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Un doveroso ringraziamento va a quanti, con serio e minuzioso lavoro, permettono la fruizione di testi informatizzati attraverso l’opera di siti come www.liberliber.it. Molti degli scritti che seguono sono il prodotto della loro encomiabile azione.
VENERE ED IMENE
AL
TRIBUNALE DELLA
PENITENZA
MANUALE DEI CONFESSORI
di
Monsignor BOUVIER
vescovo di Mans.
Traduzione dal
latino di O. Gnocchi Viani
U. BASTOGI EDITORE
LIVORNO
Ristampa
anastatica dell'edizione di Roma, 1885.
Giuseppe Bonghi
nota
tecnica di trascrizione dei testi:
- Bouvier, Venere e Imene,
tradotto da O.Viani
- Bouvier, Supplemento al
trattato sul matrimonio
pubblicati da Bastogi in
ristampa anastatica del 1974 della edizione di Roma 1884
Abbiamo rispettato il testo
pubblicato, ma abbiamo corretto gli errori di stampa, dovuti a un malaccorto
tipografo. Qualche parola o segno tipografico, che poteva essere un errore del
tipografo ma avrebbe potuto anche essere una scelta dell'autore, l'abbiamo
lasciato così come è. Non abbiamo dato una trascrizione più moderna delle
parole (abbiamo lasciato inalterato, per esempio, quì, interpetrare,
l'accento grave che ora è acuto, come perchè
ecc.) Questi tutti gli interventi operati e che non segnaliamo in nota,
lasciando solo quelle dell'autore e/o del traduttore.
DISSERTAZIONE Sul VI Comandamento del Decalogo
CAPO I. Della lussuria in genere
CAPO II.Delle diverse specie della lussuria naturale
consumata.
APPENDICE. DEI PRETI PROVOCATORI DI TURPITUDINI.
CAPO III. Delle diverse specie di lussuria consumata
contro natura.
§. I. Della polluzione volontaria in
sè stessa.
§. II Della polluzione volontaria
nella sua origine.
§ III. — Della polluzione notturna.
§ IV. — Dei movimenti disordinati.
§ V. — Norme dei confessori verso
coloro che si danno alla polluzione.
CAPO IV. Dei peccatori di lussuria non consumata.
Articolo I. — Diletti voluttuosi del pensiero.
Articolo II. — Dei baci, dei toccameti, degli sguardi
impudichi e dell'abbigliamento delle donne.
§ II. — Dei toccamenti impudichi.
§ III. — Degli sguardi impudichi.
§ IV. — Dell'abbigliamento delle
donne.
Articolo III. — Dei Turpiloqui, dei Libri osceni, delle
Danze o dei Balli e degli Spettacoli.
§ III. — Delle danze o dei balli.
CAPO V. Delle cause, degli effetti e dei rimedii della
lussuria.
§ I. — Delle cause della lussuria.
§ II. — Degli effetti della lussuria.
§ III. — Dei rimedii ai peccati di
lussuria.
SUPPLEMENTO Al trattato sul matrimonio
QUESTIONE I. Dell'impedimento per
impotenza.
QUESTIONE II. Del debito coniugale.
Capo I. — Del debito coniugale,
chiesto e reso.
CAPO II. Dell'uso del matrimonio.
CAPO III. Norme dei confessori verso
le persone coniugate.
In questo libro, destinato
esclusivamente ai preti e ai diaconi, noi abbiamo tentato di raccogliere ciò
che sarebbe pericoloso ignorassero i sarcerdoti, esercenti il ministero della
confessione, e ciò che non può essere spiegato negli atti pubblici dei
seminarii, nè confidato indistintamente a giovani alunni senza peccare di
indecenza. Questo trattato si svolge intorno al VI comandamento del Decalogo e
ai doveri matrimoniali, e contiene una quantità di questioni di pratica
quotidiana che non di rado lasciano indecisi e inquieti i più dotti confessori,
i quali non le han mai finora trovate esposte e discusse con ordine e lucidità:
gli autori di teologia morale che fino ad oggi essi hanno potuto avere fra le
mani, o sono troppo rigidi, o sono incompleti e insufficienti. Perciò abbiamo
stimato far cosa utile ai giovani preti e ai diaconi il trattare dei peccati
contro la castità e dei mutui doveri degli sposi.
Dopo aver letti
molti libri di teologia su queste materie, ci proponemmo di contenerci su una
via di mezzo tra la soverchia severità e la soverchia indulgenza. Nè agimmo in
ciò a capriccio, ma abbiamo specialmente fatto fondamento sui giudizii dei
migliori autori. Perciò chiunque non volesse sottoscrivere alle nostre
sentenze, potrà consultare altre opere, bilanciare le diverse opinioni e
scegliere con cognizione di causa quanto gli sembrerà più probabile.
Ciò che è
certo, è che i nostri intendimenti sono ispirati da retto fine; e ne chiamiamo
giudici i lettori. Ci affrettiamo però a pregarli di non accusarci di mollezza
nè di voler abusare delle nostre decisioni, de' nostri principii, delle nostre
eccezioni, nè di favorire una perniciosa rilassatezza nei costumi.
Raccomandiamo
ai lettori cautela e specialmente la prudenza, che è l'occhio di tutte le altre
virtù: pesino bene con maturo giudizio motivi e circostanze. Del resto, li
supplichiamo instantemente, in nome della verità, a indicarci gli errori, nei
quali possiamo essere caduti.
Molti ci hanno
espresso il desiderio di vedere questo nostro libro, annesso alle nostre opere
complete che portano il titolo Istituzioni teologiche. Ma la grave
ragione che ce lo fece pubblicare separato fin dal principio, sussiste sempre
per indurci a mantenere questo Manuale diviso da Opere destinate a
correre liberamente fra le mani di tutti i seminaristi senza distinzione
alcuna.
Questo lubrico
argomento essendo sempre, per la nostra fragilità, pericoloso non lo si deve
studiare che per necessità, con animo vigilante, con retto fine, e invocando la
suprema assistenza di Dio. Chiunque facesse troppo a fidanza colle proprie
forze, e si gettasse perciò in questo argomento senza discrezione e senza
prudenza, non ne uscirebbe certamente illeso, poichè dice la Scrittura (Eccl.
3, 27): Chi ama il pericolo, in esso perirà.
Conviene
invocare frequentemente il patrocinio della Vergine Santissima, specialmente al
primo insorgere delle tentazioni, e usare una giaculatoria come la seguente:
«O Vergine
purissima, monda il mio cuore e la mia carne colla tua santissima verginità e
la tua immacolata concezione. Così sia.»
Il sesto e il
nono precetto del Decalogo, espressi in testa al 20. dell'Esodo, v. 14 e
17, evidentemente equivalgono, e perciò giudicammo di trattarli sotto uno
stesso titolo.
Come si
proibisce, sotto il titolo di furto, qualsiasi usurpazione della cosa
altrui, così sotto il titolo di lussuria([1]), si condanna ogni azione
ogni peccato contro la castità.
La castità
detta cosi perchè proviene dal verbo castigare, che indica freno alle
concupiscenze (dice S. Tomaso, 22, q. 151, art. 1), è una virtù morale che
modera i diletti venerei a seconda dei dettami della ragione.
Essa è una virtù
speciale, imperocchè ha un oggetto distinto: le è annessa la pudicizia, che
deriva dal pudore la quale per un verecondo rispetto della dignità umana
rifugge talora anco da cose che potrebbero essere lecite.
Triplice è la
castità, cioè: castità coniugale, castità vedovile e castità
verginale.
La castità
coniugale modera l'uso del matrimonio secondo i dettami della ragione; la
castità vedovile consiste nell'astinenza da ogni atto venereo, dopo disciolto
il matrimonio; la castità verginale aggiunge alla astinenza perfetta,
l'integrità della carne. La verginità dunque può essere considerata come
uno stato materiale e come una virtù. Come stato, consiste nell'integrità della
carne cioè nel non aver mai consumato atto venereo; come virtù, è la perfetta
astinenza da ogni azione volontaria e da ogni diletto opposti alla castità, col
proposito di mantenersi sempre in questa astinenza. Lo stato verginale è
dunque una cosa molto distinta dalla virtù verginale.
Lo stato
verginale può essere rotto da atti involontarii, per esempio, da commercio
carnale violento; e una volta distrutto, non lo si può più ristabilire,
imperocchè non è più possibile far ritornare la carne nella sua primitiva
integrità.
Non si possono
chiamare vergini nemmeno i coniugati nè coloro che si corruppero
all'infuori del matrimonio, abbenchè sieno poscia diventati penitenti e santi.
La virtù
verginale invece, lesa da un peccato che a lei e contrario ma che però non
è stato consumato, nè predisposto pel matrimonio, può essere riparata colla remissione
del peccato, o colla riassunzione del proponimento di mantenersi per sempre in
castità. E siccome la virtù non risiede in una data condizione corporale, ma in
una condizione dell'anima, così la virtù della verginità non scompare in forza
di atti involontarii, abbenchè questi ledano la carne. Per questa ragione,
l'aureola gloriosa destinata in cielo ai vergini non potrà esser mai conseguita
da coniugi o da chi, all'infuori del matrimonio, avrà consumato un atto
carnale, quantunque costoro possano essere santi; ma otterranno questa aureola
di gloria soltanto coloro che avranno sempre conservata la virtù della
verginità, ovvero l'avranno ricuperata. Non cessano quindi d'esser
virtuosamente vergini coloro, che soggiaciono involontariamente ad una forza, a
cui si mostrarono renitenti.
Contraria alla
castità è la lussuria, sia essa consumata o non consumata, naturale o contro
natura. Perciò parleremo:
1. Della
lussuria in genere;
2. Delle specie
di lussuria naturale consumata.
3. Delle specie
di lussuria consumata contro natura;
4. Dei peccati
di lussuria non consumata;
5. Delle cause,
degli effetti e dei rimedii della lussuria.
La lussuria —
che viene dal verbo lussare — è così chiamata perchè la proprietà di
questo vizio è quella di indebolire e rompere le energie dell'anima e del
corpo: percìò si chiama talvolta anche dissolutezza; e dissoluti
appellansi coloro che a questo vizio si abbandonano. Esattamente la si
definisce: Appetito disordinato dei piaceri venerei.
Denominansi venerei
questi piaceri, perchè si connettono alla generazione, a cui presiedeva,
secondo i pagani, la Dea Venere.
Proposizione. — La lussuria è per se stessa un peccato mortale.
Questa
proposizione viene comprovata dalla Sacra Scrittura, dal consenso dei Santi
Padri e dei teologi, e dalla ragione.
1. Sacra
Scrittura: Epist. ai Gal. 5, 19 e 21: «É evidente che coloro i quali
compiono opere carnali, come la fornicazione, l'impurità, l'impudicizia, la
lussuria, e altre cose simili, ch'io vi esposi come or vi espongo, non
entreranno nel regno de' Cieli,»
2. Santi Padri
e teologi sono unanimi nell'insegnare che il peccato della lussuria è, per
natura sua, mortale.
3. La ragione
dice che i piaceri venerei furono dalla ment del Creatore unicamente destinati
alla propagazione del genere umano; quindi lo invertire la natura è un grave
disordine e perciò un peccato mortale. Per cui si domanda: Se la
lussuria sia per sè un peccato tanto mortale da escludere, la leggerezza di
materia, vale a dire se egli può essere, per pochezza di sostanza, veniale.
R. 1. Le specie
di lussuria consumata, sia naturaIe, sia contro natura, a cui accennammo, non
ammettono leggerezza di materia.
Infatti, non
ripugna forse manifestamente che si possa abbandonarsi a fornicazioni o a
polluzioni volontarie, le quali non abbiano in sè che una leggiera sostanza
peccaminosa?
R. 2. Il
piacere puramente organico, quello cioè che nasce naturalmente dai nostri
organi, come sarebbe, per esempio, la soddisfazione di contemplare una bellezza,
d'ascoltare una melodia, di toccare un oggetto molle e morbido, ecc., è un
piacere ben distinto dal piacere venereo, e può benissimo essere materialmente
lieve, imperocchè questo diletto non è in sè cattivo, avendolo lo stesso Iddio
annesso ai sensi per un fine legittimo; non può dunque essere un peccato
mortale, se non in ragione del pericolo che ne potrebbe risultare insistendo in
esso: ma può benissimo darsi che in certe persone cotesto pericolo non sia
affatto grave. Così è di quei baci, che non sono che un'innocente soddisfazione
organica. Di questo parere sono Sant'Antonino, Sanchez, Henno,
Comitols, Sylvius, Boudart, Billuart, Collet
contro Cajetano, Diana, la Scuola di Salamanca e San
Liguori, l. 3, n 416, ecc.
Dunque, non
pecca mortalmente quegli che si diletta soltanto nel contemplare una bella
donna, nel toccarle la morbida mano, senza altro sentire, senza esporsi al
grave pericolo di andar più in là. Ma ben di rado va immune da peccato chi
s'arresta a lungo in tali compiacenze, ordinariamente pericolose, in ispecial
modo se provenienti dal tatto. Quegli che si arresta in tali compiacenze non
può andare esente da grave peccato, se non nel caso di inavvertenza o di
mancanza di consentimento. Ma vi sono molte persone, siffattamente costituite,
che basta loro il menomo piacere organico volontario per essere esposti ad un
grave pericolo.
R. 3. Il
piacere venereo, può essere destato direttamente o indirettamente, per sè
stesso o nella sua causa, come se alcuno compisse un'azione dalla quale scaturisse,
indipendentemente dalla sua volontà, il piacere. Generalmente i teologi
ammettono che il solo piacere, indirettamente prodotto, possa essere
materialmente lieve. Per esempio: non pecca mortalmente chi fa una cosa
venialmente cattiva, od anche lecita, dalla quale prevede che gli verranno
delle involontarie emozioni carnali, che non saprà efficacemente reprimere. In
questo caso, vuolsi che ll peccato sia veniale, non per insufficienza di
materia, ma per mancanza di assenso.
R. 4. Il
piacere venereo, voluto direttamente, lo si può verificare negli sposi e negli
scapoli: negli sposi, è lecito semprechè sia coordinato all'atto coniugale. Se
poi avviene all'infuori di codesto atto, e per opera d'uno solo dei coniugi,
senza che vi sia grave pericolo d'incontinenza, è reputato comunemente peccato
veniale, perchè si mantiene sempre in un ambiente lecito. Ma su ciò ci
diffonderemo altrove.
La questione or
si riduce a sapere se il piacere venereo voluto direttamente,
all'infuori del matrimonio, sia lieve di materia.
Generalmente
gli autori sostengono, contro Caramuel e pochi altri, che un tale
piacere non è mai peccato veniele per insufficienza di materia, e si sforzano
di comprovarlo:
1.
Coll'autorità di Alessandro VII, il quale nell'anno 1664 condannò la seguente
proposizione: «Si opina probabilmente che un bacio, dato per sentire un diletto
carnale da esso proveniente, escluso però il pericolo di ulteriori brame e di
polluzioni, non sia che un peccato veniale.» Cotesta proposizione fu
condannata, per il motivo che per diletto carnale si suole intendere un diletto
o piacere venereo; non è dunque probabile che questo piacere, per quanto
sia limitato, sia solamente un peccato veniale.
2. La ragione
ci dice che noi siamo così propensi per la nostra indole corrotta al vizio
della lussuria che basta spesso una menoma causa per produrre grandi effetti
perciò data l'ipotesi di un consenso diretto al piacere venereo, si va incontro
sempre all'imminente pericolo di un ulteriore consenso o di una polluzione;
cosa che non avviene con altri vizi. Il padre Acquaviva quindi,
superiore generale della Compagnia di Gesù, proibiva, sotto pena di scomunica,
a tutti i religiosi da esso dipendenti di allontanarsi, nei loro insegnamenti
dalla sentenza che ammette non esservi nel piacere venereo leggerezza di
materia.
Dunque, è
peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi emozione carnale,
ancorchè eccitata casualmente.
La lussuria
dicesi naturale allorquando non è in opposizione all'umana natura, alla
propagazione del genere umano. E' dunque carnale l'accoppiamento
dell'uomo colla donna, se compiuto per generare, abbenchè avvenga senza
matrimonio, e si consumi, versando il seme dell'uomo nella vagina della donna.
Sei sono le
differenti specie di questa lussuria, cioè: la fornicazione, lo stupro, il
ratto, l'incesto e il sacrilegio, di cui parleremo distesamente.
Articolo i. — Della
fornicazione. — La fornicazione è l'accoppiamento, mutuamente acconsentito,
fra un uomo libero e una donna libera che non sia vergine.
Noi diciamo.
1. Fra un
uomo libero, cioè, fra un uomo, al quale non viene inibito l'atto
colpevole, nè da vincolo matrimoniale, nè di parentela, nè di affinità, nè
d'ordine sacro o di voto, ma soltanto dal precetto della castità.
2. E una
donna libera che non sia vergine, il che sarebbe una fornicazione semplice,
molto diversa dallo stupro, di cui fra poco tratteremo.
8. Mutuamente
acconsentito; e perciò la fornicazione si distingue dal ratto.
V'hanno tre
specie di fornicazione, cioè fornicazione semplice, concubinato e
prostituzione, delle quali parleremo in tre distinti paragrafi.
§
I. — Della fornicazione semplice.
La fornicazione
semplice è quella che si esercita transitoriamente con una o con più donne.
Nicolaiti e i Gnostici,
eretici impuri dei primi secoli, appoggiandosi a ragioni diverse, proclamavano
lecita la fornicazione semplice; Durando, invocando il diritto naturale,
la reputava soltanto peccato veniale, che non diventava mortale, se non pel
solo diritto positivo; Caramuel, spingendosi piú oltre asseriva non
essere essa una cosa intrinsecamente cattiva, ma soltanto proibita dalla legge
positiva.
Proposizione. — La fornicazione semplice é intrinsecamente cattiva ed è
peccato mortale.
Prova. Questa proposizione, da tutti i moralisti cristiani ammessa, è
provata dalla Sacra Srittura, dalla testimonianza dei Santi Padri,
dall'autorità dei Concilii e de' Sommi Pontefici, e dalla ragione.
1. Dalla Sacra
Scrittura: Fra i molti testi che si potrebbero da noi citare, prescegliamo i
seguenti: (I. ai Corint. 6, 9 e 10) Non possederanno il regno di Dio
nè i fornicatori, nè gli adoratori degli idoli, nè gli adulteri. Ai Gal.
5, 19 e 21, come sopra. Agli Ef. 55: sappiate che nè il fornicatore nè
l'impudico non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Il beato Giovanni
nell'Apocalisse. 21, 8, dice che la vita futura dei fornicatori è in
uno stagno di fuoco e di zolfo.
Non v'ha dubbio
che, secondo questi testi, le impurità l'adulterio, il culto idolatra, sono
intrinsecamente cattivi, e sono peccati mortali.
2.
Testimonianza dei Santi Padri: (S. Fulgenzio, Ep. I, cap. 4) Non vi
può essere fornicazione senza grave peccato. S. Crisostomo, omel. 22. ai
Corint. Quante volte avrai fornicato con male donne tante volte ti sarai da te
stesso condannato.
3. Autorità dei
Concilii e de' Sommi pontefici: Concil. vien. Clemente, l. 5, tit. 3, cap. 3,
condanna questa proposizione del Beghini: «Quando non è suggerito dalla natura,
è peccato mortale financo il bacio della donna; ma quando la natura comanda e
soprattutto quando la tentazione domina, non è peccato mortale nemmeno l'atto
carnale.» Il Concil. Trid. sess. 24, cap. 8 della riform. matr.,
dichiara grave peccato il concubinato.
Innocenzo VI, nel 1679, condannò
la seguente proposizione di Caramuel: «E' chiaro che la fornicazione non
ha in se malizia alcuna, ed è cattiva solo perchè è proibita: l'opinione
contraria ci sembra in opposizione alla ragione.»
4. La ragione
poi dice: L'unione carnale è lecita se coordinata alla generazione della prole;
questo è il suo scopo; ma non basta procrear figli, bisogna nutrirli,
allevarli, istruirli, da ciò, l'obbligo naturale nei genitori di compiere tutti
quei doveri che richiedono una lunga coabitazione. Ora, la semplice
fornicazione è evidentemente contraria a questi doveri, imperciocchè, di sua
natura, è un atto passeggiero, e non obbliga i fornicatori ad alcun vincolo di
coabitazione. Dunque la fornicazione è intrinsecamente cattiva.
Inoltre, il
bene della società dipende da una retta istituzione delle famiglie; e la retta
istituzione delle famiglie suppone il matrimonio; dunque anco la semplice
fornicazione, che distrugge i diritti, i doveri e i vantaggi matrimoniali, è,
di sua natura, pessima cosa.
La fornicazione
poi con persona eretica o infedele, è peccato ancor più grave, in quanto che
ridonda in obbrobrio alla vera religione.
Ma tu dirai,
1.: Dio ordinò ad Osea, c. I. v. 2. di prendere in moglie una donna
fornicatrice; e negli Atti Apost. 15, 19, la fornicazione è proibita per
la stessa ragione, che è proibito il cibo della carne delle vittime e degli
animali soffocati, e del sangue; dunque la fornicazione non è cosa cattiva se
non in virtù della legge positiva.
R. Nego la
conseguenza. Infatti, 1. Dio ordinò ad Osea non già di fornicare, ma di
prendere in moglie una donna che avea fornicato, il che è ben altra cosa. 2. La
fornicazione è espressamente proibita dagli Apostoli perchè i pagani
pretendevano che fosse lecita, e nei loro Atti non dicono che essa non
sia proibita dal diritto divino e naturale: l'antica legge l'aveva già
condannata più volte, 1. col sesto comandamento del Decalogo, 2. perchè la
giovane che si lasciava togliere la sua verginità veniva lapidata come
malfattrice in Israel (Deut. 22, 21,) 3. perchè Dio aveva detto a
Mosè: Tra le figlie e figli d'Israele non vi sieno nè meretrici nè
fornicatori (Deut. 23, 17).
Tu dirai, 2.
Coloro che fornicano volontariamente non fanno offesa ad alcuno; dunque non
fanno cosa cattiva in sè stessa.
R. Nego la
conseguenza. La fornicazione non è già cosa cattiva perchè rechi offesa a
qualcuno, ma perchè viola un ordine istituito da Dio.
Tu obbietterai
che meglio è generare colla fornicazione che non generare affatto; e che perciò
generando in questo modo, non si viola l'ordine voluto da Dio.
R. Nego la
conseguenza. Noi abbiamo già visto che secondo l'intenzione del Creatore, non
basta il procrear figli. Di più, l'esposta obbiezione tenderebbe a provare
essere lecito l'adulterio, imperocchè meglio sarebbe allora generare figli per
adulterio che non generarne punto.
Si connettono
alla fornicazione la prostituzione ed il concubinato, e perciò ne parleremo ora
brevemente.
Il concubinato
è il commercio fra un uomo libero e una donna libera, i quali convivono come se
fossero in matrimonio, o sotto lo stesso tetto, o in separate abitazioni.
È certo che il
concubinato, inteso così, è un peccato molto più grave della semplice
fornicazione, perchè c'è l'abituale disposizione dello spirito a peccare e
perciò è questo un caso che dev'essere nettamente svelato nella confessione.
Il Concilio
di Trento, sess. 21, c. 8, Della rifor. mat. decretava gravi pene contro i
concubinarii, e (nella sess. 52, c. 14 Della rifor.)contro i preti che
si danno vergognosamente a questo vizio; ma queste pene devono essere
pronunciate con sentenza, e molte fra esse non furono mai accettate in Francia,
come, per esempio, quella della espulsione dei concubinarii dalla città o dalla
diocesi, invocando, ove il bisogno lo richiedesse, il braccio secolare.
Cionondimeno, questo male è presso di noi giudicato tanto grave quanto lo è
presso altri popoli.
Si domanda se il
concubino può essere assolto prima che lasci la concubina.
R. 1. Se il
concubinato è stato pubblico, nè il concubino, nè la concubina possono regolarmente essere assolti, benchè
appaiano contriti, se prima non avvenga una pubblica separazione imperocchè è
necessaria una riparazione proporzionata allo scandalo, e questa riparazione
non si può regolarmente ottenere che colla separazione.
Per ciò,
parecchi autori concludono che quegli il quale è reputato concubinario, benchè
tale non sia mai stato, o abbia cessato di esserlo da molto tempo, nondimeno è
obbligato, per evitare scandalo, di allontanare o abbandonare la donna sulla
quale pesa una pessima fama. Così Billuart, t. 13, p. 351.
E ciò diventa
tanto più vero quando si tratta di preti, ai quali deve importare sommamente di
conservare buona fama, ed una volta che questa è lesa; non la possono
ricuperare se non rompendo immediatamente ogni relazione colla donna sospetta.
Dissi regolarmente
poichè se il concubinario, benchè messo alle strette, non possa lasciare la
donna, o, lasciatala, è rimasto solo, non abbia chi lo aiuti nelle sue
necessità, allora dev'essere assolto, e munito all'occorrenza degli ultimi
sacramenti della Chiesa, semprechè sia riconosciuto contrito, e pubblicamente
prometta che, appena lo possa, allontanerà da sè quella donna, rompendo con
essa qualunque relazione; in questo caso si ripara allo scandalo come si può,
imperocchè nessuno è tenuto all'impossibile.
A più forte
ragione devono amministrarsi i sacramenti della Chiesa alla concubina pentita
della sua vita passata e fermamente deliberata di non più peccare nell'avvenire
benchè non le sia ancora possibile lasciare l'abitazione del suo concubino, o
perchè inacerbirebbe maggiormente la propria condizione, o perchè si esporrebbe
a qualche imminente pericolo, o perchè non troverebbe altrove un rifugio.
Eccettuati
questi casi, si deve sempre esigere la separazione, anche in extremis; e
la confessione del moribondo non può essere accolta prima che sia stata data a
Dio ed agli uomini una soddisfazione col rigetto della concubina, ovvero
coll'allontanarsene spontaneamente.
R. 2. Ma se il
concubinato è occulto — cessato che sia o no il commercio — si deve innanzi
tutto consigliare la separazione, imperocchè è impossibile, perdurando la
coabitazione, di non essere indotti in qualche pericolo. Ma siamo d'avviso che
non si debba esigere la separazione minacciando il diniego d'assoluzione,
specialmente se si prevede con ciò uno scandalo, la perdita della riputazione o
qualche altro danno.
Noi supponiamo
che il proponimento di non più peccare si ritenga sincero; e che si abbia
speranza ch'esso non muti. Così Navarrus, Billuart, S. Liguori,
e più altri
Se poi, non
ostante questo proponimento, c'è ricaduta, devesi sospendere l'assoluzione, ed
ingiungersi ordinariamente la separazione, imperocchè in questo caso non si
ritiene più probabile un proponimento perseverante.
Ma se il
commercio illecito non è cessato volontariamente, che si deve fare?
R. 1. Se il
penitente è agli estremi di vita, e detesta i suoi peccati, dev'essere assolto
e munito dei Sacramenti, sotto le condizioni espresse più sopra nella spiegazione
data alla parola regolarmente, senza però essere obbligato ad una
promessa davanti a testimonii.
R. 2. Se poi la
morte non è imminente, il penitente che vive segretamente in concubinato, non
può essere ordinariamente assolto
se prima non compie la separazione, senza la quale egli è sempre nella
occasione prossima di peccare, occasione che un alto precetto naturale e divino
ci inculca di fuggire. Perciò Alessandro VII condannò la seguente
proposizione: «Non è obbligato il concubinario ad allontanare la sua concubina
se questa gli fosse tanto utile da abbellirgli il banchetto della vita,
se senza di lei trascinerebbe una miserrima esistenza perchè i cibi
apprestatigli da altra donna non gli farebbero pro, e perchè assai
difficilmente potrebbe trovare un'altra domestica» In questa proposizione si
suppone il proponimento implicito di non peccare: ma ciò è falso, imperocchè il
pericolo esiste sempre.
Dissi ordinariamente,
per la ragione che vi hanno dei casi nei quali si deve impartire la assoluzione
sulla sola promessa di separazione ed anche sul solo proponimento di non
peccare in seguito; cioè:
1. Se, da
speciali indizii, il penitente lo si ritiene contrito, e se egli prometta alla
prima o alla seconda ammonizione, di cessare d'aver commercio colla concubina.
2. Se dal
rifiuto della assoluzione ne dovesse seguire grave scandalo o grave infamia,
come avverrebbe ad una giovane, sospettata disonesta, se non la si vedesse più
ad accostarsi alla santa Comunione o come avverrebbe ad un prete se il non vederlo
più a celebrare la messa parrocchiale producesse scandalo fra il popolo. — In
questi casi, la vera contrizione si presume.
3. Non si deve
esigere la separazione se è impossibile come quando per esempio, una figlia od
un figlio di famiglia pecca con un domestico od una domestica della casa
paterna. Quelli che si trovano in tale condizione devono dapprima essere
esperimentati colla sospensione dell'assoluzione; e quand'essi rimovessero da
sè l'occasione di colpe prossime, o mostrassero di ritrarsi sinceramente dal
peccato, si dovrà loro accordare l'assoluzione.
4. Quando due
concubinarii vivono segretamente, ovvero sono solamente sospetti di relazione
impudica, non si può pronunciare la loro separazione senza provocate nel tempo
stesso uno scandalo e infamarli bisogna allora tentare il ravvedimento,
sospendendo loro l'assoluzione, ma concedendola poscia, se perseverano in ogni
modo nei loro propositi.
Dice Billuart
t. 13. p. 352, che in questo caso, egli non condannerebbe nè il penitente nè il
confessore.
Nè io sarei
certamente più rigoroso di lui.
La
prostituzione può essere considerata come uno stato o come un atto. Come stato
è la condizione della donna pronta per tutti, e generalmente veniale; come
atto, è l'unione carnale di un uomo con una tal donna, o di una tal donna
coll'uomo che capita.
E' certo che la
prostituta pecca più gravemente che la semplice fornicatrice od anche la
concubina, tanto riguardo alla disposizione dell'animo, quanto allo scandalo e
al nocumento che si reca alla generazione. Perciò le meretrici furono sempre
considerate come la feccia e l'obbrobrio della specie umana. Non basta dunque
che una meretrice dica al confessionale quante volte abbia fornicato, ma deve
dichiarare il suo stato di prostituta.
Silvius, Billuart
e Dens ed altri teologi insegnano, come probabile, che l'uomo, il quale
usi con una meretrice, non è obbligato a dichiarare questa circostanza, perchè,
tutto considerato, tale fornicazione non ha ai loro occhi una gravità più
saliente.
Non è inutile
che qui riferiamo quanto il Codice penale (Francese) statuisce contro i
corruttori:
«Chiunque avrà
attentato ai costumi, eccitando, favorendo o facilitando abitualmente la
dissolutezza o la corruzione di giovani dell'uno o dell'altro sesso al di sotto
dell'età di 21 anni sarà punito colla prigione da 6 mesi a 2 anni e con
un'ammenda da 50 lire a 500.
«Se la
prostituzione o corruzione è stata eccitata, favorita o facilitata dai loro
padri, madri, tutori o alrre persone incaricate della loro sorveglianza, la
pena sarà da 2 anni a 5 anni di prigione, e da 300 lire a 1000 d'ammenda. (art.
334).
Inoltre, a
termini del'art. 335 dello stesso Codice, se è reo il tutore, a questi sarà
tolta giudicialmente, per un tempo determinato, la tutela ed ogni
partecipazione ai Consigli di famiglia; se è reo il padre o la madre, questi
saranno privati dei diritti enumerati nel Cod. Civ. l., tit. IX.
Si domanda se è lecito
tollerare le meretrici.
R. Due sono i
pareri in proposito dei teologi.
Molti dicono
che la cosa è permessa affine di evitare peccati maggiori, come sarebbero, la
sodomia, la bestialità la incontinenza segreta e le seduzioni a danno di donne
oneste. «Togliete dalla società umana le meretrici, e la libidine vi conturberà
tutte le cose» dice S. Agostino Dell'Ord. l. 2, cap. 4, n. 12 (t. I, p.
335) Egualmente opina S. Tomaso, Opusc.
Molti altri
invece sostengono opinione opposta, asseverando che per esperienza si verifica
che la tolleranza delle meretrici è occasione di rovina a molti giovani,
eccitando in essi gli ardori della libidine; e così i peccati di lussuria,
piuttosto che diradarsi, si moltiplicano. Vedi su ciò Concina. t. 15, p.
238, e S. Liguori, l. 3, n. 434.
Benchè
quest'ultima opinione non sembri la più probabile, noi siamo pertanto di parere
che devono essere assolti i pubblici amministratori che in buona fede si
domandano se è veramente possibile il non tollerare questo male. Nel dubbio,
non spetta ai confessori il decidere su ciò che devono fare coloro a cui è
commessa la trattazione di pubblici e difficili affari come sarebbero i
giudici, i magistrati, i comandanti d'escrcito, re, ministri, ecc.
Nel Trattato
dei Contratti, t. 6, p. 316, IV ediz. alla parola Locazione, si
discute se sia permesso appigionare locale alle meretrici.
Articolo II. — Dello stupro. —
Generalmente si chiama stupro ogni commercio carnale illecito. Perciò nel lib.
Levit, 21, 9 e nel n. 5, 13 si qualificano con tal nome tanto
l'unione carnale illecita d'una figlia d'un sacerdote([2]) quanto l'adulterio. Se
poi l'unione avviene per violenza, allora è per noi, un caso riservato, come
riferisce Euchir. p. 7, e nel foro civile va soggetto alla pena della
reclusione.
Art. 332 Cod.
pen. (Francese). «Chiunque avrà commesso il crimine di stupro o sarà
colpevole di qualsiasi altro attentato al pudore, consumato o tentato con
violenza, contro individui dell'uno o dell'altro sesso sarà punito colla
reclusione.
«Se il crimine
è stato commesso sulla persona d'un fanciullo al disotto dell'età di 15 anni
compiti, il colpevole subirà la pena dei lavori forzati a tempo.»
Art. 353. «La
pena sarà quella dei lavori forzati a vita, se i colpevoli appartengono alla
categoria di coloro che hanno autorità sulla persona contro la quale hanno
commesso l'attentato; se sono i suoi istitutori o i suoi servitori salariati; o
se essi sono funzionari pubblici, o ministri d'un culto; o se il colpevole,
chiunque sia, è stato aiutato nel suo crimine da una o più persone.»
Lo stupro —
considerato come una colpa particolare — è da molti definito come una violenza;
e, meglio, da altri come illecita deflorazione d'una vergine.
Per vergine
qui non s'intende già una persona che non peccò mai contro la castità, ma bensì
una persona che conservò l'interezza della carne, cioè, conservò intatto il
segno materiale della verginità. Tutti sanno quanta sia l'importanza che
universalmente si dà alla integrità della carne.
Egli è certo
che la violenta deflorazione d'una vergine, sia per l'oltraggio che si
fa alla castità, sia per la grave malizia e ingiustizia ch'essa implica, deve
necessariamente essere precisata nella confessione. Qual è infatti la giovane
onesta che non preferirebbe perdere una grossa somma di danaro, piuttosto che
essere stuprata?
Se mai accadesse
che un uomo fosse a forza sverginato da femmine perdute, ciò pure sarebbe uno
stupro o qualche cosa simile, e dovrebbe essere con precisione dichiarato al
confessionale. Ma siccome questo caso è appena appena possibile, così parleremo
del solo stupro d'una fanciulla.
Col vocabolo violenza
non si allude soltanto alla forza fisica, ma benanco alla forza morale, come il
timore, la frode, le preghiere importune, le grandi promesse, le blandizie, i
contatti voluttuosi, e tutto quanto secondo il giudizio d'un uomo astuto, può
far cadere una giovane inesperta in peccato.
I teologi hanno
disparate opinioni sul quesito «se lo stupro d'una vergine, liberamente
consenziente a lasciarsi deflorare, sia uno speciale peccato di lussuria,
distinto dalla semplice fornicazione.» Soto, Sanchez, Lessius,
S. Liquori e parecchi altri dicono di no: essi asseriscono che è un
peccato di fornicazione, specificato in causa del disonore che ne deriva, e
delle angoscie dei parenti, delle risse, dell'odio, dello scandalo ch'esso può
partorire.
I più però fra
i teologi, e tra questi S. Tommaso, S. Bonaventura, Sylvius,
Collet, Billuart e Dens, dicono che questa fornicazione, a
parer loro, contiene una malizia che si oppone alla castità in un modo tutto
distinto e speciale; e comprovano il loro giudizio così:
1. Essa reca
ingiuria ai parenti della fanciulla, l'incolumità della quale era affidata alla
loro custodia;
2. La giovane
evidentemente si espone al pericolo di non far più un conveniente matrimonio, e
pecca perciò contro la prudenza;
3. «Ella si
mette sulla strada della prostituzione, dalla quale potevala tener lontana il
timore di perdere il distintivo materiale della verginità;» sono parole di San
Tommaso, l. 2, q. 154, art. 6;
4. I peccati si
specificano contrapponendoli alle virtù contrarie; ora, la verginità è una
virtù tutta speciale, ed è un bene annesso specialmente a codesta virtù la
incolumità della carne: dunque, ecc., ecc.
Queste ultime
ragioni non possono essere distrutte nè dal consenso della giovane, nè dal consenso
dei di lei parenti; il che demolisce ogni ragione di fondamento nei sostenitori
dell'altra opinione, che è basata sopra questo assioma: Non s'ingiuria chi
sa e vuole. Ma è però allora necessario che ci sia in chi sa e vuole
la facoltà di rinunciare a un qualche cosa: ora, una zitella non ha menomamente
la facoltà di fare una rinuncia contraria alla propria verginità. D'altra
parte, il peccato del quale si tratta non si specifica già per l'ingiuria o
l'ingiustizia che ne risulta, ma bensì per un disordine tutto particolare,
cioè, che si oppone alla virtù in un modo tutto proprio.
Dunque lo
stupro, ancorchè volontario, è uno speciale peccato di lussuria che sta da sè.
Ed avendo il Conc. Trid. sess. 14, can. 7 definito essere necessario,
per diritto divino, dichiarare al confessionale le circostanze che mutano
specie al peccato, sorge qui quest'altra questione di pratica giornaliera,
cioè, se coloro i quali sono colpevoli di stupro volontario, sia di fatto, sia
col desiderio, o pel piacere, sieno tenuti di manifestare la circostanza della
verginità. Generalmente i teologi affermano essere ciò necessario come
conseguenza del principio ammesso.
«Nonpertanto —
dice Sylvius, t. 13, p. 835 — l'opinione contraria non manca di
probabilità, e perciò non reputiamo da condannarsi coloro che non chiedono, ad
una giovane penitente, se essa sia vergine o deflorata.»
Billuart, e con esso, t.
13, p. 357, Wiggers, Boudart e Daelman, sostengono che
la circostanza della verginità nello stupro volontario non aggiunge una speciale
malizia alla fornicazione, ma è solamente una malizia veniale, che non è quindi
necessario di svelare nella confessione. Infatti se questa malizia fosse, di
sua natura, mortale, a più forte ragione sarebbe tale in questo caso in cui —
come dice S. Tommaso — la perdita dell'imene della verginità mette la
giovane sulla via della prostituzione, e reca grave offesa ai suoi parenti. Ma
la fanciulla non sembra, per questo solo fatto, messa in prossimo pericolo di
prostituirsi; e se, ignari e consapevoli i parenti, essa acconsente liberamente
al suo sverginamento, nessuna ingiuria vi ha in ciò per essi.
Inoltre se la
malizia dello stupro volontario fosse semipre mortale la ragazza, accusando se
stessa di godimenti venerei, sarebbe tenuta di dichiarare se fosse o no
vergine, in guisa che, nel caso di un peccato puramente intimo e forse dubbio,
ella dovesse in qualche modo fare una confessione generale. Similmente, l'uomo
che desidera il godimento di una donna, è obbligato di dichiarare s'egli la
giudicava vergine o deflorata. Se poi il penitente o la penitente non si
spiegassero spontaneamente su di ciò, allora dovrebbe incombere l'obbligo al
confessore di interrogarneli; ma siccome ciò è molto increscioso, così i più
fra i confessori respingono questa pratica.
