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IRROGANTO di Mauro Novelli Biblioteca |
Niccolò
Machiavelli Discorsi sulla
prima deca di Tito Livio INDICE LIBRO 2° LIBRO
3° DEDICA Niccolò Machiavelli a
Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai salute. Io vi mando uno presente, il
quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale,
sanza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore.
Perché in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una
lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo né voi
né altri desiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho
donato più. Bene vi può increscere della povertà dello
ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere; e della fallacia del
giudicio, quando io in molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo,
non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi,
che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo non arei
scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto. Pigliate,
adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici;
dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le
qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho
una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in
molte sue circunstanzie, in questa sola so ch'io non ho preso errore, di
avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi:
sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche gratitudine
de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare essere uscito fuora
dell'uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere
a qualche principe indirizzare; e, accecati dall'ambizione e dall'avarizia,
laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole
parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore,
ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone
parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di
onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono
farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare
quelli che sono, non quelli che possono essere liberali, e così quelli
che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli
scrittori laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato, che
Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone ad essere principe non
mancava altro che il principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re,
altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel bene o quel male che voi
medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie
opinioni Vi siano grate, non mancherò di seguire il resto della
istoria, secondo che nel principio vi promissi. Valete. LIBRO 1 Ancora che, per la invida natura
degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed
ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli
più pronti a biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco,
spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza
alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta
ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e
difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che
umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino. E se lo ingegno
povero, la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia delle
antique faranno questo mio conato difettivo e di non molta utilità;
daranno almeno la via ad alcuno che, con più virtù, più
discorso e iudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare: il che,
se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo. Considerando adunque quanto
onore si attribuisca all'antiquità, e come molte volte, lasciando
andare infiniti altri esempli, un frammento d'una antiqua statua sia suto
comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e
poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli
dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e
veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci
mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re,
capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria
affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da
ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non
ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne
maravigli e dolga. E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che
intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono,
essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi
sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili non sono altro che
sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a'
presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina
è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali
fondano e' medici presenti e' loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le
republiche, nel mantenere li stati, nel governare e' regni, nello ordinare la
milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e' sudditi, nello accrescere
l'imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui
ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la
presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte
provincie e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere
vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso né
gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che
le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti
che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la
imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li
elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da
quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto, trarre li uomini di
questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di
Tito Livio che dalla malignità de' tempi non ci sono stati intercetti,
quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose,
iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi, a
ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino
più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe
cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile,
nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto questo peso,
confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve
cammino a condurlo a loco destinato. Quali siano stati universalmente
i principii di qualunque città, e quale fusse quello di Roma. Coloro che leggeranno quale
principio fusse quello della città di Roma, e da quali latori di leggi
e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per
più secoli mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato
quello imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere prima
il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli uomini
natii del luogo dove le si edificano o dai forestieri. Il primo caso occorre
quando agli abitatori dispersi in molte e piccole parti non pare vivere
securi, non potendo ciascuna per sé, e per il sito e per il piccolo numero,
resistere all'impeto di chi le assaltasse; e ad unirsi per loro difensione,
venendo il nimico, non sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro
lasciare abbandonati molti de' loro ridotti; e così verrebbero ad
essere subita preda dei loro inimici: talmente che, per fuggire questi
pericoli, mossi o da loro medesimi, o da alcuno che sia infra loro di
maggiore autorità, si ristringono ad abitare insieme in luogo eletto
da loro, più commodo a vivere e più facile a difendere. Di queste, infra molte altre,
sono state Atene e Vinegia. La prima, sotto l'autorità di Teseo, fu
per simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata; l'altra, sendosi molti
popoli ridotti in certe isolette che erano nella punta del mare Adriatico,
per fuggire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento di nuovi barbari,
dopo la declinazione dello Imperio romano, nascevano in Italia, cominciarono
infra loro, sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a vivere
sotto quelle leggi che parevono loro più atte a mantenerli. Il che
successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro, non
avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli, che affliggevano Italia,
navigli da poterli infestare: talché ogni piccolo principio li poté fare
venire a quella grandezza nella quale sono. Il secondo caso, quando da genti
forestiere è edificata una città, nasce o da uomini liberi o
che dependono da altri: come sono le colonie mandate o da una republica o da
uno principe per isgravare le loro terre d'abitatori, o per difesa di quel
paese che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente e sanza ispesa
mantenersi; delle quali città il Popolo romano ne edificò
assai, e per tutto l'imperio suo: ovvero le sono edificate da uno principe,
non per abitarvi, ma per sua gloria; come la città di Alessandria, da
Alessandro. E per non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte
occorre che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi dei regni
numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze, perché (o edificata
da' soldati di Silla, o, a caso, dagli abitatori dei monti di Fiesole, i
quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo,
si ridussero ad abitare nel piano sopra Arno) si edificò sotto
l'imperio romano: né poté, ne' principii suoi, fare altri augumenti che
quelli che per cortesia del principe gli erano concessi. Sono liberi gli edificatori
delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto uno principe o da per sé, sono
constretti, o per morbo o per fame o per guerra, a abbandonare il paese
patrio, e crearsi nuova sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e'
truovono ne' paesi ch'egli acquistano, come fe' Moises; o e' ne edificano di
nuovo, come fe' Enea. In questo caso è dove si conosce la virtù
dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la quale è più
o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso colui
che ne è stato principio. La virtù del quale si conosce in duo
modi: il primo è nella elezione del sito; l'altro nella ordinazione
delle leggi. E perché gli uomini operono o per necessità o per
elezione; e perché si vede quivi essere maggior virtù dove la elezione
ha meno autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere,
per la edificazione delle cittadi, luoghi sterili, acciocché gli uomini,
constretti a industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessono più
uniti avendo, per la povertà del sito, minore cagione di discordie;
come interviene in Raugia, e in molte altre cittadi in simili luoghi
edificate: la quale elezione sarebbe sanza dubbio più savia e
più utile, quando gli uomini fossero contenti a vivere del loro, e non
volessono cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gli uomini
assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire questa
sterilità del paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, potendo per
la ubertà del sito ampliare, possa e difendersi da chi l'assaltasse e
opprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse. E quanto a quell'ozio
che le arrecasse il sito, si debbe ordinare che a quelle necessità le
leggi la costringhino, che il sito non la costrignesse, ed imitare quelli che
sono stati savi, ed hanno abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti
a produrre uomini oziosi ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per
ovviare a quelli danni i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio,
arebbe causati, hanno posto una necessità di esercizio a quelli che
avevano a essere soldati; di qualità che, per tale ordine, vi sono
diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono
stati aspri e sterili. Intra i quali fu il regno degli Egizi, che, non
ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità,
ordinata dalle leggi, che ne nacque uomini eccellentissimi; e se li nomi loro
non fussono dalla antichità spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero
più laude che Alessandro Magno, e molti altri de' quali ancora
è la memoria fresca. E chi avesse considerato il regno del Soldano, e
l'ordine de' Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti che da Salì,
Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe veduto in quello molti esercizi circa
i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto quanto essi temevano quell'ozio
a che la benignità del paese li poteva condurre, se non vi avessono
con leggi fortissime ovviato. Dico, adunque, essere più
prudente elezione porsi in luogo fertile, quando quella fertilità con
le leggi infra i debiti termini si ristringa. Ad Alessandro Magno, volendo
edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli
mostrò come e' la poteva edificare sopra il monte Atho, il quale
luogo, oltre allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a quella
città si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa maravigliosa e rara,
e degna della sua grandezza. E domandandolo Alessandro di quello che quelli
abitatori viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che quello si rise,
e, lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abitatori
avessero a stare volentieri per la grassezza del paese, e per la
commodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adunque, la
edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo progenitore,
sarà di quelle cittadi edificate da' forestieri; se Romolo di quelle
edificate dagli uomini natii del luogo; ed in qualunque modo, la vedrà
avere principio libero, sanza dependere da alcuno: vedrà ancora, come
di sotto si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa,
e gli altri, la costringessono; talmente che la fertilità del sito, la
commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello imperio,
non la potero per molti secoli corrompere, e la mantennero piena di tanta
virtù, di quanta mai fusse alcun'altra città o republica
ornata. E perché le cose operate da lei,
e che sono da Tito Livio celebrate, sono seguite o per publico o per privato
consiglio, o dentro o fuori della cittade; io comincerò a discorrere
sopra quelle cose occorse dentro e per consiglio publico, le quali degne di
maggiore annotazione giudicherò, aggiungendovi tutto quello che da
loro dependessi; con i quali Discorsi questo primo libro, ovvero questa prima
parte, si terminerà. Di quante spezie sono le
republiche, e di quale fu la republica romana. Io voglio porre da parte il
ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro principio sottoposto a
altrui; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio lontano da
ogni servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbitrio, o
come republiche o come principato: le quali hanno avuto, come diversi
principii, diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse,
o dopo non molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un tratto;
come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a
caso, ed in più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma. Talché,
felice si può chiamare quella republica, la quale sortisce uno uomo
sì prudente, che gli dia leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno
di ricorreggerle, possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta
le osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o sanza
alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado
d'infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta a uno
ordinatore prudente, è necessitata da sé medesima riordinarsi. E di
queste ancora è più infelice quella che è più
discosto dall'ordine; e quella ne è più discosto che co' suoi
ordini è al tutto fuori del diritto cammino, che la possa condurre al
perfetto e vero fine. Perché quelle che sono in questo grado, è quasi
impossibile che per qualunque accidente si rassettino: quelle altre che, se
le non hanno l'ordine perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a
diventare migliore, possono per la occorrenzia degli accidenti diventare
perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza pericolo;
perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi
uno nuovo ordine nella città se non è mostro loro da una necessità
che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza
pericolo, è facil cosa che quella republica rovini, avanti che la si
sia condotta a una perfezione d'ordine. Di che ne fa fede appieno la
republica di Firenze, la quale fu dallo accidente d'Arezzo, nel dua,
riordinata; e da quel di Prato, nel dodici, disordinata. Volendo, adunque, discorrere
quali furono li ordini della città di Roma, e quali accidenti alla sua
perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle republiche
dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da loro Principato,
Ottimati, e Popolare, e come coloro che ordinano una città, debbono
volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni
altri, e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che
siano di sei ragioni governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri
siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono
ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e' soprascritti
tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e
ciascuno d'essi è in modo simile a quello che gli è propinquo,
che facilmente saltano dall'uno all'altro: perché il Principato facilmente
diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi;
il Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte. Talmente che,
se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre
stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi,
a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in
questo caso la virtute ed il vizio. Nacquono queste variazioni de'
governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli
abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi,
moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio
difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più
robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da questo
nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e
ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e
compassione intra gli uomini, biasimando gl'ingrati ed onorando quelli che
fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere
fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia. La
quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno principe, non andavano dietro
al più gagliardo, ma a quello che fusse più prudente e
più giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per
successione, e non per elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare
dai loro antichi; e, lasciando l'opere virtuose, pensavano che i principi non
avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di
lascivia e d'ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando
il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal
timore all'offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero,
appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni e congiure contro
a' principi; non fatte da coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro
che, per generosità, grandezza d'animo, ricchezza e nobilità, avanzavano
gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe.
La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di questi potenti,
s'armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a suoi
liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d'uno solo capo, constituivano
di loro medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata
tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni
loro commodo alla commune utilità; e le cose private e le publiche con
somma diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa
amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della
fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla
usurpazione delle donne, feciono che d'uno governo d'ottimati diventassi uno
governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in
breve tempo, intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da' loro
governi, la moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi in alcun modo
offendere quelli governatori; e così si levò presto alcuno che,
con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria
del principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo stato
de' pochi e non volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato
popolare; e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno
principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel principio
hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco, ma non
molto, massime spenta che fu quella generazione che l'aveva ordinato; perché
subito si venne alla licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né i
publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni
dì mille ingiurie: talché, costretti per necessità, o per
suggestione d'alcuno buono uomo, o per fuggire tale licenza, si ritorna di
nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la
licenza, ne' modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel
quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade
volte ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna republica
può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste
mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una
republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno stato
propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse,
sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico, adunque, che tutti i detti
modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne' tre
buoni, e per la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo
quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo
ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di
tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l'uno
guarda l'altro, sendo in una medesima città il Principato, gli
Ottimati, e il Governo Popolare. Intra quelli che hanno per
simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale
ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re,
agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò, più che ottocento
anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario
intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per
ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve vita, che,
avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato; e benché, dipoi anni
quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in
libertà, perché la riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di
Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo
facessi molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de'
grandi e la licenza dell'universale, le quali non furono da Solone
considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del
Principato e con quella degli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta,
brevissimo tempo. Ma vegnamo a Roma; la quale,
nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel
principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli
accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed
il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso.
Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda;
perché i primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono
dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e
tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere
libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica,
quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era
necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state
da quelli re ordinate. E avvengaché quelli suoi re perdessono l'imperio, per
le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi
subito due Consoli che stessono nel luogo de' Re, vennero a cacciare di Roma
il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i
Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle
tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a
dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità
romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il
Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta
concedere al Popolo la sua parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli
restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella
republica il grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni della
plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato
di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte
sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo
de' Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle
medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai,
per dare autorità agli Ottimati, tutta l'autorità alle
qualità regie; ne si diminuì l'autorità in tutto agli
Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica
perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del
Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli largamente si
dimosterrà. Quali accidenti facessono creare
in roma i tribuni della plebe, il che fece la republica più perfetta. Come dimostrano tutti coloro che
ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni
istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in
quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la
malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera
occasione; e quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da
una occulta cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario,
non si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre
d'ogni verità. Pareva che fusse in Roma intra
la Plebe ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima; e che i
Nobili avessono diposto quella loro superbia, e fossero diventati d'animo
popolare, e sopportabili da qualunque ancora che infimo. Stette nascoso questo
inganno, né se ne vide la cagione, infino che i Tarquinii vissero; dei quali
temendo la Nobilità, ed avendo paura che la Plebe male trattata non si
accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma, come prima ei furono
morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a
sputare contro alla Plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in
tutti i modi che potevano la offendevano. La quale cosa fa testimonianza a
quello che di sopra ho detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se
non per necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può
usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine.
Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini
industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima
sanza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella
buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria. Però
mancati i Tarquinii, che con la paura di loro tenevano la Nobilità a
freno, convenne pensare a uno nuovo ordine che facesse quel medesimo effetto
che facevano i Tarquinii quando erano vivi. E però, dopo molte
confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la Plebe e la
Nobilità, si venne, per sicurtà della Plebe, alla creazione de'
Tribuni; e quelli ordinarono con tante preminenzie e tanta riputazione, che
poterono essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare
alla insolenzia de' Nobili. Che la disunione della plebe e
del senato romano fece libera e potente quella republica. Io non voglio mancare di
discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de' Tarquinii
alla creazione de' Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti
che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta
confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse
sopperito a' loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io
non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio
romano; ma e' mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è
buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che
non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella
città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la
Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere
libera Roma; e che considerino più a' romori ed alle grida che di tali
tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non
considerino come e' sono in ogni republica due umori diversi, quello del
popolo, e quello de' grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore
della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si
può vedere essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che
furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano
esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto, giudicare questi tomulti
nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie
non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne
ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari.
Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata,
dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla
buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi,
da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi
esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano
partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini
in beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi erano
straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al
Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade,
serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte
spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città debbe
avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l'ambizione sua, e
massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del
popolo: intra le quali, la città di Roma aveva questo modo, che,
quando il popolo voleva ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette
cose, o e' non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a
placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli
liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e' nascono, o
da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando
queste opinioni fossero false e' vi è il rimedio delle concioni, che
surga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come ei s'ingannano: e
li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della
verità, e facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è
detto loro il vero. Debbesi, adunque, più
parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni
effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se non da
ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione de' Tribuni,
meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all'amministrazione
popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana, come
nel seguente capitolo si mosterrà. Dove più sicuramente si
ponga la guardia della libertà, o nel popolo o ne' grandi; e
quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi
vuole mantenere. Quelli che prudentemente hanno
constituita una republica, in tra le più necessarie cose ordinate da
loro è stato constituire una guardia alla libertà: e, secondo
che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere
libero. E perché in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è
dubitato nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso
a' Lacedemonii, e, ne' nostri tempi, appresso de' Viniziani, la è
stata messa nelle mani de' Nobili; ma appresso de' Romani fu messa nelle mani
della Plebe. Pertanto, è necessario
esaminare quale di queste republiche avesse migliore elezione. E se si
andasse dietro alle ragioni ci è che dire da ogni parte; ma se si
esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte de' Nobili, per avere avuta
la libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di
Roma. E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de' Romani, come
e' si debbe mettere in guardia coloro d'una cosa, che hanno meno appetito di
usurparla. E sanza dubbio, se si considerrà il fine de' nobili e degli
ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in
questi solo desiderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore
volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non
possono i grandi: talché essendo i popolari preposti a guardia d'una
libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la
potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi. Dall'altra parte,
chi difende l'ordine spartano e veneto, dice che coloro che mettono la
guardia in mano di potenti fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno
più all'ambizione loro, ed avendo più parte nella republica,
per avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più;
l'altra, che lievono una qualità di autorità dagli animi
inquieti della plebe, che è cagione d'infinite dissensioni e scandoli
in una republica, e atta a ridurre la Nobilità a qualche disperazione,
che col tempo faccia cattivi effetti. E ne dànno per esemplo la
medesima Roma, che, per avere i Tribuni della plebe questa autorità
nelle mani, non bastò loro avere un Consolo plebeio, che gli vollono
avere ambedue. Da questo, ei vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli
altri gradi dell'imperio della città: né bastò loro questo,
ché, menati dal medesimo furore, cominciorono poi, col tempo, a adorare
quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobilità; donde nacque la
potenza di Mario, e la rovina di Roma. E veramente, chi discorressi bene
l'una cosa e l'altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fusse eletto per
guardia di tale libertà, non sappiendo quale umore di uomini sia
più nocivo in una republica, o quello che desidera mantenere l'onore
già acquistato o quel che desidera acquistare quello che non ha. Ed in fine, chi sottilmente
esaminerà tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d'una
republica che voglia fare uno imperio, come Roma; o d'una che le basti
mantenersi. Nel primo caso, gli è necessario fare ogni cosa come Roma;
nel secondo, può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come
nel seguente capitolo si dirà. Ma, per tornare a discorrere
quali uomini siano in una republica più nocivi, o quelli che
desiderano d'acquistare, o quelli che temono di non perdere l'acquistato;
dico che, sendo creato Marco Menenio Dittatore, e Marco Fulvio Maestro de'
cavagli, tutti a due plebei, per ricercare certe congiure che si erano fatte
in Capova contro a Roma, fu data ancora loro autorità dal popolo di
potere ricercare chi in Roma, per ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse
di venire al consolato, ed agli altri onori della città. E parendo
alla Nobilità, che tale autorità fusse data al Dittatore contro
a lei, sparsono per Roma, che non i nobili erano quelli che cercavano gli
onori per ambizione e modi straordinari ma gl'ignobili, i quali, non
confidatisi nel sangue e nella virtù loro, cercavano, per vie
straordinarie, venire a quelli gradi, e particularmente accusavano il
Dittatore. E tanto fu potente questa accusa che Menenio, fatta una concione e
dolutosi delle calunnie dategli da' Nobili, depose la dittatura, e
sottomessesi al giudizio che di lui fusse fatto dal Popolo, e dipoi, agitata
la causa sua, ne fu assoluto: dove si disputò assai, quale sia
più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare;
perché facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di
tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da
chi possiede, perché la paura del perdere genera in loro le medesime voglie
che sono in quelli che desiderano acquistare; perché non pare agli uomini
possedere sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo
dell'altro. E di più vi è, che, possedendo molto, possono con
maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di
più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendano, ne'
petti di chi non possiede, voglia di possedere, o per vendicarsi contro di
loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quelle ricchezze e in
quelli onori che veggono essere male usati dagli altri. Se in Roma si poteva ordinare
uno stato che togliesse via le inimicizie intra il popolo ed il Senato. Noi abbiamo discorso, di sopra,
gli effetti che facevano le controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo
quelle seguitate infino al tempo de' Gracchi, dove furono cagione della
rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti
gli effetti grandi che la fece, sanza che in quella fussono tali inimicizie.
Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma
si poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie. Ed a
volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle republiche le
quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere
quale stato era in loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esemplo tra
gli antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra
nominate. Sparta fece uno Re, con uno piccolo Senato, che la governasse;
Vinegia non ha diviso il governo con i nomi, ma, sotto una appellagione,
tutti quelli che possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il
quale modo lo dette il caso, più che la prudenza di chi dette loro le
leggi: perché, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è ora quella
città, per le cagioni dette di sopra, molti abitatori, come furano
cresciuti in tanto numero, che, a volere vivere insieme, bisognasse loro far
leggi, ordinarono una forma di governo; e convenendo spesso insieme ne'
consigli, a diliberare della città, quando parve loro essere tanti che
fossero a sufficienza a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli
altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne' loro
governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai abitatori fuori del
governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli chiamarono
Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e mantenersi
senza tumulto, perché, quando e' nacque, qualunque allora abitava in Vinegia
fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che dipoi
vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e terminato, non avevano
cagione né commodità di fare tumulto. La cagione non vi era, perché
non era stato loro tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché
chi reggeva li teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove e' potessono
pigliare autorità. Oltre a di questo, quelli che dipoi vennono ad
abitare Vinegia non sono stati molti, e di tanto numero che vi sia
disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati, perché il numero
de' Gentiluomini o egli è equale al loro, o egli è superiore:
sicché, per queste cagione, Vinegia potette ordinare quello stato, e
mantenerlo unito. Sparta, come ho detto, era
governata da uno Re e da uno stretto Senato. Potette mantenersi così
lungo tempo, perché, essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la
via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo preso le leggi di Licurgo con
riputazione (le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de' tumulti)
poterono vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece in
Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità di
grado; perché quivi era una equale povertà, ed i plebei erano manco
ambiziosi, perché i gradi della città si distendevano in pochi
cittadini ed erano tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili col trattargli
male dettono mai loro desiderio di avergli. Questo nacque dai Re spartani, i
quali, essendo collocati in quel principato e posti in mezzo di quella
Nobilità, non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la loro
dignità, che tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva
che la Plebe non temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio né
temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità,
e la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose
principali causarono questa unione: l'una essere pochi gli abitatori di
Sparta, e per questo poterono essere governati da pochi; l'altra, che, non
accettando forestieri nella loro republica, non avevano occasione né di
corrompersi né di crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli
pochi che la governavano. Considerando adunque tutte
queste cose, si vede come a' legislatori di Roma era necessario fare una
delle due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette republiche:
o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani; o non aprire la via a'
forestieri, ccme gli Spartani. E loro feciono l'una e l'altra; il che dette
alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare. Ma
venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo
inconveniente, ch'egli era anche più debile, perché e' gli si troncava
la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che,
volendo Roma levare le cagioni de' tumulti, levava ancora le cagioni dello
ampliare. Ed in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà
bene: che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne
surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per
poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi
maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter
maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa
sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però, in
ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti,
e pigliare quello per migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza
sospetto non si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di Sparta,
fare un principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei,
non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il
che faceva che il Re a vita ed il piccolo numero del Senato, quanto alla
unione, gli sarebbe giovato poco. Se alcuno volesse, per tanto,
ordinare una republica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse che ampliasse,
come Roma, di dominio e di potenza, ovvero che la stesse dentro a brevi
termini. Nel primo caso, è necessario ordinarla come Roma, e dare
luogo a' tumulti e alle dissensioni universali, il meglio che si può;
perché, sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una republica
potrà crescere, o, se la crescerà, mantenersi. Nel secondo
caso, la puoi ordinare come Sparta e come Vinegia: ma perché l'ampliare
è il veleno di simili republiche, debbe, in tutti quelli modi che si
può, chi le ordina proibire loro lo acquistare, perché tali acquisti
fondati sopra una republica debole, sono al tutto la rovina sua. Come
intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la prima, avendosi sottomessa
quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debile
fondamento suo; perché, seguita la ribellione di Tebe, causata da Pelopida,
ribellandosi l'altre cittadi, rovinò al tutto quella republica.
Similmente Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte
non con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova delle
forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederrei bene, che a fare una
republica che durasse lungo tempo, fusse il modo, ordinarla dentro come
Sparta o come Vinegia; porla in luogo forte, e di tale potenza che nessuno
credesse poterla subito opprimere; e, dall'altra parte, non fusse sì
grande, che la fusse formidabile a' vicini: e così potrebbe lungamente
godersi il suo stato. Perché, per due cagioni si fa guerra a una republica:
l'una, per diventarne signore; l'altra, per paura ch'ella non ti occupi.
Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via; perché, se
la è difficile a espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene
ordinata alla difesa, rade volte accaderà, o non mai, che uno possa
fare disegno di acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e
veggasi, per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sé le faccia guerra: e tanto più sarebbe
questo, se e' fussi in lei constituzione o legge che le proibisse l'ampliare.
E sanza dubbio credo, che, potendosi tenere la cosa bilanciata in questo
modo, che e' sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d'una città.
Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde,
conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che la ragione non
t'induce, t'induce la necessità: talmente che, avendo ordinata una
republica atta a mantenersi, non ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi, ed a farla
rovinare più tosto. Così, dall'altra parte, quando il Cielo le
fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che
l'ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o
ciascuna per sé, sarebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si
potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del
mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica, pensare alle parte più
onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le
inducesse ad ampliare, elle potessono, quello ch'elle avessono occupato,
conservare. E, per tornare al primo ragionamento, credo ch'e' sia necessario
seguire l'ordine romano, e non quello dell'altre republiche; perché trovare
un modo, mezzo infra l'uno e l'altro, non credo si possa, e quelle inimicizie
che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno
inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza. Perché, oltre
all'altre ragioni allegate, dove si dimostra l'autorità tribunizia
essere stata necessaria per la guardia della libertà, si può
facilmente considerare il beneficio che fa nelle republiche l'autorità
dello accusare, la quale era, intra gli altri, commessa a' Tribuni; come nel
seguente capitolo si discorrerà. Quanto siano in una republica
necessarie le accuse a mantenerla in libertade. A coloro che in una città
sono preposti per guardia della sua libertà, non si può dare
autorità più utile e necessaria, quanto è quella di
potere accusare i cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio,
quando peccassono in alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa
dua effetti utilissimi a una republica. Il primo è che i cittadini,
per paura di non essere accusati, non tentano cose contro allo stato; e
tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto, oppressi. L'altro è
che si dà onde sfogare a quegli omori che crescono nelle cittadi, in
qualunque modo, contro a qualunque cittadino: e quando questi omori non hanno
onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a' modi straordinari, che fanno
rovinare tutta una republica. E però non è cosa che faccia
tanto stabile e ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che l'alterazione
di quegli omori che l'agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalle
leggi. Il che si può per molti esempli dimostrare, e massime per
quello che adduce Tito Livio, di Coriolano, dove dice, che, essendo irritata
contro alla Plebe la Nobilità romana, per parerle che la Plebe avessi
troppa autorità, mediante la creazione de' Tribuni che la difendevano;
ed essendo Roma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed
avendo il Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, inimico alla fazione
popolare, consigliò come egli era venuto il tempo da potere gastigare
la Plebe, e torle quella autorità che ella si aveva in pregiudicio
della Nobilità presa; tenendola affamata, e non gli distribuendo il
frumento: la quale sentenzia sendo venuta agli orecchi del Popolo, venne in
tanta indegnazione contro a Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero
tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato a comparire, a
difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si nota quello che di sopra
si è detto, quanto sia utile e necessario che le republiche con le
leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che concepe la universalità
contro a uno cittadino: perché quando questi modi ordinari non vi siano, si
ricorre agli straordinari; e sanza dubbio questi fanno molto peggiori effetti
che non fanno quelli. Perché, se ordinariamente uno
cittadino è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne séguita o
poco o nessuno disordine in la republica; perché la esecuzione si fa sanza
forze private, e sanza forze forestieri, che sono quelle che rovinano il
vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i termini
loro particulari, né trascendono a cosa che rovini la republica. E quanto a
corroborare questa opinione con gli esempli, voglio che degli antiqui mi
basti questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto male
saria risultato alla republica romana, se tumultuariamente ei fusse stato
morto: perché ne nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa genera
paura; la paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da'
partigiani nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle.
Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autorità si vennero
a tor via tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola con
autorità privata. Noi avemo visto ne' nostri tempi
quale novità ha fatto alla republica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l'animo suo ordinariamente contro a un suo cittadino,
come accadde ne' tempi che Francesco Valori era come principe della
città; il quale sendo giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse
con la sua audacia e animosità transcendere il vivere civile; e non
essendo nella republica via a potergli resistere se non con una setta
contraria alla sua; ne nacque che, non avendo paura quello se non di modi
straordinari, si cominciò a fare fautori che lo difendessono;
dall'altra parte, quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a
reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie: intanto che si venne alle armi.
E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto opporsegli, sarebbe la sua
autorità spenta con suo danno solo; avendosi a spegnere per lo
straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri
nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare, in sostentamento della
soprascritta conclusione, l'accidente seguito pur in Firenze sopra Piero
Soderini, il quale al tutto seguì per non essere in quella republica
alcuno modo di accuse contro alla ambizione de' potenti cittadini. Perché lo
accusare uno potente a otto giudici in una republica, non basta: bisogna che
i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tanto
che, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbero accusato,
vivendo lui male; e per tale mezzo, sanza far venire l'esercito spagnuolo,
arebbono sfogato l'animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire
operargli contro, per paura di non essere accusati essi: e così
sarebbe da ogni parte cessato quello appetito che fu cagione di scandolo. Tanto che si può conchiudere
questo, che, qualunque volta si vede che le forze estranee siano chiamate da
una parte di uomini che vivono in una città, si può credere
nasca da' cattivi ordini di quella, per non essere, dentro a quel cerchio,
ordine da potere, sanza modi istraordinari, sfogare i maligni omori che
nascono negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le accuse agli
assai giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi furono in Roma
sì bene ordinati, che, in tante dissensioni della Plebe e del Senato,
mai o il Senato o la Plebe o alcuno particulare cittadino disegnò
valersi di forze esterne; perché, avendo il rimedio in casa, non erano
necessitati andare per quello fuori. E benché gli esempli soprascritti siano
assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato
da Tito Livio nella sua istoria: il quale riferisce come, sendo stato in
Chiusi, città in quelli tempi nobilissima in Toscana, da uno Lucumone
violata una sorella di Arunte, e non potendo Arunte vendicarsi per la potenza
del violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che allora regnavano
in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli confortò a
venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro utile lo
potevano vendicare della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse veduto
potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco le forze
barbare. Ma come queste accuse sono utili in una republica, così sono
inutili e dannose le calunnie, come nel capitolo seguente discorreremo. Quanto le accuse sono utili alle
republiche, tanto sono perniziose le calunnie. Non ostante che la virtù
di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe libera Roma dalla oppressione de'
Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini romani, sanza parere loro torsi
riputazione o grado, cedevano a quello; nondimanco Manlio Capitolino non
poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria;
parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio,
avere meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre belliche laude, non
essere inferiore a lui. Di modo che, carico d'invidia, non potendo quietarsi
per la gloria di quello, e veggendo non potere seminare discordia infra i
Padri, si volse alla Plebe, seminando varie opinioni sinistre intra quella. E
intra le altre cose che diceva, era come il tesoro il quale si era adunato
insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato usurpato da
privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva convertirlo in publica
utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche privato
debito. Queste parole poterono assai nella Plebe; talché cominciò a
avere concorso, ed a fare a sua posta dimolti tumulti nella città: la
quale cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e pericolosa, creò
uno Dittatore, perché ci riconoscesse questo caso, e frenasse lo empito di
Manlio. Onde è che subito il Dittatore lo fece citare, e condussonsi
in publico all'incontro l'uno dell'altro; il Dittatore in mezzo de' Nobili, e
Manlio nel mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio che dovesse dire, appresso
a chi fusse questo tesoro ch'e' diceva, perché n'era così desideroso
il Senato, d'intenderlo, come la Plebe: a che Manlio non rispondeva
particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non era necessario dire
loro quello che si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere in
carcere. È da notare, per questo
testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro modo di
vivere, detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si debba non
perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Né può essere
migliore ordine, a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perché,
quanto le accuse giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocono: e
dall'una all'altra parte è questa differenza, che le calunnie non
hanno bisogno né di testimone né di alcuno altro particulare riscontro a
provarle, in modo che ciascuno e da ciascuno può essere calunniato; ma
non può già essere accusato, avendo le accuse bisogno di
riscontri veri e di circunstanze che mostrino la verità dell'accusa.
Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per
le piazze e per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno
l'accusa, e dove le città sono meno ordinate a riceverle. Però,
un ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa in quella accusare
ogni cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto; e fatto questo, e
bene osservato, debbe punire acremente i calunniatori: i quali non si possono
dolere quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui
che gli avesse per le logge calunniato. E dove non è bene ordinata
questa parte, seguitano sempre disordini grandi: perché le calunnie irritano,
e non castigano i cittadini; e gli irritati pensano di valersi, odiando
più presto, che temendo, le cose che si dicano contro a loro. Questa
parte, come è detto, era bene ordinata in Roma; ed è stata
sempre male ordinata nella nostra città di Firenze. E come a Roma
questo ordine fece molto bene, a Firenze questo disordine fece molto male. E
chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnie
sono state in ogni tempo date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle
cose importanti di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubato i danari
al Comune; dell'altro, che non aveva vinta una impresa per essere stato
corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva fatto il tale ed il tale
inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si
veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte, dalle sètte
alla rovina. Che se fusse stato in Firenze ordine d'accusare i cittadini, e
punire i calunniatori, non seguivano infiniti scandoli che sono seguiti;
perché quelli cittadini, o condannati o assoluti che fussono, non arebbono
potuto nuocere alla città, e sarebbeno stati accusati meno assai che
non ne erano calunniati, non si potendo, come ho detto, accusare come
calunniare ciascuno. Ed intra l'altre cose di che si è valuto alcun
cittadino per venire alla grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali
venendo contro a cittadini potenti che all'appetito suo si opponevano,
facevono assai per quello; perché, pigliando la parte del Popolo, e
confermandolo nella mala opinione ch'egli aveva di loro, se lo fece amico. E
benché se ne potessi addurre assai esempli, voglio essere contento solo
d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca, comandato da messer
Giovanni Guicciardini, commessario di quello. Vollono o i cattivi suoi
governi o la cattiva sua fortuna che la espugnazione di quella città
non seguisse: pure, comunque il caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni,
dicendo com'egli era stato corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo
favorita dagl'inimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima
disperazione. E benché, per giustificarsi, e' si volessi mettere nelle mani
del Capitano; nondimeno non si potette mai giustificare, per non essere modi
in quella republica da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegni intra gli
amici di messer Giovanni, che erano la maggior parte degli uomini grandi ed
infra coloro che desideravano fare novità in Firenze. La quale cosa, e
per questa e per altre simili cagioni, tanto crebbe che ne seguì la
rovina di quella republica. Era adunque Manlio Capitolino
calunniatore, e non accusatore; ed i Romani mostrarono, in questo caso
appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perché si debbe farli
diventare accusatori; e quando l'accusa si riscontri vera, o premiarli o non
punirli: ma quando la non si riscontri vera, punirli, come fu punito Manlio. Come egli è necessario essere
solo a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al tutto fuor degli
antichi suoi ordini riformarla. Ei parrà forse ad alcuno,
che io sia troppo trascorso dentro nella istoria romana, non avendo fatto alcuna
menzione ancora degli ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che
alla religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo
tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte
volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura giudicheranno
di cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere civile, quale fu Romolo,
abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tito Tazio
Sabino, eletto da lui compagno nel regno; giudicando, per questo, che gli
suoi cittadini potessono con l'autorità del loro principe, per
ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro
autorità si opponessero. La quale opinione sarebbe vera, quando non si
considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio. E debbesi pigliare questo per
una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia,
da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi,
riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno
solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una republica, e che
abbia questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla
sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere
l'autorità, solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di
alcuna azione straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una
republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo
scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà:
perché colui che è violento per guastare, non quello che è per
racconciare, si debbe riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e
virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria
a un altro: perché, sendo gli uomini più proni al male che al bene,
potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da
lui fusse stato usato. Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare,
non è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le
spalle d'uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti e che a
molti stia il mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a
ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle diverse
opinioni che sono fra loro; così, conosciuto che lo hanno, non si
accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di quelli che nella morte del
fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece, fusse per il
bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello, subito
ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo la opinione del
quale deliberasse. E chi considerrà bene l'autorità che Romolo
si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun'altra che
comandare agli eserciti quando si era deliberata la guerra e di ragunare il
Senato. Il che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de'
Tarquini, dove da' Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non
che, in luogo d'uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che
testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati
più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e
tirannico. Potrebbesi dare in sostentamento
delle cose soprascritte infiniti esempli; come Moises, Licurgo, Solone, ed
altri fondatori di regni e di republiche, e' quali poterono, per aversi
attribuito un'autorità, formare leggi a proposito del bene comune: ma
li voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno, non
sì celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassono essere di
buone leggi ordinatori: il quale è, che, desiderando Agide re di
Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli
avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua
città avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per
consequente, di forze e d'imperio, fu, ne' suoi primi principii, ammazzato
dagli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la tirannide. Ma
succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e nascendogli il medesimo
desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli aveva trovati d'Agide, dove si
vedeva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe non potere fare questo
bene alla sua patria se non diventava solo di autorità; parendogli,
per l'ambizione degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla
voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli
Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò in
tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare risuscitare
Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che ebbe Licurgo, se non fusse
stata la potenza de' Macedoni, e la debolezza delle altre republiche greche.
Perché, essendo, dopo tale ordine, assaltato da' Macedoni, e trovandosi per
sé stesso inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e
restò quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato adunque tutte queste
cose, conchiudo, come a ordinare una republica è necessario essere
solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non
biasimo. Quanto sono laudabili i
fondatori d'una republica o d'uno regno, tanto quelli d'una tirannide sono
vituperabili. Intra tutti gli uomini laudati
sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni.
Appresso, dipoi, quelli che hanno fondato o republiche o regni. Dopo a
costoro, sono celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il
regno loro o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterati.
E perché questi sono di più ragioni, sono celebrati, ciascuno d'essi,
secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de' quali è
infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l'arte e
lo esercizio suo. Sono pel contrario, infami e detestabili gli uomini
distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle republiche,
inimici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi
utilità e onore alla umana generazione; come sono gl'impii, i violenti,
gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno sarà mai
sì pazzo o sì savio, sì tristo o sì buono, che,
prepostagli la elezione delle due qualità d'uomini, non laudi quella
che è da laudare, e biasimi quella che è da biasimare:
nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da una falsa
gloria, si lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di
coloro che meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con
perpetuo loro onore, o una republica o uno regno, si volgono alla tirannide:
né si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore,
sicurtà, quiete, con sodisfazione d'animo, ei fuggono; e in quanta
infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono. Ed è impossibile che
quelli che in stato privato vivono in una republica, o che per fortuna o per
virtù ne diventono principi, se leggessono le istorie, e delle memorie
delle antiche cose facessono capitale, che non volessero quelli tali privati
vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari; e quelli che
sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi,
Falari e Dionisii: perché vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e
quelli eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli altri
non ebbono nella patria loro meno autorità che si avessono Dionisio e
Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta più sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per
la gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perché
quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla
lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva
che gli scrittori parlassono liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere
quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina.
E tanto è più biasimevole Cesare, quanto più è da
biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga
ancora con quante laude ei celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare
quello, per la sua potenza, ei celebravano il nimico suo. Consideri ancora quello che
è diventato principe in una republica, quanta laude, poiché Roma fu
diventata Imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto
le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e vedrà
come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, non erano necessari i
soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a difenderli, perché i
costumi loro, la benivolenza del Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva.
Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri
scelerati imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed occidentali a
salvarli contro a quelli inimici che li loro rei costumi, la loro malvagia
vita, aveva loro generati. E se la istoria di costoro fusse bene considerata,
sarebbe assai ammaestramento a qualunque principe, a mostrargli la via della
gloria o del biasimo, e della sicurtà o del timore suo. Perché, di
ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono
ammazzati, dieci morirono ordinariamente e se di quelli che furono morti ne
fu alcun buono come Galba e Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo
antecessore suo aveva lasciata nei soldati. E se tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne fu alcuno scelerato, come Severo, nacque da una sua
grandissima fortuna e virtù; le quali due cose pochi uomini
accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di questa istoria, come si
può ordinare un regno buono: perché tutti gl'imperadori che
succederono all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi,
quelli che per adozione, furono tutti buoni come furono quei cinque da Nerva
a Marco: e come l'imperio cadde negli eredi, e' ritornò nella sua
rovina. Pongasi, adunque, innanzi un
principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che erano stati
prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a
quali volesse essere preposto. Perché, in quelli governati da' buoni,
vedrà un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno
di pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua
autorità, i magistrati co' suoi onori; godersi i cittadini ricchi le
loro ricchezze, la nobilità e la virtù esaltata; vedrà
ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra parte, ogni rancore, ogni licenza,
corruzione e ambizione spenta; vedrà i tempi aurei, dove ciascuno
può tenere e difendere quella opinione che vuole. Vedrà, in
fine, trionfare il mondo; pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore
e sicurtà i popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi
degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per
le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi morti col
ferro, tante guerre civili, tante esterne; l'Italia afflitta, e piena di
nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le cittadi di quella. Vedrà
Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi
templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii:
vedrà il mare pieno di esilii, gli scogli pieni di sangue.
Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi e la nobilità, le
ricchezze, i passati onori, e sopra tutto la virtù, essere imputate a
peccato capitale. Vedrà premiare gli calunniatori, essere corrotti i
servi contro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi fussero
mancati inimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora
benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia con Cesare. E sanza dubbio, se e'
sarà nato d'uomo, si sbigottirà da ogni imitazione de' tempi
cattivi, ed accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E
veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di
possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare,
ma per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli
uomini maggiore occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore
desiderare. E se, a volere ordinare bene una città, si avesse di
necessità a diporre il principato, meriterebbe, quello che non la
ordinasse per non cadere di quel grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il
principato ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E, in somma, considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come ei sono loro preposte
due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li rende gloriosi;
l'altra li fa vivere in continove angustie, e, dopo la morte, lasciare di sé
una sempiterna infamia. Della religione de' Romani. Avvenga che Roma avesse il primo
suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere, come figliuola, il
nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini
di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato
romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle
cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. Il
quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze
civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civiltà; e la constituì in
modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in
quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o
quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi discorrerà
infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di
per sé, vedrà come quelli cittadini temevono più assai rompere
il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza
di Dio, che quella degli uomini: come si vede manifestamente per gli esempli
di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo la rotta che Annibale aveva
dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, e,
sbigottiti della patria, si erano convenuti abbandonare la Italia, e girsene
in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro
ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio
Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato
accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che venisse il
dì del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e, minacciando di
ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al
giuramento; e quello, per timore avendo giurato, gli levò l'accusa. E
così quelli cittadini i quali lo amore della patria, le leggi di
quella, non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che
furano forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva
col padre, la ingiuria che gli avea fatto il figliuolo, e l'onore suo, per
ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da quella religione
che Numa aveva introdotta in quella città. E vedesi, chi considera bene le
istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a
animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei.
Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più
obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il
primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono
introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con difficultà
si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il
Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario
dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale
simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava
di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché
voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava
che la sua autorità non bastasse. E veramente, mai fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio;
perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni
conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da
poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre
questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo,
così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo fine
di loro. Maravigliando, adunque, il Popolo romano la bontà e la
prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione. Ben è vero che l'essere
quelli tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i quali egli aveva a
travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a conseguire i
disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma. E
sanza dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una republica più
facilità troverrebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna
civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la
civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella statua d'un marmo rozzo, che d'uno male abbozzato da
altrui. Considerato adunque tutto,
conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della
felicità di quella città: perché quella causò buoni
ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero i
felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è
cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello
è cagione della rovina d'esse. Perché, dove manca il timore di Dio,
conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe
che sopperisca a' difetti della religione. E perché i principi sono di corta
vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la
virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo dalla
virtù d'uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca
con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la
successione, come prudentemente Dante dice: Rade volte discende per li rami l'umana probitate; e questo
vuole quel che la da', perche' da lui si
chiami. Non è, adunque, la salute
di una republica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente governi
mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si
mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine
o una opinione nuova, non è però per questo impossibile
persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al
popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate
Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare
s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con
riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa
nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina
e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia,
pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che
è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione
nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo
ordine. Di quanta importanza sia tenere
conto della religione, e come la Italia, per esserne mancata mediante la
chiesa romana, è rovinata. Quelli principi o quelle
republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra
cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle
sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere
della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo
è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata
la religione dove l'uomo è nato; perché ogni religione ha il
fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della
religione Gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta
degli indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e
riti, dependevano da queste perché loro facilmente credevono che quello Iddio
che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi
ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le
supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli: perché l'oracolo di
Delo, il tempio di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano
il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a
parlare a modo de' potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne'
popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine
buono. Debbono, adunque i principi d'una republica o d'uno regno, i
fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo
sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e, per
conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di
quella come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto
più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto
più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è
stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l'opinione dei miracoli,
che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli
augumentano, da qualunque principio e' si nascano; e l'autorità loro
dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a
Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i soldati romani la
città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed
accostandosi alla imagine di quella, e dicendole: "Vis venire
Romam?" parve a alcuno vedere che la accennasse a alcuno altro che la
dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che
dimostra Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza
tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta
che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale opinione
e credulità da Cammillo a dagli altri principi della città fu
al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne' principi della
republica cristiana si fusse mantenuta, secondo che dal datore d'essa ne fu
ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane più unite,
più felici assai, che le non sono. Né si può fare altra
maggiore coniettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come
quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della
religione nostra hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi,
e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe
essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello. E perché molti sono d'opinione,
che il bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana,
voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne
allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non hanno
repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella corte,
questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira
dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come
dove è religione si presuppone ogni bene, così, dove quella
manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i
preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e
cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda
cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene
questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o
felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno
principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione
che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una
republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa:
perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è
stata sì potente né di tanta virtù che l'abbia potuto occupare
la tirannide d'Italia e farsene principe; e non è stata, dall'altra
parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue
cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda
contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si
è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante Carlo
Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di
tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani
con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò i Franciosi con l'aiuto de'
Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la
Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che
la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto
più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e
tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente
de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani
abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse per
esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che
fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con
l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de' Svizzeri; i quali oggi
sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini
militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in poco tempo farebbero più
disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque
altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere. Come i Romani si servivono della
religione per riordinare la città e seguire le loro imprese e
fermare i tumulti. Ei non mi pare fuora di
proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani si servivono della religione
per riordinare la città, e per seguire le imprese loro; e quantunque
in Tito Livio ne siano molti, nondimeno voglio essere contento a questi.
Avendo creato il Popolo romano i Tribuni di potestà consolare, e,
fuora che uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame, e
venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova creazione
de' Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere Roma male usato la
maiestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a placare
gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni nel luogo suo: di che nacque che
la plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti nobili.
Vedesi ancora, nella espugnazione della città de' Veienti, come i
capitani degli eserciti si valevano della religione per tenergli disposti a
una impresa; che, essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto
mirabilmente, ed essendo i soldati romani infastiditi per la lunga ossidione,
e volendo tornarsene a Roma, trovarono i Romani come Apollo e certi altri
risponsi dicevano che quello anno si espugnerebbe la città de'
Veienti, che si derivassi il lago Albano: la quale cosa fece ai soldati
sopportare i fastidi della ossidione, presi da questa speranza di espugnare
la terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto
Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che la era stata
assediata. E così la religione, usata bene, giovò e per la
espugnazione di quella città, e per la restituzione del Tribunato
nella Nobilità che, sanza detto mezzo, difficilmente si sarebbe
condotto e l'uno e l'altro. Non voglio mancare di addurre a
questo proposito un altro esemplo. Erano nati in Roma assai tumulti per
cagione di Terentillo tribuno, volendo lui proporre certa legge, per le
cagioni che di sotto, nel suo luogo, si diranno; e tra i primi rimedi che vi
usò la Nobilità, fu la religione, della quale si servirono in
due modi. Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla
città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli
di non perdere la libertà: la quale cosa, ancora che fusse scoperta
da' tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti della plebe, che la
raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che, avendo un Appio Erdonio,
con una moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini,
occupato di notte il Campidoglio, in tanto che si poteva temere che, se gli
Equi e i Volsci, perpetui inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma,
la arebbono espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare
nella pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo che quello
insulto era simulato e non vero; uscì fuori del Senato un Publio
Ruberio, cittadino grave e di autorità, con parole, parte amorevoli,
parte minaccianti, mostrandogli i pericoli della città, e la
intempestiva domanda loro; tanto ch'ei costrinse la plebe a giurare di non si
partire dalla voglia del consolo: tanto che la plebe, ubbidiente, per forza
ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione morto Publio
Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio, il quale, per non
lasciare riposare la plebe, né darle spazio a pensare alla legge Terentilla,
le comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci, dicendo che
per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo, era obligata a
seguirlo: a che i tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era
dato al consolo morto, e non a lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la
Plebe, per paura della religione, volle più tosto ubbidire al consolo,
che credere a' tribuni, dicendo in favore della antica religione queste
parole: "Nondum haec, quae nunc tenet saeculum, negligentia Deum
venerat, nec interpretando sibi quisque jusjurandum et leges aptas
faciebat". Per la quale cosa dubitando i Tribuni di non perdere allora
tutta la lor dignità, si accordarono col consolo di stare alla
ubbidienza di quello; e che per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla,
ed i Consoli per uno anno non potessero trarre fuori la plebe alla guerra. E
così la religione fece al Senato vincere quelle difficultà,
che, sanza essa, mai averebbe vinte. I Romani interpetravano gli
auspizi secondo la necessità, e con la prudenza mostravano di osservare la
religione, quando forzati non la osservavano; e se
alcuno temerariamente la dispregiava, punivano. Non solamente gli augurii, come
di sopra si è discorso, erano il fondamento, in buona parte, dell'antica
religione de' Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene
essere della Republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che
di alcuno altro ordine di quella; ed usavongli ne' comizi consolari, nel
principiare le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le giornate, ed
in ogni azione loro importante, o civile o militare; né mai sarebbono iti ad
una espedizione, che non avessono persuaso ai soldati che gli Dei
promettevano loro la vittoria. Ed in fra gli altri auspicii, avevano negli
eserciti certi ordini di aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque
volta eglino ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei volevano che i
pullarii facessono i loro auspicii; e, beccando i polli, combattevono con
buono augurio, non beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la
ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii
fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi
tanto attamente, che non paresse che la facessino con dispregio della
religione. Il quale termine fu usato da
Papirio consolo in una zuffa che ei fece importantissima coi Sanniti, dopo la
quale restarono in tutto deboli ed afflitti. Perché, sendo Papirio in su'
campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa,
e volendo per questo fare la giornata, comandò ai pullarii che
facessono i loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il principe
de' pullarii la gran disposizione dello esercito di combattere, e la opinione
che era nel capitano ed in tutti i soldati di vincere, per non tôrre
occasione di bene operare a quello esercito, riferì al consolo come
gli auspicii procedevono bene: talché Papirio, ordinando le squadre, ed
essendo da alcuni de' pullarii detto a certi soldati, i polli non avere
beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nepote del consolo; e quello
riferendolo al consolo, rispose subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio
suo bene; che, quanto a lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se
il pullario aveva detto le bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E
perché lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legati che
constituissono i pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque che,
andando contro a' nimici, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso
ammazzò il principe de' pullarii: la quale cosa udita, il consolo
disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dei; perché lo
esercito con la morte di quel bugiardo s'era purgato da ogni colpa e da ogni
ira che quelli avessono presa contro a di lui. E così, col sapere bene
accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di azzuffarsi, sanza
che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti
gli ordini della loro religione. Al contrario fece Appio Pulcro
in Sicilia, nella prima guerra punica: che, volendo azzuffarsi con l'esercito
cartaginese, fece fare gli auspicii a' pullarii; e riferendogli quelli, come
i polli non beccavano, disse: - Veggiamo se volessero bere! - e gli fece
gittare in mare. Donde che azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu a
Roma condannato, e Papirio onorato, non tanto per avere l'uno vinto, e
l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli auspicii
prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad altro fine tendeva questo modo
dello aruspicare, che di fare i soldati confidentemente ire alla zuffa; dalla
quale confidenza quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non
solamente usata dai Romani, ma dagli esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo
nel seguente capitolo. I Sanniti, per estremo rimedio
alle cose loro afflitte, ricorsero alla religione. Avendo i Sanniti avute
più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in
Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti
i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; "nec suis nec
externis viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne
infeliciter quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam,
malebant". Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano
che, a volere vincere, era necessario indurre ostinazione negli animi de'
soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione; pensarono
di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote.
Il quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e
fatto, intra le vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i capi
dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad
uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade
nude in mano gli facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che
vedessono o sentissono; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di
spavento, gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove
gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e
d'ammazzare qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non
osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed
essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro
centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti dalla
ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro
assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono
la metà di panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e
così ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne
Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: "non enim
cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire romanum
pilum". E per debilitare la opinione che avevono i suoi soldati de'
nimici per il giuramento preso, disse che quello era a timore non a fortezza
loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii,
e de' nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perché la
virtù romana, e il timore conceputo per le passate rotte,
superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù
della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non
parve potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare
speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno,
quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché
questa parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta
intra le cose estrinseche; nondimeno, dependendo da uno ordine de' più
importanti della Republica di Roma, mi è parso da connetterlo in
questo luogo, per non dividere questa materia e averci a ritornare più
volte. Uno popolo, uso a vivere sotto
uno principe, se per qualche accidente diventa libero, con
difficultà mantiene la libertà. Quanta difficultà sia a
uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, perservare dipoi la libertà,
se per alcuno accidente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la
cacciata de' Tarquinii, lo dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle
memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole;
perché quel popolo è non altrimenti che un animale bruto, il quale,
ancora che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere
ed in servitù; che dipoi lasciato a sorte in una campagna libero, non
essendo uso a pascersi, né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire,
diventa preda del primo che cerca rincatenarlo. Questo medesimo interviene a uno
popolo, il quale, sendo uso a vivere sotto i governi d'altri, non sappiendo
ragionare né delle difese o offese pubbliche, non conoscendo i principi né
essendo conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale il
più delle volte è più grave che quello che, poco inanzi,
si aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste difficultà,
quantunque che la materia non sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto
è entrata la corruzione, non può, non che piccol tempo, ma
punto vivere libero come di sotto si discorrerà: e però i
ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata
assai, e dove sia più del buono che del guasto. Aggiungesi alla soprascritta
un'altra difficultà, la quale è, che lo stato che diventa
libero si fa partigiani inimici, e non partigiani amici. Partigiani inimici
gli diventono tutti coloro che dello stato tirannico si prevalevono,
pascendosi delle ricchezze del principe; a' quali sendo tolta la facultà
del valersi, non possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di tentare
di ripigliare la tirannide, per ritornare nell'autorità loro. Non si
acquista, come ho detto, partigiani amici; perché il vivere libero prepone
onori e premii, mediante alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di
quelle non premia né onora alcuno, e quando uno ha quegli onori e quegli
utili che gli pare meritare, non confessa avere obligo con coloro che lo
rimunerano. Oltre a di questo, quella comune utilità che del vivere
libero si trae, non è da alcuno, mentre che ella si possiede
conosciuta: la quale è di potere godere liberamente le cose sue sanza
alcuno sospetto, non dubitare dell'onore delle donne, di quel de' figliuoli,
non temere di sé; perché nessuno confesserà mai avere obligo con uno
che non l'offenda. Però, come di sopra si
dice, viene ad avere, lo stato libero e che di nuovo surge, partigiani
inimici, e non partigiani amici. E volendo rimediare a questi inconvenienti,
e a quegli disordini che le soprascritte difficultà arrecherebbono
seco, non ci è più potente rimedio, né più valido né
più sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di
Bruto: i quali, come la istoria mostra, non furono indotti, insieme con altri
giovani romani, a congiurare contro alla patria per altro, se non perché non
si potevono valere straordinariamente sotto i consoli come sotto i re; in
modo che la libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la loro
servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o per via di
libertà o per via di principato, e non si assicura di coloro che a
quell'ordine nuovo sono inimici, fa uno stato di poca vita. Vero è che
io giudico infelici quelli principi che, per assicurare lo stato loro hanno a
tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine: perché quello che
ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli, si assicura, ma chi
ha per nimico l'universale non si assicura mai, e quanta più
crudeltà usa tanto più debole diventa il suo principato. Talché
il maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico. E benché questo discorso sia
disforme dal soprascritto, parlando qui d'uno principe e quivi d'una
republica; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa
materia, ne voglio parlare brevemente. Volendo, pertanto, uno principe
guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico, parlando di quelli principi che
sono diventati della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima
quello che il popolo desidera, e troverrà sempre che desidera due
cose: l'una, vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo;
l'altra, di riavere la sua libertà. Al primo desiderio il principe
può sodisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce
n'è lo esemplo appunto. Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in esilio,
occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli ottimati di
Eraclea, che, veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire
Clearco e congiuratisi seco lo missono, contro alla disposizione popolare, in
Eraclea e tolsono la libertà al popolo. In modo che, trovandosi
Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in alcuno modo
né contentare né correggere, e la rabbia de' popolari, che non potevano
sopportare lo avere perduta la libertà, diliberò a un tratto liberarsi
dal fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo. E presa, sopr'a questo,
conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati, con una
estrema sodisfazione de' popolari. E così egli per questa via
sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi.
Ma quanto all'altro popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non
potendo il principe sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle
che gli fanno desiderare d'essere liberi; e troverrà che una piccola
parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri,
che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. Perché in
tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non
aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e perché questo è piccolo
numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con fare
loro parte di tanti onori, che, secondo le condizioni loro, e' si abbino in
buona parte a contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si
sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza
sua si comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia
questo, e che il popolo vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali
leggi, comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento. In esemplo
ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che per
essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la
sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stato,
volle che quelli re, dell'armi e del danaio facessero a loro modo, ma che
d'ogni altra cosa non ne potessono altrimenti disporre che le leggi si
ordinassero. Quello principe, adunque, o quella republica che non si assicura
nel principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima
occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di
non avere fatto quello che doveva fare. Sendo, pertanto, il popolo
romano ancora non corrotto quando ei ricuperò la libertà,
potette mantenerla, morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con
tutti quelli modi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse
stato quel popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova rimedi validi a
mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno. Uno popolo corrotto, venuto in
libertà, si può con difficultà
grandissima mantenere libero. Io giudico ch'egli era
necessario, o che i re si estinguessono in Roma, o che Roma in brevissimo
tempo divenisse debole e di nessuno valore; perché, considerando a quanta corruzione
erano venuti quelli re, se fossero seguitati così due o tre
successioni, e che quella corruzione, che era in loro, si fosse cominciata ad
istendere per le membra, come le membra fossero state corrotte, era
impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto
era intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E
debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta che
viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si
spenga, mai non si può ridurre libera, anzi conviene che l'un principe
spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo signore non si posa mai, se
già la bontà d'uno, insieme con la virtù, non la tenesse
libera; ma durerà tanto quella libertà, quanto durerà la
vita di quello: come intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone: la
virtù de' quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella
città; morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma
non si vede il più forte esemplo che quello di Roma; la quale,
cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e mantenere quella libertà;
ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe
cesarea, non poté mai, non solamente mantenere, ma pure dar principio alla
libertà. Né tanta diversità di evento in una medesima
città nacque da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il
popolo romano ancora corrotto, ed in questi ultimi tempi essere
corrottissimo. Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re,
bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno
regnasse; e negli altri tempi non bastò l'autorità e
severità di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo disposto
a volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine del primo
Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da quella corruzione che le parti
mariane avevano messa nel popolo; delle quali sendo capo Cesare, potette
accecare quella moltitudine, ch'ella non conobbe il giogo che da sé medesima
si metteva in sul collo. E benché questo esemplo di Roma
sia da preporre a qualunque altro esemplo, nondimeno voglio a questo
proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico,
che nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o
Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte. Il che si vide dopo
la morte di Filippo Visconti; che, volendosi ridurre Milano alla
libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però, fu
felicità grande quella di Roma, che questi rediventassero corrotti
presto, acciò ne fussono cacciati, ed innanzi che la loro corruzione
fusse passata nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu
cagione che gl'infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine
buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica. E si può fare questa
conclusione, che, dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri
scandoli non nuocono: dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non
giovano, se già le non sono mosse da uno che con una estrema forza le
faccia osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si
è mai intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché e'
si vede, come poco di sopra dissi, che una città venuta in
declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si rilievi,
occorre per la virtù d'uno uomo che è vivo allora, non per la
virtù dello universale che sostenga gli ordini buoni; e subito che
quel tale è morto, la si ritorna nel suo pristino abito: come
intervenne a Tebe, la quale, per la virtù di Epaminonda, mentre lui
visse, potette tenere forma di republica e di imperio; ma, morto quello, la
si ritornò ne' primi disordini suoi. La cagione è, che non
può essere uno uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare
bene una città lungo tempo male avvezza. E se uno d'una lunghissima
vita, o due successione virtuose continue, non la dispongano; come la manca
di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con dimolti
pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere. Perché tale corruzione
e poca attitudine alla vita libera, nasce da una inequalità che
è in quella città: e volendola ridurre equale, è
necessario usare grandissimi straordinari, i quali pochi sanno o vogliono
usare; come in altro luogo più particularmente si dirà. In che modo nelle città
corrotte si potesse mantenere uno stato libero, essendovi; o,
non vi essendo, ordinarvelo. Io credo che non sia fuora di
proposito, né disforme dal soprascritto discorso, considerare se in una
città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi; o
quando e' non vi fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa,
dico, come gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché sia
quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario procedere secondo i
gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d'ogni cosa, non
voglio lasciare questa indietro. E presupporrò una città
corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale
difficultà; perché non si truovano né leggi né ordini che bastino a
frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni
costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per
osservarsi, hanno bisogno de' buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e
le leggi fatte in una republica nel nascimento suo, quando erano gli uomini
buoni, non sono dipoi più a proposito, divenuti che ei sono rei. E se
le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai,
o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano,
perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono. E per dare ad intendere meglio
questa parte, dico come in Roma era l'ordine del governo, o vero dello stato;
e le leggi dipoi, che con i magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello
stato era l'autorità del Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli,
il modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi.
Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi che
frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii, la suntuaria, quella
della ambizione, e molte altre; secondo che di mano in mano i cittadini
diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella
corruzione non erano più buoni, quelle legge, che si rinnovavano, non
bastavano a mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la
innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini. E che sia il vero, che tali
ordini nella città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi
capi principali, quanto al creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo
romano il consolato, e gli altri primi gradi della città, se non a
quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono, perché e'
non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni ed
averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne giudicati degni,
ciascuno operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città
corrotta, perniziosissimo; perché non quelli che avevano più
virtù, ma quelli che avevano più potenza domandavano i
magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli,
per paura. Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi,
come si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i Romani domata
l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano
divenuti sicuri della libertà loro, né pareva loro avere più
nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa
debolezza de' nimici fece che il popolo romano, nel dare il consolato, non
riguardava più la virtù, ma la grazia; tirando a quel grado
quelli che meglio sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano
meglio vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei
discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni,
per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno tribuno,
e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una legge; sopra la quale
ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si
deliberasse. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perché
sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa
preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione
sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma
diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perché
solo i potenti proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la
potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di
quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua
rovina. Era necessario, pertanto, a
volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, così come
aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi
ordini: perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno
suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la forma simile in
una materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e' si hanno a
rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o
a poco a poco, in prima che si conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra
di queste due cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare a
poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo
inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi tali è
facilissima cosa che in una città non ne surga mai nessuno: e quando
pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a altrui quello che egli
proprio intendesse; perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo
vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo
a essere loro mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi ordini a un
tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa
inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a
ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo
modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come
è alla violenza ed all'armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe
di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare
una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare
per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per
questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie
cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che
uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello
animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose
nasce la difficultà, o impossibilità, che è nelle
città corrotte, a mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E
quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario
ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare;
acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non
possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche
modo frenati. E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o
crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi, di sopra, che
fece Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se
Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio
Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si debbe
avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano il suggetto di quella
corruzione macchiato, della quale in questo capitolo ragioniamo, e
però poterono volere, e, volendo, colorire il disegno loro. Dopo uno eccellente principe si
può mantenere uno principe debole; ma, dopo
uno debole, non si può con un altro
debole mantenere alcuno regno. Considerato la virtù ed
il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre re romani, si
vede come Roma sortì una fortuna grandissima, avendo il primo re
ferocissimo e bellicoso, l'altro quieto e religioso, il terzo simile di ferocità
a Romolo, e più amatore della guerra che della pace. Perché in Roma
era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un ordinatore del vivere
civile, ma era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la
virtù di Romolo; altrimenti quella città sarebbe diventata
effeminata, e preda de' suoi vicini. Donde si può notare che uno
successore, non di tanta virtù quanto il primo, può mantenere
uno stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e si
può godere le sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di lunga vita,
o che dopo lui non surga un altro che ripigli la virtù di quel primo,
è necessitato quel regno a rovinare. Così, per il contrario, se
dua, l'uno dopo l'altro, sono di gran virtù, si vede spesso che fanno
cose grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo. Davit, sanza dubbio, fu un uomo,
per arme, per dottrina, per giudizio, eccellentissimo; e fu tanta la sua
virtù, che, avendo vinti e battuti tutti i suoi vicini, lasciò
a Salomone suo figliuolo uno regno pacifico: quale egli si potette con l'arte
della pace, e non con la guerra, conservare; e si potette godere felicemente
la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboam
suo figliuolo; il quale, non essendo per virtù simile allo avolo, né
per fortuna simile al padre, rimase con fatica erede della sesta parte del
regno. Baisit, sultan de' Turchi, come che fussi più amatore della
pace che della guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il
quale avendo, come Davit, battuto i suoi vicini, gli lasciò un regno
fermo, e da poterlo con l'arte della pace facilmente conservare. Ma se il
figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stato simile al padre, e
non all'avolo, quel regno rovinava; ma e' si vede costui essere per superare
la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi esempli, che, dopo uno
eccellente principe, si può mantenere uno principe debole; ma, dopo un
debole, non si può, con un altro debole, mantenere alcun regno, se
già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi
lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno in su la
guerra. Conchiudo pertanto, con questo
discorso, che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio
a Numa Pompilio di potere molti anni con l'arte della pace reggere Roma: ma
dopo lui successe Tullo, il quale per la sua ferocità riprese la
riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in modo dalla natura dotato,
che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a
volere tenere la via della pace, ma subito conobbe come i vicini,
giudicandolo effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che, a
volere mantenere Roma, bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e
non Numa. Da questo piglino esemplo tutti
i principi che tengono stato; che chi somiglierà Numa, lo terrà
o non terrà, secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto;
ma chi somiglierà Romolo, e fia come esso armato di prudenza e d'armi,
lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli
è tolto. E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per
terzo suo re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua riputazione
non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà, potuto pigliare
piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E così, in mentre che la
visse sotto i re la portò questi pericoli di rovinare sotto uno re o
debole o malvagio. Dua continove successioni di
principi virtuosi fanno grandi effetti; e come le
republiche bene ordinate hanno di necessità
virtuose successioni, e però gli acquisti ed augumenti
loro sono grandi. Poiché Roma ebbe cacciati i re,
mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava
succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si
ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per inganni o per
ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed
erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la
virtù, e la fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima
grandezza in altrettanti anni che la era stata sotto i re. Perché si vede,
come due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad
acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il
che tanto più debba fare una republica, avendo per il modo dello
eleggere non solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che
sono l'uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in
ogni republica bene ordinata. Quanto biasimo meriti quel
principe e quella republica che manca
d'armi proprie. Debbono i presenti principi e le
moderne republiche, le quali circa le difese ed offese mancano di soldati
propri, vergognarsi di loro medesime; e pensare con lo esemplo di Tullo, tale
difetto essere, non per mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa
sua, che non han saputo fare i suoi uomini militari. Perché Tullo, sendo
stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo egli nel regno,
uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno, disegnando esso fare guerra,
non pensò valersi né de' Sanniti, né de' Toscani, né di altri che
fussero consueti stare nell'armi, ma diliberò, come uomo
prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un
tratto, sotto il suo governo gli poté fare soldati eccellentissimi. Ed
è più vero che alcuna altra verità, che, se dove
è uomini non è soldati, nasce per difetto del principe, e non
per altro difetto o di sito o di natura. Di che ce n'è un esemplo
freschissimo. Perché ognuno sa, come ne' prossimi tempi il re d'Inghilterra
assaltò il regno di Francia, né prese altri soldati che popoli suoi;
e, per essere stato quel regno più che trenta anni sanza fare guerra,
non aveva né soldati né capitano che avesse mai militato: nondimeno, non
dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni
eserciti, i quali erano stati continovamente sotto l'armi nelle guerre
d'Italia. Tutto nacque da essere quel re prudente uomo, e quel regno bene
ordinato; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della
guerra. Pelopida ed Epaminonda tebani,
poiché gli ebbero libera Tebe, e trattala della servitù dello imperio
spartano, trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli
effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto
l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e
vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo mostrarono
che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da guerra, ma in ogni
altra parte dove nascessi uomini, pure che si trovasse chi li sapesse
indirizzare alla milizia, come si vede che Tullo seppe indirizzare i Romani.
E Virgilio non potrebbe meglio esprimere questa opinione, né con altre parole
mostrare di accostarsi a quella, dove dice: desidesque movebit Tullus in arma viros. Quello che sia da notare nel
caso de' tre Orazii romani e tre Curiazii albani. Tullo re di Roma, e Mezio, re di
Alba, convennero che quello popolo fusse signore dell'altro, di cui i
soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazii albani,
restò vivo uno degli Orazii romani: e per questo restò Mezio re
albano, con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio
vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii
morti maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde
quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu
libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove
sono da notare tre cose: l'una, che mai non si debbe con parte delle sue
forze arrischiare tutta la sua fortuna; l'altra, che non mai in una
città bene ordinata le colpe con gli meriti si ricompensano; la terza,
che non mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della
inosservanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo essere serva,
che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o di quelli popoli
stessero contenti che tre loro cittadini gli avessero sottomessi: come si
vide che volle fare Mezio, il quale, benché subito dopo la vittoria de'
Romani si confessassi vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno
nella prima espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide
come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era avveduto
della temerità del partito preso da lui. E perché di questo terzo
notabile se n'è parlato assai, parlereno solo degli altri due ne'
seguenti duoi capitoli. Che non si debbe mettere a
pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze; e, per questo,
spesso il guardare i passi è dannoso. Non fu mai giudicato partito
savio mettere a pericolo tutta la fortuna tua e non tutte le forze. Questo si
fa in più modi. L'uno è faccendo come Tullo e Mezio, quando e'
commissono la fortuna tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini
quanti aveva l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù
e fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima parte
delle forze di ciascuno di loro. Né si avvidono, come per questo partito
tutta la fatica che avevano durata i loro antecessori nell'ordinare la
republica, per farla vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini
difensori della loro libertà, era quasi che stata vana, stando nella
potenza di sì pochi a perderla. La quale cosa da quelli re non poté
essere peggio considerata. Cadesi ancora in questo
inconveniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nimico, disegnano di
tenere i luoghi difficili, e guardare i passi: perché quasi sempre questa
diliberazione sarà dannosa, se già in quello luogo difficile
commodamente tu non potesse tenere tutte le forze tue. In questo caso, tale
partito è da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi potendo
tenere tutte le forze, il partito è dannoso. Questo mi fa giudicare
così lo esemplo di coloro, che, essendo assaltati da un inimico
potente, ed essendo il paese loro circundato da' monti e luoghi alpestri, non
hanno mai tentato di combattere il nimico in su' passi ed in su' monti, ma
sono iti a rincontrarlo di là da essi; o, quando non hanno voluto fare
questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in luoghi benigni e non
alpestri. E la cagione ne è stata la preallegata: perché, non si
potendo condurre alla guardia de' luoghi alpestri molti uomini, sì per
non vi potere vivere lungo tempo, sì per essere i luoghi stretti e
capaci di pochi, non è possibile sostenere uno inimico che venga
grosso a urtarti: ed al nimico è facile il venire grosso perché la
intenzione sua è passare, e non fermarsi, ed a chi l'aspetta è
impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo,
non sappiendo quando il nimico voglia passare in luoghi, come io ho detto,
stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo che tu ti avevi presupposto
tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo confidava, entra il
più delle volte ne' popoli e nel residuo delle genti tua tanto
terrore, che, sanza potere esperimentare la virtù d'esse, rimani
perdente; e così vieni a avere perduta tutta la tua fortuna con parte
delle tue forze. Ciascuno sa con quanta
difficultà Annibale passasse l'alpe che dividono la Lombardia dalla
Francia, e con quanta difficultà passasse quelle che dividono la
Lombardia dalla Toscana: nondimeno i Romani l'aspettarono prima in sul
Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon, più tosto, che il loro
esercito fusse consumato da il nimico nelli luoghi dove poteva vincere, che
condurlo su per l'alpe a essere distrutto dalla malignità del sito. E chi leggerà
sensatamente tutte le istorie, troverrà pochissimi virtuosi capitani
avere tentato di tenere simili passi, e per le ragioni dette, e perché e' non
si possono chiudere tutti, sendo i monti come campagne, ed avendo non
solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre le quali, se non sono
note a' forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone. Di che
se ne può addurre uno freschissimo esemplo, nel 1515. Quando Francesco
re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di
Lombardia, il maggior fondamento che facevono coloro ch'erano alla sua
impresa contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti.
E, come per esperienza poi si vidde, quel loro fondamento restò vano:
perché, lasciato quel Re da parte dua o tre luoghi guardati da loro, se ne
venne per un'altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro apresso, che
lo avessono presentito. Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e
tutti i popoli di Lombardia si accostarono alle genti franciose; sendo
mancati di quella opinione avevano, che i Franciosi devessono essere ritenuti
in su' monti. Le republiche bene ordinate
costituiscono premii e pene a' loro cittadini, né
compensono mai l'uno con l'altro. Erano stati i meriti di Orazio
grandissimi, avendo con la sua virtù vinti i Curiazii: era stato il
fallo suo atroce, avendo morto la sorella: nondimeno dispiacque tanto tale
omicidio a' Romani, che lo condussono a disputare della vita, non ostante che
gli meriti suoi fossero tanto grandi e sì freschi. La quale cosa, a
chi superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine
popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore considerazione
ricerca quali debbono essere gli ordini delle republiche, biasimerà
quel popolo più tosto per averlo assoluto che per averlo voluto
condannare. E la ragione è questa, che nessuna republica bene ordinata
non mai cancellò i demeriti con gli meriti de' suoi cittadini; ma
avendo ordinati i premii a una buona opera e le pene a una cattiva ed avendo
premiato uno per avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo
gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi
ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo:
altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un cittadino che abbia
fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla
riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter,
senza temere pena, fare qualche opera non buona, diventerà in brieve
tempo tanto insolente che si risolverà ogni civilità. È bene necessario,
volendo che sia tenuta la pena per le malvagie opere, osservare i premii per
le buone, come si vide che fece Roma. E benché una republica sia povera, e
possa dare poco, debbe da quel poco non astenersi, perché sempre ogni piccol
dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora che grande, sarà
stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima la
istoria di Orazio Cocle, e quella di Muzio Scevola: come l'uno sostenne i
nimici sopra un ponte, tanto che si tagliasse; l'altro si arse la mano, che
aveva errato, volendo ammazzare Porsenna, re degli Toscani. A costoro per
queste due opere tanto egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra
per ciascuno. È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui,
per avere salvato il Campidoglio da' Franciosi che vi erano a campo, fu dato,
da quelli che insieme con lui vi erano assediati dentro, una piccola misura
di farina. Il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma fu
grande; e di qualità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua
cattiva natura, a fare nascere sedizione in Roma e cercando guadagnarsi il
popolo, fu, sanza rispetto alcuno de' suoi meriti, gittato precipite da
quello Campidoglio che esso prima, con tanta sua gloria, avea salvo. Chi vuole riformare uno stato
anticato in una città libera, ritenga almeno l'ombra de' modi
antichi. Colui che desidera o che vuole
riformare uno stato d'una città, a volere che sia accetto, e poterlo
con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere
l'ombra almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere
mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni
dai passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel
che pare come di quello che è: anzi, molte volte si muovono più
per le cose che paiono che per quelle che sono. Per questa cagione i Romani,
conoscendo nel principio del loro vivere libero questa necessità,
avendo in cambio d'uno re creati duoi consoli, non vollono ch'egli avessono
più che dodici littori, per non passare il numero di quelli che
ministravano ai re. Oltre a di questo, faccendosi in Roma uno sacrificio
anniversario, il quale non poteva essere fatto se non dalla persona del re, e
volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia
degli re alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto sacrificio, il
quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo Sacerdote:
talmente che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi di quel
sacrificio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di disiderare la
ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono
scancellare un antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere
nuovo e libero: perché, alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti
debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello antico sia
possibile; e se i magistrati variano, e di numero e d'autorità e di
tempo, degli antichi, che almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto,
debbe osservare colui che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di
republica o di regno: ma quello che vuole fare una potestà assoluta,
la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa,
come nel seguente capitolo si dirà. Uno principe nuovo, in una
città o provincia presa da lui, debbe fare ogni
cosa nuova. Qualunque diventa principe o
d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi
fussono deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita
civile, il megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato,
è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di
nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi,
con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri
ricchi come fece Davit quando ei diventò re: "qui esurientes
implevit bonis, et divites dimisit inanes"; edificare, oltra di
questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori
da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in
quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza,
che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di
Macedonia, padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re,
diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava
gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani tramutano le mandrie
loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici d'ogni vivere, non solamente
cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto
vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che
non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere
conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del
mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né
tutti buoni: come nel seguente capitolo, per esemplo, si mosterrà. Sanno rarissime volte gli uomini
essere al tutto cattivi o al tutto buoni. Papa Iulio secondo, andando nel
1505 a Bologna, per cacciare di quello stato la casa de' Bentivogli, la quale
aveva tenuto il principato di quella città cento anni, voleva ancora
trarre Giovampagolo Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello
che aveva congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione, nota a
ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo
esercito suo, che lo guardasse, ma vi entrò disarmato, non ostante vi
fusse drento Giovampagolo con gente assai, quale per difesa di sé aveva
ragunata. Sì che, portato da quel furore con il quale governava tutte
le cose, con la semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il
quale dipoi ne menò seco, lasciando un governatore in quella
città, che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli uomini
prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di
Giovampagolo; né potevono estimare donde si venisse che quello non avesse,
con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nimico suo, e sé arricchito
di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le loro delizie. Né si
poteva credere si fusse astenuto o per bontà o per conscienza che lo
ritenesse; perché in uno petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la
sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere
alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse, nascesse che gli uomini non sanno
essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha
in sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e' non vi sanno
entrare. Così Giovampagolo, il
quale non stimava essere incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir
meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove
ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria eterna,
sendo il primo che avesse dimostro a' prelati, quanto sia da stimare poco chi
vive e regna come loro ed avessi fatto una cosa, la cui grandezza avesse
superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere. Per quale cagione i Romani
furono meno ingrati contro agli loro cittadini che
gli Ateniesi. Qualunque legge le cose fatte
dalle republiche, troverrà in tutte qualche spezie d'ingratitudine
contro a' suoi cittadini: ma ne troverrà meno in Roma che in Atene, e
per avventura in qualunque altra republica. E ricercando la cagione di
questo, parlando di Roma e d'Atene credo accadessi perché i Romani avevano
meno cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a
Roma, ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu
mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino in modo che in lei non
era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli
inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario; perché, sendogli
tolta La libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e
sotto uno inganno di bontà; come prima la diventò poi libera,
ricordandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù,
diventò prontissima vendicatrice, non solamente degli errori, ma della
ombra degli errori de' suoi cittadini. Quinci nacque lo esilio e la morte di
tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni altra
violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella città fu
fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi scrittori della
civilità: che i popoli mordono più fieramente poi ch'egli hanno
recuperata la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considererà,
adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, né
lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la
diversità degli accidenti che in queste città nacquero. Perché
si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se a Roma
fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma
più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si
può fare verissima coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata
de' re, contro a Collatino ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora
che si trovasse a liberare Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione
che per tenere il nome de' Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé
sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto
esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa
e severa, che l'arebbe usata la ingratitudine come Atene, se da' suoi
cittadini come quella, ne' primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fusse
stata ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa materia
della ingratitudine, ne dirò, quello ne occorrerà, nel seguente
capitolo. Quale sia più ingrato, o
uno popolo o uno principe. Egli mi pare, a proposito della
soprascritta materia, da discorrere quale usi con maggiori esempli questa
ingratitudine, o uno popolo o uno principe. E per disputare meglio questa
parte, dico, come questo vizio della ingratitudine nasce o dall'avarizia o da
il sospetto. Perché, quando o uno popolo o uno principe ha mandato fuori uno
suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano, vincendola,
ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o quel popolo è tenuto
allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di premio, o e' lo disonora o e'
l'offende, mosso dall'avarizia, non volendo, ritenuto da questa
cupidità, satisfarli; fa uno errore che non ha scusa, anzi si tira
dietro una infamia eterna. Pure si truova molti principi che ci peccono. E
Cornelio Tacito dice, con questa sentenzia, la cagione: "Proclivius est
iniuriae, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in questu
habetur". Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio, l'offende, non
mosso da avarizia ma da sospetto, allora merita, e il popolo e il principe,
qualche scusa. E di queste ingratitudini, usate per tale cagione, se ne legge
assai: perché quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato uno
imperio al suo signore, superando i nimici, e riempiendo sé di gloria e gli
suoi soldati di ricchezze, di necessità, e con i soldati suoi, e con i
nimici, e con i sudditi propri di quel principe, acquista tanta riputazione,
che quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che lo ha
mandato. E perché la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e
non sa porre modo a nessuna sua fortuna, è impossibile che quel
sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di quel suo capitano,
non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o termine usato
insolentemente. Talché il principe non può pensare a altro che
assicurarsene: e, per fare questo, ei pensa o di farlo morire o di torgli la
riputazione, che si ha guadagnata nel suo esercito o ne' suoi popoli; e con
ogni industria mostrare che quella vittoria è nata non per la
virtù di quello ma per fortuna, o per viltà de' nimici, o per
prudenza degli altri capi che sono stati seco in tale fazione. Poiché Vespasiano, sendo in
Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Primo, che si
trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue, e vennene in
Italia contro a Vitellio, quale regnava a Roma, e virtuosissimamente ruppe
dua eserciti Vitelliani, e occupò Roma, talché Muziano, mandato da
Vespasiano, trovò, per la virtù d'Antonio, acquistato il tutto,
e vinta ogni difficultà. Il premio che Antonio ne riportò, fu
che Muziano gli tolse subito la ubbidienza dello esercito, e a poco a poco lo
ridusse in Roma sanza alcuna autorità: talché Antonio ne andò a
trovare Vespasiano, quale era ancora in Asia, dal quale fu in modo ricevuto,
che, in breve tempo, ridotto in nessuno grado, quasi disperato morì. E
di questi esempli ne sono piene le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al
presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante,
militando nel regno di Napoli contro a' Franciosi, per Ferrando re di Ragona,
conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di vittoria, ne riportò
che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli
levò la ubbidienza delle genti d'armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed
appresso lo menò seco in Spagna; dove, poco tempo poi, inonorato,
morì. È tanto, dunque, naturale questo sospetto ne' principi,
che non se ne possono difendere; ed è impossibile ch'egli usino
gratitudine a quelli che con vittoria hanno fatto, sotto le insegne loro,
grandi acquisti. E da quello che non si difende
un principe, non è miracolo, né cosa degna di maggior memoria, se uno
popolo non se ne difende. Perché, avendo una città che vive libera,
duoi fini, l'uno lo acquistare, l'altro il mantenersi libera; conviene che
nell'una cosa e nell'altra per troppo amore erri. Quanto agli errori nello
acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli errori per
mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere quegli
cittadini che la doverrebbe premiare; avere sospetto di quegli in cui la si
doverrebbe confidare. E benché questi modi in una republica venuta alla corruzione
sieno cagione di gran mali, e che molte volte piuttosto la viene alla
tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse quello
che la ingratitudine gli negava; nondimeno in una republica non corrotta sono
cagione di gran beni, e fanno che la ne vive libera; più mantenendosi,
per paura di punizione, gli uomini migliori e meno ambiziosi. Vero è
che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra
discorse, Roma fu la meno ingrata: perché della sua ingratitudine si
può dire che non ci sia altro esemplo che quello di Scipione; perché
Coriolano e Cammillo furono fatti esuli per ingiuria che l'uno e l'altro avea
fatto alla plebe. Ma all'uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato
contro al popolo l'animo inimico; l'altro, non solamente fu richiamato, ma
per tutti i tempi della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine
usata a Scipione nacque da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di
lui, che degli altri non si era avuto: il quale nacque dalla grandezza del
nimico che Scipione aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva data la
vittoria di sì lunga e pericolosa guerra, dalla celerità di
essa, dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue
memorabili virtudi gli acquistavano. Le quali cose furono tante, che, non che
altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità: la quale cosa
dispiaceva agli uomini savi, come cosa inusitata in Roma. E parve tanto
straordinario il vivere suo, che Catone Prisco, riputato santo, fu il primo a
fargli contro; e a dire che una città non si poteva chiamare libera,
dove era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché se il popolo
di Roma seguì in questo caso la opinione di Catone, merita quella
scusa che di sopra ho detto meritare quegli popoli e quegli principi che per
sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico che,
usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per sospetto, si
vedrà come i popoli non mai per avarizia la usarono, e per sospetto assai
manco che i principi, avendo meno cagione di sospettare: come di sotto si
dirà. Quali modi debbe usare uno
principe o una republica per fuggire questo vizio della
ingratitudine; e quali quel capitano o quel cittadino per non essere
oppresso da quella. Uno principe, per fuggire questa
necessità di avere a vivere con sospetto, o essere ingrato, debbe
personalmente andare nelle espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori
romani, come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli
che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo acquisto è tutto
loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d'altrui, non par loro potere
usare quello acquisto, se non spengano in altrui quella gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi; e diventono ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio
è maggiore la loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per
negligenza o per poca prudenza, e' si rimangono a casa oziosi, e mandano uno
capitano; io non ho che precetto dare loro, altro che quello che per loro
medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa
fuggire i morsi della ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito
dopo la vittoria lasci lo esercito, e rimettasi nelle mani del suo principe,
guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso, acciocché quello, spogliato
d'ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o,
quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e
tenga tutti quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo
proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e
facci nuove amicizie co' vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa
i principi del suo esercito, e di quelli che non può corrompere si
assicuri; e per questi modi cerchi di punire il suo signore di quella
ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra
si disse, gli uomini non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto buoni;
e sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non
vogliono, portarsi modestamente non possono, usare termini violenti e che
abbiano in sé l'onorevole non sanno; talché, stando ambigui, intra quella
loro dimora ed ambiguità, sono oppressi. Quanto a una republica, volendo
fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo
rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle
espedizioni sue, sendo necessitata a mandare uno suo cittadino. Conviene,
pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne
la Republica romana a essere meno ingrata che l'altre. Il che nacque dai modi
del suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e
gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti
uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione
di dubitare d'alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E in
tanto si mantenevano interi e respettivi di non dare ombra di alcuna
ambizione né cagione al popolo, come ambiziosi, l'offendergli, che, venendo
alla dittatura quello maggiore gloria ne riportava che più tosto la
diponeva. E così, non potendo simili modi generare sospetto, non
generavano ingratitudine. In modo che, una republica che non voglia avere
cagione d'essere ingrata, si debba governare come Roma, e uno cittadino che
voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da'
cittadini romani. Che i capitani romani per errore
commesso non furano mai istraordinariamente puniti;
né furano mai ancora puniti quando per la ignoranza loro o
tristi partiti presi da loro ne fusse seguiti danni
alla republica. I Romani non solamente, come di
sopra avemo discorso, furano manco ingrati che l'altre republiche, ma ancora
furano più pii e più rispettivi nella punizione de' loro
capitani degli eserciti che alcuna altra. Perché se il loro errore fusse
stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza,
non che lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo del
procedere era bene considerato da loro: perché e' giudicavano che fusse di
tanta importanza, a quelli che governavano gli eserciti loro, lo avere
l'animo libero ed espedito, e sanza altri estrinseci rispetti nel pigliare i
partiti, che non volevono aggiugnere, a una cosa per sé stessa difficile e
pericolosa, nuove difficultà e pericoli; pensando che,
aggiugnendoveli, nessuno potessi essere che operassi mai virtuosamente.
Verbigrazia, e' mandavano uno esercito in Grecia contro a Filippo di
Macedonia, o in Italia contro a Annibale, o contro a quelli popoli che
vinsono prima. Era, questo capitano che era preposto a tale espedizione,
angustiato da tutte quelle cure che si arrecavano dietro quelle faccende, le
quali sono gravi e importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto
più esempli de' Romani ch'eglino avessono crucifissi o altrimenti
morti quelli che avessono perdute le giornate, egli era inpossibile che
quello capitano intra tanti sospetti potessi deliberare strenuamente.
Però, giudicando essi che a questi tali fusse assai pena la ignominia
dello avere perduto, non li vollono con altra maggiore pena sbigottire. Uno esemplo ci è, quanto
allo errore commesso non per ignoranza. Erano Sergio e Virginio a campo a
Veio, ciascuno preposto a una parte dello esercito; de' quali Sergio era
all'incontro donde potevono venire i Toscani, e Virginio dall'altra parte.
Occorse che, sendo assaltato Sergio da' Falisci e da altri popoli,
sopportò di essere rotto e fugato prima che mandare per aiuto a
Virginio. E dall'altra parte Virginio, aspettando che si umiliasse, volle
più tosto vedere il disonore della patria sua e la rovina di quello
esercito, che soccorrerlo. Caso veramente malvagio e degno d'essere notato, e
da fare non buona coniettura della Republica romana, se l'uno o l'altro non
fussono stati gastigati. Vero è che, dove un'altra republica gli
averebbe puniti di pena capitale, quella gli punì in denari. Il che
nacque non perché i peccati loro non meritassono maggiore punizione, ma
perché gli Romani vollono in questo caso, per le ragioni già dette,
mantenere gli antichi costumi loro. E quando agli errori per ignoranza, non
ci è il più bello esemplo che quello di Varrone: per la temerità
del quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibale, dove quella Republica
portò pericolo della sua libertà; nondimeno, perché vi fu
ignoranza e non malizia, non solamente non lo gastigarono ma lo onorarono; e
gli andò incontro, nella tornata sua in Roma, tutto l'ordine senatorio:
e non lo potendo ringraziare della zuffa, lo ringraziarono ch'egli era
tornato in Roma, e non si era disperato delle cose romane. Quando Papirio
Cursore voleva fare morire Fabio, per avere, contro al suo comandamento,
combattuto co' Sanniti; intra le altre ragioni che dal padre di Fabio erano
assegnate contro alla ostinazione del dittatore, era che il popolo romano in
alcuna perdita de' suoi capitani non aveva fatto mai quello che Papirio nelle
vittorie voleva fare. Una republica o uno principe non
debbe differire a beneficare gli uomini nelle
sue necessitadi. Ancora che ai Romani succedesse
felicemente essere liberali al popolo, sopravvenendo il pericolo, quando
Porsenna venne a assaltare Roma per rimettere i Tarquinii; dove il Senato,
dubitando della plebe, che la non volesse più tosto accettare i re che
sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle gabelle del
sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri assai operavano in beneficio
publico se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo beneficio quel
popolo si esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno
che, confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a
guadagnarsi il popolo; però che mai gli riuscirà quello che
riuscì ai Romani. Perché l'universale giudicherà non avere quel
bene da te, ma dagli avversari tuoi, e dovendo temere che, passata la
necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente loro dato, non
arà teco obligo alcuno. E la cagione perché a' Romani tornò bene
questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo; e aveva
veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in beneficio suo, come
quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei potette persuadersi che
quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla venuta dei nimici,
quanto dalla disposizione del Senato in beneficarli. Oltre a questo, la
memoria dei re era fresca, dai quali erano stati in molti modi vilipesi e
ingiuriati. E perché simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà
ancora rade volte che simili rimedi giovino. Però, debbe qualunque
tiene stato, così republica come principe, considerare innanzi, quali
tempi gli possono venire addosso contrari, e di quali uomini ne' tempi
avversi si può avere di bisogno; e dipoi vivere con loro in quello
modo che giudica, sopravvegnente qualunque caso, essere necessitato vivere. E
quello che altrimenti si governa, o principe o republica, e massime un
principe, e poi in sul fatto crede, quando il pericolo sopravviene, con i beneficii
riguadagnarsi gli uomini, se ne inganna: perché, non solamente non se ne
assicura, ma accelera la sua rovina. Quando uno inconveniente
è cresciuto o in uno stato o contro a uno stato, è più
salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo. Crescendo la Republica romana in
riputazione, forze ed imperio, i vicini, i quali prima non avevano pensato
quanto quella nuova republica potesse arrecare loro di danno, cominciarono,
ma tardi, a conoscere lo errore loro; e volendo rimediare a quello che prima
non aveano rimediato, congiurarono bene quaranta popoli contro a Roma: donde
i Romani intra gli altri rimedii soliti farsi da loro negli urgenti pericoli,
si volsono a creare il Dittatore, cioè dare potestà a uno uomo
che sanza alcuna consulta potesse diliberare, e sanza alcuna appellagione
potesse esequire le sue diliberazioni. Il quale rimedio, come allora fu
utile, e fu cagione che vincessero i soprastanti pericoli, così fu
sempre utilissimo in tutti quegli accidenti che, nello augumento dello
imperio, in qualunque tempo surgessono contro alla Republica. Sopra il quale accidente
è da discorrere prima, come, quando uno inconveniente, che surga o in
una republica o contro a una republica, causato da cagione intrinseca o
estrinseca, è diventato tanto grande che e' cominci a fare paura a
ciascuno, è molto più sicuro partito temporeggiarsi con quello,
che tentare di estinguerlo. Perché, quasi sempre, coloro che tentano di
ammorzarlo fanno le sue forze maggiori, e fanno accelerare quel male che da
quello si sospettava. E di questi simili accidenti ne nasce nella republica
più spesso per cagione intrinseca che estrinseca: dove molte volte, o
e' si lascia pigliare ad uno cittadino più forze che non è
ragionevole, o e' si comincia a corrompere una legge, la quale è il
nervo e la vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere questo errore in
tanto, che gli è più dannoso partito il volere rimediare che
lasciarlo seguire. E tanto è più difficile il conoscere questi
inconvenienti quando e' nascono, quanto e' pare più naturale agli
uomini favorire sempre i principii delle cose: e tali favori possano,
più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiano che abbiano in sé
qualche virtù e siano operate da' giovani. Perché se in una republica
si vede surgere uno giovane nobile, quale abbia in sé virtù
istraordinaria, tutti gli occhi de' cittadini si cominciono a voltare verso
lui e concorrere,sanza alcuno rispetto, a onorarlo; in modo che, se in quello
è punto d'ambizione, accozzati i favori che gli dà la natura e
questo accidente, viene subito in luogo che, quando i cittadini si avveggono
dello errore loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi e volendo quegli tanti
ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che accelerare la potenza sua. Di questo se ne potrebbe addurre
assai esempli, ma io ne voglio solamente dare uno della città nostra.
Cosimo de' Medici, dal quale la casa de' Medici in la nostra città
ebbe il principio della sua grandezza, venne in tanta riputazione col favore
che gli dette la sua prudenza e la ignoranza degli altri cittadini, che ei
cominciò a fare paura allo stato, in modo che gli altri cittadini
giudicavano l'offenderlo pericoloso ed il lasciarlo stare così,
pericolosissimo. Ma vivendo in quei tempi Niccolò da Uzzano, il quale
nelle cose civili era tenuto uomo espertissimo, ed avendo fatto il primo
errore di non conoscere i pericoli che dalla riputazione di Cosimo potevano
nascere; mentre che visse, non permesse mai che si facesse il secondo,
cioè che si tentasse di volerlo spegnere; giudicando tale tentazione
essere al tutto la rovina dello stato loro; come si vide in fatto, che fu,
dopo la sua morte: perché, non osservando quegli cittadini che rimasono,
questo suo consiglio, si feciono forti contro a Cosimo, e lo cacciorono da
Firenze. Donde ne nacque che la sua parte, per questa ingiuria risentitasi,
poco di poi lo richiamò, e lo fece principe della republica: a il
quale grado sanza quella manifesta opposizione non sarebbe mai potuto salire. Questo medesimo intervenne a Roma
con Cesare, che, favorita da Pompeio e dagli altri quella sua virtù,
si convertì poco dipoi quel favore in paura: di che fa testimone
Cicerone, dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a temere Cesare. La
quale paura fece che pensarono ai rimedi; e gli rimedi che fecero,
accelerarono la rovina della loro Republica. Dico, adunque, che poi che gli
è difficile conoscere questi mali quando ei surgano, causata questa
difficultà da uno inganno che ti fanno le cose in principio, è
più savio partito il temporeggiarle poi che le si conoscono, che
l'oppugnarle: perché, temporeggiandole, o per loro medesime si spengono, o
almeno il male si differisce in più lungo tempo. E in tutte le cose
debbono aprire gli occhi i principi che disegnano cancellarle o alle forze ed
impeto loro opporsi; di non dare loro, in cambio di detrimento, augumento; e,
credendo sospingere una cosa, tirarsela dietro, ovvero suffocare una pianta a
annaffiarla. Ma si debbano considerare bene le forze del malore, e quando ti
vedi sufficiente a sanare quello, metterviti sanza rispetto; altrimenti
lasciarlo stare, né in alcun modo tentarlo. Perché interverrebbe, come di
sopra si discorre, come intervenne a' vicini di Roma: ai quali, poiché Roma
era cresciuta in tanta potenza, era più salutifero con gli modi della
pace cercare di placarla e ritenerla addietro, che coi modi della guerra
farle pensare ai nuovi ordini e alle nuove difese. Perché quella loro
congiura non fece altro che farli più uniti, più gagliardi, e
pensare a modi nuovi, mediante i quali in più breve tempo ampliarono
la potenza loro. Intra i quali fu la creazione del Dittatore; per lo quale
nuovo ordine, non solamente superarono i soprastanti pericoli ma fu cagione
di ovviare a infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella republica
sarebbe incorsa. L'autorità dittatoria
fece bene, e non danno, alla republica romana: e come le autorità che i
cittadini si tolgono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date,
sono alla vita civile perniziose. E' sono stati dannati da alcuno
scrittore quelli Romani che trovarono in quella città modo di creare
il Dittatore, come cosa che fosse cagione, col tempo, della tirannide di
Roma; allegando, come il primo tiranno che fosse in quella città la
comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo che, se non vi fusse
stato questo Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo publico adonestare
la sua tirannide. La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa
opinione, esaminata, e fu fuori d'ogni ragione creduta. Perché, e' non fu il
nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu
l'autorità presa dai cittadini per la lunghezza dello imperio: e se in
Roma fusse mancato il nome dittatorio, ne arebbono preso un altro; perché e'
sono le forze che facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze. E si
vede che 'l Dittatore, mentre fu dato secondo gli ordini publici, e non per
autorità propria, fece sempre bene alla città. Perché e'
nuocono alle republiche i magistrati che si fanno e l'autoritadi che si
dànno per vie istraordinarie, non quelle che vengono per vie
ordinarie: come si vede che seguì in Roma, in tanto processo di tempo,
che mai alcuno Dittatore fece se non bene alla Republica. Di che ce ne sono ragioni
evidentissime. Prima, perché a volere che un cittadino possa offendere, e
pigliarsi autorità istraordinaria, conviene ch'egli abbia molte
qualità, le quali in una republica non corrotta non può mai
avere: perché gli bisogna essere ricchissimo, ed avere assai aderenti e
partigiani, i quali non può avere dove le leggi si osservano; e quando
pure ve gli avessi, simili uominl sono in modo formidabili, che i suffragi
liberi non concorrano in quelli. Oltra di questo, il Dittatore era fatto a
tempo, e non in perpetuo, e per ovviare solamente a quella cagione mediante
la quale era creato; e la sua autorità si estendeva in potere
diliberare per sé stesso circa i rimedi di quello urgente pericolo, e fare
ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno sanza appellagione: ma non poteva
fare cosa che fussi in diminuzione dello stato; come sarebbe stato tôrre
autorità al Senato o al Popolo, disfare, gli ordini vecchi della
città, e farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il breve tempo della
sua dittatura, e le autorità limitate che egli aveva, ed il popolo
romano non corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi, e
nocessi alla città: e per esperienza si vede che sempre mai
giovò. E veramente, infra gli altri
ordini romani, questo è uno che merita essere considerato e numerato
infra quegli che furono cagione della grandezza di tanto imperio; perché
sanza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli
accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle republiche hanno il
moto tardo (non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per sé stesso
operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l'uno dell'altro, e perché
nel raccozzare insieme questi voleri va tempo) sono i rimedi loro
pericolosissimi, quando egli hanno a rimediare a una cosa che non aspetti
tempo. E però le republiche debbano intra loro ordini avere uno simile
modo: e la Republica viniziana, la quale intra le moderne republiche è
eccellente, ha riservato autorità a pochi cittadini, che ne' bisogni
urgenti, sanza maggiore consulta, tutti d'accordo possino deliberare. Perché,
quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o,
servando gli ordini, rovinare, o, per non ruinare, rompergli. Ed in una
republica non vorrebbe mai accadere cosa che con modi straordinari si avesse
a governare. Perché, ancora che il modo straordinario per allora facesse
bene, nondimeno lo esemplo fa male; perché si mette una usanza di rompere gli
ordini per bene, che poi, sotto quel colore, si rompono per male. Talché mai
fia perfetta una republica, se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad
ogni accidente posto il rimedio, e dato il modo a governarlo. E però,
conchiudendo, dico che quelle republiche, le quali negli urgenti pericoli non
hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre ne' gravi
accidenti rovineranno. È da notare in questo nuovo ordine il modo
dello eleggerlo, quanto dai Romani fu saviamente provisto. Perché, sendo la
creazione del Dittatore con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi
della città, a divenire sotto una ubbidienza come gli altri; e presupponendo
che di questo avessi a nascere isdegno fra' cittadini; vollono che
l'autorità dello eleggerlo fosse nei Consoli: pensando che, quando
l'accidente venisse che Roma avesse bisogno di questa regia potestà,
ei lo avessono a fare volentieri e facendolo loro, che dolesse loro meno.
Perché le ferite ed ogni altro male che l'uomo si fa da sé spontaneamente e
per elezione, dolgano di gran lunga meno, che quelle che ti sono fatte da
altrui. Ancora che poi negli ultimi tempi i Romani usassono, in cambio del
Dittatore, di dare tale autorità al Console, con queste parole:
"Videat Consul, ne Respublica quid detrimenti capiat". E per
tornare alla materia nostra, conchiudo, come i vicini di Roma, cercando
opprimergli, gli fecerono ordinare, non solamente a potersi difendere, ma a
potere, con più forza, più consiglio e più
autorità, offendere loro. La cagione perché la creazione
in Roma del decemvirato fu nociva alla libertà di
quella republica, non ostante che fusse creato per
suffragi publici e liberi. E' pare contrario a quel che di
sopra è discorso, che quella autorità che si occupa con
violenza, non quella ch'è data con gli suffragi, nuoce alle
republiche, la elezione dei dieci cittadini creati dal Popolo romano per fare
le leggi in Roma: i quali ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno
rispetto occuparono la libertà di quella. Dove si debbe considerare i
modi del dare l'autorità e il tempo per che la si dà. E quando
e' si dia autorità libera, col tempo lungo, chiamando il tempo lungo
uno anno o più, sempre fia pericolosa, e farà gli effetti o
buoni o rei, secondo che siano rei o buoni coloro a chi la sarà data.
E se si considerrà l'autorità che ebbero i Dieci, e quella che
avevano i Dittatori, si vedrà, sanza comparazione, quella de' Dieci
maggiore. Perché, creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il
Senato, con la loro autorità; né il Dittatore la poteva tôrre loro: e
s'egli avessi potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non
poteva annullare l'ordine senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il
Senato, i Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità loro, venivano a
essere come sua guardia, a farlo non uscire della via diritta. Ma nella
creazione de' Dieci occorse tutto il contrario: perché gli annullorono i
Consoli ed i Tribuni; dettero loro autorità di fare legge, ed ogni
altra cosa, come il Popolo romano. Talché, trovandosi soli, sanza Consoli,
sanza Tribuni, sanza appellagione al Popolo; e per questo non venendo ad
avere chi gli osservasse ei poterono, il secondo anno, mossi dall'ambizione
di Appio, diventare insolenti. E per questo si debbe notare, che, quando e'
si e detto che una autorità, data da' suffragi liberi, non offese mai
alcuna republica, si presuppone che un popolo non si conduca mai a darla, se
non con le debite circunstanze e ne' debiti tempi: ma quando, o per essere
ingannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse, e' si conducesse a
darla imprudentemente, e nel modo che il Popolo romano la dette a' Dieci
gl'interverrà sempre come a quello. Questo si prova facilmente,
considerando quali cagioni mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero
i Dieci cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto quelle republiche
che sono state tenute bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo
tempo, come davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani
ai loro Duci: perché si vedrà, all'uno ed all'altro modo di costoro
essere poste guardie, che facevano che ei non potevano usare male quella
autorità. Né giova, in questo caso, che la materia non sia corrotta;
perché una autorità assoluta in brevissimo tempo corrompe la materia e
si fa amici e partigiani. Né gli nuoce, o essere povero, o non avere parenti;
perché le ricchezze ed ogni altro favore subito gli corre dietro: come
particularmente nella creazione de' detti Dieci discorrereno. Non debbano i cittadini, che
hanno avuti i maggiori onori, sdegnarsi de' minori. Avevano i Romani fatto Marco
Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una gloriosissima giornata contro a'
Veienti e gli Etruschi; nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello del
consolo, quale lo anno davanti era stato consolo. Dove si debbe considerare
quanto gli ordini di quella città erano atti a farla grande; e quanto
le altre republiche, che si discostono da' modi suoi, s'ingannino. Perché,
ancora che i Romani fossono amatori grandi della gloria, nondimeno non
stimavano così disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi
avevano comandato, e trovarsi a servire in quello esercito del quale erano
stati principi. Il quale costume è contrario alla opinione, ordini e
modi de' cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo
errore, che uno cittadino, avendo avuto un grado grande, si vergogni di
accettarne uno minore; e la città gli consenta che se ne possa discostare.
La quale cosa, quando fusse onorevole per il privato, è al tutto
inutile per il publico. Perché più speranza debbe avere una republica,
e più confidare in uno cittadino che da uno grado grande scenda a
governare uno minore che in quello che da uno minore salga a governare uno
maggiore. Perché a costui non può ragionevolmente credere, se non gli
vede uomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di tanta virtù
che la novità di colui possa essere, con il consiglio ed autorità
loro, moderata. E quando in Roma fosse stata la consuetudine quale è a
Vinegia e nell'altre republiche e regni moderni, che chi era stato una volta
Consolo non volesse mai più andare negli eserciti se non Consolo, ne
sarebbero nate infinite cose in disfavore del vivere libero; e per gli errori
che arebbon fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che loro arebbono
potuta usare meglio, non avendo uomini intorno, nel cospetto de' quali ei
temessono errare; e così sarebbero venuti a essere più sciolti:
il che sarebbe tornato tutto in detrimento publico. Quali scandoli partorì in
Roma la legge agraria: e come fare una legge in una republica, che riguardi
assai indietro, e sia contro a una consuetudine antica della
città, è scandolosissimo. Egli è sentenzia degli antichi
scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel
bene; e come dall'una e dall'altra di queste due passioni nascano i medesimi
effetti. Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per
necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente
ne' petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La
cagione è, perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono
desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo
sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la
mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d'esso. Da
questo nasce il variare della fortuna loro: perché, disiderando gli uomini,
parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si
viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla quale nasce la rovina di quella
provincia e la esaltazione di quell'altra. Questo discorso ho fatto, perché
alla Plebe romana non bastò assicurarsi de' nobili per la creazione
de' Tribuni, al quale desiderio fu costretta per necessità; che lei,
subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere
con la Nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata
più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che partorì la
contenzione della legge agraria, che infine fu causa della distruzione della
Republica. E perché le republiche bene ordinate hanno a tenere ricco il
publico e gli loro cittadini, poveri, convenne che fusse nella città
di Roma difetto in questa legge: la quale o non fusse fatta nel principio in
modo che la non si avesse ogni dì a ritrattare, o che si differisse
tanto in farla, che fosse scandoloso il riguardarsi indietro o, sendo
ordinata bene da prima, era stata poi dall'uso corrotta, talché in qualunque
modo si fusse, mai non si parlò di questa legge in Roma, che quella
città non andasse sottosopra. Aveva questa legge due capi
principali. Per l'uno si disponeva che non si potesse possedere per alcuno
cittadino più che tanti iugeri di terra; per l'altro, che i campi di
che si privavano i nimici, si dividessono intra il popolo romano. Veniva
pertanto a fare di dua sorte offese ai nobili: perché quegli che possedevano
più beni non permetteva la legge (quali erano la maggiore parte de'
nobili), ne avevano a essere privi, e dividendosi intra la plebe i beni de'
nimici, si toglieva a quegli la via dello arricchire. Sicché, venendo a
essere queste offese contro a uomini potenti, e, che pareva loro,
contrastandola, difendere il publico, qualunque volta, come è detto,
si ricordava, andava sottosopra tutta quella città: e i nobili con
pazienza ed industria la temporeggiavano o con trarre fuora uno esercito o
che a quel Tribuno che la proponeva si opponesse un altro Tribuno, o talvolta
cederne parte, ovvero mandare una colonia in quel luogo che si avesse a
distribuire: come intervenne del contado di Anzio, per il quale surgendo
questa disputa della legge, si mandò in quel luogo una colonia, tratta
di Roma, alla quale si consegnasse detto contado. Dove Tito Livio usa un
termine notabile, dicendo che con difficultà si trovò in Roma
chi desse il nome per ire in detta colonia: tanto era quella plebe più
pronta a volere desiderare le cose in Roma, che a possederle in Anzio.
Andò questo omore di questa legge, così, travagliandosi un
tempo, tanto che gli Romani cominciarono a condurre le loro armi nelle
estreme parti di Italia, o fuori di Italia; dopo al quale tempo parve che la
cessassi. Il che nacque perché i campi che possedevano i nimici di Roma
essendo discosti agli occhi della plebe, ed in luogo dove non gli era facile
il cultivargli, veniva a essere meno desiderosa di quegli: e ancora i Romani
erano meno punitori de' loro nimici in simil modo; e quando pure spogliavano
alcuna terra del suo contado, vi distribuivano colonie. Tanto che, per tali
cagioni, questa legge stette come addormentata infino ai Gracchi; da' quali
essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana;
perché la trovò raddoppiata la potenza de' suoi avversari, e si accese,
per questo, tanto odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne nelle armi
ed al sangue, fuori d'ogni modo e costume civile. Talché, non potendo i
publici magistrati rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in
quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di
farsi uno capo che la difendesse. Prevenne in questo scandolo e disordine la
plebe, e volse la sua riputazione a Mario tanto che la lo fece quattro volte
consule; ed in tanto continovò con pochi intervalli il suo consolato,
che si potette per sé stesso far consulo tre altre volte. Contro alla quale
peste non avendo la Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire
Silla; e fatto, quello, capo della parte sua, vennero alle guerre civili; e,
dopo molto sangue e variare di fortuna, rimase superiore la Nobilità.
Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio; perché,
fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla,
venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in
Roma; talché mai fu poi libera quella città. Tale, adunque, principio e fine
ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le inimicizie
di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da
quelle, leggi in favore della libertà, e per questo paia disforme a
tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io
non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l'ambizione de'
grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una
città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In
modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a
fare Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto
in servitù quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi
appetiti, non avesse sempre frenato l'ambizione de' nobili. Vedesi per questo
ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori. Perché la
Nobilità romana sempre negli onori cede sanza scandoli straordinari
alla plebe; ma come si venne alla roba fu tanta la ostinazione sua nel
difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare l'appetito suo, a quegli
straordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i
Gracchi, de' quali si debbe laudare più la intenzione che la
prudenzia. Perché, a volere levar via uno disordine cresciuto in una
republica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è
partito male considerato; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa
altro che accelerare quel male, a che quel disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo,
o il male viene più tardo, o per sé medesimo col tempo avanti che
venga al fine suo, si spegne. Le republiche deboli sono male
risolute e non si sanno diliberare; e se le pigliano mai alcun
partito, nasce più da necessità che da elezione. Essendo in Roma una gravissima
pestilenza, e parendo per questo agli Volsci ed agli Equi che fusse venuto il
tempo di potere oppressare Roma, fatto questi due popoli uno grossissimo
esercito, assaltarono i Latini e gli Ernici; e guastando il loro paese,
furono costretti i Latini e gli Ernici farlo intendere a Roma, e pregare che
fossero difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo,
risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con le
loro armi, perché essi non gli potevano difendere. Dove si conosce la
generosità e prudenza di quel Senato, e come sempre in ogni fortuna
volle essere quello che fusse principe delle diliberazioni che avessero a
pigliare i suoi; né si vergognò mai diliberare una cosa che fusse contraria
al suo modo di vivere o ad altre diliberazioni fatte da lui, quando la
necessità gliene comandava. Questo dico, perché altre volte
il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli l'armarsi e difendersi;
talché a uno Senato meno prudente di questo sarebbe paruto cadere del grado
suo a concedere loro tale difensione. Ma quello sempre giudicò le cose
come si debbano giudicare, e sempre prese il meno reo partito per migliore:
perché male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi, male gli sapeva che
si armassero sanza loro, per le ragioni dette e per molte altre che
s'intendano: nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati, per
necessità, a ogni modo, avendo il nimico addosso; prese la parte
onorevole, e volle che quello che gli aveano a fare, lo facessero con licenza
sua, acciocché, avendo disubbidito per necessità, non si avvezzassero
a disubbidire per elezione. E benché questo paia partito che da ciascuna
republica dovesse essere preso, nientedimeno le republiche deboli e male
consigliate non gli sanno pigliare, né si sanno onorare di simili
necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendo tornarsene a Roma per la Toscana,
mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il passo per sé e per lo esercito
suo. Consultossi in Firenze come si avesse a governare questa cosa, né fu mai
consigliato per alcuno di concedergliene. In che non si seguì il modo
romano: perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo disarmati
che non gli potevan vietare il passare, era molto più onore loro, che
paresse che passasse con volontà di quegli, che a forza; perché, dove
vi fu al tutto il loro vituperio, sarebbe stato in parte minore quando
l'avessero governata altrimenti. Ma la più cattiva parte che abbiano
le republiche deboli, è essere inresolute; in modo che tutti i partiti
che le pigliono, gli pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo
fanno forzate, e non per prudenza loro. Io voglio dare di questo due
altri esempli, occorsi ne' tempi nostri, nello stato della nostra
città. Nel 1500, ripreso che il re
Luigi XII di Francia ebbe Milano, desideroso di rendervi Pisa, per avere
cinquantamila ducati che gli erano stati promessi da' Fiorentini dopo tale
restituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa, capitanati da
monsignore di Beumonte; benché francese, nondimanco uomo in cui i Fiorentini
assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo capitano intra Cascina
e Pisa, per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno giorno per
ordinarsi alla espugnazione, vennono oratori Pisani a Beumonte, e gli
offerirono di dare la città allo esercito francese con questi patti:
che, sotto la fede del re, promettesse non la mettere in mano de' Fiorentini,
prima che dopo quattro mesi. Il quale partito fu da' Fiorentini al tutto
rifiutato, in modo che si seguì nello andarvi a campo e partirsene con
vergogna. Né fu rifiutato il partito per altra cagione che per diffidare
della fede del re; come quegli che per debolezza di consiglio si erano per forza
messi nelle mani sue, e, dall'altra parte, non se ne fidavano, ne vedevano
quanto era meglio che il re potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e, non
la rendendo, scoprire l'animo suo, che, non la avendo, poterla loro
promettere, e loro essere forzati comperare quelle promesse. Talché, molto
più utilmente arebbono fatto a acconsentire che Beumonte l'avessi,
sotto qualunque promessa, presa: come se ne vide la esperienza dipoi nel
1502, che, essendosi ribellato Arezzo, venne ai soccorsi de' Fiorentini mandato
da il re di Francia monsignor Imbalt con gente francese; il quale, giunto
propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare accordo con
gli Aretini, i quali sotto certa fede volevon dare la terra, a similitudine
de' Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo monsignor
Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero poco,
cominciò a tenere le pratiche dello accordo da sé, sanza
partecipazione de' Commessari: tanto che ei lo conchiuse a suo modo, e, sotto
quello, con le sue genti se n'entrò in Arezzo, faccendo intendere ai
Fiorentini come egli erano matti, e non s'intendevano delle cose del mondo:
che, se volevano Arezzo, lo facessero intendere a il re, il quale lo poteva
dare loro molto meglio, avendo le sua gente in quella città, che
fuori. Non si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; né si
restò mai infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse stato
simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo. E così, per tornare a
proposito, le republiche inresolute non pigliono mai partiti buoni, se non
per forza, perché la debolezza loro non le lascia mai deliberare dove
è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una
violenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese. In diversi popoli si veggano
spesso i medesimi accidenti. E' si conosce facilmente, per
chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed
in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e
come vi furono sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e farvi
quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli
usati, pensarne de' nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perché
queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono
intese, non sono conosciute da chi governa; ne seguita che sempre sono i
medesimi scandoli in ogni tempo. Avendo la città di Firenze,
dopo il 94, perso parte dello imperio suo, come Pisa ed altre terre, fu
necessitata fare guerra a coloro che le occupavano. E perché chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra, sanza alcun
frutto; dallo spendere assai, ne risultava assai gravezze; dalle gravezze,
infinite querele del popolo: e perché questa guerra era amministrata da uno
magistrato di dieci cittadini che si chiamavano i Dieci della guerra,
l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse
cagione e della guerra e delle spese d'essa; e cominciò a persuadersi
che, tolto via detto magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto che,
avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si
mandarono le azioni sue alla Signoria. La quale diliberazione fu tanto
perniziosa, che, non solamente non levò la guerra, come lo universale
si persuadeva, ma, tolto via quegli uomini che con prudenza l'amministravano,
ne seguì tanto disordine, che, oltre a Pisa, si perdé Arezzo e molti altri
luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dello errore suo, e come la
cagione del male era la febbre e non il medico, rifece il magistrato de'
Dieci. Questo medesimo omore si levò in Roma contro al nome de'
Consoli: perché veggendo quello popolo nascere l'una guerra dall'altra, e non
poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare che la nascessi dall'ambizione
de' vicini che gli volevano opprimere, pensavano nascessi dall'ambizione de'
nobili, che, non potendo dentro in Roma gastigare la Plebe difesa dalla
potestà tribunizia, la volevon condurre fuora di Roma sotto i Consoli,
per oppressarla dove la non aveva aiuto alcuno. E pensarono, per questo, che
fusse necessario o levar via i Consoli, o regolare in modo la loro
potestà, che e' non avessono autorità sopra il popolo né fuori
né in casa. Il primo che tentò questa legge, fu uno Terentillo
tribuno; il quale proponeva che si dovessero creare cinque uomini che
dovessero considerare la potenza de' Consoli, e limitarla. Il che
alterò assai la Nobilità, parendogli che la maiestà
dello imperio fusse al tutto declinata, talché alla Nobilità non
restasse più alcun grado in quella Republica. Fu nondimeno tanta
l'ostinazione de' Tribuni, che 'l nome consolare si spense; e furono in fine
contenti, dopo qualche altro ordine, più tosto creare Tribuni con
potestà consolare, che Consoli: tanto avevano più in odio il
nome che l'autorità loro. E così seguitarono lungo tempo,
infine che, conosciuto l'errore loro, come i Fiorentini ritornarono a' Dieci,
così loro ricreorno i Consoli. La creazione del decemvirato in
Roma, e quello che in essa è da notare: dove si
considera, intra molte altre cose, come si può o salvare,
per simile accidente, o oppressare una republica. Volendo discorrere
particularmente sopra gli accidenti che nacquero in Roma per la creazione del
Decemvirato, non mi pare soperchio narrare, prima, tutto quello che
seguì per simile creazione, e dopo disputare quelle parti che sono, in
esse azioni, notabili: le quali sono molte e di grande considerazione,
così per coloro che vogliono mantenere una republica libera, come per
quelli che disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si
vedrà, molti errori fatti dal Senato e dalla plebe in disfavore della
libertà; e molti errori fatti da Appio, capo del Decemvirato, in
disfavore di quella tirannide che egli si aveva presupposto stabilire in
Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni seguite intra il Popolo e la
Nobilità per fermare nuove leggi in Roma, per le quali si stabilisse
più la libertà di quello stato, mandarono, d'accordo, Spurio
Pestumio, con duoi altri Cittadini, a Atene, per gli esempli di quelle leggi
che Solone dette a quella città, acciocché sopra quelle potessono
fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla creazione
degli uomini che avessero ad esaminare e fermare dette leggi; e crearono
dieci cittadini per uno anno, intra i quali fu creato Appio Claudio, uomo
sagace ed inquieto. E perché e' potessono, sanza alcun rispetto, creare tali
leggi, si levarono di Roma tutti gli altri magistrati, ed in particulare i
Tribuni ed i Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo che tale
magistrato veniva a essere al tutto principe di Roma. Appresso ad Appio si
ridusse tutta l'autorità degli altri suoi compagni, per i favori che
gli faceva la Plebe; perché egli s'era fatto in modo popolare con le
dimostrazioni, che pareva maraviglia ch'egli avesse preso sì presto
una nuova natura e uno nuovo ingegno, essendo stato tenuto, innanzi a questo
tempo, uno crudele perseguitatore della plebe. Governaronsi questi Dieci assai
civilmente, non tenendo più che dodici littori, i quali andavano
davanti a quello ch'era infra loro proposto. E benché gli avessono
l'autorità assoluta, nondimeno, avendosi a punire uno cittadino romano
per omicida, lo citorno nel cospetto del popolo, e da quello lo fecero
giudicare. Scrissero le loro leggi in dieci tavole; ed avanti che le
confermassero, le messono in publico, acciocché ciascuno le potesse leggere e
disputarle; acciocché si conoscesse se vi era alcun difetto, per poterle
innanzi alla confermazione loro emendare. Fece, in su questo, Appio nascere
un romore per Roma, che, se a queste dieci tavole se ne aggiugnesse due
altre, si darebbe a quelle la loro perfezione; talché questa opinione dette
occasione al popolo di rifare i Dieci per un altro anno: a che il popolo
s'accordò volentieri, sì perché i Consoli non si rifacessono,
sì perché e' pareva loro potere stare sanza Tribuni, sendo loro
giudici delle cause, come disopra si disse. Preso, dunque, partito di
rifarli, tutta la Nobilità si mosse a cercare questi onori; ed intra i
primi era Appio; ed usava tanta umanità verso la plebe nel domandarlo,
che la cominciò a essere sospetta a' suoi compagni: "credebant
enim haud gratuitam in tanta superbia comitatem fore". E dubitando di
opporsegli apertamente, deliberarono farlo con arte, e benché e' fusse minore
di tempo di tutti dettono a lui autorità di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo ch'egli osservassi i termini degli altri di non proporre sé
medesimo, sendo cosa inusitata e ignominiosa in Roma. "Ille vero
impedimentum pro occasione arripuit" e nominò sé intra i primi,
con maraviglia e dispiacere di tutti i nobili; nominò dipoi nove
altri, a suo proposito. La quale nuova creazione, fatta per uno altro anno,
cominciò a mostrare al Popolo ed alla Nobilità lo errore suo.
Perché subito "Appius finem fecit ferendae alienae personae"; e
cominciò a mostrare la innata sua superbia, ed in pochi dì
riempié de' suoi costumi i suoi compagni. E per isbigottire il popolo ed il
Senato in cambio di dodici littori, ne feciono cento venti. Stette la paura equale qualche
giorno; ma cominciarono poi a intrattenere il Senato, e batter la plebe: e se
alcuno battuto dall'uno, appellava all'altro, era peggio trattato
nell'appellagione che nella prima sentenzia. In modo che la Plebe, conosciuto
lo errore suo, cominciò piena di afflizione a riguardare in viso i
nobili, "et inde libertatis captare auram, unde servitutem timendo, in
eum statum rempublicam adduxerunt". E alla Nobilità era grata
questa loro afflizione, "ut ipsi, taedio praesentium, Consules
desiderarent". Vennono i dì che terminavano l'anno: le due tavole
delle leggi erano fatte, ma non publicate. Da questo i Dieci presono
occasione di continovare nel magistrato; e cominciarono a tenere con violenza
lo stato, e farsi satelliti della gioventù nobile, alla quale davono i
beni di quegli che loro condennavano. "Quibus donis juventus
corrumpebatur et malebat licentiam suam, quam omnium libertatem". Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i Volsci mossero
guerra a' Romani; in su la quale paura cominciarono i Dieci a vedere la
debolezza dello stato loro, perché sanza il Senato non potevono ordinare la
guerra, e, ragunando il Senato, pareva loro perdere lo stato. Pure,
necessitati, presono questo ultimo partito; e ragunati i senatori insieme,
molti de' senatori parlarono contro alla superbia de' Dieci, e in particulare
Valerio ed Orazio: e l'autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se
non che il Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare
l'autorità sua pensando che, se i Dieci deponevano il magistrato
voluntari, che potesse essere che i Tribuni della plebe non si rifacessero.
