HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli            

  BIBLIOTECA



 

TITO LUCREZIO CARO

 

DELLA NATURA DELLE COSE

LIBRI SEI

 

TRADOTTI DA ALESSANDRO MARCHETTI

 

AGGIUNTIVI

 

GLI ARGOMENTI DEL BLANCHET

LA SCIENZA DI LUCREZIO PER CONSTANT MARTHA

E LE NOTIZIE

INTORNO ALL'AUTORE E AL TRADUTTORE

 


INDICE

INTRODUZIONE. 5

Lucrezio e Memmio. 5

Alessandro Marchetti. 6

Sua versione di Lucrezio. 10

Critiche e raffronti. 11

Suoi lavori geometrici 14

e guerra con Vincenzo Viviani. 14

Di questa Edizione. 15

 

LIBRO PRIMO.. 16

LIBRO SECONDO.. 46

LIBRO TERZO.. 79

LIBRO QUARTO.. 112

LIBRO QUINTO.. 150

LIBRO SESTO.. 194

 

VARIE LEZIONI 232

LA SCIENZA DI LUCREZIO.. 241

INDICE. 251


 

 

 

INTRODUZIONE

 

Lucrezio e Memmio.

 

Alfredo Tennyson, lo squisito poeta, ideò e scrisse un monologo di Lucrezio innanzi al suicidio. Egli accettò la tradizione che desse in accessi di demenza per un filtro portogli da una donna che si credeva meno amata, non badando egli alle carezze di lei.

 

. . . . . For-his mind

Haif buried in some weightier argument,

Or fancy-borne perhaps upon the rise

And long roll of the Hexameter-he past

To turn and ponder those three hundred scrolls

Left by the Teacher whom he held divine.

 

Questa tradizione non si fonda che sopra l'autorità di San Gerolamo, il quale scrisse più di tre secoli dopo Lucrezio. Questi era della gran famiglia Lucrezia e cavalier romano. Nacque l'anno 95 avanti Cristo. È probabile che visitasse la Grecia e udisse Zenone, che in quel torno era capo della setta epicurea. Egli e Cesare sono i due soli grandi scrittori che Roma abbia prodotti. La sua vita corse tra i principj di Silla e la morte di Clodio. Secondo la tradizione, egli si sarebbe ucciso di 44 anni, morendo lo stesso giorno in cui Virgilio prese la toga virile.

C. Memmio Gemello, al quale è intitolato il poema, era d'illustre famiglia, figlio e nipote di chiari oratori. Ebbe presto onori ed uficj. Nominato al governo della Bitinia, condusse seco Curzio Nicia e il poeta Catullo. Tornato che fu, toccò un'accusa da Cesare, dalla quale si difese con violenza. Nel difendersi trascorse a raffacciargli i suoi diffamati costumi. Dicitore facondo; se non che, a detta di Cicerone, fuggiva la fatica non solo di parlare, ma ancora di pensare. Accusò parecchi; tra gli altri, L. Lucullo, vincitore di Mitridate, volendo impedirgli il trionfo. Di che, avendo egli tirato alle sue voglie la moglie del fratello di lui, M. Lucullo, Cicerone disse argutamente che si era levato contro Agamennone non che contro Menelao. Tentò sedurre, ma invano, anche la figlia di Cesare moglie di Pompeo. Dopo la questura e pretura aspirò al consolato, gareggiando veementemente con altri tre pretendenti. Fu insieme ad essi accusato di broglio e condannato all'esilio. Tornò in Atene, dove da giovane avea studiato, e v'ebbe lite con la setta di Epicuro per essersi fatto cedere dall'Areopago una parte dei Giardini, ove quella aveva sua stanza. La famiglia Memmia aveva un culto particolare per Venere, e il Martha crede che anche questo riflesso abbia indotto Lucrezio alla sua splendida Invocazione.

Dai trecento volumi lasciati dal maestro, ch'egli reputava divino, secondo dice il Tennyson, Lucrezio trasse la dottrina esposta nel suo poema. Il Martha la ha considerata assai bene rispetto alla religione, alla morale ed alla scienza. Egli ha dimostrato che Epicuro e il suo poeta combattevano piuttosto il paganesimo che lo spiritualismo, intendendo a liberare l'uomo dai terrori delle false religioni, e a svolgerlo dai riti feroci onde pretendevano deprecar l'ira od impetrare il favore delle loro deità. Furono in questo i precursori dei controversisti cristiani; se non che, non avendo altro lume, esautorando gli Dei, abolirono la Provvidenza. Ma per tutto il poema spira il sentimento del divino, che, nella pienezza dei tempi, dovea poi avverarsi nelle più pure credenze; restando quasi armi imbelli gli argomenti dell'ateismo, che di secolo in secolo alcune sette di filosofanti riprendono e riforbiscono, ma inutilmente, contro la coscienza del genere umano. Rispetto alla morale, il Martha fa vedere che la dottrina della voluttà si riduce ad un quietismo, favorito ai tempi di Epicuro dallo scadimento e dal servaggio indeclinabile della Grecia, e ai tempi di Lucrezio fatto desiderabile dagli orrori delle guerre civili. Della scienza parla il Martha egregiamente in un capitolo che diamo tradotto in fondo a questo volume, facendo vedere come a puerili fallacie si mescolino intuiti di veri sublimi accettati ai dì nostri[1].

Del merito poetico di Lucrezio, toccato in una frase dubbia di Cicerone, passato in silenzio da Virgilio ed Orazio, che taciti lo imitavano, celebrato altamente da Ovidio e da Stazio, parla il suo libro, e son piene le storie letterarie e i trattati di estetica. Egli ha bellezze sì sfolgoranti e sì universalmente ammirate che non occorre additarle. Il suo ateismo non faceva paura nemmeno al buon Cesari, il quale per quel suo squisito sentimento del bello e della naturale sublimità, amava i versi di lui forse non meno che quelli dell'Alighieri.

 

Alessandro Marchetti.

 

Alessandro Marchetti nacque nella sua villa di Pontormo il dì 17 marzo 1632 di Angelo e di Luisa Bonaventuri, figlia a Filippo celebre professore di ragion civile nell'Università di Pisa e assai benemerito, per le sue fatiche, della lingua toscana. Aveva appena di sette giorni oltrepassato i nove mesi di vita, che perdè il padre e rimase con quattro fratelli sotto la tutela della madre, la quale, rimpatriando, provvide in Firenze alla loro educazione.

Destinato alla mercatura, già vi si era introdotto; senonchè, un giorno di minore applicazione, cantando egli sottovoce il lamento di Armida e dicendogli rampognando il direttore del negozio: «Voglion esser calcoli, non versi,» egli rispose che nella tregua delle faccende non sapeva spender meglio il tempo che a ruminare gli aurei versi del Tasso divino e lasciando il negozio fu posto a studiare l'Instituta sotto un valente dottore. Nè della legge si appagò gran fatto, come quella che non gli dava campo di pensar a suo modo e di specolare liberamente. Ne allentò lo studio e si dette alla lettura dei poeti latini e toscani[2]. Scrisse allora alcun bel sonetto, e cominciò a tradurre l'Eneide in ottava rima — parendogli, come scrisse poi al Magliabechi; che quel sovrano poeta da niuno fosse stato tradotto nel volgar nostro con quella dignità ch'e' meritava, ma non andò più in là del quinto libro.

Ottenuto un luogo di scolaro nello studio di Pisa dal Principe Cardinal Leopoldo, udì i filosofi peripatetici che v'insegnavano; ma recatosi a noia quella servile filosofia, si sfogò contro in un capitolo bernesco. Si strinse allora d'amistà con un giovane dei Galilei[3], ch'era altresì in Sapienza e dando insieme opera allo studio dei Classici, talvolta per più ricreare lo spirito apersero al pubblico scena inaspettatamente e talvolta sulla cetra che ciascuno di loro sapeva maestrevolmente toccare, all'improvviso cantarono versi tali che ne stupirono gli ascoltanti. Ora abbattutosi a sentirli il gran matematico Gian Alfonso Borelli, ammirando l'ingegno del nostro Alessandro, s'invaghì d'introdurlo allo studio delle matematiche e della filosofia esperimentale; nelle quali discipline fece sì gran progresso, che prima anche di dottorarsi ebbe la lettura straordinaria di filosofia e nel 1659, anno del suo dottorato in filosofia e medicina, ebbe una lettura di Logica in quell'Università. Il Borelli fattoselo commensale, lo diè per ripetitore ai propri scolari, tra' quali era Lorenzo Bellini[4]. Ebbe la cattedra di filosofia straordinaria che ritenne per anni otto, ed allora nelle lezioni, nelle dispute, nei circoli, e nei colloqui promosse lo studio della filosofia sperimentale, e il Malpighi gli scriveva di Bologna il 4 gennaio 1661: «Dal signor Borelli già intesi che con suo onore e sommo applauso frammetteva cose nuove nel leggere, e spero che a poco a poco si potranno addomesticare queste bestie selvaggie.» Partito da Pisa il Borelli, fu il suo successore nella cattedra di matematiche e la ritenne a tutta sua vita.

Di 39 anni sposò Anna Lucrezia dei Cancellieri di Pistoia, bella e saggia, che visse fino a 91 anno. Di lei ebbe undici figli, sette maschi e quattro femmine. Il maggiore Angelo riuscì assai bene nelle matematiche e si fece conoscere con le Conclusioni stampate in Firenze nel 1688 in difesa del padre, bersaglio dei geometri italiani, con l'opera Della proporzione e proporzionalità, con l'Euclide riformato, con la sua Introduzione alla Cosmografia e Nautica, ecc.

Dei letterati della sua età amò assai il Magliabechi e gli fu caro, e sparsasi la voce della sua morte scrisse versi affettuosi in compianto. Pianse altresì in versi la morte del Redi e del Magalotti, due dei più grandi intelletti che la Toscana avesse prodotto nella sua vecchiaia, vecchiaia di Sara, poco feconda, ma di Patriarchi delle lettere e delle scienze. Era anch'egli, come tutti i gentili spiriti di Toscana, amico all'inviato dell'Inghilterra, Neri Newton, e dettò versi al suo partire. Notevole è come gl'Inglesi ci tramutassero il loro Hawkwood che amava troppo le nostre terre e le nostre ricchezze nel Milton, che adorò la nostra lingua e poesia, e in tanti coltissimi inviati, che favoriscono i nostri studj. La tradizione vive fino al di d'oggi; e la terra di Toscana che gl'Inglesi predilessero sopra tutte raccolse lo spirito e copre le ossa di alcuni famosi loro scrittori.