Di più, gli
autori generalmente insegnano che la circostanza della verginità in un uomo che
volontariamente si fa stuprare, non aggiunge malizia mortale alla semplice
fornicazione. Nè la differenza fra la perdita volontaria della verginità nella
donna o nell'uomo sembra tanto rilevante da essere peccato mortale lo
sverginamento in un caso, e nell'altro no.
Billuart, t.
13, p. 360, assevera che prima di abbracciare questa opinione, si trovò in
serii imbrogli e diede ad altri non poche molestie interrogando i penitenti su
questi casi, e raramente ne riuscì soddisfatto.
Io stesso
confesso che nei primi anni del mio sacerdozio mi avvenne la stessa cosa e non
una volta sola. Perciò prudentemente ora mi astengo dal movere codeste
invereconde domande, quante volte mi sembrano importune, e ciò per le seguenti
ragioni:
1. Per la
probabilità della opinione or ora esposta;
2. Per la
difficoltà di uniformarsi ad altra opinione;
3. Pel timore
di scandolezzare i penitenti e di ispirare loro avversione contro il tribunale
della penitenza;
4. Per la buona
fede nella quale sono i fedeli circa l'obbligo di dichiarare la circostanza di
cui si tratta. D'altronde, per volere la pienezza della confessione non si è
obbligati ad esporsi a tali inconvenienti.
Articolo III. — Del ratto. — Il ratto, in
generale, è il forzare una persona qualunque, ovvero i suoi parenti, allo scopo
di saziare su di essa una libidine. Questa definizione si adatta egualmente al
ratto per violenza e al ratto per seduzione, ed è in conformità alle nozioni
che dell'uno e dell'altro abbiam dato nel nostro Trattato sul matrimonio([3])
Noi diciamo: 1.
Non tenendo qui conto della circostanza del trasferimento da un luogo ad un
altro (che generalmente i teologi richiedono) imperocchè una donna può essere forzata
nel luogo stesso ove si trova, diciamo che la forza, che si può anche
dir violenza, può essere fisica (e questa ognuno la capisce) e
può essere morale, cioè se fatta ad una minorenne incutendo un timore
assolutamente o relativamente grave, o con importune preghiere o con blandizie
o incitamenti alla sensualità.
La fornicazione
con una minorenne consenziente all'insaputa de' suoi genitori, e senza che vi
sia trasferimento da un luogo ad un altro, non è propriamente un ratto, perchè
qui non esiste violenza: ma è un oltraggio ai parenti, a cui era affidata la
custodia della castità della loro figlia.
Noi abbiam
detto: 2.° una persona qualunque, imperocchè ogni essere umano sia
vergine o no, sia libero o coniugato, sia laico o consacrato a Dio, sia maschio
o femmina, può essere oggetto di ratto.
Similmente,
quegli che usasse violenza alla sua fidanzata, o, essendo minorenne, la
sottrasse, senza il volere de' suoi parenti, sarebbe un vero ratto, perocchè
l'essere fidanzati non conferisce nessun diritto a far ciò.
Abbiam detto:
3.° o i suoi parenti; e con queste parole si allude al ratto per
seduzione, come esponemmo nel Trattato sul matrimonio.
Abbiam detto:
4.° allo scopo di saziare una libidine, e non allo scopo di arrivare al
matrimonio. Del ratto, considerato sotto quest'ultimo aspetto, abbiamo parlato
altrove.
Il ratto, così
definito, è una specie distinta di lussuria, e deve essere spiegato al
confessore, imperocchè questo peccato, oltre che essere un male contrario alla
castità, è anche una grave ingiuria verso la persona a cui si fa violenza.
Esso differisce
dall'adulterio, perchè viola la giustizia in un modo ben diverso da quello con
cui la viola l'adulterio. E' egualmente un grave peccato contro la giustizia il
deflorare una giovane dormiente o ubbriaca; non è questo un ratto, ma è una
frode: dicasi pure così, anche della violazione carnale, non violenta, d'una
persona non avente l'uso della ragione, oppure che non sa che ciò sia peccato.
Dunque, il ratto ha in sè una malignità speciale, e per questo è un peccato
speciale contro la castità.
Secondo il Conc.
Trid. sess. 24, cap. 6, Della rif. mat., i rapitori e chi li aiuta,
incorrono istantaneamente nella scomunica se il ratto è violento; ma no,
se il ratto e per seduzione. Questa scomunica vige in Francia.
Il rapitore
d'altronde è obbligato per diritto naturale di condurre la giovane in luogo
sicuro, se essa lo vuole; o di dotarla decentemente, e di dare inoltre una
conveniente soddisfazione ai di lei parenti.
In mancanza del
rapitore, coloro che cooperarono efficacemente al ratto sono obbligati, per
quanto è possibile, a riparare interamente alla ingiustizia, sia verso la
giovane, sia verso i di lei parenti.
Si domanda ciò che far
deve una donna, oppressa dalla forza, affine di non peccare innanzi a Dio.
R. 1. Deve, internamente,
non acconsentire al piacere venereo, qualunque sia la violenza esterna
che su lei si compie: se no, peccherebbe mortalmente.
2. Ella deve
difendersi con tutte le sue forze, colle mani, coi piedi, colle unghie, coi
denti, o con qualunque altro strumento, in guisa però di non uccidere nè di
mutilare gravemente l'aggressore, perchè la vita e i principali membri del
corpo valgono in questo caso più dell'onore, che nella donna qui non è infine
che soltanto materialmente offeso. Molti altri però affermano il contrario,
appoggiati a ragioni esposte nelle Instituzioni della nostra teologia, t.
5, p. 392, quarta ediz.
3. Se ella
spera di poter essere soccorsa, deve gridare e invocare l'opera altrui,
imperocchè se ella non resiste esteriormente il più che può, parrebbe ch'essa
acconsentisse. E meglio sarebbe mille volte morire, piuttosto che piegare di
fronte a questo pericolo.
Una giovane,
ridotta a queste strette, temendo di poter acconsentire al piacere delle
sensazioni veneree, deve gridare, anche con evidente pericolo della propria
vita, ed in allora ella sarà una martire della castità. Così pensano
generalmente gli autori, contro il parere di pochi probabilisti.
Ma, escluso il
pericolo prossimo dell'assentimento, generalmente si ritiene che la giovane non
deve gridare, se gridando mette in evidente pericolo la vita e la fama, perchè
la vita e la fama sono in questo caso beni d'un ordine più elevato. Ma che
cotesto pericolo non esista è quasi impossibile, come disse Billuart, t. 13,
pag. 368.
Articolo IV. — Dell'adulterio. — «Adulterio,
come indica lo stesso nome, è l'uso del talamo altrui» dice San Tommaso,
22, q. 154, art.
1. Fra un
marito ed una donna libera;
2. Fra uno
scapolo e una moglie;
3. Fra un
marito e una moglie altrui.
L'adulterio, in
tutti tre i casi, è un peccato speciale di lussuria, e gravissimo, come
insegnano la Sacra Scrittura, i Santi Padri, la pratica della Chiesa, il
consenso dei popoli e la ragione.
1. La Sacra
Scrittura: Deut. 22, 23. «Se un uomo avrà giaciuto colla moglie d'altri,
entrambi, cioè l'adultero e l'adultera, sieno messi a morte, e si tolga in
Israel questo scandalo.» Nei precedenti versetti biblici, nei quali si tratta
della semplice fornicazione, che è pure dichiarata una cosa cattiva, non si
minaccia una sì grave pena. In molti altri luoghi della Scrittura mostransi i
fornicatori e gli adulteri come peccatori speciali e degni di gravissime pene; v.
9, I. ai Cor. 6, 9: «Sappiatelo bene; nè i fornicatori......... nè gli
adulteri......... possederanno il regno di Dio.»
2. I Santi
Padri sono unanimi nell'insegnare, essere l'adulterio un grave peccato, ben
distinto dagli altri peccati di lussuria.
3. Pratica
ecclesiastica: La Chiesa decretando le pene canoniche, statuiva doversi esse
imporre assai più gravi agli adulteri, che ai semplici fornicatori.
4. Consenso dei
popoli: la storia d'ogni nazione attesta che l'adulterio fu sempre e dovunque
ritenuto un grande peccato, differente dalla semplice fornicazione.
Così
giudicarono i più celebri legislatori, come Solone presso i Greci, Romolo
presso i Romani, e gli autori del nostro Codice penale (Francese), i
quali all'art. 337 decretarono:
«La donna
convinta d'adulterio subirà la pena della prigione per tre mesi, al meno, e due
anni al più.» Il complice della donna subirà la stessa pena con la multa
inoltre da 100 lire a 200.
Art. 324 Cod.
Pen. «L'omicidio commesso dallo sposo sulla sposa, o da questa su quello, non è
scusabile, se la vita dello sposo o della sposa che perpetrò l'omicidio non è
stata messa in pericolo nel momento stesso in cui avvenne l'omicidio.
«Nondimeno, nel
caso d'adulterio, l'omicidio commesso dallo sposo sulla sposa, come anche sul
complice, nel momento in cui egli li sorprende in flagrante delitto nella
abitazione coniugale, è scusabile.»
Peraltro,
l'art. 326 condanna l'uccisore alla pena del carcere da uno a cinque anni.
5. Finalmente,
secondo i dettami della ragione, l'adulterio, oltre la malizia annessa alla
fornicazione, ne implica un'altra e ben grave, cioè, l'infrazione della fede
coniugale, il turbamento portato nella famiglie, e pérciò un,enorme
ingiustizia.
Ne consegue
che, se un marito si accoppia con una donna libera, compiesi uno speciale e
grave peccato di lussuria, ma è ben più grave se si compie da uno scapolo con
una donna maritata, imperocchè qui vi ha il pericolo di introdurre dei falsi
eredi nella famiglia altrui; ma è ancor molto più grave, se compiesi fra un
marito e una moglie d' altri, per la ragione che questo è un doppio adulterio.
Tutte queste circostanze devono dunque essere disvelate in confessione.
Si domanda se una moglie
la quale, consenziente il marito, si dà ad un altro, sia rea d'adulterio.
R. Alcuni probabilisti
dissero di no, o almeno sostennero non essere necessario di dichiarare al
confessore la circostanza dell'adulterio. Ma si noti che Innocenzo XI
condannò la seguente proposizione: «Il commercio carnale con una donna
maritata, consenziente il marito, non è adulterio, perciò basta dire al
confessore che si è fornicato.»
Questa
decisione pontificia è basata su una ragione evidente, imperocchè il marito,
per la forza stessa del contratto e per la ragione del matrimonio, ha il
diritto di usare della moglie in relazione alla procreazione della prole, e non
può quindi cederla, nè prestarla, nè noleggiarla ad altri senza peccare contro
la natura stessa del matrimonio; il suo consenso dunque nulla toglie alla
malizia dell'adulterio: precisamente come il prete, che non può validamente
rinunciare al privilegio canonico che pronuncia la scomunica contro gli
ingiusti percuotitori dei sacerdoti, appunto perchè tale privilegio è insito al
carattere sacerdotale.
In questo caso
però si ritiene che il marito abbia rinunciato alla reintegrazione a lui dovuta
e alla riparazione dell'offesa. Il commercio carnale con una persona fidanzata
ad un'altra, o d'una persona fidanzata con una persona libera; non è
propriamente un adulterio, perchè qui non esiste violazione di talamo altrui; è
però uno speciale peccato d'ingiustizia da doversi determinare in confessione,
in riguardo al vincolo iniziato dalla promessa di nozze.
Articolo V. — Dell'incesto. —
L'incesto è il commercio carnale, nonmatrimoniale, fra consanguinei ed affini,
in gradi proibiti.
Non v'ha dubbio
che ai genitori è dovuto un naturale rispetto come pure alle persone che con
essi hanno vincoli di consanguineità o di affinità. Per ciò l'accoppiamento
illecito fra essi è doppiamente cattivo, primieramente perchè è contrario alla
castità, e in secondo luogo perchè viola il rispetto dovuto a consanguinei o ad
affini. Questo peccato fu sempre ritenuto come un genere speciale di lussuria,
e gravissimo. Nel Levit, 20, è punito colla pena di morte. San Paolo,
I, ai Corint, 5, 1, dice: «Vociferasi fra di voi fornicazione, e di tale
fornicazione quale si rinviene presso i Pagani, come è quella di giacere colla
moglie del proprio padre.» Ecco la ragione per cui questo genere di unioni
carnali sono aborrite assai più che la semplice fornicazione.
Disputano i
teologi se gli incesti sieno tutti d'una specie o no; molti opinano essere essi
di specie diverse imperciocchè nell'unione carnale fra consanguinei v'ha una
malizia speciale che non si rinviene nel commercio venereo fra affini.
L'accoppiamento, per esempio, colla propria madre o colla propria figlia è ben
diverso da l'incesto fra parenti consanguinei o affini d'altri gradi più
remoti. Così Concina, t. 15, p. 282, il quale dice che questa opinione è
la più comune e la più probabile.
Cionondimeno a
noi sembra più probabile e più comune l'altra opinione, imperocchè ogni incesto
è contrario alla virtù, cioè, al rispetto dovuto ai parenti: possono quindi
diversificare per maggiore o minore gravezza, ma non per speciale malizia:
tutti gli incesti quindi sono della medesima specie.
Checchè si
pensi teoricamente di codesta controversia, è certo che corre l'obbligo di
dichiarare in confessione, se l'incesto avvenne fra affini o consanguinei, in
linea retta o collaterale, ed in quale grado; senza di che la peccaminosità di
questo atto non sarebbe sufficientemente chiarita. Infatti, chi può credere che
il commercio venereo colla madre, colla sorella, ecc., sia abbastanza
qualificato colla generale denominazione di incesto? Devono essere ben
determinati i gradi di parentela, nei quali non è permesso il matrimonio.
Nonpertanto,
parecchi teologi pensano con ragione, non doversi sollecitare il penitente a
svelare i gradi più remoti delle linee collaterali, come per esempio, il terzo
e quarto grado di consanguineità o affinità, imperocchè questa circostanza non
si ritiene mortalmente aggravata.
Vi sono poi gli
incesti fra gradi proibiti di parentela spirituale o legale; e non solo
differiscono specialmente fra loro, ma diversificano eziandio dall'incesto fra consanguinei
e affini; la loro difformità e evidente. L'incesto nella cognizione spirituale
è un oltraggio al sacramento del battesimo o a quello della cresima, mentre
l'incesto nella parentela legale non ha che una mera somiglianza con
quell'oltraggio ai genitori che si rinviene nell'incesto fra gradi proibiti di
consanguineità o affinità. Si equipara all'incesto l'accoppiamento carnale fra
persone che per impedimento di onestà pubblica non possono congiungersi in
matrimonio.
Alcuni vogliono
che il peccato carnale d'un confessore colla sua penitente si identifichi
all'incesto, altri ciò negano. Ma qualunque sia in proposito il giudizio, è
certo che questa circostanza è molto aggravante e che è necessario perciò
dichiararla in confessione, sopratutto se il confessore abbia sedotto una
giovane (od anche un giovane) amministrando il Sacramento: è questo un orrendo
delitto contro il proprio sacro ufficio. Ma un peccato ancor più grave e più
oltraggioso alla giustizia egli commetterebbe, se traesse in peccato una sua
parrocchiana, della quale gli fosse affidata la cura e la salute dell'anima.
Una tale azione è così mostruosa nell'ordine morale delle cose, che, non solo è
paragonabile al parricidio, ma lo supera.
Un tutore che
corrompesse la sua pupilla, commetterebbe una specie d'incesto, e avrebbe
l'obbligo di specificare il caso in confessione.
Finaimente
partecipano all'incesto tutti gli atti venerei fra persone dello stesso sesso,
collegate da consanguineità, affinità o in altro modo; e le circostanze d'un tale
commercio carnale devono essere dichiarate.
Qui giova
notare che l'incesto consumato, sia in primo, sia in secondo grado di
consanguineità e affinità, è un caso, per la nostra diocesi, riservato,
come consta dall'Enckirid p. 7. Di più egli produce affinità.
Articolo VI. — Del sacrilegio. — Il
sacrilegio, in quanto si riferisce a lussuria, è la violazione d'una cosa sacra
con atto carnale. Non c'è dubbio: esso è una specie distinta di lussuria,
perocchè oltre un peccato contro la castità, ne contiene evidentemente un altro
contro il rispetto dovuto a Dio.
Per cosa
sacra s'intende una persona a Dio consacrata, un luogo destinato al culto
divino, ed altri oggetti specialmente santificati.
1. Una
persona a Dio consacrata: si consacra una persona a Dio con un voto solenne
emesso in una professione religiosa, col ricevimento dell'ordine sacro, o col
semplice voto di castità. Quegli dunque che si è così consacrato a Dio, si fa
reo di sacrilegio ogniqualvolta, esternamente o internamente, commette un
peccato contro la castità: dicasi lo stesso di chi pecca con una persona sacra,
ovvero desidera di possederla. Se poi entrambl sono persone sacre, il
sacrilegio è doppio, perchè si viola doppiamente il dovece religioso.
I teologi non
sono punto unanimi sulla questione, se ci sacerdote che ha fatto anche solenne
professione religiosa, commetta doppio peccato di sacrilegio, delinquendo
lontro la castità. Molti negano, e dicono che questo religioso viola bensì due
voti, ma aventi ciascuno uno stesso scopo, e perciò egli non verrebbe a peccare
che contro una sola virtù. Altri non pochi invece affermano che, a seconda
appunto di quei voti, egli è obbligato a conservare la castità tanto pel voto
solenne quanto per le prescrizioni della Chiesa: Per ciò, se lede con qualche
peccato questa virtù, viola contemporaneamente la duplice sua obbigazione e per
conseguenza commette doppio peccato. Ciascuna di queste opinioni è probabile:
dunque si adotti in pratica quella che sembra meno incerta.
Quegli che ha
riconfermato più volte il suo voto di castità, o che ha aggiunto un voto
semplice a un voto solenne, non commette, violando, un peccato multiplo,
imperocchè l'obbligazione è una sola. Nonpertanto, quegli che emise voto
solenne, non si accusa sufficientemente, dicendo di aver fatto voto di castità;
per la ragione che la circostanza della solennità del voto, se non muta
specie al peccato, l'aggrava però notevolmente. Tale è l'opinione probabile di
molti teologi.
Quegli che,
direttamente o indirettamente, per esempio, col consiglio, colla persuasione,
coi discorsi lascivi o coi perversi esempî induce una persona consacrata a Dio
a peccare contro la castità, si fa reo di sacrilegio, benchè con questa persona
egli non compia atto di libidine. La commessa violazione del voto viene imputata
ad esso, che scandalosamente la provocò: così Dens, t. 4, p. 418.
Se poi una
persona sacra fosse la causa per cui una persona libera si è macchiata con
peccato di lussuria, essa sarebbe rea di scandalo, ma non di sacrilegio,
imperocchè fece voto della propria e non dell'altrui castità. Così Billuart, Dens, ecc.
2. Luogo
destinato al culto divino, che dicesi luogo sacro. Per luogo
sacro s'intende quel luogo che per autorità pubblica è destinato ai divini
uffici o alla sepoltura dei fedeli, come sono le chiese e i cimiteri benedetti.
In questa
designazione si comprendono, tutto l'interno delle chiese, come cappelle,
confessionali, tribune, ecc., ma non le parti esterne, come le mura, il tetto,
le gradinate d'ingresso, i campanili se sono separati dalle chiese o dai
cimiteri, e il coro dei frati se è pure separato dalla chiesa: ordinariamente
si fa una eccezione per le sagrestie, benchè qualcuno sia di diversa opinione.
Disputano i
teologi se gli oratorii debbansi o no annoverare fra i luoghi sacri. Se essi
sono pubblicamente destinati alla celebrazione dei divini uffici, se i fedeli
al suono delle campane o in altro modo chiamati vi convengono indistintamente,
o se non appartengono a privati cittadini, il caso non sembra presentare
difficoltà alcuna: devono essere reputati sacri. Così pensano generalmente gli
Autori da noi consultati. Altri ancora professano che gli oratorii privati non
devono essere annoverati fra i luoghi sacri, perchè:
1. Non sono
compresi nella denominazione di chiese;
2. Non godono
dei privilegi ecclesiastici;
3. La sola
volontà dei loro proprietarî può convertirli ad usi profani.
Cionondimeno,
non è facile certamente il concepire come un atto venereo compiuto in uno di
questi luoghi non implichi una maliziosità speciale; e noi siamo del parere di Concina,
l. 15, p. 287, che una tale circostanza debba essere confessata.
Non devono
ritenersi luoghi sacri, relativamente al sacrilegio, di cui or parliamo, altri
luoghi benedetti, ma non destinati alla celebrazione degli uffici o alla
sepoltura dei fedeli, come abitazioni, monasteri, certi oratorii, ecc.
Ogni atto
venereo compiuto volontariamente in luogo sacro, anche in modo occulto, implica
la malizia del sacrilegio, perchè, giusta il comune parere degli uomini, è un
atto irreverente verso il luogo e quindi verso Dio.
Sarebbe
egualmente profanato il luogo da un atto di libidine noto al pubblico, e
consumato emettendo l'umore seminale, ancorchè lo sperma non sia caduto sul
pavimento del luogo sacro: Decret. tit. 68, c. 3, e della Consacr. tit. I,
c. 20. Ciò che in questo caso dà luogo alla profanazione non è la
pubblicità del sito, ma la notorietà che da essa pubblicità deriva e che
obbliga a tenersi lontani da quel luogo fino a che non sia purificato. Billuart,
t. 13, p. 404.
Molti dicono
che gli sguardi, i baci, le parole oscene, i contatti impudichi in un luogo
sacro, ancorchè non v'abbia pericolo di polluzione, implicano la malizia del
sacrilegio([4]), tanto pel rispetto
dovuto a Dio, quanto pel pericolo di polluzione, che può sempre sorgere. Altri
però negano ciò, appoggiati a questo assioma: Le cose odiose devono
interpretarsi in senso restrittivo; del resto, giustamente parlando, è la
sola effusione dello sperma che profana un luogo sacro
Questa stessa
controversia, che s'agita fra dottori, persuade che la circostanza del luogo
sacro deve essere rivelata in confessione, specialmente se gli atti venerei
fossero enormemente turpi, come sarebbero quelli di mostrare in luogo sacro o
di toccare le parti sessuali del corpo.
Quasi tutti i
teologi affermano che questi atti contengono la malizia del sacrilegio se sono
tali da esporre a prossimo pericolo di polluzione, imperocchè la legge
ecclesiastica, proibendo la polluzione in luogo sacro, proibisce eziandio di
esporsi al pericolo prossimo di tale ignominia: ora è certo che atti tanto
turpi, e volontarii, espongono evidentemente a tale pericolo: dunque, ecc.
Tutti gli
Autori però sono d'accordo in ciò, che i peccati meramente interni contro la
castità non portano con se una speciale peccaminosità per la circostanza del
luogo sacro, a meno che la persona non abbia la volontà di consumarli nel luogo
stesso: esclusa questa volontà, non si reca più grave oltraggio al luogo sacro.
Così Dins, t. 4 p. 261.
L'accoppiamento
carnale, ancorchè leggittimo, fra sposi, in luogo sacro, e senza che vi fosse
necessità alcuna, implica la malizia del sacrilegio; così i Dottori, giusta tit.
68, c. 3. Se poi questo accoppiamento avviene in luogo sacro per sola
necessità, per esempio, se marito e moglie fossero rinchiusi dentro un luogo
sacro come prigionieri in caso di guerra, e se, non accoppiandosi, fossero
minacciati dal pericolo della incontinenza, molti negano che il luogo resti
profanato e che i coniugi pecchino, imperocchè la Chiesa non può in tali circostanze
proibire un atto che in fine per sè stesso è lecito.
Ma i più — e
noi con essi — affermano che l'accoppiamento matrimoniale è, in questo caso,
illecito e sacrilego, perchè è impossibile che vi sia tale una necessità che
possa indurre la Chiesa a trasgredire alla severità della sua legge, legge
istituita per onorare Dio. Del resto ognuno, colla preghiera, col digiuno e con
altri espedienti, può sedare gli stimoli della carne, come sarebbe obbligato a
sedarli se, per esempio, il suo coniuge fosse assente, o infermo, o morto. Non
si deve accettare in pratica che questa sola opinione. Vedi Billuart, t. 13,
p. 406 e S. Lig. t. 3, n. 458.
3. Per cose
sacre intendonsi quegli oggetti, che non sono nè persone nè luoghi sacri,
ma che sono consacrati al culto divino, come gli ornamenti e i vasi sacri. E'
certo che è un orribile sacrilegio abusare di queste cose per compiere atti
turpi, per esempio, servirsi falsamente e con intendimenti lascivi dell'acqua
benedetta, dell'olio santo o della sacra Eucaristia.
Alcuni teologi
asseriscono che un sacerdote che porta con sè la divina Eucaristia non commette
sacrilegio, se internamente o esternamente pecca contro la castità, semprechè
non ci sia disprezzo al Sacramento stesso. Ma molti alrri dicono essere esso
reo di sacrilegio, perchè colle cose sante bisogna comportarsi santamente; e in
questo caso il sacerdote si comporta verso il Santo dei Santi non santamente ma
orribilmente.
Egualmente, il
prete che amministra i Sacramenti, che celebra la messa, o coperto dei sacri
indumenti sta per celebrarla, ovvero sta scendendo dall'altare, e si abbandona
volontariamente aila polluzione o si diletta con altri piaceri venerei, è
colpevole di doppio sacrilegio. San Liquori, l. 3, n. 463.
P. Concina va più in là e
sostiene, contro molti teologi, che quegli il quale porta con sè reliquie di
Santi si fa reo di sacrilegio se esternamente o internamente pecca contro la
castità, imperocchè — egli prosegue — si tratti di reliquie o di sacra
Eucaristia, la ragione è sempre la stessa, colla sola differenza che un
sacrilegio sarà più grave dell'altro.
Parecchi
opinano altresì che il peccato della carne contenga la peccaminosità del
sacrilegio se vi ha la circostanza del giorno domenicale o feriale. Ma molti
altri negano questa specie di sacrilegio oppure dicono ch'essa non è mortale, e
che perciò non è necessario di determinarla in confessione, pel motivo che il
precetto della santificazione del giorno domenicale non è veramente violato da
atti di quella natura.
Tutti coloro
che amano la gloria del Signore e che hanno a cuore l'onore della Chiesa devono
essere compresi d'angoscia udendo che v'hanno preti, e, quel che è più,
sacerdoti vincolati al servizio dell'altare, che si avvoltolano indegnamente
nel fango; — che celebrano altissimi misteri, che tengono nelle loro mani
l'Agnello immacolato, mentro sono ebbri d'ardori lascivi e si insozzano di
turpissime macchie; che, preposti alla salvezza delle anime, le uccidono
invece, convertendo il divino ministero ad essi affidato in istromento di
perdizione. Chi è quegli che, vedendo tanto abbominio nei luoghi sacri, non
inorridirà, e non tenterà con tutte le sue forze di estirparlo?
Molti Sommi
Pontefici ordinarono che i penitenti denunciassero agli Inquisitori o ai
Vescovi locali quei confessori che avessero tentato di sedurli a cose
disoneste: così Paolo IV, 16 aprile 1561 Pio IV, 6 aprile 1564; Clemente VIII,
3 dicembre 1592; e Paolo V, 1608, pei regni di Spagna, Portogallo, ecc., ecc.
Gregorio XV,
colla sua Costituzione del giorno 30 agosto 1622, ampiò queste
disposizioni e le estese a tutti quanti i fedeli in Cristo; egli ordinò doversi
denunciare quei sacerdoti che, sia al confessionale, sia in altro luogo
destinato per ascoltare i penitenti, attendendo alla confessione, o fingendo di
attendere ad essa, eccitassero a cose turpi, tenessero discorsi lascivi; ecc.,
ecc. Ed ordinò eziandio che i confessori avvertissero i penitenti di questo
loro obbligo di denuncia.
Alessandro VII
decretò, nel giorno 8 luglio 1630, che il penitente è obbligato a denunciare,
anche senza avere premesso un fraterno rimprovero o altra ammonizione, e nel
giorno 24 settembre 1655 condannò due proposizioni che contenevano insegnamenti
a ciò opposti.
La sacra
Congregazione del santo Ufficio rispose nello stesso senso, negli anni 1707 e
1727.
Infine
Benedetto XIV nella Costituzione Il Sacramento della penitenza, 1 giugno
1741, statuì;
1. Doversi
denunciare, e punire secondo le circostanze, tutti coloro che, nella confessione,
o col pretesto della confessione, tenessero discorsi lascivi, o eccitassero a
turpitudini con parole, con segni, con movimenti; con contatti, con scritti o
con letture.
Doversi
avvertire i sacerdoti incaricati di ascoltare le confessioni, ch'essi sono
obbligati ad esigere dai loro penitenti la denuncia di coloro che in qualsiasi
modo li avessero eccitati a cose turpi.
3. Egli vieta
di denunciare, o di procurare di far denunciare da altri, come colpevoli, dei
confessori innocenti; e se questa esecranda malvagità avvenisse, decretò che
fesse un caso riservato a sè e ai suoi successori, a meno che non vi fosse
pericolo imminente di morte.
4. Dichiara che
i sacerdoti che si fossero macchiati di cotesto nefando delitto non potrebbero
assolvere, nemmeno in tempo di giubileo, i loro complici, eccettuato il caso di
morte imminente e di mancanza d'altro sacerdote; e se osassero di farlo,
incorrerebbero nella scomunica maggiore, riservata alla Sede Apostolica.
Queste varie Costituzioni
pontificie non furono mai pubblicate in Francia; perciò esse strettamente
non obbligano, a meno che non ci fossero in contrario speciali statuti
diocesani.
Nella nostra
diocesi, un sacerdote complice di un peccato contro la castità commesso
pubblicamente o di un'unione carnale, o di contatti impudichi, o di baci
libidinosi non può mai assolvere da cotesti peccati il suo complice, eccettuato
il caso di pericolo di morte imminente, o di non poter moralmente chiamare un
altro prete approvato. Quegli che assolvesse contro questo divieto, rimarrebbe
immediatamente sospeso e l'assoluzione data sarebbe nulla.
S'egli avesse
soltanto internamente peccato, o se il penitente non pvesse acconsentito alle
sue libidini, non perderrebbe per ciò il ministero della giurisdizione, ma
sarebbe però conveniente ch'egli più non ascoltasse quel penitente, affine di
evitare il pericolo. Egli poi non potrebbe assolvere un peccato di lussuria a
cui avesse preso parte, prima d'essere sacerdote.
Questo enorme
peccato però non è riservato ed è di competenza degli altri confessori
approvati ad ascoltare indistintamente le confessioni; per ciò possono essi
assolvere tanto il prete complice, quanto il sacrilego, che sieno bene
disposti.
Si domanda se sia dovere
naturale denunciare il sacerdote corrotto o il corruttore.
R. Bisogna
intanto andar molto cauti a prestar fede a quelle donne che inconsideratamente
accusano sacerdoti al tribunale della penitenza, imperocchè più volte se ne son
viste calunniare atrocemente dei preti innocenti per invidia, per odio, per
gelosia, o per altro perverso motivo. Si deve dunque pesare prima con maturo
esame le circostanze riguardanti la persona, l'accusa, e il preteso delitto ed
occorre vietare che il complice si abbocchi con questo confessore.
Ma se, tutto
pesato sulla bilancia del santuario, risulta che il sacerdote è reo, si deve
esaminare se si tratta di colpe di antica data, una o più volte commesse e già
espiate, ovvero se si tratta d'un abitudine a commettere questo genere di
peccato o ad eccitarlo in altri o d'una qualsiasi altra colpa che mostri un
uomo di perduti costumi. Nel primo caso, non è obbligatoria la denuncia perchè
si suppone, e ragionevolmente si presume, che più non esista il male, nè sia
per rinnovarsi; nè v'ha d'altronde ragione sufficiente per ledere la
riputazione di un sacerdote.
La difficoltà
sta nel sapere se nel secondo caso, esista l'obbligo naturale di fare la
denuncia.
Proposizione. — Quegli il quale sa che un sacerdote, un prete qualunque,
vive in modo vergognoso, o eccita altri a cose turpi è obbligato dalla legge
naturale a denunziarlo al vescovo o al vicario generale.
Prova — Tutti i teologi insegnano trattando della corruzione che un
delitto segreto deve essere denunciati al superiore, sia per correggere il
colpevole, sia per stornare un male che minaccia il pubblico e i privati: così
devono denunciarsi, anche senza previa ammonizione, gli eretici che spargono
l'errore, i ladri, i masnadieri, i traditori della patria, gli avvelenatori, i
farmacisti che vendono a chiunque sostanze velenose, i falsificatori di monete,
i corruttori di giovani e di ragazze, i congiurati a dar morte a qualcuno,
ecc., ecc. Ora non c'è dubbio che un prete il quale commette queste enormi
ignominie cagiona a sè stesso rovina, alle anime perdizione, e alla religione discredito.
Per queste
ragioni, la Chiesa, prima dell'ordinazione, annuncia ai fedeli astanti, a nome
del Pontefice, che «se alcuno ha qualche cosa contro gli ordinandi si
mostri e — con Dio e per Dio parli con tutta fiducia.» (Pont. Rom.)
E' per ciò che in
molte diocesi, il nome dei giovani che devono avere l'ordine sacro si pronuncia
pubblicamente durante la solennità della messa, come si fa coi bandi
matrimoniali, e ciascuno che conoscesse qualche impedimento all'ordinazione è
obbligato a rivelarlo; dunque a più forte ragione, coloro i quali sanno che un
sacerdote o un prete qualunque vive in modo vergognoso, o si fa eccitatore di
cose turpi, devono parlare. Questa dottrina è espressamente insegnata da S.
Tommaso, nella 4 sent. tit. 19, q. 2, art. 3, ove dice: «Se poi questo
peccato tocca altri, deve essere denunziato al prelato, affinchè esso metta in
guardia il suo gregge.»
Pontas, al vocabolo denunciare,
caso 5, insegna la stessa cosa, benchè al vocabolo confessore caso 7,
non risolva con eguale precisione un caso simile.
Si può
obbiettare: 1. Che i superiori ecclesiastici, ordinariamente, non possono
togliere il sacro ministero a un sacerdote così denunciato; 2. Che una tale
denuncia rende odiosa la confessione; 3. Ch'essa espone i complici al pericolo
dell'infamia e del vituperio; 4. Che tanto ripugna questa rivelazione ai
complici, ch'essi spesso preferiscono di non accostarsi ai sacramenti della
Chiesa. Perciò, tale denuncia non può essere prescritta che con molta prudenza.
R. alla 1.
obbiezione. Nego la conseguenza Benchè un sacerdote così denunciato non posssa
essere subitamente rimosso dal ministero sacro, per le mormorazioni, gli
scandali ed altri mali che ne verrebbero, non è, per questo, inutile una tale
denuncia. Avvertiti i superiori, lo sorvegliano, o lo fanno sorvegliare; lo
interpellano, lo ammoniscono, lo esortano e gli ingiungono di fuggire ogni
occasione di peccato e di allontanare l'oggetto dello scandalo: lo traslocano,
e non gli conferiscono l'avanzamento che potrebbegli essere destinato. Se poi
egli perdura nella sua depravazione, raccolgono nuove informazioni, e
finalmente lo cacciano ignominiosamente dal santuario come se fosse una peste.
Alla 2.
obbiezione. Nego la premessa: infatti, chiunque attentamente riflette a ciò che
si deve pensare, davanti a Dio, d'un sacerdote corrotto e corruttore, tosto
giudicherà essere egli un demone piuttosto che un ministro di Cristo e ch'egli
vive più per perdere che per salvare le anime; e facilmente comprenderà che è
obbligo naturale il denunciarlo, come si denuncerebbero i ladri e i masnadieri,
a benefizio del prossimo. L'obbligo di denunciare i ladri e i masnadieri non
rende certamente odiosa la confessione; egualmente non può essere resa odiosa
dalla denuncia contro pravi sacerdoti.
Alla 3. obbiezione.
Nego la premessa. La confessione può esser fatta tanto cautamente da non
mettere in pubblico il complice. Ordinariamente si fa così: — Se il penitente
può scrivere deve mettere il puro nome del denunziato su una scheda; indi
consegni la scheda ben chiusa al confessore, il confessore la trasmette al
vescovo o al vicario generale con una lettera nella quale espone il fatto,
dichiara quale sia il suo parere circa la sincerità del denunciatore, badando
però di non manifestare il nome del denunciatore al superiore. Egli stesso poi
non deve preoccuparsi di sapere il nome del sacerdote corrotto
Se la persona
non sa scrivere, la si deve esortare affinchè, — munita d'una lettera del
confessore, attestante la di lui sincerità, — si rechi presso il superiore e ad
esso sveli la verità, senza farsi conoscere, se così desidera.
Se questa
persona stima molto imbarazzante questo modo di denunciare, può allora
designare al confessore il sacerdote impudico, dandogli licenza di denunciarlo.
Vi ha un altro
modo di denunciare il reo al superiore; il complice che non sa scrivere, può,
con un pretesto qualunque, rivolgersi a persona che sa scrivere, affinchè, gli
metta in iscritto il nome del tale sacerdote, dicendo per esempio, che qualcuno
glielo richiese. Chiuso e sigillato lo scritto lo rimetterà al confessore.
Il colpevole,
redarguito dal superiore, rimprovererà fortemente al complice o alla complice
di averlo denunciato!. ma ciò non e un gran male. Non è forse male peggiore il
tollerare un prete corrotto?
Alla 4.
obbiezione. Nego la premessa, imperocchè molti colle ragioni, colle preghiere,
colle esortazioni, col mostrar loro l'interesse e la salvezza della religione
delle anime, si lasciano indurre a rivelare le turpitudini dei sacerdoti.
D'altronde, se l'obbiezione reggesse, bisognerebbe dire che erano ben sciocchi
i Pontefici che ordinavano tali denuncie.
Il confessore,
che adempie rettamente il suo incarico deve in questi casi deplorabili,
procurare con prudente modo che la denuncia avvenga, o sospendendo o negando
l'assoluzione. Se poi accade che un penitente non si possa persuadere con
ragione alcuna ch'eglì è obbligato a rivelare, noi pensiamo doversi esso
finalmente assolvere, quando però giudichiamo prudentemente ch'egli è in buona
fede: non assolvendo in questo caso il penitente si priverebbe esso dei
sacramenti, e non si otterrebbe la denuncia del perverso corruttore. Meglio è
dunque che il confessore, pur sollecitando il penitente a far la denuncia non
gli dica però, ch'esso vi è obbligato sotto pena di peccato mortale.
Lo stesso
obbligo di far conoscere un sacerdote corrotto l'hanno le mogli e le ragazze
ch'egli eccitò a cose vergognose, e tutti coloro che ebbero notizia di coteste
infamie per altro mezzo che non sia stato quello della confessione.
Similmente, per
le stesse ragioni, devesi denunciare quel sacerdote, o quel prete qualunque, il
quale, per delitti ignoti ai superiori, abbia recato o fosse per recare grave
nocumento alla religione o alla salute delle anime.
La lussuria
consumata, contro natura, è l'emissione del l'umore seminale, in modo non
consentaneo alla generazione, avvenga poi esso all'infuori dell'accoppiamento
carnale, ovvero nell'accoppiamento stesso. Tre sono le specie di codesta
lussuria, cioè: la polluzione, la sodomia e la bestialità.
Articolo I. — Della polluzione. —
La polluzione che chiamasi anche incontinenza secreta, o mollezza([5]), è l'emissione del seme
umano, all'infuori d'ogni accoppiamento carnale.
Il seme umano è
un umore vischioso, destinato dal Creatore alle generazioni e alla
conservazione della specie: differisce essenzialmente dall'orina' la quale è
una secrezione degli alimenti, che si emette, a sollievo della natura, come gli
escrementi.
La polluzione
si divide in:
1. Semplice e
qualificata;
2. Volontaria e
involontaria;
3. Volontaria
in sè stessa, e volontaria nella sua origine.
La polluzione semplice
è quella a cui non si aggiunge una estranea malizia: vale a dire, è quella di
chi, obbligato a nessun vincolo personale con altri, si abbandona al piacere
venereo unicamente con sè stesso.
