosce della
vostra infermità, come non avete pensato alle angosce che erano
minacciate a quelli sui quali voi dovevate vegliare? Che! il lupo s'era
mostrato, le pecore pascevano con sicurezza, e voi non avete pensato, non dico
a difenderle, ma né pure a farle avvertite. Coi cenni l'avreste dovuto, quando
la parola vi fosse mancata».
«Ecco
come vanno le cose», disse Don Abbondio: «io mi confondo davanti a Vossignoria
illustrissima, e faccio torto alla mia causa, per non saper ben dire le mie
ragioni. Non le ho detto che quei due (due lì presenti, ma a contarli
tutti, sono un reggimento) quei due mi hanno proibito espressamente, sotto pena
della vita di parlare».
«Dio
buono!» riprese Federigo, «voi avete creduto, voi credete ancora, voi sostenete
dinanzi a me che una tale proibizione dovesse essere per voi un comandamento?
Che doveste obbedire? Così dunque basterebbe un violento in ogni
parrocchia per fare che il ministero fosse tutto sospeso, i pastori muti e
schiavi? i deboli abbandonati? Che dovevate voi fare? Chiedere a Dio la forza
che vi era necessaria, e Dio ve l'avrebbe accordata; non perdere un momento:
avvertire quei due poveretti della iniquità potente che stava all'erta
contra di loro, strascinarvi in Chiesa, e fare a malgrado dell'uomo quello che
Dio vi comandava, consacrare la loro unione, e chiamare sopra di loro la
benedizione del cielo: dovevate soccorrerli di consiglio, di mezzi per porsi al
riparo con la fuga, cercar loro un asilo, fare quello che implorereste se foste
perseguitato da un più forte di voi: dovevate informar tosto il vostro
vescovo del loro, del vostro pericolo, dell'impedimento che una violenza infame
poneva all'esercizio del vostro ministero. Io, io allora avrei tremato per voi;
io avrei posto in opera tutto quello che Dio mi ha dato di ajuti, di aderenze,
di autorità, per difendervi: io non avrei dormito fin che non fossi
certo che non vi sarebbe torto un capello. Ah! per quanto l'iniquità
trionfi, v'è pure ancora un po' di forza per la giustizia: ma i
poverelli, inesperti, ignari, sfidati, non sanno dove andarla a cercare:
bussano alla prima porta; e se la trovano chiusa, sorda, crudele, si disanimano
affatto, e non sanno come adoprarsi. Quell'uomo che ardì tanto credete
voi che avrebbe tanto ardito se avesse saputo che le sue trame, le sue violenze
erano note fuor di qui, note a me? Vi dico che sarebbe stato contento di
ritrarsi, e voi dopo aver fatto il debito vostro, sareste stato sicuro. Quella
inquetudine che avete provata, l'avrei provata io, incessante, intensa,
ingegnosa: io vi avrei promosso in luogo, fin dove certo le braccia di costui
non si sarebbero allungate. Ma voi non avete fatto nulla. Nulla! Dio ha salvata
questa innocente senza di voi: l'ha salvata... se dico troppo, se il mio
giudizio è temerario, smentitemi, che mi consolerete... l'ha salvata a
mal vostro grado».
Don
Abbondio taceva: il Cardinale continuò: «È doloroso il terrore,
sono increscevoli le angosce, è amara la pressura: voi lo sapete: ma
sapete voi misurare la paura e le angosce che ha sofferte una vostra
parrocchiana innocente?»
Don
Abbondio, dagli anni della pubertà in poi, non aveva mai occupato tanto
poco di spazio come in quel momento: ad ogni parola del Cardinale egli si
andava ristringendo, impicciolendo, avrebbe voluto sparire. Tacque egli per
qualche momento, non trovando ragione da opporre in quel campo dove il
Cardinale aveva posta la questione, e dove la teneva a forza. Finalmente per
dir qualche cosa pensò a cangiarla e a ricriminare. Disse dunque con
quella debolezza ostile che fa svanire anche la pietà che la debolezza
ecciterebbe naturalmente:
«Quelli
che vengono a rapportare, ad accusare, non dicono tutto, Monsignore
illustrissimo. Questo bel fiore di virtù, questa povera giovane è
venuta per sorprendere il parroco e per fare un matrimonio clandestino. E quel
suo sposo, era una buona lana, è andato a Milano, e sa il... cielo che
cosa ha fatto: a buon conto ha dovuto fuggire».
«Io
lo sapeva», disse il Cardinale; «ma voi come osate parlare di questi fatti che
aggravano la vostra colpa, che ne sono la conseguenza? Voi chiudete a dei
poverelli la via legittima per giungere ad un fine legittimo, e siete voi
quello che fate lor carico se ne hanno presa una illecita? Certo il vostro
rifiuto non gli scusa: ma pensate voi bene in questo momento quale sia l'animo
di colui a cui si nega quello che gli è dovuto? L'uomo è tanto
artificioso per giustificare i mezzi, che lo possono condurre ai suoi desiderj!
che debb'esser quando i desiderj sono giusti? Non è questa la più
forte delle tentazioni? Mal fa chi soccombe anche a questa: ma che dite di
colui che la dà? E quello sventurato giovane; bene avete detto, sa il
cielo che cosa ha fatto! Ah! tutti errano pur troppo, anche quelli che
dovrebbero raddrizzare gli errori altrui: v'ha tanti scellerati impuniti, Dio
volesse che la pena, che il terrore della pena non cadesse mai sugli innocenti!
Ma che ch'egli abbia fatto, egli profugo, esacerbato, col sentimento della
giustizia negata, pregate Dio, io prego per lui e voi, che gli perdoni, e non
vi accagioni di quello che egli possa aver fatto. Era egli prima d'ora uomo di
risse, e di misfatti? e di rivolta? Io lo domando a voi, e Dio ascolta la
vostra risposta».
«Questo
non lo posso dire», rispose Don Abbondio.
«E
voi non tremate?» ripigliò il cardinale. «Voi non pensate che se
quest'anima la quale era stata affidata a voi, s'è pervertita, voi avete
una terribile parte nel suo pervertimento? Un tiranno l'aveva contristata,
provocata, esacerbata: era una tentazione: ma non la più forte; ma
poteva divenire una occasione di offerta, di sagrificio, di rassegnazione. I
poverelli sanno, debbono pur troppo saperlo, che v'ha dei soverchiatori
violenti: hanno inteso dire fino dall'infanzia che Dio gli lascia spaziare
alcun tempo su la terra per esercizio dei buoni, hanno appreso ad adorare, anche
nella iniquità degli uomini, la giustizia, e la misericordia di Dio
entrambe infallibili, ma riserbate entrambe a momenti ch'Egli solo conosce. E
quante volte la persecuzione dell'empio non accresce in essi la fede? Ma quello
che la turba, quello che inverte la loro coscienza, quello che travolge il loro
proposito, è l'abbandono per parte di coloro che predicano la fede, la
coscienza, il proposito. Un tiranno ha sbalzato questo sventurato giovane
lontano dalla sua casa, l'ha staccato da quei mezzi, da quelle consuetudini, da
quella vita nella quale egli poteva esser facilmente onesto. Ah! allora
più che mai egli ha avuto bisogno di consiglio, e di soccorso! Allora
una voce forte e amorosa doveva farsi sentire a quell'anima tentata; doveva
dirle: bada! l'iniquità trionfante non ti confonda: ella non è
eterna: la tua collera non ti vinca: ella non è giusta, perché non ha
ancora veduto la fine. Quell'infelice era sopraffatto dallo spettacolo
dell'ingiustizia d'un uomo; un altr'uomo doveva rendergli visibile la carità,
perch'egli la credesse, perché l'amasse, perché non si staccasse da essa. Chi
doveva esser quest'uomo? — Ma egli ha veduta, ha sentita l'ingiustizia sola,
l'ha veduta impunita, temuta: ha veduto colui dal quale aveva imparato a
detestarla, ritirarsi, cedere, assecondarla, quando si è mostrata nella
sua forza; dopo averla abborrita, egli ne è stato abbagliato, ne ha
fatto il suo Dio. Non dite ch'egli era disposto alla perversità, e che
ha colta la prima occasione per darsi ad essa. Sarebbe questa una scusa
dolorosa, ma una scusa per voi, se aveste fatto quello che per voi si poteva,
qualche cosa, per ritrarlo da quella via, per ritenere nel bene i suoi pensieri
dubbiosi. Che avete voi fatto? Che conforto, che ricordo, che esempio ha egli
portato con sè, partendosi? Che ha egli avuto da voi? Un rifiuto. Chi
non ha cura dei suoi, ha negato la fede, è peggiore dell'infedele.
La sentenza è terribile, ma non viene da me: è del vostro
Maestro, e del mio».
Il
Cardinale cessò di parlare, ma nel suo volto composto al silenzio si
dipingevano ancora i sentimenti che avevano mosse le sue parole, e che le sue
parole avevano accresciuti: l'ira senza peccato, la commiserazione, un riflesso
di terrore sopra se stesso al ricordo di quei doveri, che gli erano comuni con
quello ch'egli riprendeva dell'averli sconosciuti. Don Abbondio sulle prime,
quando aveva veduto che s'intonava un rabbuffo, aveva sentito un turbamento,
una stizza, una tristezza tutta carnale; non poneva mente al senso della
ammonizione, ma al tuono con cui era fatta: e non s'affannava d'altro che di
sentirla finire. Ma dalle dalle, la pioggia continua di quelle parole dopo
d'avere sdrucciolato su quella terra arida, l'aveva pure penetrata: erano
conseguenze impensate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica pur nella
mente di Don Abbondio; il quale cominciò davvero a comprendere quanto la
sua condotta fosse stata diversa da quella legge, ch'egli stesso aveva sempre
predicata. Taceva egli; ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso:
taceva come quegli che ha più cose da pensare che non da dire. Il
Cardinale s'accorse dell'effetto delle sue parole; ne sentì consolazione
e pietà, in un punto, e riprese:
«Queste
però, signor curato, non debbono essere le ultime nostre parole su
questo affare. Sa il cielo come io avrei desiderato di tener con voi tutt'altro
discorso. Siam vecchi entrambi: sa il cielo se m'è doluto di dover
contristare con rimproveri questa vostra canizie; quanto avrei voluto piuttosto
racconsolarmi con voi delle nostre cure comuni, dei nostri guaj, col pensiero
della beata speranza, alla quale già già tocchiamo. La mezza
notte è vicina; lo Sposo non può tardare: colmiamo d'olio le
nostre lampade, affinché non sieno estinte al suo arrivo. Riempiamo il nostro
cuore di carità: essa sola è eterna; essa sola può
raddolcire quel momento. Amiamo, e sarem forti; amiamo e le debolezze, che pur
ci rimarranno, saranno coperte e perdonate».
Federigo
fece ancora pausa a queste parole: Don Abbondio non ruppe il silenzio, ma il
Cardinale vide ch'egli gli assentiva con l'animo, e continuò:
«Il
male avvenuto è irrevocabile; ma non irreparabile; speriamo. Le sventure
di quei due poveretti possono ancora tornare in loro bene, e in bene vostro.
Chi sa quante occasioni Dio vi prepara di soccorrerli, di divenir per essi un
padre, di compensare il torto che la vostra negligenza può loro aver
fatto. Deh! non le lasciate sfuggire. Deh! non indurate il vostro cuore; non
restituite loro, nelle occasioni, l'amarezza che può avervi data questa
riprensione, che io v'ho fatta, sa il cielo, per amor vostro non meno che pel
loro. Pur troppo, io l'ho più volte esperimentato in questa difficile
altezza: il debole che si richiama al superiore, che gli fa conoscere la sua
ragione, che ottiene una giustizia, troppo spesso momentanea, peggiora spesso
la sua condizione. Quegli che è stato ripreso per sua cagione, tace
dinanzi alla riprensione, cede al suo maggiore, ma trova poi il mezzo di fare
espiare al debole quel breve trionfo. Son tanti i mezzi di fare avere torto al
debole! e colui che ne aveva assunta la protezione, è tanto distratto da
altre cure, di sì corta vista, che è facile fargli credere
ch'egli si è ingannato alla prima, che ha protetto un immeritevole. Deh!
non fate così: poiché quand'anche riusciste a farmi travedere, non sono
io quello che v'ha da giudicare. Amate quegli infelici perché son vostri figli,
per quello che hanno sofferto, per l'occasione che v'hanno data di udir la voce
sincera del vostro pastore, per l'amore che possono attirarvi da Dio. Amateli
cordialmente, e saprete sempre quello che avrete da fare per essi».
«Monsignore»,
disse Don Abbondio, con voce commossa, «dinanzi a voi e dinanzi a Dio prometto
di fare per essi tutto quello che potrò. Ma Vossignoria illustrissima
pensi a mettere un buon guinzaglio a quel cane. Vossignoria ha avuta la
degnazione di dirmi che avrebbe tremato per me povero prete: sappia,
Monsignore, che v'è da tremare ancora, perché quando Vossignoria
sarà a far del bene altrove, costui tornerà qui a fare alla
peggio».
«Dio
l'ha già atterrito senza di voi, senza di me», interruppe Federigo, «voi
lo avete veduto fuggire: non è questo un pegno dell'aiuto celeste? Ma io
non lascerò di mettere in opera ogni mezzo umano che sia in poter mio.
Porrò in sicuro quella povera giovane, che non lo sarebbe forse qui:
chiederò conto di quegli che le era promesso; e s'egli è
innocente... se le mie parole possono giovargli... Dio buono son tanto sospette
le parole in bocca nostra! Pure io spero in Dio. Quanto a quel Signore, spero
pure di poter fargli sentire che v'è chi non ha paura di lui, e
può fargliene. Ad ogni modo, ricordatevi ch'egli non può uccidere
che il corpo, e temete Quel solo che può perdere il corpo e l'anima».
«Ah
l'anima! è vero pur troppo!» disse Don Abbondio, lasciando interrotta la
frase che il suo pensiero compì a questo modo: — ma se quel birbante mi
dovesse uccidere il corpo, sarebbe dura —. «A proposito del corpo», disse poi
dopo un momento, «non per dare un parere a Vossignoria illustrissima, ma per
amore di quella regolarità che tanto le piace, mi faccio lecito di
avvertirla che l'ora è avanzata, e che il mio povero pranzo non aspetta
che Vossignoria».
«Andiamo»,
disse il Cardinale, con un sospiro.
Abbiamo
detto che il Conte del Sagrato era venuto ogni mattina a quella Chiesa che il
Cardinale visitava in quel giorno. Stava alquanto con lui in quell'ora di
riposo che precedeva il pranzo, e poi ripartiva. Ma in questo giorno egli era
venuto con un disegno che fu cagione di farlo rimanere più tardi. Sapeva
il Conte che Lucia doveva tornare alla sua casa: il Cardinale lo aveva
informato di questo, anzi gliene aveva chiesto consiglio: perché, dove si
trattava di pericoli, e di cautela, di bravi e di tiranni, non v'era uomo
più al caso di dare un buon consiglio: e il Conte aveva confortato il
Cardinale ad installare pure sicuramente Lucia nel suo pacifico albergo.
Prevedendo egli dunque che quel giorno Lucia si sarebbe trovata dal Cardinale,
non vi si presentò all'ora consueta, ma stette nella Chiesa aspettando
l'ora in cui il Cardinale era solito di desinare, e quando questa gli parve
dover esser giunta, entrò nella cucina, dove Perpetua stava in grandi
faccende, e le chiese con umile affabilità di poter ivi trattenersi ad
attendere che il pranzo fosse finito per chiedere udienza a Monsignore. Chi
entra in una cucina in un giorno di cerimonia, è sempre il mal venuto;
ma il Conte aveva una antica riputazione di ribalderia, e una recente di
santità, che imposero anche a Perpetua, la quale per levarsi dattorno nel
modo più gentile quell'incomodo arnese, propose al Conte d'entrare nella
sala del pranzo.
«Si
faccia avanti», diss'ella «sulla mia parola: Monsignore la vedrà molto
volentieri; e anche il mio padrone, e tutta la compagnia: non faccia
cerimonie».
Ma
il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto. Perpetua
lo fece sedere al posto d'onore della cucina nel banco sotto la cappa del
camino; dicendo: «Vossignoria starà come potrà: veramente avrebbe
fatto meglio d'entrare coi signori, che quello è il suo posto: basta,
com'ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a tenerle compagnia,
perché oggi ho tante faccende: ella vede». Il Conte sedette, ringraziò,
e cavato un tozzo di pane che aveva portato con sè, si diede a mangiare.
Quando Perpetua vide questo, non lo volle patire. «Come?, un signore suo pari!
non sarà mai detto ch'ella faccia questo torto alla mia cucina. Ecco, si
serva: mangi di questo: e lasci fare a me per mandare in tavola il piatto,
senza un segno: non faccia complimenti: che serve?» E come il Conte rifiutava,
Perpetua gli si avvicinò all'orecchio, e gli disse a bassa voce: «Via,
Signor Conte; che scrupoli son questi? so quello che posso fare: la padrona
sono io qui». Ma tutto fu inutile. Il Conte ringraziò di nuovo, e
continuò a rodere ostinatamente il suo pane.
Quando
poi da quello che accadeva in cucina, s'avvide che erano cessati i cibi e
levate le mense, fece chiedere udienza a Federigo, dal quale fu tosto fatto
introdurre.
«Monsignore»,
diss'egli, quando gli fu in presenza, «questo è un giorno di festa
singolare per questo paese e per voi, ma in questa allegrezza comune, io, io ho
una parte ben diversa da tutti gli altri; il gaudio puro e sgombro della
liberazione d'una innocente non è per colui che l'aveva vilmente
oppressa, angariata. A me conviene dunque un contegno e un linguaggio
particolare; lasciate ch'io faccia oggi la mia parte; approvate che io vada ad
implorare un perdono da quella innocente, ch'io mi umilj dinanzi a lei, che le
confessi il mio orribile torto, e che riceva dalla sua bocca innocente dei
rimproveri che non saranno certo condegni alla mia iniquità, ma che
serviranno in parte ad espiarla».
Federigo
intese con gioja questa proposizione; e pel Conte a cui questo passo sarebbe un
progresso nel bene e una consolazione nello stesso tempo; per Lucia, alla quale
lo spettacolo della forza umiliata volontariamente sarebbe un conforto, un
rincoramento dopo tanti terrori, e pel trionfo della pietà, e per
l'edificazione dei buoni; e finalmente perché una riparazione pubblica e
clamorosa attirerebbe ancor più gli sguardi sopra Lucia, e sul suo
pericolo, sarebbe una più aperta manifestazione del soccorso che Dio le
aveva dato, la renderebbe come sacra, e così più sicura da ogni
nuovo attentato dello sciarrato suo persecutore. Approvò egli adunque
con vive e liete parole la proposizione, e aggiunse: «Dite: dite se l'offesa la
più ardentemente bramata, la più lungamente meditata, la meglio
riuscita reca mai tanta dolcezza quanto una umile e volontaria riparazione?»
«Ah!
la dolcezza sarebbe intera», rispose il Conte, «se la riparazione potesse
esserlo; se il pentimento, se l'espiazione la più operosa, la più
laboriosa, potesse fare che il male non fosse fatto, che i dolori non fossero
stati sentiti».
«Ma
v'è ben Quegli», rispose Federigo, «che può far di più;
che può cavare il bene dal male, dare pei dolori sofferti il centuplo di
gioja, fargli benedire a chi gli ha sofferti. E quando voi fate per Lui e con
Lui, quel poco che v'è concesso di fare, Egli farà il resto: Egli
farà che del male passato non resti a quella poveretta che un argomento
di riconoscenza e di speranza, e a Voi di una afflizione umile e salutare».
Detto
questo il Cardinale, chiamò il curato, e gl'impose che facesse avvisare
Lucia del disegno del Conte, e le dicesse ch'egli stesso la pregava di
accoglierlo. Partito il curato, Federigo richiese il Conte che aspettasse tanto
che Lucia potesse essere avvertita.
Dopo
qualche momento il Conte uscì dalla casa di Don Abbondio e
s'avviò a quella di Lucia tra una folla di spettatori, fra i quali era
già corsa la notizia di ciò che si preparava.
La
forza che spontanea, non vinta, non strascinata, non minacciata si abbassa
dinanzi alla giustizia, che riconosce nella innocenza debole un potere, e
domanda grazia da essa, è un fenomeno tanto bello e tanto raro, che
beato chi può ammirarlo una volta in sua vita. Quei buoni terrieri (in
quel momento erano tutti buoni) non si saziavano di guardare il Conte, lo
seguivano, lo circondavano in tumulto, lo colmavano di benedizioni. Tanta
è la bellezza della giustizia: per tarda ch'ella sia, innamora sempre
quando è volontaria: quelli che dopo aver fatti patir gli uomini si
vendicano dell'odio loro che gli tormenta col fargli patire ancor più,
non pensano che quell'odio è pronto a cangiarsi in favore, in
riconoscenza, al momento che una risoluzione pietosa, un ravvedimento anche
senza confessione faccia cessare i patimenti.
Il
Conte camminava ad occhi bassi e col volto infiammato, tutto compunto e tutto
esaltato, che poteva sembrare un re condotto in catene al trionfo, o il
capitano trionfatore. Don Abbondio camminava al suo fianco, e pareva... Don
Abbondio.
Giunti
alla casetta di Lucia, il curato fece entrare il Conte, e con ambe le mani
ritenne la folla, o almeno le comandò che si rattenesse, tanto che
potè chiuder l'uscio, e lasciarla al di fuori.
Lucia,
tutta vergognosa condotta dalla madre si fece incontro al Conte, il quale,
trattenendosi vicino alla porta nell'atteggiamento di un colpevole, le disse
con voce sommessa: «Perdono: io son quello che v'ha offesa, tormentata: ho
messe le mani sopra di voi, vilmente, a tradimento, senza pietà, senza
un pretesto, perché era un iniquo: ho sentite le vostre preghiere, e le ho
rifiutate; ho vedute le vostre lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi,
vi ho fatta tremare senza che voi m'aveste offeso, perché era più forte
di voi, e scellerato. Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel colloquio,
perdonatemi quella notte; perdonatemi se potete».
«S'io
le perdono!» rispose Lucia. «Dio s'è servito di lei per salvarmi. Io era
nelle unghie di chi mi voleva perdere, e ne sono uscita col suo ajuto. Dal
momento ch'ella m'è comparsa innanzi, che io ho potuto parlarle, ho
cominciato a sperare: sentiva in cuore qualche cosa che mi diceva ch'ella mi
avrebbe fatto del bene. Così Dio mi perdoni, come io le perdono».
«Brava
figliuola!» disse Don Abbondio, «così si deve parlare: fate bene a
perdonare, perché Dio lo comanda; e già quando anche non voleste, che
utile ve ne verrebbe? Voi non potete vendicarvi, e non fareste altro che
rodervi inutilmente. Oh se tutti pensassero a questo modo, sarebbe un bel
vivere a questo mondo!».
«È
vero», disse Agnese, «che questa mia poveretta ha patito molto... ma bisogna
poi anche dire che noi poveretti non siamo avvezzi a vedere i signori venirci a
domandar perdono».
«Dio
vi benedica», disse il Conte, «e vi compensi con altrettanta e con più
consolazione i mali che io vi ho fatti, tutti quelli che avete sofferti». Indi
soggiunse titubando: «Come sarei contento se potessi far qualche cosa per voi!»
«Preghi
per me», disse Lucia, «ora ch'è divenuto santo».
«Quello
ch'io sono stato, lo so pur troppo anch'io: quello ch'io ora sia, Dio solo lo
sa!» rispose il Conte... «Ma voi, in questa vostra orribile sciagura... in
questa mia scelleratezza... non avete avuto soltanto timori, e crepacuori... La
vostra famiglia... una famiglia quieta e stabilita... i vostri lavori,
l'avviamento... voi avete sofferti danni d'ogni genere... se osassi... se
potessi parlare di compensar questi, io che v'ho fatto tanto male che non
potrò compensar mai... ma Dio è ricco... frattanto: datemi questa
prova di perdono... accettate», e qui cavò con peritanza quasi puerile,
un rotolo di tasca... «accettate questa picciola restituzione... non mi
umiliate con un rifiuto».
«No
no», disse Lucia: «Dio mi ha provveduta abbastanza: v'ha tanti poverelli che
patiscono la fame: io non ho bisogno...»
«Deh!
non mi rifiutate...» replicò il Conte con umile istanza: «se sapeste!
questa somma... questo numero... pesa tanto in mano mia... e sarei tanto
sollevato se l'accettaste... Non mi farete questa grazia, per mostrarmi che
m'avete perdonato?» e vedendo che il volto d'Agnese esprimeva il consenso che
il volto e le parole di Lucia negavano, presentò alla madre il rotolo,
implorando pur con lo sguardo il consenso di Lucia.
«Grazie»,
disse Agnese al Conte; «e tu», continuò rivolta a Lucia, «ora non parli
bene. Questo signore lo fa pel bene dell'anima sua, e noi poveri non dobbiamo
esser superbi». Così dicendo svolse il rotolo, e sclamò: «Oro!»
«Vostra
madre ha ragione», disse Don Abbondio: «accettate quello che Dio vi manda, e se
vorrete farne del bene non mancheranno occasioni. Così facessero tutti!
Così Iddio toccasse il cuore a qualchedun altro e gli ispirasse di
compensare anche me povero prete, delle spese che ho dovuto fare in medicine
per quella maledetta...» Voleva dire — paura — ma ebbe paura di parlare
imprudentemente e si fermò.
«Vi
ringrazio della vostra degnazione», disse il Conte a Lucia, «e del vostro
perdono. E se mai in qualunque caso voi credete ch'io possa esservi utile, voi
sapete... pur troppo... dove io dimoro. Il giorno in cui mi sarà dato di
fare qualche cosa per voi, sarà un giorno lieto per me: mi parrà
allora che Dio mi abbia veramente perdonato».
«Ecco
che cosa vuol dire avere studiato!» disse Agnese: «appena Dio tocca il cuore,
si parla subito come un predicatore».
Lucia
ringraziò pure il Conte, il quale dopo d'aver ripetute parole di scusa e
di umiliazione e di tenerezza, si congedò, uscì con Don Abbondio,
e sulla porta si divisero. Il Conte tra le acclamazioni della folla prese la
via che conduceva al suo castello, e Don Abbondio tornò a casa.
Appena
le due donne furono sole, Agnese svolse il rotolo, e in fretta in fretta si
diede a noverare. «Dugento scudi d'oro!» sclamò poi: «quanta grazia di
Dio! Non patiremo più la fame certamente».
«Mamma»,
disse Lucia, «poiché quel signore ci ha costrette ad accettare questo dono, e
ha preteso che fosse una restituzione... quei denari non sono tutti nostri. Non
siamo noi sole che abbiamo sofferti danni... non sono io sola che abbia dovuto
fuggire, intralasciare i miei lavori. Io sono tornata finalmente... e se non
istarò qui, ho almeno chi pensa a me, chi non mi lascerà mancare
di nulla... Un altro è lontano, e che Dio sa quando potrà
tornare. Mi parrebbe di aver rubati quei denari, se almeno almeno non gli
dividessi con lui».
«Glieli
porterai in dote», disse Agnese, studiandosi di rotolare come prima gli scudi,
che facendo pancia da una parte o dall'altra sfuggivano dalle sue mani
inesperte.
«Non
parliamo di queste cose, mamma», disse Lucia sospirando; «non ne parliamo. Se
Dio avesse voluto... ah! le cose non sarebbero andate a quel modo. Non era
destinato che fossimo... non ci pensiamo per carità».
«Ma
s'egli torna», voleva cominciare Agnese.
«È
lontano, è profugo, ramingo... ah! c'è altro da pensare: forse
egli stenta, forse non ha pane da mangiare. Forse con questo ajuto, egli
potrà collocarsi bene altrove, farsi un avviamento, uno stato...»
«Ohe!»
disse Agnese, «tu non pensi più a lui?...»
«Penso
a toglierlo d'angustia, e di bisogno», rispose in fretta Lucia. «Questo lo
possiamo fare, al resto provvederà Iddio».
Agnese
era onesta e buona, e per quanto le piacessero quei begli scudi giallognoli, non
avrebbe potuto possederli con un contento puro e tranquillo quando le fossero
divenuti in mano un testimonio di dura e bassa avarizia. Consentì ella
dunque a destinarne la metà a Fermo, e promise a Lucia che avrebbe
cercato tosto il mezzo di farglieli tenere sicuramente. Ma Agnese era rimasta
colpita di quella nuova rassegnazione di Lucia all'assenza del suo promesso
sposo, e non lasciò di tentarla con interrogazioni, dirette, tortuose,
calzanti, subdole, per venirne all'acqua chiara. Lucia però seppe per
allora e per qualche tempo schermirsi dal soddisfare alla curiosità
materna, allegando sempre che era inutile il pensare a cose che le circostanze
rendevano impossibili.
Il
Cardinale aveva risoluto di partire quella sera di là, per portarsi ad
una parrocchia vicina; ma partiva col dispiacere di non avere ancora potuto
provvedere Lucia d'un asilo; e quantunque tutto paresse ivi sicuro per essa,
pure il cuore del buon vecchio non era abbastanza tranquillo. Per avere la
certezza che desiderava, egli non si rivolse a Don Abbondio; perché teneva per
fermo (e nessuno dirà ch'egli giudicasse temerariamente) che Don
Abbondio per rispondere «Monsignor sì» o «Monsignor no», avrebbe
consultato piuttosto l'interesse e la sicurezza sua propria che quella di
Lucia.
Commise
egli adunque al suo Cappellano crocifero di aggirarsi fra il popolo, e di
osservare lo stato delle cose, la disposizione degli animi, di vedere se v'era
rimasta in paese gente di mala intenzione, se insomma si poteva partire col
cuore quieto, lasciando Lucia nel luogo, dove alcuni giorni prima non era stata
sicura. Il Cappellano fece ciò che gli era stato imposto; parlò
al sagrestano, agli anziani, al console, e da tutti fu accertato che nulla
v'era da temere. Anzi appena si ebbe sentore di questa inquietudine del
Cardinale, in un momento giovani e vecchi s'offersero di guardare la casa di
Lucia; con quella risoluzione, con quell'ardore con cui si veggono offrire le
alleanze ad un principe vittorioso. «Son qua io», diceva l'uno... «tocca a me»,
diceva l'altro: «io son cugino», gridava un terzo: «io io che non ho paura di
brutti musi», schiamazzava il quarto, e così fino al centesimo. Non si
sarebbe potuto credere che Lucia pochi giorni prima avesse dovuto fuggire
segretamente da quello stesso paese. Perché costoro non si presentavano quando
v'era il bisogno? Eh! perché v'era il bisogno.
Avuta
questa sicurezza, il Cardinale partì, facendo ancora ripetere a Lucia,
ch'egli non si sarebbe scostato da quei contorni prima d'aver provveduto alla
sua sorte. Infatti egli andò sempre in quei giorni ripensando al modo di
compire questa sua opera, e ricercando in ogni persona, in ogni circostanza se
poteva farne un mezzo al suo benefico intento. A forza di attendere e di
ricercare, l'occasione si presentò. Visitando una di quelle parrocchie,
ricevette Federigo fra le altre visite che accorrevano da ogni parte, quella
d'una famiglia potente di Milano che villeggiava in quelle vicinanze. Don
Valeriano, capo di casa, Donna Margherita sua moglie, Donna Ersilia loro unica
figlia, e Donna Beatrice sorella del capo di casa, rimasta vedova nel primo
anno di matrimonio, e ritornata a vivere ritiratamente in casa. Dei primi tre
il Cardinale non aveva conoscenza molto vicina: sapeva soltanto che la famiglia
benché molto distinta, pure non faceva terrore, che Don Valeriano non aveva
riputazione di soverchiante e di tiranno; e questo merito negativo bastava in
quei tempi a conciliare ad una famiglia potente la stima e la fiducia dei
più savj. Oltre di che, Donna Beatrice era nota a Federigo assai
più da vicino; le abitudini di una vita tutta consecrata alla
pietà e alla assistenza dei poveri le avevano data senza ch'ella se ne
curasse, una riputazione di santità, e il Cardinale in più
occasioni incontrandosi con essa nelle stesse intenzioni, e nelle stesse
occupazioni aveva avuto campo di accertarsi che quella riputazione non era
menzognera. Quando adunque questa visita gli fu annunziata, propose egli di
trovare il modo che Lucia andasse in quella casa; ma non dovette studiar molto
a condurre il discorso dov'egli desiderava; perché l'affare di Lucia era stato
tanto clamoroso che Don Valeriano non mancò di parlarne per fare un
complimento al suo liberatore. Questi allora dopo d'aver modestamente rifiutate
le lodi ch'egli sapeva di non meritare, raccontando semplicemente il fatto, e
togliendone tutto ciò che la fama vi aveva aggiunto in suo onore,
aggiunse che però tutto non era finito, che quella povera giovane uscita
da un tanto pericolo non era pure in sicuro, non aveva un asilo, e che certamente
avrebbe compiuta una opera incominciata da Dio chi l'avesse raccolta. Don
Valeriano guardò in faccia a Donna Margherita, la quale assentì
con una occhiata: Donna Beatrice, non guardata da loro, gli guardò
entrambi con ansietà per vedere se avevano inteso, se avrebbero fatto
vista d'intendere: Donna Ersilia continuò a guardare la croce del
Cardinale, la porpora, a seguire con l'occhio la mano per osservare l'anello,
che erano le cose per le quali s'era fatta una festa di venire a far quella
visita. Don Valeriano offerse al Cardinale di prendere Lucia al servizio della
casa, o come il Cardinale avrebbe desiderato. Il Cardinale accettò
lietamente: fece avvertire Lucia ed Agnese, le quali vennero all'obbedienza:
Lucia fu consegnata a Donna Margherita, e posta ai servigj di Ersilia. Don
Valeriano fu molto contento d'avere esercitata una protezione, Donna Margherita
di avere in casa sua una persona alla quale potè metter nome: quella
giovane che mi è stata affidata dal signor Cardinale arcivescovo, Donna
Beatrice di vedere in sicuro una innocente, e di poterla soccorrere e
consolare, Donna Ersilia, d'avere una donna al suo servizio, con la quale
potere parlare senza che le fosse dato sulla voce. Lucia pure fu contenta di
avere una destinazione che la toglieva da quel contrasto doloroso tra il voto e
il cuore; Agnese di vedere la sua figlia in salvo, e in casa di signori, e
finalmente il Cardinale di aver messa quella pecorella al sicuro dalle zanne
del lupo.
Noi
profittiamo di questa contentezza dei nostri personaggi d'antica e di nuova
conoscenza, e prendiamo questo momento, in cui anche la buona ed infelice Lucia
trova un po' di riposo in una qualunque conformità tra la sua situazione
e lo stato dell'animo suo, per lasciarla con la sua nuova compagnia, e parlare
d'altri fatti indispensabili alla integrità della storia. Prima
però di staccarci da Federigo, non possiamo a meno di non raccontare un
tratto accaduto nella visita da lui fatta in quei contorni; perché questo
racconto quale lo troviamo nel nostro manoscritto e altrove, serve assai a
dipingere i costumi di quel tempo tanto lontani dai nostri, e osservabilissimi
per una certa pienezza d'entusiasmo, per una esplosione di sentimenti,
clamorosa, per un impeto veemente, come troppo spesso al male, così pure
qualche volta verso ciò che era veramente stimabile. Oltre di che
Federigo è personaggio tanto amabile, nelle sue azioni anche le
più comuni v'è sempre una tale espressione di gentilezza, di
bontà, che fa riposarvi sopra la fantasia con diletto; e cogliere ogni
pretesto per rimanere il più che si possa in una tale compagnia. Che se
qualche lettore osasse dire che noi ve lo abbiamo trattenuto troppo a lungo,
osasse confessare d'aver provato un momento di noja, bisognerebbe concluderne
delle due cose l'una: o che noi raccontiamo in modo da annojare anche con una
materia interessante; o che questo lettore ha un animo ineducato al bello
morale, avverso al decente, al buono, istupidito nelle basse voglie, curvo
all'istinto irrazionale. Ma il primo di questi due supposti è
manifestamente improbabile, a parer nostro. Veniamo al racconto.
Dalle
Chiese delle quali abbiamo parlato si era Federigo trasportato a visitar quelle
della valle di San Martino che era allora nel dominio veneto e nella diocesi
milanese; e per tutto dov'egli si andava fermando, oltre la folla dei
parrocchiani, la chiesa, la piazza, la terra formicolavano di moltitudine
accorsa dai luoghi circonvicini. In una di quelle terre avendo egli sbrigate
nella sera stessa del suo arrivo, le principali faccende, aveva egli disegnato
di partire prima del pranzo, per giungere più tosto alla stazione
vicina. Era la chiesa dov'egli si trovava, posta sulla cima d'un lento pendio
che terminava in una vasta pianura. Celebrati i santi misteri si volse egli
dall'altare per favellare al popolo, e stendendo dinanzi a sè il guardo
che dalla elevazione dell'altare poteva trascorrere per la porta spalancata sul
pendio e nel piano sottoposto, vide dalla balaustrata del presbitero, nella
chiesa, sul pendio, nel piano, una calca non interrotta, come un selciato
continuo di teste e di volti; se non che al di fuori quella superficie uniforme
era interrotta da tende alzate che facevano parere quel luogo un campo, o una
fiera; guardando poi più fisamente scerse fra quella moltitudine abiti
diversi di ricchezza e di foggia che dinotavano una varietà di
condizioni e di paesi. Chiese egli a chi lo serviva più da vicino che
cosa volesse dire quel concorso; e gli fu detto che era gente accorsa da tutta
la diocesi di Bergamo, e dalla città stessa per vederlo, per udirlo. «E
perché» diss'egli, «non gli accoglieremo noi gentilmente come si conviene con
ospiti?» Quindi dette alcune parole di insegnamento e di salute ai popolani che
non avendo avuto viaggio da fare avevano i primi occupata tutta la chiesa,
propose loro che facessero gli onori di casa, e cedessero il luogo a quegli
estranei che erano venuti da lontano per sentire un vescovo. La voce corse
tosto per la chiesa e per lo spazio di fuori; questi uscivano e cedevano il
luogo con pronta cortesia, quegli entravano con ritegno e con rendimenti di
grazie: contadini e signori parevano in quel momento gente bene educata.
Cangiata a poco a poco l'udienza, il Cardinale parlò a quei sopravvenuti
come gli dettava la sua abituale carità, e la simpatia particolare che
aveva eccitata in lui quella ardente e comune volontà la quale egli si
sforzava di credere mossa in tutto dal suo ministero e per nulla da una
inclinazione alla sua persona. Terminato il discorso, benedisse egli tutto quel
concorso, lo accomiatò, e si dispose a partire. Salito sulla sua mula,
si mosse col suo seguito in mezzo a quella moltitudine, ma dopo alquanto
viaggio, quando credeva d'abbandonarla, s'avvide che la moltitudine lo seguiva.
Si volse egli allora, ristette in faccia a quella, e la benedisse di nuovo come
per congedarla ultimamente. Ma rimessosi in via, s'accorse che non era niente,
e che la processione continuava. Li fece pregare di ritornarsene, e di non
aggravare inutilmente la stanchezza del cammino già fatto, ma tutto fu
inutile: gli era come un dire al fiume, torna indietro. Si erano già
fatte più miglia di cammino, l'ora era tarda, quando il Cardinale che
era digiuno e già da lungo tempo combatteva con la fame, sentendo
mancarsi le forze, e visto che quel giorno gli era forza desinare in pubblico,
si fermò sulla cima d'una salita dove vide spicciare una sorgente da una
roccia che fiancheggiava il cammino: e chiese così a cavallo che gli
fosse servito il pranzo. L'ajutante di camera tolse da un cestello un pezzo di
pane, e glielo presentò, Federigo lo prese indi chiese che gli fosse
riempiuto un bicchiere a quella sorgente. Mentre questo si faceva,
cominciò Federigo a banchettare, non senza un qualche pudore per tutti
quegli spettatori, e chiuse il banchetto col bicchiere d'acqua che gli fu
porto. Quando tutta quella folla vide quali erano le mense d'un uomo
così dovizioso, e così affaticato, insorse un grido di
maraviglia, un gemito di compunzione: e questi sentimenti crebbero quando fra
quegli accorsi alcuni i quali conoscevano più degli altri le costumanze
del Cardinale, affermarono che questo era il suo solito pranzo, quando doveva
farlo in cammino, e che quello che gli era imbandito in casa non ne differiva
di molto. I poveri si rimproveravano la loro intolleranza del disagio, i ricchi
la loro intemperanza; e quivi tosto molti fra questi distribuirono ai bisognosi
i danari che si trovavano indosso. Il Cardinale così ristorato
pregò i più vicini che finalmente tornassero, e persuadessero gli
altri a tornare, e alzata la mano su tutta la turba che egli dominava da quella
altura, la benedisse di nuovo, stendendo poi verso di quella affettuosamente
ambe le mani in atto di saluto. La turba rispose con nuove acclamazioni, e non
osando più resistere al desiderio di quell'uomo, si rivolse, e
tornò addietro. Federigo proseguì il suo cammino.
Venga
ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di gloria a quel
pranzo del Cardinale, a renderlo un argomento frequente di ammirazione e di
memoria: non gli verrà fatto. È forse da dire che queste
virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia
degli uomini di che ammirare? Non già; poiché si parla tuttavia delle
magre cene di quel Curio mal pettinato, come lo chiamò Orazio; è
viva e comune la memoria del salino di Fabricio, e del suo piattello sostenuto
da un picciuoletto di corno. E perché dunque il tozzo di pane di Federigo e il
suo bicchier d'acqua non potranno ottenere una simile immortalità di
gloria? Se alcuno ha in pronto una cagione ragionevole di questa differenza, la
dica; per me non ho potuto trovarne che una, ed è: che il Cardinale
Federigo non ha mai ammazzato nessuno. La più parte degli uomini, parlo
degli uomini colti, non consente ad ammirare le virtù frugali ed astinenti
che in coloro i quali eccitano con virtù feroci un'altra ammirazione di
terrore: non considera quelle come virtù che quando sieno unite ad un
profondo sentimento d'orgoglio, e di disprezzo per qualche parte del genere
umano. Se quel tozzo di pane fosse stato mangiato da un generale in presenza di
venti mila cadaveri, sarebbe in tutti i discorsi, in tutti i libri; nessun
fedele umanista avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una amplificazione
in vita sua. Eppure la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo d'un uomo
che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne asteneva per un
sentimento profondo della dignità umana, e per dar pane a chi ne
mancava, quel tozzo di pane mangiato tra le fatiche d'un ministero di
misericordia, di pace, e di pietà, dovrebb'essere una rimembranza
più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello che copriva la
mensa d'un uomo che era sobrio per potere esser forte contra gli uomini; che
godeva di essere un povero Fabricio per essere un potente Romano. Le idee di
cui si componeva il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili,
sprezzanti, superficiali: quelle di Federigo umane, gentili, benevole,
profonde. In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio diede quelle prove
della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire
manifestamente quel suo animo: ivi all'udire le dottrine epicuree esposte da
Cinea, disse egli quelle atroci parole, tanto lodate dagli antichi, e, chi lo
crederebbe? dai moderni: «Oh Ercole!» (il santo era degno del voto) «Oh
Ercole!» diss'egli: «fa che queste dottrine sieno ricevute dai Sanniti e da
Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo romano». Ma il nostro mangiator
di pane avrebbe avuto orrore di sè, se avesse potuto anche un momento
desiderare la perversità ai suoi nemici, ai nemici del suo popolo. Egli
desiderava la giustizia, la fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava
per loro, per sè, per la gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta
la sua vita fu spesa a promuoverla. La sua benevolenza non era nazionale, né aristocratica,
egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne
un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per dividere
la condizione dei suoi fratelli poveri, e per migliorarla. A dispetto di tutta
la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica, Federigo Borromeo era
più grand'uomo che Fabricio; o per meglio dire Federigo era veramente
grand'uomo, per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un
sì misero sostantivo.
CAPITOLO V
Ho
visto più volte un caro fanciullo, (vispo a dir vero più del
bisogno, ma che a tutti i segnali promette d'essere un galantuomo) l'ho visto
affaccendato sulla sera, a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini
d'India che egli aveva lasciato spaziare il giorno in un giardinetto. Il
fanticino avrebbe voluto farli andar tutti di brigata al covile, ma era fatica
perduta; uno si sbandava a destra, e mentre il picciolo pastore correva per
raggiungerlo, un altro, due tre, uscivano dalla frotta a sinistra; dopo qualche
impazienza egli si persuadeva che non sarebbe riuscito a quel modo; spingeva
dentro prima i più vicini, e poi tornava a pigliar gli altri ad uno a
due a tre, come gli veniva fatto. Così pure abbiamo dovuto far noi coi
nostri personaggi: per seguire Lucia nelle sue dolorose vicende, ci è
stato forza perder di vista Fermo: ora che Lucia è uscita dal pericolo,
e posta in sicuro, e gli altri tutti qual più qual meno allogati, noi
torneremo indietro sulle tracce del suo promesso sposo. L'abbiamo lasciato che
s'avviava da Monza a Milano, munito d'una lettera del Padre Cristoforo ad un
padre Bonaventura, il mattino del giorno undici di novembre. Al dolore di avere
abbandonata la casa, al rancore d'averla abbandonata per la violenza d'un
ribaldo, al tribolo di trovarsi tapino sur una strada senza sapere dove si
poserebbe il capo, ai patimenti, ai disagi, alle stizze, agli sconcerti della
notte passata s'era aggiunto ora un dolore, che esacerbava tutti gli altri; il
distacco da Lucia, e un pensiero che diceva: — chi sa quando ci rivedremo —.
Andava dunque il povero Fermo tutto sconsolato, pensando a tutti i suoi guai, e
in capo a tutti questi pensieri si trovava sempre quel Don Rodrigo che era la
prima cagione dei guaj: e Fermo allora lo malediceva con tutti i tiranni, con
tutti i dottori, con tutti quelli che avrebbero dovuto proteggere il povero, e
lo lasciavano opprimere. I curati non li malediceva, ma ritirava da loro la sua
benedizione. Si ricordava poi di Domeneddio, e del Padre Cristoforo, questo gli
accadeva ad ogni volta che si abbatteva in una qualche immagine dipinta sur una
di quelle cappellette che erano allora frequentissime su le strade: allora
Fermo tornava in sè, e si sforzava di perdonare: di modo che, in quel
viaggio, egli ebbe ammazzato in cuore Don Rodrigo e risuscitatolo almeno venti
volte.
A
misura che Fermo si allontanava dalle colline e si avvicinava alla
città, l'aspetto del cielo e del paese gli diveniva più triste e
saturnino: di tempo in tempo la via profonda fra due ripe, solcata da rotaje
che erano diventate rigagnoli, e tutta fango negli altri spazj era presso che
impraticabile: a quei passi un sentiero erto a guisa di scaglioni su la ripa,
segnava che altri passeggeri si erano fatta una via nei campi, costeggiando
quella che avrebbe dovuto essere la via.
Fermo
salito il primo di questi sentieri, da quel luogo più elevato, guardando
dinanzi a sè, vide la guglia del Duomo, e ristette attonito: conobbe
tosto quello che doveva essere, e ristette ancora a rimirare, dimentico per un
momento di tutti i suoi travagli e assorto in quella contemplazione: poiché,
come tutti i contadini di Lombardia, egli aveva fino dalla infanzia inteso
parlare di quel Duomo, come della maraviglia del mondo: e in allora i viaggi
erano così rari, e le comunicazioni così infrequenti, che Fermo
dubitava assai se in vita sua avrebbe veduta mai quella maraviglia.
Ma
dopo qualche momento d'estasi, guardandosi intorno, e seguendo la catena dei
monti, vide sorgere fra gli altri le punte del suo Resegone e si
sentì tutto rimescolare il sangue, si mosse macchinalmente per correre
da quella parte, e tosto ravveduto gli volse le spalle, e continuò
tristamente il suo cammino. Ad ognuno in cui si abbatteva, domandava egli se
quella era la via che conduceva a Milano, non tanto per esser certo della via
quanto per assaggiare quegli abitatori sconosciuti, per sentire il loro
linguaggio, giacché gli pareva di trovarsi in un paese strano, e per dirla nel
suo linguaggio pareva perduto. Gli era risposto che andava bene, ed egli
continuava. Finalmente cominciò a vedere campanili, cupole, torri, tetti
e si accorse d'esser vicino. Allora s'accostò ad un viandante che veniva
da Milano, e detto umilmente: «in grazia, Vossignoria», gli fece una domanda
più precisa, e alla quale egli, con le sue idee contadinesche, stimava
che ogni milanese dovesse saper rispondere: «Dove si va», disse Fermo, «per
andare dal Padre Bonaventura?»
L'uomo
a cui Fermo s'era voltato e ch'egli aveva pigliato per un cittadino, era un
agiato abitante del contorno, il quale andato quel mattino alla città
per sue faccende, ne tornava senza aver fatto nulla, e non vedeva l'ora di
trovarsi a casa sua.
«Caro
giovane», rispose questi con una dolcezza studiata, e dissimulando la noja che
gli dava l'essere fermato, «caro giovane, bisognerebbe che mi spiegaste
più chiaramente chi è questo Padre Bonaventura che voi cercate».
«Non
lo conosce?» replicò Fermo: «è il Padre Bonaventura cappuccino».
«Ve
n'ha tanti!» disse l'interrogato; «sapreste dirmi di che convento egli sia?»
Fermo
allora si trasse di seno la lettera del Padre Cristoforo, e la mostrò a
quel signore, il quale letto sulla soprascritta: nel convento della Concezione
in Porta Orientale, disse a Fermo: «Bravo giovane, siete fortunato, il convento
è qui vicino: pigliate questo viottolo a mancina; è una
scorciatoia: vi troverete tosto all'angolo di una fabbrica lunga e bassa:
camminate lungo il rigagnolo, e vi troverete alla porta orientale. Entrate,
pigliate ancora la mancina, e dopo forse cento passi, vedrete una piazzetta con
dei bei faggi; ivi è il convento di quei buoni padri. Dio vi
accompagni». Ciò detto, fece egli un grazioso saluto con la mano, e
continuò il suo cammino lasciando Fermo stupefatto del garbo con cui i
cittadini parlavano ai foresi: perché i modi, il volto, il tuono di quel
signore non erano di una semplice cortesia ospitale; v'era un non so che di
riverente e di cortigianesco; si sarebbe detto che quel signore parlava ad un
uomo d'alto affare, e che voleva farglisi vedere amico sviscerato. Ma Fermo non
sapeva che quello era un giorno d'eccezione, in cui le cappe s'inchinavano ai
farsetti.
Entrò
egli nel viottolo che gli era stato additato, e dopo un breve cammino si
trovò all'angolo del Lazzeretto; e dinanzi alla porta orientale.
Non
bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre per la
fantasia le immagini che ora gli sono associate: ma che cerchi di raffigurare
con la mente gli oggetti quali erano al tempo di Fermo.
Al
di fuori della porta, invece dell'ampia e diritta via fiancheggiata di pioppi
che si vede al presente, una stretta e tortuosa strada la quale da principio
seguiva la linea del lazzeretto, e poi correva sghemba fra due siepi. Una
portaccia sostenuta da due pilastri, coperta da una tettoia per riparare le
imposte, e fiancheggiata da una casipola pei gabellieri. A destra e a sinistra
di chi entrava due salite ai bastioni, non come ora inclinate regolarmente, fra
due cordoni paralleli, ed orlate d'alberi, ma tortuose, non battute, con una
superficie ineguale di rottami e di cocci gettati a caso. Il corso, ampio e
irregolare come al presente, aveva nel mezzo un fossatello, che fra due rive
erbose prosaicamente, senza esser campestri, menava un'acqua lenta, bruna e
carica d'immondizie: di modo che il corso era partito in due strade strette e
torte, coperte or di fanghiglia ora di polvere secondo l'ora del tempo e la
stagione. A pochi passi dalla porta, dove è ancora la contrada di
Borghetto (chi non la conosce è un tartaro) questo fossatello passava
sotto una volta, e lasciando libero il mezzo riusciva lungo alcune casipole a
destra di chi entrava, e quindi passando in un'altra tomba, attraversava
sotterraneamente la salita del bastione, e si gettava nel fosso che lambe il
muro della città. Al primo entrare si affacciavano a destra le casipole
di cui abbiamo parlato, e ch'erano abitazioni di lavandaj, addossate
all'abbazia di San Dionigi la quale occupava una parte di quello che ora
è giardino pubblico: verso il mezzo del giardino attuale v'era allora
una strada che divideva il terreno dell'abbazia dal terreno d'un monastero, di
cui il chiostro rimane tuttavia in piedi, con una facciata la quale vorrebbe
dire: — sono un palazzo —, con tre altri lati che par che dicano: — siamo un
casolare dirupato —, ed un complesso che non sa bene quello che si voglia dire.
Questa via era posta quasi dirimpetto a quella di Borghetto, tuttavia
esistente; nel mezzo del quadrivio era una colonna con una croce, e si chiamava
la croce di San Dionigi. Delle fabbriche poi che allora costeggiavano il corso,
ben poche rimangono ancora, e sono le più povere e disadatte: i palazzi,
e le case ornate che ora si veggono son tutte nate molto tempo dopo. Quando
Fermo entrò vide la casa dei doganieri deserta, e deserta quella prima
parte del corso; e se non avesse inteso un romore lontano che accennava un
grande movimento, avrebbe creduto d'entrare in una città abbandonata.
Guardandosi indietro, come accade a chi trova solitudine dinanzi a sè,
mentre aspettava di trovar folla, vide troppe di gente che veniva. Andando
innanzi lungo le case dei lavandaj, senza saper che cosa pensare di quello che
gli appariva, vide egli lunghe strisce bianche, che avrebbe credute esser neve
se fosse stata egualmente diffusa; ma erano strisce le quali terminavano a
quella e a questa porta di quelle casipole. Abbassandosi a guardare più
attentamente, e toccando si accertò che ell'era farina, e disse tra
sè: — Grande abbondanza dev'essere in Milano, se in quest'anno vi si
sciupa la grazia di Dio a questo modo. — Procedendo così come trasecolato,
e passando presso la croce per attraversare il corso e incamminarsi dal lato
destro, dov'era il convento, parve di vedere al piè della colonna, e
sugli scaglioni del piedestallo, certe cose sparse qua e là, che non
erano ciottoli, e se fossero state sul banco d'un fornaio, egli non avrebbe
dubitato un momento di chiamarle pani: ma non ardiva creder così tosto
ai suoi occhi, perché per esser pani eran troppo fuor di luogo. Guardò
più da vicino, si abbassò, ne ricolse uno: era un pane tondo,
bellissimo, e d'una pasta, di cui Fermo non ne aveva ancor mangiato molte
volte: «È pane davvero!» sclamò egli ad alta voce, tanto ne fu
maravigliato. «Così lo seminano in questo paese? e non si fermano a
raccorlo quando cade? che venga da sè come i funghi?»
Fermo
aveva camminato dieci miglia, e sentiva appetito; e già al primo entrare
si era proposto di fermarsi alla prima bottega di fornajo che avrebbe
incontrata: ché non sapeva che in quel giorno a quell'ora in Milano v'era pane
da per tutto quasi fuorché da' fornaj. Trovandone ora così a proposito,
stette egli un momento a pensare se gli fosse lecito profittare di quella
ventura; e disse tosto: — L'hanno gettato alla balìa dei cani che
passano: è meglio che ne profitti un cristiano: alla fin fine, se viene
il padrone, glielo pagherò. — Fatto questo proponimento raccolse un
pane, se lo pose in una tasca, ne raccolse un secondo, e lo pose nell'altra; e
raccolto il terzo cominciò a mangiare. Frattanto vide gente che veniva
dall'interno della città, e adocchiò curiosamente i più
vicini, avido di scoprire qualche cosa che gli rendesse chiaro quel poco che
aveva veduto fino allora. Erano un uomo e una donna che si traevano dietro un
ragazzotto, tutti e tre curvati sotto una carica, e in un aspetto strano.
Avevano l'abito e il volto infarinato, il volto per sopra più stravolto,
camminavano come affaticati e dogliosi, come se fossero stati pesti, e parevano
venire da qualche trambusto. L'uomo portava a fatica su le spalle un sacco di
farina, che bucato qua e là ne lasciava sfuggire degli sprazzi ad ogni
intoppo del portatore. Il ragazzotto teneva fermo sul capo con ambe le mani un
cesto colmo di pani: il ragazzotto non potendo fare il passo lungo a paro dei
suoi genitori rimaneva indietro di tempo in tempo, e quando egli affrettava il
passo per raggiungerli, e giungeva balzelloni, qualche pane cadeva. Ma la
figura la più strana e la più sconcia era quella della donna.
Mostrava essa tutte le gambe fino al ginocchio, e queste gambe si vedevano
uscire da un gran corpo che procedeva barcollando; da lontano sarebbe sembrato
una pancia immensa; ma Fermo vide che la donna teneva con le due mani il lembo
della gonna rivolta in su, e piena di farina, la quale pure traboccava ad ogni
passo, e lasciava il segno di quel viaggio faticoso. Mentre Fermo guatava
quello spettacolo singolare, sopraggiunsero alcuni che venivano da fuori, e
accostatisi a quei caricati, chiesero dove si andava a pigliare il pane.
«Innanzi, innanzi», rispose la donna. Quando quegli furono passati, Fermo
intese la donna mormorare: «Questi foresi birboni, verranno a portarci via
tutto».
«Un
po' per uno», disse l'uomo: «abbondanza, abbondanza».
«Se
tu lasci ancor cadere uno di quei pani, brutto dappoco...» disse la madre,
digrignando i denti, e raggrinzando il naso verso il ragazzo, che in un
salterello ne aveva seminato un paio.
«Come
ho da fare?» rispose il ragazzo.
«Eh!
buon per te che ho le mani impedite!» ripigliò la donna, e così
dicendo, dimenò i pugni, come se desse una buona spellicciatura al
poveretto; e con quel movimento fece volare uno spruzzo di farina, da farne
più che i due pani lasciati cadere dal ragazzo.
«Via,
via», disse l'uomo: «qualcheduno gli raccoglierà: abbiamo stentato tanto
tempo, ora che viene un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace».
La
conversazione non si sarà probabilmente terminata a quelle parole; ma
gl'interlocutori s'allontanavano da Fermo, ed egli non potè intenderne
altro.
Da
quel poco però ch'egli aveva inteso, e veduto, e che vedeva tuttavia,
potè egli comprendere che il popolo era sollevato, e che quello era un
giorno di conquista eroica, vale a dire, che ognuno pigliava secondo le sue
forze, dando busse in vece di danari.
Nel
nostro sistema d'imparzialità, e di fedeltà storica, noi dobbiamo
confessare che il primo sentimento di Fermo fu un sentimento di compiacenza.
Egli aveva tanto patito nello stato ordinario della società; l'aveva
veduto così favorevole e comodo per la iniquità, e provato
così inerte e senza ajuto per la ragione debole, che si sentiva
naturalmente inclinato ad ogni cosa che lo rivolgesse, e lo cangiasse. Il
cangiamento al far dei conti, poteva essere un male peggiore, ma intanto non
era più quel male di prima, ma intanto i pari di Don Rodrigo, si
trovavano una volta nelle angosce che avevano date agli altri, e i pari di
Fermo facevano valere le loro ragioni. Per altra parte Fermo, come tutti quelli
che avevano sofferto della carestia, ne accagionava principalmente la
scelleratezza di alcuni, e la negligenza crudele, o la connivenza di alcuni
altri; e gli pareva giusto che la forza venisse in ajuto della parte oppressa
dalla scelleratezza e dalla connivenza. Gli passava bene per la mente che
quella cuccagna non sarebbe stata che pei birboni più vigorosi e
più svergognati, che i veri languenti per fame non si sarebbero gettati
in quel tumulto, e così la parte la più debole e la più
degna di soccorso avrebbe continuato a patire, e in quel giorno principalmente
sarebbe stata forzatamente priva anche dei soccorsi della carità
volonterosa, ma impotente; vedeva bene col suo buon senso che quell'orrendo
sciupio non avrebbe certo diminuita la scarsezza, e che quella farina calpesta
per le vie non sarebbe più andata in nutrimento di nessuno; ma queste
riflessioni fugaci, e quasi inavvertite non bastavano a soffocare quel gaudio
del garbuglio e dell'anarchia che si alzava nel cuore buono, ma irritato, e
nella mente non perversa ma pregiudicata di Fermo. Nulladimeno egli propose di
starsene fuori, e si rallegrò di essere raccomandato ad un cappuccino;
il quale gli darebbe ricovero, e buoni pareri.
Passato
dinanzi alla croce, si portò egli sulla sinistra del corso, camminando
lentamente verso il convento: ad ogni passo vedeva egli arrivare nuova gente
alla rinfusa; altri trionfante e carico delle spoglie, altri che quatto quatto
si ritirava dal tumulto. Dove sorge ora quel bel palazzo con una ampia loggia
v'era allora, e v'era ancora non son molti anni, una piazzetta, e in fondo ad
essa la chiesa dei cappuccini, e la porta del convento: noi facciamo i nostri
complimenti a quei lettori i quali non hanno veduto niente di tutto questo;
ciò vuol dire che son molto giovani; ed essendo al mondo da poco tempo
avranno fatto anche poche minchionerie.
Quel
compito signore a cui Fermo aveva domandato del Padre Bonaventura gli aveva
dato così chiaro indirizzo che era impossibile andare in fallo: del
resto tutte le chiese e i conventi dei cappuccini avevano come una fisonomia
speciale, e chi ne aveva veduto uno ne avrebbe riconosciuto un altro a prima
vista. Fermo s'avvicinò alla porta, cavò la lettera di seno, e
tirò il campanello. S'aperse lo sportello, e il portinajo alla grata
domandò chi era.
«Uno
di fuori che ha una lettera pel padre Bonaventura», rispose Fermo.
«Non
è in convento», disse il portinaio.
«Mi
lasci entrare, e starò ad aspettarlo», replicò Fermo.
«Fate
una cosa», disse il frate: «andate ad aspettare in Chiesa, o dove volete, che
per ora non si entra»; e, detto questo, chiuse lo sportello.
Fermo
rimase interdetto: egli si era proposto quel convento come un punto di riposo,
e un ricovero dai pericoli di una città nella quale egli non conosceva
nessuno, non aveva che fare, e che era in tumulto. Sulla prima egli volle
seguire il consiglio del portinajo, e ricoverarsi in chiesa; ma lo spettacolo
di quella moltitudine sciolta da ogni legge, di quella attività
clamorosa, di quella fratellanza di tanti che non avevan fra loro altra
relazione che la complicità di quel momento, lo attirava; la
curiosità vinse, e Fermo disse fra sè: — andiamo a vedere —.
Mentre egli si avvia tra la folla al centro della città e del trambusto,
noi parleremo brevemente, se sarà possibile, delle cose che furono
l'origine e il pretesto di esso.
Era
quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata piuttosto
scarsità che carestia: le provvigioni rimaste degli anni grassi
antecedenti avevano supplito tanto o quanto al difetto di quello, e la
popolazione era giunta al nuovo raccolto, non satolla, e non affamata; ma certo
affatto sprovveduta. Ora, il nuovo raccolto nel quale erano riposte tutte le
speranze, fu scarso, come abbiam detto, e lo fu d'assai più del primo,
in parte per maggiore contrarietà delle stagioni, e in parte per colpa
orrenda degli uomini. Si guerreggiava allora in Italia, e non lontano dal
Milanese; il quale si trovò soggetto ad alloggiamenti di truppe e a
gravezze straordinarie. Queste furono tanto intollerabili, e le estorsioni, le
rubberie, il guasto della soldatesca portati a tal segno, che molte possessioni
rimasero abbandonate, molte campagne incolte, e molti contadini andarono accattando
quel vitto che avrebbero procacciato a sè e ad altri col lavoro delle
loro braccia. E dove pure s'era coltivato, le seminagioni erano state scarse,
perché l'agricoltore, tentato dall'urgente bisogno aveva sottratta e consumata
una parte e la migliore del grano che doveva esser destinato a quelle.
Ottenuto
appena il raccolto, la guerra stessa che era stata la principale cagione a
renderlo scarso, fu la prima a divorarne una gran parte. Le depredazioni
parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo sprecamento infinito delle une e
dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel misero raccolto, che la fame
fu preveduta, quasi sentita sotto la messe stessa. I territorj che circondano
il milanese, in parte afflitti dalla guerra, e tutti dalla sterilità comune
di quell'anno, non lasciavano speranza di cavarne ajuto di viveri. Sorse quindi
quel sentimento di ansia e di terrore nei più, di gioja avara e crudele
in alcuni, che nasce da una cognizione confusa ma viva della sproporzione tra
il bisogno di nutrimento, e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame: e
questo sentimento produsse il suo effetto naturale, inevitabile: la ricerca
premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il rincaramento.