Deliberossi dunque la guerra uscissi fuori con dua eserciti guidati da parte
di detti Dieci; Appio rimase a governare la città. Donde nacque che si
innamorò di Virginia, e che, volendola tôrre per forza, il padre
Virginio, per liberarla, l'ammazzò: donde seguirono i tumulti di Roma
e degli eserciti: i quali riduttisi insieme con il rimanente della plebe
romana, se ne andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto che i Dieci
deposono il magistrato, e che furono creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta
Roma nella forma della sua antica libertà. Notasi adunque, per questo
testo, in prima, essere nato in Roma questo inconveniente di creare questa
tirannide per quelle medesime cagioni che nascano la maggior parte delle
tirannidi nelle città: e questo è da troppo desiderio del
popolo, d'essere libero, e da troppo desiderio de' nobili, di comandare. E
quando e' non convengano a fare una legge in favore della libertà, ma
gettasi qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la
tirannide surge. Convennono il popolo ed i nobili di Roma a creare i Dieci, e
crearli con tanta autorità, per il desiderio che ciascuna delle parti
aveva, l'una di spegnere il nome consolare, l'altra il tribunizio. Creati che
furono, parendo alla plebe che Appio fusse diventato popolare e battessi la
Nobilità, si volse il popolo a favorirlo. E quando uno popolo si conduce
a fare questo errore, di dare riputazione a uno, perché batta quelli che egli
ha in odio, e che quello uno sia savio, sempre interverrà ch'e'
diventerà tiranno di quella città. Perché egli
attenderà, insieme col favore del popolo, a spegnere la Nobilità;
e non si volterà mai alla oppressione del popolo, se non quando e'
l'arà spenta; nel quale tempo, conosciutosi il popolo essere servo,
non abbi dove rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno
fondato tirannide in le republiche. E se questo modo avesse tenuto Appio,
quella sua tirannide arebbe presa più vita, e non sarebbe mancata
sì presto: ma e' fece tutto il contrario, né si potette governare
più imprudentemente; che, per tenere la tirannide, e' si fece inimico
di coloro che gliele avevano data e che gliele potevano mantenere, ed inimico
di quelli che non erano concorsi a dargliene e che non gliene arebbono potuta
mantenere; e perdessi coloro che gli erano amici, e cercò di avere
amici quegli che non gli potevano essere amici. Perché, ancora che i nobili
desiderino tiranneggiare, quella parte della Nobilità che si truova
fuori della tirannide, è sempre inimica al tiranno; né quello se la
può guadagnare mai tutta, per l'ambizione grande e grande avarizia che
è in lei non potendo il tiranno avere né tante ricchezze né tanti
onori che a tutta satisfaccia. E così Appio, lasciando il popolo ed
accostandosi a' nobili, fece uno errore evidentissimo, e per le ragioni dette
di sopra, e perché, a volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia
più potente chi sforza che chi è sforzato. Donde nasce che quegli tiranni
che hanno amico l'universale ed inimici i grandi, sono più sicuri, per
essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze, che quella di coloro che
hanno per inimico il popolo e amica la Nobilità. Perché con quello
favore bastono a conservarsi le forze intrinseche: come bastarono a Nabide,
tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il Popolo romano lo assaltò:
il quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il Popolo, con quello si
difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello altro grado
per avere pochi amici dentro, non bastono le forze intrinseche, ma gli
conviene cercare di fuora. Ed hanno a essere di tre sorte: l'una satelliti
forestieri, che ti guardino la persona, l'altra armare il contado, che faccia
quello ufficio che arebbe a fare la plebe, la terza accostarsi con vicini
potenti che ti difendino. Chi tiene questi modi e gli osserva bene, ancora
ch'egli avesse per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma
Appio non poteva fare questo, di guadagnarsi il contado, sendo una medesima
cosa il contado e Roma: e quel che poteva fare, non seppe: talmente che
rovinò ne' primi principii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in
questa creazione del Decemvirato errori grandissimi: perché, avvenga che di
sopra si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che quegli
magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo, sono nocivi
alla libertà; nondimeno il popolo debbe, quando egli ordina i
magistrati, fargli in modo che gli abbino avere qualche rispetto a diventare
scelerati. E dove e' si debbe preporre loro guardia per mantenergli buoni, i
Romani la levarono, faccendolo solo magistrato in Roma, ed annullando tutti
gli altri, per la eccessiva voglia (come di sopra dicemo) che il Senato aveva
di spegnere i Tribuni, e la plebe di spegnere i Consoli; la quale gli
accecò in modo, che concorsono in tale disordine. Perché gli uomini,
come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli di rapina;
ne' quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a che la
natura gl'incita, che non sentono uno altro maggiore uccello che sia loro
sopra per ammazzarli. Conoscesi, adunque, per questo discorso, come nel
principio preposi, lo errore del popolo romano, volendo salvare la
libertà, e gli errori di Appio, volendo occupare la tirannide. Saltare dalla umiltà alla
superbia, dalla piatà alla crudeltà, sanza i debiti mezzi, è
cosa imprudente e inutile. Oltre agli altri termini male
usati da Appio per mantenere la tirannide, non fu di poco momento saltare
troppo presto da una qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello
ingannare la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata; furono
ancora bene usati i termini che tenne perché i Dieci si avessono a rifare; fu
ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso contro alla opinione
della Nobilità; fu bene usato creare compagni a suo proposito: ma non
fu già bene usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra
dico, mutare, in uno subito, natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla
plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che,
sanza scusa niuna, ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo.
Perché chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar
cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le
occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la
te ne abbia dati tanti de' nuovi, che tu non venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e sanza amici, rovini. Quanto gli uomini facilmente si
possono corrompere. Notasi ancora, in questa materia
del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi
diventare di contraria natura, quantunque buoni e bene ammaestrati;
considerando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta intorno,
cominciò a essere amica della tirannide per uno poco di utilità
che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci,
sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla
malignità di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e
diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto
più pronti i latori di leggi delle republiche o de' regni a frenare
gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere impune errare. Quegli che combattono per la
gloria propria, sono buoni e fedeli soldati. Considerasi ancora, per il
soprascritto trattato, quanta differenzia è da uno esercito contento e
che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che
combatte per l'ambizione d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano
sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono.
Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni della
inutilità de' soldati mercenari; i quali non hanno altra cagione che
gli tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione
non è né può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi
amici, che voglino morire per te. Perché in quegli eserciti che non è
un'affezione verso di quello per chi e' combattono, che gli faccia diventare
suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti
a resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non
può nascere, né questa gara, da altro che da' sudditi tuoi; è
necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o uno
regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fatto tutti quelli
che con gli eserciti hanno fatto grandi profitti. Avevano gli eserciti romani
sotto i Dieci quella medesima virtù; ma perché in loro non era quella
medesima disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come prima
il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorono a
militare, ritornò in loro il medesimo animo; e per consequente, le
loro imprese avevono il loro fine felice, secondo l'antica consuetudine loro. Una moltitudine sanza capo
è inutile: e come è non si debbe
minacciare prima, e poi chiedere l'autorità. Era la plebe romana, per lo
accidente di Virginia, ridotta armata nel Monte Sacro. Mandò il Senato
suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità gli avevano
abbandonati i loro capitani, e ridottosi nel Monte. E tanto era stimata
l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro capi, niuno
si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a
rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra
appunto la inutilità d'una moltitudine sanza capo. Il quale disordine
fu conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni
militari, che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed
avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro
direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se prima i Dieci non
deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fu
domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della
Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da ogni magistrato, e che si
dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere vivi. Laudarono Valerio ed
Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima come impia, dicendo:
"Crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis"; e consigliarongli
che dovessono lasciare il fare menzione de' Dieci, e ch'egli attendessero a
ripigliare l'autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe
loro modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca
prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il tale
male con essa; perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare di
ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta a domandare a uno
l'arme, sanza dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai
l'arme in mano, soddisfare allo appetito tuo. È cosa di malo esemplo
non osservare una legge fatta, e massime dallo autore d'essa; e
rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una città, è, a
chi la governa, dannosissimo. Seguito lo accordo, e ridotta
Roma in l'antica sua forma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo, a
difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molti nobili:
Virginio comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio a
gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere
quella appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel
Popolo che egli aveva offeso: Appio replicava, come e' non avevano a violare
quella appellagione che gli aveva con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli
fu incarcerato, ed avanti al dì del giudizio ammazzò se stesso.
E benché la scelerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu
cosa poco civile violare le leggi, e tanto più quella che era fatta
allora. Perché io non credo che sia cosa di più cattivo esemplo in una
republica, che fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto
la non è osservata da chi l'ha fatta. Essendo Firenze, dopo al 94,
stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo Savonerola,
gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù
dello animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al Popolo dalle
sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria dessono; la quale
legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima ottenne;
occorse che, poco dopo la confermazione d'essa, furono condannati a morte
dalla Signoria, per conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli
appellare, non furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse
più riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente: perché, se
quella appellagione era utile, e' doveva farla osservare, se la non era
utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo accidente,
quanto che il frate, in tante predicazioni che fece poi che fu rotta questa
legge, non mai o dannò chi l'aveva rotta, o lo scusò; come
quello che dannare non la voleva come cosa che gli tornava a proposito, e
scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l'animo suo ambizioso e
partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico. Offende ancora uno stato assai,
rinfrescare ogni dì nello animo de' tuoi cittadini nuovi umori per
nuove ingiurie che a questo e quello si facciano: come intervenne a Roma dopo
il Decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi,
furono accusati e condennati; in modo che gli era uno spavento grandissimo in
tutta la Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non fusse
distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande inconveniente,
se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato proveduto; il quale fece uno
editto, che per uno anno non fusse lecito a alcuno citare o accusare alcuno
cittadino romano: il che rassicurò tutta la Nobilità. Dove si
vede quanto sia dannoso a una republica o a un principe, tenere con le
continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza
dubbio non si può tenere il più pernizioso ordine: perché gli
uomini che cominciono a dubitare di avere a capitare male, in ogni modo si
assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci, e meno respettivi a
tentare cose nuove. Però è necessario o non offendere mai
alcuno, o fare le offese a un tratto: e dipoi rassicurare gli uomini, e dare
loro cagione di quietare e fermare l'animo. Li uomini salgono da una
ambizione a un'altra; e prima si cerca non essere
offeso, dipoi si offende altrui. Avendo il Popolo romano
recuperata la libertà e ritornato nel suo pristino grado ed in tanto
maggiore quanto si erano fatte di molte leggi nuove in confermazione della
sua potenza; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietassi. Nondimeno,
per esperienza si vide in contrario; perché ogni dì vi surgeva nuovi
tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente rende la
ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire appunto
le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobilità
insuperbiva, quando l'altro si umiliava; e stando la plebe quieta intra i
termini suoi, cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni vi
potevon fare pochi rimedi, perché, loro anche, erano violati. La
Nobilità, dall'altra parte, ancora che gli paresse che la sua gioventù
fusse troppo feroce, nonpertanto aveva a caro che, avendosi a trapassare il
modo, lo trapassassono i suoi, e non la plebe. E così il disiderio di
difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva ch'egli
oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è che, mentre che
gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e quella
ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come se fusse
necessario offendere o essere offeso. Vedesi, per questo, in quale modo, fra
gli altri, le republiche si risolvono, ed in che modo gli uomini salgono da
un'ambizione a un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca
di Cesare, e verissima: "quod omnia mala exempla bonis initiis orta
sunt". Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini che
ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non potere essere
offesi, non solamente dai privati, ma etiam da' magistrati: cercono, per
poter fare questo, amicizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste,
o con sovvenire di danari, o con difenderli da' potenti: e perché questo pare
virtuoso, inganna facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in
tanto che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità che i
privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E
quando egli è salito a questo grado, e non si sia prima ovviato alla
sua grandezza, viene a essere in termine, che volerlo urtare è
pericolosissimo, per le ragioni che io dissi, di sopra, del pericolo
ch'è nello urtare un inconveniente che abbi di già fatto assai
augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine che
bisogna, o cercare di spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o,
lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche
accidente non te ne libera. Perché, venuto a' soprascritti termini, che i
cittadini e magistrati abbino paura a offendere lui e gli amici suoi, non
dura dipoi molta fatica a fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde
una republica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i
suoi cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e ch'egli abbino
quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla libertà, come nel suo
luogo da noi sarà disputato. Gli uomini, come che s'ingannino
ne' generali, ne' particulari non s'ingannono. Essendosi il Popolo romano, come
di sopra si disse, recato a noia il nome consolare, e volendo che potessono
essere fatti Consoli uomini plebei, o che fusse diminuita la loro
autorità; la Nobilità, per non maculare l'autorità
consolare né con l'una né con l'altra cosa, prese una via di mezzo, e fu
contenta che si creassi quattro Tribuni con potestà consolare, i quali
potessono essere così plebei come nobili. Fu contenta a questo la
plebe, parendole spegnere il Consolato, ed avere in questo sommo grado la
parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile: che, venendosi alla
creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal
Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio dice queste parole:
"Quorum comitiorum eventus docuit, alios animos in contentione
libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina in incorrupto
iudicio esse". Ed esaminando donde possa procedere questo, credo proceda
che gli uomini nelle cose generali s'ingannono assai, nelle particulari non
tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il Consolato, per
avere più parte in la città, per portare più pericolo
nelle guerre, per essere quella che con le braccia sue manteneva Roma libera,
e la faceva potente. E parendogli, come è detto, questo suo desiderio
ragionevole, volse ottenere questa autorità in ogni modo. Ma come la
ebbe a fare giudicio degli uomini suoi particularmente, conobbe la debolezza
di quegli, e giudicò che nessuno di loro meritasse quello che tutta
insieme gli pareva meritare. Talché, vergognatasi di loro, ricorse a quegli
che lo meritavano. Della quale diliberazione maravigliandosi meritamente Tito
Livio, dice queste parole: "Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem
animi, ubi nunc in uno inveneris, quae tunc populi universi fuit?". In confirmazione di questo, se
ne può addurre un altro notabile esemplo, seguito in Capova da poi che
Annibale ebbe rotti i Romani a Canne. Per la quale rotta sendo tutta sollevata
Italia, Capova ancora stava per tumultuare, per l'odio che era intra 'l
popolo ed il Senato: e trovandosi in quel tempo nel supremo magistrato
Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che portava quella città di
tumultuare, disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la
Nobilità; e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e
narrò loro l'odio che il popolo aveva contro di loro, ed i pericoli
che portavano di essere ammazzati da quello, e data la città a
Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi soggiunse che, se volevano
lasciare governare questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono
insieme; ma gli voleva serrare dentro al palagio, e, col fare potestà
al popolo di potergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua opinione i
Senatori; e quello chiamò il popolo a concione, avendo rinchiuso in
palagio il Senato; e disse com'egli era venuto il tempo che potevano domare
la superbia della Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da
quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perché credeva
che loro non volessono che la loro città rimanessi sanza governo, era
necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi, crearne de' nuovi: e per
tanto aveva messo tutti i nomi de' Senatori in una borsa, e comincerebbe a
tragli in loro presenza; e gli farebbe, i tratti, di mano in mano morire,
come prima loro avessono trovato il successore. E cominciato a trarne uno, fu
al nome di quello levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo,
crudele ed arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio, si
racchetò tutta la concione; e dopo alquanto spazio, fu nominato uno
della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi a ridere,
chi a dirne male in uno modo, e chi in uno altro. E così seguitando di
mano in mano, tutti quegli che furono nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. Di modo che Pacuvio, preso sopra questo occasione, disse:
Poiché voi giudicate che questa città stia male sanza il Senato, e, a
fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene
che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in la quale i Senatori
sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare che quella umanità
che voi cercavi altrove, troverrete in loro. Ed accordatisi a questo, ne
seguì la unione di questo ordine; e quello inganno in che egli erano
si scoperse, come e' furno costretti venire a' particulari. Ingannonsi, oltra
di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di
esse; le quali, dipoi si conoscono particularmente, mancano di tale inganno. Dopo il 1494, sendo stati i
principi della città cacciati da Firenze, e non vi essendo alcuno
governo ordinato, ma più tosto una certa licenza ambiziosa, ed andando
le cose publiche di male in peggio; molti popolari, veggendo la rovina della
città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione
di qualche potente che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo
proposito, e tôrre loro la libertà; e stavano questi tali per le logge
e per le piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se mai
si trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e gli
gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che vedeva le cose
più da presso, conosceva i disordini donde nascevano, ed i pericoli
che soprastavano, e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i
tempi, e non gli uomini, causavano il disordine, diventava subito d'un altro
animo, e d'un'altra fatta; perché la cognizione delle cose particulari gli
toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva
presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era privato,
sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevono
che nascessi, non per più vera cognizione delle cose, ma perché fusse
stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e
molte volte, ne nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno uno
animo in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si
è discorso, si vede come e' si può fare tosto aprire gli occhi
a' popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'inganna, ch'egli
abbino a discendere a' particulari; come fece Pacuvio in Capova, ed il Senato
in Roma. Credo ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non
debba fuggire il giudicio populare nelle cose particulari, circa le
distribuzioni de' gradi e delle dignità: perché solo in questo il
popolo non s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che
s'inganneranno più volte i pochi uomini che avessono a fare simili
distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare, nel seguente capitolo, l'ordine
che teneva il Senato per ingannare il popolo nelle distribuzioni sue. Chi vuole che uno magistrato non
sia dato a uno vile o a uno cattivo, lo facci domandare o a uno
troppo vile e troppo cattivo o a uno troppo nobile e troppo
buono. Quando il Senato dubitava che i
Tribuni con potestà consolare non fussero fatti d'uomini plebei,
teneva uno de' due modi: o egli faceva domandare ai più riputati
uomini di Roma; o veramente, per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio
vile ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di migliore
qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo
domandassono. Questo ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a darlo;
quel primo faceva che la si vergognava a torlo. Il che tutto torna a
proposito del precedente discorso, dove si mostra che il popolo, se s'inganna
de' generali, de' particulari non s'inganna. Se quelle cittadi che hanno
avuto il principio libero, come Roma, hanno difficultà a
trovare legge che le mantenghino: quelle che lo hanno immediate
servo, ne hanno quasi una impossibilità. Quanto sia difficile, nello
ordinare una republica, provedere a tutte quelle leggi che la mantengono
libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica romana: dove, non
ostante che fussono ordinate di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa,
da Tullo Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creati a simile
opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono
nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come
intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno di quegli
provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse in
libertà. Perché, diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione
potissima che i Romani differissono più a corrompersi. Feciono bene
nel principio della creazione di tale magistrato uno errore, creando quello
per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di
Mamerco dittatore, il quale per nuova legge ridusse detto magistrato a
diciotto mesi. Il che i Censori, che vegghiavano ebbero tanto per male, che
privarono Mamerco del Senato: la quale cosa e dalla Plebe e dai Padri fu
assai biasimata. E perché la istoria non mostra che Mamerco se ne potessi
difendere, conviene o che lo istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in
questa parte non buoni: perché e' non è bene che una republica sia in
modo ordinata, che uno cittadino per promulgare una legge conforme al vivere
libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso. Ma tornando al
principio di questo discorso, dico che si debbe, per la creazione di questo
nuovo magistrato, considerare che, se quelle città che hanno avuto il
principio loro libero, e che per sé medesimo si è retto, come Roma,
hanno difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere;
non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio
loro immediate servo, abbino, non che difficultà, ma
impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente
e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di
Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo Imperio
romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui, stette un tempo
abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la occasione di
respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con
gli antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così
è ita maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza
avere mai avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata
republica. E queste difficultà, che sono state in lei, sono state sempre
in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E,
benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia data ampla
autorità a pochi cittadini di potere riformarla; non pertanto non mai
l'hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte
loro: il che ha fatto, non ordine, ma maggiore disordine in quella
città. E per venire a qualche esemplo particulare, dico come, intra le
altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una republica
è esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del
sangue contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perché e'
si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fosse occorso cosa
importante, dove il differire la esecuzione mediante l'appellagione fusse
pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al
quale rimedio non refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e
le altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa
autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal principe,
faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in libertà, mantennono
questa autorità in uno forestiero, il quale chiamavono capitano: il
che, per potere essere facilmente corrotto da' cittadini potenti, era cosa
perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la mutazione degli stati questo
ordine, crearono otto cittadini che facessino l'uffizio di quel capitano. El
quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le ragioni che altre
volte sono dette; che i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de'
più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia;
la quale ha dieci cittadini, che, sanza appello, possono punire ogni
cittadino. E perché e' non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne
avessino autorità, vi hanno constituito la Quarantia: e di più,
hanno voluto che il Consiglio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore,
possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo accusatore, non vi manca
il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è adunque
maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata da sé medesima e da tanti uomini
prudenti, surgevano ogni dì nuove cagioni per le quali si aveva a fare
nuovi ordini in favore del viver libero; se nell'altre città, che
hanno più disordinato principio, vi surgano tante difficultà,
che le non si possino riordinarsi mai. Non debba uno consiglio o uno
magistrato potere fermare le azioni delle città. Erano consoli in Roma Tito
Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i quali, sendo disuniti, avevono ferme
tutte le azioni di quella Republica. Il che veggendo il Senato, gli
confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro
non potevon fare. Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa, solo in
questo erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il
Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali,
con l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a ubbidire. Dove si ha
a notare, in prima, la utilità del Tribunato; il quale non era solo
utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contro alla Plebe, ma
quella ancora ch'egli usavano infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare
in una città, che i pochi possino tenere alcuna diliberazione di
quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere la republica.
Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno consiglio di fare una
distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di amministrare una
faccenda; conviene o imporgli una necessità perché ci l'abbia a fare
in ogni modo, o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e
debba fare uno altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e
pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli
Consoli non si poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica
viniziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili: occorreva
alle volte che l'universalità, per isdegno o per qualche falsa
persuasione, non creava i successori a' magistrati della città, ed a
quelli che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era disordine
grandissimo: perché in un tratto, e le terre suddite e la città
propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né si poteva ottenere cosa
alcuna, se quella universalità di quel Consiglio o non si soddisfaceva
o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella
città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse
proveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti
i magistrati che sono o fusseno dentro e fuori della città, mai
vacassero, se non quando fussono fatti gli scambi e i successori loro. E
così si tolse la commodità a quel Consiglio di potere, con
pericolo della republica, fermare le azioni publiche. Una republica o uno principe
debbe mostrare di fare per liberalità quello a
che la necessità lo constringe. Gli uomini prudenti si fanno
grado delle cose sempre e in ogni loro azione, ancora che la necessità
gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal
Senato romano, quando ei diliberò, che si desse il soldo del publico
agli uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma
veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e
per questo non potendo né assediare terre né condurre gli eserciti discosto;
e giudicando essere necessario potere fare l'uno e l'altro, deliberò
che si dessono detti stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di
quello a che la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla
plebe questo presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza,
parendole uno beneficio grande, quale mai speravono di avere, e quale mai per
loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare
questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non alleggeriva, la
plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare questo soldo: nientedimeno
non potevano fare tanto che la plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora
augumentato dal Senato per il modo che distribuivano i tributi, perché i
più gravi e i maggiori furono quelli ch'ei posano alla
Nobilità, e gli primi che furono pagati. A reprimere la insolenzia d'uno
che surga in una republica potente, non vi e più sicuro e
meno scandoloso modo, che preoccuparli quelle vie per le quali viene a
quella potenza. Vedesi, per il soprascritto
discorso, quanto credito acquistasse la Nobilità con la plebe, per le
dimostrazioni lette in beneficio suo, sì del soldo ordinato, sì
ancora del modo del porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobilità
si fosse mantenuta, si sarebbe levato via ogni tumulto in quella
città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che gli avevano con
la plebe, e, per consequente, quella autorità. E veramente, non si
può in una republica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior
modo, meno scandoloso e più facile, opporsi all'ambizione di alcuno
cittadino, che preoccupandogli quelle vie, per le quali si vede che esso
cammina per arrivare al grado che disegna. Il quale modo se fusse stato usato
contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato miglior partito assai per gli suoi
avversari, che cacciarlo da Firenze: perché, se quegli cittadini che
gareggiavano seco avessero preso lo stile suo, di favorire il popolo, gli
venivano, sanza tumulto e sanza violenza, a trarre di mano quelle armi di che
egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto riputazione nella
città di Firenze con questo solo, di favorire l'universale; il che
nello universale gli dava riputazione, come amatore della libertà
della città. E veramente, a quegli cittadini che portavano invidia
alla grandezza sua, era molto più facile, ed era cosa molto più
onesta, meno pericolosa, e meno dannosa per la republica, preoccupargli
quelle vie con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli,
acciocché con la rovina sua rovinassi tutto il restante della republica.
Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi con le quali si faceva
gagliardo (il che potevono fare facilmente), arebbono potuto in tutti i
consigli e in tutte le diliberazioni publiche opporsegli sanza sospetto e
sanza rispetto alcuno. E se alcuno replicasse che, se i cittadini che
odiavano Piero, feciono errore a non gli preoccupare le vie con le quali ei
si guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non
preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevono temere.
Di che Piero merita scusa, si perché gli era difficile il farlo, si perché le
non erano oneste a lui; imperocché le vie con le quali era offeso, erano il
favorire i Medici; con li quali favori essi lo battevano, ed alla fine lo
rovinarono. Non poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare questa parte,
per non potere distruggere con buona fama quella libertà, alla quale
egli era stato preposto guardia: dipoi, non potendo questi favori farsi segreti
e a un tratto, erano per Piero pericolosissimi; perché comunche ei si fusse
scoperto amico ai Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al popolo:
donde ai nimici suoi nasceva molto più commodità di opprimerlo,
che non avevano prima. Debbono, pertanto, gli uomini in
ogni partito considerare i difetti ed i pericoli di quello, e non gli
prendere, quando vi sia più del pericoloso che dell'utile; nonostante
che ne fussi stata data sentenzia conforme alla diliberazione loro. Perché,
faccendo altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli come intervenne a
Tullio; il quale, volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene accrebbe.
Perché, sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed avendo
quello grande esercito insieme adunato, in buona parte, de' soldati che
avevano seguitato le parte di Cesare; Tullio, per torgli questi soldati,
confortò il Senato a dare riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con
Irzio e Pansa consoli contro a Marc'Antonio: allegando, che, subito che i
soldati che seguivano Marc'Antonio, sentissero il nome di Ottaviano nipote di
Cesare, e che si faceva chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si
accosterebbono a costui; e così restato Marc'Antonio ignudo di favori,
sarebbe facile lo opprimerlo. La quale cosa riuscì tutta al contrario;
perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e, lasciato Tullio e il
Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al tutto la distruzione
della parte degli ottimati. Il che era facile a conietturare: né si doveva
credere quel che si persuase Tullio, ma tener sempre conto di quel nome che
con tanta gloria aveva spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in
Roma; né si doveva credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi fautori,
avere cosa che fosse conforme al nome libero. Il popolo molte volte disidera
la rovina sua, ingannato da una falsa spezie di beni: e
come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente
lo muovono. Espugnata che fu la città
de' Veienti, entrò nel popolo romano un'opinione, che fosse cosa utile
per la città di Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare
a Veio; argomentando che, per essere quella città ricca di contado,
piena di edificii e propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de'
cittadini romani, e non turbare per la propinquità del sito nessuna
azione civile. La quale cosa parve al Senato ed a' più savi Romani
tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere più
tosto per patire la morte che consentire a una tale diliberazione. In modo
che, venendo questa cosa in disputa, si accese tanto la plebe contro al
Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue, se il Senato non si
fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed estimati cittadini, la riverenza de'
quali frenò la plebe, che la non procedé più avanti con la sua
insolenzia. Qui si hanno a notare due cose. La prima che il popolo molte
volte, ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se
non gli è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da
alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche infiniti pericoli e
danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come
qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o
dagli uomini, si viene alla rovina, di necessità. E Dante dice a
questo proposito, nel discorso suo che fa De Monarchia, che il popolo molte
volte grida Viva la sua morte! e Muoia la sua vita! Da questa
incredulità nasce che qualche volta in le republiche i buoni partiti
non si pigliono: come di sopra si disse de' Viniziani, quando, assaltati da
tanti inimici, non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno con la
restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era mosso loro la
guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro), avanti che la rovina
venisse. Pertanto, considerando quello
che è facile o quello che è difficile persuadere a uno popolo,
si può fare questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere
rappresenta in prima fronte guadagno, o perdita; o veramente ci pare partito
animoso, o vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo, si
vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e' pare
animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre
sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre
difficile persuadere quegli partiti dove apparisse o viltà o perdita,
ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto,
si conferma con infiniti esempli, romani e forestieri, moderni ed antichi.
Perché da questo nacque la malvagia opinione che surse, in Roma, di Fabio
Massimo, il quale non poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a
quella Republica procedere lentamente in quella guerra, e sostenere sanza
azzuffarsi l'impeto d'Annibale; perché quel popolo giudicava questo partito
vile, e non vi vedeva dentro quella utilità vi era; né Fabio aveva
ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono i popoli accecati in queste
opinioni gagliarde, che, benché il Popolo romano avesse fatto quello errore
di dare autorità al Maestro de' cavagli di Fabio, di potersi
azzuffare, ancora che Fabio non volesse; e che per tale autorità il
campo romano fusse per essere rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi
rimediava, non gli bastò questa isperienza, che fece di poi consule
Varrone, non per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti
i luoghi publici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque volta
gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e la rotta di
Canne, e presso che la rovina di Roma. Io voglio addurre, a questo proposito,
ancora uno altro esemplo romano. Era stato Annibale in Italia otto o dieci
anni, aveva ripieno di occisione de' Romani tutta questa provincia, quando
venne in Senato Marco Centenio Penula, uomo vilissimo ( nondimanco aveva
avuto qualche grado nella milizia), ed offersesi, che, se gli davano
autorità di potere fare esercito d'uomini volontari in qualunque luogo
volesse in Italia, ei darebbe loro, in brevissimo tempo, preso o morto
Annibale. Al Senato parve la domanda di costui temeraria; nondimeno, ei,
pensando, che s' ella se gli negasse e nel popolo si fusse dipoi saputa la
sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto, invidia e mal grado contro
all'ordine senatorio, gliene concessono: volendo più tosto mettere a
pericolo tutti coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi sdegni nel
popolo; sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e quanto
fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui con una
moltitudine inordinata ed inconposta a trovare Annibale; e non gli fu prima
giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo seguitarono, rotto e
morto. In Grecia, nella città di
Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo, persuadere a
quel Popolo che non fusse bene andare a assaltare Sicilia; talché, presa
quella diliberazione contro alla voglia de' savi, ne seguì al tutto la
rovina di Atene. Scipione, quando fu fatto consolo, e che desiderava la
provincia di Africa, promettendo al tutto la rovina di Cartagine, a che non
si accordando il Senato per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò di
proporla nel Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto simili
diliberazioni piaccino a' popoli. Potrebbesi a questo proposito
dare esempli della nostra città; come fu quando messere Ercole
Bentivogli governatore delle genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini,
poiché ebbono rotto Bartolommeo d'Alviano a San Vincenti andarono a campo a
Pisa la quale impresa fu diliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di
messere Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasimassero: nondimeno
non vi ebbono rimedio, spinti da quella universale volontà, la quale
era fondata in su le promesse gagliarde del governatore. Dico, adunque, come
e' non è la più facile via a fare rovinare una republica dove
il popolo abbia autorità, che metterla in imprese gagliarde; perché,
dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fiano accettate, né vi
arà, chi sarà d'altra opinione, alcuno rimedio. Ma se di questo
nasce la rovina della città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina
particulare de' cittadini che sono preposti a simili imprese: perché,
avendosi il popolo presupposto la vittoria, come ei viene la perdita, non ne
accusa né la fortuna né la impotenzia di chi ha governato, ma la
malvagità e ignoranza sua; e quello, il più delle volte, o
ammazza o imprigiona o confina: come intervenne a infiniti capitani
Cartaginesi ed a molti Ateniesi. Né giova loro alcuna vittoria che per lo
addietro avessero avuta, perché tutto la presente perdita cancella: come
intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale, non avendo espugnata Pisa,
come il popolo si aveva presupposto ed egli promesso, venne in tanta
disgrazia popolare, che, non ostante infinite sue buone opere passate, visse
più per umanità di coloro che ne avevano autorità, che
per alcuna altra cagione che nel popolo lo difendesse. Quanta autorità abbi uno
uomo grave a frenare una moltitudine concitata. Il secondo notabile sopra il
testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto
atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di
qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro; né sanza
cagione dice Virgilio: tum pietate gravem ac meritis
si forte virum quem conspexere, silent, arrectisque auribus adstant. Per tanto, quello che è
preposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove
nascesse tumulto debba rappresentarsi in su quello con maggiore grazia e
più onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di quello
grado che tiene, per farsi più riverendo. Era, pochi anni sono,
Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che così si
chiamavano; e venendo all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra i
quali era Pagolantonio Soderini, assai in quegli tempi riputato cittadino, ed
andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla;
messere Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi
cardinale, si trovava a sorte in casa; il quale, subito sentito il romore e
veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il
roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e con la presenzia e
con le parole gli fermò; la quale cosa fu per tutta la città
per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque, come e' non è
il più fermo né il più necessario rimedio a frenare una
moltitudine concitata, che la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e
sia riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta
ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio, perché lo
giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e come, nascendone
assai tumulti, ne sarebbe nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e
pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore. Quanto facilmente si conduchino
le cose in quella città dove la moltitudine non è
corrotta: e che, dove è equalità, non si può fare
principato; e dove la non è, non si può fare republica. Ancora che di sopra si sia
discorso assai quello è da temere o sperare delle cittadi corrotte,
nondimeno non mi pare fuori di proposito considerare una diliberazione del
Senato circa il voto che Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a
Apolline della preda de' Veienti: la quale preda sendo venuta nelle mani
della Plebe romana, né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece il
Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la decima
parte di quello ch'egli aveva predato. E benché tale diliberazione non avesse
luogo, avendo dipoi il Senato preso altro modo, e per altra via sodisfatto a
Apolline, in sodisfazione della plebe; nondimeno si vede per tale
diliberazione quanto quel Senato confidava nella bontà di quella, e
come ei giudicava che nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto
quello che per tale editto gli era comandato. E dall'altra parte si vede come
la plebe non pensò di fraudare in alcuna parte lo editto con il dare
meno che non doveva, ma di liberarsi di quello con il mostrarne aperte
indegnazioni. Questo esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti,
mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo, e
quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa
bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può
sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come
è la Italia sopra tutte l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di
tale corrozione ritengono parte. E se in quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non tanto dalla
bontà de' popoli, la quale in buona parte è mancata, quanto
dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non solamente per la virtù
sua, ma per l'ordine di quegli regni, che ancora non sono guasti. Vedesi
bene, nella provincia della Magna, questa bontà e questa religione
ancora in quelli popoli essere grande; la quale fa che molte republiche vi
vivono libere, ed in modo osservono le loro leggi che nessuno di fuori né di
dentro ardisce occuparle. E che e' sia vero che, in loro, regni buona parte
di quella antica bontà, io ne voglio dare uno esemplo simile a questo,
detto di sopra, del Senato e della plebe romana. Usono quelle republiche,
quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere alcuna quantità di
danari per conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne hanno autorità,
ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento, o due, di
quello che ciascuno ha di valsente. E fatta tale diliberazione, secondo
l'ordine della terra si rappresenta ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale
imposta; e, preso prima il giuramento di pagare la conveniente somma, getta
in una cassa a ciò diputata quello che secondo la conscienza sua gli
pare dovere pagare: del quale pagamento non è testimone alcuno, se non
quello che paga. Donde si può conietturare quanta bontà e
quanta religione sia ancora in quegli uomini. E debbesi stimare che ciascuno
paghi la vera somma: perché, quando la non si pagasse, non gitterebbe quella
imposizione quella quantità che loro disegnassero secondo le antiche
che fossino usitate riscuotersi, e non gittando, si conoscerebbe la fraude: e
conoscendo si arebbe preso altro modo che questo. La quale bontà
è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è
più rada: anzi si vede essere rimasa solo in quella provincia. Il che nasce da dua cose: l'una,
non avere avute conversazioni grandi con i vicini; perché né quelli sono iti
a casa loro, né essi sono iti a casa altrui, perché sono stati contenti di
quelli beni, vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane, che dà il
paese; d'onde è stata tolta via la cagione d'ogni conversazione, ed il
principio d'ogni corruttela; perché non hanno possuto pigliare i costumi, né
franciosi, né spagnuoli, né italiani; le quali nazioni tutte insieme sono la
corruttela del mondo. L'altra cagione è, che quelle republiche dove si
è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportono che
alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo: anzi mantengono
intra loro una pari equalità, ed a quelli signori e gentiluomini, che
sono in quella provincia, sono inimicissimi; e se per caso alcuni pervengono
loro nelle mani, come principii di corruttele e cagione d'ogni scandolo, gli
ammazzono. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia, dico che
gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro
possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di
altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni
republica ed in ogni provincia, ma più perniziosi sono quelli che,
oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi che
ubbidiscono a loro. Di queste due spezie di uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle
provincie non è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico;
perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d'ogni
civilità. Ed a volere in provincie fatte in simil modo introdurre una
republica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse
arbitro, non arebbe altra via che farvi uno regno. La ragione è questa
che, dove è tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a
frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale
è una mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno
alla eccessiva ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione
con lo esemplo di Toscana: dove si vede in poco spazio di terreno state
lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le altre città di
quella provincia essere in modo serve, che, con lo animo e con l'ordine, si
vede o che le mantengono o che le vorrebbono mantenere la loro
libertà. Tutto è nato per non essere in quella provincia alcuno
signore di castella, e nessuno o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta
equalità, che facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche
civilità avesse cognizione, vi s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma
lo infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi tempi non
si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o saputo fare. Trassi adunque di questo
discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai
gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne
tutti: e che colui che, dov'è assai equalità, vuole fare uno
regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella
equalità molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini
in fatto, e non in nome, donando loro castella e possessioni, e dando loro
favore di sustanze e di uomini; acciocché, posto in mezzo di loro, mediante
quegli mantenga la sua potenza; ed essi, mediante quello, la loro ambizione;
e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non
altro mai, può fare sopportare loro. Ed essendo per questa via
proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini
ciascuno negli ordini loro. E perché il fare d'una provincia atta a essere
regno una republica, e d'una atta a essere republica farne uno regno,
è materia da uno uomo che per cervello e per autorità sia raro:
sono stati molti che lo hanno voluto fare e pochi che lo abbino saputo
condurre. Perché la grandezza della cosa, parte sbigottisce gli uomini, parte
in modo gl'impedisce, che ne' principii primi mancano. Credo che a questa mia opinione,
che dove sono gentiluomini non si possa ordinare republica, parrà
contraria la esperienza della Republica viniziana, nella quale non possono
avere alcuno grado se non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde,
come questo esemplo non ci fa alcuna oppugnazione, perché i gentiluomini in
quella Republica sono più in nome che in fatto; perché loro non hanno
grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in
sulla mercanzia e cose mobili, e di più, nessuno di loro tiene
castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini: ma quel nome di gentiluomo
in loro è nome di degnità e di riputazione, sanza essere
fondato sopra alcuna di quelle cose che fa che nell'altre città si
chiamano i gentiluomini. E come le altre republiche hanno tutte le loro
divisioni sotto vari nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini e
popolari: e vogliono che quegli abbino, ovvero possino avere, tutti gli
onori; quelli altri ne siano al tutto esclusi. Il che non fa disordine in
quella terra, per le ragioni altra volta dette. Constituisca, adunque, una
republica colui dove è, o è fatta, una grande equalità;
ed all'incontro ordini un principato dove è grande inequalità:
altrimenti farà cosa sanza proporzione e poco durabile. Innanzi che seguino i grandi
accidenti in una città o in una provincia, vengono segni che gli
pronosticono, o uomini che gli predicano. Donde ei si nasca io non so, ma
ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli, che mai non venne
alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato,
o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti,
predetto. E per non mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno
quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re
Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana
si disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo, che si
azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo, come, avanti alla morte di
Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua più alta
parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa
ciascuno ancora, come, poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto
gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo
grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi,
oltre a di questo, addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio,
lascerò. Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi alla
venuta de' Franciosi a Roma: cioè, come uno Marco Cedicio plebeio
riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via
nuova, una voce, maggiore che umana, la quale lo ammuniva che riferissi a'
magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia
da essere discorsa e interpretata da uomo che abbi notizia delle cose
naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che,
sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno di intelligenze, le
quali per naturali virtù preveggendo le cose future, ed avendo compassione
agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono
con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere la
verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie. La plebe insieme è
gagliarda, di per sé è debole. Erano molti Romani, sendo
seguita per la passata dei Franciosi la rovina della loro patria, andati ad
abitare a Veio, contro la constituzione ed ordine del Senato: il quale, per
rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti publici che
ciascuno, infra certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma.
De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto
beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti
ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole "Ex ferocibus universis
singuli metu suo obedientes fuere". E veramente, non si può
mostrare meglio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si dimostri
in questo testo. Perché la moltitudine è audace nel parlare, molte
volte contro alle diliberazioni del loro principe; dipoi, come ei veggono la
pena in viso, non si fidando l'uno dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si
vede certo che, di quel che si dica uno popolo circa la buona o mala
disposizione sua, si debba tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in
modo da poterlo mantenere, s'egli è bene disposto; s'egli è
male disposto, da potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per
quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra cagione
che o per avere perduto la libertà o il loro principe stato amato da
loro e che ancora sia vivo: imperocché le male disposizioni che nascono da
queste cagioni sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno di
grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e'
non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto,
più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e,
dall'altra parte, non è cosa più debole: perché, quantunque
ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da
poter fuggire il primo empito; perché quando gli animi sono un poco
raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a
dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro o col fuggirsi o con
l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo
fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sé medesima uno capo che la
corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la plebe romana,
quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi
feciono infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro
sempre quel che dice Tito Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme
sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio
pericolo, diventa vile e debole. La moltitudine è
più savia e più costante che uno principe. Nessuna cosa essere più
vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio
nostro, come tutti gli altri istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel
narrare le azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno
a morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si vede
aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale avendo condannato
a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le parole dello autore sono
queste: "Populum brevi, posteaquam ab eo periculum nullum erat,
desiderium eius tenuit". Ed altrove, quando mostra gli accidenti che
nacquono in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice:
"Haec natura multitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe
dominatur". Io non so se io mi prenderò una provincia dura e
piena di tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con
vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la quale, come
ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma, comunque si sia, io
non giudico né giudicherò mai essere difetto difendere alcuna opinione
con le ragioni, sanza volervi usare o l'autorità o la forza. Dico,
adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gli uomini particularmente, e massime i
principi; perché ciascuno, che non sia regolato dalle leggi, farebbe quelli
medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere
facilmente, perché ei sono e sono stati assai principi, e de' buoni e de'
savi ne sono stati pochi: io dico de' principi che hanno potuto rompere quel
freno che gli può correggere; intra i quali non sono quegli re che nascevano
in Egitto, quando, in quella antichissima antichità, si governava
quella provincia con le leggi; né quegli che nascevano in Sparta; né quegli
che a' nostri tempi nascano in Francia; il quale regno è moderato
più dalle leggi che alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si
abbia notizia. E questi re che nascono sotto tali constituzioni non sono da
mettere in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno
uomo per sé, e vedere s'egli è simile alla moltitudine; perché a
rincontro si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi
come sono loro; e si troverrà in lei essere quella medesima
bontà che noi vediamo essere in quelli, e vedrassi quella né
superbamente dominare né umilmente servire: come era il popolo romano, il
quale, mentre durò la Republica incorrotta, non servì mai
umilmente né mai dominò superbamente; anzi con li suoi ordini e
magistrati tenne il suo grado onorevolmente. E quando era necessario
commuoversi contro a un potente, lo faceva; come si vide in Manlio, ne' Dieci
ed in altri che cercorono opprimerla: e quando era necessario ubbidire a'
Dittatori ed a' Consoli per la salute publica, lo faceva. E se il popolo
romano desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia, perché ei
desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la memoria di
esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto forza di fare quel
medesimo effetto in un principe, perché la è sentenzia di tutti gli
scrittori, come la virtù si lauda e si ammira ancora negli inimici suoi:
e se Manlio, intra tanto desiderio, fusse risuscitato, il popolo di Roma
arebbe dato di lui il medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di
prigione, che poco di poi lo condannò a morte; nonostante che si vegga
de' principi, tenuti savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e poi
sommamente desideratola: come Alessandro, Clito ed altri suoi amici; ed
Erode, Marianne. Ma quello che lo istorico nostro dice della natura della
moltitudine, non dice di quella che è regolata dalle leggi, come era
la romana; ma della sciolta, come era la siragusana: la quale fece quegli
errori che fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece Alessandro Magno,
ed Erode, ne' casi detti. Però non è più da incolpare la
natura della moltitudine che de' principi, perché tutti equalmente errano,
quando tutti sanza rispetto possono errare. Di che, oltre a quel che ho
detto, ci sono assai esempli, ed intra gl'imperadori romani, ed intra gli
altri tiranni e principi; dove si vede tanta incostanzia e tanta variazione
di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine. Conchiudo adunque, contro alla
commune opinione; la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono
varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono altrimenti questi
peccati che siano ne' principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i
principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s'inganna:
perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile,
prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe,
eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un principe, sciolto dalle leggi,
sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E che la
variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti
è a un modo, e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo;
ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l'uno
e l'altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà
essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della
gloria e del bene commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati
da lui, che testimoniano l'una cosa e l'altra. E se alcuno mi allegasse la
ingratitudine ch'egli usò contra a Scipione, rispondo quello che di
sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli
essere meno ingrati de' principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla
stabilità, dico, come un popolo è più prudente,
più stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza
cagione si assomiglia la voce d'un popolo a quella di Dio: perché si vede una
opinione universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi; talché
pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene.
Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli ode duo
concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale
virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia capace di
quella verità che egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano
utili, come di sopra si dice, egli erra; molte volte erra ancora un principe
nelle sue proprie passioni, le quali sono molte più che quelle de'
popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di lunga,
migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo,
che sia bene tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti
costumi: il che facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi
uno popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in
quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell'una e dell'altra
di queste due cose voglio mi basti per testimone il popolo romano: il quale
in tante centinaia d'anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non
fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho
detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno suo
cittadino, che tentasse quel nome, poté fargli fuggire le debite pene.
Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli sono principi, fare
in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che
sempre sono state sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de' re,
ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato. Il che non può
nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de' popoli che
quegli de' principi. Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto
quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in qualunque
altro; perché, se si discorreranno tutti i disordini de' popoli, tutti i
disordini de' principi, tutte le glorie de' popoli e tutte quelle de'
principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere, di
lunga, superiore. E se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare
leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono
tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, ch'egli aggiungono sanza dubbio
alla gloria di coloro che l'ordinano. Ed insomma, per conchiudere
questa materia, dico come hanno durato assai gli stati de' principi, hanno
durato assai gli stati delle republiche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno
d'essere regolato dalle leggi: perché un principe che può fare
ciò ch'ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare cio che
vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d'un principe
obligato alle leggi, e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà
più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà
dell'uno e dell'altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel
principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che a un
popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono essere
parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona: a un
principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro
rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza
della malattia dell'uno e dell'altro: ché se a curare la malattia del popolo
bastan le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non sarà
mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori
errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che
quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che ne può nascere,
potendo nascere, infra tanta confusione, uno tiranno. Ma ne' principi cattivi
interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera;
persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una
libertà. Sì che vedete la differenza dell'uno e dell'altro, la
quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le
crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il
bene commune: quelle d'un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene
proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de' popoli ciascuno
dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de' principi
si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di
proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente
capitolo, di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di
quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe. Di quale confederazione o lega
altri si può più fidare; o di quella fatta con una
republica, o di quella fatta con uno principe. Perché, ciascuno dì,
occorre che l'uno principe con l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno
lega ed amicizia insieme: ed ancora similmente si contrae confederazione ed
accordo intra una republica ed uno principe: mi pare da esaminare qual fede
è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o
di quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando tutto,
credo che in molti casi ei sieno simili ed in alcuni vi sia qualche
disformità. Credo, per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti
saranno né da uno principe né da una republica osservati; credo che, quando
la paura dello stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti
romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio, quel che
fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti
beneficii: occorse dipoi, che, sendo rotto da' suoi inimici, e rifuggendosi
in Atene come in città amica ed a lui obligata, non fu ricevuto da
quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita
delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in
Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo adietro
da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si vede che
ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più umanità usata e
meno ingiuria dalla republica, che dal principe. Dove è, pertanto, la
paura, si troverrà in fatto la medesima fede. E se si troverrà
o una republica o uno principe, che, per osservarti la fede, aspetti di
rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al
principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d'uno principe
potente, che, se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può
sperare che col tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che,
avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare né fede né accordi con
il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli principi del reame di
Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle republiche, fu di
questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le
parti romane; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E
credo, computato ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo
urgente, si troverrà qualche stabilità più nelle
republiche, che ne' principi. Perché, sebbene le republiche avessero quel
medesimo animo e quella medesima voglia che uno principe, lo avere il moto
loro tardo, farà che le perranno sempre più a risolversi che il
principe, e per questo perranno più a rompere la fede di lui. Romponsi
le confederazioni per lo utile. In questo le republiche sono, di lunga,
più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre
esempli, dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe, e
dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede a una republica:
come fu quello partito che propose Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella
concione disse che aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande
utilità, ma non lo poteva dire per non lo scoprire, perché,
scoprendolo, si toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene
elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse
a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò come l'armata di tutta
Grecia, ancora che la stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente
si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto
arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il
partito di Temistocle essere utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa
il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo
Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato
con il rompere la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti
per qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa
ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per cagioni istraordinarie: dove
io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il
principe, e per questo si possa fidar più di lui che del principe. Come il consolato e qualunque
altro magistrato in Roma si dava sanza rispetto
di età. Ei si vede per l'ordine della
istoria, come la Republica romana, poiché il Consolato venne nella Plebe, concesse
quello ai suoi cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che
il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si andò
a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la fusse. Il che si
vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo in ventitré
anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il Consolato era
"praemium virtutis, non sanguinis". La quale cosa se fu bene
considerata o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso
questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma,
sarebbe in ogni città che volesse fare gli effetti che fece Roma, come
altra volta si è detto: perché e' non si può dare agli uomini
disagio sanza premio, né si può tôrre loro la speranza di conseguire
il premio sanza pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe
avessi speranza di avere il Consolato: e di questa speranza si nutrì
un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la speranza, che e' convenne
che si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe
a alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo come altrove si
disputò: ma quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a fare
questa distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha
replica anzi è necessaria: perché nello eleggere uno giovane in un
grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo a
eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua
notabilissima azione. E quando uno giovane è di tanta virtù,
che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa
dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che
l'avesse a aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell'animo e
quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si poteva
valere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di
molti altri, che trionfarono giovanissimi. Libro IIIntroduzione Laudano sempre gli uomini, ma
non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli presenti accusano: ed in
modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente celebrano quelle
etadi che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli
scrittori, conosciute; ma quelle ancora che, sendo già vecchi, si
ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro opinione
sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere
le cagioni che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia, che
delle cose antiche non s'intenda al tutto la verità; e che di quelle
il più delle volte si nasconda quelle cose che recherebbono a quelli
tempi infamia; e quelle altre che possano partorire loro gloria, si rendino
magnifiche ed amplissime. Perché il più degli scrittori in modo alla
fortuna de' vincitori ubbidiscano, che, per fare le loro vittorie gloriose,
non solamente accrescano quello che da loro è virtuosamente operato,
ma ancora le azioni de' nimici in modo illustrano, che, qualunque nasce dipoi
in qualunque delle due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha
cagione di maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed è
forzato sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli uomini le
cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente due potentissime
cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere, e non
ti dando cagione d'invidiarle. Ma al contrario interviene di quelle cose che
si maneggiano e veggono; le quali, per la intera cognizione di esse, non ti
essendo in alcuna parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene
molte altre cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche
molto inferiori, ancora che, in verità, le presenti molto più
di quelle di gloria e di fama meritassoro: ragionando, non delle cose
pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in sé, che i tempi
possono tôrre o dare loro poco più gloria che per loro medesime si
meritino; ma parlando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini,
delle quali non se ne veggono sì chiari testimoni. Replico, pertanto, essere vera
quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta: ma non essere
già sempre vero che si erri nel farlo. Perché qualche volta è
necessario che giudichino la verità; perché, essendo le cose umane
sempre in moto, o le salgano, o le scendano. E vedesi una città o una
provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente, ed,
un tempo, per la virtù di quello ordinatore, andare sempre in
augumento verso il meglio. Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi
più gli antichi tempi che i moderni, s'inganna; ed è causato il
suo inganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascano
dipoi, in quella città o provincia, che gli è venuto il tempo
che la scende verso la parte più ria, allora non s'ingannano. E
pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato
ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di
cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono, di provincia in provincia:
come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano
dall'uno all'altro per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel
medesimo. Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata
la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia,
tanto che la ne venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo Imperio romano non
è seguito Imperio che sia durato, né dove il mondo abbia ritenuta la
sua virtù insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni
dove si viveva virtuosamente; come era il regno de' Franchi, il regno de'
Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella setta
Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo, poiché la
distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie, adunque,
poiché i Romani rovinorno, ed in tutte queste sètte è stata
quella virtù, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si
disidera, e che con vera laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i
tempi passati più che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce
in Italia ed in Grecia, e non sia diventato o in Italia oltramontano o in
Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri:
perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno maravigliosi; in questi non
è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e
vituperio: dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di
milizia; ma sono maculati d'ogni ragione bruttura. E tanto sono questi vizi
più detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono pro
tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati. Ma tornando al ragionamento
nostro, dico che se il giudicio degli uomini è corrotto in giudicare
quale sia migliore, o il secolo presente o l'antico, in quelle cose dove per
l'antichità e' non ne ha possuto avere perfetta cognizione come egli
ha de' suoi tempi; non doverebbe corrompersi ne' vecchi nel giudicare i tempi
della gioventù e vecchiezza loro avendo quelli e questi equalmente
conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i
tempi della lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono quegli
medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non variino, non
possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri
diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù.
Perché, mancando gli uomini, quando gl'invecchiano, di forze, e crescendo di
giudizio e di prudenza, è necessario che quelle cose che in
gioventù parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi,
invecchiando, insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono
accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli
appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere e volere
desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche; ne
risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio
delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i
passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non fussono mossi da
alcuna ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriterò d'essere
numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io
lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimerò i
nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava, ed il vizio che ora
regna, non fussino più chiari che il sole andrei col parlare
più rattenuto, dubitando non incorrere in questo inganno di che io
accuso alcuni. Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede,
sarò animoso in dire manifestamente quello che io intenderò di
quelli e di questi tempi; acciocché gli animi de' giovani che questi mia
scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli,
qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è
offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de' tempi e
della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché,
sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa
operarlo. Ed avendo ne' discorsi del superior libro, parlato delle
diliberazioni fatte da' Romani, pertinenti al di dentro della città,
in questo parleremo di quelle, che 'l Popolo romano fece pertinenti allo
augumento dello imperio suo. Capitolo 1a Quale fu più cagione
dello imperio che acquistarono i Romani, o la virtù, o la fortuna. Molti hanno avuta
opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo scrittore, che 'l popolo
romano nello acquistare lo imperio fosse più favorito dalla fortuna
che dalla virtù. Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per
confessione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla
fortuna tutte le sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla
Fortuna che ad alcuno altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti
Livio; perché rade volte è che facci parlare ad alcuno Romano, dove ei
racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La qual cosa io
non voglio confessare in alcuno modo, né credo ancora si possa sostenere.
Perché, se non si è trovata mai republica che abbi fatti i profitti
che Roma, è nato che non si è trovata mai republica che sia
stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perché la virtù degli
eserciti gli fecero acquistare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il
modo suo proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi gli fece
mantenere lo acquistato: come di sotto largamente in più discorsi si
narrerà. Dicono costoro, che non avere mai accozzate due potentissime
guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù del Popolo
romano; perché e' non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli ebbero, non
tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu fatta da' Romani in
defensione di quelli; non combatterono con i Toscani, se prima non ebbero
soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse rotte quasi in tutto i
Sanniti: che se due di queste potenze intere si fossero, quando erano
fresche, accozzate insieme, senza dubbio si può facilmente
conietturare che ne sarebbe seguito la rovina della romana Republica. Ma,
comunque questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessero due
potentissime guerre in uno medesimo tempo: anzi parve sempre che, o, nel
nascere dell'una, l'altra si spegnesse, o nello spegnersi dell'una, l'altra
nascesse. Il che si può facilmente vedere per l'ordine delle guerre
fatte da loro: perché, lasciando stare quelle che fecero prima che Roma fosse
presa dai Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i
Volsci, mai, mentre che questi popoli furono potenti, non scesero contro di
loro altre genti. Domi costoro, nacque la guerra contro a' Sanniti; e benché,
innanzi che finisse tale guerra, i popoli latini si ribellassero da' Romani;
nondimeno, quando tale ribellione seguì, i Sanniti erano in lega con
Roma, e con i loro eserciti aiutarono i Romani domare la insolenzia latina. I
quali domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a'
Sanniti le loro forze, nacque la guerra de' Toscani; la quale composta, si
rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Italia. Il quale
come fu ributtato, e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con i
Cartaginesi: né prima fu tale guerra finita, che tutti i Franciosi, e di
là e di qua dall'Alpi, congiurarono contro ai Romani; tanto che intra
Populonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa guerra, per spazio di venti anni
ebbero guerre di non molta importanza; perché non combatterono con altri che
con Liguri, e con quel rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E
così stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la quale
per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria,
nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne quella d'Antioco e
d'Asia. Dopo la quale vittoria, non restò in tutto il mondo né
principe né republica che, di per sé, o tutti insieme, che si potessero opporre
alle forze romane. Ma innanzi a quella ultima
vittoria chi considererà bene l'ordine di queste guerre, ed il modo
del procedere loro, vi vedrà dentro mescolate con la fortuna una
virtù e prudenza grandissima. Talché, chi esaminassi la cagione di
tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è cosa
certissima, che come uno principe e uno popolo viene in tanta riputazione,
che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per sé paura ad assaltarlo e
ne tema, sempre interverrà che ciascuno d'essi mai lo
assalterà, se non necessitato; in modo che e' sarà quasi come
nella elezione di quel potente, fare guerra con quale di quei sua vicini gli
parrà, e gli altri con la sua industria quietare. E' quali, parte
rispetto alla potenza sua, parte ingannati da que' modi ch'egli terrà
per adormentargli, si quietano facilmente; quegli altri potenti, che sono
discosto e che non hanno commerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua,
e che non appartenga a loro. Nel quale errore stanno tanto che questo incendio
venga loro presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con
le forze proprie le quali dipoi non bastono, sendo colui diventato
potentissimo. Io voglio lasciare andare come i Sanniti stettero a vedere
vincere dal Popolo romano i Volsci e gli Equi; e per non essere troppo
prolisso, mi farò da' Cartaginesi: i quali erano di gran potenza e di
grande estimazione, quando i Romani combattevano co' Sanniti e con i Toscani;
perché di già tenevano tutta l'Africa, tenevano la Sardigna e la Sicilia,
avevano dominio in parte della Spagna. La quale potenza loro, insieme con lo
essere discosto ne' confini dal popolo romano, fece che non pensarono mai di
assaltare quello, né di soccorrere i Sanniti ed i Toscani: anzi fecero come
si fa nelle cose che crescano più tosto in loro favore, collegandosi
con quegli e cercando l'amicizia loro. Né si avviddono prima dello errore
fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi in fra loro ed i Cartaginesi,
cominciarono a combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna.
Intervenne questo medesimo a' Franciosi che a' Cartaginesi, e così a
Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e ciascuno di loro credea, mentre che
il Popolo romano era occupato con l'altro, che quello altro lo superasse, ed
essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In modo che io
credo che la fortuna che ebbero in questa parte i Romani, l'arebbono tutti
quegli principi che procedessono come i Romani, e fossero della medesima
virtù che loro. Sarebbeci da mostrare a questo
proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie
d'altrui, se nel nostro trattato de' Principati non ne avessimo parlato a
lungo: perché, in quello, questa materia è diffusamente disputata.
