TITO LUCREZIO CARO
DELLA NATURA DELLE COSE
LIBRI SEI
TRADOTTI DA ALESSANDRO MARCHETTI
AGGIUNTIVI
GLI ARGOMENTI DEL BLANCHET
LA SCIENZA DI LUCREZIO PER CONSTANT MARTHA
E LE NOTIZIE
INTORNO ALL'AUTORE E AL TRADUTTORE
e guerra con Vincenzo Viviani.
Alfredo Tennyson, lo squisito poeta,
ideò e scrisse un monologo di Lucrezio innanzi al suicidio. Egli
accettò la tradizione che desse in accessi di demenza per un filtro
portogli da una donna che si credeva meno amata, non badando egli alle carezze
di lei.
. . . . . For-his
mind
Haif buried in
some weightier argument,
Or fancy-borne
perhaps upon the rise
And long roll of
the Hexameter-he past
To turn and ponder
those three hundred scrolls
Left by the
Teacher whom he held divine.
Questa tradizione non si fonda che sopra
l'autorità di San Gerolamo, il quale scrisse più di tre secoli
dopo Lucrezio. Questi era della gran famiglia Lucrezia e cavalier romano.
Nacque l'anno 95 avanti Cristo. È probabile che visitasse la Grecia e
udisse Zenone, che in quel torno era capo della setta epicurea. Egli e Cesare
sono i due soli grandi scrittori che Roma abbia prodotti. La sua vita corse tra
i principj di Silla e la morte di Clodio. Secondo la tradizione, egli si
sarebbe ucciso di 44 anni, morendo lo stesso giorno in cui Virgilio prese la
toga virile.
C. Memmio Gemello, al quale è
intitolato il poema, era d'illustre famiglia, figlio e nipote di chiari
oratori. Ebbe presto onori ed uficj. Nominato al governo della Bitinia,
condusse seco Curzio Nicia e il poeta Catullo. Tornato che fu, toccò
un'accusa da Cesare, dalla quale si difese con violenza. Nel difendersi
trascorse a raffacciargli i suoi diffamati costumi. Dicitore facondo; se non
che, a detta di Cicerone, fuggiva la fatica non solo di parlare, ma ancora di
pensare. Accusò parecchi; tra gli altri, L. Lucullo, vincitore di
Mitridate, volendo impedirgli il trionfo. Di che, avendo egli tirato alle sue
voglie la moglie del fratello di lui, M. Lucullo, Cicerone disse argutamente
che si era levato contro Agamennone non che contro Menelao. Tentò
sedurre, ma invano, anche la figlia di Cesare moglie di Pompeo. Dopo la
questura e pretura aspirò al consolato, gareggiando veementemente con
altri tre pretendenti. Fu insieme ad essi accusato di broglio e condannato all'esilio.
Tornò in Atene, dove da giovane avea studiato, e v'ebbe lite con la
setta di Epicuro per essersi fatto cedere dall'Areopago una parte dei Giardini,
ove quella aveva sua stanza. La famiglia Memmia aveva un culto particolare per
Venere, e il Martha crede che anche questo riflesso abbia indotto Lucrezio alla
sua splendida Invocazione.
Dai trecento volumi lasciati dal maestro,
ch'egli reputava divino, secondo dice il Tennyson, Lucrezio trasse la dottrina
esposta nel suo poema. Il Martha la ha considerata assai bene rispetto alla
religione, alla morale ed alla scienza. Egli ha dimostrato che Epicuro e il suo
poeta combattevano piuttosto il paganesimo che lo spiritualismo, intendendo a
liberare l'uomo dai terrori delle false religioni, e a svolgerlo dai riti
feroci onde pretendevano deprecar l'ira od impetrare il favore delle loro
deità. Furono in questo i precursori dei controversisti cristiani; se
non che, non avendo altro lume, esautorando gli Dei, abolirono la Provvidenza.
Ma per tutto il poema spira il sentimento del divino, che, nella pienezza dei
tempi, dovea poi avverarsi nelle più pure credenze; restando quasi armi
imbelli gli argomenti dell'ateismo, che di secolo in secolo alcune sette di
filosofanti riprendono e riforbiscono, ma inutilmente, contro la coscienza del
genere umano. Rispetto alla morale, il Martha fa vedere che la dottrina della
voluttà si riduce ad un quietismo, favorito ai tempi di Epicuro
dallo scadimento e dal servaggio indeclinabile della Grecia, e ai tempi di
Lucrezio fatto desiderabile dagli orrori delle guerre civili. Della scienza
parla il Martha egregiamente in un capitolo che diamo tradotto in fondo a
questo volume, facendo vedere come a puerili fallacie si mescolino intuiti di
veri sublimi accettati ai dì nostri[1].
Del merito poetico di Lucrezio, toccato in
una frase dubbia di Cicerone, passato in silenzio da Virgilio ed Orazio, che
taciti lo imitavano, celebrato altamente da Ovidio e da Stazio, parla il suo
libro, e son piene le storie letterarie e i trattati di estetica. Egli ha
bellezze sì sfolgoranti e sì universalmente ammirate che non
occorre additarle. Il suo ateismo non faceva paura nemmeno al buon Cesari, il
quale per quel suo squisito sentimento del bello e della naturale sublimità,
amava i versi di lui forse non meno che quelli dell'Alighieri.
Alessandro Marchetti nacque nella sua
villa di Pontormo il dì 17 marzo 1632 di Angelo e di Luisa Bonaventuri,
figlia a Filippo celebre professore di ragion civile nell'Università di
Pisa e assai benemerito, per le sue fatiche, della lingua toscana. Aveva appena
di sette giorni oltrepassato i nove mesi di vita, che perdè il padre e
rimase con quattro fratelli sotto la tutela della madre, la quale, rimpatriando,
provvide in Firenze alla loro educazione.
Destinato alla mercatura, già vi si
era introdotto; senonchè, un giorno di minore applicazione, cantando
egli sottovoce il lamento di Armida e dicendogli rampognando il direttore del
negozio: «Voglion esser calcoli, non versi,» egli rispose che nella tregua
delle faccende non sapeva spender meglio il tempo che a ruminare gli aurei
versi del Tasso divino e lasciando il negozio fu posto a studiare l'Instituta
sotto un valente dottore. Nè della legge si appagò gran fatto,
come quella che non gli dava campo di pensar a suo modo e di specolare
liberamente. Ne allentò lo studio e si dette alla lettura dei poeti
latini e toscani[2]. Scrisse allora alcun bel sonetto, e cominciò a tradurre
l'Eneide in ottava rima — parendogli, come scrisse poi al Magliabechi; che quel
sovrano poeta da niuno fosse stato tradotto nel volgar nostro con quella
dignità ch'e' meritava, ma non andò più in là del
quinto libro.
Ottenuto un luogo di scolaro nello studio
di Pisa dal Principe Cardinal Leopoldo, udì i filosofi peripatetici che
v'insegnavano; ma recatosi a noia quella servile filosofia, si sfogò
contro in un capitolo bernesco. Si strinse allora d'amistà con un
giovane dei Galilei[3], ch'era altresì in Sapienza e dando insieme opera allo
studio dei Classici, talvolta per più ricreare lo spirito apersero al
pubblico scena inaspettatamente e talvolta sulla cetra che ciascuno di loro
sapeva maestrevolmente toccare, all'improvviso cantarono versi tali che ne
stupirono gli ascoltanti. Ora abbattutosi a sentirli il gran matematico Gian
Alfonso Borelli, ammirando l'ingegno del nostro Alessandro, s'invaghì
d'introdurlo allo studio delle matematiche e della filosofia esperimentale;
nelle quali discipline fece sì gran progresso, che prima anche di
dottorarsi ebbe la lettura straordinaria di filosofia e nel 1659, anno del suo
dottorato in filosofia e medicina, ebbe una lettura di Logica in
quell'Università. Il Borelli fattoselo commensale, lo diè per
ripetitore ai propri scolari, tra' quali era Lorenzo Bellini[4]. Ebbe la cattedra di filosofia straordinaria che ritenne per anni
otto, ed allora nelle lezioni, nelle dispute, nei circoli, e nei colloqui
promosse lo studio della filosofia sperimentale, e il Malpighi gli scriveva di
Bologna il 4 gennaio 1661: «Dal signor Borelli già intesi che con suo
onore e sommo applauso frammetteva cose nuove nel leggere, e spero che a poco a
poco si potranno addomesticare queste bestie selvaggie.» Partito da Pisa il
Borelli, fu il suo successore nella cattedra di matematiche e la ritenne a
tutta sua vita.
Di 39 anni sposò Anna Lucrezia dei
Cancellieri di Pistoia, bella e saggia, che visse fino a 91 anno. Di lei ebbe
undici figli, sette maschi e quattro femmine. Il maggiore Angelo riuscì
assai bene nelle matematiche e si fece conoscere con le Conclusioni
stampate in Firenze nel 1688 in difesa del padre, bersaglio dei geometri
italiani, con l'opera Della proporzione e proporzionalità, con l'Euclide
riformato, con la sua Introduzione alla Cosmografia e Nautica,
ecc.
Dei letterati della sua età
amò assai il Magliabechi e gli fu caro, e sparsasi la voce della sua
morte scrisse versi affettuosi in compianto. Pianse altresì in versi la
morte del Redi e del Magalotti, due dei più grandi intelletti che la
Toscana avesse prodotto nella sua vecchiaia, vecchiaia di Sara, poco feconda,
ma di Patriarchi delle lettere e delle scienze. Era anch'egli, come tutti i
gentili spiriti di Toscana, amico all'inviato dell'Inghilterra, Neri Newton, e
dettò versi al suo partire. Notevole è come gl'Inglesi ci
tramutassero il loro Hawkwood che amava troppo le nostre terre e le nostre ricchezze
nel Milton, che adorò la nostra lingua e poesia, e in tanti coltissimi
inviati, che favoriscono i nostri studj. La tradizione vive fino al di d'oggi;
e la terra di Toscana che gl'Inglesi predilessero sopra tutte raccolse lo
spirito e copre le ossa di alcuni famosi loro scrittori.
Era giunto all'anno 78 senza che pur
provasse in parte gl'incomodi dell'avanzata vecchiezza, se si eccettui che poco
tempo innanzi aveva cominciato a patire di stillicidio o stranguria, effetto di
pietra.
«Entrato nell'anno ottantadue,
cominciò a provar daddovero gl'incomodi della vecchiezza, in particolare
per lo tormentoso dolore cagionatogli dalla pietra, che non lo lasciava
nè dormire, nè prendere riposo se non brevissimo; dal qual dolore
dopo essersi unto coi miracoloso liquore di San Nicolò di Bari, vescovo
di Mira, o che il santo gli intercedesse la grazia, come a buona ragione creder
si può, se specialmente si considera la devozione da esso avuta per
detto santo, al vivo espressa in varie composizioni da Alessandro composte in
lode del medesimo, o che la pietra prendesse positura tale da non più
impedirgli il passaggio delle orine, l'effetto fu che dopo l'additata unzione,
mai più nei cinque mesi che di poi visse la pietra nessun dolore gli
cagionò.» Colto d'apoplessia morì con tutti i Sacramenti il 6
settembre 1714 d'anni 82, mesi cinque e giorni venti.
Fu Alessandro, continua il figlio
Francesco, di giusta statura, bianco e rosso di carnagione, di capel biondo,
d'occhi assai cilestri, ma vivaci e sì perfetti che mai non ricorse agli
occhiali. Ebbe proporzionatissime tutte le parti del corpo, di volto allegro e
gioviale, dolce e chiara la voce e di complessione gracile anzi che no.
Parrà forse effetto di debolezza
senile e dell'infermità il ricorso del Marchetti al liquore di San
Niccolò di Bari: ma è un fatto che accarezzando del continuo la
sua versione di Lucrezio, dava poi in accessi di devozione e forse non finta. —
Valga di prova il seguente sonetto all'Eccellenza del Sig. Bernardo Trevisani
per la sua opera dell'Immortalità dell'anima.
Taccia Epicuro: entro gli
umani petti
Vive spirto celeste, aura vitale
De' folli ad onta e temerari detti,
Ond'ei tentò provarla inferma e
frale.
I dardi ch'ei
scoccò di morte infetti,
Dall'arco di sua lingua empia e brutale,
Mercè del tuo valor giaccion
negletti,
Mio gran Bernardo, e spennacchiate han
l'ale —
Tu, sovrano dell'Adria
onore e lume,
Dell'eccelsa tua mente erger potesti
Da terra al ciel le non mai stanche piume.
Chiaro ivi le nostr'alme
esser vedesti
Eterne e dive e in nobile volume
Quanto a te fu palese, a noi sponesti[5].
Altra prova è la sua Ode
sopra San Ranieri Pisano, il quale dopo esser vissuto molto lietamente,
perdette gli occhi per piangere i suoi peccati e dopo miracolosamente gli
ricuperò. Fu stimato ipocrita, così l'argomento, e per ciò
invidiosamente perseguitato in Pisa e Gerusalemme; risuscitò una
fanciulla; dopo la sua morte tutte le campane di Pisa da loro stesse sonarono a
festa. Onde il Poeta chiude il componimento così:
Ma qual di
santità segno maggiore
Se il suo terrestre, il suo caduco velo,
Poichè l'anima eletta ascese al
cielo,
L'aria cosparse di soave odore:
E se per additar l'alta
vittoria
Ch'ei contro il rio Satan morendo ottenne
Gli sacrar con miracolo solenne
Fin gl'incensati bronzi inni di gloria?
Prova meno curiosa è un'altra sua
poesia di cui basta citare il titolo. «Liberata Vienna dall'assedio de' Turchi
e riprese loro molte città dall'armi imperiali, polacche e venete,
cacciati di Francia gli Ugonotti e riconosciuto da Giacomo secondo re
d'Inghilterra per capo del Cristianesimo il Romano Pontefice, l'autore, come
principe dell'Accademia dei Disuniti di Pisa, radunatala per celebrare i
trionfi della fede cattolica in pace e in guerra, fece la presente
introduzione.»
Tra l'altre cose dice all'autore della
revoca dell'Editto di Nantes:
E tu gallico Giove...
Tu, tu d'ogni perverso orrido mostro
Che l'empi dogmi il tuo bel regno infette
Fai sí con memorabili vendette,
Che non cede all'erculeo il secol nostro.
Notiamo a suggello che il traduttore di Lucrezio
scrisse in versi sciolti un poemetto sopra il Paradiso, ch'egli descrive punto
per punto, quasi l'avesse veduto con gli occhi del corpo, come Ferondo nel
Boccaccio vide il Purgatorio.
Con miglior consiglio aveva preso a
dettare un poema filosofico in verso sciolto, intitolandolo a Luigi XIV. Il
Giornale dei Letterati[6] ne pubblicò il principio. Il Menzini al quale lo aveva
mandato egli stesso, gli scriveva: «Ho veduto il principio del suo poema,
cioè la sommità della fronte di una bellissima statua;» ma non
andò molto innanzi, e ormava troppo Lucrezio. — Intonava così:
O dell'Eterno Padre, o
dell'Eterno
Figlio, Eterno, ineffabile, infinito,
Vicendevole Amor, Amor fecondo,
Santo Amor, vero Amor, unico Amore,
Unico Amor, che da principio il cielo
Creasti, e l'aureo Sol cinto di raggi,
E delle Stelle erranti a lui d'intorno
Librasti i globi in guisa tal, che puote
Di luce ornarle, e raggirarle in cerchio,
E sì dolce, e sì tremulo, e
sì vivo
Fulgor desti alle fisse, ond'è
trapunto
L'umido manto dell'oscura notte
Che cede appena di bellezza al giorno:
Unico Amor, che a' primi semi infondi
Virtù: che l'aria di canori
augelli,
Di muti pesci le sals'onde, e tutta
D'animai d'ogni specie orni la terra,
Che per sè fôra un vasto orror
solingo,
Qualor deposto il freddo ispido manto
L'anno ringiovenisce e lieto in vista
Zeffiro torna, e 'l bel tempo rimena,
Tu Dio, tu sei, che sugli Alpini monti
Sciogli in tiepido umor le nevi, e 'l
ghiaccio
Che quindi scorre a dar tributo a' fiumi:
Tu di borea il furor, tu del crudele
Austro gli sdegni, e tu di noto, e d'euro
Gl'insani impeti orrendi affreni, e molci,
E i turbini sonori, e le procelle
Scacci, e dai bando alle bufere, a i
nembi,
E tu col ciglio le tempeste acqueti:
Tu di frondi novelle, e di virgulti
Le selve adorni: e le campagne e i prati,
E le rive, e le piagge, e i colli ameni
Fai d'erbette e di fior lieti e ridenti.
Dal tiro divino ardor commosso l'uomo
Desia la donna, e in dolce nodo eterno
Di fede marital con lei si lega.
Squassa l'altera fronte, e guerra indice
Per la grassa giovenca al suo rivale
L'innamorato tauro; il gelo istesso
D'acque infinite ad ammorzar bastante
Non è l'interna fiamma, onde il
delfino
Sovente, e l'orca in mezzo al mare
avvampa.
Lucrezio era un autore in odio alla
Chiesa; tanto più è da tener conto di un letterato che in Roma,
nell'accademia degli Incitati, ne parlò spassionatamente.
Girolamo Frachetta da Rovigo morto in Napoli nel 1620, essendo provigionato dal
re di Spagtra, scrisse, e stampò nel 1581, non compito il 21 anno, un
Dialogo del Furore poetico, ov'egli entra a ragionare con tre giovani,
tutti allora studenti nell'Università di Padova. Nel 1589
pubblicò in Venezia presso i Gioliti la sposizione della tanto vessata Canzone
d'amore di Guido Cavalcanti. Nel 1589 pubblicò pure in Venezia
appresso Pietro Paganini la sua Breve Sposizione di tutta l’opera di
Lucrezio distesa in sei lezioni nella quale si disamina la dottrina di Epicuro,
e si mostra in che sia conforme col vero e con gli insegnamenti di Aristotile e
in che differente, con alcuni discorsi distesi in sette lezioni sopra
l'Invocazione di detta opera. È intitolata con lettera in data di Rovigo
1 Gennaro 1588, al cardinale Scipione Gonzaga, al quale dice tra l'altre cose:
«Lucrezio così grave scrittore, non doveva a partito niuno rimanere
senza sposizione; imperocchè, oltre l'essere oscuro e contenere molte
cose buone, che sono state frantese, ne contiene anco molte di ree, le quali fa
di mestiero, acciocchè altri non vi s'inganni, in iscambio togliendole,
rifiutare; et è un ravvivatore della dottrina, di già per poco
dimenticata, del grande Epicuro, a cui sono apposte a torto molte bugie.»
Il Marchetti si mise a tradurlo. Voleva
dedicarlo a Cosimo III[7], ma non fu accettata la dedica nè gradita la
pubblicazione; onde la versione girò buona pezza inedita, ma dopo
l'invenzione della stampa, dice il figlio Francesco, non vi fu libro che tante
volte si copiasse; e il curioso si è che Cardinali e gran prelati eran
quelli che più desideravano leggerlo.
Constant Martha che
ha tentato la versione poetica di alcuni passi di Lucrezio, dice assai bene: Nous
croyons avoir fait une tentative nouvelle, celle de conserver le mouvement
logique, la trame serrée d'un poète philosophe qui raisonne toujours
même quand il peint. C'est une infidelité que d'offrir la poésie de
Lucréce en images brillantes, mais brisées. L'exactitude consiste ici à
respecter avant tout la suite des pensées; le reste est un agréable surcroît,
qu'il faut donner si l'on peut. E questo
è il pregio del Marchetti; mentre prodiga gli ornamenti poetici, rende
benissimo l'andamento dell'originale.
Come Angelo Firenzuola traducendo l'Asino
d'oro d'Apuleio vi annestò, quasi fosse egli l'autore, alcune
memorie di sè, così fece il Marchetti introducendo nel suo
Lucrezio le lodi del suo maestro Borelli e del Gassendi, grande rinnovatore
della filosofia di Epicuro nel secolo XVII. Del Borelli si veda ai versi
955-960 del I Libro ove l'aggiustò ad Archimede, perciò avevano
comune la patria o la Sicilia, essendo l'uno nato in Messina l'altro in
Siracusa. Del Gassendi si veda ai versi 525-532 del Libro V. Ed altresì,
dolendosi Lucrezio della povertà ed insufficienza della lingua latina a
trattare materie filosofiche, il Marchetti che si valeva della lingua toscana
non meno flessibile della greca e ricca di modi e partiti da esprimere ogni
più astrusa idea, nei versi 181-283 si lodò del felice istromento
che aveva sortito.
Tradusse con garbo Anacreonte, sebbene,
nel gittare gli occhi sul libro e trovando un primo verso che suona:
Unischiam le rose tenere,
ci pare che ne cada di capo la corona e di mano il bicchiere. Se
non che bisogna non isgomentarsi per queste leziosaggini, e continuare,
chè n'avremo in compenso vaghezza di lingua e soavità d'armonia,
pregi sempre vivaci della Toscana e che si riscontrarono fino in un anatomico,
nel Bellini; e il Magalotti, quella gran mente, nelle sue canzoncine e nel Sidro,
non è egli vaghissimo e delizioso?
A questa versione si addirebbero meglio le
lodi che Giuseppe Maria Quirini gli dava pel Lucrezio. «In somma, il
Marchetti, egli scriveva, maneggia il poema della Natura delle cose,
come se fosse un argomento amoroso, ricolmandolo per ogni dove di tutte le
delizie dello stile, di tutti i vezzi della poesia, finalmente di tutte le
lascivie del parlar toscano.» Il che in parte è vero e l'incanto si
ravvalora per le reminiscenze dei nostri poeti classici, che a quando a quando,
come quel purpureo nastro dell'Ariosto, partono la tela d'argento dell'industre
testore.
G. B. Clemente Nelli, l'erede delle ire di
Vincenzo Viviani contro il Marchetti dice: «Non molta pompa crederei doversi
fare di questa benchè per altro bella traduzione, ed in ottimo genere di
verso sciolto condotta... poichè oltre l'essere stata criticata dal
Lazzarini come mal tradotta, è stata censurata dalla Sacra Congregazione
e reputata opera perniziosa al Cristianesimo per le male conseguenze ed effetti
da essa prodotti....
L'Emin. Cantelmo, arcivescovo di Napoli,
per essersi scoperto nella predetta città che Gio. Andrea de Magistris e
Carlo Rosito speziale di medicina insegnavano l'ateismo, prima della pubblica e
solenne abiura degli errori da costoro professati, fece nella sua Chiesa
cattedrale il dì 15 Febbraio 1693 un sermone, in cui tra le altre cose
disse:.... ora si rendono palesi quelle mani sacrileghe, le quali con irritare
l'indignazione divina hanno posto fuoco alle mine de' terremoti scoppiati pochi
giorni sono con tanto spavento ed hanno più recentemente provocato il
flagello della peste estinto miracolosamente per esser prevaluto il merito de'
buoni alla malizia de' cattivi... Seguitò inculcando la necessità
indispensabile di fuggire come mostri velenosi i libri infetti d'eresia, e
dell'infame ateismo e specialmente l'empio Lucrezio traslatato per arte del
Demonio in metro italiano pur troppo applaudito....
Il dì 16 novembre 1718, segue il
Nelli, fu fatto dalla Congregazione dell'Indice in Roma il decreto di
proibizione del Lucrezio tradotto dal Marchetti o manoscritto o stampato, che
egli si fosse, a motivo che alcuni fratelli del casato dei Legni, essendo stati
processati dal tribunale dell'Inquisizione confessarono di essere divenuti atei
per aver soltanto letto il Lucrezio dal signor Alessandro Marchetti tradotto.
Gli proibirono anche la versione di
Anacreonte.
Mentre alcuni volevano bandire dal regno
delle lettere la versione di Lucrezio come empia e pervertitrice, Domenico
Lazzarini di Morro, secondo accenna il Nelli, lettone un quattrocento versi e
non più, con dodici osservazioni tentò di annullarne il pregio e
proscriverla come inesatta, e dimostrante poca conoscenza del sistema di
Epicuro, scusando poi ipocritamente l'autore che l'avesse fatta mentre era
assai giovane, nè maturo voluto poi rivederla per non render perfetta
un'opera si perniziosa. L'erudito marchigiano, dimostrato sottilmente i difetti
de' luoghi presi ad esaminare li rifece egli in versi e qui gli cadde l'ago;
perchè poco rniglior saggio di sè avrebbe dato l'Algarotti, se,
dopo le sue critiche del Caro, avesse preso a rifarlo. E sì ch'era uno
dei più famosi versiscioltai del suo tempo. Ora si senta come il
Lazzarini rifece il Sacrifizio di Aulide:
Come già un tempo
in Aulide gli Altari
Della vergine Dea lordar col sangue
D'Ifianassa bruttamente i capi
Dell'Esercito Danao e gli eroi primi.
La qual, mentre che a lei l'infula intorno
Agli ornamenti verginali avvolta
Con le bende ugualmente ricoperse
E l'una gota e l'altra e vide il padre
Starsene e dritto e mesto innanzi l'Ara;
E a lui vicino far misteri e pompa
D'un coltello i ministri; e vide infine
I cittadini suoi guatarla e piangere:
Che di religion piena e di tema
Neppure osando di parlar, chinava
Divotarnente le ginocchia in terra.
Nè all'infelice in quel malvagio
tempo
Poteo punto giovar ch'essa la prima
Al re di padre il nome avesse dato.
Perchè da quegli eroi tolta di
terra
Fu condotta all'altar tremando tutta:
Non perchè terminata la solenne
E pompa e riti, ella potesse poi
Esser seguita dal suo chiaro sposo;
Ma perchè al tempo stesso delle
nozze
Promesse, col dolor d'esser dal suo
Padre scannata, ella a cader venisse
D'un sacrificio impuro ostia innocente.
Qui avrebbe luogo l'Hélas o
piuttosto l'Holà di Boileau a Corneille.
A quel passo:
Non perchè terminato il sacrificio
Fosse legata col soave nodo
D'un illustre Imeneo;
il Lazzarini fa l'arguto e dice: «Le prometto io che dopo che
fosse stata sacrificata, sarebbe stata la bella sposa. Ma Lucrezio di queste
non ne dice. Egli dice non perchè terminato, non il sacrificio,
ma more sacrorum il rito, e quelle cerimonie che si fanno avanti i
sacrificj, dopo le quali poteva ben essere facilmente sposa. Ma dopo che fosse
stata scannata, non credo che senza difficoltà grande avrebbe potuto
essere:» cavillo bello e buono, perchè il traduttore, astraendosi dalla
qualità e dal fine degli apparecchi, non ha l'animo che alla giovane, la
quale già si figurava di esser condotta all'altare per altro e finita la
cerimonia nuziale esser sposa ad Achille.
Paolo Rolli che fu il primo editore del
poema di Lucrezio tradotto dal Marchetti (Londra 1717), lo mette terzo tra l'Eneide
del Caro e le Metamorfosi d'Ovidio dell'Anguillara. Eccede dall'un lato
come il Baretti dall'altro, quando assevera, ch'egli era non solamente
null'affatto poeta, ma verseggiatore molto mediocre, perchè non
c'è pagina nella sua traduzione che non contenga alquanti versi molto
flosci e zoppi. Il Tiraboschi la dichiarò elegantissima e della critica
del Lazzarini dice, che, da qualunque ragione ella movesse, non ha avuto
effetto e nulla ha scemato la stima di cui quella ha sempre goduto. Invano,
ripete altrove, ha preteso di combattere il comun sentimento de' dotti. Il
sommo Leibniz dovendo riferire nella sua Teodicea un passo del secondo libro
ove si descrive il movimento spontaneo attribuito agli atomi da Epicuro, si
vale della versione del Marchetti anzi che dell'originale.
Prenderò dal Martha un tratto
sull'amore, che mostrerà meglio che il rifacimento del Lazzarini con
quale libertà il Marchetti trattasse Lucrezio.
Ces tourments de
l'amour usent le corps et l’âme;
Ta vie est suspendue
au geste d'une femme,
Ton bien croule,
l'usure envahit ta maison,
Dans l'oubli des
devoirs s'évanouit ton nom,
Oui, pour qu'un
brodequin venu de Sicyone,
Rie a des pieds
mignons, qu'à de beaux doigts rayonne
Un grand rubis dans
l'or, que les plus fins tissus
S'abreuvent chaque
jour des sueurs de Venus.
Ton bien, 1'antique
fruit des vertus paternelles,
Flotte en mitre, en
rubans sur la tête des belles,
Traîne sur les pavés
en robes, en manteaux
Teints des molles
couleurs d'Alindie et de Chíos.
Puis le vin coule
à flots; aux festins que tu donnes,
Il faut encor
parfums, tapis moelleux, couronnes.
Vain effort du
plaisir! du fond de ces douceurs
Monte un dégôut amer
qui tue au sein des fleurs.
Soit qu'un remords secret
avertisse ton âme
Qua tu perds tes
beaux ans dans un repos infâme,
Soit que par ta
maîtresse un mot dit au hasard
Ait planté dans ton
cœur un soupçon, comme un dard,
Qui s'y fixe, y
descend, creuse une plaie ardente,
Soit que ton œil
jaloux, épiant sur l'amante
Quelque regard
furtif, surprenne avec effroi
La trace d'un souris
qui ne fut pas pour toi.
Qui veramente il Marchetti traducendo:
O perchè troppo
ha cupidi e vaganti
Gli occhi e troppo gli volge al suo rivale
E con lui troppo parla e troppo ride,
ha guastato la finezza di quel in vultuque
videt vestigia risus, nots, dice benissimo il Martha, qui peignent avec
une si heureuse hardiesse la jalousie dont la perspicacité dèmêle
sur un visage impassible non pas seulement un sourire, mais les traces d'un
sourire infidèle.
Ora sentiamo come il Molière lo
scolare del Gassendi, che s'era provato alla versione di Lucrezio, ne
trasportasse un tratto nel suo Misantropo[8]:
L'amour pour
l'ordinaire est peu fait à ces loís,
Et l'on voit les
amants vanter toujours leur choix,
Jamais leur passion
n'y voit rien de blâmable
Et, dans l'objet
aimé, tout leur devient aimable;
Ils comptent les
défauts pour des perfections
Et savent y donner de
favorables noms.
La pâle est au jasmin
en blancheur comparable;
La noire à
faire peur une brune adorable;
La maigre a de la
taille et de la liberté;
La grasse, est, dans
son port, pleine de majesté
La malpropre sur soi,
de peu d'attraits chargée,
Est mise sous le nom
de beauté négligée;
La géante paraît une
déesse aux yeux;
La naine un abrégé
des merveilles des cieux.
L'orgueilleuse a le
coeur digne d'une couronne;
La fourbe a de
l'esprit; la sotte est toute bonne;
La trop grande
parleuse est d'agréable humeur;
Et la muette garde
une honnête pudeur.
C'est ainsi qu'un
amant dont l'ardeur est extrême
Aíme jusqu'aux
défauts des personnes qu'il aime.
Nella vita scrittane dal suo figlio
Francesco e nel Saggio del Nelli[9] si posson vedere i lavori geometrici del Marchetti e le
controversie che ne nacquero. Il suo libro De resistentia solidorum pareva
al Nelli da principio un buon libro, ma diceva esser erba del Borelli. Poi,
ricreduto per gli errori trovativi dal P. Guido Grandi, lo ridonò al
Marchetti. Il libro in cui il Marchetti volle risolvere alcuni problemi
proposti da un matematico oltramontano parve altresì erroneo.
Michelangelo Ricci, scolare del
Torricelli, scrivea a Vincenzo Viviani da Frascati, 11 giugno 1675: «aver
consigliato al Marchetti, che gli avea mandato quel suo libricciuolo, di
sopprimerlo e non dar materia di ridersi di noi italiani a molti virtuosi
oltramontani emuli rostri.»
Il Viviani scriveva al Marchetti: «Io non
ho voluto pubblicare l'esamina del suo libretto, intorno al quale avevo che
dire pure assai dal principio sino all'ultimo, sì per non mettere alla
berlina la reputazione di V. S., la quale io amo forse più di quello che
ella non si crede, come ancora per non avvilire quella di noi altri Toscani
perchè po' poi finalmente il Castello di Pontormo e pure in Toscana,
quanto vi sia la nobilissima Firenze sua metropoli e patria mia... Ella non
contenta di professare la filosofia, facoltà, che non ha mai chi gli
riveda il conto per la minuta, presumendosi molto più del dovere in
Geometria, si è lasciata portare dal desiderio e dalla soverchia ambizione
di giugnere a qualche palio prima degli altri; come ha creduto e ha goduto in
sè stesso, instigatone anche da chi non è nè amico suo
nè d'uomo che viva (intende del Borelli) di avere usato ogni sforzo di
far comparire d'improvviso alle viste altrui la battaglia, la vittoria e il
trionfo di un'impresa stimata da lei più ardua e più gloriosa di
quella di M. Marcello, quando espugnò Siracusa. Ma, signor dottor mio da
bene, la geometria speculativa non è già quella
Trattabile e benigna disciplina
Che va per tutto i versi e segue franca
Dov'anche l'ignoranza la declina,
e la quale voi chiamate filosofia.» Finisce col dirgli che s'era
fatto scorgere e da diritto e da rovescio e con altre pungentissime beffe.
Il Marchetti all'incontro scriveva al Magliabechi
del livido Geometra e toccando de' suoi sigillamenti (o dell'aver
fatto sigillare le sue Soluzioni dei Problemi detti dal Cardinale
Leopoldo de' Medici) e delle sue cabale... aggiungeva:
«Che il Padre Fabbri lo chiami Apollonio
redivivo e del veramente dottissimo Borelli mio maestro parli, come ella dice,
come se avesse a parlar d'un guattero, non me ne maraviglio, perchè
cotestui non fa altro che sfacciatissimamente adulare i Gesuiti e
particolarmente il medesimo Padre Fabbri; ed il Borelli che all'incontro non
è adulatore, ma filosofo, gli rivede di modo il pelo, che appresso tutti
gl'intendenti lo fa conoscere per quel che egli è. Ma se il padre Fabbri
parla del sig. Borelli, come d'un guattero, non così ne parlano infiniti
altri letterati, che studiano senza livore o passione alcuna le sue dottissime
ed immortali opere. Nè così ne parla Roma, che per quanto a me
è stato scritto da persona degna di fede, con suo grande stupore lo va a
sentire ogni volta che egli discorre nell'Accademia della Regina (Cristina di
Svezia). Mi maraviglio bene infinitamente che codesto geometra sia sì
proclive in lodare i Gesuiti, e particolarmente il Padre Fabbri, mentre
essendo, come egli dice, il Beniamino del Galileo, cioè l'ultimo e
dilettissimo suo scolare, dovrebbe odiarli più della peste, come quelli,
che sono stati e, parlando generalmente, sono tuttavia asprissimi ed irreconciliabili
nemici del suo maestro. Ma in che scienza è egli mai stato il Galileo
maestro di cotestui? Forse in logica? no; perchè per la medesima sua
confessione ebbe in questa per maestro un frate. Forse in geometria? Nemmeno;
perchè, per quanto egli si vanta, glie ne insegnò non so che poca
un altro frate, e nel resto egli l'ha studiata tutta da sè, ed esorta di
più anco gli altri a fare il medesimo, benchè per Dio, se i
giovani pigliassero il suo consiglio, mi creda pure che se pochi geometri sono
al mondo, ce ne sarebbero molto manco. Forse in fisica, in metafisica, in
ottica, in meccanica, in astronomia, o in altra nobile professione? Ma quando
ha egli in alcuna di queste dato mai saggio al mondo di saper nulla? Resta
dunque ch'ei non fosse in nessun modo scolare del Galileo, ma al più al
più lo servisse per guida, quand'era cieco, o per scriverli qualche
lettera o per andare a farli qualche imbasciata.»
Il Nelli avi à ragione sul punto
dell'imperizia del Marchetti in geometria, avendo sì buoni mallevadori
come il Ricci ed il Viviani; ma ha torto nel premer tanto sulla condanna del
volgarizzamento del Lucrezio, e nel lodare la somma saviezza del Viviani, a far
la corte ai Gesuiti, nemici del Galileo, e d'ogni progresso delle scienze,
quando ne portan pericolo le loro dottrine. Il Marchetti mostra essere stato
uno spirito libero, e miglior seguace dell'indirizzo fondamentale della
filosofia del Galileo che il Viviani, il quale coltivava soltanto la parte
scientifica pura, e si peritava di toccar quella che diremo scientifico-morale,
ch'è po’ poi finalmente la più alta e importante, come quella che
tende a liberare da ogni ceppo teologico lo spirito, aprendogli tutta la
distesa de' cieli, e dandogli ali da scorrerli signorevolmente. Ora il
volgarizzamento del Lucrezio era l'ultima conseguenza della libertà di
filosofare propugnata e confessata col suo martirio dal Galileo; e se il
Marchetti non fu un geometra, fu per ventura buon poeta; se no diremmo ch'e'
fosse alla scuola del Galileo quel che il D'Holbach fu alla scuola dei
D'Alembert e dei Diderot.
Abbiamo seguito in questa nostra
l'edizione procurata in Firenze da Giosuè Carducci (Barbèra,
1864) anco a molto giovane, ma già maestro. Egli oltre la prima edizione
di Londra, riscontrò l'altra del 1779, che pregia sopra tutte. Nè
abbiamo tralasciate le Varianti notate da lui diffondendo così
gli studj di un critico valentissimo, non solo intendente, ma creatore di
ottime poesie. Abbiamo aggiunto i begli argomenti che il Blanchet premise alla
traduzione francese del Lagrange (Paris,1861), e il capitolo della Scienza di
Lucrezio di Constant Martha. Così abbiam provveduto alla chiarezza del
poema, e direm con le parole di Lucrezio al lettore:
Nè cieca notte ornai potrà
impedirti
L'incominciata via, che ti conduce
Di natura a mirar gl'intimi arcani:
Sì le cose alle cose accenderanno
Lume che mostri alla tua gente il vero.
Eugenio Camerini.
Argomento.
Il poeta comincia da una splendida
invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio,
2. l'esposizione del subbietto, 3. l'elogio d'Epicuro, 4. la
confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la
dottrina del filosofo greco e contro l'ardimento del poeta latino che si
accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e
pone a primo principio che l'essere non può uscir dal nulla,
nè tornare al nulla. V'ha dunque corpuscoli primitivi, onde
constano tutti i corpi, e ne' quali questi si risolvono; sebbene invisibili,
è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e
neppure esistere senza il vuoto. L'universo pertanto resulta da queste due
cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è
nè l'uno nè l'altro n'è proprietà o accidente
e non già una terza classe d'esseri che faccian parte da sè. I
corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere
perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito
dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l'acqua, l'aria o la
terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l'omeomeria
di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto,
indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v'ha
dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi
è dunque una follia.
Alma figlia di Giove, inclita madre
Del gran
germe d'Enea, Venere bella,
Degli uomini
piacere e degli dèi:
Tu che sotto
i girevoli e lucenti
Segni del
cielo il mar profondo e tutta
D'animai
d'ogni specie orni la terra,
Che per
sè fôra un vasto orror solingo:
Te dea
fuggono i venti: al primo arrivo
Tuo
svaniscon le nubi: a te germoglia
Erbe e fiori
odorosi il suolo industre:
Tu rassereni
i giorni foschi, e rendi
Con dolce
sguardo il mar chiaro e tranquillo,
E splender
fai di maggior lume il cielo.
Qualor
deposto il freddo ispido manto
L'anno
ringiovanisce, e la soave
Aura feconda
di Favonio spira,
Tosto tra fronde
e fronde i vaghi augelli,
Feriti il
cor da' tuoi pungenti dardi,
Cantan
festosi il tuo ritorno, o diva;
Liete
scorron saltando i grassi paschi
Le fiere e
gonfi di nuov'acque i fiumi
Varcano a
nuoto e i rapidi torrenti:
Tal da'
teneri tuoi vezzi lascivi
Dolcemente
allettato ogni animale
Desïoso
ti segue ovunque il guidi.
Insomma tu
per mari e monti e fiumi,
Pe' boschi
ombrosi e per gli aperti campi,
Di piacevole
amore i petti accendi,
E
così fai che si conservi 'l mondo.
Or; se tu
sol della natura il freno
Reggi a tua
voglia, e senza te non vede
Del
dì la luce desïata e bella
Nè
lieta e amabil fassi alcuna cosa;
Te, dea, te
bramo per compagna all'opra,
In cui di
scriver tento in nuovi carmi
Di natura i
segreti e le cagioni
Al gran
Memmo Gemello a te sì caro
In ogni
tempo e d'ogni laude ornato.
Tu dunque, o
diva, ogni mio detto aspergi
D'eterna
grazia; e fa' cessare intanto
E per mare e
per terra il fiero Marte,
Tu che sola
puoi farlo. Egli sovente
D'amorosa
ferita il cuor trafitto
Umil si posa
nel divin tuo grembo.
Or; mentr'ei
pasce il desïoso sguardo
Di tua
beltà ch'ogni beltade avanza,
E che
l'anima sua da te sol pende;
Deh porgi a
lui, vezzosa dea, deh porgi
A lui soavi
preghi, e fa' ch'ei renda
Al popol suo
la desïata pace.
Chè
se la patria nostra è da nemiche
Armi
agitata, io più seguir non posso
Con animo
quïeto il preso stile,
Nè
può di Memmo il generoso figlio
Negar
sè stesso alla comun salute.
Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi
Grate ed
attente orecchie, e ti prepara,
Lungi da te
cacciando ogni altra cura,
Alle vere
ragioni, e non volere
I miei doni
sprezzar pria che gl'intenda.
Io
narrerotti in che maniera il cielo
Con moto
alterno ognor si volga e giri;
Degli
dèi la natura, e delle cose
Gli alti
principii; e come nasca il tutto,
Come poi si
nutrichi, e come cresca,
Ed in che
finalmente ei si risolva.
E ciò
da noi nell'avvenir dirassi
Primo corpo
o materia o primo seme
O corpo
genitale, essendo quello
Onde prima
si forma ogni altro corpo.
Chè
d'uopo è pur che 'n somma eterna pace
Vivan gli
dèi per lor natura e lungi
Stian dal
governo delle cose umane,
Scevri
d'ogni dolor d'ogni periglio,
Ricchi sol
di lor stessi, e di lor fuori
Di nulla
bisognosi, e che nè merto
Nostro gli
alletti o colpa accenda ad ira.
Giacea
l'umana vita oppressa e stanca
Sotto
religïon grave e severa,
Che
mostrando dal ciel l'altero capo
Spaventevole
in vista e minacciante
Ne
soprastava. Un uom d'Atene il primo
Fu, che
d'ergerle incontra ebbe ardimento
Gli occhi
ancor che mortali e le s'oppose
Questi non
paventò nè ciel tonante
Nè
tremoto che 'l mondo empia d'orrore
Nè
fama degli dèi nè fulmin torto:
Ma, qual
acciar su dura alpina cote
Quanto
s'agita più tanto più splende,
Tal
dell'animo suo mai sempre invitto
Nelle
difficoltà crebbe il desio
Di spezzar
pria d'ogni altro i saldi chiostri
E l'ampie
porte di natura aprirne.
Così
vins'egli, e con l'eccelsa mente
Varcando
oltre a' confin del nostro mondo
Fu bastante
a capir spazio infinito.
Quindi
sicuramente egli n'insegna
Ciò
che nasca o non nasca, ed in qual modo
Ciò
che racchiude l'universo in seno
Ha poter
limitato e termin certo.
E, la
religion co' piè calcata,
L'alta
vittoria sua c'erge alle stelle.
Nè
creder già che scelerate ed empie
Sian le cose
ch'io parlo; anzi sovente
L'altrui
religion ne' tempi antichi
Cose
produsse scelerate ed empie.
Questa il
fior degli eroi scelti per duci
Dell'oste
argiva in Aulide indusse
Di
Dïana a macchiar l'ara innocente
Col sangue
d'Ifigènia; allor che, cinto
Di bianca
fascia il bel virgineo crine,
Vid'ella a sè
davanti in mesto volto
Il padre, e
a lui vicini i sacerdoti
Celar
l'aspra bipenne, e 'l popol tutto
Stillar per
gli occhi in larga vena il pianto
Sol per
pietà di lei che muta e mesta
Teneva a
terra le ginocchia inchine.
Nè
giovò punto all'innocente e casta
Povera
verginella in tempo tale
Ch'a nome
della patria il prence avesse
All'esercito
greco un re donato:
Chè
tolta dalle man del suo consorte
Fu condotta
all'altar tutta tremante;
Non
perchè, terminato il sacrifizio,
Legata fosse
col soave nodo
D'un illustre
imeneo; ma per cadere
Nel tempo
stesso delle proprie nozze
A'
piè del genitore, ostia dolente
Per dar
felice e fortunato evento
All'armata
navale. Error sì grave
Persüader la
religion poteo.
Tu stesso, dall'orribili minacce
De' poeti
atterrito, ai detti nostri
Di negar
tenterai la fè dovuta.
Ed oh quanti
potrei fingerti anch'io
Sogni e
chimere, a sovvertir bastanti
Del viver
tuo la pace e col timore
Il sereno
turbar della tua mente.
Ed a ragion,
che se prescritto il fine
Vedesse
l'uomo alle miserie sue,
Ben resister
potrebbe alle minacce
Delle
religïoni e de' poeti:
Ma come mai
resister può, s'ei teme
Dopo la
morte aspri tormenti eterni,
Perchè
dell'alma è a lui l'essenza ignota?
S'ella sia
nata od a chi nasce infusa,
E se morendo
il corpo anch'ella muoia?
Se le
tenebre dense e se le vaste
Paludi vegga
del tremendo inferno,
O s'entri ad
informare altri animali
Per divino
voler? Siccome il nostro
Ennio
cantò, che pria d'ogn'altro colse
In riva
d'Elicona eterni allori,
Onde
intrecciossi una ghirlanda al crine
Fra
l'italiche genti illustre e chiara.
Bench'ei ne'
dotti versi affermi ancora
Che sulle
sponde d'Acheronte s'erge
Un tempio
sacro agl'infernali dèi,
Ove non
l'alme o i corpi nostri stanno
Ma certi
simulacri in ammirande
Guise
pallidi in volto; e quivi narra
D'aver visto
l'immagine d'Omero
piangere
amaramente e di natura
Raccontargli
i segreti e le cagioni.
Dunque non
pur de' più sublimi effetti
Cercar le
cause e dichiarar conviensi
Della luna e
del sole i movimenti,
Ma come
possan generarsi in terra
Tutte le
cose, e con ragion sagace
Principalmente
investigar dell'alma
E dell'animo
uman l'occulta essenza,
E ciò
che sia quel che, vegliando infermi
E sepolti
nel sonno, in guisa n'empie
D'alto
terror, che di veder presente
Parne e
d'udir chi già per morte in nude
Ossa
è converso e poca terra asconde.
E so ben io qual malagevol opra
Sia
l'illustrar de' Greci in tóschi carmi
L'oscure
invenzïoni; e quanto spesso
Nuove parole
converrammi usare,
Non per la
povertà della mia lingua
Ch'alla
greca non cede e più d'ogn'altra
Piena
è di proprie e di leggiadre voci.
Ma per la
novità di quei concetti
Ch'esprimer
tento e che null'altro espresse.
Pur nondimen
la tua virtude è tale
E lo sperato
mio dolce conforto
Della
nostr'amistà, ch'ognor mi sprona
A soffrir
volentieri ogni fatica
E m'induce a
vegliar le notti intere,
Sol per
veder con quai parole io possa
Portare
innanzi alla tua mente un lume
Ond'ella
vegga ogni cagione occulta.
Or sì vano terror, sì cieche tenebre
Schiarir
bisogna e via cacciar dall'animo
Non co' be'
rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del
giorno a saettar poc'abili
Fuorchè
l'ombre notturne e i sogni pallidi,
Ma co 'l
mirar della natura e intendere
L'occulte
cause e la velata imagine.
Tu, se di
conseguir ciò brami, ascoltami.
Sappi che nulla per divin volere
Può
dal nulla crearsi: onde il timore
Che quindi
il cor d'ogni mortale ingombra
Vano
è del tutto: e, se tu vedi ognora
Formarsi
molte cose in terra e 'n cielo
Nè
d'esse intendi le cagioni, e pensi
Per
ciò che Dio le faccia, erri e deliri.
Sia dunque
mio principio il dimostrarti
Che nulla
mai si può crear dal nulla:
Quindi assai
meglio intenderemo il resto,
E come possa
generarsi il tutto
Senz'opra
degli dèi. Or, se dal nulla
Si creasser
le cose, esse di seme
Non avrian
d'uopo; e si vedrian produrre
Uomini ed
animai nel sen dell'acque,
Nel grembo
della terra uccelli e pesci.
E nel vano
dell'aria armenti e greggi:
Pe' luoghi
culti e per gl'inculti il parto
D'ogni fera
selvaggia incerto fôra;
Nè
sempre ne darian gl'istessi frutti
Gli alberi,
ma diversi, anzi ciascuno
D'ogni
specie a produrgli atto sarebbe
Poichè
come potrian da certa madre
Nascer le
cose, ove assegnati i propri
Semi non
fosser da natura a tutte?
Ma or,
perchè ciascuna è da principii
Certi
creata, indi ha il natale ed esce
Lieta a godere
i dolci rai del giorno
Ov'è
la sua materia e i corpi primi.
E quindi
nascer d'ogni cosa il tutto
Non
può, perchè fra loro alcune certe
Cose han
l'interna facoltà distinta.
In oltre:
ond'è che primavera adorna
Sempre
è d'erbe e di fior? che di mature
Biade
all'estiv'arsura ondeggia il campo?
E che sol,
quando Febo occupa i segni
O di libra o
di scorpio, allor la vite
Suda il
dolce liquor che inebria i sensi?
Se non
perchè a' lor tempi alcuni certi
Semi in un
concorrendo atti a produrre
Son
ciò che nasce, allor che le stagioni
Opportune il
richieggono, e la terra
Di vigor
genital piena e di succo
Puote
all'aure innalzar sicuramente
Le molli
erbette e l'altre cose tenere?
Che, se pur
generate esser dal nulla
Potessero,
apparir dovrian repente
In contrarie
stagioni e spazio incerto:
Non vi
essendo alcun seme che impedito
Dall'unïon
feconda esser potesse
O per
ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.
Nè,
per crescer, le cose avrian mestiere
Di spazio
alcuno in cui si unisca il seme,
S'elle
fosser del nulla atte a nutrirsi:
Ma nati
appena i pargoletti infanti
Diverrebbero
adulti, e in un momento
Si vedrebber
le piante inverso il cielo
Erger da
terra le robuste braccia:
Il che mai
non succede; anzi ogni cosa
Cresce, come
conviensi, a poco a poco,
E crescendo
conserva e rende eterna
La propria
specie. Or tu confessa adunque
Che della
sua materia e del suo seme
Nasce, si
nutre e divien grande il tutto.
S'arroge a
ciò, che non daría la terra
Il dovuto
alimento ai lieti parti,
Se non
cadesse a fecondarle il seno
Dal ciel
l'umida pioggia, e senza cibo
Propagar non
potrebber gli animali
La propria
specie e conservar la vita.
Ond'è
ben verisimile che molte
Cose molti
fra lor corpi comuni
Abbian, come
le voci han gli elementi,
Anzi che sia
senza principio alcuna.
In somma: ond'è
che non formò natura
Uomini tanto
grandi e sì robusti,
Che potesser
co' piè del mar profondo
Varcar
l'acque sonanti e con la mano
Sveller
dall'imo lor l'alte montagne
E viver
molt'etadi e molti secoli?
Se non
perchè prescritta è la materia
Onde ogni cosa
si produce ed onde
Composto
è ciò che nasce? Or ecco dunque
Che nulla
mai si può crear dal nulla,
Mentre di
seme ha di mestiere il tutto
Per uscire a
goder l'aura vitale.
Al fin:
perchè veggiamo i culti luoghi
Degl'inculti
più fertili, e per l'opra
Di rozze
mani industrïose i loro
Frutti
produr molto più vaghi all'occhio,
Più
soavi al palato e di più sano
Nodrimento
allo stomaco; e' n'è pure
Chiaro che
d'ogni cosa in grembo i semi
Stanno alla
terra e che da noi promossi
Sono a nuovo
natal, mentre, rompendo
Col curvo
aratro e con la vanga il suolo,
Volghiam
sossopra le feconde zolle,
Domandole or
col rastro or con la marra:
Chè,
se questo non fosse, ogni fatica
Sarebbe
indarno sparsa, e per sè stesso
Produrrebbe
il terren cose migliori.
Sappi oltre a ciò che si risolve il tutto
Ne' suoi
principii, e che non può natura
Alcuna cosa
annichilar giammai.
Chè,
se affatto mortali e di caduchi
Semi fosser
conteste, all'improvviso
Tutte a gli
occhi involarnesi e perire
Dovrian le
cose, ove mestier di forza
Non fôra in
partorir discordia e lite
Fra le lor
parti e l'unïon disciorne.
Ma,
perchè seme eterno il tutto forma,
Quindi
è che nulla mai perir si vede
Pria che
forza il percuota e negl'interni
Vôti spazi
penètri e lo dissolva.
In oltre:
ciò che lunga età corrompe
Se
s'annichila in tutto, ond'è che Venere
Rimena della
vita al dolce lume
Generalmente
ogni animale? ed onde
Cibo gli
porge la 'ngegnosa terra
Onde si
nutra, si conservi e cresca?
Onde le
fonti, onde i torrenti e i fiumi
Portan
l'ampio tributo al vasto mare?
Onde alle
fisse, onde all'erranti stelle
Somministra
alimento il ciel profondo?
Poichè
già l'infinita età trascorsa
Ogni corpo
mortale a pien dovrebbe
Col vorace
suo dente aver distrutto.
Ma, se pur
fu nella trascorsa etade
Seme che
basti a riprodurre al mondo
Tutto
ciò che perisce, eterno è certo.
Nulla
può dunque mai ridursi al nulla.
In somma: a
dissipar sarìa bastante
Tutte le
cose una medesma forza,
Se materia
immortal non le tenesse
Più e
men collegate: un tocco solo
Bastevole
cagion della lor morte
Esser
potria, ch'ove d'eterno corpo
Nulla non
fosse, ogni più leve impulso
Sciôr ne
dovrebbe la testura in tutto.
Ma,
perchè vari de' principii sono
I nodi ed
è la lor materia eterna,
Salve restan
le cose infino a tanto
Che forza le
percuota atta a disciorre
Di ciascuna
di loro il proprio laccio.
Nulla
può dunque mai ridursi a nulla;
Ma ne' primi
suoi corpi il tutto riede.
Tosto che
finalmente il padre Giove
Versa nel
grembo alla gran madre Idea
L'umida
pioggia, essa perisce al certo:
Ma ne sorgon
le biade e se n'adorna
Ogni albero
di fior, di frondi e frutti.
Quindi si
pasce poi l'umano germe,
Quindi ogni
altro animale. E lieta quindi
Di vezzosi
fanciulli ogni cittade
Fiorir si
mira, e le fronzute selve
Piene di
nuovi innamorati augelli
Cantan soavi
armonïose note.
Quindi pe'
lieti paschi i grassi armenti
Posan le
membra affaticate e stanche,
E dalle
piene mamme in bianche stille
Gronda
sovente il nutritivo umore,
Onde i nuovi
lor parti ebri e lascivi
Con non ben
fermo piè scherzan per l'erbe.
Dunque affatto
non muor ciò che ne sembra
Morir
quaggiù, se la natura industre
Sempre
dell'un l'altro ristora; e mai
Nascer non
puote alcuna cosa al mondo,
Se non se
prima ne perisce un'altra.
Or; poi che chiaramente io t'ho dimostro
Che nulla
mai si può crear dal nulla
Nè
mai cosa creata annichilarsi,
Acciò
tu non pertanto i detti miei
Non creda
error, perchè non puoi cogli occhi
Delle cose
veder gli alti principii;
Pensa oltre
a ciò quant'altri corpi sono
Invisibili
al mondo, e pur deggiamo
Confessar
ch'e' vi sono a viva forza.
Pria: se vento gagliardo il mare sferza
Con
incredibil vïolenza ignota,
Le smisurate
navi urta e fracassa;
Or ne porta
sull'ali atre tempeste,
Or via le
scaccia e ne fa chiaro il giorno;
Talor pe'
campi infurïato scorre
Con turbo
orrendo, e le gran piante atterra;
Talor col
soffio impetuoso svelle
Le selve
annose in su gli eccelsi monti:
Così
gorgoglia l'Ocean cruccioso,
Geme, freme,
s'infuria e 'l ciel minaccia.
Son dunque i
venti un invisibil corpo,
Che la terra
che 'l mar che 'l ciel profondo
Trae seco a
forza e ne fa strage e scempio;
Nè in
altra guisa il suo furor distende,
Che suol
repente in ampio letto accolta
La molle
acqua cader gonfia e spumante,
Che non pur
delle selve i tronchi busti
Ma ne porta
sul dorso i boschi interi;
Nè
pôn soffrir i ben fondati ponti
La repentina
forza; il fiume abbatte
Ogni eccelso
edifizio e sotto l'acque
Gran sassi
avvolge, onde ruina a terra
Ciò
ch'al rapido corso ardisce opporsi.
Così
dunque del vento il soffio irato,
Se qual
torrente infurïato scorre
Verso
qualunque parte, innanzi caccia
Ciò
ch'egli incontra e lo diveglie e schianta;
Or con
vortice torto alto il rapisce,
E con rapido
turbo il ruota e porta.
È
dunque il vento un invisibil corpo,
Se nell'opre
e nel moto i fiumi imita
Che son
composti di visibil corpo.
Giùngonne
anco alle nari odor diversi,
Che tra via
nondimen l'occhio non vede:
Il caldo il
gelo il canto il suon le voci
Non pôn
mirarsi, e pur son corpo anch'elleno
Poichè
svegliano il senso e lo commuovono:
E null'altro
che il corpo è tocco o tocca.
Le vesti al
fin nel marin lido appese
Umide fansi,
e le medesme poi
Tornan
asciutte a' rai del sole esposte:
Ma nè
come l'umore ivi si fermi,
Nè
com'ei fugga dal calor cacciato
Alcun non
vede. Egli si sparge adunque
In tante e
tante parti e sì minute,
Ch'a poterle
mirare occhio non basta.
Anzi:
portate per molt'anni in dito
S'assottiglian
l'anella; a goccia a goccia
L'acqua
d'alto cadendo i sassi incava;
L'adunco
ferro del ritorto aratro
Rompendo i
campi occultamente scema;
Consuman per
le strade i piè del volgo
Le durissime
lastre; e, per lo spesso
Toccar di
chi saluta e di chi passa,
Le figure di
bronzo entro alle porte
De' templi
sculte la lor forma pèrdono.
E ben tai
cose sminuir veggiamo;
Ma di veder
ciò che ne caschi ogn'ora
La natura ne
toglie invidïosa.
In somma:
ciò che la natura e 'l tempo
Donano a
poco a poco a quel che cresce
Non possono
gli occhi rimirar contenti,
Nè
quel che per l'età langue o vien meno,
Nè
quel che rode con l'edace sale
Ogni momento
il mar dai duri scogli.
Dunque
è pur di mestier che la natura
D'invisibili
corpi il tutto formi.
Ma non creder però che l'universo
Sia pieno
affatto. In ogni cosa il vôto
Misto
è co' corpi. E questo in molte cose
D'util ti
fia; acciò tu meglio intenda
Tutto
ciò ch'io ragiono, e senza errore
E senza
dubbio interamente creda
Alle parole
mie fide e veraci.
Spazio è dunque nel mondo intatto e vôto
E privo
d'ogni corpo, e luogo ha nome
Poichè,
se ciò non fosse, eternamente
Starian
ferme le cose, essendo offizio
Di tutti i
corpi l'impedire il moto:
Muoversi
dunque mai nulla potrebbe,
Ove nulla
cedesse e desse luogo.
Ma noi
miriam co' gli occhi propri ognora
Nella terra
nel mar nel ciel sublime
Muoversi
molte cose in molti modi
Per molte
cause; che, se vôto alcuno
Spazio non
fosse, d'ogni moto prive
Sarìan
non sol ma nè pur nate al mondo;
Poichè
stivati i primi semi affatto
Goduto
avriano una perpetua quiete.
In oltre:
ancor che molte cose e molte
Sembrin dure
del tutto agli occhi nostri,
Son poi di
corpo assai poroso e raro.
Quindi
è che penetrar miri dall'acque
I tufi, i
sassi e le spelonche, e quindi
Piangon le
selci in copïose stille.
Per tutto il
corpo si diffonde il cibo
Degli
animai; crescon le piante e fanno
Nella
propria stagione il fiore e 'l frutto,
Sol
perchè preso il nutrimento loro
Sin dall'infime
barbe egli si sparge
Tutto per
tutto il tronco e tutti i rami.
Passan le
voci entro le chiuse mura:
E scorre
spesso un duro gel per l'ossa.
Il che non
avverrebbe in modo alcuno,
Se non
fosser nel mondo i vôti spazi
Ov'ogni
corpo penetrar potesse.
Al fine:
ond'è che di due cose eguali
Di mole una
sovente ha maggior pondo?
Che s'un
fiocco di lana in sè chiudesse
Tanto di
corpo quanto il piombo e l'oro,
Egli
altrettanto anco pesar dovrebbe;
Chè
proprio è sol di tutt'i corpi il premere
In
giù le cose, ed al contrario il vôto
Di sua
natura è senza peso alcuno.
Dunque, se
di due cose eguali in mole
L'una
più lieve fia, chiaro ne insegna
D'aver manco
di corpo e più di vôto:
Ma,
s'è più grave, pel contrario mostra
D'aver manco
di vôto e più di corpo.
Che sia
dunque fra' corpi il vôto sparso,
Benchè
mal noto a' nostri sensi infermi,
Per
l'addotte ragioni è chiaro e certo.
Nè qui vogl'io che devïar dal vero
Ti possa mai
quel che sognaro alcuni;
E
perciò quant'io parlo ascolta e nota.
Dicon che 'l
mare allo squammoso armento
Apre l'umide
vie, perch'egli a tergo
Spazio si
lascia ove concorran l'onde;
E che in
guisa simìle ogni altra cosa
Mover si
puote e cangiar sito e luogo.
Ma falso
è ciò: ch'ove potranno alfine
I pesci
andar, se non dà luogo il mare?
E dove al fin,
se non dan luogo i pesci,
Il mar
n'andrà, benchè cedente e molle?
Forz'è
dunque o privar di moto i corpi,
O fra le
cose mescolar il vôto
Che sia
cagion de' movimenti loro.
S'al fin due
piastre di lucente acciaio
Si
combaciano insieme, indi in un tratto
L'una
dall'altra si solleva, è d'uopo
Che vôto
resti l'interposto spazio:
Poichè,
quantunque d'ogn'intorno accorra
L'aere per
occuparlo, in un sol punto
Ciò
far non può, ma che riempia è forza
I luoghi
più vicini e poscia gli altri.
E, se per
avventura alcun pensasse
Che si
distinguan l'un dall'altro i corpi
Perchè
l'aere frapposto si condensi,
Erra;
chè il vôto il qual non era innanzi
Fassi per
certo e si riempie dopo
Benchè
velocemente, in qualche tempo;
Nè
l'aere in guisa tal può condensarsi,
Nè,
quand'anco potesse, ei non potrebbe
Sè
stesso in sè raccôrre e in un ridurre
Senz'alcun
vôto le disperse parti.
Dunque
indugia, se vuoi; forz'è ch'al fine
Esser
confessi tra le cose il vôto.
Posso oltre
a ciò molte ragioni addurti
Nulla men
concludenti, onde tu presti
Alle parole
mie fede maggiore:
Ma tanto
basti al tuo sottile ingegno,
Per ben
capir sicuramente il resto.
Chè,
se scopron sovente i bracchi al fiuto
Le lepri i
cervi e l'altre fere in caccia
Pe' covili
appiattate e pe' cespugli
Tosto c'han
di lor via vestigio certo,
Potrai ben
tu per te medesmo intendere
L'una cosa
dall'altra e penetrare
Per tutti i
ripostigli e trarne il vero.
Ma, se tu
pigro fossi o ti scostassi
Dal vero
alquanto, io ti prometto e giuro
Che
può la lingua in così larga vena
Dal ricco
petto mio spargerti, o Memmo,
Più
che mèl dolce d'eloquenza un fiume;
Ch'io temo
pria non la vecchiezza inferma
Per le
membra serpendo il chiostro n'apra
Di nostra
vita e ne disciolga i lacci,
Che mai tu
possa d'ogni cosa a pieno
Da' versi
nostri ogni argomento udire.
Ma tempo
è già di proseguir l'impresa.
Tutte le cose per sè stesse adunque
Consiston
solamente in due nature;
Cio è
nel corpo e nello spazio vôto
Ov'elle han
vari i movimenti e i siti.
Ch'esser
corpi nel mondo il comun senso
Per
sè ne mostra; a cui se fede nieghi,
Non fia
già mai che dell'occulte cose
Possa nulla
provar con la ragione.
E, se non
fosse alcuno spazio o luogo
Che sovente
da noi vôto si chiama,
Non
avrìan sito mai nè luogo i corpi,
Come
già poco innanzi io t'ho dimostro.
Nulla oltr'a
ciò può ritrovarsi mai,
Che tu dir
possa esser diviso affatto
E dal corpo
e dal vôto, onde si dia
Una quasi
fra lor terza natura.
Ch'è
pur qual cosa ciò ch'al mondo trovasi,
Sia di
picciola mole o sia di grande;
Poichè,
s'egli esser tocco o toccar puote,
Benchè
lieve e minuto, è corpo al certo;
Se no, vôto
si chiama o spazio o luogo.
In oltre:
ciò che per sè stesso fia,
O
farà qualche cosa o sarà fatto,
O fia
là dove i corpi han luogo e nascono:
Ma non
può far nè farsi altro che 'l corpo,
Nè
dar luogo alle cose altro che 'l vôto:
Dunque oltre
al vôto e 'l corpo in van si cerca
Una quasi
fra lor terza natura
Che per
sè cresca delle cose il novero,
Essendo il
tutto o d'ambedue congiunto
O loro
evento, ch'accidente io chiamo.
Tu stima poi, che sia congiunto quello
Che non
può senza morte esser disgiunto;
Com'il peso
alle pietre, il caldo al foco,
Ai corpi il
tatto, il non toccarsi al vôto.
Servitude
all'incontro e libertade,
Ricchezza e
povertà, concordia e guerra,
E tutto
ciò che, venga o resti o parta,
Lascia salve
le cose, io soglio poi
Accidente
chiamar, come conviensi.
Il tempo ancor non è per sè in natura:
Ma dalle
sole cose il senso cava
Il passato
il presente ed il futuro;
Nè
può capirsi separato il tempo
Dal moto
delle cose e dalla quiete.
Nè
dica alcun che la tindarea prole
Da Paride
rubata al duce argivo
E 'l superbo
Ilïone arso e consunto
Forse
parrà ch'a confessar ne sforzi
Che tai cose
per sè fossero al mondo;
Mentre
l'età trascorsa irrevocabile
I secoli di
quelli omai n'ha tolto,
Che ad
eventi sì rei furon soggetti.
Poichè,
di ciò che fassi, altro può dirsi
De' paesi
accidente, altro de' corpi
Chè,
se stato non fosse il seme e 'l luogo
Onde si
forma e dove ha vita il tutto,
Non avrebbe
giammai d'amore il foco
Per la rara
beltà d'Elena acceso
Nel frigio
petto suscitar potuto
Il chiaro
incendio di sì cruda guerra,
Nè il
gran destrier del traditor Sinone
Col notturno
suo parto avrìa distrutto
Della nobil
città le mura eccelse.
Onde
conoscer puoi che l'opre altrui
Non son per
sè conforme il corpo e 'l vôto,
Ma
più tosto a ragion debbon chiamarsi
O de' corpi
accidenti o de' paesi.
Sappi poi che de' corpi altri son primi,
Altri si fan
per l'unïon di questi.
Ma quei che
primi son da forza alcuna
Dissipar non
si ponno: ogni grand'urto
Frena la lor
sodezza, ancor che paia
Duro a
creder che nulla al mondo possa
Trovarsi mai
d'impenetrabil corpo.
Passa il
fulmin celeste, allor che Giove
Ver noi
l'avventa, entro le chiuse mura,
Com'i gridi
e le voci: il ferro stesso
S'arroventa
nel fuoco: entro il crudele
Bollor
fervidi al fin spezzansi i sassi:
Un soverchio
calor l'oro dissolve:
Del bronzo
il ghiaccio una gran fiamma strugge:
Penetra per
l'argento il caldo e 'l freddo;
Poi
ch'avvinchiando con la mano il nappo
E versandovi
dentro il dolce vino,
L'uno e
l'altro da noi tosto si sente.
Sì
par che tra le cose ancor che sode
Nulla sia
mai d'impenetrabil corpo.
Ma,
perchè la ragion della natura
Non pertanto
ne sforza, or tu m'ascolta:
Mentre ch'in
pochi versi esser ti mostro
Materia
impenetrabile ed eterna.
Pria: se varia del corpo è la natura
Dall'essenza
del luogo u' fassi il tutto,
Com'i nostri
argomenti han già convinto,
Forz'è
ch'ambe per sè siano ed immiste;
Poichè,
dove lo spazio intatto resta,
Ivi corpo
non è: ma dov'è corpo,
Ivi vôto non
è; son dunque i primi
Corpi
senz'alcun vôto impenetrabili.
In oltre:
essendo mescolato il vôto
Fra le cose
create, è d'uopo al certo
Ch'impenetrabil
corpo intorno il cinga:
Nè
mai posso provar che nulla celi
Per entro a
sè medesmo il vôto spazio,
Se per cosa
già nota io non suppongo
Che
impenetrabil sia quel che l'asconde:
Il che poi
certamente esser non puote
Se non de'
semi l'unïon concorde
Che stringer
possa entro a se stessa il vôto:
Può
dunque la materia esser eterna,
Benchè
sia frale ogni altra cosa al mondo;
Mentr'ella
è pur d'impenetrabil corpo.
Aggiungi
ancor; che se non fosse il vôto,
Pieno
sarebbe il tutto; e se non fossero
Gl'invisibili
corpi, il mondo affatto
Vôto
sarebbe: egli è composto adunque
Di due cose
fra lor molto diverse,
Cioè
de' corpi e dello spazio vôto;
Non essendo
nè vôto in ogni parte,
Nè
pel contrario in ogni parte pieno.
Gl'invisibili
corpi adunque sono,
E distinguon
dal pieno il vôto spazio.
Questi mai
non offende esterna forza:
Per
dissipare ogni percossa è vana
La loro
indissipabile sostanza:
Poichè
nulla che sia di vôto privo
Non par che
possa esser urtato in modo
Ch'e' si
spezzi in due parti e si divida,
Nè
dar luogo all'umore al freddo al caldo
Ond'ogni
cosa vien ridotta al fine;
Ma, quanto
più di vôto in se racchiude,
Tanto
più penetrato agevolmente
Dagli
esterni nemici è poi distrutto.
Dunque, se i
primi corpi impenetrabili
Sono e
senz'alcun vôto è forza al certo,
Com'io
già t'insegnai, ch'e' sieno eterni.
S'eterna in
oltre la materia prima
Stata non
fosse, al nulla omai ridotto
E dal nulla
rinato il tutto fôra:
Ma,
perchè chiaro io t'ho già mostro avanti
Che nulla
mai si può crear dal nulla
Nè
mai cosa creata annichilarsi,
Forza
è pur confessar che i primi semi
Sian di
corpo immortale, in cui si possa
Dissolver
finalmente ogni altro corpo,
Acciò
che sempre la materia in pronto
Sia per
rifar le già disfatte cose.
Per lor
simplicità dunque i principii
Son pieni
impenetrabili ed eterni:
Nè
ponno in altra guisa esser rifatte
Le cose mai
per infinito tempo.
Al fin: se la natura alcun prescritto
Termine non
avesse allo spezzarsi,
Sariano a
tal della materia i corpi
Ridotti omai
nella trascorsa etade,
Che non
avrebbe mai nessun composto
Da molto
tempo in qua passar potuto
Della sua
verde età l'ultimo fiore;
Poichè,
per quanto è manifesto al senso,
Muor più
presto ogni cosa e si dissolve
Che dopo non
rinasce e si restaura:
Onde, ancor
tuttavia spezzando il tempo
Ciò
che già mille volte avesse infranto
La lunga
anzi infinita età trascorsa,
Non potrebbe
giammai rifarlo appieno.
Or;
perchè ristorar vedesi il tutto
E da natura
aver prescritto il tempo,
Onde possa
toccar l'ultima mèta
Dell'età
sua; dunque prefisso è pure
Al romper
delle cose un certo fine.
S'arroge a
ciò: ch'essendo i corpi primi
Di dura anzi
infrangibile sostanza,
Può
non pertanto agevolmente farsi
Tenero e
molle il ciel la luce il foco
L'aria il
vento il vapor l'acqua e la terra
Sol col
mischiare entro alle cose il vôto:
Ma; se per
lo contrario i primi semi
Fosser
teneri e molli; onde potrebbe
Farsi il
ferro, il diaspro e l'adamante,
Mentre mancasse
alla natura affatto
D'ogni
durezza il fondamento primo?
Per lor
simplicità dunque i principii
Son pieni,
impenetrabili ed eterni;
E per loro
unïon posson le cose
Più e
più condensarsi e mostrar forza.
Perchè
in somma è prescritto un termin certo
A ciò
che cresce e si conserva in vita,
E ciò
che possa e che non possa oprare
Per naturale
invïolabil legge
Incommutabilmente
è stabilito,
In guisa tal
ch'ogni dipinto augello
Mostra nel
corpo suo le stesse macchie
Che ciascun
altro di sua specie mostra;
Fie pure
d'invarïabile sostanza
Il primo
seme suo: perchè, se i corpi
Della prima
materia in alcun modo
Si potesser
mutare, incerto ancora
Quel che
nasca o non nasca omai sarebbe
Ed in qual
guisa sia prescritto al tutto
Terminata
potenza e certo fine;
Nè
men potrian generalmente i secoli
Ricondur mai
de' genitori al mondo
La natura, i
costumi, il moto e 'l vitto.
In oltre
ancor: perchè l'estremo termine
Di
qualsivoglia corpo è pur qualcosa,
Benchè
più non soggiaccia ai sensi nostri;
Forz'è
che senza parti e indivisibile
Sia per
natura, e ch'e' non fosse mai
Separato da
sè, nè sia per essere
Mentr'egli
stesso è prima parte ed ultima,
Onde l'altre
e poi l'altre a lui simìli
Per ordine
disposte al corpo danno
La dovuta
grandezza; or, perchè queste
Star non
posson per sè, d'uopo han d'appoggio
Nè
diveglier si ponno in alcun modo.
Per lor
simplicità dunque i principii
Son pieni,
impenetrabili ed eterni
Ed han
l'indivisibili lor parti
Con forti
lacci collegate e strette;
Nè
già per l'unïon d'altri principii
Creati furo;
anzi piuttosto è d'uopo
Ch'eterna
sia la lor simplicitade:
Talchè
mai la natura non consente
Che nulla
sia di lor staccato, ond'essi
Scemin di
mole; conciossiachè i primi
Semi alle
cose dee serbare intatti.
In oltre: se
da noi non si concede
Il minimo fra'
corpi, egli è mestiero
Dir poi che
tutti d'infinite parti
Composti
sian, mentrechè sempre il mezzo
Il mezzo
avrà nè alcuna cosa mai
Porrà
loro alcun termine. Qual dunque
Differenza
addurrem fra l'universo
Intero e
qual si sia più picciol corpo?
Nïuna al
mio parer: poichè, quantunque
Sia
l'universo d'ogn'intorno immenso,
Pur quei
corpi eziandio, che per natura
Piccolissimi
son, di lui non meno
Sarian
composti d'infinite parti:
Il che poi
riclamando ogni verace
Ragion
com'incredibile rifiuta.
Sicchè
d'uopo fia pur, che vinto al fine
Tu confessi
che al mondo alcuni corpi
Trovansi che
di parti affatto privi
E per natura
lor minimi sono:
Ond'essendo
pur tali, è forza al certo
Che sian
pieni, infrangibili ed eterni.
Se la natura
alfin che il tutto crea
Non solesse
sforzare a dissiparsi
In parti
indivisibili le cose,
Già
non potria restaurar con esse
Nulla di
ciò che si dissolve e muore;
Poi che quel
che di parti onde s'accresca
Non è
composto aver giammai non puote
Ciò
ch'aver dènno i genitali corpi,
Cioè
vari fra lor legami e pesi
E percosse e
concorsi e movimenti,
Onde nasce
ogni cosa e divien grande.
Se fine in
somma allo spezzar de' corpi
Stabilito
non fosse; or come alcuni
Superando
ogn'intoppo avrian potuto
Per infinito
tempo omai trascorso
Fino alla
nostra età serbarsi intatti?
Chè
scorda molto il rimanere illeso
Ciò
c'ha frale natura, eterno tempo
Da colpi
innumerabili percosso.