Questa
sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra, perché pesano
ad un tempo sur una moltitudine: quando un tal male esiste, i migliori mezzi
per alleggerirlo (giacché toglierlo non è in potere dell'uomo) sono
tutte quelle cose che possono diffonderlo più equabilmente, farne
sopportare al maggior numero, a tutti i viventi, se fosse possibile, una
picciola porzione, affinché nessuno ne abbia una porzione superiore alle forze
dell'uomo, fare che quel male sia un incomodo per tutti piuttosto che
l'angoscia mortale per molti, e la morte per alcuni. Quindi il primo, il
più certo, e il più semplice mezzo di alleggiamento comune
è l'astinenza volontaria dei doviziosi, che si privino di una parte di
nutrimento per lasciarne di più alla massa del consumo universale. Poi
tutto quello che può aumentare nelle mani degl'indigenti i mezzi di
acquistarsi il vitto, in proporzione dell'aumento delle difficoltà,
cioè del rincaramento. Aumento quindi delle mercedi, e nuovi guadagni
offerti per mezzo di nuovi lavori ai molti a cui cessano in quelle circostanze
i lavori e i guadagni usati. Questo mezzo però sarebbe uno scarso
rimedio, sarebbe anzi un accrescimento del male, se non fosse accompagnato
dalla cura attenta, assidua di somministrare il vitto anche a quei molti che
per debolezza, o per infermità non lo possono ottenere col lavoro: si
avrebbero allora dei lavoratori ben nutriti, e degli impotenti morti di fame: e
la beneficenza sarebbe crudele per molti. A questi ultimi non si può
provvedere altrimenti che con l'elemosina tanto sapientemente comandata dalla
religione: quella elemosina di cui molti scrittori hanno enumerati, e censurati
amaramente gli abusi. Nè a torto; poiché è utile scoprire e
censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però cosa trista e
dannosa che in un soggetto di tanta importanza non si sieno quasi considerati
che gli abusi; e sarebbe da desiderare che alcuno pigliasse la bella e forse
nuova impresa di ragionare del buon uso della elemosina, di mostrare com'ella
sia uno dei mezzi più potenti, più semplici, e certo più
irreprensibili a tutti quei fini che si propone una saggia e ragionata economia
pubblica.
Questi
che abbiamo accennati sono certamente i principali e più sicuri rimedj
alla penuria delle sussistenze; e quando si fossero posti in opera, il meglio
da farsi, sarebbe sopportare quella parte inevitabile di patimento con
tranquillità, e con rassegnazione, giacché tutte le ire, tutte le
declamazioni, tutti i falsi ragionamenti non ponno far nascere una spiga di
frumento né accelerare di cinque minuti il nuovo raccolto che deve mettere alla
disposizione degli uomini una nuova massa di sussistenze.
Ma
oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo, e
moltissimi, per esacerbarlo, per accrescerlo, per rendere più trista e
complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e
questi mezzi sono stati per l'ordinario più adoprati dei primi; e si
possono ridurre a due capi principali: le idee del popolo, e i provvedimenti
dei magistrati. Nella epoca di cui parliamo, le idee e i provvedimenti
concorsero potentemente a produrre quel tristo effetto in un grado singolare.
Nei
tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tutti i discorsi: fatto
ben naturale, ma degno di molta osservazione, e di commento. Tutti ragionano
delle cause del male, tutti propongono i veri rimedj, tutti dissertano di
principi generali, di commercio, di monopolio, di accapparramento, di
importazione, di esportazione, di circolazione. Ma la maggior parte non si
è occupata mai in vita sua di questa materia: i primi pensieri sono
giudizj, e l'applicazione dei principj precede alla ricerca di essi. Guaj
allora a quegli che hanno pensato a questi principj nel tempo in cui nessuno vi
pensava; guaj a quegli che danno più degli altri un senso preciso a
quelle parole che tutti proferiscono, guaj a quegli che hanno esaminati con una
vista generale i fatti che sono l'argomento della discussione comune! Essi soli
non sono ammessi a parlare: essi debbono vedere pazientemente discorrere i
sofismi precipitati, e baldanzosi della ignoranza, perché chi può
fermare il sofisma? la ragione in bocca loro è paradosso, e quando non
si avesse altro da opporle, basterebbe quella accusa che le si fa di essere
stata sui libri. La parola che suona alto, che signoreggia in quelle dolorose
circostanze è quella della irriflessione: ma cessata la carestia,
cessano tutti i discorsi: nessuno ne vuol più parlare né sentire a
parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino di quella materia,
sono per lo più un soggetto di contraddizione per un momento, e
rimangono dopo quasi dimenticati: la società è in quel caso
simile ad un povero scapestrato, il quale trovandosi all'estremo, non ha
parlato d'altro che di novissimi e di penitenza: convalescente accoglie ancora
il prete per urbanità; guarito allontana da sè tutti i pensieri
di quel momento del terrore.
Cessi
il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo che non ha mai
avuto maestri né ozio, l'irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane
col suo lavoro. Ma quegli che meritano rimproveri acerbi, e severi, quegli che
per bene loro e d'altrui vorrebbero essere sborbottati come ragazzacci caparbj,
tanto che si correggessero, sono coloro, i quali potrebbero meditare a loro
agio sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che ne
hanno cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e
procacciarsi così una opinione ragionata; e non lo fanno mai; ma al
momento del serra serra escono in campo a sentenziare furiosamente, cominciano
a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono,
calunniano le voci che nascono da un antico pensiero, ripetono, in un
linguaggio meno incolto e più strano i giudizj storti, le idee
appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la stortura e la passione,
si oppongono ferocemente a tutti quei raziocinj che potrebbero illuminare
l'opinione dell'universale sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli
spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni
che lo peggiorano: e infervorati in queste degne imprese, non si spaventano col
pensiero della loro ignoranza; anzi ne cavano argomento di gloria, e di
fiducia; e a tutte le obiezioni, (o alla metà delle obiezioni perché di
rado lasciano terminare una frase ad un galantuomo) rispondono con
quell'inverecondo sproposito: «noi non vogliamo teorie»; non riflettendo
nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie, diverse
da quelle dei loro avversarj, in ciò soltanto che non sono fondate sulla
cognizione, o almeno sulla ricerca dei fatti.
Le
storture del popolo, e di questi che abbiamo detto intorno alla carestia sono
moltiplici per sè, e infinite nelle loro applicazioni e nei loro
rivolgimenti; molte si possono vedere enumerate in alcuni libri che le hanno
esaminate e ribattute con più sagacità e pazienza che profitto;
ma si possono forse ridurre a due capi principali. Il primo è l'opinione
che il male non esista, che il difetto di sussistenze sia soltanto una
apparenza nata da combinazioni perfide degli uomini. Questa opinione viene
sempre espressa e ripetuta con una formola concisa, come tutte quelle che
racchiudono un errore o un equivoco: — il grano c'è —. Proposizione
ambigua che può intendere una verità fatua e inconcludente, o una
affermazione temeraria e fanatica. Poiché se con quelle inconsiderate parole si
vuol dire che esiste una indeterminata quantità di biade, si dice il
vero, ma che cosa s'insegna? che cosa si vuol concludere? quella non è,
né può essere la questione. Ognun sa che i grani si raccolgono una volta
l'anno, o a certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto
e l'altro ci debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse
assolutamente, non si parlerebbe più di stentare, ma di morire, e tutti,
e in pochi giorni. Se poi dicendo: — il grano c'è —, s'intende (come
s'intende) che ne esista una quantità eguale al consumo ordinario,
proporzionata al bisogno, o al desiderio della popolazione; come mai una tal
cosa si afferma senza conoscere, senza poter conoscere, senza cercar di
conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la quantità del grano
esistente? Eppure un fatto che con le più minute indagini, coi calcoli
più scrupolosi, con l'esame il più freddo non si conosce mai con
precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza indagini,
senza calcoli, senza esame: un fatto che appena si può conoscere
approssimativamente per gli indizj del prezzo, della ricerca, della
distribuzione, del consumo, si afferma assolutamente contra la testimonianza di
tutti questi indizj.
L'altra
stortura, conseguente da questa, e pur madornale è nel supporre che il
male sia il caro prezzo del grano: mentre questo non è che un effetto
del male vero, la sproporzione tra il grano e il bisogno; è un effetto,
e un doloroso, deplorabile, funesto, acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete;
non saranno mai troppi; ma il sostantivo è: rimedio. Il caro prezzo
è un rimedio, considerato parzialmente per un territorio, perché vi
attrae il grano dai paesi dove è meno scarso, e quindi a minor costo:
è rimedio considerato generalmente, perché, forzando pur troppo migliaja
d'uomini a diffalcare una parte del consumo ordinario, è cagione che si
risparmj, si distribuisca per tutto l'anno fino al raccolto la scarsa e
mancante vittovaglia. Se una forza qualunque, potesse illudere, addormentare
fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di modo che in un anno
scarso generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli anni abbondanti, ne
avverrebbe certamente che il consumo, fin che grano vi fosse, sarebbe eguale a
quello degli anni abbondanti: si viverebbe lietamente a discrezione per qualche
tempo: e l'ultimo effetto di questo terribile beneficio sarebbe di fare sparire
tutta la provvigione qualche mese prima del raccolto.
Il
linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due storture è
accetto al popolo che patisce; e la cosa è troppo naturale: non
riconoscendo il male nella natura delle cose, attribuendolo tutto alla
perversità umana, essi mostrano nello stesso tempo una compassione che
pare più sincera per chi soffre, un grande orrore per chi fa soffrire, e
fanno sempre intravedere la possibilità d'un rimedio pronto ed assoluto.
Ma
quegli i quali veggono chiaramente la realtà del male, non hanno cose
gradite da dire a chi lo sopporta; poiché chi dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj
per minorare il male, confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda
la rassegnazione, può difficilmente far credere che compatisce; chi nega
all'addolorato che la causa prima, unica del suo dolore sia nella
volontà scellerata di alcuni, converrà che abbia ben fama di
onesto e di umano perché l'addolorato si contenti di crederlo cieco e
insensato, e non lo chiami atroce, fautore, complice di quelli che creano il
dolore. Sono i chiaroveggenti, in quel caso, come un medico, che giunga al
letto d'un infermo circondato da una famiglia amante e ignorante, dove si trovi
un ciarlatano il quale assevera che il male è tutto nella cecità
o nella impostura dei medici, e ch'egli tiene un'ampollina dov'è la
salute. Se il medico il quale vede che la malattia è incurabile, si
lascia uscire dalla chiostra dei denti questo suo parere, la famiglia lo
riguarderà come un pazzo crudele che desidera di veder morire le
persone.
Queste
false idee che a malgrado di tanti scritti ragionati, e dell'aumento di tante
cognizioni, vivono tuttavia latenti e come addormentate nella mente di
moltissimi, pronte a ricomparire quando una penuria (che Dio tenga lontana) dia
loro occasione di mostrarsi, erano ben più universali, più
pertinacemente tenute, più furibondamente applicate nei tempi della
nostra storia; nei quali l'ignoranza era tanto più generale, e la
scienza che era pure di pochi, consisteva in un peripateticismo inteso come si
poteva, e applicato come si voleva a tutte le quistioni possibili di ogni
genere, in tempi in cui non esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la
scritta e ridotta in trattati, perché l'economia politica di fatto esiste nella
società necessariamente, più o meno spropositata.
Gli
sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità del raccolto,
avevano vedute e sofferte le atroci dissipazioni della soldatesca, e gli
sventurati abitanti della città le avevano pure intese raccontare: ma
quando la carestia cominciò a farsi sentire, né gli uni né gli altri
volevano accagionare di un tanto male una causa passata, e irrevocabile. Come
se non avessero veduto nulla, o tutto dimenticato, essi attribuivano il caro
prezzo soltanto alla crudele ingordigia di quegli che possedevano il grano. E
una circostanza speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più
freddamente, se l'esame freddo fosse possibile in quei casi. L'anno antecedente
era pure stato scarso; e si era per tutto quell'anno gridato contra gli
accapparratori come contra la sola cagione della carezza; si era detto che il
grano abbondava, ma era tenuto chiuso, stivato, murato nei granaj degli avari.
Ora
l'anno era passato, si era fatto il nuovo raccolto; sarebbe stata cosa molto
naturale ricercare se quel grano era stato finalmente venduto, o no. Nel primo
caso, avrebbero dovuto gli uomini conchiudere che s'erano dunque ingannati
nell'affermare che il grano abbondava, poiché s'era venduto a caro prezzo fino
al raccolto, appena aveva bastato. Che se il grano dell'anno antecedente non
era venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj erano occupati;
come dunque potevano essi fare ancora nuove incette? Ma la popolazione sfogando
sempre il suo dolore con imprecazioni, non pensava che le ultime
contraddicevano alle prime. Si diceva anche che molti accapparravano i grani
per ispedirli in altri paesi; e in questi altri paesi si gridava che i grani
erano spediti a Milano. Tutti quelli che ne possedevano, erano oggetto di
minaccia e di abbominazione: i possessori che non lo vendevano erano tiranni,
quegli che lo comperavano per rivenderlo, i fornaj che ne facevano provvista,
scellerati che volevano ritirarlo dal commercio e imporgli il prezzo che
sarebbe piaciuto alla loro avidità. Che ognuno provvedesse la
quantità che poteva essergli necessaria fino al raccolto, era cosa
impossibile. Quindi se la popolazione avesse voluto o potuto rendersi un conto
esatto delle sue idee, e dei suoi desiderj, avrebbe trovato ch'ella voleva che
il grano non fosse in nessun luogo. Il prezzo straordinario al momento stesso
del raccolto, crebbe nell'autunno, crebbe straordinariamente al cominciare
dell'inverno, e col prezzo crebbe il fremito e il clamore del popolo, il quale
accusava già apertamente i magistrati di negligenza, anzi di connivenza
con coloro che lo affamavano.
Non
è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro
molti spropositi, ma questi erano in numero e in grossezza, ancora ben lontani
dai desiderj e dalle richieste del popolo. Il maneggio delle cose forza a
riflettere anche quelli che sono più nemici della riflessione; e chi
deve operare o comandare direttamente, scorge talvolta anche a mal suo grado,
anche chiudendo gli occhi, l'impossibilità o l'assurdità d'un
provvedimento, che è domandato con furore dai molti che lo stimano
giusto, e lo credono agevole. Oltre di che l'effetto immediato di quegli
spropositi era di esacerbare la condizione universale; si sentiva crescere il
male; e l'aumento si attribuiva non già alla efficacia funesta degli
spropositi fatti, ma al non farne abbastanza. Era stato tassato il prezzo massimo
del riso, a lire quaranta imperiali il moggio per la città di Milano: la
conseguenza fu che quegli che possedevano riso, e potevano venderlo a molto
maggior prezzo per tutto altrove, non ne spedirono più un grano alla
città; e questa si trovò senza riso. Altro editto che tassa il
riso allo stesso prezzo massimo per tutto lo stato: altra conseguenza, che i
possessori ricusino di vendere ad un prezzo comandato, quella merce a cui la
rarità ne ha assegnato un maggiore. Ordine di vendere il genere a chiunque
ne offra il prezzo tassato: industria dei possessori a nasconderlo per poter
rispondere: «non ne ho». Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo
nasconde: nuova industria, nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per
evitare le pene, senza esser danneggiato. Comparvero allora, come dovevano
comparire, di quegli uomini, i quali conoscono a perfezione l'arte di eludere
gli editti, arte tanto più facile, quanto più gli editti sono
assurdi. Costoro osservato lo stato delle cose, fatte le loro ragioni, trovarono
che comperando il riso ad un prezzo molto maggiore dell'assegnato
arbitrariamente si poteva fare ancor molto guadagno: offersero quel prezzo ai
possessori, i quali non rispondevano di non aver riso da vendere a chi lo
pagava più di quello che comandava la legge. Questi nuovi compratori,
trovavano poi il modo di rivendere il riso a maggior prezzo agli stati vicini,
dove non v'era tassa, o di conservarlo nascosto in onta degli editti: il modo
consiste, come ognun sa, nello studiare non tanto la volontà unica donde
è uscita la legge, quanto le volontà moltiplici, varie,
più vicine che debbono eseguirla, e nel trovare i mezzi di eludere
queste volontà, o di comperarne la complicità.
Quello
che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come il possederli,
il farne commercio, era un rischio dell'avere e della persona, un soggetto di
terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi un marchio d'infamia, così
avvenne che questo commercio non fosse quasi più ricercato che dagli
uomini i più esperti ad eludere il rischio, i più agguerriti
contra l'odio e contra l'infamia; i quali sapevano come tutte queste cose,
affrontate e sofferte con una certa sapienza particolare possono fruttare
danari.
La
scarsità del frumento, e i mezzi posti in opera per renderlo più
comune lo avevano fatto salire ad un prezzo esorbitante. Si vendeva cinquanta
lire il moggio, se crediamo al Ripamonti allora vivente: settanta anzi ottanta
se vogliamo stare al detto di Alessandro Tadino, medico riputatissimo di quei
tempi che scrisse anch'egli (a dir vero con le gomita) una storia della peste,
e della carestia che l'aveva preceduta. Ma supponendo anche esagerata
l'asserzione di quest'ultimo, il prezzo attestato dal Ripamonti era tale da
porre in angustia una gran parte della popolazione.
I
mali nei loro cominciamenti, producono nell'uomo, generalmente parlando, una
irritazione più forte del dolore. Sclama egli da prima che i mali sono
intollerabili, che sono giunti all'estremo, e tanto fa, tanto s'ingegna, tanto
s'arrabatta, che coi suoi sforzi crea egli questo estremo che naturalmente non
sarebbe arrivato: s'accorge allora che si può soffrire molto di
più di quello ch'egli aveva creduto dapprima, ogni nuovo colpo gli
rivela una nuova facoltà di patire e di accomodarsi, ch'egli non sospettava
in se stesso; e salta per lo più dalla rabbia all'abbattimento senza
aver toccata la rassegnazione.
Per
sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo secondo
i suoi desiderj, l'uomo che partecipava delle sue idee, e che assecondandole
gli procurò una gioja corta e fallace, a cui doveva succedere, un nuovo
dolore senza disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza del delitto, lo spavento
delle pene, e quindi la tranquillità stupida della disperazione
impotente.
Il
Governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava allora a campo
sotto Casale per una guerra, atroce nella condotta, orrenda nelle conseguenze,
e nata da certi pettegolezzi, dei quali parleremo più tardi e più
laconicamente che sarà possibile. Nella sua assenza, governava lo stato
il gran cancelliere Antonio Ferrer. Questi stordito dai richiami continui e
crescenti del popolo, stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già
dati invece di togliere il male lo avevano accresciuto, non sapendo più
che fare, e persuaso che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al
partito di quelli che non veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di
determinazione: fece un'ipotesi. Suppose che il frumento si vendesse
trentatrè lire il moggio, né più né meno. Ammessa l'ipotesi,
tutte le cose si raddrizzavano, e correvano a verso. Il prezzo del pane si
trovava proporzionato alle facoltà della massima parte, cessavano quindi
i patimenti, le minacce, le angustie; era un altro vivere. Animato e rallegrato
dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato, Antonio Ferrer, fece un
altro passo: pensò che quel lieto vivere si sarebbe ricondotto, se si
fosse potuto far discendere il pane al prezzo corrispondente a quel prezzo
ipotetico del frumento. Procedendo col pensiero, trovò che un suo ordine
poteva produrre questo effetto; e conchiuse che bisognava dar l'ordine. Il
poveruomo non badò che cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto,
operare come se le cose fossero in un stato diverso da quello in cui erano: non
pose mente a distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto
fosse stato conseguenza naturale della proporzione tra la ricerca, e la
quantità esistente, ma non un bene per sè, e in ogni modo. Non
pensò a niente di tutto questo: fece come una donna di mezza età
che per ringiovinire alterasse la cifra della sua fede di battesimo. L'ordine
fu dato, promulgato, ed eseguito.
Ordini
meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella natura
stessa delle cose, ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza esecuzione, ma
alla esecuzione di questo vegliava il popolo il quale come era ben naturale
l'aveva accolto con un grido di esultazione; e vedendo finalmente esaudito e
convertito in legge il suo desiderio, non sofferiva che fosse da burla. Il
popolo accorse tosto ai forni a domandare il pane a quel prezzo legale, e lo
domandò con quell'aria di risolutezza e di minaccia che danno la forza e
la legge insieme unite.
Se
era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che strillassero i
fornaj: un politico avrebbe potuto dire che quello era il caso di fare soffrire
un picciol numero per sollevare e tranquillare una gran moltitudine: ma il male
era che questo picciol numero era appunto quello che doveva, e che poteva solo
dare in fatto quello che la legge comandava e prometteva in parole: e a
produrre l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine
preciso, non bastava che avessero molta paura, che fossero disposti a
sopportare l'ultima rovina delle sostanze per salvare la persona: era necessario
che potessero. Ora la cosa comandata era non solo dolorosa per essi, ma
diveniva di giorno in giorno più difficile; ma doveva arrivare un
momento in cui sarebbe stata impossibile. Il popolo stesso affrettava questo
momento: quantunque gridasse risolutamente e tenesse confusamente che quel
prezzo stabilito era equo, ragionevole, sentiva però anche confusamente
che esso era come in guerra con tutto il resto delle cose, che era l'effetto
d'una volontà e non della natura, e prevedeva pure confusamente che la cosa
non avrebbe potuto andar così sempre, né a lungo.
Approfittava
quindi del momento di baldoria, assediava continuamente i forni, come dice il
Ripamonti, si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato quasi da una
ventura momentanea, e la sua pressa indiscreta gareggiava con la fretta e col
travaglio dei fornaj. Così quella cieca moltitudine consumava
improvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la scarsa e preziosa
provvigione la quale però doveva servirgli per tutto l'anno. I fornaj
costretti ad affacchinare e a scalmanarsi per discapitare, ponevano in opera
tutte le arti per far perder tempo ai chieditori di pane, senza irritarli
all'estremo, adulteravano il pane con tutte quelle sostanze, che senza troppo
lasciarsi distinguere, ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di
domandare che la legge fosse abrogata. Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i
richiami, come Enea agli scongiuri di Didone.
Generalmente
parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da
una sua ipotesi: con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei
fatti, perché finalmente l'evidenza l'ha trovata; ma l'ipotesi l'ha fatta egli;
e l'ha fatta non per ozio né per ispasso, ma per un gran bisogno che ne aveva,
per uscire da un impaccio. Oltre questa cagione generale, si può
supporre senza temerità che quell'uomo, benché dagli effetti avesse
dovuto conoscere quanto il suo ordine era stato pazzo, non voleva rivocarlo
egli, e perdere così tutto il favore del popolo anzi cangiarlo in
furore; giacché certamente il popolo l'avrebbe creduto subornato e corrotto se
avesse tolto ciò che egli aveva stabilito come giusto. Prevedeva egli
dunque che la cosa non sarebbe durata, ma lasciava ad altri la briga di
dichiararla cessata legalmente. Come però spesse volte bisogna
rispondere qualche cosa ai richiami che non si vogliono soddisfare, Antonio
Ferrer rispondeva ai fornaj, a tutti quelli che per uficio erano costretti
parlargli dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i fornaj avevano
guadagnato assai assai in passato, e che era giusto che tollerassero allora
quella picciola perdita. I fornaj repplicavano che non avevano fatti questi
guadagni, e che non potevano più reggere alla perdita presente; Antonio
Ferrer, ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che sarebbero venuti
anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato a tutto.
CAPITOLO VI
Il
tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è vero di due
difetti: d'esser troppo corto, e d'esser troppo lungo; di passare troppo tardamente,
e d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione primaria di questi
inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel tempo, il quale per
sè è una gran bella cosa: ed è proprio un peccato che
nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli sia.
In
questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi a dir
vero, gl'inconvenienti erano di quelli che col durare si fanno più
gravi. I fornaj avevano protestato fin da principio, che se la legge non veniva
tolta, essi avrebbero gettata la pala nel forno, e abbandonate le botteghe; e
non lo avevano ancor fatto, perché sono di quelle cose alle quali gli uomini si
appigliano solo all'estremo, e perché speravano di dì in dì che
Antonio Ferrer gran cancelliere sarebbe restato capace, o qualche altro in vece
sua. Alla fine, i Decurioni (un magistrato municipale) vedendo che la minaccia
de' fornaj sarebbe divenuta un fatto, scrissero al governatore ragguagliandolo
dello stato delle cose, e chiedendogli un provvedimento. Probabilmente il Signor
Gonzalo Fernandez di Cordova avrà avuto molto a cuore di trovare un
mezzo per nutrire stabilmente molti uomini; ma in quel momento impedito egli e
assorto in una faccenda più urgente, quella di farne ammazzare molti
altri, non potè occuparsi della prima, e ne diede l'incarico ad una
commissione, ch'egli compose del presidente del Senato, dei presidenti dei due
magistrati ordinario e straordinario, e di due questori. Si riunirono essi
tosto, o come si diceva allora spagnolescamente, si giuntarono: e dopo mille
riverenze, preamboli, sospiri, proposizioni in aria, reticenze,
tergiversazioni, spinti sempre tutti verso un punto solo da una
necessità sentita da tutti, conscj che tiravano un gran dado, ma
convinti che altro non si poteva fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del
pane, riavvicinandolo alla proporzione del prezzo reale del frumento; e si
separarono nello stato d'animo d'un minatore che avesse dato fuoco ad una mina
non caricata da lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo né quando né quale
egli sarebbe.
Questa
volta i fornaj respirarono, ma il popolo imbestialì: s'era già
avvezzo a quel vantaggio che aveva apportato l'editto del gran cancelliere; e
cominciava già a trovare che il vantaggio era troppo scarso, che la
giustizia non era intera; e aspettava ad ogni nuova deliberazione che il prezzo
sarebbe ancora diminuito. Il sentimento di furore che produsse l'aumento, fu
universale: questo sentimento veniva espresso da migliaia d'uomini con lo
stesso impeto, con la stessa intensità, con le stesse parole. La sera
del giorno che precesse a questo in cui Fermo arrivò in Milano, le vie,
le piazze erano sparse di crocchj, nei quali conoscenti, e ignoti parlavano
altamente d'un fatto comune nel quale avevano dolori e idee comuni. Migliaja d'uomini
si coricarono quella sera dopo d'aver dette ed udite molte volte le stesse
frasi, e si svegliarono il mattino vegnente con una persuasione piena e fervida
che si faceva loro un torto tirannico, con un impulso indeterminato ma potente
a far qualche cosa, e con la confidenza che fra tanti unanimi la cosa da farsi
si sarebbe determinata.
Fra
queste migliaja vi aveva alcuni i quali meno irritati, pensarono con gioja che
in quel giorno l'acqua sarebbe stata torbida, e si sarebbe potuto pescare, e
fecero proponimento di non lasciarla posare fin che non fosse fatta la pesca.
I
crocchj precedettero l'aurora: fanciulli, donne, uomini, vecchj, operaj,
mendichi, si ragunavano a caso, e cominciavano o proseguivano naturalmente lo
stesso discorso: qui erano voci confuse di molti parlanti, là uno
predicava, e gli altri applaudivano: da per tutto racconti diversi ma
egualmente violenti delle cabale e delle iniquità che avevano macchinato
il nuovo editto: da per tutto lo stesso linguaggio di lamenti, d'imprecazioni,
di minacce; e da per tutto per ultima conseguenza una parola la più
moderata nel suono, ma la più forte, quella che esprimeva la cosa, e la
faceva: così non può andare. Non mancava più che una
occasione, un avvenimento, un movimento qualunque per ridurre a fatti quelle
parole; e l'occasione non si fece aspettar molto. Uscivano secondo il solito
dalle botteghe dei fornaj quei fattorini che con una gerla carica di pane
andavano a portarne la quantità convenuta, ai monasteri, alle case dei
ricchi, insomma (per dirla con un termine milanese, che la lingua toscana
dovrebbe ricevere poiché non è altro che una applicazione speciale e
analoga d'un vocabolo toscano) alle poste loro. Uno di questi passava per quel
crocicchio che si chiamava il Leone di Porta Orientale, dove era adunato molto
di quel popolo. Al primo vedere quel fattorino e quella gerla: «ecco»,
gridarono cento voci: «ecco se c'è il pane». «Sì, sì, pei
tiranni che non vogliono darne alla povera gente», grida uno della folla. Un
altro s'avanza, s'appressa al fattorino, alza la mano all'orlo della gerla, la
fa abbassare con una strappata, e con l'altra mano toglie un pane e dice:
«siamo cristiani anche noi; abbiamo da mangiare». «Anche noi»; rispondono cento
voci, molti s'avventano al fattorino, e gridano: «giù quella gerla». Il
garzoncello arrossisce, impallidisce, trema, vorrebbe dire: — lasciatemi stare
—; ma non ha tempo, sviluppa le braccia in fretta dalle ritorte che servono di
manichi alla gerla, la lascia nelle mani di quelli che l'avevano presa; e a
gambe. Il pane fu diviso in fretta, ma senza tumulto e senza risse fra coloro
che erano più vicini alla presa. Ma quelli a cui non era toccato nulla,
irritati e aizzati dalla vista del guadagno altrui, e animati dalla
facilità, e dalla impunità della impresa, si mossero a troppe
alla busca di altre gerle vaganti: tutte quelle che si abbatterono in questi
cercatori, furono ritenute e svaligiate come la prima. Ma questa poca preda non
bastava alla voglia di tutti, né il fatto fin allora a coloro che avevano fatto
conto su un garbuglio più grande. S'intese una voce che diceva: «andiamo
ai forni».
«Ai
forni! ai forni! sono il buco dei ladri, la fucina della carestia». «Ai forni!
ai forni!» rispose il coro.
In
quella via torta, angusta, e frequentata che va dal Leone di Porta orientale al
duomo, v'era già a quei tempi un forno che sussiste tuttavia, con lo
stesso nome, che in toscano viene a dire: forno delle grucce, e nel suo
originale milanese è espresso con parole di suono tanto eteroclito e
bisbetico che l'alfabeto comune della lingua italiana non ha il segno per
indicarlo.
Quivi
si addrizzò la folla.
I
fornaj che avevano veduto tornare il fattorino svaligiato e rabbaruffato, e
intesa la sua relazione, stavano già in sospetto, e pensavano a
guardarsi. All'avviso della visita che si avvicinava, mandarono in folla ad
avvertire il Capitano di giustizia, e a chiedergli ajuto. Questi che stava
all'erta aspettandosi che la sua presenza sarebbe domandata in qualche luogo,
accorse tosto, e con alcuni alabardieri arrivò che la moltitudine
cominciava a spessarsi dinanzi alla bottega. «Largo, largo», gridava il
capitano, gridavano gli alabardieri, e si appostarono sulla porta. La folla si
condensava vie più, quei di dietro spingendo i primi. «Figliuoli, a
casa... che cosa è questa?... animo... via gente dabbene, buoni
figliuoli... ahi canaglia!» Una pietra lanciata dalla retroguardia degli
assalitori colpì la cucuzza del Capitano all'ultima sillaba di figliuoli.
«Ahi!
ah! canaglia. Quel temerario... Alabardieri, disperdete questi birboni».
«Indietro,
indietro», gridavano gli alabardieri, sospingendo i primi, ma invano.
«Animo!
animo!» gridava il capitano, «rispingeteli almeno tanto che chiudiamo le porte;
da bravi! Indietro! indietro!» Gli alabardieri, uniti, fecero impeto tanto che
i fornaj potessero afferrare le imposte e farle girare sui cardini, a misura
che queste si racchiudevano gli alabardieri si ritiravano insieme, e gli uni e
gli altri si chiusero al di dentro.
«Apri!
apri!» urlava la folla al di fuori, percotendo le porte. «Via! via!» si
rispondeva da quei di dentro che si tenevano calcati alle imposte per fermarle
contra gli urti. Il Capitano di giustizia intanto fattosi visitare ad un
alabardiere e toccato egli con la mano il luogo della percossa, fu certo che
non era altro che una bernoccola, onde rincorato salì le scale, e si
fece ad una finestra, dove presa una imposta di dentro, come scudo e cacciando
fuori da quella il capo, e la mano per ottener silenzio: gridava a quanto fiato
aveva in corpo: «Che timor di Dio è questo?»
Una
vociferazione, immane, confusa, nella quale non si distinguevano altre parole
che, «pane! pane! apri! apri!» copriva la voce del Capitano.
«Che
dirà il re nostro signore?» gridava egli.
«Pane!
pane! apri! apri!»
«Indulgenza
plenaria, perdono a chi torna a casa», gridò egli di nuovo, sporgendo il
capo con precauzione: ma viste più mani nella folla che si movevano a
lanciargli un secondo biscottino, si ritirò. Alcuni garzoni del forno,
s'avvisarono di rompere il selciato d'un cortiletto; e tolte molte pietre,
salirono con quelle al piano superiore, e fattisi alle finestre, minacciarono
di gettarle sugli assalitori se non si ritiravano.
«Ah
cani! vi faremo in pezzi»; urlava il popolo, e non si ritirava: le pietre
cominciarono a scendere; molti ne furono malconci, e due ragazzi ne rimasero
morti. Il furore crebbe la forza della moltitudine: le porte furono spezzate,
le ferriate delle finestre del pian terreno scassinate e divelte, e la bottega
aperta agli assalitori. I fornaj, gli alabardieri, il Capitano si rifuggirono
in fretta sul solajo, dove s'appostarono alle uscite che davano sui tetti, per
farsela da quella parte, alla meglio, se il pericolo si fosse avvicinato anche
a quel rifugio.
Per
buona loro ventura, i vincitori si curavano per allora più di preda che
di carnificina. I primi entrati si gettarono sui cassoni del pane, e li posero
a sacco: la folla si sparse dalla bottega nei magazzini ov'erano le farine:
quelli che afferrarono i sacchi, gli sciolsero e perché non avrebbero potuto
caricarli e portarseli via con tutto quel peso, gittavano una parte della
farina, e portavano il resto: altri raccoglievano come potevano quella farina,
riponendola negli abiti loro, nei cenci che trovavano. Alcuni i quali erano
venuti con più profonda intenzione, andarono al banco, lo spezzarono,
tolsero le ciotole dei danari, gli intascarono a manate, e sdrucciolando tra la
folla andarono a casa a vuotarle, per tornare a nuove faccende.
Frattanto
lo stesso assalto si dava ad altri forni: in alcuni i padroni resistevano e si
chiudevano a difesa, in altri, distribuendo tutto il pane a quegli che si
facevano innanzi stornavano il saccheggio finito, e la distruzione.
Le
cose erano a questo punto quando Fermo si avanzava sulla via appunto di quel
forno dove aveva cominciato ed era maggiore il tumulto. Andava egli ora
spedito, or ritardato tra una folla di gente che procedeva verso il campo di
battaglia, e di gente che tornava carica: guatava andando, e origliava per
conoscere un po' più chiaramente lo stato delle cose. V'era un ronzio
confuso di clamori e di discorsi: noi riferiremo quei pochi che Fermo
potè intendere a misura che mutava di vicini, procedendo tra la calca, e
sostando di tratto in tratto per una qualche fermata improvvisa della moltitudine.
«Ecco
scoperta l'impostura infame di quei birboni che dicevano, che non c'era pane,
né farina, né frumento. Adesso si vede la cosa sincera, e non ce la potranno
più dare ad intendere. Viva l'abbondanza!»
«Vi
dico io, che tutto è niente, è un buco nell'acqua, se non si fa
una buona giustizia di quei birboni. Metteranno il pane a buon mercato, ma
hanno proposto di attossicarlo per ammazzare la povera gente. Hanno posto il
partito nella giunta, e io lo so di certo, l'ho inteso con questi orecchi da
una mia comare che è amica della lavandaja d'uno di quei signori».
«Largo,
largo, signori, dieno il passo ad un povero padre di famiglia che porta da
mangiare a cinque figliuoli che muojono di fame». Così diceva uno che
barcollava sotto un gran sacco di farina; e i vicini si stringevano per dargli
il passo.
«No,
no, no», diceva sommessamente, e con aria misteriosa all'orecchio d'un suo
compagno, un altro. «Io son uomo di mondo, so come vanno queste cose, e me la
batto. Questi baggiani che fanno ora tanto schiamazzo, domani staranno tutti
cheti a casa loro, ognuno dirà, io non c'era, oppure: è stato il
tale che mi ha strascinato: no no: largo da questi garbugli. Ho già
vedute certe facce, di uomini che fanno l'indiano e notano tutti, e domani
poi:... si cavano le liste, e chi è sotto è sotto».
Queste
parole diedero un momento da pensare a Fermo, ma il vortice lo trasportava; e
un discorso ch'egli intese subito dopo, rinnovando e riscaldando l'indegnazione
ch'egli sentiva con tutti gli altri soffocò le considerazioni di
prudenza che gli consigliavano di tornare indietro.
«Si
sa tutto», diceva una voce più sonora dell'altra: «è scoperta la
gran cabala orrenda. È il vicario di provvisione che ha mandato un gran
cavaliere travestito da merciajo a parlare col re di Francia: e si sono intesi:
il re ha fatto promettere al vicario uno scudo d'oro per ciascun milanese che
sarebbe morto di fame; e così, quando il paese sarebbe stato vuoto, il
re veniva innanzi per diventar padrone egli».
«Era
ordita la trama di farci morir tutti: tanto è vero che mettevano attorno
che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per togliergli il
credito, e comandare essi soli».
«Finora
va bene, ma se avremo giudizio, bisognerà far prima la festa a tutti i
forni, e poi andare dai mercanti di vino: sono tutti birboni d'un pelo,
d'accordo coi fornaj per far morire la povera gente di fame e di sete».
«Ah
tiranni! cani! scellerati! metterli in una stia a vivere di veccia e di loglio,
come volevano trattar noi».
In
mezzo a questi discorsi giunse Fermo, a forza d'urti dati e ricevuti, dinanzi a
quel forno. Lo spettacolo era lurido e spaventoso. Le mura intaccate da sassi e
da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta, quella casa pareva un
gran teschio disotterrato; alle finestre, alla porta si vedeva gente
affaccendata a compire l'opera della distruzione, a strappare il resto delle
imposte: al di dentro erano altri che con asce spezzavano le gramole, i
buratti, i cassoni, le panche, le madie, altri che prendevano a fasci i
rottami, le corbe, le pale, i registri delle partite, i mobili, e portavano
tutto al di fuori. I guastatori si avviarono con questo peso alla vicina piazza
del duomo, e quivi accatastate tutte quelle materie v'appiccarono il fuoco,
ponendosi intorno a godere quel falò, acclamando con bestemmie, con
canti di trionfo, con promessa di ricominciare ben tosto altrove.
Fermo
seguì la processione, e si fermò dinanzi al rogo in mezzo a
quella folla ondeggiante a vedere e ad udire. Alcuni allargando intorno a
sè un po' di spazio con le gomita, facevano quel che potevano per
danzare; altri sopraggiungevano con nuove spoglie da ardersi, e fattisi far
largo a forza di urti e di urli, le gettavano sul mucchio ardente: si alzavano
nuove fiamme, tizzoni accesi saltavano qua e là, e più forti
ululati sorgevano in mezzo al rombazzo confuso e continuo. Fermo non credeva,
né era possibile di credere, tutto quello ch'egli aveva inteso dire in quel
giorno; ma tutti quei discorsi, le sue idee antecedenti, la persuasione
universale gli davano l'intima persuasione che un gran disegno di affamare il
popolo fosse stato ordito e scoperto. Partecipava egli dunque dell'ebrezza
comune, gridava a quando a quando con gli altri, e se non attizzava la fiamma,
stava pure a contemplarla con diletto, mangiando intanto un altro di quei pani
che aveva raccolti e posti in tasca al primo entrare in città.
«Muoja
la carestia!» si urlava da ogni parte; «muojano gli affamatori! viva
l'abbondanza! viva il pane! viva! viva!» A dir vero la distruzione dei buratti,
delle madie, il disfacimento dei forni, e lo scompiglio dei fornai non pare che
fossero i mezzi più spediti per far vivere il pane: ma questa è
una sottigliezza metafisica che non poteva venire in mente ad una moltitudine.
Il
fuoco non era per anco estinto, quando corse all'improvviso una voce per la
folla, che al Cordusio (così è chiamato un crocicchio poco
distante dalla piazza dove si faceva la baldoria) s'era scoperto da un fornajo
un altro grande ammasso di pane e di farina. La folla si diresse in tumulto
verso quella parte: si gettò nella via corta ed angusta di Pescheria
Vecchia, si condensò sotto l'arco che la termina, si diffuse nella
piazza dei mercanti. Quivi mentre si passava accanto alla loggia che tiene il
lungo della piazza, una mano si alzò sopra le teste della turba e si
rivolse verso una statua colossale che occupava una nicchia or vuota nella
parte più apparente della loggia, e una voce gridò nello stesso
tempo: «quello era un re! un re che rendeva giustizia pronta, e faceva
impiccare i tiranni e i cabaloni». «Viva! viva!» rispose uno stormo di voci.
Non è però da credere che tutti quei gridatori sapessero bene a
chi, e perché applaudivano; l'unica idea distinta che ne avevano era di un re
morto.
Il
pezzo di marmo che ricevette quell'applauso era niente meno che una statua di
Don Filippo II, la quale durò in quella nicchia, ancora
centosettant'anni circa, dipoi fu trasformata alla meglio in un Marco Bruto, e
finalmente smozzicata e ridotta ad un torso informe che fu strascinato e
gittato non so dove: e avrebbe pur meritato d'esser conservato pel suo destino
singolare d'aver rappresentato due personaggi, il nome dei quali fa nascere
tosto idee disparatissime, e che pure ebbero più punti di rassomiglianza
che non appaja a prima vista. Tutti e due gravi e rigidi sermonatori l'uno di
filosofia, l'altro di religione, tutti e due commisero senza rimorso, con
giattanza, di quelle azioni che la morale comune, e il senso universale della
umanità abbomina; tutti e due credettero che nel loro caso una ragione
profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò che
è comunemente delitto. Tutti e due con una opposizione ardente e attiva,
hanno promosse, rafforzate, estese le cose che volevano impedire ed estinguere
nei loro cominciamenti; e tutti e due hanno avuti in vita e dopo morte fautori
che hanno approvata la loro condotta, gli hanno lodati d'aver fatti mali
infiniti per ottenere il contrario dei loro fini. Tutti e due si sono
immaginati che la maggiorità dei loro contemporanei avrebbe secondate
con gran favore le loro intenzioni, e tutti e due si maravigliarono con
indignazione di trovare avversione, resistenza da tutte le parti. Tutti e due
sono stati in diverse epoche tenuti in gran venerazione, e in quelle epoche non
era un viver lieto. Preghiamo il cielo, che quando hanno da nascere uomini di
quel carattere, si trovino collocati in una condizione dove abbiano da faticare
assiduamente per vivere, che al più possano dissertare in un picciolo
crocchio, e che non giungano mai a far cose per cui debbano avere statue dopo
la morte.
Il
corteo clamoroso dovette condensarsi e insaccarsi onde passare come per una
trafila nella via angusta dei Fustagnaj, e quindi sboccare al Cordusio. Quivi
era già ammassata un'altra folla, e il saccheggio d'un forno era
avviato: i sopravvegnenti incalzavano quelli che erano già signori del
campo, e si trasfondevano in essi, come potevano.
Tutto
ad un tratto una voce orrenda uscì dalla folla: «andiamo dal Vicario di
Provvisione, a fare una giustizia». Quella voce fu come una scintilla caduta
nel mezzo d'una polveriera. «Dal Vicario di Provvisione» gridarono tutti: e
parve un rammentarsi d'un accordo già fatto, più che una
risoluzione di quel momento. La casa del Vicario era sventuratamente
vicinissima a quel luogo: in un punto la via fu piena, e la casa cinta d'ogni
parte.
Il
Vicario di Provvisione stava in quel momento facendo un chilo agro e stentato
d'un pranzo mangiato di mala voglia con un po' di pane raffermo rimasto del
giorno antecedente, e fra pensieri tristi, di stupore, di inquietudine, di
incertezza.
Uno
o due benevoli, (perché nei garbugli sempre vi trascorre qualche onesto che
cerca poi di impedire un po' di male) precorsero lo stormo, ed entrati nella
casa, avvertirono del pericolo. I servi, alle porte, alle finestre: non si
vedeva altro che un nuovolo di gente che appressava, che era lì: in
fretta in fretta, si avvisa il padrone, mentre questi delibera di fuggire, come
fuggire, gli è detto che non è più a tempo: appena i servi
possono chiudere e sbarrare la porta al momento che i primi della vanguardia
stavano per porre piede sulla soglia: si chiudono tutte le imposte delle
finestre, come quando il tempo imperversa, e comincia a cader la gragnuola; e
intanto si sente l'ululato orribile della moltitudine, che vuole entrare, e i
colpi che già si danno alla porta. «Il Vicario! il tiranno! lo vogliamo,
vivo o morto!»
Il
Vicario errava di stanza in istanza, raccomandandosi a Dio e ai suoi servitori
che tenessero fermo, che trovassero modo di farlo scappare: ma la casa era cinta
da tutte le parti. Il poveruomo salì sul solaio e da un bugigatto del
muro tra la soffitta e il tetto guatò ansiosamente nella via, e la vide
stivata, fitta di nemici, udì le grida e le minacce, e si ritirò
tremante e quasi fuor di sè nell'angolo il più riposto, che
potè rinvenire. Ivi rannicchiato e tremante, porgeva l'orecchio, e
quando poi udiva i colpi violenti nella porta, lo turava spaventato, poi come
fuori di sè, stringendo i denti, e raggrinzando tutta la faccia tendeva con
impeto le braccia e i pugni come se volesse tener ferma la porta contra gli
urti, poi si dava per disperato ed aspettava la morte. Gli passavano per la
mente gl'impegni che aveva fatti per giungere a quell'uficio, la consolazione
che aveva provata nel giungervi, e malediceva di cuore tutti quei pensieri
antichi. Finalmente stette tranquillo e come istupidito.
Intanto
al di fuori altri percoteva le imposte della porta, con travi: altri era andato
in cerca di scarpelli e di martelli, e dava colpi in regola nel muro, per
aprirvi una breccia; altri lanciava sassi alle finestre, altri con le pale
conquistate ai forni ne stuzzicava le imposte per aprirle, grida orrende
accompagnavano tutte queste operazioni. Quegli stessi però che con le
grida, le incoraggiavano e le applaudivano, in fatto vi ponevano ritardo con la
pressa delle persone non lasciando agio al giuoco delle leve e degli arieti:
per buona sorte accadeva questa volta nel male, ciò che è troppo
frequente nel bene: che i fautori i più ardenti divengano un
impedimento.
Nel
mezzo della turba un vecchio malvissuto mostrava un martello, dei chiodi, e una
fune, dicendo che voleva egli configgere alle imposte della porta il Vicario
quando fosse stato acchiappato ed ucciso.
«Ecco,
ecco quello che farà la cosa spiccia; largo, largo»: era una lunga scala
che altri portavano per appoggiarla al muro, e salire alle finestre, dove
l'entrata sarebbe stata più facile. Per buona sorte quel mezzo che
avrebbe facilitata l'impresa non era facile a porsi in opera: i portatori
spinti alcuni di qua alcuni di là e divisi da una calca brulicante e
irrequieta erano costretti or l'uno or l'altro di abbandonare il peso, il quale
cadeva sulle spalle, sulle teste dei più vicini, che lo rispingevano,
grida, percosse, urli da tutte le parti. Ma intanto la porta era quasi
sconfitta dai gangheri, e i fori nel muro andavano allargandosi e
sprofondendosi, già poco mancava a vedersi l'interno della casa.
Fermo
si trovava in mezzo alla calca, ma questa volta strascinato e assorbito dal
vortice piuttosto che venuto di sua voglia; le grida che chiedevano il sangue,
i volti che ne mostravano la abbominevole sete, lo avevano riempiuto di
turbamento e di orrore; egli detestava in quel momento quella che gli era
paruta giustizia del popolo, la trovava più atroce della fame.
«Andiamo
andiamo», diceva egli ai suoi vicini; «è una vergogna! vogliamo noi fare
il boja? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia il pane a buon
mercato se commettiamo di queste iniquità?».
«Ah!
traditore della patria!» disse uno che era vicino a Fermo rivolgendosi a lui
con un viso d'indemoniato: «aspetta, aspetta, tu sei un amico del Vicario, e
dei tiranni...»
Per
buona sorte in quel momento, alcuni che portavano una scala fecero impeto tra
Fermo e il suo nemico, e gli disgiunsero. Fermo approfittando di quella
confusione nata nella confusione si allontanò, cercando di uscire dalla
folla, e di andarsene. Quegli che gli aveva fatto quel complimento non si
curò di rintracciarlo, né lo avrebbe potuto. Ma un altro che si trovava
accanto a lui, e che lo aveva seguito, gli disse all'orecchio: «buon giovane,
state zitto, se non volete farvi ammazzare; ma aspettate quietamente, che forse
potrete far del bene». Fermo gli rispose affettuosamente coll'espressione del
volto, e rimase in mezzo alla calca.
Ma
quegli stessi benevoli che erano venuti ad annunziare il pericolo, non avevano
posto tempo in mezzo, ed erano tosto volati al castello per avvertire di
ciò che accadeva, e domandare soccorso. Fu tosto spiccata una troppa di
soldati, che accorse al luogo del tumulto.
Ma
giunta che fu, non seppe che farsi. Le parti estreme dell'attruppamento, alle
quali sole i soldati potevano accostarsi, erano una ciurma disarmata, e oziosa,
mista di uomini di donne e di fanciulli: parevano piuttosto spettatori che altro:
all'ordine di dissiparsi non rispondevano che con un cupo e profondo mormorio.
Far fuoco sopra quella gente, parve a quelli che comandavano il drappello, che
sarebbe stata cosa crudele, e piena di pericolo assai più grave di
quello che si voleva far cessare: attraversare la prima calca, e giungere in
ordine, e uniti al centro del tumulto, dove la rivolta era operosa; non era
cosa possibile, il solo tentare di procedere avrebbe sparpagliati i soldati tra
la moltitudine, e postili così separati a discrezione di quella,
irritata. I soldati stettero dunque oziosi; quelli che erano più presso
gli guardavano senza timore, gli beffavano, le grida continuavano, e gli
smuratori proseguivano la loro impresa romorosa, senza darsi pensiero della
truppa.
L'impresa
sarebbe stata pur troppo condotta al termine, e già lo toccava, se dalla
parte opposta non fosse giunto un più efficace soccorso. «Una carrozza!
uh! uh! chi è questo tiranno che ardisce venire ad insultare la povera
gente? dalli! dalli! sassate, sassate!» «Zitti! zitti! è Ferrer! non
vedete la livrea? è un galantuomo! amico della povera gente: eccolo!
eccolo! ecco mette la testa allo sportello! è egli. Viva Ferrer! Viva
Ferrer!» La carrozza s'era fermata in capo della calca, a canto ai soldati; e
nella carrozza v'era di fatti quell'Antonio Ferrer gran cancelliere, che era
stato una delle principali cagioni di tutto quel guasto, ma che almeno veniva
per porvi qualche rimedio e si valeva della popolarità che gli avevano
acquistata i suoi spropositi per minorarne i tristi effetti. Sia benedetto
Antonio Ferrer! degli spropositi molta gente ne fa, ma non sono molti coloro
che adoperino il vantaggio che possono averne cavato, a fare un po' di bene o
ad impedire un po' di male. Antonio Ferrer metteva fuori dello sportello una
faccia tutta umile, tutta benigna, tutta amorosa, una faccia che egli aveva
creduto di tenere in serbo pel momento in cui si sarebbe trovato al cospetto di
Don Filippo Quarto: ma fu obbligato a spenderla in questa occasione
impreveduta. Cercava egli di parlare, ma i picchj, gli scalpiti, gli urli, i
viva stessi che si facevano a lui soffocavano la sua voce. Andava egli dunque
ajutandosi col gesto, ora avvicinando la punta delle mani alla bocca, e
tenendole poi supine, per render grazie alla benevolenza pubblica, ora
rivolgendole e abbassandole lentamente per richiedere (ma con un garbo
ineffabile) un po' di silenzio e di tranquillità; ora allargandole
dinanzi a sè, per domandare se fosse possibile un po' di passaggio,
accennando nello stesso tempo col volto ch'egli veniva per far cosa grata a
quelli a cui domandava il passaggio.
«Viva
Ferrer! l'amico della povera gente! non abbia paura, ella è un
galantuomo! Vogliamo pane!»
«Sì,
figliuoli, pane, pane! abbondanza!» rispondeva Ferrer, ponendo la destra sul
cuore per dare la forza del giuramento alle sue parole.
«Che
cosa ha detto?» domandavano quelli che non erano vicini abbastanza per
intendere il suono delle parole.
«Ha
detto pane! abbondanza!» rispondevano quelli che avevano inteso; e queste
parole girarono in un momento fino all'altra estremità della calca.
«Ciarle!
ciarle!» gridavano alcuni. «Viva Ferrer! è un galantuomo!» gridavano
altri. «Noi vogliamo Ferrer! comandi Ferrer! morte ai birboni!»
«Sì
figliuoli miei cari!» diceva il vecchio, alzando la voce quanto poteva:
«comanderò io: si farà giustizia: il pane a buon mercato. Intanto
fatemi un piacere, datemi un po' di passaggio. Vengo per mettere in prigione il
vicario di provvisione».
Questa
nuova parola fu pure trasmessa di bocca in bocca. «Sì sì: bravo!
in prigione!» «No no! lo vogliamo morto!» «No! in prigione! giustizia! Largo!
largo!» «Sono imposture! chi l'ha da giudicare? Sono tutti d'una razza!» «Via!
via!» «Ferrer è un galantuomo! in prigione!»
La
proposta inaspettata del gran cancelliere aveva divisi in un momento i pareri e
gli animi di quei comizj tempestosi, o per dir meglio aveva fatta scoppiare una
divisione che già esisteva. Alcuni o per una ebbrezza di furore e di
crudeltà, o per una fredda speculazione di anarchia volevano persistere
nel proposto sanguinario: ma i più, placati in parte e raddolciti dal
vedere che un alto magistrato veniva a riconoscere la giustizia della loro
causa, e a compirla legalmente, vinti dalla affezione che sentivano in quel
momento pel vecchio Ferrer, commossi da quella sua canizie e dal contegno
supplice e carezzevole che tanto piace alla moltitudine in un uomo che le si
è sempre mostrato in un aspetto di gravità e d'impero, innamorati
anche dalla sicurezza animosa del vecchio che non aveva dubitato di affrontare
una tanta burrasca, gridavano che gli si facesse luogo, e che il vicario gli
fosse rilasciato. Fermo era tra questi, e gridava a testa: «prigione,
giustizia!»
I
sentimenti, le grida, i movimenti di questa parte più placabile erano
mossi e regolati, senza ch'ella se ne avvedesse, da alcuni, i quali senza aver
fra di loro intelligenze precedenti, operavano pure di concerto, condotti da
una intenzione comune.
V'ha
degli uomini onesti, ai quali nelle sommosse popolari, alle affoltate, alle
vociferazioni d'una moltitudine alleggiata, sono colpiti da un orrore pauroso,
non ponno sostenerne la vista, la vicinanza, e vanno a rimpiattarsi, se
è possibile, dove non ne giunga nemmeno il mormorio.
Ve
n'ha altri, i quali sentono un orrore egualmente forte, ma che non li confonde,
che non toglie anzi cresce loro l'attività. Il tumulto è per essi
un nemico terribile, di cui vanno in cerca, per opprimerlo, o per ammansarlo:
accorrono dove la confusione è più bollente, il brulicame più
fitto: non si curano o dimenticano in quel momento da che parte sia la ragione
e il torto, dimenticano il proprio pericolo, e non hanno altro di mira che di
frastornare le risoluzioni feroci, d'impedire delitti: sono del partito degli
oppressi e dei minacciati, quali essi sieno; difenderli, salvarli, trafugarli,
reprimere i violenti, acquetare le cose è il loro scopo. Di questa
specie d'uomini molto rispettabile erano coloro che abbiamo accennati:
l'oggetto dei loro sforzi era di stornare la carnificina preparata al Vicario
di Provvisione: sentirono essi tosto che la venuta e la proposta di Ferrer era
un mezzo potente alla loro mira, anzi l'unico, al punto in cui erano le cose, e
tutti, come d'accordo, fecero tutto il possibile, per cavare ogni vantaggio da
quell'incidente avventurato. Ripetevano e spargevano le parole del gran
cancelliere, vi aggiungevano i commenti e le interpretazioni che erano
più accomodate alle idee ed alle passioni della moltitudine, gridavano
quelle parole che potevano diventare un grido universale, e comandare le azioni:
lodavano, e dirigevano quegli che erano già inclinati alla moderazione,
ammonivano con dolcezza gli ostinati, o gli svergognavano anche minacciosamente
dove gli ostinati erano in minor numero, e la forza e il favore erano per la
moderazione. I loro sforzi non furono inutili, e poco a poco apparve
manifestamente che la moderazione aveva il maggior numero di partigiani.
«Giustizia»,
e «Ferrer!» erano le due parole che più risuonavano tra il clamore vario
e indisciplinato.
Alcuni
tra i guastatori avevano già deposti gli stromenti di distruzione, e
ristavano dall'impresa. «State quieti! aspettate! viene Ferrer a metterlo in
prigione», si gridava da mille parti a quegli che proseguivano a dar colpi alla
porta e al muro. Alcuni aggiungendo i fatti al consiglio, cercavano di toglier
loro di mano le leve e i martelli, e le travi: quindi una lotta tra gli uni e
gli altri che ritardò la presa della fortezza, e diede tempo al soccorso
di arrivare.
Ferrer
si volse al cocchiere e gli disse in fretta, sotto voce ma distintamente:...
Poi
continuando a rivolgersi al popolo: «Signori», diceva: «un poco di passaggio,
vedo... capisco... sono angustiati... in cortesia... sì signori... pane,
abbondanza... in prigione, lo condurrò io, in castello...»
«Passo!
passo a Ferrer!» «Vogliamo impiccarlo noi, il vicario! è un birbone!»
«No no: in prigione! giustizia!»
Intanto
il cocchiere, imitando anch'egli la condotta del padrone, sorrideva alla
moltitudine, e con una grazia delicatissima moveva la frusta a destra e a manca
per accennare a quelli che erano dinanzi ai cavalli che si ritirassero un poco
sui lati: alcuni si ritiravano volontariamente, e quei bene intenzionati che
abbiam detto, posti nel mezzo rimovevano gli altri poco a poco, e la carrozza
dava qualche passo. Ferrer andava sempre ripetendo le stesse frasi, talvolta
dicendo le parole che soddisfacessero alle grida che sentiva più
distintamente.
«Giustizia,
m'impegno io, vengo a pigliarlo prigione: è giusto: il re nostro signore
vuole che si castighino quelli che fanno del male ai suoi fedelissimi
vassalli... a questi bravi galantuomini: largo di grazia: gli faremo il
processo: giustizia pronta: pane a buon mercato: abbondanza! abbondanza!»
Così
passo, passo, la carrozza giunse dinanzi alla casa, su la porta, e si
fermò.
Quivi
era il punto difficile, il momento sommo dell'impresa: ma il nostro Ferrer era
un valente in quel giorno, e doveva uscirne vincitore.
CAPITOLO VII
In
un disegno qualunque o di pensiero o di azione (quando sia di quei disegni che
hanno a riuscire) dopo superati alcuni ostacoli, dopo avute certe arre di buon
successo, giunge un momento in cui le idee diventano più sicure e
più vigorose, la cosa appare più fattibile, il già fatto
conforta, e indica nello stesso tempo quello che resta a farsi, la probabilità
di ottenere lo scopo ne rinnova il desiderio che la vista degli ostacoli aveva
indebolito, e lo spirito acquista quasi una placida sveltezza, una risoluzione
pronta che governa gli avvenimenti.
Il
disegno di salvare un uomo debb'essere uno di quelli che danno in sommo grado
all'animo di chi l'ha conceputo e lo sta eseguendo questa alacrità,
questo vigore intenso, questa gioja crescente. La morte e lo scampo, le angosce
estreme, e un sollievo inaspettato, i tormenti, e il riposo, un cadavero sfigurato
in cui nulla più appare che l'insulto fatto all'immagine di Dio, e
l'aspetto d'un vivente che si ricompone alla speranza, alla vita, alla
riconoscenza, debbono essere incessantemente presenti a quell'animo, fargli
sentire vivamente che l'una delle due sta per avverarsi; intendere tutte le sue
potenze a fare che il bene s'avveri, e sia cessato lo spaventoso irreparabile.
La
porta, quando la carrozza vi si fermò, era in uno stato miserabile: i
gangheri in parte scassati fuori del muro, le imposte scheggiate, ammaccate,
forzate nel mezzo e scombaciate l'una dall'altra, lasciavano tra loro una
fessura dalla quale si vedeva un pezzo di catenaccio torto e quasi divelto con
gli anelli, che teneva ancora insieme quelle imposte, a un di presso come
già Romolo Augustolo teneva insieme l'impero d'occidente. Dinanzi a
questa porta si tenzonava tuttavia tra quelli che volevano abbatterla ed
entrare di forza, e gli altri che volevano ch'ella fosse aperta soltanto al
gran cancelliere. L'arrivo di questo, attestando in certo modo l'assenso della
folla alla sua missione, e facendone vedere il compimento probabile e vicino,
sconcertò i disegni violenti dei primi, i quali finalmente si rimasero.
«Giustizia!
giustizia!» si gridava. «Giustizia», rispondeva Ferrer, «in castello, in
prigione». Uno di quegli amici della quiete si avvicinò allo sportello,
e disse al gran cancelliere: «Faccia presto, e con coraggio, ché siamo qui
molti galantuomini a darle ajuto». «Bravi», rispose Ferrer: «fate far largo,
statemi intorno, e fate in modo che la porta s'apra tosto, e ch'io entri solo».
«Lasci fare», rispose quello, e intanto egli ed i suoi compagni rispinsero i
furibondi, e occuparono tutto lo spazio fra la carrozza e la porta, si divisero
quindi a rispingere e a contenere a destra e a sinistra la folla, e lasciarono
così una picciola piazzetta tra la carrozza e la porta. Uno di essi
intanto s'era posto alla fessura, e procurava di fare intendere a quei di
dentro che quegli che parlava era un amico, che era giunto un soccorso, il gran
cancelliere, che si aprisse o si finisse di aprire la porta: che il Vicario
stesse pronto per entrare in carrozza ed esser salvo. Quei di dentro intesero,
respirarono, e risposero che aprirebbero; e che si correva a cercare il
padrone.
Un
altro aperse lo sportello della carrozza, e il vecchio Ferrer, in gran toga
discese.
Da
una parte e dall'altra gli affollati stavano in punta di piedi per vederlo,
mille facce, mille barbe s'alzavano per sopravanzare quegli che erano davanti.
Il momento di curiosità e di attenzione generale produsse un momento di
generale silenzio. Ferrer appoggiato a due benevoli pose piede sul predellino,
e quivi fermatosi un momento, e dato uno sguardo a destra e a sinistra, come da
una bigoncia, salutò la moltitudine, indi posta la destra al petto
gridò: «Avrete pane quanto ne vorrete: lo prometto io: vengo a far
giustizia, vengo a prenderlo prigione»: e a queste ultime parole, stese la
destra in atto severo verso la porta di quella casa, come accennando che veniva
a portarle un rigoroso giudizio, e pose piede in terra fra le acclamazioni che
n'andavano alle stelle.
La
porta fu tosto aperta, o per meglio dire quei di dentro fecero uscire a stento
il catenaccio incurvato dagli anelli squassati, e allargarono la fessura,
badando bene a ragguagliarla appuntino allo spazio che occupava il gran
cancelliere.
«Presto
presto», diceva egli, «signori, aprite bene, ch'io entri, e voi ritenete la
gente per amor di Dio», diceva agli altri, «ch'io entri solo... Così,
così state», diceva ancora a quei di dentro, «non ispingete... eh!
raccomando le mie costole... chiudete ora... no, eh! eh! la toga, la toga».
La
toga sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte se Antonio Ferrer non ne avesse
ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda di una
biscia che si rintana, inseguita.
Le
imposte furono ravvicinate, e appuntellate per di dentro, mentre di fuori la
porta era difesa dai benevoli, i quali andavano però gridando: «presto
presto».
«Presto
presto», diceva pure Ferrer ai servitori: «dov'è quest'uomo benedetto?
venga venga, son qui per salvarlo». Il Vicario scendeva le scale mezzo guidato
e mezzo tirato dai suoi, i quali gli persuadevano ch'era giunta la salute.