Dirò solo questo lievemente, come sempre s'ingegnarono avere nelle
provincie nuove qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi, o
mezzo a tenerla: come si vede che per il mezzo de' Capuani entrarono in
Sannio, de' Camertini in Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in
Spagna, di Massinissa in Africa, degli Etoli in Grecia, di Eumene ed altri
principi in Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E così non
mancorono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese loro, e
nello acquistare le provincie e nel tenerle. Il che quegli popoli che
osserveranno, vedranno avere meno bisogno della fortuna, che quelli che ne
saranno non buoni osservatori. E perché ciascuno possa meglio conoscere,
quanto possa più la virtù che la fortuna loro ad acquistare
quello imperio, noi discorrereno, nel seguente capitolo, di che
qualità furono quelli popoli con e' quali egli ebbero a combattere, e
quanto erano ostinati a difendere la loro libertà. Capitolo 2 Con quali popoli i Romani ebbero
a combattere, e come ostinatamente quegli difendevono
la loro libertà. Nessuna cosa fe'
più faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno e parte delle
provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi molti popoli avevano
alla libertà, la quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non
da una eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti
esempli si conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare
quella; quali vendette ei facessono contro a coloro che l'avessero loro
occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle istorie, quali danni i popoli
e le città ricevino per la servitù. E dove in questi tempi ci
è solo una provincia, la quale si possa dire che abbi in sé
città libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie erano assai
popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de' quali noi parliamo al
presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana da Lombardia,
infino alla punta d'Italia, erano tutti popoli liberi; come erano i Toscani,
i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d'Italia
abitavano. Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quegli che
regnorono in Roma, e Porsenna re di Toscana; la stirpe del quale come si
estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in quegli tempi
che i Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si
godeva della sua libertà, e tanto odiava il nome del principe, che,
avendo fatto i Veienti per loro difensione uno re in Veio, e domandando aiuto
a' Toscani contro a' Romani, quegli, dopo molte consulte fatte, deliberarono
di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vivessono sotto il re;
giudicando non essere bene difendere la patria di coloro che l'avevano di
già sottomessa a altrui. E facil cosa è conoscere donde nasca
ne' popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per esperienza,
le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio né di ricchezza, se
non mentre sono state in libertà. E veramente maravigliosa cosa
è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento
anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra
tutto maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza venne Roma,
poiché la si liberò da' suoi Re. La ragione è facile a
intendere; perché non il bene particulare, ma il bene comune è quello
che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non
è osservato se non nelle republiche; perché tutto quello che fa a
proposito suo, si esequisce; e quantunque e' torni in danno di questo o di
quello privato, e' sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono
tirare innanzi contro alla disposizione di quegli pochi che ne fussono
oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il
più delle volte quello che fa per lui, offende la città; e
quello che fa per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce
una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle
città è non andare più innanzi, né crescere più
in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre,
interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi
surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo e per virtù d'arme
ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella
republica, ma a lui proprio: perché e' non può onorare nessuno di
quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo
avere ad avere sospetto di loro. Non può ancora le città che
esso acquista, sottometterle o farle tributarie a quella città di che
egli è tiranno: perché il farla potente non fa per lui; ma per lui fa
tenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia
riconosca lui. Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua
patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni,
legga Senofonte nel suo trattato che fa De tyrannide. Non è
maraviglia, adunque, che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i
tiranni ed amassino il vivere libero, e che il nome della libertà
fusse tanto stimato da loro: come intervenne quando Girolamo, nipote di
Ierone siracusano, fu morto in Siracusa, che, venendo le novelle della sua
morte in nel suo esercito, che non era molto lontano da Siracusa,
cominciò prima a tumultuare, e pigliare l'armi contro agli ucciditori
di quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava libertà,
allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giù l'ira, contro
a' tirannicidi, e pensò come in quella città si potessi
ordinare uno vivere libero. Non è maraviglia ancora, che e' popoli
faccino vendette istraordinarie contro a quegli che gli hanno occupata la
libertà. Di che ci sono stati assai esempli, de' quali ne intendo
referire solo uno, seguito in Corcira, città di Grecia, ne' tempi
della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa quella provincia in due
parti, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi l'altra gli Spartani, ne
nasceva che di molte città, che erano infra loro divise, l'una parte
seguiva l'amicizia di Sparta, l'altra di Atene: ed essendo occorso che nella
detta città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà al
popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto le
mani addosso a tutta la Nobilità, gli rinchiusero in una prigione
capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o dieci per volta, sotto
titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e quegli con molti crudeli
esempli facevano morire. Di che sendosi, quelli che restavano, accorti,
deliberarono in quanto era a loro possibile, fuggire quella morte
ignominiosa: ed armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi
volevano entrare, la entrata della prigione difendevano; di modo che il
popolo, a questo romore fatto uno concorso, scoperse la parte superiore di
quel luogo, e quegli con quelle rovine suffocò. Seguirono ancora in
detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili; talché si vede
essere vero che con maggiore impeto si vendica una libertà che ti
è suta tolta, che quella che ti è voluta tôrre. Pensando dunque donde possa
nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero più amatori
della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione
che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità
della educazione nostra dall'antica. Perché, avendoci la nostra religione
mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l'onore del mondo:
onde i Gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene,
erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare
da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi
loro, alla umiltà de' nostri; dove è qualche pompa più
delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non mancava
la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva l'azione del
sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi moltitudine
d'animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a
lui. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini
pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di
republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e
contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella
umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell'altra lo
poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le
altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra
richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire
più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare
che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali
sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università degli
uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue
battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo, e
disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli
uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio, e non
secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci permette la
esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi
l'amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo
difendere. Fanno adunque queste educazioni, e sì false
interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche quante si vedeva
anticamente; né, per consequente, si vede ne' popoli tanto amore alla libertà
quanto allora: ancora che io creda più tosto essere cagione di questo,
che lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le
republiche e tutti e' viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia
risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere insieme né
riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello Imperio.
Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono
una congiura di republiche armatissime ed ostinatissime alla difesa della
libertà loro. Il che mostra che il popolo romano sanza una rara ed
estrema virtù mai non le arebbe potute superare. E per darne esemplo di qualche
membro, voglio mi basti lo esemplo de' Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e
Tito Livio lo confessa, che fussero sì potenti, e l'arme loro
sì valide, che potessono infino al tempo di Papirio Cursore consolo,
figliuolo del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di
quarantasei anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute
nel paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e
tanti uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi era tanto ordine e
tanta forza, che gli era insuperabile, se da una virtù romana non
fosse stato assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello
ordine, e donde proceda questo disordine; perché tutto viene dal vivere
libero allora, ed ora dal vivere servo. Perché tutte le terre e le provincie
che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti
grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e' connubi
più liberi, più desiderabili dagli uomini: perché ciascuno
procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando
che il patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non solamente che nascono
liberi e non schiavi, ma ch'ei possono mediante la virtù loro
diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero,
e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti. Perché
ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei
beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a
gara pensono a' privati e publici commodi; e l'uno e l'altro viene
maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in
quegli paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene,
quanto più è dura la servitù. E di tutte le
servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una
republica: l'una, perché la è più durabile, e manco si
può sperare d'uscirne; l'altra, perché il fine della republica
è enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri
corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando quel principe non
sia qualche principe barbaro, destruttore de' paesi e dissipatore di tutte le
civiltà degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in
sé ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città
sue suggette equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti gli
ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come libere, elle non
rovinano anche come schiave; intendendosi della servitù in quale
vengono le città servendo a un forestiero, perché di quelle d'uno loro
cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà, adunque, tutto quello
che si è detto, non si maraviglierà della potenza che i Sanniti
avevano, sendo liberi, e della debolezza in che e' vennono poi, servendo: e
Tito Livio ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra di
Annibale, dove e' mostra che, sendo i Sanniti oppressi da una legione di
uomini che era in Nola, mandarono oratori ad Annibale, a pregarlo che gli
soccorressi; i quali, nel parlare loro, dissono, che avevano per cento anni
combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e
molte volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e dua consoli, e che
allora a tanta bassezza erano venuti, che non si potevano a pena difendere da
una piccola legione romana che era in Nola. Capitolo 3 Roma divenne gran città
rovinando le città circunvicine, e ricevendo i forestieri
facilmente a' suoi onori. "Crescit
interea Roma Albae ruinis". Quegli che disegnono che una città
faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena
di abitatori; perché, sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà
di fare grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per
forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che
disegnassono venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti
volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori
di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu in tanto osservato da
Roma, che, nel tempo del sesto re, in Roma abitavano ottantamila uomini da
portare arme. Perché i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il
quale, perché una pianta ingrossi, e possa produrre e maturare i frutti suoi,
gli taglia i primi rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù
nel piede di quella pianta, possano col tempo nascervi più verdi e
più fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e fare imperio,
fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di Atene: le
quali essendo dua republiche armatissime, ed ordinate di ottime leggi,
nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio romano; e Roma
pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di che
non se ne può addurre altra cagione, che la preallegata: perché Roma,
per avere ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città,
potette di già mettere in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed
Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere
il sito di Roma più benigno che quello di coloro, ma solamente da
diverso modo di procedere. Perché Licurgo, fondatore della republica
spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le
sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perché i
forestieri non avessono a conversarvi: ed oltre a non gli ricevere ne'
matrimoni, alla civilità, ed alle altre conversazioni che fanno
convenire gli uomini insieme, ordinò che in quella sua republica si
spendesse monete di cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per
portarvi mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità che quella
città non potette mai ingrossare di abitatori. E perché tutte le azioni
nostre imitano la natura, non è possibile né naturale che uno pedale
sottile sostenga uno ramo grosso. Però una republica piccola non
può occupare città né regni che sieno più validi né
più grossi di lei; e, se pure gli occupa, gl'interviene come a quello
albero che avesse più grosso il ramo che il piede, che, sostenendolo
con fatica, ogni piccol vento lo fiacca: come si vide che intervenne a
Sparta; la quale avendo occupate tutte le città di Grecia, non prima
se gli ribellò Tebe, che tutte le altre città se gli ribellarono,
e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non potette intervenire a Roma,
avendo il piè sì grosso, che qualunque ramo poteva facilmente
sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che di
sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra Tito Livio
in due parole, quando disse: "Crescit interea Roma Albae ruinis". Capitolo 4 Le republiche hanno tenuti tre
modi circa lo ampliare. Chi ha osservato le
antiche istorie, trova come le republiche hanno tenuti tre modi circa lo
ampliare. L'uno è stato quello che osservarono i Toscani antichi, di
essere una lega di più republiche insieme, dove non sia alcuna che
avanzi l'altra né di autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi
l'altre città compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i
Svizzeri, e come ne' tempi antichi fecero in Grecia gli Achei e gli Etoli. E
perché i Romani feciono assai guerra co' Toscani, per mostrare meglio le
qualità di questo primo modo, mi distenderò in dare notizia di
loro particularmente. In Italia, innanzi allo Imperio romano, furono i
Toscani per mare e per terra potentissimi: e benché delle cose loro non ce ne
sia particulare istoria, pure c'è qualche poco di memoria, e qualche
segno della grandezza loro; e si sa come e' mandarono una colonia in su 'l
mare di sopra, la quale chiamarono Adria, che fu sì nobile, che la
dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamono Adriatico. Intendesi
ancora, come le loro armi furono ubbidite dal Tevere per infino a piè
delle Alpi che ora cingono il grosso di Italia; non ostante che, dugento anni
innanzi che i Romani crescessono in molte forze, detti Toscani perderono lo
imperio di quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu
occupata da' Franciosi: i quali, mossi o da necessità o dalla dolcezza
dei frutti, e massime del vino vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e
rotti e cacciati i provinciali, si posono in quello luogo, dove edificarono
di molte cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano
allora; la quale tennono fino che da' Romani fussero domi. Vivevono, adunque,
i Toscani con quella equalità, e procedevano nello ampliare in quel
primo modo che di sopra si dice: e furono dodici città, tra le quali
era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole, Volterra, e simili: i quali per via di
lega governavano lo Imperio loro; né poterono uscire d'Italia con gli
acquisti; e di quella ancora rimase intatta gran parte, per le cagioni che di
sotto si diranno. L'altro modo è farsi compagni: non tanto però
che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia dello Imperio, ed il
titolo delle imprese: il quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo
è farsi immediate sudditi, e non compagni; come fecero gli Spartani e
gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile;
come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le quali non
rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perché, pigliare cura di avere a governare città con
violenza, massime quelle che fussono consuete a vivere libere, è una
cosa difficile e faticosa. E se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le
puoi né comandare né reggere. Ed a volere essere così fatto, è
necessario farsi compagni che ti aiutino, e ingrossare la tua città di
popolo. E perché queste due città non fecero né l'uno né l'altro, il
modo di procedere loro fu inutile. E perché Roma, la quale è nello
esemplo del secondo modo, fece l'uno e l'altro, però salse a tanta
eccessiva potenza. E perché la è stata sola a vivere così,
è stata ancora sola a diventare tanto potente: perché, avendosi lei
fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con equali
leggi vivevano seco; e, dall'altro canto, come di sopra è detto,
sendosi riserbata sempre la sedia dello Imperio ed il titolo del comandare,
questi suoi compagni venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con
il sangue loro a soggiogare sé stessi. Perché, come ei cominciarono a uscire
con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti
coloro che, per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di
essere suggetti, ed avendo governatori romani, ed essendo stati vinti da
eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che
Roma. Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono
in un tratto cinti da' sudditi romani, ed oppressi da una grossissima
città come era Roma; e quando ei s'avviddono dello inganno sotto il
quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi; tanta autorità
aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno,
avendo la sua città grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero contro, furono in
poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro condizioni; perché, di
compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere, come
è detto, è stato solo osservato da' Romani: né può
tenere altro modo una republica che voglia ampliare; perché la esperienza non
ce ne ha mostro nessuno più certo o più vero. Il modo preallegato delle leghe,
come viverono i Toscani, gli Achei e gli Etoli e come oggi vivono i Svizzeri
è, dopo a quello de' Romani, il migliore modo; perché, non si potendo
con quello ampliare assai, ne séguita due beni; l'uno, che facilmente non ti
tiri guerra a dosso; l'altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni
facilmente. La cagione del non potere ampliare è lo essere una
republica disgiunta e posta in varie sedie: il che fa che difficilmente possono
consultare e diliberare. Fa, ancora, che non sono desiderosi di dominare:
perché, essendo molte comunità a participare di quel dominio, non
stimano tanto tale acquisto quanto fa una republica sola, che spera di
goderselo tutto. Governonsi, oltra di questo, per concilio, e conviene che
sieno più tardi ad ogni diliberazione, che quelli che abitono drento a
uno medesimo cerchio. Vedesi ancora per sperienza, che simile modo di
procedere ha un termine fisso, il quale non ci è esemplo che mostri
che si sia trapassato: e questo è di aggiugnere a dodici o quattordici
comunità; dipoi, non cercare di andare più avanti: perché,
sendo giunti a grado che pare loro potersi difendere da ciascuno, non cercono
maggiore dominio; sì perché la necessità non gli stringe di
avere più potenza; sì per non conoscere utile negli acquisti,
per le cagioni dette di sopra. Perché gli arebbono a fare una delle due cose;
o a seguitare di farsi compagni, e questa moltitudine farebbe confusione; o
egli arebbono a farsi sudditi, e perché e' veggono in questo
difficultà, e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto,
quando e' sono venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltono
a due cose: l'una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni; e per
questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facilmente infra loro si
possono distribuire: l'altra è militare per altrui, e pigliare soldo
da questo e da quel principe che per sue imprese gli solda; come si vede che
fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati. Di che
n'è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parlamento Filippo
re di Macedonia con Tito Quinzio Flaminio, e ragionando d'accordo alla
presenza d'uno pretore degli Etoli, e venendo a parole detto pretore con
Filippo, gli fu da quello rimproverato la avarizia e la infidelità
dicendo che gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi mandare
loro uomini ancora a servigio del nimico; talché molte volte intra due
contrari eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi, pertanto, come
questo modo di procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha fatto
simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi è stato
sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e quando pure egli hanno
passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo di fare sudditi
è inutile nelle republiche armate, in quelle che sono disarmate
è inutilissimo: come sono state ne' nostri tempi le republiche
d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i Romani,
il quale è tanto più mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a
Roma esemplo, e dopo Roma non è stato alcuno che gli abbi imitati. E
quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega di Svezia che gli
imita. E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini osservati
da Roma, così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora,
non sono ne' presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n'è
tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili, alcuni
non a proposito ed inutili; tanto che, standoci con questa ignoranzia, siamo
preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. E quando la imitazione
de' Romani paresse difficile, non doverrebbe parere così quella degli
antichi Toscani, massime a' presenti Toscani. Perché, se quelli non poterono,
per le cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma, poterono
acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse
loro. Il che fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d'imperio e
d'arme, e massime laude di costumi e di religione. La quale potenza e gloria
fu prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta da' Romani: e fu tanto spenta,
che, ancora che, dumila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al
presente non ce n'è quasi memoria. La quale cosa mi ha fatto pensare
donde nasca questa oblivione delle cose: come nel seguente capitolo si
discorrerà. Capitolo 5 Che la variazione delle sette e
delle lingue, insieme con l'accidente de' diluvii o della peste,
spegne le memorie delle cose. A quegli filosofi che
hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare
che, se tanta antichità fusse vera, e' sarebbe ragionevole che ci
fussi memoria di più che cinquemila anni; quando e' non si vedesse
come queste memorie de' tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali,
parte vengono dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini
sono le variazioni delle sètte e delle lingue. Perché, quando e' surge
una setta nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo
è, per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando gli occorre
che gli ordinatori della nuova setta siano di lingua diversa, la spengono
facilmente. La quale cosa si conosce considerando e' modi che ha tenuti la
setta Cristiana contro alla Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini,
tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica
teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la
notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che è
nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che feciono
forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perché, se
l'avessono potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre
persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E
chi legge i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione
cristiana, vedrà con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte le
memorie antiche, ardendo le opere de' poeti e degli istorici, ruinando le
imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della
antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessono aggiunto una
nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare.
È da credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la setta Cristiana
contro alla setta Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era
innanzi a lei. E perché queste sètte in cinque o in seimila anni
variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte innanzi a quel
tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa, e non
è prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo,
che, benché e' renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno
è riputato, come io credo, che sia cosa mendace. Quanto alle cause che vengono dal
cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli
abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una
inondazione d'acque: e la più importante è questa ultima,
sì perché la è più universale, sì perché quegli
che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo
notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a' posteri. E se
infra loro si salvasse alcuno che ne avessi notizia, per farsi riputazione e
nome, la nasconde, e la perverte a suo modo; talché ne resta solo a'
successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste
inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì
perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto
della oblivione delle cose, sì perché e' pare ragionevole ch'e' sia:
perché la natura, come ne' corpi semplici, quando e' vi è ragunato
assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una
purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in
questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie
sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare
altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e
la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene
di necessità che il mondo si purghi per uno de' tre modi; acciocché
gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e
diventino migliori. Era dunque, come di sopra è detto, già la
Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e
la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana.
Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome. Capitolo 6 Come i Romani procedevano nel
fare la guerra. Avendo discorso come i
Romani procedevano nello ampliare, discorrereno ora come e' procedevano nel
fare la guerra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenzia
ei deviarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire
a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero
per ambizione, è acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in
modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua.
È necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di
non spendere; anzi fare ogni cosa con utilità del publico suo. Chi
vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il
quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse;
perché, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre che gli
ebbono con i Latini, Sanniti e Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E
se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio di Roma infino alla
ossidione de' Veienti, tutte si vedranno ispedite, quale in sei, quale in
dieci, quale in venti dì. Perché l'uso loro era questo: subito che era
scoperta la guerra, egli uscivano fuora con gli eserciti allo incontro del
nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perché non fosse
guasto loro il contado affatto venivano alle condizioni ed i Romani gli
condannavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati commodi
o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di
coloro veniva ad essere guardia de' confini romani, con utile di essi coloni,
che avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza spesa
teneva quella guardia. Né poteva questo modo essere più sicuro, o
più forte, o più utile: perché mentre che i nimici non erano in
su i campi, quella guardia bastava: come e' fossono usciti fuori grossi per
opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a
giornata con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più
grave condizione, si tornavano in casa. Così venivano ad acquistare di
mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in sé medesimi. E questo modo
vennono tenendo infino che mutarono modo di procedere in guerra: il che fu
dopo la ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra lungamente, gli
ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere necessario, essendo
le guerre brevi, non gli pagavano. E benché i Romani dessino il soldo, e che
per virtù di questo ei potessono fare le guerre più lunghe, e
per farle più discosto la necessità gli tenesse più in
su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto,
secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare le colonie. Perché
nel primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi oltra a il loro
naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i quali avendo a stare uno anno e di
quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la guerra per trionfare.
Nel mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodità grande che ne
risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delle quali non erano
così liberali come erano stati prima; sì perché e' non pareva
loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì perché,
essendo le prede maggiori, disegnavano d'ingrassare di quelle in modo il publico
che non fussono constretti a fare le imprese con tributi della città.
Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi dua
modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandare le
colonie, feciono che Roma arricchiva della guerra; dove gli altri principi e
republiche non savie ne impoveriscono. E si ridusse la cosa in termine, che a
uno Consolo non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo assai
oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Così i
Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le guerre presto, sendo
valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte e con le scorrerie e
con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre più ricchi e
più potenti. Capitolo 7 Quanto terreno i Romani davano
per colono. Quanto terreno i Romani
distribuissono per colono, credo sia difficile trovarne la verità.
Perché io credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e'
mandavano le colonie. Giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare più uomini, sendo
quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perché, vivendo loro poveri
a casa, non era ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino
troppo fuora. E Tito Livio dice come, preso Veio, e' vi mandarono una
colonia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra;
che sono, al modo nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte,
e'giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene cultivato, bastasse.
È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi publici dove
ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per
ardere; sanza le quali cose non può una colonia ordinarsi. Capitolo 8 La cagione perchè i
popoli si partono da' luoghi patrii, ed inondano il paese altrui. Poiché di sopra si
è ragionato del modo nel procedere nella guerra osservato da' Romani,
e come i Toscani furono assaltati da' Franciosi, non mi pare alieno dalla
materia discorrere, come le si fanno di dua generazioni guerre. L'una è
fatta per ambizione de' principi o delle republiche, che cercano di propagare
lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che
fecero i Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì, l'una potenza con
l'altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto gli
abitatori d'una provincia; perché e' basta, al vincitore, solo la ubbidienza
de' popoli, e il più delle volte gli lascia vivere con le loro leggi,
e sempre con le loro case, e ne' loro beni. L'altra generazione di guerra
è quando uno popolo intero con tutte le sue famiglie si lieva d'uno
luogo, necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e
nuova provincia; non per comandarla, come quegli di sopra, ma per possederla
tutta particularmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di
quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di queste
guerre ragiona Sallustio nel fine dell'Iugurtino, quando dice che, vinto
Iugurta, si sentì il moto de' Franciosi che venivano in Italia: dove
ei dice che il Popolo romano con tutte le altre genti combatté solamente per
chi dovesse comandare, ma con i Franciosi combatté sempre per la salute di
ciascuno. Perché a un principe o a una republica, che assalta una provincia,
basta spegnere solo coloro che comandano; ma a queste populazioni conviene
spegnere ciascuno, perché vogliono vivere di quello che altri viveva. I
Romani ebbero tre di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella quando
Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che avevano tolto, come
di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia; della quale
Tito Livio ne allega due cagioni: la prima, come di sopra si disse, che
furono allettati dalla dolcezza delle frutte e del vino d'Italia, delle quali
mancavano in Francia; la seconda che, essendo quel regno francioso
multiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevono più nutrire,
giudicarono i principi di quelli luoghi, che e' fusse necessario che una
parte di loro andasse a cercare nuova terra, e, fatta tale deliberazione,
elessono, per capitani di quegli che si avevano a partire, Belloveso e
Sicoveso, duoi re de' Franciosi: de' quali Belloveso venne in Italia, e
Sicoveso passò in Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso nacque la
occupazione di Lombardia, e di quindi la guerra che prima i Franciosi fecero
a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra cartaginese,
quando intra Piombino e Pisa ammazzarono più che dugentomila
Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e' Cimbri vennero in Italia: i quali,
avendo vinti più eserciti romani, furono vinti da Mario. Vinsero
adunque i Romani queste tre guerre pericolosissime. Né era necessario minore
virtù a vincerle, perché si vide poi, come la virtù romana
mancò e che quelle armi perderono il loro antico valore, fu quello
imperio destrutto da simili popoli: i quali furono Gotti, Vandali, e simili,
che occuparono tutto lo Imperio occidentale. Escono tali popoli de' paesi
loro, come di sopra si disse, cacciati dalla necessità: e la
necessità nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione che ne'
paesi propri è loro fatta: talché e' son constretti cercare nuove
terre. E questi tali, o e' sono gran numero; ed allora con violenza entrano
ne' paesi d'altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno
uno nuovo regno, mutano il nome della provincia: come fece Moisè, e
quelli popoli che occuparono lo Imperio romano. Perché questi nomi nuovi che
sono nella Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che da essere
state nomate così da nuovi occupatori: come è la Lombardia, che
si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia Transalpina, ed
ora è nominata da' Franchi, che così si chiamavono quelli
popoli che la occuparono: la Schiavonia si chiamava Illiria; l'Ungheria,
Pannonia; l'Inghilterra, Britannia; e molte altre provincie che hanno mutato
nome, le quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò
Giudea quella parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto, di sopra,
che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria sede per guerra,
donde sono constretti cercare nuove terre; ne voglio addurre lo esemplo de'
Maurusii, popoli anticamente in Soria: i quali, sentendo venire i popoli
ebraici, e giudicando non potere loro resistere, pensarono essere meglio
salvare loro medesimi, e lasciare il paese proprio, che, per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in
Africa, dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in
quegli luoghi trovarono. E così quegli che non avevano potuto
difendere il loro paese, potettono occupare quello d'altrui. E Procopio, che
scrive la guerra che fece Belisario coi Vandali, occupatori della Africa,
riferisce avere letto lettere scritte in certe colonne, ne' luoghi dove
questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: "Nos Maurusii, qui fugimus
a facie Jesu latronis filii Navae". Dove apparisce la cagione della
partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo
cacciati da una ultima necessità; e se e' non riscontrano buone armi,
non mai saranno sostenuti. Ma quando quegli che sono costretti abbandonare la
loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi come quelli popoli
di chi si è ragionato; perché non possono usare tanta violenza, ma
conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo, mantenervisi
per via d'amici e di confederati: come si vede che fece Enea Didone, i
Massiliesi e simili; i quali tutti, per consentimento de' vicini, dov'e'
posono, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi
tutti, de' paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai
uomini, ed il paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati
uscirne, avendo molte cose che gli cacciono, e nessuna che gli ritenga. E se,
da cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi popoli
abbiano inondato alcuno paese, è nato per più cagioni. La
prima, la grande evacuazione che fece quel paese nella declinazione dello
Imperio, donde uscirono più di trenta popoli. La seconda è che
la Magna e l'Ungheria, donde ancora uscivano di queste genti hanno ora il
loro paese bonificato in modo che vi possono vivere agiatamente; talché non
sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte, sendo loro uomini
bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli Sciti, i quali con
loro confinano, non presumino di potere vincergli o passarli. E spesse volte
occorrono movimenti grandissimi de' Tartari che sono dipoi dagli Ungheri e da
quelli di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che, se non fussono l'armi
loro, la Italia e la Chiesa arebbe molte volte sentito il peso degli eserciti
tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati popoli. Capitolo 9 Quali cagioni comunemente
faccino nascere le guerre intra i potenti. La cagione che fece nascere
guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in lega gran tempo,
è una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti. La
quale cagione o la viene a caso o la è fatta nascere da colui che
disidera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu
a caso; perché la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini,
e dipoi ai Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e
ricorrendo a Roma fuora della opinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati,
dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro defendergli, e pigliare quella
guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perché e' pareva
bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro
a' Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi
ovvero raccomandati; giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa,
tôrre la via a tutti quegli che disegnassino venire sotto la potestà
loro. Perché, avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette principio
alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per la defensione che i Romani
presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a caso. Ma non fu
già a caso, dipoi, la seconda guerra che nacque infra loro; perché
Annibale capitano cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in
Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere
occasione di combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare
nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno,
e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perché, se io voglio fare guerra
con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo
osservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io
uno suo amico che lui proprio; sappiendo, massime, che, nello assaltare lo
amico, o ei si risentirà, ed io arò lo intento mio di farli
guerra, o, non si risentendo, si scoprirà la debolezza o la
infidelità sua, di non difendere uno suo raccomandato. E l'una e
l'altra di queste due cose e per torli riputazione, e per fare più
facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de'
Campani, circa al muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di
più, quale rimedio abbia una città che non si possa per sé
stessa difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello che l'assalta:
il quale è darsi liberamente a quello che tu disegni che ti difenda,
come feciono i Capovani a' Romani, e i Fiorentini a il re Ruberto di Napoli:
il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi come sudditi
contro alle forze di Castruccio da Lucca, che gli opprimeva. Capitolo 10 I danari non sono il nervo della
guerra, secondo che è la comune opinione. Perché ciascuno
può cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla, debbe uno
principe, avanti che prenda una impresa, misurare le forze sue, e secondo
quelle governarsi. Ma debbe avere tanta prudenza, che delle sue forze ei non
s'inganni; ed ogni volta s'ingannerà, quando le misuri o dai danari, o
dal sito, o dalla benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte,
d'armi proprie. Perché le cose predette ti accrescono bene le forze, ma ben
non te le danno; e per sé medesime sono nulla; e non giovono alcuna cosa
sanza l'armi fedeli. Perché i danari assai non ti bastano sanza quelle; non
ti giova la fortezza del paese e la fede e benivolenza degli uomini non dura,
perché questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni
monte, ogni lago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti
difensori mancano. I danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno
predare più presto. Né può essere più falsa quella
comune opinione che dice, che i danari sono il nervo della guerra. La quale
sentenza è detta da Quinto Curzio nella guerra che fu intra Antipatro
macedone e il re spartano: dove narra, che, per difetto di danari, il re di
Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; ché se ei differiva la zuffa
pochi giorni, veniva la nuova in Grecia della morte di Alessandro, donde ei
sarebbe rimaso vincitore sanza combattere: ma, mancandogli i danari, e
dubitando che lo esercito suo per difetto di quegli non lo abbandonasse, fu
constretto tentare la fortuna della zuffa: talché Quinto Curzio per questa
cagione afferma, i danari essere il nervo della guerra. La quale sentenza
è allegata ogni giorno, e da' principi, non tanto prudenti che basti,
seguitata. Perché, fondatisi sopra quella, credono che basti loro, a
difendersi, avere tesoro assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a
vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci arebbono vinto i Romani;
ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono,
il Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficultà in vincere
Francesco Maria, nipote di papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i
soprannominati furono vinti da coloro che non il danaio ma i buoni soldati
stimano essere il nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re de'
Lidii mostrò a Solone ateniese, fu uno tesoro innumerabile, e
domandando quel che gli pareva della potenza sua, gli rispose Solone, che per
quello e' non lo giudicava più potente; perché la guerra si faceva con
il ferro e non con l'oro, e che poteva venire uno che avessi più ferro
di lui, e torgliene. Oltre a di questo, quando, dopo la morte di Alessandro
Magno, una moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e poi in Asia, e,
mandando i Franciosi oratori a il re di Macedonia per trattare certo accordo;
quel re, per mostrare la potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro
oro ed ariento assai: donde quelli Franciosi, che di già avevano come
ferma la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli
quell'oro: e così fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva
per sua difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo
erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo stato, sanza potere essere
difesi da quello. Dico pertanto, non l'oro, come
grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati:
perché l'oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni
soldati sono bene sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino avessoro
voluto fare la guerra più con i danari che con il ferro, non sarebbe
bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che
feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma, faccendo le loro
guerre con il ferro, non patirono mai carestia dell'oro, perché da quegli che
gli temevano era portato loro infino ne' campi. E se quel re spartano per
carestia di danari ebbe a tentare la fortuna della zuffa, intervenne a lui
quello, per conto de' danari, che molte volte è intervenuto per altre
cagioni: perché si è veduto che, mancando a uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si
piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere più onorevole, e
dove la fortuna ti può in qualche modo favorire. Ancora è
intervenuto molte volte, che, veggendo uno capitano al suo esercito inimico
venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna
della zuffa; o, aspettando ch'egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo,
con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne a
Asdrubale, quando nella Marca fu assaltato da Claudio Nerone, insieme con
l'altro console romano) che un capitano, necessitato o a fuggirsi o a
combattere, come sempre elegge il combattere; parendogli in questo partito,
ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello altro avere a perdere
in ogni modo. Sono, adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor
della sua intenzione pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche
volta può essere la carestia de' danari; né per questo si debbono i
danari giudicare essere il nervo della guerra, più che le altre cose
che inducano gli uomini a simile necessità. Non è, adunque,
replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra, ma i buoni soldati. Son
bene necessari i danari in secondo luogo, ma è una necessità
che i soldati buoni per sé medesimi la vincono; perché è impossibile
che ai buoni soldati manchino i danari, come che i danari per loro medesimi
trovino i buoni soldati. Mostra, questo che noi diciamo essere vero, ogni
istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare
guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e' potevano vincere quella
guerra con la industria e con la forza del danaio. E benché in tale guerra
gli Ateniesi prosperassino qualche volta, in ultimo la perderono; e valson
più il consiglio e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed il
danaio di Atene. Ma Tito Livio è di questa opinione più vero
testimone che alcuno altro, dove, discorrendo se Alessandro Magno fussi
venuto in Italia, s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere tre cose necessarie
nella guerra; assai soldati e buoni, capitani prudenti, e buona fortuna:
dove, esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessero in queste cose,
fa dipoi la sua conclusione sanza ricordare mai i danari. Doverono i
Capovani, quando furono richiesti da' Sidicini che prendessono l'armi per
loro contro ai Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, e non da'
soldati: perché, preso ch'egli ebbero partito di aiutargli, dopo due rotte
furono constretti farsi tributari de' Romani, se si vollono salvare. Capitolo 11 Non è partito prudente
fare amicizia con uno principe che abbia
più opinione che forze. Volendo Tito Livio
mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello aiuto de' Campani, e lo
errore de' Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con
più vive parole, dicendo: "Campani magis nomen in auxilium
Sidicinorum, quam vires ad praesidium attulerunt". Dove si debbe notare
che le leghe che si fanno coi principi, che non abbino o commodità di
aiutarti per la distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra
sua cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che se ne fidano:
come intervenne, ne' dì nostri, ai Fiorentini, quando, nel 1479, il
Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ché, essendo amici del re di
Francia, trassono di quella amicizia "magis nomen, quam
praesidium", come interverrebbe ancora a quel principe, che, confidatosi
di Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa; perché questa è
una di quelle amicizie che arrecherebbe a chi la facesse "magis nomen,
quam praesidium", come si dice, in questo testo, che arrecò
quella de' Capovani a' Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i
Capovani, per parere loro avere più forze che non avevano. E
così fa la poca prudenzia degli uomini, qualche volta, che, non
sappiendo né potendo difendere sé medesimi, vogliono prendere impresa di
difendere altrui: come fecero ancora i Tarentini, i quali, sendo gli eserciti
romani allo incontro dello esercito Sannite, mandarono ambasciadori al
Console romano, a fargli intendere come ei volevano pace intra quegli due
popoli, e come erano per fare guerra contro a quello che dalla pace si
discostasse; talché il Console, ridendosi di questa proposta, alla presenza
di detti ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito
comandò che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con
la opera e non con le parole, di che risposta essi erano degni. Ed avendo nel presente capitolo
ragionato de' partiti che pigliono i principi, al contrario, per la difesa
d'altrui, voglio, nel seguente, parlare di quegli che si pigliano per la
difesa propria. Capitolo 12 S'egli è meglio, temendo
di essere assaltato, inferire o aspettare la guerra. Io ho sentito da uomini, assai
pratichi nelle cose della guerra, qualche volta disputare, se sono dua
principi quasi di equali forze, e quello più gagliardo abbi bandito la
guerra contro a quell'altro, quale sia migliore partito per l'altro, o
aspettare il nimico dentro a' confini suoi, o andarlo a trovare in casa ed
assaltare lui: e ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi difende
lo andare assaltare altri, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro,
quando, arrivato in su' confini de' Massageti per fare loro guerra, la loro
regina Tamiri gli mandò a dire, che eleggessi quale de' due partiti
volesse; o entrare nel regno suo, dove ella lo aspetterebbe; o volesse che
ella venisse a trovare lui. E venuta la cosa in discettazione, Creso, contro
alla opinione degli altri, disse che si andasse a trovare lei; allegando che,
s'egli la vincesse discosto a il suo regno, che non le torrebbe il regno,
perché ella arebbe tempo a rifarsi, ma se la vincesse dentro ai suoi confini,
potrebbe seguirla in su la fuga, e, non le dando spazio a rifarsi, torle lo
stato. Allegane ancora il consiglio che dette Annibale ad Antioco, quando
quel re disegnava fare guerra ai Romani: dove ei mostra come i Romani non si
potevano vincere se non in Italia, perché quivi altrui si poteva valere delle
armi e delle ricchezze e degli amici loro; ma chi gli combatteva fuora
d'Italia, e lasciava loro la Italia libera, lasciava loro quella fonte che
mai le manca vita a somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai
Romani si poteva prima tôrre Roma che lo imperio, e prima la Italia che le
altre provincie. Allega ancora Agatocle che, non potendo sostenere la guerra
di casa, assaltò i Cartaginesi che gliene facevano, e gli ridusse a
domandare pace. Allega Scipione che, per levare la guerra di Italia,
assaltò la Africa. Chi parla al contrario, dice che
chi vuole fare capitare male uno inimico, lo discosti da casa. Allegane gli
Ateniesi, che, mentre che feciono la guerra commoda alla casa loro, restarono
superiori; e come si discostarono, ed andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono
la libertà. Allega le favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re di
Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo
aspettò dentro a' confini del suo regno; ma, come ei se ne
discostò per astuzia di Ercole, perdé lo stato e la vita. Onde
è dato luogo alla favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava le
forze da sua madre, che era la Terra, e che Ercole, avvedutosi di questo, lo
levò in alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora i giudicii
moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne' suoi tempi tenuto uno
savissimo principe: e venendo la fama, due anni davanti la sua morte, come il
re di Francia Carlo VIII voleva venire a assaltarlo, avendo fatte assai
preparazioni, ammalò; e, venendo a morte, intra gli altri ricordi che
lasciò a Alfonso suo figliuolo, fu ch'egli aspettasse il nimico dentro
a il regno; e per cosa del mondo non traesse forze fuora dello stato suo, ma
lo aspettasse dentro a' suoi confini tutto intero: il che non fu osservato da
quello; ma, mandato uno esercito in Romagna, sanza combattere perdé quello e
lo stato. Le ragioni che, oltre alle cose
dette, da ogni parte si adducono, sono: che chi assalta viene con maggiore
animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo esercito: toglie,
oltre a di questo, molte commodità al nimico di potersi valere delle
sue cose, non si potendo valere di que' sudditi che siano saccheggiati; e,
per avere il nimico in casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarne da loro danari ed affaticargli: sicché ei viene a seccare
quella fonte, come disse Annibale, che fa che colui può sostenere la
guerra. Oltra di questo, i suoi soldati, per trovarsi nel paese d'altrui,
sono più necessitati a combattere; e quella necessità fa
virtù, come più volte abbiamo detto. Dall'altra parte si dice:
come, aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perché, sanza
disagio alcuno, tu puoi dare a quello molti disagi di vettovaglie, e d'ogni
altra cosa che abbia bisogno uno esercito: puoi meglio impedirgli i disegni
suoi, per la notizia del paese che tu hai più di lui: puoi con
più forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma non
potere già tutte discostarle da casa: puoi, sendo rotto, rifarti
facilmente; sì perché del tuo esercito se ne salverà assai, per
avere i rifugi propinqui; sì perché il supplimento non ha a venire
discosto: tanto che tu vieni ad arristiare tutte le forze, e non tutta la
fortuna; e, discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze.
Ed alcuni sono stati che, per indebolire meglio il suo nimico, lo lasciono
entrare parecchi giornate in su il paese loro, e pigliare assai terre;
acciò che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo esercito,
e possinlo dipoi combattere più facilmente. Ma, per dire ora io quello che
io ne intendo, io credo che si abbia a fare questa distinzione: o io ho il
mio paese armato, come i Romani, o come hanno i Svizzeri, o io l'ho
disarmato, come avevano i Cartaginesi, o come l'hanno il re di Francia e gli
Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico discosto a casa; perché,
sendo la tua virtù nel danaio e non negli uomini, qualunque volta ti
è impedita la via di quello, tu sei spacciato; né cosa veruna te lo
impedisce quanto la guerra di casa. In esempli ci sono i Cartaginesi; i quali,
mentre che ebbono la casa loro libera, potettono con le rendite fare guerra
con i Romani; e quando l'avevano assaltata, non potevano resistere ad
Agatocle. I Fiorentini non avevano rimedio alcuno con Castruccio signore di
Lucca, perché ei faceva loro la guerra in casa; tanto che gli ebbero a darsi,
per essere difesi, al re Ruberto di Napoli. Ma, morto Castruccio, quelli
medesimi Fiorentini ebbono animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed
operare di torgli il regno: tanta virtù mostrarono nelle guerre longinque,
e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni sono armati, come era
armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere
quanto più ti appressi loro: perché questi corpi possono unire
più forze a resistere a uno impeto, che non possono ad assaltare
altrui. Né mi muove in questo caso l'autorità d'Annibale, perché la
passione e l'utile suo gli faceva così dire a Antioco. Perché, se i
Romani avessono avute in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in Francia
ch'egli ebbero in Italia da Annibale, sanza dubbio erano spacciati: perché
non si sarebbono valuti de' residui degli eserciti, come si valsono in
Italia; non arebbono avuto, a rifarsi, quelle commodità; né potevono
con quelle forze resistere al nimico, che poterono. Non si truova, per
assaltare una provincia, che loro mandassino mai fuora eserciti che
passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne missero in arme
contro ai Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia di
migliaia. Né arebbono potuto poi rompere quegli in Lombardia, come gli
ruppono in Toscana; perché contro a tanto numero di inimici non arebbono
potuto condurre tante forze sì discosto, né combattergli con quella
commodità. I Cimbri ruppono uno esercito romano nella Magna, né vi
ebbono i Romani rimedio. Ma come gli arrivarono in Italia, e che ei poterono
mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è
facile vincergli fuori di casa, dove ei non possono mandare più che un
trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in casa, dove ei ne possono
raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo adunque, di nuovo,
che quel principe che ha i suoi popoli armati ed ordinati alla guerra,
aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia a
rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed il paese inusitato
alla guerra, se le discosti sempre da casa il più che può. E
così l'uno e l'altro, ciascuno nel suo grado si difenderà
meglio. Capitolo 13 Che si viene di bassa a gran
fortuna più con la fraude; che con la forza. Io stimo essere cosa verissima
che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a
gradi grandi, sanza la forza e sanza la fraude; pure che quel grado al quale
altri è pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità.
Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene
che la fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che
leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano,
e di molti altri simili, che d'infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti
o a regno o a imperii grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro,
questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione
che fe' fare a Ciro contro al re di Armenia è piena di fraude, e come
con inganno, e non con forza, gli fe' occupare il suo regno; e non conchiude
altro, per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran cose,
è necessario imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di questo,
Ciassare, re de' Medii, suo zio materno, in più modi; sanza la quale
fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Né
credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa fortuna, pervenuto a
grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene
solo con la fraude: come fece Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio
di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati
fare i principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a
fare le republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la
forza sola. E perché Roma tenne in ogni parte, o per sorte o per elezione,
tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di
questo. Né poté usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il
modo, discorso di sopra da noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome
se gli fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli a lo intorno. Perché
prima si valse dell'armi loro in domare i popoli convicini, e pigliare la
riputazione dello stato; dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la
poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avvidono mai, di essere al tutto
servi, se non poi che vidono dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad
accordo. La quale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co'
principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e non
l'armi, così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e
sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto poté questa invidia
e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie che essi avevano in
Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanzi difesi, congiurarono contro
a il nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di
sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma
difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a' quali i Sanniti facevano guerra
con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si movessono per avere
conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino
pretore latino, il quale nel concilio loro disse queste parole: "Nam si
etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus etc.".
Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati etiam
della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli
principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è meno
vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de' Romani. Capitolo 14 Ingannansi molte volte gli
uomini, credendo con la umiltà
vincere la superbia. Vedesi molte volte come l'umiltà
non solamente non giova ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini
insolenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco.
Di che ne fa fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i
Romani e i Latini. Perché, dolendosi i Sanniti con i Romani che i Latini gli
avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai Latini tale guerra,
disiderando non gli irritare: il che non solamente non gli irritò ma
gli fece diventare più animosi contro a loro, e si scopersono
più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato
Annio pretore latino nel medesimo concilio, dov'e' dice: "Tentastis
patientiam negando militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen
hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites, foederatos suos,
audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia, nisi
conscientia virium, et nostrarum et suarum?". Conoscesi, pertanto,
chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de' Romani accrebbe
l'arroganza de' Latini. E però, mai un principe debbe volere mancare
del grado suo, e non debbe mai lasciare alcuna cosa d'accordo, volendola
lasciare onorevolmente, se non quando e' la può, o ei si crede che la
possa tenere: perché gli è meglio, quasi sempre, sendosi condotta la cosa
in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto, lasciarsela tôrre con
le forze, che con la paura delle forze. Perché, se tu la lasci con la paura,
lo fai per levarti la guerra, ed il più delle volte non te la lievi:
perché colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso quella, non
istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre cose, e si
accenderà più contro a di te, stimandoti meno; e, dall'altra
parte, in tuo favore troverrai i difensori più freddi, parendo loro
che tu sia o debole o vile: ma se tu, subito scoperta la voglia dello
avversario, prepari le forze, ancora che le siano inferiori a lui, quello ti
comincerà a stimare; stimanti più gli altri principi allo
intorno; e a tale viene voglia di aiutarti, sendo in su l'armi, che,
abbandonandoti, non ti aiuterebbe mai. Questo s'intende quando tu abbia uno
inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu possedessi
a alcuno di loro per riguadagnarselo, ancora che fussi di già scoperta
la guerra, e per ismembrarlo dagli altri confederati tuoi nimici, fia sempre
partito prudente. Capitolo 15 Gli stati deboli sempre fiano
ambigui nel risolversi: e sempre le diliberazioni lente
sono nocive. In questa medesima materia, ed in
questi medesimi principii di guerra intra i Latini ed i Romani, si può
notare come in ogni consulta è bene venire allo individuo di quello
che si ha a diliberare, e non stare sempre in ambiguo né in su lo incerto
della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i Latini,
quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché, avendo i Romani presentito
questo cattivo umore che ne' popoli latini era entrato, per certificarsi
della cosa, e per veder se potevano sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi
quegli popoli, fecero loro intendere, come e' mandassono a Roma otto
cittadini perché avevano a consultare con loro. I Latini, inteso questo, ed
avendo coscienza di molte cose fatte contro alla voglia de' Romani, fecioro
concilio per ordinare chi dovesse ire a Roma e darli commissione di quello
ch'egli avesse a dire. E stando nel concilio in questa disputa, Annio loro
pretore disse queste parole: "Ad summam rerum nostrarum pertinere
arbitror, ut cogitetis magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit.
Facile erit, explicatis consiliis, accommodare rebus verba". Sono, sanza
dubbio, queste parole verissime e debbono essere da ogni principe e da ogni
republica gustate: perché, nella ambiguità e nella incertitudine di
quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole, ma, fermo
una volta l'animo, e diliberato quello sia da esequire, è facil cosa
trovarvi le parole. Io ho notata questa parte più volentieri, quanto
io ho molte volte conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle
publiche azioni, con danno e con vergogna della republica nostra. E sempre
mal avverrà che ne' partiti dubbi e dove bisogna animo a diliberargli,
sarà questa ambiguità, quando abbiano a essere consigliati e
diliberati da uomini deboli. Non sono meno nocive ancora le diliberazioni
lente e tarde, che le ambigue; massime quelle che si hanno a diliberare in
favore di alcuno amico; perché con la lentezza loro non si aiuta persona, e
nuocesi a sé medesimo. Queste diliberazioni così fatte procedono o da
debolezza d'animo e di forze, o da malignità di coloro che hanno a
diliberare i quali, mossi dalla passione propria di volere rovinare lo stato
o adempiere qualche altro loro disiderio, non lasciano seguire la
diliberazione, ma la impediscono e la attraversono. Perché i buoni cittadini,
ancora che vegghino una foga popolare voltarsi alla parte perniziosa, mai
impediranno il diliberare, massime di quelle cose che non aspettano tempo.
Morto che fu Girolamo tiranno in Siragusa, essendo la guerra grande intra i
Cartaginesi ed i Romani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire
l'amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la
cosa stava ambigua, né se ne prendeva alcuno partito: insino a tanto che
Apollonide, uno de' primi in Siracusa, con una sua orazione piena di
prudenza, mostrò come e' non era da biasimare chi teneva la opinione
di aderirsi ai Romani, né quelli che volevano seguire la parte cartaginese;
ma era bene da detestare quella ambiguità e tardità di pigliare
il partito, perché vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina della
republica; ma preso che si fussi il partito, qualunque si fusse, si poteva
sperare qualche bene. Né potrebbe mostrare più Tito Livio, che si
faccia in questa parte, il danno che si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo
ancora in questo caso de' Latini: poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro
d'aiuto contro ai Romani, differirono tanto a diliberarlo, che, quando eglino
erano usciti appunto fuora della porta con le genti per dare loro soccorso,
venne la nuova i Latini essere rotti. Donde Milionio loro pretore disse: -
Questo poco della via ci costerà assai col Popolo romano -. Perché, se
si diliberavano prima, o di aiutare o di non aiutare i Latini, non li
aiutando, ei non irritavano i Romani; aiutandogli, essendo lo aiuto in tempo,
potevono con la aggiunta delle loro forze fargli vincere; ma differendo,
venivano a perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se i Fiorentini
avessono notato questo testo, non arebbono avuto co' Franciosi né tanti danni
né tante noie quante ebbono nella passata che il re Luigi di Francia XII fece
in Italia contro a Lodovico duca di Milano. Perché, trattando il re tale
passata, ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli oratori, che erano
appresso al re, accordarono con lui che si stessino neutrali, e che il re
venendo in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in
protezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu
differita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di
Lodovico: intanto che, il re già sendo in su la vittoria, e volendo
poi i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione accettata; come quello
che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati e non voluntari nella amicizia
sua. Il che costò alla città di Firenze assai danari, e fu per
perdere lo stato: come poi altra volta per simile causa le intervenne. E
tanto più fu dannabile quel partito, perché non si servì ancora
a il duca Lodovico; il quale, se avesse vinto, arebbe mostri molti più
segni d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del
male che nasce, alle republiche, di questa debolezza, se ne sia di sopra in
uno altro capitolo discorso, nondimeno, avendone di nuovo occasione per uno
nuovo accidente, ho voluto replicarne parendomi, massime, materia che debba essere
dalle republiche, simili alla nostra, notata. Capitolo 16 Quanto i soldati de' nostri
tempi si disformino dagli antichi ordini. La più importante
giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo
romano, fu questa che ei fece con i popoli latini, nel consolato di Torquato
e di Decio. Perché ogni ragione vuole che, così come i Latini per
averla perduta diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani,
quando non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito Livio; perché
in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine, di virtù, d'ostinazione
e di numero: solo vi fa differenza, che i capi dello esercito romano furono
più virtuosi che quelli dello esercito latino. Vedesi ancora come nel
maneggio di questa giornata nacquono due accidenti, non prima nati, e che
dipoi hanno radi esempli: che, di due Consoli, per tenere fermi gli animi de'
soldati, ed ubbidienti a' comandamenti loro, e diliberati al combattere l'uno
ammazzò sé stesso, e l'altro il figliuolo. La parità, che Tito
Livio dice essere in questi eserciti, era che, per avere militato gran tempo
insieme, erano pari di lingua, d'ordine e d'armi: perché nello ordinare la
zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli ordini e i capi degli ordini avevano
i medesimi nomi. Era dunque necessario, sendo di pari forze e di pari
virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria, che fermasse e
facesse più ostinati gli animi dell'uno che dell'altro: nella quale
ostinazione consiste, come altre volte si è detto, la vittoria;
perché, mentre che la dura ne' petti di quelli che combattono, mai non
dànno volta gli eserciti. E perché la durasse più ne' petti de'
Romani che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de' Consoli fece
nascere che Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e Decio sé stesso. Mostra
Tito Livio, nel mostrare questa parità di forze, tutto l'ordine che
tenevono i Romani nelli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli
largamente, non replicherò altrimenti; ma solo discorrerò
quello che io vi giudico notabile, e quello che, per essere negletto da tutti
i capitani di questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle zuffe, di molti
disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si raccoglie come lo
esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si
possono chiamare tre schiere; e nominavano la prima astati, la seconda
principi, la terza triari: e ciascuna di queste aveva i suoi cavagli. Nello
ordinare una zuffa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo, per
ritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure nel
medesimo filo, collocavano i triari. I cavagli di tutti questi ordini gli
ponevano a destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le stiere de' quali
cavagli, dalla forma loro, e dal luogo, si chiamavano "alae" perché
parevano come due alie di quel corpo. Ordinavono la prima stiera, degli
astati, che era nella fronte, serrata in modo insieme, che la potesse
spignere e sostenere il nimico. La seconda stiera, de' principi, perché non
era la prima a combattere, ma bene le conveniva soccorrere alla prima quando
fussi battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini
radi, e di qualità che la potessi ricevere in sé, sanza disordinarsi,
la prima, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La
terza stiera, de' triari, aveva ancora gli ordini più radi che la
seconda, per potere ricevere in sé, bisognando, le due prime stiere, de'
principi e degli astati. Collocate, dunque, queste stiere in questa forma,
appiccavano la zuffa: e, se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano
nella radità degli ordini de' principi; e, tutti uniti insieme, fatto
di due stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano
ributtati, sforzati si ritiravano tutti nella rarità degli ordini de'
triari; e tutt'a tre le stiere, diventate uno corpo, rinnovavano la zuffa:
dove essendo superati, per non avere più da rifarsi, perdevono la
giornata. E perché ogni volta che questa ultima stiera de' triari si
adoperava, lo esercito era in pericolo, ne nacque quel proverbio: "Res
redacta est ad triarios", che, a uso toscano, vuole dire:"Noi
abbiamo messa l'ultima posta". I capitani de' nostri tempi, come egli
hanno abbandonati tutti gli altri ordini, e della antica disciplina non ne
osservano parte alcuna, così hanno abbandonata questa parte, la quale
non è di poca importanza: perché chi si ordina di potersi rifare nelle
giornate tre volte, ha ad avere tre volte inimica la fortuna a volere
perdere, ed ha ad avere per iscontro una virtù che sia atta tre volte
a vincerlo. Ma chi non sta se non in sul primo urto, come stanno oggi tutti
gli eserciti cristiani, può facilmente perdere; perché ogni disordine,
ogni mezzana virtù gli può tôrre la vittoria. Quello che fa
agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è lo avere
perduto il modo di ricevere l'una stiera nell'altra. Il che nasce perché al
presente s'ordinano le giornate con uno di questi due disordini: o ei mettono
le loro stiere a spalle l'una dell'altra, e fanno la loro battaglia, larga
per traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole, per
avere poco dal petto alle stiene. E quando pure, per farla più forte,
ei riducano le stiere per il verso de' Romani, se la prima fronte è
rotta, non avendo ordine di essere ricevuta dalla seconda, s'ingarbugliano
insieme tutte, e rompano sé medesime: perché, se quella dinanzi è
spinta, ella urta la seconda; se la seconda si vuole fare innanzi, ella
è impedita dalla prima: donde che, urtando la prima la seconda, e la
seconda la terza, ne nasce tanta confusione, che spesso un minimo accidente
rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi nella zuffa di
Ravenna, dove morì monsignor de Fois capitano delle genti di Francia
(la quale fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata),
s'ordinarono con l'uno de' soprascritti modi; cioè che l'uno e l'altro
esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle: in modo che non
venivano avere né l'uno né l'altro se non una fronte, ed erano assai
più per il traverso che per il diritto. E questo avviene loro sempre,
dove egli hanno la campagna grande, come gli avevano a Ravenna: perché,
conoscendo il disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo
fuggono, quando ei possono, col fare la fronte larga, come è detto; ma
quando il paese gli ristrigne, si stanno nel disordine soprascritto, sanza
pensare al rimedio. Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese
inimico, o se ei predano, o se fanno altro maneggio di guerra. Ed a Santo
Regolo in quel di Pisa, ed altrove, dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani
ne' tempi della guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la
sua ribellione dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque
tale rovina d'altronde che dalla cavalleria amica; la quale, sendo davanti e
ributtata da' nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e quella ruppe:
donde tutto il restante delle genti dierono volta: e messer Ciriaco dal
Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza mia
molte volte, non essere mai stato rotto se non dalla cavalleria degli amici.
I Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre, quando ei militano con i
Franciosi, sopra tutte le cose hanno cura di mettersi in lato, che la
cavalleria amica, se fusse ributtata, non gli urti. E benché queste cose
paiano facili ad intendere, e facilissime a farsi, nondimeno non si è
trovato ancora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi
ordini imiti, e i moderni corregga. E benché gli abbino ancora loro
tripartito lo esercito, chiamando l'una parte antiguardo, l'altra battaglia,
e l'altra retroguardo; non se ne servono ad altro che a comandarli nelli
alloggiamenti, ma nello adoperargli, rade volte è, come di sopra
è detto, che a tutti questi corpi non faccino correre una medesima fortuna. E perché molti, per scusarne la
ignoranza loro, allegano che la violenza delle artiglierie non patisce che in
questi tempi si usino molti ordini de gli antichi, voglio disputare nel
seguente capitolo questa materia, e vo' esaminare se le artiglierie
impediscano che non si possa usare l'antica virtù. Capitolo 17 Quanto si debbino stimare dagli
eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e se quella opinione, che se ne
ha in universale, è vera. Considerando io, oltre alle cose
soprascritte, quante zuffe campali (chiamate ne' nostri tempi, con vocabolo
francioso, giornate, e, dagli Italiani, fatti d'arme) furono fatte da' Romani
in diversi tempi, mi è venuto in considerazione la opinione universale
di molti, che vuole che, se in quegli tempi fussono state le artiglierie, non
sarebbe stato lecito ai Romani, né sì facile, pigliare le provincie,
farsi tributari i popoli, come ei fecero; né arebbono in alcuno modo fatto
sì gagliardi acquisti. Dicono ancora, che, mediante questi instrumenti
de' fuochi, gli uomini non possono usare né mostrare la virtù loro,
come ei potevano anticamente. E soggiungano una terza cosa: che si viene con
più difficultà alle giornate che non si veniva allora, né vi si
può tenere dentro quegli ordini di quegli tempi; talché la guerra si
ridurrà col tempo in su le artiglierie. E giudicando non fuora di
proposito disputare se tali opinioni sono vere, e quanto le artiglierie
abbino accresciuto o diminuito di forze agli eserciti, e se le tolgano o
danno occasione ai buoni capitani di operare virtuosamente, comincerò
a parlare quanto alla prima loro opinione: che gli eserciti antichi romani
non arebbano fatto gli acquisti che feciono, se le artiglierie fussono state.
Sopra che, rispondendo, dico come e' si fa guerra o per difendersi o per
offendere; donde si ha prima a esaminare a quale di questi due modi di guerra
le faccino più utile o più danno. E benché sia che dire da ogni
parte, nondimeno io credo che sanza comparazione faccino più danno a
chi si difende, che a chi offende. La ragione che io ne dico è, che
quel che si difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in
su i campi dentro a uno steccato. S'egli è dentro a una terra, o
questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle fortezze, o
la è grande: nel primo caso, chi si difende è al tutto perduto,
perché l'impeto delle artiglierie è tale che non truova muro,
ancoraché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta; e se chi è
dentro non ha buoni spazi da ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; né
può sostenere l'impeto del nimico che volessi dipoi entrare per la
rottura del muro, né a questo gli giova artiglieria che avessi: perché questa
è una massima, che dove gli uomini in frotta e con impeto possono
andare, le artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani
nella difesa delle terre non sono sostenuti: son bene sostenuti gli assalti
italiani, i quali, non in frotta ma spicciolati, si conducano alle battaglie,
le quali loro, per nome molto proprio, chiamano scaramucce. E questi che
vanno con questo disordine e questa freddezza a una rottura d'un muro dove
siano artiglierie, vanno a una manifesta morte, e contro a loro le
artiglierie vagliano: ma quegli che in frotta condensati, e che l'uno spinge
l'altro, vengono a una rottura, se non sono sostenuti o da fossi o da ripari,
entrono in ogni luogo, e le artiglierie non gli tengono; e, se ne muore
qualcuno, non possono essere tanti che gl'impedischino la vittoria. Questo, essere vero, si è
conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in Italia, e
massime in quella di Brescia: perché, sendosi quella terra ribellata da'
Franciosi, e tenendosi ancora per il re di Francia la fortezza, avevano i
Viniziani, per sostenere l'impeto che da quella potesse venire nella terra,
munita tutta la strada d'artiglierie, che dalla fortezza alla città
scendeva, e postene a fronte e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno.
Delle quali monsignor di Fois non fece alcuno conto; anzi, quello con il suo
squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di quelle, occupò la
città, né per quelle si sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno
memorabile danno. Talché, chi si difende in una terra piccola, come è
detto, e truovisi le mura in terra, e non abbia spazio da ritirarsi con i
ripari e con fossi ed abbiasi a fidare in su le artiglierie, si perde subito.
Se tu difendi una terra grande, e che tu abbia commodità di ritirarti,
sono nondimanco sanza comparazione più utili le artiglierie a chi
è di fuori, che a chi è dentro. Prima, perché, a volere che una
artiglieria nuoca a quegli che sono di fuora, tu se' necessitato levarti con
essa dal piano della terra; perché, stando in sul piano, ogni poco d'argine e
di riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi nuocere.
Tanto che, avendoti a alzare, e tirarti in sul corridoio delle mura, o in
qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due difficultà: la
prima, che tu non puoi condurvi artiglierie della grossezza e della potenza
che può trarre colui di fuora, non si potendo ne' piccoli spazii maneggiare
le cose grandi: l'altra è, quando bene tu ve le potessi condurre, tu
non puoi fare quegli ripari fedeli e sicuri, per salvare detta artiglieria,
che possono fare quegli di fuori, essendo in sul terreno, ed avendo quelle
commodità e quello spazio che loro medesimi vogliono: talmenteché, gli
è impossibile, a chi difende una terra, tenere le artiglierie ne'
luoghi alti, quando quegli che sono di fuori abbino assai artiglierie e
potente; e se egli hanno a venire con essa ne' luoghi bassi, ella diventa in
buona parte inutile, come è detto. Talché la difesa della città
si ha a ridurre a difenderla con le braccia, come anticamente si faceva, e
con l'artiglieria minuta: di che se si trae un poco di utilità,
rispetto a questa artiglieria minuta, se ne cava incommodità che
contrappesa alla commodità dell'artiglieria; perché, rispetto a
quella, si riducano le mura delle terre, basse e quasi sotterrate ne' fossi:
talché, come si viene alla battaglia di mano, o per essere battute le mura o
per essere ripieni i fossi, ha, chi è dentro, molti più
disavvantaggi che non aveva allora. E però, come di sopra si disse,
giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia le terre, che a
chi è campeggiato. Quanto alla terza cosa, di ridursi in un campo dentro
a uno steccato, per non fare giornata se non a tua comodità o
vantaggio, dico che in questa parte tu non hai più rimedio,
ordinariamente, a difenderti di non combattere, che si avessono gli antichi;
e qualche volta, per conto delle artiglierie, hai maggiore disavvantaggio.