Quindi, chi si pensò che delle cose
Fosse prima
materia il foco solo
Fu dal vero
discorso assai lontano.
Primo duce
di questi armato in campo
Eraclito si
mostra, ed è piuttosto
Per l'oscuro
parlar fra i vani illustre
Che tra chi
cerca il vero uom saggio e grave:
Ch'amare ed
ammirar soglion gli sciocchi
Più
quelle cose che nascoste trovano
Fra
più dubbie parole e più stravolte,
E sol
prestan credenza a quei concetti
Che titillan
l'orecchie e con sonora
E soave
armonia lisciati sono.
Ma se, di vero e puro foco il tutto
Creato
fosse, onde potrian al mondo
Nascer cose
giammai tanto diverse?
Poichè
nulla giovar dovria che 'l foco
Divenisse or
più denso ed or piu raro,
Se le parti
del foco avesser tutte
Di tutto il
foco la natura stessa;
Giacch'egli
unito avria l'ardor più intenso
E più
languido poi disperso e sparso.
Ma nulla in
oltre imaginar ti puoi
Che da causa
simìl possa formarsi,
Non che si
crein da foco denso e raro
Cose al
mondo fra lor sì varie e tante.
Oltre che;
se costoro il vôto spazio
Mescolasser
fra 'l pieno, il foco al certo
Potrebbe
rarefarsi e condensarsi:
Ma per non
gire a molti dubbi incontra,
Stanno
sospesi, e non s'arrischian punto
A conceder
fra 'l pieno il vôto spazio;
E, mentre
temon le contrarie cose,
Perdon la
via d'investigare il vero;
Nè
san che, tolto dalle cose il vôto,
D'uopo
è che tutte si condensin tosto,
E si formi
di tutte un corpo solo
Che nulla
mai rapidamente possa
Scacciar da
sè, come la fiamma accesa
Lo splendore
e l'ardor da sè discaccia:
Onde ognun
dee pur confessar che il foco
Non è
composto di stivate parti.
Che s'e'
credon ch'e' possa in qualche modo
Unito
dissiparsi e cangiar forma,
Non veggon poi
che, concedendo questo,
Forza
è che 'l foco si corrompa in nulla
Tutto e del
nulla anco rinasca il tutto:
Poichè,
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Questo
è sua morte, e non è più quel desso:
Onde
è mestier che qualche parte intatta
Ne resti,
acciò che 'l tutto omai non torni
Al nulla e
poi del nulla anco rinasca.
Or dunque;
perchè sono alcuni corpi
Che serban
sempre una medesma essenza,
Per
l'entrata de' quai, per la partita
E per
l'ordin cangiato il tutto cangia
Natura e si
trasforma in nuove forme;
Sappi
ch'essi non ponno esser di foco:
Poichè
indarno partirsi ire e tornare
Potrìano
alcuni, altri venirne ed altri
Varïare
il primiero ordine e sito;
Giacchè,
se tutti per natura ardessero,
Tutto
ciò che si crea foco sarebbe.
Ma cosi va,
s'io non m'inganno: alcuni
Corpi sono
nel mondo, i cui concorsi,
Gli ordini i
moti le figure i siti
Far ponno il
foco, e l'ordin poi mutando
Mutan anco
natura, e più non sono
O foco o
fiamma od altro corpo ardente
Che vibri al
senso le sue parti e possa
Toccar con
l'accostarsi il nostro tatto.
Il dir poi ch'ogni cosa è foco puro
E che nulla
è di vero altro che 'l foco,
Com'Eraclito
volle, a me rassembra
Sogno
d'infermi o fola di romanzi:
Poich'al
senso repugna il senso stesso,
E quello
snerva ond'ogni creder pende
E onde egli
medesimo conobbe
Quel corpo
che da noi foco si chiama;
Già
ch'ei crede che 'l senso il foco solo
Veramente
conosca e poi null'altro
Di quel che
punto è non men chiaro al senso.
Il che falso
non pur, ma parmi ancora
Sogno
d'infermi o fola di romanzi.
Ch'ove
ricorrerem? qual cosa a noi
Fia
più certa giammai de' nostri sensi,
Onde il vero
dal falso si discerna?
In oltre:
ond'è che tu piuttosto ogni altra
Cosa tolga
dal mondo, e lasci solo
La natura
del caldo, il che poi neghi
Esser il
foco, e non pertanto ammetta
La somma
delle cose? a me par certo
Tanto l'un
quanto l'altro egual pazzia.
Quindi; chi si pensò che delle cose
Fosse il
foco materia e che di foco
Potesse al
mondo generarsi il tutto,
E chi fe
primo seme o l'aria o l'acqua
O pur la
terra per sè stessa e volle
Ch'una sol
cosa si trasformi in tutte,
Par che
lungi dal vero errando gisse.
Aggiungi ancor chi delle cose addoppia
Gli alti
principii e l'aria aggiunge al foco
O la terra
all'umore, e chi si pensa
Che di
quattro principii il tutto possa
Generarsi,
di fuoco, aria, acqua e terra.
De' quali il
primo Empedocle chiamossi,
Uom greco, e
che per patria ebbe Agrigento:
Città
ch'è posta entro il paese aprico
Dell'isola
triforme intorno cinta
Con ampii
anfrati dall'Ionio mare,
Ch'ondeggiando
continuo il lido asperge
D'acque
cerulee, e per angusta foce
Rapidissimo
scorre, e si divide
Dall'italiche
spiagge i suoi confini.
È qui
Scilla e Cariddi, e qui minaccia
Con orrendo
fragor l'etneo gigante
Di
risvegliar gli antichi sdegni e l'onte
E di nuovo
eruttar dall'ampie fauci
Contro il
nemico ciel folgori ardenti.
Oltr'a tai
meraviglie, il suol benigno
Di cortesia
di gentilezza ornata
Qui produce
la gente; e qui cotanto
D'uomini
illustri e d'ogni bene abbonda,
Che per cosa
mirabile s'addita.
Ma non
sembra però che qui nascesse
Cosa mai
più mirabil di costui,
Nè
più bella e gentil, più cara e santa.
Se non se
forse in Siracusa nacque
Il divino
Archimede, e nuovamente
Nella nobil
Messina il gran Borelli
Pien di
filosofia la lingua e 'l petto,
Pregio del
mondo e mio sommo e sovrano,
Mio maestro,
anzi padre, ah! più che padre.
Dell'eccelsa
sua mente i sacri versi
Cantansi
d'ogni intorno; e vi s'impara
Sì
dotte invenzïoni e sì preclare,
Che credibil
non par ch'egli d'umana
Progenie
fosse. Ei non pertanto, e gli altri
Che di sopra
io contai di lui minori
Molto in
molte lor parti; ancor che molti
Ottimi
insegnamenti, anzi divini
Dal profondo
del cuor quasi responsi
Dessero
altrui, molto più santi e certi
Di quei
ch'è fama che dal sagro lauro
Di Febo e
dalle pitie ampie cortine
Uscisser
già; pur, com'io dissi, erraro
Intorno a'
primi semi, e gravemente
Fecer quivi
inciampando alta caduta.
Pria: perchè, tolto dalle cose il vôto,
Muover le
fanno, e lascian rari e molli
Il cielo il
foco il sol l'acqua e la terra
Gli uomini
gli animai le piante e l'erbe
Senza
mischiar entro alle cose il vôto.
Poi:
perchè fan ch'allo spezzar de' corpi
Non sia
prescritto da natura un fine,
Nè
parte alcuna indivisibil danno:
E pur
veggiam che d'ogni cosa il termine
È quel
ch'al senso indivisibil sembra;
Onde tu
possa argomentar da questo
Anco quel
che mirar non puoi con gli occhi.
Cioè,
che, essendo circoscritte, è forza
Ch'abbian
l'indivisibile le cose.
S'arroge a
ciò; che la materia prima
Voglion che
molle sia: ma quel ch'è molle
Spesso stato
cangiando or nasce or muore:
Per la qual
cosa omai disfatto il tutto
Sariasi in
nulla mille volte e mille,
E mille e
mille volte anco rifatto:
Il che ben
sai quanto dal ver sia lungi
Per le
ragioni mie di sopra addotte.
Senza che;
son nemiche in molti modi
Fra lor le
cose molli e rio veleno
Esse a
sè stesse; onde o perir dovranno
Dopo fiera
battaglia o fuggir tosto,
Qual, allor
che tempesta in ciel si genera,
Fuggonsi i
venti e le bufere e i fulmini.
Al fin: se può di quattro corpi soli
Ogni cosa
crearsi, e poi di nuovo
In quegli
stessi dissiparsi il tutto;
Dimmi, per
qual cagione essi piuttosto
Debbonsi
nominar principii primi
D'ogni altra
cosa? ch'all'incontro ogni altra
Cosa
chiamarsi lor principio primo?
Giacch'essi
alternamente in ogni tempo
Puon
generarsi e varïar colore
E tutt'anco
fra lor l'interna essenza.
Ma se forse
dirai che possa il corpo
Della terra
e del foco unirsi in modo
Con l'aura
aerea e con l'umor dell'acque,
Che di
quattro principii alcun non cangi,
Per cotale unïon,
forma e natura;
Nulla di lor
potrà crearsi mai,
Non l'alme,
o ciò che senza mente ha vita,
Com'i bruti
e le piante e l'erbe e i fiori;
Conciossiachè
ciascuno in tal concorso
Della
propria sostanza apertamente
Mostrerà
la natura, ivi vedrassi
Starsi l'aria
e la terra, il foco e l'acqua
Mescolati
fra lor: ma i primi semi
Onde si
debbon generar le cose
Mestiero
è pur che di natura occulta
E cieca
siano, acciò nessun prevaglia
E lite agli
altri e cruda guerra muova;
Onde si
vieti poi che nulla possa
Mai propriamente
generarsi al mondo.
Anzi che questi infin dal cielo immenso
E dalle
fiamme sue chiamano il foco;
E voglion
pria ch'e' si trasformi in aria,
Quindi in
acqua si cangi e quindi in terra;
E poi di
nuovo, ritornando indietro
Fan produr
dalla terra ogni elemento,
L'acqua
pria, dopo l'aria e poscia il foco:
Nè,
che cessin giammai di trasmutarsi
Tai cose
insieme, alcun di lor concede;
Ma che
sempre dal ciel scendano in terra,
Ed ognor
dalla terra in ciel sormontino.
Il che far
non si debbe in guisa alcuna
Dalla prima
materia: anzi è pur d'uopo
Che qualche
cosa invarïabil resti,
Acciò
che affatto non s'annulli il tutto:
Poichè
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Quest'è
sua morte, e non è più quel desso.
Or, se
l'aria e la terra il foco e l'acqua
Si trasmutan
fra lor, dunque non ponno
Primi semi
chiamarsi; anzi conviene
Che sian
d'altri principii incommutabili
Composti
anch'essi, acciocchè il tutto al nulla
Non torni in
un momento. Onde piuttosto
Pensa che
siano i genitali corpi
Di tal
natura, che, se forse il foco
Prodotto
avran, toltine alcuni ed altri
Aggiunti, e
varïando ordine e moto,
Possan
l'aria crear l'acqua e la terra,
E che nel
modo stesso ogni altra cosa
Perda la
propria essenza e si trasformi.
Ma forse mi dirai — Chiaro è che 'l tutto
Cresce da
terra in aria e vi si nutre:
E s'a'
debiti tempi ancor non scende
Pioggia che
irrighi alla gran madre il seno,
E se vita e
calor non gli comparte
Co' suoi
lucidi raggi il sol cortese,
Muoion le
biade gli animai le piante. —
Anzi gli
uomini stessi, affatto privi
D'arido pane
e d'umid'acqua o vino,
Perdono il
corpo; e con il corpo ancora
Tutta da
tutti i nervi e tutte l'ossa
Gli si
scioglie la vita e fugge l'alma.
Essi dunque
han ristoro e nutrimento
Da certo
cibo: e pur da certo cibo
Altri ed
altri animali ed altre cose
Similmente
han ristoro e nutrimento.
Che, essendo
molti primi semi e molti
Comuni in
molti modi a molti corpi
Mescolati
fra lor, forza è che 'l vitto
Da varie
cose varie cose prendano.
E spesso
anco oltre a ciò non poco importa
Con quai
sian misti, come posti, e quali
Movimenti
fra lor diano e ricevano:
Poichè
forman gli stessi il cielo, il mare;
Gli stessi
ancor la terra, i fiumi, il sole,
Gli uomini,
gli animai, l'erbe e le piante,
Mentre
mischiati in varie guise insieme
Si muovon
variamente. Anzi tu stesso
Poui sovente
veder ne' nostri versi
Esser comuni
a molte voci e molte
Molti
elementi; e non pertanto è d'uopo
Dir ch'abbia
ogni parola ed ogni verso
Vario
significato e vario suono;
Chè
tanto di possanza han gli elementi
Con la
mutazïon dell'ordin solo.
Ma credibil
è ben che i primi semi
Abbian
più cause onde crear si possa
Tutte le
cose di che 'l mondo è adorno.
Ma tempo è di pesar con giusta lance
D'Anassagora
ancor l'omeomería
Mentovata
da' Greci, e che non puossi
Da noi ridir
nella paterna lingua
Con un solo
vocabolo, ma pure
Facil
sarà che la si spieghi in molti.
Pensa egli
adunque che 'l principio primo,
Che da lui
vien chiamato omeomería,
Altro non
fosse ch'una confusione
Una massa un
mescuglio d'ogni corpo,
In guisa tal
che il generar le cose
Solamente
consista in separarle
Dal comun
caos ed accozzarle insieme;
E
così l'ossa di minute e piccole
Ossa si
creino, e di minute e piccole
Viscere anco
le viscere si formino,
Da
più gocce di sangue il sangue nasca,
Da
più bricioli d'òr l'oro si generi,
Cresca la
terra di minute terre,
Di foco il
foco, l'acqua d'acqua; e finge
Ch'ogn'altra
cosa in guisa tal si faccia;
Nè
concede fra 'l pieno il vôto spazio,
Nè
termin pone allo spezzar de' corpi.
Onde a me par, quand'io vi penso, ch'egli
E nell'uno e
nell'altro erri egualmente,
Come color
che poco avanti io dissi.
Aggiungi
ch'egli delle cose i semi
Troppo
deboli fa; se pure i semi
Per natura
fra lor sono uniformi
Anzi son pur
le stesse cose; et hanno
Egual
travaglio egual periglio, e nulla
Può
frenarli giammai nè proibirli
Che non
corrano a morte. E qual è d'essi
Che mille e
mille colpi, urti e percosse
A soffrir
basti, e finalmente anch'egli
Non muoia o
si dissolva? il foco o l'acqua
O l'aere?
qual di questi? il sangue o l'ossa?
Nessun,
cred'io, mentr'egualmente tutti
Sarian
mortali, in quella guisa appunto
Che l'altre
cose manifeste al senso
Son mortali
anche lor, poi che perire
Con gli
occhi stessi pur si veggon tutte
Da qualche
vïolenza oppresse e vinte.
Ma tu già
sai ch'annichilar non puossi
Nulla
nè nulla anco crear dal nulla.
In oltre:
perchè il cibo accresce e nutre
Il nostro
corpo, è da saper ch'abbiamo
E le vene ed
i nervi e 'l sangue e l'ossa
Miste e
composte di straniere parti.
E, se
diranno esser mischiati i cibi
Di
più sostanze e corpicciuoli avere
D'ossa e di
nervi e di vene e di sangue,
D'uopo
sarà che 'l secco cibo e 'l molle
Composto sia
di forestiere cose,
Anzi
null'altro sia ch'un guazzabuglio
D'ossa e di
sangue e di vene e di nervi.
In oltre:
tutto ciò che in terra nasce
S'egli quivi
si trova, è pur mestieri
Che sia la
terra di stranieri corpi
Anch'ella un
seminario: e con le stesse
Parole
appunto argomentar ne lice
D'ogni altra
cosa; onde, se 'l legno occulta
La cenere,
il carbon, la fiamma e 'l foco,
Di
forestiere parti il legno è fatto.
Or qui parmi che resti un solo scudo
Debile e mal
sicuro, onde schermirsi
Anassagora
tenta. Ei crede adunque
Che sia
mischiato in ogni cosa il tutto
E dentro vi
si celi; ma che quello
Un tal corpo
apparisca e non un altro,
In cui
più misti sono ed al di fuori
Più
collocati e nella prima fronte:
Il che pur
nondimen lungi è dal vero.
Chè
convenia che le minute biade
Sovente
ancor da duri sassi infrante
Desser segno
di sangue o d'altra cosa
Di cui si
nutra il nostro corpo, e sangue
Grondasse
dalle pietre allor che l'una
Si stritola
con l'altra: e l'erbe ancora
Per la
stessa ragione e l'acque insipide
Stillar
dovrian di bianco latte e dolce
Soavissime
gocce, appunto come
Stillan le
mamme dell'irsute pecore;
E della
terra le spezzate zolle
Mostrarne
erbe diverse e frondi e biade
Minutamente
per la terra sparse,
Prima
occulte a' nostr'occhi e poi palesi:
Sminuzzando
le legna anco vedremmo
Picciole
particelle ivi celarsi
E di fumo e
di cenere e di foco.
Le quali
tutte cose il senso stesso
Esser false
n'accerta: onde a me lice
Dedur che
misto in ogni cosa il tutto
Esser non
può, ma ben convien che i semi
Comuni a
molti corpi in molti corpi
Sian
mischiati ed occulti in molti modi.
Ma sento un
che mi dice — In su gli alpestri
Monti spesso
addivien che l'alte piante
Fregan
sì le vicine ultime cime
L'una con
l'altra, a ciò forzate e spinte
Dal
gagliardo soffiar d'austro e di coro,
Che foco
n'esce onde s'alluma il bosco. —
Or questo
è ver: ma non pertanto innato
Non è
l'ardor negli alberi; ma molti
Semi vi son
di foco, i quai per quello
Vïolento
fregar s'uniscon tosto
Ed accendon
le selve: chè, se tanta
Fiamma
nascosta entro alle piante fosse,
Non potrebbe
giammai celarsi il foco,
Ma serpendo
per tutto in un momento
Ogni selva
arderebbe ed ogni bosco.
Vedi tu
dunque per te stesso omai
Quel che
poc'anzi io dissi: importa molto
Come sian misti i primi semi e posti
E quai moti
fra lor diano e ricevano;
E puon gli
stessi varïati alquanto
Far le legna
e le fiamme, appunto come
Puon gli elementi
varïati alquanto
Formare et
arme et orme e rima e Roma.
Al fin: se ciò ch'è manifesto agli occhi
Credi che
non si possa in altra guisa
Crear che di
materia a lui simíle,
Perdi 'n tal
modo i primi semi affatto;
Poich'è
mestier che tremoli e lascivi
Si sganascin
di risa, e che di lagrime
Bagnino
amaramente ambe le guance.
Su dunque or odi, e viepiù chiaro intendi
Ciò
che da dir mi resta. E ben conosco
Quanto sia
malagevole ed oscuro:
Ma gran
speme di gloria il cor percosso
M'ha
già con sì pungente e saldo sprone,
Et insieme
ha svegliato entro al mio petto
Un
così dolce delle muse amore,
Ch'io
stimolato da furor divino
Più
di nulla non temo, anzi sicuro
Passeggio
delle nove alme sorelle
I luoghi
senza strada, e da nessuno
Mai
più calcati. A me diletta e giova
Gire a'
vergini fonti e inebrïarmi
D'onde non
tocche. A me diletta e giova
Coglier
novelli fiori, onde ghirlanda
Peregrina ed
illustre al crin m'intrecci,
Di cui fin
qui non adornâr le muse
Le tempie
mai d'alcun poeta tôsco.
Pria,
perchè grandi e gravi cose insegno,
E seguo a
liberar gli animi altrui
Dagli aspri
ceppi e da' tenaci lacci
Della
religïon; poi, perchè canto
Di cose
oscure in così chiari versi,
E di
nèttar febeo tutte le spargo.
Nè
questo è, come par, fuor di ragione:
Poichè;
qual, se fanciullo a morte langue,
Fisico
esperto alla sua cura intento
Suol
porgergli in bevanda assenzio tetro,
Ma pria di
biondo e dolce mèle asperge
L'orlo del
nappo, acciò gustandol poi
La
semplicetta età resti delusa
Dalle mal
caute labbra e beva intanto
Dell'erba a
lei salubre il succo amaro,
Nè si
trovi ingannata anzi piuttosto
Sol per suo
mezzo abbia salute e vita;
Tal appunto
or facc'io, perchè mi sembra
Che le cose
ch'io parlo a molti indòtti
Potrian
forse parer aspre e malvage,
E so che 'l
cieco e sciocco volgo abborre
Da mie
ragioni. Io perciò volsi, o Memmo,
Con soave
eloquenza il tutto espórti;
E quasi
asperso d'apollineo mèle
Te 'l porgo
innanzi, per veder s'io posso
In tal guisa
allettar l'animo tuo,
Mentre tu
vedi in questi versi miei
Quanto
dipinta sia l'alma natura
Vaga,
adorna, gentil, leggiadra e bella.
Ma; perch'io già mostrai che i primi corpi
Infrangibili
sono, e sempre invitti
Volano
eternamente; or su veggiamo
Se la somma
di tutti abbia prescritto
Termine o
no: e; perchè il vôto ancora,
O luogo o
spazio ove si forma il tutto,
Parimente
trovossi; esaminiamo
S'egli sia
circoscritto o pur s'estenda
Profondissimamente
in tratto immenso.
Il tutto adunque in infinito è sparso
Per ogni
banda: poich'aver dovrebbe
Qualche
termine estremo, il qual non puote
Aver nulla
giammai s'un'altra cosa
Non è
fuori di lui che lo circondi:
Ma,
perchè fuor del tutto esser non puote
Niente al
certo, ei non ha dunque alcuno
Termine o
fine o mèta: e non importa
In qual
parte tu sia; qualunque luogo
Che tu
possegga, d'ogni intorno lascia
Egualmente
altro spazio in infinito.
In oltre:
dato che finito fosse
Tutto
quant'è lo spazio, io ti domando:
S'alcun
giungesse all'ultimo confine
E fuor
vibrasse una saetta alata,
Che vuoi
piuttosto? ch'ella spinta innanzi
Dalla
robusta man volando gisse
Là
dove fosse indirizzata? o pensi
Che qualche
cosa le impedisse il moto?
Qui d'uopo
è pur che l'uno o l'altro accetti
E lo creda
per ver: ma l'un e l'altro
Ti racchiude
ogni scampo, anzi ti sforza
A confessar
l'immensità del mondo:
Poichè,
o venga impedita e le sia tolto
Il girne ove
fu spinta o fuor se 'n voli,
Esser non
può nell'ultimo confine
Dell'universo.
E nella stessa guisa
Seguirò
l'argomento incominciato,
E, dovunque
tu ponga il fine estremo,
Domanderotti
ciò che finalmente
Alla freccia
avverrà. Confessa dunque
Che
incircoscritto è 'l mondo e che non hai
Da sì
fatte ragioni onde schermirti.
In oltre ancor: se terminato fosse
D'ogni
intorno lo spazio ove la somma
Si genera
del tutto, i primi semi
Spinti dal
proprio peso all'imo fondo
Già
sarebber concorsi, e sotto il cielo
Nulla potria
formarsi; anzi non fôra
Più
nè cielo nè sole, ove giacesse
Confusa in
una massa ogni materia
Fin da tempo
infinito in giù caduta.
Ma or non
è concesso alcun riposo
A' corpi de'
principii, perchè l'imo
Centro
dell'universo in van si cerca
Ove
concorrer tutti, ove la sede
Possan
fermare; e con perpetuo moto
Si genera
ogni cosa in ogni parte,
E per tempo
infinito omai commossi
Della prima
materia i corpi eterni
Son sempre
in pronto in questo spazio immenso.
Finalmente abbiam posto innanzi agli occhi
Che l'un
corpo dall'altro è circoscritto:
L'aer
termina i colli, e l'aura i monti,
La terra il
mare, il mar la terra: e nulla
Non è
che fuor dell'universo estenda
I suoi
propri confini. È la natura
Del luogo
adunque e del profondo spazio
Tal, ch'i
fiumi più torbidi e più rapidi
Non
potrebber correndo eternamente
Giungerne al
fin giammai, nè far che meno
Da correr li
restasse. Or così grande
Copia di
luogo han d'ogn'intorno i corpi
Senza fin,
senza mèta e senza termine.
Che poi la somma delle cose un fine
A sè
medesma apparecchiar non possa
Ben provide
natura. Essa circonda
Sempre col
vôto il corpo, ed all'incontro
Col corpo il
vôto, e così rende immenso
L'uno e
l'altro di lor. Chè, s'un de' due
Fosse termin
dell'altro, egli fuor d'esso
Troppo si
stenderebbe; e non potria
Durar
nell'universo un sol momento,
Nè la
terra nè 'l mar nè i templi lucidi
Delle stelle
e del sol nè l'uman genere
Nè
degli dèi superni i santi corpi:
Conciossiachè,
scacciati i primi semi
Dalla propria
unïon, liberi e sciolti
Correr
dovrian per lo gran vano a volo;
O piuttosto
non mai sariansi uniti
Nè
generato alcuna cosa al mondo
Avrian;
poichè scagliati in mille parti
Non avrebber
potuto esser congiunti.
Chè
certo è ben ch'i genitali corpi
Con sagace
consiglio e scaltramente
Non
s'allogâr per ordine nè certo
Seppe
ciascun di lor che moti ei desse;
Ma,
perchè molti in molti modi e molti
Varïati
per tutto e già percossi
Da colpi
senza numero, ogni sorte
Di moto e
d'unïon provando, al fine
Giunsero ad accozzarsi
in quella forma
Che
già la somma delle cose mostra
E ch'ella
ancor per molti lunghi secoli
Ha
già serbato e serba: poichè, tosto
Ch'ell'ebbe
una sol volta i movimenti
Confacevoli
a lei, potette oprare
Sì,
che l'avido mar ritorni intero
Per l'onde
che da' fiumi in copia grande
Vi
concorrono ognora, e che la terra
Ristorata
dal sol rinnovi i parti,
Fertile il
suol d'ogni animal fiorisca,
E dell'etere
in somma ancor che labili
Vivan
l'auree fiammelle: il che per certo
Far non
potrian, se la materia prima
Non sorgesse
per tutto e ristorasse
Ciò
che nel mondo ad or ad or vien meno.
Poichè,
qual senza pasto ogni animale
Disperde in
varie parti il proprio corpo,
Tal appunto
dovrian tutte le cose,
Se gli
mancasse il consueto cibo
Della
materia, dissiparsi anch'elle.
Nè
colpo esterno vi sarebbe alcuno
Bastante a
conservarle. I corpi in vero,
Che l'urtan
d'ogni intorno, assai sovente
Ponno in
parte impedirle infin che giunga
Materia che
supplisca a ciò che manca:
Ma pur
talvolta ripercossi indietro
Saltano, e
insieme a' primi semi danno
Luogo e
tempo alla fuga, ond'ognun d'essi
Sciolto da'
lacci suoi ratto se 'n vola.
Dunqu'è
mestier che d'ogn'intorno germini
Molta prima
materia, anzi infinita,
Acciò
restauri il tutto e l'urti e 'l cinga.
Or sopra ogni altra cosa avverti, o Memmo,
Di non dar
fede a quel che dice alcuno;
Cioè,
ch'al centro della somma il tutto
D'andar si
sforza, e che in tal guisa il mondo
Privo
è di colpi esterni, e mai non ponno
Dissiparsi e
fuggirsi in altro luogo
I sommi
corpi e gl'imi, avendo tutti
Natia
propensïon di gire al centro
(Se credi
pur che qualche cosa possa
In sè
stessa fermarsi, e che quei pesi
Ch'or sono
in terra di poggiar si sforzino
Tutti per
aria e poi di nuovo in terra
Ricadendo
posarsi, appunto come
Veggiam far
delle cose ai simolacri
Per entro
alle chiar'onde e negli specchi):
E nella
stessa guisa ogni animale
Voglion che
vaghi in terra, e che non possa
Quindi
altramente sormontare in cielo
Nulla che
sia quaggiù, che i corpi nostri
Possan
leggieri e snelli a lor talento
Volarne
all'etra ed abitar le stelle;
Mentre
alcuni di noi mirano il sole,
Altri mirar
della trapunta notte
I lucidi
carbonchi, e le stagioni
Varie
dell'anno e i giorni lunghi e i brevi
Con moto
alterno esser fra noi divisi
Dal gran
pianeta che distingue l'ore.
Ma tutto questo abbia pur finto ad essi
Un vano
error, poi che balordi e ciechi
Per non
dritto sentier s'incamminaro.
Chè
centro alcuno esser non puote al certo
Ove immenso
è lo spazio; e, se pur centro
Vi fosse,
per tal causa ei non potrebbe
Ivi piuttosto
alcuna cosa starsi
Che in
qualsivoglia regïon lontana.
Poi ch'ogni
luogo ed ogni vôto spazio
E per lo
centro e fuor del centro deve
Egualmente
lasciar libero il passo
A peso
eguale ovunque il moto ei drizzi:
Nè
l'intero universo ha luogo alcuno
Ove giungendo
finalmente i corpi
Perdono il
peso e si ristian nel vôto:
Nè
ciò ch'è vôto resistenza farli
Potrà
giammai nè raffrenarli il corso,
Ovunque la
natura gli trasporti.
Dunque le
cose in guisa tale unite
Star non
potranno a ciò forzate e spinte
Dal nativo
desio di gire al centro.
In oltre: ancora essi non fan che tutte
Corrano al
centro, ma la terra e l'onde
Del mar de'
fiumi e delle fonti, e solo
Ciò
ch'è composto di terreno corpo.
Ma pel
contrario poi voglion che l'aria
Lungi se 'n
voli e similmente il foco:
E che per
questo d'ogn'intorno in cielo
Scintillino
le stelle e 'l sol fiammeggi,
Perchè
fuggendo dalla terra il caldo
Al ciel sen
poggi e vi raccolga il foco
(Poichè
pur della terra anco si pasce
Ogni cosa
mortal; nè mai potrebbero
Gli alberi
produr frutti o fiori o frondi,
Se a poco a
poco la gran madre il cibo
Non gli
porgesse). Ma di sopra poi
Credon che
un ampio ciel circondi e copra
Tutte le
cose; acciò d'augelli in guisa
I recinti di
fiamme in un baleno
Non fuggan
via per lo gran vano a volo,
E che nel
modo stesso ogni altra cosa
Si dissolva
in un tratto e del tonante
Cielo il
tempio superno in giù rovini,
E che di
sotto a' piè ratto s'involi
Il nostro
globo ascosamente, e tutti
Fra
precipizi in un confusi e misti
Della terra
e del cielo i propri corpi
Dissolvano
in più parti e corran tosto
Pel vôto
immenso; onde in un sol momento
Di tante
meraviglie altro non resti
Che lo
spazio deserto e i ciechi semi.
Poichè,
in qualunque luogo i corpi restino
Privi di
freno, in questo luogo appunto
Spalancata
una porta avran le cose
Per gire a
morte; ed ogni turba quindi
Della prima
materia in fuga andranne.
Or; se tu leggerai quest'operetta
Attentissimamente,
e tutto quello
Ben capirai
ch'io ci ragiono dentro;
L'una causa
dall'altra a te fia nota;
Nè
cieca notte omai potrà impedirti
L'incominciata
via, che ti conduce
Di natura a
mirar gl'intimi arcani:
Sì le
cose alle cose accenderanno
Lume che
mostri alla tua mente il vero.
Argomento
Il Poeta, dopo le lodi della filosofia, al
cui studio eccita Memmo, continua a trattare delle qualità degli atomi e
in ispecie del loro movimento. — I mutamenti continui a cui vanno sottoposti i
corpi non ci permettono di supporre che la materia sia immobile. Donde: 1. il
moto è essenziale agli atomi, perchè non v'ha centro ove possano
mai fermarsi; 2. questo moto è rapidissimo sopr'ogni altro,
perchè il suo teatro essendo il vôto, non ha alcun ostacolo che lo
trattenga; 3. la direzione di questo moto è dall'alto al basso, e se
alcuni corpi s'elevano come la fiamma, è uno stato forzato, contrario
alla loro tendenza propria e naturale; 4. tuttavia non dee credersi che la
caduta degli atomi sia rigorosamente perpendicolare; paralleli tra loro non
avrebbero mai potuto unirsi in massa: sottoposti ad una direzione necessaria,
non avrebbero potuto mai formare anime libere. Bisogna pertanto che si
allontanino un poco, ma il meno possibile dalla direzione perpendicolare. Tali
sono i moti che gli atomi ebbero sempre e sempre avranno, perchè la
quantità di moto è sempre la stessa nella natura. Ecco quanto la
ragione ci scopre; perchè i sensi non possono veder l'atomo, non che discernerne
i moti. La ragione altresì ci fa conoscere le figure degli atomi; essa
ne dice che i corpi i quali ci attorniano non potrebbero impressionare i nostri
sensi in tanti modi diversi, se i loro atomi non fossero diversamente
configurati. Ma al medesimo tratto essa c'insegna che, sebbene ci sia una
infinità di atomi in ogni classe di figure, il numero di queste classi
è limitato; non potrebbe essere infinito senza che l'atomo fosse
immenso, e le qualità sensibili dei corpi progressive all'infinito.
Questo numero poco considerevole di figure, combinato diversamente in tutti i
corpi, basta a mettere fra essi quella varietà che vi si scorge. La
solidità, l'indivisibilità, l'eternità, il moto e la
figura, sono le sole qualità che convengano a corpi semplici come son
gli atomi. Rispetto alle qualità che si riferiscono alla vista,
all'udito, al gusto e all'odorato, sono senza più il resultato
d'un'associazione; attribuirla agli atomi, è dare una base troppo
fragile alla natura. Pertanto gli atomi non sono neppure sensibili, e dalla
loro situazione e dai loro moti rispettivi dee ripetersi la sensibilità
che posseggono certi accozzamenti. Mercè di queste poche qualità
che il poeta assegna agli atomi, essi hanno, al parer suo, prodotto non solo il
nostro mondo, ma altresì un'infinità d'altri; perchè egli
non vuole che si limiti la potenza della natura. Pretende che potendo disporre
d'un numero infinito di atomi, quel ch'ella fa quaggiù per noi, lo fa
per altri in altre regioni dello spazio, e che il nostro mondo è senza
più un individuo particolare d'una classe numerosa, un grande animale,
sottoposto, come gli altri, alla nascita, all'incremento, alla declinazione e
alla morte.
Dolce è mirar da ben sicuro porto
L'altrui
fatiche all'ampio mare in mezzo,
Se turbo il
turba o tempestoso nembo;
Non
perchè sia nostro piacer giocondo
Il travaglio
d'alcun, ma perchè dolce
È se
contempli il mal di cui tu manchi:
Nè
men dolce è veder schierati in campo
Fanti e
cavalli e cavalieri armati
Far tra lor
sanguinose aspre battaglie.
Ma nulla mai
si può chiamar più dolce
Ch'abitar,
che tener ben custoditi
De' saggi i
sacri templi onde tu possa,
Quasi da
rôcca eccelsa ad umil piano,
Chinar tal
volta il guardo, e d'ogn'intorno
Mirar gli
altri inquïeti e vagabondi
Cercar la
via della lor vita, e sempre
Contender
tutti o per sublime ingegno
O per nobile
stirpe, e giorno e notte
Durare
intollerabili fatiche
Sol per
salir delle ricchezze al sommo
E potenza
acquistar, scettri e corone.
Povere umane
menti, animi privi
Del
più bel lume di ragione, oh quanta
Quant'ignoranza
è quella che vi offende!
Ed oh fra
quanti perigliosi affanni
Passate voi
questa volante etade
Che ch'ella
siasi! Or non vedete aperto
Che nulla
brama la natura e grida
Altro
già mai, se non che sano il corpo
Stia sempre
e che la mente ognor gioisca
De' piaceri
del senso e da sè lungi
Cacci ogni
noia ed ogni tema in bando?
Chiaro
dunque n'è pur che poco è 'l nostro
Bisogno,
onde la vita si conservi,
Onde dal
corpo ogni dolor si scacci.
Che s'entro
a regio albergo intagli aurati
Di vezzosi
fanciulli accese faci
Non tengon
nelle destre, ond'abbian lume
Le notturne
vivande emulo al giorno;
Se non
rifulge ampio palagio e splende
D'argento e
d'òr; se di soffitte aurate
Tempio non
s'orna e di canore cetre
Risonar non
si sente; ah che, distesi
Non lungi al
mormorar d'un picciol rio
Che 'l prato
irrighi, i pastorelli all'ombra
D'un platano
selvaggio, allegri danno
Il dovuto
ristoro al proprio corpo;
Massime
allor che la stagion novella
Gli arride e
l'erbe di be' fior cosperge.
Nè
più tosto già mai l'ardente febbre
Si dilegua
da te, se d'oro e d'ostro
E d'arazzi
superbi orni il tuo letto,
Che se in
veste plebea le membra involgi.
Onde, poscia
che nulla al corpo giova
Onor
ricchezza nobiltade o regno,
Creder anco
si dee che nulla importi
Il rimanente
all'animo: se forse,
Qualor di
guerra in simolacro armate
Miri le
squadre tue, non fugge allora
Ogni
religïon dalla tua mente
Da tal vista
atterrita, e non ti lascia
Il petto
allora il rio timor di morte
Libero e
sciolto e d'ogni cura scarco.
Che se tai
cose esser veggiam di riso
Degne e di
scherno, e che i pensier noiosi
Degli uomini
seguaci e le paure
Pallide e
macilenti il suon dell'armi
Temer non
sanno e delle frecce il rombo;
Se fra' regi
e potenti han sempre albergo
Audacemente,
e non apprezzan punto
Nè
dell'oro il fulgor nè delle vesti
Di porpora
imbevute i chiari lampi;
Qual dubbio
avrai che tutto questo avvenga
Sol per
mancanza di ragione, essendo
Massime
tutto quanto il viver nostro
Nell'ombra
involto di profonda notte?
Poichè,
siccome i fanciulletti al buio
Temon
fantasmi insussistenti e larve,
Sì
noi tal volta paventiamo al sole
Cose che
nulla più son da temersi
Di quelle
che future i fanciulletti
Soglion
fingersi al buio e spaventarsi.
Or sì
vano terror sì cieche tenebre
Schiarir
bisogna e via cacciar dall'animo,
Non co' be'
rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del
giorno a saettar poc'abili
Fuor che
l'ombre notturne e i sogni pallidi,
Ma col mirar
della natura e intendere
L'occulte
cause e la velata imagine.
Su dunque: io prendo a raccontarti, o Memmo,
Come della
materia i primi corpi
Generin
varie cose, e, generate
Ch'e
l'hanno, le dissolvano, e da quale
Vïolenza
a far ciò forzati sieno,
E qual
abbiano ancor principio innato
Di muoversi
mai sempre e correr tutti
Or qua or
là per lo gran vano a volo.
Tu
ciò ch'io parlo attentamente ascolta.
Chè certo i primi semi esser non ponno
Tutti
insieme fra lor stivati affatto;
Veggendo noi
diminuirsi ogn'ora
E per
soverchia età languir le cose
E sottrar la
vecchiezza agli occhi nostri,
Mentre che
pur salva rimane in tanto
La somma;
con ciò sia che, da qualunque
Cosa il
corpo s'involi, ond'ei si parte
Toglie di
mole, e dov'ei viene accresce,
E fa che
questo invecchia e quel fiorisce,
Nè
punto vi si ferma. In cotal guisa
Il mondo si
rinnova, et a vicenda
Vivon sempre
fra lor tutti i mortali.
S'un popol
cresce, uno all'incontro scema;
E si cangian
l'etadi in breve spazio
Degli
animali, e della vita accese,
Quasi
cursori, han le facelle in mano.
Se credi poi che delle cose i semi
Possan
fermarsi e nuovi moti dare
In tal guisa
alle cose, erri assai lunge
Fuor della
dritta via della ragione.
Poi che,
vagando per lo spazio vôto
Tutti i
principii, è pur mestiero al certo
Che sian
portati o dal lor proprio peso
O forse
spinti dall'altrui percosse;
Poi che,
allor ch'e' s'incontrano e di sopra
S'urtan
veloci l'un con l'altro, avviene
Che vari in
varie parti si riflettono:
Nè
meraviglia è ciò, perchè durissimi
Son tutti e
nulla gl'impedisce a tergo.
Et
acciò che tu meglio anco comprenda
Che tutti
son della materia i corpi
Vibrati
eternamente, or ti rammenta
Che non ha
centro il mondo ove i principii
Possan
fermarsi, et è lo spazio vôto
D'ogn'intorno
disteso in ogni parte
Senza fin,
senza meta e senza termine,
Conforme
innanzi io t'ho mostrato a lungo
Con vive e
gagliardissime ragioni.
Il che pur
noto essendo, alcuna quiete
Per lo vano
profondo i corpi primi
Non han
già mai; ma, più e più commossi
Da forza interna
irrequïeta e varia,
Una parte di
lor s'urta e risalta
Per grande
spazio ripercossa e spinta,
Un'altra
ancor per piccoli intervalli
Vien per tal
colpo a raggrupparsi insieme,
E tutti quei
che, d'unïon più densa
Insieme
avviluppati ed impediti
Dall'intrigate
lor figure, ponno
Sol risaltar
per breve spazio indietro,
Formano i
cerri e le robuste querce
E del ferro
feroce i duri corpi
E i macigni
e i dïaspri e gli adamanti:
Quelli che
vagan poi pel vôto immenso
E saltan
lungi assai veloci e lungi
Corron per
grande spazio in varie parti,
Posson
l'aere crearne e l'aureo lume
Del sole e
delle stelle erranti e fisse.
Ne vanno
ancor per lo gran vano errando
Senz'unirsi
già mai, senza potere
Accompagnar
non ch'altro i propri moti.
Della qual
cosa un simulacro vivo
Sempre
innanzi a' nostri occhi esposto abbiamo:
Poscia che,
rimirando attento e fiso,
Allor che 'l
sol co' raggi suoi penétra
Per picciol
fôro in una buia stanza,
Vedrai
mischiarsi in luminosa riga
Molti minimi
corpi in molti modi,
E quasi a
schiere esercitar fra loro
Perpetue
guerre, or aggrupparsi ed ora
L'un
dall'altro fuggirsi e non dar sosta:
Onde ben
puoi congetturar da questo
Qual sia
l'esser vibrati eternamente
Per lo
spazio profondo i primi semi.
Sì le
picciole cose a noi dar ponno
Contezza
delle grandi e i lor vestigi
Quasi
additarne e la perfetta idea.
Tieni a
questo, oltr'a ciò, l'animo attento:
Ciò
è, che i corpi, che vagar tu miri
Entro a'
raggi del sol confusi e misti,
Mostrano
ancor che la materia prima
Ha moti
impercettibili ed occulti.
Chè
molti quivi ne vedrai sovente
Cangiar
viaggio, e risospinti indietro
Or qua or
là or su or giù tornare
E finalmente
in ogni parte. E questo
È sol
perchè i principii, i quai per sè
Muovonsi, e
quindi poi le cose piccole
E quasi
accosto alla virtù de' semi,
Dagli
occulti lor colpi urtate, anch'elleno,
Vengon
commosse, ed esse stesse poi
Non cessan
d'agitar l'altre più grandi.
Così
dai primi corpi il moto nasce,
E chiaro
fassi a poco a poco al senso;
Sì
che si muovon quelle cose al fine
Che noi per
entro a' rai del sol veggiamo,
Nè
per qual causa il fanno aperto appare.
Or che principio da natura i corpi
Della prima
materia abbian di moto
Quindi
imparar puoi brevemente, o Memmo.
Pria; quando
l'alba di novella luce
Orna la
terra e che per l'aer puro
Vari augelli
volando in dolci modi
D'armonïose
voci empion le selve,
Come ratto
allor soglia il sol nascente
Sparger suo
lume e rivestirne il mondo,
Veggiam
ch'è noto e manifesto a tutti:
Ma quel
vapor quello splendor sereno,
Ch'ei da
sè vibra, per lo spazio vôto
Non passa;
ond'è costretto a gir più tardo,
Quasi
dell'aere allor l'onde percuota:
Nè
van disgiunti i corpicelli suoi,
Ma stretti
ed ammassati; onde fra loro
Insieme si
ritirano, e di fuori
Han mille
intoppi, in guisa tal che pure
Vengon
forzati ad allentare il corso.
Non
così fanno i genitali corpi
Per lor
simplicitade impenetrabili:
Ma; quando
volan per lo spazio vôto,
Nè
fuor di loro impedimento alcuno
Trovan che
gli trattenga, e, dai lor luoghi
Tosto che
mossi son verso una sola
Verso una
sola parte il volo indrizzano;
Debbono
allor viepiù veloci e snelli
De' rai del
sol molto maggiore spazio
Passar di
luogo in quel medesmo tempo
Ch'i folgori
del sol passano il cielo;
Poscia che
da consiglio o da sagace
Ragione i
primi semi esser non ponno
Impediti
già mai nè ritardati,
Nè
vanno ad una ad una investigando
Le cose per
conoscere in che modo
Nell'universo
si produca il tutto.
Ma sono
alcuni che di questo ignari,
Si credon
che non possa la natura
Della
materia per se stessa e senza
Divin volere
in così fatta guisa
Con umane
ragioni e moderate
Mutare i
tempi e generar le biade,
Nè
far null'altro a cui di gire incontra
Persuade i
mortali e gli accompagna
Qual gran
piacer che della vita è guida,
Acciò
le cose i secoli propaghino
Con veneree
lusinghe e non perisca
L'umana
specie: onde, che fosse il tutto
Per opra
degli dèi fatto dal nulla,
Fingono. Ma,
per quanto a me rassembra
Essi in
tutte le cose han travïato
Molto dal
ver: poichè, quantunque ignoti
Mi sian
della materia i primi corpi,
Io non per
tanto d'affermare ardisco,
Per molte e
molte cause e per gli stessi
Movimenti
del ciel, che l'universo
Che tanto
è difettoso esser non puote
Da Dio
creato: e quant'io dico, o Memmo,
Dopo a suo
luogo narrerotti a lungo.
Or del moto
vo' dir quel che mi resta.
Qui, s'io non erro, di provarti è luogo
Che per se
stessa alcuna cosa mai
Non
può da terra sormontare in alto.
Nè
già vorrei che t'ingannasse il foco
Ch'all'insù
si produce e cibo prende.
E le nitide
biade e l'erbe e i fiori
E gli alberi
all'insù crescono anch'essi,
Benchè
per quanto s'appartiene a loro,
Tutti e
sempre all'ingiù caschino i pesi.
Nè
creder dêi che la vorace fiamma,
Allor che
furïosa in alto ascende
E dell'umili
case e de' superbi
Palagi i
tetti in un momento atterra,
Opri
ciò da sè stessa e senza esterna
Forza che
l'urti. Il che pur anco accade
Al nostro
sangue, se dal corpo spiccia
Per piccola
ferita e poggia in aria
E 'l suolo
asperge di vermiglie stille.
Forse non
vedi ancor con quanta forza
Risospinga
all'insù l'umor dell'acqua
Le travi e
gli altri legni? poichè, quanto
Più
altamente gli attuffiamo in essa
E con gran
vïolenza a pena uniti
Molti di noi
ve gli spingiam per dritto,
Ella tanto
più ratta e desïosa
Da sè
gli scaccia e gli rigetta in alto
In guisa
tal, che quasi fuori affatto
Sorgon
dall'onde ed all'insù risaltano:
Nè
per ciò dubitiamo, al parer mio,
Che per
sè stesse entro lo spazio vôto
Scendan le
travi e gli altri legni al basso.
Ponno dunque
in tal guisa anco le fiamme
Dall'aria
che le cinge in alto espresse
Girvi
quantunque per sè stessi i pesi
Si sforzin
sempre di tirarle al basso.
E non vedi
tu forse al caldo estivo
Le notturne
del ciel faci volanti
Correr
sublimi e menar seco un lungo
Tratto di
luce in qualsivoglia parte
Gli apra il
varco natura? Il sole ancora,
Quando al
più alto suo meriggio ascende,
L'ardor
diffonde d'ogn'intorno e sparge
Di lume il
suol: verso la terra adunque
Vien per
natura anco l'ardor del sole.
I fulmini
volar miri a traverso
Le
grandinose piogge: or quinci or quindi
Dalle nubi
squarciate i lampi strisciano,
E caggion
spesso anco le fiamme in terra.
Bramo, oltr'a ciò, che tu conosca, o Memmo,
Che, mentre
a volo i genitali corpi
Drittamente
all'ingiù vanno pel vôto,
D'uopo
è ch'in tempo incerto in luogo incerto
Sian
fermamente da' lor propri pesi
Tutti
sforzati a declinare alquanto
Dal lor
dritto vïaggio, onde tu possa
Solo
affermar che sia cangiato il nome,
Poichè,
se ciò non fosse, il tutto al certo
Per lo vano
profondo in giù cadrebbe
Quasi stille
di pioggia, e mai non fôra
Nato fra i
primi semi urto o percossa,
Onde nulla
già mai l'alma natura
Crear
potrebbe. Che se pure alcuno
Si pensa
forse ch'i più gravi corpi
Scendan
più ratti per lo retto spazio
E per di
sopra ne' più lievi inciampino,
Generando in
tal guisa urti e percosse
Che possan
dare i genitali moti;
Erra
senz'alcun dubbio, e fuor di strada
Dalla dritta
ragion molto si scosta.
Poscia che
ben ciò che per l'aria e l'acqua
Cade
all'ingiuso il suo cadere affretta
E de' pesi a
ragion ratto discende,
Perchè
il corpo dell'acqua e la natura
Tenue
dell'aria trattener non puote
Ogni cosa
egualmente e vie più presto
Convien che
vinta alle più gravi ceda:
Ma pel
contrario in alcun tempo il vôto
In parte
alcuna alcuna cosa mai
Non basta ad
impedire, ond'ella il corso
Non segua
ove natura la trasporta;
Onde tutte
le cose, ancor che mosse
Da pesi
disuguali, aver dovranno
Per lo vano
quïeto egual prestezza.
Non ponno
dunque ne' più lievi corpi
Inciampare i
più gravi e per di sopra
Colpi crear
per sè medesmi, i quali
Faccian moti
diversi, onde natura
Produca il
tutto: ed è pur forza al certo
Che
dechinino alquanto i primi semi,
Nè
più che quasi nulla; acciò non paia
Ch'io finga
adesso i movimenti obliqui
E che
ciò poi la verità rifiuti.
Poscia ch'a
tutti è manifesto e conto
Che mai non
ponno per sè stessi i pesi
Fare obliquo
viaggio, allor che d'alto
Veder gli
puoi precipitare al basso:
Ma che i
principii poi non torcan punto
Dalla lor
dritta via, chi veder puote?
Se finalmente ogni lor moto sempre
Insieme si
raggruppa e dall'antico
Sempre con
ordin certo il nuovo nasce,
Nè travïando
i primi semi fanno
Di moto un
tal principio, il qual poi rompa
I decreti
del fato, acciò non segua
L'una causa
dall'altra in infinito;
Onde nel
mondo gli animali han questa,
Onde han
questa, dich'io, dal fato sciolta
Libera
volontà, per cui ciascuno
Va dove
più gli aggrada? I moti ancora
Si dechinan
sovente, e non in certo
Tempo
nè certa regïon, ma solo
Quando e
dove comanda il nostro arbitrio;
Poichè
senz'alcun dubbio a queste cose
Dà
sol principio il voler proprio, e quindi
Van poi
scorrendo per le membra i moti.
Non vedi
ancor che i barbari cavalli
Allor che
disserrata in un sol punto
È la
prigion, non così tosto il corso
Prendon come
la mente avida brama?
Poichè
per tutto il corpo ogni materia
Atta a far
ciò dee sollevarsi e spinta
Scorrer per
ogni membro, acciò con essa
Della mente
il desio possa seguire.
Onde
conoscer puoi che 'l moto nasce
Dal cuore, e
che ciò pria dal voler nostro
Procede e
quindi poi per tutto il corpo
E per tutte
le membra si diffonde.
Nè
ciò avvien come quando a forza siamo
Cacciati
innanzi; poi che allora è noto
Ch'è
rapita dal corpo ogni materia
Ad onta
nostra in fin che per le membra
Un libero
voler possa frenarla.
Già
veder puoi come, quantunque molti
Da
vïolenza esterna a lor mal grado
Sian forzati
sovente a gire innanzi
E sospinti e
rapiti a precipizio,
Noi non per
tanto un non so che nel petto
Nostro
portiam che di pugnarle incontra
Ha possanza
e d'ostarle, al cui volere
Dalla stessa
materia anco la copia
Talor
forzata a scorrer per le membra
E cacciata
si frena e torna indietro.
Per la qual
cosa confessar t'è forza
Che questo
stesso a' primi semi accaggia,
E ch'oltre
a' pesi alle percosse agli urti
Abbian
qualch'altra causa i moti loro;
Onde poscia
è con noi questa possanza
Nata;
perchè già mai nulla del nulla
Non poter
generarsi è manifesto.
Chè
vieta il peso che per gli urti il tutto
Formato sia
quasi da forza esterna:
Ma, che la
mente poi d'uopo non abbia
Di parti
interïori ond'ella possa
Far poi
tutte le cose e vinta sia
A soffrire,
a patir quasi costretta,
Ciò
puote cagionar de' primi corpi
Il picciol
devïar dal moto retto
Nè
mica in luogo certo o certo tempo.
Nè fu già mai della materia prima
Più
stivata la copia o da maggiori
Spazi
divisa; poichè quindi nulla
S'accresce o
scema. Onde quel moto in cui
Son ora i
primi corpi in quel medesmo
Furono ancor
nella trascorsa etade
E fian nella
futura; e tutto quello
Che fin qui
s'è prodotto è per prodursi
Anco
nell'avvenire, e con le stesse
Condizïoni
e nella stessa guisa
Essere e
crescer debbe, e tanta possa
Avere in
sè medesmo a punto quanta
Per naturale
invarïabil legge
Gli fu
sempre concessa. Nè la somma
Varïar
delle cose alcuna forza
Non
può già mai; perchè, nè dove alcuna
Spezie di
semi a ricovrar se 'n vada
Lungi dal
tutto non si trova al mondo,
Nè
meno ond'altra vïolenza esterna
Crear si
possa e penetrar nel tutto
Impetuosamente
e la natura
Mutarne e
volger sottosopra i moti.
Non creder poi che maraviglia apporti
Che, essendo
tutti i primi semi in moto
La somma non
pertanto in somma quiete
Paia di
star, se non se fosse alcuno
Mostra del
proprio corpo i movimenti.
Poscia che
de' principii ogni natura
Lungi da'
nostri sensi occulta giace:
Onde, se
quelli mai veder non puoi,
Ti fien anco
nascosti i moti loro;
Massime
perchè spesso accader suole
Che quelle
cose che veder si ponno
Celan mirate
da lontana parte
Anch'elle i
propri moti agli occhi nostri.
Poichè
sovente in un bel colle aprico
Le pecore
lanute a passi lenti
Van bramose
tosando i lieti paschi,
Ciascuna ove
la chiama, ove l'invita
La di fresca
rugiada erba gemmante,
E vi
scherzan lascivi i grassi agnelli
Vezzosamente
saltellando a gara:
E pur tai
cose, se da lungi il guardo
Vi s'affissa
da noi, sembran confuse
E ferme,
quasi allor s'adorni e veli
Di bianca
sopravvesta il verde colle.
In oltre;
allor che poderose e grandi
Schiere di
guerra in simolacro armate
Van con
rapido corso i campi empiendo,
E su prodi
cavalli i cavalieri
Volan lungi
dagli altri e furibondi
Scuoton con
urto impetuoso il campo;
Quivi al
cielo il fulgor se stesso inalza,
Quivi
splende la terra, e l'aria intorno
Arde tutta e
lampeggia, e sotto i piedi
De' valorosi
eroi s'eccita un suono,
Che misto
con le strida e ripercosso
Dai monti in
un balen s'erge alle stelle:
E pur luogo
è ne' monti onde ci sembra
Starsi nel
campo un tal fulgore immoto.
Or via; da quinci innanzi intendi omai
Quali sian
delle cose i primi semi,
E quanto
l'un dall'altro abbian diverse
E difformi
le forme e le figure,
Non
perchè sian di poco simil forma
Molti di
lor, ma perchè tutti eguali
D'ogn'intorno
non han tutte le cose.
Nè maraviglia
è ciò; poscia che, essendo
Tanta la
copia lor che fine o somma,
Come
già dimostrammo, aver non puote,
Ben creder
deesi che non tutti in tutto
Possan tutte
le parti aver dotate
D'egual
profilo o di simil figura.
Oltr'a
ciò, l'uman germe e i muti armenti
Degli
squammosi pesci e i lieti arbusti
E le fere
selvagge e i vari augelli,
O vuoi quei
che dell'acque i luoghi ameni
Amano e
vansi spazïando intorno
Alle rive
de' fiumi ai fonti, ai laghi,
O quei che
delle selve abitatori
Volan di
ramo in ramo: or tu di questi
Segui pur a
pigliar qual più t'aggrada
Generalmente,
e troverai che tutti
Han figure
diverse e forme varie.
Nè
potrebbero i figli in altra guisa
Raffigurar
le madri nè le madri
Riconoscere
i figli: e pur veggiamo
Che
ciò far ponno e senza error, non meno
Che gli
uomini fra lor si raffigurano.
Poichè
sovente innanzi ai venerandi
Templi de'
sommi dèi cade il vitello
Presso a
fumante altar d'arabo incenso,
E dal petto
piagato un caldo fiume
Sparge di
sangue: ma l'afflitta ed orba
Madre pe'
boschi errando in terra lascia
Del
bipartito piede impresse l'orme;
Cerca con
gli occhi ogni riposto luogo
S'ella veder
pur una volta possa
Il perduto
suo parto, e ferma spesso
Di queruli
muggiti empie le selve,
E spesso
torna dal desio trafitta
Del caro
figlio a riveder la stalla:
Nè
rugiadose erbette o salci teneri,
Mormoranti
ruscelli o fiumi placidi
Non posson
dilettarla o svïar punto
L'animo suo
dalla noiosa cura,
Nè
degli altri giovenchi altrove trarla
Le mal note
bellezze, o i grassi paschi
Allevïarle
il duol che la tormenta:
Sì va
cercando un certo che di proprio
Ed a lei
manifesto. I tenerelli
Capretti
inoltre alle lor voci tremole
Et al rauco
belar gli agni lascivi
Riconoscono
pur l'irsute madri
E le lanose.
In cotal guisa ognuno,
Qual natura
richiede, il dolce latte
Delle
proprie sue mamme a sugger corre.
Di grano al
fin qualunque specie osserva;
E vedrai
nondimen ch'ei non ha tanta
Somiglianza
fra sè, ch'anco non abbia
Qualche
difformitade: e per la stessa
Ragion
vedrai che della terra il grembo
Dipingon le
conchiglie in varie guise
Là
dove bagna il mar con l'onde molli
Del curvo
lido l'assetata arena.
Onde
senz'alcun dubbio è pur mestiero
Che per la
stessa causa i primi corpi
Poscia che
son dalla natura anch'essi
E non per
opra manual formati,
Abbian varie
fra lor molte figure.
Già sciôr possiamo agevolmente il dubbio,
Per qual
cagione i fulmini cadenti
Molto
più penetrante abbiano il foco
Di quel che
nasce da terrestri faci:
Con
ciò sia che può dirsi che, il celeste
Ardor del
fulmin più sottile essendo,
Composto sia
di piccole figure,
Onde penétri
agevolmente i fóri
Che non
può penetrare il foco nostro
Generato da'
legni. In oltre; il lume
Passa pe 'l
corno, ma la pioggia indietro
Ne vien
rispinta; or per qual causa è questo,
Se non
perchè del lume assai minori
Gli atomi
son di quegli onde si forma
L'almo
liquor dell'acque? E perchè tosto
Vegghiam
colarsi il vino, ed il restio
Olio
all'incontro trattenersi un pezzo?
O
perchè gli ha maggiori i propri semi
O più
curvi e l'un l'altro in vari modi
A foggia d'ami
avviluppati insieme;
Ond'avvien
poi che non sì presto ponno
L'un
dall'altro strigarsi e penetrare
I fóri ad
uno ad uno e fuori uscirne.
S'arroge a ciò; che con soave e dolce
Senso gusta
la lingua il biondo mèle
E 'l bianco
latte; ed all'incontro il tetro
Amarissimo
assenzio e 'l fier centauro
Con orribil
sapor crucia il palato;
Ond'apprender
tu possa agevolmente
Che son
composti di rotondi e lisci
Corpi que'
cibi che da noi gustati
Posson
toccar soavemente il senso;
Ma quelle
cose poi ch'acerbe ed aspre
Ci sembrano
i lor semi hanno all'incontro
Vie
più adunchi e l'un l'altro a foggia d'ami
Strettamente
intrigati, onde le vie
Sogliono
risecar de' nostri sensi
E con
l'entrata dissiparne il corpo.
Al fin;
tutte le cose al senso grate
E l'ingrate
al toccar pugnan fra loro
Per le varie
figure onde son fatte:
Acciò
tu forse non pensassi, o Memmo,
Che l'aspro
orror della stridente sega
Formato
fosse di rotondi e lisci
Principii
anch'egli, in quella guisa stessa
Che la soave
melodia si forma
Da musico
gentile, allor che sveglia
Con dotta
man l'armonïose corde
Di canoro
strumento; e non pensassi
Che con la
stessa forma i primi corpi
Possano
penetrar nelle narici
Dell'uomo,
allor che i puzzolenti e tetri
Cadaveri
s'abbruciano ed allora
Che tutta
è sparsa di cilicio croco
La nuova
scena e di panchei profumi
Arde di
Giove il sacrosanto altare;
E non
credessi che i color leggiadri
E le nostre
pupille a pascer atti
Abbian
simíli i propri semi a quelli
Che pungon
gli occhi a lagrimar forzando
E paion
brutti e spaventosi in vista:
Poichè
ogni causa che diletta e molce
I sensi ha
lisci i suoi principii al certo;
Ma
ciò ch'è pel contrario aspro e molesto
Ha la
materia sua scabrosa e rozza.
Son poscia
alcuni corpi, i quali affatto
Non debbono
a ragion lisci stimarsi
Nè
con punte ritorte affatto adunchi;
Poi che
più tosto han gli angoletti loro
In fuori
alquanto, e che più tosto ponno
Solleticar
che lacerare il senso,
Qual
può dirsi la feccia ed i sapori
Dell'enula
campana. E finalmente
Che la
gelida brina e 'l caldo foco,
Dentati in
varie guise, in varie guise
Pungono il
senso, e l'un e l'altro tatto
Chiaro ne
porge e manifesto indizio.
Poscia che
'l tatto, il tatto, oh santi numi!,
Senso
è del corpo; o quando alcuna cosa
Esterna lo
penétra, o quando nuoce
A quel che
gli è nativo, o fuori uscendo
Ne dà
venereo genital diletto,
O quando
offesi entro lui stesso i semi
Ed insieme
commossi ed agitati
Turbano i
nostri sensi e gli confondono;
Come potrai
sperimentar tu stesso,
Se talor con
la man percuoti a caso
Del proprio
corpo qualsivoglia parte,
Ond'è
mestier che de' principii primi
Sian pur
molto fra lor varie le forme,
Che vari
sensi han di produr possanza.
Al fin; le cose che più dure e dense
Sembrano
agli occhi nostri è d'uopo al certo
Ch'abbiano
adunchi i propri semi e quasi
Ramosi e
l'un con l'altro uniti e stretti;
Tra le quai
senza dubbio il primo luogo
Hanno i
diamanti a disprezzare avvezzi
Ogni urto
esterno, e le robuste selci
E 'l duro
ferro e 'l bronzo il qual percosso
Suol
altamente rimbombar ne' chiostri.
Ma quel
ch'è poi di liquida sostanza
Convien che
fatto di rotondi e lisci
Principii
sia; poichè fra lor frenarsi
Non ponno i
suoi viluppi e verso il basso
Han volubile
il corso. In somma tutto
Ciò
che fuggirsi in un sol punto scorgi,
Com'il fumo
e la nebbia il foco e 'l vento,
Se men degli
altri hanno rotondi e lisci
I lor primi
principii, è forza al meno
Ch'e' non
gli abbian ritorti e strettamente
L'un con
l'altro congiunti, acciò sian atti
A punger gli
occhi e penetrar ne' sassi
Senza che
stiano avviticchiati insieme:
Il che vede
ciascuno esser concesso
Di conoscere
a' sensi, onde tu possa
Apprender
facilmente ch'e' non sono
Fatti
d'adunchi, ma d'acuti semi.
Ma che amari
tu vegga i corpi stessi
Che son
liquidi e molli, a punto come
È del
mare il sudor, non dèi per certo
Meraviglia
stimar: poichè, quantunque
Sia
ciò ch'è molle di rotondi e lisci
Semi
composto, nondimen fra loro
Doloriferi
corpi anco son misti:
Nè
per ciò fa mestier ch'e' siano adunchi
E l'un
l'altro intrigati, ma più tosto
Debbon,
benchè scabrosi, esser rotondi,
Acciò
che insieme agevolmente scorrere
Possano al
basso e lacerare i sensi.
Ma;
perchè tu più chiaramente intenda
Esser misti
co' lisci i rozzi e gli aspri
Principii,
onde ha Nettuno amaro il corpo;
Sappi che
dolce aver da noi si puote
L'acqua del
mar, pur che per lungo tratto
Sia di terra
colata e caggia a stille
In qualche
pozza e placida diventi;
Poscia che a
poco a poco ella depone
Del suo
tetro veleno i semi acerbi,
Come quelli
che ponno agevolmente,
Stante
l'asprezza lor, fermarsi in terra.
Or, ciò mostrato avendo, io vo' seguire
A congiunger
con questo un'altra cosa
Che quindi
acquista fede: ed è che i corpi
Della
materia varïar non ponno
Le lor
figure in infinite guise:
Chè,
se questo non fosse, alcuni semi
Già
dovrebbon di nuovo ai corpi misti
Apportar
infinito accrescimento.
Poichè
non in qualunque angusta mole
Si posson
molto varïare insieme
Le lor
figure: con ciò sia che fingi
Ch'e' sian
pur quanto vuoi minuti e piccoli
I primi
semi, indi di tre gli accresci
O di
poc'altri; e troverai per certo
Che, se tu
piglierai tutte le parti
Di qualche
corpo, e varïando i luoghi
Sommi con
gl'imi e co' sinistri i destri,
Dopo ch'in
ogni guisa avrai provato
Qual dia
specie di forme a tutto il corpo
Ciascun
ordine lor, nel rimanente,
Se tu forse
vorrai cangiar figure,
Anco altre
parti converratti aggiungere:
Quindi
avverrà che l'ordine ricerchi
Per la
stessa cagion nuove altre parti,
Se tu forme
cangiar vorrai di nuovo.
Dunque col
varïar delle figure
S'augumentano
i corpi: onde non dèi
Creder che i
semi abbian tra lor difformi
Le forme in
infinito, acciò non forzi
Ad esser
cose smisurate al mondo:
Il che
già falso io ti provai di sopra.
Già
le barbare vesti e le superbe
Lane di
Melibea tre volte intinte
Nel sangue
di tessaliche conchiglie,
E dell'aureo
pavon l'occhiute penne
Di ridente
lepor cosperse intorno,
Da novelli
colori oppresse e vinte
Giacerebbero
omai; nè della mirra
Sarìa
grato l'odor nè del soave
Mèle
il sapore; e l'armonia de' cigni
Ed i carmi
febei sposati al suono
Di cetra
tocca con dedalea mano
Fôran
già muti; con ciò sia che sempre
Nascer
potriano alcune cose al mondo
Più
dell'antiche prezïose e care,
Ed
alcun'altre più neglette e vili
Al palato
agli orecchi al naso agli occhi.
Il che falso
è per certo, ed ha la somma
E dell'une e
dell'altre un fin prescritto:
Ond'è
pur forza confessar che i semi
Forme
infinite varïar non ponno.
Dal caldo,
al fine, alle pruine algenti
È
finito passaggio, ed all'incontro
Per la
stessa ragion dal gelo al foco;
Poichè
finisce l'un e l'altro, e posti
Sono il tiepido
e 'l fresco a loro in mezzo,
Adempiendo
per ordine la somma.
Distanti
adunque le create cose
Per infinito
spazio esser non ponno,
Poscia c'han
d'ogni banda acute punte
Quinci
infeste alle fiamme e quindi al ghiaccio.
Il che mostrato avendo, io vo' seguire
A congiunger
con questa un'altra cosa
Che quindi
acquista fede: ed è che i semi
C'han da
natura una figura stessa
Sono
infiniti. Con ciò sia che, essendo
Finita delle
forme ogni distanza,
Forz'è
pur che le simili fra loro
Sian
infinite o sia finita almeno
La somma: il
che già falso esser provammo.
Or, poi che ciò t'è noto, io vo' mostrarti
In pochi, ma
soavi e dolci versi,
Che de'
primi principii i corpicciuoli
Sono
infiniti in qualsivoglia specie
Di forme, e
sol così posson la somma
Delle cose
occupar, continuando
D'ogn'intorno
il tenor delle percosse.
Poichè,
se ben tu vedi esser più rari
Certi
animali e men feconda in essi
La natura ti
par, ben puote un'altra
O terra o
luogo o regïon lontana
Esserne piu
ferace ed adempirne
In cotal
guisa il numero: sì come
Veggiam che
fra i quadrupedi succede
Spezialmente
agli anguimani elefanti;
De' quai
l'India è sì fertile che cinta
Sembra
d'eburneo impenetrabil vallo,
Tal di quei
bruti immani ivi è la copia;
Benchè
fra noi se ne rimiri a pena
Qualch'esempio
rarissimo. Ma; posto
Che fosse al
mondo per natura un corpo
Cotanto
singolar ch'a lui simíle
Null'altro
sia nell'universo intero;
Se non per
tanto de' principii suoi
Non fia la
moltitudine infinita,
Ond'egli
concepirsi e generarsi
Possa, non
potrà mai nascere al mondo
Nè,
benchè nato, alimentarsi e crescere.
Poichè
fingi con gli occhi che finiti
Semi d'una
sol cosa in varie parti
Vadan pel
vano immenso a volo errando:
Onde, dove,
in che guisa e con qual forza,
In
così vasto pelago e fra tanta
Moltitudine
altrui, potranno insieme
Accozzarsi
giammai? Per quanto io credo,
Ciò
non faranno in alcun modo al certo.
Ma; qual, se
nasce in mezzo all'onde insane
Qualche
grave naufragio, il mar cruccioso
Sparger
sovente in varie parti suole
Banchi,
antenne, timoni, alberi e sarte,
Poppe e
prore e trinchetti e remi a nuoto.
In guisa che
mirar puote ogni spiaggia
Delle navi
sommerse i fluttuanti
Arredi,
ch'avvertir dovrian ciascuno
Mortale ad
ischifar del mare infido
E l'insidie
e la forza e i tradimenti
Nè
mai fidarsi ancor che alletti e rida
L'ingannatrice
sua calma incostante:
Tal, se tu
fingi in qualche specie i semi
Da numero
compresi, essi dovranno
Per lo vano
profondo esser dispersi
In varie
parti da diversi flutti
Della prima
materia, in guisa tale
Ch'e' non
potran congiungersi o congiunti
Trattenersi
un sol punto in un sol gruppo
Nè
per nuovo concorso augumentarsi.
E pur, che
l'un e l'altro apertamente
Si faccia,
il fatto stesso a noi ben noto
Ne mostra, e
che formarsi e che formate
Posson
crescer le cose. È chiaro adunque
Che sono in
ogni specie innumerabili
Semi onde
vien somministrato il tutto.
Nè
superare eternamente ponno
I moti a lor
mortiferi nè meno
Seppellir la
salute eternamente,
Nè di
sempre serbar da morte intatte
Le cose una
sol volta al mondo nate
Gli accrescitivi
corpi hanno possanza.
Tal con pari
certame insieme fanno
Battaglia i
semi infra di lor contratta
Fin da tempo
infinito. Or quinci or quindi
Vince la
vita, ed all'incontro è vinta:
Mista al
rogo è la cuna, ed al vagito
De' nascenti
fanciulli il funerale:
Nè
mai notte seguío giorno nè giorno
Notte, che
non sentisse in un confusi
Col vagir di
chi nasce il pianto amaro
Della morte
compagno e del feretro.
Abbi in oltre per fermo e tieni a mente,
Che nulla al
mondo ritrovar si puote
Che d'un
genere sol di genitali
Corpi sia
generato e che non abbia
Misti
più semi entro a se stesso; e quanto
Più
varie forze e facoltà possiede,
Tanto in
sè stesso esser più specie insegna
D'atomi
differenti e varie forme.
Pria la terra contiene i corpi primi,
Onde con
moto assiduo il mare immenso
Si rinnovi
da' fonti i quai sossopra
Volgono i
fiumi; ha d'onde nasca il foco,
Poi
ch'acceso in più luoghi il suol terrestre
Arde, ma
più d'ogni altro è furibondo
L'incendio
d'Etna; ha poi donde le biade
E i lieti
arbusti erga per l'uomo, ed onde
Porga alle
fere per le selve erranti
E le tenere
frondi e i grassi paschi.
Ond'ella sol
fu degli dèi gran madre
Detta e
madre de' bruti e genitrice
De' nostri
corpi. E ne cantaro a prova
Degli
antichi poeti i più sovrani
Ch'Argo ne
desse; e finser che sublime
Sovr'un
carro a seder sempre agitasse
Due leon
domi ed accoppiati al giogo,
Affermando
oltr'a ciò che pende in aria
La gran
macchina sua, nè può la terra
Fermarsi in
terra; aggiunsero i leoni,
Sol per
mostrar ch'ogni più crudo germe
Dee, la natia
sua ferità deposta,
Rendersi a'
genitori obbedïente
Vinto da'
loro officii; al fin gli ornaro
La sacra
testa di mural corona,
Perch'ella
regge le città munite
Di luoghi
illustri. Or di sì fatta insegna
Cinta per le
gran terre orrevolmente
Si porta ognor
della divina madre
L'imagin
santa. Ella da genti varie
Per antico
costume è nominata
Ne'
sacrifici la gran madre Idea.
Le aggiungon
poscia le troiane turbe
Per sue fide
seguaci; essendo fama
Che pria da
quei confini incominciasse
A generarsi
a propagarsi il grano:
Le danno i
Galli, per mostrar che quegli
Ch'avranno
offeso di lor madre il nume
O sieno
ingrati a' genitor, non sono
Degni
d'esporre a' dolci rai del giorno
Delle
viscere lor prole vivente.
Dalle palme
percossi in suon terribile
Tuonan
timpani tesi e cavi cembali,
E con rauco
cantar corni minacciano,
E la concava
tibia in frigio numero
Suona e le
menti altrui risveglia e stimola.
E gli
portano innanzi orrendi fulmini
In segno di
furore, acciò bastevoli
Siano a
frenar con la paura gli animi
Ingrati
della plebe e i petti perfidi,
Di cotal
dèa la maestà mostrandoli.
Or, tosto
ch'ella entro le gran cittadi
Vien
portata, di tacita salute
Muta
arricchisce gli uomini mortali.
Spianan
tutte le vie d'argento e bronzo,
Dan larghe
offerte, e nevigando un nembo
Di rose
fanno alla gran madre ed anco
De' seguaci
alle turbe ombra cortese.
Qui di frigi
Coreti armata squadra
(Sì
gli chiamano i Greci) insieme a sorte
Suonan
catene, ed a tal suon concordi
Muovon
saltando i passi ebri di sangue;
E percotendo
con divina forza
De' lor elmi
i terribili cimieri
Rappresentan
di Creta i Coribanti,
Che, siccome
la fama al mondo suona,
Già
di Giove il vagito ivi celaro,
Allor
ch'intorno ad un fanciullo armato
Menâr gli
altri fanciulli in cerchio un ballo
Co' bronzi a
tempo percotendo i bronzi,
Acciò
dal proprio genitor sentito
Divorato non
fosse e trafiggesse
Con piaga
eterna della madre il petto.
Quindi
accompagnan la gran madre armati,
O forse per
mostrar che la n'avverte
A difender
col senno e con la spada
La patria
terra ed a portar mai sempre
E decoro e
presidio ai genitori.
Le quali
tutte cose, ancor che dette
Con ordin
vago a meraviglia e bello,
Son
però false senza dubbio alcuno.
Chè
d'uopo è pur che 'n somma eterna pace
Vivan gli
dèi per lor natura e lungi
Stian dal governo
delle cose umane,
D'ogni
dolor, d'ogni periglio esenti,
Ricchi sol
di sè stessi e di sè fuori
Di nulla
bisognosi, e che nè merto
Nostro gli
alletti o colpa accenda ad ira.
Ma la terra
di senso in ogni tempo
Manca
senz'alcun dubbio, e, perchè tiene
Di molte
cose entro al suo grembo i semi,
Molti ancor
ne produce in molti modi.