Era giunto all'anno 78 senza che pur provasse in parte gl'incomodi dell'avanzata vecchiezza, se si eccettui che poco tempo innanzi aveva cominciato a patire di stillicidio o stranguria, effetto di pietra.

«Entrato nell'anno ottantadue, cominciò a provar daddovero gl'incomodi della vecchiezza, in particolare per lo tormentoso dolore cagionatogli dalla pietra, che non lo lasciava nè dormire, nè prendere riposo se non brevissimo; dal qual dolore dopo essersi unto coi miracoloso liquore di San Nicolò di Bari, vescovo di Mira, o che il santo gli intercedesse la grazia, come a buona ragione creder si può, se specialmente si considera la devozione da esso avuta per detto santo, al vivo espressa in varie composizioni da Alessandro composte in lode del medesimo, o che la pietra prendesse positura tale da non più impedirgli il passaggio delle orine, l'effetto fu che dopo l'additata unzione, mai più nei cinque mesi che di poi visse la pietra nessun dolore gli cagionò.» Colto d'apoplessia morì con tutti i Sacramenti il 6 settembre 1714 d'anni 82, mesi cinque e giorni venti.

Fu Alessandro, continua il figlio Francesco, di giusta statura, bianco e rosso di carnagione, di capel biondo, d'occhi assai cilestri, ma vivaci e sì perfetti che mai non ricorse agli occhiali. Ebbe proporzionatissime tutte le parti del corpo, di volto allegro e gioviale, dolce e chiara la voce e di complessione gracile anzi che no.

Parrà forse effetto di debolezza senile e dell'infermità il ricorso del Marchetti al liquore di San Niccolò di Bari: ma è un fatto che accarezzando del continuo la sua versione di Lucrezio, dava poi in accessi di devozione e forse non finta. — Valga di prova il seguente sonetto all'Eccellenza del Sig. Bernardo Trevisani per la sua opera dell'Immortalità dell'anima.

 

Taccia Epicuro: entro gli umani petti

Vive spirto celeste, aura vitale

De' folli ad onta e temerari detti,

Ond'ei tentò provarla inferma e frale.

I dardi ch'ei scoccò di morte infetti,

Dall'arco di sua lingua empia e brutale,

Mercè del tuo valor giaccion negletti,

Mio gran Bernardo, e spennacchiate han l'ale —

Tu, sovrano dell'Adria onore e lume,

Dell'eccelsa tua mente erger potesti

Da terra al ciel le non mai stanche piume.

Chiaro ivi le nostr'alme esser vedesti

Eterne e dive e in nobile volume

Quanto a te fu palese, a noi sponesti[5].

Altra prova è la sua Ode sopra San Ranieri Pisano, il quale dopo esser vissuto molto lietamente, perdette gli occhi per piangere i suoi peccati e dopo miracolosamente gli ricuperò. Fu stimato ipocrita, così l'argomento, e per ciò invidiosamente perseguitato in Pisa e Gerusalemme; risuscitò una fanciulla; dopo la sua morte tutte le campane di Pisa da loro stesse sonarono a festa. Onde il Poeta chiude il componimento così:

 

Ma qual di santità segno maggiore

Se il suo terrestre, il suo caduco velo,

Poichè l'anima eletta ascese al cielo,

L'aria cosparse di soave odore:

E se per additar l'alta vittoria

Ch'ei contro il rio Satan morendo ottenne

Gli sacrar con miracolo solenne

Fin gl'incensati bronzi inni di gloria?

 

Prova meno curiosa è un'altra sua poesia di cui basta citare il titolo. «Liberata Vienna dall'assedio de' Turchi e riprese loro molte città dall'armi imperiali, polacche e venete, cacciati di Francia gli Ugonotti e riconosciuto da Giacomo secondo re d'Inghilterra per capo del Cristianesimo il Romano Pontefice, l'autore, come principe dell'Accademia dei Disuniti di Pisa, radunatala per celebrare i trionfi della fede cattolica in pace e in guerra, fece la presente introduzione.»

Tra l'altre cose dice all'autore della revoca dell'Editto di Nantes:

 

E tu gallico Giove...

Tu, tu d'ogni perverso orrido mostro

Che l'empi dogmi il tuo bel regno infette

Fai sí con memorabili vendette,

Che non cede all'erculeo il secol nostro.

 

Notiamo a suggello che il traduttore di Lucrezio scrisse in versi sciolti un poemetto sopra il Paradiso, ch'egli descrive punto per punto, quasi l'avesse veduto con gli occhi del corpo, come Ferondo nel Boccaccio vide il Purgatorio.

Con miglior consiglio aveva preso a dettare un poema filosofico in verso sciolto, intitolandolo a Luigi XIV. Il Giornale dei Letterati[6] ne pubblicò il principio. Il Menzini al quale lo aveva mandato egli stesso, gli scriveva: «Ho veduto il principio del suo poema, cioè la sommità della fronte di una bellissima statua;» ma non andò molto innanzi, e ormava troppo Lucrezio. — Intonava così:

O dell'Eterno Padre, o dell'Eterno

Figlio, Eterno, ineffabile, infinito,

Vicendevole Amor, Amor fecondo,

Santo Amor, vero Amor, unico Amore,

Unico Amor, che da principio il cielo

Creasti, e l'aureo Sol cinto di raggi,

E delle Stelle erranti a lui d'intorno

Librasti i globi in guisa tal, che puote

Di luce ornarle, e raggirarle in cerchio,

E sì dolce, e sì tremulo, e sì vivo

Fulgor desti alle fisse, ond'è trapunto

L'umido manto dell'oscura notte

Che cede appena di bellezza al giorno:

Unico Amor, che a' primi semi infondi

Virtù: che l'aria di canori augelli,

Di muti pesci le sals'onde, e tutta

D'animai d'ogni specie orni la terra,

Che per sè fôra un vasto orror solingo,

Qualor deposto il freddo ispido manto

L'anno ringiovenisce e lieto in vista

Zeffiro torna, e 'l bel tempo rimena,

Tu Dio, tu sei, che sugli Alpini monti

Sciogli in tiepido umor le nevi, e 'l ghiaccio

Che quindi scorre a dar tributo a' fiumi:

Tu di borea il furor, tu del crudele

Austro gli sdegni, e tu di noto, e d'euro

Gl'insani impeti orrendi affreni, e molci,

E i turbini sonori, e le procelle

Scacci, e dai bando alle bufere, a i nembi,

E tu col ciglio le tempeste acqueti:

Tu di frondi novelle, e di virgulti

Le selve adorni: e le campagne e i prati,

E le rive, e le piagge, e i colli ameni

Fai d'erbette e di fior lieti e ridenti.

Dal tiro divino ardor commosso l'uomo

Desia la donna, e in dolce nodo eterno

Di fede marital con lei si lega.

Squassa l'altera fronte, e guerra indice

Per la grassa giovenca al suo rivale

L'innamorato tauro; il gelo istesso

D'acque infinite ad ammorzar bastante

Non è l'interna fiamma, onde il delfino

Sovente, e l'orca in mezzo al mare avvampa.

 

Sua versione di Lucrezio.

 

Lucrezio era un autore in odio alla Chiesa; tanto più è da tener conto di un letterato che in Roma, nell'accademia degli Incitati, ne parlò spassionatamente. Girolamo Frachetta da Rovigo morto in Napoli nel 1620, essendo provigionato dal re di Spagtra, scrisse, e stampò nel 1581, non compito il 21 anno, un Dialogo del Furore poetico, ov'egli entra a ragionare con tre giovani, tutti allora studenti nell'Università di Padova. Nel 1589 pubblicò in Venezia presso i Gioliti la sposizione della tanto vessata Canzone d'amore di Guido Cavalcanti. Nel 1589 pubblicò pure in Venezia appresso Pietro Paganini la sua Breve Sposizione di tutta l’opera di Lucrezio distesa in sei lezioni nella quale si disamina la dottrina di Epicuro, e si mostra in che sia conforme col vero e con gli insegnamenti di Aristotile e in che differente, con alcuni discorsi distesi in sette lezioni sopra l'Invocazione di detta opera. È intitolata con lettera in data di Rovigo 1 Gennaro 1588, al cardinale Scipione Gonzaga, al quale dice tra l'altre cose: «Lucrezio così grave scrittore, non doveva a partito niuno rimanere senza sposizione; imperocchè, oltre l'essere oscuro e contenere molte cose buone, che sono state frantese, ne contiene anco molte di ree, le quali fa di mestiero, acciocchè altri non vi s'inganni, in iscambio togliendole, rifiutare; et è un ravvivatore della dottrina, di già per poco dimenticata, del grande Epicuro, a cui sono apposte a torto molte bugie.»

Il Marchetti si mise a tradurlo. Voleva dedicarlo a Cosimo III[7], ma non fu accettata la dedica nè gradita la pubblicazione; onde la versione girò buona pezza inedita, ma dopo l'invenzione della stampa, dice il figlio Francesco, non vi fu libro che tante volte si copiasse; e il curioso si è che Cardinali e gran prelati eran quelli che più desideravano leggerlo.

Constant Martha che ha tentato la versione poetica di alcuni passi di Lucrezio, dice assai bene: Nous croyons avoir fait une tentative nouvelle, celle de conserver le mouvement logique, la trame serrée d'un poète philosophe qui raisonne toujours même quand il peint. C'est une infidelité que d'offrir la poésie de Lucréce en images brillantes, mais brisées. L'exactitude consiste ici à respecter avant tout la suite des pensées; le reste est un agréable surcroît, qu'il faut donner si l'on peut. E questo è il pregio del Marchetti; mentre prodiga gli ornamenti poetici, rende benissimo l'andamento dell'originale.

Come Angelo Firenzuola traducendo l'Asino d'oro d'Apuleio vi annestò, quasi fosse egli l'autore, alcune memorie di sè, così fece il Marchetti introducendo nel suo Lucrezio le lodi del suo maestro Borelli e del Gassendi, grande rinnovatore della filosofia di Epicuro nel secolo XVII. Del Borelli si veda ai versi 955-960 del I Libro ove l'aggiustò ad Archimede, perciò avevano comune la patria o la Sicilia, essendo l'uno nato in Messina l'altro in Siracusa. Del Gassendi si veda ai versi 525-532 del Libro V. Ed altresì, dolendosi Lucrezio della povertà ed insufficienza della lingua latina a trattare materie filosofiche, il Marchetti che si valeva della lingua toscana non meno flessibile della greca e ricca di modi e partiti da esprimere ogni più astrusa idea, nei versi 181-283 si lodò del felice istromento che aveva sortito.