Perché, se il nimico ti giugne addosso, ed abbia un poco di vantaggio del
paese, come può facilmente intervenire, e truovisi più alto di
te; o che nello arrivare suo tu non abbia ancora fatti i tuoi argini, e
copertoti bene con quegli; subito, e sanza che tu abbia alcun rimedio, ti
disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue, e venire alla zuffa. Il
che intervenne agli Spagnuoli nella giornata di Ravenna; i quali essendosi
muniti tra 'l fiume del Ronco ed uno argine, per non lo avere tirato tanto
alto che bastasse, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del terreno,
furono costretti dalle artiglierie uscire delle fortezze loro, e venire alla
zuffa. Ma dato, come il più delle volte debbe essere, che il luogo che
tu avessi preso con il campo fosse più eminente che gli altri
all'incontro, e che gli argini fussono buoni e sicuri, talché, mediante il
sito e l'altre tue preparazioni il nimico non ardisse d'assaltarti; si
verrà in questo caso a quegli modi che anticamente si veniva, quando
uno era con il suo esercito in lato da non potere essere offeso: i quali
sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche, impedirti
le vettovaglie, tanto che tu sarai forzato da qualche necessità a
disalloggiare, e venire a giornata; dove le artiglierie, come di sotto si
dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di quali ragioni guerre
feciono i Romani, e veggendo come ei feciono quasi tutte le loro guerre per
offendere altrui e non per difendere loro, si vedrà, quando siano vere
le cose dette di sopra, come quelli arebbono avuto più vantaggio, e
più presto arebbono fatto i loro acquisti, se le fossono state in
quelli tempi. Quanto alla seconda cosa, che
gli uomini non possono mostrare la virtù loro, come ei potevano
anticamente, mediante l'artiglieria; dico ch'egli è vero, che, dove
gli uomini spicciolati si hanno a mostrare, che ei portano più
pericoli che allora, quando avessono a scalare una terra, o fare simili
assalti, dove gli uomini non ristretti insieme ma di per sé l'uno dall'altro
avessono a comparire. È vero ancora, che gli capitani e capi degli
eserciti stanno sottoposti più a il pericolo della morte che allora,
potendo essere aggiunti con le artiglierie in ogni luogo; né giova loro lo
essere nelle ultime squadre, e muniti di uomini fortissimi. Nondimeno si vede
che l'uno e l'altro di questi dua pericoli fanno rade volte danni
istraordinari: perché le terre munite bene non si scalano, né si va con
assalti deboli ad assaltarle; ma, a volerle espugnare, si riduce la cosa a
una ossidione, come anticamente si faceva. Ed in quelle che pure per assalto
si espugnano, non sono molto maggiori i pericoli che allora: perché non
mancavano anche in quel tempo, a chi difendeva le terre, cose da trarre; le
quali, se non erano così furiose, facevano, quanto allo ammazzare gli
uomini, il simile effetto. Quanto alla morte de' capitani e condottieri, ce
ne sono, in ventiquattro anni che sono state le guerre ne' prossimi tempi in
Italia, meno esempli che non era in dieci anni di tempo appresso agli
antichi. Perché, dal conte Lodovico della Mirandola, che morì a
Ferrara quando i Viniziani, pochi anni sono, assaltarono quello stato, ed il
Duca di Nemors, che morì alla Cirignuola, in fuori, non è
occorso che d'artiglierie ne sia morto alcuno; perché monsignore di Fois a
Ravenna morì di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non
dimostrano particularmente la loro virtù, nasce, non dalle
artiglierie, ma dai cattivi ordini e dalla debolezza degli eserciti; i quali,
mancando di virtù nel tutto, non la possono mostrare nella parte. Quanto alla terza cosa detta da
costoro, che non si possa venire alle mani, e che la guerra si
condurrà tutta in su l'artiglierie, dico questa opinione essere al
tutto falsa; e così fia sempre tenuta da coloro che secondo l'antica
virtù vorranno adoperare gli eserciti loro. Perché, chi vuole fare uno
esercito buono, gli conviene, con esercizi o fitti o veri, assuefare gli
uomini sua ad accostarsi al nimico, e venire con lui al menare della spada ed
a pigliarsi per il petto; e si debbe fondare più in su le fanterie che
in su' cavagli, per le ragioni che di sotto si diranno. E quando si fondi in
su i fanti ed in su i modi predetti, diventono al tutto le artiglierie
inutili; perché con più facilità le fanterie, nello accostarsi
al nimico, possono fuggire il colpo delle artiglierie, che non potevano
anticamente fuggire l'impeto degli elefanti, de' carri falcati, e d'altri
riscontri inusitati, che le fanterie romane riscontrarono; contro ai quali
sempre trovarono il rimedio: e tanto più facilmente lo arebbono
trovato contro a queste, quanto egli è più breve il tempo nel
quale le artiglierie ti possano nuocere, che non era quello nel quale
potevano nuocere gli elefanti ed i carri. Perché quegli nel mezzo della zuffa
ti disordinavano, queste, solo innanzi alla zuffa, t'impediscano: il quale
impedimento facilmente le fanterie fuggono, o con andare coperte dalla natura
del sito, o con abbassarsi in su la terra quando le tirano. Il che anche, per
isperienza, si è visto non essere necessario, massime per difendersi
dalle artiglierie grosse; le quali non si possono in modo bilanciare, o che,
se le vanno alto, le non ti trovino, o che, se le vanno basso, le non ti
arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani, questo è chiaro
più che la luce, che né le grosse né le piccole ti possono offendere:
perché, se quello che ha l'artiglierie è davanti, diventa tuo
prigione; s'egli è dietro, egli offende prima l'amico che te; a spalle
ancora non ti può ferire in modo che tu non lo possa ire a trovare, e
ne viene a seguitare lo effetto detto. Né questo ha molta disputa; perché se
ne è visto l'esemplo de' Svizzeri, i quali a Novara nel 1513, sanza
artiglierie e sanza cavagli, andarono a trovare lo esercito francioso, munito
d'artiglierie, dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere alcuno
impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose dette di sopra,
che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a volere che la operi, o da
mura o da fossi o da argini; e come le mancherà una di queste guardie,
ella è prigione, o la diventa inutile: come le interviene quando la si
ha a difendere con gli uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe
campali. Per fianco le non si possono adoperare, se non in quel modo che
adoperavano gli antichi gli instrumenti da trarre; che gli mettevano fuori
delle squadre, perché ei combattessono fuori degli ordini; ed ogni volta che
o da cavalleria o da altri erano spinti, il rifugio loro era dietro alle
legioni. Chi altrimenti ne fa conto, non la intende bene, e fidasi sopra una
cosa che facilmente lo può ingannare. E se il Turco, mediante
l'artiglieria, contro al Sofi ed il Soldano ha avuto vittoria, è nato
non per altra virtù di quella che per lo spavento che lo inusitato
romore messe nella cavalleria loro. Conchiuggo pertanto, venendo al
fine di questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno esercito quando vi
sia mescolata l'antica virtù; ma, sanza quella, contro a uno esercito
virtuoso è inutilissima. Capitolo 18 Come per l'autorità de'
Romani, e per lo esemplo della antica milizia, si debba stimare più le
fanterie che i cavagli. E' si può per molte
ragioni e per molti esempli dimostrare chiaramente, quanto i Romani in tutte
le militari azioni estimassono più la milizia a piede che a cavallo, e
sopra quella fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si vede per
molti esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con i Latini
appresso al lago Regillo; dove essendo già inclinato lo esercito
romano, per soccorrere ai suoi, fecero discendere, degli uomini a cavallo, a
piede, e per quella via, rinnovata la zuffa, ebbono la vittoria. Dove si vede
manifestamente, i Romani avere più confidato in loro sendo a piede,
che mantenendoli a cavallo. Questo medesimo termine usarono in molte altre
zuffe, e sempre lo trovarono ottimo rimedio alli loro pericoli. Né si opponga a questo la
opinione d'Annibale, il quale, veggendo in la giornata di Canne che i Consoli
avevano fatto discendere a piè li loro cavalieri, facendosi beffe di
simile partito, disse: "Quam mallem vinctos mihi traderent
equites!", cioè: - Io arei più caro che me gli dessino
legati -. La quale opinione, ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo
eccellentissimo, nondimanco, se si ha ad ire dietro alla autorità, si
debbe più credere a una Republica romana, e a tanti capitani
eccellentissimi che furono in quella, che a uno solo Annibale. Ancoraché,
sanza le autorità, ce ne sia ragioni manifeste: perché l'uomo a piede
può andare in di molti luoghi, dove non può andare il cavallo;
puossi insegnarli servare l'ordine, e, turbato che fussi, come e' lo abbia a
riassumere: a' cavagli è difficile fare servare l'ordine, ed
impossibile, turbati che sono, riordinargli. Oltre a questo, si truova, come
negli uomini, de' cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno
assai: e molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da
un uomo vile, e uno cavallo vile da uno animoso; ed in qualunque modo che
segua questa disparità, ne nasce inutilità e disordine. Possono
le fanterie, ordinate, facilmente rompere i cavagli, e difficilmente essere
rotte da quegli. La quale opinione è corroborata, oltre a molti
esempli antichi e moderni, dalla autorità di coloro che danno delle
cose civili regola: dove ei mostrano come in prima le guerre si cominciarono
a fare con i cavagli, perché non era ancora l'ordine delle fanterie ma come
queste si ordinarono, si conobbe subito quanto loro erano più utili
che quelli. Non è per questo però che i cavagli non siano
necessarii negli eserciti, e per fare scoperte, per iscorrere e predare i
paesi, per seguitare i nimici quando ei sono in fuga, e per essere ancora in
parte una opposizione ai cavagli degli avversari: ma il fondamento e il nervo
dello esercito, e quello che si debbe più stimare, debbano essere le
fanterie. Ed infra i peccati de' principi
italiani, che hanno fatto Italia serva de' forestieri, non ci è il
maggiore che avere tenuto poco conto di questo ordine, ed avere volto tutta
la sua cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la
malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato.
Perché, essendosi ridotta la milizia italiana da' venticinque anni indietro,
in uomini che non avevano stato, ma erano come capitani di ventura, pensarono
subito come potessero mantenersi la riputazione, stando armati loro e
disarmati i principi. E perché uno numero grosso di fanti non poteva loro
essere continovamente pagato, e non avendo sudditi da potere valersene, ed
uno piccol numero non dava loro riputazione, si volsono a tenere cavagli:
perché dugento o trecento cavagli che erano pagati ad uno condottiere, lo
mantenevano riputato, ed il pagamento non era tale, che dagli uomini che
tenevono stato non potesse essere adempiuto. E perché questo seguisse
più facilmente, e per mantenersi più in riputazione, levarono
tutta l'affezione e la riputazione da' fanti, e ridussonla in quelli loro
cavagli: e in tanto crebbono in questo disordine, che in qualunque
grossissimo esercito era una minima parte di fanteria. La quale usanza fece
in modo debole, insieme con molti altri disordini che si mescolarono con
quella, questa milizia italiana, che questa provincia è stata
facilmente calpesta da tutti gli oltramontani. Mostrasi più
apertamente questo errore, di stimare più i cavagli che le fanterie,
per uno altro esemplo romano. Erano i Romani a campo a Sora, ed essendo
uscito fuori della terra una turma di cavagli per assaltare il campo, se gli
fece allo incontro il Maestro de' cavagli romano con la sua cavalleria; e
datosi di petto, la sorte dette che nel primo scontro i capi dell'uno e
dell'altro esercito morirono; e restati gli altri sanza governo, e durando
nondimeno la zuffa, i Romani, per superare più facilmente il nimico,
scesono a piede, e constrinsono i cavalieri inimici, se si vollono difendere,
a fare il simile: e, con tutto questo, i Romani ne riportarono la vittoria.
Non può essere questo esemplo maggiore in dimostrare quanto sia
più virtù nelle fanterie che ne' cavagli: perché, se nelle
altre fazioni i Consoli facevano discendere i cavalieri romani, era per
soccorrere alle fanterie che pativano, e che avevano bisogno di aiuto; ma in
questo luogo e' discesono, non per soccorrere alle fanterie né per combattere
con uomini a piè de' nimici, ma combattendo a cavallo, con cavagli,
giudicarono, non potendo superargli a cavallo, potere, scendendo, più
facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria
ordinata non possa sanza grandissima difficultà essere superata se non
da un'altra fanteria. Crasso e Marc'Antonio romani corsono per il dominio de'
Parti molte giornate con pochissimi cavagli ed assai fanteria, ed allo
incontro avevano innumerabili cavagli de' Parti. Crasso vi rimase, con parte
dello esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco
in queste azioni romane si vide quanto le fanterie prevalevano ai cavagli:
perché, essendo in uno paese largo, dove i monti sono radi, i fiumi
radissimi, le marine longinque, e discosto da ogni commodità,
nondimanco Marc'Antonio, al giudicio de' Parti medesimi, virtuosissimamente
si salvò; né mai ebbeno ardire tutta la cavalleria partica tentare gli
ordini dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene le
sue azioni vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato che sforzato: né
mai, in tutti i suoi disordini, i Parti ardirono d'urtarlo; anzi, sempre
andando costeggiandolo, impedendogli le vettovaglie, e promettendogli e non
gli osservando, lo condussono a una estrema miseria. Io crederei avere a durare
più fatica in persuadere quanto la virtù delle fanterie
è più potente che quella de' cavalli se non ci fossono assai
moderni esempli che ne rendano testimonianza pienissima. E' si è
veduto novemila Svizzeri a Novara, da noi di sopra allegata, andare a
affrontare diecimila cavagli ed altrettanti fanti, e vincergli: perché i
cavagli non gli potevano offendere: i fanti, per essere gente in buona parte
guascona e male ordinata, la stimavano poco. Videsi di poi ventiseimila
Svizzeri andare a trovare sopra a Milano Francesco re di Francia, che aveva
seco ventimila cavagli, quarantamila fanti, e cento carra d'artiglierie; e se
non vinsono la giornata come a Novara, ei la combatterono dua giorni
virtuosamente e dipoi, rotti ch'ei furono, la metà di loro si
salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con la fanteria sua
sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se il disegno non gli riuscì,
non fu però che la virtù della sua fanteria non fosse tanta,
ch' e' non confidasse tanto in lei che credesse superare quella
difficultà. Replico, pertanto, che, a volere superare i fanti
ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quegli:
altrimenti, si va a una perdita manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti,
duca di Milano, scesono in Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde quel
Duca, avendo per suo capitano allora il Carmignuola, lo mandò con
circa mille cavagli e pochi fanti all'incontro loro. Costui, non sappiendo
l'ordine del combattere loro, ne andò a incontrarli con i suoi
cavagli, presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo
perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo
uomo, e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi partiti, rifattosi di
gente gli andò a trovare; e, venuto loro all'incontro, fece smontare a
piè tutte le sue genti d'armi, e, fatto testa di quelle alle sue
fanterie, andò ad investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno
rimedio: perché, sendo le genti d'armi del Carmignuola a piè e bene
armate, poterono facilmente entrare intra gli ordini de' Svizzeri, sanza
patire alcuna lesione ed entrati tra quegli poterono facilmente offenderli:
talché di tutto il numero di quegli, ne rimase quella parte viva, che per
umanità del Carmignuola fu conservata. Io credo che molti conoschino
questa differenzia di virtù che è intra l'uno e l'altro di
questi ordini: ma è tanta la infelicità di questi tempi, che né
gli esempli antichi né i moderni né la confessione dello errore è
sufficiente a fare che i moderni principi si ravvegghino; e pensino che, a
volere rendere riputazione alla milizia d'una provincia o d'uno stato, sia
necessario risuscitare questi ordini, tenergli appresso, dare loro
riputazione, dare loro vita, acciocché a lui e vita e riputazione rendino. E
come ei deviano da questi modi, così deviano dagli altri modi, detti
di sopra: onde ne nasce che gli acquisti sono a danno, non a grandezza, d'uno
stato; come di sotto si dirà. Capitolo 19 Che gli acquisti nelle
republiche non bene ordinate, e che secondo la romana
virtù non procedano, sono a ruina, non ad esaltazione
di esse. Queste contrarie opinioni alla
verità fondate in su i mali esempli che da questi nostri corrotti
secoli sono stati introdotti, fanno che gli uomini non pensono a deviare dai
consueti modi. Quando si sarebbe potuto persuadere uno Italiano, da trenta
anni in dietro che diecimila fanti potessono assaltare in un piano diecimila
cavagli ed altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere ma
vincergli, come si vide per lo esemplo da noi più volte allegato, a
Novara? E benché le istorie ne siano piene, tamen non ci arebbero prestato
fede; e se ci avessero prestato fede, arebbero detto che in questi tempi
s'arma meglio, e che una squadra di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno
scoglio, non che una fanteria: e così con queste false scuse
corrompevano il giudizio loro; né arebbero considerato che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane, e che fra quelli
cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli uomini d'arme
nostri: e così, come questa fallacia è stata scoperta dallo
esemplo delle genti oltramontane. E come e' si vede, per quello, essere vero,
quanto alla fanteria, quello che nelle istorie si narra, così
doverrebbero credere essere veri e utili tutti gli altri ordini antichi. E
quando questo fusse creduto, le republiche ed i principi errerebbero meno;
sariano più forti a opporsi a uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno vivere civile,
lo saperebbono meglio indirizzare, o per la via dello ampliare, o per la via
del mantenere; e crederebbono che lo accrescere la città sua di
abitatori, farsi compagni e non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi
acquistati, fare capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e
con le giornate e non con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero il
privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari, fusse la vera via
a fare grande una republica, e ad acquistare imperio. E quando questo modo
dello ampliare non gli piacessi, penserebbe che gli acquisti per ogni altra
via sono la rovina delle republiche, e porrebbe freno a ogni ambizione;
regolando bene la sua città dentro con le leggi e co' costumi,
proibendole lo acquistare, e solo pensando a difendersi, e le difese tenere
ordinate bene: come fanno le republiche della Magna, le quali in questi modi
vivano e sono vivute libere un tempo. Nondimeno, come altra volta
dissi quando discorsi la differenza che era, da ordinarsi per acquistare e
ordinarsi per mantenere; è impossibile che ad una republica riesca lo
stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perché, se
lei non molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere
molestata le nascerà la voglia e la necessità dello acquistare;
e quando non avessi il nimico fuora, lo troverrebbe in casa: come pare necessario
intervenga a tutte le gran cittadi. E se le republiche della Magna possono
vivere loro in quel modo, ed hanno potuto durare un tempo, nasce da certe
condizioni che sono in quel paese, le quali non sono altrove, sanza le quali
non potrebbero tenere simile modo di vivere. Era quella parte della Magna di
che io parlo, sottoposta allo Imperio romano come la Francia e la Spagna: ma
venuto dipoi in declinazione e ridottosi il titolo di tale Imperio in quella
provincia, cominciarono quelle città più potenti, secondo la
viltà o necessità degl'imperadori, a farsi libere,
ricomperandosi dallo Imperio, con riservargli un piccol censo annuario; tanto
che, a poco a poco, tutte quelle città che erano immediate dello
imperadore, e non erano suggette d'alcuno principe, si sono in simil modo ricomperate.
Occorse, in questi medesimi tempi che queste città si ricomperavano,
che certe comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da
lui; tra le quali fu Filiborg, e i Svizzeri, e simili; le quali prosperando
nel principio, pigliarono a poco a poco tanto augumento, che, non che e'
siano tornati sotto il giogo di Austria, sono in timore a tutti i loro
vicini: e questi sono quegli che si chiamano i Svizzeri. È , adunque,
questa provincia compartita in Svizzeri, republiche che chiamano terre franche,
principi, ed imperadore. E la cagione che, intra tante diversità di
vivere, non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto le guerre,
è quel segno dello imperadore; il quale, avvenga che non abbi forze,
nondimeno ha infra loro tanta riputazione ch'egli è un loro
conciliatore, e con l'autorità sua, interponendosi come mezzano,
spegne subito ogni scandolo. E le maggiori e le più lunghe guerre vi
siano state, sono quelle che sono seguite intra i Svizzeri ed il duca
d'Austria: e benché da molti anni in qua lo imperadore ed il duca d'Austria
sia una medesima cosa, non pertanto non ha mai possuto superare l'audacia de'
Svizzeri; dove non è stato mai modo d'accordo, se non per forza. Né il
resto della Magna gli ha porti molti aiuti; sì perché le comunità
non sanno offendere chi vuole vivere libero come loro; sì perché
quelli principi, parte non possono, per essere poveri, parte non vogliono,
per avere invidia alla potenza sua. Possono vivere, adunque, quelle
comunità contente del piccolo loro dominio, per non avere cagione,
rispetto all'autorità imperiale, di disiderarlo maggiore: possono
vivere unite dentro alle mura loro, per avere il nimico propinquo, e che
piglierebbe le occasioni di occuparle, qualunque volta le discordassono. Ché,
se quella provincia fusse condizionata altrimenti, converrebbe loro cercare
di ampliare e rompere quella loro quiete. E perché altrove non sono tali
condizioni, non si può prendere questo modo di vivere; e bisogna o
ampliare per via di leghe, o ampliare come i Romani. E chi si governa
altrimenti, cerca non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perché in mille
modi e per molte cagioni gli acquisti sono dannosi; perché gli sta molto
bene, insieme acquistare imperio e non forze; e chi acquista imperio e non
forze insieme, conviene che rovini. Non può acquistare forze chi
impoverisce nelle guerre, ancora che sia vittorioso, che ei mette più
che non trae degli acquisti: come hanno fatto i Viniziani ed i Fiorentini, i
quali sono stati molto più deboli, quando l'uno aveva la Lombardia e
l'altro la Toscana, che non erano quando l'uno era contento del mare, e
l'altro di sei miglia di confini. Perché tutto è nato da avere voluto
acquistare e non avere saputo pigliare il modo: e tanto più meritano
biasimo, quanto eglino hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i
Romani, ed avendo potuto seguitare il loro esemplo, quando i Romani, sanza
alcuno esemplo, per la prudenza loro, da loro medesimi lo seppono trovare.
Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche volta non mediocre danno ad ogni
bene ordinata republica, quando e' si acquista una città o una
provincia piena di delizie, dove si può pigliare di quegli costumi per
la conversazione che si ha con quegli: come intervenne a Roma, prima, nello
acquisto di Capova, e dipoi, a Annibale. E se Capova fusse stata più
longinqua dalla città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il
rimedio propinquo, o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta, era,
sanza dubbio, quello acquisto la rovina della romana Repubblica. E Tito Livio
fa fede di questo con queste parole: "Iam tunc minime salubris militari
disciplinae Capua, instrumentum omnium voluptatum, delinitos militum animos
avertit a memoria patriae". E veramente, simili città o provincie
si vendicano contro al vincitore sanza zuffa e sanza sangue; perché,
riempiendogli de' suoi tristi costumi, gli espongono a essere vinti da
qualunque gli assalti. E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue satire,
avere considerata questa parte, dicendo che ne' petti romani per gli acquisti
delle terre peregrine erano entrati i costumi peregrini; ed in cambio di
parsimonia e d'altre eccellentissime virtù, "gula et luxuria
incubuit, victumque ulciscitur orbem". Se, adunque, lo acquistare fu per
essere pernizioso a' Romani ne' tempi che quegli con tanta prudenzia e tanta
virtù procedevono, che sarà adunque a quegli che discosto dai
modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori che fanno, di che se
n'è di sopra discorso assai, si vagliano de' soldati o mercenari o
ausiliari? Donde ne risulta loro spesso quelli danni di che nel seguente
capitolo si farà menzione. Capitolo 20 Quale pericolo porti quel
principe o quella republica che si vale della milizia
ausiliare o mercenaria. Se io non avessi lungamente
trattato, in altra mia opera, quanto sia inutile la milizia mercenaria ed
ausiliare, e quanto utile la propria, io mi stenderei in questo discorso
assai più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo,
sarò, in questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da
passarla, avendo trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari,
sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari sono quegli che un
principe o una republica manda, capitanati e pagati da lei, in tuo aiuto. E
venendo al testo di Livio, dico che, avendo i Romani, in due diversi luoghi,
rotti due eserciti de' Sanniti con gli eserciti loro, i quali avevano mandati
al soccorso de' Capovani; e per questo liberi i Capovani da quella guerra che
i Sanniti facevano loro; e volendo ritornare verso Roma, ed a ciò che
i Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di nuovo preda de'
Sanniti; lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli difendesse. Le
quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a dilettarsi in quello; tanto
che, dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono di prendere
l'armi ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù
avevano difeso; parendo loro che gli abitatori non fussono degni di possedere
quegli beni che non sapevano difendere. La quale cosa presentita, fu da'
Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure,
largamente si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo, come di tutte l'altre
qualità de' soldati, gli ausiliari sono i più dannosi: perché
in essi quel principe o quella repubblica che gli adopera in suo aiuto, non
ha autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorità colui che gli
manda. Perché gli soldati ausiliarii sono quegli che ti sono mandati da uno
principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati da
lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali
soldati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volte predano così
colui che gli ha condotti, come colui contro a chi e' sono condotti; e lo
fanno o per malignità del principe che gli manda, o per ambizione loro.
E benché la intenzione de' Romani non fusse di rompere l'accordo e le
convenzioni avevano fatto co' Capovani; non per tanto la facilità che
pareva a quegli soldati di opprimergli fu tanta, che gli potette persuadere a
pensare di tôrre a' Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare
assai esempli, ma voglio mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu
tolto la vita e la terra da una legione che i Romani vi avevano messa in
guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica pigliare prima ogni altro
partito, che ricorrere a condurre nello stato suo per sua difesa genti
ausiliarie, quando al tutto e' si abbia a fidare sopra quelle; perché ogni
patto, ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli arà col nimico gli
sarà più leggieri che tale partito. E se si leggeranno bene le
cose passate, e discorrerannosi le presenti, si troverrà, per uno che
ne abbi avuto buono fine, infiniti esserne rimasi ingannati. Ed un principe o
una republica ambiziosa non può avere la maggiore occasione di
occupare una città o una provincia, che essere richiesto che mandi gli
eserciti suoi alla difesa di quella. Pertanto, colui che è tanto
ambizioso che, non solamente per difendersi ma per offendere altri, chiama
simili aiuti, cerca d'acquistare quello che non può tenere, e che, da
quello che gliene acquista, gli può facilmente essere tolto. Ma
l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una presente
voglia, non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene. Né
lo muovono gli antichi esempli, così in questo come nell'altre cose
discorse; perché, se e' fussono mossi da quegli, vedrebbero come, quanto
più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più
alieno da occupargli, tanto più si gettono in grembo: come di sotto,
per lo esemplo de' Capovani, si dirà. Capitolo 21 Il primo pretore ch'e' romani
mandarono in alcuno luogo, fu a Capova, dopo quattrocento
anni che cominciarono a fare guerra. Quanto i Romani, nel modo del
procedere loro circa lo acquistare, fossero differenti da quegli che ne' presenti
tempi ampliano la giurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e
come e' lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi
loro, eziandio quelle che, non come compagne, ma come suggette si arrendevano
loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio per il Popolo romano,
ma le obligavano a alcune condizioni, le quali osservando le mantenevano
nello stato e dignità loro. E conoscesi questi modi essere stati
osservati infino che gli uscirono d'Italia, e che cominciarono a indurre i
regni e gli stati in provincie. Di questo ne è
chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che fussi mandato da loro in alcun
luogo, fu a Capova: il quale vi mandarono, non per loro ambizione, ma perché
e' ne furono ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro discordia,
giudicarono essere necessario avere dentro nella città uno cittadino
romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo gli Anziati mossi, e
constretti dalla medesima necessità, domandarono, ancora loro, uno
Prefetto; e Tito Livio dice, in su questo accidente, ed in su questo nuovo
modo d'imperare "quod jam non solum arma, sed iura romana
pollebant". Vedesi, pertanto, quanto questo modo facilitò lo
augumento romano. Perché quelle città, massime che sono use a vivere
libere, o consuete governarsi per sua provinciali, con altra quiete stanno
contente sotto uno dominio che non veggono, ancora ch'egli avesse in sé
qualche gravezza, che sotto quello che veggendo ogni giorno, pare loro che
ogni giorno sia rimproverata loro la servitù. Appresso, ne seguita uno
altro bene per il principe: che, non avendo i suoi ministri in mano i
giudicii ed i magistrati che civilmente o criminalmente rendono ragione in
quelle cittadi, non può nascere mai sentenza con carico o infamia del
principe: e vengono per questa via a mancare molte cagioni di calunnia e
d'odio verso di quello. E che questo sia il vero, oltre agli antichi esempli
che se ne potrebbero addurre, ce n'è uno esemplo fresco in Italia.
Perché, come ciascuno sa, sendo Genova stata più volte occupata da'
Franciosi, sempre quel re, eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandato uno
governatore francioso che in suo nome la governi. Al presente solo, non per
elezione del re, ma perché così ha ordinato la necessità, ha
lasciato governarsi quella città per sé medesima, e da uno governatore
genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di questi due modi rechi
più sicurtà al re, dello imperio d'essa, e più
contentezza a quegli popolari, sanza dubbio approverebbe questo ultimo modo.
Oltre a di questo, gli uomini tanto più ti si gettono in grembo,
quanto più tu pari alieno dallo occupargli; e tanto meno ti temano per
conto della loro libertà, quanto più se' umano e dimestico con
loro. Questa dimestichezza e liberalità fece i Capovani correre a chiedere
il Pretore a' Romani: ché se a' Romani si fusse dimostro una minima voglia di
mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero discostati da loro. Ma
che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma, avendone in Firenze ed in
Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la città di Pistoia
venne volontariamente sotto lo imperio fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta
inimicizia è stata intra i Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e
questa diversità di animo non è nata, perché i Pistolesi non
prezzino la loro libertà come gli altri, e non si giudichino da quanto
gli altri; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come frategli,
e con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i Pistolesi sono corsi
volontari sotto lo imperio loro: gli altri hanno fatto e fanno ogni forza per
non vi pervenire. E sanza dubbio, se i Fiorentini o per vie di leghe o di
aiuti avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi vicini, a questa ora,
sanza dubbio, e' sarebbero signori di Toscana. Non è per questo che io
giudichi che non si abbia adoperare l'armi e le forze; ma si debbono
riservare in ultimo luogo dove e quando gli altri modi non bastino. Capitolo 22 Quanto siano false molte volte
le opinioni degli uomini nel giudicare le
cose grandi. Quanto siano false molte volte
le opinioni degli uomini, lo hanno visto e veggono coloro che si truovono
testimoni delle loro diliberazioni: le quali, molte volte, se non sono
diliberate da uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni verità. E
perché gli eccellenti uomini nelle republiche corrotte, nei tempi quieti
massime, e per invidia e per altre ambiziose cagioni, sono inimicati, si va
dietro a quello che o, da uno comune inganno è giudicato bene, o, da
uomini che più presto vogliono i favori che il bene dello universale,
è messo innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi,
e per necessità si rifugge a quegli che nei tempi quieti erano come
dimenticati: come nel suo luogo in questa parte appieno si discorrerà.
Nascono ancora certi accidenti, dove facilmente sono ingannati gli uomini che
non hanno grande isperienza delle cose, avendo in sé, quello accidente che
nasce, molti verisimili, atti a fare credere quello che gli uomini sopra tale
caso si persuadono. Queste cose si sono dette per quello che Numicio pretore,
poiché i Latini furono rotti dai Romani, persuase loro, e per quello che,
pochi anni sono si credeva per molti, quando Francesco I re di Francia venne
allo acquisto di Milano, che era difeso da' Svizzeri. Dico pertanto che,
sendo morto Luigi XII, e succedendo nel regno di Francia Francesco d'Angolem,
e desiderando restituire al regno il ducato di Milano, stato, pochi anni
davanti, occupato da' Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II,
desiderava avere aiuti in Italia che gli facilitassero la impresa; ed oltre
a' Viniziani, che Luigi si aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini e papa
Leone X; parendogli la sua impresa più facile, qualunque volta si
avesse riguadagnati costoro, per essere genti del re di Spagna in Lombardia,
ed altre forze dello imperadore in Verona. Non cedé Papa Leone alle voglie
del re, ma fu persuaso da quegli che lo consigliavano (secondo si disse) si
stesse neutrale, mostrandogli in questo partito consistere la vittoria certa:
perché per la Chiesa non si faceva avere potenti in Italia né il re né i
Svizzeri ma, volendola ridurre nell'antica libertà, era necessario
liberarla dalla servitù dell'uno e dell'altro. E perché vincere l'uno
e l'altro, o di per sé o tutti a dua insieme, non era possibile; conveniva
che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa con gli suoi amici urtasse
quello, poi, che rimanesse vincitore. Ed era impossibile trovare migliore
occasione che la presente, sendo l'uno e l'altro in su i campi, ed avendo il
Papa le sue forze a ordine da potere rappresentarsi in su i confini di
Lombardia, e propinquo a l'uno e l'altro esercito, sotto colore di volere
guardare le cose sue, e quivi stare tanto che venissono alla giornata, la
quale ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrebbe essere
sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in modo debilitato il
vincitore che fusse al Papa facile assaltarlo e romperlo: e così
verrebbe con sua gloria a rimanere signore di Lombardia, ed arbitro di tutta
Italia. E quanto questa opinione fusse falsa, si vide per lo evento della
cosa: perché, sendo dopo una lunga zuffa suti superati i Svizzeri, non che le
genti del Papa e di Spagna presumessero assaltare i vincitori, ma si
prepararono alla fuga; la quale ancora non sarebbe loro giovata, se non fusse
stato o la umanità o la freddezza del re, che non cercò la
seconda vittoria, ma li bastò fare accordo con la Chiesa. Ha questa opinione certe ragioni
che discosto paiono vere, ma sono al tutto aliene dalla verità.
Perché, rade volte accade che il vincitore perda assai suoi soldati: perché
de' vincitori ne muore nella zuffa, non nella fuga; e nello ardore del
combattere, quando gli uomini hanno volto il viso l'uno all'altro, ne cade
pochi, massime perché la dura poco tempo, il più delle volte; e quando
pure durasse assai tempo e de' vincitori ne morisse assai, è tanta la
riputazione che si tira dietro la vittoria, ed il terrore che la porta seco,
che di lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la opinione che fusse
debilitato, andasse a trovarlo, si troverrebbe ingannato; se già, e'
non fusse lo esercito tale che d'ogni tempo, e innanzi alla vittoria e poi,
potesse combatterlo. In questo caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e
virtù, vincere e perdere; ma quello che si fusse azzuffato prima, ed
avesse vinto, arebbe più tosto vantaggio dall'altro. Il che si conosce
certo per la isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio pretore
prese, e per il danno che ne riportarono quegli popoli che gli crederono: il
quale, vinto che i Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di
Lazio, che allora era tempo assaltare i Romani debilitati per la zuffa
avevano fatta con loro; e che solo appresso a' Romani era rimaso il nome
della vittoria, ma tutti gli altri danni avevano sopportati come se fussino
stati vinti; e che ogni poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era per
spacciargli. Donde quegli popoli, che gli crederono, fecero nuovo esercito, e
subito furono rotti, e patirono quel danno che patiranno sempre coloro che
terranno simile opinione. Capitolo 23 Quanto i Romani nel giudicare i
sudditi per alcuno accidente che necessitasse tale giudizio
fuggivano la via del mezzo. "Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati
possent". Di tutti gli stati infelici,
è infelicissimo quello d'uno principe o d'una republica che è
ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere la guerra:
a che si riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi;
e dall'altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di
chi gli aiuti o rimanere preda del nimico. Ed a tutti questi termini si
viene, pe' cattivi consigli e cattivi partiti, da non avere misurato bene le
forze sue, come di sopra si disse. Perché quella republica o quel principe
che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel termine si
condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con i Romani,
accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra, la ruppono: e
così seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani fu
loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti,
prima da Manlio Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli costretti
a darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed avendo messo la guardia per
tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato in Roma,
referì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E
perché questo giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per
poterlo imitare quando simili occasioni sono date a' principi, io voglio
addurre le parole di Livio, poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e
del modo che i Romani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre
fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi. Perché uno governo non
è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano
offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via
da nuocerti, o con benificarli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino
abbiano a desiderare di mutare fortuna. Il che tutto si comprende, e prima
per la proposta di Cammillo, e poi per il giudizio dato dal Senato sopra
quella. Le parole sue furono queste: "Dii immortales ita vos potentes
huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra manu posuerint.
Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel
saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius consulere in dedititios
victosque? licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum, augere rem
romanam, victos in civitatem accipiendo? materia crescendi per summam gloriam
suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent.
Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, seu poena seu beneficio praeoccupari
oportet". A questa proposta successe la diliberazione del Senato: la
quale fu secondo le parole del Consolo, che, recatosi innanzi, terra per
terra, tutti quegli ch'erano di momento, o e' gli benificarono o e' gli
spensono, faccendo ai beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la
città, e da ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono le
terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che
con l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né usarono mai
la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio debbono
i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel
1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono
fatto, arebbero assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la
città di Firenze, e datogli quegli campi che per vivere gli mancono.
Ma loro usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel
giudicare gli uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono;
a tutti tolsono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e
lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino nelle diliberazioni
consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva essere più
savi, dicevano come e' sarebbe poco onore della republica disfarla, perché e'
parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni sono di
quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione non si
arebbe a ammazzare uno parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo vergogna
di quel principe mostrare di non avere forze da potere frenare uno uomo solo.
E non veggono, questi tali che hanno simili opinioni, come gli uomini
particularmente ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a
uno stato, che, per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha
altro rimedio uno principe che spegnerla. E l'onore consiste nel potere e
sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli tenerla: perché quel
principe che non gastiga chi erra, in modo che non possa più errare,
è tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero,
quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de'
Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una,
quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o
spegnere: l'altra, quanto la generosità dell'animo, quanto il parlare
il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti.
Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati, i quali, sendosi
ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano
mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal
Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da
uno de' Senatori, "quam poenam meritos Privernates censeret". Al quale
il Privernate rispose: "Eam, quam merentur qui se libertate dignos
censent". Al quale il Consolo replicò: "Quid si poenam
remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros speremus?". A che
quello rispose: "Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam,si malam,
haud diuturnam". Donde la più savia parte del Senato, ancora che
molti se ne alterassono, disse: "se audivisse vocem et liberi et viri;
nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius
eum poeniteat diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi
voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi servitutem esse velint, fidem
sperandam esse". Ed in su queste parole, deliberarono che i Privernati
fossero cittadini romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono,
dicendo: "eos demum qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos
esse, qui Romani fiant". Tanto piacque agli animi generosi questa vera e
generosa risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile.
E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che sono usi
o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo
inganno pigliano partiti non buoni per sé, e da non satisfare a loro. Di che
nascano le spesse ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al
discorso nostro, conchiudo, e per questo e per quel giudizio dato de' Latini:
quando si ha a giudicare cittadi potenti e che sono use a vivere libere,
conviene o spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E
debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la
fu ai Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando
non vollero seguire il parere di quel vecchio, che consigliò che i
Romani si lasciassero andare onorati, o che si ammazzassero tutti; ma
pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli sotto il giogo, gli
lasciarono andare pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbono
con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro
diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si
discorrerà. Capitolo 24 Le fortezze generalmente sono
molto più dannose che utili. E' parrà forse a questi
savi de' nostri tempi cosa non bene considerata, che i Romani, nel volere
assicurarsi de' popoli di Lazio e della città di Priverno, non
pensassono di edificarvi qualche fortezza, la quale fosse uno freno a
tenergli in fede; sendo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri
savi, che Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le fortezze.
E veramente, se i Romani fussono stati fatti come loro, egli arebbero pensato
di edificarle; ma perché gli erano d'altra virtù, d'altro giudizio,
d'altra potenza, e' non le edificarono. E mentre che Roma visse libera, e che
la seguì gli ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai
n'edificò per tenere o città o provincie, ma salvò bene
alcuna delle edificate. Donde veduto il modo del procedere de' Romani in
questa parte, e quello de' principi de' nostri tempi, mi pare da mettere in
considerazione, s'egli è bene edificare fortezze, o se le fanno danno
o utile a quello che l'edifica. Debbesi, adunque, considerare come le
fortezze si fanno o per difendersi dagl'inimici o per difendersi da'
suggetti. Nel primo caso le non sono necessarie; nel secondo, dannose. E cominciando
a rendere ragione perché, nel secondo caso, le siano dannose, dico che quel
principe o quella republica che ha paura de' sudditi suoi e della rebellione
loro, prima conviene che tale paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi
seco; l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono o da potere
credere tenergli con forza, o da poca prudenza di chi gli governa: ed una
delle cose che fa credere potergli forzare, è l'avere loro addosso le
fortezze; perché e' mali trattamenti, che sono cagione dell'odio, nascono in
buona parte per avere quel principe o quella republica le fortezze: le quali,
quando sia vero questo, di gran lunga sono più nocive che utili.
Perché in prima, come è detto, le ti fanno essere più audace e
più violento ne' sudditi; dipoi, non vi è quella
sicurtà, dentro, che tu ti persuadi: perché tutte le forze, tutte le
violenze che si usono per tenere uno popolo, sono nulla, eccetto che due; o
che tu abbia sempre da mettere in campagna uno buono esercito, come avevano i
Romani, o che gli dissipi, spenga, disordini e disgiunga, in modo che non
possano convenire a offenderti. Perché, se tu gl'impoverisci, "spoliatis
arma supersunt"; se tu gli disarmi, "furor arma ministrat"; se
tu ammazzi i capi, e gli altri segui d' ingiuriare, rinascono i capi, come
quelli della Idra, se tu fai le fortezze, le sono utili ne' tempi di pace,
perché ti dànno più animo a fare loro male ma ne' tempi di
guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico e da' sudditi,
né è possibile che le faccino resistenza ed all'uno ed all'altro. E se
mai furono disutili, sono, ne' tempi nostri, rispetto alle artiglierie; per
il furore delle quali i luoghi piccoli e dove altri non si possa ritirare con
gli ripari, è impossibile difendere, come di sopra discorremo. Io voglio questa materia
disputarla più tritamente. O tu, principe, vuoi con queste fortezze
tenere in freno il popolo della tua città; o tu, principe, o
republica, vuoi frenare una città occupata per guerra. Io mi voglio
voltare al principe, e gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i
suoi cittadini, non può essere più inutile per le cagioni dette
di sopra; perché la ti fa più pronto e men rispettivo a oppressargli;
e quella oppressione gli fa sì disposti alla tua rovina, e gli accende
in modo, che quella fortezza, che ne è cagione, non ti può poi
difendere. Tanto che un principe savio e buono, per mantenersi buono, per non
dare cagione né ardire a' figliuoli di diventare tristi, mai non farà
fortezza, acciocché quelli, non in su le fortezze, ma in su la benivolenza
degli uomini si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca di
Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una fortezza, dico che
in questo ei non fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale fortezza fu a danno,
e non a sicurtà de' suoi eredi. Perché giudicando mediante quella
vivere sicuri, e potere offendere i cittadini e sudditi loro, non perdonarono
a alcuna generazione di violenza; talché, diventati sopra modo odiosi,
perderono quello stato come prima il nimico gli assaltò: né quella
fortezza gli difese, né fece loro nella guerra utile alcuno, e nella pace
aveva fatto loro danno assai. Perché se non avessono avuto quella, e se per
poca prudenza avessono agramente maneggiati i loro cittadini, arebbono scoperto
il pericolo più tosto, e sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto
più animosamente resistere allo impeto francioso, co' sudditi amici
sanza fortezza, che, con quelli inimici, con la fortezza: le quali non ti
giovano in alcuna parte; perché, o le si perdono per fraude di chi le guarda,
o per violenza di chi le assalta, o per fame. E se tu vuoi che le ti giovino,
e ti aiutino ricuperare uno stato perduto, dove ti sia rimasa solo la
fortezza; ti conviene avere uno esercito, con il quale tu possa assaltare
colui che ti ha cacciato: e quando tu abbi questo esercito, tu riaresti lo
stato in ogni modo, eziandio la fortezza non vi fosse; e tanto più
facilmente, quanto gli uomini ti fossono più amici che non ti erano
avendogli male trattati per l'orgoglio della fortezza. E per isperienza si
è visto, come questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi né a'
Franciosi, ne' tempi avversi dell'uno e dell'altro, non ha fatto a alcuno di
loro utile alcuno, anzi a tutti ha arrecato danno e rovine assai, non avendo
pensato, mediante quella, a più onesto modo di tenere quello stato.
Guidubaldo duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi tempi tanto
stimato capitano, sendo cacciato da Cesare Borgia, figliuolo di papa
Alessandro VI, dello stato; come dipoi, per uno accidente nato, vi
ritornò, fece rovinare tutte le fortezze che erano in quella
provincia, giudicandole dannose. Perché, sendo quello amato dagli uomini, per
rispetto di loro non le voleva; e, per conto de' nimici, vedeva non le potere
difendere, avendo quelle bisogno d'uno esercito in campagna, che le
difendesse: talché si volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i Bentivogli di
Bologna fece in quella città una fortezza; e dipoi faceva assassinare
quel popolo da uno suo governatore: talché quel popolo si ribellò; e
subito perdé la fortezza; e così non gli giovò la fortezza; e
l'offese, intanto che, portandosi altrimenti, gli arebbe giovato.
Niccolò da Castello, padre de' Vitelli, tornato nella sua patria donde
era esule, subito disfece due fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV,
giudicando, non la fortezza, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere
in quello stato. Ma di tutti gli altri esempli il più fresco ed il
più notabile in ogni parte ed atto a mostrare la inutilità dello
edificarle e l'utilità del disfarle, è quello di Genova,
seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507, Genova si
ribellò da Luigi XII re di Francia, il quale venne personalmente e con
tutte le forze sue a riacquistarla; e ricuperata che la ebbe, fece una
fortezza, fortissima di tutte le altre delle quali al presente si avesse
notizia: perché era, per sito e per ogni altra circunstanza, inespugnabile,
posta in su una punta di colle che si estende nel mare, chiamato da' Genovesi
Codefà; e, per questo, batteva tutto il porto e gran parte della
città di Genova. Occorse poi, nel 1512, che, sendo cacciate le genti
franciose d'Italia, Genova, nonostante la fortezza, si ribellò, e
prese lo stato di quella Ottaviano Fregoso; il quale con ogni industria, in termine
di sedici mesi, per fame la espugnò. E ciascuno credeva, e da molti
n'era consigliato, che la conservasse per suo refugio in ogni accidente; ma
esso, come prudentissimo, conoscendo che non le fortezze, ma la
volontà degli uomini mantenevono i principi in stato, la rovinò.
E così, sanza fondare lo stato suo in su la fortezza, ma in su la
virtù e prudenza sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a variare lo stato
di Genova solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi lo hanno assaltato
con diecimila, e non lo hanno potuto offendere. Vedesi adunque per questo,
come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il farla non difese
il re. Perché, quando ei potette venire in Italia con lo esercito, ei potette
ricuperare Genova, non vi avendo fortezza; ma quando ei non potette venire in
Italia con lo esercito, ei non potette tenere Genova, avendovi la fortezza.
Fu, adunque, di spesa a il re il farla, e vergognoso il perderla; a
Ottaviano, glorioso il riacquistarla, ed utile il rovinarla. Ma vegnamo alle republiche che
fanno le fortezze non nella patria, ma nelle terre che le acquistano. Ed a
mostrare questa fallacia, quando e' non bastasse lo esemplo detto, di Francia
e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i Fiorentini fecero le
fortezze per tenere quella città; e non conobbero che una città
stata sempre inimica del nome fiorentino, vissuta libera, e che ha alla
rebellione per rifugio la libertà, era necessario, volendola tenere,
osservare il modo romano; o farsela compagna, o disfarla. Perché la virtù
delle fortezze si vide nella venuta del re Carlo; al quale si dettono o per
poca fede di chi le guardava o per timore di maggiore male: dove, se le non
fussono state, i Fiorentini non arebbero fondato il potere tenere Pisa sopra
quelle, e quel re non arebbe potuto per quella via privare i Fiorentini di
quella città; e i modi con gli quali si fusse mantenuta infino a quel
tempo, sarebbono stati per avventura sufficienti conservarla, e sanza dubbio
non arebbero fatto più cattiva prova che le fortezze. Conchiudo
adunque, che, per tenere la patria propria, la fortezza è dannosa; per
tenere le terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e voglio mi
basti l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre che volevano tenere
con violenza, smuravano, e non muravano. E chi contro a questa opinione mi
allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne' moderni Brescia, i quali luoghi
mediante le fortezze furono recuperati dalla ribellione de' sudditi, rispondo
che alla ricuperazione di Taranto, in capo di uno anno, fu mandato Fabio Massimo
con tutto lo esercito, il quale sarebbe stato atto a ricuperarlo eziandio se
non vi fusse stata la fortezza, e se Fabio usò quella via, quando la
non vi fusse stata, ne arebbe usata un'altra che arebbe fatto il medesimo
effetto. Ed io non so di che utilità sia una fortezza che, a renderti
la terra, abbia bisogno, per la ricuperazione d'essa, d'uno esercito
consolare e d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i Romani l'avessono
ripresa in ogni modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non era fortezza,
e per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia.
Dico, come rade volte occorre quello che occorse in quella rebellione, che la
fortezza che rimane nelle forze tua, sendo ribellata la terra, abbi uno
esercito grosso e propinquo, come era quel de' Franciosi: perché, sendo
monsignor di Fois, capitano del re, con lo esercito a Bologna, intesa la
perdita di Brescia, sanza differire ne andò a quella volta, ed in tre
giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto, ancora
la fortezza di Brescia, a volere che la giovasse, bisogno d'un monsignor di
Fois, e d'uno esercito francioso che in tre dì la soccorresse.
Sì che lo esemplo di questo, allo incontro delli esempli contrari, non
basta; perché assai fortezze sono state, nelle guerre de' nostri tempi, prese
e riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e presa la
campagna, non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel regno di Napoli, e
per tutte le parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare fortezze per difendersi
da' nimici di fuori, dico che le non sono necessarie a quelli popoli ed a
quelli regni che hanno buoni eserciti; ed a quegli che non hanno buoni
eserciti, sono inutili: perché i buoni eserciti sanza le fortezze sono
sofficienti a difendersi; le fortezze sanza i buoni eserciti non ti possono
difendere. E questo si vede per isperienza di quegli che sono stati e ne'
governi e nell'altre cose tenuti eccellenti; come si vede de' Romani e degli
Spartani: che, se i Romani non edificavano fortezze, gli Spartani, non
solamente si astenevano da quelle, ma non permettevano di avere mura alle
loro città; perché volevono che la virtù dell'uomo particulare,
non altro defensivo, gli difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle, gli
rispose: - Sì, s'elle fussono abitate da donne -. Quello principe,
adunque, che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine e alla fronte dello
stato suo abbia qualche fortezza che possa qualche dì sostenere el
nimico infino che sia a ordine, sarebbe cosa utile, qualche volta, ma non
è necessaria. Ma quando il principe non ha buono esercito, avere le
fortezze per il suo stato, o alle frontiere, gli sono o dannose o inutili:
dannose, perché facilmente le perde, e perdute gli fanno guerra; o, se pure
le fussono sì forti che il nimico non le potessi occupare, sono
lasciate indietro dallo esercito inimico, e vengono a essere di nessuno
frutto; perché i buoni eserciti, quando non hanno gagliardissimo riscontro,
entrano ne' paesi inimici sanza rispetto di città o di fortezze che si
lascino indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece
Francesco Maria, il quale, ne' prossimi tempi, per assaltare Urbino si
lasciò indietro dieci città inimiche, sanza alcuno rispetto.
Quel principe, adunque, che può fare buono esercito, può fare
sanza edificare fortezze; quello che non ha lo esercito buono, non debbe
edificarle. Debbe bene afforzare la città dove abita, e tenerla
munita, e bene disposti i cittadini di quella, per potere sostenere tanto uno
impeto inimico, o che accordo o che aiuto esterno lo liberi. Tutti gli altri
disegni sono di spesa ne' tempi di pace, ed inutili ne' tempi di guerra. E
così, chi considererà tutto quello ho detto, conoscerà i
Romani, come savi in ogni altro loro ordine, così furono prudenti in
questo giudizio de' Latini e de' Privernati; dove, non pensando a fortezze,
con più virtuosi modi e più savi se ne assicurarono. Capitolo 25 Che lo assaltare una
città disunita, per occuparla mediante la sua disunione,
è partito contrario. Era tanta disunione nella
Republica romana intra la Plebe e la Nobilità, che i Veienti, insieme
con gli Etrusci, mediante tale disunione, pensarono potere estinguere il nome
romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò
il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo condotto
il loro esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i
Veienti, e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano:
e fu tanta la loro temerità ed insolenzia, che i Romani, di disuniti
diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano e vinsono. Vedesi
pertanto, quanto gli uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel
pigliare de' partiti; e come molte volte credono guadagnare una cosa, e la
perdono. Credettono i Veienti, assaltando i Romani disuniti, vincergli; e
quello assalto fu cagione della unione di quegli, e della rovina loro. Perché
la cagione della disunione delle republiche il più delle volte
è l'ozio e la pace; la cagione della unione è la paura e la
guerra. E però, se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero,
quanto più disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la
guerra discosto, e con l'arti della pace cerco di oppressargli. Il modo è
cercare di diventare confidente di quella città che è disunita;
ed infino che non vengono all'armi, come arbitro maneggiarsi intra le parti.
Venendo alle armi, dare lenti favori alla parte più debole; sì
per tenergli più in su la guerra, e fargli consumare; sì perché
le assai forze non gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli e
diventare loro principe. E quando questa parte è governata bene,
interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti hai
presupposto. La città di Pistoia, come in altro discorso ed a altro
proposito dissi, non venne sotto alla Republica di Firenze con altra arte che
con questa: perché sendo quella divisa, e favorendo i Fiorentini ora l'una
parte ora l'altra, sanza carico dell'una e dell'altra la condussono in termine,
che, stracca in quel suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi
in le braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato stato,
col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi.
Perché, quando ei sono stati assai e gagliardi, hanno fatto quella
città unita alla difesa di quello stato che regge. Io voglio
aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti, duca di
Milano, più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni
loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi delle
sue imprese, come le pazzie de' Fiorentini gli avevano fatto spendere
inutilmente due milioni d'oro. Restarono adunque, come di sopra si dice,
ingannati i Veienti e gli Toscani da questa opinione, e furano alfine in una
giornata superati da' Romani. E così per lo avvenire ne resterà
ingannato qualunque per simile via e per simile cagione crederrà
oppressare uno popolo. Capitolo 26 Il vilipendio e l'improperio
genera odio contro a coloro che l'usano,
sanza alcuna loro utilità. Io credo che sia una delle
grandi prudenze che usono gli uomini, astenersi o dal minacciare o dallo
ingiuriare alcuno con le parole: perché l'una cosa e l'altra non tolgono
forze al nimico; ma l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere
maggiore odio contro di te, e pensare con maggiore industria di offenderti.
Vedesi questo per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si
è discorso; i quali alla ingiuria della guerra, aggiunsono, contro a' Romani,
l'obbrobrio delle parole; dal quale ogni capitano prudente debbe fare
astenere i suoi soldati; perché le sono cose che infiammano ed accendano il
nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come è
detto, alla offesa; tanto che le sono tutte armi che vengono contro a te. Di
che ne seguì già uno esemplo notabile in Asia: dove Gabade,
capitano de' Persi, essendo stato a campo a Amida più tempo, ed avendo
deliberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi già
con il campo, quegli della terra, venuti tutti in su le mura, insuperbiti
della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria,
vituperando, accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del
nimico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio; e ritornato alla
ossidione tanta fu la indegnazione della ingiuria, che in pochi giorni gli
prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti: a' quali,
come è detto, non bastando il fare guerra a' Romani, ancora con le
parole gli vituperarono, ed andando infino in su lo steccato del campo a dire
loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le parole che con le armi:
e quegli soldati che prima combattevano mal volentieri, costrinsero i Consoli
a appiccare la zuffa, talché i Veienti portarono la pena, come gli antedetti,
della contumacia loro. Hanno dunque i buoni principi di eserciti, ed i buoni
governatori di republica, a fare ogni opportuno rimedio, che queste ingiurie
e rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo, né infra
loro, né contro al nimico: perché, usati contro al nimico, ne riescono
gl'inconvenienti soprascritti; infra loro, farebbero peggio, non vi si
riparando, come vi hanno sempre gli uomini prudenti riparato. Avendo le
legioni romane, state lasciate a Capova, congiurato contro a' Capovani, come
nel suo luogo si narrerà; ed essendone di questa congiura nata una
sedizione, la quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le altre
constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a
coloro che rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione.
Tiberio Gracco, fatto, nella guerra di Annibale, capitano sopra certo numero
di servi che i Romani, per carestia d'uomini, avevano armati, ordinò,
intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse la servitù
a alcuno di loro. Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si è
detto, cosa dannosa il vilipendere gli uomini ed il rimproverare loro alcuna
vergogna; perché non è cosa che accenda tanto gli animi loro, né
generi maggiore isdegno, o da vero o da beffe che si dica: "Nam facetiae
asperae, quando nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam relinquunt". Capitolo 27 Ai principi e republiche
prudenti debbe bastare vincere; perché, il più delle
volte, quando e' non basta, si perde. Lo usare parole contro al nimico
poco onorevoli, nasce il più delle volte da una insolenzia che ti
dà o la vittoria o la falsa speranza della vittoria; la quale falsa
speranza fa gli uomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello
operare. Perché questa speranza, quando la entra ne' petti degli uomini, fa
loro passare il segno; e perdere, il più delle volte, quella occasione
dell'avere uno bene certo, sperando di avere un meglio incerto. E perché
questo è un termine che merita considerazione, ingannandocisi dentro gli
uomini molto spesso, e con danno dello stato loro, e' mi pare da dimostrarlo
particularmente con esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni
così distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i
Romani a Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a significare la
vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi in Senato di quello che si avesse a
fare. Consigliava Annone, uno vecchio e prudente cittadino cartaginese, che
si usasse questa vittoria saviamente in fare pace con i Romani, potendola
avere con condizioni oneste, avendo vinto; e non si aspettasse di averla a
fare dopo la perdita: perché la intenzione de' Cartaginesi doveva essere,
mostrare a' Romani come e' bastavano a combatterli; ed avendosene avuto
vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza d'una maggiore. Non fu
preso questo partito; ma fu bene poi, dal Senato cartaginese, conosciuto
savio, quando la occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno già
preso tutto l'oriente, la republica di Tiro, nobile in quelli tempi, e
potente per avere la loro città in acqua come i Viniziani, veduta la
grandezza di Alessandro, gli mandarono oratori a dirli, come volevano essere
suoi buoni servidori e darli quella ubbidienza voleva, ma che non erano
già per accettare né lui né sue genti nella terra; donde sdegnato
Alessandro, che una città gli volesse chiudere quelle porte che tutto
il mondo gli aveva aperte, gli ributtò, e, non accettate le condizioni
loro vi andò a campo. Era la terra in acqua, e benissimo, di
vettovaglie e di altre munizioni necessarie alla difesa, munita: tanto che
Alessandro, dopo quattro mesi, si avvide che una città gli toglieva
quel tempo alla sua gloria che non gli avevano tolto molti altri acquisti; e
diliberò di tentare lo accordo, e concedere loro quello che per loro
medesimi avevano domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti, non solamente non
vollero accettare lo accordo, ma ammazzarono chi venne a praticarlo. Di che
Alessandro sdegnato, con tanta forza si misse alla ispugnazione, che la
prese, disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli uomini. Venne, nel 1512, uno esercito
spagnuolo in sul dominio fiorentino per rimettere i Medici in Firenze, e
taglieggiare la città, condotti da cittadini d'entro, i quali avevano
dato loro speranza, che, subito fussono in sul dominio fiorentino, piglierebbero
l'armi in loro favore; ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo
alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l'accordo: di che
insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne nacque la
perdita di Prato, e la rovina di quello stato. Non possono, pertanto, i
principi, che sono assaltati, fare il maggiore errore, quando lo assalto
è fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che
recusare ogni accordo, massime quando egli è offerto: perché non
sarà mai offerto sì basso, che non vi sia dentro in qualche
parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà parte della
sua vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di Tiro, che Alessandro
accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima rifiutate ed era assai vittoria
la loro, quando con l'arme in mano avevano fatto condiscendere uno tanto uomo
alla voglia loro. Doveva bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era
assai vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie di
quello e le sue non adempiva tutte: perché la intenzione di quello esercito
era mutare lo stato in Firenze, levarlo dalla divozione di Francia, e trarre
da lui danari. Quando di tre cose e' ne avesse avute due, che son l'ultime,
ed al popolo ne fusse restata una, che era la conservazione dello stato suo,
ci aveva dentro ciascuno qualche onore e qualche satisfazione: né si doveva
il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né doveva volere, quando
bene egli avesse veduta maggiore vittoria, e quasi certa, mettere quella in
alcuna parte a discrezione della fortuna, andandone l'ultima posta sua: la
quale qualunque prudente mai arrischierà se non necessitato. Annibale,
partito d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi
Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface;
trovò perduto il regno di Numidia e ristretta Cartagine intra i
termini delle sue mura, alla quale non restava altro refugio che esso e lo
esercito suo. Conoscendo come quella era l'ultima posta della sua patria, non
volle prima metterla a rischio, ch'egli ebbe tentato ogni altro rimedio; e
non si vergognò di domandare la pace, giudicando, se alcuno rimedio
aveva la sua patria, era in quella e non nella guerra: la quale sendogli poi
negata, non volle mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere
pur vincere, o, perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale era
tanto virtuoso ed aveva il suo esercito intero, cercò prima la pace
che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo quella, la sua patria diveniva
serva, che debbe fare un altro di manco virtù e di manco isperienza di
lui? Ma gli uomini fanno questo errore, che non sanno porre termini alle
speranze loro; ed in su quelle fondandosi, sanza misurarsi altrimenti,
rovinano. Capitolo 28 Quanto sia pericoloso a una
republica o a uno principe non vendicare una ingiuria fatta
contro al publico o contro al privato. Quello che facciano fare gli
sdegni agli uomini, facilmente si conosce per quello che avvenne ai Romani quando
ei mandarono i tre Fabii oratori a' Franciosi, che erano venuti a assaltare
la Toscana, ed in particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il popolo di
Chiusi per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani mandarono ambasciadori
a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano, significassero loro che si
astenessero di fare guerra a' Toscani. I quali oratori, sendo in su 'l luogo,
e più atti a fare che a dire, venendo i Franciosi ed i Toscani alla
zuffa, si messero in tra i primi a combattere contro a quelli: onde ne nacque
che, essendo conosciuti da loro, tutto lo sdegno avevano contro a' Toscani,
volsero contro a' Romani. Il quale sdegno diventò maggiore, perché,
avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con il Senato romano
di tale ingiuria, e domandato che in soddisfazione del danno fussino loro
dati i soprascritti Fabii, non solamente non furono consegnati loro, o in
altro modo gastigati, ma venendo i comizi, furono fatti Tribuni con
potestà consolare. Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che
dovevano essere puniti, ripresono tutto essere fatto in loro dispregio e
ignominia; ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a assaltare Roma, e quella
presono, eccetto il Campidoglio. La quale rovina nacque ai Romani solo per la
inosservanza della giustizia; perché, avendo peccato i loro ambasciatori
"contra ius gentium", e dovendo esserne gastigati, furono onorati.