Qui; se
alcun vuol chiamar Nettuno il mare,
Cerere il
grano, et abusar più tosto
Di Bacco il
nome che la propria voce
Pronunzïar
del più salubre umore;
Concediamogli
pur ch'egli a sua voglia
Dica gran
madre degli dèi la terra;
Pur che
ciò sia veracemente falso.
Sovente adunque, ancor che pascan l'erba
D'un prato
stesso sotto un cielo stesso
E pecore
lanute e di cavalli
Prole
guerriera ed aratori armenti
E bevan
l'acqua d'un medesmo fiume,
Vivon
però sotto diversa specie,
E de' lor
genitori in sè ritengono
Generalmente
la natura e sanno
Imitarne i
costumi: or tanto vari
I corpi son
della materia prima
In ogni
specie d'erba in ogni fiume.
Anzi, oltre
a questo, ogni animal si forma
Di tutte
queste cose, umido sangue,
Ossa, vene,
calor, viscere e nervi,
Le quai son
pur fra lor diverse e nate
Da principii
difformi. E similmente
Ciò
ch'arde il foco, se null'altro, almeno
Sol di
sè stesso somministra i corpi
Che vibrar
il calor, sparger la luce,
Agitar le
scintille e largamente
Possono
intorno seminar le ceneri.
E se tu con
la mente in simil guisa
L'altre cose
contempli ad una ad una,
Senz'alcun
dubbio troverai che tutte
Celan nel
proprio corpo e vi han ristretto
Molti semi
diversi e varie forme.
Al fin: tu
vedi in molte cose unito
Con l'odore
il sapor: dunque è pur d'uopo
Che queste
abbian dissimili figure.
Poichè
l'odor penétra in quelle membra
Ove non
entra il succo, e similmente
Penetra i
sensi separato il succo
Dal sapor
delle cose; onde s'apprende
Ch'ei le
prime figure ha differenti:
Dunque forme
difformi in un sol gruppo
Certamente
s'uniscono e si forma
Di misto
seme il tutto. Anzi tu stesso
Puoi sovente
vedere ne' nostri versi
Esser comuni
a molte voci e molte
Molti
elementi, e non per tanto è d'uopo
Dir che
d'altri elementi altre parole
Sian pur
composte; non perchè comuni
Si trovin
poche lettere o non possano
Formarsi mai
delle medesme appunto
Due voci
varie, ma perchè non tutte
Hanno ogni
cosa in ogni parte eguale.
Or
similmente all'altre cose accade,
Che, se ben
molte hanno comuni i semi,
Possono
ancor di molto vario gruppo
Formarsi al
certo: ond'a ragion si dica
Che d'atomi
diversi ognor si creino
Gli augelli
i pesci gli animai le piante.
Nè creder dèi che non per tanto unirsi
Possan tutti
i principii in tutti i modi;
Perchè
nascer vedresti in ogni parte
Ognor nuovi
portenti; umane forme
Miste a
forme di fere, e rami altissimi
Spuntar tal
volta da vivente corpo,
E molte
membra d'animai terrestri
Con quelle
degli acquatici congiungersi,
E le chimere
con orribil bocca
Fiamme
spirando partorire al mondo
Il tutto e
pascer la natura a pieno.
Del che
nulla esser vero aperto appare,
Mentre
veggiam da genitrice certa
Nascer tutte
le cose e crescer poi
Da certi
semi e conservar la specie.
E d'uopo
è ben che tutto questo accaggia
Per non
dubbia ragion: Poichè a ciascuno
Scendon da
tutti i cibi entro alle membra
I propri
corpi, onde congiunti fanno
Convenevoli
moti; ed all'incontro
Veggiam gli
altrui dalla natura in terra
Ributtarsi
ben tosto, e molti ancora
Fuggon
cacciati da percosse occulte
Pe' meati
insensibili del corpo,
I quai
nè unirsi ad alcun membro o quivi
Produr moti
vitali ed animarsi
Non poteron
già mai. Ma, perchè forse
Tu non
credessi a queste leggi astretti
Solo i
viventi, una ragione stessa
Decide il
tutto: che, siccome in tutta
L'essenza
lor le generate cose
Son fra
sè varie, in cotal guisa appunto
Forz'è
che di dissimili figure
Abbiano i
semi lor; non perchè molte
Sian di
forma fra lor poco simili,
Ma sol
perchè non tutte in ogni parte
Hanno eguale
ogni cosa: or, vari essendo
I semi,
è di mestier che differenti
Sian le
percosse l'unïoni i pesi
I concorsi
le vie gli spazi i moti,
I quai non
pur degli animali i corpi
Disgiungon,
ma la terra e 'l mar profondo
E 'l cielo
immenso dal terrestre globo.
Or porgi in oltre a questi versi orecchio
Da me con
soavissima fatica
Composti,
acciò tu non pensassi, o Memmo,
Cbe nate
sian di candidi principii
Le bianche
cose e che di nero seme
Si producan
le nere, o pur che quelle
Che son
gialle o vermiglie, azzurre o perse
O rancie o
di qualunque altro colore,
Sol tali
sian perchè il color medesmo
Della prima
materia abbiano i corpi:
Poscia ch'i
primi semi affatto privi
Son di tutti
i colori, e non può dirsi
Ch'in
ciò le cose a' lor principii sieno
Simili
nè dissimili. E, se forse
Paresse a te
che l'animo non possa
Veder corpi
cotali, erri per certo
Lungi dal
ver: poichè, se i ciechi nati,
Che mai del
sol non rimirâr la luce,
Conoscon pur
sol per toccarli i corpi,
Benchè
fin da fanciulli alcun colore
Non abbian
visto, è da saper che ponno
Anco le
nostre menti aver notizia
De' corpi
affatto d'ogni liscio privi.
Al fin;
ciò che da noi nel buio oscuro
Si tocca al
senso dimostrar non puote
Colore
alcuno. Or, perch'io già convinco
Che
ciò succede, io vo' mostrarlo adesso.
Poscia
ch'ogni color del tutto in tutti
Si cangia:
il che per certo a patto alcuno
Far mai non
ponno i genitali corpi
Chè
forza è pur ch'invarïabil resti
Di chi muor
qualche parte, acciò le cose
Non tornin
tutte finalmente al nulla;
Poichè,
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Quest'è
sua morte, e non è più quel desso:
Per la qual
cosa attribuir non dèi
Colore ai
semi, acciò per te non torni
Il tutto in
tutto finalmente al nulla.
Se in oltre i primi corpi alcun colore
Non hanno,
hanno però forme diverse
Atte a
produrli e varïarli tutti.
Con
ciò sia che, oltre a questo, importa molto
Come sian
misti i primi semi e posti;
Acciò
tu possa agevolmente addurre
Pronte
ragioni, ond'è che molti corpi
Che poc'anzi
eran neri in un momento
Di marmoreo
candor se stessi adornino,
Com'il mar,
se talvolta irato il turba
Vento che
spiri dall'arene maure,
Cangia in
bianco alabastro i suoi zaffiri.
Poscia che
dir potrai che spesso il nero,
Tosto
ch'internamente agita e mesce
La sua prima
materia, e varia alquanto
L'ordine de'
principii e ch'altri aggiunti
Corpi gli
sono, altri da lui sottratti,
Puote agli
occhi apparir candido e bianco.
Chè se dell'oceàn l'onde tranquille
Fosser
composte di cerulei semi,
Non
potrebber già mai cangiarsi in bianche:
Poichè,
comunque si commuova un corpo
Di ceruleo
color, non puote al certo
Di
candidezza alabastrina ornarsi.
Chè:
se dipinti di color diverso
Fossero i
semi onde si forma un solo
Puro e
chiaro nitor del sen di Teti,
Come sovente
di diverse forme
Fassi un
solo quadrato; era pur d'uopo
Che siccome
da noi veggonsi in questo
Forme
difformi, anco del mar tranquillo
Si vedesser
nell'onde od in qualunque
Altro puro
nitor vari colori.
Le figure,
oltr'a ciò, benchè diverse,
Non ponno
ostar che per di fuori il tutto
Quadro non
sia: ma posson bene i vari
Colori delle
cose oprar che nulla
D'un sol
chiaro nitor s'orni e risplenda.
Senza che,
ogni ragion ch'induce altrui
Ad assegnare
alla materia prima
Differenti
colori è vana affatto:
Poichè
di bianchi semi i bianchi corpi
Non si
veggon crear, nè men di neri
I neri, ma
di vari e differenti:
Con
ciò sia ch'è più facile a capirsi
E piu
agevole a farsi, che da seme
Privo d'ogni
color nascan le cose
Candide, che
da nero o da qualunque
Altro che
incontra gli combatta e gli osti.
Perchè, in oltre, i colori esser non ponno
Senza luce,
e la luce unqua non mostra
La materia
svelata agli occhi nostri;
Quindi lice
imparar ch'i primi semi
Non son
velati da nessun colore;
E qual
colore aver potrà già mai
Nelle
tenebre cieche, il qual si cangia
Nel lume
stesso se percosso splende
Con retta
luce o con obliqua o mista?
Come piuma
che 'l collo e la cervice
D'innocente
colomba orni e colori
Or d'acceso
rubin fiammeggia ed ora
Fra cerulei
smeraldi i verdi mesce,
E d'altero
pavon l'occhiuta coda,
Qualor
pomposo ei si vagheggia al sole,
Cangia
così mille colori anch'ella.
I quai
poscia che pur son generati
Solo allor
che la luce urta ne' corpi.
Non
dèi stimar che senza questo possa
Ciò
farsi. E perchè l'occhio in sè riceve
Una tal
sorta di percosse allora
Ch'ei vede
il bianco e senza dubbio un'altra
Da quella
assai diversa allor ch'ei mira
Il nero e
qualsivoglia altro colore,
Nè
quale abbian color punto rileva
I corpi che
si toccano, ma solo
Qual
più atta figura; indi ne lice
Saper che
nulla han di mestiere i semi
D'alcun
colore, e che producon solo
Con varie
forme toccamenti vari.
Perchè incerta, oltre a questo
è del colore
L'essenza e
pende da figure incerte,
E tutte
posson de' principii primi
In qualunque
chiarezza esser le forme;
Ond'è
che ciò che d'esse è poi formato
Anch'ei non
è nel modo stesso asperso
D'ogni sorte
color? dal che sovente
Nascer
potrà ch'anco i volanti corvi
Vantin con
bianche penne il color bianco,
E di nera
materia i cigni neri
Sian fatti o
di qualunque altro colore
O puro e
schietto o fra sè vario e misto.
Anzi che,
quanto in più minute parti
Si stritolan
le cose, allor succede
Che tu
meglio veder possa i colori
Svanir a
poco a poco ed annullarsi;
Qual se in
piccioli pezzi o l'oro o l'ostro
Si frange e
'l sovr'ogni altro illustre e chiaro
Color
cartaginese a filo a filo
Si straccia
e tutto si disperde in nulla:
Onde tu
possa argomentar che prima
Spiran le
parti sue tutto il colore,
Che scendan
delle cose ai primi semi.
Perchè, al fin, tu non credi ch'ogni corpo
Mandi alle
nari odor, voci all'orecchie,
Quindi
avvien poi che non assegni a tutti
Gli odori e
'l suono: or in tal guisa appunto,
Perchè
non tutte puoi veder con gli occhi
Le cose,
è da saper che sono alcune
Tanto d'ogni
color spogliate affatto
Quanto alcune
di suon prive e d'odore,
E che non
men può l'animo sagace
Intender
ciò, ch'ei l'altre cose intende
Prive
d'altri accidenti e note ai sensi.
Ma; perchè forse tu non creda ignudi
Sol di
colore i primi semi; avverti
Che son
disgiunti dal colore in tutto
E dal freddo
e dal tiepido vapore,
E sterili di
suon magri di succo
Corron per
lo gran vano, e non esalano
Dalla
propria sostanza odore alcuno,
Come suol
esalarne alle narici
Il soave
liquor dell'amaraco,
Della mirra
l'unguento e il fior del nardo.
E se tu
forse esperïenza brami,
Pria
convienti cercar, fin che ti lice
E che puoi
ritrovar, l'interna essenza
Dell'olio
inodorifero che alcuna
Alle nostre
narici aura non manda,
Acciò,
mischiando e digerendo in esso
Molti odori
diversi, egli non possa
Rendergli
poi del suo veleno infetti.
Per questo,
in somma, i genitali corpi
Nel generar
le cose il proprio odore
Non debbon
compatirli o 'l proprio suono,
Perchè
nulla da lor puote esalare;
Nè 'l
sapor finalmente o 'l freddo o 'l caldo,
Per la
stessa ragion, nè similmente
Il tiepido
vapor. E gli altri corpi;
Che son
mortali, e perciò tutti a questa
Legge
soggetti, che di molle i teneri,
Di rozza gli
aspri, et i porosi in somma
Sian di rara
sostanza, è d'uopo al certo
Che tutti
sian da' lor principii primi
Diversi; se
pur brami ad ogni cosa
Assegnar
fondamenti incorruttibili,
Ove possa
appoggiarsi ogni salute;
Acciò
per te tutte le cose al fine
Non sian
costrette a dissiparsi in nulla.
Or ciò che sente non di meno è d'uopo
Che di semi
insensibili formato
Si confessi da
te. Nè pugna il senso
Contro a
questo ch'io dico, anzi egli stesso
Quasi per
mano ad affermar ne guida
Che vero
è pur che gli animai non ponno
Se non se
d'insensibili principii
Nascer
già mai. Poichè veder ne lice
Sorger dal
tetro sterco i vermi vivi
Allor che
per tempeste intempestive
Umido il
suolo imputridisce, ed anco
Tutte le
cose trasmutar se stesse.
Si trasmutan
le frondi i paschi i fiumi
In gregge,
il gregge si trasmuta anch'egli
In uomini, e
degli uomini sovente
Dell'indomite
fere e de' pennuti
Cresce il
corpo e la forza: adunque i cibi
Tutti per
lor natura in vivi corpi
Si cangiano;
e di qui nasce ogni senso
Degli
animai, quasi nel modo stesso
Che spiega
il foco un secco legno in fiamma
E ciò
che tocca in cenere rivolta.
Vedi tu
dunque omai di qual momento
Sia l'ordine
de' semi e la mistura
E i moti che
fra lor danno e ricevono?
In oltre ancor; che cosa esser può quella
Che percuote
dell'uom l'animo e 'l muove
E lo sforza
a produr sensi diversi,
Se pur non
credi i sensitivi corpi
Di materia
insensibile formarsi?
Certamente
la terra i legni i sassi,
Ancor che
siano in un confusi e misti,
Non producon
però senso vitale.
Fia dicevole
dunque il rammentarsi
Di questa
lega de' principii primi;
Cio
è; che non di tutti in tutto a un tratto
Fassi 'l
corpo sensibile ed il senso;
Ma che molto
rileva in primo luogo
Quanto
piccioli sian, qual abbian forma
Ordini, moti
e positure al fine
Gli atomi
che crear denno il sensibile.
Delle quai
tutte cose alcun non vede
Nulla ne'
rotti legni e nell'infranto
Terreno: e pur,
se queste cose sono
Quasi per
pioggia putrefatte e guaste,
Generan
vermi, perchè, mossi essendo
Della
materia i corpi dall'antico
Ordine lor
per l'accidente nuovo,
S'uniscon
poscia in tal maniera insieme
Che d'uopo
è pur che gli animai si formino.
In somma;
allor che di sensibil seme
Dicon
crearsi il sensitivo, in vero
Dall'altre
cose a giudicare avvezzi
Fanno allor
molle la materia prima;
Perch'ogni
senso è certamente unito
Alle
viscere, ai nervi ed alle vene,
Che pur son
molli e di mortal sostanza
Tutte
create. Ma sia vero omai
Che possan
queste cose eternamente
Restare in
vita: non per tanto è forza
Ch'elle
abbian pure o come parti il senso,
O sian
simíli agli animali interi.
Ma non san
per sè stesse esser le parti
Non che
sentir, nè può la mano od altra
Parte del
corpo esser da lui divisa
E per
sè stessa conservare il senso,
Poichè
tosto ogni senso ella rifiuta
Dell'altre
membra. Onde riman che solo
Agl'intieri
animali abbian simile
L'essenza,
acciò che d'ogni intorno possano
Sentir con
vital senso. Or come adunque
Potran
chiamarsi genitali corpi
E la morte
fuggir, mentre pur sono
Animali
ancor essi e co' mortali
Viventi una
sol cosa? il che se pure
Esser
potesse, non farian giammai
Dall'unïon
divisi altro ch'un volgo
Ed una turba
d'animai nel mondo:
Come certo
non ponno alcuna cosa
Gli uomini
generar, le fere, i greggi,
Quando uniti
fra lor piglian sollazzo
Venereo,
altro che fere, uomini e greggi.
Che se
forse, del corpo il proprio senso
Perdendo,
altro ne acquistano, a che fine
Assegnar li
si dee ciò che gli è tolto?
In oltre
ancora; il che scansammo avanti;
Fin che
veggiam che de' crestati augelli
Si cangian
l'uova in animati polli,
E di
piccioli vermi il suol ribolle
Allor che
per tempeste intempestive
Divien
putrido e marcio, indi ne lice
Saper che
fassi di non senso il senso.
Ma; se forse dirai crearsi i sensi
Sol da non
sensi, pur che pria che nasca
Abbia di
moto un tal principio il parto;
Sol
basterà ch'io ti dimostri aperto,
Che mai
senza unïon dei corpi primi
Non si
genera il parto e non si muta
Nulla senza
lor gruppo innanzi fatto.
Poichè
per certo la materia sparsa
Per le
fiamme pe' fiumi in aria in terra,
Cose innanzi
create, e' non s'accozza
In
convenevol modo, onde comparta
Fra
sè moto vital, per cui s'accenda
Senso che
guardi 'l tutto, e gli animali
Difender
possa da' contrari insulti.
In oltre; ogni animal, se più gran colpo
Che la
natura sua soffrir non puote
Il fere, in
un momento anco l'atterra
E s'avaccia
a turbar tutti e scomporre
E del corpo
e dell'alma i sentimenti:
Poichè
si sciolgon de' principii primi
Le positure
ed impediti affatto
Sono i moti
vitali infino a tanto
Che
squassata e scommossa ogni materia
Per ogni
membro il vital nodo scioglie
Dell'anima
dal corpo e fuor dispersa
D'ogni
proprio ricetto alfin la scaccia.
Perchè
qual altra cosa oprar può mai
Negli
animali un vïolento colpo,
Se non
crollarli e dissiparne il tutto?
Succede
ancor che per minor percossa
Puon del
moto vital gli ultimi avanzi
Vincer
sovente; vincere, e del colpo
Acquietare i
grandissimi tumulti,
E di nuovo
chiamar ne' propri alberghi
Ciò
che partissi, e nell'afflitto corpo
Moti produr
signoreggianti omai
Di morte, e
dentro rivocarvi i sensi
Quasi
smarriti. Che per qual cagione
Posson
più tosto ripigliar vigore
E dallo
stesso limitar di morte
Tornare in
vita, che partirsi et ire
Là
dove è già quasi finito il corso?
Perchè il duolo, oltre a questo allor si genera
Che per le
membra e per le vive viscere
Da qualche
vïolenza i primi corpi
Vengono
stimolati e nelle proprie
Lor sedi
internamente si conturbano;
Ma, quando
poscia alla lor prima stanza
Tornano, il
lusinghevole piacere
Tosto si
crea; quindi saper ne lice
Che mai non
posson da dolore alcuno
Essere
afflitti i genitali corpi
Nè
pigliar per sè stessi alcun diletto;
Con
ciò sia che non son d'altri principii
Fatti, per
lo cui moto aver travaglio
Debbiano o
pur qualche soave frutto
Di dolcezza
gustar: non ponno adunque
Esser dotati
d'alcun senso i semi.
Se, 'n
somma, acciò che senta ogni animale,
Senso a'
principii suoi deve assegnarsi,
Dimmi che ne
avverrà? Fia d'uopo al certo
Che i semi
onde si crea l'umano germe
Si sganascin
di risa, e di stillanti
Lacrime
amare ambe le gote aspergano,
E ne sappian
ridir come sian miste
Le cose, e
possan domandar l'un l'altro
Le
qualità de' lor principii e l'essere:
Poscia che,
essendo assomigliati a tutti
I corpi
corruttibili, dovranno
D'altri
elementi esser formati anch'essi
E quindi
d'altri in infinito gli altri;
E
converrà che ciò che ride o parla
O sa, creato
sia d'altri principii
Che ridano
ancor lor parlino e sappiano.
Che se tai
cose esser delire e pazze
Ognun
confessa, e rider puote al certo
Chi fatto
è pur di non ridenti semi,
Et esser
saggio e nel parlar facondo
Chi nato
è pur di non facondi e saggi;
Dimmi, per
qual cagion ciò che si mira
Aver senso
vital non può formarsi
D'atomi
affatto d'ogni senso ignudi?
Al fin; ciascuno ha da celeste seme
L'origine
primiera; a tutti è padre
Quello
stesso onde, allor che in sè riceve
L'alma gran
madre terra il molle umore
Della
pioggia cadente, i lieti arbusti
Gravida
figlia il gran, le biade e gli uomini,
Ed ogni
specie d'animai selvaggi,
Mentr'ella a
tutti somministra i paschi
Onde
nutrirsi, onde menar tranquilla
Possan la
vita e propagar la prole;
Ond'a
ragione ebbe di madre il nome.
Similmente
ritorna indietro in terra
Ciò
che di terra fu creato innanzi;
E quel che
fu dalle celesti e belle
Regïoni
superne in giù mandato
Di nuovo
anch'egli riportato in cielo
Trova ne'
templi suoi dolce ricetto:
Nè
sì la morte uccider può le cose,
Che le
annichili affatto. Ella discioglie
Solo il gruppo
de' semi, e quindi un altro
D'altri poi
ne congiunge, e fa che tutte
Cangin forma
le cose, e acquistin senso
Tal volta ed
anco in un sol punto il perdano.
Onde
apprender si può che molto importa
Come sian
misti i primi semi e posti,
E quai moti
fra lor diano e ricevano;
Poichè
forman gli stessi il cielo il sole,
Gli stessi
ancor la terra i fiumi il mare
Gli augelli
i pesci gli animai le piante;
E, se non
tutti, una gran parte almeno
Son tai
corpi fra lor molto simíli,
E solo han
vario e differente il sito.
Tal, se
dentro alle cose in varie guise
Cangiansi
de' principii i colpi i pesi
I concorsi
le vie gli spazi i gruppi
Gli ordini i
moti le figure i siti,
Debbon le
cose varïarsi anch'elle.
Or, mentre il vero io ti ragiono, o Memmo,
Sta' con
l'animo attento ai detti nostri,
Perchè
nuovi concetti entro all'orecchie
Tentan di
penetrarti e nuove forme
Di cose agli
occhi tuoi se stesse svelano.
Ma nulla
è di sì facile credenza,
Che di molto
difficile non paia
Al primo
tratto; e similmente nulla
Per
sì grande e mirabile s'addita
Mai da
principio, che volgare e vile
A poco a
poco non diventi anch'egli.
Com'il
chiaro e purissimo colore
Del cielo, e
quel che le vaganti e fisse
Stelle in
sè stesse d'ogn'intorno accolgono.
E della luna
or mezza or piena or scema
L'argenteo
lume e i vivi rai del sole:
Che s'or
primieramente all'improvviso
Rifulgessero
a noi quasi ad un tratto
Posti
innanzi a' nostr'occhi, e qual potrebbe
Cosa mai
più mirabile chiamarsi
Di questa? o
che già mai la gente innanzi
Men di
credere osasse? quel ch'io stimo,
A nessun
più ch'a te parsa sarebbe
Degna di
maraviglia una tal vista:
E pur,
già sazio non che stanco ognuno
Dal
soverchio mirar, non degna ai templi
Risplendenti
del cielo alzar pur gli occhi.
Onde non
voler tu, solo atterrito
Dalla sua
novità, la mia ragione
Correr
veloce a disprezzar; ma prendi
Con
più fino giudizio a ponderarla:
E, se vera
ti par, consenti e taci:
Se no,
t'accingi a disputarle incontra.
Poichè
sol di ragion l'animo è pago;
Essendo fuor
di questo nostro mondo
Somma immensa
di spazio, egli ricerca
Ciò
che là sia, fin dove può la mente
Penetrare a
veder, dove lo stesso
Animo
può spiegar libero il volo.
Pria, se ben ti rammenta, in ogni parte,
A destra et
a sinistra, e sotto e sopra,
Per tutto
è sparso un infinito spazio,
Com'io
già t'insegnai, come vocifera
Per
sè medesmo il fatto, e manifesta
È del
profondo la natura a tutti.
Già
pensar non si debbe in guisa alcuna
Ch'essendo
in ogni banda un vano immenso
Per cui con
moto eterno in varie guise
Numero
innumerabile di semi
Per lo vano
profondo irrequïeti
Volâr mai
sempre ed a crear bastanti
Fûr
questa terra e questo ciel che miri,
Nulla fuori
di lui faccian que' tanti
Principii;
essendo massime anco questi
Fatto dalla
natura, e delle cose
Gli stessi
semi, in molti modi a caso
Urtandosi
l'un l'altro indarno uniti,
Avendo pur
fatto que' gruppi al fine,
Che,
repentinamente in varie parti
Lanciati,
fosser poi sempre principii
E di terra e
di mar, di ciel, di stelle,
D'uomini,
d'animai, d'erbe e di piante.
Onde voglia
o non voglia, è pur mestiero
Che tu
confessi esser da noi lontani
Molti altri
gruppi di materia prima;
Qual a punto
stim'io questo che stringe
L'etere con
tenace abbracciamento.
In oltre allor che la materia è pronta,
Il luogo
apparecchiato, e nulla manca,
Debbon le cose
generarsi al certo.
Or; se
dunque de' semi è tanto grande
La copia
quanto a numerar bastevole
Non è
degli animai l'etade intera,
E la forza
medesma e la natura
Ritengono i
principii atta a vibrarli
In tutti i
luoghi nella stessa guisa
Ch'e' fur
lanciati; in questo egli è pur d'uopo
Confessar
ch'altre terre in altre parti
Trovinsi, et
altre genti ed altre specie
D'uomini e
d'animai vivano in esse.
S'arroge a ciò, che non è cosa al mondo
Che si
generi sola e sola cresca:
Il che
principalmente in ogni specie
D'animai
può veder chïunque volge
La mente a
contemplarle ad una ad una;
Poscia che
sempre troverà che molte
Son simili
fra loro e d'una razza.
Così
veder potrai che son le fere
Che van pe'
monti e per le selve errando,
Così
l'umana prole, e finalmente
Così
de' pesci gli squammosi greggi
E tutti i
corpi de' rostrati augelli.
Ond'è
pur forza confessar che 'l cielo,
Per la
stessa ragion, la terra, il sole,
La luna, il
mare e tutte l'altre cose
Non sian
nell'universo uniche e sole
Ma
più tosto di numero infinito:
Poichè
tanto altamente è della vita
Il termine
prefisso a queste cose
E tanto ad
esse naturale il corpo,
Quant'ogni
altra sostanza ond'esse abbondano
Generalmente.
Il che se ben intendi,
Tosto libera
e sciolta e di superbi
Tiranni
priva e senza dèi parratti
La natura
per sè creare il tutto.
Con
ciò sia che, sia pur detto con pace
De' sommi
dèi che placidi e tranquilli
Vivon sempre
un'età chiara e serena,
Chi
dell'immenso regger può la somma?
Chi del
profondo moderare il freno?
Chi dare il
moto a tutti i cieli e tutte
Di fuochi
eterei riscaldar le terre?
E pronto in
ogni tempo in ogni luogo
Trovarsi,
ond'egli tenebrosi renda
D'atre
nuvole i giorni, e le serene
Regïoni
del ciel con tuono orrendo
Squassi e
vibri talor fulmini ardenti,
E spesso
atterri i propri templi e spesso
Contro i
deserti incrudelisca ed opri
Irato il
telo onde sovente illesi
Restano gli
empi e gl'innocenti oppressi?
In somma; allor che fu creato il mondo
Il mar la
terra e generato il sole,
Gli furo
esternamente intorno aggiunti
Molt'altri
primi corpi ivi lanciati
Dal tutto
immenso, onde la terra e 'l mondo
Crescer
potesse ed apparir lo spazio
Del gran
tempio del cielo e gli alti tetti
Erger lunge
da terra e nascer l'aria.
Poscia che
tutti i corpi ai propri luoghi
Concorron
d'ogni banda, e si ritira
Ciascuno
alla sua spezie, all'acqua l'acqua,
Alla terra
la terra, il foco al foco,
Il cielo al
ciel, finch'all'estremo termine
Di sua
perfezïon giunga ogni cosa,
Ciò
natura operando; a punto come
Suole allora
accader, che nulla omai
Più
di quel che spirando ognor se n'esce
Nelle vene
vitali entrar non puote:
Chè
debbe pur di queste cose allora
L'età
fermarsi e con le proprie forze
La natura
frenare ogni augumento.
Poichè
ciò che si mira a poco a poco
Farsi
più grande e dell'adulta etade
Tutti i
gradi salir, più corpi al certo
Piglia per
sè che fuor di sè non caccia;
Mentre che
per le vene agevolmente
Può
tutto il cibo dispensarsi, ed esse
Non son
diffuse in guisa tal che molto
Ne rimandino
indietro e sia maggiore
Dell'acquisto
la perdita. Chè certo
Forz'è
pur confessar che dalle cose
Spiran corpi
e si partono: ma denno
Corrervi in
maggior copia infin a tanto
Che le
possan toccar l'ultima meta
Del crescer
loro. Indi la forza adulta
Si snerva a
poco a poco e sempre in peggio
L'età
dechina: con ciò sia che, quanto
Una cosa
è più grande, essa per certo,
Toltone
l'augumento, ognor discaccia
Da sè
tanto più corpi; e per le vene
Sparger non
puossi in sì gran copia il cibo,
Che
quant'è d'uopo somministri al corpo
E ciò
ch'ad or ad or langue e vien meno
Sia per
natura a rinnovar bastante.
Dunque a
ragion ciascuna cosa in tutto
Perisce
allor che rarefatta scorre
E che
soggiace alle percosse esterne;
Poichè
per lunga etade il cibo al fine
Manca
senz'alcun dubbio, e mai non cessano
Di martellar
di tormentar le cose
Esternamente
i lor nemici corpi,
Fin ch'e'
non l'hanno dissipate affatto.
Così della gran macchina del mondo
Le mura
eccelse al fin crollate e scosse
Cadranno un
giorno imputridite e marcie;
Poscia che
il cibo dee rinnovellando
Reintegrar
tutte le cose indarno;
Poichè
nè sopportar posson le vene
Ciò
che d'uopo saria, nè la natura
Ciò
che d'uopo saria somministrarli.
E già
manca l'etade; e già la terra
Quasi del
tutto insterilita a pena
Genera
alcuni piccoli animali,
Ella ch'un
tempo generar poteo
Tutte le
specie e smisurati corpi
Dare alle
fiere. Poi che le mortali
Specie,
così cred'io, dal ciel superno
Per qualche
fune d'òr calate al certo
Non furo in
terra, e 'l mar le fonti e i fiumi
Non si creâr
da lagrimanti sassi;
Ma quel
terren, che gli nutrica e pasce
Or di
sè stesso, di sè stesso ancora
Generolli a
principio. Egli a' mortali
Fu bastante
a produrre il grano e l'uva;
Egli i
frutti soavi, egli i fecondi
Paschi ne
diè, ch'in questa etade a pena
Con fatica e
travaglio aver si ponno.
E;
benchè noi degli aratori armenti
Snerviam le
forze, e le robuste braccia
Affatichiam
de' contadini industri,
E ferree
zappe e vomeri e bidenti
Logoriam per
la terra; ella ne porge
A pena il
cibo necessario al vitto:
Talmente il
suolo a poco a poco scema
Di frutto e
sempre le fatiche accresce.
E già
l'afflitto agricoltor sospira
D'aver
più volte consumati indarno
I suoi gravi
travagli; e, quando insieme
I secoli
trascorsi e l'età nostra
Piglia a
paragonar, loda sovente
Le fortune
del padre; e s'ange e duole
Che gli uomini
primieri agevolmente
Fra gli
stretti confini, allor che molto
La misura
de' campi era minore,
Vivesser la
lor vita; e non sovviengli
Ch'a poco a
poco s'infiacchisce il tutto
E stanco al
fin per la soverchia etade
Va di morte
allo scoglio e vi si spezza.
Argomento.
Questo libro non tratta d'altro che
dell'anima umana; era l'obbietto essenziale della filosofia di Epicuro;
è quello altresì in cui pare che Lucrezio appunti tutti i suoi
sforzi. Dopo una specie d'invocazione a Epicuro, come al genio della filosofia,
il cui aiuto gli è specialmente necessario in questa parte del suo
poema, dimostra l'importanza del subbietto che prende a trattare,
inquantochè l'ignoranza degli uomini rispetto alla natura della loro
anima, è causa di quel loro timore della morte che al poeta pare l'unico
fonte di tutti i mali e di tutti i delitti. Entra poi in materia e si sforza di
provare: 1. che l'anima è una parte reale di noi stessi, e non
già un'affezione generale della macchina, un'armonia, come
vollero alcuni filosofi; 2. che l'anima forma una medesima sostanza
unitamente allo spirito, il quale risiede nel centro del petto, laddove
l'anima è sparsa in tutto il corpo; 3. che l'una e l'altro sono corporei,
sebbene constino dei più sottili atomi che siano in natura; 4. che son
tutt'altro che semplici, constando di quattro principj, lo spiro, l'aria,
il calorico, e un quarto (che a quanto pare non è altro che gli spiriti
animali), al quale il poeta non dà nome, e ch'egli considera come
l'anima della nostra anima; 5. che questi quattro principj son misti e
combinati, senza poter mai agire separatamente, non essendo, a dir così,
che proprietà differenti di una medesima sostanza, ma che possono
signoreggiare più o meno, e che di qua origina la differenza dei
caratteri; 6. Che l'anima e il corpo sono siffattamente uniti che non possono
sussistere l'uno senza l'altro; ma che tuttavia non si dee credere, come
opinò Democrito, che ad ogni elemento del corpo risponda un elemento
dell'anima. Esposte partitamente tutte queste cose, egli viene al suo scopo, e
s'industria di provare che l'anima nasce e muore contemporaneamente al corpo;
dogma empio, ch'egli fonda sopra trenta prove; donde conclude che la morte non
è da temere, e che gli uomini si disperano a torto d'uno stato che li
rende quel che erano prima di nascere.
O tu che in mezzo a così buie e dense
Tenebre
d'ignoranza erger potesti
D'alto saver
sì luminosa lampa,
Di nostra
vita i commodi illustrando,
Io seguo te,
te della greca gente
Onore, e de'
piè miei fissi i vestigi
Imprimo ove
tu già l'orme segnasti;
Non per
desio di gareggiar, ma solo
Per dolce
amore ond'imitarti agogno.
Chè
come può la rondinella a prova
Cantar co'
cigni del Caïstro? o come
Ponno
agguagliar le smisurate forze
De' leoni i
capretti, e con le membra
Molli ancor
per l'etade e vacillanti
Vincer nel
corso le veloci damme?
Tu di cose
inventor, tu padre sei,
Tu ne porgi
paterni insegnamenti:
E, qual
succhiar da tutti i fiori il mèle
Soglion le
pecchie entro le piagge apriche,
Tal io dalle
tue dotte inclite carte
Gli aurei
detti delibo ad uno ad uno,
Aurei e di
vita sempiterna degni.
Chè
non sì tosto a sparger cominciossi
Il tuo parer
che dagli dèi creata
Delle cose
non sia l'alma natura,
Che dalle
menti ogni timor si sgombra:
Fuggon del
mondo le muraglie; e veggio
Pel vôto
immenso generarsi il tutto;
De' sommi
dèi la maestà contemplo
E le sedi
quietissime, da' venti
Non commosse
già mai, nè mai coverte
Di fosche
nubi o d'atri nembi asperse,
Nè
vïolate da pruine o nevi
O gel, ma
sempre d'un diffuso e chiaro
E tranquillo
splendor liete e ridenti.
Natura in
oltre somministra all'uomo
Ciò
che gli è d'uopo, e la sua pace interna
Non turba in
alcun tempo alcuna cosa.
Nè
più si mira ai danni nostri aperto
L'inferno e
scritto di sua porta al sommo
— Uscite di
speranza, o voi ch'entrate: —
Nè
può la terra proibir che tutte
Non si mirin
le cose che pel vano
Ci si fan
sotto i piedi. Ond'io rapirmi
A te mi
sento da cotal divino
E diletto e
stupor, che la natura
Sol per tuo
mezzo in cotal guisa a tutti
D'ogni parte
svelata omai si mostri.
E
perchè innanzi abbiam provato a lungo
Quali sian
delle cose i primi semi
E con che
varie forme essi per sè
Vadan pel
vano errando, e sian commossi
Da moto
alterno irrequïeto e vario,
E come possa
da' lor gruppi al mondo
Crearsi il
tutto; omai par che dell'alma
Dichiarar la
natura e della mente
Ne' versi
miei si debba, e 'l rio timore
Delle
squallide rive d'Acheronte
Cacciarne
affatto; il qual dall'imo fondo
Turba
l'umana vita e la contrista,
E sparge il
tutto di pallor di morte,
Nè
prender lascia alcun diletto intero.
Poichè;
quantunque gli uomini sovente
Dican che
più son da temersi i morbi
Del corpo e
della vita il disonore
Che le
tartaree grotte, e che ben sanno
Che
l'essenza dell'animo consiste
Nel sangue,
e che non han bisogno alcuno
Di mie
ragioni; a te di quindi è lecito
Dedur che
molti per ventosa e vana
Ambizïon
di gloria ed a capriccio
Van di
ciò millantandosi che poi
Non approvan
per vero. Essi medesimi,
Esuli dalla
patria e dal commercio
Degli uomini
cacciati, e sozzi e laidi
Per falli
enormi, a tutte le disgrazie
Finalmente
soggetti, il viver bramano;
E, dovunque
infelici il piè rivolgano,
Fanno
esequie dolenti, e nere vittime
Ai numi
inferni del profondo Tartaro
Sol per
placarli in sacrifizio offriscono,
E sempre in
volto paurosi e pallidi
Ne' duri
casi lor nelle miserie
Alla
religïon l'animo affissano.
Ne' dubbiosi
perigli è d'uopo adunque
Agli uomini
por mente e nell'avverse
Fortune, chi
desia ch'i lor interni
Sensi gli
sian ben manifesti e conti;
Poi ch'allor
finalmente escon le vere
Voci
dall'imo petto, e via si toglie
La maschera
e scoperto il volto appare.
In somma;
l'avarizia e degli onori
L'ingorda
brama, che i mortali sciocchi
Sforza a
passar d'ogni giustizia il segno
E
d'ogn'empio misfatto anco tal volta
I compagni i
ministri, e notte e giorno
Durare
intollerabili fatiche
Sol per
salir delle ricchezze al sommo
E potenza
acquistar, scettri e corone;
Sì
fatte piaghe dell'umana vita
Dal timor
della morte hanno in gran parte
Vita e
sostegno. Chè la fama rea
E lo scherno
e 'l disprezzo e la pungente
E sconcia
povertà sembra che lungi
Sia dalla
dolce incommutabil vita
E che sol
della morte avanti all'uscio
Quasi omai
si trattenga: onde i mortali
Mentre da
cieco error forzati e spinti
Tentan
fuggirsi indarno, al civil sangue
Corrono, e
stragi accumulando a stragi
Raddoppian
le ricchezze, empi e crudeli
De' fratelli
e de' padri i funerali
Miran con
lieto ciglio, e de' congiunti
Di sangue
odian le mense e n'han sospetto.
Per lo
stesso timor, nel modo stesso,
L'aver
questi possente avanti agli occhi,
Quel da
tutti stimato e riverito,
D'invidia il
cor gli macera e v'imprime
Desio di
gloria immoderato ardente;
Pargli che
nelle tenebre e nel fango
Sian
convolti i lor nomi. Altri perisce
Di folle
aura di fama o d'insensate
Statue invaghito.
E l'odio della vita
E del sole e
del giorno appo i mortali
Col timor
della morte è misto in guisa,
Ch'ancidon
sè medesmi e dentro al petto
Se ne
dolgono intanto: e non sovviengli
Che sol
questa paura è delle noie
L'origine
primier, questa corrompe
Ogni onesto
pudor, questa i legami
Spezza
dell'amicizia, e questa in somma
Volge
sossopra la pietade e tosto
Dalle radici
la diveglie e schianta:
Con
ciò sia che già molti hanno tradito
E la patria
e' parenti e' genitori,
Sol per
desio di non veder gli orrendi
Templi
sacrati al torvo re dell'ombre.
Poichè,
siccome i fanciulletti al buio
Temon
fantasmi insussistenti e larve,
Sì
noi tal volta paventiamo al sole
Cose che
nulla più son da temersi
Di quelle
che future i fanciulletti
Soglion
fingersi al buio e spaventarsi.
Or sì
vano terror, sì cieche tenebre
Schiarir
bisogna e via cacciar dall'animo,
Non co' be'
rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del
giorno a saettar poc'abili
Fuor che
l'ombre notturne e' sogni pallidi,
Ma col mirar
della natura e intendere
L'occulte
cause e la velata immagine.
L'animo adunque, entro del quale è posto
Della vita
il consiglio et il governo,
E che spesso
da noi mente si chiama,
Prima
dich'io che nulla meno è parte
Dell'uom che
sian l'orecchie, il naso e gli occhi
Parti d'ogni
animale: ancor che grande
Schiera di
saggi abbian creduto e scritto
Che
dell'animo il senso entr'una parte
Certa luogo
non abbia e solamente
Sia del
corpo un cert'abito vitale
Detto
armonia da' Greci, il qual ne faccia
Viver con
senso, benchè in parte alcuna
Non si trovi
la mente; e, quale a punto
Sovente
alcun sano vien detto, e pure
Non è
la sanità parte del corpo,
Tal
dell'animo nostro il senso interno
Non han
locato in una certa parte.
Nel che
parmi che molti abbian errato
Troppo
altamente. Poi che spesso accade
Che
nell'esterno il corpo egro e dolente
Ne sembra
allor che d'altra parte occulta
Pur
s'allegra e festeggia; et all'incontro
V'ha chi
d'animo è afflitto, e in tutto il corpo
Lieto pur
n'apparisce; in quella guisa
Che duol
talora a qualche infermo un piede,
Mentre la
testa alcun dolor non sente.
In oltre;
allor che per le membra serpe
La placida
quïete, e giace effuso
E privo
d'ogni senso il grave corpo;
È pur
in noi qualch'altra cosa intanto
Che s'agita
in più modi, e dentro a sè
Ricever
può d'ogni allegrezza i moti
E le noie
del cuor vane e fugaci.
Or; accio
che tu sappia anco che l'alma
Abita nelle
membra e che non puote
Dalla sola
armonia reggersi il corpo;
Pria
convienti osservar che spesso accade
Che gran
parte di corpo altrui vien tolta,
E pur dentro
alle membra ancor dimora
La vita e
l'alma; pel contrario, spesso
Non
sì tosto fuggirsi alcuni pochi
Corpi di
caldo ed esalò per bocca
Il chiuso
spirto, che le vene e l'ossa
Lascia prive
di sè l'alma e la vita:
Onde tu
possa argomentar da questo
Che non di
tutti i corpi in tutto eguali
Son le
minime parti e che non tutte
La salute
sostentano egualmente,
Ma che i
semi del tiepido vapore
E quei
dell'aura a conservar la vita
Vie
più son atti. Entro del corpo adunque
È lo
spirto vitale e 'l caldo innato,
Che lascia
al fin le moribonde membra
Rigide e
fredde e si dilegua e sfuma.
Onde,
poichè dell'animo e dell'anima
La natura
è dell'uom quasi una parte,
Di' pur che
'l nome d'armonia fu tratto
Dal canoro
Elicona o d'altro luogo
Ed a cosa
applicato che di propria
Voce avea
d'uopo. Or, che che sia di questo,
Tu no 'l
curar, ma gli altri detti ascolta.
L'anima dunque e l'animo congiunti
Son fra di
lor, ed una stessa essenza
Si forma
d'ambedue: ma quasi capo
È del
corpo il consiglio, il qual da noi
Vien detto
animo e mente. E questi in mezzo
Del cuore
è posto; poi che quindi esulta
Il sospetto
e 'l timor, qui l'allegrezza
Molce; qui
dunque ha pur l'animo il seggio.
L'altra
parte dell'anima è diffusa
Per tutto il
corpo, e della mente al moto
Si muove
anch'ella et obbedisce al cenno:
Ma sol per
sè piace a sè stesso e seco
Gode
l'animo, allor che nulla il corpo
Perturba o
l'alma. E; come gli occhi e 'l capo
Sovente in
noi lieve dolore offende,
Mentre che
l'altre membra angoscia alcuna
Non sentono;
in tal guisa anco alle volte
Lieta o
mesta è la mente, ancor che l'altra
Parte
dell'alma per le membra sparsa
Non provi
novità. Ma se commosso
L'animo
è poi da più gagliarda tema,
Veggiam che
tutta per le membra a parte
L'alma
è di ciò: tosto un sudor gelato,
Un esangue
pallor n'occupa il corpo;
Balbutisce
la lingua; e fioche e mozze
Dal petto
escon le voci; abbacinati
Gli occhi in
terra conficcansi; l'orecchie
Sentonsi
zufolar; sotto i ginocchi
Fiacche
treman le gambe e 'l piè vacilla.
Vedesi al
fin che per terror di mente
Spesso l'uom
s'avvilisce; onde ciascuno
Può
di quindi imparar ch'unita e stretta
È
l'anima con l'animo, e che, tosto
Che
l'è spinta da lui, sferza e commuove
Le membra: e
ciò senz'alcun dubbio insegna
Che
l'essenza dell'animo e dell'anima
Incorporea
non è. Ch'ove tu miri
Che la porge
alle membra impulso e moto,
Che nel
sonno le immerge, il volto muta,
E l'uom
tutto a sua voglia agita e volge;
Nè
senza tatto di tai cose alcuna
Far si
può mai nè senza corpo il tatto;
Mestiero
è pur che di corporea essenza
Si confessin
da noi l'alma e la mente.
L'animo, in
oltre, è sottoposto a tutti
Gli
accidenti del corpo, e dentro ad esso
Partecipa
con noi d'ogni suo danno:
Dunqu'è
mestier che per natura anch'egli
Corporeo
sia, mentre nel corpo immerso
Può
da corporei dardi esser piagato.
Or, che corpo sia l'animo e di quali
Semi
formato, in chiari detti esporti
Vo', se
attento m'ascolti. Io dico dunque
Pria ch'egli
è sottilissimo e composto
D'atomi
assai minuti. E, se tu forse
Come
ciò vero sia d'intender brami,
Quindi
intendere il puoi. Nulla più ratto
Far si vede
già mai di quelle cose
Che la mente
propone e ch'ella stessa
A far
comincia. Più veloce adunque
Corre per
sè medesima la mente
D'ogni altra
cosa che veder con gli occhi
Si possa. Ma
di semi assai rotondi
E minuti
convien che sia formato
Quel che
mobile è tanto, acciò che spinti
Da piccolo
momento abbiano il moto.
Che, se
l'acqua si muove e per tantino
Di momento
si mesce, ondeggia e scorre,
Ciò
fa perchè il suo corpo è per natura
D'atomi
molto piccoli e volubili
Contesto: ma
se l'olio o 'l visco o 'l mèle
Più
tenaci han le parti e men veloce
L'umido
innato e vie più tardo il corso,
Questo gli
avvien perchè la lor materia
Stretta
è fra sè con più gagliardo laccio,
Nè di
tanto sottili e sì rotondi
Atomi
è fatta e così lisci e mobili.
Con
ciò sia che sospesa aura leggiera
Può
di molle papavero un gran mucchio
Sforzar col
soffio a dissiparsi affatto,
Ma non
può già per lo contrario un monte
O di pietre
o di dardi. Adunque, quanto
I corpi son
più lievi e più minuti
O più
lisci o più tondi, essi altrettanto
Son
più facili a muoversi; ma, quanto
Son
più gravi all'incontro e più scabrosi,
Essi
altrettanto han più fermezza in loro.
Dunque,
perchè da noi già s'è provato
Che la mente
dell'uomo è mobilissima,
Mestier
sarà ch'i suoi principii primi
Molto
piccioli sian, lisci e rotondi.
Il che se
bene intenderai, saratti
D'utile non
mediocre, ed opportuno
Dar
potrà lume a molte cause occulte.
Ma di che
tenue e sottil seme ell'abbia
L'essenza
intesta e da che picciol luogo
Contenersi
dovria se in un sol gruppo
S'unisse, a
te palese anco da questo
Certamente
farassi: osserva l'uomo,
Tosto che
della morte acquista e gode
La sicura
quïete e che dell'alma
Si fuggío la
natura e della mente:
E nulla dal
suo corpo esser limato
Veder potrai
nella figura esterna,
Nulla nel
peso; ogni altra cosa intatta
Ne conserva
la morte, eccetto il senso
Vitale e 'l
vapor caldo. Adunque è forza
Che di semi
assai piccoli contesta
Sia tutta
l'alma per l'interne viscere,
Per le vene
e pe' muscoli e pe' nervi:
Poichè,
quantunqu'ella s'involi affatto
Dal corpo,
non per tanto illesa resta
D'intorno a
lui la superficie estrema,
Nè
pur gli manca del suo peso un pelo
Qual se dal
vino o dal soave unguento
Sfuma lo
spirto e si dissolve in aura
O d'altro
corpo si dilegua il succo,
Che non
sembra però punto minore
O di mole o
di peso; e ciò succede
Sol
perchè molti piccioli e minuti
Semi i
succhi compongono e l'odore
Comparton
delle cose a tutto il corpo.
Dunque,
voglia o non voglia, è pur mestiero
Che
l'essenza dell'animo e dell'anima
Si confessi
da te fatta di semi
Piccioli
assai, mentre in fuggir dal corpo
Della sua
gravità nulla non toglie.
Nè già creder si dee che tal natura
Semplice
sia: poich'un sottile spirto
Misto con
vapor caldo a' moribondi
Dal petto
esala, e 'l vapor caldo a forza
Trae seco
d'aria qualche parte, e mai
Non si trova
calor ch'in sè mischiato
Aere non
abbia; poichè, rara essendo
La sua
natura, è necessario al certo
Che fra gli
atomi suoi molti principii
D'aria siano
agitati. Or dunque omai
Della mente
e dell'alma abbiam trovato
Tre varie
essenze: e pur tre varie essenze
Non son
bastanti a generare il senso:
Con
ciò sia che capir nostro intelletto
Non
può già mai come di queste alcuna
Basti a
produrre i sensitivi moti
Ch'a
più cose applicar possan la mente.
D'uopo fia
dunque aggiungergli una quarta
Natura: e
questa totalmente è priva
Di nome,
nè di lei si trova al mondo
Più
mobil cosa o di più tenue e raro
Corpo e
ch'intesto sia di più minuti
O di
più lisci e più rotondi semi.
Questa pria
per le membra i sensitivi
Moti
distribuisce, e, perchè fatta
È
d'atomi assai piccioli, si muove
Pria d'ogni
altra natura: il caldo quindi,
Quindi
dell'aura l'invisibil forza
Riceve il
moto; e quindi l'aere e quindi
Si mobilita
il tutto. Il sangue scorre,
Senton tutte
le viscere, e concesso
È
finalmente all'ossa e alle midolle
Il diletto e
'l dolor. Nè questo o l'acre
Infirmità
può penetrarvi mai
Senza che 'l
tutto si perturbi, in guisa
Che luogo al
viver manchi e che dell'alma
Fugga ogni
parte pe' meati occulti
Del nostro
corpo; ancor che spesso accaggia
Che restino
interrotti i movimenti
Quasi al
sommo del corpo, e sia bastante
L'uomo in
tal caso a conservarsi in vita.
Or, mentr'io bramo di narrarti a pieno
Come sian
fra di lor queste nature
Mescolate
nel corpo et in qual modo
Abbian forza
e vigor, me ne ritragge
La
povertà della romana lingua:
Ma pur,
com'io potrò, sommariamente
Dirolti. Poi
che de' principii i corpi
Trascorron
l'un con l'altro uniti in guisa
Che alcun
non se ne sèpara, nè mai
Crear si
può per interposto spazio
Un diverso
poter, ma quasi molte
Potenze sono
in un sol gruppo unite.
E qual degli
animai l'interne viscere
Han tutte un
certo odore, un certo caldo
Et un certo
sapore, e pur veggiamo
Che di
queste tre cose una sol cosa
Non per
tanto si crea; tale il calore
E l'aere e
la virtù cieca del vento
Fan tra lor
misti una natura sola
Con questa
per sè mobile energia
Ch'i
movimenti gli comparte ed onde
Fin per
entro alle viscere si crea,
Prima che
altrove, il sensitivo moto.
Poscia che
tal natura affatto occulta
È
senza dubbio alcuno, e più riposta
Cosa di
questa immaginar non puossi
Da noi,
perch'ella stessa alma è dell'alma.
E; qual
dentro alle membra e 'n tutto il corpo
Stassi misto
ed occulto e della mente
E dell'alma
il vigor, perchè di semi
Tenui e
piccoli è fatto; in simil guisa
Questa tale
energia priva di nome
È di
corpi assai piccoli e sottili
Creata
anch'ella, e sta nel corpo ascosta
Alma di
tutta l'alma e signoreggia
In tutto il
corpo. Or in tal modo è d'uopo
Che l'aura e
l'aere e 'l vapor caldo insieme
Misti sian
per le membra e che altri ed altri
Stian
più sotto o più sopra, acciò che possa
Farsi di
tutti un sol composto, e 'l foco
Distintamente
e 'l caldo e l'energia
Dell'aere il
senso non ancida e sciolga.
È
nell'animo poi cert'altro caldo
Ch'ei piglia
nello sdegno allor che ferve,
E che per
gli occhi torvi incendio spira:
V'è
del freddo timor compagna eterna
Molt'aura
sparsa, atta a produr nel corpo
L'orror di
morte e concitar le membra:
Ed evvi
ancor quel placido e quïeto
Stato
dell'aria, che dall'uom si gode
Nel cuor
tranquillo e nel sereno volto.
Ma vie
più di calor si trova in quelli
Che di cor
son crudeli ed iracondi
D'animo e
facilmente ardon di sdegno:
Qual sovra
ogni altra cosa è la possanza
E 'l furor
degl'indomiti leoni,
Che gemendo
e mugghiando orribilmente
Squarcian
tal volta il petto e più non ponno
In lor capir
di sì grand'ira il flutto.
Ma le timide
cerve han più ventosa
E più
fredda la mente, e per le viscere
Concitan vie
più presto aure gelate
Che fan
sovente irrigidir le membra.
Ma d'aria al
fin più placida e tranquilla
Vive il
gregge arator; nè mai soverchio
Dell'ira il
turba la fumante face,
Di caligine
cieca ombre spargendo;
Nè
mai dal tèlo del timor trafitto
Gelido
torpe; ma nel mezzo è posto
Tra' paurosi
cervi e' leon fieri.
Tal anco
è l'uman germe: e, benchè molti
Siano
egualmente di dottrina adorni,
Restan
però nella natura impresse
Di
qualunqu'alma le vestigia prime.
Nè
già creder si dee che la virtude,
Siasi
quant'esser voglia eccelsa e grande,
Sveglier
possa già mai dalle radici
Dell'uomo i
vizi e proibir che questi
Più
facilmente non trascorra all'ira,
Quei dal
freddo timor più presto alquanto
Assalito non
venga, e più del giusto
Non sia quel
terzo placido e clemente.
Anzi
è mestier che in altre cose assai
Degli uomini
fra lor sian differenti
Le nature e
diversi anco i costumi
Che dependon
da quelle. E; s'io non posso
Di tai cose
esplicar le cause occulte,
Nè
tanti nomi di figure imporre
Quanti
d'uopo sariano a quei principii
Onde
sì gran diversità di cose
Nasce nel
mondo; io per me credo almeno
Di poter
affermar che i naturali
Primi
vestigi, che non puote affatto
Discacciar
la ragion, sì lievemente
Restino
impressi in noi, che nulla possa
Vietare
all'uom che placida e tranquilla
E degna
degli dèi vita non viva.
Così fatta natura è sparsa adunque
Pel corpo, e
'l custodisce e lo conserva:
Poichè
l'anima e 'l corpo han le radici
Sì
strettamente avviticchiate insieme,
Che
impossibil mi par che possan l'une
Dall'altre
esser divelte e che 'l composto
Ratto a
morte non corra. E, quale a punto
Mal si
può dall'incenso estrar l'odore
Senza ch'ei
pèra e si corrompa affatto,
Tal
dell'alma e dell'animo l'essenza
Mal
diveglier si può dal nostro corpo
Senza ch'ei
muoia e si dissolva il tutto.
Così
fin dall'origine primiero
Create son
d'avviluppati semi
Le predette
nature, ed han comune
Fra lor la
vita; nè capir si puote
Come nulla
sentir possano i corpi
Dalle menti
divisi o pur le menti
Separate da'
corpi: ond'è pur d'uopo
Che di moti
comuni e quinci e quindi
Per le
viscere a noi s'accenda il senso.
In oltre;
non si genera nè cresce
Mai per
sè stesso il corpo, e d'alma privo
Tosto
s'imputridisce e si corrompe.
Poichè;
quantunque il molle umor dell'acque
Perda spesso
il sapor che gli fu dato,
Nè
per ciò sia distrutto, anzi rimanga
Senz'alcun
danno; non per tanto i corpi
Non son
bastanti a sofferir che l'alma
Si parta e
gli abbandoni, ma convulsi
Muoion del
tutto e fansi esca de' vermi;
Poichè
fin da principio, anco riposti
Nelle membra
materne e dentro all'alvo,
Hanno i moti
vitali in guisa uniti
E
scambievoli i morbi il corpo e l'alma,
Che non
può l'un dall'altro esser diviso
Senza peste
comun: tu quindi adunque
Ben conoscer
potrai, che, se congiunta
La causa
è di salute, è d'uopo ancora
Che unita
sia la lor natura e l'essere.
Nel rimanente poi, s'alcun rifiuta
Che senta il
corpo e crede pur che l'alma
Sparsa per
ogni membro abbia quel moto
Che senso ha
nome, egli per certo impugna
Cose veraci
e manifeste al senso.
Chè,
chi mai potrà dire in che consista
Del corpo il
senso, altro che 'l senso istesso
Che sol
n'addita e ne fa noto il tutto?
Nè
qui sia chi risponda — Il corpo privo
D'anima,
resta anco di senso ignudo: —
Posciach'egli,
oltre a ciò, molt'altre cose
Perde
senz'alcun dubbio, allor che lunga
Età
l'opprime e lo converte in polve.
Ma, l'affermar
che gli occhi oggetto alcuno
Veder non
ponno e che la mente è quella
Che rimira
per lor come per due
Spalancate
finestre, a me per certo
Difficil
sembra e che 'l contrario a punto
Degli occhi
stessi ne dimostri il senso;
Massime
allor che per soverchia luce
Ne vien
tolto il veder de' rai del sole
L'aureo
fulgor, perchè da' lumi i lumi
Son tal
volta oscurati. Or ciò non puote
Alle porte
accader; chè gli usci aperti
D'onde noi
riguardiamo alcun travaglio
Non han
già mai. Ma se i nostr'occhi in oltre,
Ci servon
d'usci, ragionevol parmi
Che,
traendoli fuor, debba la mente
Meglio veder
senza le stesse imposte.
Nè
qui ricever dèi per cosa vera,
Ben che tal
la stimasse il gran Democrito,
Che del
corpo e dell'alma i primi semi
Posti l'un
presso all'altro alternamente
Varie
faccian le membra e si colleghino.
Poichè
non sol dell'anima i principii
Son di
quegli del corpo assai minori,
Ma gli cedon
di numero e più rari
Son dispersi
per esso: onde affermare
Questo solo
potrai, che tanti spazi
Denno
appunto occupar dell'alma i semi,
Quanti
bastano a noi per generare
I moti
sensitivi entro alle membra.
Poichè
tal volta non sentiam la polve
Nè la
creta aderente al nostro corpo,
Nè la
nebbia notturna, nè le tele
De' ragni
allor che nell'andarli incontro
Vi restiamo
irretiti, nè la spoglia
Degli stessi
animai quando sul capo
Ci casca,
nè le tele degli uccelli,
Nè
de' cardi spinosi i fior volanti,
Che per
soverchia leggerezza in giuso
Caggion
difficilmente: e non sentiamo
Il cheto
andar d'ogni animal che repa,
Nè
tutti ad uno ad uno i segni impressi
In noi dalle
zanzare. In cotal guisa
D'uopo
è che molti genitali corpi
Muovansi per
le membra ove son misti,
Pria che
dell'alma gli acquistati semi
Possan,
disgiunti per sì grande spazio,
Sentire e
martellando urtarsi, unirsi
E saltar a
vicenda in varie parti.
Ma vie più della vita i chiostri serra
L'animo a
noi che l'energia dell'alma,
E più
ne regge e signoreggia i sensi.
Con
ciò sia che dell'alma alcuna parte
Non
può per alcun tempo ancor che breve
Riseder
senza mente entro alle membra;
Ma compagna
la segue agevolmente,
E fuggendo
per l'aure il corpo lascia
Nel duro
freddo della morte involto.
Ma quegli a
cui la mente illesa resta
Vivo rimane,
ancor che d'ogni intorno
Abbia lacero
il corpo: il tronco busto,
Ben che
tolte gli sian l'alma e le membra,
Pur vive e
le vitali aure respira,
E, dell'alma
in gran parte orbo restando
Se non in
tutto, non pertanto in vita
Trattiensi e
si conserva; a punto come
L'occhio
ritien la facoltà visiva,
Quantunque
intorno cincischiato e lacero,
Fin che gli
resta la pupilla intatta,
Pur che tu
l'orbe suo tutto non guasti
Ma tagli
intorno al cristallino umore
E solo il
lasci; con ciò sia che farlo
Anco il
potrai senza timore alcuno
Dell'esterminio
suo; ma, se corrosa
Fia la
pupilla, ancor che sia dell'occhio
Una minima
parte, e tutto il resto,
Dell'orbe
illeso e splendido rimanga,
Tosto il
lume tramonta e buia notte
N'ingombra.
Or sempre una tal lega a punto
Tien
congiunti fra lor l'animo e l'alma.
Or via;
perchè tu, Memmo, intender possa
Che son
degli animai l'alme e le menti
Natie non
pur ma sottoposte a morte;
Io vo'
seguire ad ordinar condegni
Versi della
tua vita e da me cerchi
Lungo spazio
di tempo e ritrovati
Con soave
fatica. Or su, fra tanto
L'un di
questi due nomi all'altro accoppia;
E, quand'io,
verbigrazia, esser mortale
L'alma
t'insegno, a creder t'apparecchia
Che tale
anco è la mente; in quanto l'una
Fa congiunta
con l'altra un sol composto.
Pria:
perchè già la dimostrammo innanzi
Di corpi
sottilissimi e minuti
E fatta di
principii assai minori
Di quegli
onde si forma il molle corpo
Dell'acqua o
della nebbia o 'l fumo o 'l vento;
Poichè
nell'esser mobile d'assai
Vince tai
cose, e per cagion più lieve
È
sovente agitata; anzi tal volta
Commossa
è sol da simolacri ignudi
In lei
dall'acqua o dalla nebbia impressi
O dal fumo o
dal vento: il che succede
Qualor
sopiti in placida quïete
Veggiamo e
di caligine e di fumo
L'aere
intorno ingombrar sublimi altari,
Poscia che
tali imagini per certo
Formansi in
noi. Or; se tu vedi adunque
Che rotti i
vasi in ogni parte scorre
L'acqua e
via se ne fugge, e che la nebbia
E 'l fumo e
'l vento si dissolve in aura;
Ben creder
dèi che l'anima e la mente
Si distrugga
e perisca assai più presto,
E che in
tempo minore i suoi principii
Sian
dissipati, allor ch'una sol volta
Rapita dalle
membra si diparte.
Con
ciò sia che; se 'l corpo, il quale ad essa
Serve in
vece di vaso, o perchè rotto
Sia da
qualche percossa o rarefatto
Per mancanza
di sangue, omai bastante
A frenarla
non è; come potrai
Creder che
vaglia a ritenerla alcuno
Aere che la
circondi? Egli del nostro
Corpo
è più raro: e con più forte laccio
Stringer
potralla ed impedirle il corso?
In oltre; il senso ne dimostra aperto
Nascer la
mente in compagnia del corpo
E crescer
anco ed invecchiar con esso.
Poichè,
siccome i piccoli fanciulli
Han tenere
le membra e vacillante
Il
pargoletto piè, così veggiamo
Che
dell'animo lor debile e molle
È la
virtù: ma, se crescendo il corpo
S'augumenta
di forze, anco il consiglio
Maggior
diviene e della mente adulta
Più
robusto è 'l vigor: se al fin crollato
È
dagli urti del tempo e vecchio omai
Langue il
corpo e vien meno e se le membra
Perdon
l'usate forze, anco l'ingegno
Zoppica, e,
delirando in un sol punto
E la lingua
e la mente, il tutto manca.
Dunqu'è
mestier che tutta anco dell'alma
La natura si
dissipi, qual fumo
Per l'aure
aeree; poichè nasce e cresce
Col corpo, e
per l'etade al fin diventa,
Com'io
già t'insegnai, debile e fiacca.
S'arroge a ciò, che, se veggiamo il corpo
Soggetto a
duri morbi e a dure ed aspre
Battaglie,
anco la mente alle mordaci
Cure
è soggetta alle paure al pianto:
Per la qual
cosa esser del rogo a parte
Anco gli
è d'uopo. Anzi, sovente accade
Che, mentre
il nostro corpo infermo langue,
L'animo
vagabondo esce di strada;
Poichè
spesso vaneggia e di sè fuori
Parla cose
da pazzi, ed è tal volta
Da letargo
durissimo e mortale
Sommerso in
alto e grave sonno eterno;
Cade il
volto sul petto, e fissi in terra
Stan gli
occhi, ond'egli o le parole udire
O conoscer i
volti omai non puote
Di chi,
standogl'intorno e procurando
Di
richiamarlo in vita, afflitto e mesto
Bagna
d'amare lagrime le gote.
Ond'è
pur d'uopo il confessar che l'alma
Perisce
anch'ella, mentre in lei penétra
Il contagio
de' morbi, e 'l duolo e 'l morbo
Ambi del
rogo a noi sono architetti;
Come di
molti l'esterminio insegna.
In somma;
per qual causa, allor che l'atra
Vïolenza
del vino ha penetrato
Dell'uomo il
corpo e per le vene interne
È
diffuso l'ardor, tosto ne segue
Gravezza
nelle membra, il piè traballa,
Balbutisce
la lingua, ebra vaneggia
La mente,
nuotan gli occhi, e crescon tosto
E le grida e
i singhiozzi e le contese
E tutto
ciò che s'appartiene a questo?
Or
perchè ciò? se non perchè la forza
Vïolenta
del vino entro allo stesso
Corpo anco
l'alma ha di turbar costume?
Ma tutto
quel che da cagione esterna
Turbar si
puote et impedir, ne mostra
Che, s'egli
fia da più molesto incontro
Turbato,
perirà, restando affatto
Della futura
età privo in eterno.
Anzi:
sovente innanzi agli occhi nostri
Veggiamo
alcun da repentino morbo
Cader, quasi
da fulmine percosso:
Lordo ha il
volto di bava, e geme e trema,
Esce fuor di
sè stesso, i nervi stende,
E si crucia
ed anela, ed incostante
Dibatte e
stanca in varie guise il corpo;
Poichè
del morbo la possanza allora
Per le
membra distratta, agita e turba
L'alma e
spuma, qual onda in salso mare,
Se borea il
fiede impetuoso od austro,
Gorgoglia e
bolle. Il pianto indi s'esprime,
Sol
perchè punte dal dolor le membra
Fan che
scacciati delle voci i semi
Escon per
bocca avviluppati insieme:
Nasce il
delirio poi, perchè l'interna
Virtù
dell'alma e della mente allora
Si turba, e,
com'io dissi, in due divisa
Vien sovente
agitata, e quinci e quindi
Dallo stesso
velen sparsa e distratta.
Ma, se 'l
fiero accidente omai si placa
E l'atro
umor del già corrotto corpo
Ne'
ripostigli suoi fugge e s'asconde,
Prima allor
vacillando in piè si rizza,
E quindi in
tutti a poco a poco i sensi
Riede e
l'alma ripiglia. Or questa dunque,
Mentre
chiusa è nel corpo, avrà da tanti
Morbi
travaglio e fia distratta e sparsa
In
così varie e miserande guise,
E creder
vuoi ch'ella medesma possa
Priva
affatto del corpo all'aere aperto
Viver fra i
venti e le tempeste e i nembi?
Perchè,
in oltre, sanar con medic'arte
Si
può la mente com'il corpo infermo
E sedarne i
tumulti; anco da questo
Apprender
puoi che l'è soggetta a morte.
Poich'è
mestier ch'aggiunga parti a parti
E l'ordin
cangi o dall'intera somma
Qualche cosa
detragga ognun che piglia
A
varïar la mente o qualunqu'altra
Corporea
essenza trasmutar procura.
Ma possibil
non è che l'immortale
Cangi sito
di parti o nulla altronde
Riceva o
perda del suo proprio un iota:
Poichè,
qualunque corpo il termin passa
Da natura
prescritto all'esser suo,
Quest'è
sua morte, e non è più quel desso.
L'animo
adunque, o sia da morbo oppresso
O da medica
man restituito
Nel primiero
vigor, chiaro ne mostra,
Com'io
già t'insegnai, d'esser mortale.
Talmente par
ch'alla ragion fallace
S'opponga il
vero e gl'interchiuda affatto
Di refugio e
di scampo ogni speranza,
E con doppio
argomento il falso atterri.
Spesso, in somma, veggiam ch'a poco a poco
Perisce
l'uomo e perde il vital senso
A membro a
membro: pria l'ugna e le dita
Livide
fansi, i piè quindi e le gambe
Muoiono, e
scorre poi di tratto in tratto
Per l'altre
membra il duro gel di morte.
Or, se
dell'alma la natura adunque
Si divide in
più parti e nello stesso
Tempo non
è sincera, ella si debbe
Creder
mortale. E, se tu forse stimi
Ch'ella se
stessa in sè possa ritrarre
E le sue
parti in un sol gruppo accôrre
E che per
questo ad un ad un le membra
Perdano il
vital senso, erri e vaneggi:
Poichè,
ciò concedendo, il luogo almeno
In cui
s'unisce in sì gran copia l'alma
Avria senso
maggior; ma questo luogo
Non si vede
già mai; perchè stracciata,
Com'io
già dissi, e lacerata in molte
Parti fuor
si disperge, e però muore.
Anzi; se pur
ne piace omai supporre
Per vero il
falso e dir che possa insieme
L'alma
aggomitolarsi entro alle membra
Di quei che
moribondi a parte a parte
Pérdono il
senso; non per tanto è d'uopo
Che mortal
si confessi: e poco monta
Ch'ella per
l'aere si disperga o ch'ella,
Ritirando in
sè stessa ogni sua parte,
Stupida
resti e d'ogni moto priva;
Mentre
già tutto l'uomo il senso perde
Più e
più d'ogn'intorno, e d'ogn'intorno
Meno e meno
di vita omai gli avanza.
Aggiungi che dell'uomo una tal parte
Determinata
è l'animo et in luogo
Certo
risiede, in quella guisa appunto
Che fan gli
occhi e gli orecchi e gli altri sensi
Che governan
le membra; onde, siccome
E le mani e
gli orecchi e gli occhi e 'l naso
Separati da
noi sentir non ponno
Nè
lungo tempo conservarsi in vita;
Così
non può per sè medesma e priva
Del corpo
esser la mente e senza l'uomo,
Che gli
serve di vaso o di qualunque
Altra natura
immaginar tu possa
Più
congiunta con lei, perch'ella al corpo
Con forte
laccio è saldamente unita.
Finalmente:
e dell'animo e del corpo
Le vivaci
energie sane e robuste
Godon
congiunte i dolci rai del giorno:
Chè
priva delle membra e per sè sola
Non
può la mente esercitare i moti
Vitali, ed
all'incontro orbe dell'alma
Non
pòn le membra esercitare i sensi.
Ma, qual, se
tratto dalla testa un occhio
Lungi 'l
getti dal corpo, egli non vede
Nulla per
sè, tal separate ancora
Dall'uom
l'alma e la mente oprar non ponno
Nulla:
poichè mischiate e per le vene
E per l'ossa
e pe' nervi e per le viscere
Trovansi in
tutto il corpo, e i primi semi
Non ponno in
varie parti a lor talento
Lungi
saltare; onde ristretti insieme
Creano i
moti sensiferi, che poscia
Dopo morte a
crear non son bastanti
Poichè
più non gli frena il freno stesso;
Chè
corpo insieme ed animal sarebbe
L'aere per
certo, se frenar se stessa
L'anima vi
potesse e far quei moti
Che pria nel
corpo esercitar solea
Per opera
de' nervi. Ond'è pur forza
Che, poi che
risoluto ogni coperchio
Fia del
corpo dell'uomo e fuor cacciata
La dolce
aura vitale, anco dell'alma
E della
mente si dissolva il senso,
Mentre la
stessa causa a due fa guerra.
Se 'l corpo, in somma, tollerar non puote
Dell'anima
il partir senza che tosto
S'imputridisca
e d'ogn'intorno spanda
Alito
abominevole et orrendo,
Perchè
dubbiar che sin dall'imo fondo
Sradicata da
lui, ratta non fugga
Sparsa qual
fumo l'energia dell'alma,
Onde per
così putrida e sì grande
Ruina il
corpo varïato e guasto
Perisca
affatto? con ciò sia che mossi
Son da'
propri lor luoghi i fondamenti
Dell'alma, e
per le membra esalan fuori,
E per tutte
le vie curve del corpo
E per tutti
i meati; onde tu possa
Quind'imparar
che per le membra uscío
Divisa
l'alma in varie parti, e prima
Fu nel corpo
medesimo distratta
Essa da
sè che fuor di lui sospinta.
Anzi; mentre
che l'anima si spazia
Ne' confin
della vita, a noi sovente
Par nondimen
che la perisca oppressa
Per qualche
causa, e che dal corpo esangue
Si dissolvan
le membra, e quasi giunga
All'estremo
suo dì languido il volto:
Come suole
accader quando sovente
Cascan gli
uomini in terra, allor ch'ognuno
Trema
insieme e desia di ritenere
L'ultimo
laccio alle mancanti forze;
Poich'allor
della mente ogni vigore
Si squassa,
e seco ogni virtù dell'alma
Aspramente
si crolla, e con lo stesso
Corpo
ambedue s'indeboliscon tanto
Che
dissolverle affatto omai potrebbe
Causa poco
più grave. E nondimeno
Dubbiar
vorrai che, finalmente uscita
L'anima fuor
del corpo all'aria aperta
Debile e
stanca e di ritegno priva,
Non sol non
duri eternamente intatta,
Ma nè
pur si conservi un sol momento?
Con
ciò sia che non sembra ai moribondi
Di sentir
accostar l'anima illesa
Al petto
indi alla gola indi alle fauci;
Ma gli par
che perisca in un tal sito
A lei
prefisso, in quella guisa a punto
Che sa
ciascun di noi ch'ogni altro senso
Nella
propria sua parte si dissolve.
Chè
se pure immortal fosse la mente,
Essa
già mai non si dorria morendo
D'esser
disciolta dal mortal suo laccio,
Anzi di
volar via libera e snella
Goder
dovrebbe e di lasciar la veste,
Qual gode di
depor l'antica spoglia
L'angue
già vecchio e le sue corna il cervo.
In somma; perchè mai non si produce
Dell'animo
il consiglio o nella testa
O nel dorso
o ne' piedi o nelle mani,
Ma sempre
sta tenacemente affisso
In quel sito
medesmo in cui natura
Da prima il
collocò; se pur non sono
Prescritti i
luoghi ove ogni cosa possa
Nascere e
nata conservarsi in vita?
Chè
tutti i corpi han le lor sedi, e mai
Non suol per
entro alle pruine algenti
Nascer il
foco o tra le fiamme il ghiaccio.
In oltre; se dell'anima l'essenza
A morte non
soggiace e può sentire
Separata dal
corpo, a quel ch'io stimo,
Forza
sarà che la si creda ornata
De' cinque
sentimenti: e noi medesmi
In
null'altra maniera a noi proporre
Possiam che
l'alme per l'inferno errando
Vadano: onde
i pittori e de' poeti
I secoli
primieri in cotal guisa
L'alme
introdusser d'ogni senso ornate.
Ma non
posson per sè privi dell'alma
O le mani o
la lingua o 'l naso o gli occhi
O l'orecchie
goder vita nè senso;
Nè
per sè ponno i sensi, e senza mani
E senza
lingua e senza orecchie e senza
Occhi e
naso, goder senso nè vita.