La polluzione
dicesi qualificata quando, oltre la sua propria malizia, un'altra ve se
ne aggiunge, o da parte d'un oggetto a cui si pensa, o da parte di chi è
passivo nella polluzione, o da parte di chi è agente.
1. La
polluzione acquista la peccaminosità dell'adulterio, dello incesto, dello
stupro, del sacrilegio, della bestialità o della sodomia sè, nel compierla si
pensa ad una donna maritata, ad una parente ecc., ecc. Così quegli che
desiderando la Beata Vergine, si abbandonasse alla polluzione davanti alla sua
statua od immagine, commetterebbe un orribile sacrilegio.
2. La stessa
peccaminosità acquista se chi è l'oggetto passivo della polluzione è una
persona coniugata, ovvero consacrata a Dio col voto o coll'Ordine sacro.
3. Egualmente,
se chi opera la polluzione, è per esempio, un religioso o altro sacerdote.
Tutte queste
circostanze è necessario rivelare in confessione, perchè fanno cambiare la specie
del peccato.
La polluzione volontaria
è quella che si compie in modo diretto o di cui si cerca volontariamente la
causa. È involontaria, se avvenga senza la cooperazione della volontà,
sia vegliando, sia dormendo.
Siccome la
polluzione affatto involontaria non può essere un peccato noi qui non ne
parleremo se non in quanto può aver relazione a un peccato.
Perciò noi
tratteremo:
1. Della
polluzione volontaria, in sè stessa;
2. Della
polluzione volontaria, nella sua origine;
3. Della
polluzione notturna;
4. Dei
movimenti sregolati;
5. Norme del
confessore verso coloro che hanno l'abitudine di darsi alla polluzione.
Molti probabilisti
negarono seguendo Caramuel, che la polluzione fosse per diritto naturale
proibita, imperocchè la emissione del seme umano puossi paragonare ad una
emissione di sangue, di latte, di orina e di sudore, e per conseguenza, se non
la proibisce la legge positiva divina, lecito sarebbe e necessario il compierla
ogni qualvolta la natura lo richiedesse. Nessun teologo però è di questo
parere.
Proposizione. — La polluzione, considerata in sè stessa è un peccato contro
natura.
Questa
proposizione è provata dalla Sacra Scrittura, dalla autorità di Innocenzo XI,
dal consenso dei teologi e dalla ragione.
1. Sacra
Scrittura: I. ai Corint. 6. 9. «Sappiate che nè i fornicatori, nè gli
adoratori d'idoli, nè gli adulteri, nè i segretamente incontinenti, nè i
sodomisti possederanno il regno di Dio.» Ai Gal, 6. 19; «È certo che
coloro i quali, come dissi e ripeto, si abbandonano a cose carnali, cioè alla
fornicazione, all'impurità, alla impudicizia, alla lussuria e cose simili, non
entreranno nel regno di Dio.
Colle parole segretamente
incontinenti intendesi alludere a coloro che volontariamente si fanno, o si
fanno fare da altri delle polluzioni manuali: questa vergogna va certamente
collocata a livello delle impurità e delle impudicizie, l'Apostolo dichiarando,
che questi peccati escludono dal regno dei Cieli, non li presenta solo come trasgressioni
al diritto positivo, ma evidentemente come cose che deturpano la natura.
2. Innocenzo XI
condannava, il 2 marzo 1679, la seguente proposizione di Caramuel: «La
polluzione manuale non è vietata dal diritto naturale, e se Dio non la
proibisse, spesso essa sarebbe conveniente e qualche volta obbligatoria.»
3. La ragione:
E' certo che fu nella mente del Creatore che la destinazione dell'umore
spermatico e d'ognì atto venereo fosse quella di provocare e perpetuare la
specie umana. Se si permettesse la polluzione per una volta, non si saprebbe
capire la ragione, per cui non si potesse permettere ulteriormente: è appunto
per questo che non si può permetterla mai. Di più il piacere annesso alla
polluzione volontaria espone al pericolo di contrarne l'abitudine; e noi
dimostreremo che è un'abitudine questa gravemente colpevole imperocchè conduce
a mali enormi: la polluzione dunque, che avviene all'infuori del naturale
accoppiamento, è manifestamente contro natura; lo riconobbero gli stessi
Pagani, come appare dalle seguenti parole di Marziale, Epig. 42: «Credimi,
la stessa natura t'insegna il vero, o Ponticio; ciò che tu perdi colla
polluzione manuale, è un uomo.»
Devesi quindi
concludere, non essere mai lecito eccitare direttamente la polluzione, nemmeno
collo scopo di conservare la salute e la vita; imperocchè non è egualmente
lecito il fornicare, collo stesso scopo. Il paragone col sangue, col latte,
coll'orina e col sudore, addotto da Caramuel non regge, imperocchè la
destinazione di questi umori è ben diversa da quella dell'umore spermatico. Nè
giova dire che è talora permesso cavar sangue dalle vene, o tagliar un membro
del corpo ed anche i vasi dello sperma, imperciocchè il sangue e i membri sono
parti del corpo, subordinate alla salute dell'individuo, e perciò, per
salvarlo, possono benissimo essere lese; ma il seme umano non fu creato per la
sanità del corpo, ma per la propagazione della specie. Non si va incontro ad
alcun pericolo con una cavata di sangue o coll'amputazione d'un membro: ma non
è così colla polluzione.
Si suole
distinguere due cause di polluzione, una prossima, e l'altra remota.
La causa
prossima è quella che porta per se stessa alla polluzione, come il palpeggiare
le proprie o le altrui parti genitali il contemplarle, il parlare d'oscenità o
amori, il volgere in mente turpi immagini, ecc., ecc.
E' causa remota
quella che meno direttamente spinge alla polluzione, come sarebbe il bere e il
mangiare smoderato, lo studio delle questioni veneree, l'ascoltare i peccati al
confessionale([6]) ecc., ecc.
Queste cause
possono essere lecite, venialmente cattive o mortalmente cattive: così, possono
sedurre alla polluzione in modo prossimo o in modo remoto.
Egli è certo:
1° che quegli il quale volontariamente, anche per un istante, si abbandona al
piacere della polluzione, sia pure senza un dato intendimento e per sola causa
accidentale, pecca mortalmente: nessuno negherà ciò; 2° che pecca pure
mortalmente quegli che dà motivo prossimo, diretto, alla polluzione, come
sarebbe, per esempio, toccando o rimirando libidinosamente le proprie o le
altrui parti vergognose in modo che sembri si voglia la polluzione, ancorchè ad
eccitar questa veramente non si miri. Anche questo è evidente.
Esaminiamo ora se
la polluzione prodotta da causa lecita, o solo venialmente cattiva, sia peccato
e quale peccato.
1. Fare
un'azione lecita in se stessa, ma senza necessità o utilità, e che si prevede
ch'essa ecciterà una polluzione, è peccato mortale, perchè si coopera
efficacemente ad un risultato mortale, senza alcuna ragione scusante.
2. Quegli che
per vantaggio proprio o d'altrui fa una azione in sè lecita ma che, per ragione
di sue particolari disposizioni, ha una prossima influenza sulla polluzione,
pecca mortalmente, semprechè esso sia esposto a dare il suo consenso ad un
pericolo prossimo di essa, imperocchè nessuno nega che l'esporsi a tale
pericolo sia peccato mortale, a meno che ci sia la scusa di una grave
necessità.
3. Se poi urge
una grave necessità, e il fine a cui si tende è buono, non v'è peccato,
imperocchè è permesso, per grave causa, fare la polluzione in guisa che ne
conseguano due effetti, uno buono e l'altro no, e che si dia tutto il proprio
assenso al primo, negandolo all'altro. Così un chirurgo, il quale guarda o
tocca le parti genitali d'una donna, sia per curarne una infermità o per
agevolare un parto, si espone certo all'occasione d'una polluzione, ma esso
perciò non pecca, purchè non vi presti consenso alcuno, contuttochè si esponga
ad un prossimo pericolo di acconsentirvi.
4. Non pecca
colui il quale, per sua o per altrui utilità, fa una azione, dalla quale
prevede che ne può seguire una polluzione, alla quale però egli non si mette
nel pericolo prossimo di acconsentire, perchè si suppone ch'egli non provi nè
secondi il male che ne può venire. Così S. Tommaso e in generale i
teologi.
E' permesso di
studiare le cose veneree, per un fine onesto; di ascoltare le confessioni delle
donne: di conversare con esse utilmente e onestamente; di far loro visite; di
abbracciarle decentemente come se fossero parenti; di cavalcare; di usare
moderatamente delle bibite riscaldanti, prescritte dalla salute; servire gli
infermi; metterli nei bagni; esercitare la chirurgia, ecc., benchè si preveda
che ne possa seguire polluzione; ma non ci si deve pensare se non col fermo
proposito di non acconsentirvi e colla fondata speranza di perseverare in
questo proposito.
Se però, per
nessuna utilità o ben lieve, ci fossero da compiere azioni influenti sulla
polluzione, bisogna astenersene; se no, si commetterebbe peccato veniale o
mortale, a seconda della gravita o leggerezza della polluzione che si
provocherebbe. Per esempio: se l'uso del caffè, dell'acquavite, del vino puro,
ecc. non suggerito dalla salute come ordinariamente lo è, eccita in te
polluzione, devi astenerti da esso, sotto pena di peccato veniale se
l'eccitamento è soltanto probabile, e di peccato mortale se, per qualche causa
a te particolare, l'eccitamento è diretto e l'effetto quasi moralmente certo.
5. È peccato
mortale fare un'azione venialmente cattiva, la quale influisca in modo prossimo
sulla polluzione: ciò risulta da quanto or si dirà. Se alcuno, per ragioni di
sua particolare debolezza, è solito provare polluzione guardando
voluttuosamente una donna in qualche parte sensuale del corpo; o toccandole una
mano; premendole le dita; conversando con lei; abbracciandola onestamente, ma
senza una ragione; assistendo a balli, ecc., deve astenersi da tutti codesti
atti sotto pena di peccato mortale.
6. Se dei
peccati veniali in materia di lussuria, e a più forte ragione in altra materia,
influiscono sulla polluzione soltanto remotamente, come, per esempio, se negli
atti or ora esposti essa non avvenga che di rado, la castità non si trova che
venialmente lesa. Quanto al sapere se essa sarebbe mortalmente violata, o nella
polluzione in sè stessa, o nella causa della polluzione medesima, si può
rispondere con una duplice negazione: non nel primo caso, quando si suppone
mancare qualsiasi assenso attuale; non nel secondo caso dell'ipotesi, se
la causa è lieve, e quindi soltanto lievemente influisce sulla polluzione. Così
pensano, con S. Tommaso, molti teologi contro pochi.
7. Un peccato
mortale, diverso dalla lussuria, come, per esempio, l'ira, l'ubriachezza, che solo
remotamente influisce sulla polluzione, non si considera che come un peccato
veniale di lussuria, perchè l'influenza non dovendosi qui riferire che alla
ragione, non può che supporsi essere una influenza lieve. Così S. Lig., l.
3, n. 484, e molti altri dopo di esso.
Evidentemente
si dovrebbe dire il contrario, se questo peccato, per speciali circostanze
annesse, per esempio la sua frequenza, lo si giudicasse influire sulla
polluzione in modo prossimo.
Per polluzione
notturna s'intende quella soltanto che avviene nel sonno. Se il sonno è
imperfetto, la polluzione può essere semi-volontaria, e non ne conseguirebbe
che un peccato veniale. Se poi il sonno è perfetto, la polluzione non è in modo
alcuno volontaria, e non ne deriva peccato: non potrebbe essere peccaminosa se
non nella sua origine.
E' certo che
quegli il quale predispone una cosa colla intenzione che da essa derivi una
polluzione durante il sonno, per esempio, giacendo in letto in un dato modo,
coprendosi ben bene, palpeggiandosi, ecc., pecca mortalmente.
Eccettuati
questi casi, si deve esaminare quale sia la causa della polluzione notturna e
come essa influisca sulla polluzione stessa.
Triplice è la
causa secondo S. Tommaso, 22, q. 154, art. 5, ed altri teologi:
corporale, spirituale intrinseca e spirituale estrinseca.
I. Cause
corporali sono:
1. La
sovrabbondanza di materia seminale, della quale la natura, troppo gravata, si
scarica colla emissione spontanea;
2. Le immagini
della fantasia provenienti dalla stessa sovrabbondanza di materia seminale, o
da altra disposizione di corpo;
4. I motivi che
sciolgono il seme, come, per esempio, l'equitazione, la vista di cose lascive,
o il pensare ad esse nella veglia;
5. Un certo
prudore di umori, un sangue molto caldo, i nervi irritabili, i palpeggiamenti
nei sogni, la morbidezza del letto, ecc.;
6. La debolezza
degli organi, che può nascere da un difetto di costruzione, o dalla contratta
abitudine alla polluzione; debolezza che frequentemente provoca uno spargimento
di seme che spesso reca grave nocumento alla salute.
II. La causa
spirituale intrinseca, che S. Tommaso chiama animale, perchè
risiede nell'anima, è il pensiero, prima del sonno, di cose lascive; e vi si
comprendono i desideri, le protratte fantasie voluttuose, i cattivi discorsi,
il frequentar donne, l'assistere a spettacoli e a balli, la lettura di libri
osceni, ecc.
III. La causa
spirituale estrinseca è opera del Demonio, il quale — secondo S. Tommaso
e tutti gli altri dottori — illudendo la immaginazione e commovendo gli spiriti
genitali, eccita la polluzione. Questo genere di polluzioni, quando provengono
da causa estranea alla volontà, e se vi manca il consenso attuale, non
si possono imputare a peccato.
Similmente non
sono peccati le polluzioni che avvengono nel sonno per naturale sovrabbondanza
di umore simile, per debolezza di organi, per disposizione nervosa, o per il
non soddisfacimento d'un'abitudine, semprechè non nascano con deliberato
proposito e non sieno perciò in alcun modo acconsentite.
Nelle altre
polluzioni è da esaminare se la loro origine sia lecita, se venialmente o
mortalmente cattiva, se prossimamente o remotamente influente su di esso: per
ciò si giudicherà prudentemente se vi sia peccato e quale peccato sia. Se una
cosa, benchè lecita, influisca prossimamente sulla polluzione, non basta la sua
utilità, ma richiedesi la necessità, affinchè possa la cosa essere scusata: ove
poi l'influenza sia remota, basta una semplice scusa ragionevole.
Si domanda: 1. Cosa deve
fare chi, svegliandosi, si avvede di aver compiuta una polluzione.
R. Deve elevare
la mente a Dio, invocarlo, fare il segno della santa croce, non compiere cosa
alcuna che provochi in seguito l'emissione del seme, rinunciare ad ogni
voluttuoso diletto: così operando, può stare colla coscienza tranquilla: ma
egli però non è obbligato a far resistenza all'impeto della natura, qualora ei
senta che nei vasi spermatici la secrezione dell'umore è già avvenuta; in
questo caso è una necessità che l'emissione, subito o no, abbia luogo,
altrimenti il seme, già uscito dai reni, si corromperebbe internamente a
detrimento della salute.
Si domanda: 2. Se sia
permesso compiacersi della polluzione non colpevole, in quanto essa è di
sollievo alla natura, o desiderarla sotto questo rispetto.
R. Generalmente
i dottori insegnano essere lecito compiacersi dei buoni effetti della
polluzione involontaria, sia avvenuta nel sonno, sia nella veglia, perchè sotto
questo riguardo, essa non dà un risultato cattivo. E un maggior numero di
dottori e con maggiori probabilità insegnano essere lecito per le stesse
ragioni, compiacersi di un tale effetto, che la polluzione deve produrre.
Ma è lecito
compiacersi della polluzione, volontariamente compiuta o da compiersi,
considerandola come un sollievo della natura? Molti affermano, e dicono che da
nessuna legge essa è proibita: così S. Tommaso, in 4, Sent. tit. 9, q. I,
art. I, dice: «Se la polluzione si gradisce come una scarica o un sollievo
della natura, non credesi che sia peccato.» Si avverta che non dice se si
gradisce l'effetto della polluzione ma se si gradisce solo la polluzione.
Questa opinione sembra a noi molto probabile in teoria, ma molto pericolosa in
pratica, e non è quindi a tollerarsi.
Si domanda: 3. Che si
deve dire del gocciolìo!
R. Il gocciolìo
è una lenta emissione di seme imperfetto o di consimile umore vischioso, senza
che vi siano movimenti gravi di concupiscenza. Se ha luogo senza piacere
venereo, come se proviene da debolezza d'organi o dal diletto di un prurito
insopportabile, lo si deve considerare come si considera l'emissione del
sudore: così dicono Cajetanus e i teologi in generale. Ma se avviene
volontariamente e copiosamente, o con una notevole commozione degli spiriti
genitali, è peccato mortale, perchè implica il pericolo prossimo della
polluzione. Così Sanchez, S. Liquori, ecc. Se poi avviene in
modica quantità, senza piacere e senza commozione notevole dello spirito, o non
è peccato, se la causa risiede nella ragione e nella utilità, o, tutt'al più, è
peccato veniale. Ciò è conseguenza di quanto abbiam detto della polluzione
indirettamente voluta.
Si domanda: 4. Se sia
permesso, per opera di medicamenti prescritti dai medici, sciogliere ed
espellere il seme morboso, già sciolto dai reni, e perciò implicante pericolo
di vera polluzione.
R. Generalmente
i dottori lo affermano, purchè ciò tenda solo a provvedere alla salute, e la
polluzione non sia direttamente eccitata, nè desiderata, nè che vi si
acconsenta allorchè avviene all'infuori del desiderio, e infine che il seme sia
veramente diventato morboso. Così Sanchez, Layman, S. Liquori,
ecc., contro P. Concina, Bonacina, La Croix, De Lugo,
e molti altri.
Questi
movimenti sono certe commozioni delle parti genitali che più o meno dispongono
alla polluzione. Possono essere gravi o lievi: sono gravi se inducono un
pericolo prossimo di polluzione; lievi, se il contrario.
E' peccato
mortale il compiacersi volontariamente in questi movimenti, ancorchè sieno
lievi e nati involontariamente, imperocchè v'ha qui un piacere venereo che
probabilmente non implica leggerezza di materia, ed induce nel grave
pericolo di andare più oltre. A più forte ragione sarebbe peccato mortale
l'eccitarli deliberatamente Vanno poi immuni da peccato, se essi non dipendono
dalla volontà nè in se stessi, nè nella loro causa, come spesso avviene, e se
non vi si acconsente menomamente. Ove poi la causa di essi sia stata deliberatamente
predisposta, bisogna considerarli come polluzione indirettamente voluta, con
questa differenza, che la polluzione è sempre una cosa grave, mentre i
movimenti possono essere talmente leggeri e così lontani dal pericolo di
polluzione, da doversi considerare come piccoli peccati, poco curandosi altresì
della loro origine, purchè questa sia onesta.
Or si domanda
specialmente, cosa si debba fare quando tali movimenti nascono senza colpa.
E' certo, come
già dicemmo, che non si può acconsentire volontariamente ad essi se non
peccando mortalmente. Ciononpertanto, non conviene opporre ad essi una forte
resistenza, imperocchè in allora lo stesso ritegno infiamma la fantasia e per
relazione simpatica, eccita maggiormente gli spiriti genitali. La cosa più sicura
è dunque quella d'invocare con calma Iddio, pregare la Beata Vergine, l'Angelo
custode, il proprio patrono egli altri santi, fuggire gli oggetti pericolosi,
distogliere tranquillamente il pensiero da idee oscene e portarlo su altre
cose, applicarsi seriamente ad affari diversi e in ispecial modo a quelli che
maggiormente distraggono.
Si domanda se il rimanere
indifferente ai movimenti di concupiscenza nati involontariamente, nè
approvandoli, nè disapprovandoli, sia peccato e quale peccato.
R. 1. Tutti ritengono
che tale indifferenza è almeno un peccato veniale, perchè il pensiero sarebbe
obbligato di provare della ripugnanza pei movimenti disordinati della
concupiscenza.
2. Sanchez,
S. Liguori, l. 5, n, 6, e molti altri dicono che questo peccato, escluso
il pericolo prossimo di polluzione, è solamente veniale, perchè — dicono — i
movimenti disordinati devono essere respinti per la ragione che è a tenersi
inducano alla polluzione o sveglino il consenso della volontà al piacere
venereo Ora, se pericolo non esiste od è remoto, l'obbligo d'evitarlo non è
grave: ma essi affermano che, sotto pena di peccato mortale, c'è l'obbligo di
resistere positivamente non foss'altro per senso di rincrescimento, se vi ha
pericolo prossimo o di cadere nella polluzione o di acconsentire al piacere
venereo.
Altri
generalmente insegnano che la indifferenza da un lato congiunta d'altro canto
con una piena attenzione a questi movimenti disordinati, benchè sieno lievi, è
peccato mortale, tanto per la loro disordinatezza, quanto pel pericolo che vi
ha di acconsentirvi. Così Valentia, Lessius, Vasquez, Concina,
Billuart, e nella pratica Habert, Collet, P. Antoine,
Dens, ecc.
E' cosa
pericolosa il trasgredire in pratica questa sentenza, benchè il parere
contrario, considerato teoreticamente non manchi di probabilità: richiedesi
dunque che un positivo rincrescimento, almeno virtuale risieda nel pensiero,
verso questi movimenti disordinati, sorti all'infuori della volontà,
Questo
rincrescimento si ha come sufficiente, quando la volontà opponesi con fermo
proposito al piacere venereo, disdegna i movimenti voluttuosi e si rivolge ad
altro.
Quanto or s'è
detto, non lo intendiamo detto per coloro che scrupolosi per un nonnulla, sono
troppo solleciti a tormentare la propria coscienza, affannosamente scrutando se
abbiano o no prestato un consenso, molto più che, così operando, non fanno che
esporsi viemaggiormente agli stimoli della carne e perpetuarne quasi la loro
efficacia: abbiano costoro il fermo proposito di vivere sempre castamente, sdegnino
i movimenti disordinati e non si preoccupino menomamente delle regole che
soglionsi seguire negli esami di coscienza e nella confessione; l'esperienza
prova essere questo il mezzo più sicuro e più breve per liberarsi da scrupoli
mal fondati.
Non vi ha vizio
più nocivo, sotto qualunque aspetto, ai giovani, e specialmente se maschi, di
quello della polluzione, imperocchè, presi da questa prava consuetudine,
indurano lo spirito, inebetiscono, dispregiano la virtù, disdegnano la
religione; la loro indole diventa malinconiosa, incapace di energia, inetta a
qualsiasi proposito tenace; le forze del corpo mancano, gravi infermità
sopravvengono, si appalesa una caducità prematura, e spesso si muore di morte
vergognosa.
Gli spaventosi
effetti della masturbazione, descritti da Ippocrate, ce li
riferisce Buchanan, t. 4, p. 567: «Questa malattia nasce dal midollo
spinale; essa colpisce i giovani sposi ed i libidinosi; non hanno febbre, e,
benchè mangino bene, dimagrano e si consumano; par loro di sentire come un
formicolìo scendere dalla testa lungo la spina dorsale. Ogniqualvolta essi
emettono gli escrementi ed orinano, perdono abbondantemente un umore seminale
acquoso; sono inetti alla generazione; spesso, nei loro sogni, sono intenti
all'atto venereo; le passeggiate, specialmente lungo le strade faticose, li
scalmanano, li prostrano, e procacciano ad essi pesantezza di capo e susurrii
nelle orecchie; infine una febbre acuta termina i loro giorni.»
Egualmente Aretes,
medico greco, vivente al tempo di Trajano, dice, l. 2, c. I; «I giovani,
dediti a questo vizio, vanno soggetti alle malattie e alle infermità dei
vecchi; diventano pallidi, lascivi, cupidi, sfibrati, pigri, stupidi, ed anche
imbecilli; il loro corpo s'incurva, le loro gambe più non li reggono; sono
malcontenti di tutto, inabili a tutto, e molti cadono nella paralisia.»
Questi giudizii
fondamentali, tramandatici da medici antichi, sono ammessi pure da tutti i
medici più recenti, e vengono confermati da un'infinità di fatti, di cui noi ne
riferiremo alcuni.
Hoffman, celebre
professore di medicina in una università della Germania, nel suo Trattato Delle
malattie provenienti dall'abuso dei piaceri dell'amore, riferisce «che un
giovane di 18 anni, il quale amoreggiava carnalmente con una fantesca, fu colto
tutto ad un tratto da debolezza e da fremito generale in tutti i suoi membri;
aveva il viso rosso e i polsi debolissimi. In brev'ora si riuscì a toglierlo a
questo stato, ma egli restò sempre afflitto da un languore generale.»
Tissot, Dell'onanismo,
p. 33, così descrive un giovane, pel quale fu richiesta la sua cura:
«La prima volta
ch'io vidi questo disgraziato, ne fui spaventato.
«Sentii più che
mai allora la necessità di dimostrare ai giovani l'orrendo precipizio nel quale
volontariamente si gettano, abbandonandosi a questo vizio vergognoso.
«L. D*,
orologiaio, fu savio e prosperoso fino all'età di 17 anni. A quest'epoca si
abbandonò alla masturbazione, ch'egli replicava consecutivamente perfino 3
volte; l'emissione del seme era sempre preceduta e accompagnata da un leggero
offuscamento del pensiero e da un movimento convulsivo nei muscoli estensori
della testa, i quali la tiravano indietro, mentre che il suo collo gonfiavasi
straordinariamente
«Non era ancora
trascorso un anno, ch'egli cominciò a sentire una grande debolezza dopo ogni
polluzione; la sua immaginazione, tutta in balìa a queste oscenità, non era più
capace d'altre idee; e la rinnovazione dei suoi atti colpevoli divenne ogni
giorno più frequente, fino a che si trovò in uno stato che faceva temere che
morisse.
«Troppo tardi
egli se ne impensierì; il male era già andato troppo oltre, ed egli non poteva
più essere guarito; le parti genitali eransi fatte così irritabili e così
deboli che, anche senza l'azione sua personale, i vasi spermatici vuotavansi da
sè. La menoma irritazione provoca all'istante il più completo eretismo, il
quale era immediatamente seguito da un'emissione di seme, ciò che aumentava
quotidianamente la sua debolezza.
«L'organo
ch'egli, sulle prime, non provava che durante la polluzione, e che cessava con
essa, divenne abituale, e ne era preso spesso senza alcuna causa apparente, in
modo sì violento che, durante l'accesso, che talora durava 15 ore e non mai
meno di 8, provava in tutta la parte posteriore del collo dei dolori così
forti, che ordinariamente gli strappavano non dei gridi, ma degli urli; e in
questo frattempo non gli era possibile mandar giù per bocca alcunchè di liquido
o di solido.
«La sua voce
era diventata rauca; la respirazione, impedita; le forze gli mancarono
totalmente.
«Obbligato a
rinunciare alla sua professione, inetto a tutto, oppresso dalla miseria,
languì, quasi senza soccorso alcuno, per qualche mese: povero disgraziato! tanto
più da compiangere, in quanto che, un resto di memoria (che non tardò però a
svanire) era ancor là per rammentargli continuamente le cause del suo malore,
accrescendolo con tutto l'orrore dei rimorsi!
«Informato del
suo essere, mi recai presso di lui; più che un individuo vivente, trovai un
cadavere sdraiato su un pagliariccio, magro, pallido, sudicio, puzzolente,
quasi incapace d'ogni movimento: spesso gli colava dal naso un sangue smorto e
acquoso; e continuamente gli usciva dalla bocca una bava. Colto da diarrea,
egli emetteva gli escrementi in letto, senza addarsene. Lo spargimento
dell'umore seminale era continuo; i suoi occhi caccolosi, torbidi e spenti, non
avevano più la facoltà di girare; il polso era estremamente debole, ma pronto e
frequente; la respirazione, molto imbarazzata; la magrezza, estrema, eccettuati
i piedi, i quali cominciavano a diventare tumidi, molli e seriosi.
«Il disordine
dello spirito non era minore: non aveva più idee, più memoria; inetto a leggere
due frasi; senza riflessione, senza inquietudine sulla sua sorte; non aveva
altra sensazione che quella del dolore, la quale lo assaliva penosamente, ogni
tre giorni almeno. Era un essere molto al di sotto del bruto, ed offriva in sè
uno spettacolo, di cui è difficile immaginare tutto l'orrore. Molto a stento si
poteva riconoscere ch'egli una volta aveva appartenuto alla specie umana...
Morì dopo poche settimane (giugno 1757) col corpo ch'era tutto un tumore molle
e sieroso.»
E Buchan, t.
2, p. 202, dice: «La maggior parte dei giovani che si dànno alle donne e al
vizio vergognoso della masturbazione, non vi rinunciano ordinariamente se non
quando le forze ad essi più non lo permettono, ma allora la malattia è già
diventata incurabile. Io ho visto di ciò un esempio eloquente in un giovane di
22 anni, il quale, malgrado i consigli di savie persone, e di persone che
pareva esercitassero maggior autorità su di lui, perdurò costantemente nella
mala abitudine, e vi si abbandonava perfino in quel tempo nel quale i medici lo
sottoponevano ad una cura per guarirlo dalla malattia. Egli morì miseramente,
senza che gli si sia potuto procurare un sollievo.»
I confessori
dunque devono colle cure più sollecite tentare di prevenire questa pessima
abitudine o di svellerla in coloro ch'essi stimano l'abbiano già contrata. Si
guardino bene però, interrogando i giovani, e spcialmenmte le fanciulle, di non
maliziare imprudentemente la loro immaginazione e di non essere causa, come
spesso avviene,([7])
di lussuria nei penitenti. Meglio sarebbe esporsi al pericolo di non ottenere
una confessione intera, che contaminare delle anime od offenderla a scapito
della religione.
Per scoprire,
senza pericolo, se vi abbia polluzione, giova procedere in questo modo:
interrogare dapprima il penitente sui pensieri, sui discorsi lascivi, sulle
nudità al cospetto di altre persone, sui toccamenti compiuti sopra se stessi o
sopra altri, ovvero compiuti da altri su noi con nostro assenso. Se il
penitente non è ancor giunto alla pubertà, non dev'essere interrogato intorno
alla polluzione, imperocchè è probabile ch'egli non la conosca, a meno che la
di lui corruzione non appaia manifesta da evidenti indizî. Se egli è poi
pubere, ed abbia avuto contatti impudichi con altre persone, specialment se
questo avevano più anni di lui, ovvero se abbia giaciuto in letto con esse, è
moralmente certo che avvenne spargimento di seme, ed è facile capire che ci fu
polluzione. Non pertanto, il confessore può domandare, senza commetere
imprudenza: «Avete voi provato dei movimenti nel corpo (o nella carne?) e un
piacere giocondo nelle vostre parti segrete e una cessazione di quei movimenti
appena cessato il piacere?» Se il penitente risponde affermativamente, è
ragionevole l'ammettere che ci fu polluzione, imperocchè la vivacità di quei
movimenti, congiunta a quel dato piacere, indica chiaramente che ci fu
effusione di seme.
Nei maschi,
l'effusione è sempre esterna: ma nelle femmine, se è vero — come sembra
probabile — ch'esse non abbiano sperma, la polluzione si effettuerebbe in altro
modo. Per causa di movimenti disordinati, si verifica spesso nelle donne un
flusso interno e ben raramente esterno, di una specie di umore mucoso, che
facilmente si spiega riflettendo che esse provano una sensazione vivamente
voluttuosa. Peccano mortalmente le donne che eccitano in sè questo flusso o
questi movimenti venerei, oppure volontariamente se ne compiacciono. Ma il
confessore, saputi con discrezione da una penitente questi movimenti e contatti
libidinosi, deve cautamente astenersi da ulteriori interrogazioni offensive al
pudore.
Se si ascolta
un maschio che abbia fatto delle oscenità con altri più in età di lui, siccome
è probabilissimo ch'egli li abbia visti ad emettere l'umore seminale, così e
permesso chiedergli se abbia provato qualche cosa di simile anch'esso.
Alla polluzione
chiaramente verificata bisogna applicare convenienti rimedi: fisici e morali. I
rimedi fisici possono essere utili per guarire dalle pulluzioni volontarie e
involontarie; essi consistono in una grande temperanza, in un riguardoso metodo
di vita, nell'astinenza da alimenti calorosi e da liquori molto spiritosi, nel
far uso di acqua e di latte, giacere su letto non soffice e dormirvi poco,
immergersi in bagni freddi, ed altri rimedi che i medici sogliono suggerire, ma
che però raramente sono efficaci. I rimedi morali sono specialmente, il fuggire
gli oggetti che sogliono indurre nella mente idee lascive, il vegliare sopra sè
stessi; padroneggiare i sensi; mortificare la carne; meditare sui mali che
provengono dall'abitudine delle polluzioni; pensare alla morte, al giudizio di
Dio, all'inferno, all'eternità; fuggire l'ozio, la taciturnità, la solitudine;
pregare e frequentare confessori, ecc., ecc.
I confessori
possono anche prudentemente consigliare ai giovani molto corrotti la lettura di
llbri, scritti su tale argomento da medici, come, per esempio, l'Onanismo
del Tissot, e meglio ancora l'opuscolo del Doussin-Dubreoil,
intitolato: Pericoli dell'Onanismo: quest'ultimo libro può essere
indicato, come rimedio, ai giovani corrotti, senza pericolo alcuno.
L'esecranda
abitudine della masturbazione, se è inveterata fa veramente disperare i
confessori; ed è infatti assai difficile il giudicare prudentemente se possano
o debbano essere ammessi al sacramento della Penitenza e della Eucaristia quei penitenti
che si danno in balìa a questo vizio: è a temersi finalmente che, trattandoli
severamente, non si accostino più ai sacramenti e si facciano peggiori:
trattandoli d'altra parte con soverchia indulgenza, potrebbero addormentarsi
placidamente nel fango di cotesto vizio. E' necessario per ciò usare somma
prudenza e gran zelo, affinchè questi infelici penitenti s'accostino di
frequente al sacro tribunale della penitenza per esempio, ogni settimana, si
dolgano delle colpe commesse, e rinnovino sovente il buon proposito di non più
peccare.
Bisogna star
bene attenti se le ricadute avvengono: 1° per malizia, trascuranza o difetto di
volontà; 2° ovvero per infermità o violenza di tentazione. Nel primo caso, si
deve differire l'assoluzione fino che appaia una vera emenda; nel secondo,
questi disgraziati penitenti, lottanti contro una tirannica libidine, e
veramente contriti, devonsi soccorrere ammettendoli alla grazia
dell'assoluzione e della sacra Eucaristia.
Con queste
norme si diminuiranno a poco a poco le ricadute e si cancellerà l'abitudine.
Diversamente, un soverchio rigore li allontanerebbe dai sacramenti, li
getterebbe nel baratro della corruzione, e non splenderebbe più speranza alcuna
di emendamento. Perciò sarebbe cosa eccessiva e spesso pericolosa una
sospensione dei sacramenti per due mesi, senza una nuova ricaduta, come
vogliono Juenin, Collet e pochi altri. — S. Liquori, t. 6, n.
463 e molti altri dopo di lui pensano che la sospensione anche di un solo
mese è troppo lunga, e che per ciò l'assoluzione in questi casi non deve essere
differita oltre gli otto, i dieci o, al sommo, i quindici giorni, semprechè
v'abbiano segni di vero pentimento. Non si può tuttavia determinare, come norma
generale, il tempo della dilazione: dipenderà dalla prudenza del confessore
accorciarlo o allungarlo secondo che stimerà più conveniente alla correzione
del penitente. Si avverta bene però, che quei poveri peccatori che desiderano
sinceramente di salvarsi, non devono essere messi a fascio cogli induriti nella
colpa, nè gettati nella disperazione da una intempestiva severità: a ciò devono
star bene attenti i confessori e agire con somma prudenza.
Talvolta devesi
consigliare il matrimonio a coloro che possono contrarlo, essendo esso l'unico
rimedio, o almeno il più efficace.
Si deve
procedere poi colla massima cautela quando si ha a fare con giovani che stanno
per far voto di perpetua continenza. Coloro che sono ingolfati nel vizio della
polluzione abbandonandovisi di frequente, ordinariamente prometterebbero di
darsi alla castità emettendo un voto spensierato, non maturato, imprudente;
essi devono per ciò essere dissuasi dalla professione religiosa e molto più
dallo stato clericale, a meno che non dieno segni straordinari di conversione,
e colla lunga prova di molti anni dimostrino fermezza di proposito ed offrano
pegno di perseveranza.
Articolo II. — Della sodomia. — Quella
mostruosa nequizia, che prende il nome dagli abitanti della città di Sodoma, è
così definita da S. Tommaso, 2, 2, q. 154, art. II: Accoppiamento carnale,
usando indebitamente del sesso, come fra uomo e uomo, fra donna e donna.
La enormezza di
questa iniquità è potente:
1. Per l'orrore
che eccita universalmente;
2. Per la sua
deformità, vera e manifesta;
3. Per le
punizioni inaudite, inflitte da Dio alle cinque città insozzate da questa
contaminazione (Gen., cap. 19);
4. Per
l'epistola di S. Paolo ai Romani, l. 18 e seg., che dice, essere stati
dati in balìa i Pagani a passioni ignominiose, ad azioni sconvenienti, a brame
ardenti, tra femmine e femmine, tra maschi e maschi, in punizione della loro
superbia;
5. Per le gravi
pene decretate nel Diritto canonico, e specialmente nella bolla Horrendum
illud scelus di Pio V contro i preti sodomi;
6. Per lo zelo
veemente con cui tutti i santi Padri della Chiesa inveirono contro questo
delitto. — S. Ciro, nell'omelia 14, epist. ai Rom., fulmina i sodomiti
colla sua eloquenza, e prova essere essi assai più bruti dei cani.
Non importa
sapere ove avvenga il contatto venereo fra maschi o fra femmine, se cioè nelle
parti davanti o nelle parti di dietro, o in qualsiasi altro posto del corpo,
imperocchè la peccaminosità della sodomia consiste nella voglia di usare
indebitamente del sesso, e, generalmente, è compiuta, per esempio,
coll'applicazione della propria parte genitale al corpo di persona di eguale
sesso, giacendo assieme come se si trattasse di far un accoppiamento carnale.
Perciò non si reputa sodomia, perchè non vi sarebbe concubito, la semplice
applicazione delle mani, dei piedi o della bocca alla parte genitale
dell'altro, benchè avvenge la polluzione nell'una e nell'altra persona.
La sodomia
implica la malizia che è nell'adulterio, nell'incesto, nel sacrilegio, secondo
che i sodomiti sieno coniugi, consanguinei, affini, o consacrati a Dio.
Non pochi teologi
dicono che il penitente è tenuto a dichiarare se nell'atto della sodomia è
stato attivo o passivo, perchè altro è lasciarsi volontariamente sodomitare,
altro è prender parte attiva alla sodomia in altrui.
Nel caso poi
dell'uomo, passivo — e della donna, attiva, lo invertimento della natura
sarebbe ancor più grave.
Molti autori
però, con maggior probabilità, negano essere necessaria la dichiarazione di
queste particolarità essendo sufficentemente indicata la qualità del peccato
dalla semplice confessione del fatto. Così pensa puranco il P. Concina,
non sospetto di soverchia indulgenza.
Siccome in
questa materia è convenientissimo evitare le questioni superflue, così noi ci
asteniamo sempre da simili interrogazioni.
V'ha una specie
di sodomia, che può accadere anche fra persone di sesso diverso, quando il
commercio carnale avviene all'infuori dell'accoppiamento delle parti genitali,
per esempio, quando si mettono in opera la parte deretana, la bocca, le
mammelle, le coscie, ecc. Benchè questo genere d'infamia non sia punito
egualmente come la sodomia propriamente detta, è certo ch'esso è sempre una
grande ignominia contro natura.
Nella nostra
diocesi entrambe codeste sodomie, ancorchè non consumate, ma solo tentate con
qualche atto che condurrebbe ad esse, è un caso riservato.
Articolo III. — Della
Bestialità. — La bestialità è l'unione carnale con un essere che non è
della specie umana. Così S. Tommaso. Esso è un gravissimo peccato,
secondo il Levit. 20, 15 e 16, che dice: «Chiunque si accoppierà carnalmente
con un giumento o con una pecora, sarà punito colla morte: sarà uccisa eziandio
la bestia. La donna che si sarà accoppiata con un giumento, muoia con esso. Che
il loro sangue ricada sul loro capo.»