Tradusse con garbo Anacreonte, sebbene, nel gittare gli occhi sul libro e trovando un primo verso che suona:

 

Unischiam le rose tenere,

 

ci pare che ne cada di capo la corona e di mano il bicchiere. Se non che bisogna non isgomentarsi per queste leziosaggini, e continuare, chè n'avremo in compenso vaghezza di lingua e soavità d'armonia, pregi sempre vivaci della Toscana e che si riscontrarono fino in un anatomico, nel Bellini; e il Magalotti, quella gran mente, nelle sue canzoncine e nel Sidro, non è egli vaghissimo e delizioso?

A questa versione si addirebbero meglio le lodi che Giuseppe Maria Quirini gli dava pel Lucrezio. «In somma, il Marchetti, egli scriveva, maneggia il poema della Natura delle cose, come se fosse un argomento amoroso, ricolmandolo per ogni dove di tutte le delizie dello stile, di tutti i vezzi della poesia, finalmente di tutte le lascivie del parlar toscano.» Il che in parte è vero e l'incanto si ravvalora per le reminiscenze dei nostri poeti classici, che a quando a quando, come quel purpureo nastro dell'Ariosto, partono la tela d'argento dell'industre testore.

G. B. Clemente Nelli, l'erede delle ire di Vincenzo Viviani contro il Marchetti dice: «Non molta pompa crederei doversi fare di questa benchè per altro bella traduzione, ed in ottimo genere di verso sciolto condotta... poichè oltre l'essere stata criticata dal Lazzarini come mal tradotta, è stata censurata dalla Sacra Congregazione e reputata opera perniziosa al Cristianesimo per le male conseguenze ed effetti da essa prodotti....

L'Emin. Cantelmo, arcivescovo di Napoli, per essersi scoperto nella predetta città che Gio. Andrea de Magistris e Carlo Rosito speziale di medicina insegnavano l'ateismo, prima della pubblica e solenne abiura degli errori da costoro professati, fece nella sua Chiesa cattedrale il dì 15 Febbraio 1693 un sermone, in cui tra le altre cose disse:.... ora si rendono palesi quelle mani sacrileghe, le quali con irritare l'indignazione divina hanno posto fuoco alle mine de' terremoti scoppiati pochi giorni sono con tanto spavento ed hanno più recentemente provocato il flagello della peste estinto miracolosamente per esser prevaluto il merito de' buoni alla malizia de' cattivi... Seguitò inculcando la necessità indispensabile di fuggire come mostri velenosi i libri infetti d'eresia, e dell'infame ateismo e specialmente l'empio Lucrezio traslatato per arte del Demonio in metro italiano pur troppo applaudito....

Il dì 16 novembre 1718, segue il Nelli, fu fatto dalla Congregazione dell'Indice in Roma il decreto di proibizione del Lucrezio tradotto dal Marchetti o manoscritto o stampato, che egli si fosse, a motivo che alcuni fratelli del casato dei Legni, essendo stati processati dal tribunale dell'Inquisizione confessarono di essere divenuti atei per aver soltanto letto il Lucrezio dal signor Alessandro Marchetti tradotto.

Gli proibirono anche la versione di Anacreonte.

 

Critiche e raffronti.

 

Mentre alcuni volevano bandire dal regno delle lettere la versione di Lucrezio come empia e pervertitrice, Domenico Lazzarini di Morro, secondo accenna il Nelli, lettone un quattrocento versi e non più, con dodici osservazioni tentò di annullarne il pregio e proscriverla come inesatta, e dimostrante poca conoscenza del sistema di Epicuro, scusando poi ipocritamente l'autore che l'avesse fatta mentre era assai giovane, nè maturo voluto poi rivederla per non render perfetta un'opera si perniziosa. L'erudito marchigiano, dimostrato sottilmente i difetti de' luoghi presi ad esaminare li rifece egli in versi e qui gli cadde l'ago; perchè poco rniglior saggio di sè avrebbe dato l'Algarotti, se, dopo le sue critiche del Caro, avesse preso a rifarlo. E sì ch'era uno dei più famosi versiscioltai del suo tempo. Ora si senta come il Lazzarini rifece il Sacrifizio di Aulide:

 

Come già un tempo in Aulide gli Altari

Della vergine Dea lordar col sangue

D'Ifianassa bruttamente i capi

Dell'Esercito Danao e gli eroi primi.

La qual, mentre che a lei l'infula intorno

Agli ornamenti verginali avvolta

Con le bende ugualmente ricoperse

E l'una gota e l'altra e vide il padre

Starsene e dritto e mesto innanzi l'Ara;

E a lui vicino far misteri e pompa

D'un coltello i ministri; e vide infine

I cittadini suoi guatarla e piangere:

Che di religion piena e di tema

Neppure osando di parlar, chinava

Divotarnente le ginocchia in terra.

Nè all'infelice in quel malvagio tempo

Poteo punto giovar ch'essa la prima

Al re di padre il nome avesse dato.

Perchè da quegli eroi tolta di terra

Fu condotta all'altar tremando tutta:

Non perchè terminata la solenne

E pompa e riti, ella potesse poi

Esser seguita dal suo chiaro sposo;

Ma perchè al tempo stesso delle nozze

Promesse, col dolor d'esser dal suo

Padre scannata, ella a cader venisse

D'un sacrificio impuro ostia innocente.

 

Qui avrebbe luogo l'Hélas o piuttosto l'Holà di Boileau a Corneille.

A quel passo:

 

Non perchè terminato il sacrificio

Fosse legata col soave nodo

D'un illustre Imeneo;

 

il Lazzarini fa l'arguto e dice: «Le prometto io che dopo che fosse stata sacrificata, sarebbe stata la bella sposa. Ma Lucrezio di queste non ne dice. Egli dice non perchè terminato, non il sacrificio, ma more sacrorum il rito, e quelle cerimonie che si fanno avanti i sacrificj, dopo le quali poteva ben essere facilmente sposa. Ma dopo che fosse stata scannata, non credo che senza difficoltà grande avrebbe potuto essere:» cavillo bello e buono, perchè il traduttore, astraendosi dalla qualità e dal fine degli apparecchi, non ha l'animo che alla giovane, la quale già si figurava di esser condotta all'altare per altro e finita la cerimonia nuziale esser sposa ad Achille.

Paolo Rolli che fu il primo editore del poema di Lucrezio tradotto dal Marchetti (Londra 1717), lo mette terzo tra l'Eneide del Caro e le Metamorfosi d'Ovidio dell'Anguillara. Eccede dall'un lato come il Baretti dall'altro, quando assevera, ch'egli era non solamente null'affatto poeta, ma verseggiatore molto mediocre, perchè non c'è pagina nella sua traduzione che non contenga alquanti versi molto flosci e zoppi. Il Tiraboschi la dichiarò elegantissima e della critica del Lazzarini dice, che, da qualunque ragione ella movesse, non ha avuto effetto e nulla ha scemato la stima di cui quella ha sempre goduto. Invano, ripete altrove, ha preteso di combattere il comun sentimento de' dotti. Il sommo Leibniz dovendo riferire nella sua Teodicea un passo del secondo libro ove si descrive il movimento spontaneo attribuito agli atomi da Epicuro, si vale della versione del Marchetti anzi che dell'originale.

Prenderò dal Martha un tratto sull'amore, che mostrerà meglio che il rifacimento del Lazzarini con quale libertà il Marchetti trattasse Lucrezio.

Ces tourments de l'amour usent le corps et l’âme;

Ta vie est suspendue au geste d'une femme,

Ton bien croule, l'usure envahit ta maison,

Dans l'oubli des devoirs s'évanouit ton nom,

Oui, pour qu'un brodequin venu de Sicyone,

Rie a des pieds mignons, qu'à de beaux doigts rayonne

Un grand rubis dans l'or, que les plus fins tissus

S'abreuvent chaque jour des sueurs de Venus.

Ton bien, 1'antique fruit des vertus paternelles,

Flotte en mitre, en rubans sur la tête des belles,

Traîne sur les pavés en robes, en manteaux

Teints des molles couleurs d'Alindie et de Chíos.

Puis le vin coule à flots; aux festins que tu donnes,

Il faut encor parfums, tapis moelleux, couronnes.

Vain effort du plaisir! du fond de ces douceurs

Monte un dégôut amer qui tue au sein des fleurs.

Soit qu'un remords secret avertisse ton âme

Qua tu perds tes beaux ans dans un repos infâme,

Soit que par ta maîtresse un mot dit au hasard

Ait planté dans ton cœur un soupçon, comme un dard,

Qui s'y fixe, y descend, creuse une plaie ardente,

Soit que ton œil jaloux, épiant sur l'amante

Quelque regard furtif, surprenne avec effroi

La trace d'un souris qui ne fut pas pour toi.

 

Qui veramente il Marchetti traducendo:

 

O perchè troppo ha cupidi e vaganti

Gli occhi e troppo gli volge al suo rivale

E con lui troppo parla e troppo ride,

 

ha guastato la finezza di quel in vultuque videt vestigia risus, nots, dice benissimo il Martha, qui peignent avec une si heureuse hardiesse la jalousie dont la perspicacité dèmêle sur un visage impassible non pas seulement un sourire, mais les traces d'un sourire infidèle.

Ora sentiamo come il Molière lo scolare del Gassendi, che s'era provato alla versione di Lucrezio, ne trasportasse un tratto nel suo Misantropo[8]:

 

L'amour pour l'ordinaire est peu fait à ces loís,

Et l'on voit les amants vanter toujours leur choix,

Jamais leur passion n'y voit rien de blâmable

Et, dans l'objet aimé, tout leur devient aimable;

Ils comptent les défauts pour des perfections

Et savent y donner de favorables noms.

La pâle est au jasmin en blancheur comparable;

La noire à faire peur une brune adorable;

La maigre a de la taille et de la liberté;

La grasse, est, dans son port, pleine de majesté

La malpropre sur soi, de peu d'attraits chargée,

Est mise sous le nom de beauté négligée;

La géante paraît une déesse aux yeux;

La naine un abrégé des merveilles des cieux.

L'orgueilleuse a le coeur digne d'une couronne;

La fourbe a de l'esprit; la sotte est toute bonne;

La trop grande parleuse est d'agréable humeur;

Et la muette garde une honnête pudeur.

C'est ainsi qu'un amant dont l'ardeur est extrême

Aíme jusqu'aux défauts des personnes qu'il aime.

 

Suoi lavori geometrici

e guerra con Vincenzo Viviani.