E, perchè il senso esser ne mostra il senso
Comune a
tutto il corpo ed ognun vede
Ch'animale
è 'l composto, egli è pur d'uopo
Che, se
questo con subita percossa
Si ferisce
nel mezzo in guisa tale
Che restin
separate ambe le parti,
E divisa e
stracciato anco dell'alma
Sia col
corpo il vigore e quinci e quindi
Senza alcun
dubbio seminato e sparso.
Ma
ciò che si divide et in più d'una
Parte si
sparge, per sè stesso nega
D'esser
dotato di natura eterna.
Fama
è che pria nelle battaglie er'uso
L'oprar
carri falcati, e che da questi
Spesso di mista
uccisïon fumanti
Sì
repente solean l'umane membra
Tronche
restar che già cadute in terra
Tremar
parean benchè divise affatto
Dal restante
del corpo, ancor che l'animo
E dell'uom
l'energia nulla sentisse
Per la
prestezza di quel male il duolo:
Sol perchè
tutto allor l'animo intento
Era in un
con le membra al fiero Marte,
Alle morti
alle stragi, e di null'altro
Parea che
gli calesse, e non sapea
Che le ruote
e le falci aspre e rapaci
Gli avean
pel campo strascinato a forza
Già
con lo scudo la sinistra mano.
Nè
s'accorge talun, mentre in battaglia
Salta a
cavallo e furïoso corre,
D'aver perso
la destra. Un altro tenta
D'ergersi,
ancor che d'uno stinco affatto
Privo,
mentre nel suolo il piè morendo
Divincola le
dita. E 'l capo in terra
Tronco dal
caldo e vivo busto al vôlto
Mostra segni
vitali ed apre gli occhi,
Finchè
dell'alma ogni reliquia esali.
Anzi; se,
mentre il minaccevol serpe
Sta vibrando
tre lingue, a te piacesse
Di tagliar
con la spada in varie parti
La lunga
coda sua, veder potresti
Che ciascuna
per sè di fresco incisa
S'attorce e
sparge di veleno il suolo,
E con la
bocca sè medesma indietro
Cerca la
prima parte e 'l dente crudo
Vi ficca in
guisa che pel duolo acerbo
Crucïata
l'impiaga e con l'ardente
Morso
l'opprime. Or direm noi ch'in tutte
Quelle
minime parti un'alma intera
Si trovi? ma
da ciò segue che molte
Anime siano
in un sol corpo unite.
Dunque
divisa è pur quella che sola
Fu prima;
onde mortale e l'alma e 'l corpo
Stimar si
dee, giacchè ugualmente entrambi
Possono in
varie parti esser divisi.
Se l'alma, in oltre, è per natura eterna
E nel corpo
a chi nasce occultamente
Penetra; e
per qual causa altri non puote
Rammemorarsi
i secoli trascorsi,
Nè
delle cose da lei fatte alcuno
Vestigio
ritener? Poichè, se tanto
La
virtù della mente in noi si cangia
Che resti
affatto ogni memoria estinta
Delle cose
operate, al creder mio,
Ciò
dalla morte omai lungi non erra.
Sì
che d'uopo ti fia dir che perisce
L'alma di
prima, e ch'all'incontro quella
Ch'or nel
corpo dimora or si creasse.
Aggiungi che; s'in noi l'animo è chiuso,
Poi che 'l
corpo è perfetto, allor che nasce
L'uomo e che
pria ne' limitari il piede
Pon della
vita; in nessun modo al certo
Non convenia
ch'egli nel sangue immerso
Col corpo e
con le membra in simil guisa
Crescer
paresse; anzi per sè dovria
Viver solo a
sè stesso e quasi in gabbia.
Onde, voglia
o non voglia, è pur mestiero
Che si
credan da noi l'alme e le menti
Natíe non
pur ma sottoposte a morte.
Posciachè,
se di fuori insinuate
Fossero, non
potrian sì strettamente
Ai corpi
unirsi: il che pur mostra aperto
Il senso a
noi; mentre connesse in guisa
Per le vene,
pe' nervi e per le viscere
Sono e per
l'ossa, che gli stessi denti
Son di senso
partecipi, siccome
N'additano i
lor mali e lo stridore
Dell'acqua
fredda e le pietruzze infrante
Da noi con
essi in masticando il pane:
Nè,
sì conteste essendo, uscirne intatte
Potranno e
salve sè medesme sciôrre
E da' nervi
e dall'ossa e dagli articoli.
Chè
se tu forse penetrar ti credi
L'anima per
le membra insinuata
Di fuor in
noi, tanto più dee col corpo
Putrefatta
perir; poichè disfassi
Tutto
ciò che penètra, e però muore:
Con
ciò sia che divisa al fin si spande
Pe' meati
insensibili del corpo.
E qual, se
per le membra è compartito,
Tosto il
cibo perisce e di sè stesso
Porge
ristoro e nutrimento al corpo,
Tal
dell'alma e dell'animo l'essenza,
Benchè
novellamente entri nel corpo
Intera,
nondimen pur si dissolve
Mentre il
penètra e che pe' fóri occulti
Vengon
distribuite ad ogni membro
Le sue
minime parti, onde si forma
Quest'altra
essenza d'animo che poscia
Donna
è del corpo e che di nuovo è nata
Di quella
che perío distribuita
Già
per le membra. Onde non par che l'alma
Priva sia di
natal nè di ferètro.
In oltre; non rimangono i principii
Dell'anima
nel corpo ancor che morto?
Che se pur
vi rimangono e vi stanno,
Non par che
giustamente ella si possa
Giudicare
immortal, poichè libata
Fuor se ne
gío parte di sè lasciando:
Ma, s'ella
poi dalle sincere membra
Se 'n fugge
in guisa che nel corpo alcuna
Parte di
sè medesima non lascia,
Onde spirano
i vermi entro alle viscere
Già
rance de' cadaveri, e sì grande
Numero
d'animali affatto privi
D'ossa e di
sangue in ogni parte ondeggia
Per le
tumide membra e per gli articoli?
Chè
se tu forse insinuarsi a' vermi
L'anime
credi e per di fuori entrare
Ignude entro
i lor corpi, e non consideri
Come mill'e
mill'anime s'adunano
In quel
corpo medesmo ond'una sola
Già
si partío; ciò nondimeno è tale
Che sembra
pur che ricercar si debba
È
forte dubitar, che l'alme i semi
Si procaccin
de' vermi ad uno ad uno
E ne' luoghi
ove sono esse per sè
Si
fabbrichin le membra o pur di fuori
Sian ne'
corpi già fatti insinuate.
Ma,
nè come operar debbiano o come
Affaticarsi
l'anime, ridire
Non puossi:
con ciò sia che senza corpo
Inquïete
e sollecite non vanno
Qua e
là svolazzando a forza spinte
O dal male o
dal freddo o dalla fame;
Chè
per questi difetti ed a tal fine
Par che
più tosto s'affatichi il corpo,
E ch'entro a
lui del suo contagio infetto
L'animo a
molte infermità soggiaccia.
Ma concedasi
pur che giovi all'alme
Il
fabbricarsi i corpi in quello stesso
Tempo che vi
sottentrano: ma come
Debbian
ciò fare imaginar non puossi.
Esse dunque
per sè le proprie membra
Fabbricar
non potranno: e non per tanto
Giudicar non
si dee ch'insinuate
Sian ne'
corpi già fatti, imperciocchè
Non potrian
sottilmente esser connesse
Nè
sottoposte per consenso a' morbi.
Al fine: ond'è che vïolenta forza
De' superbi
leon sempre accompagna
La semenza
crudele? e che da' padri
Han le volpi
l'astuzia? e per natura
Fuggono i
cervi ov'il timor gli caccia?
E l'altre proprietà
simili a queste
Ond'è
che tutte per le membra innate
Sembrano in
noi? se non perch'una certa
Energia
della mente in un con tutto
Il corpo
cresce del suo seme e della
Propria
semenza? Che se fosse immune
Da morte e
corpo varïar solesse,
Permiste avrian
le qualità fra loro
Gli animali,
e potrebbe ircana tigre
Cani produr
che de' cornuti cervi
Paventasser
l'incontro, e lo sparviero
Gli assalti
fuggiria delle colombe
Per l'aure
aeree timido e tremante,
Pazzo ogni
uomo saria, saggia ogni fera.
Poichè
falso è che l'anima immortale,
Come alcun
dice, in varïando il corpo
Si cangi:
con ciò sia che si dissolve
Tutto
ciò che si cangia e però muore;
Giacchè
le parti sue l'ordin primiero
Mutano, onde
poter debbono ancora
Per le
membra dissolversi e perire
Finalmente
col corpo. E, se diranno
Che sempre
in corpi umani anime umane
Entrino, io
chiederògli ond'è che possa
Pazza di
saggia divenir la mente?
Nè
prudente già mai nessun fanciullo
Si trovi,
nè puledro adorno in guisa
Di
virtù militar che possa in guerra
Far prova di
sè stesso al par d'ogni altro
Bravo
destrier? se non perchè una certa
Energia
della mente in un col corpo
Cresce
eziandio del proprio seme e della
Propria
semenza, nè schifar si puote
Che ne'
teneri corpi anco la mente
Tenerella
non sia? Che se pur vero
Ciò
credi, omai che tu confessi è d'uopo
Che l'anima
è mortal, mentre si cangia
Sì
fattamente per le membra e perde
La primiera
sua vita e 'l proprio senso.
E come, in
oltre, in compagnia del corpo
Divenuta
robusta al fior bramato
Giunger
dell'età sua l'alma potrebbe,
Se del
primiero origine consorte
Non fosse? e
come delle vecchie membra
Desidera
d'uscir? forse paventa
Chiusa
restar nel puzzolente corpo?
O che
l'albergo suo già vacillante
Per la
soverchia età caggia e l'opprima?
Ma non
può l'immortale esser disfatto.
In somma,
assai ridicolo mi sembra
Il dir che
siano apparecchiate e pronte
Ne' venerei
diletti e delle fere
Ne' parti
l'alme, e che immortali essendo
Sian
costrette a guardar membra mortali
Menti
infinite e gareggiar fra loro
Qual prima o
dopo insinuarsi deggia;
Se non se
forse han pattuito insieme
Che quella
che volando arriva prima
Anco prima
s'insinui, e che di forze
L'una
all'altra già mai lite non muova.
Gli alberi finalmente esser nell'etere
Non ponno
nè le nubi entro all'oceano,
Nè
vivo il pesce dimorar ne' campi,
Nè da
legno spicciar tepido sangue,
Nè
mai succo stillar da pietra alpina:
Certo ed
acconcio è per natura il luogo
Ove cresca
ogni cosa, ove dimori.
Così
dunque per sè l'alma e la mente
Senza corpo
già mai nascer non puote
Nè
dal sangue vagar lungi e da' nervi:
Poichè,
se ciò potesse, ella potrebbe
Molto
più facilmente o nella testa
Vivere o
nelle spalle o ne' calcagni,
E nascer
anco in qualsivoglia parte
Del corpo, e
finalmente abitar sempre
Nell'uomo
stesso e nello stesso albergo
Onde;
poichè prefisso i corpi nostri
Han per
natura ed ordinato il luogo
Ove
distintamente e nasca e cresca
La natura
dell'animo e dell'anima,
Tanto men
ragionevole stimarsi
Dee che si
possa generare il tutto
Scevro dal
corpo e mantenersi in vita.
Onde, tosto
che 'l corpo a morte corre,
Mestier
sarà che tu confessi, o Memmo,
Anco l'alma
perciò distratta in esso.
Con
ciò sia che l'unire all'immortale
Il caduco e
pensar ch'ei possa insieme
Operare e
soffrir cose a vicenda,
È
solenne pazzia: poichè qual altra
Cosa mai
sì diversa e sì disgiunta
E fra
sè discrepante imaginarsi
Potria,
quanto l'unirsi all'immortale
E perenne il
caduco e fragil corpo
E soffrir
nel concilio aspre tempeste?
In oltre;
tutto quel che dura eterno
Conviene; o
che respinga ogni percossa,
Per esser
d'infrangibile sostanza,
Nè
soffra mai che lo penètri alcuna
Cosa che
disunir possa l'interne
Sue parti,
qual della materia a punto
Gli atomi
son la cui natura innanzi
Già
per noi s'è dimostra; o che immortale
Viva,
perchè dagli urti affatto esente
Sia, come il
vôto che non tócco dura
Nè
mai soggiace alle percosse un pelo:
O
perchè intorno a lui nessuno spazio
Non sia dove
partirsi e dissiparsi
Possa, come
la somma delle somme
Fuor di
sè non ha luogo ove si fugga
Nè
corpo che l'intoppi e con profonda
Piaga
l'ancida, e però dura eterna.
Ma
nè, come insegnammo esser contesta
L'anima
può d'impenetrabil corpo,
Chè
misto è sempre infra le cose il vôto;
Nè
però, come il vôto, intatta vive;
Poichè
corpi non mancano che sórti
Dall'infinito
ed agitati a caso
Possan
cozzar con vïolento turbine
Questa mole
di mente ed atterrarla
E farne in
altri modi orrido scempio,
Nè
del luogo l'essenza e dello spazio
Profondo
manca ove distrarsi e spargersi
L'anima
possa e per lo vano immenso
Spinta da
qualunqu'altra esterna forza
Finalmente
perir. Dunque non fia
Chiusa alla
mente del morir la porta.
Chè
se forse immortal credi più tosto
L'anima,
perchè sia ben custodita
Dalle cose
mortifere, o perchè
Tutto quel
che l'incontra in qualche modo
Pria che le
noccia risospinto a forza
Indietro si
ritiri, o perchè nulla
Che nemico
le sia possa incontrarla,
Erri lungi
dal ver; poich'ella al certo,
Oltr'al mal
che patisce allor ch'inferme
Giaccion le
membra, è macerata spesso
Dal pensare
al futuro, onde il timore
Nasce che la
maltratta e le noiose
Cure che la
travagliano, e rimorsa
È
dalle colpe in gioventù commesse.
Aggiungi in
oltre il proprio suo furore
E l'oblio
delle cose; aggiungi il nero
Torrente di
letargo in cui s'immerge.
Nulla dunque è la morte e nulla all'uomo
Appartenersi
può, poichè mortale
È
l'alma. E; come ne' trascorsi tempi
Nulla
afflitti sentimmo, allor che 'l fiero
Annibale
inondò d'armi e d'armati
Del Lazio i
campi, e che squassato il tutto
Da
così spaventevole tumulto
Di guerra
sotto l'alte aure dell'etere
Tremò
sovente, e fu più volte in dubbio
Sotto qual
de' due popoli dovesse
Cader
l'impero universal del mondo;
Tal a punto
sentir nulla potremo
Tosto che
fra di lor l'anima e 'l corpo,
Dall'unïon
de' quai l'uomo è formato,
Disuniti
saranno; a noi per certo,
Ch'allor
più non saremo, accader nulla
Più
non potrà; non se confuso e misto
Fia con la
terra il mar, col mare il cielo.
Senza che;
se distratta omai del nostro
Corpo la
mente e l'energia dell'alma
Sentir
potesse, non per tanto a noi
Ciò
nulla apparterria; poichè formati
Siam d'anima
e di corpo unitamente.
Nè;
se l'età future avranno i semi
Nostri
raccolto dopo morte ed anco
Di nuovo
allo stess'ordine ridotti
C'hanno al
presente, onde ne sia concesso
Nuovo lume
di vita; a noi per certo
Nulla questo
appartien, poi che interrotta
Fu la nostra
memoria una sol volta.
Et or nulla
di noi che fummo innanzi
Ne cal,
nè punto ne contrista ed ange
Il pensar a
color che della nostra
Materia in
altre età nascer dovranno.
Poichè,
se gli occhi della mente affissi
Del tempo
omai trascorso all'infinito
Spazio e
contempli quai pel vano immenso
I moti sian
della materia prima,
Agevolmente
crederai che i semi
Fossero in
quello stesso ordine e sito,
In cui son
or, molto sovente: e pure
Non
può di questo rammentarsi alcuno,
Poich'interposte
fûr pause alla vita
E sparsi i
moti errâr lungi da' sensi.
Poichè
quel ch'è per essere infelice
D'uop'è
che vivo sia nel tempo in cui
Possa a mal
soggiacere: or; se la morte
Da questo lo
difende, e proibisce
Che quegli
in cui ponno adunarsi i mali
Stessi che
noi fan miseri vivesse
Ne' secoli
trascorsi; omai ne lice
Senza dubbio
affermar che nella morte
Non è
di che temere, e che non puote
Esser mai
chi non vive egro e dolente,
Nè
punto differir da quei che nati
Unqua al
mondo non son quelli a cui tolta
Fu da morte
immortal vita mortale.
Onde: se vedi alcun che di sè stesso
Abbia
compassïon, perchè sepolto
Dopo morte
il suo corpo imputridirsi
Debbia, o da
fiamme ardenti esser consunto,
O
lanïato da rapaci augelli,
O da fiere
sbranato; indi ti lice
Saper che
non sincero il cor gli punge
Qualche
stimolo cieco; ancor ch'e' neghi
Di creder
che sentir dopo la morte
Si possa
alcuna cosa; onde non serba
Ciò
che promette largamente altrui,
Nè
dalla vita sè medesmo affatto
Stacca, ma,
nol sapendo, alcuna parte
Fa che resti
di sè. Chè, mentre vivo
L'uom pensa
che morendo o degli uccelli
Fia pasto il
proprio corpo o delle belve,
Tosto di
sè medesimo gl'incresce;
Sol
perchè non si libera a bastanza
Dal corpo
agli animai gettato in preda:
Ma quel si
finge, e del suo proprio senso
L'infetta; e
quindi, a lui stando presente,
D'esser nato
mortal sdegna; e non vede
Che nella
vera morte esser non puote
Nessun altro
sè stesso, il qual vivendo
Pianga
sè morto o lacerato od arso.
Con
ciò sia che, se mal fosse, morendo,
Che
dall'avido rostro o dall'ingorda
Bocca degli
animai si divorasse
Dell'uomo il
corpo, io non intendo il come
Duro non sia
l'esser nel fuoco ardente
Arrostite le
membra o soffocate
Nel
mèle o per lo freddo intirizzite
Poste a
giacer d'una gelata selce
Su
l'equabile cima o per disopra
Dal grave
peso della terra infrante.
— Ma nè l'albergo tuo vago et
adorno
Nè
l'amata consorte omai potranno
Accoglierti,
nè i dolci e cari figli
Correrti
incontro e con lusinghe e vezzi
Prevenirti
ne' baci e 'l core e l'alma
Di tacita
dolcezza inebrïarti.
Più
non potrai con l'onorate imprese
O di mano o
di senno o in pace o in guerra
Esser a te
nè a' tuoi d'aiuto alcuno.
Povero te,
povero te! gridando
Vanno: un
sol giorno una sol'ora un punto
Nemico a'
gusti tuoi potrà rapirti
Della vita
ogni premio. — E taccion solo,
— Nè
desiderio alcuno avrai di queste
Cose. — Il
che se con gli occhi della mente
Molto ben
guarderanno e seguitarlo
Vorran co'
detti, omai scioglier se stessi
Potranno e
dall'angoscie e dal timore,
Venti
contrari alla tranquilla vita.
- Tu, qual
da morte addormentato sei,
Tale al
certo sarai nella futura
Età
privo d'affanno e di cordoglio:
Ma noi
vicini al tuo sepolcro orrendo
Te
piangeremo insazïabilmente
Dal rogo in
poca cenere converso;
Nè
l'eterno dolor dal cuor profondo
Tolto mai ne
sarà. — Chiedere adunque
Deggiamo a
questi, onde sì tetro assenzio
Nasca allor
ch'una cosa omai ritorna
Al sonno,
alla quïete, e qual cagione
Abbia alcun
di dolersi e pianger sempre.
Sogliono ancor, mentre sedendo a mensa
Tengon gli
uomini in man coppe spumanti,
Di ghirlande
odorose ornati il crine,
Dirsi di
cuor l'un l'altro — È breve il frutto
Del bere, il
già godemmo, e nel futuro
Forse
più no 'l godrem; — quasi il maggiore
Mal che la
tomba a questi tali apporti
Sia l'esser
dalla sete arsi e consunti,
O dall'arida
terra o da qualunque
Altro desio
miseramente afflitti.
Ma nè
la vita sua nè sè non cerca
Alcun,
mentre di par giace sopito
In placida
quïete il corpo e l'alma:
Onde
apprender ben puoi ch'a noi conviene
Dormir sonno
perpetuo, e non ci punge
Di noi
medesmi desiderio alcuno:
E pur
dell'alma i primi semi allora
Non lungi
per le membra errando vanno
Ai sensiferi
moti, anzi si desta
L'uom per
sè stesso. Molto meno adunque
Creder si
dee ch'appartener si possa
La morte a
noi, se men del nulla è nulla:
Poichè
più dissipata è nel feretro
L'unïon
de' principii, e mai nessuno
Svegliossi
dopo che seguìo la fredda
Pausa della
sua vita una sol volta.
Al fin; se voci la natura stessa
Fuor
mandasse repente ed in tal guisa
Prendesse a
rampognarne — E qual sì grave
Causa, o
sciocco mortal, ti spinge al duolo?
Perchè
temi la morte, perchè piangi?
Perchè,
se dolce la primiera vita
Ti fu
nè tutti i comodi di quella
Scórser
quasi congesti in un forato
Vaso,
nè tutti trapassâr noiosi,
Perchè
di viver sazio omai non parti
Dal mio
convito e volentier non pigli
La sicura
quïete? E, se profuso
Svanì
ciò che godesti e se la vita
T'offende
omai, per qual cagione, o stolto,
Cerchi
d'aggiunger più quel che di nuovo
Dee
malamente dissiparsi e tutto
Perire a te
noioso? e non più tosto
Fine alla
vita ed al travaglio imponi?
Con
ciò sia che oggimai nulla mi resta
Che
macchinar per te, nè trovar posso
Cosa che
più ti piaccia. Il mondo è sempre
Lo stesso:
e, se per gli anni ancor non langue
Il corpo
tuo, se per vecchiezza estrema
Non hai le
membra affaticate e stanche,
Sappi che
nondimen ciò che ti resta
Sarà
sempre il medesmo, ancor che vivo
Stessi ben
mille e mill'etadi ed anco
Mai per
morir non fossi; — qual risposta
Dar potrem
noi, se non che la natura
Giusta lite
ne muove e 'l vero espone?
Ma chi
più del dover s'ange e lamenta
D'esser nato
mortal, dunque a ragione
Non fia
sgridato e rampognato in voce
Vie
più alta e severa? — Asciuga, o stolto,
Dagli occhi
il pianto, e le querele affrena. —
E, se per
troppa età vecchio e canuto
Altri si
duol — Tu pur godesti i premi
Che la vita
ne dà, pria che languissi.
Ma,
perchè sempre avidamente brami
D'aver quel
che ti manca ed all'incontro
Sprezzi qual
cosa vil ciò che possiedi,
Quindi
avvien che imperfetta e poco grata
Ti rassembra
la vita, e quindi, innanzi
Che tu possa
partir pieno e satollo
Delle cose
del mondo, all'improvviso
Ti sovrasta
la morte. Or lascia adunque
Ciò
che più tuo non è, benchè prodotto
Fosse al tuo
tempo; e volentier concedi
Ch'altri
possegga quel che indarno omai
Tenti di
posseder. — Giusta per certo
Sarebbe, al
creder mio, tal causa, e giusto
Un sì
fatto rimprovero: chè sempre
Cedon
l'antiche alle moderne cose
Da lor
cacciate a viva forza, e l'una
Si ristaura
dall'altra, e nulla cade
O nel
tartaro cieco o nel profondo
Baratro.
Acciò ne' secoli futuri
Gli uomini,
gli animai, l'erbe e le piante
Crescan, han
d'uopo di materia: e pure
Mestiero
è che ciò segua, allor che avrai
Compito
affatto di tua vita il corso.
Dunque non
men di te caddero innanzi
Tai cose, e
caderanno. In cotal guisa
Di nascer
l'un dall'altro unqua non resta;
Nè fu
dalla natura il viver dato
A nessuno in
mancipio, a tutti in uso.
Pon mente, in oltre, come, pria ch'al mondo
Fossimo
generati, alcun trascorso
Secolo
antico dell'eterno tempo
A noi nulla
appartenne. Or questo adunque
Specchio
natura innanzi agli occhi nostri
Pose,
acciò quivi un simolacro vero
Rimiriam
dell'età che finalmente
Dee seguir
dopo morte. Ivi apparisce
Nulla forse
o d'orribile o di mesto?
Forse non
d'ogni sonno alto e profondo
È piu
sicuro il tutto? In vita in vita
Si patisce
da noi ciascun tormento,
Che l'alme
crucïar nel basso inferno
Credon gli
sciocchi. Tantalo infelice
Non teme il
grave ed imminente sasso,
Come fama di
lui parla e ragiona:
Ma ben sono
i mortali in vita oppressi
Dal timor
degli dèi cieco e bugiardo,
E paventan
ognor quella caduta
Che la sorte
gli appresta. Erra chi pensa
Che Tizio
giaccia in Acheronte e sempre
Pasca del
proprio cor l'augel vorace:
Nè,
per cercar lo smisurato petto
Con somma
diligenza, unqua potrebbe
L'avoltoio
trovar cibo che fosse
Bastante a
sazïar l'avido rostro
Eternamente:
e, sia quantunque immane
Tizio, e non
pur con le distese membra
Occupi nove
iugeri, ma tutto
Il
grand'orbe terreno, ei non per tanto
Non
potrà sofferir perpetua doglia
Nè
porger del suo corpo eterno pasto.
Ma Tizio
è quei che, dal rapace artiglio
D'amor
ghermito, è lacerato e roso
Dal crudo
rostro d'ansïosa angoscia;
E quei che
per qualunque altro desio
Stracciano
ad or ad or noie e tormenti.
Sisifo, in
oltre, in questa vita abbiamo
Posto
innanzi a' nostr'occhi: e quello è desso
Che dal
popolo i fasci e le crudeli
Securi aver
desidera, e si trova
Sempre
ingannato, onde si crucia ed ange:
Perch'impero
bramar, ch'affatto è vano
Nè
mai può conseguirsi e sempre in esso
Durare
intollerabili fatiche,
Questo
è voler lo sdrucciolevol sasso
Portar sulla
più alta eccelsa cima
Del monte
alpestre, ond'egli poi si ruoti
Di nuovo e
caggia in precipizio al piano.
Il pascer,
oltr'a ciò, l'animo ingrato
Sempre de'
beni di natura, e mai
Non empier
nè saziar la brama ingorda;
Qual allor
che degli anni in sè rivolti
Tornano i
tempi e ne rimenan seco
Varie e
liete vaghezze e lieti parti,
E pur sazio
già mai l'uomo infelice
Non è
di tanti e così dolci frutti
Che la vita
gli porge; a quel ch'io stimo,
Altro questo
non è che radunare
Acqua in
vasi forati i quai non ponno
Empiersi
mai; come si dice a punto
Che a far
sian condannate in Acheronte
Dell'empio
re le giovanette figlie.
Cerbero,
fiera orribile e diversa
Che latra
con tre gole, e 'l cieco Tartaro
Che fiamme
erutta e spaventosi incendi,
E le furie
crinite di serpenti,
Ed Eaco e
Minosse e Radamanto
Non sono in
alcun luogo e senza dubbio
Esser non
ponno: ma la téma in vita
Delle pene
dovute ai gran misfatti
Gravemente
n'affligge e la severa
Penitenza
del fallo, e 'l carcer tetro
E del sasso
tarpeio l'orribil cima,
I flagelli,
i carnefici, la pece
E le piastre
infocate e le facelle,
E qual altro
supplicio unqua inventasse
Sicilia de'
tiranni antico nido;
I quai, ben
che dal corpo assai lontani
Forse ne
sian, pur di temer non resta
L'animo
consapevole a sè stesso
De' malvagi
suoi fatti; e 'l core e l'alma
Sì ne
sferza e ne stimola e n'affligge,
Che
nell'esser crudel Falari avanza;
Nè sa
veder qual d'ogni male il fine
Sarebbe e
d'ogni pena, anzi paventa
Che vie
più dopo morte aspre e noiose
Non sian le
sue miserie. Or quindi fassi
La vita
degli sciocchi un vivo inferno.
Tal volta ancor puoi fra te stesso dire
— Vide pur
Anco Marzio eterna notte,
Che di te,
scellerato, assai migliore
Era per
molte cause, e tanto avea
Dilatati i
confini al patrio regno.
Anzi a
molt'altri re, duci e signori
E capi di
gran popolo convenne
Pur morir
finalmente. E quello stesso
Che del
vasto oceàn sul molle dorso
Vie
lastricando passeggiò per l'alto
Con le sue legïoni,
e sovra l'onde
Delle salse
lagune a piede asciutto
Insegnò
cavalcare, e pria d'ogni altro
Spezzò
del mare il murmure tremendo,
Perduto il
vital giorno, al fin disperse
L'anima fuor
del moribondo corpo.
Polve
è già Scipïone, alto spavento
D'Africa e
chiaro fulmine di guerra,
Non
altrimenti ch'un vil servo fosse.
Aggiungi poi
delle dottrine i primi
Inventori e
dell'arti e delle grazie:
Aggiungi
delle nove alme sorelle
I divini
compagni. Un sol Omero
Fu principe
di tutti, e pur si giace
Sopito
anch'ei nella medesma quiete
Che si
giacciono gli altri. Al fin Democrito,
Poi
ch'imparò dalla vecchiezza estrema
Che
già languian della sua mente i moti,
Corse
incontro alla morte e 'l proprio capo
Volontario
le offerse. Anzi lo stesso
Epicuro
morío, che 'l germe umano
Superò
nell'ingegno, e d'ogni stella
Gli
splendori oscurò, nato fra noi
Qual sole
etereo ad illustrare il mondo.
E tu
tèmi 'l morire, e te ne sdegni?
Tu che vivo
e veggente hai quasi morta
La vita
omai? Tu che nel sonno involto
La maggior
parte dell'età consumi?
Tu che dormi
vegliando e mai non resti
Di veder
sogni, e di paura vana
Hai la mente
sollecita, e non trovi
Sovente il
mal che sì ti crucia ed ange,
Allor che
d'ogn'intorno ebro infelice
Sì
gravemente da noiose cure
Travagliato
ed oppresso e fra pensieri
Dubbioso
ondeggi in mille errori e mille? —
Ah! che, se gl'infelici uomini stolti
Drizzasser
gli occhi a rimirar quel peso
Che
sì gli opprime, e manifeste e conte
Gli fusser
le cagioni onde ciò nasca
Et onde
ognor tanta e sì grave alberghi
Quasi mole
di male entro a' lor petti,
Non
così viverían, come veggiamo
Viver molti
di lor, senza sapere
Nè
pur quel ch'e' si vogliano, nè sempre
Vorrian
luogo mutar, quasi potessero
Da tal peso
sgravarsi. Esce sovente
Un fuor di
casa, a cui rincresce omai
Lo starvi, e
quasi subito vi torna;
Come quello
che fuori esser non vede
Cosa che
più gli aggradi. A tutta briglia
Caccia
questi 'l cavallo e furïoso,
Quasi aiuto
portar deggia all'accese
Mura del suo
palagio, in villa corre:
Ma tócco a
pena il limitar bramato,
Sbadiglia e
dorme, e d'oblïar procura
Ciò
che tedio gli reca, e torna in fretta
Di nuovo
alla città. Fugge in tal guisa
se stesso
ognun: ma chi non può fuggirsi
Ne segue a
viva forza e ne tormenta,
Sol
perchè nota la cagion del morbo
All'infermo
non è: chè s'ei mirarla
Senza velo
potesse, ogni altra cura
Posta in non
cale, a contemplare omai
Di natura i
segreti e le cagioni
Tutto si
volgeria: chè non d'un'ora,
Ma
d'infiniti secoli in contesa
Si pon lo
stato in cui dopo la morte
Staranno in
ogni età tutti i mortali.
In somma; qual malvagia avida brama
Di vita a
paventar sì fattamente
Ne' dubbiosi
pericoli ne sforza?
Certo
è 'l fin della vita: ogni mortale
D'uop'è
che muoia. In un medesmo luogo
Sempre,
oltr'a ciò, dimorasi, e vivendo
Mai non si
gode alcun piacer che nuovo
Si possa
nominar: ma, se lontano
Sei da quel
che desideri, ti sembra
Che questo
ecceda ogni altra cosa; e, tosto
Che tu l'hai
conseguito, altro desio
Il cor ti
punge. Un'egual sete han sempre
Quei che
temon la morte, e mai non ponno
Saper che
sorte la futura etade
Gli
appresti, o ciò che porteragli il caso
O qual fin
gli sovrasti. Ed allungando
La vita non
per tanto alcun non puote
Scemar del
tempo della morte un pelo,
Nè
punto sminuir la lunga etade
In cui star
gli convien privo di vita.
Onde, ancor
che vivendo ogni uom godesse
Ben mille e
mille secoli futuri,
Non fia
nulla però men sempiterna
La morte che
l'aspetta: e senza dubbio
Nulla men
lungamente avrà perduto
L'esser
colui che terminò la vita
Questo
giorno medesimo, di quello
Che
già morío mill'e mill'anni innanzi.
Argomento.
Questo libro quarto non è altro che
una continuazione del terzo. Il poeta si studia di spiegare il modo onde gli
obbietti esterni agiscono sull'anima per via de' sensi. Le nostre sensazioni,
al parer suo, sono prodotte da corpuscoli invisibili, sparsi nell'atmosfera, i
quali, introducendosi nei diversi meati de' nostri corpi, affettano
diversamente le nostre anime; questi simulacri si dividono in differenti
classi. Gli uni sono trasmessi dai medesimi corpi, e sono emanazioni o della
superficie o dell'interno degli obbietti; gli altri si formano nell'aere; altri
non sono che un misto degli uni e degli altri, che il caso riunisce spesso
nell'atmosfera. Tutti questi simulacri sono d'una finezza e d'una sottigliezza
inconcepibili, e dotati per conseguenza di una grandissima velocità.
Giusta questa nozione preliminare de' simulacri, il poeta crede potere
spiegare in modo soddisfacente tutto il meccanismo delle sensazioni e
delle idee.
1. La visione è prodotta da simulacri
emanati dalla superficie stessa dei corpi, che ne fanno giudicare non solo del
colore, della grandezza e della figura degli obbietti, ma altresì della
loro distanza, del loro moto, ecc. È vero che spesse volte i giudizi che
noi profferiamo in conseguenza di queste percezioni sono falsi; ma l'errore non
procede mai dall'organo, il quale riferisce solo la sensazione precisa ch'esso
prova, ma dalla precipitazione dell'anima, che si affretta sempre di aggiungere
qualche cosa di suo al loro referto; donde egli conclude che i sensi sono guide
infallibili, soli giudici della verità.
2. La sensazione del suono è
eccitata dai corpuscoli staccati dai corpi, che vengono a percuotere l'organo
dell'udito; quando questi elementi sono acconci dalla lingua e dal palato,
formano parole; quando sono ripercossi da corpi solidi, come le rupi
ecc. formano echi.
3. Il sapore è prodotto dai
sughi che la triturazione esprime dagli alimenti, e che s'introducono nei pori
del palato: se gli stessi alimenti non producono le stesse sensazioni sopra
animali di specie differente; o sopra animali posti in circostanze diverse;
questa varietà dipende insieme dall'organizzazione stessa degli animali,
e dalla struttura delle molecole, dall'azione delle quali resultano i sapori.
4. Gli odori, che sono corpuscoli
emanati dall'interno dei corpi, e che hanno per conseguenza un andamento lento
e tardo, non sono neppur essi egualmente analoghi a tutti gli organi; si dica
lo stesso dei simulacri della vista e degli elementi del suono.
Solo queste quattro specie di sensazioni
sono eccitate da emanazioni; imperocchè il tatto è
prodotto dall'impressione immediata degli obbietti.
Rispetto alle idee dell'anima,
Lucrezio pretende che le riconosce dai simulacri, onde l'atmosfera è incessantemente
ripiena; simulacri, il cui tessuto è così delicato, che
s'insinuano in tutti i pori de' nostri corpi, e la cui successione e
combinazione è così rapida, ch'egli crede potere spiegare col
loro mezzo quella moltitudine d'idee, che assediano le nostre anime ad ogni
istante, quelle imagini chimeriche di Centauri, di Scille ecc., e
le altre illusioni di questo genere che c'illudono la notte ed il giorno.
Dopo questa teoria delle sensazioni
e delle idee, il poeta entra in alcuni particolari relativi a cotale dottrina.
1. Esso combatte le cause finali, sforzandosi di provare che i nostri
organi non sono stati fatti a contemplazione de' nostri bisogni, ma che gli
uomini se ne sono serviti perchè gli hanno trovati fatti; 2. egli spiega
perchè il bisogno di bere e mangiare è naturale a tutti gli
animali; 3. come l'anima, sostanza sì delicata, può muovere una
massa tanto pesante quanto sono i nostri corpi; 4. per quale meccanismo il
sonno riesce a intorpidire tutte le facoltà dell'anima e del corpo, e
donde vengono i sogni, de' quali è spesso accompagnato. Con l'occasione
de' sogni, tratta dell'amore, del quale, come Buffon, crede che la
voluttà fisica sia tutto quello che ha di buono; e avverte gli uomini di
preservarsene con le pitture eloquenti ch'egli fa della sventura degli amanti.
Finalmente termina questo tratto e tutto il libro con una specie di trattato
anatomico e fisico sopra la generazione.
Vo passeggiando dell'aonie dive
I luoghi
senza strada e da nessuno
Mai
più calcati. A me diletta e giova
Gir a'
vergini fonti e inebriarmi
D'onde non
tocche. A me diletta e giova
Coglier
novelli fiori onde ghirlanda
Peregrina ed
illustre al crin m'intrecci,
Di cui fin
qui non adornâr le muse
Le tempie
mai d'alcun poeta tósco;
Pria,
perchè grandi e gravi cose insegno
E seguo a
liberar gli animi altrui
Dagli aspri
ceppi e da' tenaci lacci
Della
religïon; poi, perchè canto
Di cose
oscure in così chiari versi,
E di
nêttar febeo tutte l'aspergo.
Nè
questo è, come par, fuor di ragione:
Poichè;
qual, se fanciullo a morte langue,
Fisico
esperto alla sua cura intento
Suol
porgergli in bevanda assenzio tetro
Ma pria di
biondo e dolce mèle asperge
L'orlo del
nappo, acciò gustandol poi
La
semplicetta età resti delusa
Dalle mal
caute labbra e beva intanto
Dell'erba a
lei salubre il succo amaro,
Nè si
trovi ingannata, anzi consegua
Solo per
mezzo suo vita e salute;
Tal a punto or facc'io. Perchè mi sembra
Che le cose
ch'io parlo a molti indótti
Potrian
forse parere aspre e malvage,
E so che 'l
cieco e sciocco volgo aborre
Da mie
ragioni; io per ciò volsi, o Memmo,
Con soave
eloquenza il tutto esporti,
E quasi
asperso d'apollineo mèle
Te 'l porgo
innanzi, per veder s'io posso
In tal guisa
allettar l'animo tuo;
Mentre
dipinta in questi versi miei
La natura
vagheggi, e ben conosci
Quanto l'utile
sia che la n'apporta.
Ma; perchè innanzi io t'ho provato a lungo
Quali sian
delle cose i primi semi,
E con che
varie forme essi nel vano
Per
sè vadano errando e sian commossi
Da moto
eterno; e come possa il tutto
Di lor
crearsi; e t'ho mostrato in oltre
La natura
dell'animo, insegnando
Ciò
ch'egli siasi e di quai semi intesto
Viva insieme
col corpo ed in qual modo
Torni
distratto ne' principii primi;
Tempo mi par
di ragionarti omai
Di quel che
molto in queste cose importa;
Cio
è, che quelle imagini che dette
Son da noi
simolacri altro non siano
Che certe
sottilissime membrane
Ch'ognor
staccate dalla buccia esterna
De' corpi or qua or là volin per
l'aure,
E che quelle
medesime, ch'incontro
Ci si fanno
vegliando e di spavento
Empion gli
animi nostri, anco dormendo
Ci si paran
davanti, allor che spesso
Veggiamo
ignudi simolacri et ombre
Sì
spaventose e d'ogni luce prive
Che ne
destan dal sonno orribilmente;
Acciò
che forse non si pensi alcuno
Che del
basso Acheronte uscendo l'alme
Volin tra'
vivi o che rimanga intatta
Qualche
parte di noi dopo la morte,
Quando, del
corpo e della mente insieme
Dissipata
l'essenza, il tutto omai
Avrà
ne' semi suoi fatto ritorno.
Su dunque: io dico che de' corpi ogn'ora
Le tenui
somiglianze e i simolacri
Vengon dal
sommo lor vibrati intorno.
Questi da
noi quasi membrane o bucce
Debbon
chiamarsi, con ciò sia che seco
Portin
sempre l'imagini il sembiante
E la forma
di quello ond'esse in prima
Staccansi e
per lo mezzo erran diffuse.
E ciò
quindi imparar, benchè alla grossa,
Lice a ciascun.
Pria; perchè molte cose
Vibran
palesemente alcuni corpi
Lungi da
sè; parte vaganti e sparsi,
Com'il fumo
le querci, e le faville
Il fuoco; e
parte più contesti insieme,
Come soglion
tal or l'antiche vesti
Spogliarsi
le cicale allor che Sirio
Di focosi
latrati il mondo avvampa,
O quale a
punto il tenero vitello
Lascia del
corpo la membrana esterna
Nel presepio
ove nasce, o qual depone
Lubrico
sdrucciolevole serpente
La spoglia
in fra le spine, onde le siepi
Delle lor
vesti svolazzanti adorne
Spesso veggiamo.
Or, se tai cose adunque
Si fanno,
è ben credibile che debba
Vibrar dal
sommo suo qualunque corpo
Di sè
medesmo una sottile imago.
Con
ciò sia che già mai ragione alcuna
Assegnar non
si può, perchè staccarsi
Debbiano
dalle cose i detti corpi
E non i
più minuti e più sottili;
Massime
essendo delle cose al sommo
Molti
piccoli semi, i quai vibrarsi
Ponno con lo
stess'ordine che prima
Ebbero e
conservar la stessa forma,
E ciò
tanto più ratti, quanto meno
Ponno i
pochi impedirsi e nella fronte
Prima hanno
luogo. Con ciò sia che sempre
Emergon
molte cose e son vibrate
Non pur dai
cupi penetrali interni,
Com'io
già dissi; ma sovente ancora
Il medesmo
color diffuso intorno
È dal
sommo de' corpi. E l'auree vele
E le
purpuree e le sanguigne spesso
Ciò
fanno allor che ne' teatri augusti
Son tese e
sventolando in su l'antenne
Ondeggian
fra le travi: ivi 'l consesso
Degli
ascoltanti, ivi la scena e tutte
L'imagini
de' padri e delle madri
E degli
dèi di color vari ornate
Veggionsi
fluttuare; e, quanto più
Han d'ogni
intorno le muraglie chiuse
Sì
che da' lati nel teatro alcuna
Luce non
passi, tanto più cosperse
Di grazia e
di lepor ridon le cose
Di dentro,
avendo in un balen concetta
L'alma luce
del dì. Se adunque il panno
Dall'esterne
sue parti il color vibra,
Mestiero
è pur che tutte l'altre cose
Vibrino il
tenue simolacro loro,
Poscia che
quello e questi è dall'esterne
Parti
scagliato. Omai son certi adunque
Delle forme
i vestigi, che per tutto
Volano e son
di sottil filo inteste
Nè
mai posson disgiunte ad una ad una
Esser viste
da noi. L'odore, in oltre,
Il fumo, il
vapor caldo e gli altri corpi
Simili errar
soglion diffusi e sparsi
Lungi da
quelle cose onde esalaro;
Perchè,
venendo dalle parti interne,
Nati dentro
di lor, per tortuose
Vie
camminando, son divisi, e curve
Trovan le
porte ond'eccitati al fine
Tentan
d'uscir: ma, pel contrario, allora
Che le tenui
membrane dall'estremo
Color de'
corpi son vibrate intorno,
Cosa non
è che dissipar le possa;
Perch'elle
in pronto sono e nella prima
Fronte
locate. Finalmente è d'uopo
Che ciascun
simolacro che apparisce
Negli
specchi, nell'acqua ed in qualunque
Forbita e
liscia superficie, avendo
La medesima
forma delle cose
Ch'egli
altrui rappresenta, anche consista
Nelle
scagliate imagini volanti:
Con
ciò sia che già mai ragione alcuna
Assegnar non
si può, perchè staccarsi
Debbono i
corpi che da molte cose
Son deposti
o lanciati apertamente
E non i
più minuti e i più sottili.
Son dunque
al mondo i tenui simolacri
E simili
alle forme delle cose,
I quai,
benchè vedersi ad uno ad uno
Non possan,
non per tanto, agli occhi nostri
Con urto
assiduo ripercossi e spinti
Dal piano
degli specchi, a noi visibili
Fannosi al
fin; nè par che in altra guisa
Deggiano
illesi conservarsi e tanto
A qualunque
figura assomigliarsi.
Or, quanto dell'imagini l'essenza
Sia tenue,
ascolta. E pria, perchè i principii
Son da'
sensi dell'uom tanto remoti
E minori de'
corpi che i nostr'occhi
Comincian
prima a non poter vedere,
Or non di
meno, acciò che meglio provi
Tutto quel
ch'io ragiono, ascolta, o Memmo,
Ne' brevi
detti miei quanto sottili
Sian d'ogni
cosa i genitali semi.
Pria: sono
al mondo sì fatti animali
Che la lor
terza parte in guisa alcuna
Veder non
puossi. Or qual di questi adunque
Creder si
debbe ogn'intestino? quale
Del cuore il
globo e gli occhi? e quai le membra,
Quai le
giunture? e quai dell'alma in somma
Gli atomi e
della mente? Or non conosci
Quanto
piccioli sian, quanto sottili?
In oltre:
ciò che dal suo corpo esala
Acuto odor,
la panacea, l'assenzio
E l'amaro
centauro e 'l grave abrótano,
Se fia mosso
da te, vedrai ben tosto
Molte
effigie vaganti in molti modi
Prive
affatto di forze e d'ogni senso;
Delle quai
quanto sia picciola parte
L'imagine,
uom non è che sia bastante
A dire
altrui nè con parole possa
Render di
cosa tal ragione alcuna.
Ma, perchè tu forse vagar non creda
Quelle
imagini sol che dalle cose
Vengon
lanciate, altre si creano ancora
Per
sè medesme in questo ciel che detto
Aere
è da noi. Queste, formate in vari
Modi, all'in
su van sormontando; e molli
Non cessan
mai di varïar sembianza;
E novi
Protei in qualsivoglia forma
Cangian
sè stesse; in quella guisa a punto
Che le nubi
talor miransi in alto
Facilmente
accozzarsi, e la serena
Faccia
turbar del mondo e 'l cielo intanto
Lenir col
moto; con ciò sia che spesso
Ne sembra di
veder per l'aere errando
Volar
giganti smisurati e l'ombra
Distender
largamente, e spesso ancora
Gran monti e
sassi da gran monti svelti,
Precorrere e
seguir del sole i raggi,
E belve
alfin di non ben noto aspetto
Trar seco e
generar nembi e tempeste.
Or, quanto agevolmente e come presto
Sian
generate e dalle cose esalino
Perpetuamente
e sdrucciolando cedano,
Tu quindi
apprendi. Poichè sempre in pronto
Ogni estremo
è de' corpi, onde si possa
Vibrare: e
quando all'altre cose arriva
E' le
penetra e passa; e ciò gli avviene
Principalmente
in quelle vesti urtando
Ch'inteste
son di sottil filo e raro:
E se ne'
rozzi sassi o nell'opaco
Legno
percuote, ivi si spezza in guisa
Che
simolacro alcun non puote agli occhi
Rappresentar.
Ma, se gli fiano opposti
Corpi lucidi
e densi, in quella guisa
Che
sovr'ogni altro di cristallo terso
E di forbito
acciar sono gli specchi,
Nulla accade
di ciò; poichè non puote
Come le
vesti penetrarli et oltre
Passar
nè dissiparsi in varie parti,
Già
che la liscia superficie intero
Ed intatto
il conserva e 'l ripercuote:
E quindi
avvien che son per noi formati
De' corpi i
simolacri, e che, ponendo,
Quando vuoi,
ciò che vuoi, quanto vuoi tosto,
Dirimpetto
allo specchio, appar l'imago.
Onde ben
puossi argomentar che sempre
Dal sommo
delle cose esalan fuori
Tenui
effigie e figure. In breve spazio
Dunque si
crean ben mille e mille imagini:
Ond'a ragion
l'origine di queste
Si
può dir velocissimo. E, siccome
Dee molti
raggi in breve spazio il sole
Vibrarsi
intorno acciò che sempre il cielo
Illustrato
ne sia, tal anco è d'uopo
Che molti
simolacri in molti modi
Sian dalle
cose in un medesmo instante
Certamente
scagliati in ogni parte;
Poichè,
rivolgi pur dove t'aggrada
Lo specchio,
ivi apparir vedrai le cose
Tra lor di
forma e di color simíli.
Mira, oltr'a
ciò, che, se tranquillo e chiaro
Di luce e di
seren l'aere fiammeggia,
Talor
sì sconciamente e così tosto
D'atra e
nera caligine s'ammanta,
Che ne par
che le tenebre profonde
Del cupo e
cieco abisso, abbandonando
Le lor sedi
natie tutte in un punto
E fuor
volando ad eclissar le stelle,
Ripiene
abbian del ciel l'ampie spelonche;
Tal
già sorta di nembi orrida notte,
Veggiam
d'atro timor compagne eterne
Spalancarsi
nel ciel fauci infiammate,
Eruttar
verso noi fulmini ardenti:
E pur,
quanto di ciò picciola parte
Sia l'imago,
uom non è che basti a pieno
A dire
altrui, nè con parole possa
Render di
cosa tal ragione alcuna.
Or via; quanto l'imagini nel corso
Celeri siano
e qual prontezza in loro,
Mentre
nuotan per l'aure, abbiano al moto,
Sì
ch'in brev'ora, ovunque il volo indrizzino,
Spinte da
vario impulso un lungo spazio
Passino; io
con soavi e dolci versi,
Più
che con molti, di narrarti intendo,
Qual
più grato è de' cigni il canto umíle
Del gridar
che le grue fan tra le nubi
Se i gran
campi dell'aria austro conturba.
Pria:
sovente veggiam ch'assai veloce
Movimento
han le cose i cui principii
Interni
atomi sian lisci e minuti.
Qual
è forza che sia la luce e quale
Il tiepido
vapor de' rai del sole;
Che, fatti
essendo di minuti semi,
Son quasi a
forza ogn'or vibrati, e nulla
Temono il
penetrar l'aereo spazio
Sempre da
nuovi colpi urtati e spinti;
Con
ciò sia che la luce è dalla luce
Somministrata
immantinente, et ave
Dal fulgore
il fulgor stimolo eterno.
Onde per la
medesima cagione
Mestiero
è che l'effigie in un momento
Sian per
immenso spazio a correr atte;
Pria,
perchè basta ogni leggiero impulso
Che l'urti a
tergo e le sospinga avanti;
Poi,
perchè son di così tenui e rari
Atomi
inteste, che lanciate intorno
Penetrano
ogni cosa agevolmente
E volan
quasi per l'aereo spazio.
In oltre; se
dal ciel vibransi in terra
Minimi
corpi, qual del sole a punto
È la
luce e 'l vapor, miri che questi,
Diffondendo
sè stessi, in un momento
Irrigan
tutto il ciel superno e tutta
L'aria,
l'acqua e la terra ove sì mobile
Leggerezza
gli spinge. Or che dirai?
Dunque le
cose che de' corpi al sommo
Sono al moto
sì pronte e che lanciate
Nulla
impedisce ir non dovran più ratte
E più
spazio passar nel tempo stesso,
Che la luce
e 'l vapor passano il cielo?
Ma di quanto
l'imagini de' corpi
Sian veloci
nel corso, io per me stimo
Esser
principalmente indicio vero
L'esporsi a
pena all'aria aperta un vaso
D'acqua,
che, essendo il ciel notturno e scarco
Di nubi, in
un balen gli astri lucenti
Vi si
specchian per entro. Or tu non vedi
Dunque omai
quanto sia minimo il tempo
In cui
dell'auree stelle i simolacri
Dall'eterea
magion scendono in terra?
Sì
che, voglia o non voglia, è pur mestiero
Che tu
confessi esser vibrati intorno
Questi
minimi corpi atti a ferirne
Gli occhi e
la vista penetrarne e sempre
Nascere ed
esalar da cose certe;
Qual dal
sole il calor, da' fiumi il freddo,
Dal mare il
flusso od il reflusso edace
Dell'antiche
muraglie ai lidi intorno:
Nè
cessan mai di gir per l'aria errando
Voci
diverse: e finalmente in bocca
Spesso di
sapor salso un succo scende,
Quando al
mar t'avvicini; ed all'incontro
Mescer
guardando i distemprati assenzi
Ne sentiam
l'amarezza. In così fatta
Guisa da
tutti i corpi il corpo esala,
E per l'aere
si sparge in ogni parte;
Nè
mora o requie in esalando alcuna
Gli è
concesso già mai mentre ne lice
Continuo il
senso esercitare e tutte
Veder sempre
le cose e sempre udire
Il suono ed
odorar ciò che n'aggrada.
Perchè poi si conosce esser la stessa
Quella
figura che palpata al buio
Fu con le
mani e che nell'aureo lume
Dopo si vede
e nel candor del giorno,
D'uop'è
che la medesima cagione
Ecciti in
noi la vista e 'l tatto. Or dunque,
Se palpiamo
un quadrato e questo il senso
La notte ne
commuove, e qual già mai
Cosa
potrassi alla sua forma aggiungere
Il dì
fuorchè la sua quadrata imagine?
Onde sol
nell'imagini consiste
La cagion
del vedere, e senza loro
Ciechi
affatto sarian tutti i viventi.
Or sappi che
l'effigie e i simolacri
Volano
d'ogn'intorno e son vibrati
E diffusi e
dispersi in ogni banda:
Ma,
perchè solo atti a veder son gli occhi,
Quindi
avvien che dovunque il vólto vòlti
Ivi sol
delle cose a noi visibili
La figura e
'l color ti s'appresenta.
E, quanto
sia da noi lungi ogni corpo,
Il simolacro
suo chiaro ne mostra:
Poichè,
allor ch'ei si vibra, in un istante
Quella parte
dell'aria urta e discaccia
Ch'è
fra sè posta e noi; questa in tal guisa
Sdrucciola
pe' nostri occhi, e quasi terge
L'una e
l'altra pupilla, e così passa:
Quindi
avvien che veggiamo agevolmente
La
lontananza delle cose, e, quanto
Più
d'aere è spinto innanzi e ne forbisce
E molce le
pupille aura più lunga,
Tanto a noi
più lontan sembra ogni corpo;
Ch'ambedue
queste cose in un baleno
Fannosi al
certo, e che si vegga insieme
Quai sian
gli oggetti e quanto a noi discosti.
Nè qui vogl'io che meraviglia alcuna
T'occupi
l'intelletto, ond'esser deggia
Che non
potendo i simolacri all'occhio
Tutti
rappresentarsi, ei pur bastante
A scorger
sia tutte le cose opposte.
Poichè
nel modo stesso aura gelata,
Che lieve
spiri e ne ferisca il corpo
Coi pungenti
suoi stimoli, non suole
Mai commover
le membra a parte a parte
Ma tutte
insieme; e le percosse e gli urti
Ricevuti da
lor quasi prodotti
Sembran da
cosa che ne sferzi o cacci
Fuor di
sè stessa unitamente il senso.
In oltre:
allor che tu maneggi un sasso,
Tocchi di
lui la superficie estrema
E l'estremo
color; ma già non puoi
Sentir
quella nè questo, anzi la sola
Durezza sua
ti si fa nota al tatto.
Or via, perchè l'imago oltre allo specchio
Si vegga,
intendi. Chè remota al certo
Apparisce
ogni effigie, in quella guisa
Che fan gli
oggetti i quai veracemente
Si miran
fuor di casa, allor che l'uscio
Libero per
sè stesso e aperto il varco
Concede al
guardar nostro e fa che molte
Cose lungi
da noi scorger si ponno.
Con
ciò sia che per doppio aere procede
Anco questa
veduta. Il primo è quello
Ch'è
dentro all'uscio, indi a sinistra e a destra
Seguon
l'impòste: indi la luce esterna
Gli occhi ne
terge e 'l second'aere e tutte
Le cose che
di fuor veracemente
Son da noi
viste. In cotal guisa adunque,
Tosto che
dello specchio il simolacro
Per lo mezzo
si lancia, allor ch'ei viene
Vér le
nostre pupille, agita e scaccia
Tutto l'aere
frapposto, e fa che prima
Veggiam lui
che lo specchio: indi si scorge
Lo specchio
stesso, e nel medesmo istante
Percuote in
lui la nostra effigie e tosto
Gli occhi
indietro reflessa a veder torna,
E,
cacciandos'innanzi e rivolgendo
Tutto l'aere
secondo, opra che prima
Veggiam
questo che lei: quindi l'imago
Dallo
specchio altrettanto appar lontana,
Quant'ei
dall'occhio situato è lungi.
Sappi,
oltr'a ciò, che delle nostre membra
Quella parte
ch'è destra, entro allo specchio
Sinistra
esser ne pare. E questo accade,
Perchè,
giungendo al piano suo l'imago,
L'urta, e da
lui non è reflessa intatta
Ma
drittamente ripercossa e infranta:
Qual, se una
molle maschera di créta
Battuta in
un pilastro o in una trave
Tal nella
fronte la primiera forma
Serbi
indietro volgendosi, che possa
Esprimer
sè medesma in un istante,
L'occhio che
fu sinistro allor farassi
Destro e
sinistro pel contrario il destro.
Ponno ancor
tramandarsi i simolacri
Di specchio
in specchio e generar tal ora
Cinque
imagini e sei. Poichè qualunque
Cosa, ancor
che remota e posta in parte
Occulta al
veder nostro, indi si puote
Trar con
più specchi in vari siti e certi
Locati
alternamente e far che giunga
D'essa per
torte vie l'effigie all'occhio.
Tant'è
ver che l'imagine traluce
Di specchio
in specchio, e, se l'è destra, riede
Sinistra, e
quindi ripercossa indietro
Pur di nuovo
si volge e torna a destra.
Anzi,
qualunque lato abbian gli specchi
Curvo a
foggia di fianco, a noi riflette
Dei destri
corpi i simolacri a destra;
O perch'ivi
l'imagine trapassa
Di specchio
in specchio, e quindi a noi se n' vola
Due volte
ripercossa; o perchè, mentre
Corre verso
i nostr'occhi, erra aggirata,
Spinta a
ciò far dalla figura esterna
Dello
specchio medesimo, ch'essendo
Curva fa che
ver noi tosto si volga.
Parne,
oltr'a ciò, ch'entri l'effigie ed esca
Nosco e che
'l piede fermi e i gesti imiti;
Poichè
da quella parte, onde ne piace
Partirne e
dallo specchio allontanarsi,
Tornar non ponno
i simolacri all'occhio
Nostro,
poich'incidenti e ripercossi
Sempre fan
con lo specchio angoli eguali.
Odian poi le pupille i luminosi
Oggetti e
schivan d'affissarsi in loro;
Anzi, se
troppo il guardi, il sol t'accieca,
Perchè
molto possente è l'energia
De' suoi
lucidi raggi, e son vibrati
D'alto per
l'aer puro i simolacri
Impetuosamente,
e fiedon gli occhi
Tutta
turbando e confondendo insieme
La lor
fabbrica interna. Inoltre; il lume,
Qual or
troppo è gagliardo, abbruciar suole
Spesso i
nostr'occhi; perchè in sè di fuoco
Molti semi
racchiude atti a produrre,
Mentre
passan per lor, noia e dolore.
Giallo, in
oltre, divien ciò che rimira
L'uom
ch'è da regia infirmitade oppresso;
Perchè
di giallo molti semi esalano
Dall'itteriche
membra i quali incontro
Vanno
all'effigie delle cose, e molti
Ne son misti
negli occhi e di pallore
Col lor
tetro velen tingon il tutto.
Dalle
tenebre poi scorger si ponno
Tutte le
cose a' rai del lume esposte;
Perchè,
quando ai nostri occhi arriva il primo
Aere vicin
caliginoso e fosco
Ed aperti
gl'ingombra, incontinente
Segue il
secondo lucido e sereno
Ch'ambi
quasi gli purga e l'ombra scaccia
Di
quell'aere primier, perchè di lui
È
più tenue, più snello e più possente:
Onde, non
così tosto empie di luce
I meati
degli occhi, e ciò che tenne
Chiuso pria
l'aer cieco apre e rischiara,
Che de'
corpi illustrati i simolacri
Seguon
senz'alcun velo ed a vederli
N'incitan la
pupilla. Il che non puossi
Far pel
contrario dalla luce al buio;
Perchè
l'aere secondo oscuro e grosso
Succede al
tenue e luminoso, e tutti
I meati
riempie, e cinge intorno
Le vie degli
occhi, ond'impedito affatto
Sia d'ogni
corpo a' simolacri il moto.
Succede
ancor che le quadrate torri
Riguardate
da lungi appaian tonde,
Sol
perchè di lontan gli angoli suoi
Molto ottusi
si veggono, o più tosto
Più
da noi non si veggono e svanisce
Affatto ogni
lor piaga e non ne giunge
Pur a
muoverne il senso un picciol urto:
Poichè,
mentre l'imagine per lungo
Tratto si
muove, è dagli stessi incontri
Dell'aere a
forza rintuzzata; e quindi,
Tosto che
tutti gli angoli a' nostr'occhi
Son resi
impercettibili, costrutta
Ci par di
sassi fabbricati al torno;
Ma non tali
però che differenza
Fra lor non
abbia e' veramente tondi
E da presso
veduti; anzi ne sembra
Che tutti
sian quasi adombrati e finti.
Parne,
oltr'a ciò, che al sol l'ombra si mova,
E segua i
nostri passi, e 'l gesto imíti;
Se pur credi
che l'aria, essendo priva
Di luce,
passeggiar debba e seguire
Dell'uomo i
gesti ed emularne i moti;
Chè
null'altro che aria orba di luce
Esser
può mai quel che da noi si suole
Ombra
chiamar. Ciò senza dubbio accade,
Perchè
resta per ordine la terra
Priva de'
rai del sol dovunque il passo
Da noi si
volga e le si pari il lume,
E quei
luoghi all'incontro onde partimmo
S'illustran
tutti ad uno ad uno. Or quindi
Pare a noi
che l'istessa ombra del corpo
Sempre ne
segua; con ciò sia che sempre
Nuovi raggi
di luce in ordin certo
Si diffondon
per l'aria, e quei di prima
Spariscon,
quasi lana arsa nel fuoco;
Onde resta
la terra agevolmente
Di luce
ignuda, e nella stessa guisa
Se n'adorna
e riveste, e scuote e purga
L'atra e
densa caligine dell'ombre.
Nè qui nulla di men gli occhi ingannati
Punto non
son: poichè, dovunque il lume
Si trovi o
l'ombra, il veder tocca a loro;
Ma, se i
raggi medesimi di luce
Camminano in
più luoghi e se la stessa
Ombra di qui
si parta e vada altrove
O pur, come
poc'anzi io ti diceva,
Segua tutto
il contrario, il ciò discernere
Opra
è della ragion, nè posson gli occhi
Mai delle
cose investigar l'essenza:
Onde non
voler tu questo difetto,
Che solo
è del consiglio, ingiustamente
Agli occhi
attribuir. Ferma ne sembra
La nave che
ci porta, anco che voli
Per l'alto a
piene vele. Ir giureresti
L'immobil
lido e verso poppa i colli
Fuggirsi e i
campi, allor che spinto innanzi
Dalle forze
del vento il curvo pino
Indietro se
gli lascia. Ogni astro immoto
Parne e
dell'etra alle caverne affisso:
E pure astro
non v'ha che irrequïeta-
mente non
giri; con ciò sia che tutti
Sorgendo i
lunghi cerchi a veder tornano,
Tosto che i
globi lor chiari e lucenti
Han misurato
il ciel. Nel modo stesso
Par che 'l
sol non si muova e che la luna
Stia ferma:
e pur chiaro ne mostra il fatto
Ch'ambi con
giro assiduo ognor passeggiano
I gran campi
dell'etra. E, se da lungi
Miri di
mezzo al mar monti sublimi
Disgiunti in
guisa ch'all'intere armate
Navali sia
fra lor l'esito aperto,
Nondimen ti
parrà che tutti insieme
Faccian una
sol'isola. A' fanciulli
Che
già cessato han di girare attorno
Par che
talmente e le colonne e gli atri
Girino
anch'essi, che a gran pena omai
Credon che
sopra lor l'ampio edifizio
Di cader non
minacci. E, quando in cielo
Già
con tremulo crin l'alba apparisce
E la
splendida giuba in alto estolle,
Quel monte,
a cui sì da vicino il sole
Par che
sovrasti e che da' rai lucenti
Del suo
fervido globo arso ti sembra,
Lungi a pena
è da noi due mila tratti
Di freccia,
anzi tal volta a pena è lungi
Sol
cinquecento: e pur fra 'l sole ed esso
Sai che
giaccion di mar pianure immense,
D'etere
inaccessibili campagne,
E gran
tratti di terra in cui son vari
Popoli e
d'animai specie diverse.
L'acqua,
oltr'a ciò, che nelle pozze accolta
Per le vie
lastricate in mezzo ai sassi
Ferma si
sta, benchè non sia d'un dito
Punto
più alta, nondimeno agli occhi
Lascia tanto
abbassar sotterra il guardo,
Quanto
l'ampie del ciel fauci profonde
S'apron
lungi da noi, sì che le nubi
Veder ti
sembra e l'auree stelle e 'l sole
Splender
sotterra in quel mirabil cielo
Tosto, al
fin, che si ferma in mezzo al fiume
Il veloce
cavallo e che si affissano
Gli occhi
nell'onde rapide e tranquille,
Parne che 'l
corpo suo quantunque immoto
Sia portato
a traverso, e che la propria
Forza il
fiume al contrario urti e respinga,
E, dovunque
da noi l'occhio si volga,
Girne sembra
ogni cosa ed a seconda
Notar
dell'acque. E finalmente i portici,
Ben che sian
d'egual tratto e da colonne
Non mai fra
lor dispàri abbian sostegno,
Pur
nondimen, se dalla somma all'ima
Parte son
riguardati, a poco a poco
Stringer
mostran sè stessi in cono angusto,
Più e
più sempre avvicinando il destro
Muro al
sinistro e 'l pavimento al tetto
Sin che di
cono in un oscuro acume
Vadano a
terminar. Sorto dall'acque
Ai naviganti
'l sol par che nell'acque
Anco
s'attuffi e vi nasconda il lume:
Ma quivi
altro mirar che cielo e mare
Non puossi.
E crederai sì di leggiero
Che sian
offesi d'ogn'intorno i sensi?
Zoppe, in
oltre, nel porto agl'imperiti
Esser paion
le navi e con infranti
Arredi
premer di Nettuno il dorso;
Poichè
quel che de' remi e del governo
Sovrasta al
salso flutto e fuor n'emerge
Dritto
senz'alcun dubbio agli occhi appare,
Ma non fanno
così l'altre lor parti
Ricoperte
dall'onde, anzi rifratte
Mostran
voltarsi e ritornar supine
Verso il
margine estremo e ripercosse
Quasi al
sommo dell'acque ir fluttuando.
E, s'in
tempo di notte a ciel sereno
Per lo vano
dell'aria il vento spinge
Nugole trasparenti,
allor ci sembra
Che gli
splendidi segni ai nembi incontro
Vadano in
regïon molto diversa
Dal loro
vero viaggio. E, se la mano
Supposta
all'un degli occhi il preme ed erge,
Doppio al
senso divien ciò che si mira,
Doppio delle
lucerne il lume ardente,
Doppio di
casa ogni ornamento, e doppie
Degli uomini
le facce e doppi i corpi.
Al fin,
quando sepolte in dolce sonno
Giaccion
tutte le membra e gode il corpo
Una somma
quïete, allor sovente
Parne esser
desti non per tanto e moverne,
E mirar
nella cieca ombra notturna
L'aureo lume
del giorno, e 'n chiuso luogo
Cielo e mari
passar fiumi e montagne,
E con libero
piè scorrer pe' campi,
E parole
ascoltar, mentre il severo
Silenzio
della notte il mondo ingombra,
E risponder
tacendo alle proposte.
Et, in somma,
guardando, ognor veggiamo
Molt'altre
cose simili, che tutte
Cercan di
vïolar quasi la fede
A ciascun
sentimento ancor che indarno:
Poichè
di queste una gran parte inganna
Per la
fallace opinïon dell'animo
Che si forma
da noi, mentre prendiamo
Per noto quel
che non è noto al senso.
Se finalmente alcun crede che nulla
Non si possa
saper, questi non sa,
Anco se la
cagion possa sapersi,
Ond'ei di
nulla non saper confessa.
Dunque il
più disputar contro a costui
Opra vana
saria, mentr'egli stesso
Col suo
proprio cervel corre all'indietro.
Ma, concesso
anco questo, nondimeno
Chiederògli
di nuovo in qual maniera,
Non
avend'egli conosciuto innanzi
Cosa che
vera sia, sappia al presente
Quel che 'l
sapere e 'l non saper significhi,
Onde il
falso dal ver, dal dubbio il certo
Discerna. E,
in somma, troverai che nacque
La notizia
del ver dai primi sensi:
Nè
ponno i sensi mai, se non a torto,
Ripudiarsi
da te; mentre è pur d'uopo
Che presti
ognun di noi fede maggiore
A quel che
può per sè medesmo il falso
Vincer col
vero. E qual di maggior fede
Cosa degna
sarà che 'l nostro senso?
Forse da
falso senso avendo origine
Potrà
mai la ragione esser bastevole
I sensi a
confutar? mentr'ell'è nata
Tutta da'
sensi, i quai se non son veri,
Mestiero
è ancor ch'ogni ragion sia falsa.
Forse potran
redarguir l'orecchie
Gli occhi? o
'l tatto l'orecchie? o della lingua
Confutare il
sapor l'udito o 'l tatto?
Forse il
riprenderan gli occhi o le nari?
Non per
certo il faran: poichè diviso
È de'
sensi il potere, et a ciascuno
La sua parte
ne tocca; e però deve
Quel
ch'è tenero o duro o freddo o caldo
Freddo o
caldo parer tenero o duro
Distintamente;
ed è mestier ch'i vari
Colori delle
cose, e tutto quello
Ch'è
congiunto ai color, distintamente
Si senta; e
della bocca ogni sapore
Ha distinta
virtù; nascon gli odori
Dal suon
distinti, e 'l suon distinto anch'egli
Finalment'è
prodotto: ond'è pur d'uopo
Che l'un
dall'altro senso esser ripreso
Non possa. E
molto men creder si debbe
Che pugni
alcun di lor contro sè stesso;
Con
ciò sia che prestargli egual credenza
Sempre
dovriasi e per sospetto averlo.
Dunqu'è
mestier, che ciò che appare al senso
In qual
tempo tu vuoi sia vero e certo.
E, se non
puoi con la ragione disciôrre
La causa per
che tondo appaia all'occhio
Da lungi
quel che da vicino è quadro,
Meglio
è però, se di ragion v'è d'uopo,
False cause
assegnar che con le proprie
Mani trar
via quel ch'è già noto e conto
E
vïolar la prima fede e tutti
Scuotere i
fondamenti ove la propria
Vita e
salute ogni mortale appoggia.
Poichè
non solo ogni ragione a terra
Cade, ma,
quel ch'è peggio, anco la vita
Tosto vien
men che tu non credi ai sensi,
Nè
schivar curi i ruinosi luoghi
Nè
l'altre cose simili che denno
Fuggirsi e
segui le contrarie ad esse.
In van
dunque ogni copia di parole
Fia contro i
sensi apparecchiata e pronta.
Al fin:
siccome, oprando un architetto
Nelle
fabbriche sue torta la riga
Falsa la
squadra e zoppo l'archipenzolo,
Mestiero
è che mal fatto e sconcio in vista
Curvo,
obliquo, inchinato e vacillante
Riesca ogni
edifizio e già minacci
Imminente
caduta, anzi sorgendo
Da bugiardi
ingannevoli giudìci
Ruini
affatto e torni eguale al suolo;
Così
d'uopo sarà ch'ogni ragione,
Che da sensi
fallaci origin ebbe,
Cieca si
stimi e mal fedele anch'ella.
Or, come ogni altro senso il proprio obietto
Senta per
sè medesmo, agevolmente
Può
capirsi da noi. Pria s'ode il suono
E s'intendon
le voci allor ch'entrando
Nell'orecchie
il lor corpo agita il senso.
Che corporea
per certo anco la voce
E 'l suon
d'uopo è che sia, mentre bastanti
Sono a
movere il senso e risvegliarlo.
Poichè
raschian sovente ambe le fauci
Le voci, e
nell'uscirsene le strida
Inaspriscon
vie più l'asper'arteria:
Con
ciò sia che, sorgendo in stretto luogo
Turba molto
maggior, tosto che i primi
Principii
delle voci han cominciato
A volarsene
fuori e che ripieni
Ne son tutti
i polmon, radon al fine
La troppo
angusta porta ond'hanno il passo.
Dubbio
adunque non è che le parole
Siano e le
voci di corporei semi
Create, con
ciò sia ch'offender ponno.
Nè
t'è nascosto ancor quanto detragga
Di corpo e
quanto sminuisca altrui
Di forza di
vigor di robustezza
Un continuo
parlar, che cominciando
Dal primo
albór della nascente aurora
Duri insino
alla cieca ombra notturna,
Massime se
gli è sparso in larga vena
Con
altissime strida. Egli è pur forza
Dunque ch'ogni
parola et ogni voce
Corporea
sia, poichè parlando l'uomo
Sempre del
corpo suo perde una parte.
Nè
con forma simíl possono i semi
Penetrar
nell'orecchie, allor che mugge
La tromba o
'l corno in murmure depresso,
Et allor che
morendo al canto snoda
La lingua il
bianco cigno e di soavi
Ben che
flebili voci empie le valli
Del canoro
Elicona ove già nacque.
Dunque da noi son certamente espresse
Le voci in
un col corpo e fuor mandate
Con dritta
bocca. La dedalea lingua
Variamente
movendosi gli accenti
Articola, e
la forma delle labbra
Dà
forma in parte alle parole anch'essa.
Dall'asprezza
de' semi è poi creata
L'asprezza
della voce e parimente
Il levor dal
levor. Chè, se per lungo
Spazio
correr non dee prima che possa
Penetrar
nell'orecchie, ogni parola
Si sente
articolata e si distingue
Dall'altre;
con ciò sia che 'n simil caso
Tutte
conservan la struttura prima:
Ma, se lungo
all'incontro è più del giusto
L'interposto
cammin, forza è che, mentre
Fendon le
voci il soverchio aere e vanno
Per l'aure a
volo, in un confuse e miste
Siano e
scomposte e dissipate in guisa,
Che ben
possan l'orecchie un indistinto
Suono
ascoltar, ma non però discernere
Punto qual
sia delle parole il senso:
Sì
confusa è la voce ed impedita.
In oltre,
allor che 'l banditore aduna
La gente, un
solo editto è da ciascuno
Inteso. In
mille e mille voci adunque
Qua e
là senza dubbio una sol voce
Si sparge in
un balen poichè diffusa
Ogni
orecchio penètra e quivi imprime
La forma e
'l chiaro suon delle parole.
Parte ancor
delle voci, oltre correndo
Senza alcuno
incontrar, perisce al fine
Per l'aure
aeree dissipata indarno:
Parte in
dense muraglie in antri cavi
In curve e
cupe valli urta e reflessa
Rende 'l
suono primiero, e spesso inganna
Con mentita
favella il creder nostro.
Il che bene
intendendo, agevolmente
Saper potrai
per qual cagione i sassi
Ti riflettan
per ordine l'intera
Forma delle
parole, allor che cerchi
Per selve
opache e per montagne alpestri
Gli smarriti
compagni e li richiami
Con grida
alte e sonore. E mi sovviene
Ch'una sola
tua voce or sei or sette
Volte
s'udío, tal reflettendo i colli
Ai colli
stessi le parole a gara
Iteravano i
detti. I convicini
Di questi
luoghi solitari han finto
Che Fauni e
Ninfe e Satiri e Silvani
Ne siano
abitatori; e che la notte
Con giochi e
scherzi e strepitosi balli
Rompan
dell'aer fosco i taciturni
Silenzi e
dalla piva e dalla cetra
Tocca da
dotta man spargano all'aure
Dolci
querele armonïosi pianti;
E che 'l
rozzo villan senta da lungi,
Qual or
squassando del biforme capo
La corona di
pino il dio de' boschi
Spesso con
labbro adunco in varie guise
Anima la
siringa e fa che dolce
Versin le
canne sue musa silvestre.