Questo nefando
delitto, essendo, secondo le regole della ragione, assai più esiziale di quanti
altri sono peccati contro la castità, è reputato gravissimo ed è da tutti
abborrito. Un tempo le leggi civili condannavano alle fiamme assieme alla
bestia colui che non si vergognava di perpetrare tanta nequizia. Oggi, il
colpevole di questo o di consimile delitto, perpetrato in pubblico, verrebbe
condannato alla pena del carcere e ad una multa pecuniaria.
La diversa
specie e il diverso sesso degli animali non mutano la natura del peccato,
imperocchè la malvagità di esso risiede nel disordine contro natura. Non è
quindi necessario enunciare in confessione la specie, il sesso o altre qualità
della bestia, ma soltanto se il delitto fu consumato colla effusione del seme,
ovvero se fu solo tentato. In qualunque modo, è questo, nella nostra diocesi,
un caso riservato.
Tutti i teologi
parlano dell'unione con il Demonio in forma d'uomo, di donna o di animale,
ovvero raffigurato semplicemente nella immaginazione, e dicono essere consimile
tale peccato al peccato della bestialità, e siccome esso implica una malizia
particolare, deve questa essere confessata; la malizia è qui una
superstizione consistente in un patto con il Demonio. In questa nefandezza
rinvengonsi necessariamente due specie di malizia, una contro la castità,
l'altra contro la religione. E' chiaro poi, che se un atto sodomitico si compie
col Demonio sotto la forma apparente d'uomo, è questa una terza specie dello
stesso peccato. Se il Demonio si presenta sotto l'aspetto d'una consanguinea o
di una donna maritata, vi ha incesto o adulterio; se invece sotto l'aspetto di
un animale, vi ha bestialità.
L'orrore che
ispira un fatto incredibile, quale è quello del congiungimento carnale col
cadavere di una donna, ci costringe a chiedere in quale categoria di peccati si
deve porre tale congiungimento.
Alcuni vogliono
riporlo fra i peccati di bestialità, altri fra quelli di fornicazione, ed altri
finalmente fra i peccati di polluzione. E' tanto orribile questo delitto che,
messa in disparte la questione speculativa, a noi sembra chiaro che la
circostanza della donna morta devesi necessariamente dichiarare in confessione,
come devesi dichiarare se questa donna, in vita, era una consanguinea,
un'affine, una donna maritata, o una professante voto religioso.
E' lussuria non
consumata quella che non va fino alla emissione dell'umore seminale. E'
lussuria non consumata: i pensieri voluttuosi; i baci, i contatti e gli sguardi
impudichi; gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono
indecenti; i discorsi e i libri osceni; le danze, i balli e gli spettacoli.
Di queste cose
tratteremo brevemente dal punto di vista pratico.
— Sotto questo
titolo comprendonsi tutti i pensieri cattivi in fatto di lussuria, cioè,
desiderî, compiacenze e voluttà della immaginazione.
Il desiderio
lussurioso è un atto della volontà che accenna ad un'azione cattiva, per
esempio, alla fornicazione, o che cerca veramente di compierla, e allora il
desiderio si chiama efficace. Il desiderio è invece inefficace
quando, pensando al conseguimento di una data cosa, si dice fra sè, per
esempio: «Io vorrei fornicare con quella tal persona», sapendo che ciò è
impossibile. Il desiderio dunque riguarda sempre il futuro.
La compiacenza
lussuriosa al contrario riguarda sempre il passato, ed è la soddisfazione nel
ricordare una cattiva azione, come, per esempio, il compiacersi ricordando
cattivi discorsi o un congiungimento carnale. Della stessa specie è il
rincrescimento di non aver fatto, in una data occasione, una cosa cattiva, per
esempio, sedotta una ragazza, allorchè si viene a sapere che sarebbe stato
facile il sedurla.
La voluttà
immaginativa([8]) (pensieri voluttuosi è il
libero compiacimento in una cosa cattiva che il pensiero s'immagina reale,
senza però che vi sia il desiderio di effettuarla; per esempio, allorchè colla
immaginazione si finge di fornicare; e senza aver l'intenzione di compiere
realmente l'atto, ci compiaciamo, con libero assenso, nella sua apparente
illusione.
Questa dilettazione
dicesi morosa([9]),
non per la durata reale del compiacimento, poichè basta un unico istante per
consumare internamente ll peccato, ma perchè il pensiero si sofferma e riposa
su qualla idea, che si sa essere peccato.
Ciò detto:
1. E' certo che
il desiderio d'una cosa cattiva é peccato della stessa indole e della stessa
specie della cosa che si desidera, perchè la volontà è la sede del peccato; e
dove esiste desiderio di conseguire una cosa cattiva, la volontà è piena.
Da ció consegue
che questo peccato si specifica considerandone l'oggetto. Le qualità
dell'oggetto dasiderato e le sue circostanze che mutano la specie del peccato,
o lo aggravano senza mutarnè la specie, devonsi dichiarare in confessione; per
esempio, l'aver desiderato una consanguinea o una affine è una circostanza da
dichiararsi unitamente al grado della consanguineità o della affinità,
ancorchè, per un'astrazìone dèlla mente, si sia desiderato l'abbracciamento
carnale senza badare al vincolo di consanguineità o di affinità, imperocchè la
malizia dell'incesto non può essere, per astrazione, separata dall'oggetto ma
la cosa sarebbe altrimenti, se il penitente ignorasse la circostanza della
consanguineità o dell'affinità.
Non basta
dunque che il penitente dica in generale d'aver avuto cattivi desideri, d'aver
desiderato cose impure: egli deve specificare ciò che ha desiderato, cioè se
desiderò l'accoppiamento carnale, o dei semplici contatti o il solo atto di
guardare, con una persona in genere, e di qual sesso, ovvero, se con una
determinata persona, libera, o in qualche modo vincolata, ecc.
2. Non è meno
certo che il libero compiacimento della volontà sopra un atto di lussuria di
già avvenuto, implica la malizia contenuta nell'atto stesso, imperocchè la
volontà abbraccia l'intero oggetto rivestito di tutte le sue circoetanze, e
perciò si presenta rivestita di tutta la malizia. Dicasi lo stesso, — ed è
evidente, — se alcuno si duole di non aver fatto cosa cattiva in un'occasione
passata.
3. È egualmente
certo essere peccato mortale il libero compiacersi della mente in una cosa
venerea che la immaginazione si figura come reale. In questo caso, la cosa è
mortalmente cattiva. e quegli che con libero consenso aderisce ad essa, per
esempio, figurandosi di fornicare realmente contraviene per ciò stesso alla
legge di Dio.
Nel libro Della
Sap., l. 3. leggesi: «I pensieri cattivi separavo da Dio;» e nei Proverbii,
4, 23: «Poni ogni cura a conservare intatto il tuo cuore.»
Molti autori
dicono che la dilettazione morosa non si qualifica per l'oggstto
esteriore, ma per l'oggetto raffigurato nella mente; ed in ciò differisce dal desiderio.
La ragione di questa differenza è, che il desiderio mira l'oggetto reale
e trae con sè necessariamente tutte le note malizie ad esso inerenti,
indipendentemente da qualsiasi particolare astrazione, mentre la semplice dilettazione
risiede nel semplice oggetto immaginato. Perciò, quegli che volontariamente si
diletta nel pensiero dell'abbracciamento carnale con una donna maritata,
consanguinea, affine, o monaca considerandola però semplicemente come femmina,
e non altro, probabilmente non cade nella peccaminosità dell'adulterio,
dell'incesto o del sacrilegio. Così C. De Luogo, Bonacina, Layman
ed altri non pochi citati da S. Liquori, l, 5 n. 15, il quale dice
essere questa opinione assai probabile. Ciononpertanto, molti altri asseriscono
essere più probabile l'opinione opposta, imperocchè ad essi non sembra fondata
l'esposta differenza fra il desiderio e la semplice dilettazione,
e dicono che questa, come quello, abbraccia tutto l'oggetto non ostante le
astrazioni che può aver fatto la mente. Così S. Antonino, Cajetanos,
Lessius, Sanchez Suarez, Sylvius, P. Antoine,
Collet, Dens, ecc.
Entrambe le
opinioni sona probabili, la seconda o è più sicura, ma è spesso difficile
ottenere dai penitentl la confessione delle circostanze annesse all'oggetto
pensato; allora i confessori prudenti, appoggiati alla prima opinione, devono
astenersi da importune domande.
4. Quegli che
s'avvede di dilettarsi in una cosa venerea, presente alla sua immaginaz.one, e
la tollera con indifferenza, probabilmente pecca mortalmente, abbenchè non
provi movimenti disordinati, imperocchè aderisce in un certo modo alla cosa
cattiva, o almeno si espone al grave pericolo di aderirvi. Tale è, pratica,
l'opinione di tutti i teologi.
5. Giova notare
la rilevante differenza che corre fra il pensiero di una cosa cattiva e la
dilettazione in una cosa cattiva. Ci spiegheremo con un paragone: quegli
che volontariamente si diletta, si compiace d'un omicidio che a sua
immaginazione gli presenta come affettivo, certo pecca mortalmente. Ma quegli
che semplicemente pensa o parla d'un omicidio perpetrato o da
perpetrarsi da altri non pecca perciò. Dicasi lo stesso circa le cose
impudiche: la semplice idea di questo o quel piacere impudico, non è
peccato in sè, come non è peccato il riflettere ad esso; il ricordarlo,
prevederlo. Se fosse altrimenti, i medici, i teologi, i eonfessori, i
predicatori, che su questa materia studiano o scrivono, parlano o discutono,
necessarimente peccherebbero: il che nessuno ammette.
Vi ha però
questa differenza fra il pensiero d'un omicidio o d'altra consimile cosa
cattiva e il pensiero d'una cosa impudica, che, cioè, quest'ultimo è sempre
pericoloso in causa della nostra naturale concupiscenza; non è così dell'altro,
perchè in noi non esiste una naturale propensione verso di esso. Per ciò, è
peccato veniale, o mortale secondo il pericolo, l'immaginare cose oscene, a
meno che ciò non sia scusato da qualche fine onesto.
È ancora da
notarsi la differenza che corre tra il sentire la dilettazione, e lo acconsentire
ad essa. Il sentire è spesso una necessità, e può essere quindi non
peccaminoso, ma l'acconsentire dipende sempre dalla volontà. Una cosa è
ben diversa dall'altra.
Molti,
confondendo assieme senso o consenso, pensiero d'una cosa
cattiva e dilettazione in una cosa cattiva, disordinano le loro idee e
tormentansi cogli scrupoli. Essi devono su ciò istruirsi ben bene, affine di
togliersi dalle tenebre della confusione e dalle ambascie.
Quegli che
prediligono sinceramente la castità posson star certi ch'essi non hanno
acconsentito a moto alcuno di concupiscenza ogniqualvolta la loro mente vi si
arrestò soltanto nella confusione delle idee o nella incertezza, imperocchè se
vi avessero veramente acconsentito, avrebbero avvertito in se stessi un
cambiamento di proposito e l'avrebbero ritenuto nella memoria.
Quegli invece
che hanno la perniciosa consuetudine di abbandonarsi alla libidine, ove dubitino
di avere o no acconsentito ad essa, devono persuadersi di avervi acconsentito
perchè se si fossero opposti alla loro inclinazione naturale, avrebbero
presenti alla memoria gli sforzi fatti; e siccome i peccati di lussuria
moltiplicansi straordinariamente in breve tempo, possono ragionevolmente dire
col profeta penitente: «Le mie iniquità sono diventate padrone di me.... esse
sono più numerose dei capegli della mia testa». Solm. 39, 13.
Si domanda se sia
permessa ai fidanzati e ai vedovi di dilettarsi nel pensiero degli
abbracciamenti carnali futuri, o passati.
R. 1. I
fidanzati e i vedovi non peccano pensando al diletto annesso agli
abbracciamenti, nè prevedendolo nel futuro, nè rammemorandolo come cosa
passata, imperocchè è evidente che questo pensiero non è la vera dilettatazione
in una cosa venerea. Se c'è peccato, esso sta nel pericolo di commetterlo,
andando più oltre: e il pericolo c'è sempre.
R. 2. Se i
fidanzati o i vedovi acconsentano alla dilettazione carnale, che sorge
prevedendo il futuro accoppiamento, o rammentando gli accoppiamenti passati,
peccano mortalmente, imperocchè si figurino il congiungimento venereo come
effettivo e vi si dilettano volontariamente. Ora, l'atto carnale raffigurato
come reale è, per essi che non sono coniugi, una fornicazione.
R. 3. Il
conjuge che si diletta, in assensa dell'altro coniuge, figurandosi l'atto
matrimoniale come effettivo, probabilmente pecca mortalmente, in ispecial modo
se i suoi spiriti genitali si commovono grandemente, non già perchè acconsenta ad
una cosa in sè stessa proibita, ma perchè si espone per solito al grave
pericolo della polluzione. Se poi egli si compiace liberamente nel pensiero
dell'accoppiamento futuro o passato, senza incorrere nel pericolo della
polluzione, molti teologi dicono ch'esso pecca soltanto venialmente. Così Sanchez,
Bonacina, Lessïus, Cajetano, La Croix, Suarez,
S. Liquori.
Molti altri
sostengono, moralmente parlando, che vi ha sempre peccato mortale, tanto pel
pericolo, quanto per la disordinata commozione degli spiriti genitali, che non
può essere qui connestata da fine legittima. Così Navarrus, Azor,
Vasquez, Layman, Nenno, P. Antoine, Collet, ecc.
Devonsi
redarguire quindi i conjugi che così si dilettano, ed esortarli ad
abbracciare il partito più sicuro. Non si devono però trattare con troppa
severità, nè importunarli con domande odiose.
— E' da notarsi
innanzi tutto che qui non si tratta dei baci, dei toccamenti, ecc., ecc., fra
conjugi, ma soltanto fra persone libere: dei conjugi parleremo altrove.
I. I baci in
parti oneste, come sulla mano o sulla guancia non sono, per indole loro, cose
cattive, ancorchè fra persone di diverso sesso. Questa è la costante opinione
degli uomini, comprovata dalla pratica universale.
Da ciò: 1° I
baci che solitamente si danno tra fanciulli, incapaci di libidini, non
implicano male alcuno; 2° I baci delle madri, delle nutrici, ecc., ch'esse
danno ai loro fanciulli o ai fanciulli a loro affidati non si imputano a
peccato; 3° Egualmente dei baci che, almeno ordinariamente, altre persone danno
a fanciulli di tenera età, sieno maschi o femmine.
II. I baci,
ancorchè onesti, dati o ricevuti per motivo di libidine, fra persone dello
stesso sesso o di sesso diverso, sono peccati mortali.
I baci in parti
inusitate del corpo, per esempio, sul petto, sulle mammelle; o, come usano i
colombi, introducendo la lingua nella altrui bocca, stimansi fatti con
intendimenti libidinosi, o almeno inducono nel grave pericolo della libidine, e
perciò non vanno esenti da peccato mortale.
III. E' certo
che i baci, anche se onesti, che inducono nel prossimo pericolo di polluzione o
di veementi commozioni di libidine, sono da reputarsi peccati mortali, a meno
che non esista una grave ragione per darli ad altri o per permetterli sopra sè
stesso, imperocchè l'esporsi a quel pericolo, senza necessità, è peccato
mortale.
IV. Al
contrario, è certo che gli onesti baci, soliti a darsi, senza morale pericolo
di libidine, in segno di urbanità, di benevolenza, d'amicizia, per esempio,
partendo o ritornando, non sono in modo alcuno peccati: così si pensa dovunque.
Egualmente non
si può dire pei religiosi o pei monaci, nè pei preti secolari, i quali non
possono ordinariamente scambiar baci con persone di sesso diverso senza una
certa tal quale indecenza e senza generare scandalo ed offendere la religione.
V. I baci in sè
stessi onesti, fatti come comporta l'uso comune, ma per leggerezza o per
giuoco, senza grave pericolo di libidine, non sono più di un peccato veniale:
essendo supposti onesti, non possono essere cosa cattiva: la loro peccaminosità
sta in ragione del pericolo di libidine, ma nel caso nostro si suppone che
questo pericolo sia pressochè nullo.
Da ciò
consegue:
1. Quegli che
chiede in matrimonio una giovane e che, per esempio, alla partenza e
all'arrivo, l'abbraccia onestamente, senza pericolo di emozioni libidinose, o
almeno senza pericolo di acconsentirvi, non si può accusare di peccato mortale.
E molto meno pecca quegli che ha una ragione per coonestare questo atto, per
esempio, il timore fondato di apparire troppo scrupoloso o strano, o di essere
deriso o di diventare il ludibrio d'altri.
2. Per questa
ragione è scusata quella ragazza che non può esimersi da onesti amplessi senza
esporsi alla derisione o senza spiacere al giovane che la chiede in isposa.
3. Non devono
essere troppo facilmente accusati di grave peccato i giovani d'ambo i sessi,
che in certi giuochi si abbracciano vicendevolmente con decenza e senza pravo
intendimento: si devono però prudentemente stornare da questo genere di
giuochi, per il pericolo che sovente vi è annesso: ma importa alla loro
salvezza di non incolparli, così alla leggera, di peccato mortale.
1. Io qui
alludo al toccare sè stessi o altri con intendimenti libidinosi: in questo caso
c'è peccato mortale.
2. Se questi
contatti avvengono per pura necessità, per esempio, per curare delle infermità
non sono in modo alcuno peccati, benchè commovano gli spiriti genitali, o
eccitino polluzione, semprechè non vi sia il consenso della volontà; ciò è
chiarito da quanto si è detto circa la polluzione.
3. Se,
all'infuori d'una legittima causa, toccansi in modo veramente lascivo altre
persone dell'uno o dell'altro sesso, non si va esenti da peccato mortale, in
forza dell'evidente pericolo di emozioni veneree e di polluzione, in cui
s'incorre.
Così devonsi
giudicare i toccamenti sulle parti genitali o intorno ad esse; egualmente, se
si pone la mano, voluttuosamente, sulle mammelle d'una donna, ancorchè siano
coperte dalla veste, perchè, per simpatia, esiste grave pericolo di emozione
venerea e di polluzione. Se poi toccansi soltanto leggermente le vesti d'una
donna, credesi non vi sia peccato mortale, imperochè cotesto atto non è tale da
svegliare direttamente la lussuria.
La Croix, l. 3,
n. 902, crede probabile che non commettano peccato mortale le fantesche
che toccano le parti genitali dei fanciulli vestendoli, a meno che esse non
facciano ciò con deliberato diletto. Non penso però che si possano scusare se
fanno ciò senza necessità, perchè qui vi ha pericolo per se stesse e pericolo
pei fanciuli, che cominciano a diventar grandicelli, e specialmente se sono
maschi. Sorveglino i genitori con somma cura le fantesche di perduti costumi,
le quali spesso insegnano malizie ai teneri fanciulli.
4. Non v'ha
dubbio che mortalmente peccherebbe quella donna che anche senza passione di
libidine, permettesse che la si toccasse nelle parti genitali, o vicino ad
esse, o nelle mammelle, imperocchè evidentemente si esporrebbe a pericolo
venereo e certo prenderebbe parte alla libidine altrui è perciò tenuta a
respingere subito chi la tocca, rimproverarlo, percuoterlo, allontanare con
forza le di lui mani, fuggire, o gridare se potesse mai aver speranza di
soccorso. — Billuart, t. 31, p. 478.
5. Il
dilettarsi toccando senza ragione,
le parti veneree è peccato veniale o mortale a seconda del pericolo che si
corre soffermandosi in questo atto: il pericolo non è euguale per tutti: molti
si commovono anche per un leggerissimo fatto sensuale e corrono il pericolo
prossimo d'una polluzione; altri invece sembrano di legno e sasso, e non sono
perciò obbligati ad avere tante precauzioni come coloro che sono sensibilissimi
ai piaceri venerei.
Dissi senza
ragione, imperocchè non sono peccaminosi questi toccamenti se si compiono
per un motivo ragionevole e senza prava intenzione, per esempio, per pulirsi o
per calmare un pizzicore.
Ben più, purchè
non v'abbia pericolo di consenso, è lecito toccare se stesso, anche prevedendo
commozione venerea o polluzione, d'altronde involontaria, se esiste un grave
motivo, per esempio, per curare un'infermità, o, a detta di molti, per calmare
un intollerabile prurito, come sovente avviene alle donne. Vedi S. Liguori,
l. 3. n. 419.
6. Non si
reputano peccati mortali i contatti fatti, per leggerezza o giuocando, sulle
parti genitali d'altra persona dell'uno e dell'altro sesso, senza che vi sia
grave pericolo, di libidine; qui tutta la malizia risiede nel pericolo, e noi
supponiamo che in questo caso il pericolo sia leggiero. Perciò, lo stringere la
mano d'una donna, premere le sue dita, toccarle leggermente il collo o le
spalle, porre il piede sopra il suo piede, ecc. non è peccato mortale, a meno
che, a motivo della personale gracilità dell'uno o dell'altra, non esista grave
pericolo di libidine.
Al contrario,
il giovine che fa sedere una ragazza sulle sue ginocchia e ve la trattiene, o
abbracciandola la preme su se stesso ordinariamente commette peccato mortale, e
la donna non va immune dallo stesso peccato, se volontariamente a tutto ciò
acconsente.
L'esperienza
prova abbastanza che atti di questo genere, anche fra persone del medesimo
sesso, generano sovente il grave pericolo di abbandonarsi a cose oscene:
cotesti atti devono quindi essere fuggiti o prevenuti; e non devono con
facilità essere considerati come peccati non mortali, specialmente quando
provengono da passione sensuale.
Questi e
consimili atti non sono peccati mortali fra impuberi, perchè non v'ha in essi
pericolo di Polluzione. Pure devonsi i giovani tener prudentemente lontani da
questo genere di spassi, perchè non è mai troppo presto ch'essi apprenderanno
le regole della decenza, e in questa materia é bene sieno cautamente messi in
condizione di non commettere neanche dei peccati veniali.
7. Il toccare
libidinosamente le parti genitali dei bruti è peccato mortale che appartiene
alla bestialità: è pure peccato mortale il palpeggiarle per curiosità, per
giuoco, per leggerezza fino a farne versare l'umore spermatico, e ciò non tanto
per la dispersione del seme della bestia, quanto perchè tale azione eccita
violentemente la libidine in chi tocca la bestia stessa. Così S. Liguori, l,
3, n. 420. Collet, Billuart, e molti altri, contro Diana
e Sanchez, il quale ultimo ha poscia modificato la sua opinione.
Secondo La
Croix, Sanchez, e S. Liguori non sarebbe peccato mortale il
toccar le parti genitali d'una bestia senza intenzioni libidinose, sempre che
non avvenga perdita di seme; Concina, Collet, e Billuart,
ecc. affermano l'opposto e sostengono che questa azione è gravemente
pericolosa.
Colui dunque
che predilige la castità deve astenersi da questi atti; e i confessori devono
comportarsi con molta prudenza verso coloro che peccano su questa materia,
affine di non conturbarli senza frutto o con pericolo.
Quelli che sono
da necessità obligati ad aiutare nei loro accoppiamenti gli animali domestici,
come i cavalli, i tori e i porci, non peccano, benchè sorgano in essi dei
movimenti libidinosi, ai quali però essi non acconsentano. E' questa opinione
universale.
L'esperienza
dimostra che la vista influisce meno sulla lussuria che il tatto: nullameno non
si può negare essere gli sguardi impudichi spessissimo un peccato mortale o
veniale secondo l'intenzione, il consenso, o il pericolo:
1. E' certo —
ed è evidente — che certi sguardi, benchè in se stessi onesti, sono peccati
mortali quando avvengono accompagnati da prava intenzione.
2. Sarà pure un
peccato mortale se il guardare impudico eccita i moti della cuncupiscenza e si
presta ad essi assenso.
III. Se, senza
necessità o una rilevante utilità, guardansi deliberatamente le parti
veneree o le parti ad esse vicine d'una persona più grande, di sesso diverso,
anche senza passione libidinosa, si pecca mortalmente, imperciocchè questi
sguardi eccitano moralmente i movimenti lussuriosi ed anche la polluzione.
Ho detto: 1. deliberatamente,
perchè il cadere dello sguardo sulle parti vergognose d'una persona d'altro
sesso, leggermente e per caso senza bravo intendimento, non è peccato mortale.
Ho detto: 2.
d'una persona più grande perchè lo sguardo sopra fanciulli non eccita la
libidine, e non è perciò peccato mortale. Donde le fantesche e le nutrici che
così guardano i fanciulli ad esse affidati, non peccano mortalmente, almeno che
non lo facciano con compiacenza, o con senso di libidine, o con proprio
pericolo.
Similmente gli
impuberi che scambievolmente guardansi nudi non peccano mortalmente, perchè non
sono essi ancora capaci di libidine; diversamente però dovrebbe dirsi, se essi
si esponessero a grave pericolo.
IV. Quegli che
si compiace rimirando le proprie parti veneree, pecca mortalmente, perchè è
impossibile che non provengano da ciò dei movimenti di libidine: la cosa
sarebbe diversa, se si guardasse per mera curiosità e leggermente, ed in
special modo se ci fosse luogo a presumere che non si è incorsi in grave
pericolo. Se poi ci fosse una necessità od una utilità a far ciò, purchè sia
escluso qualsiasi pericolo di libidine, non ci sarebbe peccato alcuno.
E' peccato
mortale il dilettarsi guardando le mammelle nude d'una donna avvenente, perchè
è insito in questi sguardi un pericolo. Ma non peccano coloro che, senza
incorrere in uno speciale pericolo, vedono le madri e le nutrici nell'atto di
allattare i loro bambini. Ciò non pertanto, codeste donne devono prudentemente
tenersi nascoste per non dare incautamente uno scandalo ad altri e specialmente
a giovani.
V. E' spesso
grave peccato il fissare gli occhi sopra una bella persona d'altro sesso,
perchè una tale attenzione è piena di pericoli: cionondimeno, se, tutto
esaminato, il pericolo non sia grave, e manchi l'intenzione lasciva, il peccato
non è che veniale.
Non è
necessario perciò di camminare ad occhi bassi e di non guardare nessuno bisogna
saper tenere, naturalmente e senza sforzo alcuno, una via di mezzo.
VI. Quegli che,
senza emozioni lascive e senza attenzione voluttuosa, guarda d'una donna
qualche parte nuda ma onesta, per esempio, i piedi, le gambe, le braccia, il
collo, le spalle, senza che vi sia uno speciale pericolo, non pecca mortalmente
imperocchè tali sguardi, di solito, non eccitano gravemente la lussuria, in
ispecial modo se è usanza comune il tener nude quelle parti, come avviene fra
le persone d'ambo i sessi che d'estate lavorano assieme nei campi. Così Sylvios,
Billuart, S. Liguori, ecc.
VII. Il gettare
gli occhi, per curiosità o per leggerezza, sulle parti genitali di persona del
medesimo sesso, come avviene fra uomini nuotatori o donne che insieme si
lavano, credesi non sia peccato, a meno che non esista un intendimento
libidinoso o uno speciale pericolo, imperocchè in quel modo di guardare non c'è
grave eccitamento di sensi. E' chiaro che deve dirsi ll contrario se invece si guardasse
con un certo compiacimento voluttuoso del pensiero. Così dicono i
citati autori.
I nuotatori e i
bagnanti però provvedano di non esporsi nudi agli occhi altrui e specialmente a
persone di sesso diverso, se vogliono conservar rispetto al pudore cristiano.
Si lavino solitari e in luoghi appartati, od almeno tengano sempre coperte
modestamente le loro parti pudiche.
VIII. Non è
peccato mortale il guardare per sola curiosità o per leggerezza le parti
genitali dei bruti e il loro accoppiarsi, imperocchè da ciò non sorge grave
pericolo.
IX. Dicasi lo
stesso del guardare pitture e scolture poco decenti, che non turbano gravemente
lo spirito, come sono le immagini o le scolture d'angeli o fanciulli nudi o
quasi nudi che stanno esposte nei tempii cristiani. Ma i Dottori accusano di
peccato mortale coloro che dilettansi guardando quadri o statue che presentano
completamente nude le parti vergognose di persone d'altro sesso e più adulte, a
meno che essi non sieno tutelati contro il pericolo dell'età fanciullesca,
dalla vecchiaia o da un temperamento insensibile. S. Liguori, l. 3, n. 334,
ecc.
E' da notarsi
che i baci e i toccamenti si specificano dal loro oggetto, e perciò, quando
sono peccati mortali, devonsi confessare le circostanze di persona. Non così pensano
gli Autori se si tratta di sguardi; molti però intendono di specificarli
anch'essi secondo il loro oggetto; per ciò, la cosa più sicura è quella di
rivelar sempre tutte queste circostanze. Chi oserebbe affermare, per esempio,
che non si debba confessare la circostanza di un figlio che guarda
libidinosamente le parti genitali della madre, ovvero desidera di guardarle?
Dell'abbigliamento
della donne trattano S. Tomaso; in 2, 2, q. 169, art. 2, Sylvius, t.
3, p. 871, Pontas, Collet, Billuart, ecc.
E' da notarsi
che quest'argomento può essere considerato sotto quattro aspetti, cioè:
1. Proteggere
il corpo contro le ingiurie dell'atmosfera;
2. Coprire le
parti pudibonde della natura;
3. Conservare,
a seconda dei costumi del paese nativo, la decenza del proprio stato;
4. Accrescere
l'avvenenza e piacere ad altri.
Il 1° e il 2°
sono necessari; il 3° è conveniente e lecito, imperocchè la ragione stessa
approva che ciascuno conservi sempre, secondo gli usi della sua patria, la
decenza del proprio stato.
Parleremo
dunque dell'abbigliamento del senso come al n. 4°, e ci occuperemo specialmente
dell'abbigliamento delle donne, perchè le donne sono sempre molto più degli
uomini proclive verso questo genere di peccati e perchè attirando colla loro
toeletta gli sguardi degli uomini, offrono ad essi occasione di spirituale
rovina. Per conseguenza:
1. Una donna
maritata può decentemente adornarsi colla intenzione di piacere a suo marito;
lo dice S. Paolo, I, ai Corint. 7, 34, con queste parole: «La donna
maritata pensi alle cose di questo mondo e a piacere a suo marito» e con queste
altre. I, a Timot. 2, 9: «Le donne devono ornare il loro abbigliamento
con verecondia e con sobrietà.»
Perciò possono
adornarsi decentemente, a seconda del proprio stato, per piacere ai loro
mariti.
2. La ragazza o
la vedova che, giusta la sua condizione, si adorna con decenza per piacere
castamente e per provare uno sposo, non pecca, imperocchè il matrimonio è in sè
stesso lecito: essa può quindi far uso di quanto è necessario per fare un
matrimonio conveniente.
3. Le donne che
non hanno marito nè vogliono averlo nè sono in condizione di averlo peccano
mortalmente, come dice S. Tomaso, se si adornano colla intenzione di
ispirare amore negli uomini, in quanto che, in codesto caso, sarebbe un amore
non tendente al matrimonio, e per ciò necessariamente impuro.
A più forte
ragione peccherebbero mortalmente le donne che hanno marito, le quali con tali
ornamenti volessero ispirare amore in altri uomini.
Se poi così si
abbigliano per leggerezza o per vanità o per parata, generalmente non peccano
mortalmente, ma solo venialmente. Così S. Tomaso, Sylvius e molti
altri.
4. Lo
imbellettarsi per nascondere qualche difetto naturale, per piacere al marito,
al fidanzato o ad un giovane col quale la donna amoreggia, non è peccato,
giusta San Tomaso, S. Francesco di Sales, Sylvius. S.
Liguori, ecc.; ma è peccato mortale se lo si fa per piacere agli uomini
senza tendere a leggittimo matrimonio: anche i S. Padri dichiarano ciò grave
peccato. E' peccato veniale IN SÉ, quando non ci sia che vanità. Così S:
Tomaso 2, 2, q. 169, art. 2, contrariamente al suo seguace Tournely, t.
6. p. 304, e a molti altri teologi.
Dissi peccato
veniale in sè, perchè potrebbe darsi diventasse peccato mortale a
cagione del pericolo, dello scandalo o di altre circostanze annesse.
6. E' evidente
peccato mortale l'indossare le vesti di un altro sesso con intenzioni lascive,
o con grave pericolo di lussuria, o con notevole scandalo: ma non è peccato se,
escluso ogni scandalo e pericolo, si indossano per necessità, verbigrazia, per
occultarsi, o perchè non si hanno altri vestimenti. Se invece s'indossano per
gioco o per sola leggerezza, escluso scandalo e pericolo, è soltanto un peccato
veniale. Così Sylvius, interpretando S. Tomaso, dice che il
precetto del Deut. 22, 5: «non indossi la donna abiti mascolini nè
l'uomo vesti femminee, imperocchè tal cosa è abbominevole in faccia a Dio» è in
parte positivo, e per questa ragione obbligava sotto pena di peccato
mortale gli israeliti; ma la nuova legge lo abrogò: ed è in parte naturale
e sotto questo rispetto obbliga ancora, secondo le circostanze, sotto pena di
peccato mortale o veniale.
7. Per la
stessa ragione devesi dire che coloro i quali fanno uso di maschere non peccano
sempre mortalmente, p. e. se ciò fanno per spasso o per leggerezza, escluso
ogni pericolo ed ogni scandalo, specialmente poi quando non indossano vesti
dell'altro sesso, ma soltanto quelle d'una altra condizione sociale, come se un
servo vestisse gli abiti da padrone, o una domestica figurasse collo abbigliamento
di signora. Questa opinione è però contradetta da Pontas e da Collet.
Raramente vanno
immuni da peccato mortale quelli che usano strane e singolari vesti o maschere
in publici ritrovi, e ciò in causa della indecenza, del pericolo e dello scandalo
che provocano. Egualmente dicasi di coloro che fanno professione di comporre e
vendere tali vesti e maschere destinate ai soli travestimenti. Ma non è così di
coloro che divertonsi guardando i mascherati, a meno che essi stessi non diano,
sotto qualche aspetto, uno scandalo come se fossero, per esempio, preti.
8. Mettere a
nudo le poppe e coprirle con una veste così fina che esse traspaiano, è peccato
mortale, imperocchè è questo un grave incentivo alla libidine; così Sylvius,
t. 3. p. 872. Il denudare però moderatamente il seno, conforme a
consuetudini ammesse, e senza che ci sia mala intenzione e pericolo, non è
peccato mortale. Così S. Antonio, Sylvius, S. Liguori, l. 2,
n. 55, ecc.
A più forte
ragione, non è di sua natura grave peccato snudare le braccia, il collo e le
spalle secondo le usanze del proprio paese, ovvero leggermente coprirli. Ma
però, a detta dei citati Autori, ritiensi che pecchino mortalmente coloro che
introducono quelle usanze.
1. Il
discorrere intorno a cose oscene non è in
sè assolutamente un male, e lo prova l'esempio dei medici, dei teologi,
dei confessori, ecc. che possono parlare di queste cose senza peccare.
2. Sono peccati
mortali, al contrario, tutte le parole oscene ed anche le semplici frase
ambigue dette con intenzioni lascive o con volontario diletto carnale, o con
grave pericolo di trascinare sè od altri ad acconsentire alla lussuria. Questo
peccato s'aggrava in ragione del numero delle persone che ascoltano e alle
quali nuoce. La cosa è evidente.
Così, il
parlare gravemente osceno, come il nominare le parti vergognose dell'altro
sesso, il parlare dell'accoppiamento carnale e dei modi di questo accoppiamento,
ancorchè si parli senza piacere voluttuoso, ma per leggerezza affine di
eccitare il riso, è reputato peccato mortale, perchè tale linguaggio eccita, di
sua natura, movimenti libidinosi, specialmente nelle persone (sia che
parlino o che ascoltino) le quali non sono conjugate e sono ancor
giovani: e ciò dice pure S. Paolo, I ai Corint., 15, 33: «I cattivi
discorsi corrompono i buoni costumi.» Io dissi, persone specialmente non
conjugate, per la ragione che certamente i conjugi non si commoverebbero tanto
facilmente essendo essi già assuefatti agli atti venerei.
Coloro però che
dicono parole oscene in presenza di persone conjugate ma che non sono però
coniugati fra loro, è ben difficile che non pecchino mortalmente.
3. Le parole
leggermente oscene e le frasi equivoche proferite per vano sollazzo o per
ischerzo non sono peccato mortale, a meno che gli astanti non sieno tanto
deboli da sentirne il pericolo. Per lo che quegli intercalari meno onesti ehe i
mietitori, i vendemmiatori, i mugnaj ed altri operai sogliono proferire, non
sono generalmente peccati mortali, imperocchè ordinariemente commovono ben poco
e chi li dice e chi li ascolta. Così S. Antonio, Sanchez, Lessius,
Bonacina, Sylvius, Billuart, S. Liguori, ecc.
Sarebbe a dirsi diversamente, se ci fosse grave pericolo, o si desse scandalo.
4. Quegli che
ascoltano cose oscene, o hanno autorità su coloro che le proferiscono, o non
l'hanno: se lo hanno, si debbono ad essi opporre per quanto moralmente lo
possono; se non l'hanno, sono obbligati ad ammonirli, o almeno a risponder loro
col silenzio; specialmente le donne devono procurare di non sembrare che
acconsentano a quelle lubricità, imperocchè se vi acconsentissero
rinfocolerebbero negli uomini l'ardore libidinoso.
Non si deve
però con facilità osseverare che peccano mortalmente coloro che, per ridere,
ascoltano turpiloquii che sono peccati mortali in chi li proferisce, imperocchè
può essere che il riso sia piuttosto provocato dal modo con cui si dicono
quelle cose, che dalle cose in sè stesse: in questo caso, non si pecca
mortalmente, a meno che non ne risulti uno scandalo. Ma lo scandalo è
facilmente provocato se coloro che, ridendo, ascoltano questi discorsi osceni,
sono religiosi, preti, o persone che godono riputazione di virtù cristiana.
6. Quelli che
esercitano autorità su altri, e soprattutto i pastori e i confessori, devono
diligentemente procurare che gl'inferiori ad essi affidati non contraggano
l'abitudine di parlare o di cantare, poco castamente, memori delle seguenti
parole di S. Paolo: «Non si parli tra voi di fornicazione.... e d'altre
impurità;... siate come santi, e ritenete sconveniente a voi ogni turpitudine,
ogni stolta parola, ogni scurilità.» (Ef. 5, 3 e 4).
7. I colliqui
affettuosi tra persone di sesso diverso, specialmente se sono lunghi, sovente
ripetuti, e tenuti in luoghi appartati, sono occasioni molto pericolose e
sintomi che la castità è vicina a far naufragio: devonsi quindi cautamente
evitare, benchè sia permesso il non considerarli sempre come peccati mortali.
8. I confessori
più giovani devono soprattutto procurare di non mettersi in rapporti troppo
sensibili colle fanciulle e colle spose, perchè ciò produce frequentemente
perdizione di anime e discredito alla religione: e quando si avvedessero di
qualche primo sintomo di disordinata affezione, non temano di rintuzzarla con
violenti propositi, e se ciò non basta, confidino le loro penitenti ad altri
confessori: altrimenti, esse saranno incautamente perdute, ed assieme ad esse
si perderanno pure essi medesimi.
In nome della
gloria di Dio e della loro salute eterna noi scongiuriamo tutti i sacerdoti
affinchè, ottemperando fedelmente agli statuti dei Concilii, non tengano mai
con sè giovani donne, nè vadano a visitarle, nè parlino troppo famigliarmente
con esse, e molto meno le abbraccino o le conducano nella loro camera da letto.
Oh! quanti mali provennero da ciò, e quanto obbrobrio alla religione!!!
Qui non si
parla de' libri eretici ed empii, ma soltanto dei libri opposti ai buoni
costumi, specialmente di quelli che volgarmente si chiamano Romanzi, i
quali solitamente contengono amori illeciti e narrazioni così congegnate e
disposte da poter eccitare disordinate libidini.
1. Quelli che
scrivono libri gravemente osceni peccano mortalmente, imperocchè dànno a molti
occassione di rovina spirituale, e non possono quegli scrittori invocare
ragione alcuna che li scusi.