 

Nella vita scrittane dal suo figlio Francesco e nel Saggio del Nelli[9] si posson vedere i lavori geometrici del Marchetti e le controversie che ne nacquero. Il suo libro De resistentia solidorum pareva al Nelli da principio un buon libro, ma diceva esser erba del Borelli. Poi, ricreduto per gli errori trovativi dal P. Guido Grandi, lo ridonò al Marchetti. Il libro in cui il Marchetti volle risolvere alcuni problemi proposti da un matematico oltramontano parve altresì erroneo.

Michelangelo Ricci, scolare del Torricelli, scrivea a Vincenzo Viviani da Frascati, 11 giugno 1675: «aver consigliato al Marchetti, che gli avea mandato quel suo libricciuolo, di sopprimerlo e non dar materia di ridersi di noi italiani a molti virtuosi oltramontani emuli rostri.»

Il Viviani scriveva al Marchetti: «Io non ho voluto pubblicare l'esamina del suo libretto, intorno al quale avevo che dire pure assai dal principio sino all'ultimo, sì per non mettere alla berlina la reputazione di V. S., la quale io amo forse più di quello che ella non si crede, come ancora per non avvilire quella di noi altri Toscani perchè po' poi finalmente il Castello di Pontormo e pure in Toscana, quanto vi sia la nobilissima Firenze sua metropoli e patria mia... Ella non contenta di professare la filosofia, facoltà, che non ha mai chi gli riveda il conto per la minuta, presumendosi molto più del dovere in Geometria, si è lasciata portare dal desiderio e dalla soverchia ambizione di giugnere a qualche palio prima degli altri; come ha creduto e ha goduto in sè stesso, instigatone anche da chi non è nè amico suo nè d'uomo che viva (intende del Borelli) di avere usato ogni sforzo di far comparire d'improvviso alle viste altrui la battaglia, la vittoria e il trionfo di un'impresa stimata da lei più ardua e più gloriosa di quella di M. Marcello, quando espugnò Siracusa. Ma, signor dottor mio da bene, la geometria speculativa non è già quella

 

Trattabile e benigna disciplina

Che va per tutto i versi e segue franca

Dov'anche l'ignoranza la declina,

 

e la quale voi chiamate filosofia.» Finisce col dirgli che s'era fatto scorgere e da diritto e da rovescio e con altre pungentissime beffe.

Il Marchetti all'incontro scriveva al Magliabechi del livido Geometra e toccando de' suoi sigillamenti (o dell'aver fatto sigillare le sue Soluzioni dei Problemi detti dal Cardinale Leopoldo de' Medici) e delle sue cabale... aggiungeva:

«Che il Padre Fabbri lo chiami Apollonio redivivo e del veramente dottissimo Borelli mio maestro parli, come ella dice, come se avesse a parlar d'un guattero, non me ne maraviglio, perchè cotestui non fa altro che sfacciatissimamente adulare i Gesuiti e particolarmente il medesimo Padre Fabbri; ed il Borelli che all'incontro non è adulatore, ma filosofo, gli rivede di modo il pelo, che appresso tutti gl'intendenti lo fa conoscere per quel che egli è. Ma se il padre Fabbri parla del sig. Borelli, come d'un guattero, non così ne parlano infiniti altri letterati, che studiano senza livore o passione alcuna le sue dottissime ed immortali opere. Nè così ne parla Roma, che per quanto a me è stato scritto da persona degna di fede, con suo grande stupore lo va a sentire ogni volta che egli discorre nell'Accademia della Regina (Cristina di Svezia). Mi maraviglio bene infinitamente che codesto geometra sia sì proclive in lodare i Gesuiti, e particolarmente il Padre Fabbri, mentre essendo, come egli dice, il Beniamino del Galileo, cioè l'ultimo e dilettissimo suo scolare, dovrebbe odiarli più della peste, come quelli, che sono stati e, parlando generalmente, sono tuttavia asprissimi ed irreconciliabili nemici del suo maestro. Ma in che scienza è egli mai stato il Galileo maestro di cotestui? Forse in logica? no; perchè per la medesima sua confessione ebbe in questa per maestro un frate. Forse in geometria? Nemmeno; perchè, per quanto egli si vanta, glie ne insegnò non so che poca un altro frate, e nel resto egli l'ha studiata tutta da sè, ed esorta di più anco gli altri a fare il medesimo, benchè per Dio, se i giovani pigliassero il suo consiglio, mi creda pure che se pochi geometri sono al mondo, ce ne sarebbero molto manco. Forse in fisica, in metafisica, in ottica, in meccanica, in astronomia, o in altra nobile professione? Ma quando ha egli in alcuna di queste dato mai saggio al mondo di saper nulla? Resta dunque ch'ei non fosse in nessun modo scolare del Galileo, ma al più al più lo servisse per guida, quand'era cieco, o per scriverli qualche lettera o per andare a farli qualche imbasciata.»

Il Nelli avi à ragione sul punto dell'imperizia del Marchetti in geometria, avendo sì buoni mallevadori come il Ricci ed il Viviani; ma ha torto nel premer tanto sulla condanna del volgarizzamento del Lucrezio, e nel lodare la somma saviezza del Viviani, a far la corte ai Gesuiti, nemici del Galileo, e d'ogni progresso delle scienze, quando ne portan pericolo le loro dottrine. Il Marchetti mostra essere stato uno spirito libero, e miglior seguace dell'indirizzo fondamentale della filosofia del Galileo che il Viviani, il quale coltivava soltanto la parte scientifica pura, e si peritava di toccar quella che diremo scientifico-morale, ch'è po’ poi finalmente la più alta e importante, come quella che tende a liberare da ogni ceppo teologico lo spirito, aprendogli tutta la distesa de' cieli, e dandogli ali da scorrerli signorevolmente. Ora il volgarizzamento del Lucrezio era l'ultima conseguenza della libertà di filosofare propugnata e confessata col suo martirio dal Galileo; e se il Marchetti non fu un geometra, fu per ventura buon poeta; se no diremmo ch'e' fosse alla scuola del Galileo quel che il D'Holbach fu alla scuola dei D'Alembert e dei Diderot.

 

Di questa Edizione

 

Abbiamo seguito in questa nostra l'edizione procurata in Firenze da Giosuè Carducci (Barbèra, 1864) anco a molto giovane, ma già maestro. Egli oltre la prima edizione di Londra, riscontrò l'altra del 1779, che pregia sopra tutte. Nè abbiamo tralasciate le Varianti notate da lui diffondendo così gli studj di un critico valentissimo, non solo intendente, ma creatore di ottime poesie. Abbiamo aggiunto i begli argomenti che il Blanchet premise alla traduzione francese del Lagrange (Paris,1861), e il capitolo della Scienza di Lucrezio di Constant Martha. Così abbiam provveduto alla chiarezza del poema, e direm con le parole di Lucrezio al lettore:

 

Nè cieca notte ornai potrà impedirti

L'incominciata via, che ti conduce

Di natura a mirar gl'intimi arcani:

Sì le cose alle cose accenderanno

Lume che mostri alla tua gente il vero.

 

Eugenio Camerini.

 

 

 

 


LIBRO PRIMO

 

Argomento.

 

Il poeta comincia da una splendida invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio, 2. l'esposizione del subbietto, 3. l'elogio d'Epicuro, 4. la confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la dottrina del filosofo greco e contro l'ardimento del poeta latino che si accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e pone a primo principio che l'essere non può uscir dal nulla, nè tornare al nulla. V'ha dunque corpuscoli primitivi, onde constano tutti i corpi, e ne' quali questi si risolvono; sebbene invisibili, è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e neppure esistere senza il vuoto. L'universo pertanto resulta da queste due cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è nè l'uno nè l'altro n'è proprietà o accidente e non già una terza classe d'esseri che faccian parte da sè. I corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l'acqua, l'aria o la terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l'omeomeria di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto, indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v'ha dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi è dunque una follia.

 

Alma figlia di Giove, inclita madre

Del gran germe d'Enea, Venere bella,

Degli uomini piacere e degli dèi:

Tu che sotto i girevoli e lucenti

Segni del cielo il mar profondo e tutta

D'animai d'ogni specie orni la terra,

Che per sè fôra un vasto orror solingo:

Te dea fuggono i venti: al primo arrivo

Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia

Erbe e fiori odorosi il suolo industre:

Tu rassereni i giorni foschi, e rendi

Con dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,

E splender fai di maggior lume il cielo.

Qualor deposto il freddo ispido manto

L'anno ringiovanisce, e la soave

Aura feconda di Favonio spira,

Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli,

Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi,

Cantan festosi il tuo ritorno, o diva;

Liete scorron saltando i grassi paschi

Le fiere e gonfi di nuov'acque i fiumi

Varcano a nuoto e i rapidi torrenti:

Tal da' teneri tuoi vezzi lascivi

Dolcemente allettato ogni animale

Desïoso ti segue ovunque il guidi.

Insomma tu per mari e monti e fiumi,

Pe' boschi ombrosi e per gli aperti campi,

Di piacevole amore i petti accendi,

E così fai che si conservi 'l mondo.

Or; se tu sol della natura il freno

Reggi a tua voglia, e senza te non vede

Del dì la luce desïata e bella

Nè lieta e amabil fassi alcuna cosa;

Te, dea, te bramo per compagna all'opra,

In cui di scriver tento in nuovi carmi

Di natura i segreti e le cagioni

Al gran Memmo Gemello a te sì caro

In ogni tempo e d'ogni laude ornato.

Tu dunque, o diva, ogni mio detto aspergi

D'eterna grazia; e fa' cessare intanto

E per mare e per terra il fiero Marte,

Tu che sola puoi farlo. Egli sovente

D'amorosa ferita il cuor trafitto

Umil si posa nel divin tuo grembo.

Or; mentr'ei pasce il desïoso sguardo

Di tua beltà ch'ogni beltade avanza,

E che l'anima sua da te sol pende;

Deh porgi a lui, vezzosa dea, deh porgi

A lui soavi preghi, e fa' ch'ei renda

Al popol suo la desïata pace.

Chè se la patria nostra è da nemiche

Armi agitata, io più seguir non posso

Con animo quïeto il preso stile,

Nè può di Memmo il generoso figlio

Negar sè stesso alla comun salute.

Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi

Grate ed attente orecchie, e ti prepara,

Lungi da te cacciando ogni altra cura,

Alle vere ragioni, e non volere

I miei doni sprezzar pria che gl'intenda.