Altri han
finto eziandio mostri e portenti
Simili a'
sopraddetti, onde si creda
Che non sian
dagli dèi sole e diserte
Le lor selve
tenute; e però vanno
Millantando
miracoli; o son mossi
Da
qualch'altra cagion; chè troppo in vero
D'aver gente
che l'oda avido è l'uomo.
Or, quanto a quel che segue a maraviglia
Non
s'ascriva da te, che per gli stessi
Luoghi ove
penetrar gli occhi non ponno
Penetrin le parole
e sian bastanti
A commoverne
il senso; il che tal ora
Veggiam
parlando a porte chiuse insieme:
Con
ciò sia che trovar libero il varco
Posson per
torte vie le voci e 'l suono,
Ma non
l'effigie, che divise e guaste
Forz'è
che sian se per diritti fóri
Non li tocca
a passar, come son quelli
Del vetro
onde ogni specie oltre se n' vola.
S'arroge a
ciò che d'ogn'intorno il suono
Sè
medesmo propaga e d'una voce
Molte voci
si creano, in quella guisa
Ch'una sola
favilla in più faville
Tal or si
sparge: di parole adunque
Ogni luogo
vicin ben che nascosto
Empier si
può. Ma per diritte strade
Corre
ogn'imago: ond'a nessun fu dato
Il veder
sopra sè, ma bene a tutti
L'udir chi
ne favella. E, nondimeno
Questa voce
medesma, allor che passa
Per vie non
dritte, è dagli estremi intoppi
Più e
più rintuzzata; onde all'orecchie
Giunge
indistinta, e d'ascoltar ne sembra
Più
che note e parole un suon confuso.
Ma la lingua e 'l palato, in cui consiste
Del gusto il
senso, han di ragione e d'opra
Parte
alquanto maggior. Pria nella bocca
Si sentono i
sapori, allor che 'l cibo
Masticando
si spreme in quella guisa
Che si fa
d'una spugna. Il succo espresso
Quindi si
sparge pe' meati obliqui
Della rara
sostanza della lingua:
E del nostro
palato, e, se di lisci
Semi
è composto, dolcemente tocca
Gli
strumenti del gusto e dolcemente
Gli molce e
li solletica; ma, quanto
Son
più aspri all'incontro e più scabrosi
Gli atomi
suoi, tanto più punge e lacera
Del palato i
confin: ma giù caduto
Per le fauci
nel ventre, alcun diletto
Più
non ne dà, benchè si sparga in tutte
Le membra e
le ristori. E nulla monta
Di qual
sorte di cibo il corpo viva,
Pur che
distribuir possa alle membra
Concotto
ciò che pigli e dello stomaco
Sempre
intatto serbar l'umido innato.
Ma tempo è d'insegnarti onde proceda
Che vari han
vario cibo, ed in che modo
Quel che
sembra ad alcuni aspro ed amaro
Possa ad
altri parer dolce e soave.
Anzi
è tal differenza in queste cose
E tal
diversità, che quello stesso
Ch'ad altri
è nutrimento ad altri puote
Esser tetro
e mortifero veleno.
Poichè
spesso il serpente, a pena tócco
Dall'umana
saliva, in sè rivolge
Irato il
crudo morso onde s'uccide:
E spesso
anco le capre e le pernici
S'ingrassan
con elleboro, che pure
Senza dubbio
è per noi tósco mortale.
Or,
acciò che tu sappia in che maniera
Possa questo
accader, pria mi conviene
Ridurti a
mente quel ch'io dissi innanzi:
Cio
è, ch'i semi fra le cose in molti
Modi son
misti. Or; come gli animali
Che prendon
cibo son fra sè diversi
Nell'estrema
apparenza, et ogni specie
L'ambito
delle membra ha differente;
Così
nascono ancor di vari semi
E di forma
difformi. I semi vari
Fan poi
varie le vie, vari i meati
E vari
gl'intervalli in ogni membro
E nel palato
e nella lingua stessa.
Dunque
alcuni minori, altri maggiori
D'uopo
è che sian, altri quadrati ed altri
Triangolari,
altri rotondi ed altri
Scabrosi in
varie guise e di molt'angoli;
Poichè
tal differenza esser conviene
Tra le
figure de' meati estremi
E fra tutte
le vie de' nostri sensi,
Qual
richieggon degli atomi le forme,
I moti e le
testure. Or, quando un cibo
Che par
dolce ad alcuno ad altro amaro
Sembra, a
quei ch'e' par dolce i lisci semi
Debbon
soavemente entro i meati
Penetrar
della lingua, ed all'incontro
A quei ch'e'
sembra amaro i rozzi e gli aspri.
Quindi
intender potrassi agevolmente
Tutte le
cose appartenenti al gusto:
Poichè,
senz'alcun dubbio, allor che l'uomo
O per bile
eccedente o per qualunque
Altra cagion
langue da febbre oppresso,
Già
tutto è 'l corpo suo turbato, e tutti
Gli atomi
ond'è composto han vari e nuovi
Siti
acquistato: e da tal causa nasce,
Che quei
corpi medesimi ch'innanzi
S'adattaro
alle fauci or non s'adattino,
E sian gli
altri di sorte che produrre
Debbiano, in
penetrando acerbo senso:
Posciachè
gli uni e gli altri entro il sapore
Del miel son
mescolati; il che di sopra
Con
più ragione io t'ho dimostro a lungo.
Or via; come l'odor giunto alle nari
Le tocchi e
le solletichi, insegnarti
Vo',
s'attento m'ascolti. E prima è d'uopo
Suppor che
molte cose in terra sono,
Onde di
vario odor flutto diverso
Continuo
esala e per l'aereo spazio
Vola e
s'aggira: e ben credibil sembra
Che sia
vibrata d'ogn'intorno e sparsa
Qualche
specie d'odor; ma questa a questi
Animali
convien, quella a quegli altri
Per le forme
difformi. E quindi accade
Che del
mèle all'odor ben che lontano
Corran le
pecchie, e gli avvoltoi al lezzo
De' fracidi
cadaveri; e che l'ugna
Delle belve
fugaci, ovunque impressero
Le proprie
orme nel suol, tirin de' bracchi
Il robusto
odorato; e che da lungi
Possan
l'oche sentir l'umano sito
E difender
da' Galli il Campidoglio.
Tal vari han
vario odor, che gli conduce
Ne' paschi a
lor salubri e gli costringe
A fuggir dal
mortifero veleno;
E tal degli
animai duran le specie.
Dunque fra
questi odori alcuni ponno
Per lo mezzo
diffondersi e volare
Vie
più lungi degli altri; ancor che mai
Non possa
alcun di loro ir sì lontano
Quanto il
suono e la voce (io già tralascio
Di dir
quanto l'effigie e i simolacri
Che fiedon
gli occhi ed a veder m'incitano)
Poichè
tardo si muove e vagabondo,
E talvolta
perisce a poco a poco
Per l'aereo sentier
distratto e sparso
Pria che
giunga alle nari. E ciò succede
Principalmente,
perchè fuori esala
Dall'imo
centro delle cose a pena
(Che ben
dall'imo centro uscir gli odori
Mostra il
sempre olezzar più degl'interi
I corpi
infranti stritolati ed arsi);
Poi
perchè gli è di maggior semi intesto
Della voce e
del suon; come vedere
Lice a
ciascun, perchè la voce e 'l suono
Penetra per
le mura ove l'odore
Mai non
penétra. Ond'eziandio si vede
Che non
è così agevole il potere
Rintracciar
con le nari ove locati
Siano i
corpi odoriferi; chè sempre
Più
divien fredda ogni lor piaga e fiacca
Per l'aure
trattenendosi, e non giunge
Calda al
senso e robusta: e quindi spesso
Errano i
bracchi e in van cercan la traccia.
Nè però negli odori e ne' sapori
Ciò
solo avvien: ma similmente è certo
Che non
tutti i color, non delle cose
Tutte
l'effigie in guisa tal s'adattano
Di tutti al
senso, ch'a vedersi alcune
Non sian
dell'altre più pungenti ed aspre.
Anzi; qual
or l'ali battendo il gallo,
Quasi a
sè stesso applauda, agita e scaccia
Le cieche
ombre notturne e con sonora
Voce
risveglia ogni animale all'opre;
Non ponno
incontro a lui fermi e costanti
Trattenersi
un momento i leon rapidi
Nè
pur mirarlo di lontan, ma tosto
Precipitosamente
in fuga vanno:
E
ciò, perchè de' galli entro alle membra
Trovansi
alcuni semi, i quai negli occhi
De' leon
penetrando, ambe le luci
Gli pungono
in tal guisa e così aspro
Dolor gli
danno, che ristarli a petto
Non ponno
ancor che fieri ancor che indomiti:
E pur dagli
stess'atomi non hanno
Mai le nostre
pupille offesa alcuna,
O perch'essi
non v'entrano, o più tosto
Perch'entrandovi
han poi l'esito aperto
Per gli
stessi meati onde in tornando
Non ponno i
lumi in alcun modo offenderne.
Or su, quai cose a muoverne bastanti
Sian l'alma,
intendi, e 'n brevi detti ascolta
Onde possa
venir ciò che ne viene
In mente. E
prima sappi che vagando
Van molte
effigie d'ogn'intorno in molti
Modi, e son
così tenui e sì cedenti
Che ben
spesso, incontrandosi per l'aria,
Si
congiungono insieme agevolmente
Quasi tele
di ragni o foglie d'oro.
Poichè
queste eziandio vie più sottili
Son
dell'istesse imagini che ponno
Gli occhi
irrigare e concitar la vista:
Con
ciò sia che pel raro entran del corpo
E la tenue
natura a mover atte
Son della
mente e risvegliarne il senso.
Dunque e
centauri e scille e can trifauci
Veggiamo e
di color ombre ed imagini
Che
già morte ridusse in poca polve;
Posciachè
simolacri d'ogni genere,
Parte che
per sè stessi in aria nascono,
Parte che
nati son da cose varie,
Per lo vano
del cielo errando volano,
E di questi
e di quelli a caso unitisi
Nuove forme
sovente anco si creano.
Con
ciò sia che la specie di centauro
Certamente
non può dal vivo origine
Aver,
poichè nel mondo unqua non videsi
Un simile
animal: ma, se l'effigie
D'un uomo e
d'un cavallo a caso incontransi,
L'apparirne
un tal mostro è cosa agevole;
Già
che tosto ambedue forte congiungonsi
Per la
natura lor ch'è sottilissima.
Tutti gli
alti portenti a questo simili
Nel medesimo
modo anco si creano:
E, lievi
essendo sommamente, corrono
Vie
più del vento del balen del fulmine,
Come
già t'insegnammo. Ond'assai facile
Fia che in
un colpo sol possa commoverne
L'animo
qualsisia cedente imagine;
Già
che ben sai che per natura è tenue
La mente
anch'essa a maraviglia e mobile.
E che ciò ch'io ragiono altronde nascere
Non possa
che da quel ch'io ti rammemoro,
Ben dee
ciascuno agevolmente intendere;
Mentre ogni
spettro che da noi con l'animo
Vedesi a
quel che miran gli occhi è simile,
Et in simil
maniera anco si genera.
Dunque;
perchè già mai veder non puossi,
Verbigrazia,
un leone in altra guisa
Che per
l'imagin sua ch'entra negli occhi;
Quindi lice
imparar che nello stesso
Modo
senz'alcun dubbio anco la mente
Da varie
effigie di leoni è mossa
Da lei viste
egualmente e nulla meno
Di quel che
rimirar possano gli occhi,
Se non
ch'ella più tenui e più sottili
Specie
discerne. E certamente altronde
Esser non
può, che, quando il sonno ha sparse
Di dolce
onda letèa tutte le membra,
Della mente
il vigor stia vigilante,
Se non
perchè l'imagini medesme
Che
vegliando miriam gli animi nostri
Concítano in
tal guisa, che di certo
Ne sembra di
veder chi molto innanzi
Brev'ora
ancise e poca terra asconde.
E questo
avvien, perchè del corpo i sensi,
Tutti in un
con le membra avviluppati
In profonda
quïete, allor non ponno
Con le cose
veraci e manifeste
Convincer
l'ingannevoli, e sopita
Giace,
oltr'a questo, e langue ogni memoria,
Nè
basta a dissentir che già morisse
Quel che
vivo mirar crede la mente.
In somma;
che l'imagine passeggi,
Che mova
acconciamente ambe le braccia
E le mani e
la testa e tutto il corpo,
Meraviglia
non è: poichè sognando
Ne sembra di
veder che i simolacri
Possan far
ciò; perchè svanendo l'uno
E creandosi
l'altro in altro sito,
Pare a noi
che il medesimo di prima
Abbia in un
tratto varïato il gesto.
Chè
ben creder si dee che questo avvenga
Con somma ed
ammirabile prestezza:
Tanto mobili
son gli spettri, e tanta
È la
lor copia e così grande il numero
Delle minime
parti d'ogni tempo.
E qui di molte cose interrogarmi
Lice, e che
molte io ne dichiari è d'uopo,
Se di
spiegar perfettamente altrui
Di natura
desio gli ultimi arcani.
E pria
può domandarmisi, in che modo
L'animo
umano ove il desio lo sprona
Tosto volga
il pensier. Forse han riguardo
L'effigie al
voler nostro, e senza indugio
Qual or
n'aggrada, a noi vengono incontro?
Se la terra
se 'l mar se brami il cielo,
Se i ridotti
degli uomini o' conviti
O' solenni
apparati o le battaglie,
Forse ad un
cenno sol crea la natura
Spettri
sì vari e te li pone avanti?
Massime
allor che in un medesmo luogo
Fissa ogni
altro ha la mente ad altre cose.
Che poi?
quando legati in dolce sonno
Passar
veggiamo i simolacri e movere
Le
pieghevoli membra acconciamente,
Qual or
tutti a vicenda agili e snelli
Con le
braccia e co' piè scherzano in danza?
Forse
nell'arte del ballare esperti
Vagano i
simolacri, e però sanno
Menar,
dormendo noi, tresche notturne?
O più
tosto fia ver che in ogni tempo
Sensibil
molti tempi si nascondano
Che l'umana
ragion sola comprende?
E che quindi
l'effigie apparecchiate
Sian tutte
in tutti i tempi in tutti i luoghi?
Tanta
è la loro agilità nel moto,
Tanta la
copia! E, perchè tenui e rare
Son vie
più dell'imagini che gli occhi
Fiedono,
unqua mirarle acutamente
L'alma non
può, se non s'affissa in loro:
E per questo
ogni specie in un baleno
Sfuma, se
non se l'animo in tal guisa
Apparecchia
sè stesso; e ben sè stesso
In tal guisa
apparecchia, e brama e spera
Di veder
ciò che segue; e 'l vede in fatto.
Noto forse
non è che gli occhi nostri
Si preparano
anch'essi e le pupille
Fissano,
allor che tenui cose e rare
Hanno preso
a guardar? dunque non vedi
Che non pôn
senza questo acutamente
Nulla
mirare? E pur conosce ognuno
Che, se
l'animo nostro altrove è volto,
Le cose anco
vicine e manifeste
Ci sembran
lontanissime et oscure.
A che dunque
stimar dèi meraviglia,
Ch'ei non
possa altr'imagini vedere
Che quelle
in cui s'affissa? In oltre; ogni uomo
Da segni
piccolissimi conchiude
Tal or gran
cose, e nol pensando in mille
Frodi
s'avvolge e sè medesmo inganna.
Succede
ancor, che varïando effigie
Vadan gli
spettri, onde chi prima apparve
Femmina in
un balen maschio diventi,
E d'una in
altra etade e d'una in altra
Faccia si
muti; e che mirabil cosa
Ciò
non si stimi il sonno opra e l'oblio.
Or qui vorrei che tu schivassi in tutto
Quel vizio
in cui già molti hanno inciampato,
Cio
è, che non credessi in alcun modo
Che sian
degli occhi nostri i chiari lumi
Creati per
veder, nè che le gambe
Nascan atte
a piegarsi acciò che l'uomo
Or s'inchini
or si drizzi or muova il passo,
Nè
che le braccia nerborute e forti
Date ne sian dalla natura et ambe
Le man quasi
ministre onde si possa
Far
ciò ch'è d'uopo a conservar la vita,
Nè
l'altre cose simili che tutte
Son da loro
a rovescio interpretate.
Poichè
nulla già mai nacque nel corpo
Perchè
usar lo potessimo, ma quello
Ch'all'incontro
vi nacque ha fatto ogni uso.
Nè fu
prima il veder che le pupille
Si creasser
degli occhi; e non fu prima
L'arringar
che la lingua, anzi più tosto
Della lingua
l'origine precesse
Di gran
tratto il parlare; e molto innanzi
Fur prodotte
l'orecchie che sentite
Le voci e 'l
suono; e tutte al fin le membra
Fur pria
dell'uso lor: dunque per l'uso
Nate non
son. Ma l'azzuffarsi in guerra,
L'uccidersi,
il ferirsi e d'atro sangue
Bruttarsi il
corpo, pel contrario, innanzi
Fu che per
l'aria i dardi a volo andassero:
Pria natura
insegnò che da schivarsi
Eran le
piaghe; e poi l'arte maestra
Le corazze
inventò, gli elmi e gli scudi.
Et è
molto più antico il dar quïete
Alle membra
già stanche o su la dura
Terra o
sull'erbe molli all'aria aperta,
Che 'l
nutrirne a grand'agio in piume al rezzo:
E prima a
dissetar l'arsicce fauci
La man
concava usammo e l'onde fresche
Che le tazze
d'argento e 'l vin di Creta.
Dunqu'è
ben ragionevole che fatto
Per l'uso
sia ciò che dall'uso è nato:
Ma tal non
è quel che prodotto innanzi
Fu che
dell'util suo notizia desse,
Come
principalmente esser veggiamo
Le membra e'
sensi: ond'incredibil parmi
Che per
utile nostro unqua potesse
La natura
crear le membra e i sensi.
Similmente parer cosa ammiranda
Non dee che
cerchi ogni animale il proprio
Vitto e senz'esso
a poco a poco manchi.
Perch'io, se
ben sovvienti, ho già dimostro
Che da tutte
le cose ogn'or traspirano
Molti minimi
corpi in molti modi:
Ma
forz'è pur che in maggior copia assai
Li convenga
esalar dagli animali
Che son dal
moto affaticati e stanchi:
Senza che
molti per sudore espressi
Son
dall'interne parti, e molti sfumano
Dalle fauci
anelanti e sitibonde.
Or quindi il
corpo rarefassi, e tutta
La natura
vien men: quindi il dolore
Si crea;
quindi i viventi amano il cibo
Per ricrear
le forze e sostenere
Le membra e
per le vene e per le viscere
Sedar
l'ingorda fame. Il molle umore
Penetra
similmente in tutti i luoghi
Che d'umor
han bisogno; e dissipando
Molti caldi
vapor che radunati
Nello
stomaco nostro incendio apportano
Quasi fuoco,
e gli estingue e vieta intanto
Ch'e' non
ardano il corpo. In simil guisa
Dunque
s'ammorza l'anelante sete:
Tal si pasce
il desio delle vivande.
Or; come ognun di noi gire e fermarsi
Possa
ovunque gli aggrada e in varie guise
Mover le
membra, e da qual urto il grave
Pondo del
nostro corpo impulso e moto
Abbia; vo'
dir: tu quel ch'io dico ascolta.
Pria
l'effigie d'andar fassi alla mente
Incontro, e
la percuote: indi si crea
La
volontà: poichè nessun non piglia
Mai nulla a
far, se no 'l prevede e vuole
L'animo
pria; ma senza dubbio è d'uopo
Che di
ciò ch'ei prevede i simolacri
Gli sian
già noti e manifesti. Adunque,
Tosto che
dall'imagini è commossa
La mente in
guisa tal che stabilito
Abbia di
gir, fiede il vigor dell'alma
Ch'è
diviso e disperso in tutto il corpo
E pe' nervi
e pe' muscoli: nè questo
È
difficile a far, poichè congiunto
L'uno
è con l'altro: indi 'l vigor predetto
Ripercuote
le membra: e così tutta
Spinta
è la mole a poco a poco e mossa.
In oltre;
allor d'ogni animale il corpo
Divien molto
più raro; e, come deve,
L'aria che
sempre per natura è mobile
Largamente
vi penetra, e per tutte
Le sue
minime parti si diffonde:
E quindi
avvien che, qual navilio urtato
Dalle vele e
da' remi, il corpo nostro
Per due
cause congiunte al fin si move.
Nè
per cosa mirabile s'additi
Che
sì tenui corpuscoli sian atti
A girar
sì gran corpo e mover tutto
Il pondo
suo; mentre sì spesso il vento,
Che pur
anch'egli è di sottili e rari
Atomi
intesto, impetuosamente
Move un
vasto navilio, e un sol piloto
È
possente a fermarlo, ancor che voli
Furïoso
per l'alto a piene vele,
Pur che
tosto ove dee giri il governo;
Et un solo
architetto erge tal ora
Sol con
timpani e taglie immensi pesi.
Or, come 'l sonno per le membra irrighi
La sicura
quïete e della mente
Sciolga ogni
affanno, io con soavi carmi
Più
che con molti di narrarti intendo;
Qual
più grato è de' cigni il canto umíle
Del gridar
che le grue fan tra le nubi
Se i gran
campi dell'aria austro conturba.
Tu con acute
orecchie e con sagace
Mente
m'ascolta; acciò che poi non nieghi
Tutto quel ch'io
ti dico, e non disprezzi
Con animo
ostinato e repugnante
La mia vera
ragion pria che l'intenda.
Pria: si
genera il sonno, allor che l'alma
Per le
membra è distratta e fuori in parte
Cacciata
esala e in parte anco rispinta
Ne'
penetrali suoi fugge e s'asconde;
Con
ciò sia che languisce e quasi manca
Il corpo
allor. Ma non è dubbio alcuno
Che
dell'anima umana opra non sieno
Tutti i
sensi dell'uom: dunque, se il sonno
Ce li tiene
impediti, è pur mestiero
Che turbata
sia l'alma e fuor dispersa.
Ma non tutta
però; chè gelo eterno
Di morte
ingombreriane, ove nascosta
Dell'alma
alcuna parte entro alle membra
Non
rimanesse in quella guisa a punto
Che sotto a
molta cenere sepolto
S'asconde il
foco, onde repente il senso
Tal possa in
noi rinnovellarsi, quale
Può da
sepolto ardor sorger la fiamma.
Ma, di tal novità quai le cagioni
Siano e quai
cose ne conturbin l'alma
E faccian
tutto inlanguidirne il corpo,
Brevemente
dirò: tu non volere
Ch'io sparga
intanto ogni mio detto al vento.
Primieramente,
essendo il corpo nostro
Dall'aure
aeree d'ogn'intorno cinto,
D'uopo
è che sia, quanto alle parti esterne,
Dagli stessi
lor colpi urtato e pesto:
E per questa
cagion tutte le cose
Son coverte
da callo o da corteccia
O da cuoio o
da setole o da velli
O da spine o
da guscio o da conchiglie
O peli o
piume o lana o penne o squamme.
E
nell'interne ancor sedi penètra
L'aere
medesmo e le percuote e sferza,
Mentre da
noi si attragge e si respira.
Onde,
essendo le membra in varie guise
Quinci e
quindi agitate ed arrivando
Pe' fóri occulti
le percosse a' primi
Elementi del
corpo, a poco a poco
Nasce a noi
per lo tutto e per le parti
Una quasi
del senso alta ruina.
Poichè
turbansi in guisa i moti i siti
De'
principii dell'anima e del corpo,
Che di
quella una parte è fuor cacciata,
Un'altra
indietro si ritira e cela,
Et un'altra
ve n'ha cui per le membra
Sparsa e
distratta un vicendevol moto
Non lice
esercitar, poichè natura
I meati e le
vie chiuse gli tiene:
E quindi
è poi che, varïati i moti,
Sfuma
altamente e si dilegua il senso.
E, non
v'essendo allor cosa che possa
Quasi regger
le membra, il corpo langue,
Caggion le
braccia e le palpebre, e tosto
Ambe
s'inchinan le ginocchia a terra.
È dal
pasto, oltr'a ciò, creato il sonno;
Perchè
quel che fa l'aria agevolmente
Fanno anco i
cibi, allor che per le vene
Vengon
distribuiti. E più d'ogni altro
È
profondo il sopor che sazi e stanchi
N'assal;
perchè in tal caso una gran massa
D'atomi si
rimescola agitata
Da soverchia
fatica, e similmente
L'anima si
ritira e si nasconde
In
più cupi recessi, e fuor cacciata
Esala in
maggior copia, e fra sè stessa
Più
sparsa in somma e più distratta è dentro.
Onde il
più delle volte in sogno appare
O cosa a cui
per obbligo s'attende
O che gran
tempo esercitossi innanzi
O che molto
ci appaga. All'avvocato
Sembra di
litigare e pe' clienti
Citar leggi
e statuti: il capitano
Co' nemici
s'azzuffa, e sanguinose
Battaglie
indice: i naviganti fanno
Guerra co'
venti e con le sirti: ed io
Cerc'ognor
di spïar gli alti segreti
Di natura e
spiati acconciamente
Nella patria
favella esporli in carte:
Tal quasi
sempre ogni altro studio ed arte
Suol
dormendo occupar gli animi umani.
E, chiunque
più giorni intento e fiso
Stette a
mirar per ordine una festa,
Veggiam che
spesso, ancor che i sensi esterni
Lungi ne
sian, pur negl'interni aperte
Sono altre
strade onde venirgl'in mente
Possan gli
stessi simolacri: e quindi
Avvien che
lungo tempo avanti agli occhi
Gli stanno
in guisa, ch'eziandio vegliando
Pargli veder
chi balli e salti e mova
Le
pieghevoli membra acconciamente,
E sentir delle
cetre i dolci carmi
E de' nervi
loquaci il suon concorde,
E mirare il
medesimo consesso
E di varie
pitture e d'oro e d'ostro
Splender la
scena ed il teatro intorno.
Tanto il
voler, tanto lo studio importa,
Ed a quali
esercizi assuefatti
Non pur gli
uomini sian, ma tutti i bruti.
Con
ciò sia che sovente, ancor che dorma
Il feroce
destrier steso fra l'erbe,
Quasi a
nobil vittoria avido aspiri,
Sbuffa,
zappa, nitrisce, anela e suda
E per vincer
pugnando opra ogni forza.
E spesso
immersi in placida quïete
Corrono i
bracchi all'improvviso, e tutto
Empion di
grida e di latrati il cielo,
E, qual se
l'orme di nemiche fiere
Si vedessero
innanzi, aure frequenti
Spirano; e
spesso ancor, poi che son desti,
Seguon de'
cervi i simolacri vani
Quasi dati
alla fuga, in fin che, scosso
Ogn'inganno
primier, tornino in loro.
Ma le razze
sollecite de' cani
Delle mandre
custodi e degli alberghi,
Quasi abbian
visto di rapace lupo
L'odïata
presenza o di notturno
Ladro il
sembiante sconosciuto, spesso
S'affrettan
di cacciar dagli occhi i lievi
Lor sonni
incerti e di rizzarsi in piedi.
E, quanto
son di più scabrosi e rozzi
Atomi
intesti, tanto più commossi
D'uopo
è che siano e tormentati in sogno.
Quindi la
plebe de' minuti augelli
Suol repente
fuggirsi e paurosa
Turbar con
l'ali a ciel notturno i boschi
Sagri ai
rustici dèi, qual or sepolta
In piacevole
sonno a tergo avere
Par lor di
smerlo audace il rostro ingordo.
Ma che fan
poi negl'improvvisi e grandi
Moti gli
animi umani? Essi per certo
Fan sovente
gran cose. Espugnan regi,
Son presi,
attaccan guerre, alzan gridando
Le voci al
ciel quasi nemico acciaio
Vivi gli
scanni. Altri combatte, e sparge
Di pianto il
suol, di gemiti e sospiri
L'aria, e,
quasi pantera o tigre od orso
Digiun lo
sbrani, empie di strida il tutto.
Altr'in sogno
favella, e ne rivela
Tal or cose
importanti, e porge spesso
Degli
occulti misfatti indicio aperto.
Molti da
breve sonno a sonno eterno
Fan
passaggio crudel. Molti, assaliti
Da spavento
terribile improvviso,
Qual se
d'alta montagna in cupa valle
Fosser precipitati,
oppressi in guisa
Restan, che
quasi mentecatti e scemi,
Desti, a
gran pena, pel disturbo interno
Delle membra
agitate, in sè ritornano.
Siede poi
l'assetato o presso un fiume
O presso un
fonte o presso un rivo, e tutto
Quasi
l'ingoi' con l'anelanti fauci.
E spesso
anco i bambin dal sonno avvinti
Pensan
d'alzarsi i panni o sopra un lago
O sovra un
corto doglio e di deporvi
Il soverchio
liquor di tutto il corpo;
Mentre
intanto d'Olanda i prezïosi
Lini vanno
irrigando e le superbe
Coltri
tessute in Babilonia o in Menfi.
In oltre;
quei che dell'etade al primo
Bollor son
giunti e che maturo il seme
Hanno omai
per le membra, effigie e spettri
Veggono
intorno di color gentili
E di volto
leggiadri; indi eccitarsi
Sentono i
luoghi di soverchio seme
Gonfi, e,
quasi che allor compiuti in uno
Abbian tutti
i lor voti, un largo fiume
Spargon
sovente, ond'è men puro il letto.
Dunque il seme ch'io dissi entro alle membra
S'eccita
allor che per l'adulta etade
Comincia il
corpo a divenir robusto:
Chè
vari effetti han varie cause; e quindi
Sol
dell'uomo il vigor provoca e smuove
Nell'uom
l'umano seme, il quale, uscendo
Fuor de'
luoghi natii, da tutto il corpo
Si parte, e
per le membra e per gli articoli
Cade in
certe di nervi inteste sedi
A lui
convenïenti, e tosto irrita
Le parti
genitali: esse irritate
Gonfian per
troppo seme: e quindi nasce
Il desio di
vibrarlo ove comanda
La sfrenata
libidine, e la mente
Brama quel
corpo onde ferilla amore.
Così
dunque ciascun che saettato
Sia dallo
stral di Venere, o per donna
Che dagli
occhi leggiadri incendio spiri
O per vago
fanciul cui la vezzosa
Feminil
guancia ancor piuma non veli,
Quasi a
fermo bersaglio il pensier volge
Tosto
ond'uscío l'aspra sua piaga, e brama
D'unirsi a
chi l'offese e di lanciare
L'umor
tratto dal corpo entro il suo corpo,
Perch'il
molto desio piacer gli annunzia.
Quest'è Venere in noi: quindi fu tratto
D'amore il
nome; indi stillaro in prima
Le veneree
dolcezze, indi le fredde
Cure i petti
ingombrâr; poichè, se lungi
È
l'oggetto che s'ama, al men presenti
Ne stan
l'effigie e 'l desiato nome
Sempre
all'orecchie si raggira intorno.
Ma fuggir ne
convien l'esca d'amore
E l'imagini
sue, volgendo altrove
La mente, e
dal soverchio umor del corpo
Sgravarne
ovunque n'è concesso, e mai
Fissa non
ritener d'un solo oggetto
Nel cor la
brama e per noi stessi intanto
Nutrir cure
mordaci e certo duolo:
Con
ciò sia che la piaga ogn'or più viva
Diventa e
col nudrirla infistolisce,
Cresce il
furor di giorno in giorno e sempre
La miseria
del cor fassi più grave,
Se tu con dardi
nuovi i primi dardi
Prontamente
a cacciar non t'apparecchi
Come d'asse
si trae chiodo con chiodo.
E, con
vagante affetto or quello or questo
Dolce frutto
di Venere cogliendo,
Le fresche
piaghe non risani e volgi
Dell'alma
afflitta in altra parte i moti.
Nè da' frutti d'amor chi schiva amore
Mena lungi
la vita, anzi ne prende
Senza
travaglio alcun tutti i contenti:
Con
ciò sia che più certo e più sincero
Quinci
tragge il piacer chi mai non pose
Il cauto
piè su l'amorosa pania,
O tosto al
men senza invescarvi l'ale
Ne 'l
ritrasse e fuggío. Chè gli ostinati
Miseri
amanti, i quai nel tempo stesso
De'
godimenti lor van fluttuando
In un mar
d'incertezze e stanno in forse
Di qual
parte fruir gli occhi o le mani
Debbiano in
prima, il desïato corpo
Premon
sì stretto che dolore acerbo
Gli danno, e
spesso nell'amate labbra
Lascian de'
propri denti impressi i segni
E ne suggon
i baci avidamente;
Perch'impuro
è 'l diletto, e con occulti
Stimoli
pungentissimi gl'incita
Ad
oltraggiar, che ch'egli sia, quel desso
Che d'un
tanto furor produce i germi.
Ma Venere ogni pena in fra gli amori
Mitiga
dolcemente, e dolcemente
Frena i
morsi e l'offese il piacer misto;
Poichè
speran ch'un giorno anco attutarsi
Possa
l'incendio lor dal corpo stesso
Onde il
cieco desio surse e la vampa.
Il che nega
all'incontro apertamente
Natura:
anzichè questa è quella sola
Cosa, di cui
quanto più l'uom possiede,
Tanto arde
più di crudel brama il petto.
Poichè
'l cibo e l'umor dentro alle membra
Si piglia,
e, perch'ei puote alcune parti
Certe occupar,
quinci è mestier che resti
Del mangiare
e del ber sazio il desio:
Ma del volto
leggiadro e del soave
Color
dell'uomo altro non gode il corpo
Fuor che le
tenui imagini volanti,
Che porta il
vento d'infelice speme.
E; qual
dormendo un assetato infermo
Cerca di
liquor freddo o fonte o rio
Che 'l grave
incendio delle membra estingua.
Ma cerca
indarno, e de' gelati umori
Fuor che le
vane effigie altro non trova,
E di sete in
bevendo arde nell'onde;
Tal con
fallaci simolacri e spettri
Venere in
fra gli amor beffa gli amanti,
Che mai di
vagheggiar l'amato aspetto
Saziar non
ponno i desïosi lumi
Nè
detrar con le mani alcuna parte
Mentre per
tutto il corpo errano incerti.
In somma;
allor che vigorose e forti
Han
già le membra e dell'etade il fiore
Godono,
allor che presagisce il corpo
Gaudi non
più sentiti e che la stessa
Venere
attende a seminare i campi
Delle
giovani donne; avidamente
Congiungon
petto a petto e bocca a bocca,
E mordendosi
il volto ansano indarno;
Poichè
quindi limar nulla non ponno
Nè
penetrar con tutto il corpo il corpo;
Come par che
tal volta abbian talento;
Sì
desïosamente avviticchiati
Stan con
lacci venerei in fin che lassi
Per
soverchio piacer solvonsi i membri.
Al fin,
poichè l'ardor ne' nervi accolto
Fuor se
n'uscío, la vïolenta brama
Ha qualche
pausa: indi la rabbia stessa
Riede e 'l
furor; mentre toccar di nuovo
Cercan
l'amato corpo, e mai non ponno
Arte alcuna
trovar che gli risani
Dal mal che
gli ange e gli tormenta il core.
Tal per
cieca ferita incerti errando
Tabidi fansi
a poco a poco e mancano.
Aggiungi che 'l vigor scema e la forza,
Che
l'angoscie e i travagli ogn'or n'affliggono,
Che sotto il
cenno altrui l'età si logora,
La roba
intanto si disperde e fonde,
Dansi le
sicurtà, langue ogni uffizio,
E la gloria
e la fama egra vacilla.
Splende
d'unguenti 'l crin, ridono in piede
Sicionii
coturni, ornan le dita
Grossi
smeraldi in fino oro legati;
E di serico
manto adorno il corpo
Giornalmente
rifulge; e le ricchezze
Da' paterni
sudor ben acquistate
Divengon
fasce, ghirlandette e mitre,
E tal volta
in lascivi abiti molli
Cangiansi e
in vesti melitensi e cee;
E quel che
al vestir nobile ed al vitto
Servir
dovrebbe è dissipato in giuochi
In musiche
in conviti in giostre in danze
In profumi
in corone in rose in fiori.
Ma tutto in
van; poichè di mezzo al fonte
Dolce
d'amore un non so che d'amaro
Sorge, che
sin tra' fiori ange gli amanti;
O
perchè dagli stimoli trafitto
Della
propria coscienza in sè ritorna
L'animo, e
di menar forse gli duole
La vita
all'ozio ed alle piume in preda
E tra sozzi bordelli
indegnamente
Perire in
sen d'una bagascia infame;
O
perchè l'avrà detto una parola
D'ambiguo
senso, che nel core infusa
Qual foco
sotto cenere s'avviva;
O
perchè troppo ha cupidi e vaganti
Gli occhi, e
troppo gli volge al suo rivale,
E con lui
troppo parla e troppo ride.
E di mali sì gravi amore abbonda,
Allor che
favorevole e propizio
Si mostra
altrui quanto mostrar si puote:
Ma,
quand'egli all'incontro incrudelisce
Verso i
mendici suoi miseri servi,
N'ha tanti e
tanti che co' gli occhi stessi
Puoi vederne
infiniti. Onde assai meglio
Ti fia lo
star ben vigilante e desto,
Com'io
già t'insegnai, pria che la dolce
Esca
t'alletti in cui nascosto è l'amo:
Posciachè
lo schivar d'esser indótto
A cader
nella rete è molto meno
Malagevole a
far, che preso uscirne
E romper di
Cupido i forti nodi.
E pur
avvinto et irretito ancora
Sciôr ti
potrai, se tu medesmo a te
Non sei
d'impedimento e non dissimuli
Tutti i vizi
dell'animo e del corpo
Di colei che
tu ami e che desideri:
Poichè
'l più delle volte i folli amanti
Ciò
fanno, e spesso attribuiscon loro
False
prerogative. E quindi accade
Che molte,
ancor che brutte, in varie guise
Piacciono e
s'hanno in somm'onore e in pregio.
Ulivastra
è la mora: inculta ad arte
La sciatta e
sporca: Pallade somiglia
Chi gli
occhi ha tinti di color celeste:
Forte e
gagliarda è la nervosa e dura;
Piccoletta,
la nana, e delle Grazie
O sorella o
compagna e tutta sale:
Quella
ch'immane è di statura, altrui
Terrore
insieme e meraviglia apporta,
Piena d'onor
di maestà nel volto.
È
balba e quasi favellar non puote?
Fra
sè stessa borbotta. È muta affatto?
Un ingenuo
pudor fa che non parli.
È
ritrosa odïosa e linguacciuta?
Divien
lampada ardente. È tisicuzza
E co' denti
tien l'anima? vien detta
Gracile e
gentilina. È morta omai
Di tossa?
cagionevole s'appella.
È
paffuta, popputa e naticuta?
Sembra
Cerere stessa amica a Bacco.
Sime ha le
nari? è Satira o Silena.
Grosse ha le
labbra sue? bocca è da baci.
Ma lungo fia
s'io ti racconto il resto.
Ma pur; sia
quanto vuoi bella di faccia,
Paia a Venere
stessa in ogni membro
Di
leggiadria di venustà simile;
Ben
dell'altre ne son, ben senza questa
Vivemmo
innanzi; ben si sa che tutte
Fa le cose
medesime che fanno
Quelle che
son deformi, e che sovente
Di biacca
intride e di cinabro il volto,
Folle, e con
tetri odor se stessa ammorba,
Sì
che fin dalle serve avuta a schivo
È
fuggita, odïata e mostra a dito.
Ma di serti
e di fior l'escluso amante
Spesso
piangendo orna la fredda soglia,
E di soavi
unguenti unge l'impòste
Misero, e
baci al superb'uscio affigge.
Che poi se
dentro al limitare il piede
Ferma,
un'aura leggier che lo percuota
L'offende
sì, che di ritrarlo omai
Cerca oneste
cagioni: un punto solo
Rasciuga il
pianto di molt'anni e freno
Pone ai
lamenti: anzi sè stesso accusa
Di solenne
pazzia, chiaro veggendo
D'aver
più ad una femmina concesso
Che a mortal
cosa attribuir non lice.
Nè
ciò punto è nascosto alle moderne
Veneri
nostre, onde ogni industria ogni arte
Usan per
occultar ciò che in segreto
Fanno, allor
che tener gran tempo avvinti
Fra i legami
d'amor braman gli amanti.
Ma tutto in
van; chè, se mirar non puossi
Con gli
occhi della testa, al men con quelli
Dell'animo
si mira e si contempla.
E, se bella
è di mente e se ti porta
Vicendevol
amor, non vieteratti
Punto il dar
venia alle miserie umane.
Nè per infinto amor sempre sospira
La donna,
allor che nelle braccia accoglie
Dell'uomo il
corpo e lo si stringe al seno
E mirandolo
fiso avidi baci
Liba or
dagli occhi e dalle labbra or sugge:
Con
ciò sia che di cuore il fa sovente
Cercando il
comun gaudio, e s'affatica
Di giunger
tosto all'amorosa meta.
Nè
per altra cagione ai maschi loro
Sottopor si
potrian gli uccelli e i greggi
E gli
armenti e le fiere e le cavalle,
Se non
perch'ardon di lussuria e tutte
Di focoso
desio pregne e di seme
Van liete
incontro al genital diletto
De' lascivi
mariti, et a vicenda
Il
maneggiano anch'esse. Or tu non vedi
Forse come
color, che spesso avvinti
Furon da
vicendevole piacere,
Nella stessa
prigione e fra gli stessi
Lacci sian
tormentati? Anzi sovente
Per le
pubbliche vie sogliono i cani
Tentar di
separarsi ed ogni sforzo
Metter in
ciò, mentre legati intanto
Stan con
nodi venerei: il che per certo
Far non
potrian, se di scambievol gusto
Non
gioissero in prima ond'ingannati
Fossero e
strettamente insieme aggiunti.
Dunque,
voglia o non voglia, il gaudio loro
È
comun senza dubbio e vicendevole.
E, se per avventura il viril seme
Fia nel
carnal congiungimento attratto
E con subita
forza a sè rapito
Dal seme
femminil, nascono i figli
Simili allor
dal patrio seme al padre,
Dal materno
alla madre: e, se tal volta
Vedesi alcun
che d'ambidue l'effigie
Egualmente
ritenga e in un confonda
De' genitori
i volti, ei del paterno
Corpo
è cresciuto e del materno sangue,
Mentre,
eccitati per le membra i semi
Da
scambievole ardor, furo in tal guisa
Sbattuti
insieme e rimenati e misti,
Che
nè questo nè quel vinto o vincente
Dir si poteo
nell'amoroso incontro.
Posson anco
alle volte agli avi loro
Nascer
simili i figli e de' proavi
Rinovar le
sembianze: e ciò succede
Perchè
spesso mischiati in molti modi
Celano i
genitor molti principii
Nel proprio
corpo, che di mano in mano
Dalla stirpe
discesi i padri a' padri
Danno: e
quindi è che Venere produce
Con diversa
fortuna aspetti vari,
E de' nostri
antenati i volti imita
I moti, i
gesti, le parole e 'l pelo:
Poscia che
nulla meno è certo il seme
Onde nascon
in noi sì fatte cose
Di quello
onde si crean le facce, i corpi
E l'altre
umane membra: ed è prodotto
Dal patrio
sangue delle donne il sesso,
E l'uom
formato è del materno corpo.
Poichè
d'entrambi i semi in un commisti
Costa ogni
parto; e, qual de' genitori
È
più simile al figlio, ei nel suo corpo
Ha maggior
parte, o sia femmina o maschio.
Nè pôn gli dèi la genital semenza
Disturbare
ad alcun, sì ch'ei non vegga
Scherzar
vezzosamente a sè d'intorno
I figli e 'l
dolce nome oda di padre
E fra
sterili amplessi ed infecondi
L'età
consumi. Al che fede prestando
Molti, di
molto sangue afflitti e mesti
Cospergon
l'are, e prezïosi incensi
V'ardon, e
d'oro e d'ostro ornan gli altari;
Acciò
gravide poi di largo seme
Rendan le
mogli. Ma de' numi indarno
Affatican
l'orecchie, e dell'occulto
Fato i vani
decreti indarno stancano.
Con
ciò sia ch'infeconde il troppo crasso
Seme le
rende o 'l troppo tenue e liquido;
Questo,
perchè non puote a' genitali
Vasi
attaccarsi, onde vibrato a pena
Si dissolve
in più parti e fuor se n'esce;
Quello, o
perchè lanciandosi non vola
Tanto lungi
che basti, o perch'i luoghi
Debiti non
penètra, o, penetrati
Ch'e' gli
ha, non così bene in un si mesce
Col seme
femminil. Chè molto varie
Son l'armonie
di Venere: e da questi
Più
che da quei di molte donne il seno
Divien grave
e fecondo: e molte fûro
Sterili
innanzi a più mariti, e poscia
Non per
tanto trovâr chi di bramato
Parto
arricchille e di soavi figli:
E chi pria
varie mogli ebbe infeconde
Spesso
un'altra ne prese onde poteo
Munir di
figli la vecchiezza inferma.
Tanto,
acciò che si mesca il seme al seme
Generativamente
e che s'adatti
Il tenue al
crasso e 'l crasso al tenue, importa
A qual uom
sia la femmina congiunta
Nel diletto
venereo; e molto ancora
Monta di che
bevanda e di che cibo
L'un e
l'altro si nutra e si conservi,
Poichè
per altre cose entro alle membra
Si coagula
il seme ed all'incontro
Per altre
anco s'estenua e divien marcio.
E non poco,
oltr'a ciò, l'arte rileva,
Onde il blando
piacer che ne dà vita
Preso
è da noi: che delle fere in guisa
E degli
altri quadrupedi animali
Stimar si
dee che molto più sien atte
Le donne a
concepir; poich'in tal modo,
Stando i
lombi elevati e 'l petto chino,
Ponno i
debiti vasi il viril seme
Ricever
molto meglio. E non ha d'uopo
Di movimenti
effemminati e molli:
Anzi a
sè stessa il concepir contrasta
La donna,
allor che del consorte a gara
Il diletto
carnal lieta accompagna
Col moto
delle nàtiche, e bramosa
E di mora e
di requie impazïente
Con tutto il
petto disossato ondeggia;
Poichè
'l vomere allor dal cammin dritto
Del solco
genital caccia, e rimuove
Da' luoghi a
lui proporzionati il seme.
E per questa
cagion le meretrici
Costuman
d'agitarsi, acciò ch'insieme
Schifin lo
spesso ingravidare e dieno
Maggior
gusto a' lor drudi: il che non sembra
Che d'uopo
sia per le consorti nostre.
Nè creder mai che per divin volere
O per le
frecce di Cupido amata
Sia tal
volta una femmina deforme:
Con
ciò sia che tal or la donna stessa
Con l'azioni
piacevoli e co' modi
Avvenenti e
leggiadri e con lo schietto
Culto del
proprio corpo opra che l'uomo
S'avvezzi
agevolmente a viver seco.
Nel resto il
conversar genera amore;
Chè,
sia pur quanto vuol lieve ogni colpo,
Ciò
che spesso è percosso in lungo spazio
Pur cede e
cade: or tu non vedi adunque
Che fin
dell'acque le minute stille
Con
l'assiduo grondar fórano i sassi?
Argomento.
Dopo le lodi di Epicuro, che Lucrezio non
solo tiene per un Dio, ma pone ai disopra delle divinità, le cui
scoperte utili al genere umano hanno meritato loro l'apoteosi, egli espone, il
subbietto di questo canto, ch'egli spende nello spiegare la formazione del
nostro mondo per via del concorso fortuito degli atomi. Ma prima d'entrare in
materia, gli è forza porre in sodo contro certi filosofi, a capo de'
quali è Aristotile, che il mondo ha avuto un principio, e che
avrà una fine. A provare questa verità, comincia dal combattere
tre opinioni contrarie alla sua dottrina; la prima che i corpi celesti e la
stessa terra sono altrettante divinità; la seconda che il nostro mondo
essendo il soggiorno degli Dei, dev'essere indistruttibile; la terza che questo
stesso mondo dee sussistere eternamente, perchè è l'opera della
medesima divinità. Dopo avere così cercato di abbattere i sistemi
de' suoi avversari, si sforza di mettere in sodo il proprio; e di provare che
il nostro mondo ha avuto un principio ed avrà una fine: 1. perchè
la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria, che comunemente si chiamano elementi,
sono sottoposti ad alterazioni e vicissitudini continue; 2. perchè i
corpi stessi che ci paiono i più solidi, s'esauriscono a lungo andare, e
cadono in rovina; 3. perchè v'ha un gran numero di cause, così
interne come esterne, che lavorano del continuo alla distruzione del mondo; 4.
perchè l'origine delle arti e delle scienze non data da tempo troppo
remoto; 5. finalmente, perchè la discordia che regna tra gli elementi
nemici, come il fuoco e l'acqua, non può aver termine che con la rovina
totale del mondo; gl'incendj, le inondazioni, i diluvj, i terremoti, sono, a
dir così, malattie del globo che ci avvertono che è mortale.
Posti così questi preliminari, il
poeta entra in materia, e spiega la formazione del mondo per mezzo del concorso
fortuito degli atomi. In origine i principj di tutti i corpi erano confusi in
una sola massa. Il caos si compose ad ordine insensibilmente: le molecole
eterogenee si svolsero le une dalle altre; le molecole omogenee si accostarono,
si riunirono, s'alzarono o si abbassarono secondo le loro diverse
gravità. La terra si collocò nel centro del nostro sistema;
l'aria al disopra della terra, e la materia eterea, co' suoi fuochi,
spiegò la sua vasta cinta intorno al mondo; la formazione del mare,
delle montagne e de' fiumi, tenne presto dietro a questo primo sviluppo. Gli
astri cominciarono a muoversi, e Lucrezio assegna parecchie cause a' loro moti,
secondo il metodo di Epicuro, suo maestro, che non adotta e non rigetta nessun
sistema, ma dà più arditamente sentenza sopra la causa che tien
la terra sospesa in mezzo all'aere, e sulla grandezza reale del sole, della
luna e delle stelle, ch'egli pretende sia eguale alla loro grandezza apparente,
quantunque questa piccolezza non impedisca, a suo detto, che il sole illumini e
scaldi il mondo. Torna dipoi al suo andamento scettico, ed espone storicamente
tutte le opinioni degli antichi filosofi sulle rivoluzioni annua e diurna del
sole sull'aumento e decremento successivo e periodico dei giorni e delle notti,
sulle differenti fasi della luna, e sugli eclissi solari e lunari.
Dopo queste particolarità
astronomiche, Lucrezio torna alla terra, di cui segue le diverse produzioni dal
primo istante della sua origine; essa fece crescere prima le piante, i fiori e
gli alberi; dipoi procreò gli animali e gli uomini stessi, mediante le
particole di fuoco e d'umido che riteneva ancora dal suo antico mescolamento
con gli altri elementi. In questi primi tempi furono animali mostruosi che
perirono, non potendo sussistere nè propagarsi, colpa del vizio della
loro conformazione; razze intere si spensero così, perchè non avevano
le qualità necessarie per vivere indipendenti, nè per meritare la
nostra protezione. Ma la terra non ha mai prodotto centauri, nè simili
animali, composti di due nature incompatibili; dopo aver procreato le prime
generazioni di ogni specie, e aver forniti gli animali di organi atti alla
propagazione, la terra, esausta, si riposò, e abbandonò
agl'individui la cura di riprodursi da sè e di seguire il primo impulso
ch'era stato lor dato.
Tuttavia gli uomini, figli della terra,
abitatori delle foreste, si nudrivano di ghiande e d'altri frutti selvatichi,
si dissetavano ai fonti e ai fiumi, facevan la guerra alle bestie feroci, e
sebbene spesso fosser pasto di esse, non morivano in maggior numero che al
dì d'oggi. Presto s'introdussero i matrimonj: si formarono delle piccole
società particolari, la cui unione fu resa ancor più stretta
dalla nascita del linguaggio, che secondo Lucrezio, è creato dalla
natura e dal bisogno, e non dal capriccio d'un legislatore, che di proprio moto
abbia distribuito i nomi agli obbietti. Ma la scoperta del fuoco, il quale fu o
portato sulla terra dal fulmine, o acceso nelle foreste per lo stropicciamento
degli alberi agitati dai venti, finì di dissipare la barbarie.
Soddisfatti i bisogni naturali, s'introdussero i fittizj; vi furono ambiziosi
che si fecero re e spartirono i campi. Ma gli uomini, che si rammentavano esser
tutti fratelli, tutti figli della stessa madre, uccisero i loro tiranni, e
vissero gran tempo nell'anarchia, della quale sentirono finalmente gli
svantaggi; si crearono dunque allora de' magistrati, si fecero delle leggi alle
quali fu convenuto di sottoporsi. Presto la religione venne anch'essa a
puntellare l'autorità; l'idea degli Dei, nasce, secondo Lucrezio, da
simulacri illusorj, che apparivano la notte, e a cui la paura diede essere
reale. Il rumore del tuono, gli effetti del fulmine, i terremoti, le
inondazioni gelarono di spavento tutti i cuori; si rizzarono altari; gli uomini
si prostrarono a terra; s'instituirono quelle cerimonie religiose che
sussistono ancora al dì d'oggi e che sussisteranno sempre.
Tuttavia le arti si arricchivano tutti i
giorni per nuove scoperte. Grandi incendj, eccitati nelle foreste, diedero
occasione alla fusione dei metalli, che l'uomo trovò nel grembo della terra,
e de' quali si fece instrumenti ed armi; le guerre diventarono allora
più sanguinose, e per sopraggiunta d'orrore si fecero combattere negli
eserciti gli animali più feroci. L'uomo si perfezionava così
nelle arti utili, come nelle arti di distruzione. I drappi sottentrarono alle
spoglie delle bestie: l'agricoltura divenne scienza; finalmente la musica,
l'astronomia, la navigazione, l'architettura, la giurisprudenza, la poesia, la
pittura, la scultura, furono i frutti d'un lavoro ostinato suggerito dal
bisogno e diretto dall'esperienza.
Chi mi darà la voce e le parole
Convenïenti
a sì nobil soggetto?
Chi l'ali al
verso impennerammi in guisa
Ch'ei giunga
al merto di colui che tali
Premi
acquistati col suo raro ingegno
Pria ne
lasciò sol per bearne a pieno?
Nessun,
cred'io, che di caduco e frale
Corpo
formato sia. Poichè, se pure
Dir debb'io
ciò ch'io sento e che del vero
La veneranda
maestà richiede,
Fu dio, dio
fu per certo, inclito Memmo,
Quel che
primo insegnò del viver nostro
La regola
infallibile e la dritta
Norma che
sapïenza or chiama il mondo,
E che fuor
di sì torbide procelle
E di notte
sì cieca in sì tranquillo
Stato
l'umana vita ed in sì chiara
Luce ripose.
E che ciò sia, confronta
Con le sue
le divine invenzïoni
Ch'a pro
dell'uman germe anticamente
Fûr
dagli altri trovate. E senza dubbio
Chiaro
vedrai che, se dall'alma Cerere,
Come fama
ragiona, il gran le biade
Date ne
fûro, e se dall'uve espresse
Bacco il
dolce liquore, obbligo in vero
Tener gli se
ne dee; ma pur la vita
Senza pan
senza vin nel modo stesso
Conservar si
potea che molti popoli
Fan, se 'l
grido è verace, anco al presente:
Ma
già non si potea lieti e felici
Viver mai
senz'un cor candido e schietto;
Onde tanto
più merta esser chiamato
Dio chi pria
della vita i non fallaci
Piacer trovò,
che per lo mondo sparsi
Soavemente
ancor gli animi allettano.
E, se
d'Ercole i fatti esser più illustri
Tu credessi
de' suoi, molto più lungi
Dal vero
ancor trascorreresti, o Memmo.
Poichè
qual nocumento or ne potrebbe
Apportar
quell'orribile cignale
Già
per le piaghe altrui dell'Erimanto
Sì
noto abitator? quale il nemeo
Spaventoso
leon? quale il cretense
Tauro o
l'idra di Lerna, orrida peste
Di cento
serpi velenose armata?
O qual
già mai la triplicata forza
Del
tergemino mostro? o quale, in somma,
Di Diomede i
destrier che per le nari
Spiravan
fuoco alle bistonie terre
Ed
all'Ismaro intorno? o per l'adunche
Lor ungna i
già tremendi arcadi augelli
Di Stinfalo
abitanti? o 'l sempre desto
Angue, di
forza e di statura immane,
Il qual con
ceffo irato e bieco sguardo
Negli orti
dell'esperidi donzelle
Fu custode
de' pomi aurei lucenti
Al tronco
stesso avviticchiato intorno?
Ed a chi
nocerebbe il mar vicino
All'Atlantico
lido od il severo
Pelago
immenso, ove de' nostri alcuno
Non giunse e
tanto il barbaro d'ardire
Non ha che
girvi osasse? ogni altro mostro
Simile ai
già narrati, a morte spinto
Dal forte
invitto e glorïoso Alcide,
Ben che
morto non fosse, e di che danno
Vivo al fin
ne saria? Di nullo al certo,
Se dritto
è 'l mio giudizio: in così fatta
Guisa di belve
ancor pregna è la terra,
E di gelido
orror colma e di téma
Per le selve
profonde e pe' gran monti:
Luoghi che
lo schivargli è in poter nostro.
Ma, se
l'alma non è purgata e monda
Dalle
fallaci opinïon del volgo,
Venti
contrari alla tranquilla vita,
Quai guerre
allor, mal nostro grado, e quanti
Ne
s'apprestan perigli? e quai pungenti
Cure
stracciano il petto a chi non frena
Gli sfrenati
appetiti? e chenti e quali
Ne
tormentano il cor vane paure
Che sorgon
quindi? e quali stragi e quante
Generan la
superbia e l'arroganza,
L'ira, la
fraude, la sozzura, il lusso,
La gola, il
sonno e l'ozïose piume?
Dunque,
colui che debellò primiero
Tali e tante
sciagure, e via cacciolle
Lungi da'
nostri petti e non con l'armi
Ma pur col
senno, un sì grand'uomo adunque
Convenevol
non fia che fra' celesti
Numi
s'ascriva, e che per dio s'adori?
Massime,
avendo de' medesmi dèi
Scritto
divinamente e delle cose
Tutta
svelata a noi l'interna essenza?
Di cui mentr'io le sacre orme calcando
Seguo lo
stile incominciato, e mostro
Nelle parole
mie con quai legami
D'amicizia e
d'amor tutte le cose
Create sian
dalla natura e quanto
Star ne
debbiano avvinte e come indarno
Procuran di
schivar del tempo edace
I decreti
immutabili ed eterni;
Qual
dell'animo uman principalmente
Già
si provò che di natia sostanza
Creata
è la natura e che non puote
Eternamente
conservarsi intatta,
Ma che
spesso ingannar soglion gli spettri
Le menti di
chi dorme allor che parne
Veder chi
morte in cenere converse;
Nel resto il
preso metodo mi tira
A
dovert'insegnar, che di mortale
Corpo
è il mondo e nativo, ed in quai modi
Il concorso
degli atomi fondasse
La terra, il
cielo, il mar, le stelle, il sole
E 'l globo
della luna, e quai viventi
Nascan dal
grembo dell'antica madre
E quali anco
all'incontro in alcun tempo
Nascer
già mai non ponno, e come gli uomini
Varïando
favella incominciassero
L'un l'altro
insieme a conversar per mezzo
De' nomi
delle cose, e com'entrasse
Il timor
degli dèi ne' petti nostri
Che sol qua
giù quasi beate e sante
Custodisce
le selve, i laghi, i templi,
Sacri a'
numi immortali e l'are e gl'idoli.
Del sole, in
oltre, e della luna il corso
Dirotti onde
proceda e con qual forza
Natura i
moti lor tempri e governi;
Acciò
tu forse non pensassi, o Memmo,
Che tai cose
per sè libere e sciolte
Vadano ogn'or
per lo gran vano errando
Spontaneamente
in fra la terra e 'l cielo
Per dar vita
alle piante al grano all'erbe
Agli uomini
alle fere, e non pensassi
Che nulla
mai ne si raggiri intorno
Per opra
degli dèi. Poichè; quantunque
Già
sappia alcun ch'imperturbabil sempre
E tranquilla
e sicura i santi numi
Menin
l'etade in ciel; se non di meno
Meraviglia e
stupor l'animo intanto
Gl'ingombra
onde ciò sia che possan tutte
Generarsi le
cose e spezialmente
Quelle che
sopra 'l capo altri vagheggia
Ne' gran
campi dell'etra; ei nell'antiche
Religïon
cade di nuovo, e piglia
Per
sè stesso a sè stesso aspri tiranni
Che 'l miser
crede onnipotenti, ignaro
Di
ciò che puote e che non puote al mondo
Prodursi e
come finalmente il tutto
Ha poter
limitato e termin certo.
Nel resto; acciò ch'io non ti tenga a bada
Pur fra
tante promesse; or via contempla
Primieramente
il mar la terra il cielo.
La loro
essenza triplicata, i loro
Tre corpi, o
Memmo, tre sì varie forme,
Tre
sì fatte testure, un giorno solo
Dissolverà;
nè, se mill'anni e mille
Si resse,
eterna durerà, ma tutta
La gran
macchina eccelsa al fin cadrà.
E so ben io
quant'impensata e nuova
Cosa e
stupenda è per parerti, o Memmo,
La futura
del mondo alta ruina,
E quanto il
ciò provar con argomenti
Sia
difficile impresa; a punto come
Succede
allor che inusitate e strane
Cose
appòrti all'orecchie, che negato
T'è
non per tanto il sottoporle al senso
Degli occhi
e delle mani, onde munita
S'apre il
varco la fede e può secure
Del cor
guidarle e della mente al tèmpio.
Ma io la pur
dirò: forse a' miei detti
Per
sè medesmo intera fede il fatto
Sforzeratti
a prestar: forse vedrai
L'ampia
terra agitata orribilmente
Squassarsi
in breve e dissiparsi il tutto.
Il che lungi
da noi volga fortuna,
E più
tosto il mio dir che 'l fatto stesso
N'induca a
confessar che debbe al fine
Dagli urti
dell'età percosso e vinto
Con orrendo
fragor cadere il mondo.
Del che pria ch'io gli oracoli futuri
Prenda a
svelar, molto più santi e certi
Di quei
ch'è fama che dal sacro lauro
Di Febo e
dalle pitie ampie cortine
Uscisser
già; se nol ricusi, io voglio
Porgerti in
brevi sì, ma però saggi
Detti un
lungo conforto: acciò che forse
Dalla
religïon tenuto a freno
A creder non
ti dia che 'l cielo, il mare,
La luna, il
sole, il terren globo e tutte
L'auree
stelle vaganti e gli astri immobili
Abbian corpo
immortal santo e divino,
E che giusto
però sia che coloro
Che del
mondo atterrar le mura eccelse
Con gli
argomenti lor bramano, e tanto
Osan che sin
d'Apollo i rai lucenti
Smorzar
vorriano ed oscurar notando
Con mortal
lingua gl'immortali e divi,
Qual nuovi
al ciel nemici empi giganti,
Del
temerario ardir paghino il fio.
Ma vadan pur
sì fatte cose in bando
Dalla divina
maestà sì lungi,
E si stimin
sì vili e tanto indegne
D'esser
ascritte in fra gli eterni dei,
Che
più tosto dagli uomini credute
Sian di moto
vital prive e di senso.
Posciachè
irragionevole per certo
Par che sia
l'affermar, che della mente
La natura e
'l consiglio unir si possa
A qualunque
materia; in quella stessa
Guisa che
per lo ciel nascer le piante
Non ponno, e
dentro il mar sorger le nubi,
Nè
spirto e vita aver ne' campi i pesci,
Nè da
legno spicciar tiepido sangue,
Nè
mai succo spillar da pietra alpina.
Certo ed
acconcio è per natura il luogo,
Ove crescan
le cose, ov'abbian vita.
Così
dunque per sè l'alma e la mente
Senza corpo
già mai nascer non puote
Nè
dal sangue vagar lungi e da' nervi.
Poichè,
se ciò potesse, ella potrebbe
Molto
più facilmente o nella testa
Vivere o
nelle spalle o ne' calcagni,
E nascer
anco in qualsivoglia parte
Del corpo, e
finalmente abitar sempre
Nell'uomo
stesso e nello stesso albergo.
Onde; poi
che prefisso i corpi nostri
Han da
natura ed ordinato il luogo
Ove
distintamente e nasca e cresca
La natura
dell'animo e dell'anima;
Tanto men
ragionevole stimarsi
Dee, che la
possa separata affatto
Dal corpo e
dalla forma d'animale
Nascer
già mai, nè mantenersi in vita
O del sol
nelle fiamme o della terra
Nelle
putride zolle o ne' sublimi
Campi
dell'etra o nel profondo abisso
Del mar.
Dunque, se d'anima e di vita
Son prive
affatto queste cose, or come
Goder pônno
immortal senso e divino?
Nè men creder si dee che in alcun luogo
Del mondo
aver possan gli dèi le sante
Lor sedi.
Con ciò sia che la sottile
Forma de'
numi eterni è sì remota
Da tutti i
nostri sensi che la sola
Mente
v'aggiunge col pensiero a pena;
E,
perch'ella ogni tatto ogni percossa
Schiva
dell'altrui man, toccar non deve
Nulla ch'al
tatto altrui sia sottoposto;
Che chi
tócco non è toccar non puote.
Sì
che d'uopo fia pur ch'assai difformi
Sian dalle
nostre degli dèi le sedi
E tenui e a'
corpi lor simili in tutto,
Sì
come altrove io proverotti a lungo.
Il dir poscia che dio per util nostro
Volesse il
mondo fabbricare, e quindi
Com'opra
commendabile e divina
Da noi
doversi commendare e crederlo
Eterno ed
immortal, nè convenirsi
Il tentar
con parole in alcun modo
Dal suo
seggio sturbarlo e fin dall'imo
Scuoterlo e
volger sottosopra il tutto;
Il finger,
dico, queste cose ed altre
Molte a lor
simiglianti è, s'io non erro,
Un'espressa
pazzia. Poichè qual utile
Può
mai la nostra grazia agl'immortali
E beati
apportar, ch'a muover gli abbia
Ad oprar
cosa alcuna a pro degli uomini?
E qual mai
novità tanto allettarli
Poteo, che
dopo una sì lunga quiete
Da lor
goduta per l'innanzi il primo
Stato
bramasser di cangiare in meglio?
Con
ciò sia che piacer le cose nuove
Debban solo
a color che dall'antiche
Han qualche
danno. Ma chi visse innanzi
Sempre lieto
e contento e mai soggetto
A travagli
non fu, come? e da cui?
Quando? e
perchè d'una tal brama acceso
Esser poteo?
Forse, mi credo, allora
In tenebre
la vita ed in tristezza
Si giacque,
in fin che delle cose il primo
Origine
rifulse. E qual avrebbe
Dato all'uom
nocumento il mai non essere
Uscito a
respirar l'aure vitali?
Posciachè
ben conviensi a ognun che nasce
Il procurar
di conservarsi in vita,
Fin che
gioie e diletti inebrian l'alma:
Ma chi mai
non gustò del viver nostro
L'amor,
nè fu del numero, qual danno
Dal non
esser creato unqua aver puote?
In oltre:
onde impiantate ai numi eterni
Fûr le
idee, fûr gli esempli, ond'essi in prima
Tolser
ciò che d'oprare ebber talento?
E come unqua
saper de' primi corpi
Potetter
l'energia? come vedere
Quant'essi
in varïando ordine e sito
Fosser atti
a produr, se dalla stessa
Natura col
crear non li fu dato
Vero indizio
di ciò? Poichè in tal guisa
Fûr
delle cose molti semi in molti
Modi
percossi eternamente e spinti,
E da' propri
lor pesi ebbero in sorte
D'esser
cacciati e trasportati in varie
Parti
dell'universo e d'accozzarsi
Fra loro in
varie guise e di tentare
Tutto
ciò che crear poteano, in modo
Che per cosa
mirabile additarsi
Non dee,
s'in tai dispositure al fine
Caddero e in
tali vie, quali or bastanti
Sono a
produr rinnovellando il tutto.
Chè se pur delle cose ignoti affatto
Mi fossero i
principii, io non per tanto
Ardirei
d'affermar sicuramente
Per molte e
molte cause e per le stesse
Proporzioni
del ciel, che l'universo
Che tanto
è difettoso esser non puote
Per opra
degli dèi fatto dal nulla.
E pria:
quanto del ciel copre e circonda
La volubile
forza; indi in gran parte
È da
monti occupato e da boscaglie,
Nidi di fere
e d'animai selvaggi,
E da rupi
scoscese e da paludi
Vaste
ingombrato e da profondi abissi
Di mar che
largamente apre e disgiunge
I confin
della terra; indi l'ardente
Zona e le
fredde a miseri mortali
Tolte han
quasi due parti. Or quel che resta
Di spine e
bronchi e triboli coperto
Già
fôra, se dell'uom non l'impedisse
L'industria
a gemer per la vita avvezza
Con
gagliardo bidente e con adunco
Aratro a
fender della terra il dorso.
Chè,
se volgendo le feconde zolle
Col vomere
sossopra e 'l suolo arando,
Fertil non
si rendesse, il gran le biade
Mai per
sè non potrian nell'aure molli
Sorger: e
nondimen, cerche sovente
Con
travaglio e fatica allor che tutte
Già
di fronde e di fiori ornano i campi,
O da' rai
troppo caldi arse del sole
Sono o da
pioggia repentina oppresse
O da gelida
brina intempestiva
Ancise o dal
soffiar d'austro e di coro
Con urto
impetüoso a terra sparse.
In oltre: ed
a qual fin nutre e feconda
Natura delle
belve in mare in terra
Il germe
orrendo all'uman germe infesto?
E
perchè le stagion varie dell'anno
N'adducon
tanti morbi? e perchè vaga
Immatura la
morte? Arrogi a questo,
Che 'l
misero fanciul, quasi dall'onde
Vomitato
nocchier, nudo ed infante
Giace sul
terren duro, e d'ogni aiuto
Vitale ha
d'uopo, allor ch'a' rai del giorno
Fuor
dell'alvo materno esponlo in prima
Con acerbo
dolor natura, e 'l tutto
Di lugubri
vagiti empie e di pianto;
Qual a punto
conviensi a chi nel breve
Corso di
nostra vita esser dee segno
Ad ogni
stral delle sventure umane.
Ma crescono
all'incontro armenti e greggi
E fiere
d'ogni sorte, e non han d'uopo
Di cembali,
di tresche o di nutrice
Che con
dolce e piacevole loquela
Senza punto
stancarsi in vari modi
Gli
vezzeggi, gli alletti e gli lusinghi,
Nè,
secondo che vario è 'l tempo e il cielo,
Cercan vesti
diverse, e finalmente
Non han
d'armi mestier, non d'alte mura
Con le quai
sè medesmi e le lor cose
Guardin;
mentre per sè porge feconda
Largamente
la terra e delle cose
La dedalea
natura il tutto a tutti.
Pria: perchè il terren duro e l'acque molli,
Dell'aure il
lieve spirto e 'l vapor caldo,
Dalla cui
mistïon sembra che 'l tutto
Si formi, ad
un ad un nativo il corpo
Hanno e
mortal; creder si dee che 'l mondo
Sia tutto
anch'ei della natura stessa.
Poichè
qualunque cosa ad una ad una
Le sue parti
ha native ed è di forme
Caduche,
esser da noi sempre si vede
Natia non
pur, ma sottoposta a morte.
Onde,
veggendo noi le principali
Membra del
mondo riprodursi estinte,
Quindi lice
imparar che in somigliante
Guisa il
cielo e la terra ebbero il primo
Giorno e
ch'a tempo suo l'estremo avranno.
Nè qui vorrei che tu credessi, o Memmo,
Ch'io fin or
corruttibile supposta
Abbia fuor
di ragion la terra e 'l foco
E l'aure
aeree e il mar profondo e detto
Che questi
stessi corpi anco di nuovo
Si rigeneran
tutti e si fan grandi.
Pria;
perchè parte della terra adusta
Dal sol
continuo e stritolata e infranta
Dalla forza
de' piè, sfuma di polve
Nebbie e
nubi volanti, che per tutto
L'aere da'
venti son disperse e sparse;
Parte ancor
delle glebe a forza è data
Dalle piogge
alla piena e rase e róse
Son da'
fiumi le rive anch'esse in parte.
In oltre;
sminuito è dal suo canto
Ciò
ch'altri nutre: e perchè dubbio alcuno
Non v'ha che
sia madre del tutto ed urna
Anco e
sepolcro universal del tutto,
Rasa
è dunque la terra e si rintégra.
Nel resto;
ch'i torrenti i fiumi il mare
Abbondin
sempre d'umor nuovo, e sempre
Stillin
chiaro liquor le vive fonti,
Mestier non
ha d'alcuna prova: a pieno
Certamente
il dimostra il lungo corso
Dell'acque;
E pria ciò che dall'acque in alto
Ergesi, e
brevemente opra che nulla
Cresca il
liquido umor più che non deve:
Parte,
perchè da' venti, allor ch'irati
Volgon
sossopra il mar, per l'aure è sparso
E dal sol
dissipato: e parte ancora,
Perch'egli a
tutti i sotterranei chiostri
Vien
largamente compartito, e quivi
Lascia il
salso veleno, e di nuov'anco
Sorge in
più luoghi, e tutto al fin s'aduna
De' fiumi al
capo e in bella schiera e dolce
Scorre sopra
'l terren per quella stessa
Via che per
sè medesma aprirsi in prima
Poteo col
molle piè l'onda stillante.
Or dell'aria
dich'io, che 'n tutto il corpo
Innumerabilmente
ogn'or si muta.
Poichè
ciò che dal mare e dalle cose
Terrestri
esala, entro il profondo e vasto
Pelago aereo
se ne vola e tutto
Si cangia in
aria: or, se da questa i corpi
Non fossero
all'incontro alle spiranti
Cose
restituiti, il tutto omai
Saria
disfatto e trasmutato in aria:
Dunque
l'aere già mai di generarsi
Non cessa
d'altre cose e in altre cose
Giornalmente
corrompersi; che tutte
Mancar
già noto e manifesto è a tutti.
Ma de'
liquidi raggi il largo fonte
Di recente
candor mai sempre irriga
Le stelle e
l'etra e gli elementi, e ratto
Ministra al
ciel con nuovo lume il lume.
Poichè
ciò che di lume, ovunque il vibri,
Ei perda,
indi imparar perfettamente
Si
può da noi, che non sì tosto al sole
Veggiam le
nubi sott'entrare e tutti
Quasi
interromper di sua luce i rai,
Che repente
di lor svanisce affatto
L'infima
parte, e 'l terren globo adombrasi
Ovunque i
foschi nembi il volo indrizzino:
Onde
conoscer puoi che sempre il tutto
D'uopo ha di
splendor nuovo, e che perisce
Ciò
che pria di fulgor si sparse intorno,
E che per
altra via vedersi i corpi
Non
potrebbero al sol, s'egli il principio
D'un
perpetuo fulgor non ministrasse.
Anzi i lumi
terrestri al buio accesi,
Le pendenti
lucerne e le corrusche
Di fumante
splendor pingui facelle,
Anch'esse
ardendo in cotal guisa avacciansi
Di sparger
nuova luce, ed istan sempre
Di
scintillar con tremole fiammelle;
Instano, e
luogo alcun quasi interrotto
Non lascia
il lume lor: con sì gran fretta
De' suoi
lucidi rai l'alta ruina
Col veloce
natal sostiene il foco.
Il sol
dunque, così, la luna e tutte
L'auree
immobili stelle e le vaganti
Creder
dèi che per altro ogn'ora ed altro
Successivo
natal vibrino intorno
Il lume e
perdan la primiera forma:
D'uopo
è pur dunque il confessar che queste
Cose,
com'altri pensa, esser non ponno
Di corpo
irresolubile ed eterno.
In somma:
dall'etade il bronzo il marmo
Vinto al fin
non si mira? e l'alte rôcche
Non rovinano
a terra? e il duro sasso
Non è
róso e marcisce? e l'are e i templi
De' numi
eterni e' simolacri e gl'idoli
Non vacillan
già lassi, e d'ogn'intorno
Mostrano
aperto il travagliato fianco?
Nè
può la santa maestà del fato
Debellare i
confin nè farsi incontra
Di natura
alle leggi e vïolarle.
Al fin non
veggiam noi d'ogni uomo illustre
Ceder l'alte
memorie ed invecchiarsi
Per subito
accidente? e le robuste
Selci da'
monti alpestri anco alle volte
Staccarsi e
rovinar, nè d'un finito
Tempo
soffrir le smisurate forze?
Con
ciò sia che staccarsi e 'n giù repente
Non
potrebber cader, se dell'etade
Fin da tempo
infinito ogni urto ogn'impeto
Prive d'ogni
fragor sofferto avessero.
Al fin: mira
oggi mai ciò che d'intorno
N'è
sopra e 'l terren globo abbraccia e stringe,
E, com'altri
han creduto, eternamente
Sol di
sè pasce e in sè riceve il tutto:
Tutto
è nativo e di mortal sostanza
Formato: con
ciò sia che ciò che nutre
Di sè
le cose e l'augumenta è d'uopo
Che scemi,
e, quando poscia in sè ricevele,
È
mestier che s'accresca e si restauri.