Quand'egli vide il gran cancelliere, mise un gran respiro, si sentì scorrere
un po' di vita per le gambe, e affrettò il passo incontro al suo
salvatore. «Stia di buon animo ch'io vengo per salvarla», disse Ferrer. «Son
perduto, son perduto», rispose il Vicario: «come uscire di qui? la strada
è piena di gente che mi vuol morto». «Ho qui la mia carrozza: venga
tosto, e confidi in Dio», disse Ferrer; e presolo per mano lo condusse verso la
porta.
«Guardate
un po', come stanno le cose là fuori», disse egli allora ad un servo: si
tolsero i puntelli, si separarono un po' le imposte, e un servo, facendo
capolino, disse a quelli che facevano guardia al di fuori: «Siamo a tempo?...»
«Sì, sì, ma tosto, tosto», risposero quelli: il varco fu
aggrandito, e Ferrer uscì col Vicario, dicendo: «Qui sta il busillis:
Dio ci ajuti».
Quei
della guardia, colle mani, colle cappe, coi cappelli, fecero come un velo, una
rete, una nuvola, per togliere il Vicario alla vista della moltitudine: il
Vicario entrò, Ferrer gli tenne dietro, lo sportello fu chiuso; la
moltitudine seppe, indovinò quello che era accaduto, e sollevò un
grido confuso di viva e d'imprecazioni.
In
tutto questo frattempo una parte di quelli che volevano salvo il Vicario, s'era
impiegata a preparare un po' di via alla carrozza facendo ritirare la
moltitudine: il cocchiere stava pronto, e si mosse cautamente però,
tosto che sentì chiudere lo sportello, e dirsi: «Andiamo».
Ferrer
voleva raccomandare al Vicario di tenersi rincantucciato nel fondo della
carrozza, ma vide che il suo consiglio era stato prevenuto: egli si affacciava
ora a destra ora a sinistra, rispondendo alle mille grida, e di tempo in tempo
passando colla faccia accanto all'orecchio del Vicario gli diceva qualche
parolina che doveva essere intesa da lui solo.
«Sì
sì, lo prometto, in castello, in prigione! un esempio, una giustizia esemplare.
Tutto questo per bene di Vossignoria. No no, non iscapperà, è in
mano mia, si farà un buon processo, un processo severo, e se è
reo... voglio dire... sarà castigato rigorosamente. Sì sì
uno scellerato, un birbante; ma si farà giustizia. Vossignoria perdoni.
Lo faremo saltar fuori il frumento, lasciate fare; a buon mercato, brava gente,
fedelissimi vassalli. Il re nostro signore non vuole che si patisca la fame.
Avete ragione. La passerà male, se ha fallato, la passerà male.
Stia di buon animo; che siamo quasi fuori».
In
fatti la carrozza era giunta in capo alla via, ad ogni passo la folla diveniva
più rada, e la carrozza cominciava a scorrere liberamente. Fra i
più avanzati alcuni avevano presa la corsa e battevano la strada alla
carrozza per vedere se la s'avviava al castello davvero; altri la seguivano
lentamente, altri si rimanevano addietro.
Quivi
il Ferrer vide quei soldati, che erano stati spettatori oziosi del tumulto, e
stavano ancora lì ritti e ordinati, come per imporre alla moltitudine,
per mantener l'ordine, ma in vero per non saper che farsi: Ferrer guardò
all'ufiziale con un cenno del volto, che voleva dire: — bell'ajuto che m'avete
prestato —: l'ufiziale fece un inchino, e si strinse nelle spalle: Ferrer, in
un momento di vanagloria, mormorò fra sè: — oggi è proprio
il caso di dire Cedant arma togae —.
Quando
la carrozza ebbe preso il largo affatto, il Vicario, riavuto un po' il fiato,
rese grazie umili, e sincere prima a Dio poi al vecchio Ferrer che lo aveva
cavato d'un bel fondo.
«Eh!
eh!» diceva Ferrer, al quale i pensieri della vanagloria erano stati interrotti
dai pensieri d'una politica nella quale era incanutito. «Eh! Che dirà il
re nostro signore? Che dirà il Conte Duca?» — Il Conte Duca, — soggiunse
tra sè a bassa voce — che non vuol romori, che s'adombra se una foglia
fa un po' più strepito del solito.
«Ah!
per me», disse il Vicario: «non voglio più saperne, me ne lavo le mani,
rassegnerò il mio posto, e andrò a vivere in una grotta, sur una
montagna, a far l'eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale».
«Vossignoria farà quello che sarà più conveniente al
servigio del re nostro signore», disse Ferrer.
«Ah!
il re nostro signore non mi vorrà veder morto», rispose il Vicario:
«lontano, lontano da costoro: in una grotta».
In
pochi momenti la carrozza fu in castello, e il Vicario respirò davvero
quando sentì alzarsi dietro di lui un ponte levatojo, e si trovò
in luogo, dove non si vedevano che soldati.
Gli
storici originali contemporanei non parlano più nulla di lui; ma noi
valendoci del privilegio che hanno gli storici di seconda mano, di inventare
qualche cosa di verisimile per rendere compiuta la storia, e supplire alle
mancanze dei primi, affermiamo sicuramente, come se ne fossimo stati testimonj,
che il Vicario uscito dal castello quando la sedizione fu affatto compressa,
continuò ad essere Vicario pel tempo che gli rimaneva a compiere la sua
carica, e da poi procurò di diventare tutto quello che potè.
Dobbiamo
pur notare un'altra reticenza più importante e che dà luogo ad
indovinare con minor timore d'ingannarsi. Non si trova scritto che il processo
del Vicario, che il Ferrer aveva promesso dugento volte in quel giorno, sia
stato fatto; e si può scommettere che non sia stato fatto. Su di che non
possiamo lasciare di dire il nostro parere, perché avendo noi accompagnato il
Ferrer coi nostri voti e coi nostri applausi in quella spedizione, non
intendiamo per nulla di aver lodata una gherminella, un raggiro. Ferrer fece
molto bene a promettere che il Vicario sarebbe giudicato, perché quella era una
promessa ragionevole, e che poteva impedire un delitto. Ma fece molto male o
Ferrer o chiunque si fosse quegli o queglino che non si curarono di fare o
impedirono che si facesse una cosa la quale era stata promessa solennemente, e
avrebbe pure dovuto esser fatta quand'anche non si fosse promessa. Poiché, o il
Vicario era reo, non dico delle pazzie che gli venivano apposte, ma di qualche
cosa, ed era bene punirlo: o egli era del tutto innocente, ed era cosa ottima
mettere in chiaro la sua innocenza, convincere la moltitudine della sua
spaventosa credulità, e farle sentire, farle confessare che le era stato
risparmiato una stolida atrocità. Invece si mentì, le prevenzioni
della moltitudine non furono tolte, le fu dato per sopra più il rancore
d'essere stata ingannata, e col fare di questo mezzo di salute un inganno, si
tolse, per altre occasioni simili, al mezzo la sua efficacia, la quale
consisteva tutta nella fede data alle parole.
—
Ma, sento dirmi, queste cose non vanno giudicate con questa misura: non sono
come le parole che si danno tra privati: si trattava d'impedire un male, e ogni
parola era buona: passato il pericolo, l'attenere quella parola era cosa
difficile, pericolosa, strana; si avrebbe dovuto propalare molte cose che
dovevano stare segrete, insomma tutto il sistema era un ostacolo.
—
Tanto peggio per un sistema che mette i suoi autori, e i suoi agenti in
impicci, dai quali non si possono cavare che dando una parola, che il sistema
poi impedisce di mantenere. Dovremmo noi dunque ammettere che i primi falli
scusino, anzi santificano quelli che vengon dopo?
—
Eh! con questi argomenti, non si farebbe nulla. Il fondamento della vera
sapienza pratica consiste nel prendere gli uomini come sono. — Queste parole
proferite così spesso, e sempre così a proposito, queste parole
nelle quali i sapienti devono certamente intendere un senso, poiché le
pronunziano con tanta sicurezza che passando tanto per le bocche degli uomini
non hanno mai perduta la loro forza, e sciolgono tutte le questioni, troncano a
maraviglia anche la presente, e ci dispensano dall'internarci in una
digressione la quale sa il cielo quanto avrebbe durato. Prendiamo dunque gli
uomini come sono, raccontando quello che hanno fatto.
La
folla che al moversi della carrozza, s'era tutta messa in movimento, per
tenerle dietro, cominciò a sparpagliarsi, quando la carrozza, vincendo
della mano, si allontanò e disparve. Ad ogni crocicchio per cui si
passava, ad ogni via che metteva capo sulla via per dove procedeva la folla,
una parte di essa se ne scompagnava e ne usciva a destra o a sinistra: chi per
andarsene a casa o ai fatti suoi per la più breve, chi per voglia di
scialarsi un po' al largo, dopo tante ore di pressa. Di quegli che rimanevano
addietro, alcuni si stavano come trasognati, pensando alle imprese di quel
giorno, non sapendo bene render conto a se stessi se dovessero essere
soddisfatti o no, parendo loro che la cosa fosse imperfetta, che si fosse terminato
senza conchiuder nulla di serio, e guardandosi intorno per vedere se la cosa
voleva continuare in qualche modo. Altri si riunivano in piccioli crocchj, e
procedendo lentamente, e talvolta sostando, tenevano ragionamento sul fatto e
sull'avvenire. Si disputava del supplizio che sarebbe dato al Vicario di
provvisione: chi gli pronosticava le forche, chi il taglio della testa, perché
era cavaliere; i più moderati si contentavano del bando. Si stabiliva il
prezzo del pane, si facevano leggi ancor più severe contra gli
accapparratori, e contra i fornaj, si benediceva Ferrer, e si maledicevano
tutti gli altri magistrati. In questi crocchj s'inframmettevano di quei
pescatori nel torbido che avevano dilatata e tenuta viva la sommossa in quel
giorno, e gettavano accortamente i germi per l'indomani, ora mostrando di
fidarsi poco delle promesse fatte in un momento di terrore, e facendo intendere
che le promesse non sarebbero attenute, se non fossero rimasti uniti quelli che
le avevano fatte uscire con la forza; ora asserendo che nel tal luogo, alla
tale ora dell'indomani vi sarebbe gran concorso, e preparando così un
concorso al quale nessuno aveva pensato ancora. Quelle tali facce, delle quali
già al mattino ne aveva riconosciuta alcuna quel prudente le cui parole
avevano dato da pensare a Fermo, andavano ora in ronda più che mai,
origliando, sguaraguatando, intromettendosi ai discorsi per andare a riferire
qualche cosa ai magistrati, i quali tra la battisoffia e la stizza stavano
consultando, e aspettando di conoscere un po' meglio lo stato delle cose, di
vedere le acque un po' abbassate per piantare un qualche argine.
Fermo,
dopo avere finché potè, seguita la carrozza che aveva salvato il Vicario
dal furore del popolo e lo conduceva legalmente in prigione, si fermò a
riaversi un poco, a ricapitolare, a riconoscere i suoi pensieri, che erano
tutti esultanti. Quel disgusto che gli avevano recato le grida del sangue e i
preparativi della carnificina, aveva dato luogo alla gioja di vedere la
giustizia, e l'umanità vittoriose, il delitto punito senza delitti, e la
dignità del magistrato, il potere legale unito col voto pubblico, e
divenuto suo amico, e suo ministro.
Fermo
vedeva aprirsi il secolo dell'oro, e durava fatica a rinvenire dallo stupore di
una tanta mutazione, avvenuta negli affari del mondo, e nei suoi, come egli
credeva. Ieri sera fuggitivo a cercare un nascondiglio, perché? perché aveva
ragione; senza forza, senza altro soccorso che di consigli, di consolazioni, e
di buona volontà: oggi in mezzo ad una moltitudine di uomini che
parlavano come lui, e parlavano alto, e soli, oggi egli aveva esercitato con
gli altri la giustizia e la clemenza, aveva cooperato a far punire un colpevole
potente, a salvarlo da una pena ingiusta e crudele, aveva gridato tutto il giorno,
aveva detto sempre il suo parere, e se pure aveva trovato contraddizione, alla
fine il suo voto aveva trionfato. Pieno di entusiasmo pel passato, e di
più grandi speranze, egli si mischiò ad uno di quei crocchj, e
dopo essere stato uditore per qualche momento, si fece interlocutore, e poco
stante divenne predicatore.
«Signori
miei cari», diss'egli perché al forese sono signori tutti i cittadini che non
domandano l'elemosina. «Signori miei cari, sentano un poco anche me, che ho
delle cose giuste da dire. Ecco se non è vero che oggi si è
veduta la prova che a saper fare si ottiene più giustizia in un giorno
che in cento anni a star lì senza muoversi. Come sarebbe andata se non
ci fossimo trovati insieme tanti galantuomini? Si sarebbe tirato innanzi allo stesso
modo fino a che fossimo tutti morti di fame. Per lungo tempo fanno mostra di
non intendere, e poi per darvi un osso in bocca mettono fuori una buona grida
che dice di sì, e pochi giorni dopo viene un'altra grida che dice di no:
e intanto passa il tempo, e i cenci vanno all'aria. È una lega
malandrina: e i galantuomini che si trovano fra quelli che menano la polta,
anch'essi non ponno parlare; come quel bravo Ferrer, sia benedetto! che
è tutto dalla nostra, eppure non poteva far niente; e oggi l'abbiamo
veduto come era contento di poter dire la sua ragione, e di vedersi sostenuto;
come parlava col cuore in mano, e che faccia ridente aveva per trovarsi in
mezzo ai galantuomini. Dunque ha potuto fare le cose giuste, e mettere in
prigione un tiranno; ma eh! eh!... ce n'è tanti altri; e la cosa
è chiara, perché lo dicono anche le gride: che il mondo è pieno
di tiranni che fanno il Decalogo al rovescio, che vogliono tutte le cose a modo
loro, ed è un modo da cani, che vanno in volta coi loro bravi, il fiore
della canaglia, con certi uomini che cominciano in questo mondo a farsi la
faccia che avranno a casa del diavolo, e con questi fanno e disfanno, e
tiranneggiano la povera gente, e se un povero figliuolo cerca di maritarsi
onestamente, signor no, essi non vogliono perché... perché... birboni,
birbononi! E se uno non vuol fare a modo loro lo fanno bastonare, e se dice —
ahi! — i bastoni si cangiano in coltelli; e quando un povero figliuolo
s'imbatte in colui che lo ha tiranneggiato, bisogna che gli faccia di cappello,
e che metta la testa fino in terra, come se passasse dinanzi al suo Santo
protettore. Eppure le gride cantano chiaro, ed io lo so, che ne ho sentito
leggere una da un avvocato,... una buona lana, anch'egli, tutti d'accordo;
perché anche i giudici, a che cosa credete che guardino i giudici? alla
ragione? Eh! guardano ai calzoni, e se sono di seta quegli che li porta ha
ragione, se sono di fustagno ha torto. Dunque dico io, siccome le gride non
servono a nulla bisogna finirla; e dirlo al Ferrer, ma dirglielo in piazza, e
in molti, che faccia fare il processo a tutti costoro, e poi, perché ci vuol
altro che una carrozza a condur prigione tutti costoro, bisognerà far
venire oltre tutti quelli che maneggiano, e che sono come Ferrer, che hanno il
timore di Dio e vogliono le cose giuste: e condurli alle case di questi
tiranni, loro signori li conosceranno meglio di me, e farli metter tutti allo
scuro, e far loro un buon processo, e giustizia sommaria, e poi far lo stesso
anche fuori dalle porte di Milano, che vi so dir io che il bisogno è
grande. Dico bene, signori miei?»
«Dite
bene, benissimo!» risposero molte voci: «parla come un libro»: disse uno. «Eh!
eh! che tabella hanno questi di fuora!» disse un altro. «Poh! poh!» mormorava
un altro, crollando le spalle, «non bisogna metter troppa carne a fuoco: ci
siamo mossi pel pane; e se si mettono in campo altri piati, non avremo
più nemmeno i pani».
La
proposta divenne l'oggetto d'una discussione generale: il crocchio si suddivise
in piccioli crocchj, dove altri narrava fatti di tiranni, altri proponeva i
mezzi di porre ad esecuzione il disegno di Fermo, altri faceva obiezioni.
Intanto il sole era caduto, il barlume andava cedendo il luogo alle tenebre, e
molti stanchi già di deliberare, e non raffigurando più la faccia
dei loro interlocutori (cosa che scema molto il diletto del conversare) si
spiccavano a uno a due a tre; e se ne andavano con la promessa di rivedersi.
Quei che s'erano aggruppati intorno a Fermo, ed erano i più affetti al
suo disegno, si separarono quando uno ebbe detto; «Buona sera, io vado a casa»:
«anch'io», disse un altro: «anch'io, anch'io: a rivederci domani: da buoni
fratelli: non mancate: addio: addio: buona sera, buona sera».
Fermo,
rimaso solo pensò ai casi suoi. Quando si dice che l'amore, le speranze,
i timori, lo sdegno, l'ambizione, ed altri divertimenti di simil genere,
tolgono la fame, la sete, la stanchezza, si deve intendere che le tolgono
temporariamente, che le sospendono, perché a torle realmente e in modo utile,
sono necessarj ingredienti di tutt'altro genere, come per esempio, cibo,
bevanda, riposo. Fermo aveva passata vegliando la notte antecedente su un
barroccio disagiato, la mattina su la via da Monza a Milano, e il resto di quel
giorno a girare per le vie, o a dimenarsi per la calca; aveva mangiati in tutto
il giorno due di quei pani che aveva trovati su le sue orme come la manna nel
deserto, e di liquido non aveva gustato pure una goccia. E siccome dopo esser
stato qualche tempo, osservatore silenzioso, aveva poi schiamazzato la parte
sua per qualche ora, così la sua gola era come d'aprile un campo che sia
in grande necessità di pioggia, e invece vi abbia tirato un gran vento.
Quindi le immagini grandiose di assembramenti, di deliberazioni publiche, di
carrozze, di prigioni, di Don Rodrigo in fuga, diedero luogo nella sua mente, e
vi si presentò in vece una scranna, un fiasco, un po' di companatico, e
un letto; e dietro alle immagini tosto il pensiero del come procacciarsi le
cose.
In
tutt'altra occasione Fermo balzato dai suoi monti nella città, di notte,
senza conoscenti sarebbe stato impacciato assai, ma l'attività e i
successi di quel giorno gli avevano data una gran fiducia nelle sue forze, e
avevano fatto di lui un uomo assai più disinvolto dell'ordinario.
—
Osterie in Milano ce n'è, — diss'egli fra se medesimo: — e con la lingua
in bocca, e con quattro soldi in tasca non si perisce in nessun luogo. Oh! e la
lettera da dare al Padre Bonaventura? È tardi, a quest'ora il convento
sarà chiuso, e sa il cielo quanto è distante, e avrei a domandare
forse venti volte la via prima di giungervi: e poi... quand'anche fosse giorno
chiaro, che andrei a fare ora dal Padre Bonaventura? Se è tanto amico
del Padre Cristoforo, sarà un santo anch'egli: buona gente nel confessionale,
al letto d'un moribondo: ma delle cose di questo mondo... so ben io, non
s'intendono niente. So già quello che mi direbbe: «figliuol mio, sono
tempi cattivi, statevene fuori, non andate nella gente». Poh! se tutti
dovessero dar retta a chi dà di questi pareri, non si farebbe mai nulla
a questo mondo. Non sono poi un ragazzo. Vediamo se saprò trovare
un'osteria.
Così
pensando Fermo andava innanzi lentamente guardando in su a destra e a sinistra
per iscoprire qualche insegna, qualche frasca spenzolata che indicasse
l'ospitalità venale di cui egli aveva bisogno.
Ma
quando Fermo si era mosso, si era pur mosso su la sua traccia un uomo che aveva
intesa la sua predica, e da poi gli era sempre stato a canto in modo da
osservarlo senza esserne osservato: questi appena Fermo ebbe dati venti passi
cogli occhi in aria, gli si accostò, si fermò a considerarlo un
momento come se lo vedesse in quel punto per la prima volta, e gli disse: «Buon
giovane, voi mi sembrate forese: avete bisogno di qualche cosa, posso servirvi?»
«Oh!
che brav'uomo», rispose Fermo: «appunto ho bisogno di trovare un'osteria per
bere un tratto, e per dormire questa notte».
«Ve
ne insegnerò io una a proposito, e v'accompagnerò», disse lo
sconosciuto.
«Vi
sarò bene obbligato», replicò Fermo: «ma mi spiace del vostro...»
«Eh!
burlate», disse l'altro: «si può fare meno? Una mano lava l'altra,
è un proverbio che l'avrete anche nel vostro paese: quale è il
vostro paese? non per cercare i fatti vostri, ma perché mi parete stanco, e
dovete aver fatto viaggio assai».
«Sono
infino, infino da Lecco», rispose Fermo.
«Per
bacco! venite ben da lontano, povero giovane», disse la guida; «ma l'osteria
è vicina, e potrete riposarvici a momenti. Siete fortunato, non dico per
farmi valere, ma siete fortunato d'essere incappato in un galantuomo che vi
condurrà bene».
«Vi
sono obbligato», rispose Fermo: «e vi fermerete a bere un tratto con me».
Il
resto della via fu speso in rifiuti cerimoniosi dello sconosciuto, ai quali
Fermo replicava con istanze sempre più forti; tanto che entrarono
insieme in una picciola osteria, e attraversato un cortiletto, lo sconosciuto,
come sperto del luogo, s'accostò ad una porta, e alzato il saliscendo
aperse, e introdotto Fermo, entrò con lui nella cucina.
Due
o tre lucerne appese ad altrettanti staggi appiccati ai correnti della
soffitta, illuminavano la stanza, nella quale erano sparse cinque o sei tavole:
su alcune si mangiava, si giocava su alcune altre, e si gridava dappertutto: e
si vedevano correre danari, i quali se avessero potuto parlare, avrebbero detto
probabilmente: — questa mattina noi eravamo nella ciotola d'un fornajo —. Sotto
la cappa del camino stava seduto l'oste il quale stava ad udire, non parlava
che quando era chiamato, evitava tutti i discorsi delle cose del giorno, e se
pure veniva stimolato a dire il suo parere, rispondeva per lo più: «non
so niente; io faccio il mio mestiere». Quando egli sentì muovere il
saliscendo, guatò a chi entrava, riconobbe tosto la guida, e
fissò gli occhi scrutatori in faccia del guidato.
«Vi
conduco un bravo avventore», disse la guida, «trattatelo bene».
«È
mio impegno», disse l'oste: «che cosa comandano questi signori?»
Fatta
questa solita interrogazione, egli esaminò ben bene il volto e la
persona di Fermo, dicendo fra sè: — tu vieni con un cacciatore: o cane o
lepre sarai; ma non sono l'oste della luna piena, se non ti conosco alla
prima parola che dirai —.
«Avete
del vino sincero, sano, fatto in coscienza?» disse Fermo.
«Quanto
a questo», rispose l'oste: «potete star sicuro: non ne ho mai tenuto altro: ne
ho del più e del meno caro; ma per la sincerità, tutto il mio
vino è lo stesso: se venisse un ragazzo lo tratterei come tratto voi».
Così disse l'oste; e aggiunse fra sè: — ho inteso: tu sei lepre;
va che sei caduto in buone mani —.
«Dunque
portate del buono», disse Fermo: l'oste partì, e un momento dopo
tornò con un boccale.
«Che
vogliono da mangiare questi signori?» diss'egli, riponendo il boccale sur una
tavola.
«Che
cosa avete?»
«Per
esempio un buon pezzo di stufato?»
«Portate
lo stufato», disse Fermo.
«Ma!»
disse l'oste già in atto di partire, e sostando, «pane non ne ho in
questa giornata».
«Eh!
al pane ha pensato la Provvidenza», disse Fermo; e in aria di trionfo si
cavò di tasca il terzo ed ultimo di quei pani raccolti sotto la croce di
San Dionigi.
«Va
bene», disse l'oste, e partì. Fermo allora, preso per un braccio lo
sconosciuto guidatore, gli fece forza perché sedesse, e bevesse con lui. Poco
stante l'oste portò da mangiare; e Fermo astrinse il guidatore a fargli
compagnia, e si pose a mangiare con un appetito, che si fece sentire molto
grande quando la prima sete fu ammorzata.
A
tutte quelle tavole si gridava: quindi la conversazione era divenuta come
generale: perché molti discorsi, facendosi sentire dall'una tavola all'altra, provocavano
risposte, le quali facevano poi nascere dei dialoghi continuati. Come poi il
soggetto di tutti quei colloquj separati era un solo, le vicende di quel
giorno, così in poco tempo anche il colloquio divenne comune a tutti
quelli che ivi si trovavano riuniti a caso. Fermo parlò assai, perché
come abbiam detto era giunto quivi con una gran sete, e il vino non mancava.
Lo
sconosciuto aveva già intese dalla bocca di Fermo, e registrate
attentamente nella memoria molte cose che erano per lui tesori; ma gli mancava
una notizia importante, e pensò a procacciarsela. Disse dunque a Fermo:
«converrà che voi avvisiate l'oste che avete intenzione di dormir qui
affinch'egli vi prepari la stanza».
«È
vero», rispose Fermo, e chiamato l'oste: «avete», disse, «una buona stanza, un
buon letto da darmi? da povero figliuolo, ma una cosa pulita».
«Starete
da principe», disse l'oste, e fattosi ad un armadietto che era appeso ad una
parete ne tolse un pezzetto di carta, un picciolo calamajo, e una penna, quindi
accostatosi a Fermo: «in grazia», disse, «il vostro nome?»
«Il
mio nome?» rispose Fermo, a cui il vino sincero dell'oste aveva portate tutte
le passioni ad un grado lirico. «Che cosa volete fare del mio nome? Avete paura
ch'io non vi paghi? Se fossi un tiranno con dieci bravi al mio servizio
potreste dubitare, ma sono un povero figliuolo, e non son uomo da dare un canto
in pagamento a nessuno».
«Boh!
non dico per questo», rispose l'oste: «ma v'è una grida molto severa che
«ordina ed espressamente comanda» sono parole della grida, e la so a
memoria: «comanda» dice «a tutti gli osti e tavernaj, camere locande
etc. che ogni notte,» dice «giorno per giorno, dia notizia e relazione
di tutte le persone che alloggeranno etc. specificando» dice «il giorno
dell'arrivo di ciascuno, nome e cognome, e di che nazione sarà, a che
negozio viene,» dice...
«Questa
è bella», interruppe Fermo: «ecco se non è per sapere i negozj
degli altri. Vengo per un negozio briccone, senza mia volontà, vengo per
un negozio che a raccontarlo ci vorrebbe una sera; ma colui che mi ha fatto
venire, si è tessuto il capestro, e presto presto desidererà di
non essersi mai impacciato nei fatti miei».
«Onde,
non per mia curiosità, ma per cagione della grida», continuava l'oste;
ma Fermo l'interruppe ancora dicendo:
«Questa
è una grida che non conta, perché non è mica buona, è
fatta contra la povera gente, per sapere i fatti dei galantuomini, ed è
una di quelle che s'hanno a disfare: dunque non ne parliamo più, e vi
assolvo io. Riempitemi invece un'altra volta questo boccale, che il vino lo
trovo a mio genio, e lo riconosco per galantuomo senza domandargli il nome».
«Ma
io sono obbligato...» ricominciò l'oste, dando allo sconosciuto
un'occhiata che voleva dire: — siatemi testimonio ch'io faccio il mio dovere.
«Via,
via», gridarono in un punto molte voci: «quel giovane ha ragione: sono tutti
balzelli, angherie, legge nuova, legge nuova oggi!»
L'oste
si strinse nelle spalle, e guardò ancora allo sconosciuto, il quale
disse pure: «via non vedete che è un galantuomo? andate a preparargli la
stanza».
«Bravo
compagno! bravi amici!» sclamò Fermo, «adesso vedo proprio che i
galantuomini si danno la mano e si sostengono». Partito l'oste, si parlò
della grida e delle gride, e poi ancora del pane e dei tiranni. Lo sconosciuto
che fino allora non aveva presa gran parte alla conversazione, uscì in
campo anch'egli con le sue riflessioni, e con le sue proposte.
«Per
me», diss'egli, «se dovessi comandare io, troverei tosto il mezzo di fare stare
gli ammassatori, e i fornaj, e di far trovare pane per tutti. Ecco come vorrei
fare. Vorrei che si pensasse alla povera gente che non ha frumento e che deve
provvedere pane di giorno in giorno, e che non ne avessero a mancar mai, che
ognuno avesse la sua razione fissata. Vi dovrebbero essere dei galantuomini,
dei signori, ma buoni, e caritatevoli, che tenessero conto di tutti, e
stabilissero ad ognuno la sua porzione secondo il bisogno, e a prezzo fisso.
Per esempio io andrei a farmi notare», e così parlando, preso un
coltello rivolse la punta verso la tavola e la dimenava, come se scrivesse: «e
si dovrebbe scrivere: — Ambrogio Fusotto: — di che professione? — Spadaio. —
Maritato? — signor sì: — quanti figli? — quattro. — Tante libbre di pane
al giorno, e darmi un buon viglietto, col quale io andrei tutti i giorni a
prendere il mio pane da un fornajo, a prezzo fisso. Ma bisognerebbe fare le
cose giuste, senza parzialità, e in proporzione della famiglia. A voi
per esempio dovrebbero scrivere: tanto pane tutti i giorni per... il vostro nome?»
«Fermo
Spolino».
«Bravo:
la professione?»
«Lavoratore
di seta».
«Benissimo;
ma avete moglie?»
«Non
l'ho», disse Fermo, «ma se Dio vuole...»
«Dunque»,
disse lo sconosciuto, «abbiate pazienza; ma voi dovete avere una porzione
più picciola».
«È
giusto», rispose Fermo, «ma poi quando io pigliassi moglie, che sarà
presto, come spero...»
«Razione
doppia», disse lo sconosciuto.
«Così
va bene», rispose Fermo.
Lo
sconosciuto aggiunse ancora poche parole, poi si avvisò tutto ad un
tratto che la moglie e i quattro figli sarebbero stati in pensiero pel suo
ritardo, e si levò per partire: tre volte era egli sorto in piedi, e tre
volte Fermo presolo per le falde del mantello l'aveva fatto ripiombare sulla
panca: ma alla quarta egli alzandosi saltò al di sopra della panca, e se
ne andò tra le istanze, e i ringraziamenti, e i saluti, invero un po'
affoltati del nostro povero Fermo.
Questi,
rimasto solo alla sua tavola, (ci duole raccontarlo, ma la cosa fu così)
vuotò solo in varie riprese il fiasco che aveva fatto riempire di nuovo
per due bevitori, lo vuotò, alternando i sorsi con le parole, e
ponendoselo a bocca ogni volta che l'idea la quale s'era presentata splendida e
risoluta alla sua mente si oscurava e fuggiva tutto ad un tratto, o la frase
per vestirla non voleva lasciarsi trovare; a quel modo che uno scrittore, nelle
stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al
naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco. Pure,
siccome allo scrittore infervorato nelle sue idee, vengono talvolta nel maggior
calore della composizione certi lucidi intervalli, nei quali una voce interna
dice ad un tratto: — e se fossero minchionerie? — così anche il nostro
poveretto, in mezzo a quella baldanza di pensieri, in quella crescente esuberanza
di forze, sentiva di tempo in tempo che a quelle forze mancava un certo
fondamento, e che appunto nel momento della più grande intenzione
parevano pronte a cadere.
Quel
po' di senno che gli era rimasto lo faceva accorgere che il più se n'era
ito; a un dipresso come l'ultimo lumicino rimasto acceso dopo una grande
illuminazione fa intravedere gli altri spenti. Sentiva Fermo un bisogno di
trovarsi coricato, e di dormire, e qualche cosa nello stesso tempo lo avvertiva
che gli sforzi necessarj per arrivare a quel punto di riposo divenivano
più difficili di momento in momento. Fece dunque una risoluzione in uno
di questi lucidi intervalli: appoggiò ambe le mani spalancate sulla
tavola, si sollevò alquanto, diede un sospiro, tentennò alquanto,
e finalmente fu in piedi.
«Presto,
presto oste», diss'egli: «conducetemi alla mia stanza, perché... io sono un
buon figliuolo... e mi piace far le cose con giudizio... e gli stravizzj:...
quando il sole è andato a letto... tutti i galantuomini... mi diceva mio
padre...»
L'oste
che desiderava questa risoluzione di Fermo, non si fece aspettare:
staccò una di quelle lucerne, e tenendola alzata con la sinistra, e
preso con la destra il braccio di Fermo: «andiamo», disse, e si avviò
reggendo e traendosi dietro il suo ospite. Fermo, però s'arrestava di
tratto in tratto, e, gettandosi verso la brigata, col braccio che gli rimaneva
libero andava iscrivendo nell'aria certi saluti, a guisa d'un nodo di Salomone,
ai quali le braccia e le voci della brigata rispondevano in modo poco
dissimile. Ma l'oste scotendolo, lo tirava verso una porticina, tanto che
potè entrarvi e mettersi su una scaletta angusta di legno, per la quale
dando a Fermo un avviso ad ogni scalino, lo tirò nella stanza. Quivi
Fermo si guardò intorno, e disse: «bene! bravo! galantuomo! son
contento». Poscia forzandosi di fissare in faccia all'oste due occhietti che
luccicavano e si oscuravano a vicenda come lucciole, appoggiandosi sul destro
piede per chinarsi verso l'oste, e ricadendo poi indietro sul sinistro, stendendo
verso la faccia dell'oste la mano coll'indice e col medio tesi piegati al
mezzo, e aperti, per farle quella carezza di protezione amorevole che in
milanese si chiama una mezz'oncia, senza però poter mai giungere ad
afferrare quella guancia liscia e rubiconda dell'oste, disse con una cera tra
amichevole e corrucciata:
«Ah!
oste, oste! furbaccio! tu mi hai voluto fare un tiro da nimico... ma, la ti
è venuta busa, perché... perché io sono un mariuolo... e tu però
non hai trattato bene, perché... tu dovresti tener la parte dei buoni
figliuoli... e non di quelli che fanno le gride, perché... quelli che fanno le
gride, non vengono a bere il tuo vino... povero minchione che tu sei... e non
ti danno un becco d'un quattrino perché... sono superbi, e avrebbero paura di
sporcarsi la tonaca e... non sono gente di buona compagnia... che basta veder
il Ferrer, che è il meglio di tutti e pare... un dottore di medicina
ammalato... dunque chi ti fa andare la bottega... chi è, chi non
è... sono i buoni figliuoli».
L'oste,
il quale non avrebbe creduto che Fermo fosse ancora in caso di mettere insieme
tante parole con un senso tal quale, pensò di approfittare di quel
momento lucido per fargli intendere la ragione, e schifare un impaccio a tutti
e due, e gli disse:
«Sì,
sì, io son tutto pei buoni figliuoli; ma vedete bene...
quelli
che comandano, vogliono essere obbediti; mi capite... abbiate giudizio,
facciamo le cose qui fra noi da buoni amici; ditemi tosto il vostro nome, la
patria, la professione, il negozio per cui siete venuto: in un momento è
finita, e poi andate a letto e buona notte».
«Ah!
cane!» disse Fermo levando la voce; «tu mi torni in campo col negozio... adesso
capisco tu sei della lega... aspetta, aspetta...»
Così
gridando Fermo, si avviava barcollante verso la scala ma l'oste lo rattenne: e
vedendo che s'egli insisteva Fermo avrebbe gridato sempre più e sarebbe
stato inteso dalla brigata, la quale certamente avrebbe prese le parti di
quello, ricordandosi che in quel giorno il potere era nelle mani di quelli che
erano soliti obbedire, e non si poteva prevedere quando sarebbe loro ritolto,
pensando che quand'anche al ritorno della tranquillità un ordine revochi
e dichiari nulli tutti gli atti della rivolta, le busse toccate una volta sono
irrevocabili, stimò che la faccenda più pressante era di acquetar
Fermo; e con voce più sonora di quella di Fermo gli gridò: «ho
detto per ridere: non lo avete capito, che ho detto per ridere?»
«Ah!
ora tu parli bene, da buon figliuolo», rispose Fermo, acquetandosi tosto: «per ridere;...
sono proprio cose da ridere... dunque le gride».
«Dunque,
andate a dormire», disse l'oste, «che troverete un letto da galantuomo. Via
spogliatevi, presto, da bravo».
E
mentre andava così facendo animo a Fermo con la voce, il malandrino
diceva fra sè: — pezzo di minchione! se vuoi affogare, affoga, per me
son certo di cavarmene, ma tu, resterai solo nell'impaccio —.
Fermo
intanto si andava spogliando, e interrompeva questa operazione con mille
ciancie, e con mille atti strani, che l'oste sofferiva pazientemente per una
buona ragione. Quando Fermo s'ebbe tratto il farsetto, l'oste lo prese, pose le
mani su le tasche per vedere se v'era la postema, e fatto certo del sì,
volle tentare di avere il suo conto prima di abbandonar Fermo quella sera,
prevedendo che l'indomani probabilmente Fermo avrebbe avuti altri affari, e la
postema sarebbe stata in deposito presso a gente che non si sarebbe data
premura di pagar l'oste. Disse dunque, tenendo il farsetto: «Voi siete un buon
figliuolo, n'è vero? volete le cose giuste?»
«Buon
figliuolo...» rispose Fermo. «Dunque», replicò l'oste, «saldate ora il
vostro conterello, perché domattina, io debbo correre qua e là per mie
faccende». «Oh! questo sì», disse Fermo, «questo è giusto: son
mariuolo, ma galantuomo». L'oste si diede fretta di domandare quello che gli
veniva, ajutò Fermo a cavare i danari dalla tasca, a noverarli, tolse il
suo pagamento, e dato delle mani a Fermo per ajutarlo a salire sul letto, gli
disse, «buona notte». Fermo si lasciò cadere sul letto, mormorò
fra i denti: «buoni figliuoli», e cominciò a russare.
L'oste,
stirata la coltre di sotto il corpo di Fermo, gliela accomodò indosso
alla meglio; quindi, ripresa la lucerna con la sinistra, gliela sollevò
sul capo, e stesa la destra contra il lucignolo perché la luce cadesse sul
dormente, si fermò a contemplarlo un momento, nell'atto che vediamo
dipinta Psiche quando sorge a spiare furtivamente le forme del consorte
sconosciuto: e disse: «Matto minchione! tu l'hai voluto: sei andato proprio a cercarla
col lanternino; tal sia di te».
Dette
queste parole come per isfogo, e per una apologia anticipata, si mosse,
abbassò la sua lucerna, e la pose dinanzi a sè, uscì,
volse la chiave nella toppa, e chiuse così Fermo nella stanza, e
s'avviò per la scala verso la cucina. Ma nel fare tutte queste
operazioni, e nello scendere, continuava tra sè la allocuzione che aveva
cominciata dinanzi a Fermo, favellando con l'assente come aveva fatto
coll'addormentato.
—
In un giorno come questo — proseguiva egli — colla mia prudenza, io era venuto
a capo di salvare la capra e i cavoli, di passarmela liscia; e il diavolo
doveva mò proprio portarti alla mia osteria per guastarmi il mestiere.
Se tu fossi venuto solo, avrei potuto lasciarti addormentare su la tua panca, e
quando tutti fossero partiti, portarti fuora, e collocarti in un canto della
strada al fresco, e domattina poi ti saresti svegliato un po' ingranchito, ma
fuor d'impicci tu ed io. Ma tu invece, pezzo d'asino, hai pensato anche a
condur teco un testimonio.
A
questo punto della sua arringa mentale, l'oste si trovò in cucina,
girò un'occhiata per vedere se tutto era in regola, fece un cenno con
l'occhio all'ostessa che nella sua assenza presiedeva con la prudenza e con
l'imparzialità del mestiere la brigata procellosa; e quindi
staccò il mantello da un cappellinajo, e se lo pose indosso, continuando
tuttavia:
—
E che testimonio! Pare che tu avessi paura di passartela senza impicci; volevi
proprio far le cose a dovere per tirarti una tegola sul capo. — Qui
staccò pure il cappello, e lo pose in capo. — Va che sarai servito: tua
colpa: tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte nasca il
sole.
Qui
tolse da un canto un buon randello, s'avviò alla porta, e uscì
nella via, sempre continuando la sua orazione.
—
Io ho fatto quello che ho potuto per salvarti, e tu bestia, in ricompensa, per
poco non mi hai messa a romore l'osteria. Ora cavatene come potrai: per me, chi
che sieno per essere i pazzi che comanderanno domani, io sono a cavallo: faccio
la mia deposizione, e sono in regola: quelli che hanno comandato così,
sono soddisfatti; e quelli a cui non piace non ne sapranno niente.
Le
vie brulicavano ancora di gente, che andava e veniva in troppa; come le onde
del mare quando il più sperto pilota non saprebbe affermare, se la
burrasca sia sul finire, o sul ricominciare: ma l'oste cercando il largo fra
gli scogli, camminando a sghembo tra una brigata e l'altra, ponendo cura di non
urtare nessuno, e dissimulando gli urti che riceveva, se ne andava al suo cammino,
continuando intanto fra sè. — E tu prega il cielo che domani tiri l'aria
d'oggi, se no, stai fresco. Hai voluto affogare, affoga; ma afferrar me per una
gamba, per trarmi sott'acqua con te... ah! non era azione da galantuomo. Tu mi
volevi esporre, se nol sai, a trecento scudi di pena, o a cinque anni di
galera, o a maggior pena pecuniaria o corporale, ad arbitrio di Sua Eccellenza.
Obbligatissimo alle sue grazie.
CAPITOLO VIII
A
queste parole giunse egli alla soglia del palazzo del Capitano di Giustizia.
Entrò, salì, fu introdotto e fece ad un ufiziale, la sua
relazione, come era capitato all'osteria uno che non aveva voluto dare il suo
nome, e come egli oste dopo d'averlo ammonito di obbedire alle gride, dovette
tacere per non far nascere uno scandalo.
«Lo
sapevamo», rispose l'ufiziale, con aria di importanza e di mistero: «ma voi
avete ben fatto di compiere il vostro dovere. Ora badate a non lasciarlo
partire costui».
«Col
dovuto rispetto a Vossignoria», rispose l'oste, il quale con tutta la sua prudenza,
non aveva potuto a meno di non prendere un po' di quegli spiriti arditi di che
era piena l'aria in quel giorno, «col dovuto rispetto, io faccio l'oste e non
il birro: ho fatto il mio dovere: a lor signori tocca ora».
«Va
bene, va bene», rispose l'ufiziale, il quale con tutta la sua arroganza non
aveva potuto a meno di non tremare un po' in tutta quella giornata, e non
sapeva ancora bene a che punto le cose si fossero. L'oste ne andò pei
fatti suoi.
La
prima informazione, come il lettore se n'è addato certamente, era venuta
da quella falsa guida, la quale, per darne piena contezza, non era niente meno
che un bargello travestito, in traccia d'uno che gli desse una occasione di
farsi onore e merito, eseguendo gli ordini assai difficili che gli erano imposti:
e quest'uno fu il nostro povero Fermo.
Nel
momento in cui la sommossa era al maggior grado di fermento e l'assedio posto
alla Casa del Vicario, molti magistrati, scapolando furtivamente per vicoli, e
per vie deserte s'erano riuniti nelle sale del consiglio segreto, e quivi
avevano consultato non senza tremore sulla urgenza del caso. I pareri erano
varj, proposti con esitanza, e abbandonati facilmente, e non si conchiudeva, ma
quando sul declinar del giorno venne la relazione, che il Vicario era in salvo,
che la folla cominciava a dissiparsi, un vecchio machiavellista del consiglio
segreto: «ah!» disse, «signori miei: ora il partito è chiaro: centomila
pani, e quattro capestri». Tutto quello che fu detto da poi non fu che un
commento a queste parole, e deliberazione sul modo di condurle ad effetto. Si
ordinò che fossero mandate guardie ai forni rimasti intatti fin allora,
per assicurarli, e per obbligare i fornaj a far pane in abbondanza per
l'indomani. Furono destinate persone autorevoli, e accette al popolo, le quali
di buon mattino assistessero ai forni in uno colle guardie, e aggiungendo la
persuasione alla forza, cercassero di regolare la distribuzione del pane, e
mantenessero la tranquillità: il prezzo del pane fu riabbassato a quella
prima tassa immaginata dal Ferrer. Si mandarono soldati a sgombrare la via
dov'era la casa del Vicario, dai pochi che v'erano rimasti: e la via fu quindi
sbarrata, e i soldati vi si posero a stazione, per togliere alla sedizione il
campo dov'ella aveva già ottenuta una vittoria, e dove probabilmente
ella si sarebbe presentata di nuovo per ricominciare la battaglia. Finalmente
furono spediti attorno tutti i membri di quella che il popolo chiamava onorata
famiglia con l'ordine di metter le mani su qualcheduno dei capi, o dei
più turbolenti, ma però in modo che il colpo fosse sicuro, e non
potesse dare occasione ad un nuovo ribollimento.
L'ordine
era più facile da darsi che da eseguirsi: e per non parlare che di
ciò che si lega alla nostra storia, quel falso Ambrogio aveva girato
lungo tempo qua e là, su e giù, sempre in mezzo alle occasioni,
senza poterne cogliere una, vedendo i rei a centinaja, senza poterne fare un
prigione, e si rodeva come un cacciatore che viaggiando vegga levarsi a destra
e a sinistra, dalle macchie, tordi, starne, e pernici, e non abbia lo schioppo
con sè; quando gli capitò nelle ugne il povero Fermo, e vi
rimase, come abbiamo veduto. Il bargello malandrino andò tosto a
riferire, come aveva colto in flagranti uno che predicava, come l'aveva
condotto all'osteria, come quegli aveva negato obbedienza alla grida, ricusando
di dare il nome, come poi egli uomo benemerito glielo aveva cavato di bocca, e
come finalmente la bestia era nel covo, e non si trattava che di andarla a
prendere. Il Capitano di giustizia, avrebbe voluto che fosse presa subito
subito senza tardare: — ma —, pensava egli, mettendo di tratto in tratto la
mano sulla sua bernoccola: — bisogna prima assicurarsi che tutte le cose sieno
quiete. — All'aurora tutto era disposto in modo che non si credeva più
che la forza potesse trovare ostacoli, e allora fu spedito il bargello con un
notajo e due birri all'osteria della luna piena. Saliti alla stanza di Fermo,
che dormiva, il bargello lo riconobbe, disse al notajo: «è l'uomo», e partì.
Fermo russava già da sette ore, e non avrebbe finito così presto,
se una mano che gli scoteva la spalla, e una voce che gridava: «Fermo Spolino»,
non lo avesse fatto risentire.
Aperse
gli occhj a stento, e guatò: era giorno fatto e la luce che entrava per
le impannate fece vedere a Fermo un uomo ravvolto in una cappa nera stargli al
capezzale da un lato, e due in farsetto armati, l'uno dall'altro lato del
capezzale, e l'altro a piedi del letto. Mentre Fermo andava raccapezzando le
sue idee, e cercando di ricordarsi delle circostanze che gli pareva di dover
sapere, per potere comprendere quelle che gli erano affatto nuove e strane,
s'udì dire dall'uomo della cappa nera: «alto, su, Fermo Spolino,
alzatevi e venite con noi».
«Che
vuol dir questo?» disse Fermo quando potè aver la favella, e nello
stesso tempo dubitando che fosse un sogno, scuoteva la testa e dimenava tutte
le membra per destarsi affatto.
«Ah!
avete inteso una volta, Fermo Spolino?», disse l'uomo dalla cappa nera,
«alzatevi, e venite con noi, che non abbiam tempo da perdere».
«Fermo
Spolino!» disse Fermo Spolino. «Chi v'ha detto il mio nome?» — Che sia uno
stregone costui vestito di nero? — mormorò tra sè; «Ehi! l'oste,
l'oste!» gridò quindi a quanto fiato aveva in corpo.
«Meno
ciarle, e su!» disse uno di quei birri.
«Che
prepotenza è questa?» disse Fermo, «ah! adesso mi ricordo... badate bene
a quello che fate: non è più come una volta...»
«Badate
voi, a far presto», disse il notajo, «se non volete esser portato via in
camicia».
«E
perché mò?» disse Fermo.
«Il
perché lo direte al Signor Capitano di giustizia».
«Io
sono un buon figliuolo, non ho fatto niente...»
«Tanto
meglio per voi; così dopo due parole vi lasceranno andare pei fatti
vostri».
«Mi
lascino andare adesso, subito», disse Fermo, «io non ho nulla che fare con la
giustizia».
«Lo
portiamo via?» disse uno di quei birri al notajo.
«Fermo
Spolino!...» disse il notajo con aria di consiglio minaccioso.
«Come
sa Lei il mio nome?» disse Fermo.
«Se
non fate presto...»
«Voglio
sapere perché vengono a fare questa sorpresa a un galantuomo. Che cosa ho
fatto? parlino: io son uomo che intende la ragione, e darò conto di
tutto». Ma i birri fattisi bruscamente vicini a Fermo stavano per porgli le
mani addosso, quando egli gridò: «non toccate la carne d'un galantuomo,
che...»
«Dunque
alzatevi subito», disse il notajo.
«Ebbene
mi alzerò», disse Fermo; «ma io non voglio andare dal Capitano di
giustizia. Io non ho che fare con lui. Voglio esser condotto da Ferrer; quello
lo conosco, e saprò fare intendere le mie ragioni».
«Presto,
vestitevi, venite con noi, e direte tutta la vostra ragione a vostro
bell'agio».
Fermo,
vedendo che la resistenza era inutile, tolse sul letto i suoi panni, e
cominciò a vestirsi, cercando intanto di scoprire la cagione di un avvenimento
così nojoso e così inaspettato: ma la sua mente ravvolgendosi per
cercarla fra le memorie della sera antecedente, si confondeva, come un padre
che s'aggiri in una folta mascherata, per riconoscere un suo ragazzaccio. Poco
a poco però cominciò egli a ricordarsi della grida, del nome, e
del negozio, delle istanze dell'oste, e dei suoi rifiuti; ma come diavolo,
l'uomo nero sapeva egli appuntino quel nome e cognome che Fermo non aveva mai
voluto pronunziare? E poi, come erano cangiate le cose a segno, che colui il
quale doveva in quella giornata fare il legislatore, la cominciasse coi birri
al fianco per andare in prigione? — Qualche mistero ci dev'essere, — disse
Fermo tra sè: — e intanto se potessi con un po' di buona grazia uscire
dalle mani di costoro, sarebbe meglio. — Con questa intenzione volgendosi al
notajo con un volto tra il gioviale e il furbo, gli disse:
«Se
non si trattasse che di dire il mio nome... jeri sera, veramente io era un po'
brillo, e abbiamo parlato per metà, il vino, ed io.. ma ora non ci avrei
difficoltà; ed ella dovrebbe esser contenta, così rimarremmo in
libertà tutti e due».
«Bravo,
bravo figliuolo», disse il notajo, «voi pensate con giudizio: se farete le cose
con garbo ne uscirete presto e bene; ma lo direte a chi ha l'autorità di
farvi rilasciar subito: è una formalità da nulla; ma io non posso
far niente».
«Ham!»
disse, o piuttosto fece Fermo scotendo la testa, e ricominciò a pensare
— Diamine! Che cosa fanno tutti quei buoni fratelli di jeri? mi lasciano in
ballo a questo modo! — Fra questi pensieri stava egli di tempo in tempo con le
mani alzate tra un bottone e l'altro, interrompendo l'azione del vestirsi. Ma
il notajo s'era tirato verso la finestra, e aprendo le impannate (ché i vetri
in quel tempo erano riserbati soltanto alle case signorili, anzi alla parte
più signorile di esse) guardò nella via non senza inquietudine, e
vide che le cose non erano già più come le aveva trovate nel
venire: i popolani sbucavano come vespe dalle case, e si riunivano a sciami: il
ronzio sordo cresceva, e, quello che al notajo parve un segno mortale, le ronde
che giravano per impedire l'attruppamento, cominciavano a procedere con molta
buona creanza.
Chiuse
l'impannata in furia, lanciò dal suo cuore, poiché ne aveva uno
anch'egli, una imprecazione contra il Capitano di giustizia che lo aveva messo
in quell'intrigo, un'altra contra Fermo che in un momento così urgente
per lui notajo, pareva che volesse perdere il tempo a bella posta, indi fece un
cenno ai birri, che sbrigassero la faccenda. I birri rinnovarono più
forti le minacce a Fermo, questi, accortosi della inquietudine dei nemici,
concepì buona speranza, conchiuse che, se l'interesse di quelli era che
si facesse presto, il suo doveva essere di tirare in lungo, e procurò di
perder tempo, senza dare a coloro un pretesto di venire all'estremo. Ma
finalmente si trovò vestito: e allora ponendo le mani nelle tasche del
suo farsetto: «oh!» disse, «io aveva una lettera: voi me l'avete rubata».
«La
lettera è qui», disse il notajo traendola di seno in fretta, e senza
pensare in quel momento a ribattere l'irriverenza del rimprovero: «è
ella questa?» soggiunse mostrandola.
«Questa
appunto», rispose Fermo, stendendo la mano per prenderla.
«Piano,
piano», disse il notajo; «ho piacere che l'abbiate riconosciuta, ma non ve la
posso dare: vi sarà restituita a momenti da chi si deve, purché abbiate
giudizio: andiamo, andiamo».
«Voglio
la mia lettera», disse Fermo: «che bricconeria è questa? a forza di
trattare coi ladri, avete imparato il mestiere».
I
birri volevano gettarsi addosso a Fermo; ma il notajo, sporgendo in fuori il
mento e la mandibola inferiore, allargando le narici, sbarrando gli occhi, e
scotendo il capo in fretta, fece loro intendere di non muoversi. L'uomo era in
angoscia: pensava che non v'era da perder tempo, che il pericolo cresceva, che
il tragitto sarebbe stato rischioso, e che il miglior modo di farlo sicuramente
era di condurre Fermo con la persuasione. Gli diede quindi la lettera, dicendo:
«ecco ch'io mi fido di voi; ma abbiate giudizio, venite con buona maniera che
sarà meglio per voi; quando sarete riconosciuto per un galantuomo,
sarete messo tosto in libertà: è un affare di mezz'ora. Andiamo,
da bravo». Così detto aprì la porta, e precedette il corteggio.
Fermo non avendo più nessun pretesto d'indugio, gli tenne dietro, e i
birri fecero la retroguardia. Scesa la scaletta, il notajo fece un cenno ai
birri, e disse a Fermo: «abbiate pazienza, fanno il loro dovere»; e mentre gli
proferiva questa bella parola, i birri afferrarono, l'uno la destra l'altro la
sinistra di Fermo, e le allacciarono con certi strumenti, che (per quell'uso
comune d'ingentilire le cose col nome) si chiamavano manichini, ed erano
congegnati in modo che colui che gli aveva intorno ai polsi era fortemente
tenuto senza che apparisse alcun segno di violenza; e il tenuto e il tenente
potevano parere due amici che passeggiassero stretti per la mano.
«Che
tradimento è questo?» sclamò Fermo, «a un galantuomo par mio!...»
Ma i due amici stringendo i manichini gli fecero sentire che con essi si poteva
non solo tenere un rassegnato, ma ancora martoriare un ricalcitrante; e nello
stesso tempo il notajo, raccomandando ai birri di non far male a quel povero
giovane, cercava di persuaderlo con buone parole. Fermo vide che fin tanto che
egli si trovava solo con quei tre, era follia il competere, fece la gatta
morta, e disse: «andiamo».
—
Andiamo — soggiunse fra sè, — e vedremo se quei fratelli di jeri son
tutti morti.
«Andiamo»,
disse il notajo, con un volto tutto grazioso: «fidatevi di me che vi voglio
bene; e voi», continuò rivolto ai birri, «non lo stringete, è un
buon figliuolo e mi preme; andiamo quietamente», disse ancora a Fermo, «non
fate vista di nulla, non guardate né a destra né a sinistra, e nessuno s'
accorgerà di quello che è, e voi conserverete il vostro onore,
nessuno potrà rinfacciarvi che siete stato nelle mani della giustizia; e
a momenti sarete in libertà».
Il
fine di quella ammonizione era di persuader Fermo a lasciarsi condurre
tranquillamente, ma l'effetto ch'ella produsse invece fu di far sentire sempre
più a Fermo, che si temeva di lui, e delle circostanze, e di
determinarlo ad approfittarne. Non si vuol dire per questo che Fermo fosse
più accorto del notajo: ohibò: ma è destino di quelli che
vanno al disotto, ed hanno paura, che tutte le parole ch'essi dicono per
ajutarsi, dieno lume ed animo all'avversario.
Usciti
nella via, Fermo tra i due birri, e il notajo dietro, Fermo cominciò
tosto a gettare la testa a destra e a sinistra, guardando con ansia se v'era da
sperare ajuto. «Giudizio, giudizio», diceva il notajo, a bassa voce,
accostandosi a Fermo: «non vi fate scorgere, l'onore, figliuolo, l'onore». I
birri intanto affrettavano il passo tirando Fermo e ripetendo, «andiamo,
andiamo». La via formicolava di gente, e Fermo cercava di rallentare il passo
per osservare quelli che andavano, e venivano, e per udire se non si parlava
più nulla delle cose del giorno antecedente, per accertarsi se la
disposizione degli animi era affatto mutata. Quando intese «forni, pane,
Ferrer, giustizia, abbondanza», e vide una brigata di otto o dieci che gli
veniva incontro, e che i birri volevano schifare, portandosi nel mezzo della
strada, alzò la voce e scotendo le braccia e il capo gridò: «Ohe!
fratelli! mi menano su; e non ho fatto niente: solo perché jeri ho gridato:
pane e abbondanza: non mi abbandonate, fratelli: patisco per la patria: son
legato; ad uno per volta vi faranno la stessa festa: fratelli, date uno
scappellotto a costoro che mi stringono le mani: ahi! ahi! sono un galantuomo,
non ho fatto niente di male».
La
brigata si fermò sulla via, ma i birri stringendo pur Fermo, lo
strascinavano nel mezzo, e affrettavano il passo: la brigata allora si volse, e
si divise, altri a fianco, altri dietro guardando pure e ascoltando: quegli che
erano sparsi nella via accorrevano, e si faceva folla. Il notajo tutto
tremante, cercava di rimandare quegli che gli si avvicinavano, dicendo:
«è un malandrino, un ladro colto sul mestiere, che svaligiava la casa
d'un pover uomo». Ma intanto tutti quelli che venivano dalla parte ove il
corteggio doveva passare, accorrevano, e si fermavano, di modo che la via si
trovò sbarrata. Fermo predicava tuttavia, domandando misericordia: i
birri sul principio comandarono, poi chiesero, poi pregarono i sopravvegnenti
che dessero il passo: ma i più lontani cominciarono a mormorare, quindi
a fremere, quindi ad urlare: i più vicini, parte per buona
volontà, parte spinti, urtavano i birri, i quali dopo aver fatto indarno
ogni sforzo per tenersi insieme, e per non lasciare la preda, furono separati
dalla folla, dovettero abbandonare i manichini, e non cercarono più che
a perdersi nella moltitudine per uscirne salvi.
«Bravi
fratelli», gridava Fermo: «saldi, ancora un momento, ahi! strappateli, fate che
mi lascino, siamo fratelli».
Il
notajo veduta la mala parata, si fermò, e poi si volse indietro, per
uscire da quella parte dove il concorso era ancor rado, cercando intanto di far
l'indiano, e componendo il volto ad una certa curiosità, e maraviglia
sciocca, come s'egli giungesse ivi a caso, e non c'entrasse per nulla. Ma
l'abito lo tradiva, e smentiva il volto; per meglio nascondersi si volse egli
ad uno dei molti che lo guardavano fiso, e disse: «che cosa è questa
faccenda?»
«Uh!
corbaccio!» rispose invece dell'interrogato, uno che era più lontano.
«Corbaccio! uh corbaccio!» fu ripetuto intorno. Il notajo impallidì:
allora alle grida si aggiunsero gli urti di quelli che gli stavano a fianco:
tanto che il pover'uomo ottenne in breve quello che invero desiderava ardentemente:
d'esser fuori di quella calca, ma più colle gomita del prossimo che con
le sue gambe.
Quando
Fermo si vide tolto alle ugne dei suoi guardiani, e confuso nella folla dei
suoi liberatori, si scosse i manichini dai polsi, e il primo suo pensiero fu di
approfittare di quella confusione, per fuggire in luogo di salvamento. Si
ricordò tosto che il suo nome era scritto sui libracci del Capitano di
giustizia, e fece ragione ch'egli non sarebbe sicuro né in Milano né a Monza né
a casa sua, né in alcuna parte dello Stato. — Se mi pigliano la seconda volta,
— diss'egli fra sè — sto fresco, e lo merito... Ma dove andare? —
domandò a se stesso. — A Bergamo — si rispose. — E la strada?
Domanderò a qualcheduno di questi galantuomini: chi m'ha ajutato non mi
vorrà tradire. — Mentre egli pensava, da molte parti gli veniva gridato:
«presto presto, a gambe, amico». Egli seguì il consiglio alla prima:
entrò per una via sconosciuta, e si diede a correre, senza saper dove;
ma quando si trovò fuori della folla, allentò il passo, e
cominciò ad affisare i volti di quelli che incontrava, per trovarne uno
che gli garbasse, e gli desse fiducia a fare la sua inchiesta. Ma la scelta
andò in lungo, e Fermo ebbe a fare rapidamente forse venti giudizj
fisionomici prima di fissarsi ad uno che fosse l'uomo per lui. Quel grassotto
che stava ritto su la porta della sua bottega, con le gambe aperte, con le
braccia dietro la schiena, e le mani l'una nell'altra su le reni, col ventre in
fuori, il mento levato, e la giogaja pendente, sollevando alternativamente su
la punta dei piedi la sua massa tremolante, e lasciandola cadere su le
calcagna, aveva una cera di cicalone curioso, che invece di risposta avrebbe
dato interrogazioni: quegli che girava posatamente, adocchiando e origliando
pareva uomo da ripiombare un povero figliuolo nella fossa dei lioni e non
d'aiutarlo ad uscirne del tutto: quell'altro, che s'avanzava col labbro
spenzolato, e con gli occhi immobili, non che segnare spicciamente, e
precisamente la via altrui, appena pareva conoscer la sua: e quel ragazzotto
che a dir vero mostrava una intelligenza superiore all'età, mostrava
però ancor più malizia che intelligenza, e si sarebbe potuto
scommettere che nella domanda che gli fosse fatta egli non avrebbe veduto altro
che l'occasione di burlare e di confondere un povero forese. Tanto è
vero che all'uomo già impacciato ogni cosa è nuovo impaccio; e
che ogni movimento, che si dà ad una matassa scompigliata per ravviarne
il bandolo, può far nascere nuovi nodi. Ciò che rendeva
più critica la situazione di Fermo, era l'essere egli affatto nuovo
della città, dimodoché non sapeva nemmeno per qual porta si uscisse per
pigliare la via sulla quale egli voleva porsi, e gli conveniva chiedere a
dirittura la via di Bergamo; inchiesta sospetta, che poteva attirare gli
sguardi sopra di lui, e rimetterlo in guaj. Giacché la sedizione che era stata
la salute di Fermo, cominciava appena a rialzare il capo, in qualche angolo
della città; e in tutto il rimanente la forza era tuttavia nelle mani avvezze
ad usarla: e per comprimere appunto la sedizione nel suo ricominciare, e per
disperderla, giravano ronde di soldati, e sbucavano da ogni parte i colleghi di
coloro che i liberatori di Fermo avevan posti in fuga: e se per disgrazia
quegli stessi si fossero di nuovo abbattuti in Fermo, e lo avessero afferrato,
e' poteva scuotere, e guaire, qui non v'era da sperare soccorso.
Finalmente,
come la necessità aguzza l'ingegno, Fermo, adocchiato uno che veniva in
gran fretta, si risolvette di voltarsi a lui, stimando giudiziosamente che
l'uomo premuroso d'andare ad una sua faccenda, risponde tosto e direttamente a
chi lo interroga, perché quello è il modo più spiccio per
isbrigarsene. Fattosegli dunque a canto gli disse: «in grazia, signore: quale è
la strada che conduce a Bergamo?»
«Eh!
amico», rispose frettolosamente l'altro: «vi conviene uscire dalla porta
orientale...»
«Bene,
e per andare alla porta orientale?»
«Entrate
per questa via a mancina; e sboccherete alla piazza del duomo...»
«Basta,
signore: il resto lo so: Dio gliene rimeriti».
«Niente,
niente», disse il cortese preoccupato, e continuò la sua via.