Io narrerotti in che maniera il cielo

Con moto alterno ognor si volga e giri;

Degli dèi la natura, e delle cose

Gli alti principii; e come nasca il tutto,

Come poi si nutrichi, e come cresca,

Ed in che finalmente ei si risolva.

E ciò da noi nell'avvenir dirassi

Primo corpo o materia o primo seme

O corpo genitale, essendo quello

Onde prima si forma ogni altro corpo.

Chè d'uopo è pur che 'n somma eterna pace

Vivan gli dèi per lor natura e lungi

Stian dal governo delle cose umane,

Scevri d'ogni dolor d'ogni periglio,

Ricchi sol di lor stessi, e di lor fuori

Di nulla bisognosi, e che nè merto

Nostro gli alletti o colpa accenda ad ira.

Giacea l'umana vita oppressa e stanca

Sotto religïon grave e severa,

Che mostrando dal ciel l'altero capo

Spaventevole in vista e minacciante

Ne soprastava. Un uom d'Atene il primo

Fu, che d'ergerle incontra ebbe ardimento

Gli occhi ancor che mortali e le s'oppose

Questi non paventò nè ciel tonante

Nè tremoto che 'l mondo empia d'orrore

Nè fama degli dèi nè fulmin torto:

Ma, qual acciar su dura alpina cote

Quanto s'agita più tanto più splende,

Tal dell'animo suo mai sempre invitto

Nelle difficoltà crebbe il desio

Di spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri

E l'ampie porte di natura aprirne.

Così vins'egli, e con l'eccelsa mente

Varcando oltre a' confin del nostro mondo

Fu bastante a capir spazio infinito.

Quindi sicuramente egli n'insegna

Ciò che nasca o non nasca, ed in qual modo

Ciò che racchiude l'universo in seno

Ha poter limitato e termin certo.

E, la religion co' piè calcata,

L'alta vittoria sua c'erge alle stelle.

Nè creder già che scelerate ed empie

Sian le cose ch'io parlo; anzi sovente

L'altrui religion ne' tempi antichi

Cose produsse scelerate ed empie.

Questa il fior degli eroi scelti per duci

Dell'oste argiva in Aulide indusse

Di Dïana a macchiar l'ara innocente

Col sangue d'Ifigènia; allor che, cinto

Di bianca fascia il bel virgineo crine,

Vid'ella a sè davanti in mesto volto

Il padre, e a lui vicini i sacerdoti

Celar l'aspra bipenne, e 'l popol tutto

Stillar per gli occhi in larga vena il pianto

Sol per pietà di lei che muta e mesta

Teneva a terra le ginocchia inchine.

Nè giovò punto all'innocente e casta

Povera verginella in tempo tale

Ch'a nome della patria il prence avesse

All'esercito greco un re donato:

Chè tolta dalle man del suo consorte

Fu condotta all'altar tutta tremante;

Non perchè, terminato il sacrifizio,

Legata fosse col soave nodo

D'un illustre imeneo; ma per cadere

Nel tempo stesso delle proprie nozze

A' piè del genitore, ostia dolente

Per dar felice e fortunato evento

All'armata navale. Error sì grave

Persüader la religion poteo.

Tu stesso, dall'orribili minacce

De' poeti atterrito, ai detti nostri

Di negar tenterai la fè dovuta.

Ed oh quanti potrei fingerti anch'io

Sogni e chimere, a sovvertir bastanti

Del viver tuo la pace e col timore

Il sereno turbar della tua mente.

Ed a ragion, che se prescritto il fine

Vedesse l'uomo alle miserie sue,

Ben resister potrebbe alle minacce

Delle religïoni e de' poeti:

Ma come mai resister può, s'ei teme

Dopo la morte aspri tormenti eterni,

Perchè dell'alma è a lui l'essenza ignota?

S'ella sia nata od a chi nasce infusa,

E se morendo il corpo anch'ella muoia?

Se le tenebre dense e se le vaste

Paludi vegga del tremendo inferno,

O s'entri ad informare altri animali

Per divino voler? Siccome il nostro

Ennio cantò, che pria d'ogn'altro colse

In riva d'Elicona eterni allori,

Onde intrecciossi una ghirlanda al crine

Fra l'italiche genti illustre e chiara.

Bench'ei ne' dotti versi affermi ancora

Che sulle sponde d'Acheronte s'erge

Un tempio sacro agl'infernali dèi,

Ove non l'alme o i corpi nostri stanno

Ma certi simulacri in ammirande

Guise pallidi in volto; e quivi narra

D'aver visto l'immagine d'Omero

piangere amaramente e di natura

Raccontargli i segreti e le cagioni.

Dunque non pur de' più sublimi effetti

Cercar le cause e dichiarar conviensi

Della luna e del sole i movimenti,

Ma come possan generarsi in terra

Tutte le cose, e con ragion sagace

Principalmente investigar dell'alma

E dell'animo uman l'occulta essenza,

E ciò che sia quel che, vegliando infermi

E sepolti nel sonno, in guisa n'empie

D'alto terror, che di veder presente

Parne e d'udir chi già per morte in nude

Ossa è converso e poca terra asconde.

E so ben io qual malagevol opra

Sia l'illustrar de' Greci in tóschi carmi

L'oscure invenzïoni; e quanto spesso

Nuove parole converrammi usare,

Non per la povertà della mia lingua

Ch'alla greca non cede e più d'ogn'altra

Piena è di proprie e di leggiadre voci.

Ma per la novità di quei concetti

Ch'esprimer tento e che null'altro espresse.

Pur nondimen la tua virtude è tale

E lo sperato mio dolce conforto

Della nostr'amistà, ch'ognor mi sprona

A soffrir volentieri ogni fatica

E m'induce a vegliar le notti intere,

Sol per veder con quai parole io possa

Portare innanzi alla tua mente un lume

Ond'ella vegga ogni cagione occulta.

Or sì vano terror, sì cieche tenebre

Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo

Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi

Dardi del giorno a saettar poc'abili

Fuorchè l'ombre notturne e i sogni pallidi,

Ma co 'l mirar della natura e intendere

L'occulte cause e la velata imagine.

Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami.

Sappi che nulla per divin volere

Può dal nulla crearsi: onde il timore

Che quindi il cor d'ogni mortale ingombra

Vano è del tutto: e, se tu vedi ognora

Formarsi molte cose in terra e 'n cielo

Nè d'esse intendi le cagioni, e pensi

Per ciò che Dio le faccia, erri e deliri.

Sia dunque mio principio il dimostrarti

Che nulla mai si può crear dal nulla:

Quindi assai meglio intenderemo il resto,

E come possa generarsi il tutto

Senz'opra degli dèi. Or, se dal nulla

Si creasser le cose, esse di seme

Non avrian d'uopo; e si vedrian produrre

Uomini ed animai nel sen dell'acque,

Nel grembo della terra uccelli e pesci.

E nel vano dell'aria armenti e greggi:

Pe' luoghi culti e per gl'inculti il parto

D'ogni fera selvaggia incerto fôra;

Nè sempre ne darian gl'istessi frutti

Gli alberi, ma diversi, anzi ciascuno

D'ogni specie a produrgli atto sarebbe

Poichè come potrian da certa madre

Nascer le cose, ove assegnati i propri

Semi non fosser da natura a tutte?

Ma or, perchè ciascuna è da principii

Certi creata, indi ha il natale ed esce

Lieta a godere i dolci rai del giorno

Ov'è la sua materia e i corpi primi.

E quindi nascer d'ogni cosa il tutto

Non può, perchè fra loro alcune certe

Cose han l'interna facoltà distinta.

In oltre: ond'è che primavera adorna

Sempre è d'erbe e di fior? che di mature

Biade all'estiv'arsura ondeggia il campo?

E che sol, quando Febo occupa i segni

O di libra o di scorpio, allor la vite

Suda il dolce liquor che inebria i sensi?

Se non perchè a' lor tempi alcuni certi

Semi in un concorrendo atti a produrre

Son ciò che nasce, allor che le stagioni

Opportune il richieggono, e la terra

Di vigor genital piena e di succo

Puote all'aure innalzar sicuramente

Le molli erbette e l'altre cose tenere?

Che, se pur generate esser dal nulla

Potessero, apparir dovrian repente

In contrarie stagioni e spazio incerto:

Non vi essendo alcun seme che impedito

Dall'unïon feconda esser potesse

O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.

Nè, per crescer, le cose avrian mestiere

Di spazio alcuno in cui si unisca il seme,

S'elle fosser del nulla atte a nutrirsi:

Ma nati appena i pargoletti infanti

Diverrebbero adulti, e in un momento

Si vedrebber le piante inverso il cielo

Erger da terra le robuste braccia:

Il che mai non succede; anzi ogni cosa

Cresce, come conviensi, a poco a poco,

E crescendo conserva e rende eterna

La propria specie. Or tu confessa adunque

Che della sua materia e del suo seme

Nasce, si nutre e divien grande il tutto.

S'arroge a ciò, che non daría la terra

Il dovuto alimento ai lieti parti,

Se non cadesse a fecondarle il seno

Dal ciel l'umida pioggia, e senza cibo

Propagar non potrebber gli animali

La propria specie e conservar la vita.

Ond'è ben verisimile che molte

Cose molti fra lor corpi comuni

Abbian, come le voci han gli elementi,

Anzi che sia senza principio alcuna.

In somma: ond'è che non formò natura

Uomini tanto grandi e sì robusti,

Che potesser co' piè del mar profondo

Varcar l'acque sonanti e con la mano

Sveller dall'imo lor l'alte montagne

E viver molt'etadi e molti secoli?

Se non perchè prescritta è la materia

Onde ogni cosa si produce ed onde

Composto è ciò che nasce? Or ecco dunque

Che nulla mai si può crear dal nulla,

Mentre di seme ha di mestiere il tutto

Per uscire a goder l'aura vitale.

Al fin: perchè veggiamo i culti luoghi

Degl'inculti più fertili, e per l'opra

Di rozze mani industrïose i loro

Frutti produr molto più vaghi all'occhio,

Più soavi al palato e di più sano

Nodrimento allo stomaco; e' n'è pure

Chiaro che d'ogni cosa in grembo i semi

Stanno alla terra e che da noi promossi

Sono a nuovo natal, mentre, rompendo

Col curvo aratro e con la vanga il suolo,

Volghiam sossopra le feconde zolle,

Domandole or col rastro or con la marra:

Chè, se questo non fosse, ogni fatica

Sarebbe indarno sparsa, e per sè stesso

Produrrebbe il terren cose migliori.

Sappi oltre a ciò che si risolve il tutto

Ne' suoi principii, e che non può natura

Alcuna cosa annichilar giammai.