In oltre: se la terra e 'l ciel non ebbero
Alcun
principio genitale e sempre
Perpetui
fûro, e per qual causa innanzi
Alla guerra
tebana e d'Ilio al rogo
Non cantaro
altre cose altri poeti?
Ove di tanti
uomini illustri e tanti
Cadder le
gesta glorïose? e come
Non
fioriscon anc'oggi in luogo alcuno
Di fama
eterna alle memorie inserte?
Ma, sì come stim'io, nuova è la somma
Del tutto, e
nuovo è 'l mondo, e molto innanzi
Non ebbe il
nascimento: ond'alcune arti
Inventansi
anche adesso, et anco adesso
Pulisconsi
alcun'altre. Or molti arnesi
Fûro
aggiunti alle navi, or messi in uso
I sonori
concerti: e finalmente
Questa
stessa cagione e questa stessa
Natura delle
cose, ancor che molto
Sia che
già fu trovata, omai del tutto
Quasi
sepolta in sempiterno oblío,
Pur di
fresco è risorta, vie più vaga
E più
bella che mai, per le immortali
Opre del
gran Gassendo, onore e lume
Del bel
paese ove la Senna inonda.
Et io pur or
principalmente, io stesso
Fui trovato
fra tanti, ed ebbi in sorte
D'esporla
altrui nella paterna lingua
Pria d'ogni
altro toscan, come dettolla
Per entro ai
dotti suoi carmi robusti
Pria d'ogni
altro romano il gran Lucrezio.
Chè
se forse tu credi esserc'innanzi
State
più volte le medesme cose
Ch'al
presente ci son, ma che l'umana
Specie da
grave incendio arsa perisse,
E ruinasse
ogni città squassata
Da crudel
terremoto, o troppo gonfi
Per pioggia
assidua dal natio lor letto
Uscissero i
torrenti e d'ogn'intorno
Sommergesser
la terra et affogassero
Ogni uomo
ogni animal; tanto più vinto
T'è
d'uopo il confessar che debbe al fine
La terra e
'l ciel pur dissiparsi in tutto:
Che, ove da
tali e tanti morbi e tanti
E sì
fatti perigli il mondo fosse
Tentato, ivi
eziandio, se causa alcuna
Più
robusta l'urtasse, alte ruine
Mostreria di
sè stesso e strage orrenda.
Nè
per altra cagion d'esser mortali
Pur ne
sovvien, se non perchè soggetti
Siam tutti
a' mali stessi onde natura
Già
tolse ad un ad un gli altri di vita.
In oltre: tutto quel che dura eterno
Conviene; o
che respinga ogni percossa
Per esser
d'infrangibile sostanza,
Nè
soffra mai che lo penetri alcuna
Cosa che
disunir possa l'interne
Sue parti,
qual della materia a punto
Gli atomi
son, la cui natura innanzi
Già
per noi s'è dimostra; o ch'immortale
Viva,
perchè dagli urti affatto esente
Sia, come il
vôto il qual durando intatto
Mai non
soggiace alle percosse un pelo;
O
perch'intorno a lui nessuno spazio
Non sia dove
partirsi e dissiparsi
Possa, come
la somma delle somme
Fuor di
sè non ha luogo ove rifugga
Nè
corpo che l'intoppi e con profonda
Piaga
l'ancida e però vive eterna.
Ma
nè, come insegnammo, esser contesto
Il mondo
può d'impenetrabil corpo,
Chè
misto è sempre in fra le cose il vôto;
Nè
però com'il vôto intatto vive,
Poichè
corpi non mancano che sorti
Dall'infinito
ed agitati a caso
Possan
cozzar con vïolento turbine
Questa somma
di cose ed atterrarla,
O farne in
altri modi orrido scempio;
Nè
del luogo l'essenza e dello spazio
Profondo
manca, ove distrarsi e spargersi
Il mondo
possa e per lo vano immenso
Spinto da
qualunqu'altra esterna forza
Finalmente
perir. Dunque alla terra
Al mare al
cielo al sol mai del ferètro
Non è
chiusa la porta; anzi all'incontro
Sta sempre
aperta, e con profonda e vasta
Gola
minaccia d'inghiottirsi il tutto.
Sì
che d'uopo fia pur che tu confessi
Ch'egli
ancora è natio; poichè mortale
Essendo non
avrebbe omai potuto
Schermir
d'immensa età gli urti e la possa.
Al fin: poichè fra lor vedi le membra
Principali
del mondo in così fatta
Guisa pugnar
con empia orribil guerra,
Forz'è
pur che tu dica; una battaglia
Sì
lunga aver dee qualche fine, o quando
Del sole il
foco o qualunqu'altro ardente
Vapor,
succhiando e dissipando affatto
Il nutritivo
umor, vittoria avranne.
Il che far
tutta via tenta, ma pure
Non han per
anco i suoi gran sforzi effetto.
Tanto i
fiumi d'umor vanno all'incontro
Compartendo
alle cose, e dal più cupo
Gorgo
minaccian d'annegare il tutto;
In van,
poscia che i venti, allor che irati
Spazzan
soffiando il mar, scemano in parte
L'acque, e
l'etereo sol co' raggi anch'egli
Le scema in
parte e le disperge in aura,
E pria tutte
le cose arder confida
Che possa
unqua l'umor giungere al fine
Bramato dell'impresa.
In così fatta
Guisa fan
tutta via con posse eguali
Fra lor
cruda battaglia, e di gran cose
Muovon gran
lite, e per finirla a gara
Opran ogni
lor forza; avendo il foco
Vinto una
volta e dominato il mondo,
Come fama
ragiona, e 'l liquor molle
Regnato
un'altra pel contrario e tutto
Sommerso il
grembo dell'antica madre:
Che vinse il
foco e molte cose allora
Ardendo
incenerì, ch'Eto e Piróo
Di strada
usciti il temerario auriga
Mal frenati
da lui per ogni clima
Della terra
e del ciel trassero a forza:
Ma quel che
tutto può, padre e signore,
D'ira
infiammato allor, con vïolento
E repentino
fulmine gettollo
Dal cocchio
in terra; e 'l sol fattosi incontro
Al cadente
garzon, tosto riprese
La gran
lampa del mondo, e ricongiunse
I dispersi
cavalli e per l'usato
Calle gli
spinse ancor lassi e tremanti,
Quindi
reggendo il suo viaggio il tutto
Porse alle
cose il debito ristoro:
Qual de'
greci poeti anticamente
Cantâr
l'inclite trombe; in ciò bugiarde,
Poichè
vincer può il foco ove più corpi
Della
materia sua dall'infinito
Sórti
assalgon l'umor, quindi o le forze
Dal lor
contrario rintuzzate e dome
Caggiono o
dall'ardenti aure abbruciate
Muoion le
cose. E similmente è fama
Ch'un tempo
vincitor fosse a vicenda
L'umor del
foco, allor che i fiumi uscendo
Fuor dell'alvo
natio molte sommersero
Ampie terre
e città: ma poi ch'indietro
Il nemico
vigor dall'infinito
Sórto per
qualche causa il piè ritrasse,
Fûr le
piogge affrenate e in un represso
L'orgoglio e
'l corso impetüoso a' fiumi.
Ma io, come degli atomi il concorso
Fondasse il
cielo, il terren globo, il mare,
La luna e 'l
sol, racconterotti, o Memmo.
Chè
certo è ben ch'i genitali corpi
Con sagace
consiglio e scaltramente
Non
s'allogâr per ordine, nè certo
Seppe nessun
di lor che moti ei desse:
Ma;
perchè molti primi semi in molti
Modi
fûr già per infinito tempo
Da colpi
innumerabili percossi,
E da' propri
lor pesi ebbero in sorte
D'esser
commossi e trasportati in varie
Parti
dell'universo e d'accozzarsi
Fra loro in
ogni guisa e di tentare
Tutto
ciò che produr potean congiunti;
Quindi
avvien poi che, dissipati e sparsi
Per lo vano
infinito ed ogni sorte
Di moto e
d'unïon provando, al fine
Più
s'adattano insieme, e non sì tosto
Adattati si
son che di gran cose
Divengon
semi ed a produr son atti
La terra, il
mare e gli animali e 'l cielo.
Qui nè dell'aureo sol potea mirarsi
Il cocchio
luminoso errar per l'alto,
Nè
stelle o mare o ciel nè finalmente
Vedersi aria
nè terra o cosa alcuna
Simigliante
alle nostre. Indi una certa
Nuova
tempesta insorse et una massa
D'atomi che
svanir fe' dello spazio
Le parti; ed
a congiungersi i principii
Simili
incominciaro et ad aprirne
Il mondo e
le sue membra e le sue parti,
Disgiungerle,
ordinarle e d'ogni sorte
Di principii
arricchirle; i cui concorsi
Gli spazi i
pesi le percosse i moti
Le vie gli
accozzamenti alta discordia
Turbava, e
vi mescea risse e battaglie,
Per le varie
figure e per le forme
Difformi;
onde restar tutte in tal guisa
Congiunte
non potean, nè compartirsi
Convenevoli
moti. Or questo, o Memmo,
È
separar dal terren globo il cielo,
E far che
d'acque separate abbondi
Disgiunto il
mare, e similmente i puri
Fochi
dell'etra ardan divisi anch'essi.
Posciachè della terra i genitali
Corpi,
perch'eran gravi e l'un con l'altro
Tutti in
più modi avviluppati, univansi
Primieramente,
e nel più basso centro
Prendean lor
sedi; e quanto più connessi
Insieme
s'adunâr, tanto più lungi
Spresser
quei che produrre il mar le stelle
Doveano e 'l
sole e della luna il corno
Lucido e le
muraglie alte del mondo:
Con
ciò sia che tai cose e di più lisci
Corpi son
fatte e di più tondi e piccoli
Atomi che la
terra. E quindi accade
Che l'etra
in pria, per lo suo raro uscendo
Impetuosamente
e molte seco
Fiamme
traendo, sormontò leggiero:
Quale a
punto veggiam, quando per l'erbe
Di rugiada
ingemmate il mattutino
Aureo lume
del sol d'ostro si tinge,
Gli stagni e
i laghi esalar nebbia, e' fiumi
Perenni, e
'l terren molle anco tal volta
Fumar si
mira; or, poi ch'in alto ascesi
S'uniscon
questi corpi e in un sol gruppo
Compressi
intorno da rabbiosi venti
Corrono ad
accozzarsi, il ciel sereno
Copron di
nubi. In cotal guisa adunque
Il lieve
etere allor, che per natura
D'ogn'intorno
si sparge, in una massa
Sola ridotto
circondò se stesso
Da tutti i
lati, e, largamente sparso
Per lo vano
infinito, intorno chiuse
Di folta
siepe e d'ampie mura il resto.
Della luna e
del sol quindi i principii
Seguîr, che
nè la terra attribuirsi
Poteo
nè 'l vasto ciel: poichè nè gravi
Eran
sì, che, depressi e da' lor propri
Pesi spinti
all'in giù, nel basso centro
Fosser atti
a seder, nè lievi in guisa
Che scorrer
per l'altissime campagne
Potesser; ma
fra l'etra e 'l nostro globo
Han pur tal
sito, che girar due corpi
Ponno e di
tutto il mondo esser gran parte:
Qual
nell'uomo eziandio lice ad alcune
Membra ferme
posar, ben ch'altre ed altre
Sian mai
sempre agitate. Or, queste adunque
Cose accolte
in sè stesse, in un baleno
La terra,
ov'or dell'oceàn profondo
Vòlto
è 'l clima maggior, cadde depressa,
E
formò del suo grembo ampia caverna
Nel salso
gorgo. E quanto più dall'etere
E da' raggi
del sol di giorno in giorno
Verso gli
estremi limitari aperta
Sovra e da
tutti i lati era compressa
E con urti
continui a condensarsi
Forzata ed a
ristringersi ed unirsi
Nel centro
suo; tanto più spresso il salso
Sudore
usciane e dilatato i molli
Campi
intorno accrescea del mare ondoso,
E dell'aria
i principii e del vapore
Tanto
più n'esalavano e volando
Lungi da
terra i chiari eccelsi templi
Condensavan
del ciel. Scendeano in tanto
I campi, e
s'appianavano; e degli alti
Monti l'erto
salía; ch'i duri sassi
Non poteano
abbassarsi et egualmente
Ceder tutte
le parti. In cotal guisa
Dunque
formato di concreto corpo
Fu della
terra il pondo, e, quasi un fango
Di tutto il
resto, sdrucciolò nell'imo
Centro e
qual feccia si fermò nel fondo.
Quindi il
mar quindi l'aere e l'etra ignifero
Restâr
liquidi e molli e l'un dell'altro
Più
lieve; e liquidissimo e purissimo
L'etere e
leggerissimo all'aeree
Aure
sovrasta. E, ben che queste all'etere
Turbino il
molle corpo, ei non per tanto
Con lor non
si rimescola, ma lascia
Che tutte
queste cose ogn'or s'avvolgano
Fra
vïolenti turbini, e permette
Ch'elle sian
da procelle incerte e varie
Sempre
agitate: egli però con certi
Impeti i
fuochi suoi move scorrendo:
Chè
volgersi con ordine et avere
L'etere una
sol forza, aperto mostra
Un sì
vasto oceàn che, vada o torni,
Certo
è nel moto e un sol tenor conserva.
Or cantiamo onde i moti abbian le stelle.
Pria: se
l'ampio del cielo orbe s'aggira,
Creder si
dee che quinci e quindi il polo
Sia
dall'aria compresso e d'ambi i lati
Di fuor
chiuso e ristretto; indi ch'un altro
Aer sopra ne
scorra e 'l corso indrizzi
Là
've del mondo eterno a volger s'hanno
Le stelle
ardenti, e che di sotto un altro
Erga al
contrario il ciel; come tal ora
Miri i fiumi
aggirar le ruote e i plaustri.
Forse
immobile è l'orbe, ancor che tutti
Sian mossi i
chiari segni; o, perch'eterei
Rapidi
ondeggiamenti ivi racchiusi
Strada
cercando son portati in volta
E per gli
ampi del ciel templi sublimi
Si rivolgon
per tutto ignee procelle;
O pur scorre
d'altronde, e per di fuori
L'aer da
qualche parte agita e mesce
Gli eterei
fuochi; o ch'essi stessi pônno
Serper
là ove gli chiama ove gl'invita
D'ognuno il
proprio cibo, e, mentre a volo
Se ne van
per lo cielo, esca e ristoro
Porgono ai
vasti lor corpi fiammanti.
Posciachè
l'asserir qual delle addotte
Cause sia
vera in questo nostro mondo
È
difficile impresa: a me sol basta
Il dir
ciò ch'esser puote e che succede
Per
l'universo in vari mondi in varie
Guise
creati; e delle stelle ai moti
Piacemi
l'assegnar varie cagioni
Che
possibili sian per l'universo:
Delle quai
non pertanto una esser debbe
Quella
ch'agli aurei segni i movimenti
Porga: ma
l'affermar qual sia di queste
Opra non
è di chi cammina al buio.
Acciò poi che la terra entro il più cupo
Centro stia
ferma, è di mestier che sfumi
Il pondo o
manchi a poco a poco, e ch'abbia
Sotto
un'altra natura a sè congiunta
Fin da
principio e strettamente unita
Con le molli
del mondo aeree parti
Alle quai
vive inserta. E quindi all'aere
Non è
di peso, e non lo preme e calca:
Come nulla
aggravar posson le membra
Proprie
alcun uom nè d'alcun peso al collo
Esser la
testa, e qual ne' piedi al fine
Alcun pondo
del corpo unqua non senti;
Ma
qualunqu'altra mole esternamente
Posta sopra
di noi, ben che di peso
Di gran
lunga minor, spesso n'offende;
Tanto importa
a qual cosa e a cui s'appoggi.
Tal dunque
il terren globo incontinente
Trasportato
non fu quasi alïeno
D'altronde,
nè d'altronde all'aure imposto
Alïene
da lui; ma già con esse
Nacque fin
dall'origine primiero
Del mondo;
e, qual di noi paion le membra,
È
d'esso una tal parte. Accade in oltre
Ch'ella, da
grave tuon scossa repente,
Tutto
ciò ch'ell'ha sopra agita e scuote:
Il che far
non potria, se circondata
Non fosse
d'ogn'intorno e dall'aeree
Aure e
dall'ampio ciel; poichè comuni
Fin da
principio han le radici e stanno
Fra lor tai
corpi acconciamente uniti.
Forse non
vedi ancor quanto gran pondo
Di corpo in
tutti noi regga a sua voglia
Il vigor
tenuissimo dell'alma,
Sol
perch'ella è con lui sì acconciamente
Unita? e
qual virtude erger il corpo
Da terra ed
avvezzarlo agile e pronto
Al salto al
nuoto alla palestra al corso
Finalmente
potria, fuor che dell'alma
Il debile
vigor che il frena e regge?
Vedi tu
dunque omai quanto possente
Rïesca
un tenue corpo, allor che unito
Viene ad un
grave; in quella guisa a punto
Che son
l'aure alla terra e l'alma all'uomo.
Nè maggiore o minor molto è del sole
L'orbe e
l'ardor, di quel ch'appare al senso.
Chè,
sia pur quanto vuoi lungo lo spazio
Onde luce e
calor vibrano i fuochi,
Ei
però nulla toglie e nulla rade
Dal corpo
delle fiamme, e null'affatto
Stringer si
mira o raccorciarsi il fuoco.
Quindi,
perchè del sol la fiamma e 'l lume
Lanciato
arriva a' nostri sensi e puote
Tutta del
suo color tinger la terra,
Dee da terra
il suo globo anco apparirne
Tal che
veracemente alcun non possa
Crescerlo o
sminuirlo. Anco la luna,
O con luce
non sua vaghi e passeggi
Dell'etra i
campi o per se stessa il lume
Vibri, che
che ne sia, punto maggiore
Non è
di quel ch'ella si mostra all'occhio.
Poichè,
fissando di lontano il guardo
Per molto
aer frapposto, ogni altro corpo
Pria confuso
n'appar che scopra affatto
Gli ultimi
tratti: ond'è pur d'uopo ancora
Che,
poichè chiara e certa e come a punto
Dall'estremo
suo limbo è circoscritta
N'appar la
luna, ella di quinci in alto
Tanta a
punto quant'è da noi si scorga.
Al fin;
poich'ogni fiamma in terra accesa,
Mentre
chiara scintilla e 'l proprio ardore
Vibra, ben
che da lungi agli occhi nostri
D'assai poco
ingrandirsi o impiccolirsi
Mostra; ben
puossi argomentar da questo
Che le
fiamme che quinci arder nell'etra
Veggonsi
d'assai poco esser minori
Pônno o
maggior di quel ch'appare al senso.
Nè punto dee maravigliarsi alcuno,
Che
sì piccolo sol lume sì grande
Vibri, che
'l mare e 'l ciel tutto e la terra
Irrighi e
sparga di calore il tutto.
Poich'esser
può che quinci aperto un solo
Fonte di
tutto il mondo in larga vena
Sorga e da
tutti i mondi eternamente
Scaturisca
un sol fiume, ove in tal guisa
Del calor
della luce i genitali
Semi
concorran d'ogn'intorno, e dove
S'aduni il
gruppo in guisa tal, che n'esce,
Quasi da
proprio suo fonte perenne,
Questo lume
ed ardor. Forse non vedi
Quanto ancor
largamente i prati irrighi
D'acqua un
picciol ruscello e i campi allaghi?
Esser dunque
anco può che l'aer nostro,
Dal picciol
fuoco onde risplende il sole,
Di cocenti
fervori arda, se tanto
Per
sè stesso è disposto e così pronto
Che per
debili ardor possa infiammarsi:
Qual tal
volta le biade arder ne' campi
E la stoppa
veggiam, ben che una sola
Favilla
l'accendesse, e fumo e fiamma
D'ogn'intorno
eruttar. Forse anco il sole,
Splendendo
in ciel con la rosata lampa,
Molto di
fervor cieco a sè d'intorno
Fuoco
possiede; il qual non luce, e quindi
Può
de' lucidi rai tanto robuste
Render le
calorifiche percosse.
Nè chiara appar nè semplice nè certa
La cagione,
ond'il sol dall'orbe estivo
Giunga al
flesso brumal d'egocerote
E quinci
indietro ritornando il corso
Dal cancro
indrízzi al solstizial confine,
E come in un
sol mese il giro stesso
Compir
sembri la luna in cui si logora
Dal sole un
anno. Or la cagion di queste
Cose, torno
a ridirti, una nè certa
Assegnar non
si dee. Ch'esser ben puote,
Qual del
grande Abderita il saggio e santo
Parer
già fu, che, quanto più vicini
Son gli
astri a noi, tanto men ratti e mobili
Sian dal
turbo del ciel portati in volta:
Con
ciò sia che languisca e per di sotto
La
vïolenta sua rapida forza
Più e
più si dilegui; e quindi accaggia,
Che 'l sol
con l'altre stelle inferïori
Rimanga
indietro a poco a poco a' fervidi
Segni che
son da noi molto più lungi.
Ma del sol
più vicina anco alla terra
Certo
è la luna: e, quanto più dimessa
Giace
l'orbita sua lungi dal cielo
Et a noi
s'avvicina, il proprio corso
Tanto degli
altri segni anco ha più tardo;
E quanto al
fin con turbine men rapido
Al sole
inferïor gira per l'etere,
Tanto
più l'altre stelle aggiunger ponno
Il suo
lucido globo e trapassarlo:
E quindi
avvien che di tornar più ratta
A' segni
appar; poichè all'incontro i segni
Tornan
più ratti a lei. Fors'anco puote
Esser che da
traverso un'aria scorra
Dall'alterne
del mondo oblique parti
In un tempo
prefisso, e sia bastante
A spingere e
scacciar da' segni estivi
Il sole al
brumal punto ed al rigore
Aspro del
verno; e ch'un altr'aer tosto
Fin
dall'ombre gelate al calorifero
Flesso in
dietro il rispinga e a' segni fervidi:
E con pari
ragion la luna e l'altre
Stelle che
nel grand'orbe i lor grand'anni
Volgon
creder si dee ch'ire e tornare
Possan per
l'aere alterno atto a cacciarle.
Forse non
vedi ancor da vari venti
Spinte
scorrer le nubi in varie parti
E più
ratte dell'altre ir le piu basse?
Dunque chi può
negar che pei gran cerchi
Dell'etra
l'aer basti in così varie
Guise a
portar sì varie stelle in volta?
Ma con vasta caligine sorgendo
La notte
ingombra il terren globo; o quando
Già
scaccia il sol dopo il suo lungo corso
Del ciel
l'estime parti, e spira intorno
Languidi i
raggi omai debili e stanchi
Per lo
troppo vïaggio e dal soverchio
Aer
interposto conquassati e laceri;
O
perchè la medesima energia
Che pel ciel
sovra noi l'orbe sospinse
Sforzalo
anco a voltar sotterra il corso.
Ma del
vecchio Titon la bianca amica
Con la
fronte di rose e co' crin d'oro
Mena in
certa stagion l'alba vezzosa
Per l'eteree
campagne e n'apre il lume;
O
perchè di sotterra a noi tornando
Quel
medesimo sol co' rai precorre
Sè
stesso, e del lor foco il cielo accende;
O
perchè molte fiamme e molti semi
D'ardore in
stagion certa han per costume
D'unirsi, e
fan che sempre un lume nuovo
Di sol si
crei; come da' monti d'Ida
Fama
è che, mentre in orïente appare
L'aureo lume
del dì, miransi intorno
Varie fiamme
disperse, indi in un solo
Quasi globo
adunarsi e formar l'orbe.
Nè
dee con tutto ciò gran meraviglia
Parerti, o
Memmo, che in stagion sì certa
Questi semi
di fuoco atti ad unirsi
Sieno e del
sol rinnovellare il lume;
Poichè
molte da noi cose mirarsi
Posson,
ch'in ogni specie in tempo certo
Fannosi. In
certo tempo il bosco e 'l prato
Si veste, in
certo tempo anco si spoglia
Di fiori e
frondi; e nulla meno in certo
Tempo i
denti a cader sforza l'etade,
E di molle
lanugine a velarsi
Il
giovinetto corpo e le pulite
Guance di
molle barba; e finalmente
Le nebbie, i
venti, le tempeste e i fulmini.
Le nevi e i
ghiacci in non gran fatto in certi
Tempi si
crean. Poichè non prima i primi
Principii
delle cose in questa o in quella
Guisa
s'unir, che, qual prodotte al mondo
Fur dal caso
le cose in fin dal primo
Lor
nascimento, omai tal ne consegue
La natura di
tutte in ordin certo.
Crescer poi lice ai giorni et alle notti
Smagrirsi, e
divenir più brevi ai lumi
Qual or
l'ombre all'incontro hanno augumento:
O
perchè sotto terra e sopra terra
Il medesimo
sol con disuguali
Cerchi
correndo il ciel divide e l'orbe
Parte in non
giuste parti, e ciò che all'una
Tolse rende
all'opposta, in fin che al segno
Pervenga ove
dell'anno il nodo a punto
Alle tenebre
cieche il lume adegua;
Poich'a
mezzo il cammin del vïolento
Soffio di
borea e d'austro il ciel disgiunge
Quinci e
quindi egualmente ambe le mete,
E ciò
pel sito e positura obliqua
Dal
grand'orbe de' segni in cui serpendo
Il sol
logora un anno e con obliquo
Lume
circonda il terren globo e 'l cielo
(Qual a punto
osservâr quei che nell'etere
Tutto
osservâr di ben disposte imagini
L'orbe
trapunto): o perchè l'aere in certe
Parti
è più denso, onde sotterra il fuoco
Dubbio i
tremoli rai vibra e non puote
Sì
facilmente penetrarlo e sorgere
Sì
ratto in orïente; indi l'inverno
Duran le
lunghe notti in fin che giunga
L'alta
insegna del dì cinta di raggi:
O forse
ancor perchè dell'anno in varie
Stagioni
alternamente han per costume
D'unirsi
alcune fiamme e dissiparsi
Or
più presto or più tardi, e far che 'l sole
Cada e
risorga in vari luoghi e certi.
Splender poi può la luna, perchè i raggi
La percuotan
di Febo; ond'ella volga
Vèr
noi di giorno in giorno in apparenza
Lume tanto
maggior quanto dall'orbe
Suo
s'allontana, in fin ch'opposta e piena
Tutta
d'argentea luce ella rifulse
E l'esequie
del sol vide nascendo;
E quindi
ancor per lo contrario il lume
Tanto quasi
nasconda a poco a poco
Quanto a lui
più vicin gira il suo cerchio
Dall'altra
parte del zodiaco a punto:
Come parve a
color ch'ad una palla
Fingon che
la sia simile e che volga
Sotto l'orbe
del sole il proprio corso,
Ond'avvien
ch'affermar paiano il vero.
Fors'anco
può di propria luce ornata
Volgersi e
di splendor forme diverse
Agli occhi
appresentar; chè forse un altro
Corpo con
lei s'aggira e in varie guise
L'incontra e
l'impedisce, e non si vede,
Perchè
privo di luce il ciel trascorre.
E puote anco
il suo globo intorno a' poli
Propri
aggirarsi; in quella guisa a punto
Che potria
per metà tinta una palla
Di lucente
candor volta in sè stessa
Varie forme
mostrarne e vario lume,
In fin
ch'ella vèr noi tutta volgesse
La parte
luminosa e l'apparente
Suo sguardo,
e quindi a poco a poco indietro
Rivolgesse
il suo globo e n'occultasse
La sua
lucida faccia; in quella stessa
Guisa ch'i
babilonici dottori,
I caldei
confutando, incontro all'arte
Degli
astrologi lor tentan provarne;
Come
verificarsi ambi i pareri
Non possano,
o vi sian ferme ragioni
Onde quel
più che questo altri difenda.
Al fin:
perchè non può con ordin certo
Di figure e
di forme esser prodotta
Sempre una
nuova luna, et ogni giorno
Scemar da
quella parte ond'essa in prima
Creata fu
mentre dall'altra opposta
Va crescendo
altrettanto e si restaura?
Certo che 'l
dimostrar con evidente
Ragion che
ciò sia falso e con parole
Convincerlo
abbastanza, è dura et aspra
Impresa,
quand'ognun vede mill'altre
Cose con
ordin certo esser prodotte.
Torna la
vaga primavera e seco
Venere torna
e messaggier di Venere
Zeffiro
alato e l'orme sue precorre;
Cui la madre
de' fior tutta cosperge
La strada
innanzi di color novelli
Bianchi,
gialli, vermigli, azzurri e misti,
E di soavi
odor l'aere riempie.
Quindi nel
luogo suo l'arida estate
Succede, e
per compagna ha l'alma Cerere
Sparsa di
polve il crin e il soffio etesio
Del rigido
aquilon. Quindi l'autunno
Ne segue, e
in un con lui l'evio Evoè:
Quindi
l'altre stagioni e quindi gli altri
Venti, e
Volturno altitonante ed Austro
Cinto di
nembi e turbini sonori.
La bruma al
fin reca le nevi e 'l pigro
Ghiaccio
n'apporta; e strepitando il verno
Giunge, e le
membra altrui sforza a gelarsi.
Non è
dunque stupor se in certo tempo
Muore et in
certo tempo anco rinasce
La luna,
poichè pur si creano al mondo
Tante e
sì varie cose in certo tempo.
Ma del sol parimente e della luna
Creder
dèi che l'eclisse in vari modi
Possa
avvenir. Chè, per qual causa il lume
Del sole a
noi può tôr la luna e 'l volto
Da noi lungi
offuscarli interponendo
Fra gli
ardenti suoi raggi e gli occhi nostri
L'orbe suo
cieco, e nel medesmo tempo
Far non
può questo stesso un altro corpo
Che scorra
il ciel sempre di lume ignudo?
E chi toglie
anco al sol che in certo tempo
Non lasci i
fuochi suoi languidi ed anco
Restauri i
lumi, allor che i luoghi infesti
Alle fiamme
ha trascorsi atti ad estinguerle
Tra via per
l'aure e dissiparle affatto?
E
perchè può la terra anco a vicenda
Spogliar la
luna di splendore e 'l sole
Sovra
oppresso tener, mentre in un mese
Scorre della
piramide terrestre
L'ombre
rigide e dense; e nello stesso
Tempo
opporsi non può qualc'altro corpo
Al suo
lucido globo e sotto l'orbe
Scorrer del
sole, e 'l lume suo profuso
Esser atto a
celarne e i vivi raggi?
O pur,
s'ella medesima rifulge
Del suo
proprio splendor, perchè non puote
Languir del
mondo in qualche certa parte,
L'aure
passando al lume suo nemiche?
Nel resto; con ciò sia ch'io t'ho risolto
Come nel
vasto mondo e per l'immenso
Spazio si
possa generare il tutto,
E come i
vari moti e i vari cerchi
Della luna e
del sol da noi sapersi
Possano, e
per qual causa e da qual forza
Sian rotati
i lor globi, et in qual modo
Soglian
mancar per l'eclissato lume
E la terra
coprir d'ombre improvvise
Allor che
quasi i propri lumi han chiusi,
E come poi
con isvelata faccia
Tornino ad
illustrar l'aure tranquille
E di candida
luce empiano il tutto;
Or di nuovo
mi volgo al nascimento
Del mondo e
della terra al molle dorso,
Ed a
ciò ch'alla luce aurea del giorno
Nel primiero
suo parto ergere osasse
E commetter
de' venti al soffio incerto.
Pria le specie dell'erbe e 'l verde onore
La terra
germinò: florido il prato
Di color di
smeraldo a' colli intorno
Rifulse e in
tutti i campi: a varie piante
Quindi
concesso fu d'ergersi a gara
Per l'aure a
lente briglie. E, come in prima
Nel corpo
de' quadrupedi animali
Si creano e
nelle membra degli uccelli
Le piume e i
velli e 'l duro pelo e 'l molle,
Tal dalla
nuova terra erbe e virgulti
Salsero in
prima: e poi create in varie
Guise
fûr d'animai specie diverse.
Posciachè
nè dal ciel cadder nè fuori
Delle salse
lagune usciro in secco
I terreni
abitanti: onde sol resta
Che la terra
a ragion madre del tutto
Chiamata
sia, poichè di terra il tutto
Nacque. E
non pochi ancor sono i viventi
Che
dall'umide piogge e dal vapore
Caldo de'
rai del sol nascono in terra:
Stupor
dunque non è s'in maggior numero
Nacquero e
vie più grandi, allor che nuova
Era la terra
ed era l'etra adulta.
Pria de'
pennuti augelli il vario germe
Nella nuova
stagion di primavera
Dall'uovo
esclusi deponeano il guscio;
Qual depor
le cicale al caldo estivo
Soglion la
tenue spoglia e per sè stesse
Vitto e vita
cercar. La terra allora
Pria ne
diè gli animali. Erano i campi
E di caldo e
d'umor molto abbondanti,
E dovunque
opportuno offriasi il luogo.
Molti del
suolo alle radici affissi
Quasi ventri
crescean; che poi ch'al tempo
Maturo apria
de' pargoletti infanti
La tenerella
etade a sugger atta
L'umore e
spirar l'aure, ivi natura
Della terra
volgea l'occulte vene,
Che poscia
aperte rifondeano un succo
Simile al
latte; in quella guisa a punto
Ch'ogni
femmina adesso, allor che figlia,
Suol di
latte abbondar, perchè si volge
Del
nutrimento alle mammelle ogn'impeto.
Ai fanciulli
porgea cibo e ristoro
La terra, il
vapor veste, e letto il prato
Di molli
erbette e tenere abbondante.
Ma ne'
rigidi verni il nuovo mondo
Nè
soverchio calor nè tempestosi
Venti
eccitar potea; poich'egualmente
Cresce ogni
cosa e vigor prende e forza.
Sì che molto a ragion di madre il nome
Pria la
terra acquistossi e giustamente
Se 'l tiene
ancor; poich'ella stessa il germe
Uman
produsse, e quasi sparse in certo
Tempo ogni
altro animal ch'ebro e baccante
Scorre pe'
monti e per le selve, e tutte
Creò
le specie degli aerei augelli.
Ma,
perchè qualche termine al suo parto
Pur al fin
si dovea, steril divenne
Quasi per
troppa età donna impotente.
Poichè
del mondo stesso il tempo al fine
Varia tutta
l'essenza, e d'uno in altro
Stato il
tutto si cangia, e nulla dura
Simile a
sè medesmo: il tutto altrove
Fuggesi, il
tutto muta, il tutto volge
Natura. Con
ciò sia ch'altro divenga
Putrido e
per vecchiezza egro e languente,
Altri nasca
all'incontro e forza acquisti.
Così
dunque l'età varia del mondo
L'essenza, e
d'un la terra in altro stato
Si cangia:
omai quel che poteo non possa,
E possa quel
che non sofferse innanzi.
Vari in oltre crear mostri e portenti
Allor
tentò la terra in varie guise,
E di faccia
ammirabili e di membra.
Delle mani e
de' piè molti eran privi:
Molti ancor
senza faccia e senza volto
Ciechi
affatto nascean; molti impediti
Di membra,
che fra lor per tutto il corpo
Intrigate e
legate erano in guisa
Che nulla
oprar potean, non rifuggirsi
A luogo
alcun, non le malvage cose
Schifar, non
le giovevoli seguire,
Non usarle
a' bisogni. Altri portenti
Producea di
tal sorte ed altri mostri:
In van,
poichè natura il propagarsi
Vietolli;
ond'arrivare al fior bramato
Non potean
dell'età nè trovar cibo
Nè
venerei diletti avere insieme.
Con
ciò sia che concorrer molte cose
Debbon negli
animali, acciò sian atti
A servar
propagando il proprio germe;
Primieramente
i pascoli, le vie
Dopo onde i
semi genitali uscire
Possan per
tutto il corpo allor che sono
Rilassate le
membra; e, perchè al maschio
Si congiunga
la femmina, ad entrambi
È
d'uopo onde accoppiar possan insieme
Gli
scambievoli gaudi. Allora è forza
Che molti
d'animai germi diversi
Perisser,
nè bastanti a propagare
Fosser la
specie lor. Poichè qualunque
Di dolce
aura vital si nutre e pasce,
O l'astuzia
o la forza o la prestezza
Finalmente
del corso ha per custode,
Che sin dal
primo tempo il serba intatto.
E molti
ancor per l'util che ne danno
Son da noi
conservati e custoditi.
Primieramente
i fier leoni e tutte
L'altre
belve crudeli hanno in difesa
La forza:
dall'astuzia il proprio scampo
Riconoscon
le volpi e dalla fuga
I cervi; ma
i fedeli e vigilanti
Cani, e
qualunque germe al mondo nasce
Di veterino
seme, e i mansueti
Greggi
lanosi e gli aratori armenti,
Tutti
dell'uomo alla tutela, o Memmo,
Si
dièr, poi che fuggiro avidamente
I morsi
delle fere e seguir volsero
La pacifica
vita e i larghi paschi,
Che senza
lor travaglio apparecchiati
Gli son da
noi quasi condegno premio
Dell'util
ch'e' ne danno. Or quei ch'alcuna
Non ebber di
tai cose onde potessero
Viver per
sè medesmi o di qualch'utile
Essere
all'uman germe, e per qual causa
Tollerar si
dovea ch'ei si nutrissero
Per nostro
mezzo o dal furor nemico
Fosser
guardati? Essi giaceano adunque
Preda e
pasto degli altri entro i fatali
Lor nodi
avvolti, insin che tutti al fine
Fur quei
germi malnati affatto estinti.
Ma nè visser già mai centauri al mondo,
Nè
con doppia natura e doppio corpo
Pôn di
membra straniere in un congiunte
Formarsi
altri animai, se quinci e quindi
Pari a pari
energia non corrisponde.
E ciò
quind'imparar lice a ciascuno,
Sia
quantunque d'ingegno ottuso e tardo.
Pria;
fiorisce il cavallo agile e forte
Poco dopo
tre anni; ancor bambino
Tènero
è l'uom, mentre per anco il petto
Palpa
toccando alla nutrice e tenta
Suggerne il
dolce latte: allor che manca
Per
l'età già cadente il consueto
Vigor
dell'uno e che dal corpo infermo
Languida e
dalle membra oppresse e stanche
Gli s'invola
la vita, allora a punto
Veggiam
ch'all'altro in sul fiorir degli anni
Spunta la
vaga giovanezza e veste
Di lanugine
molle ambe le guance:
A ciò
tu forse non ti creda, o Memmo,
Che nascer
d'animai tanto diversi
Debbian
centauri e scille o somiglianti
Mostri de'
quai le membra esser veggiamo
Fra lor
tanto discordi, e che degli anni
Giunger con
egual passo al fior bramato
Non posson,
nè di corpo esser robusti
Nè
toccar dell'età l'ultima meta,
Nè di
venereo ardor nè di costumi
Insieme
convenir, nè degli stessi
Cibi
nutrirsi. Le barbute greggi
S'ingrassan
di cicuta, ove all'incontro
La cicuta
è per l'uomo aspro veleno.
Chè
se 'l foco e la fiamma incenerisce
De' leoni
egualmente i fulvi corpi
E d'ogni
altro animal che 'n terra alberghi,
E com'esser
può mai ch'una chimera
Leon pria,
quindi capra, al fin serpente,
Dal
tergemino corpo unqua spirasse
Fuoco e
fiamma per bocca? Onde chi finge
Che nel
primo natal del mondo infante,
Quando nuova
pur anco era la terra,
Nuovo il
mar, nuova l'aria e nuovo il cielo,
Così
fatti animai nascer potessero;
Chi
ciò, dico, appoggiato a questo solo
Nome di
novità vano e fallace
Finge, ben
puote ancor nel modo stesso
Finger molt'altre
cose e scioccamente
Dir ch'allor
da per tutto arene d'oro
Volgean
sott'acqua i fiumi, e che di gemme
Fiorían i
boschi, e che ne' membri ogni uomo
Sì
grand'impeto avea che 'l mar d'un salto
Varcava e
con le mani a sè d'intorno
Tutto volgea
rapidamente il cielo.
Poichè
l'essere stati in terra sparsi
Molti semi
di cose, allor che in prima
Largamente
il terren ne diede i vari
Germi degli
animai, punto non prova
Che potesser
fra lor misti e confusi
Nascer
uomini e belve, armenti e greggi:
Con
ciò sia che, quantunque il suolo abbondi
D'erbe anco
adesso e d'alberi fronzuti
E di biade e
di frutti, essi non pônno
Germinar non
per tanto insieme avvinti:
Tal fermo e
fisso in suo costume il tutto
Procede e le
dovute differenze
Per certa
legge di natura osserva.
Nascean gli uomini allor per le campagne
Tutti, qual
convenia, molto più rozzi
Poichè
la rozza terra avean per madre,
E dentro di
maggiori e di più salde
Ossa
fondati, e di più forti nervi
Stabiliti ed
acconci; e nulla o poco
O da caldo o
da freddo o da stranieri
Climi o da
nuovi cibi erano offesi,
Nè
del corpo patian difetto alcuno.
E molti
errando delle fere in guisa,
Per
più nel ciel del sol lustri volanti
Traean lor
vita. E non vi avea per anco
Chi con
braccio robusto al curvo aratro
Desse regola
e norma, e le campagne
Or con zappe
or con rastri or con bidenti
Culte e
molli rendesse, e propagasse
I novelli
virgulti o dall'eccelse
Piante
troncasse i folti antiqui rami.
Quel ch'il
sole o la pioggia o 'l suol fecondo
Producea per
sè stesso i petti umani
Sazïava
abbastanza: e grato e dolce
Cibo spesso
porgean nelle foreste
Le
ghiandifere querce o le mature
Rubiconde
corbezzole o l'agresti
Poma o le
noci o l'odorose fraghe,
Che maggiori
e più belle e più soavi
Nasceano
allor della gran madre in grembo.
E molti anco,
oltre a ciò, l'età fiorita
Del mondo
producea divi alimenti
Ampi
abbastanza a' miseri mortali.
Ad estinguer
la sete i fiumi i fonti
Invitavan
allor l'umano germe,
Com'or fan
gli animai l'onde tranquille
Che d'alto
caggion mormorando al chino.
Ed al fin
vagabondi al ciel notturno
Abitavan
que' popoli primieri
Delle Ninfe
i silvestri orridi templi,
Onde liquidi
uscían lubrici rivi
Che le
grotte solean d'ogni sozzura
E dal fango
lavar gli umidi sassi,
Gli umidi
sassi sovra 'l verde musco
D'umor
chiaro stillanti, e parte al piano,
Non capendo
in sè stessi, impetuosi
Scendere e
furibondi errar pe' campi.
Nè
sapean maneggiar col foco alcuna
Cosa,
nè con le pelli o con le spoglie
Delle fere
coprian l'ignude membra;
Ma ne'
boschi, negli antri e nelle selve
Ricovravan
sè stessi o nelle cave
Grotte; e,
per ischifar de' venti irati
Gli assalti
e delle piogge, il sozzo e squallido
Corpo
asconder solean tra gli arboscelli.
Nè
poteano aver l'occhio al comun bene,
Nè
fra loro introdur riti o costumi,
Nè
formar nè servar leggi e statuti.
Quel
ch'offerto dal caso o dalla sorte
Della preda
venía, quel desso a punto
Prendea
ciascuno, ammaestrato e dotto
Ad esser per
sè stesso a sè bastante
Et a viver
contento. Inculta e rozza
Venere
congiungea per le foreste
I corpi
degli amanti: all'uomo in braccio
Ogni donna
poneasi o da focoso
Vicendevol
desio vinta o da mano
Vïolenta
e rapace o da sfrenata
Cieca
lussuria; e prezzo allor non vile
Eran le
ghiande e le castagne elette.
Delle mani e
de' piè tutti affidavansi
Nel mirando
valor, seguian co' sassi
Atti ad
esser lanciati e co' bastoni
Noderosi e
pesanti i fieri germi
De' selvaggi
animai; molti di loro
Vincean,
pochi fuggian per le caverne.
Ma l'irsute
lor membra, in ciò simili
A' setosi
cignai, nel suolo ignude
Stendean le
notti e le coprian di frondi.
Nè
vaganti per l'ombre il giorno e 'l sole
Paurosi
cercar solean piangendo,
Ma taciti
aspettar muti e sepolti
Nel sonno,
in fin che 'l sol nato dall'onde
Con la rosea
facella ornasse il cielo
Di novello
splendor: chè, sempre avvezzi
Sin da
piccioli infanti a veder l'ombre
Nascer nel
mondo alternamente e 'l lume,
Non poteano
additar per meraviglia
Nè
temer che perpetua orrida e densa
Notte l'aere
ingombrasse eternamente,
Spenti i
raggi del sol. Ma vie maggiore
Noia
prendean, che gli animai selvaggi
Spesso
infesta rendeano e perigliosa
La quiete e
'l sonno agl'infelici: ond'essi
Dalle grotte
cacciati i tetti loro
Fuggian
smarriti o pel venir d'un fiero
Spumifero
cignale o d'un robusto
Leone; e
nella notte intempestiva
Solean
tremanti agli ospiti crudeli
Cedere i
letti lor stesi di fronde.
Nè molto allor più ch'al presente il dolce
Lume del
viver fuggitivo e frale
Perdean
piangendo i miseri mortali.
Chè;
se ben più ch'adesso allor ciascuno
Da' selvaggi
animai còlto improvviso
Pasti vivi porgea
per divorarsi
Da' fieri
denti, e 'l bosco e 'l monte e tutta
Intorno
empiea di gemiti e di strida
La selvosa
foresta in viva tomba
Seppellir
vive viscere veggendo;
E se ben chi
trovava alcuno scampo,
Tenendo poi
sul già corroso e guasto
Corpo e su
le maligne ulcere tetre
Le man
tremanti, in voce orrenda e fiera
Solea
chiamar la morte, in fin che spento
Da sozzi
ingordi vermini crudeli
Fosse di
vita ignudo affatto e casso
D'aiuto e di
consiglio ed ignorante
Di
ciò che giovi alle ferite o noccia;
Non però
mille e mille schiere ancise
Vedeansi in
un sol giorno orribilmente
Tinger di
sangue i mari e d'ogn'intorno
La terra
seminar d'ossa insepolte;
Nè
dell'ampio ocean l'onde orgogliose
Fean le navi
in un punto e i naviganti
Naufragar
fra le sirti e fra gli scogli;
Chè
folle il mar di tempestosi flutti
Armato
indarno incrudeliasi e folle
Spesso a'
venti spargea minacce indarno,
Nè
potean le lusinghe allettatrici
Della
placida sua calma incostante
Invitar con
inganno i legni all'onde:
Cieca allor
si giacea la scelerata
Arte del
fabbricar fuste e galee
E navi
d'ogni sorte. Allor sovente
La scarsezza
del vitto a' corpi infermi
Togliea la
vita; or pel contrario spesso
L'abbondanza
de' cibi altrui sommerge:
Quegli
incauti il velen porgean tal ora
Per
sè stessi a sè stessi; or più sagaci
Questi e
più scaltri a' lor nemici il danno.
Ma; poi ch'a fabbricar case e capanne
Si diero e
ad abitarle, e che l'ignude
Membra
vestîr d'irsute pelli e 'l foco
Messero in
uso, e ch'un sol tetto accolse
Con la
moglie il marito e note al mondo
Fur del
privato amor le caste nozze,
E che nascer
di sè non dubbia prole
Vedea
ciascuno; allor primieramente
Cominciò
l'uman germe ad ammollirsi.
Poichè
'l foco operò che i corpi algenti
Non
potessero omai nell'aria aperta
Soffrir
più tanto freddo, agevolmente
Venere
altrui scemò le forze, e 'l fiero
Spirto de'
genitor fransero i figli
Con lusinghe
e con vezzi. Allora in prima
Cominciâr
l'amicizie: i confinanti
Non
s'offendean: raccomandâr l'un l'altro
I figli
pargoletti e 'l fragil sesso
Con le voci
e co' cenni, altrui mostrando
In lor balba
favella opra esser giusta
Il dar
soccorso a' miseri e mal fermi.
Nè
però generarsi una totale
Pace fra lor
potea; ma la migliore
Parte
osservâr religïosi i patti:
Poichè
'l genere uman spento e distrutto
Già fôra,
e lor semenza indarno omai
Tentato
avrian di propagar le genti.
Ma l'umana natura i vari accenti
Pria
formò della lingua, e l'util poscia
Diede i nome
alle cose; in quella stessa
Guisa che
par che la medesma infanzia
I teneri
fanciulli induca al gesto,
Mentre fa
che da lor sia mostro a dito
Quel
ch'all'occhio han presente. Ogni animale
Sente il
proprio vigore, ond'abusarlo
Possa. Pria
ch'al vitel nascano in testa
Le corna,
egli con esse irato affronta
E 'l nemico
rival preme ed incalza.
Ma de' fieri
leoni i pargoletti
Figli e
delle pantere, allor ch'a pena
Nelle
branche hanno l'ugna e i denti in bocca,
Già
co' piedi e co' morsi altrui fan guerra.
Senza che,
confidar tutti gli augelli
Veggiam
nell'ale e dalle proprie penne
Chieder
tremolo aiuto. Il creder dunque
Ch'alcuno
allor distribuisse i nomi
Alle cose e
che quindi ogni uom potesse
Apparare i
vocaboli primieri,
È
solenne pazzia. Poichè, in qual modo
E
perchè chiamar questi ad un'ad una
Poteo le
cose a nome e i vari accenti
Esprimer
della lingua, e nello stesso
Tempo a far
il medesimo bastante
Alcun altro
non fu? Ma, se le voci
Non per anco
appo gli altri erano in uso,
Onde fu del
lor utile a costui
La notizia
inserita? e chi gli diede
Questa prima
potenza, ond'ei sapesse
Specolar con
la mente e porre in opra
Ciò
che far gli aggradasse? in oltre: un solo
Non poteo
sforzar molti e soggiogarli
Sì
ch'apprender da lui fosser contenti
Delle cose i
vocaboli, nè certo
Er'atto ad
insegnar nè far intendere
Ciò
ch'al fatto sia d'uopo a gente sorda:
Poichè
nè pazïenti avrian sofferto,
Che suoni e
voci inaudite indarno
Gli
stordisse l'orecchie. E, finalmente,
Perchè
mai sì mirabile stimarsi
Dee, che il
genere uman, che voce e lingua
Di robusto
vigor dotata avea,
Secondo i
vari suoi sensi ed affetti
Vari nomi
ponesse a varie cose?
Se le fere e
gli armenti e i muti greggi
Soglion voci
dissimili formare
Quando han
speme o timor, noia o diletto?
E ciò
da cose manifeste e conte
Può
ciascuno imparar. Pria; s'irritato
Freme il
molosso e la gran bocca aprendo
Nude mostra
le zanne e i duri denti,
Già
d'insano furor pregno e di rabbia
In suon
molto diverso altrui minaccia
Da quel
ch'ei latra e d'urli assorda il mondo:
Ma; se poi,
lusingando, i propri figli
Lecca e
scherza con essi, o con le zampe
Sossopra
voltolandoli e co' morsi
Leggermente
offendendoli, sospesi
I denti, i
molli sorsi a imitar prende;
Col gannir
della voce in altra guisa
Suole ad
essi adular, che se lasciato
In casa del
padrone urla et abbaia
O se fugge
piangendo umile e chino
Della rigida
sferza i duri colpi.
In somma:
non ti par ch'assai diverso
Dir si
deggia il nitrir delle cavalle,
Quando nel
fior dell'età sua trafitto
Il destrier
dagli stimuli pungenti
Del dio
pennuto incrudelisce e sbuffa
E feroce e
superbo armi armi freme,
Da quando ei
tra la greggia errando sciolto
Scuote i
membri e nitrisce? E, finalmente
I vari germi
degli alati augelli,
Gli
sparvieri e gli astor, l'aquile e i merghi
Che del mar
sotto l'onde e vitto e vita
Cercan, voci
assai varie in vari tempi
Formano e se
fra lor pe 'l cibo han guerra
E combatton
la preda: ed anco in parte
Mutan con le
stagioni il rauco canto;
Qual fanno i
corvi e le cornacchie annose,
Qual or, se
vera è la volgar credenza,
Chiaman
l'acqua e le piogge o i venti o l'aure.
Dunque; se
gli animali, ancor che muti,
Spinti da
vari sensi ebbero in sorte
Di formar
varie voci e vari suoni;
Quanto
è più ragionevole che l'uomo
Potesse
allor con altri nomi ed altri,
Altre ed
altre appellar cose difformi?
Acciò poi che tu sappia in qual maniera
Ebber gli
uomini il fuoco; il fulmin prima
Portollo in
terra, indi ogni ardor si sparse:
Poichè
molte veggiam cose incitate
Dalle fiamme
del ciel ardere intorno
Là
've caldi vapori erran per l'aure.
E pur; se
vacillante, allor che 'l fiero
Soffio di
borea impetuoso o d'austro
Scuote e
squassa le selve e i rami, appoggia
D'antica
pianta antica pianta ai rami;
Spesso
avvien ch'eccitata e fuori espressa
Dal fregar
vïolento al fin s'accende
Fiamma che
sfavillando alluma il bosco,
Mentre
tronco con tronco in varie guise
S'urta a
vicenda e si consuma e stritola.
Il che dar
similmente a noi mortali
Poteo le
fiamme. A cuocer quindi il cibo
Co' suoi
caldi vapori ed ammollirlo
L'aureo sol
n'insegnò; poichè percosse
Molte da'
vivi suoi raggi lucenti
Cose vedean
per le campagne apriche
Deporre ogni
acerbezza e maturarsi.
Onde quei
che più scaltri eran d'ingegno
Mostrâr con
cibi nuovi in nuovi modi
Cotti e
conditi, ogni dì più inventandone,
Come
l'antico vitto e la primiera
Vita aspra e
rozza in delicata e molle
Già
mutar si potesse. I regi intanto
Cominciaro a
fondar cittadi e rôcche
Per lor
rifugio; indi gli armenti e i campi
Divisero, e
secondo il proprio merto
Di
beltà, di valor, d'ingegno e d'arte
Gli
assegnaro a ciascun; chè molto allora
La bellezza
era in pregio, e valea molto
La forza. Il
mio e 'l tuo quind'inventossi;
E l'oro si
trovò; che facilmente
A'
più vaghi di faccia a' più robusti
Di membra
ogni onor tolse, e gli uni e gli altri
Sottomesse
a' più ricchi ancor ch'indegni.
Che se
regger sua vita altri bramasse
Con prudenza
e con senno, è gran tesoro
Per l'uomo
il viver parco allegramente;
Chè
penuria già mai non fu del poco
In luogo
alcun. Ma desïâr gli sciocchi
D'esser
chiari e potenti, acciò ben ferma
Fosse la lor
fortuna a stabil base
Quasi
appoggiata, e per poter mai sempre
Facultosi
menar placida vita:
In van,
poichè, salir tentando al sommo
Grado ed
onor, tutto di spine e bronchi
Trovâr pieno
il vïaggio; ove al fin giunti,
Spesso dal
sommo ciel nell'imo abisso
L'invidia,
quasi fulmine, gettolli
Con
dispregio e con scherno. Ond'io per l'uomo
Stimo assai
meglio un obbedir quïeto,
Ch'un voler
con l'impero a varie genti
Dar legge e
sostener scettri e diademi.
Lascia pur
dunque omai ch'altri s'affanni
In van
sangue sudando, e per l'angusto
Calle
dell'ambizion corra e s'aggiri:
Poichè,
quasi da fulmine percossi
Dall'invidia,
cader sogliono a terra
Quei che son
più degli altri eccelsi e grandi
Che sol per
l'altrui bocca ad esser saggi
Apprendono,
e gli onor chieggon più tosto
Mossi a
ciò far dalle parole udite
Che da'
propri lor sensi. E non è questo
Più
or nè sarà poi ch'e' fosse innanzi.
Quindi, ucciso ogni re, sossopra omai
Giacea
l'antica maestà del soglio,
E gli
scettri superbi e del sovrano
Capo il
diadema illustre intriso e lordo
Di polvere e
di sangue or sotto i piedi
Piangea del
volgo il suo regale onore:
Chè
troppo avidamente altri calpesta
Ciò
che pria paventò. Dunque il governo
Tornava alla
vil feccia e all'ime turbe;
Mentr'ognuno
il primato e 'l sommo impero
Per
sè chiedea. Quindi insegnaro in parte
A crear
magistrati e promulgare
Leggi, a cui
sottoporsi a tutti piacque.
Poichè
'l genere uman, di viver stanco
Per mezzo
della forza, egro languìa
Tra guerre e
nimicizie: ond'egli stesso
Tanto
più volentier soppose il collo
Delle rigide
leggi al grave giogo,
Quanto
più aspramente a vendicarsi
Correa
ciascun che dalle giuste e sante
Leggi non si
permette. Il viver quindi
Per mezzo
della forza a tutti increbbe:
Ond'il timor
delle promesse pene
Di nostra
vita i dolci premi infesta.
Chè
la forza e l'ingiuria intorno avvolge
Ciascuno, e
a quel ritorna assai sovente
Onde
già si partío: nè facil cosa
È che
placida vita e senza guerra
Viva chi
della pace i comun patti
Vïola
con l'opre sue; poichè, quantunque
Egli i numi
immortali e l'uman germe
Possa
ingannar, creder non dee per questo
Ch'ogn'or
star deggia il maleficio occulto;
Poichè,
parlando in sogno o vaneggiando
Egri, molto
sovente i lor misfatti,
Già
gran tempo a ciascun celati indarno
Propalâr per
sè stessi e ne pagaro,
Quando men
se 'l credeano, acerbo fio.
Or; come degli dèi fra numerose
Genti la
maestà si divolgasse,
Come
d'altari ogni città s'empiesse,
Come solenni
sagrifici e pompe
Fosser prima
introdotte, ond'anc'adesso
Negli affari
importanti e ne' sacrati
Luoghi
fioriscon venerande in guisa
E tal danno
a' mortali alto spavento
Che
già del terren globo in ogni parte
A drizzar
nuovi templi a' sommi dèi
Ne sforza e
a celebrar ne' dì solenni;
Non è
molto difficile a sapersi.
Poscia che
sin d'allor solean le genti,
D'animo
ancor ben deste e vie più in sogno,
Faccie
egregie veder d'uomini eccelsi
E corpi
d'ammirabile grandezza.
E,
perch'essi apparian di mover l'alte
Lor membra e
di vibrar voci superbe,
Come
d'aspetto maestosi e d'ampie
Forze, gli
dieder senso; e non mortale
Vita gli
attribuîr, perch'i lor volti
Eran sempre
i medesmi e la lor forma
Durava e
dura veramente eterna;
Nè
punto a caso immaginâr che vinti
Esser non
potean mai da forza alcuna
Quei che di
sì gran forza eran dotati.
E in oltre
s'avvisâr che di fortuna
Superasser
d'assai tutti i mortali,
Perchè
mai della morte il rio timore
Non potea
tormentarli e perchè in sogno
Molte far li
vedean cose ammirande
Senza punto
stancarsi. A ciò s'aggiunga
Ch'essi
intorno vedean con ordin certo
Moversi il
cielo e in un col ciel le varie
Stagion
dell'anno, e non sapean di questo
Le varie
cause investigare; e quindi
Prendean per
lor rifugio il dare a' sommi
Numi il fren
d'ogni cosa e far che 'l tutto
Obbedisca a'
lor cenni. E in ciel locavano
Degli alti
dèi l'eterne sedi e i templi;
Perchè
volgersi 'n ciel vedeano il sole
La luna il
dì la notte, e della notte
Tutti i
lucidi segni, e le vaganti
Notturne
faci e le volanti fiamme,
E le nubi e
le piogge e la rugiada,
La neve, i
venti, i fulmini e l'acerba
Grandine e i
rapidissimi rimbombi
De' tuoni e
il fiero murmure tremendo.
Povero uman legnaggio! ahi quanti, allora
Ch'egli a'
numi immortali opre sì fatte
Diede e
l'ire gli aggiunse e le vendette,
Quanti, ahi
quanti essi allor pianti a sè stessi,
Quante a noi
piaghe acerbe, e a' minor nostri
Chenti e
quai partorîr lagrime amare!
Nè
punto ha di pietà, che 'l sacerdote
Spesso
velato il crin verso una sorda
Statua per
terra si rivolga e tutti
Corrano al
sacro altar, nè ch'ei s'inchini
Prostrato al
suolo e tenda ambe le palme
Innanzi ai
templi a Dio sacrati, e l'are
Di sangue di
quadrupedi animali
Sparga in
gran copia e voti aggiunga a voti,
Anzi
è somma pietade il poter tutte
Mirar le
cose e con sereno ciglio
E con
placido cor. Chè, mentre, ergendo
Gli occhi,
ammiriam del vasto mondo i templi
Celestiali e
superni e l'etra immobile
Tutt'ardente
di stelle e vienne in mente
Dell'aureo
sole e della luna il corso,
Tosto dagli
altri mali oppresso anch'egli
Quel noioso
pensier di mezzo al petto
Il
già desto suo capo al cielo estolle;
E qual forse
gli dèi potere immenso
Abbiano
occulto a noi ch'in varie guise
Ruoti i candidi
segni, egro sospira:
Posciachè
'l dubbio cor dall'ignoranza
Tentato
cerca, e se principio avesse
Il mondo e
s'egualmente aver dee fine,
E fin a
quanto le sue mura e tanti
Moti e
sì vari a tollerar sien atte
Con
sì grave fatica, o pur se 'l tutto
Per opra
degli dèi vita immortale
Goda e
scorrendo per immenso spazio
Di tempo
disprezzar possa in eterno
D'età
perpetua le robuste forze.
In oltre: a
cui non s'avvilisce il petto
Per timor
degli dèi, cui non vien meno
L'animo, cui
d'alto spavento oppresse
Non s'agghiaccian
le membra allor che d'ampia
Torrida nube
il folgor piomba e rapidi
Scorron per
l'alto ciel murmuri orrendi?
Or non
treman le genti e 'l popol tutto?
Non quasi un
mortal gelo i re superbi
Sentonsi al
cor, mentre de' numi eterni
Temon l'ire
nemiche, allor che giunto
Credon quel
tempo in cui de' gran misfatti
Pagar
debbono il fio? Che se l'immensa
Forza d'euro
e di noto in mar sonante
Squassa e
ruota su l'onde il sommo duce
D'un'armata
navale, e s'in quel punto
L'urtan le
schiere avverse e gli elefanti,
Non
chied'egli con voti a' sommi dèi
Pace? non
con preghiere a' venti irati
Pauroso e
tremante aure seconde?
In van: che
nullameno ei pur sovente
Da
vïolento turbine assalito
Spinto
è di morte al guado. In cotal guisa
Calca una
certa vïolenza occulta
Tutte
l'umane cose, e prende a scherno
I nobil
fasci e le crudeli scuri.
Al fin:
quando la terra orribilmente
Sotto i
piè ne vacilla e scosse al suolo
Caggiono o
stanno di cadere in forse
Ampie terre
e città; qual meraviglia
È, se
gli uomini allor cura non hanno,
Qual si
dovria, di lor medesmi, e solo
Ampia danno
agli dèi forza e miranda
Che freni e
volga a suo talento il tutto?
Nel resto: il rame poi l'argento e l'oro
Trovati e 'l
duro ferro e 'l molle piombo
Furo, allor
che su' monti arse le selve
Fiamma, o da
nube ardente ivi lanciata,
O da provida
man per le foreste
Ov'allor
combatteasi in guerra accesa
Per terror
de' nemici, o perch'indótti
Dalla
fertilità d'alcun terreno
Scoprir
grasse campagne e paschi erbosi
Voleano o
ancider fere ed arricchirsi
Di preda;
con ciò sia che molto prima
Nacque il
cacciar col fuoco e con le fosse,
Che il
cinger con le reti e con le strida
E co'
bracchi e co' veltri e co' mastini
Destar le
selve. Or; che che sia di questo,
Per
qualunque cagion la fiamma edace
Fin dall'ime
radici in suon tremendo
Divorasse le
selve e il suolo ardesse;
Dalle
fervide vene entro i più cavi
Luoghi del
monte un convenevol rio
Scorrea di
puro argento e di fin oro
E di piombo
e di rame; ove rappreso
Poscia
intorno splendea d'un vivo e chiaro
Lume e d'un
liscio e nitido lepore.
Dalla cui
dolce vista affascinati
Gli uomini
il si prendean; quindi, veggendo
Ch'egli in
sè ritenea la forma stessa
Ch'avean le
cave pozze onde fu tratto,
Tosto allor
s'accorgean che trasformarsi
Liquefatto
dal fuoco in ogni forma
Potea di
cose e, quanto altrui piacesse,
Col batterlo
e limarlo ed arrotarlo,
Tirarsi in
punte acute ed in sottili
Tagli, onde
poscia di saette armarsi
Potessero e
tagliar piante silvestri
E spianar la
materia e rimondare
Le travi e
gli altri necessari arredi
Per uso
delle fabbriche, e pulirli
Anco e
forarli e conficcarli insieme.
Nè
men punto ad oprar sì fatte cose
Con
l'argento e con l'òr gli uomini prima
S'accingean
che col forte e duro rame:
In van
posciachè vinta ogni sua possa
Era a ceder
costretta, e non potea
Soffrir
tanta fatica. Indi in maggiore
Pregio era
il rame, l'òr negletto e vile
Giaceasi
inutil pondo: ora all'incontro
Si giace il
rame, e 'n sommo pregio è l'oro.
Tal
dell'umane cose i tempi muta
La volubil
età: quel ch'una volta
Caro esser
ne solea d'ogni onor privo
Finalmente
divien. Quindi succede
Che
l'òr già dispregevol com'era
Non sembra;
anzi vie più di giorno in giorno
È
bramato e cercato; e, ritrovato,
Di lodi
adorno, e fra' mortali sciocchi
Fiorisce ed
ha meravigliosi onori.
Or tu per te medesmo agevolmente
Ben conoscer
potrai, come trovata
Fosse del
ferro la natura e l'uso.
Armi pria
fûr le mani e l'ungna e i denti,
E i sassi,
e, in un co' sassi, i tronchi rami
De' boschi,
e, poi che ne fûr note in prima,
Le fiamme e
'l foco. Indi trovossi il ferro
E 'l rame. E
pria del ferro il rame in opra
Fu messo,
perchè allor copia maggiore
N'era e vie
più trattabile natura
Avea del
ferro. Essi la terra adunque
Coltivavan
col rame; in guerra armati
Di rame
usciano, e tempestosi flutti
Mescean fra
lor d'avverse schiere, e vaste
Piaghe fean
tra' nemici, e i greggi e i campi
Rapian;
ch'armati essendo, agevolmente
Tosto ognun
li cedea nudo ed inerme.
Quindi di
passo in passo i ferrei brandi
Dagli uomini
inventati, e quindi volte
Furo in
obbrobrio e in disonor le falci
Di rame; e
cominciâr gli agricoltori
A fender
della terra il duro seno
Solamente
col ferro; et adeguati
Fûr
della guerra i perigliosi incontri.
E pria fu
da' mortali in uso posto
Il salir su
i cavalli e moderarli
Col freno e
con la spada armar la mano,
Che il
tentar sovr'i carri a due corsieri
Della guerra
i perigli. E i carri a due
S'inventàr
pria ch'a quattro e che di falci
Crudeli
armati. Indi a lucani buoi
Gravâr di
torri il vasto orribil dorso
I Peni, e
gl'insegnâr delle battaglie
A soffrir le
ferite e in strane guise
Di Marte a
scompigliar l'ampie caterve:
Tal d'altro
altro poteo l'empia e crudele
Discordia
partorir, ch'all'uman germe
Fosse poi
spaventevole fra l'armi:
E tal sempre
vie più di giorno in giorno
Della guerra
al terror terrore accrebbe.
Tentaro i
tauri anche in battaglia, e spesso
Fêr
prova d'inviar contro i nemici
I crudeli
cignali. E in lor difesa
I Parti vi
mandâr fieri leoni,
Con severi
maestri e con armate
Guide ch'a
moderarli e porli freno
Fosser
bastanti: in van: poich'infiammati
Di strage
indifferente ambe le schiere
Scompigliavan
crudeli e de' lor capi
D'ogni
intorno scotean l'orribil creste,
Nè
potean de' cavalli i cavalieri
Piegare i
petti spaventati e messi
Da' lor
fremiti in fuga e rivoltarli
Col fren contro
i nemici. E d'ogni parte
Le leonze
irritate a precipizio
Si lanciavan
dal bosco, e i vïandanti
Assalian
furibonde e inaspettate
Gli rapivan
da tergo, e con acerbe
Piaghe a
terra gettandoli i crudeli
Denti in
essi affiggeano e l'ugne adunche.
Agitati i cignali
eran da' tori
E calpesti
co' piedi, e per di sotto
Spalancati i
cavalli i fianchi e 'l ventre
Dalle corna
robuste ed atterrati
Dagli urti
in minaccevole sembiante.
Ma con
l'orride zanne i fier cignali
I compagni
uccidean, del proprio sangue
Tingendo i
dardi in sè spezzati; e miste
Stragi
facean di cavalieri e fanti:
Con
ciò sia ch'i cavalli o dell'irato
Morso
schivando i perigliosi incontri
Lanciavansi
a traverso o con le zampe
Movean
eretti aspra battaglia ai venti;
In van,
poichè: da' nervi i piè succisi,
Ruinar li
vedresti e gravemente
Sovra 'l
duro terren battere il fianco.
Che se
alcuni abbastanza essere innanzi
Domi in casa
credean, nel maneggiarli
S'accorgean
ch'irritati e d'ire accesi
Eran poi
dalle piaghe e dalle strida,
Dal terror,
dalla fuga e dal tumulto:
Poichè
tutti fuggian, come sovente
Mal difesi
dal ferro or gli elefanti
Soglion anco
fuggir, tra' suoi lasciando
Molte di
ferità vestigia orrende.
Sì
far potean: ben ch'io mi creda a pena
Ch'essi pria
molto bene imaginarsi
Non dovesser
con l'animo e vedere
Quanto gran
comun danno e laido scempio
Fosse poi
per succederne; e più tosto
Contrastar
si potria che ciò nel tutto
Sia
più volte accaduto in vari mondi
Variamente
creati che in un certo
E solo orbe
terren. Ma ei non tanto
Ciò
fêr con speme di futura palma,
Quanto per
dar che gemere a' lor fieri
Nemici e
disperati essi morire
Diffidando
del numero e dell'armi.
Pria di nessili vesti il nudo corpo
Gli uomini
si coprian che di tessuto
Manto. Il
manto tessuto è dopo il ferro:
Chè
solo il ferro a prepararne è buono
Gli
stromenti da tessere, e non pônno
Farsi per
altra via tanto pulite
Le fusa, i
subbi, i pettini, le spole,
Le sbarre, i
licci e le sonanti casse.
Ma pria le
lane a lavorar costretto
Da natura fu
l'uom che il femminile
Sesso; poichè
nell'arti il viril germe
Preval molto
alle donne, e di gran lunga
È di
lor più ingegnoso e diligente;
E
ciò, fin ch'i severi agricoltori
Se
l'ascrisser a vizio e v'impiegaro
Le femmine,
e per sè volser più tosto
Soffrir dure
fatiche e in opre dure
Durar le
membra et incallir le mani.
Fu poi delle semente e degl'innesti
Primo saggio
et origine la stessa
Creatrice
del tutto alma natura;
Con
ciò sia che le bacche e le caduche
Ghiande
sotto a' lor alberi nascendo
Tempestivi
porgean sciami di figli:
Onde tratto
eziandio fu l'inserire
L'una pianta
nell'altra e 'l sotterrare
Nel suol pe'
campi i giovani rampolli;
Quindi
tentâr del dolce campicello
Altre ed
altre colture: e vider quindi
Farsi ogn'or
più domestici e più dolci
I salvatichi
frutti, accarezzando
La terra e
con piacevoli lusinghe
Più e
più coltivandola. E sforzaro
Le selve e i
boschi a ritirarsi a' monti
Cedendo i
luoghi inferiori ai culti,
Per aver poi
ne' campi e su pe' colli
E prati e
laghi e rivi e grasse biade
E dolci e
liete vigne, e perchè lunghi
Tratti
potesser di cerulei olivi
Profusi ir
distinguendo e per l'apriche
Collinette e
pe' campi e per le valli:
Qual a punto
vedersi anco al presente
Può
di vario lepor tutto distinto
Ciò
che di dolci intramezzati pomi
Ornan
gl'industri agricoltori e cinto
Tengon
intorno di felici arbusti.
In oltre: il contraffar le molli voci
Degli augei
con la bocca innanzi molto
Fu ch'in
musiche note altri potesse
Snodar la
lingua al canto e dilettarne
L'orecchie.
E pria gli zeffiri spirando
Per lo vano
da' calami palustri
Insegnâr co'
lor sibili a dar fiato
Alle
rustiche avene. Indi impararo
Gli uomini a
poco a poco i dolci pianti
Che sparger,
tocca da maestra mano,
La piva
suol, che per le selve e i boschi
Trovossi e
per l'antiche erme foreste,
Alberghi de'
pastori, e tra' felici
Ozi divini.
In cotal guisa adunque
Trae fuor
l'etade a poco a poco ogni arte
Dal buio in
cui si giacque, e la ragione
L'espon del
giorno al lume. Or con sì fatte
Cose
addolcir solean le prime genti
L'animo,
allor che sazio aveano il corpo
Di cibo; poi
ch'allor sì fatte cose
Tutte in
grado ne son. Dunque, prostrati
Non lungi al
dolce mormorar d'un rio
Fra molli
erbette, i pastorelli, all'ombra
Di
salvatiche piante, il proprio corpo
Tenean col
poco in allegrezza e in festa:
Massime
allor che la stagion ridente
Dell'anno il
prato cospergea di fiori.
Allora in
uso eran gli scherzi, allora
Le facete
parole, allora il dolce
Sganasciarsi
di risa: allor festante
L'amorosa
lascivia incoronava
Le spalle e
'l capo con ghirlande inteste
Di fior
novelli e di novelle frondi,
Invitando a
ballar quel popol rozzo
Goffamente e
senz'arte et a ferire
Con dolci
salti alla gran madre il dorso;
Onde nascer
solean dolci cachinni,
Perch'allor
vie più nuove et ammirande
Eran tai
cose. E quindi avean del sonno
Il dovuto conforto
i vigilanti,
Varïando
e piegando in molti modi
Le voci e 'l
canto e con adunco labbro
Scorrendo
sovra i calami: e disceso
Quindi ancor
si conserva un tal costume
Appo quei
che, da morbo e da noiose
Cure
infestati, il consueto sonno
Perdono; e,
benchè questi appreso omai
Abbiano il
modo di sonar con arte
Osservando
de' numeri concordi
Le varie
specie, essi però maggiore
Frutto alcun
di dolcezza indi non hanno
Di quel che
della terra i rozzi figli
Aveano
allor. Chè le presenti cose
Se non se
forse di più care e dolci
Pria si
gustâr, principalmente al senso
Piaccion, e
s'han dall'uomo in sommo pregio:
Ma la nuova
e miglior quasi corrompe
L'antiche
invenzioni, e muta i sensi
A ciò
che pria ne fu soave. In questa
Guisa
l'acqua e le ghiande incominciaro
Dagli uomini
a schifarsi, e posto in uso
Fu da tutti
in lor vece il grano e l'uva:
In questa
guisa a poco a poco i letti
Stesi d'erbe
e di frondi abbandonati
Furo, e 'l
suo primo onor perse la pelle
E la veste
ferina; ancor che fosse
Trovata
allor con sì maligna invidia,
Che ben
creder si dee ch'a tradimento
Fosse ucciso
colui che pria portolla,
E ch'al fin
tra le spade insidïose
Tutta del
proprio sangue intrisa e lorda
Fosse
astretto a lasciarla e non potesse
Trarne a pro
di sè stesso utile alcuno.
Allor dunque
le pelli or l'oro e l'ostro
Ne
travaglian la vita, e di noiose
Cure
n'empiono il petto, e ne fan guerra:
Onde, a quel
che stim'io, vie più la colpa
Risiede in
noi: chè della terra i nudi
Figli del
duro ghiaccio aspro tormento
Senza pelle
soffrian; ma nulla offende
Noi l'esser
privi di purpureo manto
Di ricchi
fregi e di fin oro intesto,
Pur che
veste plebea l'ignude membra
Ricopra e
dal rigor del verno algente
Possa
intatti serbarne. Indarno adunque
Suda il
genere uman sempre e s'affanna
E fra vani
pensier l'età consuma,
Sol perch'ei
non conosce e non apprezza
Punto qual
sia dell'aver proprio il fine
E fin
là 've 'l piacer vero s'estenda.
E ciò
ne spinse a poco a poco in alto
Mare a fidar
la vita ai venti infidi,
E fin
dall'imo fondo ampi bollori
D'aspre guerre
eccitò. Ma i vigilanti
Globi del
sole e della luna, intorno
Girando e
compartendo il proprio lume
Al gran
tempio e versatile del mondo,
Agli uomini
insegnâr come dell'anno
Si volgan le
stagioni e come il tutto
Nasce con
certa legge ed ordin certo.