Fermo
con un passo più sicuro, e più spedito entrò per quella
che gli era stata segnata, giunse alla piazza del duomo, l'attraversò,
diede passando una occhiata al mucchio di cenere, e di carboni spenti, fredde
reliquie della baldoria del giorno antecedente, poscia raffrontando i luoghi
con le memorie di jeri, riconobbe la via per la quale era venuto insieme con la
folla trionfante, e si pose in quella nell'attitudine d'un generale che ripassa
sconfitto e fuggitivo pel campo dove aveva vinto poco innanzi. Rivide il forno
delle grucce smantellato, e guardato da soldati, e passò innanzi
senza badare ai crocchj che cominciavano di nuovo a formarsi, né alle grida che
già si facevano intendere. Via, via; giunse dinanzi al convento dei
cappuccini, guardò sospirando la porta della chiesa, e disse fra
sè: — quel frate m'aveva però dato un buon parere, senza saperlo,
quando mi disse ch'io aspettassi in Chiesa; ma! non ho avuto giudizio —. Quando
fu presso alla porta rallentò il passo perché la celerità non lo
chiarisse un fuggitivo, e preso il contegno placido d'uomo che vada pei suoi
negozj, non senza battito al cuore, passò la porta. Uscito al largo,
respirò, ma pure andava guardandosi indietro ad ogni tratto per vedere
se non era inseguito: la strada maestra non gli andava a genio: e al primo
viottolo che scorse vi s'internò, volendo piuttosto allungare e
raddoppiare il cammino che farlo sempre in sospetto.
Quetata
un poco la paura, sorsero nel suo cuore mille pensieri di rimprovero, mille di
sollecitudine per l'avvenire, e quindi mille proponimenti che il lettore
s'immaginerà facilmente. Con questa trista compagnia passando di
viottolo in viottolo, di casolare in casolare, chiedendo la strada di tempo in
tempo, e cercando di stare più vicino che poteva alla maestra, senza
toccarla mai, dopo aver fatte forse quindici miglia, senza essersi allontanato
più distante dalla città da cinque o sei, cominciò a
sentire fortemente gli stimoli della fame: e avendo veduto nella botteguccia
d'un villaggio alcuni pani, ben diversi da quei bianchissimi che il giorno
antecedente aveva trovati sulle sue orme, ne comperò con uno di quei
pochi quattrinelli che gli rimanevano, e proseguì il suo cammino.
Finalmente, dopo averne fatto altrettanto, e non rimanendo più che due
ore di giorno, egli sentì di nuovo la fame, e per giunta la stanchezza:
e la sollecitudine di porsi in salvo diede luogo al desiderio di cibo e di riposo.
Vedeva Fermo da qualche tempo attraverso i campi e le piante un campanile, e
presolo per meta si avviò direttamente verso quello. Giunto al paese,
(Fermo non ne sapeva il nome, ma era veramente Gorgonzola) vide che era posto
su la strada maestra, stette in forse un momento di tornarne fuori; ma alla
fine il bisogno vinse. — Non saranno venuti a cercarmi fin qui: — diss'egli fra
sè: — e qui nessuno mi conosce.
Col
conforto di questa riflessione, entrò in una osteria per ristorarsi con
qualche cibo, e per riposarsi, seduto però, e fin che durava il giorno;
perché ai letti ed alle notti dell'osteria aveva preso orrore, e all'ultimo si
sarebbe piuttosto accontentato di dormire al sereno, sotto un noce, in un
campo. Sedette, e chiese qualche cosa da mangiare, e un mezzo boccale di vino
calcando la voce sulla parola mezzo, come per far sentire alla gola che quello
era la misura prescritta irrevocabilmente, e per farle ricordare gli spropositi
del giorno passato.
V'erano
in quella stanza alcuni oziosi, i quali venivano ivi per abitudine, e allora
s'erano ragunati anche per la speranza che arrivasse qualcheduno da Milano, il
quale portasse le nuove più recenti. Si sapeva in cento maniere secondo
l'uso antico ed universale, il guazzabuglio del giorno antecedente, e s'era pur
bucinato che il mattino la pentola aveva cominciato a ribollire; sicché la
curiosità era infiammata. Gli occhi furono tosto addosso a Fermo, ma
visto ch'egli era un forese, nessuno pensò a lui, per sua buona ventura;
perché chi gli avesse chiesto: «a caso, verreste voi forse da Milano?» nella
disposizione d'animo in cui era Fermo, possiamo ingannarci, ma egli diceva
certamente la bugia. In vece, senza essere importunato di richieste,
potè egli mentre mangiava saporitamente, sentire i discorsi che si
facevano, e rimettersi un po' al corrente delle cose del mondo, dopo una lunga
giornata di ritiratezza.
«Eh!
eh!» diceva uno, «i milanesi non son mica uomini di stoppa: e non la finiranno
prima che sia loro fatta ragione davvero».
«Pure»,
disse un altro, «il vicario se lo sono lasciato levare dalle mani».
«Sì»,
ripigliò un altro; «ma gli sarà fatto il processo».
«Stiamo
un po' a vedere», saltò in campo un quarto, «se questi cittadini superbi
non penseranno che ai loro interessi, o se vorranno una legge nuova anche per
la povera gente di fuora, che per diana ha pure il ventre anch'ella, e lavora
più di loro per far crescere il pane».
«Basta»,
riprese il primo: «si potrà vedere: mi pento di non essere andato a
Milano, questa mattina».
«Se
vai domani, vengo anch'io», disse un altro, poi un altro, poi un altro.
A
questo punto della conversazione si sentì il passo d'un cavallo; e i
nostri interlocutori indovinarono facilmente chi poteva portare, e ne furono
molto lieti pensando che saprebbero le notizie vere di Milano. Era infatti
quegli che eglino avevano preveduto, un mercante che andando più volte
l'anno a Bergamo pei suoi traffichi era uso fermarsi a passar quivi la notte, e
come trovava nell'osteria quei soliti frequentatori del paese, era divenuto conoscente
quasi di tutti.
Accorsero
nella strada, si affollarono a gara attorno all'arrivato, uno prese le briglie,
l'altro la staffa: «Buon giorno», «buona sera», «avete fatto buon viaggio: che
c'è di nuovo a Milano?»
«Eh!
eh! ecco quelli dalle notizie», disse il mercante, «quelli che le vanno
fiutando, come i bracchi le pernici. E poi, e poi, le saprete voi a quest'ora,
forse più di me». Così dicendo scese da cavallo, lo diede e lo
raccomandò ad un garzoncello, ed entrò nella cucina, circondato
dai curiosi.
«Davvero
che non sappiamo niente», disse il più antico di quei conoscenti.
«Possibile?»
rispose il mercante: «bene, dunque sentirete. Ehi oste, il mio letto solito
è in libertà? Bene: dunque non sapete che jeri è stata una
giornata brusca in Milano? ma brusca vi dico!...»
«Questo
lo sappiamo».
«Vedete
dunque», continuò il mercante, «che le sapete le notizie. Voleva ben dir
io che stando qui sempre ad agguatare quegli che passano, e a frugarli come se
foste gabellieri, qualche cosa vi potesse scappare».
«Ma
oggi, che cosa è accaduto?»
«Ah
oggi», disse il mercante, sedendo. «D'oggi non sapete niente?»
«Niente».
«Niente
davvero? dunque vi racconterò io. Oste, il mio boccone solito, e presto,
perché voglio coricarmi subito, e domattina pormi in viaggio per tempo. Oggi,
poco mancò che la giornata non fosse brusca, come quella di jeri. Ma, un
po' colle buone, un po' colle cattive... m'intendete eh? olio ed aceto; e si fa
l'insalata».
«In
fine che cosa è accaduto?» domandarono in una volta due o tre di quegli
ansiosi.
«Abbiate
pazienza», disse il mercante, «che se l'oste mi darà di che ammollare le
labbra, vi conterò tutto».
«Oh
bravo!»
L'oste
portò la refezione: il mercante si versò un bicchier di vino, si
accarezzò la barba e lo tracannò: e trinciando la vivanda che gli
era stata imbandita, cominciò la sua narrazione e la continuò
mangiando; mentre i suoi conoscenti stavano intorno alla tavola con le bocche
aperte; e Fermo in disparte, senza far vista di dar molta attenzione, ascoltava
però con più ansia e sospensione degli altri.
«Dovete
dunque sapere», cominciò il mercante, «che questa mattina per tempo
cominciarono a congregarsi molti furfanti, gente senza casa né tetto, di quelli
che jeri avevan fatto tutto il chiasso; e si misero a girare in troppa per la
città, per far numero, e tornar da capo. Da principio fecero bravate e
insolenze dove capitavano, far le corna alle spalle ai soldati, fare i visacci
ai galantuomini, rompere il muso ai birri: in un luogo strapparono dalle mani
dei birri uno che era menato su: un capo popolo che aveva predicato jeri che si
avessero a scannare tutti i signori, e tutti i bottegaj: pezzo di briccone! ma
se v'incappa, gli medicheranno il pomo d'Adamo con un sovatto. Quando parve a
costoro d'aver fatto popolo a bastanza, andarono alla casa del vicario, dove
jeri avevano fatte tutte quelle belle prodezze, ma» (e qui a guisa
d'interjezione fece con la lingua quel suono con cui i cocchieri usano di dare
ai cavalli il segnale della partenza).
«Ma?»
dissero gli ascoltatori.
«Ma»,
continuò il mercante, «trovarono la via sbarrata, e dietro le sbarre una
buona confraternita di micheletti cogli archibugi spianati, e i calci
appoggiati ai mustacchi: e... che cosa avreste fatto voi altri?»
«Tornare
indietro».
«Benone:
così fecero anch'essi; ma quando furono al Cordusio, dinanzi a quel
forno che jeri avevano cominciato a saccheggiare; dite mò, se non sono
birbi: si distribuiva il pane pulitamente; v'erano dei buoni cavalieri che
invigilavano perché tutto andasse in ordine: e costoro: «dalli dalli,
saccheggio, saccheggio»: in un momento, cavalieri, fornaj, avventori, tutti
sossopra, chi qua, chi là; e cominciò il saccheggio che
durò poco, perché poco v'era da rubare. Quando non rimasero più
che le panche e gli utensili; «fuoco, fuoco», si cominciò a gridare;
tavole, madie, imposte, tutto il legname si pigliava a furore per portarlo in
mezzo al Cordusio e dargli il fuoco. Ma un dannato peggio di tutti gli altri,
dite un po' che proposta diabolica mise in campo?»
«Che?...»
«Che?
di abbruciar tutto nella casa, e la casa insieme. Ma un galantuomo ebbe una
ispirazione del cielo: entrò nella casa, salì le scale, e trovato
per buona sorte un gran crocifisso, lo appese fuori d'una finestra, e v'accese
intorno due candele, che aveva tolte da capo del letto del fornajo. A quello
spettacolo: tutti rimasero in silenzio: v'era bene pochi diavoli in carne, che
per fare chiasso e baldoria, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma quando
videro che tutti gli altri non erano ebrei com'essi; dovettero tacere. Intanto
venne tutto il capitolo del duomo in processione, a croce alzata, e vestiti
pontificalmente, che era un gran bel vedere; e cominciarono a predicare:
«figliuoli dabbene, che cosa fate? è una vergogna, dove è il timor
di Dio? questo è l'esempio che date ai vostri figliuoli? siamo in
Milano, o in terra di Turchi? Via, tornate a casa, da bravi, che quel che
è stato è stato. Avrete abbondanza: il pane di otto once ad un
soldo: la grida è stampata».
«Era
vero poi?» domandò uno degli ascoltanti.
«Vero
come il Vangelo. Volete voi che i canonici venissero in paramenti a dir bugie?
Allora, la gente cominciò a sfilare, e i soldati, con buona maniera, gli
andarono sparpagliando di più e fecero spazzare la piazza del Cordusio.
Ebbene... pareva che non fossero contenti: andavano girandolando per le vie,
come se aspettassero l'occasione di porsi insieme di nuovo. Ma ecco che venne
l'ultima medicina, che fece l'effetto».
«E
fu?...»
«E
fu, unguento di canape: bastò nominarlo, per far guarire tanti matti. Si
fece pubblicare, ed è vera anche questa, che quattro capi erano stati
presi jer sera, e saranno impiccati. Ah! ah! vi dico io che ognuno studiava la
via più corta per andarsene a casa, per non diventare il numero cinque.
Quando io sono uscito da Milano, pareva un monastero».
«Dunque
gli impiccheranno?» domandò un altro uditore.
«Senza
fallo, e presto», rispose il mercante.
«E
la gente che cosa farà?» domandò ancora quegli.
«Anderà
a vedere», rispose ancora il mercante. «Avevano tanta smania di veder morire
qualcheduno all'aria aperta, che volevano far la festa al Signor Vicario di
Provvisione. Puh! che spettacolo un cavaliere ammazzato di mala grazia! Invece
avranno quattro birbanti serviti con tutte le formalità. Quattro!
quattro finora, ma chi sa?... Vi so dire che tutti quelli che jeri e questa
mattina hanno mangiato pane fresco in Milano, se ne stanno coll'olio santo in
saccoccia. Per me, ho testimonj che tutta la giornata di jeri, e tutta la
mattina d'oggi me ne sono stato chiuso in casa: e poi, si sa che noi altri
mercanti siamo nemici dei torbidi...»
«Anch'io
non mi son mosso di qui», disse un ascoltante.
«Non
siamo qui tutti?» disse un altro: «la cosa parla da sè».
«Ohe,
come andrà per Bartolommeo che è andato a Milano appunto jer
l'altro?» disse un secondo.
«Se
avrà avuto giudizio», rispose il mercante, «ne sarà stato fuori,
e non gli accadrà nulla».
«Il
guaio è», disse quegli, «che sta male a giudizio».
«Allora
non so che dire»; rispose il mercante, in aria di chi si rassegna alle sciagure
degli altri.
«Se
io mi fossi anche trovato in Milano, per caso, per caso», disse un terzo, «me
la sarei battuta subito a casa».
«Infatti»,
ripigliò il primo, «in quei garbugli v'è sempre pericolo, e poi,
via bisogna dire il vero, sono cose che non istanno bene. Confesso la
verità che i baccani non mi sono mai piaciuti».
«È
stata una provvidenza vedete», disse il mercante «che l'abbiamo fatta finir
presto: altrimenti, arte per arte, saccheggiavano tutte le botteghe di Milano
coloro».
«Ma
per noi foresi non si farà niente?» domandò un altro: «i milanesi
a buon conto hanno il pane a buon mercato: e noi, povera gente?»
«Sarà
quel che Dio vorrà», disse il mercante, vuotando l'ultimo bicchiere, ed
asciugandosi la barba col mantile. «Non sapete che jeri hanno guastata, e
gittata tanta farina quanta basterebbe a dar da mangiare per due mesi a tutto
il ducato?»
«Dunque»,
disse quegli, «ha da patire il buono pel cattivo?»
«Ma
non avete inteso che gl'impiccheranno?» rispose il mercante.
«L'ho
sempre detto io», disse un altro «che a muover garbugli si fa peggio. Se i
milanesi avessero avuto un po' di giudizio, dovevano porre le mani addosso a
quegli che cominciarono a parlare di far chiasso, e legarli come salsicce, e
condurli alla giustizia».
La
conversazione continuava, ma Fermo ne aveva udito a bastanza: egli se ne era
stato cheto cheto, con l'animo d'un autore che trovandosi sconosciuto presso
tre o quattro uomini di buon gusto, sente fare il processo all'ultima sua
opera: quel poco boccone tanto desiderato gli era tornato in veleno:
però dal veleno pensò a cavare il rimedio d'un buon consiglio; si
alzò, con aria indifferente, pagò il suo scotto, e uscì
dall'osteria, risoluto di non fermarsi fin che non fosse giunto sotto le ali
del leone serenissimo di San Marco. Si avviò su la strada maestra,
premuroso di giunger presto, confidando nelle tenebre che cominciavano a
stendersi su la terra; ma appena dati alcuni passi, pensò che il
passaggio al confine sarebbe stato pericoloso più di notte che di
giorno, e si sovvenne che vi doveva esser l'Adda da passare. Sconfortato
uscì della via, entrò nei campi, e andando al lume della luna,
procurò di dirigere il suo cammino verso quella parte dove gli pareva
che l'Adda dovesse passare. Finalmente sentì il romore del fiume, e
camminando sempre verso quello, giunse presso alla sponda. Ma quivi non v'era
modo di transitare, onde il povero Fermo dopo aver guardato intorno se mai per
caso qualche battello si trovasse su la riva, e non ne vedendo, tornò
tristamente indietro, ed entrato in un bosco che costeggiava il fiume,
s'arrampicò sur un albero, e vi si appiattò, aspettando con
ansietà l'apparire del giorno. Ma la notte era appena incominciata, e il
povero Fermo, ebbe molte ore da meditare in quella sua incomoda stazione. Don Rodrigo,
Don Abbondio, il Vicario, Ferrer, la guida, l'oste di Milano, il notajo, i
birri, il mercante, i curiosi, passavano a vicenda nella sua fantasia; ma
nessuno di costoro conduceva seco una memoria che non fosse di rancore o di
sconforto. Solo due immagini avevano un aspetto consolatore, e spargevano un
po' di luce tranquilla su quel quadro confuso. Se noi inventassimo ora una
storia a bel diletto, ricordevoli dell'acuto e profondo precetto del Venosino,
ci guarderemmo bene dal riunire due immagini così disparate come quelle
che si associavano nella mente di Fermo; ma noi trascriviamo una storia
veridica; e le cose reali non sono ordinate con quella scelta, né temperate con
quella armonia che sono proprie del buongusto; la natura, e la bella natura, sono
due cose diverse. Diciamo dunque con la franchezza d'uno storico, che mentre
quasi tutti i personaggi, coi quali Fermo era stato in relazione, si
schieravano e si affollavano nella sua immaginazione con un aspetto più
o meno odioso, o tristamente misterioso, di modo che, dopo averli contemplati
qualche tempo come forzatamente, essa gli rispingeva, e cercava di farli
sparire, v'era però due immagini nelle quali essa riposava, con una
specie di refrigerio: due volti i quali ricordavano ed esprimevano candore,
benevolenza, affetto, innocenza, pace: quei sentimenti chiari e soavi nei quali
tanto si gode la fantasia degli infelici: e queste due immagini erano una
treccia nera, e una barba bianca, Lucia e il Padre Cristoforo.
Ma
i pensieri che questi volti stessi facevano nascere, eran tutt'altro che di una
gioja pura: alla immagine del buon frate, Fermo sentiva vivamente la vergogna
della cervellinaggine che aveva spiegata nel giorno passato, e della turpe sua
intemperanza: e contemplando Lucia, oltre la stessa vergogna, egli sentiva nel
fondo dell'animo l'assenza, l'incertezza del rivedere, il terrore della
dimenticanza. Meno potente, meno scolpita, ma pure mista anch'essa di
compiacenza e di dolore, gli appariva pure l'immagine di quella povera Agnese,
che lo aveva voluto per figlio, e che a cagione di questo buon pensiero si
trovava ora fuor di casa, e assediata da quelle sollecitudini che non hanno
alcun compenso di consolazione.
Con
questa lanterna magica dinanzi alla mente vegliò Fermo tutta quella
notte: quand'anche i pensieri non gli avessero tolto il sonno, il disagio e il
pericolo della postura, e il freddo, che cominciava a frizzare lo avrebbero
tenuto lontano. Finalmente, quando la luce cominciò a dar forma e colore
alle cose, Fermo guardando attentamente al fiume, vide un pescatore che
costeggiava la sponda, e che slegava un battello; scese dall'albero, e si
avviò a quella parte, e vi giunse prima che il pescatore salpasse.
«Amico,
volete voi farmi il piacere di traghettarmi all'altra riva?» disse Fermo al
pescatore che guardava non senza sospetto lo sconosciuto che a quell'ora gli si
accostava.
«Volentieri»,
rispose il pescatore, dopo aver guardato diligentemente intorno se non v'era
alcun testimonio, e lo accolse nella barca, lo condusse all'altra riva, senza
fargli altro motto. Fermo prima di scendere a riva, cavò una mezza lira,
e la diede al pescatore che, dopo aver fatta qualche cerimonia, la prese, e
condusse la sua barca al largo.
Perché
nessuno si faccia maraviglia della pronta e discreta cortesia del pescatore,
dobbiamo avvertire che quest'uomo era avvezzo ad essere richiesto sovente dello
stesso servizio da contrabbandieri, e da fuorusciti; e la massima forse la
più importante della sua politica di pescatore era di non farsi nemico
nessuno di costoro, perché la sua barca e la sua vita era quasi sempre in loro
balìa. Prestava egli adunque ad essi quel servizio tutte le volte che
potesse farlo senza correre rischio dalla parte di gabellieri, di soldati, o di
esploratori, altre classi ch'egli doveva rispettare per un altro punto della
sua politica. Pigliò dunque Fermo per uomo d'una delle due prime
condizioni, senza darsi briga di appurare quale, e lo servì.
Fermo,
posto piede sulla terra di San Marco, respirò davvero; e, alla prima
insegna che vide, entrò a ristorarsi col cuore più largo.
Sentì quivi pure relazioni e ragionamenti su gli avvenimenti di Milano:
a dir vero egli avrebbe potuto rettificare in molte parti i fatti e le
riflessioni; ma da quei fatti egli aveva appunto imparato a tacere. Continuò
la sua strada, giunse a Bergamo, fece inchiesta di quel suo cugino, e gli si
presentò.
Era
questi lavoratore di seta, come Fermo, e uno di quei tanti che vedendo mancarsi
il lavoro a cagione delle discipline assurde che a quei tempi erano prescritte nel
milanese, e dei pesi insopportabili d'ogni genere, avevano portata la loro
industria in un altro stato, dov'erano bene accolti e protetti. Massajo, e
diligente in sei anni da che si trovava a Bergamo, aveva egli fatta una
provvigione che gli era di grande soccorso in quell'anno malvagio. Rivide egli
con piacere Fermo che aveva instradato nei lavori della seta, e a cui aveva
fatto da padre, e lo accolse lietamente, prese parte alle sue traversie, e gli
promise intanto di procacciargli lavoro. «Se non ne troveremo», soggiunse,
«starai con me, mangeremo insieme un po' di pane; e quando torneranno gli anni
grassi, mi pagherai di tutto, e farai un buon marsupio anche per te». Se quel
brav'uomo avesse letto Virgilio non avrebbe mancato di dire in questa occasione:
Non ignara mali miseris succurrere disco: perché in fatti questo era il
suo sentimento.
Lasceremo
per ora Fermo, giacché si trova in una situazione tollerabile, e torneremo alla
sua e nostra Lucia.
CAPITOLO IX
Dobbiamo
ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava Lucia.
Don
Valeriano, capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia illustre che pur troppo
terminava in lui, uomo tra la virilità e la vecchiezza, era di mediocre
statura, e tendeva un pochetto al pingue, portava un cappello ornato di molte
ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano penzoloni e d'altre
non rimaneva che un torso: sotto a quel cappello si stendevano due folti
sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte per
sè, e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si
ricomponevano mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una
minestra: sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di merletti
finissimi di Fiandra lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa
di... sfilacciata qua e là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico
di argento mirabilmente cesellato, e col fodero spelato gli pendeva dalla
cintura; due manichini della stessa materia, e nello stesso stato della gorgiera
uscivano dalle maniche strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti
sfolgorava talvolta, nell'una delle due sudicie sue mani: talvolta; perché
quell'anello passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d'un
usurajo; e in quegli intervalli, Don Valeriano gestiva alquanto meno del
solito.
Questo
contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del suo carattere
e delle sue circostanze. Don Valeriano portato al fasto e alla trascuraggine
era anche ricco e povero. Già da molto tempo aveva egli divorato a furia
di sfarzo, e lasciato divorare a furia di negligenza e d'imperizia il suo
patrimonio libero; e sarebbe egli rimasto povero del tutto e per sempre, se un
suo sapiente antenato non avesse anticipatamente provveduto a quel caso,
istituendo un pingue fedecommesso. Don Valeriano quindi, benché nell'animo non
fosse molto dissimile dal selvaggio di Montesquieu, non poteva, com'egli,
abbatter l'albero per coglierne il frutto: e non poteva far altro che lanciar
pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato. Viveva di prestiti: e per
trovarne doveva ricorrere ai più spietati usuraj; e subire le più
rigide leggi che essi sapessero inventare, e per supplire alla legge comune che
non dava loro alcun mezzo di ricuperare il prestato, e per pagarsi del rischio.
E siccome nelle idee di Don Valeriano le pompe e il fasto tenevano il primo
luogo, così alle pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che
toccavano le sue mani; e il necessario pativa.
In
mezzo a queste cure incessanti Don Valeriano non aveva lasciato di coltivare il
suo ingegno, e senza essere un dotto di mestiere, poteva passare per uno degli
uomini colti del suo tempo. Possedeva una libreria di varie materie, la quale
per poco non aggiungeva ai cento volumi; e aveva impiegato su quelli abbastanza
tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle scienze più
importanti e più in voga: teneva i principj, e quindi non era mai
impacciato nelle applicazioni. L'astrologia era uno di quei rami dell'umano
sapere, nei quali Don Valeriano era versato.
Sapeva
non solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le influenze
che hanno in ciascuna i diversi pianeti: ma conosceva anche in parte la storia
della scienza, la quale è parte della scienza stessa: ne conosceva i
cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e ci doveva nascere:
giacché essendo il cielo un gran libro, e il cielo dell'Assiria molto sereno,
è naturale che ivi si cominci a leggere, dove i libri sono più
chiari e intelligibili; sapeva a memoria un buon numero delle più
stupende e clamorose predizioni che si sono avverate in varii tempi: e aveva in
pronto gli argomenti principali che servivano a difendere la scienza contra i
dubbj e le obiezioni dei cervelli balzani degli uomini superficiali e presuntuosi
che ne parlavano con poco rispetto; perché anche a quel tempo v'era degli
uomini così fatti. Della magia aveva pure una cognizione più che
mediocre, acquistata non già con la rea intenzione di esercitarla, ma
per ornamento dell'ingegno, e per conoscere le arti così dannose dei
maghi e delle streghe, e potere così entrare a parte della guerra che
tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del genere umano. Il
suo maestro e il suo autore era quel gran Martino del Rio il quale nelle sue Disquisizioni
magiche aveva trattata la materia a fondo, aveva sciolti tutti i dubbj, e
stabiliti i principj che per quasi due secoli divennero la norma della maggior
parte dei letterati e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte
fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col
vigore dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione publica, che il
metter dubbio su la esistenza delle streghe era diventato un indizio di
stregheria. A un bisogno Don Valeriano sapeva parlare ordinatamente e anche
luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del maleficio
sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i segreti dei
congressi delle streghe, come se vi avesse assistito. Aveva più che una
tintura della storia in grande, per aver letta più d'una volta quella
eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi singolarmente quella
del tempo dei paladini, che aveva studiata nei Reali di Francia. Per la
politica positiva aveva egli principalmente rivolte le opere dell'immortale
Botero; e conosceva assai bene la politica di Spagna, di Francia, dell'Impero,
dei Veneziani e di tutti i principali stati Cristiani; e poteva pur dare una
occhiatina anche nel Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato
per gran tempo il Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al secondo
posto nel concetto di Don Valeriano e cedere il primo a quel gran Valeriano
Castiglione che in quello stesso anno aveva dato alla luce la sua opera dello Statista
Regnante dove tutti gli arcani i più profondi, e i più
reconditi precetti della ragione di stato sono trattati con un ordine nuovo e
sublime. E bisogna confessare che il nostro Don Valeriano prevenne il giudizio
del mondo sul merito del Castiglione: poco dopo Urbano VIII lo onorò
delle sue lodi, Luigi XIII per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo
chiamò in Francia per esservi Istoriografo, Carlo Emmanuele di poi gli
affidò lo stesso ufizio, il Card. Borghese e Pietro Toledo vicerè
di Napoli, lo pregarono, invano però, di scrivere storie, e fu
finalmente proclamato il primo Scrittore dei suoi tempi.
Quanto
alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e non teneva
nella sua biblioteca, né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride; giacché come
abbiam detto Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto
semplicemente: sapeva però le cose le più importanti e le
più degne di osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione
esatta dei draghi e delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel
pescerello, ferma una nave nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue
ceneri, che la salamandra è incombustibile, che il cristallo non
è altro che ghiaccio lentamente indurato.
Ma
la materia nella quale Don Valeriano era profondo assolutamente, era la scienza
cavalleresca, e bisognava sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni, di
paci, di mentite: Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il Muzio, la
Gerusalemme liberata e la conquistata, e i dialoghi della nobiltà, e
quello della pace di Torquato Tasso, gli aveva a mena dito; i Consigli e i
Discorsi cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più
logori della sua biblioteca. Anzi Don Valeriano affermava, o faceva intendere
spesso che quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi
più rematici; e parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione
che meritavano, e che per verità ottenevano da tutti, Don Valeriano
aggiungeva misteriosamente: «Basta: ho messo anch'io un zampino in quei libri».
Ma
gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don Ferrante, che non
ne restasse qualche parte anche alle lettere amene: e senza contare il
Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti di quel tempo, egli aveva
pressoché tutto a memoria, non gli erano ignoti né il Marino, né il Ciampoli,
né il Cesarini, né il Testi: ma sopratutto aveva fatto uno studio particolare
di quel libretto che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel
quale, diceva Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle parole Fato,
Sorte, Destino e somiglianti era pensiero pellegrino, ed arguto. Aveva poi un
tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello stesso grand'uomo;
e su quelle si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di scrivere per
qualche negozio, o per isciogliere qualche ingegnoso quesito che gli veniva
proposto: e a dir vero le lettere di Don Ferrante erano ricercate con qualche
avidità, e giravano di mano in mano per la scelta e la copia dei
concetti e delle immagini ardite, e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di
porre la questione, e di guardare le cose; stavano però male di
grammatica e di ortografia. Vi sarebbero molte altre cose da dire, chi volesse
compire il ritratto di questo personaggio; ma per amore della brevità,
ce ne passeremo, tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella
nostra storia. Veniamo dunque alla sua signora Consorte. Donna Prassede, per
ciò che risguarda il sapere, era molto al di sotto di suo marito. Il suo
ingegno a dir vero non era niente straordinario, ed essa non si era mai data
una gran briga di coltivarlo, almeno sui libri. Ma siccome la mente umana non
può vivere senza idee, così Donna Prassede aveva le sue, e si
governava con esse, come dicono che si dovrebbe fare cogli amici.
Ne
aveva poche, ma quelle poche le amava cordialmente, e si fidava in esse
interamente, e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe anche
avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa; e pare che
il carattere straccurato di Don Ferrante avrebbe dovuto servire a maraviglia a
questo desiderio della consorte; ma v'era un grande ostacolo. La più
parte delle idee in questo mondo non possono esser messe ad esecuzione senza
danari: ora Don Ferrante poco o nulla curandosi del governo della casa, aveva
però ritenuto sempre presso di sè il ministero delle finanze; e a
dir vero gli affari ne erano tanto complicati, che ormai nessun altro che egli
avrebbe potuto intendervi qualche cosa.
Aveva
Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e allo
spirare d'ogni termine dopo un po' di guerra, un po' di schiamazzo, molte
minacce di svergognare il marito in faccia ai parenti, veniva essa a capo di
riscuotere la somma che le era dovuta. Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza,
tutta l'insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare
un danajo dalla borsa di Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero,
erano impegnate a pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio
fastoso di Don Ferrante. Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che
su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone addette
specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don Ferrante lasciava
fare; poteva ella in somma dare tutti gli ordini l'esecuzione dei quali non
portasse una spesa, o che non fossero in opposizione alle abitudini e alle
volontà risolute di Don Ferrante. La sua gran voglia di comandare,
ristretta in questo picciol campo vi si esercitava con una energia singolare.
Donna Prassede profondeva pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor
più a quelli che dovevano sentirla: e per quanto dipendeva da lei non
avrebbe lasciato deviar nessuno d'un punto dalla via retta. Perché, a dire il
vero, questa smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata;
era puro desiderio del bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo
discerneva istantaneamente in qualunque alternativa, in qualunque complicazione
di casi le si fosse affacciata da esaminare: e quando una volta aveva veduto e
detto che quello era il bene, non era possibile ch'ella cangiasse di parere; e
per farlo riuscire predicava ed operava fintanto che avesse ottenuto l'intento,
o la cosa fosse divenuta impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare
per convincere tutti che avrebbe dovuto riuscire.
Sotto
due padroni così diversi di inclinazioni e di occupazioni, la famiglia
era come divisa in due classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali aveva
nella famiglia stessa un capo; le due persone cioè che erano più
innanzi nella confidenza dell'uno e dell'altro padrone. Prospero il maggiordomo
di casa, e il favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto e
composto, dotto a tutto fare e a tutto soffrire, abile a trattare gli affari, e
a parlarne senza mai proferire le parole che potevano far sentire gl'impicci, o
offendere la dignità del padrone, sapeva suggerir a proposito un invito
da fare onore alla casa, trovare un cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta
che una rata di pagamento stava per entrare nella cassa di Don Ferrante, e
sapeva trovare un prestatore ogni volta che la cassa era asciutta.
L'antesignano
dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna Prassede era nominata
molto variamente. Il suo nome proprio era Margherita, ma dalla padrona era
chiamata Ghita, dalle donne inferiori a lei, e dai paggi di Donna Prassede
Signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante quando parlavano fra di loro
non era mai menzionata altrimenti che la Signora Chitarra. Pretendevano costoro
che il suo collo lungo, la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la
vita serrata dal busto, e le anche allargate la facessero somigliare alla forma
di quello strumento: e che la sua voce acuta, scordata, e saltellante imitasse
appunto il suono, che esso dà quando è strimpellato da una mano
inesperta.
Esercitava
essa sotto gli ordini immediati della padrona la più severa vigilanza
sulle persone che dipendevano da questa, ed era ministra di tutto il bene
ch'ella poteva fare in casa e fuori. Ma quanto alla gente di Don Ferrante, essa
non poteva fare altro che notare tutte le azioni disordinate che essi
commettevano, disapprovare con qualche cenno, o al più con qualche
frizzo, e riferire poi il tutto alla padrona, la quale pure non poteva fare
altro che gemere con lei. Prospero com'è naturale era l'oggetto
principale di avversione per Donna Prassede, ma inviolabile com'egli era, se ne
burlava in cuore; non lasciando però di corrispondere con riverenze
profonde agli sgarbi della padrona, che rendeva poi con usura in tutte le
occasioni alla Signora Chitarra. Benché questi due capi col loro predominio
fossero passabilmente incomodi ognuno alla parte della famiglia che dirigeva,
pure l'una parte e l'altra aveva sposate le passioni e le animosità del
suo capo; l'una faceva crocchio a mormorare dell'altra; quando si trovavano in
presenza, si scambiavano visacci, e talvolta parolacce, cercavano
scambievolmente di farsi scomparire e d'impacciarsi a vicenda nella esecuzione
degli ordini ricevuti. Don Ferrante però aveva appena qualche sentore di
questa guerra sorda, perché egli non osservava molto, e Prospero non si curava
di parlargli di malinconie e le querele della moglie, le attribuiva Don
Ferrante ad inquietudine di carattere, a giuoco di fantasia, come le domande di
quattrini.
Lucia
si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede, la quale
certamente non intendeva di lasciare questa autorità in ozio. Si
proponeva ella a dir vero di farsi ben servire da Lucia nella parte che le
aveva assegnata; ma oltre questo fine, che era semplicemente di giustizia,
Donna Prassede ne aveva un altro di carità disinteressata a suo modo,
che le stava a cuore ancor più del primo, ed era di far del bene a
Lucia, o di Lucia, la quale le pareva averne gran bisogno. Perché tutto
ciò che Donna Prassede nella sua villeggiatura aveva udito, per la voce
pubblica, della innocenza di quella giovane, le affermazioni magnifiche ed
energiche di Agnese quando era venuta a proporle la figlia, il volto, il
contegno modesto, la condotta stessa così irreprensibile di Lucia non
bastavano a produrre un pieno convincimento nella mente di Donna Prassede; e
non poteva essa persuadersi che una giovane contadina avesse levato tanto
romore di sè, fosse passata per tanti accidenti, senza averne cercato
nessuno, senza essersi gittata un po' all'acqua, come si dice, senza essere
almeno una testa leggiera.
Donna
Prassede teneva per regola generale che a voler far del bene bisogna pensar
male: la sua voglia di dominare, di operare su gli altri, che anche ai suoi
occhi proprj prendeva la maschera di carità disinteressata, era come il
ciarlatano, che non dice mai a chi viene a consultarlo: «voi state bene»;
perché allora a che servirebbe l'orvietano? Oltracciò, l'aver
ricoverata, sottratta al pericolo d'una infame persecuzione una povera giovane
era un'opera certamente non senza gloria; però in questo Donna Prassede
non era più che uno stromento quasi passivo, e la parte che le era
toccata non domandava altro che un po' di buona volontà, senza efficacia
di azione, e senza esercizio di senno, era più un assenso che una
impresa. Ma dopo aver ricoverata la povera giovane, emendare anche il suo
cervello un po' balzano, rimetterla sulla buona strada, questo sarebbe stato
non solo compire, ma rassettare l'opera del Cardinale Federigo; il quale era a
dir vero un degno prelato, un uomo del Signore, dotto anche sui libri, ma
quanto ad esperienza di mondo, a discernimento di persone, non ne aveva molto:
questa insomma sarebbe stata gloria; e perché Donna Prassede potesse ottenerla,
era necessario che Lucia avesse il cervello un po' balzano, e avesse fatto
almeno qualche passo su una cattiva strada. Per averne qualche prova positiva,
Donna Prassede richiese qua e là informazioni intorno a quel Fermo a cui
Lucia era stata promessa, e sulle avventure, sulla fuga del quale Donna
Prassede aveva intese in villa voci confuse, discordi, ma tutte poco buone. Le
informazioni furono quali dovevano essere: che quel giovane era un facinoroso,
venuto a Milano per metterlo sossopra, per fare il capopopolo, ch'era stato
nelle mani dei birri, a un pelo dalla forca; e se ora respirava tuttavia in
paese straniero, lo doveva alla sua audacia nel resistere alla giustizia, e
alla celerità delle sue gambe. Questa notizia confermò il
giudizio di Donna Prassede, e le diede materia per le sue operazioni. Dimmi con
chi tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come tutti i
proverbj, non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di
rendere infallibile l'applicazione che ne fa chi lo cita. Lucia aveva dunque
infallibilmente, non già tutti i vizj, che sarebbe stato dir troppo, ma
una inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il giudizio di Donna Prassede. E
il bene da farsi era non solo d'impedire che Lucia ricadesse mai nelle mani di
Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma corrispondenza; bisognava andare alla
radice, al più difficile, guarire Lucia, farle far giudizio, togliere da
quel cervellino l'attacco per colui; attacco che a dir vero era il solo vizio
essenziale di Lucia. Questa allora sarebbe divenuta al tutto una buona
creatura; e chi avrebbe avuto tutto il merito dell'impresa? Donna Prassede.
La
prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza esteriore sopra
Lucia era particolarmente affidata alle cure di Ghita. Doveva essa tenerle
sempre gli occhi addosso, accompagnarla alla Chiesa, spiare s'ella parlava a
qualcheduno, se qualcheduno le faceva un cenno, osservare attentamente che
qualche messo nascosto non le si accostasse. Compresa e piena dell'uficio che
le era imposto, Ghita nella via andava sempre con gli occhi sbarrati, e
sospettosi; e siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava gli sguardi,
così la guardiana si trovava spesso nel caso di fare il viso dell'arme
ai guardatori, o almeno di far loro intendere ch'ella vegliava, e che la loro
mina era sventata: e quando s'avvedeva che la sua aria di sospetto e di minaccia
femminile, invece di stornare i tentativi, avrebbe provocata l'insolenza,
pericolo comunissimo a quei tempi, allora accelerava il passo, e lo faceva
accelerare a Lucia. In Chiesa poi, se uno di quegli che si trovavano sui banchi
vicini aveva guardato attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita, continuando
a mormorare le sue orazioni, non pensava più che a guardare il suo
deposito. Aveva inoltre l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere
scoperta, nelle tasche di Lucia, per vedere se mai ella ricevesse qualche
lettera. Questa precauzione avrebbe potuto sembrare inutile, giacché, (e qui
dobbiamo apertamente confessare una cosa che finora si è appena indicata
e lasciata indovinare) la nostra eroina non sapeva leggere: ma Ghita pensava
che le precauzioni non sono mai troppe. Quello poi che in questo procedere vi
poteva essere d'indelicato, non riteneva Ghita per nulla; essa non vi
sospettava nemmeno nulla di simile; non conosceva né la parola né l'idea; anzi
la parola in questo senso non esiste neppure ai nostri giorni nella lingua
pura, e noi adoperandola sappiamo d'essere incorsi in un brutto neologismo.
Finalmente, doveva Ghita cercare di scovare nei discorsi di Lucia se mai ella
avesse qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita, farla ciarlare artificiosamente
su tutti quegli incidenti che avevano dato a Ghita qualche sospetto.
Ebbene,
signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di operazioni, tutto questo
lavorare sott'acqua non dava quasi nessun incomodo a Lucia; o per dir meglio
ella non se ne avvedeva; e benché non potesse a meno di non sentire qualche
cosa di minuto e di pettegolo nella sollecitudine continua di Ghita, pure lo
attribuiva alla indole di lei, e non mai a un disegno profondo, e comandato. I
pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo principale della sua
vita, la portavano alla ritiratezza, ad astenersi da ogni comunicazione; e
quindi ella non era avvertita dolorosamente di ciò che altri facesse per
rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva naturalmente. In altri tempi
quella situazione così nuova, così opposta alle sue abitudini,
così lontana dalle sue affezioni, le sarebbe stata penosissima, ma la
facilità ch'ella vi trovava di ottenere quel suo scopo faceva ch'ella vi
stesse con rassegnazione, e quasi vi riposasse se non con piacere, almeno col
desiderio di farsela piacere. E il suo scopo era tuttavia quello di cui abbiamo
già parlato: scordarsi di Fermo. Si studiava ella quindi di rinchiudere
tutte le sue idee nella casa dove era stata allogata, di ristringerle alle sue
occupazioni, si metteva con grande intensione a tutte le cose che le erano
comandate, si rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti
doveri che occupassero tutta la sua giornata, che non le dessero agio di
correre con la mente a desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi nelle memorie
d'un passato irreparabile.
Le
memorie tornavano però sovente a tormentarla; l'immagine della madre
era, sempre la prima a presentarsi; e mentre Lucia si fermava a contemplarla
con sicurezza, con una mesta affezione, l'immagine di Fermo che le stava dietro
nascosta, si mostrava. Lucia voleva rispingerla tosto; ma l'immagine che non
voleva andarsene aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso, per obbligare
Lucia a trattenerla almeno un momento: le ricordava in aria trista e non senza
rimprovero i pericoli che Fermo aveva corsi, e quelli che forse gli
soprastavano ancora, le rimostrava che quando anche un nuovo dovere può
far rinunziare ad un affetto, già così lecito, già
così caro, non deve, non vuol però togliere la pietà, la
sollecitudine, la carità del prossimo. Lucia combatteva, rivolgeva la
mente ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella prima, tutte la
richiamavano. I luoghi, le persone: Don Abbondio avrebbe dovuto pronunziare
quelle parole, per cui ella sarebbe stata di Fermo: i consigli, le cure, del
Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per Fermo: fino il monastero di
Monza, fino il Castello del Conte, fino il cardinale Federigo, tutto si legava
a Fermo, e molte volte Lucia ripensando a tutto questo, si accorgeva ch'ella si
era immaginata di raccontar tutto a Fermo. Con tutto ciò, ella
combatteva, e la guerra sarebbe stata, se non sempre vinta, pure meno aspra e
meno dolorosa; Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo almeno andargli
sempre da presso, se questo scopo non fosse stato anche quello di Donna
Prassede.
La
brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva trovato mezzo
migliore che di parlargliene spesso. La faceva chiamare a sè, e seduta
sur una gran seggiola con le mani posate e distese sui bracciuoli di qua e di
là dei quali pendevano le maniche della zimarra di dammasco rabescato a
fiori, che era stato l'abito di moda nei bei giorni di Donna Prassede, nel
tempo in cui v'era buona fede e semplicità, in cui tutti, fino i
giovani, erano savj ed onesti, col volto imprigionato tra un cappuccio di
taffetà nero che copriva la fronte, e una enorme lattuga che girava
intorno alla gola e sul mento, Donna Prassede ricominciava la sua predica per
provare a Lucia ch'ella non doveva più pensare a colui. La povera Lucia
protestava da principio con voce angosciosa, e timida, ch'ella non pensava a
nessuno. Donna Prassede non voleva mai stare a questa ragione, e ne aveva molte
da opporre: «So come vanno le cose», diceva ella, «conosco il mondo: so come
son fatte le giovani: se v'è un ribaldo, è sempre il più
accetto. Fate che per qualche accidente non possano sposare un galantuomo, un
uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno scavezzacollo: non se
lo possono cavar dal cuore. Eh figlia mia, non basta dire: — non penso a
nessuno —: vogliono esser fatti, fatti e non parole». Così seguendo una
sua idea, che è anche quella di molti altri, che per far passare in una
testa ripugnante i proprj sentimenti, bisogna esprimerli con molta efficacia,
adoperare i termini i più forti ed anche esagerati, Donna Prassede non
risparmiava i titoli al povero assente, lo nominava come un oggetto d'orrore,
di schifo, faceva sentire che sarebbe stata cosa inconcepibile, mostruosa, che
alcuno potesse avere interessamento, e peggio inclinazione per colui.
Così
ella otteneva appunto l'intento opposto a quello ch'ella si proponeva. Lucia
cercava di dimenticar Fermo; ma quando una parola sgraziata, e nemica glielo
voleva a forza rimettere nella mente in un aspetto odioso e spregevole, allora
tutte le antiche memorie si risvegliavano ed accorrevano per rispingere una
immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era stata avvezza a
compiacersi. Il disprezzo con che il nome di Fermo era proferito faceva
ricordare a Lucia la condotta, il contegno, il buon nome di Fermo, tutte le
ragioni per cui ella lo aveva stimato; l'odio faceva risorgere più
risoluto l'interesse; l'idea confusa dei pericoli ch'egli aveva corsi, anche
dei falli ch'egli poteva aver forse commessi, pericoli e falli che Donna
Prassede rinfacciava a Lucia con eguale amarezza come un egual motivo di
avversione, suscitavano più viva e più profonda la pietà,
e da tutti questi sentimenti rinasceva quell'amore, che Lucia si studiava tanto
di estinguere. L'amore, acconsentito o combattuto, che sia, dà a tutti i
discorsi una forza e un vigore suo proprio. Lucia diventava coraggiosa, e
giustificava Fermo: e Donna Prassede approfittava di quelle parole come d'una
confessione per provare a Lucia che non era vero ch'ella non pensasse
più a lui. E con questa prova in mano lavorava sempre più
animosamente sull'animo di Lucia, facendole vedere chi era colui ch'ella ardiva
pure di difendere. E che doveva ringraziare il cielo che la cosa fosse finita a
quel modo, altrimenti le sarebbe toccato un bel fiore di virtù. Buon per
lui che le gambe lo avevano servito bene, altrimenti, avrebbe fatto una bella
figura, avrebbe tenuta compagnia a quei quattro altri galantuomini... Quando la
grossolana signora toccava tasti d'un suono così orribile, la povera
Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra il
grembiale, portarlo al volto per nasconderlo, e per ricevere le lagrime che le
sgorgavano dirottamente.
Se
Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare vendetta
di qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che producevano le sue parole
gliele avrebbe forse fatte morire in bocca o cangiare in parole più
dolci; ma Donna Prassede parlava per fare il bene, e non si lasciava smuovere:
a quel modo che un grido supplichevole, un gemito di terrore potrà ben
fermare l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a
Lucia tutte le amare parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna
Prassede, che non era trista in fondo, la rimandava con qualche parola di
conforto e di lode, e rimaneva sempre soddisfatta di avere acconciato un po' il
cuore di quella giovane. Acconciato come una gala di mussolo, stirata da un
magnano. La povera Lucia riconoscendo la buona intenzione pregava però
caldamente che queste prove d'interessamento le fossero risparmiate.
Donna
Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra Lucia, che
sarebbe stato il compimento dell'opera. Silietta si compiaceva molto nella compagnia
di quella giovane che era la sola in casa che le desse retta, e la lasciasse
parlare; e Donna Prassede pensava che si sarebbe fatto un gran benefizio a
Silietta e a Lucia stessa, se si fosse potuto farle nascere la vocazione di
andar conversa nel monastero dove Silietta doveva esser monaca.
Quivi
Lucia sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di Donna
Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia
sarebbe divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della sua
padrona. Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con
quell'arte sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far nascere
spontaneamente nel cuore di Lucia questo desiderio.
A
poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più
chiare; e Lucia, cominciava a comprenderle, ma però senza che le
cominciasse la voglia di acconsentirvi. V'era nulladimeno per essa un gran
vantaggio, che Donna Prassede cadeva meno spesso, e con meno impeto su quel
primo, più doloroso argomento, tanto più doloroso, perché Lucia
non aveva con chi esilararsi della tristezza angosciosa che quei discorsacci le
cagionavano. La nostra Agnese era lontana, a casa sua, dove pensava sempre a
Lucia; e andava spesso alla villa di Donna Prassede per saper le nuove di
Lucia; e le nuove le erano sempre date ottime, coi saluti della figlia. La
buona donna si struggeva di rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi,
con quelle strade, con quella scarsezza di comunicazioni, coi bravi, coi
boschi, quella era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si
rassegnava all'idea di esser lontana da sua figlia, come ai nostri giorni
farebbe una madre della condizione di Agnese, che avesse una figlia collocata
in Inghilterra.
La
povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con
Fermo. Quantunque egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure,
sapendo com'egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo.
Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia; dico, faceva
scrivere, perché i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non
conoscevano l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e interpretare
le lettere, e incaricava pure altri della risposta. Chi ha avuto occasione di veder
mai carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi. Colui che fa
scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte
frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento,
parte non lo esprimere come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è
indiritta, se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora
interprete, e con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di
filo che l'altro aveva afferrato: di modo che le due parti finiscono a
comprendersi fra loro come due filosofi trascendentali. Il peggio è
quando la situazione della quale si vuol render conto è complicata, e i
disegni e le proposte che si voglion fare, sono contingenti e condizionate.
Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di stabilirsi a Bergamo, di viver
quivi della sua professione, e di farsi con quella anche un po' di scorta, di
preparare un buon letto a Lucia, e che allora essa venisse a Bergamo con la
madre ed ivi si concludessero le nozze. Ma i tempi non erano propizii: l'amore,
che dipinge le cose facili, bastava bensì a persuadere a Fermo che il
suo disegno si sarebbe potuto eseguire in seguito; ma non poteva nascondergli
che per allora era ineseguibile.
Bisognava
adunque che Fermo facesse intendere ad Agnese questo miscuglio di speranze
fondate anzi certe, e di impaccio attuale, di sì nell'avvenire, e di no
nel presente. Agnese ricevette la lettera dopo il ritorno da Monza, intese e
fece rispondere come potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito, che la
voce ne giunse a Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della
liberazione. Pure ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie.
Se Lucia fosse rimasta nel suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto
dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi, come
che fosse, vi sarebbe andato. Ma egli seppe anche che Lucia era partita per
Milano; e in tale circostanza non solo il pericolo diventava per Fermo
incomparabilmente maggiore, ma il tentativo incomparabilmente più
difficile, e l'evento quasi disperato. Dovette egli dunque contentarsi di
chiedere schiarimenti ad Agnese. La buona donna trovò il mezzo di fargli
avere per mezzo d'un mercante quei cento scudi che Lucia aveva destinati a lui,
ed una lettera, nella quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di tutto
l'accaduto. Ma questa lettera non isgombrò le inquietudini, e le
ansietà di Fermo; anzi i cento scudi le accrebbero: — giacché —, pensava
egli, — ora che Lucia per una ventura inaspettata possiede tanto che basta
perché noi possiamo viver qui marito e moglie, perché non viene ella, e mi
manda invece questi denari, come un dono, come una elemosina, come... (e qui
Fermo si sentiva scoppiare)... come un congedo? Voglio io denari da lei? E se
ella non è mia, pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? — Per
quanto Agnese avesse cercato di fargli scriver chiaro che Lucia dallo spavento
in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla vista di quei denari,
e dati a quel modo, era assalito da mille dubbi torbidi e strani. Le lettere
che egli faceva scrivere a Lucia, cadevano tutte in mano di Donna Prassede, la
quale certo non le consegnava a cui erano indiritte, ma pel meglio, le leggeva,
e si regolava su le notizie che ne ricavava. Fermo sempre più inquieto
chiedeva ad Agnese la spiegazione di quei dubbii e del silenzio di Lucia.
Quand'anche Agnese avesse saputo scrivere non avrebbe potuto soddisfare il
poveretto, perché la cagione del silenzio le era ignota, ed essa pure non
capiva bene il contegno di Lucia con Fermo. La spiegazione di tutto era nel
voto fatto da Lucia, e che essa non aveva confidato né meno alla madre. La
corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi fin che essa fu
interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel volume seguente.
TOMO QUARTO
CAPITOLO I
Dalla
fine dell'anno 1628 alla quale siamo pervenuti con la narrazione, in sino alla
metà del 1630, i nostri personaggi, quale per elezione, e quale per
necessità si rimasero a un dipresso nello stato, in cui gli abbiamo
lasciati; e la loro vita non offre in questo tempo quasi un avvenimento che ci
sembri degno di menzione. Qualche fatto, benché molto grave per taluno dei
nostri eroi, non produsse però mutazione nello stato degli altri. Pare
quindi che noi dovremmo saltare a piè pari al punto in cui la nostra
storia ripiglia un movimento, e un progresso generale.
La
storia pubblica però di quell'anno e mezzo è piena di successi; e
noi non possiamo dispensarci dal riferirli, da essi e con essi nacquero gli
eventi privati che formeranno la materia ulteriore del nostro racconto. Quei
successi varii e moltiplici si riducono a tre principali: fame, guerra, e
peste: lo dichiariamo sul bel principio, affinché quei lettori che amano cose
allegre, possano gettar tosto il libro, e non abbiano poi a lagnarsi di non essere
stati avvisati in tempo.
Dopo
la bella spedizione del giorno di San Martino, parve per qualche tempo che
l'abbondanza invocata da una parte con tanti urli, promessa dall'altra con
tanta sicurezza, fosse venuta davvero. Il pane a quel modico prezzo che abbiam
detto; e questa volta non per una ipotesi violenta, ma per un compenso che i
Decurioni coi denari della città avevano stabilito ai fornaj: i forni
sempre ben provveduti: tutto sarebbe andato bene, se le cose avessero potuto
durare così fino al raccolto: vale a dire se l'impossibile fosse
divenuto possibile.
È
cosa istruttiva e curiosa l'osservare per quali modi i disegni assurdi vadano a
male, le volontà insipienti sieno frustrate, notare i principj, i
progressi, la varietà degli inciampi e delle resistenze, gli effetti non
premeditati nel disegno, e che nascono necessariamente ad impedire l'effetto
voluto e promesso. Noi abbiamo fatte molte ricerche negli atti pubblici e nelle
memorie degli scrittori, per tener dietro alla storia di quei provvedimenti
annonarj; ma il filo che a gran fatica abbiam potuto prendere da quella matassa
scompigliata appena ci ha condotti per un breve tratto, ci ha fatti
raccappezzare gli effetti più prossimi. Ed eccoli quali risultano da
autentici documenti.
Quelli
che avevano denari oltre il bisogno quotidiano, correvano in folla ai forni a
comperar e ricomperare pane, ai mercati a comperar e a ricomperare farine, per
farne provvigioni. Appariva quindi manifestamente che il ribasso del prezzo
fatto ad intendimento di dare pane ai poveri, tendeva invece a farlo tutto
venire in potere dei facoltosi. Grida dei 15 novembre, che proibisce il
comperar pane e farine per più che il bisogno di due giorni, sotto pene
pecuniarie e corporali ad arbitrio di S.E., ordine agli anziani, insinuazione a
tutti di denunziare i contravventori, ordine ai giudici di fare perquisizioni
per le case. Come si facciano denunzie e perquisizioni è cosa facile da
capirsi; ma quello che nessuno potrà capire davvero né immaginare, si è
come con questi mezzi si potesse colpire tanti contravventori da impedire, o da
diminuire sensibilmente quella tendenza a fare scorta per l'avvenire.
Un
consumo così straordinario in tempi di grande scarsezza doveva rendere
difficile a rinvenirsi la materia prima sufficiente: quindi la grida del 23 di
novembre che sequestrava in mano degli affittuarj e di chi che altri fosse la
metà del riso da essi posseduto (il riso allora entrava nella
composizione del pane comune) e la riteneva agli ordini del Vicario e dei
dodeci di Provvisione per l'uso della città. Ma questa città che
aveva assunto l'impegno di mantenere il pane al prezzo d'un soldo per otto
once, pagando la differenza tra il prezzo reale dei grani, non possedeva tesori
inesausti, era anzi imbrattata di debiti, e non sapeva dove darsi di capo per
aver danari: perché dunque essa potesse mantenere l'impegno, Grida dei 7
dicembre, che obbliga i possessori del riso a venderlo, non brillato, al prezzo
di L.
A
questo punto, con nostro rammarico, e forse con un maligno piacere dei lettori,
ci mancano ad un tratto gli atti autentici; e tutte le memorie storiche che ci
è stato possibile di consultare non hanno più nulla né sul prezzo
del pane, né sugli altri regolamenti dell'annona. Fanno soltanto il quadro
dello stato del paese in quell'anno 1629, fino al raccolto; ed ecco la copia di
quel tristo quadro.
Chiuse
o deserte le botteghe, e le officine; gli operaj vaganti per le vie, smunti,
scarnati, tendendo la mano ad accattare, o esitando ancora tra il bisogno e la
verecondia. Misti agli operaj i contadini venuti alla città, traendo i
vecchj e le donne coi fanciulli in collo, e mostrandoli ai passaggeri, e
chiedendo che si desse loro da vivere con una querimonia impaziente, con
isguardi abbattuti e pur torvi. Misti agli operaj e ai contadini molti di quei
bravi, già rilucenti d'arme e spiranti una leziosaggine ardimentosa, ora
abbandonati dai loro signori, erravano mezzo coperti d'un resto dei loro abiti
sfarzosi, domandando supplichevolmente, e guardando con sospetto per non
tendere inavvertentemente la mano disarmata e tremante a tale su cui l'avessero
altre volte levata repentina a ferire. Spettacolo che avrebbe rallegrate molte
ire, se il sentimento di tutti non fosse stato assorto nella miseria e nel
patimento comune.
Nè
questi soli, ma di altra varia origine nuovi mendichi confusi coi mendichi di
mestiere si aggiravano, o si strascinavano per la città, e nell'abito, e
nei modi mostravano indizj dell'antica condizione e della professione che altre
volte procuravano loro un vitto certo e a molti agevole. Da per tutto cenci e
lezzo; da per tutto un ronzio continuo di voci supplichevoli, come se si fosse
camminato in mezzo ad una processione. Qua e là a canto ai muri, sotto
le gronde, mucchj di paglia, e di stoppie peste, trite, fetenti, miste
d'immondo ciarpame, che avevano servito nella notte come di canile ai mendichi
cacciati dalla fame alla città, dove non avevano un asilo da posare il
capo. Molti si vedevano rodere con uno sforzo ripugnante erbe, radici,
cortecce, che avevano raccolte nei prati, nei boschi, come un viatico fino alla
città dove speravano di trovar pure un vitto più umano. Di tratto
in tratto alcuno di quegli infelici si vedeva ristare, vacillare, tendere
dinanzi a sè le mani aperte come per cercare un appoggio, e cadere; ed
erano talora madri coi bamboli in collo. Rari, costernati, in silenzio,
raccogliendo gli sguardi a sè, quasi per non vedere, abbassando la
fronte come se provassero vergogna di tanta miseria, turandosi le narici
giravano fra quella turba coloro che altre volte eran chiamati ricchi, ed ora
pure davano invidia perché avevano ancor tanto da preservarsi se non dal
disagio, almeno dalla penuria mortale. Altri di essi che poco innanzi
passeggiavano con un fasto minaccioso, con un corteggio insolente di
spadaccini, ora soletti, in abito negletto e come da corruccio, con gli sguardi
depressi, coi volti non avresti saputo dire se storditi o compunti,
attraversavano in fretta le vie, e sparivano. Altri esaurito già il
contante che avevano destinato al soccorso dei poverelli, vinti dalla crescente
misericordia, aprivano di nuovo lo scrigno, intaccavano le scorte riserbate ai
loro bisogni, e uscivano; e assaliti da richieste superiori alla
liberalità ed alle facoltà loro, guatavano, per discernere tra
miseria e miseria, tra angoscia e angoscia quelle a cui era dovuto più
pronto il sovvenimento. Appena il muovere della mano manifestava una intenzione
di liberalità, una gara tumultuosa e incalzante di grida, di sospinte,
di mani levate si faceva intorno a loro; gli estenuati e stupidi dall'inedia
pigliavano come una forza istantanea dalla nuova speranza, e si pignevano
innanzi con violenza; i più robusti gli rigettavano con furore, alle
preghiere alla invocazione dei nomi più santi si mescevano le bestemmie
della disperazione; i vecchj rispinti tendevano da lontano le palme scarne; le
madri alzavano i fanciulli scolorati, male ravvolti nelle fasce stracciate, e
ripiegati per languore nelle loro mani. Quei caritevoli dovevano lasciarsi
rapire più tosto che distribuire i soccorsi; e spogliati in un momento
di ciò che avevano portato con sè, fra le benedizioni, e le
rampogne, rovesciando le tasche vuote, uscivano a stento dalla folla più
contristati del male irrimediabile, che soddisfatti del poco bene che avevan
potuto fare; e se ne tornavano non avendo più altro da dare in risposta
a nuove richieste che un aspetto di commiserazione, un cenno delle mani che
esprimeva una buona volontà inutile, una ripulsa dolente.
In
mezzo ad una tanta confusione di guaj, e ad una tanta insufficienza d'ajuti, si
mostrava però a luogo a luogo un ajuto più generale e più
ordinato che annunziava una grande copia di mezzi, e una mano avvezza a
profondere con sapienza. Era la mano del nostro Federigo. Oltre le elemosine in
vitto e in danaro, ch'egli distribuiva (il Tadino afferma che nel suo palazzo
due mila poveri ricevevano ogni giorno una capace scodella di riso) aveva
l'ingegnoso compassionatore deputati sei preti che girassero a coppia per
pigliar cura dei poveri sfiniti per le vie. Ad ogni coppia aveva assegnato un
quartiere della città tripartita; ogni coppia era seguita da facchini
che portavano grandi corbe con pane, vino, minestra, uova fresche, brodi
stillati, aceto medicato d'aromi. S'accostavano quei preti ai poverelli che
giacevano abbandonati sul pavimento, e soccorrevano ad essi secondo il bisogno:
a questo esinanito dal digiuno il cibo era il più necessario ed efficace
rimedio: quell'altro svenuto per più antica inedia, e già presso
al morire, non avrebbe avuto vigore abbastanza per patire né per prendere il
cibo; e faceva mestieri di più sottili e potenti ristorativi per
richiamarlo alla vita, e rendergli a poco a poco le forze. Quando alcuno d'essi
era rinvenuto o riconfortato, uno dei preti gli amministrava i sacramenti, e le
consolazioni della religione, quindi guardava intorno a sè per vedere in
qual casa del vicinato avrebbe potuto procurargli un ricovero, trovatolo ve lo
faceva portare. Se il padrone era dovizioso, il prete in nome del Cardinale lo
supplicava che volesse ricettare, collocare in qualche angolo della casa,
nutrire quel derelitto che Dio gli mandava; ma quando il languente era portato
in una casa, dove non sembrasse che in un tale anno potessero sovrabbondare
provvisioni per usi di carità, quivi il prete pregava il padrone a
ricogliere e ad ospiziare per prezzo colui che vi era presentato; e sborsava il
prezzo generoso anticipatamente. Notava poi il luogo, e tornava a visitare il
raccomandato, a curare che nulla gli mancasse; così mentre l'un prete
soccorreva i giacenti nella via, l'altro percorreva le case dove erano raccolti
quegli altri. La riverenza dell'abito sacerdotale, l'autorità di
Federigo come presente a quegli uficj prestati per suo ordine, e la
santità degli uficj stessi, contenevano la folla tumultuosa, in modo che
quei preti potessero esercitarli tranquillamente e ordinatamente. Era questo
per certo un alleggiamento ai pubblici mali, e grande se si consideri che
veniva da un solo avere e da una sola volontà, ma rispetto ai bisogni
scarso e inadeguato. Intanto che in tre angoli della città alcuni pochi
erano levati da terra, e ravvivati, in cento parti cadevano le centinaja, e
molti per non esser più rialzati che sulle spalle dei sotterratori.