2. Similmente è
impossibile trovare una giustificazione sufficente per coloro che fanno
professione di vendere cotesti libri: peccano mortalmente dunque quei librai
che li tengono nel loro negozio, che li espongono e li vendono al pubblico.
3. E', di regola, peccato mortale leggere
libri di questa fatta, sia che si leggono per libidine, sia per leggerezza, per
curiosità, o per ricreazione, perchè, di loro natura, commovono i sensi e
conturbano la immaginazione, ed accendono in cuore fiamme impure. Dico di
regola, perchè non voglio assoverare che pecchino mortalmente coloro che,
per sola curiosità, leggono tali libri, se la loro provetta età, per il loro
temperamento freddo, o per la abitudine di trattare questioni veneree, non
incorrono in grave pericolo.
4. V'hanno
libri che raccontano amori leciti o illeciti, i quali non suscitano gravemente
la libidine, non commovono i sensi, non espongono a notevole pericolo, come
sono molte tragedie, commedie o altri poemi: quelli che, senza grave pericolo
per sè e senza scandalo per altri, leggono tali libri per mera curiosità, non
peccano mortalmente; se poi ciò facciano per causa legittima, per esempio, per
istruire, per acquistare o perfezionare l'eloquenza non peccano, supposto
sempre, che non ammettano né trascurino i doveri ad essi imposti dal loro
stato. Raramente possono i preti darsi a queste letture senza peccare, perchè
facilmente negligerebbero i loro doveri, o darebbero scandalo ad altri. La
esperienza prova, non fosse altro, che, cosí facendo, essi prendono a noia la
pietá, si sentono incapaci di proseguire nelle loro opere, si estingue in essi
lo spirito della devozione e del fervore, ecc.([10]).
Questa specie
di libri, di cui a questo n. 4° si parla, sono spesso assai più nocivi, ai
fedeli di quello che se fossero interamente osceni, imperocchè in quest'ultimo
caso susciterebbero nausea. Bisogna quindi allontanare i penitenti da coteste
letture.
Coloro che
scrivono questa specie di libri, benchè non sieno libri gravemente osceni, pure
peccano non di rado mortalmente perchè senza una sufficiente ragione trascinano
molti a rovina; ma credesi che così gravemente non pecchino coloro che li
vendono, imperocchè, da quanto dicemmo, molti li possono leggere senza peccare
o almeno senza peccare mortalmente, e perciò, comperandoli, peccherebbero,
tutt'al più, venialmente. I librai poi che li tengono nei loro negozi e li
vendono ai richiedenti, possono star tranquilli; essi non peccano.
5. I padri di
famiglia, i maestri di scuola, i direttori e tutti coloro a cui sono affidate
altre persone devono stornare quanto possono i loro inferiori dalla lettura di
questi Romanzi ed assuefarli invece a studii pii, santi e gravi: questo è il
solo mezzo per formare uomini eruditi, sensati, amanti della virtù, difensori
della religione e della società idonei a dirigere la propria famiglia, e
adatti, a qualunque affare.
Danze e balli
sono vocaboli sinonimi, che esprimono certi modi di divertimento o di
ricreazione, noti a tutti. Ci sono tre generi di danze: 1° fra persone dello
stesso sesso, fra maschi, o fra femmine, senza atti, gesti o parole impudiche;
questo genere di danze è, non v'ha dubbio alcuno, lecito; 2° fra persone dello
stesso sesso o di sesso diverso, con modi non onesti o con pravi intendimenti;
e ciò è, senza dubbio, da doversi biasimare da tutti; 3° fra maschi e femmine,
con modi onesti e senza pravi intendimenti; ed è su quest'ultimo genere di
danze che gli Autori non s'accordano punto.
«Gli scrittori
di teologia morale — Dice Benedetto XIV, Ist. 75 — con unanime giudizio
affermano che non commettono peccato alcuno coloro che si danno alla danza....
Ma i S. Padri invece proclamano che le danze nuocono perchè invitano al
peccato.»
Cionompertanto
i teologi moralisti e i S. Padri con ciò non si contraddicono, per la ragione
che i primi parlano delle danze guardate solo in sè medesime, e gli
altri avvertono, principalmente che esse ponno indurre in pericolo. Così P.
Segneri e S. Liguori, l. 3, n. 429, nei loro commenti a Benedetto XIV,
ecc.
Ecco dunque sul
tappeto due opinioni controverse, cioè:
1. I balli non
sono, per sè stessi, illeciti.
2. I modi
consueti di ballare sono pieni di pericoli.
Ciò premesso, è
cosa di grave momento lo stabilire in pratica delle regole di condotta per
dirigere le anime.
1. È peccato
mortale assistere a danze gravemente disoneste, sia per le nudità che vi
appaiono, sia pel modo di danzare, o per le parole, pei canti, pei gesti che vi
si fanno: per ciò, il ballo tedesco chiamato walser non può mai essere
permesso, né generalmente i balli con maschere o con abiti che lasciano nude le
parti disoneste del corpo.
2. Coloro che,
per debolezza personale, soggiaciono a grave pericolo di lussuria nei balli,
devono astenersene sotto pena di peccato mortale, a meno che — cosa impossibile
— non vi sieno costretti da urgente necessitá, ma anche in questo caso devono
non essere nel pericolo di prestarvi il loro consenso volontario.
A questi
peccatori, fino a che non si sieno emendati, o sinceramente promettano di
astenersene in seguito, devesi negare l'assoluzione.
3. Coloro che
dànno scandalo, benchè danzino non disonestamente peccano mortalmente, a meno
che non sieno scusati da una necessità, se pure in questo caso è possibile una
necessità. La cosa è evidente. I monaci, i religiosi, i preti inferiori, che
danzano in publici balli, non vanno immuni da peccato mortale, quantunque
danzino castamente. Tale sembra l'opinione di molti teologi e fra essi Benedetto
XIV, il quale nelle Istit. 76, già citate, interdice rigorosamente
le danze ai sacerdoti e ai preti, e dimostra la sua interdizione con
ragionamenti e con testimonianze.
Lo stesso
Pontefice, secondo S. Tomaso, dice: «Se le danze si fanno da preti e
sacerdoti, fra loro, non in presenza di laici, per solo sollazzo e leggerezza,
sono peccati, ma non mortali.»
4. Non è
peccato il ballare moderatamente, o l'assistere a danze oneste per qualche necessità
o per convenienze sociali, senza però che vi sia pericolo alcuno di lussuria.
In questi casi
non ci potrebbe esere peccato se non allorquanto si offrisse occasione di far
peccare altri, o di partecipare agli altrui peccati; ma nella nostra ipotesi vi
ha sufficiente ragione per permettere una cosa che avviene all'infuori della
propria volontá.
Una donna
avvenente, abbigliata con decenza, non è tenuta ad astenersi dall'andare in
chiesa o ai pubblici passeggi per il pretesto che puó essere dessa per molti
una occasione di peccato. Dicasi egualmente, pei balli onesti ed in sè stessi
non pericolo per lei, se per andarvi essa ha una ragione sufficente: il che
verrà poi determinato secondo i casi speciali: per esempio, una giovine
fidanzata non potrà esimersi dall'assistere ai balli che nella casa paterna o
presso i vicini o parenti si fanno onestamente, nè potrà ricusare l'offerta
fattale di danzare senza esporsi alla derisione o senza spiacere ai genitori o
al suo fidanzato che la invita alla danza. Essa, ballando decentemente e con
intenzioni pure, non pecca. — S. Francesco di Sales così dice nella Introd.
alla vita devota, 3 part. ch. 23:
«Io vi parlo
delle danze, o Filoteo, come i medici parlano delle varie specie dei funghi: i
migliori funghi non valgono nulla, dicono essi, ed io vi dico egualmente dei
balli migliori: non sono buoni. Cionondimeno, se bisogna, proprio mangiare dei
funghi, state attenti a che sieno molto ben preparati. Se per qualche
circostanza, che voi non potete proprio evitare, dovete recarvi a un ballo,
badate a che il ballo sia bene preparato. Ma come deve essere egli bene
preparato? Dev'essere preparato con modestia, con decoro, e buone intenzioni. —
Mangiatene pochi e di rado (dicono i medici parlando dei funghi), perchè, quantunque
ben preparati, la loro quantità può essere un veleno. — Danzate poco e di rado,
o Filoteo, perchè, diversamente facendo, voi vi mettete nel pericolo di
appassionarvi ai balli.»
Non è fuor di
luogo l'osservare che il pio Vescovo vuole che i balli si facciano
modestamente, con pure intenzioni, e di rado: e notisì che a quei tempi,
essendo i costumi molto più semplici che adesso, tali divertimenti erano molto
meno pericolosi.
Non bisogna
dunque temerariamente giudicare indegni di assoluzione degli uomini e delle
donne perchè hanno danzato od assistito a danze; e spesso non è nemmeno cosa
prudente esigere da essi, sotto pena di negar loro l'assoluzione, la promessa
che non danzeranno più, né più assisteranno a danze.
6. Nonpertanto,
le danze, come soglionsi ora fare, sono sempre pericolose; perciò i confessori,
i parroci e tutti coloro a cui è affidata la cura d'anime devono tenerne
lontani, quanto più possono, i giovani d'ambo i sessi. Non potendo impedire i
balli, devono diminuirne per quanto é possibile i pericoli annessi, esigendo,
per esempio, di non ballare in giorni di penitenza, durante i divini uffici,
nei ridotti ove convengono uomini e donne dissolute d'ogni conio, e a notte
avanzata.
I sacerdoti non
possono mai dare positiva approvazione a questi sollazzi, o partecipare ad
essi, o ad essi assistere; li devono anzi continuamente disapprovare, come
pericolosi almeno come poco conformi alle virtù cristiane; ma altro è
disapprovarli, altro il ricusare i sacramenti della Chiesa indistintamente a
quelli che fanno uso di questi sollazzi.
7. Quel
sacerdote che prudentemente giudica, che, usando molto rigore, riuscirebbe a
far scomparire dalla sua parrocchia i balli, può sospendere od anche negare
l'assoluzione a quelli che accorrono ai balli, imperocchè se v'ha chi non pecca
mortalmente in queste danze, tuttavia, favorendole, o ostacolandole
l'abolizione, non fanno che apprestar lacci ad altri, e perciò, sotto questo
rispetto non vanno facilmente immuni da grave peccato.
8. Se poi
nessuna speranza ci fosse di toglier di mezzo questi balli, come bene spesso
avviene, una soverchia severità nuocerebbe alla salvezza delle anime. Infatti,
molte persone pensano essere questi sollazzi leciti, o non gravemente illeciti,
e rifiutano perciò di astenersene, sacrificando ad essi anche la confessione,
la Eucarestia e le sacre funzioni. Sciolti in allora d'ogni freno, s'ingolfano
in ogni genere di esiziali dissolutezze: e se inoltre v'ha in queste persone
ignoranza, corruzione, abitudini con uomini perduti, pregiudizi contro la
religione e i suoi ministri, allora indurano sempre più nella perversità e non
si correggono più: spesso nel matrimonio si comportano indegnamente,
scandalizzano i domestici, educano male i figli, e così l'empietà si sviluppa,
e la depravazione dei costumi aumentando ognor più, non lascia loro via alcuna
per fare il bene.
Date queste
circostanze, devonsi trattare benignamente i penitenti che assistono alle
danze, stornarli da questi pericoli colla persuasione e colle preghiere, dare
ad essi salutari consigli in proposito; se mai ricadessero, redarguirli
paternamente, differire l'assoluzione; e riconosciuti finalmente contriti,
benchè non siano ancora immuni di ogni peccato, assolverli, ammetterli alla
comunione almeno alla Pasqua: in tal modo, si provvede più efficacemente alla
loro salute e si fa del bene alla religione.
Dai suesposti
principii scendono queste conseguenze che qui notiamo, cioè:
1. Ove le danze
sono in uso e reputansi lecite ovvero cose indifferenti, non sono da
proscriversi pubblicamente; è permesso tuttavia predicare contro i peccati che
soglionsi in esse commettere, facendolo però con caste parole affine di non
offendere menomamente le orecchie pudiche dello uditorio. Conviene altresì
parlare con molta cautela delle persone che frequentano quelle riunioni o che
le tengono in propria casa; non devono perciò essere queste notate di infamia.
E, prudentemente, non devonsi mettere in pubblico tutti coloro che ballano o
che ai balli assistono, e dire che essi non sono ammessi, per questo motivo,
alla comunione pasquale
2. Il
confessore non può dunque respingere indistintamente tutti coloro che non
vogliono rinunciare affatto alle danze, peraltro oneste; come non può tutti
assolverli senza differenza alcuna, Perciò, deve ben bene pesare tutte le
circostanze dei balli, circostanze di luogo, di tempo di durata, di persone
astanti, dal pericolo a cui i penitenti si espongono, ecc. ecc.
3. Coloro che
tengono pubblici balli, ove convengono giovani d'ambo i sessi senza distinzione
alcuna, come sogliono fare molti per mestiere, non possono essere assolti; per
la ragione che tali riunioni si reputano semenzai di vizii e di corruttele; e
l'esperienza lo prova. Per lo stesso motivo, non possono essere ammessi alla
assoluzione i suonatori che presenziano i danzatori in questi balli, a meno che
non promettano di abbandonare questo loro mestiere.
4. Non devono
essere trattati colla stessa severità coloro che, per straordinari divertimenti
celebrati per ordine della pubblica autorità, o abbiano prestato la loro casa,
o procurato i suonatori, o, suonando essi stessi, abbiano assistito alle danze:
e ciò perchè, se pure ne risulta un pericolo, vi ha ragione sufficiente per
ammetterlo, e per esimere, se non da peccato veniale, certo da peccato mortale.
Del resto, i parroci e i confessori devono prudentemente dissimulare ciò che, in
questi casi, non possono impedire.
5. Io non credo
poi rei di peccato mortale quelli che, soltanto qualche volta durante l'anno,
per esempio, nella epoca della messe, nei giorni della vendemmia sogliono
offrire balli alla famiglia, ai vicini, o ai lavoratori. Li biasimerei, ma alla
comunione pasquale li assolverei: egualmente mi comporterei coi suonatori; e a
più forte ragione con loro che, senza uno speciale pericolo, avessero, in
questi casi, danzato.
6. Nè vorrei
rigorosamente negare l'assoluzione a tutti quelli che, nelle pubbliche feste da
ballo, danzano qualche volta. Vi possono essere delle ragioni che scusano, non
da ogni peccato, ma dal più grave, il peccato mortale per esempio, se un
giovane si esponesse, non danzando, alla derisione dei compagni, o se una
ragazza venisse sprezzata dal suo fidanzato quando rifiutasse di danzare, per
lo contrario, non ammetterci scusa per quei suonatori che in queste pubbliche
feste da ballo fanno professione di suonare, perciocchè, senza una
giustificazione sufficente, favoriscono in molti l'occassione di peccare.
7. Credo che
non si possa assolvere, nemmeno a Pasqua, quegli che vogliono frequentare di
giorno e di notte pubblici balli, perchè espongorsi a pericolo evidente, e
infatti l'esperienza ci dice che costoro sono quasi tutti gente corrotta.
Non sarà fuor
di proposito riferire qui parola per parola la decisione che il dottissimo e
sapientissimo Tronson, consultato da un vescovo sulla questione dei
balli, emise il 29 maggio 1684, relativamente alle ragazze che vogliono
danzare. Così egli si esprime: «1. I confessori devono stornare, per quanto lo
possono, le loro penitenti dalla danza, soprattutto se a danzare vi sono dei
giovani: 2. Devono negare ad esse l'assoluzione, se il ballo è per esse
un'occasione di peccato, sia in causa di cattivi pensieri o d'altro, e se esse
non vogliono promettere di astenersene,: 3. Se poi il ballo non è per esse
un'occasione di peccato, e se non e in alcun modo scandoloso, stenterei molto a
condannare i confessori che dessero ad esse l'assoluzione, supposto che il
vescovo non abbia espressamente vietato di darla; 4. Siccome molto spesso vi ha
pericolo nella danza e avviene sovente che quelle ragazze stesse a cui non è
occasione di peccato, vi si affezionano, i confessori possono dar loro per
penitenza di astenersene per un tempo più o meno breve, secondochè essi le
troveranno più o meno disposte, e secondo la necessità del caso; o rifiuterassi
loro l'assoluzione, se esse non voglion promettere di astenersene. Ad ogni
modo, credo che in questi casi sia sempre necessaria molta prudenza.»
Il pio dottore
dice allo stesso vescovo che, imbattendosi egli in tali difficoltà, soleva
seguire prudentemente il consiglio che S. Agostino dava al vescovo Aurelio, pur
deplorando le gozzoviglie che in Africa erano frequenti nei cimiteri col
pretesto di celebrare col cibo e colle bevande la memoria dei martiri: «(Epist.
22, t. 2. p. 28). Non è certamente, per quanto io penso, colle asprezze,
colle durezze, nè con modi imperiosi che si ponno togliere quegli
inconvenienti: ma più coll'insegnare che col comandare, più consigliando che
minacciando. È così infatti che bisogna agire coi più: la severità non può
esercitarsi che contro ben pochi peccatori.»
Cajetano e Azor
insegnavano che i balli non dovevansi proibire nei giorni domenicali e festivi,
perchè essi non erano infine che segni di letizia, e perchè specialmente se
fatti sotto la sorveglianza del pubblico, non implicavano alcun pericolo; di
più, perchè essi aprivano l'adito a matrimonii, e perchè, specialmente nelle
campagne, tolto questo svago, si correva incontro a un maggior pericolo, a
quello cioè dell'oziosità, dei colliquii intimi e dei propositi insidiosi.
Più rettamente
giudica Sylvius, t. 3, p. 801: «Non doversi inibire le danze ai contadini,
come se, ciò facendo, dovessero essi peccare mortalmente: doversi invece con
buoni consigli e colla persuasione dissuaderli, facendo loro vedere che il più
delle volte da quelle danze nascono molti peccati, ancorchè fatte in pubblico;
né è facile evitare i falli, permettendole.» E questo è pure il sunto della
nostra dottrina.
Ciò che abbiamo
detto dei balli — salve le proporzioni — é a dirsi pure dei notturni convegni,
volgarmente detti veglie o veglioni. Tuttavia, in questi non ci sono
generalmente tutti quei pericoli che si riscontrano invece in certi altri
balli. Del resto, per giudicare rettamente gli uni e gli altri conviene ben
ponderare tutte le circostanze; se essi hanno luogo fra parenti, fra vicini,
fra amici fra persone costumate, sono certamente assai meno pericolosi:
guardiamoci bene adunque da una soverchia indulgenza come da una soverchia
severità; atteniamoci sempre ad un giusto mezzo.
Tutti ammettono
che gli spettacoli non sono per sè stessi un male, perciò si videro un
tempo rappresentate delle tragedie anche nei collegi religiosi. Se le
produzioni teatrali dunque non fossero invereconde, nè atte ad accendere la
libidine, si potrebbero rappresentare, e a più forte ragione, si potrebbe
assistere ad esse. Ma essendo esse generalmente pericolose, o in sè stesse, o
per le conseguenze che ne derivano, conviene stabilire delle norme pratiche.
I. Quelli che
compongono o rappresentano commedie notabilmente sconcie, peccano assolutamente
di grave peccato, in causa dello scandalo dato, benchè da essi non voluto: così
anche i teologi non sospetti di severità come S. Antonino, Silvestro,
Angelo, Sanchez, S. Liguori ecc. Nè può essere addotto,
come ragione scusante, il grosso lucro che da esse se ne ritrae, imperocchè in
allora non si capirebbe più perchè non fosse egualmente scusata la
prostituzione.
II. E' pure
peccato mortale incoraggiare commedie notevolmente oscene col danaro e con gli
applausi in teatro, perchè in questi casi c'è positiva cooperazione a cose
mortalmente peccaminose. Così pensa, contrariamente a qualche teologo, S.
Liguori, l, 3. n. 427, il quale attesta di aver mutato parere dopo di
essere stato di opinione contraria.
III.
Ordinariamente, anche chi scrive commedie e tragedie non molto oscene o le rappresenta
in teatro, pecca di peccato mortale, in causa del pericolo annesso a queste
rappresentazioni, o dello scandalo che da esse deriva. Perciò gli attori e le
attrici furono nel Concilio d'Arles (anno 314 can. 5), scomunicati, e,
«almeno in Francia,» vennero fin qui considerati come infami: perciò ricusati
ad essi i sacramenti della Chiesa, anche negli estremi di vita, a meno che non
promettano di rinunciare alla loro professione.
Ho detto almeno
in Francia perchè in Italia, in Germania, in Polonia ed in altri, paesi,
non vengono esclusi dai sacramenti della Chiesa coloro, uomini e donne, che
prendono parte a rappresentazioni teatrali; ma è libero ai confessori di
accoglierli o respingerli a seconda della natura della rappresentazione scenica
a cui avranno partecipato.
IV. Lo
assistere a scene teatrali notevolmente sconcie, è peccato mortale in causa di
pensieri libidinosi che esse suscitano. Ciò è evidente: se poi ciò avvenga per
sola curiosità o per vano sollazzo, stimasi sia soltanto un peccato veniale
purchè non v'abbia pericolo di acconsentire alla lussuria; ma questa opinione è
troppo indulgente e deve invece reputarsi un peccato mortale, sia per la
ragione dei pericolo, dello scandalo, e della cooperazione che si presta ad
un'azione mortalmente cattiva.
V. Ma se le
produzioni teatrali non sono notevolmente oscene, ne rappresentate in modo
osceno, non è peccato mortale l'assistere ad esse, semprecchè non v'abbia uno
speciale pericolo e scandalo. L'azione dell'assistere a coteste
rappresentazioni non può essere peccato mortale, se non in quanto essa cooperi
a far abbracciare la professione d'attore: ora, il semplice assistervi —
escluso lo scandalo — non è certo un cooperare a far degli attori. Così Sanchez,
S. Liguori e in generale i teologi stranieri.
Non ci sarebbe
peccato alcuno, se una causa ragionevole di necessità, di utilità o di
convenienza sociale persuadesse qualche persona ad assistere a spettacoli non
osceni, nè gravemente pericolosi in sè, imperocchè c'è sempre qualche
sufficiente ragione di scusa là dove non si può che molto indirettamente a far
peccare altrui o, se si espone sè medesimi in qualche pericolo, è un pericolo
molto lontano.
A simili
spettacoli possono assistere senza peccato:
1. Le donne
maritate, purchè ciò non dispiaccia ai loro mariti;
2. I domestici
e le domestiche, per servizio dei loro padroni;
3. I figli e le
figlie di famiglia, se tale è la volontà dei loro parenti;
4. I soldati e
i magistrati, incaricati di vegliare al mentenimento del buon ordine;
5. I re e i
principi, affine di conciliarsi l'affetto dei loro sudditi;
6. Le persone
che seguono il principe, ecc.
Tutti costoro
non peccano, ma ad una condizione, cioè che assistano agli spettacoli senza
intenzioni lubriche e senza acconsentire a emozioni voluttuose, caso mai
insorgessero.
Contro gli
spettacoli scrissero espressamente il Principe De Conti, Nicole, Bossuet,
Desprez-De-Boissy: li hanno pure condannati, l'autore dell'opera
intitolata: «Conte di Valmont« Tromageau,
Pontas e quasi tutti i nostri teologi. Lo stesso G. G. Rousseau,
in una lunga ed eloquente lettera a D'Alembert, li biasimò fortemente.
Molti altri si potrebbero citare, come Racine, Bayte, La Mothe,
Presset, Riccoboni, i quali enumeravano tutti i pericoli del
teatro, e, dolenti di avervi cooperato, opinavano che gli spettacoli potevano
abolirsi.
Non intendiamo
certamente opporsi a tanti uomini illustri, nè vogliamo in modo alcuno
sostenere ch'essi errarono o che furono troppo rigorosi nella loro condanna ai
teatri. Diremo volentieri con P. Alessandro (l. 40, in-8°, p. 358) »La
frequenza agli spettacoli e alle commedie è pericolosa alla castità, e nociva
in molte guise all'anima: talchè un cristiano può appena appena assistervi
senza peccare.»
Essendo gli
spettacoli pericolosi, ne consegue direttamente che si deve avere ogni cura per
allontanare i cristiani, ma non ne deriva perciò che tutti coloro i quali vi
intervengono anche senza una causa scusante, pecchino mortalmente e sieno
indegni di assoluzione.
Quegli che
colle parole o cogli scritti intendono provvedere alla integrità dei costumi o
difenderla, esaminino bene ciò che v'ha di lecito e d'illecito nei divertimenti
teatrali; espongano diffusamente le circostanze dalle quali provengono
conseguenze perniciose; e raccolgono molte testimonianze di S. Padri, di
Concilii e di dottori, a conferma della verità che inculcano.
Ora stabiliamo
le norme pei confessori. Per quanto è possibile dobbiamo distinguere il peccato
mortale dal veniale, imperciocchè chi è reo di peccato mortale deve essere trattato
molto diversamente da chi si è macchiato soltanto di peccato veniale.
Io non
assolverei:
1. Gli attori e
le attrici, nemmeno negli estremi di vita, a meno che non rinneghino la loro
professione;
2. Gli
scrittori che compongono opere piene di illeciti amori, da rappresentarsi in
teatro;
3. Quelli che
direttamente cooperano alle rappresentazioni teatrali, come le cameriere che
abbigliano le attrici, e coloro che fanno professione di vendere, noleggiare o
fabbricare bastimenti destinati al solo uso dei teatri;
4. Quelli che,
assistendo alle rappresentazioni sceniche, dànno grave scandalo, come sarebbero
tutte quelle persone che godono riputazione di cristiane virtù, a meno che non
vi sieno spinte da grave necessità;
5. Quegli che,
per proprie circostanze personali, si mettono in un grave pericolo di lussuria;
6. Quelli che,
senza un ragionevole motivo di scusa, intervengono con frequenza a tali
divertimenti, benchè non incorrano in grave pericolo nè diano scandalo,
imperocchè una simile abitudine non può conciliarsi colla vita cristiana;
Assolverei, per
lo contrario, e ammetterei alla comunione pasquale:
1. Quelli che
ponno dare al peccato un motivo sufficiente di scusa;
2. Quelli che
qualche volta soltanto, o solo in determinate citcostanze, assistono a
spettacoli in sè stessi non notabilmente disonesti, semprecchè non vi abbia
pericolo, nè scandalo;
3. Quelli che
cooperano alle rappresentazioni teatrali soltanto in modo lieve e indiretto,
per esempio, facendo pulizia nel teatro, restaurando un edificio, ecc., ecc.
Del resto, in
molti paesi stranieri i confessori non negano l'assoluzione a quei penitenti
che alle produzioni teatrali, che ordinariamente si rappresentano, vi assistono
per mera curiosità o per sollievo, e senza gravo pericolo: nè la negano
egualmente a coloro che cooperano a rappresentazioni sceniche nè direttamente
nè indirettamente oscene.
S. Francesco di
Sales, pur confessando che gli spettacoli sono, come i balli,
pericolosi; crede non pecchino coloro che vi assistono senza emozioni
disordinate. Leggesi nella sua Introduzione alla vita devota (1 parte, c.
23): «I giuochi, i balli, i festini, le pompe, commedie non sono, in sè
stesse, cose cattive, anzi sono indifferenti, potendo esse esser fatte tanto
convenientemente quanto no, ma ad ogni modo implicano sempre un pericolo: e il
pericolo diventa tanto più grave quanto più s'affeziona ad esse. Io dico
dunque, o Filoteo, che ancorchè sia permesso giuocare danzare, adornarsi,
assistere a commedie oneste, banchettare; nondimeno, l'affezionarsi a queste
cose, è contrario alla vita devota, e grandemente nocevole e pericoloso. Il
male non istà in esse, ma sta nell'affezione che ad esse si può portare.» E
noi, nella nostra dottrina circa i balli e gli spettacoli, non ci allontaneremo
dai principii trasmessici da un tanto pio maestro.
Si domanda: Che deve
dirsi dei commedianti e dei loro spettacoli ?
R. Circa i
commedianti e i loro spettacoli, così scrive S. Tomaso, 2, 2, q. 168, art.
3, al 3: «Fra le cose utili al consorzio umano possono collocarsi alcune
lecite occupazioni. La professione di commediante, allorchè serve a procurare
un sollievo agli uomini, non è, in sè stessa, illecita; e i commedianti non
sono in istato di peccato, ogniqualvolta usino moderatamente della loro arte, cioè,
non usino parole o atti illeciti non facciano servire l'arte a cose indebite,
nè la usino in circostanze non permesse. Da ciò segue che coloro i quali
moderatamente li retribuiscono, non peccano, imperocchè non fanno che dare una
mercede al loro lavoro. Ma quelli che sciupano in tali cose il loro avere, o
aiutano in qualche modo commedianti che rappresentano cose illecite, peccano,
imperocchè diventano fomentatori di peccato.»
A questa
opinione di S. Tomaso, sottoscrivono altri teologi.
Ora, se la professione
di commediante non è, per sè stessa, illecita, a più forte ragione non è
peccato o almeno non è mortale, assistere per curiosità a quei divertimenti dei
commedianti che, in sè stessi, non sono osceni nè nuocciono direttamente.
Dicasi lo stesso degli spettacoli che si fanno col mezzo di animali, per
esempio cavalli, ecc.
Importa
nondimeno guardar bene di non dar scandalo come avverrebbe ordinariamente se un
religioso, un monaco, un prete assistesse a tali divertimenti, specialmente in
presenza di laici; ovvero se il divertimento fosse meno che onesto, o se i
commedianti o giuocatori si esponessero a pericoli di morte, come non di rado
avviene nei giuochi equestri.
Le principali e
più frequenti cause dei peccati di lussuria sono:
3. La
famigliarità fra persone di diverso sesso, anche sotto pretesto di matrimonio;
gli sguardi, i toccamenti, gli abbracci, i colloquii teneri giusta queste
parole dell'Ecclesiastico, 9, 11: «Molti diventarono reprobi perchè
s'invaghirono delle bellezze della moglie altrui, le di cui parole infiammano
come il fuoco.»
4. Le danze, le
commedie ed altri spettacoli profani; le letture di libri osceni, i romanzi, i
turpiloqui, le canzoni amorose; l'abbigliamento immodesto o lussureggiante; il
frequentare le bettole: tutte cose che come dice Tertulliano, «sono
indizii di una castità morente.»
S. Tomaso, (dopo S. Gregorio)
dà alla lussuria otto figlie, 2, 2, q. 153, art. 5, che sono:
Relativamente
all'intelletto.
1. La cecità
di mente, di cui lo stesso Salomone ci offrì un terribile esempio:
2. La sfrenatezza,
per la quale l'uomo commette sconvenienze, senza riflettere, senza deliberare;
3. La sconsideratezza,
la quale fa giudicare erroneamente lo scopo che si propone o i mezzi per
conseguirlo;
Relativamente
alla volontà, le figlie della lussuria, secondo S. Tomaso, sono:
1. Un
disordinato amore di sè stesso, in forza del quale il libidinoso ripone il
suo ultimo scopo nelle voluttà della carne, e tutti i suoi pensieri dirige a
conseguirle;
5. Orrore
alla vita futura, ove sa che egli non potrà godere piaceri lascivi, ma
dovrà subire invece acerbissimi dolori. Quest'orrore lo fa disperare della
felicità eterna imperocchè gli sembra impossibile ch'ei possa rinunciare mai
alle terrene voluttà. Quelli che giungono a questa disperazione si abbandonano
poi ad ogni genere di lussuria. Per ciò S. Paolo agli Ef. 4, 19: «I
disperati si sono dati in balía alla impudicizia e ad impurità di ogni fatta,»
e Davide Sal. 9, 26: « Ai loro occhi, Dio non esiste piú: tutte le loro
vie sono, in ogni tempo, insozzate.» E' come s'egli dicesse, scrive Syilvius
t. 3, p. 821: «Rigettato ogni timore ed ogni rispetto a Dio, conducono una
vita impurissima.»
Oltre queste
conseguenze morali, altre ve n'hanno corporali, che già indicammo, senza
contare le orribili malattie veneree (così chiamate da Venere), le quali
tengono sempre dietro all'abuso dei piaceri di lussuria.
Innanzi tutto è
necessario levar via le cause già enunciate, di cotesti peccati.
Di più, devonsi
specialmente prescrivere i seguenti rimedii.
1. La preghiera
frequente e fervorosa.. «Vedendo che io non poteva in altro modo essere
continente, se non che rivolgendomi a Dio,... andai a Lui e lo pregai.» (Sap.
8, 21).
2. La lettura
di libri di devozione, la meditazione sulla passione di Cristo e sui supplizi
riserbati ai libidinosi nell'altra vita. «Qualunque cosa tu imprenda a fare
ricordati dell'ultimo tuo fine, e non peccherai mai» (Eccl. 9, 40).
3. Non coltivare
il corpo con delicatezze o con lusso. «Le iniquità di Sodoma furono la
superbia, la sovrabbondanza degli alimenti e l'ozio» (Ezech. 16, 49).
4. Custodire i
sensi e specialmente quello della vista. «Non guardare le fanciulle, se non
vuoi che la loro bellezza ti faccia cadere in iscandalo.» (Eccles.).
5. Fuggire
l'ozio ed evitare con cura le tentazioni. «Chi ama il pericolo, in esso
perirà.» (Eccles. 3. 27). Procurino dunque i parenti che i fanciulli di
sesso diverso, sieno pure fratelli e sorelle, non giacciano nello stesso letto,
imperocchè l'esperienza ammaestra che ció è pericoloso alla castità.
6. Mortificare
la carne e digiunare, imperocchè i contrarii si guariscono coi contrarii.
»Non si caccia questa specie di demonii se non colla preghiera e col digiuno.»
(Mat. 17, 20.)
7. Fare
elemosine ed altre opere di carità, colle quali si impetrano da Dio copiose
grazie.
8. Accostarsi
frequentemente e con devozione ai sacramenti della Penitenza e della
Eucarestia.
10. La
residenza alle prime lusinghe della voluttà, dirigendo il pensiero ad altro
oggetto, e meglio, se sia un oggetto santo. «Resistete al demonio, ed egli
fuggirà.» (Jac. 4, 7).
11. Sentire i
consigli d'un prudente confessore, e per quanto è possibile, del proprio
confessore ordinario; il quale suggerirà rimedii proporzionati al male e idonei
maggiormente a vincere le tentazioni.
Sono molte le
questioni gravissime ad uso quotidiano, risguardanti il matrimonio, che la
prudenza comanda di non trattare in un pubblico Corso di Teologia. I preti,
tuttavia, che stanno per assumere il formidabile incarico di dirigere le anime,
non devono ignorarle, e perciò è nostra abitudine di proporle e svolgerle ai
nostri diaconi.
Codeste
questioni possono generalmente ridursi a due:
1.
Dell'impedimento per impotenza.
2. Del debito
conjugale.
È questo un
argomento, impudico, osceno, e spesso pericoloso: ciò che noi, stretti dalla
necessità, stiamo per dire, non dev'essere letto se non per motivi puri e con
retto scopo, affine di poter ben distinguere lebbra da lebbra, applicare al
male rimedii convenienti, dar saggi consigli, difendere le anime dal lezzo di
turpi vizii e toglierle da esso. In questo genere di studii risiede quasi
sempre qualche pericolo; ma quelli che vi si dedicano per sola necessità,
possono fiduciosamente attendersi soccorsi divini, i quali daranno ad essi la
vittoria contro le tentazioni, devono perciò richiamarsi spesso alla mente
ch'essi sono al cospetto di Dio che scruta tutti i loro pensieri, e devono
altresì dirigere alla Vergine Beata la breve e pia orazione, che esponemmo nel
principio di questo libro.
NOZIONI
PRELIMINARI
É essenziale al matrimonio la sua consumazione.
La consumazione
avviene colla emissione del seme del marito nella vagina naturale della moglie,
ovvero coll'unione del marito e della moglie in guisa che diventino una sola e
medesima carne, giusta le parole della Genesi, 2, 24: «E saranno due in
una stessa carne.»
Quando il
marito sia penetrato nella vagina della sua donna e vi abbia versato dentro il
seme, il matrimonio reputasi consumato, sia che la moglie abbia o no emesso il
suo succo venereo, cosa d'altronde che non si può accertare, e che non è
assolutamente necessaria alla fecondazione nè alla consumazione, come molti
asseverano. La impotenza dunque altro non è se non la incapacità a consumare,
nel modo suesposto, il matrimonio.
Perciò, coloro a
cui manca un testicolo solo, non sono impotenti, perchè possono penetrare nella
vagina della donna ed emettere il seme prolifico. Egualmente, non si devono
ritenere impotenti i vecchi, ancorchè decrepiti, imperocchè si son visti degli
uomini a cent'anni procreare dei figli con donne giovanissime.
Le mogli dette sterili
non si possono, per questo motivo, dichiarare impotenti, perchè ciò non
ostante, potrebbero ricevere benissimo dai mariti, che s'introducano nella loro
vagina il seme spermatico, benchè poi non lo trattengano, o per qualsiasi altra
causa, non restino fecondate. Se il seme si versa nel vaso genitale, l'atto
matrimoniale è compito, e l'impotenza non esiste punto, ancorchè, per caso, non
abbia luogo il concepimento.
Sono per lo
contrario impotenti quei vecchi i quali sono così debilitati che non possono
penetrare nella vagina, e così decrepiti da non ejaculare umore spermatico: ciò
è evidente. Dicasi egualmente di chi è privo d'entrambi i testicoli o li ha
totalmente schiacciati, imperocchè in questo caso non possono dare seme
prolifico.
Distinguonsi
molte specie d'impotenza, cioè, la naturale e l'accidentale, l'assoluta e la
relativa, la perpetua e la temporanea, l'antecedente e la susseguente.
L'impotenza naturale
è quella che procede da causa naturale e intrinseca, per esempio, nell'uomo, da
freddezza impassibile la quale non permette un sufficiente eretismo, ovvero da
eccessivo ardore che fa ejaculare lo sperma prima che avvenga l'accoppiamento
carnale, oppure dalla mancanza del membro virile o dei testicoli. Nella donna,
un grande ristringimento delle parti genitali, talchè sia impedito all'uomo di
penetrare nella vagina: caso che avviene di frequente.
L'impotenza accidentale
è quella che proviene da causa estrinseca, cioè, da un maleficio del demonio,
sia nell'uomo sia nella donna: nell'uomo, quando il demonio gli fa intirizzire
i nervi mentre sta per compiere l'atto conjugale; nella donna, quando il
demonio stesso le ristringe la vagina o la turba nella fantasia in guisa che al
marito non è possibile l'accoppiarsi a lei, ovvero quando essa rende
impossibile l'accoppiamento perchè, mentre si sta per compierlo, un subitaneo
odio la infiamma contro il marito, e va in escandescenze.
L'impotenza assoluta
è quella che rende una persona impotente con qualsiasi altra: tale è l'uomo a
cui manchino entrambi i testicoli, o che sia affatto insensibile.
L'impotenza relativa
è quella che verificasi con questa o quellla persona, ma non con tutte; per
esemipio, una donna può essere di vagina troppo stretta per un uomo, e non per
un altro; l'uomo può essere sotto l'influenza di qualche personale maleficio,
ovvero può sentirsi indifferente per una giovane e non per un'altra.
L'impotenza perpetua
è quella che non può essere guarita col decorrere del tempo, nè con rimedii
naturali e leciti, nè colle consuete preghiere della Chiesa, ovvero — come
dicono altri — non può essere tolta che col mezzo d'un peccato, col pericolo
della morte, o con un miracolo.
L'impotenza è temporanea
invece se può esse tolta con qualcuno dei detti mezzi, cioè, col decorrere del
tempo, con un rimedio naturale e lecito, o colle consuete preghiere della
Chiesa.
L'impotenza
chiamasi antecedente, se precede il matrimonio; e susseguente, se
viene dopo.
Ciò detto,
domandasi se l'impotenza e quale impotenza sia un impedimento dirimente([11]) del matrimonio.
Proposizione. È impedimento dirimente del matrimonio quella sola impotenza
che è antecedente, e perpetua, sia poi assoluta o relativa.