Già di forti muraglie e di sublimi
Torri cinti
viveansi, e già divisa
S'abitava la
terra; allor fioriva
Di curvi
pini il mar; già collegati
L'un l'altro
avean aiuti, avean compagni:
Quando in
versi a cantar l'opre famose
Cominciaro i
poeti, e poco innanzi
Fûr le
lettre inventate. Indi non puote
L'età
nostra veder ciò che s'oprasse
In pria, se
non se fin là 've ne addita
I vestigi il
discorso. Or la cultura
De' campi, e
l'alte rôcche e le robuste
Mura e le
navi audaci, e le severe
Leggi,
l'armi, le vie, le vesti e l'altre
Cose a lor
somiglianti, e tutte in somma
Del viver le
delizie, i dolci carmi
Le ingegnose
pitture e le dedalee
Statue,
l'uso insegnonne e dell'impigra
Mente il
discorso, il qual di passo in passo
Sempre
s'avanza. In cotal guisa adunque
Trae fuor
l'etade a poco a poco il tutto
Dal buio in
cui si giacque, e la ragione
L'espon del
mondo a' luminosi raggi:
Poichè
farsi vedean nota con l'arte
L'una cosa
dall'altra, in fin che giunti
Fûr
dell'umana industria al sommo giogo.
Argomento.
Questo libro, speso per intiero nella
spiegazione delle meteore, comincia dalle lodi di Epicuro, e dall'esposizione
del subbietto che il poeta s'accinge a trattare, subbietto tanto più
importante, in quanto è, al parer suo, il precipuo fonte della superstizione
tra gli uomini. Entra dunque in materia, svolge a lungo le cause del tuono,
dei lampi, del fulmine, e da queste spiegazioni conclude non
esser Giove che scaglia i fuochi del cielo, in mezzo alle nuvole, ma che questo
fenomeno è prodotto da vapori infiammabili che si accendono naturalmente
nell'atmosfera. Dai fulmini passa alle trombe, che provengono a un
dipresso dalle medesime cause, e ne distingue due specie: le trombe di mare,
flagello terribile ai naviganti, e le trombe di terra, uragano non meno pericoloso,
ma più raro. Dipoi, trattato che ha della formazione delle nuvole,
della pioggia e dell'arco baleno, scende ai fenomeni
terrestri, ricerca le cause dei terremoti, spiega perchè il mare
si contenga sempre tra le sue rive, donde vengono le eruzioni dell'Etna, le
piene periodiche del Nilo, e quelle esalazioni minerali, il cui vapore
dà la morte agli uomini, ai quadrupedi ed agli uccelli; di qui entra in
particolarità curiose sulla causa che rende i pozzi più freddi di
state che di verno, sulle proprietà singolari di alcune fontane e sulla
virtù attrattiva e comunicativa della calamita; tratta finalmente
delle malattie contagiose e pestilenziali, e termina questo tratto con la
descrizione della peste, che devastò l'Attica al tempo della guerra del
Peloponneso, e che fu narrata da Tucidide.
Prima agli egri mortali Atene, un tempo
Sovr'ogni
altra città chiara e famosa,
Gli almi
parti fruttiferi e le sante
Leggi
distribuì; pria della vita
Dimostronne
i disagi e dienne i dolci
Sollazzi;
allor che di tal mente un uomo
Crear poteo
che già diffuse e sparse
Fuor di sua
bocca veritiera il tutto;
Di cui,
quantunqu'estinto, omai l'antico
Grido per le
divine invenzïoni
Della fama
sull'ali al ciel se n' vola.
Poichè:
allor ch'ei conobbe a noi mortali
Esser quasi
oggi mai pronto e parato
Tutto
ciò che n'è d'uopo ad un sicuro
Vivere e per
cui già lieta e felice
Può
menarsi la vita, esser potenti
Di ricchezze
e d'onor colmi e di lode
Gli uomini e
i figli lor per fama illustri,
E pur sempre
aver tutti ingombro il petto
D'ansie cure
e mordaci e vil mancipio
Di nocive
querele esser d'ognuno
L'animo; ei
ben s'accorse ivi il difetto
Nascer dal
vaso stesso, e tutti i beni
Che vi
giungon di fuori ad uno ad uno
Dentro per
colpa sua contaminarsi;
Parte,
perchè sì largo e sì forato
Vedeal, che
per empirlo al vento sparsa
Fôra
ogn'industria ogni fatica ogni arte;
Parte,
perchè infettar quasi il mirava
D'un
malvagio sapor tutte le cose
Ch'in lui
capían. Quindi purgonne il petto
Con veridici
detti, e termin pose
Al timore al
desío: quindi insegnonne
Qual fosse
il sommo bene ove ciascuno
Di giunger
brama, e n'additò la via
Onde per
dritto calle ognun potesse
Corrervi, e
quanto abbia di male in tutte
L'umane cose
altrui fe noto, e come
Manchin
naturalmente e 'n varie guise
Volino, o ciò
sia caso o di natura
Occulta
vïolenza, e per quai porte
Debba
incontrarsi; e al fin provò che l'uomo
Spesso in
van dentro al petto agita e volge
Di noiosi
pensier flutti dolenti.
Poichè,
siccome i fanciulletti al buio
Temon
fantasmi insussistenti e larve,
Sì
noi tal volta paventiamo al sole
Cose che
nulla più son da temersi
Di quelle
che future i fanciulletti
Soglion
fingersi al buio e spaventarsi.
Or sì
vano terror sì cieche tenebre
Schiarir
bisogna e via cacciar dall'animo,
Non co' bei
rai del sol, non già co' lucidi
Dardi del
giorno a saettar poc'abili
Fuor che
l'ombre notturne e i sogni pallidi,
Ma col mirar
della natura e intendere
L'occulte
cause e la velata imagine.
Ond'io vie
più ne' versi miei veridici
Seguo la
tela incominciata a tesserti.
E; perch'io t'insegnai che i templi eccelsi
Del mondo
son mortali, e che formato
È 'l
ciel di natio corpo, e ciò ch'in esso
Nasce e
mestier fa che vi nasca al fine
Per lo
più si dissolve; or quel ch'a dirti
Mi resta, o
Memmo, attentamente ascolta;
Poich'al
salir sul nobil carro a un tratto
Incitar mi
poteo l'alta speranza
Di famosa
vittoria, e ciò che 'l corso
Pria
tentò d'impedirmi ora è converso
In propizio
favor. Già tutte l'altre
Cose che 'n
terra e 'n ciel vede crearsi
L'uomo,
allor che sovente incerto pende
Con pauroso
cor, gli animi nostri
Col timor
degli dèi vili e codardi
Rendonli e
sotto i piè calcanli a terra;
Posciachè
a dar l'impero agl'immortali
Numi ed a
por nelle lor mani il tutto
Sol ne
sforza del ver l'alta ignoranza;
Chè,
veder non potendo il volgo ignaro
Le cause in
modo alcun d'opre sì fatte,
Le ascrive
a' sommi dèi. Poichè; quantunque
Già
sappia alcun, ch'imperturbabil sempre
E tranquilla
e sicura i santi numi
Menan
l'etade in ciel; se non di meno
Meraviglia e
stupor l'animo intanto
Gl'ingombra,
onde ciò sia che possan tutte
Generarsi le
cose e specialmente
Quelle che
sovra 'l capo altri vagheggia
Ne' gran
campi dell'etra; ei nell'antiche
Religïon
cade di nuovo, e piglia
Per
sè stesso a sè stesso aspri tiranni
Che 'l miser
crede onnipotenti; ignaro
Di
ciò che possa e che non possa al mondo
Prodursi, e
come finalmente il tutto
Ha poter
limitato e termin certo;
Ond'errante
vie più dal ver si scosta.
Che se tu
dalla mente omai non cacci
Un sì
folle pensiero e no 'l rispingi
Lungi da te,
de' sommi dèi credendo
Tai cose
indegne ed alïene affatto
Dall'eterna
lor pace; ah! che de' santi
Numi la
maestà limata e rósa
Da te
medesmo a te medesmo innanzi
Farassi
ogn'or; non perchè possa il sommo
Lor vigore
oltraggiarsi, ond'infiammati
Di sdegno
abbian desio d'aspre vendette;
Ma sol
perchè tu stesso a te proposto
Avrai
ch'essi pacifici e quïeti
Volgan d'ire
crudeli orridi flutti;
Nè
con placido cor visiterai
I templi
degli dèi, nè con tranquilla
Pace d'alma
potrai de' santi corpi
L'immagini
adorar ch'in varie guise
Son messi
all'uom delle divine forme.
Quindi lice
imparar quanto angosciosa
Vita omai ne
consegua. Ond'io, che nulla
Più
desio che scacciar da' petti umani
Ogni noia
ogni affanno ogni cordoglio,
Ben che
molto abbia detto, ei pur mi resta
Molto da dir,
che di politi versi
D'uopo
è ch'io fregi. Or fa mestiero, o Memmo,
Ch'io di
ciò che negli alti aerei campi
E 'n ciel si
crea l'incognite cagioni
Ti sveli, e
le tempeste e i chiari fulmini
Canti e gli
effetti loro e da qual impeto
Spinti
corran per l'aria: acciò che folle
Tu, le parti
del ciel fra lor divise,
Di paura non
tremi, onde il volante
Foco a noi
giunga o s'ei quindi si volga
A destra et
a sinistra, et in qual modo
Penetri
dentro a' chiusi luoghi, e come
Quindi ancor
trïonfante egli se n'esca:
Chè,
veder non potendo il volgo ignaro
Le cause in
modo alcun d'opre sì fatte,
Le ascrive
a' sommi dèi. Tu, mentre io corro
Quella via
che mi resta alla suprema
Chiara e
candida meta a me prescritta,
Saggia musa
Calliope, almo riposo
Degli uomini
e piacer degl'immortali
Numi del
cielo, or me l'addita e mostra;
Tu che sola
puoi far con la tua fida
Scorta,
ch'io di bel lauro in riva all'Arno
Colga
l'amate fronde e d'esse omai
Glorïosa
ghirlanda al crin m'intessa.
Pria: del ceruleo ciel scuotonsi i campi
Dal tuon,
perchè l'eccelse eteree nubi
S'urtan
cacciate da contrari venti:
Con
ciò sia che 'l rimbombo unqua non viene
Dalla parte
serena; anzi, dovunque
Son le nubi
più folte, indi sovente
Con murmure
maggior nasce il suo fremito.
In oltre:
nè sì dure nè sì dense
Com'i sassi
e le travi esser mai ponno
Le nubi,
nè sì molli nè sì rare
Come le
nebbie mattutine o i fumi
Volanti; poi
che o dal gran pondo a terra
Spinte cader
dovrian, qual cade a punto
Ogni trave
ogni sasso, o dileguarsi
Come 'l fumo
e la nebbia e 'n sè raccôrre
Non potrian
fredde nevi e dure grandini.
Scorre il
tuono eziandio sulle diffuse
Onde aeree
del mondo, in quella guisa
Che la vela
tal or tesa negli ampli
Teatri
strepitar suole agitata
Fra
l'antenne e le travi e spesso in mezzo
Squarciata
dal soffiar d'euro protervo
Freme e de'
fogli il fragil suono imita:
Chè
tuoni esserci ancor di questa sorta
Ben conoscer
si puote, allor che 'l vento
Sbatte o i
fogli volanti o le sospese
Vesti.
Poichè tal volta anco succede
Che non
tanto fra lor testa per testa
Possano
urtarsi le contrarie nubi,
Quanto
scorrer di fianco e con avverso
Moto rader
del corpo il lungo tratto;
Onde poscia
il lor tuono arido terga
L'orecchie e
molto duri, in fin ch'ei possa
Uscir da'
luoghi angusti e dissiparsi.
Spesso parne eziandio che in simil guisa
Scosso da
grave tuon tremi e vacilli
Il tutto e
che del mondo ampio repente
Sradicate
l'altissime muraglie
Volin pel
vano immenso, allor ch'accolta
Di vento
irato impetuosa e fiera
Improvvisa
procella entro alle nubi
Penetra e vi
si chiude, e con ritorto
Turbo, che
più e più ruota ed avvolge
D'ogni parte
la nube, intorno gonfia
La sua densa
materia, indi l'estrema
Sua forza e
'l vïolento impeto acerbo
Squarciando
il cavo sen la vibra, ed ella
Scoppia e
scorre per l'aria in suon tremendo.
Nè
mirabile è ciò; poichè sovente
Picciola
vescichetta in simil guisa
Suole in
aria produr, piena di spirto,
D'improvviso
squarciata, alto rimbombo.
Evvi ancor la ragione onde i robusti
Venti
facciano il tuon, mentre scorrendo
Se ne van
tra le nubi. Elle sovente
Volan ramose
in varie guise ed aspre
Per lo vano
dell'aria: or, nella stessa
Guisa che,
allor che 'l vïolento fiato
Di coro i
folti boschi agita e sferza,
Fischian le
scosse fronde e d'ogn'intorno
Tronchi
orrendo fragor spargono i rami,
Tal del
vento gagliardo anco alle volte
L'incitato
vigor spezza e 'n più parti
Col retto
impeto suo squarcia le nubi:
Poichè,
qual forza ei v'abbia, aperto il mostra
Qui per
sè stesso in terra, ove più dolce
Spira e pur
non per tanto in fin dall'ime
Barbe i
robusti cerri abbatte e schianta
Son per le
nubi ancor flutti, che fanno
Gravemente
frangendo un quasi roco
Murmure,
qual sovente anco negli alti
Fiumi e
nell'alto mar che vada o torni
Soglion
l'onde produr rotte e spumanti.
Esser puote
eziandio, che, se vibrato
D'una nube
in un'altra il fulmin piomba,
Questa, se
con molt'acqua il fuoco beve,
Tosto con
alte grida il mondo assordi;
Qual, se tal or dalla fucina ardente
Sommerso in
fretta è l'infocato acciaio
Nella gelida
pila, entro vi stride.
Chè
se un'arida nube in sè riceve
La fiamma,
in un momento accesa ed arsa
Con
smisurato suon folgora intorno;
Qual se pe'
monti d'apollinei allori
Criniti il
foco scorra e con grand'impeto
Gli arda
cacciato dal soffiar de' venti;
Chè
nulla è ch'abbruciando in sì tremendo
Suon tra le
fiamme strepitando scoppi
Quanto i
delfici lauri a Febo sacri.
Al fin:
d'acerba grandine e di gelo
Un fragor
vïolento un precipizio
Spesso
nell'alte nubi alto rimbomba;
Che, allor
che 'l vento gli condensa e gli empie,
Frangonsi in
luogo angusto eccelsi monti
Di
grandinosi nembi in gelo accolti.
Folgora similmente, allor che scossi
Vengon dagli
urti dell'avverse nubi
Molti semi
di foco; in quella guisa
Che, se
pietra è da pietra o da temprato
Acciar
percossa, un chiaro lume intorno
Sparge e
vive di fuoco auree scintille.
Ma, pria
ch'a' nostri orecchi arrivi il tuono,
Veggon gli
occhi il balen; perchè più tardo
Moto han
sempre i principii atti a commoverne
L'udito che
la vista. Il che ben puossi
Quindi
ancora imparar; che, se da lungi
Vedi con
dubbio ferro un tronco busto
Spezzar
d'albero annoso, il colpo miri
Pria che 'l
suon tu ne senta: or nello stesso
Modo agli
occhi eziandio giunge il baleno
Pria che 'l
tuono all'orecchie, ancor che 'l tuono
Sia vibrato
col folgore e con lui
D'una causa
prodotto e d'un concorso.
Spesso avvien ch'in tal guisa ancor si tinga
D'un lume
velocissimo e risplenda
D'un tremulo
fulgor l'atra tempesta.
Tosto che 'l
vento alcuna nube assalse
E, quivi in
giro vòlto, il cavo seno,
Qual sopra
io ti dicea, n'addensa e stringe;
Ferve per la
sua mobile natura;
Come tutte
scaldate arder le cose
Veggiam nel
moto, ond'anco il lungo corso
Strugge i
globi girevoli del piombo.
Tal dunque
acceso il vento, allor ch'in mezzo
Squarcia
l'opaca nube, indi repente
Molti semi
d'ardor quasi per forza
Spressi
disperge, i quai di fiamma intorno
Vibran
fulgidi lampi: or quinci il tuono
Nasce, il
qual vie più tardo il senso muove
Di qualunque
splendor ch'arrivi all'occhio:
Chè
ciò tra folte e dense nubi avviene
E in un
profondamente altre sopr'altre
Con prestezza
ammirabile ammassate.
Nè
t'inganni il veder che l'uom da terra
Può
vie meglio osservar per quanto spazio
Si distendan
le nuvole che quanto
Salgano
ammonticate in verso il cielo.
Poichè;
se tu le miri allor che i venti
Per l'aure
se le portano a traverso,
O allor che
pe' gran monti altre sopr'altre
Si stanno
accumulate e le superne
Premon
l'inferne immobili, tacendo
Del tutto i
venti; allor potrai le vaste
Lor moli
riconoscere e vedere
L'altissime
ed orribili spelonche
Quasi
costrutte di pendenti sassi;
Ove, poi che
tempesta il cielo ingombra,
Entran
rabbiosi venti, e con tremendo
Murmure
d'ogn'intorno ivi racchiusi
Fremono, e
minaccevoli e superbi
Vibran, di
fere in guisa ancor che in gabbia,
Per le nubi
agitate or quinci or quindi
I lor fieri
ruggiti, e via cercando
Si raggiran
per tutto, e dalle nubi
Convolgon
molti semi atti a produrre
Il foco, e
in guisa tal n'adunan molti,
E dentro a
quelle concave fornaci
Ruotan la
fiamma lor, fin che coruschi,
L'atra nube
squarciata, indi risplendono.
Avviene ancor che furïoso e rapido
Per
quest'altra cagion l'aureo fulgore
Di quel
liquido foco in terra scenda,
Perchè
molti di foco han semi accolti
Le nubi
stesse: il che vedersi aperto
Può
da noi, quando asciutte e senz'alcuno
Umido son,
che d'un fiammante e vivo
Color
splendon sovente. E ben conviene
Ch'elle
accese in quel tempo e rubiconde
Spargano in
larga copia alate fiamme,
Perchè
molti di sol raggi lucenti
Mestier
è pur ch'abbian concetti. Or, quando
Dunque il
furor del vento entro gli sforza
A
raccogliersi in uno e stringe e calca
Premendo il
luogo, essi diffondon tosto
Gli espressi
semi in larga copia; e quindi
Della fiamma
il color folgora e splende.
Folgora
similmente, allor che molto
Rarefansi
eziandio del ciel le nubi.
Poichè;
qual or, mentre per l'aure a volo
Se n' vanno,
il vento leggermente in varie
Parti le
parte e le dissolve; è d'uopo
Che cadan
lor malgrado e si dispergano
Quei semi
che 'l balen creano: ed allora
Folgora
senza tuono e senza tetro
Spavento
orrendo e senz'alcun tumulto.
Nel resto; qual de' fulmini l'interna
Natura sia,
bastevolmente il mostra
La lor fiera
percossa e dell'ardente
Vapor
gl'inusti segni e le vestigia
Gravi e
tetre esalanti aure di zolfo;
Chè
di foco son queste e non di vento
Note
nè d'acqua. E per sè stessi in oltre
Degli
eccelsi edifici ardono i tetti,
E con rapida
fiamma entro gli stessi
Palagi
scorron trïonfanti. Or questo
Foco sottil
più d'ogni foco è fatto
D'atomi
minutissimi e sì mobili
Che nulla
affatto può durarl'incontra;
Posciachè
furibondo il fulmin passa,
Com'il tuono
e le voci, entro i più chiusi
Luoghi degli
edifici e per le dure
Pietre e pel
bronzo, e in un sol tratto e in uno
Punto
liquido rende il rame e l'oro.
Suole ancor
procurar che, intere e sane
Rimanendo le
botti, il vin repente
Sfumi: e
ciò perchè tutti intorno i fianchi
Del vaso
agevolmente apre e dilata
Il vegnente
calor, tosto ch'in lui
Penetra, e
in un balen solve e disgiunge
Del vino i
semi; il che non par che possa
In
lunghissimo tempo oprare il caldo
Vapor del
sol: così possente è questo
Di corrusco
fervore impeto e tanto
Vie
più tenue e più rapido e più grande.
Or; come il fulmin sia creato, e tanto
Abbia in
sè di vigor che in un sol colpo
Aprir possa
le torri e fin dall'imo
Squassar le
case e le robuste travi
Sveglierne e
ruinarle, e de' famosi
Uomini
demolir gli alti trofei,
Spaventar
d'ogn'intorno ed avvilire
E gli
armenti e i pastori e le selvagge
Belve, e
tant'altre oprar cose ammirande
Simili alle
narrate; io brevemente
Sporrotti, o
Memmo, e senza indugio alcuno
Creder
dunque si dee che generato
Il fulmin
sia dalle profonde e dense
Nubi;
poichè già mai dal ciel sereno
Non piomba o
dalle nuvole men folte.
E ben questo
esser vero aperto mostra,
Ch'allor
s'addensan d'ogn'intorno in aria
Le nubi in
guisa tal che giureresti
Che tutte
d'Acheronte uscite l'ombre
Rïempisser
del ciel l'ampie caverne:
Tal, insorta
di nembi orrida notte,
Ne sovrastan
squarciate e minaccianti
Gole di
timor freddo, allor che prende
Fulmini a
macchinar l'atra tempesta.
In oltre:
assai sovente un nembo oscuro,
Quasi di molle
pece un nero fiume,
Tal dal
cielo entro al mar cade nell'onde
E lungi
scorre, e di profonda e densa
Notte
caliginosa intorno ingombra
L'aria, e
trae seco a terra atra tempesta
Gravida di
saette e di procelle,
E tal
principalmente ei stesso è pieno
E di fiamme
e di turbini e di venti,
Ch'in terra
ancor d'alta paura oppressa
Trema e
fugge la gente e si nasconde.
Tal sovra 'l
nostro capo atra tempesta
Forza
dunqu'è che sia; chè nè con tanta
Caligine
oscurar potriano il mondo
Le nuvole,
se molte unite a molte
Non fosser
per di sopra e i vivi raggi
Escludesser
del sol, nè con sì grande
Pioggia
opprimer potrian la terra in guisa
Ch'i fiumi
traboccar spesso e i torrenti
Facessero e
notar nell'acque i campi,
Se non fosse
di nuvole altamente
Ammassate
fra lor l'etere ingombro.
Dunque di
questi fochi e questi venti
È
pieno il tutto; e per ciò freme e vibra
Folgori
d'ogn'intorno irato il cielo.
Con
ciò sia che poc'anzi io t'ho dimostro
Che molti di
vapor semi in sè stesse
Han le
concave nubi, e molti ancora
D'uop'è
che dall'ardor de' rai del sole
Glie ne sian
compartiti. Or; questo stesso
Vento ch'in
un sol luogo, ovunque scorre,
Le unisce a
caso e le comprime e sforza.
Poichè
spressi ha d'ardor molti principii
E con lor
s'è mischiato; ivi s'aggira
Profondamente
insinuato un vortice,
Che dentro a
quelle calde atre fornaci
Aguzza e
tempra il fulmine tremendo;
Che per
doppia cagion ratto s'infiamma;
Con
ciò sia che si scalda e pel suo rapido
Moto e del
foco pel contatto. E quindi
Non
sì tosto per sè ferve agitata
L'energia di
quel vento o gravemente
Delle fiamme
l'assal l'impeto acerbo,
Che tosto
allor quasi maturo il fulmine
Squarcia
l'opaca nube, e di corrusco
Splendor
l'aere illustrando il lampo striscia;
Cui tal
grave succede alto rimbombo,
Che repente
spezzati opprimer sembra
Del ciel gli
eccelsi templi. Indi un gelato
Tremor la
terra ingombra, e d'ogn'intorno
Scorron per
l'alto ciel murmuri orrendi;
Chè
tutta quasi allor trema squassata
La sonora
tempesta e freme e mugge:
Per lo cui
squassamento alta e feconda
Tal dall'etra
cader suole una piova,
Che par che
l'etra stesso in pioggia vòlto
Siasi e che
tal precipitando in giuso
Ne richiami
al diluvio. Or sì tremendo
Suon dal
ratto squarciarsi in ciel le nubi
Vibrasi e
dalla torbida procella
Del vento in
lor racchiuso, allor che vola
Con ardente
percossa il fulmin torto.
Tal volta
ancor l'impetuosa forza
Del vento
esternamente urta e penètra
Qualche nube
robusta e di maturo
Fulmin
già pregna; onde repente allora
Quel vortice
di fuoco indi ruina
Che noi con
patria voce appelliam fulmine:
E lo stesso
succede anche in molt'altre
Parti,
dovunque un tal furore il porta.
Succede
ancor che l'energia del vento,
Ben che
senz'alcun foco in giù vibrata,
Pur tal or,
mentre viene, arde nel lungo
Corso, tra
via lasciando alcuni corpi
Grandi che
penetrar l'aure egualmente
Non ponno, e
dallo stesso aere alcuni altri
Piccioletti
ne rade i quai volando
Misti in
aria con lui formin la fiamma:
Qual, se
robusta man di piombo un globo
Con girevole
fionda irata scaglia,
Ferve nel
lungo corso, allor che molti
Corpi
d'aspro rigor tra via lasciando
Nell'aure
avverse ha già concetto il foco.
Ma suole
anco avvenir che dello stesso
Colpo
l'impeto grave ecciti e svegli
Le fiamme,
allor che ratto in giù vibrato
Senza foco
è del vento il freddo sdegno:
Poichè,
quando aspramente ei fiede in terra,
Pôn da lui
di vapor molti principii
Tosto
insieme concorrere e da quella
Cosa che 'l
fiero colpo in sè riceve;
Qual s'una
viva pietra è da temprato
Acciar
percossa, indi scintilla il foco,
Nè,
perchè freddo ei sia, quei semi interni
Di cocente
splendor men lievi e ratti
Concorrono
a' suoi colpi. Or dunque in questa
Guisa
accendersi ancor posson le cose
Dal fulmin,
se per sorte elle son atte
La fiamma a
concepir: nè puote al certo
Mai del
tutto esser freddo il vento, allora
Che con
tanto furor dall'alte nubi
Scagliato
è in terra sì che, pria nel corso
Se col foco
non arse, almen commisto
Voli col
caldo e a noi tiepido giunga.
Ma che 'l fulmine il moto abbia sì rapido
E sì
grave e sì acerba ogni percossa,
Nasce
perchè lo stesso impeto innanzi
Per le nubi
incitato in un si stringe
Tutto e di
giù piombar gran forza acquista
Indi, allor
che le nubi in sè capire
L'accresciuta
lor forza omai non ponno,
Spresso
è 'l vortice accolto, e però vola
Con furia
immensa; in quella guisa a punto
Che da
belliche macchine scagliati
Volar
sogliono i sassi. Arrogi a questo;
Ch'ei di
molti minuti atomi e lisci
Semi
è formato; e contrastare al corso
Di natura
sì fatta è dura impresa;
Ch'ei ne'
corpi s'insinua e per lo raro
Penetra,
onde per molti urti ed intoppi
Punto non si
ritien ma striscia ed oltre
Vola con
ammirabile prestezza:
In oltre;
perchè i pesi han da natura
Tutti
propensïon di gire al centro,
E, s'avvien
che percossi esternamente
Sian da
forza maggior, tosto s'addoppia
La prontezza
nel moto e vie più grave
Divien
l'impeto loro, onde più ratto
E con
più vïolenza urti e sbaragli
Tutto
ciò ch'egl'incontra e non s'arresti.
Al fin;
perchè con lungo impeto scende,
D'uopo
è che sempre agilità maggiore
Prenda che
più e più cresce nel corso,
E 'l robusto
vigor rende più forti
E più
fieri i suoi colpi e più pesanti;
Poichè
fa che di lui tutti i principii
Che gli son
dirimpetto il volo indrizzino
Quasi in un
luogo sol, vibrando insieme
Tutti quei
che 'l suo corso ivi han rivolto.
Forse e dall'aria
stessa alcuni corpi
Seco trae,
mentre vien, che crescer ponno
Con gli urti
lor la sua prontezza al moto.
E per cose
penètra intere, e molte
Ne passa
intere e salve, oltre volando
Pe' lor
liquidi pori. Ed anco affatto
Molte ne
spezza, allor che i semi stessi
Del fulmine
a colpir van delle cose
Ne' contesti
principii e 'nsieme avvinti.
Dissolve poi
sì facilmente il rame
E 'l ferro e
'l bronzo e l'òr fervido rende,
Perchè
l'impeto suo fatto è di corpi
Piccioli e
mobilissimi e di lisci
E rotondi
elementi, i quai s'insinuano
Con somma
agevolezza e insinuati
Sciolgon
repente i duri lacci e tutti
Dell'interna
testura i nodi allentano.
Ma vie
più nell'autunno i templi eccelsi
Del ciel di
stelle tremole splendenti
Squassansi
d'ogni intorno e tutta l'ampia
Terra, e
allor che ridente il colle e 'l prato
Di ben mille
color s'orna e dipinge;
Con
ciò sia che nel freddo il foco manca,
Nel caldo il
vento, e di sì denso corpo
Le nuvole
non son. Ne' tempi adunque
Di mezzo,
allor del folgore e del tuono
Le varie
cause in un concorron tutte:
Chè
lo stretto dell'anno insieme mesce
Col freddo
il caldo; e ben d'entrambi è d'uopo
I fulmini a
produrne, acciò che nasca
Grave rissa
e discordia e furibondo
Con terribil
tumulto il cielo ondeggi
E dal vento
agitato e dalle fiamme.
Chè
del caldo il principio e 'l fin del pigro
Gelo
è stagion di primavera; e quindi
Forz'è
che l'un con l'altro i corpi avversi
Pugnino
acerbamente e turbin tutte
Le miste
cose: e del calor l'estremo
Col
principio del freddo è 'l tempo a punto
Ch'autunno
ha nome, e in esso ancor con gli aspri
Verni pugnan
l'estati; onde appellarsi
Debbon
queste da noi guerre dell'anno
Nè
per cosa mirabile s'additi
Ch'in
sì fatta stagion fulmini e lampi
Nascan
più ch'in null'altra ed agitati
Molti sian
per lo ciel torbidi nembi;
Con
ciò sia che con dubbia aspra battaglia
Quinci e
quindi è turbata, e quinci e quindi
Or
l'incalzan le fiamme or l'acqua e 'l vento.
Or questo è specular l'interna essenza
Dell'ignifero
fulmine, e vedere
Con qual
forza ei produca i vari effetti;
E non,
sossopra rivolgendo i carmi
Degli
aruspici etruschi, i vari segni
Dell'occulto
voler de' sommi dèi
Cercar
senz'alcun frutto; ond'il volante
Foco a noi
giunga, e s'ei quindi si volga
A destra od
a sinistra, ed in qual modo
Penetri
dentro a' chiusi luoghi, e come
Quindi ancor
trïonfante egli se n'esca,
E qual possa
apportar danno a' mortali
Dal ciel
piombando il fulmine ritorto.
Chè
se Giove sdegnato e gli altri numi
I superni
del ciel fulgidi templi
Con
terribile suon scuotono e ratte
Lancian
fiamme ed incendi ove gli aggrada:
Dimmi
ond'è ch'a chiunque alcuna orrenda
Scelleraggin
commette il seno infisso
Non fan che
fiamme di fulmineo tèlo
Aneli, e
caggia, a' malfattori esempio
Acre
sì ma giustissimo? e più tosto
Chi
d'alcun'opra rea non ha macchiata
La propria
coscïenza, entro alle fiamme
È
ravvolto innocente, e d'improvviso
È dal
foco e dal fulmine celeste
Sorpreso e
in un sol punto ucciso ed arso?
E
perchè ne' diserti anco alle volte
Vibrangli, e
l'ire lor spargono al vento?
Forse con
l'esercizio assuefanno
La destra a
fulminar? forse le braccia
Rendono
allor più vigorose e dotte?
Perchè
soffron ch'in terra ottuso e spento
Sia del gran
padre il formidabil tèlo?
Perchè
Giove il permette, e nol riserba
Contro a'
nemici? e perchè mai no 'l vibra
Finalmente e
non tuona a ciel sereno?
Forse, tosto
ch'al puro aere succede
Tempestosa
procella, egli vi scende,
Acciò
quindi vicin l'aspre percosse
Meglio del
tèlo suo limiti a segno?
In oltre:
ond'è ch'in mar l'avventa, e l'acque
Travaglia e
'l molle gorgo e i campi ondosi?
E, s'ei vuol
che del fulmine cadente
Schivin gli
uomini i colpi, a che no 'l vibra
Tal che tra
via si scerna? e, s'improvviso
Vuol col
foco atterrarne, e perchè tuona
Sempre da
quella parte onde schivarsi
Possa? e
perchè di tenebroso e scuro
Manto innanzi
il ciel cuopre, e freme e mugge?
Forse
credèr potrai ch'egli l'avventi
Insieme in
molte parti? o forse stolto
Ardirai di
negar ch'unqua avvenisse
Che potesser
più fulmini ad un tratto
Dal cielo in
terra ruinar? ma spesso
Avvenne, e
ben che spesso avvenga è d'uopo,
Che, siccome
le piogge in molte parti
Caggion del
nostro mondo, anco in tal guisa
Caschin
molte saette a un tempo stesso.
Al fin;
perchè degli altri numi i santi
Templi e
l'egregie sue sedi beate
Crolla con
fulmin violento, e frange
Spesso le
statue degli dèi costrutte
Da man
dedalea, e con percossa orrenda
Toglie
all'imagin sua l'antico onore?
E
perchè tanto spesso i luoghi eccelsi
Ferisce; noi
molti veggiam ne' sommi
Gioghi d'un
foco tal non dubbi segni?
Nel resto; agevolmente indi si puote
Di quei
l'essenza investigar che i Greci
Prestèri
nominar dai loro effetti,
E come e da
qual forza in mar vibrati
Piombin
dall'alto ciel. Poichè tal ora
Scender suol
dalle nubi entro le salse
Onde quasi
calata alta colonna,
Cui ferve
intorno dal soffiar de' venti
Gravemente
commosso il flutto insano;
E qualunque
navilio in quel tumulto
Resta
sorpreso, allor forte agitato
Cade in
sommo periglio. E questo avviene
Qual or del
vento il tempestoso orgoglio
Squarciar
non sa la cava nube affatto
Che a romper
cominciò; ma la deprime
Sì,
che quasi calata a poco a poco
Paia dal
ciel nell'onde alta colonna;
Come sia
d'alto a basso o nebbia o polve
Tratta col
pugno e con lanciar del braccio
E distesa
per l'acque: or, poi che 'l vento
Furïoso
la straccia, indi prorompe
In mare e
nelle salse onde risveglia
Il girevole
turbo, il molle corpo
Della nube
accompagna; e non sì tosto
Gravida di
sè stesso in mar l'ha spinta,
Ch'ei
nell'acque si tuffa e con tremendo
Fremito a
fluttuar le sforza, e tutto
Agita e
turba di Nettuno il regno.
Succede
ancor che sè medesmo avvolga
Il vortice
ventoso in fra le nubi
Dell'aria i
semi lor radendo, e quasi
Emulo sia
del prèstere suddetto.
Questi
giunto ch'è in terra, in un momento
Si dissipa,
e di turbo e di procella
Vomita
d'ogn'intorno impeto immane.
Ma, perch'ei
veramente assai di rado
Nasce e
forz'è che in terra ostino i monti,
Quinci
avvien che più spesso appar nell'ampia
Prospettiva
dell'onde e a cielo aperto.
Crescon poscia le nubi, allor che in questo
Ampio spazio
del ciel ch'aere si chiama
Volando
molti corpi aspri e scabrosi
D'improvviso
s'accozzano in sì fatta
Guisa, che
leggermente avviluppati
Star fra lor
non di men possano avvinti.
Questi pria
molti semi e molte piccole
Nubi soglion
formar; che poscia in varie
Guise
insieme s'apprendono e congiungono,
E congiunte
s'accrescono e s'ingrossano,
E da' venti
cacciate in aria scorrono
Fin che
nembo crudel n'insorga e strepiti.
Sappi ancor
che de' monti il sommo giogo,
Quanto al
ciel più vicin sorge eminente,
Tanto
più di caligine condensa
Fuma
continuo e d'atra nebbia è ingombro.
E questo
avvien perchè sì tenui in prima
Nascer
soglion le nuvole e sì rare,
Che 'l vento
che le caccia, anzi che gli occhi
Possan
mirarle, in un le stringe all'alta
Cima de'
monti; u' finalmente, insorta
Turba molto
maggior, folte e compresse
Ci si rendon
visibili, e dal sommo
Giogo paion
del monte ergersi all'etra;
Chè
ventosi nel ciel luoghi patenti
Ben
può mostrarne il fatto stesso e il senso,
Qual or
d'alta montagna in cima ascendi.
In oltre:
che natura erga da tutto
Il mar molti
principii, apertamente
Ne 'l
dimostran le vesti in riva all'acque
Appese,
allor che l'aderente umore
Suggono:
onde vie più sembra che molti
Corpi
possano ancor dal salso flutto
Per
accrescer le nubi in aria alzarsi;
Chè
col sangue è dal mar lungi il discorso.
In oltre;
d'ogni fiume e dalla stessa
Terra sorger
veggiam nebbie e vapori,
Che quindi,
quasi spirti, in alto espressi
Volano, e di
caligine spargendo
L'etere, a
poco a poco in varie guise
S'uniscono e
a produr bastan le nubi:
Chè
di sopra eziandio preme il fervore
Del
signifero cielo, e quasi addensi
Sotto l'aria
di nembi orridi ingombra.
Succede
ancor, che a tal concorso altronde
Vengan molti
principii atti a formare
E le nubi
volanti e le procelle:
Chè
ben dèi rammentar che senza numero
È
degli atomi 'l numero, e che tutta
Dello spazio
la somma è senza termine,
E con quanta
prestezza i genitali
Corpi
soglian volare e come ratti
Scorrer per
lo gran spazio immemorabile.
Stupor
dunque non è, se spesso in breve
Tempo
sì vasti monti e terre e mari
Cuopron
sparse dal ciel tenebre e nembi,
Con
ciò sia che per tutti in ogni parte
I meati
dell'etra, e del gran mondo,
Quasi per
gli spiragli, aperta intorno
È
l'uscita e l'entrata agli elementi.
Or su, com' il piovoso umor nell'alte
Nubi insieme
s'appigli e come in terra
Cada l'umida
pioggia, io vo' narrarti.
E pria
dubbio non v'ha che molti semi
D'acqua in
un con le nuvole medesme
Sorgan da
tutti i corpi; e certo ancora
È che
sempre di par le nubi e l'acqua
Ch'in loro
è chiusa in quella guisa a punto
Crescan,
ch'in noi di par cresce col sangue
Il corpo e
'l suo sudore e qualunqu'altro
Liquore al
fin che nelle membra alberghi.
Spesso
eziandio quasi pendenti velli
Di lana,
dalle salse onde marine
Suggono
umido assai, qual ora i venti
Spargon sull'ampio
mar nuvole e nembi.
E per la
stessa causa anco da tutti
I fiumi e
tutt'i laghi all'alte nubi
L'umor
s'attolle; u' poi che molti semi
D'acqua
perfettamente in molti modi
D'ogn'intorno
ammassati in un sol gruppo
Si son,
tosto le nuvole compresse
Dall'impeto
del vento in pioggia accolti
Cercan
versarli in due maniere in terra;
Chè
l'impeto del vento insieme a forza
Gli unisce,
e la medesima abbondanza
Delle nuvole
acquose, allor che insorta
N'è
turba assai maggior, grava e di sopra
Preme, e fa
che la pioggia indi si spanda.
In oltre:
quando i nuvoli da' venti
Anco son
rarefatti o dissoluti
Da' rai del
sol, gronda la pioggia a stille,
Quasi di
molle cera una gran massa
Al foco
esposta si consumi e manchi.
Ma
furïosa allor cade la pioggia,
Che le nubi
ammassate a viva forza
Restan
gagliardamente ad ambi i lati
Compresse e
dal furor d'irato vento.
Durar poi
lungo tempo in uno stesso
Luogo
soglion le piogge, allor che insieme
D'acqua si
son molti principii accolti
E ch'altre
ad altre nubi ad altri nembi
Altri nembi
succedono e di sopra
Scorrongli e
d'ogn'intorno, allor che tutta
Fuma e 'l
piovuto umor la terra esala.
Quindi; se
co' suoi raggi il sol risplende
Fra l'opaca
tempesta e tutta alluma
Qualche
rorida nube ad esso opposta,
Di ben mille
color vari dipinto
Tosto
n'appar l'oscuro nembo e forma
Il
grand'arco celeste. Or, ciascun'altra
Cosa ch'in
aria nasca in aria cresca
E tutto
ciò che nelle nubi accolto
Si crea,
tutto dich'io la neve i venti
E la
grandine acerba e le gelate
Brine, e del
ghiaccio la gran forza e 'l grande
Indurarsi
dell'acqua e 'l fren che puote
Arrestar
d'ogn'intorno a' fiumi il corso;
Tutte, ancor
ch'io non le ti sponga, tutte
Tu per te
non di meno agevolmente
E trovar
queste cose e col pensiero
Veder potrai
come formate e d'onde
Prodotte
sian, mentre ben sappia innanzi
Qual natura
convenga agli elementi.
Or via, da qual cagion tremi agitata
La terra,
intendi. E pria suppor t'è d'uopo
Ch'ella,
sì come è fuori, anco sia dentro
Piena di
venti e di spelonche, e molti
Laghi e
molte lagune in grembo porti,
E balze e
rupi alpestri e dirupati
Sassi e che
molti ancor fiumi nascosti
Sotto il
gran tergo suo volgano a forza
E flutti
ondosi e in lor sassi sommersi:
Chè
ben par che richiegga il fatto stesso,
Ch'essere il
terren globo a sè simile
Debba in
ogni sua parte. Or, ciò supposto,
Trema il
suol per di fuori entro commosso
Da gran
ruine; allor che 'l tempo edace
Smisurate
spelonche in terra cava:
Con
ciò sia che cader montagne intere
Sogliono,
ond'ampiamente in varie parti
Tosto con
fiero crollo tremor serpe:
Ed a ragion;
chè da girevol plaustri
Scossi lungo
le vie gli alti edifici
Treman per
non gran peso e nulla manco
Saltano
ovunque i carri a forza tratti
Da feroci
cavai fan delle ruote
Quinci e
quindi trottar gli orbi ferrati.
Succede
ancor che vacillante il suolo
Sia dagli
urti dell'onde orribilmente
Squassato,
allor che d'acque in ampio e vasto
Lago per
troppa età dall'imo svelta
Rotola
immensa zolla; in quella stessa
Guisa che
fermo star non puote un vaso
In terra, se
l'umor prima non resta
D'esser
commosso entro il dubbioso flutto.
In oltre: allor che d'una parte il vento
Ne' cavi
chiostri sotterranei accolto
Stendesi e
furïoso e ribellante
Preme con
gran vigor l'alte spelonche,
Tosto
là 've di lui l'impeto incalza
Scosso
è 'l van della grotta, e sopra terra
Tremano
allor gli alti edifici, e, quanto
Più
sublime ognun d'essi al ciel s'estolle,
Tanto
inchinato più verso la stessa
Parte
sospinto di cader minaccia,
E scommessa
ogni trave altrui sovrasta
Già
pronta a rovinar. Temon le genti
Sì
che dell'ampio mondo al vasto corpo
Credon
ch'omai vicino alcun fatale
Tempo sia
che 'l dissolva e tutto il torni
Nel caos
cieco, una sì fatta mole
Veggendo
sovrastar. Chè se il respiro
Fosse al
vento intercetto, alcuna cosa
No 'l potria
ritener nè dall'estremo
Precipizio
ritrar quando vi corre:
Ma,
perch'egli all'incontro eternamente
Or respira
or rinforza e quasi avvolto
Riede e cede
respinto, indi più spesso,
Ch'in ver
non fa, di ruinar minaccia
La terra;
con ciò sia ch'ella si piega
E 'ndietro
si riversa, e dal gran pondo
Tutta nel
seggio suo tosto ritorna.
Or quindi
è ch'ogni macchina vacilla,
Più
che nel mezzo al sommo, e più nel mezzo
Ch'all'imo,
ove un tal poco a pena è mossa.
Ecci ancor del medesimo tremore
Quest'altra
causa; allor ch'irato il vento
Subito e del
vapor chiuso un'estrema
Forza, o di
fuori insorta o dalla stessa
Terra, negli
antri suoi penetra, e quivi
Pria per
l'ampie spelonche in suon tremendo
Mormora, e,
quando poi portato è 'n volta
Il robusto
vigor, fuor agitato
Se n'esce
con grand'impeto, e fendendo
L'alto sen
della terra in lei produrre
Suol
profonda caverna. Il che successe
In Sidonia
di Tiro e nell'antica
Ega di
Acaia. Or quai cittadi abbatte
Questo di
vapor chiuso esito orrendo
E 'l quindi
insorto terremoto? In oltre
Molte ancor
ruinâr muraglie in terra
Da' suoi
moti abbattute, e molte in mare
Co'
cittadini lor cittadi illustri
Caddero e si
posâr dell'acque in fondo.
Chè
se pur non prorompe, al men la stessa
Forza del
chiuso spirto e 'l fiero crollo
Del vento,
quasi orror, tosto si sparge
Pe' folti
pori della terra, e quindi
Con non
lieve tremor la scuote; a punto
Come quando
per l'ossa un freddo gelo
Mal nostro
grado ne commuove e sforza
A tremare e
riscuoterci. Con dubbio
Terror
dunque paventa il folle volgo
Per le
città: teme di sopra i tetti;
Di sotto,
che natura apra repente
Le terrestri
caverne, e l'ampia gola
Distratta
spanda e in un confusa e mista
Delle
proprie ruine empier la voglia.
Quindi;
ancor che si creda essere eterna
La terra e
'l ciel; più non di men commosso
Da sì
grave periglio, avvien tal ora
Ch'ei non so
da qual parte un tale occulto
Stimolo
tragga di paura, ond'egli
Vien
costretto a temer che sotto i piedi
Non gli
manchi la terra e voli ratta
Pel vano
immenso e già sossopra il tutto
Si volga e
caggia a precipizio il mondo.
Or cantar ne convien perchè non cresca
Il mare. E
pria molto stupisce il volgo
Che maggior
la natura unqua no 'l renda,
Ove scorron
tant'acque, u' d'ogn'intorno
Scende ogni
fiume. Aggiunger dèi le piogge
Vaganti e le
volubili tempeste,
Che tutto il
mar tutta irrigar la terra
Sogliono;
aggiunger puoi le fonti: e pure
Fia 'l tutto
a gran fatica appo l'immenso
Pelago in
aggrandirlo una sol goccia.
Stupor
dunque non è che 'l mar non cresca.
In oltre: di
continuo il sol ne rade
Gran parte.
Chè asciugar l'umide vesti
Con gli
ardenti suoi raggi il sol si scorge:
Ma di pelago
stese in ogni clima
Vegghiam
campagne smisurate: e quindi,
Ben che da
ciascun luogo il sol delibi
D'umor
quanto vuoi poco, in sì gran tratto
Forz'è
pur ch'ampiamente involi all'onde.
Arrogi a
ciò, ch'una gran parte i venti
Ponno in
alto levarne, allor che l'onda
Sferzan del
mar; poichè ben spesso in una
Notte le vie
vegghiam seccarsi e 'l molle
Fango
apprendersi tutto in dure croste.
In oltre: io
sopra t'insegnai che molto
Ergon anche
d'umor l'aeree nubi
Da lor del
vasto pelago concetto
E di tutto
quest'ampio orbe terrestre
Spargonlo in
ogni parte allor ch'in terra
Piove e che
seco il vento i nembi porta.
Al fin:
perchè la terra è di sostanza
Porosa e
cinge d'ogn'intorno il mare
Indissolubilmente
a lui congiunta,
Dêe,
sì come l'umor da terra scende
Nel mar,
così dalle sals'onde in terra
Penetrar
similmente e raddolcirsi:
Perch'egli a
tutt'i sotterranei chiostri
Vien
largamente compartito, e quivi
Lascia il
salso veleno, e di nuov'anco
Sorge in
più luoghi e tutto al fin s'aduna
De' fiumi al
capo, e 'n bella schiera e dolce
Scorre sopra
il terren per quella stessa
Via che per
sè medesma aprirsi in prima
Poteo col
molle piè l'onda stillante.
Or, qual sia la cagion che dalle fauci
D'Etna spirin
tal or con sì gran turbo
Fuochi e
fiamme, io dirò: che già non sorse
Questa di
tetro ardor procella orrenda
Di mezzo a
qualche strage, e le campagne
Di Sicilia
inondando i convicini
Popoli
sbigottiti a sè converse,
Quando,
tutti del ciel veggendo i templi
Fumidi
scintillar, s'empíano il petto
D'una cura
sollecita e d'un fisso
Pensiero,
onde temean ciò che natura
Macchinasse
di nuovo a' danni nostri.
Dunque in
cose siffatte a te conviene
Fissar gli
occhi altamente, e d'ogn'intorno
Estender
lungi in ampio giro il guardo;
Onde poi ti
sovvenga esser profonda
La somma
delle cose, e vegga quale
Picciolissima
parte è d'essa un cielo,
E qual di
tutto il terren globo un uomo.
Il che ben
dichiarato e quasi posto
Innanzi agli
occhi tuoi, se ben tu 'l miri
E 'l vedi,
cesserai senz'alcun dubbio
D'ammirar
molte cose. E chi di noi
Stupisce, se
alcun v'ha che nelle membra
Nata da
fervor caldo ardente febbre
Senta o pur
qualsivoglia altro dolore
Da morbo
cagionatogli? non torpe
All'improvviso
un piè? spesso un acerbo
Dolore i
denti non occupa, e gli occhi
Stessi
penètra? Il sacro fuoco insorge,
E scorrendo
pel corpo arde qualunque
Parte
n'assalse, e per le membra serpe.
E questo
avvien, perchè di molte e molte
Cose il vano
infinito in sè contiene
I semi, e
questa terra e questo stesso
Ciel ne
porta abbastanza, onde ne' corpi
Crescer
possa il vigor d'immenso morbo.
Tal dunque a
tutto il cielo a tutto il nostro
Globo creder
si dee che l'infinito
Somministri
abbastanza, onde repente
Agitata
tremar possa la terra,
E per
l'ampio suo dorso e sovra l'onde
Scorrer
rapido turbine, eruttare
Foco l'etnea
montagna, e fiammeggiante
Mirarsi il
ciel; chè ciò ben anco avviene
Spesso, e
gli eterei templi arder fûr visti,
Qual di
pioggia o di grandine sonante
Torbido
nembo atra tempesta insorge
Là
've da fiero turbo i genitali
Semi
dell'acque trasportati a caso
Insieme
s'adunâr. — Ma troppo immane
È 'l
fosco ardor di quell'incendio. — Un fiume
Anco, che in
ver non è, par non di meno
Smisurato a
colui ch'alcuno innanzi
Maggior mai
non ne vide, e smisurato
Sembra un
albero un uomo; e in ogni specie,
Tutto
ciò che ciascun vede più grande
Dell'altre
cose a lui simili, il finge
Immane,
ancor che sia col mar profondo
Con la terra
e col cielo appo l'immensa
Somma d'ogni
altra somma un punto un nulla.
Or, come dalle vaste etnee fornaci
D'improvviso
irritata in aria spiri
Non di men
quella fiamma, io vo' narrarti.
Pria: tutto
è pien di sotterranei e cavi
Antri
sassosi il monte: e in ognun d'essi
Chiuso
senz'alcun dubbio è vento ed aria;
Chè
nasce il vento ov'agitata è l'aria.
Questo; poi
ch'infiammossi, e tutto intorno
Ovunqu'ei
tocca, infurïato i sassi
Scalda e la
terra, e con veloci fiamme
Ne scuote il
caldo foco; ergesi in alto
Rapido, e
quindi fuor scaccia dal centro
Per le rette
sue fauci e lungi sparge
L'incendioso
ardore, e vie più lungi
Seco ne
porta le faville e volge
Fra caligine
densa il cieco fumo,
E pietre
insieme di mirabil peso
Lancia;
sì che dubbiar non dèi che questo
Non sia di
vento impetuoso un soffio.
In oltre: il
mar della montagna all'ime
Radici i
flutti suoi frange in gran parte
E 'l bollor
ne risorbe. Or fin da questo
Mar per vie
sotterranee all'alte fauci
Del monte
arrivan gli antri. Indi è mestiero
Dir che
l'acque penètrino, e ch'insieme
S'avvolgan
tutte in chiuso luogo e fuori
Spirino, e
quindi a forza ergan le fiamme
E lancin
sassi in alto e sin dal fondo
Alzin nembi
d'arena. In simil guisa
Son
dall'alta montagna al sommo giogo
Ampie
cratère, orribili spiragli:
Così
pria nominâr l'atre fessure
Che
fûr da noi fauci chiamate e bocche.
Con ciò sia che nel mondo alcune cose
Trovansi,
delle quali addur non basta
Una sola
cagion ma molte, ond'una
Non di men
sia la vera (in quella stessa
Guisa che,
se da lungi un corpo esangue
Scorgi d'un
uom, che tu n'adduca è forza
Di sua morte
ogni causa, acciò compresa
Sia
quell'una fra lor; chè nè di ferro
Troverai
ch'e' perisse o di tropp'aspro
Freddo o di
morbo o di velen, ma solo
Potrai dir
ch'una cosa di tal sorta
L'ancise: il
contar poi qual ella fosse
Tocca de'
curïosi spettatori
Al volgo);
or così dunque a me conviene
Far di
molt'altre cose il somigliante.
Cresce il Nilo l'estate, unico fiume
Di tutto
Egitto, e dalle proprie sponde
Fuor
trabocca ne' campi. Irriga spesso
Questi
l'Egitto, allor che 'l sirio cane
Di focosi
latrati il mondo avvampa;
O
perchè sono alle sue bocche opposti
D'estate i
venti aquilonari, a punto
Nel tempo
stesso che gli etesii fiati
Soffiando lo
ritardano, e, premendo
L'onde e
forte incalzandole di sopra,
Gonfianle e
le costringono a star ferme.
Chè
scorron senza dubbio al Nilo incontra
L'etesie;
con ciò sia che dall'algenti
Stelle
spiran del polo, ove quel fiume
Fuor del
torrido clima esce dall'austro
Fra' neri
Etiopi e dal calore arsicci.
Indi dal
mezzodì sorgendo a punto
Può
di rena ammassata anco un gran monte
Ai flutti
avverso di quel vasto fiume
Oppilar le
sue bocche, allor che 'l mare
Agitato da'
venti entro vi spinge
L'arena;
onde avvien poi che 'l fiume stesso
Men libera
l'uscita e men proclive
Abbia
dell'onde sue l'impeto e 'l corso.
Esser forse
anco può che, più ch'in altro
Tempo, verso
il suo fonte acque abbondanti
Piovano
allor che degli etesii venti
Il soffio
aquilonar tutti imprigiona
I nembi in
quelle parti, e ben cacciate
Vêr
mezzodì le nubi e quivi accolte
E spinte
alle montagne insieme al fine
S'urtano e
si condensano e si premono.
Forse e
dell'Etïopia i monti eccelsi
Fanno il
Nilo abbondar, quando ne' campi
Scendon le
bianche nevi, a ciò costrette
Da' tabifici
rai del sol che cinge
Il tutto, il
tutto alluma, il tutto scalda.
Or via: cantar conviemmi i luoghi e i laghi
Averni, e
qual natura abbiano in loro
Brevemente
narrarti. In prima, adunque;
Ch'e' si
chiamino Averni, il nome è tratto
Dalla lor
qualità, poichè nemici
Sono a tutti
gli augei; perch'ivi a pena
Giungon
volando, che scordati affatto
Del vigor delle
penne, in abbandono
Lascian le
vele e qua e là dispersi
Ruinan con
pieghevoli cervici
A precipizio
in terra, e, se no 'l soffre
La natura
del luogo e sotto steso
V'è
qualche lago, in acqua. Un simil lago
È
presso a Cuma assai vicino al monte
Vesuvio, ove
continuo esalan fumo
Piene di
calde fonti atre paludi.
Ènne
un d'Atene in su le mura in cima
Della rôcca
di Palla, ove accostarsi
Non
fûr viste già mai rauche cornici,
Non allor
che di sangue intrisi e lordi
Fumano i
sacri altari; e in così fatta
Guisa
fuggendo van non le vendette
Dell'adirata
dea, qual già de' Greci
Cantâr le
trombe adulatrici e false,
Ma sol per
sè medesma ivi produce
La natura
del luogo un tale effetto.
Fama
è ancor ch'in Soria si trovi un altro
Averno, ove
non pur muoian gli augelli
Che sopra vi
volâr, ma che non prima
V'abbian del
proprio piè segnate l'orme
Gli animali
quadrupedi ch'a terra
Sian forzati
a cader, non altrimenti
Che se
agl'inferni dèi repente offerti
Fossero in
sacrificio. E tutto questo
Pende da
cause naturali, e noto
N'è
il lor principio: acciò tu forse, o Memmo,
Dell'Orco
ivi più tosto esser non creda
La
spaventevol porta, e quindi avvisi
Che nel
cieco Acheronte i numi inferni
Per
sotterranee vie conducan l'alme;
Qual fama
è che sovente i cervi snelli
Conducan
fuor delle lor tane i serpi
Col fiato
delle nari. Il che dal vero
Quanto sia
lungi, ascolta: io vengo al fatto.
Pria torno a dir quel che sovente innanzi
Io dissi; e
questo è, che figure in terra
Trovansi
d'ogni sorta atte a produrre
Le cose; e
che di lor molte salubri
Sono
all'uomo e vitali, et anco molte
Atte a
renderlo infermo e dargli morte.
E che meglio
nutrir ponno i viventi
Questi semi
che quei, già s'è dimostro
Per la varia
natura e pe' diversi
Congiungimenti
insieme e per le prime
Forme fra
lor difformi: altre inimiche
Son
dell'uomo all'orecchie, altre alle nari
Stesse
contrarie, e di malvagio senso
Altre al
tatto altre all'occhio altre alla lingua.
In oltre:
veder puoi quanto sian molte
Cose
aspramente a' nostri sensi infeste,
Sporche
gravi e noiose. In prima: a certi
Alberi
diè natura una sì grave
Ombra, che
generar dolori acerbi
Di capo
suol, se sotto ad essi alcuno
Steso tra
l'erbe molli incauto giacque.
È sul
monte Elicona anco una pianta,
Che co 'l
puzzo de' fior gli uomini uccide.
Poichè
tutte da terra ergonsi al cielo
Tai cose,
perchè misti in molti modi
Di lor molti
principii in grembo asconde
La terra e
separati a ciò che nasce
Distintamente
li comparte. Il lume
Che di
fresco sia spento, allor che offese
Ha col grave
nidor l'acute nari,
Ivi ancor
n'addormenta. E per lo grave
Castoreo
addormentata il capo inchina
La donna
sopra gli omeri e non sente
Che 'l suo
bel lavorio di man le cade,
S'il fiuta
allor che de' suoi mestrui abbonda.
E molte anco
oltr'a ciò cose possenti
Trovansi a
rilassar ne' corpi umani
L'illanguidite
membra e nelle proprie
Sedi interne
a turbar l'animo e l'alma.
Al fin: se
tu ne' fervidi lavacri
Entrerai ben
satollo e trattenerti
Vorrai nel
soglio del liquor bollente,
Quanto
agevol sarà ch'al vaso in mezzo
Tu caggia! E
de' carbon l'alito grave
E l'acuta
virtù quanto penétra
Facilmente
al cervel! se pria bevuto
Non abbiam
d'acqua un sorso, o se le fredde
Membra
innanzi non copre il fido servo,
O se da'
penetrabili suoi dardi
Con grato
odor non ne difende il vino.
E non vedi
tu ancor che nella stessa
Terra il
solfo si genera, e che il tetro
Puzzolente
bitume ivi s'accoglie?
Al fin: dove
d'argento e d'òr le vene
Seguon,
cercando dell'antica madre
Con curvo
ferro il più riposto grembo;
Forse quai
spiri allor puzzi maligni
La sotterranea
cava, e che gran danno
Faccian col
tetro odor gli aurei metalli,
Quai degli
uomini i vólti e qua' de' vólti
Rendan tosto
i color, non vedi? o forse
Non senti in
quanto picciolo intervallo
Soglion
tutti perir quei che dannati
Sono a forza
a tal opra? Egli è mestiero
Dunque, che
tai bollori agiti e volga
In sè
la terra, e fuor gli spiri e sparga
Per gli
aperti del ciel campi patenti.
Tal
dênno anco agli augelli i luoghi averni
Tramandar la
mortifera possanza,
Che spirando
dal suol nell'aure molli
Sorge e 'l
ciel di sè stessa infetto rende
Da qualche
parte: ove non prima è giunto
L'augel che
dal non visto alito grave
D'improvviso
assalito il volo perde;
E tosto
là, d'onde la terra indrizza
Il nocivo
vapor, cade; e, caduto
Che
v'è, quel rio velen da tutti i membri
Toglie del
viver suo gli ultimi avanzi:
Poichè
quasi a principio un tal fervore
Eccita, onde
avvien poi che, già caduto
Ne' fonti
stessi del velen, gli è forza
La vita
affatto vomitarvi e l'alma,
Con
ciò sia che di mal gran copia ha intorno.
Succede anco
tal or, che questo stesso
Vïolento
vapor de' luoghi averni
Tutto l'aere
frapposto apra e discacci,
Sì
che quindi agli augei sotto rimanga
Vòto
quasi ogni spazio. Ond'ivi a pena
Giungon, che
d'improvviso a ciascun d'essi
Zoppica
delle penne il vano sforzo
E 'l
dibatter dell'ali è tutto indarno.
Or qui,
poichè gli è tolto ogni vigore
Dell'ali e
sostenersi omai non ponno,
Tosto dal
natio peso a forza tratti
Caggiono in
terra a precipizio, e tutti
Qua e
là per lo vôto omai giacendo
Da' meati
del corpo esalan l'alma.
Freddo è poi nell'estate entro i profondi
Pozzi
l'umor, perchè la terra allora
Pel caldo
inaridisce e, s'alcun seme
Tiene in
sè di vapor, tosto il tramanda
Nell'aure:
or, quanto il sol dunqu'è più caldo,
Tanto il
liquido umor ch'in terra è chiuso
Più
gelato divien. Ma, quando il nostro
Globo preso
è dal freddo e si condensa
E quasi in
un s'accoglie, è d'uopo al certo
Ch'egli
allor, nel ristringersi, ne' pozzi
Sprema se
caldo alcun cela in se stesso.
Fama è ch'un fonte sia non lungi al tempio
D'Ammon, che
nella luce alma del giorno
L'acque
abbia fredde e le riscaldi a notte.
Tal fonte
è per miracolo additato
Da quegli
abitatori: e 'l volgo crede
Che dal sol
vïolento entro commosso
Per
sotterranee vie rapidamente
Ferva, tosto
che 'l cieco aere notturno
Di caligine
orrenda il mondo copre.
Il che
troppo dal ver lungi si scosta:
Posciachè;
se, trattando il nudo corpo
Dell'acqua,
il sol dalla superna parte
Non
può punto scaldarlo, allor che vibra
Pien d'un
tanto fervor l'etereo lume;
Dimmi, e
come potria cuocer sotterra
Che di corpo
è sì denso il freddo umore
E col caldo
vapore accompagnarlo?
Massime
quando a gran fatica ei puote
Con gli
ardenti suoi rai de' nostri alberghi
Penetrar per
le mura e riscaldarne?
Qual
dunqu'è la cagion? Certo è mestiero
Ch'intorno a
questo fonte assai più rara
Sia
ch'altrove la terra, e che di fuoco
Molti vicini
a lui semi nasconda.
E quinci
avvien che non sì tosto irriga
La notte
d'ombre rugiadose il cielo,
Che 'l
terren per di sotto incontinente
Divien
freddo e s'unisce: indi succede
Che, quasi
ei fosse con le man compresso,
Imprimer
può tal foco entro a quel fonte,
Che 'l suo
tatto e 'l saper fervido renda.
Quindi;
tosto che 'l sol cinto di raggi
Nasce, e
smuove la terra e rarefatta
Col suo
caldo vapor l'agita e mesce;
Tornan di
nuovo nell'antiche sedi
Del fuoco i
corpi genitali, e in terra
Dell'acque
il caldo si ritira: e quindi
Fredda il
giorno divien l'acqua del fonte.
In oltre: il
molle umor da' rai del sole
Forte
è commosso e nel diurno lume
Dal suo
tremolo foco è rarefatto:
E quinci
avvien che, quanti egli d'ardore
Semi in
grembo ascondea, tutti abbandoni;
Qual sovente
anch'il gel che in sè contiene
Lascia e 'l
ghiaccio dissolve e i nodi allenta.
Freddo ancora è quel fonte, ove posata
La stoppa,
in un balen concetto il foco,
Vibra
splendide fiamme a sè d'intorno,
E le pingui
facelle anch'esse accese
Dalla stessa
cagion per l'onde a nuoto
Corron
dovunque le sospinge il vento.
Perchè
nell'acque sue molti principii
Son
certamente di vapore, e forza
È che
da quella terra in sin dal fondo
Sorgan per
tutto il fonte e spirin fuori
Nell'aure
uscendo delle fiamme i semi;
Non
sì vivi però, che riscaldare
Possan nel
moto lor l'acque del fonte.
In oltre: un
cotal impeto gli astringe
Sparsi a
salir rapidamente in aria
Per l'acque
e quivi unirsi. In quella stessa
Guisa che
d'acqua dolce in mare un fonte
Spira, che
scaturisce e a sè d'intorno
Le salse
onde rimuove. Anzi; in molt'altri
Paesi il
vasto pelago opportuno
Ai nocchier
sitibondi util comparte,
Dolci dal
salso gorgo acque esalando.
Tal dunque
uscir da quella fonte ponno
Que' semi e
insinuarsi entro alla stoppa;
Ove poi che
s'uniscono e nel legno
Penetran
delle faci, agevolmente
Ardon,
perchè le faci anco e la stoppa
Molti semi
di fuoco in sè nascondono.
Forse non
vedi tu che, se a' notturni
Lumi di
fresco spenta una lucerna
S'accosta,
ella in un súbito s'accende
Pria che
giunga alla fiamma? E nella stessa
Guisa arder
soglion le facelle; e molte
Cose, oltre
a ciò, dal vapor caldo a pena
Tocche, pria
da lontan splendono accese
Che l'empia
il foco da vicino. Or questo
Stesso
creder si dee che in quella fonte
Anco
all'aride faci accader possa.
Nel resto, io prendo a dir qual di natura
Scambievole
amistade opri che questa
Pietra che i
Greci con paterna voce
Già
magnète appellâr, perch'ella nacque
Ne' confin
di Magnesia, e 'n lingua tósca
Calamita
vien detta, allettar possa
Il ferro e a
sè tirarlo. Or questa pietra
Ammirata
è da noi, perch'ella forma
Spesso di
vari anelli una catena
Da lei
pendente. E ben tal or ne lice
Cinque
vederne e più, con ordin certo
Disposti,
esser da lieve aura agitati,
Qual or
questo da quello a lei di sotto
Congiunto
pende e quel da questo i lacci
Riconosce e
'l vigor del nobil sasso:
Tanto la
forza sua penetra e vale!
Ma d'uopo
è che in materie di tal sorta,
Pria che di
ciò che si propose alcuna
Verisimil
ragion possa assegnarsi,
Sian molte
cause stabilite e ferme;
E per troppo
intrigate e lunghe vie
Giungervi ne
convien: tu dunque attente
Con
desïoso cuor porgi l'orecchie.
Primieramente confessar n'è d'uopo,
Che di
ciò che si vede alcuni corpi
Spirin
continuo e sian vibrati intorno
I quai, gli
occhi ferendo a noi, la vista
Sian atti a
risvegliarne, e che da certe
Cose esalin
perpetuo alcuni odori;
Qual dal
sole il calor, da' fiumi il freddo,
Dal mare il
flusso ed il reflusso edace
Dell'antiche
muraglie a' lidi intorno;
Nè
cessin mai di trasvolar per l'aure
Suoni
diversi: e finalmente in bocca
Spesso di
sapor salso un succo scende,
Quando al
mar siam vicini; ed all'incontro,
Riguardando
infelici il tetro assenzio,
Ne sentiam
l'amarezza. In così fatta
Guisa da
tutti i corpi il corpo esala
E per l'aere
si sparge in ogni parte:
Nè
mora o requie in esalando alcuna
Gli è
concesso già mai, mentre ne lice
Continuo il
senso esercitare, e tutte
Veder sempre
le cose e sempre udire
Il suono ed
odorar ciò che n'aggrada.
Or convien che di nuovo io ti ridica
Quanto raro
e poroso abbiano il corpo
Tutte le
cose di che 'l mondo è adorno:
Il che, se
ben rammenti, anco è palese
Fin dal
carme primier. Poichè, quantunque
Sia di
ciò la notizia utile a molte
Cose,
principalmente in questo stesso
Di ch'io
m'accingo a ragionarti è d'uopo
Subito
stabilir che nulla ai sensi
Esser
può sottoposto altro che corpo
Misto col
vôto. Pria dentro alle cave
Grotte sudan
le selci, e distillanti
Gocce d'argenteo
umor grondano i sassi:
Stilla in
noi dalla cute il sudor molle;
Cresce al
mento la barba, al capo il crine,
Il pelo in
ogni membro: entro le vene
Si sparge il
cibo e s'augumenta, e nutre,
Non che
l'estreme parti, i denti e l'ungna.
Passar pe 'l
rame similmente il freddo
Senti e 'l
caldo vapor; senti passarlo
Per l'oro e
per l'argento, allor ch'avvinci
Con man la
coppa: e finalmente il suono
Vola per
l'angustissime fessure
Di ben
chiuso edificio: il gel dell'acque
Penetra e
delle fiamme il tenue spirto
E de' corpi
odorosi e de' fetenti
L'alito
acuto: anzi del ferro stesso
Non curar la
durezza e penetrarlo
Suol,
là 've d'ogni intorno il corpo è cinto
Di fino
usbergo, il contagioso morbo,
Ben che
venga di fuori: e le tempeste
Insorte in
terra e 'n ciel fuggon repente
Dalla terra
e dal ciel: chè nulla al mondo
Può
di non raro corpo esser contesto.
S'arroge a ciò, che non han tutti un senso
I corpi che
vibrati esalan fuori
Da'
sensibili oggetti, e che non tutte
Pôn le cose
adattarsi a un modo stesso.
Primieramente;
il sol ricuoce e sforza
La terra a
inaridirsi; e pure il sole
Dissolve il
ghiaccio, e l'altamente estrutte
Nevi co'
raggi suoi su gli alti monti
Rende
liquide e molli: al fin la cera
Esposta al
suo vapor si strugge e manca.
Il fuoco
similmente il rame solve
E l'oro e 'l
fa flussibile, ma tragge
Le carni e
'l cuoio, e in un l'accoglie e stringe.
L'acqua il
ferro e l'acciar tratto dal fuoco
Indura, e
dal calor le carni e 'l cuoio
Indurato
ammollisce. Alle barbute
Capre
sì grato cibo è l'oleastro,
Che quasi
asperso di nettareo succo
Par che
stilli d'ambrosia; ove all'incontro
Nulla
è per noi più di tal fronde amaro.
Timidi al
fin l'amaraceno e tutti
Fuggon gli
unguenti i setolosi porci,
Perchè
spesso è per loro aspro veleno
Quel che col
grato odor sembra che l'uomo
Tal or
ricrei: ma pel contrario il fango,
A noi
spiacevolissimo, agl'immondi
Porci
è sì dilettevole, che tutti
Insazïabilmente
in lui convolgonsi.
Rimane ancor da dichiararsi, innanzi
Che di
ciò ch'io proposi io ti ragioni,
Che, avendo
la natura a varie cose
Molti pori
concesso, egli è pur forza
Ch'e' sian
tra lor diversi e ch'abbian tutti
La lor
propria natura e le lor vie.
Poichè
son gli animai di vari sensi
Dotati, e
ciascun d'essi in sè riceve
Il proprio
obietto; chè 'l sapore altrove
Penètra,
altrove il suon, l'odore altrove.
In oltre:
insinuarsi altre ne' sassi
Cose
veggiamo, altre nel legno ed altre
Passar per
l'oro, e penetrar l'argento
Altre ed
altre il cristal: poichè tu miri
Quinci
scorrer la specie, ir quindi il caldo,
E per gli
stessi luoghi un più d'un altro
Corpo
rapidamente il varco aprirsi.
Chè
certo a ciò la lor natura stessa
Gli sforza,
varïando in molti modi
Le vie, qual
poco innanzi io t'ho dimostro,
Per le forme
difformi e per l'interne
Testure. Or;
poi che stabilite e ferme
Tai cose e
con buon ordine disposte,
Quasi certe
premesse, a te palesi
Già
sono, o Memmo, apparecchiate e pronte;
Nel resto
agevolmente indi mi lice
La ragione
assegnarti e la verace
Causa
svelarti, onde l'erculea pietra
Con
incognita forza il ferro tragga.
Pria: forz'è che tal pietra in aria esali
Fuor di
sè molti corpi, onde un fervore
Nasca che
tutta l'aria urti e discacci
Posta tra 'l
ferro e lei. Tosto che vôto
Dunque
comincia a divenir lo spazio
Predetto e
molto luogo in mezzo resta,
D'uop'è
che sdrucciolando i genitali
Semi del
ferro entro a quel vano uniti
Caggian
repente, e che lo stesso anello
Segua, e
tutto così corra pel vôto.
Chè
cos'altra non v'ha che da' suoi primi
Elementi
connessa et implicata
Stia con
lacci più forti insieme avvinta
Del freddo
orror del duro ferro. E quindi
Meraviglia
non è, se molti corpi
Dal ferro
insorti per lo vano a volo
Non van,
qual poco innanzi io t'ho dimostro,
Senza che 'l
moto lor lo stesso anello
Non segua:
il che fa certo, e 'l segue ratto,
Fin che
giunga alla pietra e ad essa omai
Con catene
invisibili s'attacchi.
Questo
avvien similmente in ogni parte,
Onde vôto
rimanga alcun frapposto
Spazio, che,
o sia da' fianchi o sia di sopra
Tosto
caggiono in lui tutti i vicini
Corpi;
poich'agitati esternamente
Son da' colpi
continui e per sè stessi
Forza non
han da sormontar nell'aure.
S'arroge a
ciò, per aiutarne il moto,
Che, tosto
che da fronte al detto anello
L'aer
più grave è divenuto e 'l luogo
Più
vacuo, incontinente avvien che l'aria
Che dietro
gli è quasi 'l promuova e spinga
Da tergo
innanzi; poichè l'aer sempre
Tutto
ciò che circonda intorno sferza.
Ma spinge il
ferro allor, perchè lo spazio
Vôto
è dall'un de' lati e può capirlo.
Questo, poi
che del ferro alle minute
Parti
s'è sottilmente insinuato,
Pe' suoi spessi
meati innanzi 'l caccia,
Quasi vela e
navilio ala di vento.
Al fin:
tutte le cose entro il lor corpo,
Con
ciò sia che 'l lor corpo è sempre raro,
Dènno
aver d'aria qualche parte; e l'aria
Tutte
l'abbraccia d'ogn'intorno e cinge.
Quindi
è che l'aria che nel ferro è chiusa
Con
sollecito moto esternamente
È mai
sempre agitata; e però sferza
Dentro e
muove l'anello, e vêr la stessa
Parte ove
già precipitò una volta
E nel van,
presa forza, indrizza il corso.
Si scosta ancor dal detto sasso e fugge
Tal volta il
ferro, et a vicenda amico
Il segue e
le s'appressa. Io stesso ho visto
Entro a'
vasi di rame a' quai supposta
Sia calamita
saltellar gli anelli
Di
Samotracia e i piccioli ramenti
Di ferro in
un con essi ir furïando:
Sì
par che di fuggir da questa pietra
Goda il
ferro et esulti, ove interposto
Sia rame. E
nasce allor discordia tanta,
Perchè,
poi che nel ferro entra e l'aperte
Vie del rame
il fervor tutte interchiude,
Indi a lui
l'ondeggiar segue del sasso,
E, trovando
già pieno ogni meato
Del ferro,
omai non ha, com'avea innanzi,
Luogo
ond'oltra varcar: dunque costretto
Vien nel
moto ad urtar spesso e percuotere
Nelle ferree
testure; e in simil guisa
Lungi da
sè le spinge, e per lo rame
L'agita; e
senza quel poi le risorbe.
Nè qui vogl'io che meraviglia alcuna
Tu prenda,
che 'l fervor che sempre esala
Fuor di tal
pietra a discacciar bastante
Non sia nel
modo stesso anco altri corpi.
Poichè
nel pondo lor parte affidati
Restano
immoti, e tal è l'oro; e parte,
Perchè
raro hanno il corpo e passa intatto
Il magnetico
flutto, in alcun luogo
Scacciati
esser non ponno, e di tal sorte
Par che sia
'l legno. Or la natura adunque
Del ferro in
mezzo posta, allor che l'aria
Certi minimi
corpi in sè riceve,
Spinta
è da' fiumi del magnesio sasso.