Nè le morti continue diradavano quella folla miserabile, la fame
incalzava da tutte le parti del territorio nuova folla alla città; le
vie che vi conducono qua e là segnate di cadaveri, brulicavano sempre di
nuovi pellegrini che dal piano circostante, dai colli meno vicini, dai monti
lontani venivano strascinandosi; diversi d'abito, e di pronunzia, oggetto l'uno
all'altro non più di pietà ma di orrore, luridi tutti, ognuno
più sbigottito dal trovarsi in mezzo a tanti compagni di disperazione, a
tanti rivali d'accatto. Attraverso costoro passavano pure altri non meno luridi
pellegrini che fuggivano dalla città, non già sperando di trovare
in altra parte più facile sostentamento, ma per morire altrove, per
mutare un cielo divenuto odioso, per non veder più quei luoghi dove
avevano tanto patito. Così crescendo sempre il numero dei poveri a
misura che la popolazione s'andava scemando era trascorso l'inverno e
già avanzata la primavera. E quei poveri si andavano sempre più
condensando nella città; accorrevano la più parte negli alberghi;
e avrebbe dovuto essere bene spietato, ma anche ben sicuro il padrone che
negasse loro quella ospitalità: quivi giacevano le notti ammucchiati su
la paglia, sul letame: le case, le vie si riempivano di malati, di cadaveri, di
cenci, e di puzzo: dimodoché si cominciò a temere che alla fame tenesse
dietro la contagione. Il tribunale della Sanità instava presso quello
della Provvisione perché si antivenisse questa nuova sciagura; e proponeva che
seguendo l'esempio e dilatando l'opera di Federigo, raccolto tutto ciò
che poteva esser destinato al pubblico soccorso, si distribuisse nutrimento a
quelli che ne mancavano, e gl'infermi si raccogliessero, e si collocassero in
diversi ospizj per rendere più facile il servizio, e per evitare i
pericoli di una troppo grande riunione. Ma nella Provvisione prevalse il
partito di raccattare tutti gli accattoni validi e infermi nella fabbrica del
Lazzeretto.
I
medici conservatori del Tribunale della Sanità, protestarono contra
questo disegno, allegando che in una tanta turba ammassata in un luogo e
costretta in picciole stanze l'epidemia sarebbe stata inevitabile; ma alle
proteste non si diede retta, come afferma il Tadino uno di quei medici. E se
vogliamo credergli in tutto, la cagione principale di far prevalere quel
partito fu il desiderio di servire ad un interesse privato, o a quello che
alcuni privati credevano il loro interesse. Erano nel Lazzeretto deposte molte
merci venute da paesi sospetti di peste, e si ritenevano quivi per le purghe e
per le prove; coloro a cui quelle merci appartenevano brigarono perché il
Lazzeretto fosse destinato ad un altro uso, e con questo pretesto le merci
fossero loro rilasciate: e furono esauditi.
Il
Lazzeretto (se mai questa storia venisse alle mani di chi non sia mai stato a
Milano) è una fabbrica quasi quadrata: i due lati maggiori tirano a un
di presso cinquecento passi andanti; gli altri due poco meno; un fossato scorre
e volta intorno all'edificio: ogni lato ha nel mezzo una porta, e un ponte sul
fossato: tutti i lati dell'edificio nella parte rivolta al di fuori sono divisi
in camerette, che sono in tutto 296: nell'interno gira per tre lati un
porticato: lo spazio interiore è sgombro; fuorché nel mezzo, dove sorge
un tempietto ottangolare. All'aprirsi dell'estate il Lazzeretto fu sgombro
dalle merci, disposto pel nuovo uso, ed aperto ai mendicanti. Da principio vi
accorsero volonterosi i più famelici e desolati: ma altri, che dal
trovarsi in più picciol numero ad accattare speravano più
frequenti soccorsi, e ai quali ad ogni modo era meno amaro lo stentare in
libertà che campacchiare rinchiusi, non risposero all'invito.
Dall'invito, come è l'uso, si venne alla forza, si mandarono birri che
agguatassero chi mendicava, e chi dall'aspetto appariva un pezzente, lo
legassero pel suo migliore, e lo trasportassero a forza al Lazzeretto: e per
ognuna di queste prede era stato assegnato al predatore una ricompensa di dieci
soldi: tanto è vero che anche nelle più grandi strettezze non
mancano mai danari per fare delle minchionerie. In poco tempo il Lazzeretto tra
volontarj e sforzati rinchiuse poco meno di dieci mila poverelli, d'ogni
età, e d'ogni sesso, della città, del contado, di più
lontane regioni; uomini che avevano passata la loro vita in una operosa
semplicità; e scherani pasciuti in una scioperaggine facinorosa; donne,
fanciulle, giovanetti nutriti nella verecondia e nella inesperienza del
tugurio, dei campi, della officina domestica, nelle consuetudini della
pietà; altri fino dall'infanzia disciplinati nella scola del trivio,
all'accatto, alla ruba, alla buffoneria, alla truffa, al dileggio; non sapendo
né ricordandosi di Dio, se non quel tanto ch'era necessario per bestemmiare il
suo nome. Si trattava di allogare, di alimentare, e di contenere con una eguale
disciplina un raccozzamento così numeroso di tali e d'altri più
diversi e moltiplici elementi; e la cosa sarebbe riuscita ottimamente, se la
buona intenzione, lo zelo, e l'affaccendamento di alcuni potessero bastare ad
ogni impresa.
Il
numero dei ragunati nel Lazzeretto fece che fossero stivati a venti a trenta
per ogni cella, ove si giacevano prostrati come bestie, dice il Tadino, sopra
una paglia imputridita. Il pane che si distribuiva ad essi avrebbe dovuto,
secondo gli ordini della Provvisione esser buono; perché quale amministratore
ha mai ordinato che si faccia e si distribuisca pane cattivo? Ma si tenne da
tutti che quel pane fosse adulterato con sostanze insalubri, non nutritive;
cosa più che probabile in tanta scarsezza; e con tanta difficoltà
d'invigilare.
Quanto
al governo di quella brigata, v'erano pure ordini perché ognuno si contenesse
con modestia, si lasciassero i vizj, e l'ozio che ne è il padre, perché
quegli che potevano esercitassero quivi l'arte loro, e gli altri almeno non
mettessero scompiglio. A malgrado però degli ordini, mirabil cosa!
coloro che erano stati vagabondi prima d'entrare nel Lazzeretto, vagabondavano
quivi come potevano; e attendevano a molestare gli occupati: quegli che v'erano
stati cacciati a forza riempivano tutto di querele, di bestemmie, di tumulto.
In somma l'angustia, la sporcizia, la caldura, il cibo malsano, le acque
stagnanti, la noja, l'accoramento, il furore, la sfrenatezza d'ogni genere
fecero ivi tanto sperpero, che in poco tempo la mortalità si
manifestò più grande fra quei poveri a cui si era così
provveduto che non fosse stata nei dispersi e abbandonati. In alcuni giorni il
numero dei morti in alcune camerette oltrepassò la decina.
Il
Tribunale della sanità rimostrava, indefessamente, tutta la città
mormorava, la confusione e la strage cresceva ogni giorno, la cosa era divenuta
insopportabile a quelli che la facevano, a quelli per cui era fatta, i deputati
non avevan più testa; si tenne consulta, e il partito il più
savio, il più ovvio, il partito indeclinabile parve a tutti di disfare
ciò che s'era fatto con tanta fiducia e con tanto apparato; il
Lazzeretto fu aperto, e i poveri lasciati all'antica licenza di errare
mendicando. S'affoltarono ai cancelli con un tripudio iracondo; una gioja
furente e spensierata si dipingeva come a forza in quegli sguardi foschi e
mezzo estinti, su quei tratti indurati nella espressione del dolore: il
sentimento della libertà racquistata suppliva in quel primo momento a
tutte le speranze, a tutti i bisogni.
La
città tornò a risuonare dell'antico clamore, ma più
interrotto e più fievole; rivide quella turba più rada, ma
più ancora miserevole, più sformata, più orrenda per la
diminuzione stessa; la quale faceva risovvenire ad ogni pensiero che dei tanti
scomparsi nessuno era uscito da quella gramezza che per la morte.
Questo
fu nell'estate: il raccolto venne finalmente a salvare coloro nei quali
l'inedia non era degenerata in morbo incurabile; la mortalità si
andò a poco a poco scemando; quegli che erano stati sospinti dalle
necessità al mendicare ritornarono alle antiche loro occupazioni.
Si
cominciava a respirare, e i mali già consumati nel passato divenivano un
soggetto di commemorazione e di trattenimento, grave sì ma non senza
qualche dolcezza pel pensiero di averli varcati, non senza qualche fiducia di
miglior tempo, parendo agli uomini di avere esauriti in breve spazio i
patimenti che avrebbero dovuto diffondersi in una lunga durata, di aver quasi
pagata una gran parte di tributo anticipato alla sventura; quando nuovi mali
richiamarono sul presente l'attenzione e il terrore di tutti.
Non
la guerra propriamente detta, ma un passaggio di truppe, più funesto
agli abitanti che nessuna guerra più accanita, desolò una parte
del Milanese; e condusse la peste dalla quale nessun angolo di quel paese fu
salvo.
Ci
conviene ora accennare brevemente le origini di tanta rovina. Vincenzo I
Gonzaga duca di Mantova era morto nel 1612, lasciando tre figli. Il primo
Francesco morì nello stesso anno, e non rimase di lui che una figlia per
nome Maria; Ferdinando che dopo di lui tenne lo stato morì senza prole
legittima nel 1626; Vincenzo II l'ultimo dei fratelli gli succedette in
età di 32 anni già consumato dagli stravizzj, senza speranza di
prole, e manifestamente vicino al sepolcro. Già molte ambizioni, molte
cupidigie, molti sospetti stavano all'erta aspettando ch'egli vi scendesse. Ma
egli aveva instituito erede per testamento Carlo Gonzaga Duca di Nevers, del
resto suo parente il più prossimo. E per assicurare l'effetto di questa
disposizione, aveva segretamente fatto scrivere al Nevers che mandasse a
Mantova il figlio, pur egli Carlo Duca di Rethel affinché al momento che il
Ducato verrebbe a vacare, potesse pigliarne il possesso in nome del padre. Ma
oltre il Ducato di Mantova, dalla successione del quale erano per investitura
escluse le femine, Vincenzo lasciava pur quello del Monferrato, al quale, pel
complicato, confuso, incerto, variamente applicabile diritto pubblico d'allora,
Maria, nipote di Vincenzo poteva aver qualche ragione. Per togliere ogni
soggetto ed ogni pretesto di dissensioni, pensò il Duca Vincenzo, o chi
pensava per lui, a dare quella Maria in moglie al Duca di Rethel che aveva
fatto chiamare. L'aspettato giovane arrivò che il Duca Vincenzo era agli
estremi: le nozze che questi aveva proposto si fecero nella notte dopo il 25
Dicembre 1628, mentre egli moriva.
La
morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del
teatro; ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita
reale. Al mattino lo sposo comparve in grande abito da lutto, assunse il titolo
di Principe di Mantova, e padrone delle armi e della Cittadella, fu senza
difficoltà riconosciuto dagli abitanti. Ma v'era altri a questo mondo
che avevano qualche cosa da dire in quella faccenda.
Luigi
XIII re di Francia, o per dir meglio il Cardinale di Richelieu sosteneva il
Nevers, uomo d'origine italiana, ma nato francese; anzi aveva egli il
cardinale, per mezzo di legati avuta gran parte nel testamento del Duca Vincenzo.
Don
Filippo IV, o per dir meglio il Duca d'Olivares, non poteva patire che un
principe francese venisse a stabilirsi in Italia, e sosteneva le pretensioni di
Don Ferrante Gonzaga parente più lontano del Duca Vincenzo.
Carlo
Emmanuele Duca di Savoja aveva pure antiche pretensioni sul Monferrato; i
Veneziani ai quali dava ombra la grande potenza spagnuola in Italia favorivano
il Duca di Rethel ma con trattati, con promesse e con minacce; e Urbano VIII
inclinato a quel Duca e sopra tutto alla pace, ajutava come poteva queste due
cause con raccomandazioni, e con proposte di accomodamenti.
Finalmente
l'imperatore Ferdinando II pretendeva che il Duca di Nevers erede trasversale,
non aveva potuto senza il suo consenso impossessarsi di feudi dell'impero la successione
ai quali era rivendicata da altri. Richiedeva quindi che il possesso degli
stati fosse depositato presso di lui, finch'egli gli aggiudicasse per sentenza,
e citò il Duca di Nevers con tutte le formalità allora in uso.
V'erano poi altre pretensioni secondarie e più intralciate che passiamo
sotto silenzio per non annojare il lettore, il quale comincia forse a
mormorare; e certamente non saprà abbastanza apprezzare la fatica che
facciamo per ristringere in brevi parole tutta questa parte di storia.
Il
Duca d'Olivares, istigato continuamente dal Cordova governatore di Milano,
strinse un trattato col Duca di Savoja contra il novello Duca di Mantova.
Questi si pose sulla difesa, si venne alle mani, Carlo Emmanuele invase il
Monferrato, e Cordova pose l'assedio a Casale. Il Duca di Mantova stretto da
due nemici potenti invocava gli amici; ma i Veneziani non volevano muoversi se
il re di Francia non mandava un esercito in Italia, e il re di Francia o il
Card. di Richelieu, era impegnato nell'assedio della Rocella. Presa questa,
parati o vinti certi intrighi imbrogliatissimi di Corte, il re e il cardinale
s'affacciarono all'Italia con un esercito, chiesero il passo al Duca di Savoja;
si trattò, non si conchiuse, si venne alle mani, i Francesi superarono,
e acquistarono terreno, si trattò di nuovo, il passo fu accordato, il re
e il Cardinale s'avanzarono, trassero agli accordi il Cordova spaventato, gli
fecero levare l'assedio di Casale, vi posero guernigione francese, e tornarono
a casa trionfanti, e accompagnati da due sonetti dell'Achillini. Il primo,
quello che comincia col famoso verso:
Sudate
o fochi a preparar metalli,
è
tutto di lode; l'altro è di consiglio; perché la poesia ha sempre avuto
questo nobile privilegio di ravvolgere avvisi sapientissimi, e insegnamenti
reconditi negli idoli lusinghieri della fantasia, e nella magica armonia dei
numeri.
L'Achillini
consigliava il re di Francia vincitore della Rocella e liberatore di Casale di
tentare l'impresa del Santo Sepolcro, né più né meno. Però il Cardinale
di Richelieu non ne fece nulla: convien dire che avesse altro in testa.
Ma
i Veneziani che allo scendere dei Francesi, s'erano dichiarati e mossi,
istavano per legati e per lettere presso il Cardinale perché l'esercito da lui
condotto non tornasse indietro, e adducevano mille ragioni per provare che non
era da far conto su quei trattati; ma il Cardinale badò alla prosa dei
Veneziani come ai versi dell'Achillini. La guerra continuò infatti
contra il Duca di Mantova. Questi aveva fatte e andava facendo tutte le
sommessioni immaginabili all'imperatore affine di placarlo, e di piegarlo ad
accordargli l'investitura. Ma Ferdinando stava fermo in esigere che i Ducati
fossero a lui ceduti in deposito; e irritato dalle ripulse del duca più
che ammansato dalle sue riverenze; irritato di più dell'aver questi
domandato il soccorso francese, stimolato dalla corte di Madrid, si
dichiarò anch'egli nemico del Duca di Mantova.
L'esercito
Alemanno di circa trentasei mila uomini, ragunato sotto il comando del Conte di
Colalto, ebbe ordine di portarsi all'impresa di Mantova: la vanguardia che
già da qualche tempo aveva occupato ostilmente il paese de' Grigioni, si
diffuse per la Valtellina, e ai 20 di settembre entrò nello Stato di
Milano.
La
milizia a quei tempi era ancora in molte parti d'Europa composta in gran parte
di venturieri che si ponevano al soldo di condottieri di professione, i quali
andavano poi coi loro drappelli al servizio di questo o di quel principe. Oltre
le paghe sulle quali non era da fare assegnamento certo, quello che determinava
gli uomini ad arruolarsi era la speranza del saccheggio e tutte le vaghezze
della licenza. Disciplina generale non v'era in un esercito, né avrebbe potuto
conciliarsi con le varie autorità private dei condottieri: e questi,
prima di tutto non si curavano di mantenere una disciplina particolare nei loro
reggimenti, perché non avevano per questa parte responsabilità verso
nessuno; e quand'anche alcuno di essi a cose pari avesse pur desiderato di
contenere i suoi soldati in un qualche rispetto per le proprietà e per
le persone degli abitanti, questo disegno sarebbe stato per lo più o
contrario ai suoi interessi, o superiore alle sue forze. Perché soldati di
quella sorte o si sarebbero rivoltati, o avrebbero tosto deserte le bandiere di
un comandante nemico della violenza e del saccheggio. Oltre di che siccome i
principi nel comperare i soldati pensavano più ad averne in gran numero
per assicurare le imprese, che a proporzionare il numero alla loro
facoltà di pagare, la quale era ordinariamente molto scarsa, così
le paghe erano per lo più ritardate e mancanti; e le spoglie dei paesi
dove passava l'esercito divenivano come un supplemento tacitamente convenuto
degli stipendj. Quindi i soldati di quel tempo e per le tendenze che gli avevano
tratti a scegliere quella professione, e per le abitudini di essa erano come
una collezione di tutte le nequizie che può dare la natura umana nel suo
maggior grado di pervertimento. Ma quelli che allora scendevano nel Milanese
erano poi il più bel fiore di quella farina; erano in gran parte gli
stessi che guidati dall'atroce Wallenstein avevano poco prima desolata la
Germania, in quelle guerre, tanto impropriamente chiamate di religione, poiché
queste stesse masnade che avevano combattuto per la parte che pretestava di
sostenere la religione cattolica erano composte in parte di Luterani.
L'annunzio
della venuta di costoro portò il terrore nei distretti per dove avevano
a passare: nelle altre parti si diceva: «povera gente! stanno freschi: chi sa
come gli acconciano coloro! vedrete che non lasceranno loro altro che gli occhi
per piangere; sia lodato Dio che non passeranno per di qua». Ma chi sapeva che
quell'esercito portava la peste con sè, e l'aveva già disseminata
nei luoghi dove aveva stanziato, sentiva qualche cosa di più che una
fredda pietà per altrui. La maggior parte però degli abitanti del
Milanese o non lo voleva credere, o non se ne curava, o con quella fiducia
senza motivi così strana, e così comune, diceva: «Poh! che ha da
venire la peste da noi?»
Colico
sulle rive del lago di Como presso alla foce dell'Adda, fu la prima terra che
toccarono quei demonj; e, dopo d'averla messa a sacco l'arsero addirittura, se
per rabbia di non avervi trovato abbastanza bottino, o pel diletto di fare una
baldoria, non si sa. Di là, senza curarsi d'itinerario né di poste
assegnate, ma guardando solo dove fosse più da sperarsi bottino, si
gettarono sopra Bellano, lieto paese sulle falde d'un monte e alla riva del
lago. Gli abitanti ammoniti dall'esempio recente e dalla prossima ruina avevano
o nascoste sotterra, o trasportate in fretta sui monti le cose più
preziose, e le più facili a trasportarsi; e molti di essi s'erano
appiattati lassù, abbandonando le case. Con tanto più di furore
v'entrarono quelle masnade, e delle cose lasciate, presero tutto ciò che
poteva loro servire e sperperarono ed arsero il resto, mobili, botti, travi.
Quegli che erano rimasti colla speranza di preservare i loro averi, ne videro
la distruzione, videro l'abominevole sfrenatezza, e per sopra più
soggiacquero agli strapazzi, alle percosse e alle ferite. Nè i campi
all'intorno furono risparmiati; la vendemmia, somma speranza dei terrazzani in
quell'anno calamitoso sparve in un momento, coll'uve furono sterpate le viti,
gli alberi abbattuti col frutto, molti casali incendiati. Appena cessavano di
farsi udire le trombe che avevan sonata la partenza d'un reggimento, un nuovo
squillo dall'altra parte annunziava terribilmente l'arrivo di altra simile,
anzi peggiore brigata. I sopravvegnenti, trovando la distruzione dove avrebbero
voluto portarla, si vendicavano su le cose e su le persone che capitavano loro
alle mani, come di un furto che fosse stato loro fatto: e tanta cupidigia
frustrata tornava tutta in furore. Qualche memoria del guasto di quel paese ci
rimane in alcune lettere di Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi
tempi, e che forse avrebbe acquistato un nome più esteso e più
autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all'uscire della
giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo,
in cui fosse stato possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una
importanza perpetua, e per esporle, trovare quello stile che vive. Questi sulle
prime non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad alloggio ufiziali,
parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati era venuto a capo di
preservare la sua casa, e di difenderla poi quando fu minacciata: e racconta
agli amici i suoi pericoli, e gli altrui disastri. V'è pure in una di
quelle sue lettere un tratto singolare che merita d'esser ricordato. Il tenente
del colonnello Merode, il cui reggimento era venuto pel primo, entrato nel
giardino di Sigismondo, accennò un boschetto, e domandò che razza
di piante fossero quelle, e che frutto portassero. — Ahi barbaro! —
pensò il Boldoni: — non conosce l'alloro, — e conchiuse fra sè
che da tal gente non era da sperarsi misericordia.
Desolato
quel territorio, le feroci locuste si gettarono nella Valsassina. È un
gruppo di montagne e di valli, paese poco visitato dal sole, intersecato da
torrenti, petroso e selvatico negli accessi, ma per entro rivestito in gran
parte di ricchi pascoli, e più fertile che non l'annunzi il suo nome: ha
varie terre, quale sul pendio, quale nel fondo a luogo a luogo assai vasto
perché si possa chiamarlo pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono
sparse bianche e picciole casette, che da lontano raffigurano quasi un gregge
sbandato al pascolo. Non vi mancavano possessori agiati, ma la più parte
degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani i quali vi dimorano nelle
stagioni più miti, e passano al piano i mesi più rigidi. La fama
spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i valligiani s'erano
presso che tutti rifuggiti sulle somme alture lasciando deposte sotterra presso
le case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi a sè le mandrie che sono
la principale. Ma i saccheggiatori, ai quali non bastava quello che era stato
loro abbandonato e a cui le arti di preservazione degli abitanti avevano
suggerite nuove arti di offesa e di depredazione, si diedero a rintracciarli.
Quelli che erano stati più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei
loro nascondigli, strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse,
ricondotti nei villaggi, erano quivi sottoposti alle torture, che può
inventare la cupidigia più crudele, perché rivelassero i tesori
nascosti. Due passioni ben diverse, ma egualmente potenti, l'avidità e
il terrore supplivano alle convenzioni del linguaggio, e si spiegavano fra di
loro in un rapido e terribile dialogo. I gemiti, le voci supplichevoli, le mani
giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi strazj: l'infelice
che si prostrava ad abbracciare le ginocchia dei suoi oppressori, era rialzato
a forza di percosse. Colui che aveva riposto sotterra o danaro o suppellettile,
o a cui il vicino per far pompa di previdenza e di sicurezza nei suoi ripieghi
aveva confidato il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che
acchetare quella perversità; accennava premurosamente, con aria di
sommessa e quasi amichevole intelligenza ai soldati che lo seguissero, e
mostrava loro la terra di recente smossa, o l'armadio murato di fresco; e
cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori che ciechi per ingordigia si
gettavano a gara sulla preda.
Dalla
Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco.
CAPITOLO II
Le
contingenze infelici della vita umana son tante, che non di rado l'uomo
oppresso da una sventura, può consolarsi col pensiero d'altro male o di
peggio, che senza quella sventura gli sarebbe capitato infallibilmente. Se la
infame passione di Don Rodrigo non fosse venuta a turbare i placidi destini di
Fermo e di Lucia, essi dopo d'aver passato un anno d'inopia, contra la quale
chi sa se le loro facoltà avrebbero bastato, si sarebbero ora trovati,
probabilmente con un bambinello, esposti nel loro paese a quella orrenda furia
militare, costretti a fuggire; e quando avessero schivati tutti i pericoli della
persona, tornando poi a casa non v'avrebbero trovate che le muraglie e quelle
mezzo diroccate, e i segni perversi e luridi del sozzo torrente che v'era
passato. Questi guaj sembrano ora leggieri al paragone di ciò che Lucia
e Fermo hanno sofferto in quella vece; ma allora non v'essendo il paragone, e
non potendo essi nemmen per sogno immaginare come possibili tutte le traversie
che abbiamo narrate, quel minor male sarebbe ad essi paruto il colmo della
infelicità. Comunque sia, in mezzo a tanti mali fu una ventura per
entrambi l'esser lontani da casa loro in quel brutto momento.
E
Agnese? Agnese si trovava mò proprio nell'intrigo. «Vengono; hanno
saccheggiata Cortenova, hanno dato il fuoco a Primaluna, disertato Introbbio,
Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son qui, son qui»; così la
fama andava di momento in momento crescendo e avvicinando il terrore. Alcuni di
quei poveri valligiani, che invece di rintanarsi sui monti dove forse non
sarebbero stati sicuri, avevano stimata miglior via di fuga, precorrere il
nemico, giungevano ansanti, spaventati, in disordine, come reliquie d'un
esercito disfatto e inseguito, e raccontavano cose orribili della
crudeltà dei soldati, principalmente contra coloro che fossero o
paressero opulenti. Agnese aveva ancora una ventina di quegli scudi d'oro che
il Conte del Sagrato le aveva donati così a proposito, e quasi per
ispirito di profezia. Che in quell'anno, senza quell'ajuto di costa, la
poveretta sarebbe stata ridotta a morire di stento, o a pitoccare disperatamente
come tanti altri. Ma dopo d'aver sentiti i vantaggi della ricchezza, Agnese ne
provava ora tutte le cure e i terrori. È ben vero ch'ella aveva sempre
dissimulata prudentemente quella ricchezza, e il solo che fosse del segreto era
Don Abbondio che era stato testimonio del dono, e al quale essa ricorreva per
fargli di tempo in tempo cambiare uno scudo in picciola moneta. Ma una
indiscrezione poteva avere tradito il segreto, o un sospetto averlo indovinato,
e allora il pericolo sarebbe stato terribile, e la fuga mal sicura. Poiché era
cosa nota che nei luoghi dove la soldatesca era già passata, uomini, ai
quali in verità non si saprebbe trovare un epiteto, o per invidia, o per
isperanza di premio avevano guidati quei masnadieri al nascondiglio di qualche
lor paesano denaroso, segnandolo così allo spoglio, ed ai tormenti. Per
queste ragioni Agnese fluttuava in un dubbio tempestoso: più volte,
vedendo passare qualche frotta de' suoi paesani che tiravano verso i monti,
s'era mossa per mettersi in loro compagnia; e poi ristava, pensando con
raccapriccio ai pericoli che l'asilo stesso poteva avere per lei. Ma dove
trovare quello che le desse la sicurezza particolare di ch'ella aveva bisogno?
Maneggiando e rimaneggiando quegli scudi d'oro, svolgendoli, e
rincartocciandoli, togliendoli di seno per riporveli meglio, le sovvenne di
colui che glieli aveva dati, delle sue proferte, del suo castello posto al
confine e in alto come il nido dell'aquila; e si fermò tosto nel
pensiero di cercarsi l'asilo colà. Aveva già sotterrate, nascoste
sul solajo, riposte alla meglio le masserizie più grosse; sbarrò
come potè le finestre; tolse un fardello dove aveva ragunato ciò
che le sue forze bastavano a portare; ravvolse per l'ultima volta quegli scudi
d'oro, e li cacciò sotto il busto, tra la camicia e la pelle,
uscì di casa, chiuse la porta, più per non trascurare una
formalità che per fiducia che avesse in quei gangheri e in quelle
imposte, si mise la chiave in tasca, e s'avviò. Trovandosi così
soletta in istrada pensò quanto le sarebbe stato prezioso un compagno in
quel tragitto. Ma voleva esser galantuomo, galantuomo a tutte prove, superiore
ad ogni sospetto e più forte d'ogni tentazione. — Dove trovarlo anche
questo? Il curato? Perché no? la casa parrocchiale è a pochi passi;
tentiamo.
Chi
non ha veduto Don Abbondio in quel giorno non ha una idea vera dell'impaccio. I
nemici che si avvicinavano erano i più terribili che egli avesse mai
avuti a fronte, e quelli contra cui erano più inutili tutte le sue armi,
tutti i suoi stratagemmi. Non era gente da ammansarsi colla pieghevolezza, e
colla sommessione, molto meno da contenersi coll'autorità. Non v'era
salute che nella fuga; ma primo di tutti a risolverla Don Abbondio era poi
rimasto indietro di molti per le difficoltà che trovava nella fuga stessa,
e per le condizioni ch'egli vi aveva voluto porre. L'ertezza del cammino lo
spaventava, e questo spavento gli aveva fatto perder qualche tempo a voler
persuadere or l'uno or l'altro dei suoi parrocchiani che lo portassero in
lettiga; ma in verità quello non era momento da trovar lettighieri. Era
pure andato pregando tutti quelli che avevano buone spalle, che per amore del
loro curato si caricassero delle sue masserizie, delle sue provvigioni, anche
dei suoi mobili, per portarli in alto e riporli in salvo; ma si era indirizzato
ad uomini occupati a scegliere fra i pochi loro averi quello che si poteva
trafugare, lasciando con dolore il resto alle voglie dei ladri: e nessuno aveva
spalle da allogare a Don Abbondio. Pensava finalmente a nascondere il tutto sul
luogo, ma la cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva. Di
più non aveva ancora saputo scegliere un asilo, e senza farne mostra,
era tormentato dallo stesso timore che Agnese. Girava il pover uomo per la casa
tutto affannato e stralunato, non sapendo che farsi, se la prendeva quando col
duca di Nivers, come diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in Francia e
voleva a forza esser duca di Mantova, quando col duca di Savoja che voleva
ingrandirsi, quando coll'imperatore che stava su certi puntigli, e quando con
Don Gonzalo di Cordova che non aveva saputo mandare quei diavoli per un'altra
strada. Bestemmiava ancor più la durezza dei suoi parrocchiani che non
volevano dargli ajuto. — Oh che gente! —, sclamava — che gente! ognuno pensa a sè!
non c'è carità! — Si faceva alla finestra, e chiamava quelli che
passavano con una certa voce mezzo piagnolente, e mezzo rimbrottevole. «Venite
a dare una mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate
così cani. Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi
stracci» ripeteva, perché nessuno sospettasse ch'egli avesse cose preziose da
salvare. «Aspettatemi, che venga anch'io con voi; aspettate almeno che siate
quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non sia abbandonato. Volete
voi lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste che il vostro parroco fosse
spogliato, ammazzato. Misericordia! Fermatevi dunque». — Eh! tiran di lungo. Oh
che gente!
Bisogna
dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per parlare a quel modo.
Quegli a cui egli faceva quelle preghiere e quei rimproveri, passavano dinanzi
alla sua casa curvi sotto il peso delle robe loro, quale trascinandosi dietro
la sua vaccherella, quale traendosi dietro i figli che a stento lo seguivano, e
la donna che portava quegli che non potevano camminare, quale reggendo un
vecchio o un infermo. Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre
masserizie, finché reggessero le forze, e lo permettesse il pericolo. Alcuni di
loro non rispondevano a Don Abbondio, altri diceva: «eh sì! s'ingegni
anch'ella signor curato». — Oh povero me! oh che gente! — ripeteva egli. —
Ognuno pensa a sè: ognuno pensa a sè; e a me nessuno vuol
pensare.
Per
buona sorte Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo, e operava
e dava consigli, come Catterina prima aveva fatto nel campo alle rive del Pruth
quando Pietro stretto tra i Turchi e i Tartari, non trovando uscita né
consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che partito appigliarsi, e non
aveva più energia che per isfogarsi in querele e in rimproveri. Perpetua
ben convinta che non era da fare assegnamento sopra altri, aveva fatto due
fardelli uno per sè, uno per Don Abbondio; e poi in fretta e in furia,
sparpagliava il resto delle masserizie nei bugigatti più nascosti della
casa, sul solajo sotto il pagliajo, dietro i tini. Quando questa faccenda fosse
terminata alla meglio, ella aveva proposto di presentare a Don Abbondio il
fardelletto destinato per lui, e d'intimargli di partire, giacché in quel
momento era cosa evidente che il padrone non era in caso di governarsi e pel
suo meglio bisognava comandargli. È però vero che Perpetua aveva
creduto di riconoscere una simile necessità in mille altri casi, che a
gran pezza non erano urgenti come il presente.
In
questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua risoluzione, fece
intendere a Don Abbondio ch'ella poteva essere opportuna anche per lui.
«Dite
davvero, Agnese?» disse Don Abbondio.
«È
un buon parere, signor padrone», disse Perpetua: «andiamo senza perder tempo».
«Senza
perder tempo», disse Don Abbondio, «perché costoro possono giungere da un
momento all'altro. Ma saremo sicuri in casa di quel signore? Eh!»
«Andiamo»,
disse Perpetua, «sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo amici:
è stato nella mia cucina quieto come un agnello: è diventato un
uomo del Signore».
«Male
non me ne vorrà fare: che dite eh? sarebbe un peccato senza costrutto:
quelle poche volte che ho dovuto trovarmi con lui, sono sempre stato
così compito! Andiamo, ma la mia povera roba!»
«Anch'io
ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una povera vedova»,
disse Agnese.
«Sia
fatta la volontà di Dio», disse Don Abbondio: e intanto Perpetua gli
diede il fardello, dicendo: «porti questo, ch'io porto quest'altro».
«Oh
poveretto me!» disse Don Abbondio. «Che ci avete messo?»
«Camicie
e abiti», rispose Perpetua, indi fattasi all'orecchio di Don Abbondio,
domandò sotto voce: «i danari li ha in tasca?»
«Sì,
zitto zitto per amor del cielo», rispose Don Abbondio, e prese il fardello.
«Sentite Perpetua», riprese poi tosto al momento di partire: «tirate fuori
qualche altro abito che Agnese farà questo servizio al suo curato di
portarlo».
«Ma
non vede, che ho preso con me tutto quello di mio che poteva portare?» disse
Agnese.
«Oh
me poveretto!» mormorò Don Abbondio, «ognuno pensa a sè. Andiamo,
andiamo. Perpetua chiudete bene la porta: alla custodia di Dio. Aspettate... ma
no no, peggio: sono la metà Luterani! misericordia!»
Don
Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che alla
prima gli era paruta un bel trovato per preservare la casa. Voleva staccare
dalla chiesa il quadro del Santo protettore, e affiggerlo al di fuori su la
porta, per indicare che la casa era sacra, e per fare in modo che non potesse
essere intaccata che per mezzo d'una profanazione: ma s'avvide tosto che quel
mezzo di difesa, molto debole per sè contra soldati avidi di rapina,
poteva in questo caso divenire una provocazione a far peggio: giacché fra quei
soldati v'era di molti ai quali uno sberleffo fatto coll'alabarda all'immagine
d'un Santo sarebbe sembrato un'opera meritoria, una espiazione anticipata del
saccheggio.
Data
una occhiata lacrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle due
vecchie amazoni, e per tutta la via non fece altro che sospirare, lagnarsi
dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi parrocchiani, domandare a
Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e se credeva che non
le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per le quali il Conte sarebbe
stato peggiore d'un cane se gli avesse fatto male, e divisare dove si sarebbe
potuto cercare un asilo se quello a cui si andava fosse stato mal sicuro.
Giunti
presso al castello videro un gran movimento, gente che andava, gente che
veniva, uomini in arme appostati, altri che giravano in ronda a tre a quattro,
tanto che Don Abbondio cominciò a scrollare il capo e a dire: «Che
è questa faccenda?» Ma Perpetua gli spiegò tosto che quegli erano
evidentemente uomini che vegliavano alla sicurezza del castello, e di quelli
che, come si vedeva, andavano ivi a rifuggirsi.
«Ohimè!
ohimè!» disse Don Abbondio: «vedo che qui si voglion fare delle pazzie;
appunto quando più si vorrebbe stare zitti, rannicchiati senza né meno
fiatare, farsi scorgere. Basta; vedremo: se fanno pazzie per tirarsi addosso la
burrasca, dei monti ce n'è, e i precipizj non mi fanno paura: quando si
tratti di salvare la pelle, ho coraggio anch'io quanto chi che sia, andrei in
mezzo al fuoco».
Dette
sotto voce queste parole Don Abbondio proseguiva lentamente, guardando con
attenzione a quegli armati, e cercando di comporre il volto alla indifferenza,
e di non lasciar trasparire il suo pensiero che diceva dentro: — Scommetterei
che questo gradasso ha caro che sia venuto un flagello così orribile per
avere il pretesto di fare un po' di rimescolamento. Oh che gente! Oh che gente!
Del
resto le cose erano quivi come Perpetua le aveva immaginate. Al castello del
Conte era rimasta unita una antica opinione di sicurezza e di potenza; e i
nuovi costumi del signore ne avevano cancellata affatto l'idea di oppressione e
di terrore; dimodoché la gente del contorno dalla banda del Milanese, vi
accorreva come ad un asilo forte e pietoso nello stesso tempo. Il Conte lieto
di esser un oggetto di fiducia a quei deboli che aveva tanto spaventati ed
oppressi, raccolse tosto i primi che si presentarono. Ma un tal uomo non
avrebbe potuto considerare la sua casa come un asilo disarmato, un nascondiglio
di paura, né starsi colle mani in mano quando ad ogni momento poteva
presentarsi un'occasione di menarle santamente. Fece addirittura tirar
giù dal solajo le armi irrugginite, le fece ripulire in fretta, ne
distribuì ai servitori. Quindi a misura che accorrevano fuggiaschi, egli
trasceglieva gli uomini capaci di portare le armi, dava loro moschetti e
partigiane: quando la provvigione fu esaurita, ne fece raccogliere all'intorno:
e scompartiva gli uficj a quei nuovi soldati; altri mandava in ronda, altri
più lontano per esplorare, altri stavano raccolti per porsi in difesa.
Quando uno era entrato nel castello, ed era passato in rivista dal signore,
diveniva verso lui come un soldato col suo antico ufiziale: tanto il Conte
possedeva quella forte risolutezza che piega le volontà, e quella parola
che toglie il pensiero di fare diversamente da quello ch'ella suona. Aveva
allogate le donne e i fanciulli nelle stanze più riposte; i letti erano
pei vecchj, e per gl'infermi: una gran sala serviva di magazzino per le robe
che erano portate su dai rifuggiti: tutto era collocato in ordine, con numeri,
dei quali il corrispondente era dato ai padroni; ed alla porta della sala era
posto come un corpo di guardia; chi aveva portate provvigioni, viveva di
quelle, e i poveri erano nutriti dal Conte con razioni che si distribuivano
regolarmente come in un campo. Egli, come l'Ariosto sognò di Carlo in
Parigi, di qua di là, non istava mai fermo: dava ordini, visitava posti,
metteva a luogo quelli che arrivavano, governava ogni cosa; e dove nascesse
qualche garbuglio, qualche contesa, si mostrava, e tutto era finito.
Era
appunto su la porta quando giunsero i nostri pellegrini; gli riconobbe tutti e
tre, e gli accolse tutti con pronta cordialità; ma alla madre di Lucia
fece una accoglienza particolare nella quale traspariva come una gratitudine
perché ella gli desse ora una occasione di compensare alquanto in quello stesso
castello la terribile ospitalità che vi aveva trovato la figlia. «Bene
avete fatto, brava donna», disse il Conte, «di cercare qui un ricovero. Bene
avete fatto di ricordarvi di me: fate stima di esser in casa vostra. Voi ci
portate la benedizione».
«Oh
appunto!» rispose Agnese: «sono venuta a darle incomodo».
Il
Conte le chiese con premura novelle di Lucia, e udite che le ebbe, si rivolse a
Don Abbondio, e disse: «La ringrazio Signor curato ch'ella degni scegliere un
asilo in questa casa».
—
Manco male che conosce i suoi meriti — pensò Don Abbondio, e
cominciò per rispondere: «In questi frangenti... in queste
circostanze... non si... tutto è...» Ma vedendo che la frase così
cominciata non poteva venire a bene, la convertì in un inchino profondo.
«Son
già arrivati alla sua parrocchia coloro?» domandò il Conte.
«Dio
liberi!» rispose Don Abbondio: «Dio liberi! Non sarei qui vivo e sano ad
implorare la protezione del Signor Conte».
«Si
faccia cuore», ripigliò questi: «qua su non verranno; ma se volessero
tentar la prova, siamo pronti a riceverli. In ogni caso la sua presenza
è preziosa, Signor curato: ella potrà animare questa brava gente
alla difesa della vita di tanti deboli, della pudicizia di tante donne che
confidano in noi».
—
Un corno, — disse fra sè Don Abbondio.
«Ella
potrà», proseguì il Conte, «assistere quelli fra noi che
lasciassero la vita in questa impresa di misericordia».
«Signor
Conte», disse Don Abbondio, «sarà quel che Dio vorrà». E
così dicendo girava la testa a guardare qual fosse la più vicina
e la più alta delle cime che dominavano il promontorio su cui era posto
il castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i
combattenti.
Non
rimaneva nel castello più che un letto libero; e fu dato, com'era
giusto, a Don Abbondio prete e vecchio. Ma il Conte, memore della notte che
Lucia aveva quivi passata, non avrebbe potuto sofferire che la madre di lei,
dormisse su la paglia. Fece quindi portare il suo letto nel dormitorio delle
donne, e disporlo quivi per Agnese, intimando ai servi che si guardassero bene
dal dire che quello era il letto del padrone: e nella sua stanza fece in quella
vece portare una bracciata di paglia.
Quindici
giorni circa passarono i nostri rifuggiti nel castello; quindici giorni di
batticuore e di sospetto, di spauracchi subitanei, e di rincoranti non
è vero, di vigilie, di allarmi, di pericoli, che grazie al cielo
tutti svanirono senza danno. Il castello era fuor di strada, e quei pochi
demonj di lanzichenecchi sbandati che capitavano alle falde del promontorio,
veggendo su per la via uomini in arme, e non sapendo quanti più ve ne
fosse in alto, più curiosi allora di preda che di battaglia, se ne
tornavano, pel loro meglio. Oltracciò la parte dell'esercito che nella
marcia si diffondeva lungo l'estremo confine aveva un interesse urgente di
tenersi raccolta, e all'erta, e di non disperdersi troppo a buscare. Sull'altro
confine era raccolta una forza dei Veneziani, la quale sotto il comando di
Marco Giustiniani, provveditore all'armi in Bergamo era destinata a costeggiare
l'esercito alemanno per tutto quel tratto del suo passaggio che toccasse i
confini della Repubblica; e a questa forza avevano dato nome di Squadrone
volante. Alla presenza di questi che certo non erano amici, e che vedendo un
bel tratto, potevano far da nemici, bisognava camminare con giudizio; e questa
fu principalmente la cagione per cui il castello non fu molestato.
Ma
anche questa che in fatto era salute, fu pel volgo inerme che vi era ricoverato,
e per Don Abbondio principalmente un aumento d'inquietudine. Poiché, se il
confine veneto fosse stato sguernito, Don Abbondio certamente l'avrebbe
varcato, e sarebbe andato innanzi fino a che non avesse più inteso
parlare di lanzichenecchi. Ma ora il poveretto non aveva più rifugio:
l'accesso ai monti, oltre la fatica, era pieno di pericoli, pei predoni che
potevano trovarsi su la via: e attraversare lo Squadrone volante sarebbe stato
lo stesso che correre in bocca al lupo: giacché quella era una marmaglia
ragunaticcia d'uomini tagliati a un dipresso alla misura dei lanzichenecchi; e
nel paese che le era dato a proteggere faceva il peggio che poteva.
Ognuno
può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei quindici
giorni. Stavasi colle donne coi vecchj e coi fanciulli nel luogo più
riposto del castello: di tempo in tempo la paura lo cacciava fuori a domandar
novelle, e rare erano quelle che non accrescessero lo spavento. L'aspetto
dell'armi, dei preparativi di difesa da una parte lo rincorava alquanto,
dall'altra gli era intolerabile facendogli immaginare tutte quelle bagattelle
in movimento a far carne. Si percoteva il petto e le guance pensando alla
minchioneria che aveva fatta. — Mi son messo in gabbia da me stesso, — diceva
tra sè sospirando. — Oh che bestia! mi sono lasciato condurre da due
pettegole. — E in questo pensiero s'infuriava tanto che più d'una volta
tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj contra di essa. Ma
quando Perpetua giustificandosi alzava la voce, Don Abbondio la faceva tacere,
e cessava di garrire anch'egli tutto impaurito che non nascesse qualche
scandalo, e il Conte tornando all'antica natura non facesse il diavolo. Don
Abbondio sedeva alla tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la
tavola dello stato maggiore: v'erano i signori del contorno che facevano da
ufiziali, le signore, e qualche prete. La tavola era lieta: il Conte, da buon
generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad ispirare
risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in comune, perché i
pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento. Bisognava dunque
parlare, e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio era un supplizio: e quando
il Conte gli rivolgeva in particolare il discorso per animarlo un pochetto,
egli allora sforzandosi di mangiare e di ridere, faceva in una volta due
smorfie che gli davano una figura veramente compassionevole.
Ma
tutte le cose hanno finalmente un termine: passano i cavalli di Wallenstein,
passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt, passano i fanti di
Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari, passa
Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo, passano i Croati; quando piacque
al cielo, passò anche Galasso che fu l'ultimo. Lo squadrone volante dei
Veneziani si mosse anch'esso per tener dietro al movimento dell'esercito
alemanno su la riva opposta dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due
stati, e portarsi poi sull'Oglio a fare la stessa processione. Quando le due
retroguardie furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono
come uno stormo di passere si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e
fronzuti d'una gran quercia dove erano accorse a ricoverarsi dalla tempesta.
Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido, per mirar tosto
cogli occhi proprj il suo dolore, e il guasto che v'era stato fatto, e nello
stesso tempo perché i barberini, vedendo la casa abbandonata, non venissero a
portar via quello che i barbari avevan potuto lasciare. E poi, per quanto il Conte
avesse dato segni e prove d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non
l'aveva potuto guardar mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era
stato altre volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola
brigata. Ma dall'altra parte lo riteneva la paura di abbattersi in qualche
lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in porto.
Era quindi sempre su le mosse, sempre s'indugiava, domandando novelle dei
contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le novelle erano
dolorose. Quei pochi rimasti colla speranza di guardar le case, o discesi
troppo presto, erano trovati sbigottiti, storditi dalle percosse e dallo
spavento: ogni arredo, ogni masserizia sparita, e in quella vece nelle case, un
impatto di strame, tizzoni di mobili arsi, greppi di stoviglie, sfracellate per
istrazio dopo avervi bevuto il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo
che toglieva il respiro; dimodoché ognuno tornando con ansia alla casa
derelitta, ne usciva alla prima con fastidio, e doveva farsi forza a poco a
poco per rientrarvi a renderla di nuovo abitabile. In qualche luogo il padrone
avanzando così per la casa sua, udiva un gemito; guardava con sospetto
che fosse: era un soldato che languiva infermo, che spirava: e il padrone
ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di pietà,
di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate
del giacente l'immagine confusa ma terribile della peste, che fino allora forse
egli aveva sprezzata come un sogno lontano.
Il
Conte argomentando da queste relazioni che Agnese se si fosse affrettata di
tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare, la ritenne per due
o tre giorni; e intanto raccolse di quello che gli rimaneva, un po' di
provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche
attrezzo di cucina, e caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su
quello con quella poca scorta, e la fece accompagnare da due suoi tarchiati
servi, ordinando loro che ajutassero la povera donna a ripulire la sua casa.
Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di
grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.
La
strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione, e della
disperazione; ma la giunta fu più trista ancora. Alla esclamazione cento
volte ripetuta di «povera gente» succedette il «povero me»: parola che
generalmente parlando esce da una parte più profonda.
Cogli
ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero
abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel
campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra; e tra con questi
rimasugli, e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso,
allogarsi in casa se non come prima, almeno in modo da poterci stare
passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi paesani. Ma il povero Don
Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare: «oh
che gente! oh che gente!» La sua casa era la più mal trattata del
villaggio, perché era la più apparente; e gli ospiti eroi sospettando
che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi avevano
impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra. Il sospetto non era
mal fondato, né le cure erano state inutili: e Perpetua mettendo il piede su la
soglia tra mezzo i mobili spezzati, i fogli lacerati, e le piume delle sue
galline, scerse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella
pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi
avevan più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don
Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal
ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza, e lo ritraeva,
dava tre passi, e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza oltre il guasto che
presentava, dava tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto
saccheggio erano ristretti in un picciolo angolo, come idee sottintese in un
periodo scritto da un uomo di garbo. Sul focolare della cucina per esempio si
vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati
un bracciuolo di seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una
doga del botticino dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga
esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco. Di questi e di
tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere, e di carboni
spenti; e con quei carboni, come per compenso, e per un complimento al padrone,
i guastatori avevano schiccherate le pareti di visacci, ingegnandosi con
berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei preti, e studiandosi di
farli orribili e ridicolosi; intento che per verità non poteva fallire a
tali artisti.
Don
Abbondio mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigj su le tempie, balzò
di casa come un forsennato, e andò di porta in porta a gagnolare, a
scongiurare quegli che tornati da qualche giorno avevano assestate alla meglio
le case loro, che venissero a dare un po' di governo alla sua; e nello stesso
viaggio, guardava anche chi fosse più fornito di roba salvata dalla
rapina, e accattava in prestito da chi una panca, da chi una coltre, da chi un
piatto, da chi una pentola; tanto che cogli ajuti e con le prestanze
potè accamparsi quel giorno in casa per riconquistarla e riordinarla poi
tutta a poco a poco. Passati quei primi giorni, e nel tempo appunto delle
brighe e delle spese, Don Abbondio ebbe con se stesso e con Perpetua una guerra
assai fastidiosa. Perpetua, parte con la sua vista acuta come il fiuto d'un
bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che
molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai
barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini; ne fece tosto
avvertito Don Abbondio, perché si facesse rendere il suo. Ma Don Abbondio non
voleva sentir toccare questa corda: non già che non gli spiacesse assai
vedersi così rubato a man salva, e sapere il fatto suo in mano d'altri:
ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e bizzarri arieti del
suo gregge: quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre sofferto ogni cosa
piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati, e lodati come
i più savj ed esemplari. Sicché sopra il rovello e il danno aveva egli a
tollerare anche le baruffe con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte
le volte che Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno
di quegli utensili che altri aveva fatti suoi.
«Vada
a cercarlo al tale che lo ha», diceva Perpetua, «e che non lo avrebbe tenuto
fino a quest'ora se non avesse che fare con un... buon uomo».
«Zitto,
zitto Perpetua, zitto».
«Zitto,
zitto», rispondeva Perpetua: «e così ella si lascerebbe mangiar gli
occhi del capo. Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato
non rubare».
«Oh
che spropositi! oh che spropositi!» sclamava Don Abbondio. «Ma sapete pure...
Col nome del cielo... volete la mia morte!...»
La
baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre vincitore,
perché quando si trattava di paura, egli mostrava una risoluzione e una virtù
tale che Perpetua sentiva di non poter competere, e taceva la prima. Tutto
quello che fece Don Abbondio, fu di gittare in predica qualche motto sul dovere
di restituire e su la trista sorte di chi va all'altro mondo carico
dell'altrui; ma lo diceva con certe perifrasi, con un riserbo, con una
delicatezza da fare onore ad un predicatore di corte. E pure appena quelle
parole erano uscite, gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per
riparare un qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a
parlare dell'ira, e della mansuetudine, e del gran male che è
l'infierire contra quelli che non vogliono né possono far difesa.
Ma
fra mezzo alle cure del passato cominciava a nascere una che doveva tutte
sommergerle: si cominciava a sentire che i disastri manifesti e soli fino
allora deplorati di quel passaggio, non erano i soli né i più terribili.
In tutta quella striscia del Milanese che la soldatesca aveva attraversata, si
videro tutt'ad un tratto uomini d'ogni età e d'ogni sesso infermarsi e
cadere come mosche dopo una pioggia autunnale. I segni che accompagnavano
quella infermità erano sconosciuti a quasi tutta la generazione vivente:
solo alcuni vecchioni, con parole ravvolte e sospettose accennavano di aver
veduti quei segni altra volta. Erano i pochi i quali potessero ricordarsi
d'essere vissuti nella peste che cinquantatrè anni prima aveva desolata
una parte d'Italia, e specialmente il Milanese, dove a distinguerla da altre
simili calamità fu poi chiamata, e lo è tuttavia: la peste di San
Carlo. Tanto è forte la carità religiosa! Tra le memorie
così varie e così solenni d'un disastro universale, ella
può far primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato
sentimenti ed azioni più memorabili ancora dei mali: può riunire
e subordinare alla memoria di lui tutti gli avvenimenti, perché in tutti lo ha
spinto ed intromesso a parte dei patimenti, in capo dei soccorsi, esempio,
consiglio, vittima volontaria; di ciò che per tutti è una
sventura fare per lui come un'impresa; far ch'essa prenda il nome da lui, come
una provincia da un suo conquistatore.
Il
tribunale della sanità in Milano era composto d'un presidente e di sei
conservatori, quattro dei quali tolti da magistrature diverse, e due medici:
questi ultimi erano allora Lodovico Settala, e quell'Alessandro Tadino,
già da noi citato, e che lo sarà ancor più in seguito. Il
primo, quasi ottuagenario, era uno dei pochi testimonj viventi della peste di
San Carlo; né testimonio puramente passivo; ma, fisico fin d'allora molto
riputato, benché giovanissimo, ne era stato uno dei più affaccendati e
intrepidi curatori. Questi, che stava all'erta, e richiedeva avvisi dalle terre
che l'esercito aveva toccate, ebbe in fatti i primi della mortalità; e
fu il primo a riferire nel tribunale che la peste s'era manifestata nel
territorio di Lecco. Sopraggiunsero poi altri avvisi: il tribunale spedì
un commissario perché osservasse e facesse relazione: questi in compagnia d'un
medico di Como, visitò alcuni dei luoghi indicati; raccolse informazioni
superficiali e contradditorie; credette a quelle che attribuivano la
mortalità ad un solito effetto dell'autunno in quei luoghi, e
rassicurò il tribunale. Ma ecco giungere avvisi da altri luoghi al
tribunale, il quale finalmente delegò due commissarj ad una visita
generale dei paesi sospetti; Alessandro Tadino, e Giovanni Visconti Auditore.
Quando questi arrivarono, il male s'era già tanto dilatato, che le prove
si offerivano senza ch'essi le andassero cercando. Trovarono le ville, quale
sbarrata per timore del contagio vicino, quale mezzo abbandonata; famiglie
accampate o disperse, già piangenti la morte di qualche congiunto, e
tremanti per la propria salute: s'inchiesero del numero dei morti, ed era
terribile; visitarono gl'infermi e i cadaveri, e rinvennero i segni che
tremavano di rinvenire: assunsero informazioni, riseppero che ivi più
presto s'era manifestato il male, dove i soldati avevano stanziato più a
lungo, o in più gran numero; che i primi percossi erano stati quelli che
avevano spogliati i morti per appropriarsi le vestimenta, o che avevan
comperata dai rimasti indietro qualche roba tolta ai loro paesani, o che in
qualunque modo avevano avuto contatto con quegli ospiti. Riscrissero quindi al
tribunale che i sospetti erano divenuti una dolorosa certezza; e nello stesso
tempo diedero quegli ordini che seppero per curare gl'infermi, e preservare i
non tocchi, facendo tagliare strade, rinchiudere altri nelle case, altri
attendare alla campagna, fissando provvigioni ad un paese, lasciando istruzioni
in un altro, piantando in un altro la forca pei disobbedienti; il tutto in
fretta e in furia come si poteva in quei tempi, in quelle circostanze, da
quegli uomini sopra quegli uomini. La nuova si diffuse tosto nella
città, e vi fu accolta con beffe incredule, e con disprezzo iracondo, e
dal popolo e dalla maggior parte di coloro che avrebbero potuto e dovuto dare
provvedimenti in tanto pericolo. Bisogna però eccettuare espressamente
il cardinal Federigo, il quale ai primi romori di peste, prescrisse al clero regolamenti
di preservazione, e di carità, e ingiunse ai parrochi specialmente che
ammonissero i fedeli del grave peccato che avrebbe commesso chi per tema di
danno o d'incomodo occultasse il suo o l'altrui morbo contagioso, o per
insensata avarizia trafugasse vestimenta o cose di qualunque genere infette o
sospette.
CAPITOLO III
Il
giorno 22 d'ottobre di quell'anno 1629, Pietro Antonio Lovato, fante in un
reggimento italiano alloggiato nel territorio di Lecco, entrò in Milano,
carico di vesti rubate o comperate dai soldati alemanni; e andò a porsi
in una casa di suoi parenti nel borgo di Porta Orientale. Appena giunto
s'ammalò; fu portato allo spedale: e morì nel quarto giorno. Nel
cadavero si scoperse un carbone che diede sospetto di peste; i parenti del
morto, spaventati dall'idea di divenire sospetti anch'essi, e di essere
assoggettati alle precauzioni sanitarie, accorsero ad asseverare che quel
tumore era stato cagionato dalla fatica del viaggio e della soma. Tuttavia gli
abiti del Lovato e il letto dov'era giaciuto furono arsi nello spedale; ma non
si pensò a più lontani provvedimenti. Tre giorni dopo, due
serventi dello spedale, che avevano governato quell'infermo, e un buon frate
che lo aveva assistito, si posero giù con febbre, che fu giudicata
pestilente.
Allora
il tribunale della sanità fece sequestrare la famiglia del Lovato dalle
molte altre famiglie, che abitavano nella stessa casa. Quest'ordine fu dato per
abbondare in cautela, a quel che lasciò scritto il Tadino; ma se la
cautela fu abbondante, certo non fu a tempo; poiché egli stesso racconta come
un Carlo Colonna sonatore di liuto, che dimorava sotto quel tetto,
s'ammalò ben tosto, e visitato da lui, morì in breve spazio con
tutti i segnali del contagio.
Tutti
gl'inquilini di quella casa furono allora mandati al lazzeretto. Ma dall'arrivo
del Lovato erano già corsi forse venticinque giorni, nei quali i
parenti, i vicini che avevano praticato con lui, avevano praticato pure con
altri senza sospetto e senza riguardo. Furono ricercate tutte le robe del
Lovato e del Colonna; e fatte ardere quelle che si poterono rinvenire. Ma una
parte era stata trafugata, dispersa, nascosta, con quella destrezza, con quella
diligenza che tutti noi figli d'Adamo sappiamo mettere nel far male a noi
stessi. I conservatori della sanità lo riseppero da una donna che si
moriva per avere avuto di quella abilità; e non poterono fare altro che
concepire un gran sospetto per l'avvenire. Ben presto ogni più tristo
sospetto cominciò ad avverarsi: la più parte dei sequestrati nel
lazzeretto s'infermarono, e tutti coi medesimi tremendi segnali; e molti di
essi morivano in poco d'ora. Lo stesso accadeva di quando in quando in varj
quartieri della città, o per comunicazioni avute colla gente di quella
casa funesta, o per nuovo arrivare d'uomini dalle parti del contado dove la
peste era più diffusa. Ma le nuove di quegli accidenti giungevano al
tribunale, tarde per lo più, incerte, contraddette. Il terrore del
lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni, e faceva sormontare ogni altro terrore:
si dissimulavano gli ammalati, si occultavano i cadaveri, si procuravano false
attestazioni. Quegli poi che avevano ottenuto l'intento di evitare il
lazzeretto, o la quarantena in casa, e di conservare le robe dei congiunti o
degli ospiti loro, cadevano poi talvolta repentinamente nelle vie, nelle chiese
soprappresi dalla peste, e manifestavano in se stessi il malore che
insensatamente avevano voluto nascondere in altri. Il tribunale avvertito,
faceva portare gl'infermi e i sospetti al lazzeretto, e sequestrare gli altri
nelle case.
Ma
lo schiamazzare che si faceva contra quel tribunale non è da dirsi: i
suoi atti erano oggetto di amara censura e di derisione; le persone oggetto di
avversione e di disprezzo. A volerlo ora dopo due secoli, giudicare con
discrezione, bisogna vedere ciò ch'esso poteva fare per distornare la
peste, o per diminuirne il guasto; e ciò che fece. Ora, prima di tutto
è cosa troppo evidente che il tribunale della sanità non poteva
impedire che entrasse la peste nello stato, quando v'entrava un esercito nel
quale era appiccata. Fin da quando si seppe che la calata di questo esercito
era risoluta, quei poveri galantuomini, — e questo fu veramente un abbondare in
cautela — rappresentarono al Signor Don Fernando Gonzales di Cordova la rovina
che infallibilmente ne sarebbe venuta al paese: ma Don Fernando Gonzales di
Cordova rispose chiaramente che il fine politico per cui si faceva passare
quella truppa, importava più che non la sanità pubblica. Non
parlò dunque con esattezza quel valentuomo, il quale in un libretto, per
altro lodevolissimo, ricercando le cagioni per cui quella peste fu tanto
micidiale in Lombardia, nota per la prima «una somma spensieratezza nel
lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza»: e fa nascere
questa spensieratezza «dalla ignoranza e dalla sicurezza nei loro errori, che
formò il carattere dei nostri avi». La non fu spensieratezza; fu
posponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli
che lo commisero non sono nostri avi. A ciascheduno quel che gli si viene.
Ma
data questa inevitabile ospitalità ad appestati, poteva il tribunale
impedire ogni contatto dei paesani con quelli? Qui pure l'impossibilità
è manifesta: poiché si trattava di migliaja d'uomini che violentemente
si ponevano nelle case, occupavano i letti, prendevano, adoperavano,
brancicavano, mal menavano le cose e le persone che potevano aver nelle mani.
Entrato
così il contagio negli abitanti, poteva il tribunale circoscriverlo
tosto a quei primi infetti, isolarlo, costringerlo nei luoghi dove si
manifestava, ottenere quei due scopi egualmente sacri, e tanto difficili a
conciliarsi, l'assistenza agli infermi, e la preservazione dei sani? Quando si
consideri che i soldati avevano percorse forse cento cinquanta miglia del
Milanese, e s'erano diffusi a destra e a sinistra per trovare alloggiamenti, e
per rapinare; che in varie parti di quel tratto la pestilenza si
manifestò ad un punto, in moltissime persone, si vedrà che anche
quest'ultimo scopo era se non impossibile, difficilissimo ad ottenersi dal
tribunale, quand'anche questo avesse avuti a sua disposizione mezzi
grandissimi, e avesse trovata da per tutto una pronta, attiva, e sapiente
cooperazione; del che non era niente.
Ma
per conchiudere finalmente, adoperò il tribunale tosto o tentò
tutti quei mezzi che aveva se non per distruggere, se non per ridurre a poco,
almeno per iscemare in qualche parte il contagio, e per salvare i paesi non
ancor tocchi? Qui bisogna distinguere fra le persone stesse del tribunale.
I
due medici, convinti dal primo momento della gravità del pericolo,
insistettero tosto e sempre perché si dessero pronti provvedimenti; ma non
furono secondati dai loro colleghi. Proposero per esempio che fosse proibito
sotto pene severissime, il comperar robe dai soldati alemanni; «ma», dice
ingenuamente il Tadino, «non fu possibile persuaderlo al presidente pieno di
molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte
di tante migliaja di persone, per il commercio di questa gente e loro robbe».
Così l'avere a quel primo avviso del Settala, anzi dopo gli iterati
avvisi che giungevano dal territorio di Lecco, spedito un ignorante
commissario, col solo carico di riferire, fu atto di trascuranza inescusabile;
per non parlare di molti altri atti di egual valore. Certo una condotta simile
in simili circostanze d'un tribunale della sanità ai nostri giorni
ecciterebbe uno scandalo universale; o per meglio dire non vi sarebbe ora forse
in Europa tribunale della sanità che operasse a quel modo.