Chè, se affatto mortali e di caduchi

Semi fosser conteste, all'improvviso

Tutte a gli occhi involarnesi e perire

Dovrian le cose, ove mestier di forza

Non fôra in partorir discordia e lite

Fra le lor parti e l'unïon disciorne.

Ma, perchè seme eterno il tutto forma,

Quindi è che nulla mai perir si vede

Pria che forza il percuota e negl'interni

Vôti spazi penètri e lo dissolva.

In oltre: ciò che lunga età corrompe

Se s'annichila in tutto, ond'è che Venere

Rimena della vita al dolce lume

Generalmente ogni animale? ed onde

Cibo gli porge la 'ngegnosa terra

Onde si nutra, si conservi e cresca?

Onde le fonti, onde i torrenti e i fiumi

Portan l'ampio tributo al vasto mare?

Onde alle fisse, onde all'erranti stelle

Somministra alimento il ciel profondo?

Poichè già l'infinita età trascorsa

Ogni corpo mortale a pien dovrebbe

Col vorace suo dente aver distrutto.

Ma, se pur fu nella trascorsa etade

Seme che basti a riprodurre al mondo

Tutto ciò che perisce, eterno è certo.

Nulla può dunque mai ridursi al nulla.

In somma: a dissipar sarìa bastante

Tutte le cose una medesma forza,

Se materia immortal non le tenesse

Più e men collegate: un tocco solo

Bastevole cagion della lor morte

Esser potria, ch'ove d'eterno corpo

Nulla non fosse, ogni più leve impulso

Sciôr ne dovrebbe la testura in tutto.

Ma, perchè vari de' principii sono

I nodi ed è la lor materia eterna,

Salve restan le cose infino a tanto

Che forza le percuota atta a disciorre

Di ciascuna di loro il proprio laccio.

Nulla può dunque mai ridursi a nulla;

Ma ne' primi suoi corpi il tutto riede.

Tosto che finalmente il padre Giove

Versa nel grembo alla gran madre Idea

L'umida pioggia, essa perisce al certo:

Ma ne sorgon le biade e se n'adorna

Ogni albero di fior, di frondi e frutti.

Quindi si pasce poi l'umano germe,

Quindi ogni altro animale. E lieta quindi

Di vezzosi fanciulli ogni cittade

Fiorir si mira, e le fronzute selve

Piene di nuovi innamorati augelli

Cantan soavi armonïose note.

Quindi pe' lieti paschi i grassi armenti

Posan le membra affaticate e stanche,

E dalle piene mamme in bianche stille

Gronda sovente il nutritivo umore,

Onde i nuovi lor parti ebri e lascivi

Con non ben fermo piè scherzan per l'erbe.

Dunque affatto non muor ciò che ne sembra

Morir quaggiù, se la natura industre

Sempre dell'un l'altro ristora; e mai

Nascer non puote alcuna cosa al mondo,

Se non se prima ne perisce un'altra.

Or; poi che chiaramente io t'ho dimostro

Che nulla mai si può crear dal nulla

Nè mai cosa creata annichilarsi,

Acciò tu non pertanto i detti miei

Non creda error, perchè non puoi cogli occhi

Delle cose veder gli alti principii;

Pensa oltre a ciò quant'altri corpi sono

Invisibili al mondo, e pur deggiamo

Confessar ch'e' vi sono a viva forza.

Pria: se vento gagliardo il mare sferza

Con incredibil vïolenza ignota,

Le smisurate navi urta e fracassa;

Or ne porta sull'ali atre tempeste,

Or via le scaccia e ne fa chiaro il giorno;

Talor pe' campi infurïato scorre

Con turbo orrendo, e le gran piante atterra;

Talor col soffio impetuoso svelle

Le selve annose in su gli eccelsi monti:

Così gorgoglia l'Ocean cruccioso,

Geme, freme, s'infuria e 'l ciel minaccia.

Son dunque i venti un invisibil corpo,

Che la terra che 'l mar che 'l ciel profondo

Trae seco a forza e ne fa strage e scempio;

Nè in altra guisa il suo furor distende,

Che suol repente in ampio letto accolta

La molle acqua cader gonfia e spumante,

Che non pur delle selve i tronchi busti

Ma ne porta sul dorso i boschi interi;

Nè pôn soffrir i ben fondati ponti

La repentina forza; il fiume abbatte

Ogni eccelso edifizio e sotto l'acque

Gran sassi avvolge, onde ruina a terra

Ciò ch'al rapido corso ardisce opporsi.

Così dunque del vento il soffio irato,

Se qual torrente infurïato scorre

Verso qualunque parte, innanzi caccia

Ciò ch'egli incontra e lo diveglie e schianta;

Or con vortice torto alto il rapisce,

E con rapido turbo il ruota e porta.

È dunque il vento un invisibil corpo,

Se nell'opre e nel moto i fiumi imita

Che son composti di visibil corpo.

Giùngonne anco alle nari odor diversi,

Che tra via nondimen l'occhio non vede:

Il caldo il gelo il canto il suon le voci

Non pôn mirarsi, e pur son corpo anch'elleno

Poichè svegliano il senso e lo commuovono:

E null'altro che il corpo è tocco o tocca.

Le vesti al fin nel marin lido appese

Umide fansi, e le medesme poi

Tornan asciutte a' rai del sole esposte:

Ma nè come l'umore ivi si fermi,

Nè com'ei fugga dal calor cacciato

Alcun non vede. Egli si sparge adunque

In tante e tante parti e sì minute,

Ch'a poterle mirare occhio non basta.

Anzi: portate per molt'anni in dito

S'assottiglian l'anella; a goccia a goccia

L'acqua d'alto cadendo i sassi incava;

L'adunco ferro del ritorto aratro

Rompendo i campi occultamente scema;

Consuman per le strade i piè del volgo

Le durissime lastre; e, per lo spesso

Toccar di chi saluta e di chi passa,

Le figure di bronzo entro alle porte

De' templi sculte la lor forma pèrdono.

E ben tai cose sminuir veggiamo;

Ma di veder ciò che ne caschi ogn'ora

La natura ne toglie invidïosa.

In somma: ciò che la natura e 'l tempo

Donano a poco a poco a quel che cresce

Non possono gli occhi rimirar contenti,

Nè quel che per l'età langue o vien meno,

Nè quel che rode con l'edace sale

Ogni momento il mar dai duri scogli.

Dunque è pur di mestier che la natura

D'invisibili corpi il tutto formi.

Ma non creder però che l'universo

Sia pieno affatto. In ogni cosa il vôto

Misto è co' corpi. E questo in molte cose

D'util ti fia; acciò tu meglio intenda

Tutto ciò ch'io ragiono, e senza errore

E senza dubbio interamente creda

Alle parole mie fide e veraci.

Spazio è dunque nel mondo intatto e vôto

E privo d'ogni corpo, e luogo ha nome

Poichè, se ciò non fosse, eternamente

Starian ferme le cose, essendo offizio

Di tutti i corpi l'impedire il moto:

Muoversi dunque mai nulla potrebbe,

Ove nulla cedesse e desse luogo.

Ma noi miriam co' gli occhi propri ognora

Nella terra nel mar nel ciel sublime

Muoversi molte cose in molti modi

Per molte cause; che, se vôto alcuno

Spazio non fosse, d'ogni moto prive

Sarìan non sol ma nè pur nate al mondo;

Poichè stivati i primi semi affatto

Goduto avriano una perpetua quiete.

In oltre: ancor che molte cose e molte

Sembrin dure del tutto agli occhi nostri,

Son poi di corpo assai poroso e raro.

Quindi è che penetrar miri dall'acque

I tufi, i sassi e le spelonche, e quindi

Piangon le selci in copïose stille.

Per tutto il corpo si diffonde il cibo

Degli animai; crescon le piante e fanno

Nella propria stagione il fiore e 'l frutto,

Sol perchè preso il nutrimento loro

Sin dall'infime barbe egli si sparge

Tutto per tutto il tronco e tutti i rami.

Passan le voci entro le chiuse mura:

E scorre spesso un duro gel per l'ossa.

Il che non avverrebbe in modo alcuno,

Se non fosser nel mondo i vôti spazi

Ov'ogni corpo penetrar potesse.

Al fine: ond'è che di due cose eguali

Di mole una sovente ha maggior pondo?

Che s'un fiocco di lana in sè chiudesse

Tanto di corpo quanto il piombo e l'oro,

Egli altrettanto anco pesar dovrebbe;

Chè proprio è sol di tutt'i corpi il premere

In giù le cose, ed al contrario il vôto

Di sua natura è senza peso alcuno.

Dunque, se di due cose eguali in mole

L'una più lieve fia, chiaro ne insegna

D'aver manco di corpo e più di vôto:

Ma, s'è più grave, pel contrario mostra

D'aver manco di vôto e più di corpo.

Che sia dunque fra' corpi il vôto sparso,

Benchè mal noto a' nostri sensi infermi,

Per l'addotte ragioni è chiaro e certo.

Nè qui vogl'io che devïar dal vero

Ti possa mai quel che sognaro alcuni;

E perciò quant'io parlo ascolta e nota.

Dicon che 'l mare allo squammoso armento

Apre l'umide vie, perch'egli a tergo

Spazio si lascia ove concorran l'onde;

E che in guisa simìle ogni altra cosa

Mover si puote e cangiar sito e luogo.

Ma falso è ciò: ch'ove potranno alfine

I pesci andar, se non dà luogo il mare?

E dove al fin, se non dan luogo i pesci,

Il mar n'andrà, benchè cedente e molle?

Forz'è dunque o privar di moto i corpi,

O fra le cose mescolar il vôto

Che sia cagion de' movimenti loro.

S'al fin due piastre di lucente acciaio

Si combaciano insieme, indi in un tratto

L'una dall'altra si solleva, è d'uopo

Che vôto resti l'interposto spazio:

Poichè, quantunque d'ogn'intorno accorra

L'aere per occuparlo, in un sol punto

Ciò far non può, ma che riempia è forza

I luoghi più vicini e poscia gli altri.

E, se per avventura alcun pensasse

Che si distinguan l'un dall'altro i corpi

Perchè l'aere frapposto si condensi,

Erra; chè il vôto il qual non era innanzi

Fassi per certo e si riempie dopo

Benchè velocemente, in qualche tempo;

Nè l'aere in guisa tal può condensarsi,

Nè, quand'anco potesse, ei non potrebbe

Sè stesso in sè raccôrre e in un ridurre

Senz'alcun vôto le disperse parti.