Però è da considerare quanto ogni republica ed ogni principe
debbe tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente contro a una universalità,
ma ancora contro a uno particulare. Perché, se uno uomo è offeso
grandemente o dal publico o dal privato e non sia vendicato secondo la
soddisfazione sua; se e' vive in una republica, cerca, ancora che con la
rovina di quella, vendicarsi; se e' vive sotto un principe, ed abbi in sé
alcuna generosità, non si acquieta mai, in fino che in qualunque modo
si vendichi contro a di colui, come che egli vi vedesse, dentro, il suo
proprio male. Per verificare questo, non ci
è il più bello né il più vero esemplo che quello di
Filippo re di Macedonia, padre d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte
Pausania, giovane bello e nobile, del quale era inamorato Attalo, uno de'
primi uomini che fusse presso a Filippo ed avendolo più volte ricerco
che dovesse acconsentirgli, e trovandolo alieno da simili cose,
diliberò di avere con inganno e per forza quello che, per altro verso,
vedea di non potere avere. E fatto uno solenne convito, nel quale Pausania e
molti altri nobili baroni convennero, fece, poi che ciascuno fu pieno di
vivande e di vino, prendere Pausania, e, condottolo allo stretto, non
solamente per forza sfogò la sua libidine, ma ancora, per maggiore
ignominia, lo fece da molti degli altri in simile modo vituperare. Della
quale ingiuria Pausania si dolse più volte con Filippo; il quale,
avendolo tenuto un tempo in speranza di vendicarlo, non solamente non lo
vendicò, ma prepose Attalo al governo d'una provincia di Grecia: donde
che Pausania, vedendo il suo nimico onorato e non gastigato, volse tutto lo
sdegno suo, non contro a quello che gli aveva fatto ingiuria, ma contro a
Filippo che non lo aveva vendicato. Ed una mattina solenne, in su le nozze
della figliuola di Filippo, ch'egli aveva maritata a Alessandro di Epiro,
andando Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri, genero
e figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è molto simile a
quello de' Romani, e notabile a qualunque governa: che mai non debbe tanto
poco stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo ingiuria sopra ingiuria, che
colui che è ingiuriato non pensi di vendicarsi con ogni suo pericolo e
particulare danno. Capitolo 29 La fortuna acceca gli animi
degli uomini, quando la non vuole che quegli si
opponghino a' disegni suoi. Se e' si considererà bene
come procedono le cose umane, si vedrà molte volte nascere cose e
venire accidenti, a' quali i cieli al tutto non hanno voluto che si
provvegga. E quando, questo che io dico, intervenne a Roma, dove era tanta
virtù, tanta religione e tanto ordine, non è maraviglia che gli
intervenga molto più spesso in una città o in una provincia che
manchi delle cose sopradette. E perché questo luogo è notabile assai,
a dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane, Tito Livio largamente
e con parole efficacissime lo dimostra: dicendo come, volendo il cielo a
qualche fine, che i Romani conoscessono la potenza sua, fece prima errare
quegli Fabii che andarono oratori a' Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli
concitò a fare guerra a Roma; dipoi ordinò, che, per reprimere
quella guerra, non si facesse in Roma alcuna cosa degna del Popolo romano;
avendo prima ordinato che Cammillo, il quale poteva essere solo unico remedio
a tanto male, fusse mandato in esilio a Ardea; dipoi, venendo i Franciosi
verso Roma, coloro che, per rimediare allo impeto de' Volsci ed altri
finitimi loro inimici, avevano creato molte volte uno Dittatore, venendo i
Franciosi, non lo crearono. Ancora nel fare la elezione de' soldati, la
fecioro debole e sanza alcuna istraordinaria diligenza; e furono tanto pigri
al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra
il fiume di Allia, discosto a Roma dieci miglia. Quivi i Tribuni posero il
loro campo, sanza alcuna consueta diligenza; non prevedendo il luogo prima, e
non si circundando con fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio umano
e divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi e deboli: in modo
che né i soldati né i capitani fecero cosa degna della romana disciplina.
Combattessi poi sanza alcuno sangue; perché ei fuggirono prima che fussono
assaltati, e la maggior parte se n'andò a Veio, l'altra si
ritirò a Roma; i quali, sanza entrare altrimenti nelle case loro, se
ne entrarono in Campidoglio: in modo che il Senato, sanza pensare di
difendere Roma, non chiuse, non che altro, le porte; e parte se ne
fuggì, parte con gli altri se ne entrarono in Campidoglio. Pure, nel
difendere quello, usarono qualche ordine non tumultuario; perché ei non
aggravarono quello di gente inutile; messonvi tutti i frumenti che poterono,
acciocché potessono sopportare l'ossidione; e della turba inutile de' vecchi,
delle donne e de' fanciugli, la maggior parte se ne fuggì nelle terre
circunvicine, il rimanente restò in Roma in preda de' Franciosi.
Talché, chi avesse letto le cose fatte da quel popolo tanti anni innanzi, e
leggessi dipoi quelli tempi, non potrebbe a nessuno modo credere che fusse
stato uno medesimo popolo. E detto che Tito Livio ha tutti e' sopradetti
disordini, conchiude dicendo: "Adeo obcaecat animos fortuna, cum vim
suam ingruentem refringi non vult". Né può più essere vera
questa conclusione: onde gli uomini che vivono ordinariamente nelle grandi
avversità o prosperità, meritano manco laude o manco biasimo.
Perché il più delle volte si vedrà quelli a una rovina ed a una
grandezza essere stati convinti da una commodità grande che gli hanno
fatto i cieli, dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare
virtuosamente. Fa bene la fortuna questo, che
la elegge uno uomo, quando la voglia condurre cose grandi, che sia di tanto
spirito e di tanta virtù, che ei conosca quelle occasioni che la gli
porge. Così medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine,
ella vi prepone uomini che aiutino quella rovina. E se alcuno fusse che vi
potesse ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcuno bene. Conoscesi questo benissimo per questo testo, come
la fortuna, per fare maggiore Roma, e condurla a quella grandezza venne,
giudicò fussi necessario batterla (come a lungo nel principio del
seguente libro discorrereno), ma non volle già in tutto rovinarla. E
per questo si vede che la fece esulare, e non morire, Cammillo; fece pigliare
Roma, e non il Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma,
non pensassono alcuna cosa buona; per difendere poi il Campidoglio, non
mancarono di alcuno buono ordine. Fece, perché Roma fusse presa, che la
maggior parte de' soldati che furono rotti a Allia, se ne andorono a Veio; e
così, per la difesa della città di Roma, tagliò tutte le
vie. E nell'ordinare questo, preparò ogni cosa alla sua ricuperazione;
avendo condotto uno esercito romano intero a Veio, e Cammillo a Ardea, da
potere fare grossa testa, sotto uno capitano non maculato d'alcuna ignominia
per la perdita, ed intero nella sua riputazione per la recuperazione della patria
sua. Sarebbeci da addurre in
confermazione delle cose dette qualche esemplo moderno; ma, per non gli
giudicare necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli lascereno
indietro. Affermo, bene, di nuovo,questo essere verissimo, secondo che per tutte
le istorie si vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non
opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene,
non si abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando quella
per vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si
abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si truovino. Capitolo 30 Le republiche e gli principi
veramente potenti non comperono l'amicizie con
danari, ma con la virtù e con la
riputazione delle forze. Erano i Romani assediati nel
Campidoglio, e ancora ch'eglino aspettassono il soccorso da Veio e da
Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono a composizione con i Franciosi
di ricomperarsi certa quantità d'oro; e sopra tale convenzione pesandosi
di già l'oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che fece,
dice lo istorico, la fortuna, "ut Romani auro redempti non
viverent". La quale cosa non solamente è notabile in questa
parte, ma etiam nel processo delle azioni di questa Republica; dove si vede
che mai acquistarono terre con danari, mai feciono pace con danari, ma sempre
con la virtù dell'armi: il che non credo sia mai intervenuto a alcuna
altra republica. Ed intra gli altri segni per gli quali si conosce la potenza
d'uno stato forte, è vedere come egli vive con gli vicini suoi. E
quando ei si governa in modo che i vicini, per averlo amico, sieno suoi
pensionari, allora è certo segno che quello stato è potente: ma
quando detti vicini, ancora che inferiori a lui, traggono da quello danari,
allora è segno grande della debolezza di quello. Legghinsi tutte le istorie
romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, i Rodiani, Ierone siracusano,
Eumene e Massinissa regi, i quali tutti erano vicini ai confini dello imperio
romano, per avere l'amicizia di quello concorrevono a spese ed a tributi ne'
bisogni d'esso, non cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al
contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal nostro di
Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore riputazione, non era
signorotto in Romagna che non avessi da quello provvisione; e di più
la dava a' Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri suoi vicini. Che se
questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe tutto ito per il
contrario; perché molti, per avere la protezione di essa, arebbono dato
danari a lei; e cerco, non di vendere la loro amicizia, ma di comperare la
sua. Né sono in questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i
Viniziani, ed il re di Francia, il quale, con un tanto regno, vive tributario
di Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il che tutto nasce dallo avere disarmati
i popoli suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e gli altri
prenominati, godersi un presente utile, di potere saccheggiare i popoli, e
fuggire uno immaginato più tosto che vero pericolo, che fare cose che
gli assicurino, e faccino i loro stati felici in perpetuo. Il quale
disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione col
tempo di necessità, di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo
raccontare quante volte i Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono
ricomperati in su le guerre, e quante volte ei si sono sottomessi a una
ignominia; a che i Romani una sola volta furono per sottomettersi. Sarebbe
lungo raccontare quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate: di
che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano con
l'oro, non si sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani questa
generosità e questo modo di vivere, mentre che ei vissono liberi; ma
poi che gli entrarono sotto gl'imperadori, e che gl'imperadori cominciarono a
essere cattivi, ed amare più l'ombra che il sole, cominciarono ancora
essi a ricomperarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli
convicini: il che fu principio della rovina di tanto Imperio. Procedono, pertanto, simili
inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi popoli: di che ne risulta uno
altro, maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa, tanto ti
truova più debole. Perché chi vive ne' modi detti di sopra, tratta
male quelli sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che sono
in su i confini dello imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il
nimico discosto. Da questo nasce che, per tenerlo più discosto, ei
dà provvisione a quelli signori e popoli che sono propinqui ai confini
suoi. Donde nasce che questi stati così fatti fanno un poco di
resistenza in sui confini, ma, come il nimico gli ha passati, ei non hanno
rimedio alcuno. E non si avveggono, come questo modo del loro procedere
è contro a ogni buono ordine. Perché il cuore e le parti vitali d'uno
corpo si hanno a tenere armate, e non le estremità d'esso; perché
sanza quelle si vive, e, offeso questo, si muore: e questi stati tengono il
cuore disarmato, e le mani e li piedi armati. Quello che abbia fatto questo
disordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni dì: e come uno
esercito passa i confini, e che gli entra dentro propinquo al cuore, non
truova più alcuno rimedio. De' Viniziani si vide, pochi anni sono, la
medesima pruova; e se la loro città non era fasciata dalle acque, se
ne sarebbe veduto il fine. Questa isperienza non si è vista sì
spesso in Francia, per essere quello sì gran regno, ch'egli ha pochi
inimici superiori: nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513, assaltarono
quel regno, tremò tutta quella provincia: ed il re medesimo, e
ciascuno altro, giudicava che una rotta sola gli potessi tôrre il regno e lo
stato. Ai Romani interveniva il contrario; perché, quanto più il
nimico s'appressava a Roma, tanto più trovava potente quella
città a resistergli. E si vide nella venuta d'Annibale in Italia, che,
dopo tre rotte e dopo tante morti di capitani e di soldati, ei poterono, non
solo sostenere il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene
armato il cuore, e delle estremità tenere meno conto. Perché il
fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino, le altre
terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei traevano tanti soldati,
che furono sufficienti con quegli a combattere e tenere il mondo. E che sia
vero, si vede per la domanda che fece Annone cartaginese a quelli oratori
d'Annibale dopo la rotta di Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte
da Annibale, furono domandati da Annone, se del popolo romano alcuno era
venuto a domandare pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna terra si
era ribellata dai Romani; e negando quegli l'una e l'altra cosa,
replicò Annone: - Questa guerra è ancora intera come prima -. Vedesi, pertanto, e per questo
discorso, e per quello che più volte abbiamo altrove detto, quanta
diversità sia, dal modo del procedere delle republiche presenti, a
quello delle antiche. Vedesi ancora, per questo, ogni dì, miracolose
perdite e miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca
virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua; e, perché la è
varia, variano le republiche e gli stati spesso; e varieranno sempre, infino
che non surga qualcuno che sia della antichità tanto amatore, che la
regoli in modo, che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto
ella puote. Capitolo 31 Quanto sia pericoloso credere
agli sbanditi. E' non mi pare fuori di
proposito ragionare, intra questi altri discorsi, quanto sia cosa pericolosa
credere a quelli che sono cacciati della patria sua, essendo cose che
ciascuno dì si hanno a praticare da coloro che tengono stati; potendo,
massime, dimostrare questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito Livio
nelle sue istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando
Alessandro Magno passò con lo esercito suo in Asia, Alessandro di
Epiro, cognato e zio di quello, venne con gente in Italia, chiamato dagli
sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe, mediante loro,
occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza
loro venuto in Italia fu morto da quelli, sendo loro promessa la ritornata
nella patria dai loro cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare,
pertanto, quanto sia vana e la fede e le promesse di quelli che si truovano
privi della loro patria. Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che,
qualunque volta e' possano per altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella
patria loro, che lasceranno te ed accosterannosi a altri, nonostante
qualunque promesse ti avessono fatte. E quanto alle vane promesse e speranze,
egli è tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare in
casa, che ei credono naturalmente molte cose che sono false e molte a arte ne
aggiungano: talché, tra quello che ei credono e quello che ei dicono di
credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in su quella, o tu
fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu rovini. Io voglio per esemplo mi basti
Alessandro predetto, e di più Temistocle ateniese; il quale, essendo
fatto ribello, se ne fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse tanto,
quando ei volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla impresa. Le
quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o per
tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore fu fatto da
Temistocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi
errino coloro che, per minore virtù, si lasceranno più tirare
dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, uno principe andare
adagio a pigliare imprese sopra la relazione d'uno confinato, perché il
più delle volte se ne resta o con vergogna o con danno gravissimo. E
perché ancora rade volte riesce il pigliare le terre di furto, e per
intelligenzia che altri avesse in quelle, non mi pare fuora di proposito
discorrerne nel sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti modi i Romani le
acquistavano. Capitolo 32 In quanti modi i Romani
occupavano le terre. Essendo i Romani tutti volti
alla guerra, fecero sempremai quella con ogni vantaggio, e quanto alla spesa,
e quanto a ogni altra cosa che in essa si ricerca. Da questo nacque che si
guardarono da il pigliare le terre per ossidione; perché giudicavano questo
modo di tanta spesa e di tanto scommodo, che superassi di gran lunga la
utilità che dello acquisto si potessi trarre: e per questo pensarono
che fosse meglio e più utile soggiogare le terre per ogni altro modo
che assediandole, donde in tante guerre ed in tanti anni ci sono pochissimi
esempli di ossidioni fatte da loro. I modi, adunque, con i quali gli
acquistavano le città. erano o per espugnazione o per dedizione. La
espugnazione era o per forza e violenza aperta, o per forza mescolata con
fraude. La violenza aperta era o con assalto, sanza percuotere le mura (il
che loro chiamavano "aggredi urbem corona" perché con tutto lo
esercito circundavono la città, e da tutte le parti la combattevano);
e molte volte riuscì loro che in uno assalto pigliarono una
città, ancora che grossissima, come quando Scipione prese Cartagine
Nuova in Ispagna; o, quando questo assalto non bastava, si dirizzavano a
rompere le mura con arieti, o con altre loro machine belliche: o ei facevano
una cava, e per quella entravano nella città (nel quale modo presono
la città de' Veienti); o, per essere equali a quegli che difendevano
le mura, facevono torri di legname, o ei facevono argini di terra appoggiati
alle mura di fuori, per venire all'altezza d'esse sopra quegli. Contro a
questi assalti, chi difendeva la terra, nel primo caso, circa lo essere
assaltato intorno intorno, portava più subito pericolo, ed aveva
più dubbi rimedi: perché, bisognandogli in ogni luogo avere assai
difensori, o quegli ch'egli aveva non erano tanti che potessero o sopperire
per tutto o cambiarsi; o, se potevano, non erano tutti di equale animo a
resistere, e da una parte che fusse inchinata la zuffa, si perdevano tutti. Però
occorse, come io ho detto, che molte volte questo modo ebbe felice successo.
Ma quando non riusciva al primo, non lo ritentavono molto, per essere modo
pericoloso per lo esercito; perché, distendendosi in tanto spazio, restava
per tutto debole a potere resistere a una eruzione che quelli di dentro
avessono fatta; ed anche si disordinavano e straccavano i soldati; ma per una
volta ed allo improvviso tentavano tale modo. Quanto alla rottura delle mura,
si opponevano, come ne' presenti tempi, con ripari. E per resistere alle
cave, facevano una contracava, e per quella si opponevano al nimico, o con le
armi o con altri ingegni: intra i quali era questo, che gli empievano dogli
di penne, nelle quali appiccavano il fuoco, ed accesi gli mettevano nella
cava, i quali con il fumo e con il puzzo impedivano la entrata a' nimici. E
se con le torre gli assaltavano, s'ingegnavano con il fuoco rovinarle. E
quanto agli argini di terra, rompevano il muro da basso, dove lo argine
s'appoggiava, tirando dentro la terra che quegli di fuori vi ammontavano;
talché, ponendosi di fuora la terra, e levandosi di drento, veniva a non
crescere l'argine. Questi modi di espugnare non si possono lungamente
tentare: ma bisogna o levarsi da campo o cercare per altri modi vincere la
guerra; come fe' Scipione, quando, entrato in Africa, avendo assaltato Utica
e non gli riuscendo pigliarla, si levò da campo, e cercò di
rompere gli eserciti cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione, come fecero
a Veio, Capova, Cartagine e Ierusalem e simili terre, che per ossidione
occuparono. Quanto allo acquistare le terre per violenza furtiva, occorre
come intervenne di Palepoli, che per trattato di quelli di dentro i Romani la
occuparono. Di questa sorte espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono state
tentate molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo
impedimento rompe il disegno, e gl'impedimenti vengano facilmente. Perché, o
la congiura si scuopre innanzi che si venga allo atto, e scuopresi non con
molta difficultà, sì per la infedelità di coloro con chi
la è communicata, sì per la difficultà del praticarla,
avendo a convenire con i nimici, e con chi non ti è lecito, se non
sotto qualche colore, parlare. Ma quando la congiura non si scoprisse nel
maneggiarla, vi surgono poi, nel metterla in atto, mille difficultà.
Perché, o se tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si
guasta ogni cosa: se si lieva uno romore fortuito, come l'oche del
Campidoglio, se si rompe un ordine consueto; ogni minimo errore, ogni minima
fallacia che si piglia, rovina la impresa. Aggiungonsi a questo le tenebre
della notte, le quali mettono più paura a chi travaglia in quelle cose
pericolose. Ed essendo la maggiore parte degli uomini che si conducono a
simili imprese, inesperti del sito del paese, e de' luoghi dove ei sono
menati, si confondono, inviliscono ed implicano per ogni minimo e fortuito
accidente, ed ogni immagine falsa è per fargli mettere in volta. Né si
trovò mai alcuno che fosse più felice in queste ispedizioni fraudolente
e notturne, che Arato Sicioneo; il quale, quanto valeva in queste, tanto
nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime: il che si può
giudicare fosse più tosto per una occulta virtù che era in lui,
che perché in quelle naturalmente dovesse essere più felicità.
Di questi modi, adunque, se ne pratica assai, pochi se ne conduce alla
pruova, e pochissimi ne riescono. Quanto allo acquistare le terre
per dedizione, o le si danno volontarie, o forzate. La volontà nasce,
o per qualche necessità estrinseca che gli costringe a rifuggirtisi
sotto, come fece Capova ai Romani, o per desiderio di essere governati bene,
sendo allettati da il governo buono che quel principe tiene in coloro che se
gli sono, volontari, rimessi in grembo, come fecero i Rodiani, i Massiliensi
ed altre simile cittadi, che si dettono al Popolo romano. Quanto alla
dedizione forzata, o tale forza nasce da una lunga ossidione, come di sopra
è detto; o la nasce da una continova oppressione di scorrerie, di
predazioni, ed altri mali trattamenti; i quali volendo fuggire, una
città si arrende. Di tutti i modi detti, i Romani usarono più
questo ultimo che nessuno; ed attesono per più che quattrocento
cinquanta anni a straccare i vicini con le rotte e con le scorrerie, e
pigliare, mediante gli accordi, riputazione sopra di loro, come altre volte
abbiamo discorso. E sopra tale modo si fondarono sempre, ancora che gli
tentassino tutti; ma negli altri trovarono cose o pericolose o inutili.
Perché nella ossidione è la lunghezza e la spesa; nella espugnazione,
dubbio e pericolo; nelle congiure, la incertitudine. E viddono che con una
rotta di esercito inimico acquistavano un regno in un giorno; e, nel pigliare
per ossidione una città ostinata, consumavano molti anni. Capitolo 33 Come i Romani davano agli loro
capitani degli eserciti le commissioni libere. Io estimo che sia da
considerare, leggendo questa liviana istoria, volendone fare profitto, tutti
e' modi del procedere del Popolo e Senato romano. Ed intra le altre cose che
meritano considerazione, sono: vedere con quale autorità ei mandavano
fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de' quali
si vede l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si
riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre e di confirmare
le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio e potestà del
Consolo. Perché, deliberata ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra,
verbigrazia contro a' Latini, tutto il resto rimettevano nello arbitrio del
Consolo, il quale poteva o fare una giornata o non la fare, e campeggiare
questa o quell'altra terra, come a lui pareva. Le quali cose si verificano
per molti esempli, e massime per quello che occorse in una espedizione contro
a' Toscani. Perché, avendo Fabio consolo vinto quelli presso a Sutri, e
disegnando con lo esercito dipoi passare la selva Cimina ed andare in
Toscana, non solamente non si consigliò col Senato, ma non gliene
dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per aversi a fare in paese
nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si testifica ancora per le deliberazioni
che allo incontro di questo furono fatte dal Senato: il quale avendo intesa
la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che quello non pigliasse
partito di passare per le dette selve in Toscana, giudicando che fosse bene
non tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio due
Legati a fargli intendere non passasse in Toscana; i quali arrivarono ch'e'
vi era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di
impeditori della guerra tornarono ambasciadori dello acquisto e della gloria
avuta. E chi considererà bene questo termine, lo vedrà
prudentissimamente usato; perché, se il Senato avesse voluto che un Consolo
procedessi nella guerra di mano in mano, secondo che quello gli commetteva,
lo faceva meno circunspetto e più lento: perché non gli sarebbe paruto
che la gloria della vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il
Senato, con el consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di questo, il
Senato si obligava a volere consigliare una cosa che non se ne poteva
intendere; perché, nonostante che in quello fossono tutti uomini
esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in sul luogo e non
sappiendo infiniti particulari che sono necessari sapere, a volere
consigliare bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per questo
ei volevano che il Consolo per sé facesse, e che la gloria fosse tutta sua;
lo amore della quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo operare
bene. Questa parte si è più volentieri notata da me, perché io
veggo che le republiche de' presenti tempi, come è la Viniziana e
Fiorentina, la intendono altrimenti; e se gli loro capitani, provveditori o
commessari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere e
consigliare. Il quale modo merita quella laude che meritano gli altri, i
quali tutti insieme le hanno condotte ne' termini in che al presente si
truovano. LIBRO III Capitolo 1 A volere che una setta o una
republica viva lungamente, è necessario ritirarla
spesso verso il suo principio. Egli è cosa verissima,
come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle
vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che
non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non
altera, o, s'egli altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io
parlo de' corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che
quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro E
però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che
mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che, per qualche
accidente fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è
cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non
durano. Il modo del rinnovargli,
è, come è detto, ridurgli verso e' principii suoi. Perché tutti
e' principii delle sètte, e delle republiche e de' regni, conviene che
abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglio la prima
riputazione ed il primo augumento loro. E perché nel processo del tempo
quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la riduca al
segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi dottori di medicina
dicono, parlando de' corpi degli uomini, "quod quotidie aggregatur
aliquid, quod quandoque indiget curatione". Questa riduzione verso il
principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente estrinseco o per
prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come egli era necessario che
Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che la rinascesse e rinascendo
ripigliasse nuova vita e nuova virtù; e ripigliasse la osservanza
della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi.
Il che benissimo si comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che nel
trar fuori lo esercito contro ai Franciosi e nel creare e' Tribuni con la
potestà consolare, non osservorono alcuna religiosa cerimonia.
Così medesimamente, non solamente non punirono i tre Fabii, i quali
"contra ius gentium" avevano combattuto contro ai Franciosi, ma gli
crearono Tribuni. E debbesi facilmente presuppore, che dell'altre
constituzioni buone, ordinate da Romolo e da quegli altri principi prudenti,
si cominciasse a tenere meno conto che non era ragionevole e necessario a
mantenere il vivere libero. Venne, dunque, questa battitura estrinseca,
acciocché tutti gli ordini di quella città si ripigliassono, e si
mostrasse a quel popolo, non solamente essere necessario mantenere la
religione e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e fare
più conto della loro virtù che di quegli commodi che e' paresse
loro mancare, mediante le opere loro. Il che si vede che successe appunto;
perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica
religione loro; punirono quegli Fabii che avevano combattuto "contra ius
gentium"; ed appresso tanto stimorono la virtù e bontà di
Cammillo, che posposto, il Senato e gli altri, ogni invidia, rimettevano in
lui tutto il pondo di quella republica. È necessario, adunque, come
è detto, che gli uomini che vivono insieme in qualunque ordine, spesso
si riconoschino, o per questi accidenti estrinseci o per gl'intrinseci. E
quanto a questi, conviene che nasca o da una legge, la quale spesso rivegga
il conto agli uomini che sono in quel corpo; o veramente da uno uomo buono
che nasca fra loro, il quale con i suoi esempli e con le sue opere virtuose
faccia il medesimo effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene
nelle republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno
ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Republica
romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i Censori, e
tutte l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed alla insolenzia
degli uomini. I quali ordini hanno bisogno di essere fatti vivi dalla
virtù d'uno cittadino, il quale animosamente concorre ad esequirli
contro alla potenza di quegli che gli trapassano. Delle quali esecuzioni,
innanzi alla presa di Roma da' Franciosi, furono notabili, la morte de'
figliuoli di Bruto, la morte de' dieci cittadini, quella di Melio
frumentario: dopo la presa di Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la
morte del figliuolo di Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore
contro a Fabio suo Maestro de' cavalieri, l'accusa degli Scipioni. Le quali
cose, perché erano eccessive e notabili, qualunque volta ne nasceva una,
facevano gli uomini ritirare verso il segno: e quando le cominciarono ad
essere più rare, cominciarono anche a dare più spazio agli
uomini di corrompersi, e farsi con maggiore pericolo e più tumulto.
Perché dall'una all'altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il
più, dieci anni: perché, passato questo tempo, gli uomini cominciano a
variare con i costumi e trapassare le leggi; e se non nasce cosa per la quale
si riduca loro a memoria la pena, e rinnuovisi negli animi loro la paura,
concorrono tosto tanti delinquenti, che non si possono più punire
sanza pericolo. Dicevano, a questo proposito quegli che hanno governato lo
stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario ripigliare
ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile mantenerlo: e chiamavano
ripigliare lo stato, mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi
avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quegli che avevano,
secondo quel modo del vivere, male operato. Ma come di quella battitura la
memoria si spegne, gli uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di
dire male; e però è necessario provvedervi, ritirando quello
verso i suoi principii. Nasce ancora questo ritiramento delle republiche
verso il loro principio dalla semplice virtù d'un uomo, sanza
dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione: nondimanco
sono di tale riputazione e di tanto esemplo, che gli uomini buoni disiderano
imitarle e gli cattivi si vergognano a tenere vita contraria a quelle. Quegli
che in Roma particularmente feciono questi buoni effetti, furono Orazio
Cocle, Scevola, Fabrizio, i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i quali
con i loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto
che si facessino le leggi e gli ordini. E se le esecuzioni soprascritte,
insieme con questi particulari esempli, fossono almeno seguite ogni dieci
anni in quella città, ne seguiva di necessità che la non si
sarebbe mai corrotta: ma come ei cominciorono a diradare l'una e l'altra di
queste due cose, cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo Marco
Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in Roma surgessono i
due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro, ed intra loro dall'uno
all'altro, e rimasono sì soli, che non potettono con gli esempli buoni
fare alcuna buona opera; e massime l'ultimo Catone, il quale, trovando in
buona parte la città corrotta, non potette con lo esemplo suo fare che
i cittadini diventassino migliori. E questo basti quanto alle republiche. Ma quanto alle sètte, si
vede ancora queste rinnovazloni essere necessarie, per lo esemplo della
nostra religione, la quale, se non fossi stata ritirata verso il suo
principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta.
Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo,
la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta: e furono
sì potenti gli ordini loro nuovi, che ei sono cagione che la
disonestà de' prelati e de' capi della religione non la rovinino;
vivendo ancora poveramente, ed avendo tanto credito nelle confessioni con i
popoli e nelle predicazioni, che ci dànno loro a intendere come egli
è male dir male del male, e che sia bene vivere sotto la obedienza
loro, e, se fanno errore, lasciargli gastigare a Dio: e così quegli
fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non
veggono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione mantenuto, e
mantiene, questa religione. Hanno ancora i regni bisogno di
rinnovarsi, e ridurre le leggi di quegli verso i suoi principii. E si vede
quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia; il quale regno
vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro regno.
Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel
di Parigi; le quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa una
esecuzione contro ad un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle
sue sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto per essere stato uno
ostinato esecutore contro a quella Nobilità: ma qualunque volta ei ne
lasciassi alcuna impunita, e che le venissono a multiplicare, sanza dubbio ne
nascerebbe o che le si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel
regno si risolverebbe. Conchiudesi, pertanto, non
essere cosa più necessaria in uno vivere comune, o setta o regno o
republica che sia, che rendergli quella riputazione ch'egli aveva ne'
principii suoi; ed ingegnarsi che siano o gli ordini buoni o i buoni uomini
che facciano questo effetto, e non lo abbia a fare una forza estrinseca.
Perché, ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella
è tanto pericolosa, che non è in modo alcuno da disiderarla. E
per dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli uomini particulari
facessono grande Roma, e causassino in quella città molti buoni
effetti, verrò alla narrazione e discorso di quegli: intra e' termini
de' quali questo terzo libro, ed ultima parte di questa prima Deca, si
concluderà. E benché le azioni degli re fossono grandi e notabili nondimeno,
dichiarandole la istoria diffusamente, le lascerò indietro; né
parlereno altrimenti di loro, eccetto che di alcuna cosa che avessono operata
appartenente alli loro privati commodi; e comincerenci da Bruto, padre della
romana libertà. Capitolo 2 Come egli è cosa
sapientissima simulare in tempo la pazzia. Non fu alcuno mai tanto
prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia operazione, quanto
merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione della stultizia. Ed
ancora che Tito Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a
tale simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere e
mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di
procedere, si può credere che simulasse ancora questo per essere manco
osservato, ed avere più commodità di opprimere i Re e di
liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione. E, che
pensassi a questo, si vide, prima, nello interpetrare l'oracolo d'Apolline,
quando simulò cadere per baciare la terra, giudicando per quello avere
favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi, quando, sopra la morta
Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo
a trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai circustanti, che mai
sopporterebbono che, per lo avvenire, alcuno regnasse in Roma. Dallo esemplo
di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono male contenti d'uno
principe: e debbono prima misurare e prima pesare le forze loro; e, se sono
sì potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente
guerra, debbono entrare per questa via, come manco pericolosa e più
onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze
loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a
questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie,
seguendo i piàciti suoi, e pigliando dilettazione di tutte quelle cose
che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezza, prima, ti fa vivere
sicuro; e, sanza portare alcuno pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel
principe insieme con esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare
allo animo tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli
principi non stare sì presso che la rovina loro ti coprisse, né
sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a tempo a salire sopra
la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe la più vera, quando si
potesse osservare; ma perché io credo che sia impossibile, conviene ridursi
a' duoi modi soprascritti, cioè o di allargarsi o di stringersi con
loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo, per la qualità sua, notabile,
vive in continovo pericolo. Né basta dire: - Io non mi curo di alcuna cosa,
non disidero né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e sanza
briga! - perché queste scuse sono udite e non accettate: né possono gli
uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo
eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro
creduto; talché, se si vogliono stare loro, non sono lasciati stare da altri.
Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto; ed assai si fa il matto,
laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per
compiacere al principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo
uomo per ricuperare la libertà a Roma, parlereno ora della sua severità
nel mantenerla. Capitolo 3 Come egli è necessario, a
volere mantenere una libertà acquistata di nuovo, ammazzare i
figliuoli di Bruto. Non fu meno necessaria che utile
la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che
elli vi aveva acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte le
memorie delle cose: vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente
condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro. E
sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno:
come, dopo una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da tirannide
in republica è necessaria una esecuzione memorabile contro a' nimici
delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e
chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco
tempo. E perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi
rimetto a quello che allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo,
stato, ne' dì nostri e nella nostra patria, memorabile. E questo
è Piero Soderini, il quale si credeva superare con la pazienza e
bontà sua quello appetito che era ne' figliuoli di Bruto, di ritornare
sotto un altro governo e se ne ingannò. E benché quello, per la sua
prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte e l'ambizione di
quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse
mai l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di potere con la pazienza e con
la bontà estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno
consummare qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli
amici fede) che, a volere gagliardamente urtare le sue opposizioni, e battere
suoi avversari, gli bisognava pigliare istraordinaria autorità, e
rompere con le leggi la civile equalità: la quale cosa, ancora che
dipoi non fosse da lui usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito
l'universale, che non sarebbe mai poi concorso, dopo la morte di quello, a
rifare un gonfalonieri a vita; il quale ordine elli giudicava fosse bene
augumentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e'
non si debbe mai lasciare scorrere un male, rispetto ad uno bene, quando quel
bene facilmente possa essere, da quel male, oppressato. E doveva credere che,
avendosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal fine, quando la
fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno,
come, quello l'aveva fatto, era per salute della patria, e non per ambizione
sua; e poteva regolare le cose in modo, che uno suo successore non potesse
fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo ingannò la
prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da
tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto,
e' perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione. E come egli
è cosa difficile salvare uno stato libero, così è
difficile salvarne uno regio; come nel sequente capitolo si mosterrà. Capitolo 4 Non vive sicuro uno principe in
uno principato, mentre vivono coloro che ne sono
stati spogliati. La morte di Tarquinio Prisco
causata dai figliuoli di Anco, e la morte di Servio Tullo causata da
Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil sia, e pericoloso, spogliare uno
del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercassi con merito
guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannato da parergli
possedere quel regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e
confermato dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo
sdegno, che non avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta
Roma. E Servio Tullo s'ingannò, credendo potere con nuovi meriti
guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si
può avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo
principato, finché vivono coloro che ne sono stati spogliati. Quanto al
secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie
furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno, quanto il beneficio
nuovo è minore che non è stata la ingiuria. E sanza dubbio, Servio
Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio fussono
pazienti ad essere generi di colui di chi e' giudicavano dovere essere re. E
questo appitito del regnare è tanto grande, che non solamente entra
ne' petti di coloro a chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si
aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la
quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il
marito contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto stimava più
essere regina che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio
Tullo, perderono il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei lo
avevano usurpato, Tarquinio Superbo lo perdé per non osservare gli ordini
degli antichi re: come nel sequente capitolo si mosterrà. Capitolo 5 Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia, di quello, ereditario. Avendo Tarquinio Superbo morto
Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il regno sicuramente,
non avendo a temere di quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E,
benché il modo dell'occupare il regno fosse stato istraordinario ed odioso,
nondimeno quando elli avesse osservato gli antichi ordini delli altri re,
sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il Senato e la plebe contro
di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato costui per avere Sesto
suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le leggi del regno, e
governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni autorità, e
ridottola a sé proprio; e quelle faccende che ne' luoghi publici con
sodisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo
suo, con carico ed invidia sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma
di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Né
gli bastò farsi inimici i Padri, che si concitò ancora, contro,
la Plebe, affaticandola in cose mecaniche e tutte aliene da quello a che gli
avevano adoperati i suoi antecessori: talché, avendo ripiena Roma di esempli
crudeli e superbi, aveva disposto già gli animi di tutti i Romani alla
ribellione, qualunque volta ne avessono occasione. E, se lo accidente di
Lucrezia non fosse venuto, come prima ne fosse nato un altro, arebbe
partorito il medesimo effetto. Perché se Tarquinio fosse vissuto come gli
altri re, e Sesto suo figliuolo avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e
Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al
Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a quella ora ei cominciano a
perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle
consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo tempo gli uomini sono
vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei diventassono mai tanto
prudenti che ei conoscessono con quanta facilità i principati si
tenghino da coloro che saviamente si consigliano, dorrebbe molto più
loro tale perdita, ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri
fossono condannati. Perché egli è molto più facile essere amato
dai buoni che dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare loro. E
volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo, non hanno a durare
altra fatica che pigliare per loro specchio la vita de' principi buoni, come
sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei
troveria tanta sicurtà e tanta sodisfazione di chi regge e di chi
è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo
facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uomini, quando sono governati
bene, non cercono né vogliono altra libertà: come intervenne a' popoli
governati dai dua prenominati; che gli costrinsono ad essere principi mentre
che vissono, ancora che da quegli più volte fosse tentato di ridursi
in vita privata. E perché in questo, e ne' due antecedenti capitoli, si
è ragionato degli omori concitati contro a' principi, e delle congiure
fatte da' figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle fatte contro a
Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel
sequente capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata
da' principi e da' privati. Capitolo 6 Delle congiure. Ei non mi è parso da
lasciare indietro il ragionare delle congiure, essendo cosa tanto pericolosa
ai principi ed ai privati; perché si vede per quelle molti più
principi avere perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il
poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi: il
poterli congiurare contro, è concesso a ciascuno. Dall'altra parte,
gli uomini privati non entrano in impresa più pericolosa né più
temeraria di questa; perché la è difficile e pericolosissima in ogni
sua parte. Donde ne nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno il fine
desiderato. Acciocché, adunque, i principi imparino a guardarsi da questi
pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino
ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è
stato loro proposto; io ne parlerò diffusamente, non lasciando
indietro alcuno caso notabile in documento dell'uno e dell'altro. E
veramente, quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che
gli uomini hanno ad onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e
debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si sieno fatti,
tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle volte rovina
sé e la sua patria. Dobbiamo adunque, entrando nella
materia, considerare prima contro a chi si fanno le congiure; e troverreno
farsi o contro alla patria, o contro ad uno principe: delle quali due voglio
che al presente ragioniamo; perché, di quelle che si fanno per dare una terra
a' nimici che la assediano, o che abbino, per qualunque cagione, similitudine
con questa, se n'è parlato di sopra a sufficienza. E trattereno, in
questa prima parte, di quelle contro al principe, e prima esaminereno le
cagioni di esse: le quali sono molte, ma una ne è importantissima
più che tutte le altre. E questa è lo essere odiato dallo
universale, perché il principe che si è concitato questo universale
odio, è ragionevole che abbi de' particulari i quali da lui siano
stati più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio
è accresciuto loro da quella mala disposizione universale che veggono
essergli concitata contro. Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi
privati; e come debba fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne
voglio parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice offese
particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché si riscontra rade volte in
uomini che stimino tanto una ingiuria, che si mettino a tanto pericolo per
vendicarla; l'altra, che, quando pure ei fossono d'animo e di potenza da
farlo, sono ritenuti da quella benivolenza universale che veggono avere ad
uno principe. Le ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue o
nell'onore. Di quelle del sangue sono più pericolose le minacce che le
esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nelle esecuzioni non vi
è pericolo alcuno; perché chi è morto non può pensare
alla vendetta; quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne
lasciano il pensiero a te. Ma colui che è minacciato, e che si vede
costretto da una necessità o di fare o di patire, diventa uno uomo
pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo particularmente direno.
Fuora di questa necessità, la roba e l'onore sono quelle due cose che
offendono più gli uomini che alcun'altra offesa, e dalle quali il
principe si debbe guardare: perché e' non può mai spogliare uno,
tanto, che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi; non può mai
tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E
degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa
più; dopo questo, il vilipendio della sua persona. Questo armò
Pausania contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti altri contro a
molti altri principi: e ne' nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a
congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello data
e poi tolta per moglie una sua figliuola; come nel suo loco direno. La maggiore
cagione che fece che i Pazzi congiurarono contro ai Medici, fu la
eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu loro tolta per ordine di
quegli. Un'altra cagione ci è, e grandissima, che fa gli uomini
congiurare contro al principe; la quale è il desiderio di liberare la
patria, stata da quello occupata. Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro
a Cesare; questa ha mosso molti altri contro a' Falari, Dionisii, ed altri
occupatori della patria loro. Né può, da questo omore, alcuno tiranno
guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si truova alcuno che
faccia questo, si truova pochi che non capitino male; donde nacque quel verso
di Iuvenale: Ad generum cereris sine caede et
vulnere pauci descendunt reges, et sicca morte
tiranni. I pericoli che si portano, come
io dissi di sopra, nelle congiure, sono grandi, portandosi per tutti i tempi;
perché in tali casi si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed
esequiti che sono. Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono
più. Uno, non si può dire che sia congiura, ma è una
ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo,
de' tre pericoli che si corrono nelle congiure, manca del primo; perché,
innanzi alla esecuzione non porta alcuno pericolo, non avendo altri il suo
secreto, né portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchio del
principe. Questa deliberazione così fatta può cadere in
qualunque uomo, di qualunque sorte, grande, piccolo, nobile, ignobile,
familiare e non familiare al principe; perché ad ognuno è lecito
qualche volta parlarli; ed a chi è lecito parlare, è lecito
sfogare l'animo suo. Pausania, del quale altre volte si è parlato,
ammazzò Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati
d'intorno, ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e
cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto, dette una coltellata
in su el collo al re Ferrando, re di Spagna: non fu la ferita mortale, ma per
questo si vide che colui ebbe animo e commodità a farlo. Uno dervis,
sacerdote turchesco, trasse d'una scimitarra a Baisit, padre del presente
Turco: non lo ferì, ma ebbe pure animo e commodità a volerlo
fare. Di questi animi fatti così, se ne truova, credo, assai che lo
vorrebbono fare, perché nel volere non è pena né pericolo alcuno; ma
pochi che lo facciano: ma di quelli che lo fanno, pochissimi o nessuno che
non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova chi voglia andare
ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e
veniamo alle congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte
le congiure essere fatte da uomini grandi, o familiarissimi del principe:
perché gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiurare; perché
gli uomini deboli, e non familiari al principe, mancano di tutte quelle
speranze e di tutte quelle commodità che si richiede alla esecuzione
d'una congiura. Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro di chi
tenga loro fede; perché uno non può consentire alla volontà
loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne' pericoli
grandi: in modo che, come ei si sono allargati in dua o in tre persone, ci
trovono lo accusatore e rovinano: ma quando pure si fossono tanto felici che
mancassino di questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale difficultà,
per non avere l'entrata facile al principe, che gli è impossibile che
in essa esecuzione ei non rovinino. Perché, se gli uomini grandi, e che hanno
l'entrata facile, sono oppressi da quelle difficultà che di sotto si
diranno, conviene che in costoro quelle difficultà sanza fine
creschino. Pertanto gli uomini (perché, dove ne va la vita e la roba, non
sono al tutto insani) quando e' si veggono deboli, se ne guardano; e quando
egli hanno a noia uno principe, attendono a bestemmiarlo, ed aspettono che
quelli che hanno maggiore qualità di loro, gli vendichino. E se pure
si trovasse che alcuno di questi simili avessi tentato qualche cosa, si debbe
laudare in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli
che hanno congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o familiari, del
principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi così da troppi
beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro a Commodo,
Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio. Costoro tutti furono dai
loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore e grado, che non pareva
che mancasse loro, alla perfezione della potenza, altro che lo imperio; e di
questo non volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed
ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro ingratitudine:
ancora che di queste simili ne' tempi più freschi ne avessi buono fine
quella di Iacopo di Appiano contro a messer Piero Gambacorti, principe di
Pisa: il quale Iacopo, allevato e nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse
poi lo stato. Fu di queste quella del Coppola, ne' nostri tempi, contro il re
Ferrando d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza che non gli
pareva gli mancassi se non il regno, per volere ancora quello, perdé la vita.
E veramente, se alcuna congiura contro ai principi, fatta da uomini grandi,
dovesse avere buono fine, doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro
re, si può dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il
suo disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli
accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perché, se ei sapessono fare
questa cattività con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro.
Debbe, adunque, uno principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più
coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli avesse fatte
troppe ingiurie. Perché questi mancono di commodità, quelli ne
abondano; e la voglia è simile, perché gli è così grande
o maggiore il desiderio del dominare, che non è quello della vendetta.
Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da quella
al principato sia qualche intervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa da
desiderare: altrimenti, sarà cosa rada se non interverrà loro,
come a' principi soprascritti. Ma torniamo all'ordine nostro. Dico che, avendo ad essere,
quelli che congiurano, uomini grandi, e che abbino l'adito facile al
principe, si ha a discorrere i successi di queste loro imprese quali siano
stati, e vedere la cagione che gli ha fatti essere felici ed infelici. E come
io dissi di sopra ci si truovano dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su
'l fatto e poi. Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli
è impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a
discorrere e' pericoli di prima, che sono i più importanti, dico, come
e' bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte, che, nel
maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si scuoprono o per relazione, o
per coniettura. La relazione nasce da trovare poca fede, o poca prudenza,
negli uomini con chi tu la comunichi. La poca fede si truova facilmente,
perché tu non puoi comunicarla se non con tuoi fidati, che per tuo amore si
mettino alla morte, o con uomini che siano male contenti del principe. De'
fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma, come tu ti distendi in molti,
è impossibile gli truovi: dipoi, e' bisogna bene che la benivolenza
che ti portano sia grande, a volere che non paia loro maggiore il pericolo e
la paura della pena. Dipoi gli uomini s'ingannano, il più delle volte,
dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi mai
assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in questo
è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche
altra cosa pericolosa dove e' ti fossono stati fedeli, non puoi da quella
fede misurare questa, passando, questo, di gran lunga, ogni altra
qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala contentezza che uno
abbia del principe, in questo tu ti puoi facilmente ingannare: perché, subito
che tu hai manifestato a quel male contento l'animo tuo, tu gli dài
materia di contentarsi, e conviene bene, o che l'odio sia grande, o che
l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in fede. Di qui nasce che assai ne sono
rivelate, ed oppresse ne' primi principii loro; e che, quando una è
stata infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa
miracolosa: come fu quella di Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri tempi,
quella de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle quali erano
consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi, alla esecuzione,
a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno
congiurato ne parla poco cauto, in modo che uno servo o altra terza persona
t'intenda, come intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare la cosa
con i legati di Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli accusò:
ovvero quando per leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che
tu ami o a simile leggieri persona; come fece Dimmo, uno de' congiurati con
Filota contro a Alessandro Magno, il quale communicò la congiura a
Nicomaco, fanciullo amato da lui; il quale subito la disse a Ciballino suo
fratello, e Ciballino ad el re. Quanto a scoprirsi per coniettura, ce
n'è in esemplo la congiura Pisoniana contro a Nerone; nella quale
Scevino, uno de' congiurati, il dì dinanzi ch'egli aveva ad ammazzare
Nerone, fece testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi
arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi
e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare ferite: per le quali
conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso
Scevino, e con lui Natale un altro congiurato, i quali erano stati veduti
parlare a lungo e di segreto insieme, il dì davanti; e non si accordando
del ragionamento avuto, furono forzati a confessare il vero talché la
congiura fu scoperta, con rovina di tutti i congiurati. Da queste cagioni dello scoprire
le congiure è impossibile guardarsi che, per malizia, per imprudenza o
per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passono
il numero di tre o di quattro. E come e' ne è preso più che
uno, è impossibile non riscontrarla, perché due non possano essere
convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro. Quando e' ne sia preso solo
uno, che sia uomo forte, può elli, con la fortezza dello animo, tacere
i congiurati; ma conviene che i congiurati non abbiano meno animo di lui a
stare saldi, e non si scoprire con la fuga: perché da una parte che l'animo
manca o da chi è sostenuto o da chi è libero, la congiura
è scoperta. Ed è rado lo esemplo indotto da Tito Livio nella
congiura fatta contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo Teodoro, uno
de' congiurati, preso, celò con una virtù grande tutti i
congiurati, ed accusò gli amici del re, e dall'altra parte, i
congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno si
partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adunque,
per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura innanzi che si venga
alla esecuzione di essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il
primo ed il più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare
tempo ai congiurati di accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la vuoi
fare, e non prima. Quelli che hanno fatto così, fuggono al certo i pericoli
che sono nel praticarla, e, il più delle volte, gli altri; anzi hanno
tutte avuto felice fine: e qualunque prudente arebbe commodità di
governarsi in questo modo. Io voglio che mi basti addurre due esempli. Nelemato, non potendo sopportare
la tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro, ragunò in casa sua molti
parenti ed amici, e, confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro
chiesono tempo a diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi servi
serrare la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati disse: - O voi giurerete
di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad
Aristotimo -. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati, sanza
intermissione di tempo, felicemente l'ordine di Nelemato esequirono. Avendo
uno Mago, per inganno, occupato il regno de' Persi, ed avendo Ortano, uno de'
grandi uomini del regno, intesa e scoperta la fraude, lo conferì con
sei altri principi di quello stato, dicendo come gli era da vendicare il
regno dalla tirannide di quel Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si
levò Dario, uno de' sei chiamati da Ortano, e disse: - O noi andreno
ora a fare questa esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E
così d'accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di pentirsi,
esequirono felicemente i disegni loro. Simile a questi due esempli ancora
è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare Nabide, tiranno spartano;
i quali mandarono Alessameno loro cittadino, con trenta cavagli e dugento
fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto solamente
comunicorono ad Alessameno; ed agli altri imposono che lo ubbidissoro in ogni
e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in Sparta, e non
comunicò mai la commissione sua se non quando e' la volle esequire:
donde gli riuscì d'ammazzarlo. Costoro, adunque per questi modi, hanno
fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare le congiure; e chi
imiterà loro, sempre gli fuggirà. E che ciascuno possa fare come
loro io ne voglio dare lo esemplo di Pisone preallegato di sopra. Era Pisone
grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare di Nerone, ed in chi elli
confidava assai. Andava Nerone ne' suoi orti spesso a mangiare seco. Poteva,
adunque, Pisone farsi amici uomini, d'animo e di cuore e di disposizione atti
ad una tale esecuzione (il che ad uno grande è facilissimo); e quando
Nerone fosse stato ne' i suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le parole
convenienti inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo a ricusare, e
che era impossibile che non riuscisse. E così, se si esamineranno
tutte l'altre, si troverrà poche non essere potute condursi nel
medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco intendenti delle azioni
del mondo, spesso fanno errori gravissimi, e tanto maggiori in quelle che
hanno più dello istraordinario, come è questa. Debbesi,
adunque, non comunicare mai la cosa se non necessitato ed in sul fatto; e se
pure la vuoi comunicare, comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto
lunghissima isperienza, o che sia mosso dalle medesime cagioni che tu.
Trovarne uno così fatto è molto più facile che trovarne
più, e per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti
ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi, che non è dove
siano congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire che con uno
si può parlare ogni cosa, perché tanto vale, se tu non ti lasci
condurre a scrivere di tua mano, il sì dell'uno quanto il no
dell'altro; e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno scoglio,
perché non è cosa che più facilmente ti convinca, che lo scritto
di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare Severo imperadore ed Antonino
suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il quale, volendo
accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo all'accusa, e' non fussi
più creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua mano,
che facessi fede di questa commissione; la quale Plauziano, accecato
dall'ambizione, gli fece: donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e
convinto; e sanza quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato
Plauziano superiore; tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nell'accusa
d'uno, qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una scrittura, o altri
contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare. Era nella congiura Pisoniana una
femina chiamata Epicari, stata per lo adietro amica di Nerone; la quale
giudicando che fussi a proposito mettere tra i congiurati uno capitano di
alcune trireme che Nerone teneva per sua guardia, gli comunicò la
congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli quello capitano la fede ed
accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone,
rimaso confuso, non la condannò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa
ad uno solo, due pericoli: l'uno, che non ti accusi in pruova; l'altro, che
non ti accusi convinto e constretto dalla pena, sendo egli preso per qualche
sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell'uno e nell'altro di
questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi negare l'uno,
allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare l'altro, allegandone la
forza che lo constringesse a dire le bugie. È , adunque, prudenza non
comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo gli esempli soprascritti; o,
quando pure la comunichi, non passare uno; dove, se è qualche
più pericolo, ve n'è meno assai che comunicarla con molti.
Propinquo a questo modo è quando una necessità ti costringa a
fare quello al principe che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la
quale sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare ad assicurarti.
Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fine desiderato: ed a
provarlo voglio bastino due esempli. Aveva Commodo, imperadore, Leto
ed Eletto, capi de' soldati pretoriani, ed intra' primi amici e familiari
suoi; aveva Marzia in nelle prime sue concubine o amiche; e perché egli era
da costoro qualche volta ripreso de' modi con i quali maculava la persona sua
e lo Imperio, diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra
Marzia, Leto ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente fare
morire; e quella listra messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo
ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su pel
letto, gli venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con essa in mano,
riscontrò Marzia; la quale gliene tolse, e, lettala, e veduto il
contenuto di essa, subito mandò per Leto ed Eletto; e conosciuto tutti
a tre il pericolo in quale erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere
tempo in mezzo, la notte sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino
Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo
prefetto Macrino, uomo più civile che armigero; e, come avviene ch'e'
principi non buoni temono sempre che altri non operi, contro a loro, quello
che par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano suo amico a Roma, che
intendessi dagli astrologi, s'egli era alcuno che aspirasse allo imperio, e
gliene avvisasse. Donde Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che
vi aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello
imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o d'ammazzare lui
prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire, commisse a Marziale
centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto, pochi giorni innanzi
uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu esequito da lui felicemente.
Vedesi, adunque, che questa necessità che non dà tempo, fa
quasi quel medesimo effetto che il modo, da me sopra detto, che tenne
Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi, quasi nel principio di
questo discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono
cagione di più efficace congiure che le offese: da che uno principe si
debbe guardare; perché gli uomini si hanno o accarezzare o assicurarsi di
loro; e non li ridurre mai in termine che gli abbiano a pensare che bisogni
loro o morire o far morire altrui. Quanto ai pericoli che si
corrono in su la esecuzione, nascono questi o da variare l'ordine, o da
mancare l'animo a colui che esequisce, o da errore che lo esecutore faccia
per poca prudenza, o per non dare perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte
di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come e' non è
cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli
uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo, avere a variare
un ordine e a pervertirlo da quello che si era ordinato prima. E se questa
variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra, ed in
cose simili a quelle di che noi parliano; perché in tali azioni non è
cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad
esequire quella parte che tocca loro: e se gli uomini hanno volto la fantasia
per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello subito varii,
è impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in
modo che gli è meglio assai esequire una cosa secondo l'ordine dato,
ancora che vi si vegga qualche inconveniente, che non è, per volere
cancellare quello, entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando
e' non si ha tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si può
l'uomo governare a suo modo. La congiura de' Pazzi contro a
Lorenzo e Giuliano de' Medici, è nota. L'ordine dato era che dessino
desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si
era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e
chi correre la città e chiamare alla libertà il popolo. Accadde
che, essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il
Cardinale ad uno ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava:
il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e quello che gli avevano a
fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa. Il che venne a
perturbare tutto l'ordine, perché Giovambatista da Montesecco non volle
concorrere all'omicidio, dicendo non lo volere fare in chiesa: talché gli
ebbono a mutare nuovi ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a
fermare l'animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi. Manca l'animo a chi esequisce, o
per riverenza, o per propria viltà dello esecutore. È tanta la
maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe,
ch'egli è facil cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno
esecutore. A Mario, essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno servo che lo
ammazzasse; il quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla
memoria del nome suo, divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E se
questa potenza è in uomo legato e prigione, ed affogato nella mala
fortuna; quanto si può tenere che la sia maggiore in uno principe
sciolto, con la maestà degli ornamenti, della pompa e della comitiva
sua! talché ti può questa tale pompa spaventare, o vero con qualche
grata accoglienza raumiliare. Congiurorono alcuni contro a Sitalce re di
Tracia, deputorono il dì della esecuzione; convennono al luogo
diputato, dove era il principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo:
tanto che si partirono sanza avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello
che se gli avessi impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale
errore più volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di
quello male che potettono e non vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso,
duca di Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano Giannes, prete e
cantore del duca; il quale più volte, a loro richiesta, condusse il
duca fra loro, talché gli avevano arbitrio d'ammazzarlo: nondimeno, mai
nessuno di loro non ardì di farlo; tanto che, scoperti, portarono la
pena della cattività e poca prudenza loro. Questa negligenza non
potette nascere da altro, se non che convenne o che la presenza gli
sbigottisse o che qualche umanità del principe gli umiliasse. Nasce in
tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco animo;
perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e portato da quella
confusione di cervello ti fa dire e fare quello che tu non debbi. E che gli uomini invasino e si
confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio quando discrive di
Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo
di sopra parlato; che, venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli
ebbe ai suoi quello che si aveva a fare, dice Tito Livio queste parole:
"Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei". Perché
gli è impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla
morte degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda. Però si
debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno altro
credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello animo nelle cose
grandi, sanza averne fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa
certa. Può, adunque, questa confusione o farti cascare l'armi di mano,
o farti dire cose che facciano il medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di
Commodo, ordinò che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò
Commodo nella entrata dello anfiteatro e con un pugnale ignudo
accostandosegli, gridò: - Questo ti manda il Senato! - le quali parole
fecero che fu prima preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer
Antonio da Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo
de' Medici, nello accostarsegli disse: - Ah traditore! - la quale voce fu la
salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può non si dare
perfezione alla cosa, quando si congiura contro ad uno capo, per le cagioni
dette: ma facilmente non se le dà perfezione quando si congiura contro
a due capi, anzi è tanto difficile, che gli è quasi impossibile
che la riesca. Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo in diversi
luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi tempi non si può
fare, non volendo che l'una guasti l'altra. In modo che, se il congiurare
contro ad uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco prudente;
congiurare contro a due, è al tutto vana e leggieri. E se non fosse la
riverenza dello istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che
Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione, che
elli solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi paesi: perché la
è cosa tanto discosto da il ragionevole che altro che questa
autorità non me lo farebbe credere. Congiurorono certi giovani
ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono Diocle ed
Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide eraclensi e discepoli
di Platone, congiurarono contro a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono
Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi,
più volte da noi allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano.
In modo che di simili congiure contro a più capi, se ne debbe astenere
ciascuno, perché non si fa bene né a sé né alla patria né ad alcuno: anzi
quelli che rimangono, diventono più insopportabili e più
acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me preallegate. È
vero che la congiura che Pelopida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe
tutte le difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché Pelopida
non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non
solamente non era confidente e non gli era facile la entrata a e' tiranni, ma
era ribello: nondimanco ei poté venire in Tebe, ammazzare i tiranni, e
liberare la patria. Pure nondimanco fece tutto, con l'aiuto d'uno Carione,
consigliere de' tiranni, dal quale ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua.
Non sia alcuno, nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella
fu impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così fu, ed
è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come cosa rara e quasi
sanza esemplo. Può essere interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazione
o da uno accidente imprevisto che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto
e gli altri congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello
parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de' congiurati; e vedendo
gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse
a Cesare la congiura: e furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e non
aspettare che fosse in Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il ragionamento
finì, e, visto non fare a Cesare moto alcuno istraordinario, si rassicurarono.
Sono queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi, con prudenza,
rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad averle. Perché
chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente crede che si parli di lui:
puossi sentire una parola, detta ad uno altro fine, che ti faccia perturbare
l'animo, e credere che la sia detta sopra il caso tuo, e farti o con la fuga
scoprire la congiura da te, o confondere l'azione con acceleralla fuora di
tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quando ei sono molti ad essere
conscii della congiura. Quanto alli accidenti, perché
sono inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli, e fare
gli uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di sopra
abbiamo fatto menzione, per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli aveva
tolto la figliuola che prima gli aveva data per moglie, diliberò
d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno a
vicitare uno suo parente infermo, e nello andarvi passava dalle case di
Iulio. Costui, adunque, veduto questo, ordinò di avere i suoi
congiurati in casa ad ordine per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi
dentro all'uscio armati, teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo,
quando ei fussi presso all'uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo
Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno, riscontrò uno amico che lo
fermò; ed alcuni di quelli che erano con lui, vennono a trascorrere
innanzi; e veduto, e sentito il romore d'arme, scopersono l' agguato; in modo
che Pandolfo si salvò, e Iulio ed i compagni si ebbono a fuggire di
Siena. Impedì quello accidente di quello scontro quella azione, e fece
a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e' son rari, non
si può fare alcuno rimedio. È bene necessario esaminare tutti
quegli che possono nascere, e rimediarvi. Restaci al presente, solo a
disputare de' pericoli che si corrono dopo la esecuzione: i quali sono
solamente uno; e questo è, quando e' rimane alcuno che vendichi il
principe morto. Possono, adunque, rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o
altri aderenti, a chi si aspetti il principato; e possono rimanere o per tua
negligenzia o per le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta:
come intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi
congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo
figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il morto. E
veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati, perché non ci hanno
rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno, per poca prudenza, o per loro
negligenza, allora è che non meritano scusa. Ammazzarono alcuni
congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro signore, presono la moglie, ed i
suoi figliuoli, che erano piccoli; e non parendo loro potere vivere sicuri se
non si insignorivano della fortezza, e non volendo il castellano darla loro,
Madonna Caterina (che così si chiamava la contessa) promisse ai
congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella, di farla consegnare
loro, e che ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per istatichi.
Costoro, sotto questa fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come fu
dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli
d'ogni qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi figliuoli non
si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il
modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e tardi avvedutisi
del loro errore, con uno perpetuo esilio patirono pena della poca prudenza
loro. Ma di tutti i pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci
è il più certo né quello che sia più da temere, che
quando il popolo è amico del principe che tu hai morto: perché a
questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e' non se ne possono mai
assicurare. In esemplo ci è Cesare, il quale, per avere il popolo di
Roma amico, fu vendicato da lui; perché, avendo cacciati i congiurati, di
Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi,
ammazzati. Le congiure che si fanno contro
alla patria sono meno pericolose, per coloro che le fanno, che non sono
quelle contro ai principi: perché nel maneggiarle vi sono meno pericoli che
in quelle; nello esequirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve
ne è alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti: perché
uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza manifestare lo animo e
disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini non gli sono interrotti,
seguire felicemente la impresa sua; se gli sono interrotti con qualche legge,
aspettare tempo ed entrare per altra via. Questo s'intende in una republica
dove è qualche parte di corrozione; perché, in una non corrotta, non
vi avendo luogo nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo
cittadino questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molti mezzi e
molte vie aspirare al principato dove e' non portano pericolo di essere
oppressi: sì perché le republiche sono più tarde che uno
principe, dubitano meno, e per questo sono manco caute; sì perché
hanno più rispetto ai loro cittadini grandi, e per questo quelli sono
più audaci e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto
la congiura di Catilina scritta da Sallustio, e sa come, poi che la congiura
fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma venne in Senato, e
disse villania al Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che quella
città aveva ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e ch'egli era
di già in su gli eserciti, non si sarebbe preso Lentulo e quelli
altri, se non si fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano
manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando alla
tirannide, aveva ordinato nelle nozze d'una sua figliuola di avvelenare tutto
il Senato, e dipoi farsi principe. Questa cosa intesasi, non vi fece il
Senato altra provisione che d'una legge, la quale poneva termini alle spese
de' conviti e delle nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero alle
qualità sue. È bene vero, che nello esequire una congiura
contro alla patria, vi è difficultà più, e maggiori
pericoli, perché rade volte è che bastino le tue forze proprie
conspirando contro a tanti; e ciascuno non è principe d'uno esercito,
come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con
le forze loro occupato la patria. Perché a simili è la via assai
facile ed assai sicura, ma gli altri, che non hanno tante aggiunte di forze,
conviene che facciano le cose, o con inganno ed arte, o con forze forestiere.