Ma
— e qui appare il carattere singolare di quei tempi — non erano queste le
accuse che gli uomini d'allora facevano al tribunale; lo accusavano, indovinate
mò; di corrività, e di precipitazione, lo accusavano di credere
pazzamente ad un male che non esisteva, di atterrire, di contristare, di
tormentare con ordini inutilmente i cittadini. Dopo tante calamità,
parlare anche di peste pareva un raffinamento di crudeltà; il popolo
bene o mal vestito gridava ad una voce che quell'orrendo sospetto era una
invenzione di alcuni medici per guadagnare sul pubblico terrore. Molti fra i
medici stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso — se
è lecito fare una eccezione ad un proverbio — non era certamente voce di
Dio, ridevano al nome di peste, attribuivano la mortalità ai disagj
degli anni scorsi, ed avevano in pronto molti nomi per qualificare variamente
gli accidenti di quel male nelle varie persone; quando qualche infermo,
rimovendo tristamente la coltre, mostrava loro un tumore che gli dava da
pensare, essi sogghignando gli domandavano se non aveva mai veduto foruncoli;
quando si parlava di taluno estinto repentinamente, o dopo brevissimo languore,
domandavano se non si erano mai conosciute apoplessie. Con una disposizione
universale di questo genere, gli ordini del tribunale dovevano incontrare da
per tutto ostacoli, resistenze, inesecuzione. Così era in fatti; e per
immaginarsi a qual segno, basti sapere che gli ufiziali stessi del tribunale,
quelli che dovevano fare eseguire gli ordini, erano, come l'universale convinti
che fossero pazzie. Come però erano ordini, che davano ad essi una
autorità, e ordini spiacenti a chiunque vi si doveva assoggettare, una
gran parte di quegli ufiziali faceva un traffico della inesecuzione.
Era
venuto il carnevale; e agli animi avidi di tripudio diveniva ancor più
insopportabile la tirannia del tribunale che per un supposto ostinato, per un
suo capriccio vi poneva inciampo in mille modi. Non consta veramente che
giungesse all'eccesso di proibire le mascherate; ma faceva far visite
incessanti, ma prescriveva sequestri, ma separava gente da gente, ma non
rifiniva di tappezzare gli angoli delle vie di ordini minacciosi, malinconici,
ma insomma voleva intrudere a forza quella idea di peste in tutto, amareggiava
e teneva su la corda ogni galantuomo. Più ancora fremevano coloro che
come sospetti erano rinchiusi nel lazzeretto; e ripensavano tristamente ai
divertimenti dai quali erano tenuti in bando; si rodevano di non potere, come i
loro concittadini, gettare alle finestre, alle carrozze delle signore uova
industriosamente ripiene di acqua odorosa o fetida, secondo il genio leggiadro
o spiritoso del dilettante: sollazzo renduto più piccante dal divieto
annuo, e dalla destrezza che si doveva impiegare a far le cose in modo da non
esser sorpresi, e da schifare la multa di venticinque scudi se il reo era un
galantuomo, e due tratti di corda se scarseggiava di scudi. Pensarono dunque al
modo di divertirsi almeno in quel tristo ricinto; e con danari ottennero
facilmente dai ministri del tribunale, di confondersi e di praticare
liberamente fra loro; ottennero di più che si desse adito nel lazzeretto
a chi voleva venire a rallegrarli: vi si fecero feste e balli: la licenza fu
tanto più sfrenata in quanto aveva costato desiderj, e denari: e quel
luogo che in verità pare dovesse ispirare tutt'altri pensieri, divenne
un ridotto di tresche romorose, e di sozzi baccani.
Similmente,
molti in casa di cui moriva uno appestato con denaro ottenevano dai ministri
del tribunale che la casa non fosse dichiarata sospetta, ottenevano di poter
sottrarre all'incendio prescritto dagli ordini le robe del defunto. Vedendo poi
molti di costoro che guadagno ritraevano dalla loro condiscendenza, pensarono a
farla comperare anche a chi non ne aveva bisogno; e quel traffico tanto
insensato e colpevole si cangiò di più in concussione.
Minacciavano essi del lazzeretto o della quarantena famiglie dove era morto
qualcheduno, quantunque con nessun indizio di peste, e per altro male
manifesto; prolungavano ad arbitrio le quarantene, intimavano la qualità
di sospetti, e le conseguenze di questa qualità coi più vani
pretesti a chi conveniva loro; e il solo mezzo d'uscire da quegli artigli era
di ugnerli, come si dice.
Queste
vessazioni crescevano il malcontento e i clamori: di tutto si dava cagione al
tribunale, e alla opinione che vi fosse la peste; giacché tolta questa opinione
sarebbero necessariamente cessati colle prescrizioni di cautela, gl'incomodi e
gli abusi di quelle. Ormai chi avesse voluto parlar seriamente di peste sarebbe
stato accolto non più con risate, ma con minacce e con insulti: quei
medici, che lo ardivano erano nominati, notati, mostrati a dito come pubblici
nemici.
Sa
il cielo quante quei poveri galantuomini avranno dovuto ingozzarne; le quali sono
sepolte nell'obblio con chi le ha fatte e con chi le ha patite. Uno di quei
casi però parve ai contemporanei degno d'esser tramandato ai posteri; e
in servizio di quei posteri che forse non l'avessero mai inteso, lo
racconteremo di nuovo anche noi.
Ludovico
Settala era generalmente riputato il primo medico del suo tempo in Lombardia; e
questa riputazione gli è conservata tuttora da coloro che sono in caso
d'avere una opinione ragionata su questo fatto. Oltre questa superiorità
di dottrina, era egli celebrato e venerato per bontà di costumi, per uno
grande zelo e un gran disinteresse e beneficenza nell'esercizio della sua
professione. Vecchio venerabile, autore di molte opere la più parte
latine, lodato dagli esteri, uomo che per amore del luogo natale aveva
rifiutati gl'inviti splendidi del duca di Baviera, del granduca di Toscana, del
cardinal legato di Bologna, dei signori veneziani, protofisico, lettore di
filosofia, egli avrebbe potuto slanciare impunemente, anzi con applauso
qualunque sproposito. Ma egli abusò di tanta popolarità; volle
dire una cosa vera, che importava a tutti, e che nessuno voleva intendere; e ne
fu severamente punito. La popolarità e il favore si cangiò in
avversione. Egli, il primo a denunziare la peste, aveva sempre persistito nel
proporre provvedimenti, aveva messa ogni cura nel farli eseguire, e più
sicuro degli altri per una lunga abitudine di autorità aveva sempre
predicato in ogni occasione e con chi che sia che pur troppo il male era certo,
e che l'ostinarsi a negarlo, non poteva fare altro che dargli più campo
a dilatarsi. Un giorno sul finire del Marzo 1630, appunto quando il contagio
che aveva lentamente serpeggiato nel verno, cominciava a mostrarsi più
frequente, essendo il buon vecchio portato in lettiga a visitare suoi malati,
cominciarono alcuni del popolo a seguirlo nella via, a mostrarlo agli altri, a
sussurrargli intorno. Si fece folla, e allora si cominciò a gridare
più chiaramente: «è il capo della lega: è quegli che
vorrebbe che ci fosse la peste: per sostenere il suo puntiglio: per far
lavorare i suoi medici impostori. Uh! Uh! È quegli che mette la paura in
corpo alla gente con quel suo cipiglio aggrondato, con quella sua barbaccia.
L'amico della peste: il protettore del contagio. Uh! Uh! È ora di
finirla: Si vorrebbe insegnargli a spaventare tutta una città colle sue
imposture».
I
lettighieri vedendo la mala parata, approfittarono della vicinanza d'una casa
conoscente del loro padrone, e ve lo portarono in salvo da quel tumulto, da
quello sdegno che minacciava di diventar furore; ivi il vecchio dovette
rifugiarsi come un omicida per avere avuto ragione, e voluto far del bene.
Da
avvenimenti di questa sorte si trae troppo spesso una conseguenza falsa e
perniciosa: che è pazzia far del bene a noi uomini. Far del bene
è sapienza; la pazzia è proporsi per fine o per premio la nostra
riconoscenza, e la lode che noi diamo e ritogliamo a capriccio, come un ragazzo
il suo balocco.
Poco
dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i
signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo per la più
parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po'
più reconditi, e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi
medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico. Per darcene un
saggio, l'autore del manoscritto, riferisce una disputa occorsa in una brigata
signorile tra il nostro Don Ferrante, e un Magnifico Signor Lucio, del quale
l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità. Era costui
professore d'ignoranza, e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai
studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva
decidere d'ogni cosa; «perché i libri» diceva egli «fanno perdere il buon
senso». Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza, e
comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire
verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di
conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva che non si
potesse consegnare altro che bugie.
Si
strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che
divenendo di giorno in giorno più risoluti cominciavano a non far
distinzione di persone, e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza
incomoda.
«Tutto
questo», diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle
dottrine, che hanno scaldata la testa d'alcuni i quali per nostra sciagura,
comandano. Non è ella cosa che fa rabbia, e pietà nello stesso
tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con
giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni, e del
buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni
ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un pubblico intero, innamorato di
quella sua idea pazza del contagio; perché? perché l'ha trovata nei suoi
autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci».
«Piano,
piano», disse Don Ferrante, il quale benché occupato a dissertare in un altro
crocchio aveva intesa quella scappata del Signor Lucio. «Piano, piano; se si
tocca la scienza son qua io a difenderla».
«Don
Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte
tanti favori», disse una signora, e il tratto riscosse un mormorio di applauso
da tutta la brigata.
«Quand'anche
ciò fosse vero», disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un
mezzo minuto, «una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio
debol merito, ma alla innata benignità del sesso. Comunque sia»,
continuò egli, «son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli
spropositi che si metton fuori sotto il suo nome».
«Don
Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere», rispose il
Signor Lucio, «che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far
credere che vi sia la peste, il contagio, che so io, non sieno cavate dalla
scienza».
«Dica
dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie», rispose Don Ferrante. «Anzi
la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario, e insegna
chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera, un
non-ente».
«Son
cose che le donne possano intendere?» domandò quella signora.
«La
materia è un po' spinosa», disse Don Ferrante; «ma vedrò di
renderla trattabile. Dico dunque che in rerum natura non vi ha che due
generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può
essere né dell'uno né dell'altro genere; dunque non può esistere in rerum
natura. Le sostanze... prego di tener dietro al filo del ragionamento...
sono semplici o composte. Sostanza semplice il contagio non è; e si
prova in due parole: non è sostanza aerea; perché se fosse, volerebbe
tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi; non
è acquea, perché bagnerebbe; non è ignea, perché brucierebbe; non
è terrea, perché sarebbe visibile. Sostanza composta, né meno; perché
tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio o al tatto; e fra
tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver
veduto, non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo
contagio. Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente. Peggio che
peggio. Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo
all'altro; sarebbe dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato:
due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e
scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da
fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che
gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro. Mi pare che
la cosa sia evidente».
«Intanto»,
disse il signor Lucio, «senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso,
tutti i galantuomini, e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio
è un sogno».
«Non
lo sanno; perdoni», rispose Don Ferrante, «lo indovinano, a caso, come atomi
senza cervello che girando senza sapere dove, concorressero a comporre una
figura regolare. Mi dica un po' di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera
di questa mortalità».
«Oh
bella!» disse il signor Lucio; «la cagione è chiara: in tutti i tempi si
muore; in alcuni le morti sono più frequenti perché v'ha più
malattie; e questo è il caso nostro».
«Sì»,
disse Don Ferrante; «ma le malattie, la cagione prima delle malattie?»
«Nè
qui pure c'è sotto gran misterio», rispose il signor Lucio: «la
carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie».
«Tutto
bene», disse Don Ferrante, «ma la cagione prima?»
«Io
non so che cosa ella intenda per cagione prima», disse Don Lucio.
«Ora,
vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza», disse Don Ferrante. «Per
trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi
infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in
fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti. Perché
non si vuol fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle, e le
considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene
inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare né come né
quando. Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di
luce; non si tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve
quella gran cometa causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet
cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l'anno
susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile
carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle
parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit
ubique. Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli
increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più
ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare, e di calcolare, da
quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra predizione egualmente
chiara; così non fosse!...»
Tutti
stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse
per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò; la sua voce prese
un tuono lugubre e solenne, articolò la formola terribile: «mortales
parat morbos; miranda videntur».
«O
poveretti noi!» disse una signora, e rivolta al suo vicino chiese che cosa
volesse dire quel latino.
«Le
prime parole», rispose egli, «voglion dire che il morbo pare mortale: il resto
è una esclamazione che non significa niente».
Don
Ferrante continuò: «Ecco la cagione prima della mortalità, ecco
dove sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare, e
resistere all'evidenza, e credono di spaventarci con un grande apparato di
dottrina, come se alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia
mai toccato il limen della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a
sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli
nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non
fanno niente alla questione...»
«Eppure»,
disse il Signor Lucio, risolutamente, perché gli pareva di avere alle mani una
buona ragione, «eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti
presagisca malanni...»
«E
qui li voglio», interruppe Don Ferrante; «qui dà in fuora lo sproposito.
Confessano questi signori, perché a negare un tal fatto ci andrebbe troppo
coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze
maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro. Chi
ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini
sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti. Confessano che il male
è causato dalle influenze, e dicono poi: state lontani dagli infermi,
non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze discese
dai corpi celesti in questo mondo sublunare potessero schifarsi: come se quando
le stelle inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe
precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale dei corpi
terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei corpi
celesti. Per me, credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei
medici che hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione
maligna che domina in questo anno sciagurato, accioché per giunta di tanti mali
ci tocchi anche il flagello dei regolamenti».
Tutti
quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso,
sapevano che era comparsa quella cometa, avevano inteso dire che l'aspetto dei
pianeti in quell'anno era funesto; ma da tutte queste idee non avevano mai
pensato a cavare quel sugo che Don Ferrante espresse nella sua bella argomentazione.
Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima, e nello stesso tempo
più irritati contra i regolamenti, e più disposti a trascurare,
come inutili, tutte le cautele. Lo stesso contraddittore signor Lucio
partì da quella disputa più pensoso; perché le predizioni
astrologiche erano di quelle cose ch'egli riponeva non nei sogni della scienza,
ma nei canoni del buon senso.
Quando
ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere,
con che fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai
casi, e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di
quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa
compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di
noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti, sarebbe
stato in molte cose l'uomo il più illuminato, e nello stesso tempo il
bersaglio di tutte le contraddizioni.
Ma
dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi
ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle
età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei
nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori
tanto marchiani. E perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo
una persuasione generale, quasi unanime d'idee la cui falsità è
per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate
senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti in somma
per una, due, più generazioni; divenute poi il ludibrio delle
generazioni susseguenti. Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le
idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei
progressi, e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni
stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere
state universalmente avute in conto di verità incontrastabili. Si
direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa che ora nessuno vorrebbe affermare,
vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro l'affermare la tal altra
che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio vi avrebbe fatto andar prigione; in
quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito, in
quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale grand'uomo, e con molta
precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal altra
cosa, che ora per noi e fin d'allora era forse per lui stesso una sciocchezza
badiale. Si vedrebbe un tale errore, proposto da prima con timidità,
sostenuto con modestia, combattuto acremente, diffuso lentamente fra i
contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro
annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato,
cresciuto, e morto in un paese, tale recato da di fuori, e ricevuto con
gratitudine, tale sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai
dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di
dottrine; tale, scavato in un libro vecchio; tale immaginato da un corpo, da un
uomo autorevole; tale messo fuori da un uomo senza credito, e senza merito,
aver fatto grande fortuna perché conforme ad altre idee storte già
dominanti, e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una
delle specie più singolari una lista che sarebbe troppo difficile e
troppo lungo il compiere, si vedrebbe tale errore tenuto fermamente, amato,
predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e pensatori di
un'epoca, e rispinto dal popolo, e dalla folla dei dotti minori, quando per
amore di prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodoché
su quel punto i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei
quali hanno più di ammirazione.
Talvolta
senza proteste senza richiami. Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o
non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa
strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero ragionevoli, come esprimessero
verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l'annunziarle ora con
importanza farebbe ridere per un altro verso.
Questi
richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per
occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più diretta intenzione,
con qualche maggiore insistenza in libri strani e sconnessi, dove ardite verità
sono confuse con arditi spropositi, e con istravaganze volgari. Dal che si vede
quanto fosse prepotente l'autorità di quelle idee; giacché non ardivano
impugnarle che gli uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così
dire della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che
ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso. Volendo
poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee si trova generalmente
che dopo quei primi assalti staccati comparve qualche scrittore pensante e
metodico a combatterle in regola. Allora, un trambusto da non dire: quelle idee
disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso, sono sempre state
difese con sicurezza, e con ardore. Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state
così forti, così inconcusse come in quel momento: ma noi posteri
che vediamo la cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella. Egli era
come quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo: gli
abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio
terribile; pare che vadano ad una conquista o che celebrino una vittoria: ma
guardate il nido, e vedrete ch'egli arde; v'accorgerete che tutto quel
concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi ad alloggiare.
È
cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i
difensori furono costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa;
ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con somma fidanza, e ad
inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci, e renduti
inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto ingegnosi; ma
per chi voleva riflettere, l'epoca stessa della scoperta era un pregiudizio
contro di essi; poiché sarebbe cosa troppo strana che dopo cento o dugent'anni
di persuasione e di consenso in una opinione si trovino tutto ad un tratto le
ragioni fondamentali che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di
conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati
a scavare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far
vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle, non diceva
nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe, non s'avvedevano che
era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la
verità era già stata annunziata da molto tempo, che era stata
posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o l'avevano rifiutata
avvertitamente.
Ma
una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo
importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute si verrebbero
certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così
nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le
hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con
interessi, eccetera. Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di
uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee dominanti al
nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e
cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo
più libero e più fermo, e con un certo sospetto per vedere se mai
non fossero di quelle che una età impone a se stessa come un giogo che
le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacché, è
cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione
troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura comune a tutti i nostri
predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero
avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente,
che senza studio, alla prima occhiata si può scorgere. Citiamone uno dei
più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi,
ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un'ombra, una ritrosaggine,
una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un
ricorrere tosto all'autorità dei morti, e al consenso dei vivi per
chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono
diverso. Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza; quante dottrine non
predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo! Se v'ha chi lo nega, è
facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli
stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno venisse ora
a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che...
Eh ma! signori voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado
oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore, e
torno alla storia.
CAPITOLO IV
Andavano
intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando gli
ammalamenti e le morti. I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e al
continuo battere della luce, si risenta da un alto sonno, cominciavano a
riandare ciò ch'era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a
sospettare, quindi a risolversi che bisognava far qualche cosa. Ordinarono
contumacie, bollette, purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte,
delegarono nobili che vi assistessero, intimarono pene a chi trasgredisse gli
ordini della Sanità, o turbasse con minacce o con insulti quegli che gli
eseguivano, consultarono sui mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del
Lazzeretto, e di tutti gli altri servizj, e di nutrire una gran parte della
popolazione alla quale cessavano i lavori e i mezzi di sussistenza. Ma la
difficoltà era appunto nel trovare questi mezzi.
Il
Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto Casale,
occupato nel suo principal mestiere d'eroe. I Decurioni spedirono deputati a
rappresentargli le urgenze dello Stato, l'esaurimento delle casse municipali,
l'impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non erano
pagate per inabilità, e ad implorare che l'erario reale assumesse queste
spese straordinarie ed inevitabili. Il Marchese accoglieva i deputati con molta
buona grazia. Del resto rispose spiacergli assai di non trovarsi a Milano a
fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i
Decurioni avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini
che erano, al modo di far danari; esser questo il tempo di non guardare a
spese, di profondere per la salvezza della patria; tutte le risoluzioni che
essi avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe
approvate. Su le domande, rispose che avrebbe pensato. Più tardi poi,
nel maggior fervore della peste, il governatore pigliò il partito di
lavarsene le mani; trasferì con lettere patenti la sua autorità
nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a lui e agli altri magistrati la
fame e la peste, non ritenendo per sè che la guerra. In quelle angustie
i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne chiedevano in elemosina, ponevano
contribuzioni particolari ai più facoltosi, aumentavano i carichi, ne
inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai bisogni, e le cose andavano
come potevano. La confusione cresceva di giorno in giorno: quella qualunque
azione dei magistrati che nei tempi ordinarj serviva a mantenere quel qualunque
ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole, più incerta,
più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso tempo
tutti gli elementi di disordine diffusi in quel corpaccio sociale, acquistavano
un nuovo vigore.
I
ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d'impunità poteva
trovarsi per essi nel pubblico turbamento, nello sbalordimento dei magistrati,
e degli uomini quieti, e ne approfittarono. Nè basta; l'autorità
publica, istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro,
e ad affidare a quelle mani una porzione spaventosa di forza legale. Convenne
arruolare in fretta e in furia uficiali d'ogni genere pel servizio
straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica
denominazione milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al
lazzeretto gl'infermi, a sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe
infette, a vivere insomma della peste in mezzo alla peste. A questo tristo e
pericoloso uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più
bassi e penosi, si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali
l'attrattiva delle paghe, della rapina e della licenza era più potente
che il timore della morte. Sul principio fu pure fattibile contenerli entro
qualche regola, ma coll'estendersi della peste andò crescendo la loro
licenza; e a grado a grado, le case, le cose, le persone furono in loro
balìa.
I
tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da
virtù più solenni, più risolute, straordinarie anch'esse;
e di tali non mancò il tempo di cui parliamo. Si videro esempj di
rassegnazione sentita ed animosa, di liberalità costosa, di
carità ardente, e per così dire spensierata, di zelo, di
attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in
gran parte dai suoi ministri.
Fino
dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal pulpito sul
pericolo vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non dubitate, fate
animo, che né da me, né da miei preti non sarete giammai abbandonati». Venuto
il caso, egli attenne in tutto la promessa.
Dando
per supposto, o accennando come cosa già nota che l'esporre la vita pei
fratelli è un obbligo del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a
tutti gli ecclesiastici nuove regole sul modo di amministrare i soccorsi della
religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da
erogarsi in ajuti temporali. Corresse severamente e svergognò quelli che
si ritiravano dall'assistere agli infermi: il primo che disertando la sua
parrocchia, s'era rifuggito in campagna, lo richiamò egli con rampogne e
con minacce d'interdetto al suo posto; né trovo che da poi gli sia più
convenuto di ricorrere al rigore per simile motivo. Egli con quella sua
consueta composta operosità, attendeva in casa alla direzione di tutte
le opere imposte al clero, non rispingendo mai chi avesse bisogno di conferire
con lui; percorreva la città accompagnato da uno che portava moneta da
distribuirsi in elemosina; fermandosi sotto le finestre, alle porte dei
poverelli per informarsi dei bisogni, e sovvenire, per ascoltare le querele, e
dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto, dava consigli, e colla
sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la sfrenatezza dei ribaldi,
ed eccitava i ministri publici ad adempire coraggiosamente agli uficj loro.
Rimaso quasi unico superstite di tutta la sua famiglia vescovile, consigliato,
tempestato dagli amici, dai parenti, dai medici, da uomini potenti, perché non
si esponesse a tanti rischj, e si ritirasse in qualche sua villa, non fu scosso
un istante dal suo proposito; tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto
notabile davvero, e che può esser di esempio e di consolazione a quegli
che si rammaricano di veder censurate le loro azioni. Rimase egli dunque fino
alla fine; ma non per questo lasciò di trarre profitto dalle sue ville:
scelse tra i giovanetti che si educavano al ministero ecclesiastico alcuni
distinti per morigeratezza e per diligenza; e gli mandò quivi per
sottrarli al comune pericolo, e in tanta strage serbare almeno il meglio ad un
migliore avvenire.
La
condotta del clero non fu difforme dall'esempio del pastore: non vi fu
appestato che desiderasse invano l'assistenza del sacerdote: preti e frati nel
lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al bisogno, ne andavano in cerca;
e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello della
peste, loda con gratitudine i molti che in quell'opera avevano perduta la vita,
e i superstiti, che non l'avevano però risparmiata.
Fra
quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se la storia
fosse consecrata a descrivere lo stato delle società nei diversi tempi,
e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono a far conoscere la
natura umana. Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati,
v'era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di
persone per la severa santità della vita, per una straordinaria potenza
d'animo, e per fama di sapere. I Decurioni impacciati com'erano, pensarono che
un tanto frate poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso
non pensasse; e lo scongiurarono d'assumere il governo del lazzeretto. Egli
andò a chiedere il consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a
più riprese, lo animò ad accettare l'incarico. Il Presidente
della Sanità, che era più impacciato d'ogni altro, condusse nel
giorno di Pasqua, il Padre Felice con altri capuccini al lazzeretto, e quivi,
chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo: «questi è il
presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente». Mirabile spettacolo!
vedere un magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati puntigli delle
preminenze, abbassarsi volontariamente, discendere al secondo grado, mettere un
altro sopra di sè. Ma vi voleva la peste.
Col
crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano
scemando le mormorazioni e le beffe del popolo; la parola peste era profferita
più sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi condotti al lazzeretto,
e case sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei provvedimenti,
cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che
finalmente sentivano essere un pericolo.
Per
qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei poveri;
finalmente, dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj, perché
più esposti alla osservazione, produssero una impressione più
generale e più forte. E più d'ogni altro caso fè specie
l'udire che era caduto infermo di contagio quel Ludovico Settala che lo aveva
da tanto tempo segnalato indarno, e con suo pericolo. Avranno eglino detto
allora: «il povero vecchio aveva ragione»? Probabilmente l'avranno detto quei
soli, che fino da principio gli avevano creduto; perché essi soli potevano dar
ragione al povero vecchio, senza dar torto a se stessi. Il povero vecchio, e un
suo figliuolo guarirono: la moglie, un altro figliuolo, e sette persone di
servizio morirono di peste.
A
malgrado d'una sì terribile evidenza, v'era ancora alcuni ostinati: per
far capaci anche costoro, il tribunale della Sanità ricorse ad uno strano
espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente all'intelletto
di chi doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei
tempi. Era morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine
che un giorno festivo in cui il popolo era solito concorrere alla chiesa di San
Gregorio posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero trasportati
sovra un carro, ignudi. La lurida pompa attraversò la folla; alcuni
torcevano con orrore e con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare
con ansiosa curiosità; e questi videro su quei cadaveri i lividori, e i
buboni pestilenti, comune cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie. Non
restò finalmente chi dubitasse che il male era contagioso.
Ma
il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata
l'ostinazione: da una verità riconosciuta cominciò un periodo di
demenza e di atrocità publica, non inaudito certamente nella storia dei
traviamenti umani, ma per durata e per casi, notabile e spaventoso.
Riconosciuta
una volta l'esistenza del contagio in Lombardia, non pare che si dovesse
scrutiniar molto, andar molto lontano a cercarne la causa: ell'era in pronto,
immediata, naturale, manifesta; la calata delle truppe alemanne. Ma non fu
così. Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per sei mesi;
non avevano mai voluto ammettere, né sofferire che altri supponesse relazione
tra la venuta dell'esercito, e il nuovo malore che regnava in Lombardia:
confessare ora finalmente questa relazione, sarebbe stato un confessare
d'essere stati bestialmente ostinati e ciechi. Non vollero quindi né
ricordarsi, né parlare, né udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la
causa naturale, ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che
sarebbe ridicola, se quella immaginazione non avesse avute conseguenze, che
udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per qualche tempo ancora da poi
che il racconto è cessato. S'immaginarono che la peste fosse disseminata
con unguenti, non so, né essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati
sotto qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col
demonio. A diffondere questa insana credenza contribuiva la disposizione
universale a supporre cause soprannaturali, che ammesse una volta spiegano tutto
senza difficoltà, stornando gli ingegni dall'esame delle cose e delle
relazioni reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte. E fra queste
cause soprannaturali una che più facilmente si ammetteva era
l'intervenzione del demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera angusta
delle cognizioni, e della esperienza comune, era opera del demonio, non solo
nel male, ma nelle cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che
rimane tuttavia un vestigio in più d'un dialetto e d'una lingua che, per
dinotare un uomo di abilità straordinaria in qualunque genere, hanno
tuttavia questa formola: egli è un diavolo; ha il diavolo addosso.
Contribuiva l'opinione universale, congenere a questa che abbiam detta, sulla
esistenza, sulla frequenza delle streghe e degli stregoni: opinione che
applicata poi a tanti infelici, faceva nascere dei sospetti che nella
persuasione divenivano fatti, e davano così alla opinione stessa la
forza e l'autorità della esperienza. Contribuiva la facilità a
credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una perversità
infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una
esperienza troppo reale: non eran rari gli uomini che a forza di conceder
delitti alle passioni loro eran giunti a segno, di farsi una passione e una
gloria del delitto stesso. Dei veleni poi l'uso era tanto frequente, come
attesta il cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si
conserva manoscritto nella biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli
artefici e le officine.
L'ignoranza
e l'irriflessione portavano poi leggiermente una tale corrività a creder
misfatti, al di là delle nozioni dell'esperienza; e specialmente in
ciò che risguardava le nazioni straniere; l'orgoglio, una stolta
rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata
le più atroci imputazioni, o le interpretazioni più assurde di
fatti reali: queste erano gettate in mezzo ad una popolazione che non aveva né
le notizie di fatto, né le idee generali necessarie per farvi sopra un esame,
né l'abitudine di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a
crederne altre, formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato.
Contribuivano certe tradizioni confuse, ma ridette con asseveranza fra il
popolo, di simili trame scoperte nella peste del 1576, e in altri tempi
d'eguale sciagura. Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili
erudizioni di molti dotti d'allora, che andavano a pescare nelle storie, e in
narrazioni ancor più favolose, ogni menzione di pesti propagate con
sortilegj, e con veleni, o come dicevano manofatte: materia pur troppo
abbondante; giacché da quella peste che, al dir di Tucidide, gli Ateniesi
supponevano cagionata da veleni gettati nei loro pozzi dai Peloponesi, fino
alla peste di Roma che nel consolato di P. Cornelio Cetego, e di M. Bebio
Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto del simulacro di
Giunone Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non vi fu peste,
quasi fino ai nostri giorni, della quale il popolo che la pativa non desse
cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj superstiziosi. Ma quello che
fissò ad un punto d'errore questa vagabonda ed inquieta
credulità, fu una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto,
spedita fino dall'anno antecedente al Marchese Ambrogio Spinola, nome ancor
celebre per le spedizioni di Fiandra, che era stato surrogato al Cordova nel
governo di Milano. In quella lettera si dava avviso al governatore che quattro
Francesi sorpresi nell'atto di spargere unguenti pestiferi nella Corte di
Madrid, erano sfuggiti, né dove si sapeva: dovesse egli quindi stare all'erta
se mai fossero capitati a Milano.
Al
primo divolgarsi di quell'avviso non vi si badò più che tanto: ma
il contagio che nelle credule menti, era stato associato alla idea di quelle
unzioni come un effetto di esse, comparendo ora realmente, risvegliò
tosto la ricordanza della sua immaginata cagione; l'idea di unzioni venefiche,
che era rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un
germe maligno profondamente sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa
alla superficie del terreno. Unguenti, polveri, comete, malie, trame,
congressi, demonio, erano le parole che tornavano in tutti i discorsi. Si venne
tosto a sapere che il demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava
il quartiere, si ripeteva il nome del locatore. Che più? Un uomo e si
diceva chi, fermatosi un giorno su la piazza del duomo aveva veduto giungere in
carrozza a tiro sei con gran corteggio un gran signore col volto fosco ed
abbronzato, cogli occhi infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso
alla minaccia, un viso insomma di quei che il buon milanese non aveva mai
veduti. Mentre questi guatava, il cocchio era ristato, e a colui fatto invito
di salire: egli aveva condisceso; e dopo un certo giro il cocchio s'era fermato
a quella tal casa, ed ivi egli era smontato con gli altri. La casa era degna
del fittajuolo: andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui
larve sedute a consiglio, amenità di giardini, e orrore di caverne.
Quivi al galantuomo erano stati mostrati grandi tesori, e promessi, se volesse
servire a quel signore nella grande impresa ch'egli macchinava. Ma il
galantuomo, avendo ricusato, era stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla
piazza del duomo. Questa storia non fu soltanto creduta in Milano dov'era nata,
ma si diffuse per tutta Europa, e in Germania se ne incise un disegno.
L'arcivescovo elettore di Magonza chiese per lettera al cardinale Federigo
Borromeo che fossero tutti codesti portenti che si narravano di Milano: il buon
cardinale riscrisse che erano sogni e delirj.
Quand'ecco,
il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle loro faccende,
videro le muraglie sparse di macchie viscide, giallastre, ineguali, come
impresse da spugne lanciate; le porte pure imbrattate della stessa materia, e
intrisi i martelli. Per quanto sia da diffidare delle affermazioni di quel
tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacché i contemporanei lo
riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in dubbio; e fra que'
testimonj si trova il Ripamonti il quale non poteva essere illuso dalla
prevenzione, poiché da tutte le sue parole traspare chiaramente ch'egli non
partecipava alla persuasione comune. D'altronde è ovvia una spiegazione
naturale di quel fatto. V'ha in ogni tempo degli uomini pei quali il terrore
pubblico è un divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo, o di
accrescerlo; e ve n'aveva una trista abbondanza a quei tempi, in cui gli animi
erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi a cercare una
superiorità propria nell'abbattimento altrui, una gloria nel fare il
male con destrezza, con audacia, e con pericolo. È probabile che uomini
di questa bella indole abbiano vegliata una notte a quelle gloriose pitture,
per vedere nel giorno l'effetto che produrrebbero sulle fantasie dei loro
concittadini, e per ridere sicuramente d'una paura, della quale essi
conoscevano l'illusione. E in quel trattatello del Cardinal Federigo è
scritto che alcuni ebbero poi a confessare di avere unti più luoghi per
farsi beffe della gente. È poi anche probabile che le fantasie
insospettite ingrandissero la realtà, e vedessero unzioni artificiali e
recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più volte prima di
quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti.
I
primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in un
momento le vie brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a
quelle macchie come ora ai quadri più lodati in una esposizione publica.
Il terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante ed
incerto alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacché la
moltitudine si accontenta bensì dell'indeterminato nei ragionamenti; ma
nei fatti vuole del positivo, e lo vuol tosto. Per alcuni il capo degli untori
(il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe,
che voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva;
per altri era il Cordova che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che
nel suo partire l'aveva accomiatato il popolo memore della fame durata nel suo
governo; altri nominava D. Giovanni Padilla figlio del Castellano di Milano;
altri il duca di Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si
trovava a Roma; e questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era
stato preso, ed era mandato a Milano per subirvi il supplizio: l'universale lo
aspettava con ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto era un
sogno. Alcuni disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini
sconosciuti; alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi. Il furore era al
colmo, nessun supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici.
Nè è da farsene maraviglia; un tal sentimento è troppo
facile a nascere in un popolo il quale crede che v'abbia degli uomini che
tentano di avvelenarlo in massa. Dal che si vede, che a volere impedire gli
effetti talvolta tanto iniqui e tanto crudeli di simili esacerbazioni popolari,
è scarso, e tardo rimedio l'intercedere, il predicare la moderazione, il
perdono, quando gli animi sono persuasi della realtà dell'attentato;
bisogna cercare di prevenire la persuasione, e sopra tutto guardarsi dal
secondarla ripetendo ciecamente i primi romori publici. Ho detto si vede, e
dovetti dire: si dovrebbe vedere; giacché osservando le piaghe dei nostri
maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi alle nostre; e questa corrività
a credere senza prova attentati contra il publico, contra una parte di esso, ad
attribuire alle persone fatti e parole immaginarie è una piaga viva
tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico anche negli
uomini più colti di questi popoli. È cosa strana e trista che
nelle cose contemporanee anche molti uomini colti si accontentino di ragioni
che gli farebbero ridere applicate in una storia ad avvenimenti lontani. Nei
nostri tempi in cui i fatti si sono affoltati con una terribile
celerità, è incredibile l'influenza che hanno avuta in essi
queste opinioni così leggermente ricevute: le più inverisimili
son divenute spesso norma infallibile, impulso potente di condotta e di azioni:
effetti terribili di cause immaginarie, furono poi cagioni di azione pur
terribile, vasta, e prolungata. Su questa corrività non posso
trattenermi dal trascrivere alcune parole d'oro da un libro d'un uomo
singolarmente osservatore, il quale si trovò ravvolto in avvenimenti
d'una terribile complicatezza: «Si je ne l'avois pas vu moi-meme, et
plusieurs fois, je ne le croirois pas: il a été fait par des hommes de bien
à des hommes atroces, des inculpations qui n'ètoient ni vraies ni
vraisemblables.»
Tornando
al nostro proposito, v'ebbe pure alcuni i quali pensarono, e dissero che tutto
quell'infardamento doveva essere una burla; e l'attribuirono a scolari dello
studio di Pavia. Ma questa opinione non fece presa: quella che supponeva una
intenzione più rea, una intenzione atroce era troppo conforme alle altre
idee dell'universale: e del resto nelle grandi sciagure gl'ingegni si pascono
volentieri di supposizioni orribili. Quegli che opinavano per la burla non
osarono troppo insistere, per non esser presi essi stessi in sospetto di
complici o di fautori dell'attentato. Dal non credere un delitto all'approvarlo
il salto è grande; ma la logica delle passioni è agile, e sa
farne senza difficoltà anche dei maggiori. Il suo modo di procedere in
questo caso è tale. Quando a persone inebbriate d'odio e di indegnazione
contra il supposto autore d'una grande iniquità contra il pubblico, voi
negate che quegli ne sia colpevole, l'idea che rimane nei vostri uditori
è che voi intendete di scusarlo. Ora nelle menti loro, atrocità
del delitto, certezza del delitto, reità del tale o dei tali sono idee
affatto indivisibili; e quindi scusare la persona è per essi scusare la
cosa. Scusare poi, approvare, favorire, esser complice, esser capo, sono
salterelli, che la logica fa quasi senza avvedersene.
Ma
ciò che reca maraviglia anche a chi avendo letti i libri di quel tempo
ha potuto avvezzarsi al ragionare dei loro autori, si è l'udire taluno
di quei medici stessi che avevano sostenuto, insegnato, osservato alla giornata
come il contatto trasmettesse e diffondesse rapidamente la peste, udirli dico
poi attribuirne la diffusione alle unzioni. Ai 19 di Maggio, il tribunale della
sanità con publica grida, offerse premio ed impunità a chi
rivelasse gli autori delle unzioni. Altre consimili furono poi publicate
d'ordine del governatore e del senato.
In
mezzo alle suspicioni, ai furori, alle accuse avventate e crudeli, in mezzo
pure alla licenza che né le sventure, né le ire avevano frenata, sorse una
smania generale di placare la collera di Dio con una processione publica nella
quale si portasse per la città il corpo di San Carlo. Il Vicario e i
Dodici di Provvisione, i sessanta decurioni fecero di ciò richiesta al
Cardinale Federigo; il quale ricusò da prima, adducendo motivi, che da
un tal labbro pare che dovessero portare la persuasione; ma talvolta la
ragionevolezza, o l'opportunità delle parole toglie ogni forza anche
alla autorità. Allegava l'uomo savio che il popolo aspettava da quella
supplicazione solenne la liberazione dalla peste, non con una speranza
condizionata e rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa,
quando fosse delusa, succederebbe una incredulità egualmente
superstiziosa, una indegnazione empia. Un altro motivo da lui addotto era anche
conforme ai più cari pregiudizj del publico: e pur non valse. «Una tale
ragunata di popolo», diceva egli, «potrà essere una troppo comoda
occasione per questi untori, quando sia pur vero che ve n'abbia». Giacché
Federigo, quantunque fosse lontano dall'ammettere tutte le ragioni che
persuadevano su quel punto la maggior parte dei suoi contemporanei, quantunque
anche in iscritto abbia mostrato la frivolezza, e l'illusione di alcune, e
segnate le cagioni e i modi dell'errore, pure sbalordito da tante grida,
sopraffatto da tante testimonianze non ebbe il coraggio di pensare che il
delitto era tutto immaginario: e con tutta la nostra riverente propensione per
quell'uomo, non possiamo dargli una tal lode, che pur fu meritata da alcuni
suoi contemporanei, dei quali non già i nomi, ma una memoria confusa ci
è stata conservata dagli scrittori. E, cosa singolare! tutti quegli
scrittori, meno il Ripamonti, insorgono contra quei pochi increduli; di modo
che se noi posteri sappiamo che alcuni uomini furono esenti da un funesto
errore comune, lo sappiamo soltanto per l'accusa di cecità e di
stranezza che gli scrittori credettero di portare contro di quelli al nostro
riverito tribunale.
Un'altra
ragione, e savia davvero, allegava il buon vescovo: che un pericolo ben
più certo, e ben più funesto sarebbe la frequenza,
l'addensamento, e la mistura di tante persone: e che era troppo da temersi che
un mezzo cercato per ottenere la liberazione della peste, ne divenisse un
terribile propagatore. Ma le insistenze, le importunità furono tali
ch'egli acconsentì. Su di che noi non osiamo né assolvere, né censurare
la sua memoria: perché non possiamo sapere quali sarebbero state le conseguenze
d'una ripulsa diffinitiva. Quegli uomini avrebbero potuto fare a furore la loro
processione senz'altro permesso; e farla meno ordinata e di più funesto
effetto, avrebber potuto fare Dio sa che. A chi volesse giudicare a rigore il
nostro Federigo, noi non auguriamo di aver mai a competere con un qualche
migliajo di furiosi ostinati.
Tre
giorni furono spesi in preparamenti: si ornarono in fretta le vie per cui
doveva passare la processione: i ricchi cavarono fuori le più preziose
suppellettili; le fronti delle case povere furono addobbate dai vicini doviziosi,
o per cura del publico. Il tribunale della sanità bandì che
nessuna persona di terra sospetta potesse entrare quel giorno in Milano; anzi
per accertare l'esecuzione del bando, fece chiudere le porte della
città. E parimenti, perché nessuno dei cittadini infetti o sospetti
potesse in quel giorno uscire e mischiarsi alla folla, fece inchiodare le porte
delle case già sequestrate. Con questi ordini si credette che fosse
bastantemente ovviato ai pericoli di una accolta così numerosa. Un
momento di riflessione avrebbe dovuto bastare a sbandire una tale fiducia da
qualunque intelletto umano: e tanto più fa stupore come ell'abbia potuto
prevalere in coloro i quali avevano dovuto vedere e sperimentare quanto rapidi,
facili, moltiplici fossero i modi per cui il contagio si comunicava; e quanto
scarsi in paragone i mezzi di riconoscere tosto le persone, le cose a cui si
era comunicato. Certo non potevano nutrire la pazza lusinga di aver saputo
discernere e sequestrare tutti gli infetti; dovevano anzi tenersi pur troppo
certi che molti giravano liberamente, molti si sarebbero trovati in quella
folla i quali avevano già nei loro corpi, o nelle vesti appiccato il
contagio; non ignoravano che un solo di questi sarebbe bastato ad infettare una
città intera: e si fidarono a quei loro provvedimenti.
All'alba
del giorno 11 di giugno, festivo a quei tempi nella diocesi milanese pel nome
di San Barnaba, il clero e il popolo, ragunatosi parzialmente nelle diverse
chiese, convenne in drappelli al Duomo, donde tutti poi insieme si mossero a
processione. Andava innanzi una gran troppa di popolo misto di età, di
condizione, e di sesso; quali portando un cero, quali un rosario; molti in
segno di penitenza, scalzi. Venivano quindi con ceri le confraternite vestite
di fogge varie di colori e di forme, poi le arti distinte, e precedute ognuna
dal suo confalone; poi le varie congregazioni dei frati, neri, bigi, e bianchi,
poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie divise;
quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante d'incenso,
portata da quattro canonici, l'arca dove giacevano le reliquie invocate di San
Carlo. Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva il corpo coperto di
splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo squallore
delle vuote occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate, della cute
abbronzata, aggrinzata su l'ossa, traluceva ancora qualche vestigio della
faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai vecchj che avevano
veduto vivo il santo pastore. Gli altri cercavano di raffigurare in quelle
reliquie una immagine più presente e più reale di quella faccia
che dalla infanzia avevano osservata e venerata nelle imitazioni dell'arte.
Dietro le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed imitatore
Federigo, consunto egli pure e pallido di vecchiezza, di penitenza, e di
accoramento, in quell'aspetto di compunzione che nessuna ipocrisia può
contraffare, poiché è l'effetto involontario d'un sentimento che non
conosce i modi pei quali si esprime. Le affezioni temporali pel parente, appena
si facevano sentire in quell'animo, assorbite dalla riverenza del santo, e
dalla invocazione all'intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi
vissuti insieme, si perdevano nella fede: non era più che un vescovo che
pregava l'uomo vivente presso Dio perché pregasse pel suo popolo. Colui che
aveva cercato di stornare quella cerimonia, vi portava ora forse l'animo il
più fervente: le ragioni che l'avevano renduto ritroso ad approvare una
risoluzione imprudente non venivano ora a distrarre con ricordi superbi e
dispettosi la sua mente dall'intento ragionevole e santo di quella risoluzione:
il culto, e la preghiera. Perché, egli era di quei pochi che adoperano le loro
ragioni sol tanto quanto possono sperare di ottenere con esse una utile
persuasione; avuto o disperato questo intento non le vanno più
rivangando con un inquieto brontolamento: rodersi, o insuperbirsi d'essere
stati saggi indarno, non pare ad essi un esercizio ragionevole dell'intelletto;
far vedere, e far confessare agli altri che essi avevano meglio pensato di
loro, non pare ad essi uno scopo. Certo anche quei pochi sono soggetti
all'errore; ma di quanto scemerebbero in numero gli errori, e quanto meno
sarebbero funesti nell'effetto quegli che rimarrebbero, se tutti gli uomini
osservassero le cose con una mente disinteressata d'orgoglio.
Dopo
l'arcivescovo venivano i magistrati, e i nobili, quali rivestiti di ricche
divise, come a dimostrazione solenne di culto, quali in segno di penitenza a
piè nudo, coperti di sacco coi cappucci rovesciati sul volto, forati
come a finestra dinanzi agli occhi, e cadenti in acuta punta sul petto. Quindi
ancora un'altra gran frotta di popolo; e alla coda i vecchj stanchi, le donne
rimaste addietro coi fanciulli, gli attratti, i zoppi, i deboli; molti
ritardati dal fermento della peste che già covavano senza saperlo, o
senza volerlo sapere, e che toglieva loro a grado a grado le forze.
La
processione sboccata dalla porta maggiore del Duomo, s'incamminò per la
via de' cappellaj, al crocicchio detto il Bottonuto, dove allora era una croce,
e quindi con un giro interno, toccando tutti i quartieri, e sostando a tutti i
crocicchj dove erano allora le croci, alcune delle quali rimangono tuttavia,
tornò al Duomo per la piazza dei mercanti. Tutta la via era adombrata da
una striscia perpetua di tele, sostenuta da pali e da correnti composti come a
pergolato; i pali rivestiti di rami frondosi tagliati di fresco; e tra
gl'intervalli, drappelloni di varie stoffe rannodati e pendenti; le pareti
tutte coperte di tappeti, di strati, di quadri; i davanzali delle finestre
ornati di fiori o a mazzi, o vegetanti nei vasi, e di arredi antichi, o
preziosi, e da per tutto ceri ardenti che restituivano la luce esclusa da quei
folti adornamenti. Fra tanta pompa si vedevano alle finestre molti di quei
poveri sequestrati, alcuni scarnati, e coi segni della morte in volto, tendere
a stento le braccia supplichevoli all'arca che passava. Da quelle case usciva
un ronzio di voci che accompagnavano gli inni dei passeggeri; e di tratto in
tratto un risalto di gemiti, uno sclamar di preghiere che terminavano in
singhiozzi ed in guaj. Nè alle finestre soltanto, ma sui tetti delle
case vicine e soprastanti si vedevano di quegli spettatori ai quali non era
stato concesso di mescersi alla supplicazione comune; e sur alcuni tetti si
distinguevano all'abito drappelli di monache ivi tirate dalla curiosità
e dalla divozione. Gli altri quartieri della città deserti, muti, se non
dove giungeva a poco a poco il mormorio della processione che passava non
lontano, e pure a poco a poco diveniva più fievole, e moriva. Quegli
abitanti tendevano l'orecchio appoggiati alle finestre, o sollevati sul letto
mortale; per distinguere il suono della preghiera nella quale erano ricordati
anch'essi, quasi per udire in quel muto abbandono un romore che gli assicurasse
che altri pure viveva e si moveva in quella città di cui non vedevano
che la solitudine. La processione tornò al duomo dopo un giro di dodici
ore. L'arca rimase esposta sull'altare maggiore del duomo per otto giorni.
Il
tristo presagio del Cardinal Federigo non tardò ad avverarsi. Prima
della processione le case chiuse erano intorno a cinquecento; pochi giorni
dopo, si notavano quelle dove il contagio non fosse entrato. V'era due mille
persone nel lazzeretto; in breve crebbero a dodici mila: non bastando le stanze
e i portici, furono in fretta, costruite capanne di legno nel vasto ricinto: né
quelle pure bastando furono eretti tre altri lazzeretti in diversi punti fuora
delle mura della città. La mortalità comune che era prima di
cento trenta persone alla giornata, per rapidi salti venne a mille ottocento.
Due fosse erano state scavate pei cadaveri, ampie, si diceva, enormi, quasi per
lusso di previdenza; sperando che in giorni non lontani, lieti per un gran
timore cessato, quella stessa terra, che ne era stata cavata servirebbe in gran
parte a ricolmarle: ma i cadaveri deposti, poi ammucchiati, poi gettati a
fascio, venivano rapidamente adeguandosi al terreno: convenne scavarne cinque
altre.
La
cagione d'un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce di
popolo agli untori: si disse con asseveranza, e si ripetè con
furore, che quegli uomini congiurati allo sterminio della città,
prendendo il destro della processione, che l'aveva posta tutta unita per
così dire in loro balìa, avevano unti in quel giorno quanti
avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri venefiche, per le quali il
contagio s'era appiccato alle vesti, ai piedi scalzi, anche alle scarpe dei
divoti e inavvertiti pellegrinanti. L'opinione delle unzioni che fino allora
non aveva prodotta che una vaga inquietudine, e ciarle, dopo questo, ch'ella
prendeva per un gran fatto, cominciò a partorire ben altri effetti. Due
principali furono distinti, e notati dal Ripamonti, uomo, che in molti punti
liberandosi, e segregandosi dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la
mira delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno
avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini
della questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece
intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare
il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli
faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo stesso. Un effetto fu
che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in ispeculazioni politiche,
divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti, per arzigogolare
quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama,
non pensavano a quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della
peste; e spaventati poi dalla vastità supposta, e dalla oscurità
stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca
trascuratezza che è compagna della disperazione. L'altro effetto
più deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i
sospetti e di giustificare di santificare, tutte le offese più crudeli
che quei sospetti potevano suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico,
dalla via publica si temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del servo,
del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa, ma orribil cosa!
si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale. Il viandante straniero che
non ben sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul
cammino, o che stanco si sdrajasse per riposare, il mendico che per
città si accostava altrui tendendo la mano, colui che inavvertentemente
toccasse la parete d'una casa, l'affrettato che urtasse altri per via, erano untori;
al terribile grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice
era oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o strascinato alle
carceri tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore affranto
quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto. E quante volte
saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune, di quegli
stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d'un simile furore.
Così
l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed arbitraria
della religione aveva estesa ed accresciuta. Dico l'irreligione, perché se
l'ignoranza e la falsa scienza delle cose fisiche, e tutte le altre cagioni di
cui abbiamo parlato di sopra poterono far ricevere comunemente l'opinione
astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni
anti-cristiane di quel popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva, e
feroce nell'applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi
effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che dispone gli
animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di
nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone; se
fosse stata insomma congiunta con quella carità che è paziente,
benigna, che non s'irrita, che non pensa il male, che tutto soffre. Ma
l'intolleranza della sventura, la disistima e l'obblio delle speranze superiori
a tutte le sventure del tempo, l'orrore pusillanime e furioso della morte,
erano le cagioni che mantenevano negli animi una irritazione avida di sfogo e
di vendetta, e quindi sempre in cerca di fatti che ne dessero l'occasione,
quindi ancora pronta a trovar questi fatti ad ogni momento.
Il
Ripamonti riferisce due esempj di quel furor popolare, avvertendo bene i suoi
lettori di averli trascelti, non già perché fossero dei più
atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perché di quei due egli fu
testimonio.
Tre
giovani francesi, un letterato, un pittore, e un meccanico in mal punto venuti
per istudio, e per guadagno, stavano contemplando il duomo al di fuori.
«È tutto marmo», dicevano; e come per accertarsi, stesero la mano a
toccare la liscia superficie. Bastò! la folla agglomerata in un istante
gl'involse; furono stretti, tenuti, percossi con tanto più di furore,
perché le vesti, la chioma, il volto, le grida stesse gli accusavano stranieri,
e quel che era peggio, francesi. A calci, a pugni, a strascichi, furono menati
in carcere. Per buona sorte le carceri eran vicine, e vi giunsero vivi; e per
una sorte ancor più felice, i giudici gli trovarono innocenti, e gli
rilasciarono. L'altro caso fu più funesto. Un giorno solenne, nella
chiesa di Sant'Antonio, frequente di popolo quanto poteva comportare quel tempo,
un vecchio più che ottogenario aveva orato lungamente ginocchioni. E
forse, pensando agli anni suoi, e al contagio che minacciava ogni persona, egli
avrà offerto a Dio il sacrificio d'una vita ormai tanto caduca. Ma un
destino più maturo della vecchiezza, più sollecito della peste,
il furore degli uomini gli stava sopra. Stanco egli volle sedersi; e prima con
la cappa spolverò alquanto la panca. «Il vecchio unge le panche!»
gridarono alcune donne che videro quell'atto. Il vecchio! e a quel nome che
richiama pensieri di compassione e di riverenza, il sospetto in quel momento
non lasciò associare altre idee che di una più fredda malizia,
d'una perversità incallita. Il grido passò di bocca in bocca;
tutti si levarono; una turba fu addosso al vecchio. Lo presero, gli stracciarono
i capegli bianchi, gli acciaccarono di pugni il volto e le membra: avrebbero
ficcati i pugnali in quel corpo quasi esanime; se un furore più pensato
non gli avesse consigliati di serbarlo alle carceri, ai giudici, alle torture.
«Io lo vidi, così strascinato», dice il Ripamonti, «né altro seppi della
fine; ma stimo ch'egli sia tosto morto dagli strazj. E alcuni» aggiunge questo
scrittore, «che mossi a pietà di così indegno caso, chiesero
contezza dell'essere di quello sventurato, riseppero che egli era un uomo
dabbene».
I
magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo furore, lo
imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei
popolari che abbiam riferiti, con carnificine più lente, più
studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe
ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il
raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero.
Gli
abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa
storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero.
CAPITOLO V
Una
sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano,
dove era sempre rimasto dal giorno che vi era tornato dalla villa in forma di
fuggitivo. A quella villa non voleva ricomparire se non in aspetto di
vendicatore, e in modo da restituir con usura ai tangheri lo spavento, e
l'umiliazione che gli avevan fatto provare: ma i tempi non erano mai stati propizj.
Quella
elazione d'animi aveva durato qualche tempo; di poi la fame cresciuta aveva
prodotti gli sbandamenti, e il vagabondare di molti, e nei rimasti un fermento
di disperazione: erano cani tuttavia ringhiosi, e non ancora disposti ad
accosciarsi sotto la mano alzata del signore; poi eran passati i
lanzichenecchi, che avevano spogliato il castellotto; poi era venuta la peste;
non v'era insomma stata mai una tranquillità di cose in cui Don Rodrigo
avesse potuto farsi sentire. La sera di cui ora parliamo, tornava egli da uno
stravizzo, nel quale con alcuni suoi degni amici aveva egli cercato di
sommergere le malinconie e i terrori della peste. E siccome le idee di quella
entravano per tutti i sensi, si trovavano accumulate nella mente, si
associavano per forza ad ogni suo intendere, sicché non era possibile farne
astrazione; in quelle idee stesse s'erano essi sforzati di trovare qualche
soggetto d'ilarità. Avevano ricapitolate burlescamente le virtù
di qualche loro amico defunto; e Don Rodrigo in ispecie aveva molto divertita
la brigata con l'orazione funebre del conte Attilio.
Si
raccontavano o anche s'inventavano prodezze d'ogni genere compiute col favore
della confusione, e dello spavento publico; si disegnavano nuove vittime; e la
vile e impunita sfrenatezza si vantava anticipatamente dei nuovi trionfi che
meditava. Tornando da tutta questa allegria, Don Rodrigo sentiva però
una gravezza di tutte le membra, una difficoltà crescente nel camminare,
una ansietà di respiro, una inquietudine, un grande abbattimento; ma
cercava di attribuir tutto questo al sonno. Sentiva un'arsura interna, una
noja, un peso degli abiti, ma cercava di attribuirlo alla stagione, ed al vino.
Giunto a casa, chiamò il fedel Griso, uno dei pochi famigliari che gli
erano rimasti, e gli comandò che gli facesse lume alla stanza dove
sperava di finir tutto con un buon sonno. Il Griso vide la faccia del suo
signore stravolta, d'un rosso infiammato e splendente, e gli occhi luccicanti;
e si tenne lontano con una certa aria di sospetto; perché ogni mascalzone aveva
in quel tempo dovuto farsi l'occhio medico.
«Ho
bevuto, ho bevuto», disse Don Rodrigo, che non potè non avvedersi di
quell'atto e del pensiero nascosto; «siamo stati allegri: sto bene, benone,
Griso: ho sonno: oh che sonno! Levami un po' dinanzi quel lume che mi abbaglia.
Diavolo, che quel lume mi dia tanto fastidio! Debb'essere quella vernaccia
certamente, che te ne pare? eh Griso? Domani sarò vispo come un pesce».
«Sicuro», disse il Griso tenendosi sempre discosto: «ma si corichi presto, che
il dormire gli farà bene».
«Hai
ragione; ma sto bene ve' Griso: levami quel lume dinanzi». Il Griso non se lo
fece ripetere, e partì col lume, al momento che Don Rodrigo si gettava
sul letto.
Quando
vi fu, la coltre gli pareva un monte, e se la rigettò da dosso: sentiva
un sopore come invincibile, e quando stava per assonnare, si risentiva come se
un importuno venisse a scuoterlo per non lasciarlo dormire: il caldo cresceva,
cresceva la smania, e il terrore rispinto ritornava più forte:
così passò qualche ora. Finalmente, presso al mattino
s'addormentò. E tosto gli parve di trovarsi in quella chiesa dei
capuccini di Pescarenico, dinanzi alla quale, se vi ricorda, egli
sogghignò in passando, nella sua gita al Conte del Sagrato. Gli pareva
d'essere innanzi innanzi nella chiesa, circondato e stretto da una gran folla;
non sapeva come gli fosse venuto il pensiero di portarsi in quel luogo, e si
rodeva contra se stesso. Guardava quei circostanti; erano sparuti e lividi, con
gli occhi spenti, incavati, colle labbra pendenti, come insensati; e gli
stavano addosso, e lo stringevano, quasi col loro peso, e sopra tutto gli
pareva che o con le gomita, o come che fosse lo premessero al lato sinistro al
di sopra del cuore, dove sentiva una puntura spiacevole, dolorosa. Voleva dire:
«largo canaglia», faceva atti di minaccia a coloro perché gli dessero passaggio
ad uscire; ma quegli né parevano muoversi, né mutare sembianza, né risentirsi
in alcun modo: stavano tuttavia come insensati. Alcuni su la faccia, su le spalle
che nude uscivano dalle vesti lacere, mostravano macchie, e buboni. Don Rodrigo
si ristringeva in sè, ritirava le mani, le membra, per non toccare quei
corpi pestilenti; ma ad ogni movimento incappava in qualche membro infetto. E
non vedendo la via d'uscire, strepitava, ansava, l'affanno l'avrebbe destato;
quand'ecco gli parve che tutti gli occhi si volgessero alla parte della chiesa
dov'era il pulpito: guatò anch'egli, e vide spuntare in su dal
parapetto, un non so che di liscio e lucido; poi alzarsi e comparir più
distinto un cocuzzolo calvo, poi due occhi, una faccia, una barba lunga e
bianca, un frate ritto ed alto: era Fra Cristoforo. Tanto più Don
Rodrigo avrebbe voluto fuggire; ma la folla degli incantati era fitta ed
immobile. Gli parve allora che il frate girando gli occhj su l'uditorio senza
fermarli sopra di lui, sclamasse ad alta voce: «Per li nostri peccati, la fame!
Per li nostri peccati, la guerra! Per li nostri peccati, la peste! La peste!
Povera gente! ella vi rode tutti, dal primo fino all'ultimo: tutti avete i
segni della morte in volto: beati quelli fra voi che sono preparati a
riceverla. Ma...» e qui pareva a Don Rodrigo che il frate ristesse, come
sopraffatto da un pensiero repentino e profondo: ed egli stava ansioso
attendendo. Gli pareva che gli uditori non facessero pur vista di scuotersi, e
che il frate tutto ad un tratto, guardando a lui, e come ravvisandolo,
fermandolo col guardo e con la mano alzata, come un bracco sopra una pernice,
dicesse ad alta voce: «Tu sei quell'uomo! Or ci sei giunto; ascolta. Quanto ti
sarebbe costato il rinunziare a quel capriccio infame? Torna indietro con la
mente e dillo. Un picciolo pensiero di pietà; ma tu non hai voluto. Tu
hai messo da una parte su la bilancia l'angoscia, l'obbrobrio, il crepacuore,
il terrore, d'un'anima innocente; hai pesato; e hai detto — non è
niente: pesa più il mio capriccio —. Ora le bilance sono rivolte:
l'angoscia si versa sopra di te: prova se è niente». A queste parole Don
Rodrigo, voleva gridare, nascondersi, fuggire, e si destò spaventato.
Stette un momento a ravvisarsi; vide che era un sogno; ma aprendo gli occhi
sentì ancor più vivo il ribrezzo e il dolore della luce;
forzandosi di guardare intorno, vide il letto, le scranne, i travicelli della
soffitta confondersi in forme strane; sentì nelle orecchie un ronzio
nojoso e violento, al cuore un battito accelerato, affannoso; si sentì
più spossato e più arso che alla sera antecedente, sentì
più viva quella puntura che aveva provata in sogno; esitò qualche
tempo, senza osare di vedere che fosse; finalmente sorse a sedere, scoperse
tremando la parte dogliosa, cercò di fissarvi lo sguardo, e a stento, ma
con qual raccapriccio Dio 'l sa, scorse un sozzo gavocciolo, d'un livido
pavonazzo; il segnale manifesto del contagio.
L'uomo
si vide perduto: il terrore della morte lo invase; ma con un senso ancor
più vivo, il terrore di cadere in balìa altrui, d'essere preso,
maneggiato, tratto intorno come un cencio, senza potersi far sentire, d'essere
portato al lazzeretto, gittato e confuso fra tanti oggetti d'orrore, oggetto
d'orrore egli stesso. Voleva deliberare sul modo di evitar questa sorte toccata
a tanti altri; ma sentiva le sue idee confondersi e intenebrarsi, divenir tanto
più incerte quanto più erano atterrite; sentiva avvicinarsi
sempre più il momento, in cui egli avrebbe avuto sol tanto di coscienza,
quanto bastava a disperare: provò un bisogno di soccorso istantaneo;
afferrò un campanello che teneva presso al letto, e lo scosse con
violenza. Ed ecco comparire il Griso che stava all'erta. Si fermò egli
presso all'uscio, guatò attentamente il padrone, e il sospetto divenne
certezza.
«Griso»,
disse Don Rodrigo sollevandosi, «tu sei sempre stato il mio fido».
«Signor
sì», rispose il Griso, col laconismo, e col tuono ambiguo del tristo che
dal preambolo s'accorge che l'uomo avvezzo a proteggerlo, gli vuol domandare
protezione, e fargli far qualche cosa per riconoscenza.
«Sto
male, Griso».
«Me
ne accorgo, Signore».
«Se
guarisco, ti farò star meglio che tu non sia mai stato».
Il
Griso non rispose nulla, ed aspettò che Don Rodrigo continuasse.
«Non
voglio fidarmi d'altri che di te. Fammi una carità, Griso».
Erano
forse anni che Don Rodrigo non aveva proferita questa parola.
«Vediamo»,
disse il Griso.
«Sai
tu dove abita il Chiodo, chirurgo?»
«Lo
so benissimo».
«È
un galantuomo, che se è ben pagato, tien segreti gli ammalati. Vallo a
cercare; digli che lo pagherò bene, meglio di chi che sia, quanto
vorrà, e fammelo venir qui segretamente, che nessuno se ne avvegga».
«Ben
pensato», disse il Griso: «vado e torno».
«Senti,
Griso, dammi prima un bicchier d'acqua: mi sento arso che non ne posso
più».
«No,
signore», disse il Griso: «niente senza il parere del medico; non c'è
tempo da perdere: stia quieto, aspetti un momento, son qui col Chiodo».
Così
dicendo, tolse la chiave dalla toppa, uscì, chiuse Don Rodrigo in
istanza e se ne andò.
Don
Rodrigo rimase in una agitata aspettazione, in una incertezza sospettosa, e
iraconda, col terrore crescente.