Dunque indugia, se vuoi; forz'è ch'al fine

Esser confessi tra le cose il vôto.

Posso oltre a ciò molte ragioni addurti

Nulla men concludenti, onde tu presti

Alle parole mie fede maggiore:

Ma tanto basti al tuo sottile ingegno,

Per ben capir sicuramente il resto.

Chè, se scopron sovente i bracchi al fiuto

Le lepri i cervi e l'altre fere in caccia

Pe' covili appiattate e pe' cespugli

Tosto c'han di lor via vestigio certo,

Potrai ben tu per te medesmo intendere

L'una cosa dall'altra e penetrare

Per tutti i ripostigli e trarne il vero.

Ma, se tu pigro fossi o ti scostassi

Dal vero alquanto, io ti prometto e giuro

Che può la lingua in così larga vena

Dal ricco petto mio spargerti, o Memmo,

Più che mèl dolce d'eloquenza un fiume;

Ch'io temo pria non la vecchiezza inferma

Per le membra serpendo il chiostro n'apra

Di nostra vita e ne disciolga i lacci,

Che mai tu possa d'ogni cosa a pieno

Da' versi nostri ogni argomento udire.

Ma tempo è già di proseguir l'impresa.

Tutte le cose per sè stesse adunque

Consiston solamente in due nature;

Cio è nel corpo e nello spazio vôto

Ov'elle han vari i movimenti e i siti.

Ch'esser corpi nel mondo il comun senso

Per sè ne mostra; a cui se fede nieghi,

Non fia già mai che dell'occulte cose

Possa nulla provar con la ragione.

E, se non fosse alcuno spazio o luogo

Che sovente da noi vôto si chiama,

Non avrìan sito mai nè luogo i corpi,

Come già poco innanzi io t'ho dimostro.

Nulla oltr'a ciò può ritrovarsi mai,

Che tu dir possa esser diviso affatto

E dal corpo e dal vôto, onde si dia

Una quasi fra lor terza natura.

Ch'è pur qual cosa ciò ch'al mondo trovasi,

Sia di picciola mole o sia di grande;

Poichè, s'egli esser tocco o toccar puote,

Benchè lieve e minuto, è corpo al certo;

Se no, vôto si chiama o spazio o luogo.

In oltre: ciò che per sè stesso fia,

O farà qualche cosa o sarà fatto,

O fia là dove i corpi han luogo e nascono:

Ma non può far nè farsi altro che 'l corpo,

Nè dar luogo alle cose altro che 'l vôto:

Dunque oltre al vôto e 'l corpo in van si cerca

Una quasi fra lor terza natura

Che per sè cresca delle cose il novero,

Essendo il tutto o d'ambedue congiunto

O loro evento, ch'accidente io chiamo.

Tu stima poi, che sia congiunto quello

Che non può senza morte esser disgiunto;

Com'il peso alle pietre, il caldo al foco,

Ai corpi il tatto, il non toccarsi al vôto.

Servitude all'incontro e libertade,

Ricchezza e povertà, concordia e guerra,

E tutto ciò che, venga o resti o parta,

Lascia salve le cose, io soglio poi

Accidente chiamar, come conviensi.

Il tempo ancor non è per sè in natura:

Ma dalle sole cose il senso cava

Il passato il presente ed il futuro;

Nè può capirsi separato il tempo

Dal moto delle cose e dalla quiete.

Nè dica alcun che la tindarea prole

Da Paride rubata al duce argivo

E 'l superbo Ilïone arso e consunto

Forse parrà ch'a confessar ne sforzi

Che tai cose per sè fossero al mondo;

Mentre l'età trascorsa irrevocabile

I secoli di quelli omai n'ha tolto,

Che ad eventi sì rei furon soggetti.

Poichè, di ciò che fassi, altro può dirsi

De' paesi accidente, altro de' corpi

Chè, se stato non fosse il seme e 'l luogo

Onde si forma e dove ha vita il tutto,

Non avrebbe giammai d'amore il foco

Per la rara beltà d'Elena acceso

Nel frigio petto suscitar potuto

Il chiaro incendio di sì cruda guerra,

Nè il gran destrier del traditor Sinone

Col notturno suo parto avrìa distrutto

Della nobil città le mura eccelse.

Onde conoscer puoi che l'opre altrui

Non son per sè conforme il corpo e 'l vôto,

Ma più tosto a ragion debbon chiamarsi

O de' corpi accidenti o de' paesi.

Sappi poi che de' corpi altri son primi,

Altri si fan per l'unïon di questi.

Ma quei che primi son da forza alcuna

Dissipar non si ponno: ogni grand'urto

Frena la lor sodezza, ancor che paia

Duro a creder che nulla al mondo possa

Trovarsi mai d'impenetrabil corpo.

Passa il fulmin celeste, allor che Giove

Ver noi l'avventa, entro le chiuse mura,

Com'i gridi e le voci: il ferro stesso

S'arroventa nel fuoco: entro il crudele

Bollor fervidi al fin spezzansi i sassi:

Un soverchio calor l'oro dissolve:

Del bronzo il ghiaccio una gran fiamma strugge:

Penetra per l'argento il caldo e 'l freddo;

Poi ch'avvinchiando con la mano il nappo

E versandovi dentro il dolce vino,

L'uno e l'altro da noi tosto si sente.

Sì par che tra le cose ancor che sode

Nulla sia mai d'impenetrabil corpo.

Ma, perchè la ragion della natura

Non pertanto ne sforza, or tu m'ascolta:

Mentre ch'in pochi versi esser ti mostro

Materia impenetrabile ed eterna.

Pria: se varia del corpo è la natura

Dall'essenza del luogo u' fassi il tutto,

Com'i nostri argomenti han già convinto,

Forz'è ch'ambe per sè siano ed immiste;

Poichè, dove lo spazio intatto resta,

Ivi corpo non è: ma dov'è corpo,

Ivi vôto non è; son dunque i primi

Corpi senz'alcun vôto impenetrabili.

In oltre: essendo mescolato il vôto

Fra le cose create, è d'uopo al certo

Ch'impenetrabil corpo intorno il cinga:

Nè mai posso provar che nulla celi

Per entro a sè medesmo il vôto spazio,

Se per cosa già nota io non suppongo

Che impenetrabil sia quel che l'asconde:

Il che poi certamente esser non puote

Se non de' semi l'unïon concorde

Che stringer possa entro a se stessa il vôto:

Può dunque la materia esser eterna,

Benchè sia frale ogni altra cosa al mondo;

Mentr'ella è pur d'impenetrabil corpo.

Aggiungi ancor; che se non fosse il vôto,

Pieno sarebbe il tutto; e se non fossero

Gl'invisibili corpi, il mondo affatto

Vôto sarebbe: egli è composto adunque

Di due cose fra lor molto diverse,

Cioè de' corpi e dello spazio vôto;

Non essendo nè vôto in ogni parte,

Nè pel contrario in ogni parte pieno.

Gl'invisibili corpi adunque sono,

E distinguon dal pieno il vôto spazio.

Questi mai non offende esterna forza:

Per dissipare ogni percossa è vana

La loro indissipabile sostanza:

Poichè nulla che sia di vôto privo

Non par che possa esser urtato in modo

Ch'e' si spezzi in due parti e si divida,

Nè dar luogo all'umore al freddo al caldo

Ond'ogni cosa vien ridotta al fine;

Ma, quanto più di vôto in se racchiude,

Tanto più penetrato agevolmente

Dagli esterni nemici è poi distrutto.

Dunque, se i primi corpi impenetrabili

Sono e senz'alcun vôto è forza al certo,

Com'io già t'insegnai, ch'e' sieno eterni.

S'eterna in oltre la materia prima

Stata non fosse, al nulla omai ridotto

E dal nulla rinato il tutto fôra:

Ma, perchè chiaro io t'ho già mostro avanti

Che nulla mai si può crear dal nulla

Nè mai cosa creata annichilarsi,

Forza è pur confessar che i primi semi

Sian di corpo immortale, in cui si possa

Dissolver finalmente ogni altro corpo,

Acciò che sempre la materia in pronto

Sia per rifar le già disfatte cose.

Per lor simplicità dunque i principii

Son pieni impenetrabili ed eterni:

Nè ponno in altra guisa esser rifatte

Le cose mai per infinito tempo.

Al fin: se la natura alcun prescritto

Termine non avesse allo spezzarsi,

Sariano a tal della materia i corpi

Ridotti omai nella trascorsa etade,

Che non avrebbe mai nessun composto

Da molto tempo in qua passar potuto

Della sua verde età l'ultimo fiore;

Poichè, per quanto è manifesto al senso,

Muor più presto ogni cosa e si dissolve

Che dopo non rinasce e si restaura:

Onde, ancor tuttavia spezzando il tempo

Ciò che già mille volte avesse infranto

La lunga anzi infinita età trascorsa,

Non potrebbe giammai rifarlo appieno.

Or; perchè ristorar vedesi il tutto

E da natura aver prescritto il tempo,

Onde possa toccar l'ultima mèta

Dell'età sua; dunque prefisso è pure

Al romper delle cose un certo fine.

S'arroge a ciò: ch'essendo i corpi primi

Di dura anzi infrangibile sostanza,

Può non pertanto agevolmente farsi

Tenero e molle il ciel la luce il foco

L'aria il vento il vapor l'acqua e la terra

Sol col mischiare entro alle cose il vôto:

Ma; se per lo contrario i primi semi

Fosser teneri e molli; onde potrebbe

Farsi il ferro, il diaspro e l'adamante,

Mentre mancasse alla natura affatto

D'ogni durezza il fondamento primo?

Per lor simplicità dunque i principii

Son pieni, impenetrabili ed eterni;

E per loro unïon posson le cose

Più e più condensarsi e mostrar forza.

Perchè in somma è prescritto un termin certo

A ciò che cresce e si conserva in vita,

E ciò che possa e che non possa oprare

Per naturale invïolabil legge

Incommutabilmente è stabilito,

In guisa tal ch'ogni dipinto augello

Mostra nel corpo suo le stesse macchie

Che ciascun altro di sua specie mostra;

Fie pure d'invarïabile sostanza

Il primo seme suo: perchè, se i corpi

Della prima materia in alcun modo

Si potesser mutare, incerto ancora

Quel che nasca o non nasca omai sarebbe

Ed in qual guisa sia prescritto al tutto

Terminata potenza e certo fine;

Nè men potrian generalmente i secoli

Ricondur mai de' genitori al mondo

La natura, i costumi, il moto e 'l vitto.