Nè
tai cose però sono alïene
Dall'altre
in guisa tal, ch'io non ne possa
Molte contar
ch'unitamente insieme
Si
congiungono anch'esse. In prima io veggio
Con la sola
calcina agglutinarsi
Le pietre e
i sassi. Si congiunge insieme
Con la colla
di toro il legno in guisa
Che
l'interne sue vene assai più spesso
Soglion di
propria imperfezione aprirsi
Che di punto
allentar le commessure
I taurini
lacci abbian possanza.
Con l'umor
delle fonti il dolce succo
Del vin si
mesce: il che non può la grave
Pece e
l'olio leggier; ma piomba al fondo
Quella delle
chiar'acque, e vi sormonta
Questo e
galleggia. Il porporin colore
Dell'eritree
conchiglie anch'ei sommerso
Cade: e pur
questo stesso unqua non puote
Dall'amica
sua lana esser disgiunto;
Non, se tu,
per ridurla al suo natio
Candor, col
flutto di Nettuno ogni arte
Ogni
industria porrai; non, se lavarla
Voglia con
tutte l'acque il mar profondo.
Al fin; con
un tal glutine s'unisce
L'argento
all'oro, e con lo stagno il rame
Si salda al
rame. E quante omai ne lice
Altre cose
trovar di questa sorta!
Che dunque?
Nè tu d'uopo hai di sì lunghi
Rivolgimenti
di parole, ed io
Perdo qui
troppo tempo: onde sol resta,
Memmo, che
tu dal poco apprenda il molto.
Quei corpi,
ch'a vicenda han le testure
Tai che 'l
cavo dell'uno al pien dell'altro
S'adatti
insieme, uniti ottimamente
Stanno: ed
anco esser può ch'abbian alcuni
Altri
principii lor, quasi in anelli
Percurvi a
foggia d'ami; e quindi accaggia
Ch'e'
s'avvinchin l'un l'altro: il che succedere
Dêe,
più ch'a nulla, a questa pietra e al ferro.
Or; qual sia la cagion che i fieri morbi
Reca, e
d'onde repente a pena insorto
Possa il
cieco velen d'orrida peste
Strage tanto
mortifera all'umano
Germe
inspirar, non ch'agli armenti e a' greggi,
Brevemente
dirotti. In prima adunque
Sai che
già t'insegnammo esser vitali
All'uom
molti principii ed anco molti
Morbi a noi
molti cagionarne e morte.
Questi, poi
che volando a caso insorti
Forte il
ciel conturbâr, rendono infetto
L'aere: e
quindi vien poi tutto il veleno
Del morbo e
del contagio; o per di fuori,
Come vengon
le nuvole e le nebbie
Pel ciel
cacciate dal soffiar de' venti;
O dalla
stessa terra umida e marcia
Per piogge e
soli intempestivi insorto
Spira e vola
per l'aria e la corrompe.
Forse non
vedi ancor tosto infermarsi
Per
novità di clima e d'aria e d'acqua
Chi di lontan
paese ove già visse
Giunge a'
nostri confin? sol perchè molto
Vario
è da questo il lor paterno cielo.
Poichè
quanto crediam che differente
Sie
dall'anglico ciel l'aria d'Egitto
Là
've l'artico polo è sempre occulto?
E quanto
varïar stimi da Gade
Di Ponto il
clima e dagli Etiopi adusti?
Con
ciò sia che non pur fra sè diversi
Son que'
quattro paesi e sottoposti
Ai quattro
venti principali, ai quattro
Punti
avversi del ciel; ma vari ancora
Gli uomini
di color molto e di faccia
Hanno. E
generalmente ogni nazione
Vive alle
proprie infirmità soggetta.
Nasce in
mezzo all'Egitto e lungo il fiume
Del Nilo un
certo mal che lebbra è detto;
Nè
più s'estende. In Atíde assaliti
Son dalle
gotte i piè. Difetto e duolo
Soglion gli
occhi patir dentro agli achivi
Confini; e
ad altre membra ed altre parti
Altro luogo
è nemico: il vario clima
Genera un
tal effetto. E quindi avviene
Che, s'un
cielo stranier turba e commuove
Sè
stesso e l'aria a noi nemica ondeggia,
Serpe qual
nebbia a poco a poco o fumo,
E tutto,
ovunque passa agita e turba
L'aere e
tutto il trasmuta, e finalmente
Giunto nel
nostro ciel dentro il corrompe
Tutto e a
sè l'assomiglia e stranio il rende.
Tosto dunque
un tal morbo una tal nuova
Strage cade
o nell'acque o nelle stesse
Biade
penétra o in altri cibi e pasti
D'uomini e
d'animali; o ancor sospeso
Resta
nell'aria il suo veleno; e quindi,
Misto
spirando e respirando il fiato,
Siam con
l'aure vitali a ber costretti
Quei
mortiferi semi: in simil guisa
Suol la
peste sovente anco assalire
I buoi
cornuti e le belanti greggie.
Nè
monta s'in paese a noi nemico
Si vada e
muti cielo, o se un corrotto
Aere
spontaneamente a noi d'altronde
Se n' voli o
qualche grave e inconsueto
Spirto che
nel venir generi il morbo.
Una tal causa di contagio un tale
Mortifero
bollor già le campagne
Ne' cecropi
confin rese funeste,
Fe' diserte
le vie, di cittadini
Spopolò
la città. Poichè, venendo
Da' confin
dell'Egitto ond'ebbe il primo
Origin suo,
molto di cielo e molto
Valicato di
mar, le genti al fine
Di
Pandïone assalse. Indi appestati
Tutti a
schiere morían. Primieramente
Essi avean
d'un fervore acre infiammata
La testa e
gli occhi rosseggianti e sparsi
Di
sanguinosa luce. Entro le fauci
Colavan
marcia; e da maligne e tetre
Ulcere
intorno assediato e chiuso
Era il varco
alla voce; e degli umani
Sensi e
segreti interprete la lingua
D'atro
sangue piovea, debilitata
Dal male, al
moto grave, aspra a toccarsi.
Indi, poi
che 'l mortifero veleno
Sceso era al
petto per le fauci e giunto
All'affannato
cuor, tutti i vitali
Claustri
allor vacillavano. Un orrendo
Puzzo volgea
fuor per la bocca il fiato,
Similissimo
a quel che spira intorno
Da' corrotti
cadaveri. Già tutte
Languian
dell'alma e della mente affatto
L'abbattute
potenze, e su la stessa
Soglia omai
della morte il corpo infermo
Languiva
anch'egli. Un'ansïosa angoscia
Del male
intollerabile compagna
Era: e misto
col fremito un lamento
Continuo e
spesso un singhiozzar dirotto,
Notte e
dì, senza requie, a ritirarsi
Sforzando i
nervi e le convulse membra,
Sciogliea
dal corpo i travagliati spirti,
Noia a noia
aggiugnendo e duolo a duolo.
Nè di
soverchio ardor fervide alcuno
Avea
l'estime parti; anzi in toccarle
Tepide si
sentian. Di quasi inuste
Ulcere
rosseggiante era per tutto
L'infermo
corpo; in quella guisa a punto
Che suole
allor che per le membra il sacro
Fuoco si
sparge. Ardean nel petto intanto
Divorate le
viscere; una fiamma
Nello
stomaco ardea quasi in accesa
Fornace;
sì che non potean le membra
Fuor che la
nudità, nulla soffrire,
Ben che
tenue e leggiero. Al vento al freddo
Volontari
esponeansi: altri di loro
Nell'onde
algenti si lanciâr de' fiumi:
Molti
precipitosi a bocca aperta
Si gettavan
ne' pozzi. Era sì intensa
La sete che
immergea gli aneli corpi
Insazïabilmente
entro le fredde
Acque, che
breve stilla all'arse fauci
Parean gli
ampi torrenti. Alcuna requie
Non avea 'l
mal: stanchi giacean gl'infermi:
Timida
l'arte macaonia e mesta
Non s'ardia
favellar. L'intere notti
Privi
affatto di sonno i lumi ardenti
Stralunavan
degli occhi. Ed altri molti
Davan segni
di morte: era dell'alma
Perturbata
la mente e sempre involta
Fra
cordoglio e timor; rugoso il ciglio,
Severo il
volto e furibondo; in oltre
Sollecite
l'orecchie e d'un eterno
Rumore
ingombre; il respirar frequente,
O grande e
raro; d'un sudor gelato
Madido il
collo e splendido; gli sputi
Tenui
piccioli e salsi, e d'un colore
Simile al
croco, e per l'arsicce e rauche
Fauci da
grave tossa a pena eretti.
I nervi in
oltre delle mani attrarsi
Solean,
tremar gli articoli, e da' piedi
Salir pian
piano all'altre membra un gelo,
Duro nunzio
di morte: avean compresse
Fino
all'estremo dì le nari, in punta
Tenue il
naso ed aguzzo, occhi sfossati,
Cave tempie
e contratte, e fredda ed aspra
Pelle ed
orrido ceffo e tesa fronte.
Nè
molto gìa, che da penosa e cruda
Morte
oppressi giacean: la maggior parte
Perian
l'ottavo dì, molti anche il nono
Esalavan lo
spirto. E se alcun d'essi
V'era,
chè v'era pur, che da sì fiero
Morbo
scampasse, ei non di men, corroso
Da sozze
piaghe e da soverchia e nera
Proluvie
d'alvo estenuato, al fine
Tisico si
moria. Con grave duolo
Di testa
anco tal or putrido un sangue
Grondar
solea dall'oppilate nari
In sì
gran copia, che, prostrate e dome
Dell'infermo
le forze, a dileguarsi
Quindi 'l
corpo astringea. Chi poi del tetro
Sangue
schifava il gran profluvio, ingombri
Tosto i
nervi e gli articoli dal grave
Malor
sentiasi e fin l'istesse parti
Genitali del
corpo. Altri, temendo
Gravemente
la morte, il viril sesso
Troncâr col
ferro; altri restaro in vita
Privi de'
piedi e delle mani, ed altri
Perdean
degli occhi i dolci amati lumi:
Tale avean
del morir tema e spavento.
E molti
ancor della trascorsa etade
La memoria
perdean, sì che sè stessi
Non potean
più conoscere. E, giacendo
Qua e
là di cadaveri insepolti
Smisurate
cataste, i corvi i cani
I nibbi i
lupi non per tanto e l'altre
Fiere belve
ed uccelli o fuggian lungi
Per
ischifarne il lezzo o, tocche a pena
Con
l'affamato rostro o col digiuno
Dente le
carni lor, tremanti al suolo
Cadeano
anch'essi e vi languian morendo.
Nè
però temerario alcun augello
Ivi il
giorno apparia, nè delle selve
Nel notturno
silenzio uscian le fere:
Languían di
lor la maggior parte oppresse
Dal morbo e
si morian. Principalmente
Steso in
mezzo alle vie de' fidi cani
L'abbattuto
vigor l'egra e dolente
Alma vi
deponea; poichè 'l veleno
Contagioso
del mal toglieali a forza
Dalle membra
la vita. Erano a gara
Rapiti i
vasti funerali e senza
L'usate
pompe. Alcun rimedio certo
Più
comun non v'avea. Quel ch'ad alcuno
Diede il
volgersi in petto il vital spirto
Dell'aria e
'l vagheggiar del cielo i templi,
Ruina ad
altri apparecchiava e morte.
Fra tanti e sì gran mali era il peggiore
D'ogni altro
e 'l più crudele e miserando,
Ch'a pena il
morbo gli assalía che tutti,
Quasi a
morte dannati e privi affatto
D'ogni
speranza, sbigottiti e mesti
Giaceansi;
e, con pietoso occhio guardando
Degli altri
i funerali, anch'essi in breve
Senz'aiuto
aspettar nel luogo stesso
Giaceansi. E
questo sol più che null'altro
Strage a
strage aggiungea; chè 'l rio veleno
Dell'ingordo
malor sempre acquistava
Nuove forze
dagli egri, e sempre quindi
Nuova gente
assalía. Poichè; chiunque;
Troppo di
viver desïoso e troppo
Timido di
morir fuggia gl'infermi,
Di visitar
negando i suoi più cari
Amici, anzi
sovente, empio, aborrendo
La madre il
padre la consorte i figli;
Con morte
infame, abbandonati e privi
D'ogni umano
argomento, il fio dovuto
Pagavan poi
di sì gran fallo, e quasi
Bestie a
torme morian per poca cura.
Ma chi
pronto accorrea per aiutarli
Periva o di
contagio o di soverchia
Fatica, a
cui di sottoporsi astretto
Era dalla
vergogna e dalle voci
Lusinghiere
degli egri e di lamenti
Queruli
miste. Di tal morte adunque
Morian tutti
i migliori. E, contrastando
Di seppellir
negli altrui luoghi i propri
Lor morti,
dalle lagrime e dal pianto
Tornavan
stanchi a' loro alberghi: in letto
Quindi giacea
la maggior parte oppressa
Da mestizia
e dolor. Nè si potea
Trovare in
tempo tale un che non fosse
Infermo o
morto o in grave angoscia e in pianto.
In oltre; ogni pastore ogni guardiano
D'armenti e
già con essi egri languieno
I nervuti
bifolchi; e, nell'anguste
Lor capanne
stivati e dall'orrenda
Mendicità
più che dal morbo oppressi,
S'arrendean
alla morte. Ivi mirarsi
Potean su i
figli estinti i genitori
Cader privi
di vita, ed all'incontro
Spesso de'
cari pegni i corpi lassi
Sovra i
padri e le madri esalar l'alma.
Nè di
sì grave mal picciola parte
Concorse
allor dalle vicine ville
Nella
città: quivi il portò la copia
De' languidi
villan, che vi convenne
D'ogni parte
appestata. Era già pieno
Ogni luogo
ogni albergo: onde, angustiati
Da sì
fatte strettezze, ognor più cruda
La morte
allor gli accumulava a monti.
Molti, da
grave insopportabil sete
Aspramente
abbattuti, il proprio corpo
Gían
voltolando per le strade; e giunti
Alle bramate
silani, ivi distesi
Giaceansi in
abbandono, e con ingorde
Brame nel
dolce umor bevean la morte.
E molte
anco, oltr'a ciò, veduto avresti
Per le
pubbliche vie miseramente
D'ogn'intorno
perir languide membra
D'uomini
semivivi, orride e sozze
Di funesto
squallore, e ricoperte
Di vilissimi
stracci, immonde e brutte
D'ogni
lordura, e con l'arsiccia pelle
Secca su le
nud'ossa e quasi affatto
Nelle
sordide piaghe omai sepolta.
Tutti al fin
degli dèi gli eccelsi templi
Eran pieni
di morti, e d'ogn'intorno
Di cadaveri
onusti: i lor custodi
Fatti in van
per pietà d'ospiti infermi
Gli avean
refugio. Degli eterni e santi
Numi la
maestà la veneranda
Religïon
quasi del tutto omai
s'era posta
in non cale: il duol presente
Superava il
timor. Più non v'avea
Luogo
l'antica usanza onde quel pio
Popolo
seppellir solennemente
Solea gli
estinti: ognun confuso e mesto
S'avacciava
all'impresa, e al suo consorte,
Come meglio
potea, dava il sepolcro,
E molti
ancor, da súbito accidente
E da
terribil povertà costretti,
Fêr
cose indegne: i consanguinei stessi
Ponean con
alte e spaventose strida
Su i roghi
altrui, vi supponean l'ardenti
Faci; e
spesso fra lor gravi contese
Facean con
molto sangue, anzi che privi
D'ufficio
estremo abbandonare i corpi.
LIBRO PRIMO.
v. 31.
. . . . . . . . . . . . . . . . non riede
v. 36.
Di natura e del ciel gli alti segreti
v. 62.
. . . . . . . . ognor si volga, e quali
Sian degli dèi l'essenze e delle cose;
v. 81.
Gli occhi mortali e le s'oppose il primo.
v. 92.
. . . . . . . . . . . . . . . . i chiusi e saldi
Chiostri e le porte di natura aprire.
v. 109.
L'ara a macchiar della gran dea triforme
v. 120.
Che prima al re titol di padre desse;
Che tolta dalla man de' suoi più cari
Fu condotta . . . . . . . . . . . . .
v. 127.
Nel tempo istesso di sposarsi offerta
A piè del genitore ostia dolente
v. 162.
Dell'immortale Omero essergli apparsa
L'immagine piangendo e di natura
A lui svelando i più riposti arcani.
v. 178.
. . . . . . . . de' Greci entro i latini
Versi l'oscure invenzioni; essendo
Massime di.mestier che di parole
Spesso nuove io mi serva, a ciò costretto.
Sì dalla lingua mia che della greca
Vie più scarsa è di voci e sì da quelle
Cose ch'io spiegar tento e che null'altro
Spiegò già mai nell'idïoma nostro.
v. 192.
Aprire innanzi . . . . . . . . . . .
v. 195.
Scuoter bisogna . . . . . . . . . . .
v. 215.
Non avrian di mestier: da tutte ognuna
Nascer potrebbe; e sorgere vedremmo
Uomini ed animai dal sen dell'acque,
Dal grembo della terra augelli e pesci
E dal vano dell'aria armenti e greggi
Con parto incerto: abiterian le belve
Tutte indistintamente e per l'amene
Campagne e per l'inculte erme foreste
v. 262.
Da certo seme e la sua specie intanto
Propugnando conserva: onde ben puossi
Chiaramente dedur che dalla propria
Materia ha cibo e divien grande il tutto.
v. 268.
Se ne' debiti tempi a fecondarla
Non cadesse la pioggia, e gli animali
Propagar non potrian privi di cibo
v. 344-45.
Che forza le percuota atta a disciorle.
v. 349.
Alla gran madre Terra in grembo versa
v. 351.
Ma sorgon quindi le lucenti biade,
Ne verdeggiano gli alberi e crescendo
Gravano i rami lor di dolci frutti.
v. 376.
Ascolta in oltre, ed a quei corpi attendi
Che tu medesmo a confessar costretto
Sei che pur son, ben che non puoi vedergli.
v. 386.
Tal or le selve annose in su gli eccelsi
Monti con soffio impetuoso svelle;
Tal con fiero e crudel mormore insorto
v. 395.
L'acqua d'alto cader . . . . . .
v. 414.
Nè i fervidi bollor nè i freddi pigri
Mirar si pòn nè le sonore voci;
E pur forz'è, che di tai cose ognuna
Corporea sia, poichè commuove il senso
v. 437.
Consumate che son, ma di potere
Scorger quai d'ora in or minime parti
Se ne vadan staccando invidïosa
La natura ne toglie. Al fin pupilla
Non v' ha che scorga, ancor che fissa, i corpi
Che il tempo e la natura a poco a poco
Danno alle cose che da lor costrette
A crescer son con certo modo e legge.
Nè quei che d'or in or perde chiunque
Langue per macie o per età vien meno,
Ne quei che rode con l'edace sale
Di giorno in giorno il mar dai duri scogli.
N'è chiaro dunque pur che la natura
Con invisibil corpo opera il tutto.
v. 450.
. . . . . . . ti fia; perchè tu meglio .intenda
Ciò ch'io ragiono, e senza dubbi, e senza
Sempre errando cercar quai le cagioni
Sian delle cose, interamente creda
Alle parole . . . . . . . . . . .
v. 454.
È dunque il vôto un intangibil spazio
In cui corpo non è; perchè, se tale
Non fosse, non potriansi in alcun modo
Mover le cose; già che a tutte in pronto
Saria sempre l'officio che de' corpi
È proprio, e questo è il contrastare al moto
De' corpi e l'impedirlo: ir dunque innanzi
Nulla al certo potria, mentre di cedere
Non darebbe il principio alcuna cosa.
v. 469
. . . . . . . . . . . . . .molte cose agli occhi
Paian solide in tutto, elle pur sono
Di porosa sostanza. Indi dell'acqua
Scorre il liquido umor per le spelonche.
v. 536 (è aggiunto).
Che sia cagion de' movimenti loro.
v. 663.
. . . . . . . . .provar che sia celato
Per entro alcuna cosa il vôto spazio,
Se per già noto io non suppongo ancora
v. 824.
Perchè, essendo di fragile natura,
Discord'egli è che sian rimasti illesi
Dopo un eterno tempo di percosse.
v. 906.
. . . . . . .che da lui . . . . . . . . . .
v. 940.
Scorrendo rapidissimo divide
v. 1164.
. . . . . . . . . . . . . . . la fiamma e '1 fumo.
v. 1184.
Le mamme fan delle lanose pecore;
v. 1418.
Ch'or son sotterra di poggiar in alto
Tentino e in ricader di nuovo in terra
Abbian posa e quiete, a punto come
v. 1423.
. . . . . . . . . . . . . . guisa anco di sotto
Si sforzan di provar che gli animali
Vaghino, e che da terra in vèr le parti
Del ciel più basse a ricader bastanti
Altrimenti non sian, che i corpi nostri.
LIBRO SECONDO.
v. 71.
Nè dell'oro il fulgor nè l'orgoglioso
Chiaro splendor delle purpuree vesti;
v. 135.
Senza fin senza modo intorno sparso
Profondissimamente in tratto immenso,
v. 619.
. . . . . . . . . . . . . . . .In somma tutte
Le cose che fuggirsi in un momento
Vedi e svanir, come le fiamme il fumo
Le nebbie e le caligini, se tutti
Non hanno i semi loro lisci e rotondi,
D'uopo è al men che ritorti e l'un con l'altro
Non gli abbiano intrigati; acciò sien atte
v. 1133.
Di vezzosa colomba orni e coroni
v. 1468.
Spazio infinito, l'animo ricerca
v. 1478.
Dunque pensar già non si dee che, essendo
Sparso a noi d'ogn'intorno un infinito
Spazio, nel quale in mille guise e mille
Numero innumerabile di semi
Profondi immensamente, irrequieti
LIBRO TERZO.
v. 34.
. . . . . . . . . . . . .ma sempre d'un sereno e puro
Etere cinte e d'un diffuso e chiaro
v. 40.
. . . e scritte di sua porta al sommo
L'acerbe note di colore oscuro:
Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.
v. 102.
Cibo e sostegno; chè la fama rea
E '1 disprezzo e lo scherno e la pungente
E sconcia povertà disgiunte affatto
Par che sian dalla dolce e stabil vita
E che sol della morte avanti all'uscio
Si vadan trattenendo: . . . . . .
v. 129.
L'origin prima, questa è che corrompe
v. 624.
Può di molli papaveri un acerbo
v. 630.
Di quegli onde si forma il chiaro e il liquido
Umor dell'acqua o pur la nebbia o il fumo;
v. 631.
O pur dal fumo: il che succede allora
Che noi sopiti in placida quiete
Veggiam per l'aere atri vapori e fumo
D'ogn'intorno esalar sublimi altari.
v. 638.
Impetuosa l'acqua e via se n' fugge,
E fumo e nebbia si dissolve in aura;
v. 916.
. . . . . . . . . . . . . .ed i poeti
Ne' secoli primieri. . . . . .
v. 1061.
E i luoghi ove abitar dènno esse stesse
Si vadan fabbricando o pur di fuori
v. 1174.
Che ancor l'alma perì distratta in esso.
v. 1269.
Spazio e contempli quanto varii e quanti
v. 1352.
Deggiamo a questi che vi sia d'amaro
Cotanto, se una cosa. . . . . .
v. 1369.
Con ciò sia che in tal guisa a noi pur lice
v. 1497.
Pascer sempre, oltre a ciò, l'animo ingrato
De' beni di natura, e mai contento
LIBRO QUARTO.
v. 347.
In oltre: se palpata una figura
Al buio si ravvisa esser la istessa
Vista nel lume e nel candor del giorno,
D' uop'è . . . . . . . . . . .
v. 371
. . . . . .e noi: sì questa allora
Trascorre pe' nostr' occhi, e quasi terge
v. 422.
Riflessa indietro a veder gli occhi torna.
v. 522.
. . . . . . impercettibili, ne sembra
Tornito l'edificio, ma non tale
Che differenza non vi sia fra quello
E gli edificii veramente tondi
E visti da vicin: per ciò non pare
Da lungi ancor ch'ei non sia tondo affatto.
v. 598.
Distese sotto vaste aeree piaggie
v. 748.
Rovini in tutto e al fin s'adegui al suolo;
v. 993.
Che fiedon gli occhi e fan vedersi intorno)
v. 1033.
Dolor gli dan, che più durargli a petto
v. 1060.
Parte che dalle cose ognor si staccano,
v. 1157.
Tanta è la loro agilitade e tanta
È la lor copia. O perchè . . . . .
v. 1358.
E un'altra vien ad esser per le membra
v. 1464.
L'occupa quasi con le fauci ingorde.
v. 1701.
Ferma, un'aura che lieve lo precorra
v. 1723.
E co' succhiati labbri umetta i baci;
LIBRO QUINTO.
v. 205.
Posciachè ragionevole per certo
Non sembra l'affermar . . . . . .
v. 253.
Il dir poi che gli dèi per util nostro
Vollero il mondo fabbricare, e ch'egli
Da noi per ciò dee commendarsi e credersi
Eterno ed immortale, e ch'empio e folle
Quinci sia chi presuma o in fatti o in detti
v. 279.
Giacque in fin che la prima delle cose
v. 312.
. . . . . . . . . . .cause e per li stessi
Movimenti del ciel. . . . . . . .
v. 315.
Per util nostro dagli dèi creato.
v. 336.
. . . . . . . . . . . .allor che tutti
Già di fronde e di fior s'ornano i campi,
v. 470.
. . . . . . . . . . . .la primiera fiamma:
v. 644.
Che un tempo anche l'umor fosse a vicenda
Dominatore, allor. . . . . . . . . . .
v. 834.
Così dunque la terra incontinente
Trasportata non fu quasi alïena
D'altronde, nè d'altronde all'aure impósta
Aliene da lei;
v. 992.
Si crei di sol; come da' monti d'Ida
v. 1019.
Scemarsi e divenir più brevi i lumi
v. 1057.
Tutto quasi nasconda a poco a poco
Quanto più presso a lui gira il suo cerchio
v. 1186.
Era la terra e ben per l'etra adulta.
v. 1240.
Molti ancor senza braccia . . . . .
v. 1250.
. . . . . . . . . al fin bramato
v. 1283.
La pacifica quiete .
v. 1304.
. . . . . . . anni, e allor bambino
v. 1320.
. . . . . . . . . . . . . . al fin bramato
v. 1344.
Volgean sotto a quei fiumi . . . . .
v. 1372.
Per lo cielo del sol . . . . . . .
v. 1429.
. . . . . . . . . . .tutti affidandosi
v. 1594.
. . . . . . . . . . . nitrir fra le cavalle
v. 1599.
. . . . . .ei della greggia . . . . . .
v. 1648.
Di beltà di vigor . . . . . . . .
v. 1798.
. . . . . . . . . . .i dolci eremi infetta.
v. 1729.
. . . . . . . . . . . .venerande e tale
Danno agli egri mortali alto spavento
v. 1733.
. . . . . .e a celebrarne i dì solenni;
v. 1796.
. . . . . .occulto a noi . . . . . . . .
v. 1805.
. . . . . .scorrendo con perpetuo tratto
v. 1807.
D'immensa età le smisurate forze.
v. 1821.
. . . . . . . . . .un sommo duce
In armata navale, ed allor quando
v. 1825.
non fa preghiere a' venti irati
Pauroso e non chiede aure seconde?
v. 1842.
Trovossi e . . . . . . . . . . .
v. 1843.
Allorchè sopra i monti . . . .
v. 1862.
. . . . . . . .rame che rappreso
Poscia al suolo splendea . . . . . .
LIBRO SESTO.
v. 52.,
Scuoter bisogna . . . . . . . .
v. 115.
Son nunzie all'uom . . . . . . . .
v. 252.
Vedi con la bipenne un tronco busto
v. 285.
Qual or che po' gran monti accumulate
Si stanno altre sopr'altre e le superne
v. 338.
. . . . . .altrui fe manifesto,
E come d'ogn'intorno egli si spanda
E voli in varie guise, e ciò sia caso
O di natura impulso, e per quai porte
v. 382.
Gole d'atro terrore . . . . . .
v. 400.
Oscurasser del sol . . . . . . . . . .
v. 479.
. . . . . .colpi. In simil guisa
Dunque accendersi . . . . . . . . .
v. 684.
Questi primieramente alcune picciole
v. 721.
L'aer sotto, di nembi orridi il copre.
v. 896.
Quindi, ancor che.l'uom creda esser eterno
v. 1105.
. . . . . . . . in terra, s'è pur tale
La natura del luogo, ovvero in acqua,
Se un lago ivi si estende. Un . . . .
v. 1276.
Spremer può tanto foto entro a quel fonte,
v. 1314.
Tal dunque uscir di quella fonte fuori
Denno, u' poichè s'uniscono e nel legno
Penetrano delle faci anco, e la stoppa
Molti semi di fuoco in sè nasconde.
v. 1430.
Fugge gli unguenti il setoloso porco,
v. 1431.
. . . . . . . . . . per lui aspro veleno
v. 1445.
Il suo proprio sensibile; chè altrove
Le qualità tangibili, i sapori
Altrove, il lume, i simolacri altrove
(Il suo proprio sensibile, chè altrove
De' succhi penetrar vedi il sapore,
Altrove il suono e ancor l'odore altrove).
v. 1506.
Com'il vento nel mar naviglio e vela.
v. 1563.
. . . . . . . . . . ma quella al fondo
Piomba delle chiar'acque, e vi . . . .
v. 1586.
E curvi . . . . . . . . . . . . . . .
Curvati . . . . . . . . . . . . . . .
v. 1697.
. . . . . . Ardea nel petto intanto
Divorante le viscere una fiamma:
Nello stomaco ardea quasi un'accesa
Fornace . . . . . . .
v. 1707.
. . . . . . . . . .gli aridi corpi
Nel Poema della Natura[10] la Fisica vale di fondamento alla religione ed alla Morale. È forza giudicarla.
Ad esser giusti con Lucrezio, bisogna riflettere che il suo poema è il più antico monumento della scienza a Roma. Prima dl lui si possono citare appena due o tre autori che abbiano scritto di Fisica; i più hanno tradotto aridamente alcuni libri di Epicuro. Del resto i Romani non coltivarono mai le scienze per sè stesse, e se talora le riguardarono come una materia d'erudizione, non pensarono mai a fare indagini e scoperte. Se ne levi le Questioni naturali di Seneca, ove t'abbatti in idee che sembrano originali e che forse son prese dalla Grecia, tutti gli autori latini, i quali hanno scritto di scienza non sono che compilatori o semplici traduttori. Alcuni toccarono dell'inettitudine letteraria dei Romani, i quali, senza lo studio e l'imitazione degli esemplari greci, non avrebbero avuto letteratura; ma ancor più manifesta è la loro inettitudine scientifica. Questo popolo di agricoltori e soldati, stimava poco, come è noto, le pure speculazioni dello spirito, ed in matematiche, per esempio, studiava soltanto quello ch'era necessario per l'agrimensura, la castrametazione, l'architettura, oppure per l'astrologia giudiziaria. Un fatto riferito da Plinio mostra qual fosse l'ignoranza dei Romani nelle scienze esatte in un tempo non lontano da quello in cui visse Lucrezio. Sebbene i greci avessero dei quadranti solari da quasi tre secoli, i Romani n'ebbero conoscenza solo al tempo della prima guerra punica. Fino allora avevano senza più tre divisioni del giorno; il levar del sole, il suo tramonto e il suo passaggio al meridiano, passaggio che si determinava alla grossa così. Avevan notato che quando il sole era al suo più alto punto, appariva tra due edifici vicini alla Curia. Tutti i giorni un ufficiale dei Consoli aveva il carico di osservare e proclamare ad alta voce questa comparsa. Si aveva così l'ora del mezzogiorno. Più innanzi, l'anno 262 avanti l'era nostra, si trasportò a Roma un quadrante trovato a Catania. Sebbene non fosse esatto a gran pezza, non essendo regolato sopra il meridiano di Roma, se ne servirono per un secolo poco comodamente. In molte case v'era uno schiavo chiamato horarius, il cui unico impiego era di correre di tempo in tempo al Foro, ov'era posto il quadrante, e di tornare a dar l'ora a' suoi padroni. Si andava a prender l'ora come si va a prender l'acqua alla fonte. E se il cielo era annuvolato non si poteva averla. Solo l'anno in cu morì Terenzio, quasi un mezzo secolo avanti alla nascita di Lucrezio, s'introdusse a Roma la prima clepsidra.
Nè meglio si coltivavano le scienze fisiche e naturali. E pure i Romani, più di qualunque altro popolo, avrebbero potuto fare molte e svariate osservazioni sulla natura L'estensione delle conquiste, le spedizioni lontane davano loro il modo di comparare i fenomeni dei più diversi climi, e se l'amore della scienza non fosse stato soffocato in loro dallo spirito militare, avrebbero, a lungo andare, potuto comporre il più ampio repertorio di cognizioni utili e preziose. Ma i pretori e i proconsoli letterati che governavano le provincie lontane, si contentavano di mandare a Roma migliaia d'animali rari per i bisogni e i piaceri del circo, senza darsi pensiero di fare indagini o collezioni, e i Romani assistevano a queste immense ecatombe senza che si sia trovato mai fra loro un naturalista, che abbia avuto l'idea di descrivere questi animali, di osservare le loro abitudini, e di valersi d'un'occasione tanto straordinaria e sì propizia ai progressi del sapere.
Un greco, Alessandro Magno, avea inteso meglio quai doveri avesse un conquistatore. Non bastò alla sua ambizione, non meno generosa che insaziabile, di sottoporre il mondo alle sue armi; volle sottoporre anche la natura alla scienza. Quando gli fu aperto l'impero dei Persiani, fece padrone il suo maestro Aristotile di valersi di somme immense, e di comandare a migliaja d'uomini in Grecia ed in Asia, cacciatori, uccellatori, pescatori, i quali dovevano inviare al filosofo le specie dei più rari animali e le più curiose osservazioni «perchè nulla di quanto ha vita gli restasse ignoto.» Per una combinazione felicissima, combinazione unica nella storia, avvenne che un'anima regia, tanto valorosa da conquistare il mondo, fosse al medesimo tratto tanto sublime da volere che fosse esplorato, e che inoltre egli avesse per raccogliere tanti tesori il genio più vasto, più universale, il più capace di abbracciare tutta la natura. Dei cinquanta volumi composti da Aristotile sopra gli animali, uno solo è in piè, e di tal precisione, che gli scienziati moderni ne hanno stupore.
Noto l'inettitudine scientifica dei Romani, di tanto inferiori ai Greci, per far meglio spiccare il merito di Lucrezio, il quale, dei primi a Roma, s'è occupato intorno a queste materie difficili, e sebbene, a dir vero, non mostrasse maggiore originalità che i suoi concittadini, seppe almeno esporre nella sua lingua, con precisione pari allo splendore, la fisica di una grande scuola. Anche s'intende meglio come il poeta fosse entusiasta del suo maestro, ed ammirasse senza riserva e senza critica dei paradossi che, nella sua semplicità romana, ei doveva credere il sommo della scienza.
Fino al cominciare di questo secolo non si conosceva come Lucrezio avesse tradotto Epicuro, o almeno mancava il modo di comparare la traduzione con l'originale. Le notizie del filosofo greco non si potevan trarre che da Lucrezio, da Diogene Laerzio, il quale riferì soprattutto compiacentemente la vita e le massime morali di quel saggio, e da Cicerone, al quale non si può credere a chius'occhi, perchè si reca a debito di screditare e punzecchiar d'epigrammi la dottrina della voluttà. Ma tutte queste notizie sparse non mostravano come Lucrezio avesse reso il pensiero del maestro, in che avesse rimutato la dottrina di lui, nè per quali studj l'avesse adattata al genio della lingua latina e alle richieste della poesia. Questo giudizio potè meglio farsi quando nel 1809, si scoperse, negli scavi d'Ercolano, un libro d'Epicuro sulla Fisica, del quale si lessero e decifrarono parecchi frammenti. Pertanto noi possiamo studiare da noi stessi e vedere coi nostri occhi la fedeltà dell'interprete. Le idee contenute in quasi tutti questi frammenti si ritrovano qua e là nel Poema della Natura e talvolta nello stesso ordine. È il vero che i versi del poeta non sono sempre una semplice traduzione. Epicuro, come ognun sa, è arido e breve, abborre da tutti i lenocinj del dire e così per lo stile come per la regola della vita, estimava che la perfezione consistesse nell'astinenza. Di chè Lucrezio è costretto a non dare tale e quale la parola del maestro; egli s'attiene scrupolosamente al suo pensiero, ma lo allunga, lo parafrasa per renderlo intelligibile. Nella maggior parte de' passi che dan luogo a riscontri, si vede ch'egli è esattamente letterale, che mostra temere di valersi di tutti i suoi diritti, che la sola libertà ch'ei prenda è quella di fondere un commentario nella traduzione, studiandosi di spiegare, ma astenendosi dall'abbellir e soverchiamente la concisa aridità del maestro. Se Lucrezio è talora arido, lo fu in prova. Adesso, quando leggiamo quei versi vigorosi e ricchi, ma spenti e privi di-grazia nelle parti più dogmatiche del poema, noi non ci figuriamo la fatica ch'egli dee avervi spesa. Avvezzi alla facile testura, alla bella scelta delle parole, all'arte delicata di Virgilio, la ruvida inesperienza del vecchio poeta ci offende. Noi vorremmo che questi versi didattici fossero più armoniosi e più forbiti, e non pensiamo che era già molto averli fatti chiari e precisi. Bisognava creare la lingua della scienza. Questo fu il compito del poeta, tanto più difficile in quanto egli aveva a-combattere contro gli ostacoli della versificazione. Se il massimo oratore romano potè vantarsi a buona equità di aver trovato vocaboli latini e nuove espressioni per le idee della filosofia greca, ed arricchito la lingua nazionale, Lucrezio dee partecipare con lui a questo onore.
Si potrebbe far il quesito come a Lucrezio, settatore sì fedele di Epicuro, sia venuto in animo di comporre un poema, quando il suo maestro faceva professione di spregiare la poesia e trascorreva a dire «che era mestieri costringere i giovani a passar oltre, a fuggirla, turando loro le orecchie con cera, come fece Ulisse a' suoi compagni[11].» Epicuro scacciava i poeti perchè eran gli autori della Favola, gli araldi incantatori della superstizione. Ma Lucrezio stimava di certo che la poesia è legittima, quando si fa servire all'epicureismo, e ch'è lecito secondo egli dice, di aspergere di miele l'orlo del vaso che contiene il vero:
Musæo
contingens cuncta lepore.
Così tra noi certe sette religiose, dannano la forma del romanzo, ma la giudicano ottima, quando un autore se ne serve per ornare e propagare le loro proprie dottrine.
La fisica epicurea, nel complesso, non è migliore ne peggiore della fisica delle altre scuole dell'antichità. Gli antichi, come è noto, non osservavano gran fatto la natura, ed ancor meno facevano esperienze, e soprattutto seguivano un metodo che quasi sempre li dilungava necessariamente dal vero. In cambio di studiare gli effetti per rintracciarne di poi le cause, cominciavano con l'ammettere certi principj i quali dovevano bastare alla spiegazione di tutta la natura. Innanzi tratto imaginavano le cause, e quando credevano averle scoperte, se ne servivano per ispiegare i fenomeni. Similmente nel sistema di Epicuro tutto dipende dallo scontro fortuito degli atomi, le cui diverse combinazioni producono il cielo, la terra, gli uomini, il corpo e l'anima. Tutta la natura è una serie di conseguenze che il filosofo trae da un primo principio adottato da lui. Pertanto nel Poema della natura v'ha una quantità d'ipotesi ardite più o meno felici, delle quali alcune sono profonde verità, altri errori fanciulleschi, che è bene indicare con esempj.
Questo miscuglio di errori grossolani e d'ipotesi plausibili ha dato motivo a giudizi o troppo severi o troppo indulgenti intorno alla scienza del poema. Il Gassendi, mentre rifiuta le conclusioni metafisiche di Epicuro rimette in onore il suo sistema nella piena luce del secolo XVII, se ne vale a combattere la filosofia di Cartesio, spende il più della sua vita a dilucidare con dotti commenti la fisica celebrata da Lucrezio, ne accetta i principj. E tuttavia egli non era un semplice erudito; era veramente filosofo e assai versato nelle scienze. Altri per contro hanno spregiato al tutto quella Fisica, non tenendo conto che delle conclusioni irreligiose e negative degli Epicurei. In un secolo di fede, il Gassendi rifiutava tutte le conseguenze che portavan pericolo alla morale e ritenea solo l'innocente Fisica; in un secolo d'incredulità e di ribellione, Voltaire si facea beffe di quella fisica, esaltando il pregio delle conseguenze morali, che ne derivano.
Egli diceva con gran disinvoltura: «Lucrezio era un fisico da far pietà; e in questo si aggiustava a tutti gli altri antichi. Non basta l'ingegno ad imparare la fisica; è un'arte a cui esercitare si richiedon strumenti... Tutta la fisica antica è come parto di uno scolaro assurdo. Ben diversa è la filosofia dell'anima e ben diverso quel buon senso, che assistito dal coraggio dello spirito fa pesare con giustezza i dubbj e i verisimili. Questo è il gran merito di Lucrezio.» È chiaro che Voltaire, mentre spregia il fisico, applaude a' suoi ardimenti di moralista, e lo loda come un utile ausiliario della sua propria impresa filosofica. Di che la scienza di Lucrezio fu vantata o spregiata secondo i tempi, perchè ogni secolo celebra nei libri dell'antichità quello che può servire alle sue proprie passioni.
Io non mi diffonderò sopra certi errori che son grandi teoriche assai dubbie, sempre confutate, ma pur sempre sostenute in alcune scuole da grandi intelletti. Quando, per atto d'esempio, Lucrezio nega le cause finali, egli, al mio parere, s'inganna, ma tocca un problema difficile, che può ricevere soluzioni diverse, senza che il diffinitore pro o contro ne venga in deriso. L'opinione del poeta, rigettata dal senso comune, torna di tratto in tratto, sotto nuovi aspetti, nella scienza più seria. È rabbracciata nel secolo XVIII, e trova tanto favore, che chi non l'accetta passa per un dappoco. Voltaire, il cui buon senso sapeva resistere anche a' suoi amici, far fronte ai loro motteggi e rifiutare la loro parola d'ordine, diceva ironicamente «Io rimango cause-finalier, vale a dire un imbecille... Affermare che l'occhio non è fatto per vedere, nè l'orecchio per udire, nè lo stomaco per digerire non è ella la più enorme assurdità, la più intollerabil follia che sia mai caduta in mente umana? Per quanto io sia disposto al dubbio, questa demenza mi pare evidente, e lo dico[12].» Il Voltaire allude. qui direttamente a Lucrezio, il cui sistema è questo: «Noi non abbiamo avuto le gambe per camminare, ma camminiamo perchè abbiamo le gambe; i filosofi hanno capovolto l'ordine rispettivo degli effetti e delle cause.» La teorica di Epicuro celebrata dal d'Holbach, abbandonata al principio del nostro secolo, confutata da Bernardino di Saint-Pierre, con un sapere più minuto che potente, è novellamente rimessa oggi in campo in libri di cui gli scienziati fan caso. Un'idea filosofica sì importuna e che riprovata di continuo, torna in luce, non può riporsi tra gli errori puerili. D'altra parte è sì formidabile che bisogna tenerne conto.
Tuttavia a torto si crederebbe che le spiegazioni antiche, contrarie alle cause finali, fossero in origine argomenti ispirati dall'empietà. S'incontrano spesso nelle dottrine più religiose. Il pio Empedocle pretendeva «che l'acqua scorrendo nel corpo, s'è scavato un serbatojo, che è diventato lo stomaco; che l'aria, tendendo ad uscire, s'è aperto un passo, e che di là son nate le narici; se la spina dorsale è divisa in vertebre, questo avviene, perchè nel torcersi s'è rotta[13].» Anassagora, il quale comunemente viene reputato il padre della filosofia spiritualista, e fu il primo a proclamare che lo spirito presiede all'ordine universale della natura, dice «che l'uomo è il più intelligente degli animali perchè ha le mani.» Di qui appare che Lamettrie, l'autore dell'Uomo macchina, era un plagiario. Tutte le dottrine, anteriori a Platone spiegavano per tal guisa l'origine degli esseri. Aristotile è il primo che abbia stabilito le cause finali con una precisione scientifica[14]. Epicuro e Lucrezio s'erano attenuti alle più vecchie teoriche, che più conferivano al loro disegno. Dunque la negazione delle cause finali non è, come altri si figura spesso, una ardita novità; fu il primo balbettio della filosofia fanciulla.
Io non toccherò neppure altre teoriche visibilmente erronee ed anzi puerili che no sull'origine dell'uomo e degli animali. Come l'uomo è apparso in questo inondo; di dove è uscito? dalla terra, dall'acqua, dal fuoco, dal loto fazionato da Prometeo, o dalle mani di Deucalione? Qui la scienza non è più sapiente che la favola, e le spiegazioni fisiche date dalle diverse scuole antiche sono quasi tutte così ingenue che non occorre discuterle. In simili problemi è lecito alla filosofia di errare[15].
Io trapasso pure con molte altre ipotesi quella dei Simulacri, con la quale Lucrezio spiega l'origine delle nostre idee, la percezione esterna e la visione. Dai corpi, egli dice, escono lievi membrane che entrano ne' nostri occhi e rappresentano l'oggetto. Questa teorica, che al dì d'oggi ci pare assai bizzarra, regnò nelle scuole. Gassendi non fa difficoltà di ammetterla. D'altra parte codeste son questioni di pura fisica[16].
Senza insistere in questi difficili problemi, da cui la scienza non seppe mai bene estricarsi, stiamo contenti a più modesti riflessi e citiamo alcuni esempi di Lucrezio in cui spicca il cattivo metodo della fisica antica. Il poeta suol dare di alcuni fenomeni naturali una spiegazione arbitraria; senza alcun fondamento, con una serenità ed una sicurtà che fanno sorridere. Volendo, per atto d'esempio, indicare le cause del sonno, comincia dal pregare il lettore di star bene attento, e in versi sonori annunzia questo vero: «Il sonno nasce in noi, quando l'anima si decompone nella macchina, ed una delle sue parti è cacciata fuori, mentre l'altra si raccoglie, più strettamente nell'interno del corpo[17].» Molti ragionamenti della fisica antica richiamano alla mente la scienza medica di certi personaggi di Molière.
Talora Lucrezio si affanna a spiegare fatti che non esistono. La fisica antica non badava molto ad avverare i fatti prima di ricercarne le cause, e sovente esponeva dottamente le cagioni d'un fenomeno prima d'essersi accertata che realmente fosse. È l'eterna storia del dente d'oro sì argutamente narrataci dal Fontenelle[18]. Lucrezio c'insegua perchè il leone trema e fugge alla vista del gallo. La causa, egli dice, è che dal corpo dell'uccello escono atomi che pungono e feriscono la pupilla del leone e che abbattono il suo coraggio[19]. Le ragioni date dal poeta son facetamente precise. Non manca niente alla spiegazione se non che il fatto sussista. Per altro era creduto da tutta l'antichità. Plinio il vecchio, il naturalista; lo credeva con gli altri tutti, e a nessun fisico venne mai in mente di provar se era vero. Avrebbero risparmiato molte false ragioni se avessero fatto come Cuvier, il quale, se ben ricordo, per curiosità mise un gallo nella gabbia d'un leone. Il re degli animali, non che ne tremasse, corse assai lietamente addosso al suo preteso spauracchio e se lo mangiò.
È inutile moltiplicar questi esempj, perchè le ipotesi fantastiche, il non osservare, son difetti della fisica di tutte le scuole antiche. V'ha un'altra specie d'errori meno perdonabili, più propri della scuola d'Epicuro, pe' quali gli si nega con ragione lo spirito scientifico. Intendo degli errori astronomici. E pure l'astronomia. era già molto innanzi. Del cielo e del moto degli astri si avevano cognizioni precise o almeno opinioni assai plausibili. Pitagora ed altri filosofi avevano già applicato all'astronomia il calcolo matematico e la geometria. Il grande astronomo Eudosso aveva fatto di belle scoperte e rispetto all'andamento del cielo dato spiegazioni ragionevoli un mezzo secolo prima di Epicuro. Ma questo negligente filosofo non ne tiene alcun conto, non si cura di conoscerle e se ne sta contento alla vecchia astronomia popolare, a quella che s'incontra nei primi sistemi, nei poeti antichi e nei pregiudizj del popolo. Strana ignoranza di cui bisogna dire due parole.
Sebbene talora si celebrino i servizi resi da Epicuro alla scienza fisica, egli non fu fisico e non fu vago delle ricerche scientifiche. Egli non ha altra passione che la morale e non intende che a condurre l'uomo alla felicità, a liberarlo dai timori superstiziosi. Prende da Democrito il sistema degli atomi, non già perchè sia curioso dei segreti della natura, ma perchè il sistema che dice esser l'universo un prodotto del caso gli pare il più atto di tutti ad escludere l'idea d'una importuna Provvidenza. Dichè la scienza per lui non è un fine, ma un mezzo, non è l'oggetto delle sue meditazioni, ed egli medesimo dichiara, nella sua lettera a Pitocle, che spregiava le speculazioni scientifiche. «Tieni per fermo che altri dee mettersi allo studio dei fenomeni celesti, sia in generale, sia in particolare, per l'unico fine della pace dell'anima. Questo è l'unico oggetto di tutte le parti della filosofia[20].» Se l'epicureismo, che a primo tratto mostra essere una scuola di fisica, non ha mai prodotto nulla in fisica, è da accagionarne Epicuro, il quale appropriandosi la scienza de' suoi predecessori, la congelò ne' suoi Manuali, Formulari e Compendj; e inceppò per sempre gli studj dei suoi discepoli. Onde Lucrezio è il solo che si sia sforzato di arricchire la dottrina del maestro, e, tenendole fede, la propagò almeno con l'originalità del genio.
Per Epicuro la scienza è sì indifferente e i metodi scientifici gli sono sì estranei, che dei più importanti problemi egli ammette al medesimo tempo le più contrarie soluzioni, sì veramente che le une e le altre possano accordarsi con la sua etica, di cui solo gli cale. Per lui l'importante è che la spiegazione d'un fenomeno non supponga l'intervento degli Dei nel mondo. Non si dà pensiero se questa spiegazione sia vera o falsa, se contraddica ad un'altra già ammessa, e per noncuranza, a tener salda la sua morale, non fa caso di quella regola elementare della logica, la quale insegna che due proposizioni contraddittorie non possono essere egualmente vere. Nell'astronomia campeggia specialmente questa noncuranza di Epicuro. Egli medesimo ci svela ingenuamente lo stato della sua mente e il suo metodo, che si può riepilogare nei termini seguenti: «essendochè lo spettacolo dei gran movimenti celesti può turbarci, è forza occuparsi intorno all'astronomia, ma solo a fine di persuadersi che l'ordine regolare del cielo non richiede la mano d'un ordinatore sovrano, e che è senza più l'effetto di cause naturali. Fra le spiegazioni che si danno dei fenomeni, eleggete quella che vi piace. Non può esser cattiva quando vi libera dal timore[21].» L'astronomia di Lucrezio è bizzarra perchè, sulla fede del suo maestro, egli propone a un tratto le ipotesi più serie e le più puerili, senza distinzione e alla mescolata.
Se ne volete esempj, eccone alcuni riepilogati in brevi proposizioni. Il sole non è più grande nè più piccolo di quel che pare. Il sorgere e il tramontare del sole, della luna e degli astri, voi potete spiegarli, secondo la recente astronomia, col loro moto intorno alla terra, o credere, secondo l'antica fisica che gli astri s'accendono o si spengono ogni giorno.[22] — Crediate che la- luna ha una luce sua propria, se già non amaste meglio ammettere che la accatta dal sole. — Per spiegare gli eclissi, voi potete adottare l'opinione degli astronomi, che gli attribuiscono all'interposizione d'un corpo, o seguire la credenza popolare, la qual vuole che gli astri si spengano. La miglior prova dell'indifferenza di Epicuro si è che, conoscendo le spiegazioni date dai veri astronomi, non crede che porti il pregio eleggere le une anzi che le altre.
Questa indifferenza è tanto più notevole in quanto Epicuro seguiva strettamente il sistema di Democrito, di quel gran filosofo geometra, il quale col solo intuito di una mente penetrativa e senza l'aiuto degli strumenti di cui il caso ha poi dotato la scienza moderna, aveva scoperto certi misteri del cielo. Egli, per atto d'esempio, insegnava che il sole non è tale quale noi lo veggiamo; che è immensamente grande; che la via lattea, è un aggregato di stelle, le quali, per la loro lontananza, sfuggono alla nostra vista e che «le une vicine all'altre s'illuminano vicendevolmente per cagione della loro densità[23], e che le macchie le quali si vedono nella luna debbono attribuirsi all'altezza delle sue montagne, ed alla profondità delle sue valli.
Gli epicurei, come il loro maestro, facevano professione di spregiare le matematiche. Secondo loro, v'ha una. sola scienza, quella della felicità. E che! dicevano. Perderemo noi il tempo, come Platone, nella geometria, nei numeri e nello studio degli astri, quando sappiamo che queste scienze sono fondate sopra falsi principj: falsis initiis profecta vera esse non possunt. E seppure ci conducessero al vero non ci condurrebbero al sommo bene. Ridevano dei matematici, i quali forse non sanno «quanti stadj v'ha da Atene a Megara, ma che sanno puntualmente a quanti cubiti ascende lo spazio che separa la luna dal sole, che delineano triangoli sopra dei quadrati con non so quante sfere e misurano lo stesso cielo.» Di che non ci fa meraviglia che Balbo abbia detto che Epicuro non sapeva «quanto fa due e due» che i suoi discepoli non avevano mai delineato una figura sulla dotta polvere dei geometri.» Gli epicurei parlavano delle scienze esatte con aperto disprezzo, tanto più inconcepibile, in quanto essi medesimi fondavano tutto il loro sistema sulla scienza fisica. Non dimentichiamo un fatto curioso: un giorno, un gran matematico, Polieno, essendosi convertito alla dottrina di Epicuro, dichiarò subito che tutta la geometria è falsa: magnus rnathematicus, Epicureo assentiens, totam geometriam falsam essa credidit[24]. Non è giusto pertanto, come noi abbiamo fatto altrove, di paragonare la scuola Epicurea ad un convento?
Traviato da questa noncuranza di Epicuro, sì poco tenero delle scoperte della scienza, Lucrezio rasenta talora le più belle verità senza fermarvisi, o vi si ferma solo per combatterle. Egli ribatte come una sciocchezza, vanus stolidis error, l'opinione dei filosofi, che ammettono gli antipodi. Ed egli poi espone con precisione ammirabile questa opinione che egli rifiuta; tantochè meglio non direbbe un fisico moderno. «Ci può capir nell' animo, egli dice, che, dei corpi gravi, sotto i nostri piedi, esercitino la loro gravitazione all'insù, affissi alla terra in una positura inversa alla nostra, appunto come le nostre immagini riflesse nell'acqua? Giusta questi principj si afferma che sulla superficie opposta della terra vanno e vengono degli esseri animati che non risicano di cadere nelle regioni inferiori del loro cielo, appunto come noi non risichiamo di essere trasportati verso la nostra volta celeste. Ci dicono altresì che questi popoli vedono il cielo quando noi vediamo le fiaccole notturne che, alternano con noi le stagioni, i giorni, le notti, che durano quanto a noi[25]. È strano che Lucrezio dopo aver sì bene compreso l'opinione sugli antipodi, la rifiuti. La docilità con cui segue Epicuro non gli lascia ammettere quello che con la sua penetrazione aveva sì bene inteso.
Quello che Lucrezio rigettava con tanto disprezzo in nome di una scienza incredula, sarà per innanzi rigettato dai Padri della Chiesa, con disprezzo anche maggiore in nome della religione. Mi sia concesso far qui una riflessione venutami spesso all'animo nel leggere questo poema.
Le opinioni sulla fisica non sono di lor natura religiose od empie. Esse non sono proprietà di questa o quella setta, e spesso mutan parte col tempo. Tuttavia, per valerci del linguaggio corrente, noi dichiariamo talora che una certa opinione sulla fisica è spiritualista, cert'altra materialista e la accettiamo o rigettiamo anticipatamente secondo la dottrina che seguiamo, non riflettendo che cotali teoriche non hanno bandiera, o almeno non le sono in tutto e per tutto fedeli. Abbiamo qui avuto un esempio che quello che fu epicureo è divenuto cristiano. Parecchie volte le opinioni di liberi pensatori si sono mutate in opinioni religiose e viceversa. Ne potremmo trovare molti esempj nello stesso Lucrezio. Egli, filosofo materialista com'è, afferma il libero arbitrio (la libertà nell'epicureismo è un'opinione sulla fisica) e per contro le dottrine religiose dell'antichità lo negano. Rispetto alla generazione spontanea, il pio Empedocle ammette che gli esseri senza germe possono nascere dalla fermentazione degli elementi, ed all'incontro l'incredulo Lucrezio riconosce a modo suo i germi preesistenti[26]. Lucrezio altresì sostiene contro alla religione la permanenza delle specie, e al presente i materialisti la negano e gli spiritualisti la affermano[27]. Tra gli antichi le anime pie credono che il mondo sia eterno, e l'empio Lucrezio pensa che il mondo debba di corto esser distrutto. Pertanto non si deve, come sì spesso si suole, abbracciane con amore o rigettare con odio una nuova opinione sulla fisica, sotto pretesto ch'è amica o nemica. Il punto sta a vedere se è vera o falsa. È empia oggi; sarà forse religiosa domani. Senza essere indifferenti, amiamola come se dovessimo per innanzi odiarla o disamarla; odiamola come se un giorno potessimo recarci ad amarla. E veramente le idee sulla fisica sono pericolose solo perchè furono dichiarate tali. Quando la loro fortuna è sicura tutti vi si acconciano. Di pericolose diventano innocenti. I sistemi primamente condannati di Copernico e di Galileo hanno poi somministrato armi nuove alla religione, e per tornare in sull'esempio di Lucrezio, la teoria degli antipodi, che in passato aveva agitato sì gagliardamente gli animi, fu accettata dalle dottrine più contrarie, senza che alcuna ne sentisse detrimento.
Tuttavia questa scienza inetta, vieta, in cui s'adagiava la infingardia d'Epicuro e che egli aveva elevata ad articoli di fede, è vestita da Lucrezio della più splendida e spesso della più amabile poesia. Questa vile materia lavorata dall'immaginazione del poeta, assume talvolta forme squisite.
Per citare un esempio a proposito delle fasi della luna. Lucrezio, seguendo Epicuro, ci dice da prima: «La natura non potrebbe ella produrre una luna per giorno... distruggere la luna della notte passata, e metterne in suo luogo una nuova?» La spiegazione del fenomeno è ridicola e moverebbe a chiedere ad Epicuro dove vanno a finire le lune vecchie. Ebbene, Lucrezio anche in questa miserabile dimostrazione, resta gran poeta; si studia di appagarsi con raffronti, crede vedere nella natura un gran numero di produzioni periodiche e viene per cotal via a fare un quadro delle alternative delle stagioni che, egli dice, possono assimigliarsi alle fasi della luna, quadro pieno di forza e di grazia, nel quale appare come l'immaginazione d'un poeta può nascondere sconcissimi errori non già con artificj, ma con splendide verità accessorie[28].
Adunque Epicuro non è un filosofo fisico, sebbene la sua dottrina si fondi sulla fisica. Egli ha adottato il sistema di Democrito come quello che gli pareva il più atto a mettere in quiete l'animo; ma egli disprezza i progressi della scienza, soprattutto quelli dell'astronomia. Non solo egli la sprezza apertamente, ma ne ammette volontieri le spiegazioni più puerili perchè diminuiscono l'importanza dei fenomeni, li rimpiccioliscono e pertanto impediscono che lo spettacolo del cielo diventi un oggetto di spavento o di stupore. Essendo che egli non pregi che la morale, egli esclude dalle sue meditazioni tutto quanto non può servire alla tranquillità dell'animo, tutto quanto potrebbe turbare la sua indifferente quietudine. E anche qui saremmo mossi a compararlo a certi quietisti moderni i quali altresì dichiarano che spregian le scienze come inutili alla conoscenza dei nostri doveri morali, perchè inquietano la mente e la fede e tolgono l'anima dall'unica cura e pensiero della salute[29].
Se la scienza epicurea in certi punti è assai debole, in altri è solida. Essa contiene una teoria fisica, la quale non è punto da spregiare, e se ne argomenta ne' suoi inventori una singolare penetrativa. Questa teoria è un gran progresso nella scienza. I primi filosofi fisici, cercando di spiegare l'universo e l'origine della natura, avevan fatto venir tutto da un principio unico: Talete dall'acqua, Anassimene dall'aria, Eraclito dal fuoco. Altri, come Senofane, ammettevano due principj, la terra e l'acqua. Eraclito pone i quattro elementi. Queste spiegazioni primitive, le quali, con tutta la loro apparente ingenuità eran già grandi intuiti della natura, furono di gran lunga superate da Leucippo e da Democrito. Questi due grandi fisici, estendendo i limiti della scienza antica, per via di profondi ragionamenti, riconobbero che questi pretesi elementi semplici sono corpi composti, e che questi corpi, risalendo fino ai loro primi principj, sono formati di particole che non è più possibile dividere, che sono insecabili άτομος. Questa teorica non è abbandonata, e la scienza moderna si fonda ancora su questa ipotesi[30].
Tuttavia i nostri fisici, mentre riconoscono la perfetta chiarezza di questa teorica molecolare, chiarezza, che, a lor detto, non fu mai superata, pretendono che gli atomisti hanno veduto solo un lato delle cose, che hanno ammesso nella natura delle combinazioni meccaniche senza più, vale a dire svariati aggregati di atomi che formano gli esser diversi come gli aggregati di lettere formano le parole[31], ma che questi filosofi antichi son lontani le mille miglia dall'idea di una vera combinazione chimica. Fatte queste riserve, è forza convenire, che il sistema atomico, assai preciso sopra certi punti, meno esplicito sopra altri, somiglia molto alle nostre teoriche molecolari. Queste antiche ipotesi ritengono tutto il loro pregio. Sono incomplete, non hanno previsto nè abbracciato tutto, non danno all'atomo tutte le virtù, nè tutte le evoluzioni che per noi si attribuiscono alle molecole, ma non sono rifiutate dalla scienza con temporanea. Di che certi versi di Lucrezio che inchiudono i principj più generali del sistema, potrebbero ancora porsi per epigrafe ai nostri libri di fisica e di chimica. Quando il poeta dice «I principj che formano il cielo, il mare e la terra, i fiumi ed il sole, sono i medesimi, che misti ad altri o trasportati in altre combinazioni, hanno formato i frutti della terra, gli alberi, gli animali»
Namque eadem cœlum, mare,
terras, flumina, solem
Constituunt, eadem fruges,
arbusta, animantes,
Verum aliis, alioque modo
commixta moventur (I, 820).
questi versi si applicano precisamente ai così detti corpi semplici, ai così detti elementi indecomponibili, e un chimico dei nostri giorni potrebbe porli a capo del suo trattato[32].
Oltre queste ipotesi profonde, si posson raccogliere qua e la nell'atomismo molte verità fisiche, che noi non vogliamo annoverare, ma delle quali è uopo dare qualche esempio. Lucrezio riconosce che lo spazio è infinito. Vuolsi notare altresì che gli epicurei, i quali erano astronomi da poco e che anche si piccavano di spregiare l'astronomia, erano pure in forza del semplice raziocinio arrivati a pensare che lo spazio infinito è popolato di mondi. Metrodoro diceva: «Pretendere che non vi sia che un mondo solo, nell'infinito, sarebbe non meno assurdo che il pensare che un vasto campo è fatto per produrre una sola spiga di grano[33].» Mentre Pitagora, Platone, Aristotile credevano non vi fosse che il nostro sistema, la terra, il sole, i pianeti e le stelle, gli epicurei credevano che al di là vi fossero altri sistemi di egual natura, e secondo loro, la somma di tutti questi sistemi compone quel ch'essi chiamano il gran Tutto, omne immensum. Se uno spazio infinito, dice Lucrezio, si estende per ogni verso, se principj creatori della materia in numero infinito si muovono ab eterno in quelle pianure incommensurabili, in che maniera avrebbero prodotto solo la nostra terra, e il nostro firmamento e si può credere che al di là di questo mondo tanti elementi restino oziosi[34]?» In questi vasti concepimenti che tenevano da Democrito, gli epicurei s'incontrano pure con le congetture della scienza moderna.
Sopra altri punti di fisica gli atomisti son iti più oltre che molti altri filosofi dell'antichità. Per esempio, hanno detto che tutti i corpi tendono per natura verso il centro del mondo e che meno gravi cedono naturalmente il posto agli altri. Ammettono l'esistenza del vuoto, negata dalla maggior parte delle scuole; tra le altre da quelle di Platone e di Aristotile. Non solo gli atomisti la ammettono come concezione razionale, ma fin dal principio hanno fatto esperienze per dimostrarlo[35]. È chiaro che nell'atomismo il vuoto era necessario perchè gli atomi irreduttibili potessero muoversi e combinarsi.
A proposito del vuoto, che con gli atomi, è il fondamento di tutto il sistema, notiamo un'osservazione o almeno una idea, assai rilevante. Gli epicurei riconoscono che nel vuoto tutti i corpi, quale si sia la loro gravità cadono con pari celerità. Lucrezio ha visto chiarissimamente e spiegato bene quello che non fu poi dimostrato che col mezzo della macchina pneumatica. Quando altri è avvezzo agli incerti barlumi della fisica antica e stupisce come il poeta abbia potuto esprimere questa legge con tanta esattezza e precisione. Nell'acqua o nell'aria i corpi accelerano la loro caduta a proporzione della loro gravità, perchè la densità dell'acqua e la lieve fluidità dell'aria non possono opporre a tutti la medesima resistenza, ma devono cedere più facilmente ai più pesanti. Per contro il vuoto non resiste mai, ai corpi; dà il varco egualmente a tutti. Onde tutti i corpi debbono cadere con pari celerità nel vuoto quale che si sia l'ineguaglianza della loro gravità[36].
Non so perchè la scienza moderna pretenda talora che gli antichi non riconoscevano che l'aria è materiale. Lucrezio, dopo aver detto che «vi son corpi dei quali bisogna ammettere l'esistenza, sebbene sfuggono alla vista,» fa una lunga e poetica descrizione delle devastazioni dell'aria, che egli paragona ad un fiume distruttore, e conclude che l'aria «sebbene invisibile è un corpo, perchè spazza il mare, la terra, le nuvole del cielo e ch'è capace di portarsene tutto seco nella violenza dei suoi turbini[37].» Questa pittura e le conclusioni formali del poeta fisico non lasciano giustamente tassare la fisica antica di non aver conosciuto la materialità dell'aria.
Si trovano in Lucrezio parecchie spiegazioni giustissime di fenomeni spaventevoli per via di comparazioni semplicissime tratte dell'osservazione cotidiana e che somigliano a quelle che si leggono nei nostri trattati di fisica. Per esempio quando egli parla del tuono e dei lampi, mostra, per liberare gli uomini dai loro timori superstiziosi, che queste pretese minaccie del cielo sono senza più fenomeni naturali facilmente spiegabili. Egli muove il quesito perchè il lampo si veda prima che si senta il tuono ed osserva assai giustamente che il suono ha minor velocità che la luce. Questa non era al suo tempo una verità comune, perchè, se crediamo a Plutarco «i fisici opinano che il lampo esca dalla nube dopo il tuono, sebbene si veda prima.[38]» Lucrezio,secondo il costume della sua setta assomiglia questo fenomeno formidabile ad un fatto noto che ciascuno ha potuto osservare. Si deve altresì notar qui la precisione di questo linguaggio poetico. Il rumore del tuono arriva al nostro orecchio dopo che il lampo ha percosso i nostri occhi, perchè gli oggetti che vanno all'udito non corrono sì velocemente come quelli che eccitano la vista. Se voi da lontano ponete mente allo spaccalegne che percuote con la scure il tronco di un albero, vedrete il colpo prima di udire il suono. Così noi vediamo il lampo prima di sentire il tuono, sebbene il suono si muova al medesimo tempo che la luce e che l'uno e l'altro sian prodotti dalla stessa causa, dal medesimo cozzo delle nuvole[39].» Lasciando stare come sia vera l'osservazione che il suono sia men veloce della luce, si ha in questi versi una prova novella di quell'animosità sì rara tra gli antichi, la quale consiste a spiegare per via di cause meramente fisiche fenomeni di cui tutti sentivan terrore.
Se passando ad un diverso ordine di considerazioni, volessimo riscontrare le opinioni di Lucrezio in fisiologia, potremmo citare versi notevoli i quali mostrano che il poeta non era nuovo di questa scienza. I nostri fisiologi approvano quello ch'egli dice della nutrizione, della facile assimilazione delle sostanze riparatrici nella giovinezza «quando il colpo acquista più che non dissipi:
Plura sibi adsumunt quam de se
corpora mittunt;
e quello ch'egli dice della vecchiaia, in cui le perdite sono maggiori che gli acquisti e in cui l'accasciamento della natura tormentata, affaticata dagli oggetti esterni, non può più resistere, ai loro urti distruttori[40]. «Parimente egli sa come nelle piante, i succhi circolano in canali invisibili.»[41]. Con rara finezza di linguaggio, egli spiega la sensazione del gusto, che in certo modo rende visibile, quando c'insegna che la triturazione esprime, come l'acqua d'una spugna il sugo degli alimenti, che s'insinua nei pori del palato e nelle vie complicate della lingua[42]. Sono da leggere questi passi ch'io tocco appena per sapere quale energia e valore venga ai versi da una rigorosa esattezza.
Nè mancano nel Poema della Natura certi presentimenti rispetto ad alcuni problemi posti dalla scienza più moderna e che per l'antichità erano fosche tradizioni o lontani intuiti del genio. Sui primi saggi della creazione, sugli animali che noi chiamiamo antidiluviani, sulle specie perdute vi sono nel poema detti notevolissimi. Le specie che non erano difese, nè dalla forza nè dall'agilità nè dall'astuzia o che non erano tanto utili perchè l'uomo ne prendesse la protezione, dovettero sparire. Troppo deboli, ridotte all'impotenza dalla infelicità del loro destino, erano preda agli animali voraci finchè la natura le avesse interamente distrutte:
Scilicet haec aliis
prædæ lucroque jacebant
Indupedita suis,fatalibus omnia
vinclis,
Donec ad interitum genus id natura redegit (V, 873).
Non abbiamo già qui in pochi versi concisi la celebre teorica di Darwin sopra la selezione naturale, e la battaglia per l'esistenza? Così sui terremoti s'incontrano qua e là molti raggi di luce che per certo non rischiarano la nostra geologia, ma che sono come il primo crepuscolo di questa scienza. Il poema non è dunque senza importanza anche come trattato di fisica. Può a buona equità chiamarsi il romanzo della natura, ma, come tutti i romanzi ben fatti e di mano maestra, è pieno di verità.
Introduzione
Lucrezio — Libro I
Libro II.
Libro III.
Libro IV.
Libro V.
Libro VI.
Varie Lezioni
La scienza di Lucrezio
[1] Le Poeme de Lucrèce par Constant Martha. Paris, 1873.
[2] Vita e Poesie di Alessandro Marchetti, per opera e cura di Francesco Marchetti suo figlio. Veuezia, 1755.
[3] Cosimo di Vincenzo figlio naturale di Galileo Galilei. Il Nelli nega questi miracoli del suo ingegno.
[4] Il Nelli non concede che il Bellini fosse scolaro del Marchetti, e sostiene che per ironia lo chiamasse vir doctissimus amicissimusque et olim praeceptor meus.
[5]
Questo
sonetto è anche più esplicito della Protesta ch' ei premise alla
versione di Lucrezio.
PROTESTA
Tito Lucrezio Caro per sua disavventura nacque gentile e fu di
setta epicureo: per la qual cosa tu non dovrai punto maravigliarti, o pio e
discreto lettore, s’egli in alcune cose fa contrario alla religione. Io
nondimeno, scorgendo in esso fra le tenebre di pochi errori vivamente
risplendere molti lumi della più salda e sensata filosofia e della
più robusta e nobile poesia, non ho stimato se non ben fatto
d'arricchire d'opra sì degna la mia volgare materna lingua. Sappi
però ch'io talmente abborrisco gli empi suoi dogmi intorno all'anima
umana ed al sommo Iddio, sì fattamente gli detesto, che per difesa de'
lor contrari sarei prontissimo, ogni qual volta il bisogno ciò
richiedesse, non solo ad impiegare tutto l'ingegno e le forze mie, ma anco a
spargere tutto il mio sangue; avvenga che io mi pregi veramente d'esser
filosofo, ma più mi glorii d'esser crstiano.
Con questi medesimi sentimenti vivo io sicuro ch'anco tu sarai per
leggere questo poema: onde non temo punto che possa nè pure in minima
parte restarne offesa la tua bontà. Se poi per quello che risguarda la
mia traduzione, tu ci trovi per entro cosa che non così pienamente ti
soddisfaccia, compatisci la difficoltà dell'impresa, maggiore al certo
che altri senza farne prova non crederebbe.
Nel resto amami, com'io cordialmente t'amo, e vivi felice.
[6] Tomo XXI.
[7]
Tra
le sue Poesie dette eroiche v'è il seguente sonetto a
Cosimo terzo credendo (dice il titolo) di dedicargli la traduzione di Lucrezio.
Itene, o versi miei; del re toscano
Inchinate il divino alto intelletto:
Ite, e spiegate a lui del gran romano
I carmi eccelsi in umil stile e schietto.
Dite quai d'eloquenza il saggio petto
Sparga torrenti oltre ogni ingegno umano.
Mentre assegna, per cause, ond'ogni effetto
Penda in quest'ampio spazio, il pieno e 'l vano;
Onde il mare e la terra e 'l ciel tonante,
L'auree stelle vaganti e gli astri immoti,
Gli augelli, i pesci, gli animai, le piante.
Ite, scevri dal volgo, a lui sol noti;
A lui pien di virtù sì varie e tante
Voi stessi offrite e i miei pensier divoti.
[8] Le Misanthrope, acte II, sc 6. Confronta il Marchetti. IV. 1653-1684.
[9] Saggio di Storia letteraria fiorentina del secolo XVII scritta in varie lettere da Giovambattista Clemente Nella. — In Lucca, 1759.
[10] Le parole Rerum natura rispondono a quel che noi diciamo la Natura. E si traduce: Natura delle cose; il che, massime sotto il rispetto della scienza, è ben diverso.
[11] Plutarco, Come si dee leggere.
[12] Diz. filosof., articolo Dieux
[13] Aristotile, Delle parti degli animali, I, 1.
[14] Fisica, II. 8.
[15] Lucrezio, V, 799 del testo latino.
[16] IV, 33.
[17] IV, 917.
[18] Histoire des Oracles.
[19] IV, 714.
[20] Diogene X, 85 e 35. — De Fin., v. 20.
[21] Cicerone, De natura Deor. 1, 25. — V. De Fato. 16. - Diogene X. 76.
[22] Lettera d'Epicuro ad Erodoto — Diogene, X, 91. 94.
[23] Plutarco. Opinioni dei Filosofi, III. 1.
[24] Cicerone, Academ., II, 33; De Finib., I. 21; De nat. Deor., II, 18. — Luciano. Icaromenippo, 6. — Cicerone dice spiritosamente che Epicuro, avrebbe fatto meglio a imparare la geometria dal suo amico Polieno che a fargliela disimparare.
[25] I, 1058.
[26] I, 160.
[27] V, 920.
[28] V, 736.
[29] Possiamo tanto più fare questo raffronto in quantochè Epicuro chiamava salute la perfezione morale. «Egregie mihi hoc dixisse videtur Epicurus initium est salutis notitia peccati.» Seneca lett., 28 «Iste homo non est unus e populo, ad salutem spectat.» 10.
[30] Hœfer, Histoire de la Chimie.
[31] Una tragedia ed una commedia si fanno con le medesime lettere; nell'una le lettere sono combinate in un modo, nell'altra diversamente. Questa comparazione fatta già da Leucippo e da Democrito fu rimessa in campo dà Lucrezio.
[32] Berthelot, Chimie organique fondée sur la synthese. Introd.
[33] Plut., Opinioni de' filosofi I, 5.
[34] Lucrezio. II, 1053. Al credere di Lucrezio, questi mondi devono essere abitati. II, 1075.
[35] Leucippo diceva: «un vaso pieno di cenere può ricevere tanta acqua quanta ne riceve quando è voto, il che presuppone inevitabilmente dei piccoli pori tra le particole della cenere; se non che la cenere e l'acqua occuperebbero simultaneamente lo stesso luogo. L'esperienza lascia molto a desiderare; ma ha il merito d'essere una esperienza.
[36] II, 230.
[37] I, 271.
[38] Un principe deve esser dotto.
[39] VI, 164.
[40] II.1122. V. Etudes medicales sur les
poetes latins par le Docteur D. Moniére.
[41] I, 347.
[42] IV, 615