L'abbominevole
Griso aveva già fatto nella notte i suoi conti pel caso che ora si era
avverato. Allontanò tosto di casa con un ordine finto del padrone,
l'altro servo; e corse al posto più vicino di monatti. Ivi, tratti in
disparte due che erano suoi conoscenti e insieme dei più scellerati,
propose ad essi una occasione di dividere spoglie opime. Quegli accettarono
prima d'intendere le condizioni: ma il Griso le espresse tosto; non si trattava
d'altro che di venire a prendere Don Rodrigo, e di portarlo al lazzeretto.
Dieder tosto di mano ad una bussola, delle quali era provvigione a quel posto,
se la caricarono, e seguirono il Griso.
Don
Rodrigo stava con l'orecchio teso, spiando ogni romore per sentire se il
chirurgo giungeva; e questo sforzo d'attenzione sosteneva alquanto il vigore delle
sue membra, sospendeva il senso del male, e teneva in sesto la sua mente. Tutto
ad un tratto intese egli uno squillo acuto, continuo, che si avvicinava: erano
le campanelle che i monatti portavano legate ai piedi a foggia di sproni. Un
orrendo sospetto corse al suo pensiero; si levò egli a sedere in furia;
e in quel momento sentì la chiave girar nella toppa, e vide aprirsi,
entrare i monatti, col Griso.
«Ah
traditore! via canaglia!» urlò Don Rodrigo; e tosto si gettò
dall'altra parte per afferrare le pistole che teneva appese a fianco del letto.
Ma un monatto gli fu sopra, lo fece raccosciare sul covile, gli tenne le mani,
e gridò con un orribile ghigno di collera:
«Ah!
birbone! contra i ministri del tribunale!»
«Tienlo
ben saldo», disse il compagno, «finché lo portiamo via: egli è
frenetico».
Lo
sventurato Rodrigo lo divenne: si divincolava, mandava urli, lanciava bestemmie
contra i monatti, e più contra il Griso, ch'egli vedeva frugare insieme
con quel compagno nei cassettoni, spezzar le serrature dello scrigno, cavarne
il danaro, e far le parti; mentre colui che teneva il padrone dava un'occhiata
a questo per tenerlo bene, e una occhiata a quegli altri, dicendo: «fate le
cose da galantuomini, altrimenti...»
Il
corpo e la mente di Don Rodrigo, già dissestati dal male, non ressero
allo sforzo, al dibattimento, e a tanta passione: il meschino cadde tutto ad un
tratto come sfinito e stupido; guardava però come un incantato; e di
tratto in tratto dava qualche scossa, o usciva in qualche imprecazione. Fatte
le parti, i monatti lo posero nella bussola, e lo portarono al lazzeretto.
Il
Griso rimase a scegliere quel di più che poteva essere il caso suo; fece
un fardello, e sfrattò. Ma in quella furia del frugare, egli aveva presi
presso al letto i panni del padrone, e scossigli per vedere se vi fosse denaro;
né in quel momento aveva badato a quello che si facesse. Se ne accorse
però il giorno dopo, che preso dagli stessi accidenti che, con occhio
così spietato, aveva mirati nell'infelice suo padrone, cadde infermo in
una osteria, dove era andato a gozzovigliare; abbandonato da tutti, fu
spogliato dai monatti anch'egli, trattato come aveva trattato altrui, e
strascinato sur un carro al lazzeretto, dove finì.
Lasciando
ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero, ci conviene andare in cerca d'un
personaggio separato da lui per condizione, per abitudini, e per inclinazioni,
e la storia del quale non sarebbe mai stata immischiata alla sua, se egli non
lo avesse voluto a forza.
Fermo,
del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno della carestia,
parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo buon parente; alla fine
per non essergli troppo a carico, intaccò i cento scudi di Lucia, ma col
proposito di restituire, se mai Lucia non fosse più quella per lui. Il passaggio
della soldatesca interruppe quelle scarse, e imbrogliate comunicazioni di
pensieri e di notizie che passavano tra lui ed Agnese. Dietro la soldatesca
venne la peste, ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo
interdissero il commercio col territorio milanese finittimo, mandarono
commissarj ad invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli. Pure, come
era accaduto nel milanese, la disobbedienza fu più attenta, più
destra, più ingegnosa che la vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco
non credevano né pur essi molto alla peste, e trattavano di soppiatto coi loro
vicini: e con molta fatica e con molto pericolo ottennero di potere avere
anch'essi la peste in casa. Entrata che fu, invase poco a poco il contado, poi
i sobborghi di Bergamo, poi la città. La peste di Bergamo, e nei modi
con cui si propagò, e in tutti i suoi accidenti, presenta molti tratti
di somiglianza notabile con quella del Milanese. Come in questo paese,
così nel bergamasco, dopo scoverta la peste si trovò ch'ella si
sarebbe dovuta prevedere per evidenti segni astrologici, e per inauditi
portenti; v'ebbe pure la incredulità di molti abitanti, e la negligenza
delle precauzioni, v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli
ordini, e il rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che
il male fosse cessato. Quivi pure una processione contrastata con ragioni
savie, e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella
città; quivi pure molte vite generosamente sagrificate in pro' del prossimo
da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici; quivi pure licenza, e avanie
degli infermieri e becchini che ivi erano chiamati nettezzini come in
Milano monatti; quivi pure preservativi e rimedii strani o
superstiziosi. Quivi pure come in Milano subitanei spaventi per voci sparse di
sorprese nemiche sognate dalla paura, o inventate dalla malizia; e finalmente,
per non dir tutto, quivi pure all'udire che in Milano v'era gente che
disseminava il contagio con unzioni, nacque un terrore che il simile non
avvenisse, anzi parve di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte, e le
pile delle Chiese. Ma la cosa non andò oltre; e come in questo
particolare, così nel resto gli accidenti tristi che abbiam toccati
furono in Bergamo men gravi, meno portentosi: l'incredulità fu meno
ostinata, men clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno
feroce, la violenza meno bestiale, e meno impunita. Di questa differenza v'era
molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone, e quale
nelle cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del nostro
argomento.
Quello
che ora importa di sapere si è che Fermo contrasse la peste, e la
superò felicemente. Tornato alla vita, dopo d'averla disperata, dopo
quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì egli rinascere più
che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure e i desiderj della vita;
cioè pensò più che mai a Lucia, alle antiche affezioni,
agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto tempo dei pensieri di
essa, e alla nuova terribile incertezza della salute, della vita di lei in quel
tempo dove il vivere e l'esser sano era come una eccezione alla regola. Tutte
queste passioni crescevano nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore
nelle sue membra; e quando queste furono ben riconfortate, egli con la
risolutezza d'un giovane convalescente, disse in se stesso: — andrò, e
vedrò io come stanno le cose —. Il pericolo della cattura gli dava poca
molestia; da quello che si passava in Bergamo, egli vedeva che la peste assorbiva
o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come un'obblivione o un giubileo
generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben poca
forza e poca voglia d'agire contra i delitti della giornata, e tanto meno
contra reati ormai rancidi; e sapeva per la voce pubblica che in Milano il
rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era ancor più grande.
Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con cautela, e di
scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi
in Milano. Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon
prete (quel suo fidato parente era morto di peste) gran parte degli scudi che
gli rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un
po' di companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo
sul finire di Luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al
lazzeretto.
I
pochi che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra
popolazione, come una razza privilegiata. Una grandissima parte della gente
languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto il male ne
vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser
cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e
sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo,
un allarme incessante, una disposizione a fuggire; e con tutto questo il
pensiero sempre vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male
era già fatto. I pochi risanati invece, non temendo più del
contagio, camminavano ed operavano senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto
della incertezza altrui cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza
loro; erano come i cavalieri dell'undecimo secolo coperti d'elmo, di visiera,
di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella destra, un
buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco, una buona provvigione
di giavellotti, sur un buon palafreno agile all'inseguimento ed alla ritratta,
in mezzo ad una marmaglia di villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti
di vestimenti, che per offesa e per difesa non avevano che due braccia e due
gambe, e il resto delle membra non atto ad altro che a toccar percosse.
L'immunità dal pericolo ispira il sentimento, e dà il contegno
del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una gran parte di esso;
e questa verità si è sapientemente trasfusa nella nostra lingua,
dove il vocabolo sicuro, che in origine vale fuor di pericolo, fu
traslato a significare anche ardito. Con questa baldezza temperata però
dalle inquietudini che noi sappiamo, e dalla pietà di tanti mali altrui,
camminava Fermo in un bel mattino d'estate, per coste amene donde ad ogni
tratto si scopre un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente,
tra il fresco e spezzato luccicare della ruggiada, all'aria frizzante
dell'alba, e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte.
Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio,
spariva tutta la bellezza di quello spettacolo: erano villaggi deserti, animati
soltanto da gemiti, attraversati da qualche cadavere che era portato alla
fossa, senza accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là
uomini sparuti che erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per
morire all'aria aperta, birboni, che agguatavano dove fosse da spogliare
impunemente. Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei
campi: sul mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente,
ivi si rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare
le ore più infocate; riprese la sua strada; cominciò a riveder
luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima
del tramonto scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo ristette un
momento, come sopraffatto dalle rimembranze, e dai pensieri dell'avvenire, e
ripreso fiato procedette, entrò nel paese. L'aspetto era come quello di
tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben
più forte che egli non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva
attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte chiuse,
o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo guardò,
durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male; ma non fu
riconosciuto da esso che gli piantò in faccia due occhj insensati, e non
fece motto. Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe risposta, e più
che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella era, quale l'avevano
lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e là, qua e
là affumicata, e dentro vuota ma non già pulita, che vi rimaneva
ancor lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo in fretta
inorridito, ritraendo l'occhio dallo spettacolo, e la mente dai pensieri e dai
ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa
d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico, di udire da lei ciò
che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar
pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.
Per
giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la
casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere,
guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta, e nel vano
di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile
appoggiata ad un lato della finestra.
Era
Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio
ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per l'opera
del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di ornare
qualche solennità. Fermo che aveva sospettato chi doveva essere,
arrivato su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli
era una delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di
stizza, e volle passar di lungo. Ma tosto l'antico rispetto pel curato, quel
desiderio di sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle
circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse,
vinsero nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e
dirizzando il volto alla finestra, disse: «Oh signor curato, come sta ella in
questi tempi?» Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato
di riconoscerlo: ma quando sentì la voce che non gli lasciava più
dubbio, «per amor del cielo!» disse, «voi qui? Che venite a fare in queste
parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella di cattura...?»
«Oh
via, signor curato», disse Fermo non senza dispetto: «mi vuol ella fare anche
la spia?»
«Parlo
per vostro bene», disse Don Abbondio, «che nessuno ci sente. Chi volete che ci
senta? Non vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste belle
allegrie? Andate, tornate dove siete stato finora; non venite a porre in
imbroglio voi e me; perché quando si tratti di castigar voi, e di tormentare me
pover uomo vi sarà dei vivi ancora».
«Signor
curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?»
«Oh
Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! Che serve
che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la peste,
figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?»
«Ella
deve ricordarsi, signor curato», disse Fermo, con voce alquanto risentita, «che
Lucia ed io... non erano grilli...»
«Oh!»
disse Don Abbondio, «figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di Dio,
spero che non sarete cangiato. Per questo vi parlo con libertà, da vero
padre, perché vi ho sempre voluto bene. So io quel che dico, questo non
è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia, (e già
pur troppo non la schivereste) che crepacuore per me! La cattura è
terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la peste...»
«La
peste l'ho avuta», disse Fermo: «son guarito, e non ho più paura».
«Vedete
che avviso vi ha mandato il cielo; per farvi pensare al sodo... Anch'io l'ho
avuta, e son qui per miracolo».
«Ma
di Lucia non mi sa ella dir nulla?»
«Figliuol
caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano;
cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta:
muojono tutti».
«Ma
noi siam pur vivi, e...»
«Per
miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam trarre, è
di cacciar tutte le bazzecole dalla testa. In Milano, figliuolo! chi vive in
Milano? questo è un purgatorio, ma quello è l'inferno. Non vi
passasse mai pel capo...»
«E
Agnese, signor curato?»
«Agnese
è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si
guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le
fareste dispiacere».
«Sia
lodato Dio; ma ella né mi vuole ajutare, né vuole che altri m'ajuti».
«Che
dite figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perché vi voglio bene; e
perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo... Dio guardi! In
Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un impegno! e con tanti
nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare...
chi sa? gente che vuol bene, ma... gente che si piglia impegni di proteggere, e
poi... Sostenere... cozzare... basta parlo con tutto il rispetto... ma Dio solo
è da per tutto... Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno...
si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perché la
riordini... e chi ne va col capo rotto è il curato... Fate a modo mio, tornate
dove siete stato finora». «Basta», disse Fermo: «non mi aspettava da lei
più soccorso di quello che mi abbia avuto. Io non intendo tutti questi
suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti
ch'io faccia a modo mio».
«No,
Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me
e voi. Abbiate compassione d'un pover uomo che ha bisogno di quiete; e sarebbe
giusto finalmente che la godesse. Quello che ho patito io, vedete, non lo ha
patito nessuno. Ne ho passate d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche:
è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di
fame su gli occhi. Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho
trovato cuori duri come selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono
stato... e ho dovuto... e basta... sono stato ricoverato da un degno signore...
basta so io quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere agli
appestati... e... ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa
anch'io, e son qui vittima della mia carità: d'allora in poi non son
più quello. Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj; e
mi tocca servirmi da me povero vecchio e malandato, come sono. Ecco che appena
cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi travagli...»
«Signor
curato», disse Fermo, «io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne
può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia. La spia ella non
me la vorrà fare; del resto io mi rimetto nelle mani di Dio. Attenda a
guarir bene, signor curato».
«Sentite,
sentite», continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una
riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.
—
Oh povero me! questo vi mancava! — continuò a borbottare fra sè
Don Abbondio, ritirandosi dalla finestra. — Povero me! Se costui va a Milano,
se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato
l'imbroglio. Un cardinale che dirà: «voglio che si faccia il
matrimonio», un signore che dice: «non voglio»: ed io tra l'incudine e il
martello.
Basta...
— disse poi soffiando dopo d'avere alquanto pensato —... muore tanta gente...
che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si divertono a mettere le
pulci nell'orecchio di me pover uomo!
Intanto
Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il lettore se
ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria. Alla vista di quel luogo una
nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli un gran sospiro, e
bussò.
«Chi
è là?» gridò da dentro la voce d'Agnese: «state lontano;
non bazzicate intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra».
«Sono io», rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta aveva
fatte in fretta le scale, e apriva la finestra. «Son io; mi conoscete?» disse
ancor Fermo, quando la vide. «Oh Madonna santissima!» sclamò Agnese:
«voi!» «Io», rispose Fermo; «sono il benvenuto?»
«Oh
figliuolo!» sclamò di nuovo Agnese, «quanto vi avrei desiderato se non
avessi avuto paura per voi! Ma ora che venite voi a fare?»
«A
saper nuove di Lucia, e di voi», rispose Fermo. «A vedere se tutti si sono
scordati di me. Che n'è di Lucia?»
«Figliuolo,
sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella stava bene di salute;
ma ora chi può sapere...?»
«Io
andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia», disse
Fermo risolutamente.
«Voi?»
disse Agnese: «ma e... mi capite. Basta...»
«Volete
aprirmi e parleremo più liberamente?»
«E
la peste, figliuolo?»
«Grazie
al cielo ella non ha ammazzato me, ed io ho ammazzato lei, e son sano e salvo
come mi vedete. Aprite con sicurezza».
«Scendo
ad aprire», rispose Agnese; «oh con quanta consolazione v'avrei riveduto. Ma
ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano».
«Come
vorrete», rispose Fermo.
«State
ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi affacciate
alla porta; lasciatemi rientrare, poi entrerete, e vi porrete in un angolo
lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno bisogno di toccarsi. Oh
quante cose ho da dirvi!»
«Ed
io a voi», rispose Fermo.
Agnese
calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo
che stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza;
Fermo entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si
pose a sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in quel
luogo, e sospirando; Agnese andò a richiuder la porta, e venne a sedersi
nell'angolo opposto. E subito cominciò come una sfida d'inchieste.
«Come
vi siete fidato di venir da queste parti?»
«Perché
Lucia non mi ha mai risposto?»
«Come
avete potuto fuggire?»
«E
perché non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi denari?»
«Chi
v'ha strascinato in quei garbugli?»
«Quanto
tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata
propriamente la cosa?»
Fatte
le prime interrogazioni più pressanti ognuno cominciò a
rispondere brevemente a quelle del compagno. Fermo finalmente pregò
Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo di
soddisfarla egli poi della propria. Così Fermo conobbe per la prima
volta daddovero le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato.
Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto; ora
diede dei pugni all'aria, ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento;
maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni e benedizioni
al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il perdono del cielo
sopra Don Rodrigo. Ma un punto rimaneva tuttavia oscuro, né Agnese sapeva
dilucidarlo. Perché non è venuta con me? con me suo promesso? con me che
doveva, che poteva divenir suo marito? che ostacolo v'era più? non
sarebbero mancati che i denari; e il cielo gli aveva mandati. Agnese non seppe
dire, se non ciò ch'ella aveva pur pensato: che Lucia fosse rimasta
tanto stordita e sgomentata da quegli orribili accidenti, che non le rimanesse
più forza da voler nulla, e fosse disgustata d'ogni cosa.
«Oh!
andrò io a saperlo da lei», disse Fermo, «voglio vederne l'acqua chiara.
Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per demeritarla; e se
non mi vuol più...» e qui avrebbe pianto se gli uomini non si vergognassero
di piangere, «se non mi vuol più; me lo ha a dire di sua propria bocca;
e mi deve dire il perché».
Agnese
cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo le
narrò sinceramente. Questa storia fece molto piacere ad Agnese, e le rimise
Fermo nell'antico buon concetto. «Voleva ben dire io!» sclamava ella di tratto
in tratto. «Se sapeste come la raccontavano qui, in cento maniere l'una peggio
dell'altra. Ma voi non me l'avete mai fatta scrivere ben chiara».
«E
voi, madonna», disse Fermo, «non mi avete mai data soddisfazione sopra quello
che io voleva sapere».
«Basta»,
disse Agnese, «lodato Dio che abbiam potuto parlarci una volta; valgon
più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti gli scarabocchj di
questi sapienti. Ma voi come vi fidate di andare a Milano, dove vi hanno tanto
cercato, dove...?»
«Chi
mi conoscerà?» rispose Fermo, «non m'hanno visto che un momento; e il
nome... ne piglierò un altro; non ci vuol gran lettera per questo; e poi
chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste. Sono tutti in
confusione. Muojono come le mosche, a quel che si dice... Ah! pur che viva
Lucia!»
«Dio
lo voglia!» sclamò Agnese; «e lo vorrà, io spero. Quella
poveretta innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per
salvarla ora. Ah! Fermo, io ho buona speranza; andate pure; mi sento tutta
riconfortata dell'avervi veduto. Sento una voce che mi dice che i guaj sono
alla fine; e che passeremo ancora insieme dei buoni momenti».
Fermo
chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non le seppe dir altro se non ch'egli era
a Palermo che è un sito lontano, lontano, di là dal mare.
Scontento, e perché sperava da lui ajuto e consiglio, e perché desiderava di
raccontare a lui pure la storia genuina; e perché avrebbe riveduto volentieri
quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza. Disse
però: «brav'uomo! vero religioso! è meglio ch'egli sia fuori di
questi guai e di questi pericoli».
Agnese
offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni
sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non
avvicinarsi a quell'altro luogo.
Fermo
accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi
che Agnese desiderava. Era venuta l'ora della cena; e la massaja si diede ad
ammanirla. Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la polenta: Fermo, da giovane
ben educato, voleva risparmiare la fatica alla donna, e fare egli il lavoro: ma
Agnese, levando la mano: «guardatevi bene dal toccar nulla», disse; «lasciate
fare a me». Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò
nell'acqua, la rimenava, dicendo: «Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi
dice che la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in
buona compagnia». Fermo sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando
sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la
vacca, tornò con una brocca di latte, dicendo: «vedete: quella povera
bestia da sei mesi è la mia unica compagnia». Prese un bel pezzo di
polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più
lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno alla
persona perché non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi allo stesso modo
gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena si parlò dei
disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia,
gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva sul luogo della loro
dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena.
Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza, dov'egli doveva
coricarsi: era quella di Lucia: Fermo amò meglio di andarsi a gettare
sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione per la salute. Prima
dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a Fermo due pani, e due
raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì di vino il fiaschetto
ch'egli aveva portato con sè, dicendo: «in questi tempi potreste morir
di fame, prima di trovare chi vi desse da mangiare». Il congedo fu quale ognuno
può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento, e di speranza.
Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera
entrare in Milano, ma pensò che avrebbe trovato più facilmente un
ricovero al di fuori. Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio
dalla città. Dormì su le stoppie, e all'alba, levatosi, si
avviò, e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli comparve in un
aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la
prima volta.
CAPITOLO VI
S'io
avessi ad inventare una storia, e per descrivere l'aspetto d'una città
in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il partito di
farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene dal
ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in
un'altra occasione: che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità
d'invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica
delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza
delle sue leggi. Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una
storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle
norme artificiali prescritte all'invenzione, procedono con tutt'altre loro
regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse
possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne
diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da
potersi sperare. Per questo incolto e materiale procedere dei fatti, è
avvenuto che Fermo Spolino sia giunto due volte in Milano appunto in due
epoche, diversamente singolari, e che l'una e l'altra volta abbia ricevuta
dall'aspetto di quella città una impressione, che noi dobbiamo pur
riferire, trattandosi d'uno dei nostri protagonisti. Nè in questo solo
ma anche fra i due soggiorni di Fermo in Milano, anche fra le due partenze
v'è un principio singolare di somiglianza: cui ella spiacesse, se la
pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel modo.
Per
una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè delle
mura, Fermo sostette pensoso, e preso da quella specie di spavento che si prova
al trovare una vasta, ostinata solitudine in mezzo alle tracce dell'abitato:
tese l'orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d'uomini, nessun
segno di vita, nessun movimento; se non che d'in su la mura, ad intervalli,
sorgevano colonne di fumo, che s'allargavano in globi scuri, bigi, folti, e
quindi abbattute dal vento si curvavano, scendevano giù al di fuori,
diradandosi e diffondendosi nell'aria, e si stendevano sul piano esteriore in
nebbia lenta, crassa, fetente. Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di
letti, di spazzature d'ogni sorta che si facevano portare al bastione, e quivi
abbruciare. Tale era il fastidio che quella nebbia diffondeva nell'aria, che
Fermo, benché avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con
ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all'entrare e
all'avanzarsi nella città, non solo il lezzo, ma ogni sorta di fastidio
l'avrebbe assalito da tutte le parti, e che bisognava risolversi ad
affrontarlo, non pensare a ripararsene. Fuori della porta era una capannuccia
di legno, stazione delle guardie e d'un deputato che doveva guardare a chi
entrava ed usciva, richiedere le bollette, escludere i sospetti. Ma in quella
comune disperazione ogni disciplina era dismessa; il deputato a quella porta
era caduto di peste il giorno antecedente, le poche guardie stavano nella
capanna, badando più a tener lontani i passeggieri dalle loro persone
che ad esaminarli. Dinanzi alla porta era un cancello, ma spalancato, e Fermo
vi passò senza che alcuno lo chiedesse di nulla. Procedendo per quel
primo spazio della città tra i bastioni, e il canale chiamato naviglio,
spazio occupato da orti (o se volete da ortali, che sarà più
vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi sparso qualche
convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse
indizio esser quello un luogo abitato da uomini. Il primo indizio di persona
viva gli venne, mentre egli passava tutto costernato per quella stradaccia che
dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio, e alcune casuccie, va alla
piazza di San Marco. Un gemito che si sforzava d'essere una chiamata
uscì d'una di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino
alla finestra che scuoteva una funicella alla quale era appeso un sacchetto che
scendeva presso al pavimento della strada. Fermo si fece vicino, e udì
una voce fioca: «carità ai poveri sospetti». Cavò egli una
moneta, e la ripose nel sacchetto; ma colui invece di tirar la fune a
sè, disse con un tuono misto di supplica e d'impazienza: «un po' di
pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci hanno dimenticati; e moriamo
di fame». Fermo aveva ancora uno dei pani di Agnese: lo cavò tosto, e lo
legò alla fune. Il rinchiuso, benedicendolo, la trasse in fretta, e
Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani, porselo a bocca, e
addentarlo avidamente. Dopo due passi udì un romore confuso che si
avvicinava, e cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio
di cavalli, uno squillare di cento campanelli, un baccano di grida;
guatò dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov'egli
camminava spuntare due uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le
mani alzate accennavano, e ad alta voce gridavano ai passeggeri di ritirarsi.
Dietro a questi vide comparire cavalli che allungando la cervice, e puntando le
zampe, avanzavano a stento; e ad ogni passo le campanelle che essi avevano
appese intorno alle teste e ai colli, mandavano un tintinnio acuto e
assordante: e a fianco dei cavalli, vide monatti in lacere divise rosse, essi
pure con le campanelle ai piedi, che a forza di punte e di flagelli e di
bestemmie li forzavano a camminare, a proseguire la corsa ritardata dal peso
crescente dei cadaveri che raccolti sul passaggio erano gettati sui carri. I
cadaveri v'erano ammonticati, e intrecciati insieme, quasi come un gruppo di
serpi che lentamente si svolga al tepore della primavera: nudi la più
parte, o male avviluppati in lenzuola cenciose. Dopo un carro che
attraversò la via, ne venne un altro, e poi un altro: dieci ne
contò Fermo. Di tratto in tratto, si vedevano i cadaveri, ad una forte
scossa, tremolare sconciamente, e scompaginarsi; le gambe, le braccia, le teste
con le chiome arrovesciate si svincolavano dal mucchio, e spenzolavano dal
letto del carro, talvolta involte nelle ruote traevano seco i cadaveri sotto di
quelle, come per mostrare che quello spettacolo poteva divenire ancor
più disonesto e più miserando. Fermo ristette alquanto, fin che
il convoglio fosse passato; e ripresa da poi la via, e giunto in capo a quella
su la piazza di San Marco, presso il ponte che ne piglia il nome, vide di nuovo
per di dietro quel sozzo corteggio, che per la via del pontaccio, si avviava
alla fossa scavata fuori della porta comasina.
Ma
un altro spettacolo, su quella piazza, attirò i suoi sguardi, e gli
diede a pensare: erano due travi alzate e infisse nel suolo, e una corda
passava dall'uno all'altro capo fra due carrucole. Fermo riconobbe (ella era
cosa famigliare a quel tempo) l'abbominevole stromento della tortura; ma non
sapeva perché fosse collocato in quel luogo. La sua maraviglia crebbe da poi
quando ne incontrò uno per ogni piazza, in ogni via spaziosa. V'erano
posti, affinché i deputati delle porte e delle parrocchie, muniti a questo d'ogni
facoltà più arbitraria, potessero, immediatamente farvi
tormentare chi loro paresse, o sequestrati che uscissero, o ministri
disubbidienti, o violenti di qualunque sorta. Era uno di quei rimedii
immoderati e inefficaci di cui principalmente in quel tempo si faceva
scialacquo: era un dispotismo che non toglieva l'anarchia. Dopo avere
inutilmente guardato su quella piazza, se potesse scorgere alcuno a cui
chiedere conto della via dove abitavano i padroni di Lucia, il nostro
pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il convento di San Marco,
giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome di Beatrice sua moglie;
e per quello entrò nella città propriamente detta. Quale
città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di carrozze, non
grida di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti,
urli che uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o
quel che dava un suono ancor più atroce, il baccano festoso, e la
ilarità infernale dei monatti. Lo spazzo sparso e talvolta ingombro di
mobili, di coltrici, di vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose
e sanguinate; e a quando a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si
vedevano camminare i cittadini che qualche necessità faceva uscire di
casa: una parte era fuggita; un'altra parte, al numero circa di quattordici
mila, abitava, o moriva nel lazzeretto; un'altra languiva nelle case; e forse
cento venti mila erano i morti a quell'ora; prima della peste la popolazione
della città era stimata dugento mila persone; numero al quale non
risalì mai più dopo quel disastro. Andavano quei pochi,
scompagnati, in silenzio, con la faccia lurida, coi capegli lunghi ed incolti,
con le barbe arruffate, perché da quando nella casa dell'infelice barbiere
Giangiacomo Mora s'era creduto scoprire la fucina principale delle unzioni,
ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti. Andavano quei viandanti
succinti in farsetto, deposte le cappe, le toghe, le cocolle, ogni ampio
vestimento che svolazzando, potesse moltiplicare coi casi di contatto, i rischj
della contagione. Ognuno cercava di tenere il mezzo della via; si aveva orrore
delle pareti che potevano esser unte; si temeva che dalle finestre si
gettassero sui passeggeri polveri venefiche; e troppo spesso realmente si
gettavano i letti, le vesti, le suppellettili dei morti di contagio; talvolta,
orribil cosa! i morti stessi; talvolta gli infermi trasportati dalla frenesia
del morbo, o spinti dalla disperazione, si gettavano da sè. Nessuno che
parlasse, nessuno che stesse a musare: non v'era creatura ferma fuor che i
cadaveri. Il solo vivente che il nostro pellegrino vedesse immoto nella via
presso al muro, fu un uomo che sedeva a canto ad una porta in atto di chi
assorto in qualche cura non badi a ciò che accade intorno a lui. Era un
prete che posato sur un trespolo, udiva, dalla porta socchiusa la confessione
d'un appestato. I viandanti portavano per lo più in mano certe palle
crivellate di piccioli fori con entro spugne intinte di aceti medicati, di
spiriti, e ad ogni momento le fiutavano; e si aveva gran fiducia in quei
preservativi: tenevano nell'altra mano un bastone, non tanto per appoggiarsi,
come per rimuovere chi avesse troppo voluto accostarsi; alcuni perfino tenevano
invece del bastone, una pistola, accennando ai sopravvegnenti che dessero
luogo; con quello stromento atto ad ottenere una più certa e più
pronta obbedienza. Se due amici s'incontravano a caso, il saluto era uno
stringersi nelle spalle, un alzar delle mani, un sospiro, una occhiata quasi di
maraviglia, che voleva dire: — voi siete ancor vivo! — ogni altra più
intima accoglienza era dismessa, e in due mesi non accadde forse mai che due
mani si stringessero ad espressione di amicizia. I medici, i chirurghi si
distinguevano per un capuccio che portavano come da disciplinati, per calarlo
sul volto quando s'appressassero ad un infermo, avevano guanti alle mani per
preservarle nel toccare dei polsi, nel medicare; e sospeso a cintola un
fiaschetto d'aceto per lavarsi ad ogni visita, e per lavare i danari che erano
loro dati in mercede, e che molti con crudele avarizia imponevano esorbitante,
non volendo toccare un polso a meno d'uno zecchino. Su quelle poche facce che
si vedevano in volta era per lo più scolpito, compenetrato, e come
divenuto fisonomia, l'accoramento, lo stupore, la sfidanza; le forme
irrigidite, e come stagnanti in una trista quiete; e gli sguardi non avevano
vita che dal terrore e dal sospetto. Pochissimi però fra quei pochi
andavano con passo più alacre, e mostravano una fronte men costernata:
erano i guariti dalla peste; altri che portavano al collo o amuleti dai quali
speravano d'esser preservati, o una boccetta di vetro con entro argento vivo,
persuasi che questo metallo avesse la virtù di assorbire ogni influsso
maligno; altri che prima d'uscire avevan mangiata una noce, due fichi secchi, e
un po' di ruta, che da essi era riputato efficacissimo preservativo. E pur
troppo tutti questi rimedii producevano un effetto; ma era di crescere la
mortalità, rendendo men guardinghi in tutto il resto coloro che avevan
fede nell'uno o nell'altro di essi. Fermo, benché ansioso di giungere al luogo
dov'era, dov'egli sperava ancor tremando che fosse colei per cui sola aveva
intrapreso quel viaggio, desideroso anche di abbreviare il più che fosse
possibile un così tristo cammino, non aveva mai però scorto un
volto che gli facesse animo ad interrogare. Finalmente essendo capitato in uno
di costoro, si risolse di rivolgersi a lui, e fece atto di accostarglisi. Ma
costui, che a malgrado del preservativo, era però dei cauti, levò
il suo bastone che terminava in uno spiedo, e appuntandolo in dirittura alla
pancia di Fermo, disse con voce risoluta: «lontano!» Fermo non si mosse; ma a
quella distanza pregò il cittadino che volesse udire una parola,
soltanto una parola; e gli chiese dove fosse la tal via, la tal casa. Non era
molto lungi di là; e il cittadino diede brevemente a Fermo l'indirizzo
ch'egli desiderava; ma quando questi, dopo averlo ringraziato, si mosse per
andare innanzi, l'uomo cauto ripetè: «lontano»; girò il bastone
descrivendo intorno a sè un quarto di cerchio a mezz'aria, e segnando
così a Fermo la giravolta che doveva fare per non passargli troppo
vicino. Fermo proseguì il suo cammino con un'ansia e con una sospensione
d'animo cresciuta dal saper vicino il termine dov'egli sarebbe uscito d'un
terribil forse. Ma per quanto la sua mente tendesse a ricadere in quel
pensiero, ne era pure ad ogni momento stirata via dagli oggetti fra i quali
egli doveva scorrere. Dove che i suoi sguardi cadessero non incontravano che
dolore e ribrezzo. Le porte o chiuse per guardia, o spalancate per desolazione;
molte segnate d'una croce rozzamente tirata col carbone: quei segni eran posti
dai commissarii della Sanità, per indicare ai monatti che vi eran morti
da prendere. Dove lo sgombro era già fatto, le croci si vedevano
cancellate; e mettevano ancor più ribrezzo le tracce del segno di salute
e di morte, guaste e confuse con le tracce delle palme impure dei monatti, o
dei sozzi arredi che egli avevano adoperato a quell'uso. Qualcheduno pur si
mostrava alle finestre, qualche voce si udiva; erano guai di languenti, o urla
di frenetici; erano chiamate e suppliche ai monatti, perché venissero a
togliere qualche cadavere. Nei principii della peste, il terrore di vedersi in
casa quegli uomini senza legge, aveva fatto che molti nascondessero i cadaveri,
gli seppellissero negli orti, nelle cantine, dove, come che fosse; ma poi
crescendo il funesto da farsi, e il fastidio vincendo il terrore, si
desideravano i monatti per liberarsi da uno spettacolo intollerabile, da una
infezione talvolta invecchiata. E quegli scellerati che da prima usavano
introdursi a forza dove non erano richiesti, ora negavano talvolta di entrare
pregati, se alle preghiere non si aggiungeva la ricompensa. Posto il piede
nelle case, vi si portavano non da padroni, da guastatori: ma era venuto il
tempo che delle ribalderie e delle nefandità loro, già temute
più della peste, non si faceva più caso: la disperazione aveva
ottuso nei più ogni altro sentimento. Pure, dinanzi a qualche casa, dove
la sciagura non aveva estinto affatto ogni coraggio, né confusi tutti i
pensieri, stavano distesi cadaveri, deposti ivi ad aspettare il passaggio del
carro funebre; e alcuni pur piamente composti, ravvolti in qualche lenzuolo e
celati al ribrezzo dei passeggieri. E tali depositi, che, in tempi ordinarii,
farebbero altrui torcere il guardo, erano allora quasi un conforto pel guardo,
troppo offeso dallo spettacolo di altri corpi, che pure avevano ricettata
un'anima immortale, e giacevano gettati brutalmente dalle finestre, travolti
dalle cadute, o caduti dai carri, mostrando tutte le più diverse e
dolorose immagini della morte, salvo l'immagine del riposo.
Aveva
Fermo già scorse due vie, e passata la metà del viaggio, quando
presso alla rivolta d'un canto, udì un frastuono, e vide due o tre che
camminavano dinanzi a lui, dare addietro l'un dopo l'altro, e riprendere la
strada donde erano usciti. Giunto al canto, guardò che fosse la cagione
di questi lor pentimenti, e vide nel mezzo di quella via quattro carri fermati;
e come in un mercato di grani si vede un andare e venire di gente dai mucchj ai
carri, un caricare, un rovesciare di sacca; così era la pressa in quel
luogo; monatti che entravano nelle case, monatti che uscivano recandosi un
carico su le spalle; e lo ponevano su l'uno o su l'altro carro: talvolta
ripigliavano il peso già deposto, sul carro degli infermi, e lo
gettavano su quello dei morti; era uno che preso semivivo su le loro spalle,
aveva esalato l'ultimo respiro su quel letto abbominato. Alle finestre, o
presso ai carri si vedeva qualche congiunto pio e animoso piangere i suoi morti
che partivano, o dare un tristo addio agli infermi. Il resto della via era
sgombro, e muto; se non che da qualche finestra partiva di tratto in tratto una
voce sinistra: «qua monatti»: e con suono ancor più sinistro da quel
lurido e affaccendato bulicame si sentiva venire per l'aria morta un'aspra voce
di risposta: «adesso».
Fermo
a quello spettacolo, stette in forse se dovesse egli pure tornare indietro; ma
egli era presso al termine della via, d'una via che a stento aveva potuto farsi
indicare; se l'abbandonava, chi sa quando avrebbe trovato chi volesse
rimetterlo su quella, e chi sa quali inciampi dello stesso genere avrebbe
trovati anche in tutt'altra: con questi pensieri e con animo già
agguerrito a tali viste, egli proseguì. Giunto a paro del convoglio,
accelerava il passo, e cercava di non guardar quegli orrori se non quanto era
necessario per cansarli; ma il suo sguardo vagabondo si abbattè in un
oggetto dal quale usciva una pietà che invogliava l'animo a
contemplarlo; e quasi senza avvedersene egli rallentò il passo. Sur una
di quelle soglie stavasi ritta una donna il cui aspetto annunziava una
giovinezza matura ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata ed
offuscata da un lungo patire, ma non iscomposta; quella bellezza molle e
delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per così dire, solenne, che brilla
nel sangue lombardo. I suoi occhi non davano lagrime, ma portavan segno di
averne tante versate; come in un giardino antico e trasandato, una fonte di
bianchissimi marmi che inaridita, tien tuttavia i vestigi degli antichi
zampilli. V'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che
raffigurava al di fuori un'anima tutta consapevole, e presente a sentirlo, e
quel solo aspetto sarebbe bastato a rivolgere a sè gli sguardi anche fra
tanta miseria; ma non era il solo aspetto della donna che ispirasse una
sì rara pietà. Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse
nove anni, morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in
su la fronte, ravvolta in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani
l'avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e concessa poi come un
premio. Nè era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le
braccia, col petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo
posava su le spalle della madre con un abbandono più forte del sonno:
della madre, perché se anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto
fede, l'avrebbe detto chiaramente l'affetto che si dipingeva su quello che era
ancora animato. Fermo ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in
quello spettacolo. Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista
di prendere dalle sue braccia quel peso; ma pure con una specie d'insolito
rispetto, con una esitazione involontaria. Ma la donna, ritraendosi alquanto,
in atto però che non mostrava né sdegno né dispregio: «no», disse, «non
la mi toccate per ora; io, deggio comporla su quel carro: prendete». E
così dicendo, aperse una mano, mostrò una borsa, e la
lasciò cadere nella mano che il monatto le tese. Poscia continuò:
«promettetemi di non torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s'attenti
di farlo, e di porla sotterra così. L'avrei ben posta io; ma ella deve
riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v'è lassù chi
mi aspetta». Mentre la donna parlava il monatto, divenuto ubbidiente forse
più per una nuova riverenza, che pel guadagno, aveva fatto sul carro un
po' di luogo al picciolo cadavere. La donna diede un ultimo bacio alla figlia,
la collocò ivi come sur un letto, ve la compose; e rivolta al monatto
disse: «ricordatevi: Dio vedrà se mi tenete la promessa; e ripassando di
qua sta sera, salite a prender me pure, e non me sola».
Così
detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con
un'altra più tenera fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della
morte in volto. Stette a contemplare la figlia giacente sul carro, fin che il
carro si mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto
quell'altra cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire
insieme; come la pianta s'inchina col fiore appena sbucciato, al radere della
falce che, dove passa, agguaglia tutte l'erbe del prato.
Fermo
si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato in
tutto quel viaggio, e per la prima volta, molle di lagrime. «O Signore!»
diss'egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una ventura per quella
travagliata l'uscire di tanti guai... Una ventura! E Lucia!» Con questa parola
in sul cuore egli s'affrettò su quella via, alla quale, se il cittadino
lo aveva bene indirizzato, metteva capo quell'altra a cui egli agognava e
tremava di arrivare. Ed ecco, da quella parte appunto venire un frastuono
sordo, poi più risuonante, ma confuso, un suono diverso di voci alte,
brevi, e imperiose, di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi femminili,
di garriti fanciulleschi.
A
quel suono, al pensiero del luogo donde partiva, Fermo si sentì colpito
d'una tristezza più nera che mai, d'una tristezza sospettosa, atterrita,
tanto che non potè tenersi, e quasi smarrito andò a corsa verso
il crocicchio che faceva la via nella quale egli si trovava con quella a cui
era avviato. Quando fu presso, vide nella via a mano diritta, per quella
appunto ov'egli doveva entrare, una torma di gente guidata o cacciata al
lazzeretto da un commissario, e da molti monatti.
A
misura che quella trista processione passava dinnanzi a Fermo, il suo occhio
inquieto, quasi appannato, correva e ricorreva per la moltitudine, trasceglieva
e spiava con terrore ogni volto femminile, si spingeva verso quelli che
arrivavano, tornava a quegli che erano passati... Lucia non v'era. Fermo su le
prime respirò come uscito d'un grande spavento; ma tosto ricadde nella
sua ambascia, pensando che egli andava non a veder forse, ma ad udire di
peggio. Erano languidi che si strascinavano a stento, alcuni sostenuti dalle
braccia di figli, di padri, di fratelli, di mogli, che per pietà o per
disperazione sprezzavano il pericolo del contatto; alcuni spinti a forza,
resistenti in vano, gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e
rispondendo bestemmie impotenti alle bestemmie imperiose dei conduttori; altri
che, appoggiati ad un bastone, andavano in silenzio dove erano comandati, senza
dolore, senza speranza, insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli
spaventati dalle grida, da quei comandi, da quello spettacolo più che
dal pensiero oscuro della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre, e
le sue braccia fidate, e di restare nel noto soggiorno. Ahi! e forse la madre,
che essi credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, vi s'era gittata
oppressa tutt'ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un
carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi.
Talvolta, oh sciagura degna di lagrime ancor più amare! la madre tutta
occupata dei suoi patimenti, si stava dimentica d'ogni cosa, anche dei figli, e
non aveva più che un amore: di morire in riposo. Pure in tanta
confusione si vedeva ancora qualche esempio di costanza; e di pietà:
parenti, fratelli, figli, consorti che sostenevano i cari loro, e gli
accompagnavano con parole di conforto; né adulti soltanto, ma garzoncelli, ma giovinette
appena adolescenti che facevano scorta a fratellini più teneri; e con
senno e con misericordia virile li confortavano ad essere obbedienti,
promettevano di accompagnarli in luogo ove si terrebbe conto di loro per farli
guarire.
Quando
Fermo vide la processione quasi tutta passata, e sgombra la sua via, si volse
ad uno dei monatti che chiudeva il corteggio, e gli chiese conto della casa di
Don Ferrante. Il monatto non rispose se non: «va in malora, tanghero». Fermo
aveva tutt'altro in testa che di risentirsi, e non replicò:
guardò al commissario, gli parve un volto più cristiano; fece a
lui la stessa inchiesta; e il commissario, accennando con un bastone la via
dalla quale egli veniva disse: «l'ultima casa nobile, a destra»; e passò.
Quelle
parole per sè indifferenti, e che non esprimevano se non la nuda notizia
che Fermo aveva desiderata, lo colpirono però, come se fossero una
sentenza ambigua e temuta. Egli impallidì dopo d'averle intese, e
tremò d'esser giunto al termine che aveva tanto bramato, pel quale aveva
intrapreso quel viaggio doloroso, e sostenuto di passare per tanta gramezza.
S'avanzò per quella via a passo interrotto, giunse dinanzi alla casa, la
distinse tosto fra le case vicine più umili, e più disadatte, si
appressò alla porta che era chiusa, pose la mano al martello, ve la
tenne sospesa, come avrebbe fatto se la tenesse in un'urna, prima di cavarne la
polizza dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte. Finalmente alzò
il martello, e bussò.
Si
apre una finestra, e vi compare una donna: era la signora Ghita, che
guardò con sospetto se fossero monatti, malandrini, qualche cosa di
tristo, di quello che girava in quel tempo: vide quello sconosciuto, e prima
ancora d'intendere che egli volesse, disse, o rispose: «Qui non c'è niente».
«Signora»,
disse Fermo con voce tremante, «sta qui una forese, che si chiama Lucia
Mondella?»
«Non
c'è più; andate», rispose la Signora Ghita.
«Non
c'è più!» gridò Fermo, spaventato da quella ambigua
risposta. «Dov'è ella? per amor del cielo».
«Al
lazzeretto grande».
«Con
la peste!»
«Con
la peste: che maraviglia? andate».
«Da
quando v'è ella? e come si può trovarla? Oh Dio! era ella molto
aggravata?»
«Non
è tempo da rispondere a tante cose», disse col suo tuono agro la signora
Ghita. «V'ho detto anche troppo pel tempo che corre. Vi replico, andate». E
così dicendo, fece vista di chiudere la finestra.
«No,
no», disse Fermo: «che carità è questa? voglio saper nuove di
questa creatura; non parto di qui se prima...» Ma mentre egli parlava, la
finestra era stata chiusa.
«Quella
signora! una parola, una parola!» gridò Fermo, ma non ebbe risposta.
Costernato
da un tale annunzio di sventura, smanioso del non aver potuto né pur conoscere
quanta ella fosse, incerto qual fosse il più pronto mezzo per trovar
conto di Lucia, se insister quivi con preghiere o con minacce, o andare a
dirittura al lazzeretto, Fermo stava appoggiato alla porta, tenendo la mano sul
martello, talvolta lo alzava, per picchiare alla disperata, poi pentito, lo
riteneva, lo stringeva nella mano come se volesse storcerlo, come per isfogare
la sua passione. In questa agitazione, egli per quell'istinto che in qualunque
angustia muove l'uomo a cercar soccorso all'uomo, si rivolse alla strada, per
vedere se mai gli cadesse sott'occhio qualche vicino, a cui chiedere informazione,
indirizzo, consiglio. Ma quel che vide fu una vecchia, dietro a lui forse a
venti passi, la quale con un volto che esprimeva terrore, odio, impazienza e
malizia, sbarrando la bocca come se volesse gridare, ma tenendo anche il
respiro, sollevando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinze
e adunche, come s'ella traesse a sè qualche cosa, accennava
manifestamente di voler chiamar gente in modo che un qualcheduno non ne fosse
avvertito. Alla guardatura della vecchia, Fermo s'accorse tosto ch'egli era
quel tale; e più stupito che atterrito dal vedersi oggetto di tante
passioni, voleva gridare: «che diamine...», quando la vecchia, vedendo ch'egli
s'era accorto di lei, e disperando di poterlo sorprendere, lasciò uscire
il grido che aveva compresso fin allora: «Ajuto! Ajuto! L'untore! L'untore!
dalli! dalli!»
«Taci,
bugiarda strega», sclamò Fermo alla vecchia, e le si mosse incontro per
farle paura e metterla in fuga. Ma nello scostarsi dalla porta vide che la fuga
diveniva necessaria per lui: lo strillo della vecchia era stato inteso, e dalla
parte verso la quale ella lo aveva mandato, usciva gente, e guardava dove fosse
l'untore, gente, che forse a qual fosse più pietoso chiamar di soccorso
non sarebbe uscita dalle tane dove si stava rimpiattata per paura; ma per
graffiare e per prendere un untore era pronta; tanto era il furore contra
quegli che si credevano la cagione primaria di tanti mali. Nello stesso istante
s'aperse di nuovo la finestra, e di quivi la signora Ghita gridava a testa:
«cacciate quel garritore, che dev'essere un di quei ghiotti, che vanno facendo
le poltronerie alle porte e alle muraglie».
Alcuni
cominciavano già a correre verso Fermo, urlando: «piglia, piglia, dalli,
dalli». Fermo vide la mala parata; per buona sorte il lato della strada dove
stava la vecchia, era quasi sgombro d'altra gente: uno che era accorso per di
là volle gittarglisi addosso, ma egli lo stramazzò a terra d'un
urto; e a gambe. Allora la folla vie più ad inseguirlo. E non era ancora
giunto al capo della via che già sentiva quelle grida amare risuonar
più forti all'orecchio, sentiva appressarsi il calpestio dei più
leggieri ad inseguirlo. In quell'estremo, egli che sapeva, come ognuno lo
sapeva, qual fosse la sorte di chi cadeva nelle mani del popolo o dei giudici
col nome di untore, risolse di non lasciarsi pigliare alle spalle da quei
furibondi, ma di rivolgersi, di mostrar loro il viso, e di difendere
disperatamente la sua vita.
CAPITOLO VII
Così
disposto, volse indietro, ma senza però ristarsi ancora dal correre, il
volto più torvo e più cagnesco che avesse ancor fatto in vita sua
per guatare quali, quanti, a che distanza fossero quei suoi persecutori; ma con
maraviglia, e con un sentimento confuso di gioja gli vide tutto ad un tratto
restar sui due piedi, in grande esitazione e su quelle figuracce alle brutte
contrazioni del furore succedere le brutte contrazioni della paura. E tosto
più presente a se stesso, scerse dinanzi a sè e non lontano, un
apparitore, e dietro lui un carro coperto di cadaveri, intese i campanelli, lo
scalpito, le ruote, le canzonacce dei monatti, tutto quello strepito che un
momento prima percoteva le sue orecchie senza saputa della mente. Il terrore
degli inseguenti per quella comparsa, fece tosto pensare a Fermo che per lui
ella era salute: sentì egli che non era momento da far lo schifo:
affrettò la corsa verso il carro, tolse la mira ad un picciolo spazio
sgombro che vide in quello; spiccò un salto; ed eccovelo ritto, piantato
sul destro piede, col sinistro in aria, e con le braccia alzate tuttavia dal
lancio di tutta la persona.
«Bravo!
bravo!» sclamarono ad una voce i monatti, altri che seguivano il convoglio a
piedi, altri, seduti sui carri, altri, per dire la orribile cosa come ella era,
seduti sui cadaveri trincando d'un gran fiascone che andava in giro. «Bravo!
bel colpo!»
Gl'insecutori
all'avanzare del carro avevano per la più parte volte le spalle, e
fuggivano, gridando pure «dalli! all'untore!» se mai qualcheduno più
coraggioso di essi, volesse venire a compiere la buona opera; e a quei gridi
rispondevano dalle finestre uomini e donne accorse al romore: «dalli!
all'untore!» Alcuni però dei primi tentennavano, quasi non potessero
rassegnarsi a vedere la fiera uscir salva dalla loro caccia, e digrignavano i
denti, facevan gesti di minaccia a Fermo che gli guardava immobile dal carro.
«Lascia
fare a me» gli disse un monatto; e strappato di dosso a un cadavere un laido
cencio, lo rannodò in fretta, e presolo per un dei capi lo alzò
verso quei feroci, come una fionda, fece atto di gittarlo, gridando: «aspetta
canaglia». A quell'atto tutti dieder di volta inorriditi, e Fermo non vide
più che schiene di nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per
aria. Fra i monatti si sollevò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso
di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnare quella fuga.
«Ah
ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini», disse a Fermo quel
monatto: «val più uno di noi che cento di quei poltroni».
«Certo
io vi debbo la vita», disse Fermo: «e vi ringrazio di tutto cuore».
«Niente,
niente», disse un altro di quei demonii: «te lo meriti, si vede che sei un
bravo giovane. Fai bene d'ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro che
non son buoni a qualche cosa che morti, o birboni; che hanno bisogno di noi, e
ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la moria, ci vogliono fare impiccar
tutti. Hanno a finire prima essi che la moria; e rimarremo noi soli a gavazzare
in Milano».
«Viva
la moria, e muoja la marmaglia», sclamò un altro, e con questo bel brindisi,
si pose il fiasco a bocca, e tenendolo con ambe le mani fra i trabalzi del
carro, ne tracannò un lungo sorso, indi porse il fiasco a Fermo,
dicendogli: «bevi alla nostra salute».
«Ve
l'auguro di buon cuore», disse Fermo; «ma non ho sete; non potrei bere in
questo momento».
«Tu
hai avuto una bella paura, a quel che pare», disse quel monatto: «m'hai cera
d'un pover'uomo; altri visi voglion essere a far l'untore».
«Ognuno
s'ingegna come può» disse un altro.
«Dammi
quel fiasco», insorse un terzo; «voglio vuotarlo io, che l'ho conquistato nella
cantina di quel vecchio avaro lì...» e così dicendo prese il
fiasco dalle mani di quell'altro; e prima di bere, si volse a Fermo, gli
affissò gli occhi in faccia con un'aria di pietà sprezzante, e
gli disse: «Convien credere che il diavolo col quale tu hai fatto il patto, sia
ben giovane, ben dappoco, poiché se non eravamo noi a salvarti, egli ti dava un
bell'ajuto». E ridendo del suo bel tratto, levò il fiasco, e se lo
appiccò alle labbra. Lo vuotò, e poscia tenendolo con la destra
pel collo, lo mosse rapidamente in giro al di sopra del capo, quindi lo
gittò lontano a fracassarsi su le pietre del pavimento, gridando: «viva
la moria». Quindi intonò di nuovo la canzone che l'accidente di Fermo
aveva interrotta; e tosto a quella voce si accompagnarono tutte le altre di
quel turpe coro. La musica infernale mista al tintinnio dei campanelli, e allo
strepito del carro rimbombava orrendamente pel vôto silenzioso delle vie, e
stringeva amaramente il cuore dei pochi rinchiusi nelle case dinanzi alle quali
il carro trascorreva.
Fermo
vi stava ritto tuttavia ansante per la corsa, e per la tema avuta, agitato di
dentro in una successione fluttuante di passioni e di pensieri. Da prima
provò un vivo ristoro del vedersi in salvo, quindi dabbene come egli
era, ringraziò Dio che lo avesse scampato da un tanto pericolo; ma non
lasciò per questo di sentire un gran rancore per quei bestiali suoi
persecutori; qualche momento dopo cominciò a parergli ben fastidiosa la
compagnia di quei morti da cui era circondato, e di quei vivi pei quali sentiva
ad un punto riconoscenza, e orrore.
Pensò
da poi che, se ben salvo, era pure ancor bene impacciato, pensò al modo
di uscire dal fastidio senza incappare di nuovo nel pericolo e di trovare il
lazzeretto, dal quale egli era lontano forse chi sa quanto; e forse se ne
andava sempre più allontanando. Domandarne a quei suoi ricettatori, il
cuore non glielo diceva; sarebbe stato un esporsi a mille inchieste, attirarsi
Dio sa quali parole, impegnarsi in un colloquio né aggradevole, né troppo sano.
Fermo era già anche troppo imbarazzato in quella poca conversazione, che
aveva dovuto fare con essi; vedeva che quegli che lo avevano salvato erano sul
conto suo nello stesso inganno di quelli che lo volevano morto; non si curava
di sgannare coloro, e nello stesso tempo sentiva troppa ripugnanza a dir cosa
che gli confermasse nel loro errore. Cercava quindi di lasciar cadere i
discorsi, senza però mostrare né ripugnanza, né sospetto, né fare atto
che gli alienasse l'animo di quegli che alla fine erano i suoi protettori in
quel momento. Chi poteva sapere a che filo tenesse quel loro favore e la loro
condiscendenza; forse alla sola idea che Fermo fosse un propagatore della
peste; il favore degli uomini benevoli è talvolta così fragile,
così permaloso, la buona gente si stanca talvolta per sì poca
cosa di proteggere un disgraziato; pensate poi una feccia di ribaldi come
quelli. Per tutte queste ragioni Fermo fu molto contento quando vide che essi
non lo stimavano degno della loro attenzione; e fu grato alle sue orecchie (che
cosa non può divenir grata in questo mondo!) quel canto, che lo toglieva
dall'intrigo di quella conversazione. Intanto il carro s'era già
allontanato abbastanza, perché Fermo non temesse più di esser raggiunto
dai suoi nemici; i quali del resto s'eran dispersi; non restava che il pericolo
di abbattersi in uno di quelli che lo riconoscesse, e gli aizzasse di nuovo la
gente addosso; pericolo lontano, ma che poteva crescere in proporzione della
strada che Fermo avrebbe ancora a percorrere. In questa tempesta di pensieri
egli girava attorno uno sguardo sospettoso e irresoluto, quando gli parve di
riconoscere il luogo per dove passava, richiamò le sue memorie,
guardò più fisamente... — questa via non mi è nuova, di
qua son passato certamente —. Fermo non s'ingannava: il carro diretto alla gran
fossa scavata dietro il lazzeretto e denominata il Foppone di san Gregorio,
scorreva nella via chiamata allora il borgo ed ora il corso di porta orientale,
per cui Fermo era entrato con molta maraviglia, ed uscito con molta paura un
anno e mezzo prima. Ad ogni passo, nuovi oggetti altra volta veduti, rendevano
più vivo e più chiaro il riconoscimento di Fermo; ma dove ebbe la
perfezione fu al passare dinanzi alla piazza, al convento dei capuccini. Allora
riconobbe la porta orientale; si risovvenne che al di fuori di quella era il
lazzeretto; e per quanto pieno di dolore, di difficoltà, e d'angosce
fosse l'affare che lo strascinava in quel luogo, pure il povero giovane si
sentì tutto rincorato nel pensiero d'esservi giunto senza studio,
sicuramente, in carrozza, quale ella si fosse; questo gli parve un buon
principio, e un buon augurio. Oltrepassato il convento, Fermo pensò che
sarebbe meglio spacciarsi da quella compagnia e uscir dalla porta a piede. Vide
che i monatti invasati nel loro canto non badavano a lui, fece un cenno di
saluto e di ringraziamento ad uno che gli era più vicino, e balzò
dal carro in sul pavimento. Quel monatto lo accompagnò con un saluto
schernevole della mano e del volto, dicendogli: «va, va, povero untorello: tu
non sarai quello che spianti Milano». Per buona sorte non v'era anima vivente
nella via che potesse udire quelle parole. Fermo s'indugiò, tirando
presso al muro, tanto che il carro si allontanasse; e a passo lento giunse
presso alla porta; vide spuntare l'angolo di quel recinto, dove erano addensati
più guai che non ne fossero sparsi nella dolorosa città ch'egli
aveva percorsa: passò il cancello, e gli si spiegò dinanzi la scena
esteriore del lazzeretto; il principio appena, e come la mostra dei guai, e
già una vasta, diversa, inenarrabile scena.
A
noi, come certamente al lettore, incresce ormai un così lungo avvolgerci
tra tanto dolore, e tanto fastidio: quindi ci guarderemo dal tentare anche di
descrivere a parte a parte quella scena: bastino alcuni tratti generali a dare
un'idea comunque dello spettacolo che s'offerse agli sguardi di Fermo. Fin dove
il suo occhio poteva giungere nello spazio che circonda al di fuori il lato
meridionale e l'orientale del lazzeretto, quello spazio era sparso di
languenti, a cui non erano bastate le forze per giungere fino al lazzeretto, di
morti che ivi giacevano, era percorso da gente che entrava, da infermi che ne
uscivano, e che erravano sbandati, la più parte fuori di sè,
quale imperversato, quale istupidito. Altri pareva tutto infervorato a
raccontare le sue sciaurate fantasie al tapino che giaceva oppresso dal male, o
ad un altro infelice, preoccupato da altre fantasie; un altro si mostrava
assorto e tranquillo in un immaginato contento; e quella apparenza di gioja e
di serenità in mezzo a tanta miseria, pure ne accresceva l'orrore; tanto
è terribile all'uomo il vedere in altri oscurato quel lume divino che lo
fa esser uomo. Altri per un trasporto che fu notato in altre pestilenze,
vogliosi d'immergersi nell'acque, si gettavano nel fossato che gira attorno al
lazzeretto; e vi morivano affogati, o vi rimanevano disensati; taluno
canticchiando, le ore, i giorni interi. Tra quella confusione giravano monatti
a prendere i morti, a contenere, a rispingere, a guidare nel lazzeretto i
miseri così vivi, giravano commissarj, delegati, a dare ordini, a
dirigere come si poteva i monatti. E Fermo scorrendo tra quella folla per
avviarsi alla porta di quel lato che tira lungo la strada maestra, Fermo doveva
pure per quanto intollerabili gli fossero quegli oggetti, fissare sovr'essi lo
sguardo perché fra essi, uno di essi, poteva essere quello di ch'egli andava in
traccia. Giunto su quella porta, ristette sopraffatto dal nuovo spettacolo che
gli si parava dinanzi e dattorno. Dinanzi, il vasto campo interno del
lazzeretto, ingombro qua e là di trabacche, di capanne, coperto e
animato da un popolo, del quale il veduto al di fuori non era che un saggio; e
a destra e a sinistra le due interminate fughe di porticato spesse pure, e
gremite, e brulicanti a quel modo: uno sciame, un trambusto, un rimescolamento
da far vertigine, da offendere con subita fatica lo sguardo, quando fosse pure
stata una festa. Il cuore di Fermo fu soverchiato a quella vista; ed egli
stette un momento in fra due se dovesse tornarsene, e abbandonare una ricerca
che superava le sue forze. Ma l'affetto dal quale egli era stato tratto su quel
limitare, aveva pigliato ancor più forza dalla incertezza, e l'immagine
di Lucia, forse inferma quivi, abbandonata, era divenuta più forte e
più pietosa nell'animo di lui. Pensò che se egli si ritraeva
allora da quel luogo, vi sarebbe stato ben tosto sospinto di nuovo da tutti i
suoi pensieri: partirsi senza aver nulla saputo di Lucia, aspettarne le
novelle, fin quando, da chi? partir dal luogo dove soltanto si poteva sperare
di trovarla: fuggire da dove ella era forse a pochi passi di distanza... Fermo
si mosse, rivolse una viva preghiera al Signore e si gittò in mezzo a
quella confusione, abbandonandosi alla scorta di Lui. Non aveva alcun filo per
dirigersi, né una ragione per cominciare la sua ricerca più tosto a
destra che a sinistra, nel campo che sotto il portico; ma il campo gli era in
faccia, e s'ingolfò in quello alla ventura.
Nei
principii della pestilenza il lazzeretto era stato scompartito in quartieri pei
ministri e per quelli che entravano ad esser curati: le femmine separate dai
maschj, e ogni sesso suddiviso in sospetti, in infetti, in quarantenanti. E
già fin d'allora quell'ordine, come abbiam detto non s'era potuto
interamente serbare; ma nel bollore della peste, e nel crescere della
moltitudine, tutto s'era rimescolato, come una botte fecciosa nella furia del
temporale. Oltre di che quello scompartimento non era stato fatto che nel
fabbricato, in tempo che nessuno prevedeva che questo non sarebbe bastato, che
l'immenso circuito interno sarebbe divenuto spesso, traboccante, insufficiente
anch'esso, e quando questo cominciò a popolarsi, (e cominciò con
una folla) non fu possibile applicare ad esso le divisioni già
stabilite. Pure le sollecitudini dei sopraintendenti e principalmente del Padre
Felice, per mantenere quel primo ordine, nel fabbricato, ne facevano se non
altro rimanere qualche traccia; la massa principale e il fondo per così
dire degli abitatori di ciascun quartiere era del sesso e della condizione a
cui quello era stato destinato. Se Fermo fosse stato informato di ciò,
si sarebbe diretto a destra, al lato settentrionale che guarda al cimitero di
san Gregorio; il qual lato era assegnato alle donne. Ma Fermo, come abbiam
detto, era nuovo affatto di quella bolgia, e non aveva una guida; quindi
procedeva a caso, mettendo il piede dove scorgeva un passaggio, dove il
passaggio era meno intricato d'inciampi compassionevoli o ributtanti. Andava
d'una capanna nell'altra, s'appressava ad ogni giaciglio, dove vedesse una
donna; guatava, e seguiva la sua strada. Da per tutto lo stesso spettacolo
così terribilmente variato, e così terribilmente conforme: corpi
immobili nella morte, o dibattuti nelle angosce mortali; miseri che
brancolavano a stento, o balzavano di luogo in luogo infuriati. I soli che si
vedessero camminar ritti, e con un passo regolare erano monatti, e religiosi,
varii di vesti e di età: gli uni e gli altri intrepidi, occupati delle
loro faccende, come se fossero faccende ordinarie, con una fortezza che certo
era cresciuta negli uni e negli altri da una circostanza comune, la
consuetudine ormai antica di quegli orrori; ma era nata da principii, quanto
lontani! negli uni una selvaggia ed empia durezza, negli altri una
carità più forte della commozione. La più parte di essi
s'era conservata a quei servigi, non per ubbidienza, (e certo un volonteroso e
pronto obbedire in tali circostanze non è una virtù volgare) ma
per un impulso spontaneo: molti avevan fatto broglio per esser deputati al
lazzeretto; avevan reputato guadagno la perdita della vita, e questo guadagno
era già toccato ad un buon numero di essi: taluno perfino, passando dal
disprezzo della morte al desiderio, e dal desiderio alla ricerca,
trascurò le cautele che pure erano compatibili con l'opera, quasi per
non lasciarsi sfuggire il premio. Il che si chiamerebbe volentieri un
bell'eccesso, chi non riflettesse che la religione proscrive tutti gli eccessi;
perché il saggio, il temperato, il ragionevole ch'ella comanda o consiglia,
è più nobile e più bello di qualunque esaltazione
fantastica.