Quanto allo inganno ed all'arte, avendo Pisistrato ateniese vinti i
Megarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo, uscì una mattina
fuora, ferito, dicendo che la Nobilità per invidia lo aveva
ingiuriato, e domandò di potere menare armati seco per guardia sua. Da
questa autorità facilmente salse a tanta grandezza, che diventò
tiranno di Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in
Siena, e gli fu data la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica,
e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo, gli
dierono tanta riputazione, che, in poco tempo, ne diventò principe.
Molti altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazio di
tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli che con forze loro, o con
eserciti esterni, hanno congiurato per occupare la patria, hanno avuti varii
eventi, secondo la fortuna. Catilina preallegato vi rovinò sotto.
Annone, di chi di sopra facemo menzione, non gli essendo riuscito il veleno,
armò, di suoi partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed elli
furono morti. Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi tiranni chiamorono in
aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide di quella città.
Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte contro alla patria, non ne
troverrai alcuna, o poche, che, nel maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o
sono riuscite o sono rovinate, nella esecuzione. Esequite che le sono, ancora
non portano altri periculi che si porti la natura del principato in sé:
perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed ordinari
pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi che si
siano di sopra discorsi. Questo è quanto mi
è occorso scrivere delle congiure; e se io ho ragionato di quelle che
si fanno con il ferro, e non col veneno, nasce che le hanno tutte uno
medesimo ordine. Vero è che quelle del veneno sono più
pericolose, per essere più incerte, perché non si ha commodità
per ognuno; e bisogna conferirlo con chi la ha, e questa necessità del
conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte cagioni, uno beveraggio di veleno
non può essere mortale: come intervenne a quelli che ammazzarono Commodo,
che, avendo quello ributtato il veleno che gli avevano dato, furono forzati a
strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno, pertanto, i principi il
maggiore nimico che la congiura: perché, fatta che è una congiura loro
contro, o la gli ammazza, o la gli infama. Perché, se la riesce, e' muoiono;
se la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la sia
stata invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la
crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha morti.
Non voglio però mancare di avvertire quel principe o quella republica
contro a chi fosse congiurato, che abbino avvertenza, quando una congiura si
manifesta loro, innanzi che facciano impresa di vendicarla, cercare ed
intendere molto bene la qualità di essa, e misurino bene le condizioni
de' congiurati e le loro; e quando la truovino grossa e potente, non la
scuoprino mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sufficienti ad
opprimerla: altrimenti facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però,
debbono con ogni industria dissimularla; perché i congiurati, veggendosi
scoperti, cacciati da necessità, operano sanza rispetto. In esemplo ci
sono i Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di soldati a guardia de'
Capovani contro ai Sanniti, come altrove dicemo, congiurarono quelli capi
delle legioni insieme di opprimere i Capovani: la quale cosa intesasi a Roma,
commissono a Rutilio nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per
addormentare i congiurati, pubblicò come il Senato aveva raffermo le
stanze alle legioni capovane. Il che credendosi quelli soldati, e parendo
loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non cercarono di accelerare la
cosa; e così stettono infino che cominciarono a vedere che il Consolo
gli separava l'uno dall'altro: la quale cosa generò in loro sospetto,
fece che si scopersono e mandarono ad esecuzione la voglia loro. Né
può essere questo maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte: perché
per questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono
avere tempo, e quanto e' sono presti dove la necessità gli caccia. Né
può uno principe o una republica, che vuole differire lo scoprire una
congiura a suo vantaggio, usare termine migliore che offerire, di prossimo,
occasione con arte ai congiurati acciocché, aspettando quella, o parendo loro
avere tempo, diano tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha fatto
altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece il duca di Atene, e
Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze, ed intendendo
esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare
uno de' congiurati: il che fece subito pigliare l'armi agli altri; e torgli
lo stato. Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo
inteso come in Arezzo era una congiura in favore de' Vitelli per tôrre quella
terra ai Fiorentini, subito se n'andò in quella città, e sanza
pensare alle forze de' congiurati o alle sue, e, sanza prepararsi di alcuna
forza, con il consiglio del vescovo suo figliuolo, fece pigliare uno de'
congiurati: dopo la quale presura, gli altri subito presono l'armi, e tolsono
la terra ai Fiorentini; e Guglielmo, di commessario, diventò prigione.
Ma quando le congiure sono deboli, si possono e debbono sanza rispetto
opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo due termini usati,
quasi contrari l'uno all'altro, l'uno dal prenominato duca di Atene, il
quale, per mostrare di credere di avere la benivolenza de' cittadini
fiorentini, fece morire uno che gli manifestò una congiura; l'altro da
Dione siragusano, il quale, per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a
sospetto, consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse
di farli una congiura contro. E tutti a due questi capitorono male: perché
l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi volesse congiurare, l'altro
dette la via facile alla morte sua, anzi fu elli proprio capo della sua
congiura; come per isperienza gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza
rispetto praticare contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo
stato e la vita. Capitolo 7 Donde nasce che le mutazioni
dalla libertà alla servitù, e dalla servitù alla
libertà, alcuna ne è sanza sangue,
alcuna ne è piena. Dubiterà forse alcuno
donde nasca che molte mutazioni, che si fanno dalla vita libera alla
tirannica, e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza;
perché, come per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta
sono stati morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato ingiurato
alcuno: come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove
non furono cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di
qualunque altro. Il che depende da questo: perché quello stato che si muta,
nacque con violenza, o no: e perché, quando e' nasce con violenza, conviene
nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che
gl'ingiuriati si voglino vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce
il sangue e la morte degli uomini. Ma quando quello stato è causato da
uno comune consenso d'una universalità che lo ha fatto grande, non ha
cagione poi, quando rovina detta universalità, di offendere altri che
il capo. E di questa sorte fu lo stato di Roma, e la cacciata de' Tarquinii;
come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi nelle rovine loro, nel
1494, non furono offesi altri che loro. E così tali mutazioni non
vengono ad essere molto pericolose: ma sono bene pericolosissime quelle che
sono fatte da quegli che si hanno a vendicare; le quali furono sempre mai di
sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi le legge. E perché di questi
esempli ne sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro. Capitolo 8 Chi vuole alterare una
republica, debbe considerare il suggetto di
quella. Egli si è di sopra
discorso, come uno tristo cittadino non può male operare in una republica
che non sia corrotta: la quale conclusione si fortifica, oltre alle ragioni
che allora si dissono, con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio
Capitolino. Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare
autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli
molti beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto
agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto recata a
sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli quelli danari
che si erano ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia,
al tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio volessi dare loro il
prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato corrotto, non
arebbe recusato detto prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via
che gli chiuse. Fa molto maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino:
perché mediante costui si vede quanta virtù d'animo e di corpo, quante
buone opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una brutta
cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la
invidia che lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e venne in tanta
cecità di mente, che, non pensando al modo del vivere della
città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non atto a
ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti in Roma contro al
Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella
città, e la bontà della materia sua: perché nel caso suo
nessuno della Nobilità, come che fossero agrissimi difensori l'uno
dell'altro, si mosse a favorirlo; nessuno de' parenti fece impresa in suo
favore: e con gli altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di
nero, tutti mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano sempre
favorire le cose che pareva venissono in beneficio del popolo; e quanto erano
più contro a' nobili, tanto più le tiravano innanzi; in questo
caso si unirono co' nobili, per opprimere una comune peste. Il popolo di Roma
desiderosissimo dell'utile proprio, ed amatore delle cose che venivano contro
alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno,
come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del
popolo, quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo
condannò a morte. Pertanto io non credo che sia esemplo in questa
istoria, più atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di
quella Republica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella
città si mosse a difendere uno cittadino pieno d'ogni virtù, e
che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili.
Perché in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro
rispetto; e considerarono molto più a' pericoli presenti che da lui
dependevano che a' meriti passati: tanto che con la morte sua e' si
liberarono. E Tito Livio dice: "Hunc exitum habuit vir, nisi in libera
civitate natus esset, memorabilis". Dove sono da considerare due cose:
l'una, che per altri modi si ha a cercare gloria in una città
corrotta, che in una che ancora viva politicamente; l'altra (che è
quasi quel medesimo che la prima), che gli uomini nel procedere loro,
è tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi, e
accommodarsi a quegli. E coloro che, per cattiva
elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il
più delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro, al
contrario l'hanno quegli che si concordano col tempo. E sanza dubbio, per le
parole preallegate dello istorico, si può conchiudere, che, se Manlio
fusse nato ne' tempi di Mario e di Silla, dove già la materia era
corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma dell'ambizione sua,
arebbe avuti quegli medesimi séguiti e successi che Mario e Silla, e gli
altri poi, che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così
medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero
stati, in tra le prime loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene
cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a corrompere uno popolo di
una città, ma gli è impossibile che la vita d'uno basti a
corromperla in modo che egli medesimo ne possa trarre frutto; e quando bene
e' fussi possibile, con lunghezza di tempo, che lo facesse, sarebbe
impossibile, quanto al modo del procedere degli uomini, che sono impazienti,
e non possono lungamente differire una loro passione. Appresso, s'ingannano
nelle cose loro, ed in quelle, massime, che desiderono assai; talché, o per
poca pazienza o per ingannarsene, entrerebbero in impresa contro a tempo, e
capiterebbono male. Però è bisogno, a volere pigliare
autorità in una republica e mettervi trista forma, trovare la materia
disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di generazione in generazione,
si sia condotta al disordine: la quale vi si conduce di necessità,
quando la non sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni
esempli, o con nuove leggi ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque,
stato Manlio uno uomo raro e memorabile, se e' fussi nato in una città
corrotta. E però debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna
impresa o in favore della libertà o in favore della tirannide,
considerare il suggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la
difficultà delle imprese loro. Perché tanto è difficile e
pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere servo, quanto
è volere fare servo uno popolo che voglia vivere libero. E perché di
sopra si dice, che gli uomini nell'operare debbono considerare le
qualità de' tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel
sequente capitolo. Capitolo 9 Come conviene variare co' tempi
volendo sempre avere buona fortuna. Io ho considerato più volte
come la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è
riscontrare il modo del procedere suo con i tempi: perché e' si vede che gli
uomini nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e
con cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di questi modi si passano e'
termini convenienti, non si potendo osservare la vera via, nell'uno e
nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed avere la fortuna
prospera, che riscontra, come ho detto, con il suo modo il tempo, e sempre
mai si procede, secondo ti sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio Massimo
procedeva con lo esercito suo rispettivamente e cautamente, discosto da ogni
impeto e da ogni audacia romana, e la buona fortuna fece che questo suo modo
riscontrò bene con i tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia,
giovane e con una fortuna fresca, ed avendo già rotto il popolo romano
due volte; ed essendo quella republica priva quasi della sua buona milizia, e
sbigottita; non potette sortire migliore fortuna, che avere uno capitano il
quale, con la sua tardità e cauzione, tenessi a bada il nimico. Né
ancora Fabio potette riscontrare tempi più convenienti a' modi suoi:
di che ne nacque che fu glorioso. E che Fabio facessi questo per natura, e
non per elezione, si vide, che, volendo Scipione passare in Affrica con
quegli eserciti per ultimare la guerra, Fabio la contradisse assai, come
quello che non si poteva spiccare da' suoi modi e dalla consuetudine sua;
talché, se fusse stato a lui Annibale sarebbe ancora in Italia; come quello
che non si avvedeva che gli erano mutati i tempi, e che bisognava mutare modo
di guerra. E se Fabio fusse stato re di Roma, poteva facilmente perdere
quella guerra; perché non arebbe saputo variare, col procedere suo, secondo
che variavono i tempi: ma essendo nato in una republica dove erano diversi
cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi debiti
a sostenere la guerra, così ebbe poi Scipione, ne' tempi atti a
vincerla. Quinci nasce che una republica
ha maggiore vita, ed ha più lungamente buona fortuna, che uno
principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de'
temporali, per la diversità de' cittadini che sono in quella, che non
può uno principe. Perché un uomo che sia consueto a procedere in uno
modo, non si muta mai, come è detto; e conviene di necessità
che, quando e' si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che rovini. Piero Soderini, altre volte
preallegato, procedeva in tutte le cose sue con umanità e pazienza.
Prosperò egli e la sua patria, mentre che i tempi furono conformi al
modo del procedere suo: ma come e' vennero dipoi tempi dove e' bisognava
rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; talché insieme con
la sua patria rovinò. Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del
suo pontificato con impeto e con furia; e perché gli tempi l'accompagnarono
bene gli riuscirono le sua imprese tutte. Ma se fossero venuti altri tempi
che avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava; perché no
arebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi. E che noi non ci possiamo
mutare, ne sono cagioni due cose: l'una, che noi non ci possiamo opporre a
quello che ci inclina la natura; l'altra, che, avendo uno con uno modo di
procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare
bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia,
perché ella varia i tempi, ed elli non varia i modi. Nascene ancora le rovine
delle cittadi, per non si variare gli ordini delle republiche co' tempi; come
lungamente di sopra discorremo: ma sono più tarde, perché le penono
più a variare, perché bisogna che venghino tempi che commuovino tutta
la republica, a che uno solo, col variare il modo del procedere, non basta. E perché noi abbiamo fatto
menzione di Fabio Massimo che tenne a bada Annibale, mi pare da discorrere
nel capitolo sequente, se uno capitano, volendo fare la giornata in ogni modo
col nimico, può essere impedito, da quello, che non lo faccia. Capitolo 10 Che uno capitano non può
fuggire la giornata, quando l'avversario la vuol fare
in ogni modo. "Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens
se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et
locus alienus, faceret". Quando e' séguita
uno errore, dove tutti gli uomini o la maggiore parte s'ingannino, io non
credo che sia male molte volte riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di
sopra più volte mostro quanto le azioni circa le cose grandi sieno
disformi a quelle delli antichi tempi, nondimeno non mi pare superfluo al
presente replicarlo. Perché, se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini
si devia massime nelle azioni militari, dove al presente non è
osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano stimate assai. Ed è
nato questo inconveniente, perché le republiche ed i principi hanno imposta
questa cura ad altrui; e per fuggire i pericoli si sono discostati da questo
esercizio: e se pure si vede qualche volta uno re de' tempi nostri andare in
persona, non si crede, però, che da lui nasca altri modi che meritino
più laude. Perché quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno a
pompa, e non per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori
errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, tenendo a presso di
loro il titolo dello imperio, che non fanno le republiche, e massime le
italiane; le quali, fidandosi d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di
quello che appartenga alla guerra; e, dall'altro canto, volendo, per parere
d'essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale deliberazione mille
errori. E benché di alcuno ne abbi discorso altrove, voglio al presente non
ne tacere uno importantissimo. Quando questi principi oziosi, o republiche
effeminate, mandono fuora uno loro capitano, la più savia commissione
che paia loro dargli, è quando gl'impongono che per alcuno modo venga
a giornata, anzi, sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in
questo, imitare la prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il combattere,
salvò lo stato ai Romani, non intendono che, la maggiore parte delle
volte, questa commissione è nulla o è dannosa. Per che si debbe
pigliare questa conclusione: che uno capitano, che voglia stare alla
campagna, non può fuggire la giornata, qualunque volta il nemico la
vuole fare in ogni modo. E non è altro questa commissione che dire:
fa' la giornata a posta del nimico, e non a tua. Perché a volere stare in
campagna, e non fare la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che
porsi cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e di poi tenere buone spie,
che, venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro
partito ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e l'altro di
questi due partiti è dannosissimo. Nel primo si lascia in preda il
paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà più tosto
tentare la fortuna della zuffa, che allungare la guerra con tanto danno de'
sudditi. Nel secondo partito è la perdita manifesta; perché e'
conviene che, riducendoti con uno esercito in una città, tu venga ad
essere assediato, ed in poco tempo patire fame, e venire a dedizione. Talché
fuggire la giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il modo che
tenne Fabio Massimo, di stare ne' luoghi forti, è buono quando tu hai
sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti a
trovare dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che Fabio fuggissi la
giornata, ma più tosto che la volessi fare a suo vantaggio. Perché, se
Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio l'arebbe aspettato, e fatto la giornata
seco: ma Annibale non ardì mai di combattere con lui a modo di quello.
Tanto che la giornata fu fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se
uno di loro l'avessi voluta fare in ogni modo, l'altro non vi aveva se non
uno de' tre rimedi; i due sopradetti, o fuggirsi. E che questo che io dico sia
vero, si vede manifestamente con mille esempli, e massime nella guerra che i
Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di Perse: perché Filippo,
sendo assaltato dai Romani, deliberò non venire alla zuffa; e, per non
vi venire, volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in Italia; e si
pose con il suo esercito sopra la sommità d'uno monte, dove si
afforzò assai, giudicando ch'e' Romani non avessero ardire di andare a
trovarlo. Ma, andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli,
non potendo resistere, si fuggì con la maggiore parte delle genti. E
quel che lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la iniquità
del paese, qual fece che i Romani non poterono seguirlo. Filippo, adunque,
non volendo azzuffarsi, ed essendosi posto con il campo presso a' Romani, si
ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa isperienza, come, non volendo
combattere, non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo
rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro modo, di stare discosto molte
miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in una provincia, e' se ne
andava nell'altra, e così sempre, donde i Romani partivano esso
entrava. E veggendo, alla fine, come nello allungare la guerra per questa
via, le sue condizioni peggioravano, e che i suoi suggetti ora da lui ora dai
nimici erano oppressi, deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e
così venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque
non combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo
esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio, cioè avere
uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca venirti a trovare
drento alle fortezze tue; e che il nimico sia in casa tua sanza avere preso
molto piè, dove e' patisca necessità del vivere. Ed è in
questo caso il partito utile, per le ragioni che dice Tito Livio:
"nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem
in dies, et locus alienus, faceret". Ma in ogni altro termine non si
può fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché
fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con più
vergogna, quanto meno si è fatto pruova della tua virtù. E se a
lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non fussi
aiutato dal paese come egli. Che Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno
mai non lo dirà ed essendo allo incontro di Scipione in Affrica,
s'egli avessi veduto vantaggio in allungare la guerra, ei lo arebbe fatto; e
per avventura, sendo lui buono capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto
fare, come fece Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto, si debbe credere che
qualche cagione importante lo movessi. Perché uno principe che abbi uno
esercito messo insieme, e vegga che per difetto di danari o d'amici e' non
può tenere lungamente tale esercito, è matto al tutto se non
tenta la fortuna innanzi che tale esercito si abbia a risolvere: perché,
aspettando e' perde il certo; tentando, potrebbe vincere. Un'altra cosa ci è ancora
da stimare assai: la quale è che si debbe, eziandio perdendo, volere
acquistare gloria; e più gloria si ha, ad essere vinto per forza, che
per altro inconveniente che ti abbi fatto perdere. Sì che Annibale
doveva essere constretto da queste necessità. E dall'altro canto,
Scipione, quando Annibale avessi differita la giornata, e non gli fusse
bastato l'animo irlo a trovare ne' luoghi forti, non pativa, per avere di
già vinto Siface ed acquistato tante terre in Affrica, che vi poteva
stare sicuro e con commodità come in Italia. Il che non interveniva ad
Annibale, quando era all'incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che erano
allo incontro di Sulpizio. Tanto meno ancora può
fuggire la giornata colui che con lo esercito assalta il paese altrui;
perché, se vuole entrare nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico
se gli facci incontro, azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si
obliga tanto più alla zuffa: come ne' tempi nostri intervenne al duca
Carlo di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu da'
Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di Francia, che,
campeggiando Novara, fu medesimamente da' Svizzeri rotto. Capitolo 11 Che chi ha a fare con assai,
ancora che sia inferiore, pure che possa sostenere gli
primi impeti, vince. La potenza de' Tribuni della
plebe nella città di Roma fu grande; e fu necessaria, come molte volte
da noi è stato discorso, perché altrimenti non si sarebbe potuto porre
freno all'ambizione della Nobilità, la quale arebbe molto tempo
innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe. Nondimeno, perché
in ogni cosa, come altre volte si è detto, è nascoso qualche
proprio male, che fa surgere nuovi accidenti, è necessario a questo
con nuovi ordini provvedere. Essendo, pertanto, divenuta l'autorità
tribunizia insolente, e formidabile alla Nobilità e a tutta Roma, e'
ne sarebbe nato qualche inconveniente, dannoso alla libertà romana, se
da Appio Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale si avevano a
difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che trovarono sempre
infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o amatore del
comune bene; talmente che lo disponevano ad opporsi alla volontà di
quegli altri, che volessono tirare innanzi alcuna deliberazione contro alla
volontà del Senato. Il quale rimedio fu un grande temperamento a tanta
autorità, e per molti tempi giovò a Roma. La quale cosa mi ha
fatto considerare che, qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a
un altro potente ancora che tutti insieme siano molto più potenti di
quello, nondimanco si debbe sempre sperare più in quel solo e men
gagliardo che in quelli assai, ancora che gagliardissimi. Perché, lasciando
stare tutte quelle cose delle quali uno solo si può, più che
molti, prevalere (che sono infinite), sempre occorrerà questo: che
potrà, usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo,
ch'era gagliardo, fare debole. Io non voglio in questo addurre antichi
esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti
ne' tempi nostri. Congiurò nel 1481 tutta
Italia contro ai Viniziani; e poiché loro al tutto erano persi, e non
potevano stare più con lo esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno accordo, nel
quale non solamente riebbono le terre perse ma usurparono parte dello stato
di Ferrara. E così coloro che perdevano nella guerra, restarono
superiori nella pace. Pochi anni sono, congiurò contro a Francia tutto
il mondo: nondimeno, avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si
ribellò da' confederati, e fece accordo seco; in modo che gli altri
confederati furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora essi. Talché,
sanza dubbio, si debbe sempre mai fare giudicio, quando e' si vede una guerra
mossa da molti contro ad uno, che quello uno abbia a restare superiore,
quando sia di tale virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col
temporeggiarsi aspettare tempo. Perché, quando ei non fosse così,
porterebbe mille pericoli: come intervenne a' Viniziani nell'otto, i quali,
se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed avere tempo a
guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati contro, averiano fuggita
quella rovina; ma, non avendo virtuose armi da potere temporeggiare il
nimico, e per questo non avendo avuto tempo a separarne alcuno, rovinarono.
Per che si vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro
amico, e così Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di questi due
principi arebbero salvato loro lo stato di Lombardia contro a Francia, per
non la fare sì grande in Italia, se gli avessono potuto. Potevano,
dunque, i Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro avessono
fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessità, ed
innanzi ai moti della guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era
vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali moti, pochi
in Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi vedere il
rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo
discorso, conchiudo: che così come il Senato romano ebbe rimedio per
la salute della patria contro all'ambizione de' Tribuni, per essere molti,
così arà rimedio qualunque principe che sia assaltato da molti,
qualunque volta ei saprà con prudenza usare termini convenienti a
disgiungerli. Capitolo 12 Come uno capitano prudente debbe
imporre ogni necessità di combattere a' suoi soldati,
e, a quegli degli inimici, torla. Altre volte abbiamo discorso
quanto sia utile alle umane azioni la necessità, ed a quale gloria
siano sute condutte da quella; e, come da alcuni morali filosofi è
stato scritto, le mani e la lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti
a nobilitarlo, non arebbero operato perfettamente, né condotte le opere umane
a quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non fussoro
spinte. Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la
virtù di tale necessità, e quanto per quella gli animi de'
soldati diventavono ostinati al combattere; facevano ogni opera perché i
soldati loro fussero constretti da quella; e, dall'altra parte, usavono ogni
industria perché gli nimici se ne liberassero: e per questo molte volte
apersono al nimico quella via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi
soldati propri chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque,
che desidera o che una città si defenda ostinatamente, o che uno
esercito in campagna ostinatamente combatta, debbe, sopra ogni altra cosa,
ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere, tale
necessità. Onde uno capitano prudente, che avesse a andare ad una
espugnazione d'una città, debbe misurare la facilità o la
difficultà dello espugnarla, dal conoscere e considerare quale
necessità constringa gli abitatori di quella a difendersi: e quando vi
truovi assai necessità che gli constringa alla difesa, giudichi la
espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce che le
terre, dopo la rebellione, sono più difficili ad acquistare, che le
non sono nel primo acquisto; perché, nel principio, non avendo cagione di
temere di pena, per non avere offeso, si arrendono facilmente; ma parendo
loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena,
diventono difficili ad essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e'
naturali odii che hanno i principi vicini, e le republiche vicine, l'uno con
l'altro: il che procede da ambizione di dominare e gelosia del loro stato,
massimamente se le sono republiche, come interviene in Toscana; la quale gara
e contenzione ha fatto e farà sempre difficile la espugnazione l'una
dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini della città di
Firenze ed i vicini della città di Vinegia, non si
maraviglierà, come molti fanno, che Firenze abbia più speso
nelle guerre, ed acquistato meno di Vinegia: perché tutto nasce da non avere
avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa, quanto ha
avuto Firenze; per essere state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a
vivere sotto uno principe, e non libere; e quegli che sono consueti a
servire, stimono molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo
desiderano. Talché Vinegia, benché abbia avuto i vicini più potenti
che Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate, le ha potuto
più tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte
città libere. Debbe adunque uno capitano, per
tornare al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni diligenza
ingegnarsi di levare, a' difensori di quella, tale necessità, e, per consequenzia,
tale ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della pena; e se
gli avessono paura della libertà, mostrare di non andare contro al
comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della città; la quale cosa
molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre. E benché
simili colori sieno facilmente conosciuti, e massime dagli uomini prudenti;
nondimeno vi sono spesso ingannati i popoli, i quali, cupidi della presente
pace, chiuggono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe
promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono diventate
serve: come intervenne a Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a
Crasso ed allo esercito suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse
de' Parti, le quali erano fatte per tôrre via la necessità a' suoi
soldati del difendersi, non per tanto non potette tenergli ostinati, accecati
dalle offerte della pace che erano fatte loro da' loro inimici; come si vede
particularmente leggendo la vita di quello. Dico pertanto, che avendo i
Sanniti, fuora delle convenzioni dello accordo, per l'ambizione di pochi,
corso e predato sopra i campi de' confederati romani; ed avendo dipoi mandati
imbasciadori a Roma a chiedere pace, offerendo di ristituire le cose predate,
e di dare prigioni gli autori de' tumulti e della preda; furono ributtati dai
Romani. E ritornati in Sannio sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio,
capitano allora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione
mostrò come i Romani volevono in ogni modo guerra, e, benché per loro
si desiderasse la pace, necessità gli faceva seguire la guerra dicendo
queste parole: "Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma quibus
nisi in armis spes est"; sopra la quale necessità egli fondò
con gli suoi soldati la speranza della vittoria. E per non avere a tornare
più sopra questa materia, mi pare di addurci quelli esempli romani che
sono più degni di notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito,
all'incontro de' Veienti; ed essendo parte dello esercito veientano entrato
dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso di
quegli; e perché i Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli
aditi del campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a
combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed arebbero tutto
il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non fusse stato
loro aperta la via ad andarsene. Dove si vede come, mentre la
necessità costrinse i Veienti a combattere, e' combatterono ferocissimamente;
ma quando viddero aperta la via, pensarono più a fuggire che a
combattere. Erano entrati i Volsci e gli
Equi con gli eserciti loro ne' confini romani. Mandossi loro allo incontro i
Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale
era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli
steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e veggendo
come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi
soldati queste parole: "Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis
obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate
superiores estis". Sì che questa necessità è
chiamata da Tito Livio "ultimum ac maximum telum". Cammillo,
prudentissimo di tutti i capitani romani, sendo già dentro nella
città de' Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare
quella, e tôrre ai nimici una ultima necessità di difendersi,
comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli
che fussono disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese quella
città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani
osservato. Capitolo 13 Dove sia più da
confidare, o in uno buono capitano che abbia lo esercito debole, o
in uno buono esercito che abbia il capitano debole. Essendo diventato Coriolano
esule di Roma, se n'andò ai Volsci; dove contratto uno esercito per
vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne venne a Roma; donde dipoi si
partì, più per la piatà della sua madre, che per le
forze de' Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo
conosciuto, come la Republica romana crebbe più per la virtù
de' capitani che de' soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano
stati vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E benché
Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua
istoria la virtù de' soldati sanza capitano avere fatto maravigliose
pruove, ed essere stati più ordinati e più feroci dopo la morte
de' Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse nello esercito che
i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i due
capitani, poté, con la virtù sua, non solamente salvare sé stesso, ma
vincere il nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talché, discorrendo
tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la virtù de'
soldati arà vinta la giornata; e molti altri, dove solo la
virtù de' capitani arà fatto il medesimo effetto: in modo che
si può giudicare, l'uno abbia bisogno dell'altro, e l'altro dell'uno.
È cci bene da considerare, prima, quale sia più da temere, o
d'uno buono esercito male capitanato, o d'uno buono capitano accompagnato da
cattivo esercito. E seguendo in questo la opinione di Cesare, si debbe
estimare poco l'uno e l'altro. Perché, andando egli in Ispagna contro a
Afranio e Petreio, che avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava
poco, "quia ibat ad exercitum sine duce", mostrando la debolezza
de' capitani. Al contrario, quando andò in Tessaglia contro a Pompeio,
disse: "Vado ad ducem sine exercitu". Puossi considerare un'altra
cosa: a quale è più facile, o ad uno buono capitano fare uno
buono esercito, o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che
dico che tale questione pare decisa: perché più facilmente molti buoni
troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non farà
uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto
inesperto della guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi
ottimi, lo feciono tosto uno buono capitano. Armorono i Romani, per difetto
di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il
quale in poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come
altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della
servitù degli Spartani, in poco tempo fecero, de' contadini tebani,
soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la milizia spartana ma
vincerla. Sì che la cosa è pari, perché l'uno buono può
trovare l'altro. Nondimeno uno esercito buono sanza capo buono suole diventare
insolente e pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia dopo la
morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili.
Tanto che io credo che sia più da confidare assai in uno capitano che
abbi tempo ad instruire uomini e commodità di armargli, che in uno
esercito insolente con uno capo tumultuario fatto da lui. Però
è da addoppiare la gloria e la laude a quelli capitani che, non
solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma, prima che venghino alle mani con
quello, è convenuto loro instruire lo esercito loro, e farlo buono:
perché in questi si mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se tale
ferita fosse stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai
che non sono. Capitolo 14 Le invenzioni nuove, che appariscono
nel mezzo della zuffa, e le voci nuove che si odino,
quali effetti facciano. Di quanto momento sia ne'
conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente che nasca per cosa che di nuovo
si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che
occorse nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo
inclinare uno de' corni del suo esercito, cominciò a gridare forte,
che gli stessono saldi perché l'altro corno dello esercito era vittorioso:
con la quale parola avendo dato animo ai suoi e sbigottimento a' nimici,
vinse. E se tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in
uno tumultuario e male ordinato gli fanno grandissimi, perché il tutto
è mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile,
occorso ne' tempi nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono,
divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano
esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in
alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte
entrarono in quella città, e, sanza essere iscoperti, se ne venivano
per pigliare la piazza. E perché quella città in su tutti i canti
delle vie ha catene che la tengono sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti,
uno che con una mazza di ferro rompea i serrami di quelle, acciocché i
cavagli potessero passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava
in piazza, ed essendo già levato il romore all'armi, ed essendo colui
che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, né potendo per questo
alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare, gli venne detto:
- Fatevi indietro! - la quale voce andando di grado in grado dicendo
"addietro!", cominciò a fare fuggire gli ultimi, e di mano
in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e
così restò vano il disegno degli Oddi, per cagione di sì
debole accidente. Dove è da considerare
che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per potere
ordinatamente combattere quanto perché ogni minimo accidenti non ti
disordini. Perché, non per altro le moltitudini popolari sono disutili per la
guerra, se non perché ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e
fagli fuggire. E però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini
debbe ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla
ad altri, ed assuefare gli suoi soldati che non credino se non a quelli; e
gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da lui è commesso;
perché, non osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere
fatti disordini grandissimi. Quanto al vedere cose nuove,
debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che gli
eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli inimici;
perché, intra gli accidenti che ti diano la vittoria, questo è
efficacissimo. Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio,
dittatore romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi, armò
tutti i saccomanni e gente vile del campo; e quegli fatti salire sopra i muli
ed altri somieri con armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli messe
sotto le insegne, dietro ad uno colle, e comandò che, ad uno segno
dato, nel tempo che la zuffa fosse più gagliarda, si scoprissono e
mostrassinsi a' nimici. La quale cosa così ordinata e fatta, dette
tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però uno
buono capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune di queste
nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l'altra, di stare preparato che,
essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e fargliene
tornare vane. Come fece il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come
quel re aveva buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli
che ancora essa n'era copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di
vacche, e, quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma
conosciuto da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno, non
solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i
quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in su l'ardore
della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati con fuochi in su le
lance, acciocché i Romani, occupati dalla novità della cosa,
rompessono intra loro gli ordini. Sopra che è da notare, che, quando
tali invenzioni hanno più del vero che del fitto, si può bene
allora rappresentarle agli uomini, perché, avendo assai del gagliardo, non si
può scoprire così presto la debolezza loro: ma quando le hanno
più del fitto che del vero, è bene, o non le fare o, faccendole,
tenerle discosto, di qualità che le non possino essere così
presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de' mulattieri. Perché, quando vi
è dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno
danno, e non favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i
fuochi: i quali benché nel principio turbassono un poco lo esercito,
nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e cominciò a gridargli,
dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che
dovessono rivoltarsi a loro; gridando: "Suis flammis delete Fidenas,
quas vestris beneficiis placare non potuistis"; tornò quello
trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori della zuffa. Capitolo 15 Che uno e non molti sieno
preposti ad uno esercito, e come i più comandatori
offendono. Essendosi ribellati i Fidenati,
ed avendo morto quella colonia che i Romani avevano mandata in Fidene,
crearono i Romani, per rimediare a questo insulto, quattro Tribuni con
potestà consolare de' quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne
mandarono tre contro ai Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi
infra loro e disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del
disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la
virtù de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine,
ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché un solo riordinasse quello
che tre avevano disordinato. Donde si conosce la inutilità di molti
comandadori in uno esercito, o in una terra che si abbia a difendere; e Tito
Livio non lo può più chiaramente dire che con le infrascritte
parole: "Tres Tribuni potestate consulari documento fuere, quam plurium
imperium bello inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia, cum alii
aliud videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti". E benché questo sia assai
esemplo a provare il disordine che fanno nella guerra i più
comandatori, ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per
maggiore dichiarazione della cosa. Nel 1500, dopo la ripresa che
fece il re di Francia Luigi XII, di Milano, mandò le sue genti a Pisa
per ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari Giovambatista
Ridolfi e Luca di Antonio degli Albizi. E perché Giovambatista era uomo di riputazione,
e di più tempo, Luca al tutto lasciava governare ogni cosa a lui: e
s'egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col
tacere, e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava
le azioni del campo né con l'opere né con il consiglio, come se fusse stato
uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il contrario; quando
Giovambatista, per certo accidente seguito, se n'ebbe a tornare a Firenze;
dove Luca, rimasto solo, dimostrò quanto con l'animo, con la industria
e col consiglio, valeva: le quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia,
erano perdute. Voglio di nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di
Tito Livio; il quale, referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli
Equi Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta
l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice:
"Saluberrimum in administratione magnarum rerum est, summam imperii apud
unum esse". Il che è contrario a quello che oggi fanno queste nostre
republiche e principi di mandare ne' luoghi, per amministrargli meglio,
più d'uno commessario e più d'uno capo: il che fa una
inestimabile confusione. E se si cercassi le cagioni della rovina degli
eserciti italiani e franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima essere
stata questa. E puossi conchiudere veramente, come egli è meglio
mandare in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che due
valentissimi uomini insieme con la medesima autorità. Capitolo 16 Che la vera virtù si va
ne' tempi difficili, a trovare; e ne' tempi facili, non gli
uomini virtuosi, ma quegli che per ricchezze o per
parentado hanno piu' grazia. Egli fu sempre, e sempre
sarà, che gli uomini grandi e rari in una republica, ne' tempi
pacifichi, sono negletti; perché, per la invidia che si ha tirato dietro la
riputazione che la virtù d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi
assai cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro
superiori. E di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico
greco; il quale mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in
la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio degli Spartani, e
quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta riputazione che la
disegnò di occupare la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in
Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano che la si facesse,
come quelli che, pensando poco al bene publico, pensavono all'onore loro,
disegnando essere capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i
reputati di Atene, la dissuadeva; e la maggiore ragione che, nel concionare
al popolo, perché gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che,
consigliando esso che non si facesse questa guerra, e' consigliava cosa che
non faceva per lui; perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti
cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra, sapeva che
nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale. Vedesi, pertanto, adunque, come
nelle republiche è questo disordine, di fare poca stima de' valenti
uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due modi: l'uno
per vedersi mancare del grado loro; l'altro, per vedersi fare compagni e
superiori uomini indegni e di manco sofficienza di loro. Il quale disordine
nelle republiche ha causato di molte rovine; perché quegli cittadini che
immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono cagione i
tempi facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre
in pregiudicio della republica. E pensando quali potessono essere e' rimedi,
ce ne truovo due: l'uno, mantenere i cittadini poveri, acciocché con le
ricchezze sanza virtù e' non potessino corrompere né loro né altri,
l'altro, di ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra,
e sempre si avesse bisogno di cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi
primi tempi. Perché, tenendo fuori quella città sempre eserciti,
sempre vi era luogo alla virtù degli uomini; né si poteva tôrre il
grado a uno che lo meritasse, e darlo ad uno che non lo meritasse: perché, se
pure lo faceva qualche volta, per errore o per provare, ne seguiva tosto
tanto suo disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le
altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra
quando la necessità le costringe, non si possono difendere da tale
inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro; e sempre ne nascerà
disordine, quando quello cittadino, negletto e virtuoso, sia vendicativo, ed
abbia nella città qualche riputazione e aderenzia. E la città
di Roma uno tempo fece difesa; ma a quella ancora, poiché l'ebbe vinto
Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più le
guerre, pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non
riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre qualità che gli
dessono grazia nel popolo. Perché si vide che Paulo Emilio ebbe più
volte la ripulsa nel consolato, né fu prima fatto consolo che surgesse la
guerra macedonica; la quale giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la città
fu commessa a lui. Sendo nella nostra città
di Firenze seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini
fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò a sorte la
città in uno che mostrò come si aveva a comandare agli eserciti;
il quale fu Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre pericolose,
tutta l'ambizione degli altri cittadini cessò, e nella elezione del
commessario e capo degli eserciti non aveva competitore alcuno; ma come si
ebbe a fare una guerra dove non era alcuno dubbio, ed assai onore e grado, e'
vi trovò tanti competitori, che, avendosi ad eleggere tre commessari
per campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E benché e' non si vedesse
evidentemente che male ne seguisse al publico per non vi avere mandato
Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima coniettura; perché, non
avendo più i Pisani da defendersi né da vivere, se vi fusse stato
Antonio, sarebbero stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a
discrezione de' Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non sapevano
ne stringergli ne sforzargli, furono tanto intrattenuti che la città
di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a forza. Convenne che
tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava ch'e' fussi bene paziente e
buono, a non disiderare di vendicarsene, o con la rovina della città,
potendo, o con l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da che si debbe
una republica guardare; come nel seguente capitolo si discorrerà. Capitolo 17 Che non si offenda uno, e poi
quel medesimo si mandi in amministrazione e
governo d'importanza. Debbe una republica assai
considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante amministrazione, al
quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il
quale si partì dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e
con parte d'esso ne andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per
combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era
trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato
in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo
disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto
intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di sotto, e
tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli
dette carico grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato
inonestamente per tutta quella città, non sanza suo grande disonore e
disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale,
prese il soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma
stette tutta dubbia e sollevata infino a tanto che vennono le nuove della
rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato Claudio, per quale cagione
avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una estrema
necessità egli aveva giucato quasi la libertà di Roma; rispose
che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli riusciva, riacquistava quella
gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo
suo partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a
quella città ed a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente
ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese possono
tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era
incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra
città che non sia fatta come era allora quella. E perché a simili
disordini che nascano nelle republiche non si può dare certo rimedio,
ne seguita che gli è impossibile ordinare una republica perpetua,
perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina. Capitolo 18 Nessuna cosa è più
degna d'uno capitano, che presentire i partiti del
nimico. Diceva Epaminonda tebano,
nessuna cosa essere più necessaria e più utile ad uno capitano,
che conoscere le diliberazioni e' partiti del nimico. E perché tale
cognizione è difficile, merita tanto più laude quello che
adopera in modo che le coniettura. E non tanto è difficile intendere i
disegni del nimico, ch'egli è qualche volta difficile intendere le
azioni sue; e non tanto le azioni che per lui si fanno discosto, quanto le
presenti e le propinque. Perché molte volte è accaduto che, sendo
durata una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere perduto, e chi ha perduto
crede avere vinto. Il quale errore ha fatto diliberare cose contrarie alla
salute di colui che ha diliberato: come intervenne a Bruto e Cassio, i quali
per questo errore perderono la guerra; perché, avendo vinto Bruto dal corno
suo, credette Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e
disperatosi, per questo errore, della salute, ammazzò sé stesso. Ne'
nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia, a Santa Cecilia,
Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la notte, credettero,
quella parte de' Svizzeri che erano rimasti interi, avere vinto, non
sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti: il quale errore fece che
loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere la mattina con
tanto loro disavantaggio; e fecero anche errare, e per tale errore presso che
rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale, in su la falsa nuova
della vittoria, passò il Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava
prigione de' Franciosi che erano vittoriosi. Questo simile errore occorse ne'
campi romani e in quegli degli Equi. Dove, sendo Sempronio consolo con lo
esercito allo incontro degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa, si
travagliò quella giornata infino a sera, con varia fortuna dell'uno e
dell'altro: e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto,
non ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si
ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano essere più sicuri; e lo
esercito romano si divise in due parti: l'una ne andò col Console;
l'altra, con uno Tempanio centurione, per la virtù del quale lo
esercito romano quel giorno non era stato rotto interamente. Venuta la
mattina, il Consolo romano, sanza intendere altro de' nimici, si tirò
verso Roma; il simile fece lo esercito degli Equi: perché ciascuno di questi
credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse sanza
curare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio,
ch'era con il resto dello esercito romano, ritirandosi ancora esso, intese,
da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano partiti, ed avevano
abbandonati gli alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se
n'entrò negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi
saccheggiò quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso.
La quale vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro intese i
disordini del nimico. Dove si debbe notare, come e' può spesso
occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel
medesimo disordine, e patischino le medesime necessità; e che quello
resti poi vincitore che è il primo ad intendere le necessità
dello altro. Io voglio dare di questo uno
esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano uno
esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella città;
della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non veggendo altro modo a
salvarla, diliberarono di divertire quella guerra, assaltando da un'altra
banda il dominio di Firenze; e, fatto uno esercito potente, entrarono per la
Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di
Castiglione, che è in sul colle di sopra. Il che sentendo i
Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano
in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo,
le mandarono a quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano,
signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque,
condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si levarono i nimici
d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno
e l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e
l'altro assai e di vettovaglie e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo
ardire l'uno d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno dell'altro,
deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti
la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso Bersighella e
Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello. Venuta adunque la mattina,
ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a
caso una donna si partì del borgo di Marradi, e venne verso il campo
fiorentino, sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di
vedere certi suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani
delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero, in su
questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono
disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze
avergli ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non nacque da altro
che dallo avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale
notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a'
nostri il medesimo effetto. Capitolo 19 Se a reggere una moltitudine
è più necessario l'ossequio che la pena. Era la Republica romana
sollevata per le inimicizie de' nobili e de' plebei: nondimeno, soprastando
loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio.
Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi,
tanto che quasi rotto si fuggì della sua provincia; Quinzio, per
essere benigno e di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e
riportonne la vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una
moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno,
Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentano in una sua
sentenza conchiude il contrario, quando ait: "In multitudine regenda
plus poena quam obsequium valet". E considerando come si possa salvare
l'una e l'altra di queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti
sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti. Quando
ti sono compagni, non si può interamente usare la pena, né quella
severità di che ragiona Cornelio; e perché la plebe romana aveva in
Roma equale imperio con la Nobilità, non poteva uno, che ne diventava
principe a tempo, con crudeltà e rozzezza maneggiarla. E molte volte
si vide che migliore frutto fecero i capitani romani che si facevano amare
dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si
facevano istraordinariamente temere; se già e' non erano accompagnati
da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda a'
sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché non doventino insolenti, e che
per troppa tua facilità non ti calpestino, debbe volgersi più
tosto alla pena che all'ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo
moderata, che si fugga l'odio; perché farsi odiare non tornò mai bene
ad alcuno principe. Il modo del fuggirlo è lasciare stare la roba de'
sudditi: perché del sangue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno
principe ne è desideroso, se non necessitato, e questa necessità
viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina viene sempre, né mancano
mai le cagioni ed il desiderio di spargerlo; come in altro trattato sopra
questa materia si è largamente discorso. Meritò adunque,
più laude Quinzio che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini
suoi, e non ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata. E perché noi abbiamo parlato
della pena e dell'ossequio non mi pare superfluo mostrare, come uno esemplo
di umanità poté appresso i Falisci più che l'armi. Capitolo 20 Uno esemplo di umanità
appresso i falisci potette più che ogni forza romana. Essendo Cammillo con lo esercito
intorno alla città de' Falisci, e quella assediando, uno maestro di
scuola de' più nobili fanciulli di quella città, pensando di
gratificarsi Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo
con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a
Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si
darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da
Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e
dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con
di molte battiture accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli
cittadini, piacque tanto loro la umanità ed integrità di
Cammillo, che, sanza volere più difendersi, diliberarono di darli la
terra. Dove è da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche
volta possa più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di
carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte quelle
provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni
altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanità e di
piatà, di castità o di liberalità, ha aperte. Di che ne
sono nelle istorie, oltre a questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi
romane non potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la
liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta che
aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora,
come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la
espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di
castità, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo
marito; la fama della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi
ancora, questa parte quanto la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi,
e quanto sia laudata dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de'
principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali
Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie,
quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare
alcuno esemplo di sé, né di superbo, né di crudele, né di lussurioso né di
nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno, veggendo
Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran fama e gran
vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente capitolo, donde questo nasca. Capitolo 21 Donde nacque che Annibale, con
diverso modo di procedere da Scipione fece quelli medesimi
effetti in Italia che quello in Ispagna. Io estimo che alcuni si
potrebbono maravigliare veggendo come qualche capitano, nonostante ch'egli
abbia tenuto contraria vita, abbia nondimeno fatti simili effetti a coloro
che sono vissuti nel modo soprascritto: talché pare che la cagione delle
vittorie non dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli modi non ti
rechino né più forza né più fortuna, potendosi per contrari
modi acquistare gloria e riputazione. E per non mi partire dagli uomini
soprascritti, e per chiarire meglio quello che io ho voluto dire, dico come
e' si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua umanità e
piatà subito farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da'
popoli. Vedesi, allo incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti
contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina ed ogni ragione
infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in
Ispagna; perché, a Annibale, si ribellarono tutte le città d'Italia,
tutti i popoli lo seguirono. E pensando donde questa cosa
possa nascere, ci si vede dentro più ragioni. La prima è, che
gli uomini sono desiderosi di cose nuove; in tanto che così disiderano
il più delle volte novità quegli che stanno bene, come quegli
che stanno male: perché, come altra volta si disse, ed è il vero, gli
uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano. Fa, adunque, questo
desiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia si fa capo d'una
innovazione; e s'egli è forestiero, gli corrono dietro; s'egli
è provinciale, gli sono intorno, augumentanlo e favorisconlo:
talmenteché, in qualunque modo elli proceda, gli riesce il fare progressi
grandi in quegli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono spinti da due cose
principali; o dallo amore, o dal timore: talché, così gli comanda chi
si fa amare, come lui che si fa temere; anzi, il più delle volte
è più seguito e più ubbidito chi si fa temere che chi si
fa amare. Importa, pertanto, poco ad uno
capitano, per qualunque di queste vie e' si cammini, pure che sia uomo
virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli uomini.
Perché, quando la è grande, come la fu in Annibale ed in Scipione,
ella cancella tutti quegli errori che si fanno per farsi troppo amare o per
farsi troppo temere. Perché dall'uno e dall'altro di questi due modi possono
nascere inconvenienti grandi, ed atti a fare rovinare uno principe: perché
colui che troppo desidera essere amato, ogni poco che si parte dalla vera
via, diventa disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di essere temuto,
ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via del mezzo
non si può appunto, perché la nostra natura non ce lo consente: ma
è necessario queste cose che eccedono mitigare con una eccessiva
virtù, come faceva Annibale e Scipione. Nondimeno si vide come l'uno e
l'altro furono offesi da questi loro modi di vivere, e così furono
esaltati. La esaltazione di tutti a due si
è detta. L'offesa, quanto a Scipione, fu che gli suoi soldati in
Ispagna se gli ribellarono, insieme con parte de' suoi amici: la quale cosa
non nacque da altro che da non lo temere; perché gli uomini sono tanto
inquieti, che, ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione, dimenticano
subito ogni amore che gli avessero posto al principe per la umanità
sua; come fecero i soldati ed amici predetti: tanto che Scipione, per
rimediare a questo inconveniente, fu costretto usare parte di quella
crudeltà che elli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è
esemplo alcuno particulare, dove quella sua crudeltà e poca fede gli
nocesse: ma si può bene presupporre che Napoli, e molte altre terre
che stettero in fede del popolo romano, stessero per paura di quella. Viddesi
bene questo che quel suo modo di vivere impio, lo fece più odioso al
popolo romano, che alcuno altro inimico che avesse mai quella Republica: in
modo che, dove a Pirro mentre che egli era con lo esercito in Italia,
manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad Annibale mai, ancora che
disarmato e disperso, perdonarono, tanto che lo fecioro morire. Nacquene,
adunque, ad Annibale, per essere tenuto impio e rompitore di fede e crudele,
queste incommodità; ma gliene risultò allo incontro una
commodità grandissima, la quale è ammirata da tutti gli scrittori:
che, nel suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni di uomini, non
nacque mai alcuna dissensione, né infra loro medesimi, né contro di lui. Il
che non potette dirivare da altro, che dal terrore che nasceva dalla persona
sua: il quale era tanto grande, mescolato con la riputazione che gli dava la
sua virtù, che teneva i suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo,
dunque, come e' non importa molto in quale modo uno capitano si proceda, pure
che in esso sia virtù grande che condisca bene l'uno e l'altro modo di
vivere: perché, come è detto, nell'uno e nell'altro è difetto e
pericolo, quando da una virtù istraordinaria non sia corretto. E se
Annibale e Scipione, l'uno con cose laudabili, l'altro con detestabili,
feciono il medesimo effetto; non mi pare da lasciare indietro il discorrere
ancora di due cittadini romani, che conseguirono con diversi modi, ma tutti a
due laudabili, una medesima gloria. Capitolo 22 Come la durezza di Manlio
Torquato e la umanità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima gloria. E' furno in Roma in uno medesimo
tempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato e Valerio Corvino; i quali, di
pari virtù, di pari trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di
loro, in quanto si apparteneva al nimico, con pari virtù l'acquistarono,
ma quanto si apparteneva agli eserciti ed agl'intrattenimenti de' soldati,
diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni generazione di
severità sanza intermettere a' suoi soldati o fatica o pena, gli
comandava: Valerio, dall'altra parte, con ogni modo e termine umano, e pieno
di una familiare domestichezza, gl'intratteneva. Per che si vide, che, per
avere l'ubbidienza de' soldati, l'uno ammazzò il figliuolo, e l'altro
non offese mai alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno
fece il medesimo frutto, e contro a' nimici ed in favore della republica e
suo. Perché nessuno soldato non mai o detrattò la zuffa o si
ribellò da loro o fu, in alcuna parte, discrepante dalla voglia di
quegli; quantunque gl'imperi di Manlio fussero sì aspri, che tutti gli
altri imperi che eccedevano il modo, erano chiamati "manliana
imperia". Dove è da considerare, prima, donde nacque che Manlio
fu costretto procedere sì rigidamente; l'altro, donde avvenne che
Valerio potette procedere sì umanamente l'altro, quale cagione fe' che
questi diversi modi facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia di
loro meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera bene la natura
di Manlio d'allora che Tito Livio ne comincia a fare menzione, lo
vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e verso la patria, e
reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte di quel
Francioso, dalla difesa del padre contro al Tribuno; e come, avanti ch'egli
andasse alla zuffa del Francioso, e' n'andò al Consolo con queste
parole: "Iniussu tuo adversus hostem nunquam pugnabo, non si certam
victoriam videam". Venendo, dunque, un uomo così fatto a grado
che comandi, desidera di trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo
forte gli fa comandare cose forti; e quel medesimo, comandate che le sono,
vuole si osservino. Ed è una regola verissima, che, quando si comanda
cose aspre, conviene con asprezza farle osservare; altrimenti, te ne
troverresti ingannato. Dove è da notare, che a volere essere ubbidito,
è necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che fanno
comparazione dalle qualità loro a quelle di chi ha ad ubbidire; e
quando vi veggono proporzione, allora comandino; quando sproporzione, se ne
astenghino. E però diceva un uomo
prudente, che, a tenere una republica, con violenza, conveniva fusse
proporzione da chi sforzava a quel che era sforzato. E qualunque volta questa
proporzione vi era, si poteva credere che quella violenza fusse durabile; ma
quando il violentato fusse più forte che il violentante, si poteva
dubitare che ogni giorno quella violenza cessasse. Ma tornando al discorso nostro,
dico che, a comandare le cose forti, conviene essere forte; e quello che
è di questa fortezza e che le comanda, non può poi con dolcezza
farle osservare. Ma chi non è di questa fortezza d'animo, si debbe
guardare dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la sua
umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono imputate al principe,
ma alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi, dunque, credere che Manlio fusse costretto
procedere sì rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a' quali lo
inclinava la sua natura: i quali sono utili in una republica, perché e'
riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua antica
virtù. E se una republica fusse sì felice, ch'ella avesse
spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo le rinnovasse le leggi;
e non solo la ritenesse che la non corresse alla rovina, ma la ritirasse
indietro; la sarebbe perpetua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con
l'asprezza de' suoi imperi ritenne la disciplina militare in Roma; costretto
prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che
il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto, Valerio
potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si osservassono le
cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La quale consuetudine, perché
era buona, bastava ad onorarlo; e non era faticosa a osservarla, e non
necessitava Valerio a punire i transgressori: sì perché non ve n'era;
sì perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come è
detto, la punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del principe.