Prova: I. La sola impotenza antecedente; perchè ogni contratto diventa
nullo, quando non si può dare la cosa promessa, venendo a mancare in questo
caso l'oggetto del contratto stesso: quegli che è afflitto da impotenza
antecedente e perpetua, non può dare ciò che ha promesso: promise
l'accoppiamento carnale e naturale, che è scopo nel matrimonio, ed egli, nel
caso nostro, non lo può consumare.
La cosa stessa
viene provata dal Diritto ecclesiastico al titolo: «Degli insensibili e dei
maleficiati» (Decret. 1, 4, tit. 15) e dalla Bolla di Sisto V Cum
frequenter, anno 1587.
Questo
impedimento essendo nel diritto della natura non può da alcuna autorità essere
tolto con dispenza.
II. La sola
impotenza antecedente e perpetua, sia assoluta o relativa, è impedimento
dirimente del matrimonio, imperocchè nè la impotenza conseguente nè la
temporanea possano annulare il matrimonio.
1. Non la
impotenza conseguente, imperciocchè è cosa indubitata che, contratto una volta
validamente il matrimonio, è per sua istituzione perpetuo;
2. Non la
impotenza temporanea, perchè l'essenza del matrimonio non sta nell'uso attuale
di esso; e gli sposi, promettendosi fede conjugale, non determinano un tempo
alla consumazione del matrimonio. Basta dunque che sia possibile una
consumazione avvenire, a meno che, per caso, il consenso di uno degli sposi non
dipendesse realmente dalla immediata possibilità dell'atto matrimoniale.
Gli infermi e
gli stessi moribondi possono validamente contrarre matrimonio, benchè sieno
incapaci all'accoppiamento immediato. Dicesi lo stesso di coloro i quali,
in causa di un'eccessiva ardenza di natura, emettono il seme prima di penetrare
nella vagina della donna: Cabassut osserva (lib. 3, cap. 15, n. 2)
che essi possono aver speranza che i loro sforzi non saranno sempre inutili.
Ho detto, — sia
essa assoluta, o relativa, — perchè il matrimonio si contrae con una
persona determinata; e se con questa persona esso non può essere consumato, è
nullo.
Benchè questo
impedimento non si trovi nel Codice civile (francese), è indubitato che i
tribunali pronuncierebbero in questi casi le nullità del matrimonio se si
verificasse l'impotenza antecedente e perpetua. Così fu sempre giudicato
tanto nel foro civile quanto nel foro ecclesiastico E così insegna Delvincourt.
t. I, p. 403, difendendo in questo senso con tutte le sue forze una
Sentenza delle Corte d'Appello di Treves, 27 gennaio 1808. — Toullier, t. I,
n. 525 sostiene calorosamente che questa Sentenza è contraria allo spirito
del Codice; e dichiara che una donna possa ottenere dai giudici Sentenza
annullante il matrimonio per impotenza accidentale e manifesta
del marito; per esempio, se fosse dimostrato ch'esso era eunuco prima del
matrimonio; e prova il suo assento coll'art. 312 Cod. Civ., nel quale si
stabilisce che il marito può non riconoscere un figlio partorito da sua moglie,
se prova ch'egli era assente all'epoca del concepimento, o che per qualsiasi
altro accidente non poteva aver contatto carnale con essa.
In quanto a
noi, dobbiamo specialmente trattare di ciò che riguarda il loro interno della
coscienza, e sotto questo rispetto, non poche sono le difficoltà che offre
questa materia. Le riferiremo per ordine, e ci studieremo di risolverle secondo
le nostre forze.
Si domanda: I. Se un uomo
e una donna, consapevoli tutti due d'essere entrambi impotenti, possono
contrarre matrimonio coll'intendimento di prestarsi un vicendevole soccorso e
di conservare una perpetua castità.
R. Sanchez e molti con
esso; l. 7, disp. 97, n. 13, affermano ciò essere lecito, e si adoperano
nella seguente maniera a provare il loro asserto: — Quelli che contrassero
matrimonio con tale impotenza, possono abitare assieme come fratello e sorella,
escluso che sia ogni pericolo di peccato; dunque, a pari motivo, se
ragionevolmente essi non temono un tale pericolo, possono, anche colla consapevolezza
della impotenza, contrarre matrimonio coll'intendimento di aiutarsi mutuamente.
Così la Beata Vergine e S. Giuseppe contrassero un vero matrimonio colla
espressa intenzione di non usare l'accoppiamento carnale.
Ma gli altri
Dottori negano generalmente che ciò sia lecito, imperocchè, dicono, non v'ha
dubbio che questo matrimonio, se non potesse mai essere consumato, sarebbe
nullo; contrarre volontariamente un matrimonio nullo, sarebbe una vera
impostura, una profanazione del sacro rito, e per conseguenza un sacrilegio:
tali connubii dunque non devono essere mai permessi. In quanto all'esempio
addotto, negano la parità di circostanze, imperocchè il matrimonio fra la Beata
Vergine e S. Giuseppe era un matrimonio valido.
Si domanda: 2. Che deve
farsi se non si è sicuri che l'impotenza sia antecedente o susseguente al
matrimonio?
R. Siccome noi
qui non dobbiamo trattare la cosa che sotto l'aspetto del foro interno, devesi
giudicare a seconda della dichiarazione del penitente: se il penitente dice
nettamente che c'è e che ci fu sempre in lui impotenza a compiere l'atto
coniugale, devesi pronunciare la nullità del matrimonio.
Si domanda: 3. Hanno
facoltà gli sposi di usare l'atto conjugale, ove consti che uno di essi è
impotente? Nel foro esteriore si presume sempre, fino a prova contraria, che
l'impotenza accidentale sia venuta dopo il matrimonio.
R. Gli sposi
non hanno affatto in questo caso la facoltà d'usare l'atto conjugale,
imperocchè l'impotenza è, o antecedente, o susseguente,; se è antecedente, il
matrimonio è nullo, e perciò ogni atto venereo è vietato: se poi l'impotenza è
susseguente, non è più possibile consumare lo atto conjugale, e perciò gli
sposi non devono darsi ad atti che non possono raggiungere lo scopo della
consumazione, e, come lo diremo fra poco quando si parlerà dei toccamenti fra
conjugi, peccano gravemente o leggiermente compiendoli.
Si domanda: 4. Che deve
fare la moglie che sa dicerto essere il marito impotente e che ha avuto prole
con un altro uomo, quando il marito, credendosi esso il padre della prole,
vuole usare l'atto conjugale?
R. Bisogna
guardare bene se la moglie ritenga propria come certa nel marito una impotenza,
che d'altronde potrebbe anche essere dubbia. Ma supponendo che l'impotenza sia
certa, essa non deve prestarsi alle voglie del marito, dovesse anche, per
questa ripulsa, cagionare a sè stessa un grave danno: assecondando, farebbe
cosa intrinsecamente cattiva. In questa spiacevole ipotesi, essa deve ammonire
il marito nel miglior modo che per lei si possa, affinchè esso si mantenga
continente, adducendo, per esempio, il pretesto ch'egli è vecchio, che ad essi
basta il figlio che hanno, che essa non ama più l'atto conjugale, ecc. ecc. E
se un giorno il marito le sembrerà pienamente persuaso di ciò, essa gli potrà
dire: «Affine di non essere vinti mai dalle tentazioni, nè stornati dal nostro
proposito, ti prego, facciamo insieme voto di perpetua continenza.»
Una volta
emesso questo voto la moglie può star sicura; essa potrà allora respingere il
marito ogni qual volta ei volesse usare delle facoltà conjugali, e per mettersi
essa al sicuro d'ogni sospetto, addurrà il voto di continenza da entrambi
emesso.
La moglie
tuttavia deve sempre rammentarsi dell'obbligo ch'essa ha di riparare al danno
cagionato al marito e agli eredi avendo procreato un figlio spurio. Di ciò
abbiamo parlato anche nel trattato sulla Restituzione.
Si domanda: 5. Che deve
farsi quando non si sa bene se l'impotenza sia temporanea o perpetua?
R. O si tratta
di impotenza naturale ed intrinseca, ovvero d'impotenza
proveniente da maleficio. Nel primo caso, a meno che non si tratti di
mancanza di parti genitali essenziali, soltanto i medici possono giudicare
sulla natura e sulla durata di questa impotenza. Nell'uomo i segni principali
di essa sono:
1. La deformità
delle parti genitali, per esempio, una eccesiva grossezza, o una singolare
piccolezza della verga.
2. Una
ineccitabilità di sensi, per cui non è possibile la emissione del seme
prolifico;
3.
Un'avversione naturale ad ogni commercio carnale ed a qualsiasi cosa venerea;
4. Una cattiva
conformazione dei testicoli.
Nella donna,
sono indicati due segni d'impotenza, cioè:
1. Una
soverchia ristrettezza della vagina o un totale otturamento all'utero;
2. Una cattiva
posizione dell'utero o della matrice.
I canonisti e
specialmente i vescovi devono anche giudicare della impotenza proveniente da
maleficio; essa può riconoscersi da questi indizii:
1. Se la
moglie, che d'altronde ama suo marito, non vuole ch'esso le si accosti
carnalmente, persuasa ch'egli non possa con essa compiere l'atto conjugle;
2. Se gli
sposi, benchè, s'amino a vicenda s'accendono subitamente d'odio fra loro e
inorridiscono, allorchè stanno per congiungersi carnalmente.
3. Se al
marito, che pure non è impotente con altre donne, non gli è possibile compiere
l'atto conjugale colla moglie, con tutto che essa non sia, nè di vagina stretta
nè opponga resistenza alcuna.
Checchè dicano
alcuni, l'opinione dei quali — giusta S. Tomaso, Supp. 9, 58, art. 2
— procede dal germe dell'incredulità o da mancanza di fede, è certo che
l'impotenza può provenire da maleficio: ciò ammettono molti Concilii, quasi
tutti i Rituali, e così dicono tutti i teologi. Il Dirito canonico prescrive in
questo caso le regole da seguirsi (Decret. caus. 33, 9, I, c. 4, e dec. l.
4. tit. 15. c. 6 e 7). Molti autori ecclesiastici trattano espressamente
questo punto, e dimostrano questa verità con solide ragioni: così, fra gli
altri, Thiers, nell'opera. Trattato delle superstizioni. Solo la
Enciclopedia e gli scrittori della medesima scuola combattono, deridendola,
questa dottrina della Chiesa.
Dunque se il
confessore s'avvede della esistenza d'indizî che indicano l'opera del demonio.
deve consultare il vescovo o i di lui vicarii generali. Ma deve star ben attento
di non prendere le illusioni della fantasia per opere del demonio.
Si domanda 6. Che deve
farsi se, fatte le indagini, esista nondimeno il dubbio ancora circa la
perpetuitá della impotenza.
R. Risulta da
tutti i teologi e canonisti che la Chiesa concede in questo caso agli sposi un
triennio affine di tentare la consumazione del matrimonio. Cosí le Decret.
l. 4, tit. 15 c. 5 e la pratica costante dei tribunali ecclesiastici, da
Papa Celestino III almeno, in poi: ammettesi pure questa regola nel foro interno.
I canonisti
tuttavia non sono concordi sul cominciamento del triennio; alcuni reputano che
il triennio cominci dal giorno stesso della celebrazione del matrimonio; altri
dal giorno della sentenza del giudice. La prima opinione è la più comune, ed è quella
che segue la Rota e, come chiaro appare, è la sola ammissibile nel foro
interno.
Se, durante il
tempo concesso per l'esperimento, avviene che per un notevole intervallo di
spazio i conjugi non possano compiere atti venerei, sia in causa di lunga infermità
o di lunga assenza, si deve, — come credesi ordinariamente — supplire a questo
tempo perduto, imperocchè la Chiesa richiede un triennio, e in questo caso il
triennio non sarebbe completo. Non dicasi lo stesso nel caso in cui i conjugi
fossero impediti per una o due settimane soltanto, perchè questo breve tempo
deve considerarsi un nonnulla rispetto a un triennio.
Ove poi gli
sposi abbiano contratto matrimonio subito dopo che uno di essi ha raggiunta la
pubertà, e non possano consumare il matrimonio, il tempo dell'esperimento deve
computarsi, non dal giorno del contratto matrimonio, ma dal giorno della
raggiunta pubertà, perchè, prima della piena pubertà, e sempre dubbio se la
impotenza provenga da causa perpetua o piuttosto da debolezza di forze. Così Sanchez
l. 7, disp. 110, n. 10, — Collator d'And. Pontas, Collet,
ecc. L'età della pubertà perfetta è quella di 14 anni nelle femmine e di 18 nei
maschi.
Del resto, se,
non ancora spirato il triennio d'esperimento, i coniugi chiaramente si avvedono
che la impotenza è perpetua, devono concludere che il matrimonio è nullo, e
sono obbligati ad astenersi tosto da ogni atto venereo.
Non si concede
alcun tempo d'esperimento a chi manca di qualche parte del corpo essenziale
all'atto coniugale, imperocchè in questo caso non c'è più dubbio alcuno sulla
nullità dello stesso.
Si domanda: 7. Quali sono
le precauzioni che il confessore deve usare verso i coniugi e quali i consigli
ch'esso deve dare durante il tempo dell'esperimento?
R. O la
impotenza proviene da causa naturale, o da malificio: in entrambi i casi il
confessore deve usare delle precauzioni e dare dei consigli.
I. Deve
esaminare se l'impotenza, che si attribuisce ad una causa naturale, nasca da
eccesso di libidine o da altre cause sanabili, perchè allora deve ricorrersi ai
rimedii naturali, e i medici li possono indicare e prescrivere. Molte però sono
le cause naturali che impediscono al marito l'unione carnale colla moglie e che
possono essere sormontate anche senza l'opera dei medici; per esempio, la
deformità della sposa, il fiato puzzolente, la meschinità delle vesti, la
sporcizia, l'odio, il disprezzo ecc. Sono invece forti eccitanti alla
consumazione del matrimonio, la bellezza, e tutte le qualità che rendono
amabile una donna.
Nel caso in
questione, il prudente confessore deve innanzi tutto consigliare gli sposi che,
in cosa di tanto momento e che riguarda la salute eterna d'entrambi, si
comportino, durante tutto il tempo dell'esperimento, con buona fede e con pura
intenzione, senza libidini disordinate, senza odio, senza tedio, nè disgusto,
nè molestie, affine di potere di comune accordo trovare quelle posizioni di
corpo o quegli espedienti che possono essere meglio adatti ad affettuare
l'accoppiamento carnale, o ad indurre la moglie a tenersi più pulita di corpo,
e a comparire amabile presentandosi, per esempio, al marito con dolcezze e con
ornamenti decenti; cerchi insomma — sono parole dello stesso Apostolo — il
modo di piacere al marito.
II. Se
l'impotenza proviene da maleficio, v'hanno anco in questo caso precauzioni da
prendere, consigli da dare.
Precauzioni del
confessore: 1. Non si attribuisca a maleficio ciò che spesso proviene «da
verecondia e pudore, o da eccessivo amore, o dall'odio irritato della moglie
contro il marito che la sposò contro voglia« sono parole di Zachia,
dottissimo medico, riferite da Collat. And. nell'opera Del
Matrimonio, tit. 2. pag. 237.
2. Si esamini
bene se l'immaginazione sia viziata da pregiudizii o dai ciechi timori. V'hanno
per esempio dei contadini dei quali non sanno darsi all'accoppiamento venereo
pensando di dover vedere della carne nuda;
3. Non neghi
ostinatamente il confessore che l'impotenza provenga da maleficio, imperocchè
si potrebbe temere che la sua ostinazione provenisse da un germe di incredulità.
Data questa
condizione di cose, il confessore deve consigliare gli sposi:
1. Che
facciano, con cuore contrito e umiliato, una piena confessione a Dio e al
sacerdote di tutti i loro peccati;
2. Che
procurino di soddisfare la divina giustizia col piangere, col fare elemosine,
col pregare, col digiunare;
3. Se questi
mezzi non bastano a togliere una impotenza proveniente, in modo certo o
probabile, da maleficio, devesi ricorrere agli esorcismi ma soltanto dopo aver
interpellato il Vescovo e averne ottenuta espressa licenza. Le preci prescritte
per fare questi esorcismi non si trovano nel nostro nuovo Rituale, ma se il
Vescovo giudica doversi usare questo rimedio, delegherà un sacerdote e
procurerà di comunicargli tutte le formule necessarie.
Si domanda: 8. Se la
moglie è impotente per strettezza di vagina, è obbligata a subire un taglio,
qualora, a giudizio dei medici, sia quello il solo rimedio adatto al caso?
R. 1. Tutti i
teologi dichiarano che la moglie non è obbligata a sottoporsi a questa operazione
chirurgica, qualora ne possa in lei derivare grave pericolo di morte; in questo
caso l'impedimento si ritiene come perpetuo. Da questa ipotesi consegue
che, se l'impotenza fosse sparita con tale operazione, malgrado il pericolo di
morte, il matrimonio sarebbe per sempre nullo, e si dovrebbe rinnovarlo prima
che gli sposi giacessero carnalmente assieme.
R. 2. Supposto
che con un taglio non pericoloso fosse tolta l'impotenza, il matrimonio
rimarrebbe valido, senza bisogno di un nuovo consenso, e i coniugi potrebbero
tosto usare carnalmente assieme, imperocchè, secondo le Decret l. 4. tit. 15
c.
Ma una grave
questione si eleva fra teologi, ed è se la moglie è obbligata a sottoporsi ad
una tale operazione chirurgica, allorchè è giudicata necessaria e non
pericolosa.
Molti dicono
essere obbligata a subire il taglio se non è a temersi che un leggero dolore o
una leggera malattia, ma no esservi obbligata se v'ha il pericolo di cadere in
una malattia grave o di provare dolori acerbissimi, imperocchè — soggiungono —
essa promise, è vero, di prestare il suo corpo all'atto coniugale, ma di
prestarlo però nella sua condizione attuale; nè può credersi l'abbia promesso
per esporsi a grave molestie. Il matrimonio, in questo caso, e dunque valido,
perchè l'impedimento potrebbe essere tolto con mezzi naturali e assolutamente
leciti ma la moglie è scusata sufficientemente se non intende di prestarsi al
debito coniugale.
Altri, per lo
contrario, sostengono essere obbligata a subire quella operazione, anche con
acerbissimi dolori e col pericolo di contrarre una grave malattia, purchè
soltanto non sia messa in pericolo la vita; e così ragionano. — Il matrimonio
in questo caso, è valido, come risulta dalle Decretali or citate; il
marito dunque non può sposare altra donna; si condannerebbe perciò ad una
perpetua continenza. Ora la moglte deve sopportare il grave incomodo
dell'operazione chirurgica affine di sollevare il marito da una condizione di
cose molestissima.
La prima di
queste opinioni è quella più comunemente adottata, ed è pur quella di Sanchez,
Collet, Billuart, e Dens.
Collet, con alcuni
altri, opinò che fosse ragione sufficiente il solo pudore per scusare la moglie
che non vuole subire quell'operazione chirurgica benchè non pericolosa: ma più
tardi cambiò parere, come egli stesso lo attesta, appoggiandosi a queste
ragioni; cioè che la sposa, colla quale più volte il marito tentò invano di
compiere l'atto venereo, non è più veramente vergine; ch'essa deve accorgersi
di apparire agli occhi dello sposo come un oggetto molesto, in causa di quel
suo difetto corporale, e finalmente che l'ostetrica è oggi quasi dovunque
esercitata anche dai chirurghi.
Ordinariamente,
non si ingiunge quel taglio sotto pena di non concedere l'assoluzione; noi non
abbiamo infatti mai letto che la Chiesa l'abbia comandato benchè spesso sieno
occorsi impedimenti di questo genere. Perciò avvenendo questo caso, io esorto
la moglie affinchè assieme al marito si rechi da un medico o chirurgo, dotto e
pio, gli sveli candidamente il suo stato e lo richieda dell'opportuno rimedio:
se il medico o chirurgo dichiara essere necessario il taglio e non essere
pericoloso, stimolo la donna a sottomettersi a questi consigli: se poi mi
accorgo di riuscire a nulla, non ardisco andar più in là. Ma, scorso il
triennio concesso all'esperimento, si deve strettamente prescrivere alla
moglie, in qualunque ipotesi, di non permettere al marito alcuna licenza contro
la castità.
Talvolta
bastano certe unzioni per allargare la vagina della donna; ciò almeno avvenne
felicemente una volta, come mi fu asseverato da testimoni degni di fede.
Si domanda:
9. Se il matrimonio sia valido quando la moglie, tutto che di vagina ristretta,
pure con un altro uomo sia stata idonea al commercio carnale.
R. Generalmente
si insegna che il matrimonio è valido, imperocchè si giudica che la impotenza
non era perpetua: tuttavia se la moglie era, rispetto a suo marito,
tanto ristretta di vagina, ch'esso non abbia mai potuto unirsi carnalmente ad
essa per la via naturale e lecita, allora l'impotenza dovrebbe essere
considerata come relativamente perpetua: in questo caso il matrimonio è
nullo. Ora, è evidente che la nullità di questo matrimonio non può essere
cancellata dal commercio carnale della moglie con un altro uomo, ma si può
addivenire per mutuo consenso, ad un nuovo contrattto di matrimonio.
Si domanda: 10. Che si
deve dire e fare se uno degli sposi, per maleficio, diventa idoneo con altro
maleficio o con qualsiasi altro mezzo illecito?
R. In questo
caso il matrimonio è nullo, supposto che l'impedimento non si sia potuto
togliere con altri mezzi: infatti al cap. 6 tit. 15 lib. 4. Decret. si
legge che l'impedimento, che non può essere tolto se non mediante un peccato,
reputasi perpetuo. Per esempio: Pietro ha sposato Paolina, dalla quale
si separa in causa d'un di lui impedimento proveniente da maleficio: contrae un
altro matrimonio con Geltrude, ma, persistendo quel maleficio, non può nemmeno
con questa accoppiarsi carnalmente. Se questo impedimento, scorso il triennio,
e persistendo ancora, venisse poi tolto coll'opera di un altro maleficio, il
secondo matrimonio sarà nullo come lo era il primo, e, purchè non avvenga
scandalo, non è obbligato a stare nè con Paolina nè con Geltrude, ovvero può a
suo talento scegliere questa o quella. Questa decisione è contrariata da Pontas,
il quale, al tit. Impedimento d'impotenza, caso 15, dice che non è
lecito a Pietro riprendere Paolina ma deve ritenere Geltrude.
In entrambi i
casi deve essere celebrato un nuovo matrimonio, rinnovando il mutuo consenso.
Del resto,
siccome per tale impedimento oggi non può aver luogo separazione civile, è
inutile esporre qui su questo argomento le altre questioni che un tempo si
agitavano fra i dottori.
Si domanda. Che decisione
si deve prendere se, scorso il triennio perseverasse ancora l'impotenza?
R. Una volta
nel foro esteriore, chiamati e uditi di nuovo i coniugi, si prescriveva una
ispezione sui loro corpi — se non era già stata fatta — mediante persone
idonee; e, o si giudicava perpetua la impotenza, e tosto il matrimonio
si dichiarava nullo; o esisteva ancora qualche dubbio, e, ciononostante, il
matrimonio si scioglieva, affine di non costringere il coniuge che restava
danneggiato da questo stato, ad attendere troppo a lungo e forse per sempre.
Così Sanchez e molti altri da lui citati l. 7, disp. 94, n. 12.
La ragione è che la Chiesa, anche quando l'impotenza non era perpetua,
annullava di sua autorità il matrimonio, elevando una tale circostanza ad
impedimento dirimente.
In entrambi le
ipotesi si concedeva facoltà al conjuge non impotente di passare ad altre
nozze: all'impotente poi proibivasi un nuovo matrimonio, a meno che non
costasse che la impotenza era, di natura sua, non assoluta.
Ma noi che non
dobbiamo occuparci che del foro interno della coscienza, ove consti in modo
certo che la impotenza è perpetua, deve esigersi dai conjugi che si considerino
scambievolmente soltanto come fratello e sorella, che ciascuno abbia perciò un
letto separato, e che si astengano da tutte quelle licenze che sono interdette
alle persone non conjugate: così il cap: 5, tit. 15. lib. 4. Decretal.
Se poi i conjugi non possono vivere in questo modo senza esporsi al pericolo di
peccare, non devono più, di fatto se non di diritto, vivere assieme, malgrado
gli inconvenienti e lo scandalo che ne ponno derivare, sempre che però abbiano
invano tentati tutti gli altri mezzi per conservarsi casti.
Si domanda: 12. Se gli
sposi, afflitti da impotenza perpetua e ignari della nullità del loro
matrimonio, che dopo il triennio si sforzano ancora di consumare l'atto
carnale, possono essere lasciati nella loro buona fede.
R. Se constasse
essere dessi in buona fede e che un avvertimento non li farebbe ricredere,
sarebbe forse conveniente il lasciarli nella loro ignoranza, perchè in questo
caso si solleverebbe un male minore, cioè, un peccato materiale, per
evitare un male maggiore, cioè, un peccato formale. Sembra però
improbabile che due saosi credano sempre in buona fede che a loro sia lecito di
tentar un atto che essi mai non compiono, nè possono compiere. Ma può darsi che
questa ignoranza li scusi, se non interamente, tanto almeno da non essere in
peccato mortale. Ad ogni modo, noi crediamo che, generalmente, devono essere
ammoniti, e sviati dal peccato, ma tuttavia devesi ordinariamnte usare tanta
prudenza da non lasciar loro conoscere la gravezza del peccato.
Si domanda: 13. Che si
deve fare se, sciolto il matrimonio per impotenza, si viene a conoscere che il
conjuge giudicato impotente, non lo è più?
R. Se
l'impotenza fu tolta con mezzi illeciti, sovranaturali o gravemente pericolosi,
l'impedimento si considera come fosse un impedimento perpetuo, e il matrimonio
si giudica bene sciolto.
Se poi
l'impotenza cessò con mezzi naturali, i canonisti si dividono in due pareri: i
Gallicani pretendono che il conjuge che si separò per impotenza dell'altro, non
è mai obbligato a ritornare con esso, ancorchè questi provasse che non è più
impotente: I. Perchè, se si tratta del marito, come è il caso ordinario, è
difficile provare ch'egli non sia più impotente, imperocchè può benissimo darsi
il caso ch'egli non sia il padre dei figli che gli partorisce la moglie; 2.
Perchè la Chiesa gallicana stabilì che tale impotenza, benchè non perpetua,
annulli il matrimonio per il diritto positivo; 3. Perchè si presume che
l'impotenza sia stata soltanto relativa.
Il secondo
parere, molto generalizzato, e quello di teologi stranieri, i quali secondo S.
Tomaso, suppl. 9, 58, art. I — insegnano che il conjuge separato dall'altro
per autorità dell'ufficio civile, o del vescovo, e che è già passato a seconde
nozze, è obbligato a ritornare col primo conjuge, quando questi non sia più
impotente: così statuirono Innocenzo III, e Onorio III come
riferirono le Decret. l. 4, tit. 15, cap. 5 e 6.
Se in pratica
di esse questo caso — che presso di noi è quasi impossibile — bisogna riferirne
al vescovo.
Si domanda: 14. Che deve
dirsi dei matrimoni fra impuberi.
R. I matrimoni;
fra imbuberi sono, per diritto ecclesiastico, nulli: essi non valgono che come
promesse nuziali. Decret. l. 4, tit, 2, cap. 14: Così è stato
saggiamente stabilito, perchè a molti impuberi manca quella piena riflessione
che si richiede per darsi seriamente ad uno stato di tanto grave momento.
Tre soli casi
si accettano, in cui i matrimonii fra impuberi si ritengono validi, cioè:
1. Quando la
malizia supera l'età, cioè, se l'uomo si è reso, con atti frequentemente
ripetuti, capace di consumare l'atto coniugale prima della pubertà: il che può
avvenire, come lo attesta S. Gerolamo coll'esempio del re Achaz, il
quale, all'età di 12 anni, generò Ezechìa: questo fatto è riferito nel 4.
lib. dei Re c. 16, 2. et. cap. 18, 2.
E' eguale il
caso di una donna che abbia concepito a 12 anni.
2. Quando i
coniugi, raggiunta la pubertà, proseseguono nella consumazione del matrimonio
antecedentemente contratto: non possono allora essere più divisi, imperocchè si
suppone in essi un rinnovamento del mutuo consenso. Decret. l. 4 tit. 2.
cap. 10, e tit, 19 c. 4.
3. Quando i
principi e le principesse, per la pace degli Stati, contraggono matrimonio
prima della pubertà, il matrimonio è valido. Ciononpertanto i dottori ritengono
necessaria una dispensa del sommo Pontefice, o almeno dal vescovo diocesano. Navarrus,
Coll. Andeg., Collet ecc. affermano essere sufficiente
quest'ultima.
Consultisi ciò
che da noi si è detto nel nostro trattato circa l'etá richiesta per
contrarre matrimonio.
Si domanda: 15. Che deve
dirsi del matrimonio degli ermafroditi?
R. Gli
ermafroditi (parola composta da due vocaboli greci: Hermes, Mercurio afrodite,
Venere) sono così chiamati perchè ermafrodite,
figlio di Mercurio e di Venere, aveva in sè entrambi i sessi. Diconsi anche androgini,
cioè, maschio e femmina insieme.
Se si presta
fede ai cultori della storia naturale, mai esistettero ermafroditi nel
vero senso della parola, imperocchè avrebbero dovuto avere gli organi
d'entrambi i sessi per fecondare come uomini e per concepire come donne.
Ermafroditi
invece non sono, generalmente, che mostri i quali, nè fecondano, nè
concepiscono, e che non possono perciò consumare matrimonio. E' chiaro in
questo caso, che essi non possono contrarre valide nozze; e il parroco che
conoscesse con certezza la loro incapacità, è obbligato ad opporsi al loro
matrimonio.
Se poi in essi
prevalesse uno dei due sessi, in guisa da essere possibile la consumazione del
matrimonio, possono venir ammessi alle nozze, sotto condizione però ch'essi
promettano di non usare mai se non del solo sesso che in essi prevale.
E' a notarsi
che gli ermafroditi non possono ricevere nè gli ordini sacri nè abbracciare una
professione religiosa fino a tanto che il loro sesso si mantiene dubbio. Così
dice espressamente Sanchez e molti altri da esso citati, l. 7, disp.
106 n. 10.
Questa seconda
questione noi la divideremo in tre capi:
1. Del debito
coniugale chiesto e reso;
2. Dell'uso del
matrimonio;
3. Delle norme
da eseguirsi dai confessori verso i coniugati.
E' certo che i
coniugi sono strettamente obbligati di serbarsi vicendevolmente fedeli,
imperocchè ne fanno solenne promessa davanti al sacerdote, allorchè li
interroga e li benedice in nome di Dio, di cui esso e ministro. D'altronde,
secondo la stessa istituzione del matrimonio, il marito e la moglie sono due in
una medesima carne; ciascuno di essi dunque non può aver commerci carnali con
altra persona, senza recare una grave ingiuria al suo coniuge. Perciò,
qualsiasi atto venereo compiuto con persona estranea, o occasionato da essa,
come l'accoppiamento carnale, i contatti, i baci, il desiderio di compiere
questi atti, o il compiacersi volontariamente in essi, riveste il carattere di
una duplice malizia, che deve essere dichiarata al confessionale: c'è malizia
contro la castità, e c'è malizia contro la giustizia.
Dicasi lo
stesso circa quella mollezza lussuriosa che in certo qual modo offende la fede
promessa, come, per esempio, l'abusare del proprio corpo, sul quale l'altro
coniuge ha dei diritti, acquistati allo scopo di compiere gli atti venerei.
Detto questo,
dividiamo il presente Capo in tre articoli:
1. Dell'atto
coniugale considerato in sè stesso;
2. Della
richiesta del debito coniugale;
3. Del debito
coniugale, reso.
Articolo I. — Dell'atto
coniugale considerato in sé stesso. — Noi abbiamo provato nel Trattato
del Matrimonio L. 4 p. 119 terza edizione contrariamente a molti eretici,
che il matrimonio considerato in sè stesso è buono e onesto: ne risulta quindi
che l'atto carnale nel matrimonio non ha, per sè stesso, nulla di cattivo, e
può essere anzi meritorio, se è esercitato per una ragione soprannaturale, per
esempio, colla intenzione di mantenere al proprio coniuge quella fede che fu
promessa chiamando in testimonio Dio, oppure se avviene per scopo religioso,
per ottenere cioé dei figli destinati a servir fedelmente Iddio, ovvero affine
di rappresentare l'unione di Cristo colla Chiesa.
Dunque, se
sopravviene in tale argomento qualche difficoltà, non può riguardare che
l'accoppiamento carnale compiuto per sola voluttà ovvero soltanto per evitare
la incontinenza.
§
I. — Dell'accoppiamento per sola voluttà.
L'atto
coniugale compiuto per sola voluttà è peccato, ma soltanto veniale. Che sia
peccato lo prova:
2. La Ragione:
il piacere annesso al compimento dell'atto coniugale, è il mezzo che conduce al
fine, cioè alla procreazione della prole: all'infuori di questo scopo, quel
piacere diventa illecito; e a più forte ragione è illecito l'accoppiamento se,
sviato dal suo scopo, non si compie che per voluttà. Che il peccato poi sia
veniale, la Ragione stessa così lo dimostra: — il piacere che si prova in una
cosa buona non è in se stesso cattivo, ma lo è soltanto se avviene per uno
scopo che manca di legittimità. Così è del piacere che si prova mangiando:
nessuno nega che in certi casi particolari, la mancanza d'un legittimo motivo,
per esempio, se si mangia pel solo piacere di mangiare, non sia un peccato, ma
è un peccato soltanto veniale. Così pensano S. Agostino, S. Ambrogio,
S. Tomaso, S. Bonaventura, in generale, i teologi, contrariamente
a coloro che dicono essere invece un peccato mortale. Altri molti, per lo
contrario, vogliono, con Sanchez l. 9, disp. 11, n. 1, che non vi sia
menomamente peccato.
§
II. — Dell'atto coniugale compiuto per evitare l'incontinenza.
Si domanda se
sia peccato e quale peccato il chiedere il debito coniugale pel solo motivo di
evitare la incontinenza. Su questo argomento i teologi sono molto discordi, ma
le loro opinioni possono infine ridursi a due principali, che molto chiaramente
sono esposte da Sanchez lib, 9, disp. 9, e dal P. Antonio, ediz.
nuov, 9, 5. dull'obbligo de' conj. tit. 4, pag. 296.
I. Molti dicono
non esservi peccato, e così provano il loro asserto:
1. Nel I. ai
Corint. 7, 2, leggesi: «Che ciascun uomo abbia la sua moglie; che ciascuna
donna abbia il suo marito, affine di non cadere nella fornicazione.» E
l'Apostolo aggiunge, v. 5: «Non vogliate sottoporvi tra voi (coniugi) ad
astinenze, se non sono mutuamente acconsentite e temporanee, come per esempio,
durante il tempo dedicato alle preghiere; e ritornate tosto a voi medesimi per
timore che il Demonio non approfitti di voi e vi tragga poi nella incontinenza:
e questo ve lo dico non per comandarvelo, ma per essere indulgente: desidero
che voi tutti siate come sono io». S. Paolo qui non mette innanzi, che
la sola incontinenza, come motivo per permettere l'atto coniugale, e non si può
certo dire che l'Apostolo possa concedere la facoltà di commettere un atto
peccaminoso.
3. Ogni giorno
la Chiesa benedice matrimonii di vecchi che certamente non possono aver prole;
nè a loro essa dice che non debbano usare del matrimonio, e che evitino in
qualsiasi modo l'atto coniugale: essa crede quindi che possano aver assieme
commercio carnale affine di calmare la concupiscenza.
4. Un atto per
se stesso onesto e che si riferisce ad un fine onesto, non può essere cattivo.
Ora, l'atto coniugale è in sè stesso onesto: il calmare la concupiscenza per
evitare la incontinenza, è uno scopo pure onesto dunque, ecc. Così S. Antonino
ed Aludanus, Soto, Silvestro, S. Liguori, l. 6, n. 882,
e molti altri citati da S. Liguori e da Sanchez l. 9, disp. 9, num. 3.
II. Molti altri
ritengono che l'atto coniugale, esercitato per esercitare la incontinenza, è
peccato veniale, imperocchè dicono:
1. Un atto che
non si riferisca ad uno scopo legittimo è peccaminoso: lo scopo dell'atto
coniugale è la procreazione della prole: dunque se cotesto atto si compie per
uno scopo diverso, per esempio, per evitare la incontinenza, diventa un atto
cattivo.
2. Assecondare
i movimenti della libidine, senza una causa che sufficentemente scusi, è almeno
un peccato veniale: quegli il quale usa unicamente del matrimonio per evitare
la incontinenza, asseconda i movimenti della libidine nè ha una causa che sufficientemente
lo scusi, imperocchè vi sono altri mezzi per calmare gli stimoli della carne,
cioè, la elevazione della mente a Dio, le orazioni, i digiuni, e le altre opere
di cristiana mortificazione.
3. La
incontinenza sarebbe certamente un grave peccato ma non è perciò lecito di
assecondare per un altro verso la passione della libidine. Meglio si
comprenderà la cosa con un paragone: — E' proibito ai monaci di mangiare fuori
del monastero senza il permesso del superiore: uno di questi, per timore di
essere tentato dalla gola e di cadere nella trasgressione della Regola allorchè
è fuori del convento, mangia e si sazia nel monastero prima di uscire. — Non
commette egli forse un peccato veniale? Egualmente, quegli che esercita l'atto
coniugale per evitare la incontinenza, asseconda, benchè leggermente, la
libidine, affinchè questa, dominandola, non lo trascini in peccati più gravi:
Così S. Agostino, S. Gregorio Magno, S. Fulgenzio, S.
Tomaso, S. Bonaventura, Sylvius, Natale Alessandro, Collet,
Billuat, Dens, ecc.
A coteste
ragioni così rispondono i sostenitori dell'opinione contraria:
1. Che S. Paolo
non nega punto, che lo scopo proprio del matrimonio sia la procreazione della
prole; tutt'altro; ei dice anzi che il matrimonio la suppone: le sue parole
perciò devono essere prese nel senso che si può evitare di cadere nella
incontinenza anche usando il matrimonio come mezzo di procreazione della prole.
2. Che anche il
catechismo del Concilio di Trento deve essere interpretato in questo senso.
3. Che la
Chiesa non distoglie i vecchi dal contrarre matrimonio, perchè se li
distogliesse, ne verrebbero mali maggiori, come le fornicazioni, e ed altre
incontinenze.
Da ciò risulta
infine che il matrimonio fu istituito per l'unione procreatrice della prole, o
per rendere il debito coniugale, che non è che in via secondaria ch'esso può
essere giudicato come un rimedio contro la concupiscenza; per ciò non è
permesso chiedere il debito coniugale a una moglie sterile, vecchia, o incinta;
nè essa stessa può richiederlo. Del resto i sostenitori di questa opinione
dicono che in entrambi i casi il peccato sarebbe soltanto veniale, imperocchè
l'atto coniugale è per sè stesso buono, e qui non sarebbe peccaminoso se non
per la sola circostanza di non essere in relazione con uno scopo
legittimo-circostanza che non costituisce materia di peccato mortale. Per
queste ragioni essi dicono che non abusano del matrimonio quegli sposi che
compiono l'atto coniugale senza mirare ma anche senza escludere la procreazione
della prole, e che sarebbe spingerli a peccati più gravi il volerli talora
strappare da certi peccati veniali.
Dopo tutto,
questa controversia è di poco momento, in pratica, pei confessori, ma essa è,
di natura sua, atta a rimuovere dal matrimonio persone timorate: perciò è facile
il comprendere queste parole dell'Apostolo circa i coniugi: «Essi tuttavia
proveranno le tribolazioni della carne» I. ai Corin. 7, 28), e al v,
8, stesso cap. «Io dico poi, che è buona cosa l'essere celibi o vedovi, se
vi si sa persistere, come faccio io».
I teologi
insegnano anche, come molto probabile, che l'esercitare l'atto coniugale, in
parte mirando alla prole in parte mirando al piacere venereo, è un peccato
veniale imperocchè si serve in tal modo alla libidine. Così Sylvius l. 4, p.