Nel
suo tristo giro, Fermo s'abbattè in un luogo dove quella carità
offriva uno spettacolo singolare. Vide nel campo un picciol parco, una
steccaja, come per tenervi ragunato un gregge. Si avvicinò; v'era in
fatti un gregge di capre; e il vecchio pastore, con una lunga barba
bianchissima, succinto e affaccendato, era un capuccino. Le capre davano la
poppa; ma quali erano i piccioli lattanti! bambinelli che raccolti in quel
recinto presso la madre spirata, o staccati dal petto inanimato eran quivi
portati a vivere. Quel nuovo pastore sprimacciava un letticciuolo di paglia ad
un bambino, ne accostava un altro alle mamme; i belati rispondevano ai vagiti;
e alcune di quelle nuove nutrici già avvezze a tali allievi si
avvicinavano, e si acconciavano ad essi come con senso umano; alcune perfino
distinguevano quello che era loro toccato il primo, distinguevano il suo grido,
e si ritraevano, strepitavano se un altro bambino veniva presentato alle loro
poppe.
Fermo
ristette ivi alquanto a contemplare la novità dello spettacolo, e a
riposarvi gli occhi affaticati d'orrore. Ma movendosi di quivi vi si
trovò ingolfato di nuovo; e rifinito dalla lunga costernazione, dalla
fatica e dal digiuno, egli pensava già ad uscire di là, per
riprendere se non altro nuove forze col riposo, per andare in traccia di cibo.
Quando vide lontano per mezzo a quella varietà di cose e di movimenti un
altro capuccino che presso ad una gran pentola andava riempiendo scodelle, e le
portava nelle capanne, o le distribuiva presso di sè nel campo aperto.
Risolse
allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di quel nutrimento,
persuaso ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque sano. Camminando
sempre verso quel luogo, e tenendo di mira il pentolone, perché il frate
andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi per gli oggetti
frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una capannuccia,
e recarsi in mano una scodella, e mangiare. Era il frate rivolto con la faccia
verso Fermo che veniva; e questi guardandolo più attentamente credette
di scorgere una somiglianza singolare, della persona, perché non era tanto
vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto. In quel baleno
sentì egli una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto
ciò che Agnese gli aveva detto di Palermo, di quel paese di là dal
mare, cacciò quella speranza come una illusione. E pure ad ogni passo la
somiglianza diveniva più forte, più viva, il frate diveniva il
Padre Cristoforo.
Era
proprio il Padre Cristoforo. Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo
della peste dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di
tonaca e di capuccio non avevan potuto togliere dalla mente una rimembranza del
tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva desiderato per quarant'anni di
finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella
occasione e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli
appestati. Fu esaudito: il Conte Zio del Consiglio segreto era morto, e del
resto in quella confusione, e in quel bisogno di soccorsi, anche un puntiglio
avrebbe potuto essere posposto, o dimenticato.
Fra
Cristoforo, ricevuta l'obbedienza, venne a dirittura a Milano, si
presentò al convento, fu mandato al lazzeretto, e vi stava da un mese.
Aveva quivi una sua capannuccia, e s'era fatto all'intorno come un picciolo
distretto, pel quale girava, facendo il confessore, l'infermiere, il cuoco,
agli appestati che si succedevano in quello spazio; e in quel mese aveva forse
veduta rinnovarsi otto o dieci volte la popolazione di quel suo distretto.
«Padre
Cristoforo!» gridò Fermo con un tuono tra l'esclamazione e la chiamata,
a quaranta passi di distanza, quando fu certo che vedeva realmente quell'uomo
che egli avrebbe tanto desiderato, se non avesse creduto cosa impossibile che
un tal desiderio potesse essere soddisfatto.
«Vengo»,
rispose tosto il Padre, credendo d'esser chiamato come gli accadeva ad ogni
istante, per qualche servizio dei suoi infermi; e messa a terra la scodella,
levò la testa, per vedere se qualche altro segno gl'indicasse il canto
donde era venuta la chiamata. Ma vide invece un giovane sano e diritto che
s'avvicinava; e riconobbe tosto Fermo, il quale giunto a lui, tra la
consolazione e la maraviglia non seppe dir altro che: «Padre Cristoforo!»
«Tu
qui!» sclamò questi: «che vieni a cercare in questo luogo? la peste? la
morte?»
Mentre
il frate proferiva queste parole, Fermo lo guardava fisamente, e sentiva
amareggiarsi la consolazione, che aveva provata nel primo istante di quel
ritrovamento. Il volto del frate era mutato, ben più, e bene in altro
modo che non avessero potuto fare per sè quei venti mesi cresciuti alla
sua vecchiezza, né le fatiche. Gli occhi già così vivaci erano
spenti, le guance scarne, sparute, tinte d'un pallore cadaverico, la voce aveva
un non so che di crocchiante; e in tutto si vedeva una natura sopraccaricata, e
quasi esausta, sostenuta e alimentata da una costanza interiore. Fermo con la
trista pratica che aveva dovuta acquistare, s'addiede tosto che il suo buon
protettore era colpito dalla peste, sicché invece di rispondere lo richiese ansiosamente:
«Ma ella, padre, come sta ella?»
«Come
Dio vuole», rispose il vecchio, «non parliamo di questo. Ma tu, dimmi, come,
perché sei tu in questo luogo? Perché vieni così ad affrontare la
peste?»
«L'ho
avuta, e ne sono uscito salvo, grazie a Dio. Vengo a cercare... Lucia».
«Lucia!»
sclamò il Padre: «Lucia è qui?»
«È
qui», rispose Fermo, «se pure... v'è ancora».
«È
ella tua moglie?» domandò il Padre.
«Ah
no!» rispose Fermo con un sospiro; «ma s'ella vive... lo sarà, spero;...
ne son certo... perché no? Oh padre! quante cose avrei da raccontarle!»
«Padre
Vittore!» gridò il vecchio ad un suo giovane confratello che girava
quivi poco distante; e che accorse tosto: «Padre Vittore, fatemi la
carità di attendere a questi miei poveretti mentre io me ne sto ritirato
un quarto d'ora; se però alcuno mi volesse, compiacetevi di chiamarmi».
Il Padre Vittore accettò l'incarico, e il Padre Cristoforo disse a
Fermo: «Vien qua dentro con me: sii breve: le faccende son molte, come tu vedi,
e il tempo è scarso, misurato... Ma che? tu sei ben rifinito: hai tu
bisogno di cibo?»...
«A
dire il vero...», rispose Fermo.
«Piglia
di quello che dà il convento», disse il frate con una frase usuale
capuccinesca. E tolta una scodella, la riempì della minestra del
pentolone, e la porse a Fermo: soggiungendo: «Quando la provvigione è
finita, Iddio ne manda: più volte quando ci siam trovati lì
lì per rimanere in secco, ci son venute le carra di roba, senza che
sapessimo da chi mandate; né ancora lo sappiamo. Entra, e mangia questa
carità; e avrai anche uova e pane, e un bicchiere di vino: tu ne hai
bisogno, a quel che veggio». Così dicendo raccolse anch'egli la scodella
che conteneva il resto del suo pranzo, ed entrò con Fermo nella
capannuccia, e sedette con lui sul saccone che gli serviva di letto.
Fermo,
tra un cucchiajo e l'altro raccontò succintamente la storia di Lucia, o
la parte che gli era nota; come il frate di Monza l'aveva posta in guardia
della Signora, come ella era stata rapita... «Gran Dio!» sclamò a quel
punto il padre Cristoforo: «ed io... io l'ho indirizzata in quel paese! Ma voi
sapete ch'io la toglieva da un pericolo evidente, e credeva di porla a
salvamento. Parla», seguì poi con voce animata, «finisci questa storia
dolorosa».
Fermo,
in poco più parole che noi non ve ne impieghiamo, proseguì a
narrare come Lucia fu condotta al castello del Conte del Sagrato, come
mirabilmente da questo renduta alla madre, come collocata poi in casa di Don
Ferrante. E qui il frate respirò più liberamente. Fermo narrò
pure le sue imprese, non senza vergogna; la sua fuga, e la sua dimora in
Bergamo, la sua risoluzione di venire a sapere che accadesse di Lucia, il suo
viaggio a Lecco, le sue ricerche di quella mattina, e la notizia ch'egli aveva
ricevuta da quella signora alla finestra, che Lucia era al lazzeretto. «Onde»,
conchiuse, «vengo a cercarla qui; vengo a vedere s'ella è viva, se si
ricorda di me, se mi vuole ancora...»
«O
giovane!» disse il Padre Cristoforo, «e in questi tempi, fra questi oggetti, tu
hai potuto, tu puoi ancora occuparti di tali pensieri?»
«Ma,
caro padre mio...» cominciò per rispondere il giovane; e non seppe dir
più: perché sentiva egli bene una grande importanza in quei suoi
pensieri; erano per lui un affare molto serio; ma era impacciato a trovar le
parole convenienti per esprimere una tale idea ad un vecchio capuccino, che era
venuto quivi a vivere, a morire, nel ribrezzo, e nelle fatiche per servire a
sconosciuti. Parlar d'amore, accennarlo pure con circollocuzioni, addurre
l'amore come un motivo importante, come una faccenda, in quel luogo, ad un tal
uomo, pareva a Fermo una vergogna: e in fatti però non avrebbe potuto
parlar d'altro, perché l'amore era il motivo che l'aveva condotto lì. Ma
il buon frate lo cavò tosto d'impaccio, rispondendo per lui.
L'interrogazione mista quasi di rimprovero che gli era uscita, non veniva dal
fondo della sua mente: erano di quelle parole volgari, che precedono la
riflessione, e delle quali anche gli uomini avvezzi a riflettere contraggono
l'uso dalla conversazione comune.
«Tu
hai ragione», diss'egli a Fermo che esitava: «tu hai ben fatto. Quei che stanno
per morire, debbono pensare alla morte, non altro; ma l'uomo che è nel
vigore della salute e dell'età, l'uomo che può vivere ancora,
deve, pensando alla morte, provvedere alla vita; non per cercare in essa un
contento che non v'è, ma per condurla, secondo l'ordine di Dio, fino
alla morte. Tu seguivi quest'ordine quando cercasti una compagna della vita,
una compagna d'affetto, di occupazioni, di travagli, di consolazioni e di preghiere.
Iddio permise che il mondo vi separasse. Fu ella una prova? o era volere di Dio
che voi vi santificaste divisi, che dopo esservi avviati insieme, giungeste a
Lui per diverse strade? Egli lo sa. Tu intanto ben fai di stare in quel
proposito ragionevole da cui la sola violenza ti aveva allontanato: ben fai di
andare in cerca di quella creatura alla quale tu hai promesso d'essere un
compagno e un appoggio. Ma come sei tu indirizzato a trovar qui Lucia? hai
qualche indizio della parte dov'ella fu riposta, del quando venne?»
«Nulla,
caro padre, nulla, se non che ella è stata condotta al lazzeretto».
«Oh
poveretto!» disse il padre Cristoforo: «egli è come se ti fosse stato
detto che un anello è caduto nel lago, e tu vi ti attuffassi a caso per
ripigliarlo».
«Girerò,
cercherò, guarderò», disse Fermo.
«Ascolta»,
disse il frate; «gli appestati che son guariti in questo luogo (ahi che
picciola parte di quelli che vi sono entrati!) quegli fra loro che ponno
reggersi e camminare, debbono oggi esser condotti al Gentilino, al di là
della città, fuori di porta Ticinese, a fare la quarantena: v'era ben
destinata qui una parte del fabbricato a tale uso; ma il fabbricato e il
recinto non bastano come vedi agli infermi. Questi che debbon partire si vanno
ora ragunando intorno alla Chiesa che è nel mezzo, per moversi di
là tutti insieme: jeri sono stati avvertiti e... sta: odi tu una squilla
tra questo doloroso mormorio? è il terzo tocco della campanella che li
chiama. Va dunque colà; osserva tra quella brigata, se tu vedi colei che
tu cerchi; se ella è fra le spighe rimaste in piedi dopo la messe. Se
non ve la scorgi; fa cuore tuttavia, e cammina innanzi verso questa banda (e
accennò a mano manca). Quella banda del fabbricato», seguì poi,
«è stata da principio destinata alle donne. Ora, a dir vero, tutto
è confuso; pure quella poveretta certamente, sarà rimasta al
luogo dove l'avranno collocata; e se v'è ancora speranza di trovarla,
è da quella parte. Cercala ivi; Dio ti conduca: e che che avvenga delle
tue ricerche, prima d'uscire da questo recinto, vieni ancor qui a darmene
conto: anch'io vorrei saper s'ella vive!»
Il
padre Cristoforo proferì queste parole con una commozione compressa, e
presa la mano di Fermo, che aveva finito di ristorarsi, e s'alzava, lo condusse
su la porta della capanna, e gli segnò più distintamente il lato
dove doveva fare le sue ricerche.
«Vado»,
disse Fermo; «lo scorrerò tutto, guarderò di stanza in stanza, di
capanna in capanna; se non è quivi, girerò tutto il lazzeretto, e
se non la trovo...»
E
a questa sospensione tutto ad un tratto s'oscurò in volto, stravolse gli
sguardi, e mandò un soffio di furore dalle labbra tremanti.
«Se
non la trovi?» disse il padre in contegno di gravità, e di aspettazione,
tenendolo forte per mano.
«Se
non la trovo, farò di trovare qualche altro. O in Milano, o nel suo
scellerato palazzo, o in capo del mondo o a casa del diavolo, lo troverò
quel furfante, che ci ha separati: quel birbone, che se non fosse stato egli,
Lucia sarebbe mia da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno
saremmo morti insieme, almeno avremmo potuto soccorrerci; essa non sarebbe qui
abbandonata, io non sarei qui mezzo disperato. Lo troverò colui, e se la
peste non ha fatto già una giustizia...»
«E
se lo trovi?» disse il padre, con una gravità fatta più severa e
quasi sdegnosa.
«Non
è più il tempo», continuò Fermo, sempre più cieco
di collera, «non è più il tempo che un poltrone coi suoi bravi,
coi suoi giudici, coi suoi amici prepotenti faccia tremare: è venuto il
tempo che gli uomini s'incontrino da solo a solo...»
«Sciaurato!»
gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripigliata tutta
l'antica pienezza e sonorità: «sciaurato!» e il suo capo gravato sul
petto s'era sollevato, le guance si coloravano dell'antica vita e gli occhi
mandavano le antiche faville. «Guarda, sciaurato!» e così dicendo,
mentre con una mano stringeva e scoteva forte la mano di Fermo, girava l'altra
distesa in cerchio dinanzi a sè, verso la scena dolorosa che li
circondava. «Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non
è giudicato! Colui che percote e che perdona! Ma tu, verme della terra,
tu vuoi far giustizia! Tu sai, tu, quale sia la giustizia? Va, sciaurato,
vattene! Io sperava... sì, ho sperato che, prima di morire, Dio
m'avrebbe data questa consolazione di sentire che la mia povera Lucia fosse
viva, forse di vederla, e di sentirmi promettere ch'ella manderebbe una
preghiera là verso quella fossa dov'io sarò. Va; tu m'hai tolta
la mia speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo non hai
l'ardimento di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a
lei; poiché ella era di quelle anime a cui son riservate le consolazioni
eterne. Va; non ho tempo di più darti retta».
E,
così dicendo, gettò da sè la mano di Fermo, e si mosse verso
una capanna d'infermi.
«Ah
padre!» disse Fermo con voce affranta, «mi vuol ella mandar via a questo modo?»
«Come!»
riprese con voce non meno severa il capuccino: «ardiresti tu di pretendere
ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, che aspettano ch'io parli loro del
perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi disegni di
vendetta? Ti ho ascoltato quando tu potevi aver bisogno di conforto, chiedevi
consolazione, e indirizzo; mi son tolto alla carità per la
carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore; che vuoi da me? Vattene;
ho veduti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori, che
avrebber voluto potersi umiliare dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e
con gli altri; ma con te che posso fare?... se tu non gli perdoni da vero,
e...»
Il
suono di queste ultime voci era raddolcito, e l'aspetto del vecchio nel
proferirle, pure in mezzo alla severità annunziava una tenerezza pronta
a scoppiare.
«Ah
gli perdono!» disse Fermo piangendo: «così Dio perdoni a me! così
possa io tornar qui a dirle che Lucia è viva, che Lucia vivrà».
«Vien
qua» disse il padre, pigliandolo per mano; e lo ricondusse nella capannuccia, e
lo fece seder come prima presso di sè. Fermo stava tutto intento e
commosso.
«Sai
tu», disse il padre, «perché io porto quest'abito?»
Fermo
esitava: «Lo sai tu?» riprese il padre.
«Lo
so», rispose Fermo.
«Tu
sai che questa mano ha ucciso!»
«Sì,
ma un prepotente che l'aveva aizzato, uno di quei...»
«Taci»,
interruppe il frate. «Credi tu che se vi fosse stata una buona ragione, io non
l'avrei trovata in quarant'anni? perché, son quarant'anni ch'io vi penso, e
grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto dolore, e mi sono accusato: e ho
pregato Dio che in segno del suo perdono eterno, Egli mi punisse in questa
vita, che pigliasse la mia in sacrificio, come io aveva ardito disporre di
quella d'un uomo; che mi facesse morire in servizio d'altrui; e spero d'essere
esaudito. Non creder tu ora dunque di poter consolarmi: consolati piuttosto di
essere tu in tempo a perdonare: non ispender vane parole; ascolta piuttosto le
mie; v'è dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte
di essa. Sai tu perché io ho ucciso? Perché v'era una cosa ch'io amava troppo.
Sì, figliuolo, ciò ch'io chiamava il mio onore, io lo amava ardentemente,
sopra ogni cosa, come avrei dovuto amar Dio. E quando la vita d'un uomo... gran
Dio! la vita d'uno fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col
mio onore, io gliel'ho sagrificata. M'hai tu inteso!»
Fermo
tutto commosso, rispose sinceramente: «padre sì». In fatti egli
intendeva qualche cosa di molto ragionevole, che bisogna amar Dio sovra ogni
cosa, e non ammazzare. Ma l'intento di quel discorso non passava nel suo
intelletto: l'uomo che esprime le idee che sono state per lui soggetto d'una lunga
e ripetuta meditazione, è oscuro, senza volerlo, anche per gente
più colta che non fosse il nostro giovane montanaro.
Il
padre Cristoforo continuò: «Il mio affetto era stolto, e superbo: il tuo
è ragionevole e buono; la mia era passione non solo d'uomo furioso, ma
di ragazzo stolido; perché che voleva io? che voleva io ad ogni costo? camminar
rasente il muro, e non pigliare il mezzo della via; e tu, tu pensi da uomo
savio a desiderare per tua compagna una di quelle donne che il cielo destina
come un premio ai buoni; quella che tu scegliesti, e che ti scelse. Ma il tuo
affetto diventa ingiusto, diventa stolido com'era il mio, se tu non lo
sottometti al volere di Colui che solo può renderlo santo. E un tale
amore, bada bene alle mie parole, un tale amore, quando tutto ti andasse a
seconda, quando tu ottenessi ciò che più desideri, un tale amore
tosto, o tardi, più tosto che tardi, ti tornerebbe in amaro: come; io
non lo so, ma senza dubbio: e parlo dal tetto in giù. Or pensa che bel
conforto avresti di questo amore, se, perduto ciò che te lo fa parer
tanto dolce, non te ne rimanesse che un odio, nessuna speranza che d'una
vendetta, nessun frutto che un omici...»
«Non
lo dica», interruppe Fermo, come atterrito.
«Rendi
grazie a Dio», riprese il padre, «che tu non abbi a pentirti che d'un pensiero.
Ma il pentirsi del fatto... ah! è ben amaro! E il non pentirsi è
orrendo, orrendo più che non si possa comprendere in questa vita. Fermo!
giuri tu il perdono?»
«Ah!
lo giuro», rispose Fermo in tuono solenne.
«A
chi giuri tu di perdonare?»
«A
quell'uomo...»
«A
chi?»
«Sì,
padre, a Don Rodrigo».
«Sì,
Fermo, a Don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della
rigenerazione ad una creatura redenta col Sangue d'un Dio; è un nome che
forse è scritto sul libro della vita: perché Dio perdona; guai a te, se
non fosse!» Dette queste parole, il vecchio stette pensoso un momento, tenendo
tuttavia la mano di Fermo, poi abbandonatala, prese la sua sporta, ne trasse
dal fondo un pezzo di pane arido, e scolorato, lo mostrò a Fermo, e
disse:
«Vedi
tu questo pane? Lo conservo da quarant'anni; l'ho mendicato nella casa di
quello sventurato... l'ho avuto dai suoi come un pegno di pace, e di perdono.
Ah! se avessi potuto prenderlo dalle sue mani! Prendi», — e porse il pane a
Fermo — «conservalo ora tu: è il dono ch'io posso lasciarti per mia
memoria. E se, come spero, Iddio ti vuol condurre per quella via alla quale
pare che Egli ti avesse chiamato, se tu sarai padre; mostra questo pane ai tuoi
figli, conta loro la mia trista storia, di' loro che preghino pel povero
capuccino, che morì pentito. Saranno provocati, saranno offesi; di' loro
che perdonino sempre, sempre, tutto, tutto. Tu rimani a vivere in un secolo
doloroso: i giorni che noi veggiamo son cattivi; quei che si preparano saranno
peggiori: i figli dei provocatori, dei superbi, dei violenti, lo saranno
più dei padri loro. Gran Dio! questo flagello non corregge il mondo:
è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti
grappoli abbatte; e quei che rimangono, son più tristi, più
agresti, più guasti di prima. Tu stesso, o Fermo, tu stesso, qui dove
l'uomo non dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!»
Fermo
non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
«Or
va», disse il padre alzandosi, «Iddio benedica le tue ricerche».
«Vuol
dire, padre, ch'io la troverò?» richiese Fermo ansiosamente, come se
parlasse ad uomo che ne potesse saper più di lui.
«Cercala
con perseveranza», rispose il padre, «cercala con fiducia, e con rassegnazione.
Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso. Ti ha promesso
di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi t'ha offeso, ti ha
promesso di renderti felice per sempre al fine di questa vita, se tu osservi la
sua legge. Non ti basta? Va; e qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni
a darmene contezza: noi ringrazieremo Dio insieme».
Così
dicendo, egli pose le mani su le spalle di Fermo, e stette un momento colla
faccia elevata in atto di preghiera e di benedizione. Poi staccandosi, disse;
«Intanto io pregherò per voi; assistendo a questi vostri fratelli, io
pregherò per voi». Fermo si prostrò ginocchioni, stette un
momento con le mani compresse al volto piangendo, e pregando; s'alzò,
guardò intorno, uscì dalla capanna, e si diresse alla Chiesa, come
gli aveva indicato il capuccino. Egli era scomparso, e andava cercando intorno
dove fosse più bisogno della sua assistenza.
CAPITOLO VIII
All'intorno
del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo
giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in
uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente
una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio. Questo, elevato d'alcuni gradi
al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte
in circolo; nel mezzo v'era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del
lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati. Ritto,
su la predella dell'altare stava un capuccino, alto della persona, fra la
virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al
suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l'altra mano
accompagnava di gesti il discorso che andava facendo. Era questi il Padre
Felice sopraintendente del Lazzeretto. Fermo, giunto sull'orlo di quella
adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli
stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto
severo anzi burbero, quanto quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in
mezzo alla brigata per tener l'ordine; quella quiete generale, quell'attento
silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni
movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza. Stette egli
dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la
perorazione di quel singolare oratore.
«Diamo
adunque», diceva egli, «un ultimo sguardo a questo luogo di miserie e di
misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono stati tratti
fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanto pochi al paragone siam noi, che
ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce da lodarne Iddio. L'anima nostra
ha guadato il torrente; l'anima nostra ha guadate le acque soverchiatrici:
benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia,
benedetto nella morte, benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento
ch'Egli ha fatto di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio!
Ah possa essere questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta
da questo momento esserne un indizio manifesto! Attraversando questo mare di
guaj, diamo uno sguardo di pietà, e di conforto, a quegli che si
dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, ah quanto pochi, potranno come
noi afferrare un porto terreno. Ci vedano uscirne, rendendo grazie per noi, ed
elevando preghiere per essi! Attraversando la città già sì
popolosa, noi scarsa restituzione dell'immenso tributo ch'essa mandò in
questo luogo, mostriamo agli scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì,
ma rigenerato. Procediamo con la compunzione nel volto, e coi cantici su le
labbra. Quegli che son ritornati nella pienezza dell'antico vigore, porgano un
braccio soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani
sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute ritornata non
apporta che pochi giorni di stento. E se in questo soggiorno di prova, in
questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam peccato; se abbiamo abusato anche
dei flagelli, se abbiamo sciupati i doni e le ricchezze dello sdegno, come
già quelli della benignità; ebbene! non abbiam però potuto
esaurire il tesoro del perdono: ricorriamo ad esso di nuovo.
Per
me...»
E
qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una corda che
gli stava ai piedi, se la avvinghiò al collo come ad un malfattore,
cadde ginocchioni, e proseguì:
«Per
me, e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli, siamo stati per
una ineffabile degnazione trascelti all'alto privilegio di servir Cristo in
voi; se, come è pur troppo, non abbiamo degnamente corrisposto ad un
tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto un sì grande
ministero... perdonateci! Se la fiacchezza, o la ritrosia della carne ci ha
resi men pronti ai vostri bisogni, alle vostre chiamate, perdonateci! se una
ingiusta impazienza se una noja colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali
mostrarvi un volto severo, e fastidito, perdonateci! Se la corruttela d'Adamo
ci ha fatto trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza,
e di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine che
delle sue proprie colpe!»
Così
detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che l'umile e cordiale
suo prego era accetto ed esaudito. Un singhiozzo, un pianto, un gemito
universale si levò da quella turba a rispondere. Dopo qualche momento il
frate s'alzò, prese la croce ad ambe mani, e l'inalberò; scese
dalla predella, e quivi depose i sandali; gridò ad alta voce: «andiamo
in pace»; poi intonò il Miserere; e scalzo, portando dinanzi a
sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni del tempio dalla parte
rivolta alla porta meridionale del lazzeretto che sbocca dinanzi alla mura
della città; e s'incamminò verso quella. Dietro lui
s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che potevano
reggersi, e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune delle quali
tenevan per mano, o nelle braccia fanciulline, o bambini, e con fioca voce
cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli uomini pur cantando; poi
carri di convalescenti, e delle bagaglie di quei che partivano: quelle che in
tanta confusione s'eran potuto serbare, e raccogliere. Ultimo veniva
quell'altro capuccino che abbiamo menzionato, con un gran vincastro in mano; e
coi cenni di quello, con gli occhi e con la voce, teneva in sesto il convoglio.
Era questi un Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole,
e come il primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.
Fermo,
tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che parte
s'avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi innanzi,
senza dare né ricever disturbo e sboccar poi di nuovo su la strada per dove la
processione doveva passare. Dalla porta meridionale al tempio v'era infatti
come una strada, uno spazio che s'era lasciato sgombro di capanne per dar
passaggio ai carri degli infermi che per lo più entravano da quella
porta, e da quello spazio poi si distribuivano a dritta e a sinistra, come si
poteva. Fermo riuscì su quella, al mezzo in circa; e vide venire il
vecchio crocifero, lo vide passare, vide passare i ragazzi, e poi con un gran
battito al cuore, esaminò le donne che pur passavano; e lo potè
fare a suo agio, perché elle procedevano a due a due. Passa, passa; guarda,
guarda: qui non v'è, qui né pure; più che la metà è
passata; poche ne rimangono; compajono le ultime della fila femminile; ecco gli
uomini: Lucia non v'era. Quanta speranza svanita! Rimanevano però i
carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i primi erano carichi di donne. Stette
dunque aspettando, lasciò passare la schiera degli uomini; guardò
ad uno ad uno quei carri. Passavano lentamente, si arrestavano talvolta come
accade nelle processioni e nelle marce d'ogni genere; di modo che Fermo
potè aver la trista certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita
alla sua vista; e che Lucia non v'era. Le braccia gli caddero, quando si vide
finire in mano l'unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze.
Anche prima di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli
sentiva pur troppo, quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero
dei tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati: ma
pure, come si suole egli metteva il suo desiderio sul guscio della speranza, e
faceva traboccare le bilance da quella parte. Ma ora, egli credeva di dovere
esser certo che Lucia non era tra i guariti, né tra i convalescenti: la
contingenza più lieta per lui, l'unica sua speranza (quale speranza!)
era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma viva.
Passato
tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise senza troppo
pensare dove andasse, su quella via rimasta sgombra, e le sue gambe lo
portarono dinanzi al tempio.
Quivi
gli vennero alla mente le parole del buon frate Cristoforo: — Se non ve la
scorgi, fa cuore tuttavia... Cercala con rassegnazione. — Si prostrò su
gli scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o per dir meglio, un
viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di
domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli
uomini, perché non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né sofferenza
per ascoltarli; non sono abbastanza grandi per sentirne compassione senza
disprezzo. Si levò di là più rincorato e si avviò.
Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo,
scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro di capanne; e si sarebbe
potuto chiamare la via dei morti, perché ivi facevano capo e giravano i carri,
che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno
nel lazzeretto. Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più
breve; e studiando il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e
l'inciampo frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla
porta. Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi che
uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anziché affrontarlo,
o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per
riuscire di quindi al fabbricato. Le capanne in quel luogo eran tutte abitate
da donne; ed egli procedeva lentamente d'una in altra, guardando. Or mentre
passando, come per un vicolo, tra due di queste, l'una delle quali aveva
l'apertura sul suo passaggio, e l'altra rivolta dalla parte opposta, egli
metteva il capo nella prima, sentì venire dall'altra, per lo fesso delle
assacce ond'era connessa, sentì venire una voce... una voce, giusto
cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una
modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio,
articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che
certamente non gli erano mai state proferite: «Non dubitate: son qui tutta per
voi: non vi abbandonerò mai».
Se
Fermo non mise uno strido, non fu perché lo rattenesse il riguardo di fare
scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso o cacciato; fu
perché gli mancò la voce. Le ginocchia gli tremarono sotto, la vista gli
s'appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una
gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da farsi o da sapere, l'animo
gli ritornò tosto, e più concitato di prima. In tre balzi
girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto,
che andava assestando.
«Lucia!»
chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!»
Trabalzò
ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse
precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: «Oh Signore
benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e Lucia pure dopo quel
grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare
in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo lasciata.
Ella
era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto
la vigilanza severa di Donna Prassede. Ma allo spiegarsi della peste questa
signora, messe da un canto tutte le altre cure, dimenticate tutte le brighe,
non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava tanto volentieri
in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo
comune. Pensò ella che, per fare del bene, la prima condizione è
di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa. Quanto al prossimo,
non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto
che non gli comunicasse la pestilenza. Don Ferrante invece, persuaso che tutte
le precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che la congiunzione di
Saturno con Giove non fosse avvenuta, né stornare le conseguenze di un
avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di
vita: e contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò. Donna
Prassede s'era ritirata con la signora Ghita, nella stanza più remota
della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di dovere andare
a spasso, pensava a farsi un po' di fardello, il resto della famiglia seguiva
il suo esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non
avesse avuta la carità di prestargli qualche servigio. Il giorno stesso
in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come
insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella
fosse portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al
lazzeretto. Così fu fatto, e così avvenne. Lucia deposta in
quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender
cibo, né rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e
non riprese l'uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato.
Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di
guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure,
in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto,
e l'aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i
meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione della necessità,
la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero
avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela
raddolcì. La capannuccia non capiva che due letti, o covili che fossero:
in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia. Finalmente,
quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era
moglie, anzi vedova d'un ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due
figli: la peste le aveva tutto portato via. Questa rimasta sola in casa, e
sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della
sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor
più rara era un galantuomo; e gli aveva raccomandata sè e la sua
casa. Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece portare
la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in
quelle circostanze. Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la
malattia; e come è facile ad intendersi, tra quella che prestava
sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone
ambedue, s'era formata una strettissima amicizia. La vedova, prima di venire al
lazzeretto aveva nascosta nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva
lasciate molte mercanzie protette dal sigillo publico, e ancor più dalla
indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile
smercio. Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di
tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le
aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo aveva
accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua
madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile. Ciò ch'ella aveva
promesso alla sua compagna era di non abbandonarla finch'ella non potesse
uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s'era unita ai
convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice. Ma la
buona vedova avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di
restarne priva, nella desolazione, esprimeva di tempo in tempo quel suo
terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui trovava la quiete
dell'animo suo. E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva
dette le soavi parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo
riferite.
Fermo
era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era rivolto
su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e fu molto contento
quando vide a che sesso ella apparteneva.
«Ah!
siete viva; e v'ho trovata!» diss'egli quando potè ricuperar la parola;
ed entrò nella capanna.
«Voi!»
sclamò Lucia.
«Son
venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata!» rispose Fermo.
«E
la peste?»
«L'ho
avuta».
«Ah!»
fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: — me
ne rallegro infinitamente —. «Ma come... qui?»
«Son
venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m'hanno detto che eravate qui;
ci son venuto».
«Oh
Signore!» disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi al cielo, e
con una voce che i singhiozzi stavano per interrompere. Poi, come entrata di
repente in un altro pensiero, chiese ansiosamente: «Sapete qualche cosa di mia
madre?»
«L'ho
veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere... era tutta in
pensiero per voi, e sospira di vedervi».
Lucia
rispose con un altro respiro di consolazione.
Fermo
continuò: «sospira di vedervi, e crede... tiene per sicuro... Ma voi,...
voi, mi parete stupita... ch'io sia venuto a cercarvi. Io... son sempre lo
stesso... non vi ricordate...? che è avvenuto, Lucia?»
«Tante
cose!» rispose ella sospirando.
«Ecco!»
disse Fermo: «sa il cielo che cosa v'avranno detto di me!»
«Che
importa», rispose Lucia, «quel che dica la gente?»
«Dunque...»
«Dunque...
io credeva... che dopo tanto tempo... dopo tanti guai... non avreste più
pensato a me».
«L'avete
creduto? e me lo dite? quando son qui...»
«L'ho
creduto», disse Lucia troncando in fretta le parole appassionate di Fermo,
«l'ho creduto, perché sarebbe stato meglio... è meglio».
Lucia
aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo non senza fatica queste
parole, chinò anche la testa, e la tenne appoggiata sul petto, come per
riposarsi d'un grande sforzo.
«È
meglio!» disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e guardando fiso
nel volto di Lucia per trovarvi la spiegazione di quelle tronche ed oscure
parole. «È meglio! che cosa v'ho fatto io? è colpa mia se... Non
sono io quello a cui avete promesso? Che vi mancava perché foste mia? un
momento... e... ma gli ho perdonato, non siete voi più quella...? Dopo
tanto sperare! dopo tanto pensare a voi! dopo... Parlate chiaro: dite che non
mi volete più; dite il perché; non mi fate...»
«Fermo»,
disse con voce più riposata e solenne, Lucia che mentre egli parlava,
aveva cercato di raccogliere tutte le sue forze. «Fermo! ascoltatemi
tranquillamente: pensate dove siamo: vedete questa buona creatura che ha
bisogno di quiete: ascoltatemi. Io non sarò mai di nessuno... e non
posso più esser vostra».
«No
non l'avete detta voi questa parola»; rispose Fermo, «no che non l'ascolto: che
ho fatto io? perché? chi ve l'ha detto? chi è entrato fra voi e me? chi
c'è entrato? voglio saperlo».
«Zitto
zitto, non andate avanti, per amor del Cielo», disse Lucia. «Quando lo saprete,
se siete ancora quello di prima, se temete Dio come una volta, non direte
così».
«Parlate
per amor del cielo!»
«Sapete
voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che pericoli?»
«Lo
so, lo so, e... gli ho perdonato».
«Ora
sappiate quello che nessuno, né pure mia madre, ha udito finora dalla mia
bocca. In una notte... Vergine santissima! qual notte!... lontana da ogni
soccorso... senza speranza di liberazione... sola... io sola, in mezzo...
all'inferno, ho guardato in su, ho domandato l'ajuto di quel Solo che
può fare i miracoli... ho domandato un miracolo, e ho dovuto fare una
promessa... mi son votata alla Madonna, che se per sua intercessione, io usciva
salva da quel pericolo, non... sarei mai stata sposa d'un uomo».
«Ahi!
che avete fatto!» sclamò dolorosamente Fermo: «che avete fatto!»
«Ho
ottenuto il miracolo», riprese Lucia: «la Madonna mi ha salvata».
«Bastava
pregarla, e vi avrebbe salvata. Che avete fatto! Che avete fatto! Non dovevate
fate un tal voto».
«L'ho
fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No no, Dio
liberi! Egli pure è sempre a tempo a pentirsi d'avermi salvata.
Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi
pregherò io? che promessa potrei fare?»
«Lucia!»
disse Fermo, «e se non fosse il voto...? dite; sareste la stessa per me?»
«Uomo
senza cuore!» rispose Lucia, contenendo le lagrime, «quando mi avreste fatte dire
delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che
sarebbe forse peccati, sareste voi contento? Partite, scordatevi di me: non
eravamo destinati; ci rivedremo lassù». Dopo queste parole, le lagrime
soverchiarono, e fra i singhiozzi ella continuò: «dite a mia madre ch'io
son guarita, che ho trovata questa buona amica che pensa a me; ditele che spero
ch'ella sarà preservata da questi guai, che Dio provvederà a
tutto, e che ci rivedremo. Partite, per amor del cielo; e non vi ricordate di
me, che quando pregate il Signore».
«Lucia!»
disse Fermo con tuono riposato e solenne egli pure; «noi siamo due poveri
figliuoli senza studio: quel brav'uomo, quel gran religioso, quel nostro padre,
il padre Cristoforo...»
«Ebbene?»
«È
qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati».
«È
qui!» disse Lucia: «ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo, sentir la
sua voce! È egli sano?»
«È
in piedi», disse Fermo, «ma il suo volto... Dio voglia che sieno gli anni, e le
fatiche!»
«Voi
l'avete veduto!» disse Lucia.
«L'ho
veduto, e gli ho parlato», rispose Fermo: «egli mi ha fatto animo, a cercarvi,
mi ha fatto promettere che tornerei a rendergli conto delle mie ricerche. Corro
da lui: egli ci ha sempre ajutati; e spero che ci ajuterà anche in
questa occasione».
«Che
dite voi? che volete ch'egli faccia? preghiamo Dio che ci ajuti... che vi ajuti
a sopportare. Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può venga
a trovarmi, a consolarmi, e voi... voi...» — Non tornate più qui per
amor del cielo, — voleva ella dire, ma non lo disse. Dopo fatto quel voto,
Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva
supposto mai che alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo;
aveva rispinto come colpevole il pensiero stesso, e non aveva mai confidato a
persona il suo doloroso segreto. Ma quando Fermo parlò d'una speranza
nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di
Lucia; le balenò nella mente un: — chi sa? —, intravide come non impossibile
che il Padre Cristoforo potrebbe trovar qualche mezzo... e in quel dubbio ella
stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate». Egli
partì, senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben
tosto, e s'avviò alla capanna del buon frate.
La
vedova compagna di Lucia era rimasta con gli occhi sbarrati a guardare quel
personaggio sconosciuto e ad udire quel dialogo nuovo per lei; giacché Lucia,
la quale, come si è potuto vedere in altre parti di questa storia, era
molto discreta, non le aveva mai parlato né della sua promessa di matrimonio,
né per conseguenza delle vicende conseguenti. Ma ora non potè scusarsi
di fargliene il racconto; e a dir vero, la disposizione d'animo di Lucia in
quel momento s'accordava assai bene con le voglie curiose e benevole ad un
tempo della vedova. Quelle memorie compresse e rispinte per tanto tempo,
s'erano ora presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all'animo di
Lucia, che il parlarne diveniva per lei quasi uno sfogo necessario. Dopo aver
dunque risposto alla meglio ai rimproveri che la vedova le fece di un tanto
segreto tenuto con lei, cominciò il racconto che fu spesso interrotto
dai suoi singhiozzi, e dalle esclamazioni e dalle inchieste della ascoltatrice.
Fermo
intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e avendolo veduto
lì fuori presso, che pregando, chiudeva gli occhi ad un morente, si era
ritirato nella capannuccia senza dar voce né far segno che turbasse quel pio e
doloroso uficio. Quando il poveretto fu spacciato, Fermo si mostrò, e il
Padre Cristoforo andò a lui, che tosto gli raccontò la lietissima
scoperta ch'egli aveva fatta di Lucia viva e sana, e quell'altra scoperta che
era venuta, come a tradimento, a guastargli una tanta consolazione. Benché egli
in questa parte del racconto volesse aver l'aria di chi propone un dubbio
superiore ai suoi lumi aspettando il giudizio d'un sapiente, pure non
lasciò scappare nessuna occasione di qualificare d'imprudenza e di
pazzia quel voto che veniva per lui così male a proposito. Così
faceva sentire che per la parte sua il giudizio era bell'e fatto; e intanto
guardava attentamente al volto del Padre Cristoforo per iscoprire un pensiero,
dal quale avrebbe potuto dipendere la sua sorte. Ma non potendo leggervi nulla,
terminò con una aperta domanda: «Che ne dice, padre?» Il Padre stava
pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia, e la speranza di
consolarla forse, e il timore di rendersi colpevole, abbandonando per qualche
tempo i suoi infermi.
Dopo
essere così rimasto alquanto, pronunziò ad alta voce la
conclusione del dibattimento che era stato tra i suoi pensieri. «Ho un dovere
con quella creatura», diss'egli. «Dio l'aveva in altri tempi indirizzata a me,
ed ora non me l'ha fatta venir così presso perché io ricusi di esserle
utile. Andiamo».
Lasciò
per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore, e si mosse
con Fermo.
Questi
andava innanzi tacito facendo la guida per quel triste labirinto, e dirigendosi
al viale per cui era passato la prima volta, e il Frate pur tacito gli teneva
dietro.
Gli
oggetti che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista, tenevano occupato
l'animo di quella compunzione che non trova parole; e in quel momento su quel
mesto spettacolo pareva che scendesse e pesasse una mestizia più cupa e
più grave dell'ordinario.
Una
nuvola comparsa all'occidente aveva a poco a poco coperto tutto il cielo: e
alla oscurità crescente, avresti detto che il giorno era finito, se il
sole lontano ancor forse due ore dal tramonto non avesse mostrato come dietro
ad un velo spesso ed immobile, il suo disco grande e biancastro, donde
partivano, non vivi raggi e diretti, ma un barlume scialbo e circonfuso che
mandava una caldura morta e gravosa. L'aria non dava un soffio: non si vedeva
muovere una tenda delle trabacche, né piegar la cima d'un pioppo nelle campagne
d'intorno. Solo si vedeva la rondine, sdrucciolando rapidamente dall'alto,
rasentare con l'ali tese, per un picciol tratto la superficie ingombra e
confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l'aria in cerchii
veloci, e piombar di nuovo. Un'afa faticosa prostrava gli animi con una
oppressione straordinaria: la lotta del morire era più affannosa; i
gemiti dei languenti erano soppressi dall'ambascia; il movimento delle opere
era stanco, rallentato, come sospeso: quella dubbia luce dava al colore della
morte e della infermità un non so che di più livido; un non so
che di più squallido all'abbattimento ond'erano atteggiate le figure dei
sani: e su quel luogo di desolazione non era forse ancor passata un'ora amara
al par di questa.
Eppure
quegli che sopravvissero rammentarono quell'ora con gioja per tutta la vita;
era la preparazione d'una burasca, che scoppiò la notte, e menò
poi per due giorni una pioggia continua, dopo la quale il contagio cessò
quasi ad un tratto.
Sotto
il fascio di quella comune gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con
la fronte bassa il primo e con l'animo diviso fra lo studio della via, fra
l'orrore delle cose che vedeva, e l'ansietà del suo destino futuro; e
l'altro levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta come per cercare
un più libero respiro, e per secondare con quell'atto una speranza
interna.
«È
qui», disse Fermo con voce tremante accennando la capanna; e v'entrarono che
Lucia col volto lagrimoso stava proseguendo il suo racconto.
Al
riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre Cristoforo balzò
dal saccone di paglia ov'era seduta, e gli si gettò incontro su la
porta.
«Oh
Padre!... Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto vedendogli i segni
della morte in volto.
«Come
Dio vuole, mia buona figlia», rispose il Frate: «e presto spero starò
bene affatto».
«Come?...»
disse Lucia.
«Come
Dio vorrà», riprese egli tosto. «Parliamo ora di voi, per cui son
venuto».
«Oh
Padre! quanto tempo! quante cose!» disse Lucia.
«Quante
cose!» ripetè il Frate: «e certo se fossimo là ai vostri monti,
seduti in su la porta della casetta di quella buona Agnese, mi lascerei andar
volentieri a farne lunghi discorsi. Ma qui il tempo è misurato». E tosto
trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò:
«Fermo
mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi».
«È
vero», rispose Lucia, arrossando.
«Avete
voi pensato allora», proseguì il vecchio, «che voi avevate un impegno
solenne di matrimonio, e che offerivate alla Vergine una libertà della
quale avevate già disposto? E che riprendevate una parola già
data, senza sapere se quegli che l'aveva ricevuta avrebbe consentito a
restituirvela?»
«Ho
fatto male?» chiese Lucia, con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto
doloroso.
«Avete
voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno?» interrogò di nuovo
il Frate: «avete chiesto consiglio?»
«Non
ho ardito», rispose Lucia.
«Ed
ora», proseguì egli, «che vi dice il vostro cuore di quel voto?»
«Che
vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossando più che mai e
chiudendo quasi del tutto gli occhi ch'erano già chini a terra.
«Se
non lo aveste fatto, lo fareste?»
«Se...
non fossi in quel pericolo... in un grande pericolo... e poi, se non è
permesso... non lo farei».
«Se
non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell'uomo a cui
avevate promesso?»
«Io
credeva... che fosse male il pensarvi... ma poi ch'Ella me ne domanda... ah
Padre sì!»
Fermo
intanto adocchiava ansiosamente verso quell'angolo, e la vedova anch'essa stava
in una tacita aspettazione. Il Frate si fece presso a loro, accennando a Lucia,
che lo seguì con gli occhi bassi. Allora egli con voce spiegata le
rivolse questa nuova interrogazione:
«Credete
voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l'autorità di
sciogliere e di legare?»
«Lo
credo», rispose Lucia.
«Credete
voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare, o rimettere i voti
che gli son fatti, interpretando la sua volontà in questo come nel
perdono dei peccati, e usando una potestà che tiene da Lui?»
«Lo
credo», rispose ancora Lucia.
«Domandate
voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità che avete fatto,
o inteso di fare alla Madre santissima di Dio?»
«Lo
domando», rispose Lucia con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a
desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi non essendo stato
presente a quell'atto, non rifletta che la solennità della richiesta,
l'aria autorevole di chi l'aveva fatta, non lasciavan luogo a titubamenti
leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità.
«Ed
io», disse allora il buon Frate, con tuono ancor più solenne, «prego
umilmente la Vergine regina di tutti i santi, che abbia sempre per aggradito il
sentimento del vostro divoto e travagliato sacrificio, e lo offra al suo e
nostro Signore; e con l'autorità che la Chiesa mi ha affidata, vi
sciolgo dal voto, annullando ciò che vi potè essere
d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se ne avete contratta».
Non
parleremo dell'effetto, che queste parole produssero nell'animo dei due
giovani: la buona vedova era tutta commossa. Il Frate continuò rivolto a
Lucia: «Siate moglie pudica, moglie affettuosa moglie contenta di quella
contentezza che conduce all'eterna. Questo Iddio ha voluto e vuole da voi».
Quindi levò le mani verso i due giovani come per parlare ad ambedue.
Essi caddero ginocchioni ai suoi piedi, ed egli tutto assorto, e quasi senza
avvedersi di quell'atto, stese le mani su le loro teste, e stette un momento
pensoso. Erano nel fondo della capanna, come chiusi tra quello e il letto della
vedova che teneva gli occhi fissi su di loro: i giovani inginocchiati con la
fronte bassa, e il Frate ritto dinanzi a loro con le spalle rivolte alla porta.
«Figliuoli»,
disse egli, «che ho amati, e che amerò sempre, ricordatevi che se la
Chiesa vi assolve da un sagrificio, non lo fa per procurarvi le consolazioni di
questa vita che deve esser tutta un sacrificio; ma per mettervi su la via della
santificazione. Amatevi, come compagni di viaggio, col pensiero di avere a
lasciarvi, con la speranza di ritrovarvi ancora e per sempre. Rendete grazie al
cielo che vi ha condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e
passeggiere, ma coi travagli, e fra le miserie per disporvi ad una gioja
raccolta temperata, e continua. E nei vostri discorsi qualche volta, e sempre
nelle vostre preghiere, ricordatevi...»
Queste
parole che rinchiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono
nell'animo di Lucia l'impressione dolorosa che le aveva prodotta l'aspetto di
chi le proferiva. Levò ella gli occhi quasi involontariamente, tutta
commossa, a riguardarlo di nuovo; ma insieme con l'oggetto che cercava il suo
sguardo un altro inaspettato le se ne offerse su la porta della capanna, alla
vista del quale ella mandò uno strido repentino. Tutti gli occhi si
rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita commozione.
CAPITOLO IX
Ritto
sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba,
scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi
di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la
bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi
nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto
traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine
di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a
levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello
sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero
gli altri due. Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale
era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di
sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo;
senza esser veduto da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente
sconvolta l'antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto
tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di
accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che
le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in
un tale delirio s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto
dietro da lontano a quei due. Ma quando essi uscendo dalla via s'internarono
nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né
discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto.
Entratovi anch'egli da un altro punto poco distante, non vedendo più
quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a
guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in cui
mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi
ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel
suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da
lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo
una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della
malattia. Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva
che le biscie stessero all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui. Dopo la
sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo
sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una
grande compassione. Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per soccorrerlo,
e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un
inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e
su per quella verso la chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin sul
viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli
s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza
pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo
afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e
percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le
calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta
carriera. Un romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»;
altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal
demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e
scappava vie più verso il tempio.
I
due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla
capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii
di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell'infelice». Dopo un
momento di silenzio, il pensiero che venne a tutti fu di concertare insieme
quello che era da farsi: e i concerti furon questi: che Fermo partirebbe tosto,
giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli, cercherebbe un ricovero
per la notte in qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo
paese, porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo a
disporre la casa dove intendeva di stabilirsi con la moglie e con la suocera; e
tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo paese, dove dovevano celebrarsi le
nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio, il quale era da sperarsi che
invece di frapporre nuove difficoltà, sarebbe vergognoso di quelle che
aveva frapposte altra volta. Quanto a Lucia, ella protestò prima d'ogni
cosa che non si staccherebbe dalla sua buona compagna, finché questa non fosse
affatto guarita, e ristabilita nella sua casa. Il Padre la lodò, Fermo
non v'ebbe nulla a ridire, e la vedova tutta commossa, promise che
accompagnerebbe essa Lucia a casa, e la consegnerebbe a sua madre.
«E
voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva fatto
cenno di avvicinarsi.
«Dio
vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E
tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi, si fa
più nero, e la notte si avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien
dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva tanto lo
staccarsi da Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di riveder
presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì a morire.
«Ci
rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se
Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una
commozione che andava crescendo. «Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo,
disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e gli strinse la
mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: — a rivederci presto
—, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in fretta, partì.
«Vi
raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece atto pure
di andarsene: ma nel dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide nell'aspetto di
lei mista alla commozione una grande inquetudine; s'avvisò tosto di
ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!»
disse Lucia.
«Poveretto!»
rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno: non
lo vedrete più, siatene certa. Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un momento,
«per ogni altro evento, sarà meglio ch'io vi raccomandi a qualcheduno
dei nostri».
Così
detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un
capuccino, e condottolo alla capanna, gli mostrò le due donne, e gli
disse: «sono due derelitte; vi prego di averne una cura particolare. Vi lascio
con Dio», disse poi alle donne, e uscì dalla capanna. Lucia lagrimando
lo seguiva, ed egli le imponeva che tornasse, e così si trovarono
entrambi sulla grande strada, dove videro una folla di monatti, che accorreva in
tumulto, gridando «aspetta, aspetta», ad altri monatti che guidavano un carro
verso la porta. Il carro si fermò quasi davanti ai nostri due amici:
quei monatti sopraggiunsero tosto ansanti; e due che portavano un morto lo
gittarono sul carro, dicendo un d'essi: «mettetelo bene in fondo costui, che
non torni a cavallo, a farci tribolare».
«Che
diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il
diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e
giù finch'ebbe fiato: se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma
è crepato egli, e allora per amore o per forza ha dovuto scendere».
Il
Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di pregare per
questa povera anima voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di far pregare i
vostri figliuoli, se Dio ve ne concede. Tornate alla vostra compagna. Iddio sia
sempre con voi». Dette queste parole, prese in fretta il viale, per andarsene
alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione, e atterrita dallo
spettacolo, tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna; e
Don Rodrigo su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie,
usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone
una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò la notte
come potè, il giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si
rimise in cammino, e si condusse fin presso al suo paese, dove giunse il terzo
dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse
stato da un gran pezzo. Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle
novelle che gli eran date, sono di quelle cose che i narratori passano in
silenzio, nel supposto ragionevole, che il lettore se le può immaginare.
Con Don Abbondio le cose non furono così chiare. Prima di tutto egli si
fece pregare alquanto prima di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse
che allorquando la voce di questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte
un po' di minaccia. Apertogli, lo accolse con quella cera che un uomo
imbrattato di debiti mostra ad un creditore che vorrebbe sapere mille miglia
lontano, ma che pure non vorrebbe irritare al segno che quegli gli desse un
libello.
«Siete
qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son
qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto sarà
qui anche Lucia Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è
un anno e dieci mesi, e con la quale ora ella mi sposerà. Meglio tardi
che mai».
«Oh
santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor
curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a noi
poveretti ed anche a lei, non ne darà più a nessuno».
«Che
vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol
dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser all'altro mondo».
«Chi
lo dice? chi lo dice?»
«Lo
dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male addosso,
acconciato pel dì delle feste, che faceva pietà».
«Eh
figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste. Siam guariti anche noi».
«Le
dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
—
Se fosse la vacca d'un pover'uomo, — disse Don Abbondio fra sè e
sè.
«Basta»,
soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al suo ascoltatore;
«basta, quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si
doveva fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma
un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don Abbondio,
«non ha da potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che
parere?»
«Con
quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene star qui:
maritatevi altrove; e Dio vi benedica».
«Le
torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il mondo, e
so anch'io che impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano da casa
sua: qui abbiamo le nostre case, qui si può concluder tutto in un momento,
senza impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella vorrà».
«Ma
figliuolo, ma figliuolo...»
«La
riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei pensieri che
il lettore conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a
disporre le sue faccende, e la casa per la sposa.
Questa
frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto, il quale di
giorno in giorno si andava spopolando. Perché come abbiamo accennato, dopo
quella dirotta, il contagio mollò, come suol dirsi, repentinamente; e
così venne a cessare la trista trasmigrazione della cittadinanza al
lazzeretto; quei che v'erano, in poco tempo morirono, o risanarono. La vedova
trovò la sua casa intatta, v'entrò con Lucia: ivi stettero insieme
a fare un po' di quarantena; deposero ed arsero i panni della malattia; il
fondaco somministrò la materia dei nuovi vestimenti: e la vedova
attenendo quello che aveva promesso al padre Cristoforo volle ad ogni costo
provvedere Lucia d'un bel fornimento d'abiti, con tutto il lusso contadinesco;
e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che stettero rinchiuse. Il giorno
stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire alle giuste premure della sua
ospite mandò ai capuccini a chieder conto del Padre Cristoforo. Come il
lettore l'avrà indovinato, il nostro buono e caro amico, era morto al
lazzeretto. Lasceremo pure che il lettore s'immagini il dolore di Lucia; e
senza più perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno ella giunse
alla sua casetta, in compagnia della vedova, in una delle più belle
carrozze che usassero i mercanti d'allora. In quel frattempo, il contagio era
cessato quasi da pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse. Agnese non
istette dunque alla lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le gettò
le braccia al collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova. Fermo che
era tornato e che stava quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in
casa d'Agnese in quel momento. Le accoglienze, il tripudio di tutti non
è da dirsi, e i discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che
il lettore in parte sa, in parte può immaginarsi. Il giorno seguente,
andarono tutti e quattro da Don Abbondio, il quale al tocco della porta accorse
alla finestra, e veduta quella brigata, scese gemendo, e grattandosi in capo,
ad aprire.
Le
accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio rabbia a
vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e
d'una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri. Ma Fermo che conosceva
il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste
parole: «Quel signore è poi morto davvero». Don Abbondio non si
abbandonò alla gioja da spensierato, ma volle sapere con che fondamento
si affermasse una tale... notizia.
«L'ho
veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al ricordarsene. Don
Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte circostanze, e
quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato all'altra vita, mise
un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i lineamenti del suo volto si
spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di primavera.
«È
morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio
arriva certa gente. È morto senza successione, per un giusto giudizio, e
anche per un gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato
gente della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere:
peccato! un degno gentiluomo. Così, si può finalmente dire il suo
cuore. Ah! Non c'è più quel burbero, quel soperchiatore, quello
spaventacchio. Questa pestilenza è stata un flagello, figliuoli, un
flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via certa gente, che,
figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: birboni, freschi, verdi,
vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una prosunzione
peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger loro la cassa
stava ancora facendo i latinucci; e in un batter d'occhio sono iti: requiescant.
Ah!... Ma, che facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in
piedi, in questo andito? venite figliuoli, venite nella mia saletta; venga
signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e a discorrere
tranquillamente dei fatti nostri. Perché», continuò egli camminando,
«quello che s'ha da fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo
giusto. Non mi piace, vedete, far penare la gente. E principalmente voi,
figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio,
che proseguì: «principalmente voi, ai quali ho sempre voluto bene. Ma
che volete? Alle volte bisogna far bella cera a quegli che si vorrebbero veder
lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si amano: si pare amici dei
birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo! bisogna vestirsi dei panni
d'un povero galantuomo. Basta; è finita; veniamo a noi. Figliuoli, non
bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?... Venerdì: posdomani
rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte, dopo tanto
tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di
maritarvi; e subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi
è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il
nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete che
il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di Giugno,
ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?»
«Ed
io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho
inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E
se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli:
Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante. Così ha
voluto il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non
vorrebbero questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io
povero pretazzuolo non ho di questi affanni. Torniamo al fatto nostro. Voglio
che stiamo allegri: abbiamo avuto tanto tempo di malinconia. Farete un po' di
banchetto: eh?»
«Da
poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed
io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don
Abbondio.
«Oh
signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed
io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono amico;
che vi voglio bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche travaglio: non
parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo, sorridendo, «ma
anche voi con quell'aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e alzata la mano
con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva verso di essa in
atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche voi mi
avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel clandestino:
basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato: non
è colpa vostra; è un mio destino, che tutti più o meno
debbano darmi qualche fastidio: tutto è finito: pensiamo a stare
allegri».
Lucia
sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don Abbondio, e
provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e rispose
egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro complimento, il
congresso finì con universale soddisfazione.
Il
tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai
preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro
modico avere, e Agnese, la quale come il lettore se n'è avveduto, pareva
sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli
altri, e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si
arrabbattò per la causa comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare
una mano.
Forse
taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima
giunta, che non vegga colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto pensato,
domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo
natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui
che gl'impediva di posarvisi tranquillamente. Per tre ragioni principalmente.
La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella
sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso; pure un
sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica
querela, e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.
La
seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano
quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a determinare
che molte altre. Ciò che Fermo aveva sofferto, e temuto nel suo paese,
gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un
soverchiatore, i pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del
popolo, che lo cercava a morte. Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai
luoghi che le richiamino, e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano
tanto più, appunto perché gli guardava prima con fiducia, e con affezione.
Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da
tutti i terrori, cerca con avidità la poppa che lo ha nutricato fin
allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo,
intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro
da quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.
Finalmente,
i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze gli
avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro professione; ma né l'uno
né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era di ripigliare tosto il
lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed allevare i
figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno. Ora l'industria della seta,
come tutte le altre era già decaduta spaventosamente nel milanese, prima
di quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo. Non
è questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di toccarne le
cagioni. Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità
appajono anche troppo in questa lunga storia: chi volesse conoscere le
più immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche del
conte P. Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol
conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali, da cui quel
valentuomo ha cavate le sue memorie. Basti a noi il dire che l'uomo il quale
aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel Milanese, e che nel
Bergamasco, come in altri stati vicini si offerivano esenzioni, privilegii, ed
altri incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi. Questa
differenza fece uscire una folla di operaj, e rivivere in quegli stati molte
manifatture che perirono nel milanese dove avevano fiorito. Differente per
conseguenza era anche l'aspetto dei due paesi. In Bergamo (non vogliam dire che
fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi
segni, e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre incolte,
l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio, e del vagabondare: ma
in quella petulanza stessa v'era una certa aria di allegria nata se non dalla
abbondanza, almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che
avevano voglia di far bene trovavano in quei capitali una facilità
grande e pronta. Ma nel Milanese una cagione viva e incessante di miseria
sopravviveva alle miserie della peste; un sistema che onorava l'orgoglio
ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli
studj del raggiro, e delle ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato
e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva l'industria, la
pace, e l'allegria.
Scelta
dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come
convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano
nati: ma la fortuna — non osiamo dire la provvidenza — la fortuna che voleva
favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una
storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo. I beni di
Don Rodrigo erano passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era
un uomo di ben diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo.
Prima di andare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli
col cardinale gliene parlò. «Avrete forse una occasione di far del bene
e di riparare il male che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli
raccontò in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri
sposi, e il danno di ogni genere che ne avevan patito. «Se son vivi tuttora»,
soggiunse, «non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma
di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo
sempre di lei, e mi raccomando alle sue orazioni». Il galantuomo, appena giunto
al castellotto, si fece indicare il villaggio degli sposi, e si presentò
al curato. Don Abbondio al vedere il nuovo padrone di quella altre volte
caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti,
voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne fosse edificato. E
quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia, e gli manifestò le
sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò volentieri, a
secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.
«Signor
mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese;
e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei
pochi fondi che tengono qui. A lei potrà convenire di aggiungerli ai
suoi possessi; e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il
signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se
non sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere
quella brava gente.
«È
un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e
andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la
proposta, che fu molto gradita. Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il
signore disse all'orecchio, che lo stabilisse molto alto. Don Abbondio così
fece; ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i
ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel
giorno dopo quello delle nozze.
Quel
giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e moglie;
il banchetto fu molto lieto. Il giorno seguente ognuno può immaginarsi
quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non
solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello, che
era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre
Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non
possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il
padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si
confaceva al suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel
brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli,
che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in
una malattia. Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più
forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di
pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.
Il
terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di
rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire,
si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la
buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don
Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti,
e s'avviarono a Bergamo. Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per
far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste
contratta nell'assistere ai primi appestati.
La
picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con
la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno,
e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio». Ella visse abbastanza per
poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella
giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.
Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre:
«d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a
non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra». Lucia però non si
trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le
mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni
volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io
non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu
non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito
sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te». Fermo quella volta
rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate
attirano bensì ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più
cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi
vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli
rende utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una
donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di
proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati,
e di terminare con essa la nostra storia.
17 settembre
1823