In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni umanità, dalla
quale ei potesse acquistare grado con i soldati, e la contentezza loro. Donde
nacque che, avendo l'uno e l'altro la medesima ubbidienza, potettono,
diversamente operando, fare il medesimo effetto. Possono quelli che volessero
imitare costoro, cadere in quelli vizi di dispregio e di odio che io dico, di
sopra, di Annibale e di Scipione: il che si fugge con una virtù
eccessiva che sia in te, e non altrimenti. Resta ora a considerare quale di
questi modi di procedere sia più laudabile. Il che credo sia
disputabile, perché gli scrittori lodano l'uno modo e l'altro. Nondimeno,
quegli che scrivono come uno principe si abbia a governare, si accostano
più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di
molti esempli della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che
dice di Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo contro ai Sanniti,
e venendo il dì che doveva combattere, parlò a' suoi soldati
con quella umanità con la quale ei si governava; e dopo tale parlare,
Tito Livio dice quelle parole: "Non alias militi familiarior dux fuit,
inter infimos milites omnia haud gravate mundia obeundo. In ludo praeterea
militari, cum velocitatis viriumque inter se aequales certamina ineunt,
comiter facilis vincere ac vinci vultu eodem; nec quemquam aspernari parem
qui se offerret; factis benignus pro re; dictis haud minus libertatis
alienae, quam suae dignitatis memor; et (quo nihil popularius est) quibus
artibus petierat magistratus, iisdem gerebat". Parla medesimamente, di
Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua severità nella morte
del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al Consolo, che fu cagione
della vittoria che il popolo romano ebbe contro ai Latini; ed in tanto
procede in laudarlo, che, dopo tale vittoria, descritto ch'egli ha tutto
l'ordine di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che il popolo romano vi
corse, e le difficultà che vi furono a vincere fa questa conclusione:
che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E
faccendo comparazione delle forze dell'uno e dell'altro esercito, afferma come
quella parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio. Talché
considerato tutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile
giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte indecisa, dico come in
uno cittadino che viva sotto le leggi d'una republica, credo sia più
laudabile e meno pericoloso il procedere di Manlio: perché questo modo tutto
è in favore del publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione
privata; perché tale modo non si può acquistare partigiani, mostrandosi
sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il bene commune; perché chi fa
questo, non si acquista particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra
si disse, partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non può
essere più utile né più disiderabile in una republica; non
mancando in quello la utilità publica, e non vi potendo essere alcun
sospetto della potenza privata. Ma nel modo del procedere di Valerio è
il contrario: perché, se bene in quanto al publico si fanno e' medesimi
effetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni per la particulare
benivolenza che colui si acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio
cattivi effetti contro alla libertà. E se in Publicola questi cattivi
effetti non nacquono, ne fu cagione non essere ancora gli animi de' Romani
corrotti, e quello non essere stato lungamente e continovamente al governo
loro. Ma se noi abbiamo a considerare uno principe, come considera Senofonte,
noi ci accostereno al tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno principe
debbe cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza e lo amore. La
ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere
tenuto virtuoso; lo amore gli dà l'affabilità,
l'umanità, la piatà, e l'altre parti che erano in Valerio, e
che Senofonte scrive essere in Ciro. Perché lo essere uno principe bene
voluto particularmente, ed avere lo esercito suo partigiano, si conforma con
tutte l'altre parti dello stato suo: ma in uno cittadino che abbia lo
esercito suo partigiano, non si conforma già questa parte con l'altre
sue parti, che lo hanno a fare vivere sotto le leggi ed ubidire ai
magistrati. Leggesi intra le cose antiche
della Republica viniziana, come, essendo le galee viniziane tornate in
Vinegia, e venendo certa differenza intra quegli delle galee ed il popolo,
donde si venne al tumulto ed all'armi, né si potendo la cosa quietare né per
forza di ministri né per riverenza di cittadini né timore de' magistrati;
subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo che era, l'anno
davanti, stato capitano loro, per amore di quello si partirono, e lasciarono
la zuffa. La quale ubbidienza generò tanta suspizione al Senato, che,
poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o per morte, se ne
assicurarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno
principe e pernizioso in uno cittadino; non solamente alla patria, ma a sé a
lei, perché quelli modi preparano la via alla tirannide; a sé, perché in
sospettando la sua città del modo del procedere suo è costretta
assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario, affermo il
procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, ed in uno cittadino
utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte offende; se già
questo odio che ti reca la tua severità, non è accresciuto da
sospetto che l'altre tue virtù per la gran riputazione ti arrecassono:
come, di sotto, di Cammillo si discorrerà. Capitolo 23 Per quale cagione Cammillo fusse
cacciato di Roma. Noi abbiamo conchiuso di sopra,
come, procedendo come Valerio, si nuoce alla patria ed a sé; e, procedendo
come Manlio, si giova alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si
pruova assai bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere suo
simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio, parlando di
lui, dice, come "eius virtutem milites oderant, et mirabantur". Quello che lo faceva tenere
maraviglioso era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza dello animo, il
buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel comandare agli eserciti:
quello che lo faceva odiare, era essere più severo nel gastigargli che
liberale nel rimunerargli. E Tito Livio ne adduce di questo odio queste
cagioni: la prima, che i danari che si trassono de' beni de' Veienti che si
venderono, esso gli applicò al publico, e non gli divise con la preda:
l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il suo carro trionfale da quattro
cavagli bianchi, dove essi dissero che per la superbia e' si era voluto
agguagliare al Sole: la terza, che ei fece voto di dare a Apolline la decima
parte della preda de' Veienti, la quale, volendo sodisfare al voto, si aveva
a trarre delle mani de' soldati che l'avevano di già occupata. Dove si
notano bene e facilmente quelle cose che fanno uno principe odioso appresso
il popolo; delle quali la principale è privarlo d'uno utile. La quale è
cosa d'importanza assai, perché le cose che hanno in sé utilità,
quando l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima
necessità te ne fa ricordare; e perché le necessità vengono
ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno. L'altra cosa è lo apparire
superbo ed enfiato; il che non può essere più odioso a' popoli,
e massime a' liberi. E benché da quella superbia e da quel fasto non ne
nascesse loro alcuna incommodità, nondimeno hanno in odio chi l'usa:
da che uno principe si debbe guardare come da uno scoglio: perché tirarsi
odio addosso senza suo profitto, è al tutto partito temerario e poco
prudente. Capitolo 24 La prolungazione degl'imperii
fece serva Roma. Se si considera bene il
procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere state
cagione della risoluzione di quella Republica: l'una furon le contenzioni che
nacquono dalla legge agraria; l'altra, la prolungazione degli imperii: le
quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i debiti
rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e per avventura
più quieto. E benché, quanto alla prolungazione dello imperio, non si
vegga che in Roma nascessi mai alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto,
quanto nocé alla città quella autorità che i cittadini per tali
diliberazioni presono. E se gli altri cittadini a chi era prorogato il
magistrato, fussono stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio, non si sarebbe
incorso in questo inconveniente. La bontà del quale è di uno
esemplo notabile, perché, essendosi fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione
d'accordo, ed avendo la Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni,
giudicandogli atti a potere resistere all'ambizione de' nobili, volle il
Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, prolungare il
consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa
diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli,
non di accrescergli con uno altro più cattivo esemplo, e volle si
facessono nuovi Consoli. La quale bontà e prudenza se fosse stata in
tutti i cittadini romani, non arebbe lasciata introdurre quella consuetudine
di prolungare i magistrati, e da quelli non si sarebbe venuto alla
prolungazione delli imperii: la quale cosa, col tempo, rovinò quella
Republica. Il primo a chi fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il
quale essendo a campo alla città di Palepoli, e venendo la fine del
suo consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella vittoria,
non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo; talché fu il primo
Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal Senato per utilità
publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perché, quanto
più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve loro
tale prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due
inconvenienti: l'uno, che meno numero di uomini si esercitarono negl'imperii,
e si venne per questo a ristringere la riputazione in pochi: l'altro, che,
stando uno cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava
e facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il
Senato e riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare
soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per questo, Cesare
potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessono prolungati i
magistrati e gli imperii, se non venivano sì tosto a tanta potenza, e
se fussono stati più tardi gli acquisti loro, sarebbono ancora
più tardi venuti nella servitù. Capitolo 25 Della povertà di
Cincinnato e di molti cittadini romani. Noi abbiamo ragionato altrove
come la più utile cosa che si ordini in uno vivere libero è che
si mantenghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale
ordine fusse quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria
avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo
quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima
povertà; né si può credere che altro ordine maggiore facesse
questo effetto, che vedere come per la povertà non ti era impedita la
via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e' si andava a trovare la
virtù in qualunque casa l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva
manco desiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perché, sendo
Minuzio consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si empié di paura
Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a creare il
Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio
Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola villa, la quale
lavorava di sua mano. La quale cosa con parole auree e celebrata da Tito
Livio, dicendo: "Operae pretium est audire, qui omnia prae divitiis
humana spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse, nisi
effusae affluant opes". Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale
non trapassava il termine di quattro iugeri quando da Roma vennero i Legati
del Senato a significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli in
quale pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga,
venuto in Roma e ragunato uno esercito ne andò a liberare Minuzio, ed
avendo rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non volle che lo
esercito assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: -
Io non voglio che tu participi della preda di coloro de' quali tu se' stato
per essere preda; - e privò Minuzio del consolato, e fecelo Legato,
dicendogli: - Starai in questo grado tanto, che tu impari a sapere essere
Consolo -. Aveva fatto suo Maestro de' cavagli Lucio Tarquinio, il quale per
la povertà militava a piede. Notasi, come è detto, l'onore che
si faceva in Roma alla povertà; e come a un uomo buono e valente,
quale era Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale
povertà si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo; perché,
sendo in Affrica con gli eserciti, domandò licenza al Senato per
potere tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da' suoi
lavoratori. Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la povertà, e come
vi stavano dentro contenti, e come e' bastava a quelli cittadini trarre della
guerra onore, e l'utile tutto lasciavano al publico. Perché, s'egli avessero
pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi
campi fussono stati guasti. L'altra è considerare la generosità
dell'animo di quelli cittadini, i quali, preposti ad uno esercito, saliva la
grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non le
republiche; non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi
privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facultà
loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli loro maggiori: talché pare
impossibile che uno medesimo animo patisca tale mutazione. Durò questa
povertà ancora infino a' tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli
ultimi felici tempi di quella Republica, dove uno cittadino, che col trionfo
suo arricchì Roma, nondimeno mantenne povero sé. Ed in tanto si
stimava ancora la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato
bene nella guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale
fu il primo ariento che fusse nella sua casa. Potrebbesi, con un lungo
parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la povertà che la
ricchezza, e come l'una ha onorato le città, le provincie, le sétte, e
l'altra le ha rovinate; se questa materia non fusse stata molte volte da
altri uomini celebrata. Capitolo 26 Come per cagione di femine si
rovina uno stato. Nacque nella città
d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una sedizione per cagione d'uno
parentado: dove, avendosi a maritare una femina ricca, la domandarono
parimente uno plebeo ed uno nobile; e non avendo quella padre, i tutori la
volevono congiugnere al plebeo, la madre al nobile: di che nacque tanto
tumulto, che si venne alle armi; dove tutta la Nobilità si armò
in favore del nobile, e tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo
superata la plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a' Volsci per aiuto:
i nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e, giunti intorno ad Ardea,
si accamparono. Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i Volsci infra la terra
e loro; tanto che gli costrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi a
discrezione. Ed entrati i Romani in Ardea, e morti tutti i capi della
sedizione, composono le cose di quella città. Sono in questo testo più
cose da notare. Prima, si vede come le donne sono state cagioni di molte
rovine, ed hanno fatti gran danni a quegli che governano una città, ed
hanno causato di molte divisioni in quelle: e, come si è veduto in
questa nostra istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia tolse lo stato ai
Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i Dieci
dell'autorità loro. Ed Aristotile, intra le prime cause che mette
della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle
donne, o con stuprarle, o con violarle, o con rompere i matrimonii; come di
questa parte, nel capitolo dove noi trattamo delle congiure, largamente si
parlò. Dico, adunque, come i principi assoluti ed i governatori delle
republiche non hanno a tenere poco conto di questa parte; ma debbono
considerare i disordini che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi
in tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio dello stato loro o
della loro republica: come intervenne agli Ardeati; i quali, per avere
lasciato crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussero a
dividersi infra loro; e, volendo riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi
esterni: il che è uno grande principio d'una propinqua servitù. Ma veniamo allo altro notabile,
del modo del riunire le città; del quale nel futuro capitolo
parlereno. Capitolo 27 Come e' si ha ad unire una
città divisa; e come e' non è vera quella opinione, che, a tenere
le città, bisogni tenerle divise. Per lo esemplo de' Consoli
romani che riconciliorono insieme gli Ardeati, si nota il modo come si debbe
comporre una città divisa: il quale non è altro, né altrimenti
si debbe medicare, che ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è necessario
pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli, come feciono costoro; o rimuovergli
della città; o fare loro fare pace insieme, sotto oblighi di non si
offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è più dannoso,
meno certo e più inutile. Perché gli è impossibile, dove sia
corso assai sangue, o altre simili ingiurie, che una pace, fatta per forza,
duri, riveggendosi ogni dì insieme in viso; ed è difficile che
si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere infra loro ogni
dì, per la conversazione, nuove cagioni di querele. Sopra che non si può dare
il migliore esemplo che la città di Pistoia. Era divisa quella
città, come è ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e
Cancellieri; ma allora era in sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte
dispute infra loro vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la
roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre, sempre vi usarono quel terzo modo; e sempre ne nacque maggiori
tumulti e maggiori scandali: tanto che, stracchi, e' si venne al secondo
modo, di rimuovere i capi delle parti; de' quali alcuni messono in prigione
alcuni altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto potette
stare, ed è stato infino a oggi. Ma sanza dubbio più sicuro saria
stato il primo. Ma perché simili esecuzioni hanno il grande ed il generoso,
una republica debole non le sa fare, ed ènne tanto discosto, che a
fatica la si conduce al rimedio secondo. E questi sono di quegli errori che
io dissi nel principio, che fanno i principi de' nostri tempi, che hanno a
giudicare le cose grandi; perché doverrebbono volere udire come si sono
governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili casi. Ma la
debolezza de' presenti uomini, causata dalla debole educazione loro e dalla
poca notizia delle cose, fa che si giudicano i giudicii antichi, parte
inumani, parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne opinioni, discosto al
tutto dal vero, come è quella che dicevano e' savi della nostra
città, un tempo fa: che bisognava tenere Pistoia con le parti, e Pisa
con le fortezze; e non si avveggono, quanto l'una e l'altra di queste due
cose è inutile. Io voglio lasciare le fortezze,
perché di sopra ne parlamo a lungo; e voglio discorrere la inutilità
che si trae del tenere le terre, che tu hai in governo, divise. In prima,
egli è impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle parti amiche,
o principe o republica che le governi. Perché dalla natura è dato agli
uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa
che quella. Talché, avendo una parte di quella terra male contenta, fa che,
la prima guerra che viene, te la perdi; perché gli è impossibile
guardare una città che abbia e' nimici fuori e dentro. Se la è
una republica che la governi, non ci è il più bel modo a fare
cattivi i tuoi cittadini ed a fare dividere la tua città, che avere in
governo una città divisa; perché ciascuna parte cerca di avere favori,
e ciascuna si fa amici con varie corruttele: talché ne nasce due grandissimi
inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai mai amici, per non gli potere
governare bene, variando il governo spesso, ora con l'uno, ora con l'altro
omore; l'altro, che tale studio di parte divide di necessità la tua
republica. Ed il Biondo, parlando de' Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede,
dicendo: "Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia,
divisono sé medesimi". Pertanto, si può facilmente considerare il
male che da questa divisione nasca. Nel 1502, quando si perdé
Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal
duca Valentino, venne un monsignor di Lant, mandato dal re di Francia a fare
ristituire ai Fiorentini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant in ogni
castello uomini che, nel vicitarlo, dicevano che erano della parte di
Marzocco, biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se in Francia
uno di quegli sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe
gastigato, perché tale voce non significherebbe altro, se non che in quella
terra fusse gente inimica del re, e quel re vuole che le terre tutte sieno
sue amiche, unite e sanza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni
diverse dalla verità, nascono dalla debolezza di chi è signore;
i quali, veggendo di non potere tenere gli stati con forza e con
virtù, si voltono a simili industrie: le quali qualche volta ne' tempi
quieti giovano qualche cosa, ma, come e' vengono le avversità ed i
tempi forti, le mostrano la fallacia loro. Capitolo 28 Che si debbe por mente alle
opere de' cittadini, perché molte volte sotto una opera pia si nasconde
uno principio di tirannide. Essendo la città di Roma
aggravata dalla fame, e non bastando le provisioni publiche a cessarla, prese
animo uno Spurio Melio, essendo assai ricco, secondo quegli tempi, di fare
provisione privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per
la quale cosa, egli ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che il
Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua liberalità
poteva nascere, per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli
creò uno Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare,
come molte volte le opere che paiono pie e da non le potere ragionevolmente
dannare, diventono crudeli, e per una republica sono pericolosissime, quando
le non siano a buona ora corrette. E per discorrere questa cosa più
particularmente, dico che una republica sanza i cittadini riputati non
può stare, né può governarsi in alcuno modo bene. Dall'altro
canto, la riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle
republiche. E volendo regolare questa cosa, bisogna ordinarsi talmente, che i
cittadini siano riputati, di riputazione che giovi, e non nuoca, alla
città ed alla libertà di quella. E però si debbe
esaminare i modi con i quali e' pigliano riputazione; che sono in effetto due:
o publici o privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando bene,
operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si
debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii ed ai consigli ed alle
opere, talché se ne abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste
riputazioni, prese per queste vie, siano stiette e semplici, non saranno mai
pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l'altro
modo preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private
sono, faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col prestargli
danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati, e faccendogli
simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani, e danno animo,
a chi è così favorito, di potere corrompere il publico e
sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire le vie
come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi
li cerca per vie private, come si vede che fece Roma perché in premio di chi
operava bene per il publico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori
che la dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie
private cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non
bastassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso bene,
ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse ritornare
dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed
una che di queste cose si lasci impunita, è atta a rovinare una
republica; perché difficilmente con quello esemplo si riduce dipoi in la vera
via. Capitolo 29 Che gli peccati de' popoli
nascono dai principi. Non si dolghino i principi di
alcuno peccato che facciono i popoli ch'egli abbiano in governo; perché tali peccati
conviene che naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di
simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi sono
stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che
sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di simile
natura. La Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa Alessandro
VI quegli signori che la comandavano, era un esempio d'ogni sceleratissima
vita, perché quivi si vedeva per ogni leggiere cagione seguire occisioni e rapine
grandissime. Il che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non dalla
natura trista degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi
poveri, e volendo vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte
rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra l'altre disoneste vie che
tenevano, e' facevano leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i primi
che davano cagione della inosservanza di esse, né mai punivano gli
inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere incorsi in simile
pregiudizio; ed allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge
fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva molti
inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i popoli s'impoverivano, e non si
correggevano; e quegli che erano impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno
potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra
si dicano, de' quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo
mostra Tito Livio quando e' narra che, portando i Legati romani il dono della
preda de' Veienti ad Apolline, furono presi da' corsali di Lipari in Sicilia,
e condotti in quella terra: ed inteso Timasiteo, loro principe, che dono era
questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a
Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare
simile dono; tanto che, con il consenso dello universale, ne lasciò
andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico sono
queste: "Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper
regenti est similis". E Lorenzo de' Medici, a confermazione di questa
sentenza, dice: e quel che fa 'l signor, fanno
poi molti; ché nel signor son tutti gli
occhi volti. Capitolo 30 A uno cittadino che voglia nella
sua republica fare di sua autorità alcuna opera buona, è
necessario, prima, spegnere l'invidia: come, vedendo il nimico,
si ha a ordinare la difesa d'una città. Intendendo il Senato romano come
la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a' danni di Roma; e
come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del Popolo romano, si
erano accostati con i Volsci, perpetui inimici di Roma; giudicò questa
guerra dovere essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di
potestà consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il
Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma
dello imperio. Il che detti Tribuni fecero volontariamente: "Nec
quicquam (dice Tito Livio) de maiestate sua detractum credebant, quod
maiestati eius concessissent". Onde Cammillo, presa a parole questa
ubbidienza, comandò che si scrivesse tre eserciti. Del primo volle
essere capo lui, per ire contro a' Toscani. Del secondo fece capo Quinto
Servilio, il quale volle stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli
Ernici, se si movessono. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale
scrisse per tenere guardata la città e difese le porte e la curia, in
ogni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò che Orazio, uno de'
suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e l'altre cose che richieggono
i tempi della guerra. Prepose Cornelio, ancora, suo collega, al Senato ed al
publico consigliò, acciocché potesse consigliare le azioni che
giornalmente si avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli Tribuni, in
quelli tempi, per la salute della patria, disposti a comandare ed a ubbidire.
Notasi per questo testo, quello che faccia uno uomo buono e savio, e di
quanto bene sia cagione, e quanto utile e' possa fare alla sua patria,
quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta la
invidia; la quale è molte volte cagione che gli uomini non possono
operare bene, non permettendo detta invidia che gli abbino quella
autorità la quale è necessaria avere nelle cose d'importanza.
Spegnesi questa invidia in due modi. O per qualche accidente forte e
difficile, dove ciascuno, veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre
volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo
possa liberare: come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé tanti
saggi di uomo eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, ed
avendo amministrato sempre quel grado ad utile publico, e non a propria
utilità aveva fatto che gli uomini non temevano della grandezza sua; e
per esser tanto grande e tanto riputato, non stimavano cosa vergognosa essere
inferiori a lui (e però dice Tito Livio saviamente quelle parole
"Nec quicquam" ecc.) in un altro modo si spegne l'invidia quando, o
per violenza o per ordine naturale, muoiono coloro che sono stati tuoi
concorrenti nel venire a qualche riputazione ed a qualche grandezza; quali,
veggendoti riputato più di loro, è impossibile che mai
acquieschino, e stieno pazienti. E quando e' sono uomini che siano usi a
vivere in una città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in
loro alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno, mai
si ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro
perversità d'animo sarebbero contenti vedere la rovina della loro
patria. A vincere questa invidia non ci è altro rimedio che la morte di
coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto propizia a quell'uomo
virtuoso, che si muoiano ordinariamente, diventa, sanza scandalo, glorioso,
quando sanza ostacolo e sanza offesa e' può mostrare la sua
virtù; ma quando e' non abbi questa ventura, gli conviene pensare per
ogni via a torsegli dinanzi; e prima che e' facci cosa alcuna, gli bisogna
tenere modi che vinca questa difficultà. E chi legge la Bibbia
sensatamente, vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le
sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti
uomini, i quali, non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a'
disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo frate Girolamo
Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L'uno
non potette vincerla, per non avere autorità a poterlo fare (che fu il
frate), e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne
arebbero avuto autorità. Nonpertanto per lui non rimase, e le sue
prediche sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive contro a loro:
perché chiamava così questi invidi, e quegli che si opponevano agli
ordini suoi. Quell'altro credeva, col tempo, con la bontà, con la
fortuna sua, col benificare alcuno, spegnere questa invidia; vedendosi di assai
fresca età, e con tanti nuovi favori che gli arrecava el modo del suo
procedere, che credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli
opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non sapeva che il
tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna
varia, e la malignità non truova dono che la plachi. Tanto che l'uno e
l'altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata da non avere
saputo o potuto vincere questa invidia. L'altro notabile è
l'ordine che Cammillo dette, dentro e fuori, per la salute di Roma. E
veramente, non sanza cagione gli istorici buoni, come è questo nostro,
mettono particularmente e distintamente certi casi, acciocché i posteri
imparino come gli abbino in simili accidenti difendersi. E debbesi in questo
testo notare, che non è la più pericolosa né la più
inutile difesa, che quella che si fa tumultuariamente e sanza ordine. E
questo si mostra per quello terzo esercito che Cammillo fece scrivere per
lasciarlo, in Roma, a guardia della città: perché molti arebbero
giudicato e giudicherebbero questa parte superflua, sendo quel popolo, per
l'ordinario, armato e bellicoso; e per questo, che non bisognasse di
scriverlo altrimenti, ma bastasse farlo armare quando il bisogno venisse. Ma
Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso, la giudica altrimenti;
perché non permette mai che una moltitudine pigli l'arme, se non con certo
ordine e certo modo. E però, in su questo esemplo, uno che sia
preposto a guardia d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare
armare gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti
quegli che voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a convenire,
dove a andare; e, quegli che non sono scritti, comandare che stieno ciascuno
alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine in una
città assaltata, facilmente si potranno difendere: chi farà
altrimenti, non imiterà Cammillo, e non si difenderà. Capitolo 31 Le republiche forti e gli uomini
eccellenti ritengono in ogni fortuna il medesimo animo e la
loro medesima dignità. Intra l'altre magnifiche cose
che 'l nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per mostrare come debbe
essere fatto un uomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: "Nec
mihi dictatura animos fecit, nec exilium ademit". Per le quali si vede,
come gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la
varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma tengono
sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo del vivere loro,
che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra di
loro. Altrimenti si governano gli uomini deboli perché invaniscono ed
inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a
quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce che diventano
insopportabili ed odiosi a tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi
depende la subita variazione della sorte; la quale come veggono in viso,
caggiono subito nell'altro difetto, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce
che i principi così fatti pensano nelle avversità più a
fuggirsi che a difendersi, come quelli che, per avere male usata la buona
fortuna, sono ad ogni difesa impreparati. Questa virtù, e questo
vizio, che io dico trovarsi in un uomo solo, si truova ancora in una
republica, ed in esemplo ci sono i Romani ed i Viniziani. Quelli primi,
nessuna cattiva sorte gli fece mai diventare abietti né nessuna buona fortuna
gli fece mai essere insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta
ch'egli ebbero a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco;
perché, per quella rotta, ancora che gravissima per essere stata la terza,
non invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non vollono riscattare i loro
prigioni contro agli ordini loro; non mandarono ad Annibale o a Cartagine a
chiedere pace: ma, lasciate stare tutte queste cose abiette indietro,
pensarono sempre alla guerra armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i
servi loro. La quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si
disse, mostrò a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere della
rotta di Canne. E così si vide come i tempi difficili non gli
sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra parte, i tempi prosperi non
gli facevano insolenti: perché, mandando Antioco oratori a Scipione, a
chiedere accordo, avanti che fussono venuti alla giornata, e ch'egli avesse
perduto Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano, che si
ritirasse dentro alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo
romano. Il quale accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata, e
perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione, con commissione che
pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal vincitore: alli quali
non propose altri patti che quegli si avesse offerti innanzi che vincesse;
soggiugnendo queste parole: "Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur
animis; nec, si vincunt, insolescere solent". Al contrario appunto di questo
si è veduto fare ai Viniziani: i quali nella buona fortuna, parendo
loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano
venuti a tanta insolenza che chiamavano il re di Francia figliuolo di San
Marco; non stimavano la Chiesa; non capivano in modo alcuno in Italia; ed
eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile alla
romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una
mezza rotta a Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto
lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al re di
Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in tanto invilirono, che
mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi tributari, scrissono al papa
lettere piene di viltà e di sommissione per muoverlo a compassione.
Alla quale infelicità pervennono in quattro giorni, e dopo una mezza
rotta: perché, avendo combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a
combattere ed essere oppresso circa la metà, in modo che, l'uno de'
Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo. Talmenteché, se a
Vinegia e negli ordini loro fosse stata alcuna qualità di
virtù, facilmente si potevano rifare, e rimostrare di nuovo il viso
alla fortuna, ed essere a tempo o a vincere o a perdere più
gloriosamente, o ad avere accordo più onorevole. Ma la viltà
dello animo loro, causata dalla qualità de' loro ordini non buoni
nelle cose della guerra, gli fece ad un tratto perdere lo stato e l'animo. E
sempre interverrà così a qualunque si governa come loro. Perché
questo diventare insolente nella buona fortuna ed abietto nella cattiva,
nasce dal modo del procedere tuo, e dalla educazione nella quale ti se'
nutrito: la quale, quando è debole e vana, ti rende simile a sé;
quando è stata altrimenti, ti rende anche d'un'altra sorte; e,
faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e
meno rattristare del male. E quello che si dice d'uno solo, si dice di molti
che vivono in una republica medesima; i quali si fanno di quella perfezione,
che ha il modo del vivere di quella. E benché altra volta si sia detto
come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; e come, dove
non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa
buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad ogni punto nel leggere
questa istoria si vede apparire questa necessità; e si vede come la
milizia non puoté essere buona, se la non è esercitata; e come la non
si può esercitare, se la non è composta di tuoi sudditi. Perché
sempre non si sta in guerra, né si può starvi. Però conviene
poterla esercitare a tempo di pace; e con altri che con sudditi non si
può fare questo esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo andato,
come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai Toscani; ed avendo i suoi
soldati veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si erano tutti sbigottiti,
parendo loro essere tanto inferiori da non potere sostenere l'impeto di
quegli. E pervenendo questa mala disposizione del campo agli orecchi di
Cammillo, si mostrò fuora, ed andando parlando per il campo a questi e
quelli soldati, trasse loro del capo questa opinione; e nello ultimo, sanza
ordinare altrimenti il campo, disse: "Quod quisque didicit, aut
consuevit, faciet". E chi considera bene questo termine, e le parole
disse loro, per inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non
si poteva né dire né fare fare alcuna di quelle cose a uno esercito che prima
non fosse stato ordinato ed esercitato ed in pace ed in guerra. Perché di
quegli soldati che non hanno imparato a fare cosa alcuna, non può uno
capitano fidarsi, e credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli
comandasse uno nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno
capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non ha prima in
ogni parte ordinato di potere avere uomini che abbino lo spirito suo e bene
gli ordini e modi del procedere suo, conviene di necessità che ci
rovini. Se, adunque, una città sarà armata ed ordinata come
Roma; e che ogni dì ai suoi cittadini, ed in particulare ed in
publico, tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della potenza
della fortuna; interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei
fiano del medesimo animo, e manterranno la medesima loro degnità: ma
quando e' fiano disarmati, e che si appoggeranno solo agl'impeti della
fortuna e non alla propria virtù, varieranno col variare di quella, e
daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno dato i Viniziani. Capitolo 32 Quali modi hanno tenuti alcuni a
turbare una pace. Essendosi ribellate dal Popolo romano
Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere difese dai
Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza,
consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a
raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che erano
stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si
voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace,
incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E
veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno principe lievi al tutto
l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né
più stabile, che farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui
con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia: perché sempre lo
terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per
lo errore commesso avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi
ebbono con i Romani, quelli soldati che dai Cartaginesi erano stati adoperati
in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne
andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono
l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e Spendio,
occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I
Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, mandarono, a
quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse
alcuna autorità con quelli, essendo stato per lo adietro loro
capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli
soldati a non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per
questo obligarli alla guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare
costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro
prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in
prima gli straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti
i Cartaginesi, che per lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile
modo uccidere. La quale diliberazione ed esecuzione fece quello esercito
crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi. Capitolo 33 Egli è necessario, a
volere vincere una giornata, fare lo esercito confidente ed
infra loro e con il capitano. A volere che uno esercito vinca
la giornata, è necessario farlo confidente, in modo che creda dovere
in ogni modo vincere. Le cose che lo fanno confidente sono: che sia armato ed
ordinato bene; conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa
confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono nati e vissuti
insieme. Conviene che il capitano sia stimato di qualità che confidino
nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo vegghino ordinato,
sollecito ed animoso, e che tenga bene e con riputazione la maestà del
grado suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca degli errori, e
non gli affatichi invano; osservi loro le promesse; mostri facile la via del
vincere; quelle cose che discosto potessino mostrare i pericoli, le nasconda
o le alleggerisca. Le quali cose, osservate bene, sono cagione grande che lo
esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani di fare pigliare agli
eserciti loro questa confidenza per via di religione: donde nasceva, che con
gli augurii ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano
con gli eserciti, e venivano alla giornata. E sanza avere fatto alcuna di
queste cose, non mai arebbe uno buono capitano e savio tentata alcuna
fazione, giudicando di averla potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati
non avessoro prima intesi gli Dii essere da parte loro. E quando alcuno
Consolo, o altro loro capitano, avesse combattuto, contro agli auspicii, lo
arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E benché questa parte in
tutte le istorie romane si conosca, nondimeno si pruova più certo per
le parole che Livio usa nella bocca di Appio Claudio; il quale, dolendosi col
popolo della insolenzia de' Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante
quelli, gli auspicii e le altre cose pertinenti alla religione si
corrompevano, dice così: "Eludant nunc licet religiones. Quid
enim interest, si pulli non pascentur, si ex cavea tardius exiverint, si
occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo, maiores
nostri maximam hanc rempublicam fecerunt". Perché in queste cose piccole
è quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati: la quale cosa
è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto, conviene con queste cose
sia accompagnata la virtù: altrimenti, le non vagliano. I Prenestini,
avendo contro ai Romani fuori el loro esercito, se n'andarono ad alloggiare
in sul fiume d'Allia, il luogo dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il
che fecero per mettere fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani per la
fortuna del luogo. E benché questo loro partito fusse probabile, per quelle ragioni
che di sopra si sono discorse; nientedimeno il fine della cosa mostrò
che la vera virtù non teme ogni minimo accidente. Il che lo istorico
benissimo dice con queste parole, in bocca poste del Dittatore, che parla
così al suo Maestro de' cavagli: "Vides tu, fortuna illos fretos
ad Alliam consedisse; at tu, fretus armis animisque, invade mediam
aciem". Perché una vera virtù, un ordine buono, una
sicurtà presa da tante vittorie, non si può con cose di poco
momento spegnere; né una cosa vana fa loro paura, né un disordine gli
offende: come si vede certo, che, essendo due Manlii consoli contro a'
Volsci, per avere mandato temerariamente parte del campo a predare, ne
seguì che, in un tempo, e quelli che erano iti e quelli che erano
rimasti si trovavono assediati; dal quale pericolo, non la prudenza de'
Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli liberò. Dove Tito
Livio dice queste parole: "Militum, etiam sine rectore, stabilis virtus
tutata est". Non voglio lasciare indietro uno
termine usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con lo esercito in Toscana,
per farlo confidente, giudicando quella tale fidanza essere più
necessaria per averlo condotto in paese nuovo, incontro a nimici nuovi: che,
parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto ch'ebbe molte ragioni, mediante
le quali ei potevono sperare la vittoria, disse che potrebbe ancora dire loro
certe cose buone, e dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non fusse
pericoloso il manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato,
così merita di essere imitato. Capitolo 34 Quale fama o voce o opinione fa
che il popolo comincia a favorire uno cittadino: e se
ei distribuisce i magistrati con maggiore prudenza che un
principe. Altra volta parlamo come Tito
Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò Lucio Manlio suo padre da una
accusa che gli aveva fatta Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché il
modo del salvarlo fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella
filiale piatà verso del padre fu tanto grata allo universale, che, non
solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i Tribuni delle legioni, fu
fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale successo, credo che sia
bene considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle
distribuzioni sue; e che, per quello noi veggiamo, s'egli è vero
quanto di sopra si conchiuse, che il popolo sia migliore distributore che uno
principe. Dico, adunque, come il popolo
nel suo distribuire va dietro a quello che si dice d'uno per publica voce e
fama, quando per sue opere note non lo conosce altrimenti, o per presunzione
o opinione che si ha di lui. Le quali due cose sono causate o da' padri di
quelli tali che, per essere stati grandi uomini e valenti nella città,
si crede che i figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a tanto che per
le opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai modi
che tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possino tenere,
sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni costumi, e riputati savi da
ciascuno. E perché nessuno indizio si può avere maggiore d'un uomo,
che le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che usa con compagnie
oneste, acquista buono nome, perché è impossibile che non abbia
qualche similitudine di quelle. O veramente si acquista questa publica fama
per qualche azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti
sia riuscita onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che danno nel
principio buona riputazione ad uno, nessuna la dà maggiore che questa
ultima: perché quella prima de' parenti e de' padri è sì
fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma, quando la
virtù propria di colui che ha a essere giudicato non l'accompagna. La
seconda, che ti fa conoscere per via delle pratiche tue, è meglio
della prima, ma è molto inferiore alla terza, perché, infino a tanto
che non si vede qualche segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata
in su l'opinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma quella
terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera tua, ti
dà nel principio tanto nome, che bisogna bene che operi poi molte cose
contrarie a questa, volendo annullarla. Debbono, adunque, gli uomini che
nascono in una republica pigliare questo verso, ed ingegnarsi, con qualche
operazione istraordinaria, cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma in
gioventù fecero o con il promulgare una legge che venisse in comune
utilità; o con accusare qualche potente cittadino come transgressore
delle leggi; o col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a parlare.
Né solamente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi la
riputazione ma sono ancora necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a
volere fare questo, bisogna rinnovarle; come per tutto il tempo della sua
vita fece Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il padre tanto
virtuosamente e istraordinariamente, e per questa azione presa la prima
riputazione sua, dopo certi anni combatté con quel Francioso, e, morto, gli
trasse quella collana d'oro che gli dette il nome di Torquato. Non bastò
questo, che dipoi, già in età matura, ammazzò il
figliuolo per avere combattuto sanza licenza, ancora ch'egli avesse superato
il nimico. Le quali tre azioni allora gli dettero più nome e per tutti
i secoli lo fanno più celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed
alcuna altra vittoria, di che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la
cagione è, perché in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in
queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno. A Scipione maggiore non
arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli dette lo avere,
ancora giovinetto, in sul Tesino, difeso il padre; e lo avere, dopo la rotta
di Canne, animosamente con la spada sguainata fatto giurare più
giovani romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di già infra
loro avevano diliberato: le quali due azioni furono principio alla
riputazione sua, e gli feciono scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica.
La quale opinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei rimandò la
sua figliuola al padre, e la moglie al marito, in Ispagna. Questo modo del
procedere non è necessario solamente a quelli cittadini che vogliono
acquistare fama per ottenere gli onori nella loro republica, ma è
ancora necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel principato
loro: perché nessuna cosa gli fa tanto stimare, quanto dare di sé rari
esempli con qualche fatto o detto rado, conforme al bene comune, il quale
mostri il signore o magnanimo o liberale o giusto, e che sia tale che si
riduca come in proverbio intra i suoi suggetti. Ma, per tornare donde noi
cominciamo questo discorso, dico come il popolo, quando ei comincia a dare
uno grado a uno suo cittadino, fondandosi sopra quelle tre cagioni
soprascritte, non si fonda male; ma poi, quando gli assai esempli de' buoni
portamenti d'uno lo fanno più noto, si fonda meglio, perché in tale
caso non può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di
quelli gradi che si dànno agli uomini nel principio, avanti che per
ferma isperienza siano conosciuti, o che passino da un'azione a un'altra
dissimile: dove, e quanto alla falsa opinione, e quanto alla corrozione,
sempre faranno minori errori che i principi. E perché e' può essere
che i popoli s'ingannerebbono della fama, della opinione e delle opere d'uno
uomo, stimandole maggiori che in verità non sono, il che non
interverrebbe a uno principe, perché gli sarebbe detto, e sarebbe avvertito
da chi lo consigliasse; perché ancora i popoli non manchino di questi
consigli, i buoni ordinatori delle republiche hanno ordinato, che, avendosi a
creare i supremi gradi nelle città, dove fosse pericoloso mettervi
uomini insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare
alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli sia
imputato a gloria, di publicare nelle concioni i difetti di quello, acciocché
il popolo, non mancando della sua conoscenza, possa meglio giudicare. E che
questo si usasse a Roma, ne rende testimonio l'orazione di Fabio Massimo, la
quale ei fece al popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione
de' Consoli i favori si volgevano a creare Tito Ottacilio; e giudicandolo
Fabio insufficiente a governare in quelli tempi il consolato, gli
parlò contro, mostrando la insufficienza sua; tanto che gli tolse quel
grado, e volse i favori del popolo a chi più lo meritava che lui.
Giudicano, adunque, i popoli, nella elezione a' magistrati, secondo quelli
contrassegni che degli uomini si possono avere più veri; e quando ei
possono essere consigliati come i principi, errano meno de' principi: e quel
cittadino che voglia cominciare a avere i favori del popolo, debbe con
qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli. Capitolo 35 Quali pericoli si portano nel
farsi capo a consigliare una cosa; e, quanto ella ha più
dello istraordinario, maggiori pericoli vi si corrono. Quanto sia cosa pericolosa farsi
capo d'una cosa nuova che appartenga a molti, e quanto sia difficile a
trattarla ed a condurla, e, condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e
troppo alta materia a discorrerla: però, riserbandola a luogo
più conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i
cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una
diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia
imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male
che ne risulta s'imputa allo autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne
è commendato: ma di lunge il premio non contrappesa a il danno. Il
presente Sultan Salì, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo
che ne riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare la impresa di
Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai
confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal quale consiglio mosso
andò con esercito grossissimo a quella impresa; e arrivando in uno
paese larghissimo, dove sono assai diserti e le fiumare rade, e trovandovi
quelle difficultà che già fecero rovinare molti eserciti
romani, fu in modo oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste,
ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti: talché,
irato contro allo autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai
cittadini stati confortatori d'una impresa, e, per avere avuto quella tristo
fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani,
che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che
uscì fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori
sarebbe avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte,
in onore della quale tale diliberazione era venuta. È cosa adunque
certissima, che quegli che consigliano una republica, e quegli che
consigliano uno principe, sono posti intra queste angustie, che, se non
consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o per il
principe, sanza rispetto, e' mancano dell'ufficio loro; se le consigliano, e'
gli entrano in pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in
questo ciechi, di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando
in che modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci
veggo altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna
per sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con
modestia difenderla: in modo che, se la città o il principe la segue,
che la segua voluntario, e non paia che vi venga tirato dalla tua
importunità. Quando tu faccia così, non è ragionevole
che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio ti voglia male, non essendo
seguito contro alla voglia di molti: perché quivi si porta pericolo dove
molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono a farti
rovinare. E se in questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello
essere solo contro a molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce buono
fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare di pericolo; il
secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e per la contradizione il
tuo consiglio non sia preso e per il consiglio d'altrui ne seguiti qualche
rovina, ne risulta a te gloria grandissima. E benché la gloria che si
acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe, non si
possa godere, nondimeno è da tenerne qualche conto. Altro consiglio non credo si
possa dare agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che tacessono,
e che non dicessono l'opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al
loro principe, e non fuggirebbono il pericolo; perché in poco tempo
diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe loro intervenire come a quegli
amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo Emilio,
e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare le cose passate, uno
di loro cominciò a dire a Perse molti errori fatti da lui, che erano
stati cagione della sua rovina; al quale Perse rivoltosi, disse: - Traditore,
sì che tu hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più
rimedio! - e sopra queste parole di sua mano lo ammazzò. E così
colui portò la pena d'essere stato cheto quando e' doveva parlare, e
di avere parlato quando e' doveva tacere; non fuggì il pericolo per
non avere dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare
i termini soprascritti. Capitolo 36 Le cagioni perché i Franciosi
siano stati e siano ancora giudicati nelle zuffe, da
principio più che uomini, e dipoi meno che femine. La ferocità di quello
Francioso che provocava qualunque Romano, appresso al fiume Aniene, a
combattere seco, dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa
ricordare di quello che Tito Livio più volte dice, che i Franciosi
sono nel principio della zuffa più che uomini, e nel successo del
combattere riescono poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si
crede per molti che sia la natura loro così fatta: il che credo sia
vero; ma non è per questo che questa loro natura, che gli fa feroci
nel principio, non si potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli
mantenesse feroci infino nello ultimo. Ed a volere provare questo, dico
come e' sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove è furore ed ordine;
perché dall'ordine nasce il furore e la virtù, come era quello de'
Romani: perché si vede in tutte le istorie, che in quello esercito era un
ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare per lungo
tempo. Perché in uno esercito, bene ordinato nessuno debbe fare alcuna opera
se non regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito
romano, dal quale, avendo elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti
gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si meritricava, non
si faceva alcuna azione o militare o domestica sanza l'ordine del console.
Perché quegli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se
fanno alcuna pruova, la fanno per furore e per impeto, e non per
virtù. Ma dove la virtù ordinata usa il furore suo con i modi e
co' tempi, né difficultà veruna lo invilisce, né li fa mancare
l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono l'animo ed il furore,
nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca, infino a tanto
che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in quelli eserciti dove
è furore e non ordine, come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel
combattere mancavano, perché, non riuscendo loro con il primo impeto vincere,
e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel quale
egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale ei cunfidassono
come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani, dubitando meno
de' pericoli per gli ordini loro buoni non diffidando della vittoria, fermi
ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù
nel fine che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si accendevano.
La terza qualità di eserciti è dove non è furore
naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani de' nostri
tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito
che per qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri
esempli, si vede, ciascuno dì, come ei fanno pruove di non avere
alcuna virtù. E perché, con il testimonio di Tito Livio, ciascuno
intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la
rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva punire
Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: "Nemo hominum, nemo Deorum,
verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur; sine
commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores sacramenti,
licentia sola se ubi velint exauctorent; infrequentia deserant signa; neque
conveniatur ad edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo iniquo loco,
iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent:
latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia sit".
E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se la milizia de' nostri
tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca a
essere simile a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella
è discosto da essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa
solo, come la franciosa. Capitolo 37 Se le piccole battaglie innanzi
alla giornata sono necessarie; e come si debbe fare a conoscere
uno inimico nuovo, volendo fuggire quelle. E' pare che nelle azioni degli
uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi, oltre alle altre
difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che
sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì
facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo
l'altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E
però si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu
non se' aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e
naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e
del Francioso, dove Tito Livio dice: "Tanti ea dimicatio ad universi
belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide Castris,
in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit". Perché io considero,
dall'uno canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare
alcuna cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti nel suo
esercito: perché cominciare una zuffa dove non si operino tutte le forze e vi
si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io dissi
di sopra, quando io dannai il guardare de' passi. Dall'altra parte, io considero
come i capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno nuovo nimico, e
ch'e' sia riputato, ei sono necessitati, prima che venghino alla giornata,
fare provare, con leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici; acciocché,
cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino quel terrore che la fama e
la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano è
importantissima; perché ella ha in sé quasi una necessità che ti
costringe a farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere
prima fatto, con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello terrore
che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro. Fu Valerio Corvino mandato dai
Romani con gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici, e che per lo addietro
mai non avevano provate l'armi l'uno dell'altro, dove dice Tito Livio, che
Valerio fece fare ai Romani con i Sanniti alcune leggieri zuffe "ne eos
novum bellum, ne novus hostis terreret". Nondimeno è pericolo
gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura
e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a'
disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca, avendo disegnato di
assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose che ha il male sì
propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil
cosa prendere l'uno, credendo pigliare l'altro. Sopra che io dico, che uno
buono capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa
che per alcuno accidente possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che
gli può tôrre l'animo è cominciare a perdere; e però si
debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con
grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe fare
imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo: non
debbe guardare terre, se non quelle che, perdendole, di necessità ne
seguisse la rovina sua; e quelle che guarda, ordinarsi in modo, e con le
guardie di esse e con lo esercito, che, trattandosi della ispugnazione di
esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; l'altre debbe lasciare indifese.
Perché ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e lo esercito sia
ancora insieme, non si perde la riputazione della guerra né la speranza del
vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata difendere, e
ciascuno crede che tu la difenda, allora è il danno e la perdita; ed
hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo momento perduta la
guerra. Filippo di Macedonia, padre di
Perse, uomo militare e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato
dai Romani, assai de' suoi paesi, i quali elli giudicava non potere guardare,
abbandonò e guastò: come quello che, per essere prudente,
giudicava più pernizioso perdere la riputazione col non potere
difendere quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al
nimico perderlo come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne
le cose loro erano afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli
aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio potessono. I quali
partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le difendere:
perché in questo partito si perde amici e forze; in quello, amici solo. Ma
tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure uno capitano è
costretto per la novità del nimico fare qualche zuffa, debbe farla con
tanto suo vantaggio, che non vi sia alcuno pericolo di perderla: o veramente
fare come Mario (il che è migliore partito), il quale, andando contro
a' Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con
uno spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di
già vinto uno esercito romano, giudicò Mario essere necessario,
innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la quale lo esercito
suo deponesse quel terrore che la paura del nimico gli aveva dato; e, come
prudentissimo capitano, più che una volta collocò lo esercito
suo in luogo donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E
così, dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli
vedessono, ed assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché,
vedendo una moltitudine inordinata, piena d'impedimenti, con armi inutili, e
parte disarmati, si rassicurassono, e diventassono desiderosi della zuffa. Il
quale partito, come fu da Mario saviamente preso, così dagli altri
debbe essere diligentemente imitato, per non incorrere in quelli pericoli che
io dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi, "qui ob rem parvi
ponderis trepidi, in Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt". E
perché noi abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio,
mediante le parole sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno
capitano, dimostrare. Capitolo 38 Come debbe essere fatto uno
capitano nel quale lo esercito suo possa
confidare. Era, come di sopra dicemo,
Valerio Corvino con lo esercito contro ai Sanniti, nuovi nimici del Popolo
romano: donde che, per assicurare i suoi soldati, e per farli conoscere i nimici,
fece fare a' suoi certe leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle,
avanti alla giornata, parlare loro, e mostrò, con ogni efficacia,
quanto ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando la virtù de'
suoi soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole che
Livio gli fa dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi lo esercito
abbia a confidare; le quali parole sono queste: "Tum etiam intueri,
cuius ductu auspicioque ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat
magnificus adhortator sit, verbis tantum ferox, operum militarium expers, an
qui et ipse tela tractare, procedere ante signa, versari media in mole pugnae
sciat. Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi volo; nec disciplinam modo,
sed exemplum etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus,
summamque laudem peperi". Le quali parole, considerate bene, insegnano a
qualunque, come ei debbe procedere a volere tenere il grado del capitano: e
quello che sarà fatto altrimenti, troverrà, con il tempo, quel
grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia condotto, torgli e non
dargli riputazione; perché non i titoli illustrono gli uomini, ma gli uomini
i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo discorso considerare che, se
gli capitani grandi hanno usati termini istraordinari a fermare gli animi
d'uno esercito veterano quando con i nimici inconsueti debbe affrontarsi;
quanto maggiormente si abbia a usare la industria quando si comandi uno
esercito nuovo, che non abbia mai veduto il nimico in viso! Perché, se lo inusitato
inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente lo debbe
dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è veduto molte volte
dai buoni capitani tutte queste difficultà con somma prudenza essere
vinte: come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda tebano, de' quali altra
volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed
esercitatissimi. I modi che ei tenevano, era:
parecchi mesi esercitargli in battaglie fitte e assuefargli alla ubbidienza
ed allo ordine; e da quelli poi, con massima confidenza, nella vera zuffa gli
adoperavano. Non si debba, adunque, diffidare alcuno uomo militare di non
potere fare buoni eserciti, quando non gli manchi uomini; perché quel
principe, che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe solamente, non
della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza,
dolersi. Capitolo 39 Che uno capitano debbe essere
conoscitore de' siti. Intra le altre cose che sono
necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de' siti e de'
paesi; perché, sanza questa cognizione generale e particulare, uno capitano
di eserciti non può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le
scienze vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa è
una che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa
particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che per
veruno altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono che quelli
eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e
nelle cacce; perché la caccia, oltre a questa cognizione, c'insegna infinite
cose che sono nella guerra necessarie. E Senofonte, nella vita di Ciro,
mostra che, andando Ciro ad assaltare il re d'Armenia, nel divisare quella
fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che una di
quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco. E ricordava a quelli
che mandava in agguato in su e' monti, che gli erano simili a quelli che
andavano a tendere le reti in su e' gioghi; ed a quelli che scorrevano per il
piano, erano simili a quegli che andavano a levare del suo covile la fiera,
acciocché, cacciata, desse nelle reti. Questo si dice per mostrare come
le cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una immagine d'una guerra: e
per questo agli uomini grandi tale esercizio è onorevole e necessario.
Non si può ancora imparare questa cognizione de' paesi in altro
commodo modo, che per via di caccia, perché la caccia fa, a colui che la usa
sapere come sta particularmente quei paese dove elli la esercita. E fatto che
uno si è familiare bene una regione, con facilità comprende poi
tutti i paesi nuovi; perché ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme
qualche conformità, in modo che dalla cognizione d'uno facilmente si
passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha bene pratico uno, con
difficultà, anzi non mai se non con un lungo tempo, può
conoscere l'altro. E chi ha questa pratica, in uno voltare d'occhio sa come
giace quel piano, come surge quel monte, dove arriva quella valle, e tutte le
altre simili cose, di che elli ha per lo addietro fatto una ferma scienza. E
che questo sia vero, ce lo mostra Tito Livio con lo esemplo di Publio Decio;
il quale, essendo Tribuno de' soldati nello esercito che Cornelio consolo
conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto in una valle,
dove lo esercito de' Romani poteva dai Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi
in tanto pericolo, disse al Consolo: "Vides tu, Aule Corneli, cacumen
illud supra hostem? arx illa est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam
caeci reliquere Samnites) impigre capimus". Ed innanzi a queste parole,
dette da Decio, Tito Livio dice: "Publius Decius tribunus militum,
conspicit unum editum in saltu collem, imminentem hostium castris aditu
arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem". Donde, essendo stato
mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo salvo lo
esercito romano e disegnando, venente la notte, di partirsi, e salvare ancora
sé ed i suoi soldati, gli fa dire queste parole: "Ite mecum, ut, dum
lucis aliquid superest, quibus locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc
exitus, exploremus. Haec omnia sagulo militari amicus ne ducem circumire
hostes notarent, perlustravit". Chi considerrà, adunque, tutto
questo testo, vedrà quanto sia utile e necessario a uno capitano
sapere la natura de' paesi: perché, se Decio non gli avesse saputi e
conosciuti, non arebbe potuto giudicare quale utile faceva pigliare quel
colle, allo esercito Romano, né arebbe potuto conoscere di discosto, se quel
colle era accessibiie o no; e condotto che si fu poi sopra esso, volendosene
partire per ritornare al Consolo, avendo i nimici intorno, non arebbe dal
discosto potuto speculare le vie dello andarsene, e gli luoghi guardati da'
nimici. Tanto che, di necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione
perfetta: la quale fece che, con il pigliare quel colle, ei salvò lo
esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato, trovare la via a salvare sé e
quegli che erano stati seco. Capitolo 40 Come usare la fraude nel
maneggiare la guerra è cosa gloriosa. Ancora che lo usare la fraude in
ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è
cosa laudabile e gloriosa; e, parimente è laudato colui che con fraude
supera il nimico, come quello che lo supera con le forze. E vedesi questo per
il giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite degli uomini grandi; i
quali lodono Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi in simili modi
di procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne replicherò
alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude essere
gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti; perché questa,
ancora che la ti acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si
discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude
che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel
maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale quando in sul lago di
Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito
romano, e quando, per uscire di mano di Fabio Massimo, accese le corna dello
armento suo. Alle quali fraudi fu simile
questa che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo
esercito romano dentro alle Forche Caudine: il quale, avendo messo lo
esercito suo a ridosso de' monti, mandò più suoi soldati sotto
veste di pastori con assai armento per il piano; i quali sendo presi dai
Romani, e domandati dove era lo esercito de' Sanniti, convennono tutti,
secondo l'ordine dato da Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera.
La quale cosa, creduta dai Consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai
balzi caudini; dove entrati, furono subito assediati dai Sanniti. E sarebbe
stata questa vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a Ponzio, se egli
avesse seguitati i consigli del padre il quale voleva che i Romani o ei si
salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che non si pigliasse la
via del mezzo, "quae, neque amicos parat neque inimicos tollit". La
quale via fu sempre perniziosa nelle cose di stato come di sopra in altro
luogo si discorse. Capitolo 41 Che la patria si debbe difendere
o con ignominia o con gloria; ed in qualunque modo è
bene difesa. Era, come di sopra si è
detto, il Consolo e lo esercito romano assediato da' Sanniti: i quali avendo
posto ai Romani condizioni ignominiosissime (come era volergli mettere sotto
il giogo, e disarmati rimandargli a Roma), e per questo stando i Consoli come
attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo, legato romano, disse
che non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito per salvare la patria:
perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva
da salvarlo in ogni modo; e che la patria è bene difesa in qualunque
modo la si difende, o con ignominia o con gloria: perché, salvandosi quello
esercito, Roma era a tempo a cancellare la ignominia; non si salvando, ancora
che gloriosamente morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E
così fu seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere
notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua:
perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe
cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di
crudele, né di laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro
rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la
libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i fatti dai
Franciosi, per difendere la maestà del loro re e la potenza del loro
regno; perché nessuna voce odono più impazientemente che quella che
dicesse: - Il tale partito è ignominioso per il re -; perché dicono
che il loro re non può patire vergogna in qualunque sua diliberazione,
o in buona o in avversa fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono
essere cose da re. Capitolo 42 Che le promesse fatte per forza,
non si debbono osservare. Tornati i Consoli con lo
esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il primo che in Senato
disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare, fu il consolo
Spurio Postumio; dicendo, come il popolo romano non era obligato, ma ch'egli
era bene obligato esso e gli altri che avevano promessa la pace: e
però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a dare
prigioni nelle mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che l'avevano promessa.
E con tanta ostinazione tenne questa conclusione, che il Senato ne fu
contento; e mandando prigioni lui e gli altri in Sannio, protestarono ai
Sanniti la pace non valere. E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole
la fortuna, che i Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio
appresso ai Romani più glorioso per avere perduto, che non fu Ponzio
appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da notare due cose: l'una, che
in qualunque azione si può acquistare gloria, perché nella vittoria si
acquista ordinariamente; nella perdita si acquista o col mostrare tale
perdita non essere venuta per tua colpa, o per fare subito qualche azione
virtuosa che la cancelli: l'altra è, che non è vergognoso non
osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e
sempre le promesse forzate che riguardano il publico, quando e' manchi la
forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono
in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti tempi,
se ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse
forzate, quando e' manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre
promesse, quando e' mancano le cagioni che le feciono promettere. Il che se
è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare
simili modi o no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De
Principe: però al presente lo tacereno. Capitolo 43 Che gli uomini, che nascono in
una provincia, osservino per tutti i tempi quasi
quella medesima natura. Sogliono dire gli uomini
prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a
essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo,
in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce
perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le
medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il
medesimo effetto. Vero è, che le sono le opere loro ora in questa
provincia più virtuose che in quella, ed in quella più che in
questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno
preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il conoscere le cose
future per le passate; vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi,
essendo o continovamente avara, o continovamente fraudolente, o avere alcuno
altro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate della
nostra città di Firenze, e considererà quelle ancora che sono
ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e franciosi
pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e d'infidelità;
perché tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la
nostra città. E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette
danari a re Carlo VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non
mai le rendé. In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia
sua. Ma lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso
quello che seguì nella guerra che fece il popolo fiorentino contro a' Visconti
duchi di Milano; ed essendo Firenze privo degli altri ispedienti,
pensò di condurre lo imperadore in Italia, il quale con la riputazione
e forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse lo imperadore venire con assai
genti, e fare quella guerra contro a' Visconti, e difendere Firenze dalla
potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono centomila ducati per levarsi, e
centomila poi ch'ei fosse in Italia. Ai quali patti consentirono i
Fiorentini; e pagatigli i primi danari, e dipoi i secondi, giunto che fu a
Verona, se ne tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando
essere restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra
loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta dalla
necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti gli
antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa né molte altre volte
ingannata da loro; essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni
parte e con ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede ch'ei fecero
anticamente a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani, per essere stati
da loro più volte messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro
forze non potere resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi
che di qua dall'Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di danari, e che
fussono obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai
Romani: donde ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono
dipoi pigliare l'armi per loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra
con i loro nimici, ma perché si astenessino di predare il paese toscano. E
così i popoli toscani, per l'avarizia e poca fede de' Franciosi,
rimasono ad un tratto privi de' loro danari, e degli aiuti che gli speravono
da quegli. Talché si vede, per questo esemplo de' Toscani antichi, e per
quello de' Fiorentini, i Franciosi avere usati i medesimi termini; e per
questo facilmente si può conietturare, quanto i principi si possono
fidare di loro. Capitolo 44 E' si ottiene con l'impeto e con
l'audacia molte volte quello che con modi ordinarii
non si otterrebbe mai. Essendo i Sanniti assaltati
dallo esercito di Roma, e non potendo con lo esercito loro stare alla
campagna a petto ai Romani, diliberarono lasciare guardate le terre in Sannio
e di passare con tutto lo esercito loro in Toscana, la quale era in triegua
con i Romani; e vedere, per tale passata, se ei potessono con la presenzia
dello esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che avevano
negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i Sanniti ai Toscani,
nel mostrare, massime, qual cagione gli aveva indotti a pigliare l'armi,
usarono uno termine notabile, dove dissono: "rebellasse, quod pax
servientibus gravior, quam liberis bellum esset". E così, parte
con le persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro, gl'indussono a
ripigliare l'armi. Dove è da notare che quando uno principe desidera
ottenere una cosa da uno altro, debbe, se la occasione lo patisce, non gli
dare spazio a diliberarsi, e fare in modo che vegga la necessità della
presta diliberazione; la quale è quando colui che è domandato
vede che dal negare o dal differire ne nasca una subita e pericolosa
indegnazione. Questo termine si è
veduto bene usare ne' nostri tempi da papa Iulio con i Franciosi, e da
monsignore di Fois capitano del re di Francia col marchese di Mantova: perché
papa Iulio, volendo cacciare i Bentivogli di Bologna, e giudicando, per
questo, avere bisogno delle forze franciose, e che i Viniziani stessono
neutrali; ed avendone ricerco l'uno e l'altro, e traendo da loro risposta
dubbia e varia; diliberò col non dare loro tempo fare venire l'uno e
l'altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma con quelle tante genti ch'ei
poté raccozzare, ne andò verso Bologna; ed ai Viniziani mandò a
dire che stessono neutrali, ed al re di Francia, che gli mandasse le forze.
Talché, rimanendo tutti distretti dal poco spazio di tempo, e veggendo come
nel papa doveva nascere una manifesta indegnazione differendo o negando,
cederono alle voglie sue, ed il re gli mandò aiuto, ed i Viniziani si
stettono neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con lo esercito in
Bologna, ed avendo intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla
ricuperazione di quella, aveva due vie; l'una per il dominio del re, lunga e
tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non solamente era
necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma gli conveniva entrare
per certe chiuse intra paludi e laghi, di che è piena quella regione,
le quali con fortezze ed altri modi erano serrate e guardate da lui. Onde che
Fois, diliberato d'andare per la più corta, e per vincere ogni
difficultà né dare tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse
le sue genti per quella via, ed al marchese significò gli mandasse le chiavi
di quel passo. Talché il marchese, occupato da questa subita diliberazione,
gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe mandate se Fois
più trepidamente si fosse governato, essendo quello marchese in lega
con il Papa e con i Viniziani, ed avendo uno suo figliuolo nelle mani del
Papa; le quali cose gli davano molte oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal
subito partito, per le cagioni che di sopra si dicono, le concesse.
Così feciono i Toscani coi Sanniti, avendo, per la presenza dello
esercito di Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato, per altri
tempi, pigliare. Capitolo 45 Quale sia migliore partito nelle
giornate, o sostenere l'impeto de' nimici,
e, sostenuto, urtargli; ovvero da prima con furia
assaltargli. Erano Decio e Fabio, consoli
romani, con due eserciti all'incontro degli eserciti de' Sanniti e de'
Toscani; e venendo alla zuffa ed alla giornata insieme, è da notare,
in tale fazione, quale de' due diversi modi di procedere tenuti dai due
Consoli sia migliore. Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo
assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo assalto
lento essere più utile, riserbando l'impeto suo nello ultimo, quando
il nimico avesse perduto el primo ardore del combattere, e, come noi diciamo,
la sua foga. Dove si vede, per il successo della cosa, che a Fabio
riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il quale si straccò
ne' primi impeti; in modo che, vedendo la banda sua più tosto in volta
che altrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla quale con la
vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione del padre
sacrificò sé stesso per le romane legioni. La quale cosa intesa da
Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si avesse il suo collega
acquistato morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale
necessità riservate; donde ne riportò una felicissima vittoria.
Donde si vede che il modo del procedere di Fabio è più sicuro e
più imitabile. Capitolo 46 Donde nasce che una famiglia in
una città tiene un tempo i medesimi costumi. E' pare che non solamente l'una
città dall'altra abbia certi modi ed instituti diversi, e procrei
uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima
città si vede tale differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra.
Il che si riscontra essere vero in ogni città, e nella città di
Roma se ne leggono assai esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati
duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli Appii
ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre famiglie avere
avute ciascuna le qualità sue spartite dall'altre. Le quali cose non
possono nascere solamente dal sangue, perché conviene che varii mediante la
diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa
educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un
giovanetto da' teneri anni cominci a sentire dire bene o male d'una cosa;
perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi
regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non
fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima
voglia, e fossono stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio
in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro fatto Censore ed avendo
il suo collega alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge,
diposto il magistrato, Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva
tenere cinque anni, secondo la prima legge ordinata da' Censori. E benché
sopra questo se ne facessero assai concioni, e generassissene assai tumulti,
non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla
volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi
leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno della
plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le bontà
ed umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli
auspicii della loro patria. Capitolo 47 Che uno buono cittadino per
amore della patria debbe dimenticare le ingiurie
private. Era Marzio consolo con lo
esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato in una zuffa ferito, e per
questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato essere
necessario mandarvi Papirio Cursore dittatore per sopperire ai difetti del
consolo. Ed essendo necessario che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale
era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico,
che non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a
pregarlo, che, posto da parte i privati odii, dovesse per beneficio publico
nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora
che col tacere e con molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli
premesse. Dal quale debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di
essere tenuti buoni cittadini. Capitolo 48 Quando si vede fare uno errore
grande a uno nimico, si debbe credere che vi sia
sotto inganno. Essendo rimaso Fulvio Legato
nello esercito che e' Romani avevano in Toscana, essendo ito il Consolo per
alcune cerimonie a Roma, i Toscani, per vedere se potevano avere quello alla
tratta, posono uno aguato propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni
soldati con veste di pastori con assai armento, e li feciono venire alla
vista dello esercito romano: i quali così travestiti si accostarono
allo steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di questa loro
presunzione, non gli parendo ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse la
fraude; e così restò il disegno de' Toscani rotto. Qui si
può commodamente notare, che uno capitano di eserciti non debbe
prestare fede ad uno errore che evidentemente si vegga fare al nimico: perché
sempre vi sarà sotto fraude, non sendo ragionevole che gli uomini
siano tanto incauti. Ma spesso il disiderio del vincere acceca gli animi
degli uomini, che non veggono altro che quello pare facci per loro. I Franciosi, avendo vinto i
Romani ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte aperte e sanza
guardia, stettero tutto quel giorno e la notte sanza entrarvi, temendo di
fraude, e non potendo credere che fusse tanta viltà e tanto poco
consiglio ne' petti romani, che gli abbandonassono la patria. Quando nel
1508, stando li Fiorentini, a campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino
pisano, si trovava prigione de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era
libero, che darebbe una porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui
libero: dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare con i
legati de' commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed accompagnato
da' Pisani; i quali lasciava da parte, quando parlava con i Fiorentini.
Talmenteché si poteva conietturare il suo animo doppio; perché non era
ragionevole, se la pratica fosse stata fedele, ch'elli l'avesse trattata
sì alla scoperta. Ma il disiderio che si aveva di avere Pisa,
accecò in modo i Fiorentini, che, condottisi con l'ordine suo alla
porta a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed altre genti, con
disonore loro, per il tradimento doppio che fece detto Alfonso. Capitolo 49 Una republica, a volerla
mantenere libera, ha ciascuno dì bisogno di
nuovi provvedimenti; e per quali meriti Quinto Fabio
fu chiamato Massimo. È di necessità,
come altre volte si è detto, che ciascuno dì in una
città grande naschino accidenti che abbiano bisogno del medico; e
secondo che gl'importano più, conviene trovare il medico più
savio. E se in alcuna città nacquono mai simili accidenti, nacquono in
Roma e strani ed insperati; come fu quello quando e' parve che tutte le donne
romane avessono congiurato contro ai loro mariti di ammazzargli: tante se ne
trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano preparato il
veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de' Baccanali, che si
scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove erano già
inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se la non si scopriva,
sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non
fussono stati consueti a gastigare le moltitudini degli erranti: perché,
quando e' non si vedesse per altri infiniti segni la grandezza di quella
Republica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per le qualità
della pena che la imponeva a chi errava. Né dubitò fare morire per via
di giustizia una legione intera per volta, ed una città; e di
confinare otto o diecimila uomini con condizioni istraordinarie, da non
essere osservate da uno solo, non che da tanti: come intervenne a quelli
soldati che infelicemente avevano combattuto a Canne; i quali confinò
in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in terra, e che mangiassono
ritti. Ma di tutte le altre esecuzioni
era terribile il decimare gli eserciti, dove a sorte, di tutto uno esercito,
era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a gastigare una moltitudine,
trovare più spaventevole punizione di questa. Perché quando una
moltitudine erra, dove non sia l'autore certo, tutti non si possono
gastigare, per essere troppi; punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si
farebbe torto a quegli che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di
errare un'altra volta. Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti
lo meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non è punito
ha paura che un'altra volta non tocchi a lui, e guardasi da errare. Furono punite, adunque, le
venefiche e le baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E benché
questi morbi in una republica faccino cattivi effetti, non sono a morte,
perché sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si ha già tempo
in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non sono da uno prudente
corretti, rovinano la città. Erano in Roma, per la
liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a'
forestieri, nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne'
suffragi, che il governo cominciava variare, e partivasi da quelle cose e da
quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che
era Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo
disordine, sotto quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in
sì piccoli spazi, corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene
conosciuta da Fabio, e postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio; il
quale fu tanto accetto a quella civiltà, ch'e' meritò di essere
chiamato Massimo. L'edizione telematica di quest'opera ci è
stata gentilmente offerta dal Liceo Classico "Jacopo Stellini" di
Udine, che si ringrazia vivamente. La revisione ad opera di Giuseppe Bonghi, è
stata operata sul testo: - Machiavelli, Tutte le opere, a cura di
Mario Martelli, Sansoni, Firenze 1971 - (che presenta un errore
nell'intestazione del cap. XXII del libro 3, laddove scrive comità,
parola inesistente in italiano anziché umanità) - Niccolò Machiavelli, Opere,
Palermo, 1868 |