663, Billuart, Dens, ecc. Di più, Sylvius
sostiene essere peccato veniale l'approvare e lo acconsentire al piacere che è
annesso all'atto procreatore della prole, perchè tale piacere, sorgendo da
indole corrotta, è sempre turpe, ed oscura l'intelletto. Ma Domenico Soto,
Sanchez e altri insegnano, come molto probabile, non essere in ciò
peccato alcuno, perchè se la natura unì all'atto carnale un senso di piacere,
lo fece per favorire la procreazione della prole, come fece per la
conservazione dell'individuo col gusto del mangiare e del bere, senza di cui
queste necessarissime funzioni sarebbero state neglette.
Si domanda se sia
permesso usare del matrimonio per motivo di salute.
R. È certo che
non è pemesso contrarre matrimonio nè usare di esso unicamente allo scopo di conservare
o di ricuperare la salute, imperocchè questo è uno scopo estraneo al
matrimonio, e sarebbe quindi un peccato veniale il far ciò, per la ragione che
si compirebbe un atto mancante del proprio e vero scopo.
Così S.
Tomaso supp. 9, 94, art. 5, al 4, e in generale i teologi. Ma non è peccato
contrarre matrimonio o usare di esso mirando alla procreazione della prole, ma
nel tempo stesso, in via secondaria, e quasi accidentale, proponendosi di dar
così un sollievo alla natura e di conservarsi sano: nulla v'ha di disordinato
in tutto ciò.
Articolo II. — Della
richiesta del debito conjugale — I conjugi non sono per se stessi obbligati
a richiedere il debito conjugale, imperocchè nessuno è obbligato ad esercitare
un proprio diritto. In qualche caso però, vi possono essi essere obbligati;
cioè:
1. Se è
necessario aver dei figli per prevenire gravi danni alla religione o allo
stato: ciò è evidente;
2. Se un
conjuge, ordinariamente la moglie, mostra con certi indizii di desiderare
l'atto carnale che non osa per pudore di chiedere apertamente; allora l'altro
conjuge deve prevenire la richiesta: questo però sarebbe piuttosto il caso di
un compimento del debito conjugale tacitamente richiesto, che di una reale
richiesta del debito stesso.
Ma sono molti i
casi in cui non è permesso chiedere il debito conjugale senza peccare o
mortalmente o venialmente. Tratteremo ora questo argomento in due paragrafi.
§
I. — Di coloro che peccano mortalmente esigendo il debito conjugale.
Pecca
mortalmente il conjuge che esige il debito conjugale nei seguenti casi:
1. Se, prima o
dopo il matrimonio, ha fatto voto di castità, imperocchè in forza del proprio
voto è tenuto ad astenersi da ogni atto venereo che non sia debitamente
giustificato così statuiscono le Decret. l. 3, tit. 32, c. 12. Ma è
obbligato a rendere il debito se l'altro conjuge lo richiede: infatti o esso
fece il voto dopo aver contratto matrimonio e allora non ha certo potuto
alienare un diritto che spetta all'altro conjuge; o fece il voto prima del
matrimonio, e allora contraendo matrimonio peccò gravemente, ma concesse però
nel tempo stesso al suo conjuge ciò che in faccia a Dio gli promise, per cui
questi, CHE IGNORAVA QUEL VOTO emesso, può accampare i suoi diritti conjugali
acquistati, e l'altro non può giustamente rifiutarsi di assecondarli. Così
tutti i teologi.
Dissi, che
ignorava quel voto, perchè se uno degli sposi avesse conosciuto, prima del
matrimonio, il voto emesso dall'altro, si dovrebbe credere ch'egli lo abbia
approvato, e non potrebbe perciò lecitamente richiedere il debito conjugale se
non con una dispenza. Egualmente se, durante il matrimonio uno degli sposi col
consenso dell'altro facesse voto di castità e a più forte ragione se questo
voto fosse fatto da entrambi con mutuo consenso: nessuno in questo caso,
potrebbe chiedere il debito conjugale.
In proposito Dens,
t. 7, p. 196, decide che non è in generale, conveniente che gli sposi,
specialmente se sono giovani, si votino a pepertua castità, perchè in tal caso l'amore
fra essi scema, il loro vincolo spirituale si allenta, e più acre punge lo
stimolo della carne: laonde il confessore non deve nè consigliare né permettere
loro tale voto.
Esiste dunque
ordinariamente, dopo la consumazione del matrimonio, una ragione sufficiente
per domandare la dispensa da cotesti voti, affinchè gli sposi che abitano
assieme, vinti dalle tentazioni della carne, non sieno indotti a peccare contro
l'obbligo che si sono imposto.
Si noti che la
dispensa del voto, emesso da un conjuge, senza saputa dell'altro, non è un caso
riservato al sommo Pontefice, imperocchè, per massima, le cose odiose devono
essere interpetrate ristrettivamente, ed il solo caso riservato è quello
del voto di perfetta castità. Ora, nel caso di cui si tratta, non fu
votata la castità perfetta, perchè resta sempre l'obbligo di rendere il
debito coniugale che fosse richiesto. Egualmente non è riservato il voto emesso
prima del matrimonio, imperocchè in virtù del susseguente matrimonio, il voto,
di perfetto, diventa imperfetto. Il vescovo può dispensare da questo voto. Ma
la cosa sarebbe diversa — e ciò è evidente — se il voto fosse emesso da
entrambi, ovvero da uno solo, ma col consenso dell'altro.
Il voto di non
contrarre più matrimonio, o di prendere gli ordini sacri, dopo aver già
contratto matrimonio; e il voto di abbracciare lo stato ecclesiastico, emesso
dopo la consumazione del matrimonio, non impediscono nè il rendere nè il
chiedere il debito coniugale, e in questi casi perciò non è necessaria dispensa
alcuna, imperocchè questi voti non vincolano se non dopo la dissoluzione del
matrimonio.
E' a notarsi
che il voto di castità perpetua, emesso prima o dopo il matrimonio, e che non
impedisce di rendere il debito coniugale, diventa voto perfetto morendo
l'altro coniuge, e non può essere rotto se non dal solo Pontefice, qualora si
volesse contrarre un nuovo matrimonio.
Quegli che,
dopo il voto di non sposare, contrae matrimonio, pecca mortalmente, ma può,
senza dispensa, rendere e chiedere il debito coniugale. Sciolto questo
matrimonio, non ne potrebbe validamente contrarre un altro senza dispensa.
II. Il coniuge
che ebbe un commercio carnale, naturale e completo, con persona consaguinea
all'altro coniuge in primo o in secondo grado, non ha più il diritto di
chiedere il debito coniugale, e pecca mortalmente se lo esigesse, perchè egli
avrebbe in questo caso stabilita col suo coniuge una parentela d'affinità,
affinità che è un imdimento sopraveniente al matrimonio validamente contratto.
Da questo impedimento può dispensare il vescovo da sè o col mezzo dei suoi
vicarii generali, ovvero può dar facoltà di dispensa ai confessori.
Nella nostra
diocesi, per una speciale concessione di Monsignor Pidoll, tuttavia in
vigore, i parrochi primarii possono dispensare ogni diocesano da questo
impedimento, ma solamente nel foro della penitenza, impartiscano o no la
sacramentale assoluzione (Enchiridion, p. 9.)
Questo
impedimento, sopravveniente al matrimonio, essendo stato istituito come una
pena, non obbliga la parte innocente, la quale può quindi chiedere il debito, e
l'altro coniuge è tenuto a ricambiarlo. Se poi l'incesto avesse avuto luogo
anche col consenso del coniuge, questi — come molti teologi pensano — non
avrebbe più il diritto di chiedere il debito coniugale. Ma molti altri pensano
diversamente, e dicono che questa pena non è formalmente espressa nel Diritto
canonico.
E' certo che la
donna, violentata, e l'uomo che pecca con donna che ignora essere consanguinea
a sua moglie, non vanno incontro ad impedimento alcuno, perchè quì non vi è
colpa; e, nell'ultimo caso, l'incesto non è formale, essendo necessaria perciò
la consapevolezza: Decret. l. 4, tit. 13, cap. I: Da questo cap. I.
Decret. si desume che esime egualmente da impedimento l'ignoranza delle
proibizioni della Chiesa, perchè anche quì non c'è consapevolezza. Egli è
tuttavia cosa più sicura — come dice Collet. t, 6, p. 89. — impetrare la
dispensa del vescovo.
III. Quegli
che, durante il matrimonio, battezza o tiene al fonte battesimale la propria
prole o la prole del suo coniuge, contrae l'impedimento della parentela
spirituale. Così statuisce un Decreto, caus. 30, 9, 1. can. ai conf. e le
Decretali, l, 4. tit. 11 c. 2. Nullameno, esso è tenuto a rendere il debito
al coniuge che lo richiede, ma questi avrebbe perduto il diritto di chiederlo,
qualora, consigliando o esortando, fosse stato la causa per cui l'altro
battezzò o tenne al fonte battesimale la prole.
Se, per
necessità o per assoluta ignoranza, un coniuge avesse battezzato la sua o la
prole dell'altro coniuge, non incorrerebbe in impedimento alcuno: ciò risulta
dal cap. citato, lib. 4. Decret. Vuolsi che esista la scusa della
necessità rispetto al padre — dicono Pontas, Collator Andag.
Collet, ecc. — quando manca il sacerdote, abbenchè vi possano essere dei
laici, imperocchè le cose odiose devono essere interpretate rispettivamente,
e il Diritto ecclesiastico d'altronde non si spiega chiaramente sul fatto della
mancanza di laici. Altri non pochi dicono che il padre non versa in una vera necessità,
qualora sia presente un'altra persona qualunque, sia un prete, sia un laico,
sia anche una donna, purchè sappiano battezzare. Pare che questo sia il vero
significato racchiuso nel vocabolo necessità; infatti cosi dice il
Rituale: «Il padre, o la madre, non deve battezzare la propria prole, fuorchè
nel caso in cui, imminente essendo la morte, non sia possibile trovare altre
persone che vengano a battezzare.» È necessario allora appigliarsi al partito
più sicuro, e chiedere la dispensa. Il parroco primario può in questo caso,
come abbiamo già detto dianzi, dispensare nel foro della penitenza qualsiasi
diocesano.
Quegli che
ignora la prole ch'egli battezza o tiene al fonte battesimale sia sua o del suo
coniuge, non perde il diritto di chiedere il debito coniugale, perchè non è reo
di alcuna colpa: se poi, sapendo che la prole è sua o del suo coniuge, ignora
però la proibizione della Chiesa, è pure probabile che non incorra perciò in
alcuna pena. Questa opinione sembra essere quella di Dens. tit. 7, p. 262
e di S. Liguori, l. 6, n. 152. Tuttavia sarebbe cosa più sicura di
ottenere in questo caso la dispensa.
Da ciò deriva
che un padre il quale, sia per ignoranza, sia per necessità, battezza o tiene
al fonte battesimale la prole legittima o spuria, propria o d'altri, nata da
donna colla quale non è ammogliato, stabilisce con questa donna un impedimento,
in forza del quale non ci può essere tra loro matrimonio a meno che non avvenga
una dispensa: e la ragione è che la parentela spirituale, contratta fuori dal
matrimonio, non costituisce punto per sè stessa una pena.
IV. Colui che
sa in modo certo che il suo matrimonio nullo, per esempio, in causa d'un
impedimento d'affinità proveniente da commercio carnale illecito, non può nè
chiedere il debito coniugale nè renderlo per qualsiasi motivo, imperocchè
commetterebbe una vera fornicazione: la cosa e ragionevolmente chiara, ed è
anche espressamente chiarita nelle Decretal, l. 5, tit. 39, cap. 44.
Se poi ha
contratto un matrimonio di dubbia validità, ovvero, se sorge il dubbio, dopo
averlo contratto; esso, o si avvede che questo dubbio è privo d'ogni fondamento
di ragione e allora lo deve respingere come uno scrupolo, e può chiedere
benissimo il debito coniugale; o s'accorge che esso è appoggiato a ragioni non
sprezzabili, e allora non può chiedere il debito, se prima non è
coscenziosamente certo; diversamente; egli incorrerebbe nel pericolo di
fornicare. Ma egli è tenuto a rendere il debito al coniuge che non dubita, e lo
richiede; imperocchè fra due mali che non si possono evitare, è da scegliersi
il minore; ed è certo male minore esporsi al pericolo d'una materiale
fornicazione, che a quello di essere ingiusto contro l'altro coniuge. Queste
decisioni si trovano al cap. che dianzi abbiamo citato.
Qui si suppone
che non esistano giusti motivi per ricusare il debito coniugale o per
sottrarvisi con sotterfugi, imperocchè nel caso invece in cui ci fosse pericolo
d'ingiustizia, non si dovrebbe rendere il debito. Dicasi egualmente pel caso in
cui gli argomenti per la nullità del matrimonio fossero molto più serii che quelli
per la validità non sarebbe permesso rendere il debito coniugale, imperocchè si
commetterebbe senza dubbio alcuno una fornicazione. Così Dens t. 7. p. 199.
Se entrambi gli
sposi dubitassero della validità del matrimonio, nè l'uno nè l'altro potrebbe
nè chiedere nè rendere il debito coniugale: ciò risulta da quanto si è già
detto,
§
II. — Di coloro che peccano venialmente esigendo il debito coniugale.
I. Qualche
teologo, citato da S. Liguori l. 6, n. 91 5, — dice, assecondando S.
Tomaso, che è peccato mortale lo accoppiarsi alla moglie durante i mestrui, i
quali sono quel flusso sanguigno che ordinariamente si appalesa ogni mese nelle
donne atte a rimaner fecondate; ed è peccato perchè si nuoce alla prole e
perchè è cosa proibita da Dio come risulta dal Levitico, 20, 18; altri
comunemente insegnano che è peccato, perchè con esso si offende la scienza, ma
è peccato soltanto veniale, imperocchè l'accoppiamento carnale esercitato
durante i mestrui o non nuoce affatto o nuoce ben poco alla prole, e di più, la
proibizione espressa al Levitico fu come pratica, abrogata dalla nuova
Legge. Così S. Antonino, Navarrus, Concina, Pontius,
Bonacina, Paludanus, Caietano, Sylvius, Billuart,
Dens, ecc. Se poi vi fosse una causa ragionevole che giustificasse la
richiesta del debito coniugale, per esempio, una grave tentazione, o per
sfuggire alla incontinenza, non vi sarebbe alcun peccato. Così Navarrus,
Paludanus, la scuola di Salamanca, S. Liguori.
Se però la
mestruazione, che ordinariamente non va più in là di due o tre giorni, si
prolungasse e diventasse quasi continua come talvolta accade, il marito può,
senza peccare, chiedere il debito coniugale; imperocchè sarebbe per esso assai
più grave l'astenersene.
Tutti sono
d'accordo che non pecca la moglie, la quale rende il debito durante la
mestruazione: ed è pure tenuta a renderlo, se il marito non voglia ascoltare
benigni avvertimenti e desistere, a meno che non sia evidente un grave danno,
come suole accadere allorchè la mestruazione è sovrabbondante.
Ciò che si dice
riguardo al tempo dei mestrui, dicasi con eguale ragione riguardo al tempo
della gravidanza e del flusso che segue il parto. Vedi S Liguori l. 6, 926.
II. Chiedere il
debito coniugale durante il tempo della gravidanza non è peccato mortale,
semprechè sia escluso il pericolo d'aborto; è opinione questa comunissima fra i
teologi, ed è una conseguenza di quanto abbiam detto intorno alla «richiesta
del debito coniugale per evitare la incontinenza.» Nel caso, di cui è parola,
il feto umano si trova talmente avvolto nella matrice ch'esso non può essere
toccato dal seme dell'uomo, ed è per ciò che non è presumibile un facile
aborto. Per tali motivi, con importune interrogazioni non devonsi su questo
tema molestare i coniugi.
Sanchez l. 9, disp. 22, n. 6, e molti teologi
da esso citati insegnano che non vi ha colpa, nemmeno veniale, nel richiedere
il debito coniugale durante la gravidanza, imperocchè, non richiedendolo,
sarebbe come sottostare ad una quasi continua astinenza dall'atto coniugale, e
il matrimonio in allora, che fu istituito come un rimedio contro la
concupiscenza, non servirebbe che ad irritare, non a calmare la libidine;
sarebbe un inganno. Tuttavia S. Liguori l. 6. n. 924, con molti altri
limita questa facoltà al solo caso nel quale esista pericolo di incontinenza.
Altri teologi
invece, e non pochi, pensano che anche in questo caso il richiedere il debito
coniugale non va esente da colpa veniale, imperocchè, essi dicono, l'atto
coniugale benchè esercitato per evitare la continenza, manca del suo corpo
legittimo. È questa l'opinione dei Padri e dei dottori sopracitati.
Quanto a noi,
non tenteremo certo di definire la controversia. Commiserando questa pericolosa
condizione dei conjugi diremo soltanto doversi essi lasciare nella loro buona
fede, qualora il volerli distogliere dalle loro abitudini li potesse spingere
verso falli più gravi.
III. San Carlo
avverte i conjugi di astenersi, con mutuo assenso, dall'uso del matrimonio,
nelle feste solenni, nei giorni domenicali, nei giorni di digiuno, e in quelli
nei quali si è ricevuta o si deve ricevere la S. Eucarestia Ciò è conforme a
più statuti rituali, e, fra gli altri, a quello di Mans, p. 140 Molti
teologi, citati da Sanchez e da S. Liguori, sostengono che il chiedere
il debito conjugale nei giorni sopraindicati e specialmente in quelli in cui si
deve ricevere la S. Eucarestia, non va immune da peccato veniale, a meno che
non ci sia una causa ragionevole che scusi, come sarebbe una grave tentazione.
Questa opinione è motivata da ciò: che i diletti della carne distruggono
grandemente il pensiero e lo rendono meno atto ad applicarsi a quelle cose
spirituali, alle quali sono consacrati quei giorni. Tuttavia, Benedetto XIV,
nel Sinodo Diocesano, l. 5, c. I. n. 8, nota che questo, ora, non è che
un consiglio, benchè un tempo la Chiesa l'avesse prescritto sotto gravi pene.
Tutti i teologi
dicono, con S: Francesco di Sales, (Introd. alla Vita Devota, 2°
part. cap. 20), che il conjuge il quale nel giorno in cui ricevette o deve
ricevere la divina Eucaristia, rende il debito conjugale, richiesto, non pecca;
e di più che è pure tenuto a renderlo, se l'altro conjuge non vuole ascoltar
preghiere perchè desista.
Quì i teologi
si domandano, se colui, il quale ebbe nel sonno una polluzione, possa ricevere
la sacra Eucarestia. Essi sogliono rispondere con S. Gregorio Magno, il quale,
nella lettera al divino Agostino, apostolo nella Gran Bretagna e riferita nel Decreto,
p. I, dist. 6, c. 1, faceva questa distinzione: — Questa polluzione
proviene o da sovrabbondanza naturale d'umori o da infermità, e in questi casi
non è colpevole; o proviene da eccessi di gola, e allora è peccato veniale;
ovvero da pensieri precedenti, e può essere peccato mortale. Nei primi casi, è
uno scrupolo da non temersi; nel caso degli eccessi di gola, la polluzione non
impedisce che si riceva il sacramento o si celibrino i Misteri, qualora a far
ciò consigli un ragionevole motivo, per esempio, l'essere un giorno di festa o
una domenica, nell'ultimo caso, — ci dice S. Gregorio — «una tale
polluzione deve fare astenere in quel giorno dalla celebrazione d'ogni sacro
mistero.» Cionondimeno, se la polluzione non è per la sua origine mortale
ovvero (trattandosi d'un sacerdote) se il sacerdote, realmente pentito,
sia stato da essa assolto, potrà in quel giorno celebrare, quando a ciò lo
consigli qualche ragionevole motivo.
Quegli che,
accoppiandosi carnalmente nel matrimonio, desidera che dal suo atto non nasca
prole, pecca: su ciò sono d'accordo tutti i teologi, ma sarebbe cotesto
soltanto un peccato veniale, giusto l'adagio che finis præcepti non cadit
sub præcepto. Così Sanchez l. 9, disp. 8, n. 10 e molti altri. Ma
v'hanno pure dei teologi, del resto pochissimi che lo vogliono un peccato
mortale.
Però, è peccato
mortale, qualora l'impedimento alla fecondazione venga opposto volontariamente.
Articolo III. — del
ricambio del debito conjugale. — Noi dovremo dire:
I. Dell'obbligo
di rendere il debito conjugale;
II. Delle cause
che dispensano da ricambiare il debito conjugale.
3. Di coloro
che peccano mortalmente rendendo il debito coniugale.
4. Di coloro
che commettono il peccato di Onan.
5. Di coloro
che, rendendo il debito coniugale, peccano venialmente.
§
I. — Dell'obbligo di rendere il debito coniugale.
Secondo la S.
Scrittura e la Ragione, è stretto obbligo in ciascun coniuge di rendere il
debito coniugale all'altro che lo chiedessse espressamente o tacitamente.
1. Secondo la
S. Scrittura: I. ai Corin. 7, 3: «L'uomo renda il debito coniugale alla
moglie, e la moglie lo renda al marito: non vogliate imporvi delle privazioni,
a meno che ciò non avvenga con mutuo consenso per adempiere agli ufficii della
preghiera». Queste parole esprimono chiaramente lo stretto obbligo.
2. Secondo la
Ragione: Da ogni contratto nasce l'obbligazione naturale di stare a quanto si è
convenuto; ora precipuo oggetto del matrimonio è la mutua prestazione del corpo
per compiere ordinatamente l'atto coniugale, perciò: chi senza legittimo motivo
ricusasse l'atto coniugale, mancherebbe gravemente ad un patto stipulato
solennemente e con giuramento, e peccherebbe mortalmente. Così tutti i teologi.
D'onde risulta:
1. E' peccato mortale il ricusare, fosse anche per una sol volta, senza
legittimo motivo, il debito carnale al coniuge che lo chiede con insistente
ragionevolezza. Ma se il richiedente con facilità si adatta alla privazione e
non incorre nel pericolo della incontinenza, allora il ricusare alcune volte il
debito coniugale, o non è peccato, o se lo è, non è mortale. — 2. Uno dei
coniugi non può lungamente stare assente quando l'altro coniuge vi si opponga a
meno che non esista una grande necessità. Diversamente, una tale assenza
equivarrebbe al rifiuto di rendere il debito coniugale, e lederebbe gravemente
la giustizia.
§
II. — Dei motivi che dispensano dal rendere il debito coniugale.
Come un
legittimo motivo può talvolta dispensare dal restituire una cosa, così può
egualmente dispensare dal restituire il debito coniugale. Molti sono i motivi
di questo genere, cioè;
1. Se il
coniuge che chiede il debito coniugale non è in sè stesso, per esempio, se è
demente, o ubbriaco, non ci è obbligo in allora di assecondare la sua dimanda,
imperocchè la sua richiesta non è un atto ragionevole. Tuttavia, se l'uomo,
malgrado questo suo stato, può ancora consumare l'atto coniugale, la moglie può
annuire alla sua domanda, e molto più sarà tenuta ad annuire, quando
ragionevolmente essa tema che una ripulsa spingerebbe il marito alla
incontinenza, o a darsi ad altra donna, o ad uscire in bestemmie o in
turpiloqui coi domestici o coi figli. Così Sanchez l. 9, disp. 23, n. 9,
S. Liguori, l. 6, n. 948, ecc. i quali dicono che alla donna demente o
furiosa non deve nè rendersi nè chiedere il debito coniugale, perchè v'ha
pericolo d'aborto:
1. E' scusato
quegli che non rende il debito coniugale, allorchè, rendendolo, correrebbe
grave pericolo la sua salute: prima del debito coniugale, c'è infatti
l'esistenza e la salute. Dicasi lo stesso, se si corresse il grave pericolo di
nuocere alla prole.
Da ciò risulta:
1. non c'è obbligo di rendere il debito al marito, affetto da morbo contagioso,
per esempio da male venereo, peste, lebbra, ecc. Alessandro III, però
dice, che deve rendersi il debito coniugale ad un lebbroso ma Sanchez, l. 9,
disp. 24, n. 17. S Lig. l. 6, n. 930, e molti altri dippoi insegnano che
quelle parole si riferiscono al caso in cui non ci fosse probabilità di
incorrere nel pericolo di rimanere ammorbato, imperocchè è repugnante
l'ammettere che un coniuge debba esporsi a tanto pericolo. Ma gli stessi autori
eccettuano il caso in cui la lebbra abbia preceduto il matrimonio e fosse nota
all'altro coniuge. Ad ogni modo, è sempre da supporsi che non vi sia un grave
pericolo, per esempio, il pericolo della morte. 2. Il coniuge ammalato, che non
potrebbe rendere il debito senza suo grave danno, ne è dispensato per tutto il
tempo della malattia; ma non è permesso di rifiutarlo adducendo inconvenienti
di gravidanza o d'educazione dei figli, o le consuete molestie del parto,
imperocchè tutte queste cose non sono che accessorii del matrimonio.
3. Un coniuge
non è tenuto a rendere il debito all'altro coniuge il quale per causa
d'adulterio perdette il diritto di chiederlo, imperocchè non si è più obbligato
ad essere fedele a chi ha rotto la fede: ma se è egli stesso invece il reo
d'adulterio, non può ricusare il debito coniugale richiestogli, imperocchè in
questo caso le offese si compenserebbero. Ciò è cosa certa per la moglie
rispetto al marito, ma non è forse così per il marito rispetto alla moglie,
perchè la donna adultera pecca assai più gravemente pel motivo ch'essa provoca
il pericolo di introdurre nella famiglia dei falsi eredi.
Del resto,
quegli che perdonò al suo coniuge l'adulterio per esempio, rendendogli il
debito coniugale dopo aver saputo l'adulterio stesso, non può rifiutarlo.
Nondimeno, l'adultero può chiedere, ma solo come un favore, al coniuge
consapevole della infedeltà, che gli conceda il debito coniugale: se poi questo
coniuge ignora affatto l'infedeltà, l'adultero non è obbligato a rivelargliela,
per la ragione che non si può costringere chicchessia ad infliggersi una
punizione.
4. Se il debito
coniugale viene chiesto frequentemente, per esempio, più volte nella stessa
notte, non si è sempre obbligati a renderlo, imperocchè ciò è contrario alla
ragione, e può essere grandemente nocevole. Deve però la moglie, per quanto può
— dice Sanchez, l. 9, disp. 2, n. 12, — sovvenire ai bisogni del marito
allorchè questi prova stimoli carnali veementi: lo spirito di carità vuole che
essa, per quanto può, allontani il marito dal pericolo della incontinenza.
5. La donna non
è obbligata a rendere il debito coniugale durante il flusso mestruale; o nel
puerperio, a meno che ragionevolmente non tema che il marito incorra nel
pericolo della incontinenza, perciò, se le di lei preghiere non valgono a persuaderlo
di astenersi dall'atto coniugale, deve alla fine rendergli il debito,
imperocchè, altrimenti, sarebbe a temersi il pericolo d'incontinenza, di
litigii, od altri inconvenienti. Cosi S. Bonaventura e molti altri
citati da Sanchez, l. 9, disp. 21, n. 16.
Generalmente i
teologi insegnano essere lecito rendere e chiedere il debito coniugale nel
tempo dell'allattamento perchè consta dall'esperienza che raramente
l'accoppiamento carnale guasta in questo caso il latte. (Sanchez, l. 9, disp. 22, n. 14, e S. Liguori, 1, 6, n. 911).
6. Non è
permesso ricusare il debito coniugale per la paura di avere troppo numerosa
prole. Gli sposi cristiani confidino in Dio che manda il cibo ai giumenti e
ai pulcini dei corvi quando l'invocano (salm. 146, 9); benedicendo egli
la fecondità, benedice bene spesso anche i beni temporali e spirituali facendo
si che fra i figli uno ne venga il quale, dotato di particolari qualità,
benefichi poi moralmente e materialmente tutta la famiglia.
Ciononpertanto,
se mancassero davvero i mezzi di allevare, secondo il proprio stato, una
numerosissima prole, Sanchez l. 19, disp. 25, n. 3, e molti altri,
reputano lecito il ricusare il debito coniugale, semprechè non vi abbia
pericolo d'incontinenza; ma siccome il coniuge che nega in questo caso il
debito non può mai con certezza sapere se il conjuge che lo domanda possa
incorrere nel pericolo d'incontinenza, così il confessore deve raramente
permettere che sotto questo pretesto si neghi il debito conjugale. Egli deve
sempre esigere che l'astinenza avvenga per mutuo consenso; cionondimeno benchè
si sia fatto il proponimento di conservarsi reciprocamente in una perfetta
continenza, ciascuno degli sposi deve sempre essere disposto a rendere il
debito conjugale all'altro che lo richiedesse.
VII. La donna
che, consenziente il marito, prende, per una pattuita mercede, un fanciullo
d'altri a nutrire, è scusata se non rende il debito conjugale durante
l'allattamento, imperocchè se il latte di una donna incinta non nuoce
ordinariamente alla propria prole che di esso si alimenta, non avviene cosí se
la prole che succhia quel latte è prole d'altri. Perciò, chi affida il proprio
bambino ad una balia, lo vedrà infermarsi, quando quella balia sia incinta.
§
III. Di coloro che peccano mortalmente, rendendo il debito coniugale.
I. Se il
coniuge che domanda il debito pecca mortalmente, per esempio, chiedendolo in un
luogo pubblico o sacro, o quado vi sia pericolo d'aborto o pericolo di nuocere
alla propria o alla salute dell'altro, ovvero quando v'abbia evidente rischio
di spandere il seme fuori della vagina della donna mentre potrebbe sfogarsi
diversamente, è cosa certa che pecca pure mortalmente l'altro conjuge che gli
rende il debito, imperocchè parteciperebbe alla stessa colpa ed assumerebbe lo
stesso carattere peccaminoso.
II. Se l'uomo è
decrepito e debole tanto da non poter compiere l'atto carnale, e non abbia
speranza di poterlo compiere, peccherebbe mortalmente esigendo il debito
conjugale, perchè sarebbe cosa contro natura; e la moglie per la stessa ragione
peccherebbe mortalmente, rendendolo. Ma se l'uomo riuscisse di quando in quando
a darsi all'atto conjugale, benchè spesso non riesca a consumarlo, la moglie
può rendere il debito e può anche aver l'obbligo di renderlo, imperocchè, nel
dubbio di un felice risultato, il marito non può privarsi del proprio diritto:
al marito stesso in questo caso è permesso chiedere il debito conjugale, poichè
può avere una ragionevole speranza di saper consumare l'atto carnale; e se
avvenga ch'egli spanda il seme fuori della vagina della donna, si giudica
essere avvenuta la cosa per accidente, ne gliela si può imputare a peccato. Ma
ove nessuna speranza egli abbia di giungere alla consumazione dell'atto
carnale, egli deve certamente astenersene sotto pena di peccato mortale. Così Sanchez,
l. 19, disp. 17, n. 24, S. Liguori, l, 6, 954, dub. 2 e molti altri
da essi citati.
III. Se uno dei
conjugi, richiedendo il debito, peccasse mortalmente in forza di una
circostanza sua particolare, per esempio, perchè fece voto di castità, o perchè
si propone uno scopo cattivo, — i teologi domandano se è permesso rendere a
questo coniuge il debito. Certi teologi pensano essere peccato mortale rendere
quì il debito conjugale, a meno che la cosa non sia scusata da un grave motivo;
imperocchè, nel caso in questione, il conjuge che domanda, non ha diritto
alcuno sul corpo dell'altro; ovvero, pel voto emesso o pel fine perverso che si
propone, il suo atto non sarebbe che un atto cattivo: l'altro conjuge può
quindi non voler assolutamente rendersi suo complice. Molti altri, per lo
contrario, dicono che l'altro conjuge, non solo potrebbe rendere il debito
coniugale, ma deve renderlo, perchè il conjuge richiedente non perdette con un
voto emesso, il suo diritto: sarà una richiesta illecita, ma non ingiusta.
Potreste voi negare un debito pecuniario a un vostro creditore che promise di
non chiedervelo, adducendo voi ch'egli ora ve lo chiede contro la promessa
fatta? No certamente. Del pari — dicono — il coniuge che è richiesto, non può
negare il debito conjugale all'altro conjuge, malgrado il voto da questi fatto,
e malgrado il peccato mortale che esso commette, chiedendo. Così Sanchez, l.
9. S. Liguori, ecc.
A me pare
frattanto fuori di dubbio che il conjuge a cui, è chiesto il debito sia
obbligato, pe dovere di carità, di avvertire il chiedente e distoglierlo dal
peccato, «semprechè — dice S. Liguori — esso possa ammonire senza tema
di grave dissidio, di sdegno, o di incontinenza,» inconvenienti che spesso sono
a temersi. Non è più un obbligo la correzione fraterna quando non vi ha
speranza alcuna di ammenda.
Tutti i teologi
asseverano che il conjuge non legato ad un voto può lecitamente chiedere il
debito conjugale, e molti ve ne hanno che lo consigliano a chiederlo quando
egli preveda che l'altro conjuge glielo richiederebbe lui stesso: gli
eviterebbe così di commettere un peccato.
IV. Risulta dal
fin quì detto che il conjuge, il quale ebbe, un commercio incestuoso con
persona consanguinea all'altro conjuge in primo o secondo grado, decade dal
diritto di chiedere il debito.
Ma se,
ciononstante, il chiedesse, — è obbligato l'altro a renderlo?
Egli è certo
che il conjuge innocente può chiedere il debito conjugale e l'altro è tenuto a
renderlo. Perciò molti teologi in questo caso, come nel caso precedente, lo
consigliano a chiedere il debito, prevenendo così la domanda dell'altro, il
quale, chiedendo, cadrebbe in peccato.
Molti teologi
citati Sanchez, l. 9, disp. 6, n. 11, ritengono invece che il coniuge
innocente pecca mortalmente rendendo il debito all'altro che lo richiede,
perchè asseconda una richiesta che ha peccato mortale, e perciò fa propria
l'altrui malizia.
Moltissimi
altri però, e più probabilmente, insegnano con Sanchez e S. Liguori che
non v'ha peccato a rendere il debito conjugale, quando non si possa
prudentemente distogliere il conjuge richiedente dal peccato di chiederlo: lo
sposo innocente, compiendo in questo caso l'atto conjugale, fa una cosa buona
in se, a cui ha un diritto, che non gli può esser tolto dall'atto colpevole
dell'altro conjuge: sia che egli chieda, sia che egli renda, esercita un
proprio diritto, e perciò non pecca, specialmente poi se negando il ricambio
del debito conjugale ne potessero risultare inconvenienti o se non gli fosse
possibile in niun modo di distogliere l'altro conjuge dal peccato.
§
IV Di coloro che commettono il paccato di Onan.
Questo peccato
avviene allorquando l'uomo, dopo essersi introdotto nella vagina della donna,
si ritira, affinchè il suo umore spermatico non si versi dentro le parti
genitali della donna stessa, e così non avvnga la generazione. La denominazione
di questo peccato viene da Onan, secondogenito del patriarca Giuda, il quale,
morto il fratel suo Her senza figli, fu costretto a sposarne la vedova, di nome
Thamar, affine di continuare la parentela del fratello. «Sapendo Onan che i
figli nascituri non sarebbero considerati come suoi e porterebbero il nome del
fratello, nè ciò egli volendo, accoppiavasi, sì, colla vedova del fratel suo,
ma faceva in modo che il suo seme si versasse in terra» (Gen. 38, 9.).
Nulla è oggi più frequente di questa detestabile abitudine fra i giovani sposi,
che, non infrenati dal timore di Dio, sprezzano le parole dell'Apostolo: «sia
il connubio, sopra ogni altro, onorevole; e il talamo, immacolato, (Cbr.
13, 4)» e vivono: «come il cavallo e il mulo, a cui manca la ragione
(Sal. 31, 9).» Non domandando essi al matrimonio che le sole voluttà
della carne, rifuggono dai suoi doveri e vogliono, o non aver figli, o averne
solo un determinato numero; perciò si danno turpemente e senza freno alcuno
alla libidine, evitando con arte le conseguenze dei loro accoppiamenti carnali.
1. E' certo che
l'uomo il quale così opera, qualunque ne sia la causa, pecca mortalmente, se
non lo scusi la buona fede; e non può essere assolto in confessione, se non si
dolga del peccato e si proponga sinceramente di non cader più in esso; non può
essere messo in dubbio ch'egli operi in modo enorme contro lo scopo del
matrimonio. «Fu per questo che il Signore percosse Onan, il quale commetteva
un'azione detestabile. (Gen. 38 10).»
2. E' certo
che, per la stessa ragione, la moglie che induce il marito a così fare, ovvero
acconsente alla di lui detestabile azione, o — e ciò a più forte ragione — essa
si ritira, malgrado la volontà del marito prima che questi le abbia versato
nella vagina il seme, pecca mortalmente ed è assolutamente indegna
dell'assoluzione. Sì, non è infrequente il caso di mogli che non permettano al
marito di consumare interamente l'atto coniugale, ovvero che, almeno, liberamente
acconsentano che il marito compia la nefanda azione d'Onan.
3. E' certo che
la moglie è, almeno ordinariamente, obbligata ad ammonire il marito e a
distoglierlo, per quanto può, dal compiere quella perversa azione: è la legge
della carità che da lei lo esige.
4. E' certo che
la moglie può e deve rendere il debito coniugale; se il marito, da lei
ammonito, promette di consumare perfettamente l'atto carnale, e se, infatti, di
quando in quando esso perfettamente lo consuma: sul semplice dubbio ch'egli
possa mancare al proprio dovere, essa non può negare il debito coniugale; ma
essa deve disapprovarlo allorchè egli si ritira indebitamente della sua vagina;
se no, peccherebbe anch'essa gravemente.
Ora la
difficoltà sta nel sapere, con tranquilla coscienza, se essa può rendere il
debito conjugale, ove sappia con certezza che il marito si tirerà indietro,
malgrado le sue preghiere per distornelo.
Molti teologi
sostengono che la moglie in questo caso non può rendere il debito coniugale
ancorchè si esponesse ad una minaccia di morte:
1. Perchè
l'atto del marito che si ritira indebitamente dalla vagina della moglie è atto
cattivo; e la moglie che a questo atto annuisce, partecipa alla peccaminosità
del marito;
2. Perchè,
nella nostra ipotesi, l'uomo non chiede veramente l'atto coniugale, ma soltanto
il permesso di introdursi nella vagina della donna per eccitare in se una
polluzione;
3. Perchè, se
il marito esigesse dalla moglie atti sodomitici, essa certamente non potrebbe
in modo alcuno acconsentirvi, ancorchè si esponesse con ciò alla morte: ora,
nel caso nostro, la domanda del marito si riduce a chiedere nè più nè meno che
un atto di sodomia[12], perchè vi sarebbe esclusa la consumazione dell'atto
conjugale. Cosí Habert, tit. 7, p. 745, Collator di Parigi, t 4, p.
348, molti Dottori della Sorbonna citati da Collet, t. 16, p.
244, Collator Andeg. «Sugli Stati,» t. 3 p. ultima, Bailly ecc.
[12] Qui
l'autore si riferisce a quella specie, diremo così anormale di sodomia,
che si compie fra persone di sesso differente, imperocchè la sodomia normale
sarebbe quella fra maschio e maschio, fra femmina e femmina (Vedi cap. III. art. II). (Nota del
traduttore)
Molti altri
insegnano che la moglie, la quale non si oppone alla domanda del marito e si
offre a lui nel modo che è d'uso, va immune da ogni peccato, qualora essa non
dia il proprio intero assentimento all'azione del marito quando esso si tira
indietro prima del tempo, imperocchè, cosi operando, essa fa cosa lecita ed
esercita un diritto di cui il marito non può colla sua malizia, privarla: essa
non fa se non ciò che, dato il matrimonio, può lecitamente fare. E il marito
che ad essa si accosta e s'introduce nella parte genitale di lei, non pecca già
per ciò, ma pecca soltanto perchè si ritira innanzi tempo e spande fuori della
vagina il suo seme. Dunque se la moglie non dà a quest'azione del marito il
proprio consenso, essa non partecipa al peccato del marito. Così Sanchez, l.
9, disp. 17, n. 3, Pontius, l. 10, cap. 11, n. 3, Tamburinus. l. 7, cap. 3, § 5,
n. 4. Sporer, p. 356. n. 490, Pontas al vocabolo «Dovere
conjugale» cap. 55, S. Liguori, l. 6, n. 947.
Roncaglius e Ebel,
citati da S. Liguori, l. 6, n. 947, permettono essi pure alla moglie di
rendere il debito conjugale al marito che vuole tiarsi indietro innanzi tempo,
purchè essa non dia il proprio assenso al peccato di lui: ma per scusarla
d'ogni colpa essi esigono un grave motivo.
Questa opinione
a noi sembra la sola ammissibile, imperocchè noi siamo fermamente persuasi che
quì l'azione della donna non ha nulla in sè di cattivo; perciò crediamo che il
giudizio, dato da Habert e dagli altri teologi che ed esso aderiscono,
sia troppo severo, e non fondato. La moglie può dunque quand'abbia una
sufficiente ragione, prestarsi passivamente al marito: ma la ragione scusante
deve essere proporzionata alla malizia del peccato e all'effetto della
cooperazione, imperocchè non si può mettere in dubbio che la moglie in questo
caso cooperi direttamente al peccato del marito: per ciò la causa scusante
vuolsi che sia grave. Così ora pensano in generale i confessori dotti e pii, e
la stessa Sacra Penitenzieria, la quale interrogata con queste parole: — «Una
pia moglie può ella permettere che suo marito le si accosti, dopo che ella sa
per esperienza ch'egli segue la nefanda usanza di Onan.......... specialmente
se, rifiutandosi essa, si esponga al pericolo di sevizie, o tema che il marito
vada a sfogarsi con prostitute?» rispose il 23 aprile 1822: «Siccome nel
caso proposto la moglie, da parte sua, nulla farebbe che fosse contro natura,
faccia pure questa cosa che è lecita; e tutto ciò che vi ha di disordinato in
questo atto si imputi alla malizia dell'uomo, il quale, invece di consumare
l'atto conjugale, si tira indietro e spande il seme fuori della vagina. Se la
moglie, dopo aver fatto le debite ammonizioni al marito, che insiste
minacciandole percosse, la morte, od altre gravi sevizie, essa nulla ottiene,
può allora, senza peccare, (come insegnano provetti teologi) prestarsi
passivamente al marito, imperocchè, in questo caso, essa non fa che
semplicemente tollerare il peccato di suo marito, ed ha per sè gravi motivi di
scusa, perchè la carità che pur l'obbliga ad opporsi al marito, non l'obbliga
però ad opporglisi esponendosi a troppo gravi inconvenienti.»
Dunque resta
stabilito che la moglie, date queste circostanze, non pecca prestandosi al
marito, semprechè però possa essere scusata da gravi motivi. Ora, ecco i motivi
che vengono considerati come gravi:
1. Se essa teme
la morte, le percosse, o gravi sevizie. Ciò risulta manifesto dai responsi
della Sacra Penitenzieria e dalla Ragione.
2. Se c'è luogo
a temere che il marito conduca nella casa conjugale una concubina e viva
maritalmente con essa, imperocchè una donna sensata sopporterà piuttosto le
sevizie e le percosse che vedere nella propria casa una tresca così ingiuriosa
per lei.
3. Se c'è a
temere che il marito, benchè non tenga nella propria casa una concubina, la
possa però in qualche altro modo frequentare, o possa tenere relazioni con
meritrici, ci sembra che la moglie abbia quì un motivo sufficiente di scusa,
tuttochè la Sacra Penitenzieria non si sia espressa su questo punto: è certo
che un tale stato di cose riuscirebbe assai molesto alla moglie recando con sè
diverbi, dissidii, sciupìo d'avere, scandalo, ecc.
4. La gravità
di tutte queste molestie deve essere misurata a seconda delle circostanze
personali. Ciò che per uno si reputa lieve cosa, può essere per un altro una
cosa gravissima: ai litigii passeggeri, ai dissidii ed anche alle percose non
si dà gran peso presso i contadini ma queste cose sarebbero insopportabili per
una donna timida, istruita con squisitezza, ed educata alle maniere urbane.
Ora, il timore di rilevanti dissidii, in quest'ultimo caso, sarebbe una causa
sufficiente per scusare il ricambio del debito conjugale.
5. Egualmente
può rendere il debito conjugale la moglie, se essa sà con certezza che il
marito, irritato da una di lei negativa, bestemmierebbe Dio e la religione,
ingiurierebbe confessori e sacerdoti, e uscirebbe in parole scandalose coi figli
o coi domestici: volendo essa impedire un peccato, ne provocherebbe invece
altri, gravi, ed anche più gravi del primo: a nulla di buono essa dunque
riuscirebbe, e dovrebbe anche esporsi a subire gravi molestie.
7. Non è
necessario che la moglie resista al marito fino al punto di provare le sevizie,
le molestie e gli altri inconvenienti summentovati, imperocchè allora, anche
rendendo o offrendo il debito conjugale, non riuscirebbe spesso a togliere il
male già esistente: d'altronde essa non è obbligata a subire quelle molestie
per impedire al marito di peccare. Basta dunque che il timore sia ragionevole.
8. Non è essa
neppure obbligata di ammonire il marito ogni volta ch'esso le domanda il debito
conjugale coll'intenzione di ritirarsi da lei prima del tempo, quando ella
sappia per esperienza che nulla ottetrebbe, deve tuttavia, almeno qualche
volta, far capire al marito ch'essa non è contenta del suo mal fare. Si guardi
però bene dal non assentire internamente al peccato del marito o dal
compiacersi segretamente in esso, sia pel desiderio di non aver figli, o di non
aver le molestie della gravidanza, o per qualsivoglia altro motivo. Nel caso
che l'atto fecondatore dipendesse unicamente da lei, dovrebbe essere disposta,
piuttosto alla morte, che ad impedire la generazione. In tutti questi casi è
permesso alla moglie tutto ciò che le sarebbe lecito, se il marito compisse
regolarmente l'atto conjugale.
I suesposti
principii sono generalmente accettati. Cionullameno v'hanno ancora molte
incertezze che nello scorso anno così esponemmo al sommo Pontefice:
«Beatissimo
Padre,
«Il vescovo di
Mans, prostrato con somma reverenza ai piedi di Vostra Santità, vi espone
umilmente ciò che segue:
«Quasi tutti i
giovani sposi non vogliono aver prole numerosa, e d'altronde non possono
moralmente astenersi dall'atto conjugale.
«Interrogati
dai confessori sul modo con cui essi esercitano i loro diritti conjugali,
sogliono ordinariamente ritenersi gravemente offesi da tali interrogazioni; ma
continuano però nei loro smodati atti conjugali e nel tempo stesso non vogliono
punto avere prole troppo numerosa, malgrado tutte le nostre ammonizioni.
«Agli
ammonimenti dei confessori rispondono abbandonando i sacramenti della Penitenza
e della Eucarestia, dando in tal modo mali esempii ai figli, ai domestici e ad
altri fedeli in Cristo. Da ciò consegue un lagrimevole pregiudizio alla
religione.
«Il numero di
coloro che si accostano al sacro tribunale diminuisce dovunque di anno in anno,
e specialmente pel motivo or enunciato, come asseverano molti parroci, cospicui
per pietà, per scienza e per esperienza.
«Che facevano
un tempo i confessori? dicono molti. Dai matrimonii non nascevano allora,
generalmente, più figli di quello che oggi ne nascano: i conjugi non erano
allora più casti d'adesso, eppure non mancavano essi al precetto della annuale
Confessione e della Comunione pasquale.
«Tutti
sinceramente ammettono essere massimo peccato tanto la infedeltà di un conjuge,
quanto il provocato aborto. Or bene: non si riesce che a stento a persuadere
qualcuno, che si è obbligati, sotto pena di peccato mortale, di conservarsi
perffettamente casti nel matrimonio([12]), e di correre il rischio
di procreare numerosa prole.
«Lo scrivente
vescovo di Mans, prevedendo i gravi mali che da ciò possono scaturire, e
turbato dalle incertezze, sollecito interpella Vostra Beatitudine sulle
seguenti questioni:
«1.° I conjugi,
che usano del matrimonio in modo da impedire la fecondazione, commettono un
atto per sè stesso mortalmente cattivo?
«2.° Benchè
quest'atto sia da aversi per sè stesso mortalmente cattivo, possono gli sposi,
che di esso non accusano sè stessi, ritenersi in una tale buona fede che li
renda immuni da grave colpa?
«3.° È da
approvarsi la condotta di quei confessori che per non offendere i conjugi, si
astengono dall'interrogarli circa il modo col quale usano dei loro diritti
conjugali?«
Risposta,
La sacra
penitenzieria, ponderate naturalmente le proposte questioni, risponde alla 1.ª:
«Allorquando
tutta la disordinatezza degli atti conjugali provenga dalla malizia dell'uomo,
il quale, invece di consumare l'atto, si tira indietro e spande il suo seme
fuori della vagina della moglie, questa può, dopo le debite ammonizioni
invanamente fatte e qualora il marito insista minacciandola di percosse o di
morte, può, senza peccare, — come insegnano autorovoli teologi — prestarsi
passivamente all'atto conjugale, a patto però, che in questi casi essa non
faccia che tollerare semplicemente il peccato del marito: essa ha quì un grave motivo che la scusa,
imperocchè la carità, che pure l'obbliga a far resistenza, non l'obbliga
cionompertanto fino ad esporsi a tanto gravi molestie
Alla 2:ª poi e
alla 3.ª questione risponde: Che il confessore si richiami alla mente l'adagio:
le cose sante si devono trattare santamente; che ponderi bene le parole
di S. Alfonso de' Liguori, uomo dotto ed espertissimo in tali cose, il quale
così dice nella sua Pratica del Confessore §. 4, n.° 7: — «Relativamente
a certi peccati dei conjugi riguardato al debito coniugale, il confessore non è
ordinariamente obbligato di tenerne speciale parola, nè conviene farne
interrogazioni: a meno che non si tratti della moglie; per chiederle; nel modo
il più modesto possibile se ella abbia reso il debito coniugale.... Sul resto,
taccia; parli soltanto se sarà
interrogato — e finalmente che non ometta di consultare attri provetti Autori.»
«Dato in Roma,
l'8 giugno 1842.»
Le suaccennate
parole di S. Alfonso de' Liguori trovansi nella ediz. XI° in 4° al §
suindicato, ma non al N.° 7, ma al 41.
Notiamo dunque
che la Sacra Penitenzieria: 1.° suppone che l'azione del marito il quale fa
abuso del matrimonio, è azione per sè stessa mortalmente cattiva; 2° ammette
che la norma indicata da S. Alfonso de' Liguori è prudente, e che i confessori
la possono tranquillamente adottare.
I confessori
quindi si astengono cautamente — e specialmente i più giovani — da
interrogazioni indiscrete e che recano grave molestia ai conjugi: operino e
parlino con molta prudenza, senza però ledere mai la verità colle loro
risposte, nè assolvere indebitamente il penitente ch'essi hanno la coscienza
ch'ei sia in peccato mortale; ma non sieno però nemmeno troppo solleciti a
ritenere il penitente privo di quella buona fede che talora toglie al peccato
la gravezza mortale. Ad ogni modo, si procuri d'indurre i coniugi a vivere
santamente nel matrimonio.
La moglie
procuri colla forza delle blandizie, con tutti i segni dell'amore, colle
preghiere, colle esortazioni, di persuadere il marito a compiere l'atto
coniugale colle debite regole, se no, di astenersene completamente, e vivere da
cristiano. L'esperienza prova che molte mogli sono riuscite in questo modo a
persuadere i loro mariti.
Si domanda: 1. Se la
moglie può chiedere il debito coniugale al marito, quando ella sappia che esso
ne abuserà.
R. Molti
teologi rispondono affermativamente, perchè essa ne ha diritto, e del suo
diritto usa. Così Pontius, Tamburinus, Spover ecc. Ma
altri e più rettamente, come risulta da quanti abbiamo detto, richiedono un
grave motivo affinchè essa possa lecitamente chiedere il debito coniugale,
perchè altrimenti offrirebbe al marito un'occasione prossima di peccare;
difficilmente poi potrà presentarsi questo motivo quando essa può trovare altri
mezzi per vincere la tentazione. Ma, dato infatti il grave motivo, per esempio,
la difficoltà di vincere la tentazione, essa non peccherebbe affatto,
imperocchè è permesso di domandare con retto intendimento e per gravi motivi
una cosa buona in sè, a quegli che la può dare senza peccare, abbenchè questa
cosa, per l'abuso che se ne farebbe, non si possa dare senza cadere in peccato:
per questa ragione è permesso chiedere i sacramenti da un sacerdote indegno, un
prestito di un usuraio, il giuramento da un pagano, ecc. quando vi sieno per
far ciò sufficenti motivi.
Si domanda: 2. Se il
marito possa versare il proprio seme fuori della vagina della donna, quando,
per dichiarazione dei medici, la moglie non potesse se non con evidente
pericolo di morte.
Rispondiamo,
con tutti i teologi, negativamente, perchè il versare a quel modo il proprio
seme è cosa contro natura, e detestabile. Se il pericolo della morte non è
molto probabile, si consumi completamente l'atto, se poi il pericolo è
moralmente certo, bisogna astenersene affatto. In questo caso non rimane ai
coniugi altra via di salvezza che quella della continenza: è questa una
condizione lagrimevole, ma non può essere mutata. Questi disgraziati sposi
devono, se vogliono con più facilità rimanere continenti e vivere castamente,
separarsi di letto.
E' a notarsi
che anche i fornicatori, gli adulteri, ecc., non possono opporsi alla
generazione col lasciar volontariamente cadere il seme fuori della vagina della
donna, perchè questa è sempre una cosa contro natura: circostanza d'altronde da
doversi dichiarare in confessione.
§
V. Di coloro che peccano venialmente rendendo il debito coniugale.
1. Quando
l'atto coniugale è un peccato veniale da parte del coniuge che l'ha domandato,
per esempio, perchè lo domandò per sua voluttà, credesi che vi sia colpa a
concederlo, a meno che non lo scusi qualche ragione, imperocchè altrimenti non
si farebbe che somministrare materia al peccato. Se però la domanda è fatta in
modo assoluto, è questa una ragione sufficente per giustificare il coniuge che
rende il debito, imperocchè diniegandolo, sarrebbero a temersi risse, odii,
scandali, pericoli più gravi di peccato ecc.
2. Se poi
l'atto coniugale è venialmente cattivo per la cosa in sè, per esempio, perchè,
volendo pur far uso, quegli che lo domanda, delle parti naturalmente destinate
a ciò, nondimeno vuole un modo o una posizione strana e venialmente cattiva,
oppure vuole l'atto coniugale durante la mestruazione o la gravidanza, allora
non lo si deve concedere se non c'è una ragione, essendo esso indecente.
Sarebbe però una ragione sufficiente per rendere il debito conjugale richiesto,
se, diniegandolo, avessero a temersi dei dispiaceri. Così Sanchez, l. 9,
disp. 6, n. 6, S. Liguori, l. 6. n. 946 e molti altri citati da
essi, contrariamente ad altri non pochi i quali non ammettono che l'indecenza
d'un atto, per quanto sia soltanto venialmente cattivo, possa essere cancellata
da ragione qualsiasi: la menzogna, per esempio, (dicono essi), non può essere
mai giustificata dalla necessità.
Non c'è però
parità fra i due casi: la menzogna è cattiva per natura sua, ma così non è
della richiesta del debito conjugale, la quale poi, nel caso nostro, può essere
giustificata a detta di chiunque, da un ragionevole motivo: perciò sarebbe
egualmente giustificato chi rendesse il debito conjugale richiestogli.
Dopo tutto, mi
sembra più probabile l'opinione, che chi rende il debito, in questo caso, vada
immune da ogni colpa.
Si domanda: 1. Se le
mogli che non seppero mai procreare se non figli morti, possano ciononostante
rendere o chiedere il debito coniugale.
R. Sanchez l. 7. disp. 102, n. 8, S. Liguori
l. 6, n. 553 e molti altri dicono che la moglie in questo caso non pecca nè
rendendo nè chiedendo il debito coniugale, imperocchè: 1. ella fa una cosa in
sè lecita e alla quale ha diritto, mentrechè la morte del feto avviene per
accidente e non può essere a lei imputata; 2. meglio è che possa nascere un
essere con un peccato originale, di quello che non nasca alcuno, come procura
di dimostrarlo ampiamente Sanchez; 3. qualche volta accade che una
donna, dopo molti aborti, partorisca felicemente.
Sylvius però t. 4,
p. 718, Billuart t. 19, p. 396, Bailly, ecc. dicono che la
moglie non può chiedere, nè rendere il debito coniugale, quando sia moralmente
certa che la prole non può nascere viva, perchè in questo caso diventa
impossibile ottenere lo scopo legittimo e proprio del matrimonio. Questa
opinione, così ristretta, ci sembra la più probabile e la sola da adottare. Gli
Autori citati non dicono che in questo caso il peecato sia mortale, nè certo
osiamo dirlo noi.
Si domanda: 2. Se la
moglie la quale, secondo il giudizio dei medici, non può partorire senza
manifesto pericolo di morte, sia obbligata di rendere il debito al marito,
quando questi lo chieda insistentemente.
R. Noi abbiamo
già provato che il marito in questo caso non può, per qualsiasi motivo,
domandare alla moglie il debito coniugale: egualmente la moglie non può
renderlo, perché essa non può disporre a sua voglia della propria vita.
Tuttavia, il peccato non è mortale se non nel caso in cui il pericolo della
morte sia evidente.
In questo capo
esamineremo:
1. Quando i
conjugi peccano usando del matrimonio;
2. Come devono
essere giudicati i contatti fra conjugi.
Articolo I. — Quando i
coniugi peccano usando del matrimonio. — I. Peccano mortalmente i coniugi,
non quando il loro accoppiamento carnale avviene all'infuori della vagina della
donna, o quando si spande, fuori della della stessa vagina e deliberatamente,
l'umore spermatico; ma altresì, quando cominciano essi l'accoppiamento carnale
nelle parti deretane colla intenzione di consumarlo poi nella vagina femminile
imperocchè qui essi ricorrono ad un mezzo che è in tutto sconveniente, e
siccome questo mezzo tende per sè stesso a far spargere il seme fuori delle
parti sessuali della donna, così esso non è, infine, se non una sodomia. Così Sanchez
l. 9, disp. 17, n. 4, S. Liguori l. 6, n. 916, e molti altri da essi
citati.
II. Secondo il
parere di tutti i teologi, è un peccato mortale tanto il chiedere quanto il
rendere il debito conjugale quando si vuol adottare, per accoppiarsi, una
posizione non naturale e si incorre per ciò nel grave pericolo che il seme
caschi fuori della vagina della donna. La ragione di ciò è evidente. Ma,
escluso questo pericolo, il chiedere o il rendere senza necessità il debito
conjugale in questa maniera è soltanto un peccato veniale, la positura non
naturale dei corpi dei conjugi non tocca l'essenza del matrimonio nè impedisce
la fecondazione. Ma è severamente da biasimare, il marito specialmente, se per
sentire maggiore voluttà, s'introduce nella vagina della moglie facendosi
volgere da lei il tergo come usano le bestie, oppure mettendosi sotto di lei,
imperocchè queste strane giaciture corporali sono spesso segni di concupiscenza
mortalmente cattiva in coloro che non si accontentano delle posizioni
ordinarie. Data però la necessità di comportarsi in questi modi, per esempio,
in causa di gravidanza, o perchè non è possibile una positura diversa, allora
non vi ha peccato, semprechè però non ci sia il probabile pericolo di spandere
il seme fuori della vagina della donna.
III. Peccano
mortalmente i coniugi che esercitano fra loro atti molto osceni e gravemente
repugnanti al naturale pudore, e specialmente se si accoppiano carnalmente
usando di una parte del loro corpo che non è quella voluta dalla natura, per
esempio, se la moglie prende in bocca il membro virile del marito([13])............... ecc.
ecc. imperocchè lo stato coniugale non potrà mai in modo alcuno
giustificare simili infamie.
IV. E' peccato
mortale se i coniugi impediscono la fecondazione, per esempio, se, come già
dicemmo, l'uomo spande il seme fuori della vagina della donna, se si oppone
alla sua completa eiaculazione, se la donna respinga da sè lo sperma del marito
o tenta di respingerlo, se rimane essa impossibile, coll'intendimento di
impedire la fecondazione, ecc. — S. Antonio Sanchez e molti altri citati
da S. Liguori l. 6, n. 918, dicono che non vi è peccato mortale se,
prima di emettere il seme, il marito, col consenso della moglie, si tira
indietro, per esempio, affinchè non nasca prole; semprechè però non vi sia nè
nell'uno nè nell'altro coniuge pericolo di polluzione. Tuttavia Navarrus,
Silvestro, Ledesma, Azor e moltri altri credono
ragionevolmente essere peccato mortale, tanto perchè nell'uomo c'è sempre il
pericolo della polluzione, quanto perchè si opera gravemente contro natura
lasciando imperfetto l'accoppiamento carnale. Questa seconda opinione è quella
che in pratica de'vessere adottata.
V. Peccano
mortalmente i conjugi se chiedono o rendono l'accoppiamento carnale, quando
v'abbia grave pericolo di aborto, abbenchè il feto non sia ancora animato,
oppure quando ne derivi notevole nocumento alla salute della prole. Ciò risulta
evidente da quanto abbiamo già detto, imperocchè anche questa è una cosa
gravemente contraria alla natura.
IV. Peccano
pure mortalmente i conjugi se, nell'atto carnale del matrimonio hanno desiderii
di adulterio, vale a dire se si fingono dinnanzi alla mente un'altra persona e
voluttuosamente si dilettano immaginandosi di avere invece commercio carnale
con lei. Dicasi lo stesso se esercitano l'atto conjugale con un fine mortalmente
cattivo, per esempio, se il marito chieda o renda il debito col desiderio che
la moglie muoja nei dolori del parto.
VII. E' peccato
mortale l'accoppiamento, se si compie, fosse pur anco in tempo di guerra, in un
luogo sacro, perchè si mancherebbe alla debita riverenza del luogo e perchè la
legge della Chiesa lo proibisce: i conjugi possono in altro modo appagare i
loro bisogni.
VIII. Peccano,
infine, mortalmente i conjugi se si accoppiano in presenza d'altri dando così
grave scandalo: procurino perciò che nella loro camera nuziale non ci sia letto
d'altre persone. E i poveri, e i contadini, che ben sovente non hanno che una
sola camera per dormirvi essi, i figli, e i domestici, sieno cauti e procurino
che, di nottetempo, usando dei loro diritti conjugali, non si presti occasione
di rovina ad altri. Oh! quante domestiche, quanti fanciulli, in tenera età,
sono già di costumi corrotti, e devono la loro depravazione a conjugi
imprudenti!
Articolo II. — Dei
contatti fra conjugi. — I. Quel toccarsi per giungere direttamente al
legittimo accoppiamento, senza però che vi sia pericolo di polluzione, è, senza
alcun dubbio, lecito: questi toccamenti sono come gli accessorii
dell'accoppiamento: lecito questo, sono leciti pur essi. Se però, abbenchè
tendano all'accoppiamento, si fanno per godere una voluttà maggiore, sono
peccati veniali, perchè questo maggiore godimento è uno scopo venialmente
cattivo. Ma sarebbero però peccati mortali se questi contatti, quantunque
tendenti all'accoppiamento, fossero repugnati alla retta ragione, come sarebbe
l'applicare le parti sessuali dell'uno a certe parti del corpo dell'altro, non
convenienti: perciò i conjugi cristiani non devono fare «come fanno i cavalli e
i muli che sono irragionevoli (Salm 31. 11); ma che ciascuno di voi
sappia ch'egli possiede parti sensuali per scopo di santificazione e d'onore,
non per sfogo di passioni, come usano le genti che non conoscono Dio» (I. ai
Tessal, 4. 4.)
II. Il palparsi
fra conjugi è peccato mortale quando ne risulti un prossimo pericolo di
polluzione, imperocchè la polluzione non è lecita nè ai conjugati nè ai liberi,
e non si può ammettere scusa alcuna ad esporsi volontariamente al
pericolo di essa. Percui, allorquando non espongono al pericolo di polluzione,
non sono menomamente peccati gli abbracciamenti fra conjugi ed altri contatti
non osceni che soglionsi fare fra sposi per coltivare la mutua affezione. Se
questi contatti si posson permettere fra persone non conjugate, benchè vi possa
essere qualche pericolo di polluzione, semprecchè però vi sia un motivo che li
giustifichi, a più forte ragione si possono permettere fra conjugi, imperocchè,
favorendo questi contatti la loro mutua affezione, diventano un motivo
sufficente a scusare un qualche pericolo di polluzione, se pur esistesse.
III. Disputano
discordi i Dottori sull'argomento, se i contatti gravemente osceni fra conjugi,
escluso sempre il pericolo prossimo di polluzione, siano peccati mortali. S.
Antonio, Silvestro, Comitolus e molti altri citati da Sanchez,
l. 9, disp. 44, asseriscono che i contatti, (come gli sguardi), di questo
genere, sono peccati se avvengono senza che vi sia un intendimento di
addivenire all'accoppiamento carnale, imperocchè in questo caso, non tendono ad
esso, anzi l'escludono, ma mirano bensì alla polluzione che è in sè
essenzialmente cattiva.
Sanchez poi l. 9,
disp. 44, n. 11 e 12, S. Liguori l. n. 932 ed altri in generale,
sostengono che i toccamenti, come gli sguardi, di questa natura, escluso pur
sempre il pericolo prossimo di polluzione, non sieno dippiù di un peccato
veniale, benchè non mirano all'atto conjugale, imperocchè tali atti fra sposi
non sono, di loro natura, peccati, potendo esser benissimo compiuti lecitamente
in relazione all'accoppiamento carnale, e non diventano peccati venali se non
quando non siano in relazione a cotesto accoppiamento, e manchino perciò di un
legittimo scopo: e quando non esista grave pericolo di polluzione, non sono mai
dippiù d'un peccato veniale.
Questa seconda
opinione a noi sembra la più probabile. Tuttavia devesi, ordinariamente, in
pratica biasimare sul serio i conjugi che così operano, in special modo, se
questi contatti solleticano fortemente gli spriti veniali, imperocchè in questo
caso di rado manca il pericolo della polluzione. Così P. Antoine e Collet.
Non si devono
però ritenere rei di peccato mortale quei coniugi, che asseverano in buona fede
che, col toccarsi, i loro sensi non si eccitano, e che non v'ha in essi
probabile pericolo di polluzione imperocchè tal cosa non è infatti rara fra
sposi da lungo tempo assuefatti agli atti venerei. Certamente noi non vorremmo
condannare quella pia moglie la quale, o per timidezza, o per tema di qualche
guajo, o per conservare la pace domestica, permette che il marito la palpeggi,
semprechè essa assicuri che questi contatti non la eccitano libidinosamente od
almeno la eccitano leggerissimamente.
I discorsi
osceni fra marito e moglie non sono peccati mortali, a meno che non inducano,
nel grave pericolo della polluzione; locchè d'altronde è ben raro. Perciò, i confessori
devono non preoccuparsi molto di tal cosa.
IV. Sanchez,
l. 9. disp 44, n. 15 e molti citati da esso dicono che un conjuge il quale,
nell'assenza dell'altro, si tocchi o si guardi libidinosamente, senza pericolo
di polluzione, pecca soltanto venialmente, imperocchè questi suoi atti sono
atti secondari che tendono ad un atto principale, in sè lecito, vale a dire
l'accoppiamento carnale che è il loro debito scopo, benchè ora non possano
conseguirlo.
Essi sono pure
d'avviso che si deve dire la stessa cosa, se questo conjuge si figura d'essere
in atto di compiere l'accoppiamento carnale e si diletta voluttuosamente
pensandovi.
Molti altri al
contrario, più comunemente, per esempio, Layman, Diana, Sporer,
Vasquez, S. Liguori, ecc. non sospetti di soverchia severità
ritengono come probabile, che sono peccato mortale questo genere di toccamenti,
tanto perchè il conjuge non ha facoltà di disporre del proprio corpo se non
incidentalmente e in relazione all'accoppiamento carnale, quanto perchè questo
toccarsi provoca la polluzione, e si connette poi ad un pericolo prossimo
quando soffermandovisi sopra col pensiero, si sovreccitano gli spiriti.
Devono sempre
essere proibiti come mortali quando eccitano notevolmente i sensi: se no, a noi
sembrano soltanto peccati veniali.
Siccome il
piacere dell'atto coniugale che si è compito o che si deve compiere non ha che
poca influenza per eccitare i sensi, noi pensiamo che sovente non lo si debba
imputare a peccato mortale. Il piacere di una cosa lecita non può essere gravemente
cattiva; ora, l'accoppiamento carnale fra coniugi è lecito; dunque non vi è
peccato mortale pensando al piacere dell'accoppiamento compiuto o da compiersi
o che s'immagina di compiere. Perciò S. Tomaso, «Del Male» 9, 12, art.
Questi sono i
principali peccati coi quali si suole macchiare la santità del matrimonio: Dio
spesso li punisce, anco in questa vita, coll'estinguere la famiglia, colla
scostumatezza dei figli, colla morte improvvisa, o con altre calamità. Molti
errano quei coniugi i quali credono che tutto a loro sia lecito nel matrimonio:
perciò, con facilità essi commettono innumerevoli peccati mortali, che poi non
disvelano al confessore, e che imputridiscono dentro di essi. A ragione
l'Augustissimo Delfino, padre di Luigi XVI, Luigi XVIII e Carlo X diceva che
la castità coniugale era più difficile della perfetta continenza.
I. I confessori
devono avvertire i fidanzati, — prima del matrimonio, s'intende, — degli
obblighi cui vanno incontro, dicendo loro, per esempio: Molti coniugi credono
erroneamente che tutto sia ad essi lecito; si comportano «come il cavallo e il
mulo;» commettono molti peccati; attirono sopra di se e loro famiglia gravi
piaghe in questa vita, e miseramente si perdono nella vita eterna: procurate
dunque di non comportarvi in questo modo, e non macchiate la santità del divino
Sacramento: sappiate che ai coniugi è solo lecito ciò che è necessario per
avere prole; ed ora non voglio dirvi di più; se qualche dubbio a voi verrà,
aprite l'animo vostro ad un confessore prudente. —
II.
L'esperienza insegna che molti conjugi non confessano i peccati commessi
nell'uso del matrimonio, se non sono interrogati. Ora, il confessore li può
interrogare circa quelle cose che fra conjugi si permettono: — Avete voi
qualche cosa che vi morde la coscienza? — Se essi dicono di nulla avere e
sembrano abbastanza istrutti e timorati, non è necessario lo insistere
ulteriormente. Ma se essi sono rozzi o la loro sincerità appare dubbia, il
confessore deve insistere: chiederà ad essi se hanno mai negato il debito
coniugale: e se questa frase non fosse da essi compresa, potrà dir loro: Vi
siete mai rifiutati all'atto che si fa per avere dei figli? — se rispondono
d'aver rifiutato, bisogna informarsi del motivo, e dopo questa informazione si
giudicherà se v'ha peccato o no; e se vi ha peccato, se sia mortale, o veniale.
III. Generalmente
il confessore deve chiedere al penitense s'egli ha mai fatto cose disoneste
contro la santità del matrimonio: Se il penitente confessa d'aver fatto qualche
cosa, conviene far dire da lui in che consiste questa cosa, e così non
s'incorre nel pericolo di insegnargli alcunchè ch'egli ignora; ma non si deve
repentinamente nè con leggerezza incolparlo di peccato mortale.
Quanto abbiam
fin qui detto su questo lubrico argomento, basta.
I parroci e i
confessori devono proclamare la onestà e la santità dei doveri coniugali; e
dicano spesso col B. Paolo: «Che ciascuno di voi sappia ch'egli possiede
parti sensuali per scopo di santificazione e d'onore, non per sfogo di
passioni, come usano le genti che non conoscono Dio.» Riflettendo a queste
parole, gli sposi facilmente comprenderanno in che possano aver peccato e come
debbano astenersi dai peccati, se vogliono compiere — giusta la dottrina
dell'Apostolo — castamente e santamente i doveri coniugali.
Concina t. 21
p. 248 dice: «I parroci apprenderanno maggior scienza per istruire i
coniugati, studiando la dottrina di Paolo, di quello che ritenendo nella
memoria tutte le dispute trattate da Sanchez, Diana, Gotius,
ed altri: Nulla ci sembra più vero di ciò: per la qual cosa noi preghiamo i
giovani confessori d'essere cauti gravi e modesti nell'interrogare le persone
coniugate, perchè facilmente possono offenderle, e facilmente possono esporre
se medesimi a gravi pericoli.
FINE
Stampato dalla
litografia f.a.r.a.p.
S. Giovanni in Persiceto (Bo)
Aprile 1974
"cosi" = "così"
"ment" = "mente"
"naturaIe" = "naturale
"dl" = "di"
"ll" = "il"
"veniele" = "veniale"
"alrre" = "altre"
"semipre" = "sempre"
"sottrasse" = "sottraesse"
"e" = "e"
"e pérciò
un,enorme" = "e perciò un enorme"
"pvesse" = "avesse"
"denunciati" = "denunciato"
"posssa" = "possa"
"!. e" = "! è"
"eglì" = "egli"
"del l'umore" = "dell'umore"
" dall'orina' " = "
dall'orina"
"sè" = "se"
"ognì" = "ogni"
"volonta," = "volontà"
"specialment" = "specialmente"
"commetere" = "commettere"
"e" = "è"
"pulluzioni" = "polluzioni"
"llbri" = "libri
"sodomi"; = "sodomiti"l'autore
usa sempre 'sodomiti'
"avvenge" = "avvenga"
"dasiderato" = "desiderato"
"mutarnè" = "mutarne"
"astrazìone dèlla"
= "astrazione
della"
"dl" = "di"
"cousanguineità" = "consanguineità"
"circoetanze" = "circostanze"
"cattiva." = "cattiva,"
"oggstto" = "oggetto"
"l," = "l."
"sona" = "sono"
"penitentl" = "penitenti"
"immaginaz.one" = "immaginazione"
"eonfessori" = "confessori"
"toccameti" = "toccamenti"
"euguale" = "eguale"
"l," =
"l."
"S:" = "S."
"e" = "è"
"Timot," = "Timot."
"ehe" = "che"
"ordinariemente" = "ordinariamente"
"lo" = "la"
"scurilità," = "scurrilità,"
"colliqui" = "colloqui"
"sufficente" = "sufficiente"
"assoverare" = "asseverare"
"allorquanto" = "allorquando"
"notisì" = " notisi"
"é" = "è"
"ostacolandole" = "ostacolandone"
"ammetterci" = "ammetterei"
"sufficente" = "sufficiente"
"espongonsi" = "espongansi"
"e" = "è"
"l," = "l."
"ne" = "nè"
"«" = "»"
"»" = "«"
"raccolgono" = "raccolgano"
"citcostanze" = "circostanze"
"convesse" = "connesse"
"lib," = "lib."
"esempio:" = "esempio;"
"Syilvius" = "Sylvius"
"fervorosa.." = "fervorosa:"
"residenza" = "resistenza" (da notare che subito dopo scrive: resistete
"queilla" = "quella"
"esemipio" = "esempio"
"dispenza" = "dispensa"
"annulare" = "annullare"
"assento" = "asserto" (usato anche in seguito)
"eccesiva" = "eccessiva"
"conjugle" = "conjugale"
"dirito" = "diritto"
"demonio." = "demonio,"
"e" = "è"
"«" = "»"
"grave" = "gravi"
"e" = "è"
"moglte" = "moglie"
"costasse" = "constasse"
"saosi" = "sposi"
"mpotenza" = "impotenza"
"e" = "è"
"tit," = "tit."
"e" = "è"
"lib," = "lib."
"nuov," = "nuov."
"sufficentemente" = "sufficientemente"
"e ed" = "ed"
"legittimo-" = "legittimo,"
"v," = "v."
"dispenza" = "dispensa"
"imdimento" = "impedimento"
"t," = "t."
"l," = "l."
"cosi" = "così"
"e" = "e"
"Decretal," = "Decretal."
"detto," = "detto."
"S" = "S."
"Eucarestia" = "Eucarestia."
"S:" = "S."
"dist." = "disp."
"Cosi" = "Così"
"si" = "sì"
"l," = "l."
"avvnga" = "avvnga"
"cbr." = "cfr."
"cosi" = "così"
"tiarsi" = "tirarsi"
"percose" = "percosse"
"sà" = "sa"
"ottetrebbe" = "otterrebbe"
"perffettamente" = "perfettamente"
"«" = "»"
"attri" = "altri"
"sufficenti" = "sufficienti"
"sufficente" = "sufficiente"
"peecato" = "peccato"
"de'vessere" = "dev'essere"
"percui" = "per
cui"
"sufficente" = "sufficiente"
"«" = "»"
"Molti" = "Molto"
"attirono" = "attirano"
"se" = "sè"
([1]) Il testo latino ha moechiam, che letteralmente
vorrebbe dire adulterio, vocabolo che quì, in italiano, non possiamo
usare imperocchè il nostro adulterio ha un significato speciale e
determinato, mentre il moechia della lingua latina ne ha uno molto ampio
e generico, corrispondente precisamente alla nostra parola impudicizia,
o meglio ancora a lussuria. Ecco perchè adoperammo nella traduzione
quest'ultimo vocabolo.
(Nota del traduttore).
([2]) Come ognun sa, ai tempi ai quali si riferiscono i Libri citati, i sacerdoti si ammogliavano, e potevano quindi aver leggittimamente dei figli.
([3]) La seconda parte di questo volume è precisamente il supplemento del Trattato, al quale qui allude l'Autore.
(Nota del traduttore)
([4]) Ciò ammesso, non si dovrebbero veder più chiese aperte, se
si volessero davvero impedire in esse le quotidiane profanazioni e i
continui sacrilegii d'amore.
Non c'è chiesa che non sia
profanata; bisognerebbe chiuderle tutte per purificarle: ma appena aperte, si
sarebbe da capo. «Gli itaiiani s'innamorano in chiesa» diceva Guerrazzi.
(Nota del traduttore).
([5]) Il testo latino ha mollities vocabolo che, in italiano, sarebbe forse meglio tradurre colle parole sensualità semi-libidine, ma che od ogni modo non renderebbero mai esattamente il significato della polluzione come non lo rendono affatto nè mollezza nè incontinenza secreta.
([6]) Preziosa concessione in bocca d'un vescovo: il Sacro Tribunale della Penitenza si schiera imperturbabilmente fra le cause delle polluzioni veneree. Che onore!
([8]) Il testo latino ha delectatio morosa, che, essendo un termine tecnico della Teologia morale, si suole anche tradurre in italiano letteralmente colle parole dilettazione morosa. Noi in testa al presente articolo, lo traducemmo colle parole: Diletti voluttuosi del pensiero.
([9]) Da mora che vuoi dire indugio: da ciò, il termine legale, essere in mora.
(Nota del traduttore).
([10]) E sono questi precisamente gli effetti che produce sui
preti — specialmente se sono giovani — Lo studio ch'essi fanno sul Manuale
dei confessori.
(Nota del traduttore)
([11]) Gli impedimenti dirimenti chiamasi nel Diritto
Canonico e nel Codice Civile quelli che annullano il matrimonio.
(Nota del Traduttore).
([12]) É bene richiamarsi alla mente la distinzione fra castità
coniugale, castità vedovile e castità verginale (V il
preambolo al Cap. I.) Si è casti nel matrimonio ogni qualvolta si
subordinano gli atti coniugali ai dettami della ragione: la castità
conjugale non è lo stato verginale nella carne, ma è l'uso virtuoso del
matrimonio.
(Nota del Traduttore).
([13]) Il testo latino ha qui una lacuna, ma l'esempio offerto
dall'autore è già abbastanza eloquente nella sua sconcezza per indovinare i
lubrici segreti mal velati dai puntini e gli eccetera, segreti
d'altronde che vengono voluttuosamente disvelati dalla cattedra nei seminari al
cospetto di giovani seminaristi. Che lezioni!
(Nota del Traduttore).