In oltre ancor: perchè l'estremo termine

Di qualsivoglia corpo è pur qualcosa,

Benchè più non soggiaccia ai sensi nostri;

Forz'è che senza parti e indivisibile

Sia per natura, e ch'e' non fosse mai

Separato da sè, nè sia per essere

Mentr'egli stesso è prima parte ed ultima,

Onde l'altre e poi l'altre a lui simìli

Per ordine disposte al corpo danno

La dovuta grandezza; or, perchè queste

Star non posson per sè, d'uopo han d'appoggio

Nè diveglier si ponno in alcun modo.

Per lor simplicità dunque i principii

Son pieni, impenetrabili ed eterni

Ed han l'indivisibili lor parti

Con forti lacci collegate e strette;

Nè già per l'unïon d'altri principii

Creati furo; anzi piuttosto è d'uopo

Ch'eterna sia la lor simplicitade:

Talchè mai la natura non consente

Che nulla sia di lor staccato, ond'essi

Scemin di mole; conciossiachè i primi

Semi alle cose dee serbare intatti.

In oltre: se da noi non si concede

Il minimo fra' corpi, egli è mestiero

Dir poi che tutti d'infinite parti

Composti sian, mentrechè sempre il mezzo

Il mezzo avrà nè alcuna cosa mai

Porrà loro alcun termine. Qual dunque

Differenza addurrem fra l'universo

Intero e qual si sia più picciol corpo?

Nïuna al mio parer: poichè, quantunque

Sia l'universo d'ogn'intorno immenso,

Pur quei corpi eziandio, che per natura

Piccolissimi son, di lui non meno

Sarian composti d'infinite parti:

Il che poi riclamando ogni verace

Ragion com'incredibile rifiuta.

Sicchè d'uopo fia pur, che vinto al fine

Tu confessi che al mondo alcuni corpi

Trovansi che di parti affatto privi

E per natura lor minimi sono:

Ond'essendo pur tali, è forza al certo

Che sian pieni, infrangibili ed eterni.

Se la natura alfin che il tutto crea

Non solesse sforzare a dissiparsi

In parti indivisibili le cose,

Già non potria restaurar con esse

Nulla di ciò che si dissolve e muore;

Poi che quel che di parti onde s'accresca

Non è composto aver giammai non puote

Ciò ch'aver dènno i genitali corpi,

Cioè vari fra lor legami e pesi

E percosse e concorsi e movimenti,

Onde nasce ogni cosa e divien grande.

Se fine in somma allo spezzar de' corpi

Stabilito non fosse; or come alcuni

Superando ogn'intoppo avrian potuto

Per infinito tempo omai trascorso

Fino alla nostra età serbarsi intatti?

Chè scorda molto il rimanere illeso

Ciò c'ha frale natura, eterno tempo

Da colpi innumerabili percosso.

Quindi, chi si pensò che delle cose

Fosse prima materia il foco solo

Fu dal vero discorso assai lontano.

Primo duce di questi armato in campo

Eraclito si mostra, ed è piuttosto

Per l'oscuro parlar fra i vani illustre

Che tra chi cerca il vero uom saggio e grave:

Ch'amare ed ammirar soglion gli sciocchi

Più quelle cose che nascoste trovano

Fra più dubbie parole e più stravolte,

E sol prestan credenza a quei concetti

Che titillan l'orecchie e con sonora

E soave armonia lisciati sono.

Ma se, di vero e puro foco il tutto

Creato fosse, onde potrian al mondo

Nascer cose giammai tanto diverse?

Poichè nulla giovar dovria che 'l foco

Divenisse or più denso ed or piu raro,

Se le parti del foco avesser tutte

Di tutto il foco la natura stessa;

Giacch'egli unito avria l'ardor più intenso

E più languido poi disperso e sparso.

Ma nulla in oltre imaginar ti puoi

Che da causa simìl possa formarsi,

Non che si crein da foco denso e raro

Cose al mondo fra lor sì varie e tante.

Oltre che; se costoro il vôto spazio

Mescolasser fra 'l pieno, il foco al certo

Potrebbe rarefarsi e condensarsi:

Ma per non gire a molti dubbi incontra,

Stanno sospesi, e non s'arrischian punto

A conceder fra 'l pieno il vôto spazio;

E, mentre temon le contrarie cose,

Perdon la via d'investigare il vero;

Nè san che, tolto dalle cose il vôto,

D'uopo è che tutte si condensin tosto,

E si formi di tutte un corpo solo

Che nulla mai rapidamente possa

Scacciar da sè, come la fiamma accesa

Lo splendore e l'ardor da sè discaccia:

Onde ognun dee pur confessar che il foco

Non è composto di stivate parti.

Che s'e' credon ch'e' possa in qualche modo

Unito dissiparsi e cangiar forma,

Non veggon poi che, concedendo questo,

Forza è che 'l foco si corrompa in nulla

Tutto e del nulla anco rinasca il tutto:

Poichè, qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Questo è sua morte, e non è più quel desso:

Onde è mestier che qualche parte intatta

Ne resti, acciò che 'l tutto omai non torni

Al nulla e poi del nulla anco rinasca.

Or dunque; perchè sono alcuni corpi

Che serban sempre una medesma essenza,

Per l'entrata de' quai, per la partita

E per l'ordin cangiato il tutto cangia

Natura e si trasforma in nuove forme;

Sappi ch'essi non ponno esser di foco:

Poichè indarno partirsi ire e tornare

Potrìano alcuni, altri venirne ed altri

Varïare il primiero ordine e sito;

Giacchè, se tutti per natura ardessero,

Tutto ciò che si crea foco sarebbe.

Ma cosi va, s'io non m'inganno: alcuni

Corpi sono nel mondo, i cui concorsi,

Gli ordini i moti le figure i siti

Far ponno il foco, e l'ordin poi mutando

Mutan anco natura, e più non sono

O foco o fiamma od altro corpo ardente

Che vibri al senso le sue parti e possa

Toccar con l'accostarsi il nostro tatto.

Il dir poi ch'ogni cosa è foco puro

E che nulla è di vero altro che 'l foco,

Com'Eraclito volle, a me rassembra

Sogno d'infermi o fola di romanzi:

Poich'al senso repugna il senso stesso,

E quello snerva ond'ogni creder pende

E onde egli medesimo conobbe

Quel corpo che da noi foco si chiama;

Già ch'ei crede che 'l senso il foco solo

Veramente conosca e poi null'altro

Di quel che punto è non men chiaro al senso.

Il che falso non pur, ma parmi ancora

Sogno d'infermi o fola di romanzi.

Ch'ove ricorrerem? qual cosa a noi

Fia più certa giammai de' nostri sensi,

Onde il vero dal falso si discerna?

In oltre: ond'è che tu piuttosto ogni altra

Cosa tolga dal mondo, e lasci solo

La natura del caldo, il che poi neghi

Esser il foco, e non pertanto ammetta

La somma delle cose? a me par certo

Tanto l'un quanto l'altro egual pazzia.

Quindi; chi si pensò che delle cose

Fosse il foco materia e che di foco

Potesse al mondo generarsi il tutto,

E chi fe primo seme o l'aria o l'acqua

O pur la terra per sè stessa e volle

Ch'una sol cosa si trasformi in tutte,

Par che lungi dal vero errando gisse.

Aggiungi ancor chi delle cose addoppia

Gli alti principii e l'aria aggiunge al foco

O la terra all'umore, e chi si pensa

Che di quattro principii il tutto possa

Generarsi, di fuoco, aria, acqua e terra.

De' quali il primo Empedocle chiamossi,

Uom greco, e che per patria ebbe Agrigento:

Città ch'è posta entro il paese aprico

Dell'isola triforme intorno cinta

Con ampii anfrati dall'Ionio mare,

Ch'ondeggiando continuo il lido asperge

D'acque cerulee, e per angusta foce

Rapidissimo scorre, e si divide

Dall'italiche spiagge i suoi confini.

È qui Scilla e Cariddi, e qui minaccia

Con orrendo fragor l'etneo gigante

Di risvegliar gli antichi sdegni e l'onte

E di nuovo eruttar dall'ampie fauci

Contro il nemico ciel folgori ardenti.

Oltr'a tai meraviglie, il suol benigno

Di cortesia di gentilezza ornata

Qui produce la gente; e qui cotanto

D'uomini illustri e d'ogni bene abbonda,

Che per cosa mirabile s'addita.

Ma non sembra però che qui nascesse

Cosa mai più mirabil di costui,

Nè più bella e gentil, più cara e santa.

Se non se forse in Siracusa nacque

Il divino Archimede, e nuovamente

Nella nobil Messina il gran Borelli

Pien di filosofia la lingua e 'l petto,

Pregio del mondo e mio sommo e sovrano,

Mio maestro, anzi padre, ah! più che padre.

Dell'eccelsa sua mente i sacri versi

Cantansi d'ogni intorno; e vi s'impara

Sì dotte invenzïoni e sì preclare,

Che credibil non par ch'egli d'umana

Progenie fosse. Ei non pertanto, e gli altri

Che di sopra io contai di lui minori

Molto in molte lor parti; ancor che molti

Ottimi insegnamenti, anzi divini

Dal profondo del cuor quasi responsi

Dessero altrui, molto più santi e certi

Di quei ch'è fama che dal sagro lauro

Di Febo e dalle pitie ampie cortine

Uscisser già; pur, com'io dissi, erraro

Intorno a' primi semi, e gravemente

Fecer quivi inciampando alta caduta.

Pria: perchè, tolto dalle cose il vôto,

Muover le fanno, e lascian rari e molli

Il cielo il foco il sol l'acqua e la terra

Gli uomini gli animai le piante e l'erbe

Senza mischiar entro alle cose il vôto.

Poi: perchè fan ch'allo spezzar de' corpi

Non sia prescritto da natura un fine,

Nè parte alcuna indivisibil danno:

E pur veggiam che d'ogni cosa il termine

È quel ch'al senso indivisibil sembra;

Onde tu possa argomentar da questo

Anco quel che mirar non puoi con gli occhi.

Cioè, che, essendo circoscritte, è forza

Ch'abbian l'indivisibile le cose.

S'arroge a ciò; che la materia prima

Voglion che molle sia: ma quel ch'è molle

Spesso stato cangiando or nasce or muore:

Per la qual cosa omai disfatto il tutto

Sariasi in nulla mille volte e mille,

E mille e mille volte anco rifatto:

Il che ben sai quanto dal ver sia lungi

Per le ragioni mie di sopra addotte.

Senza che; son nemiche in molti modi

Fra lor le cose molli e rio veleno

Esse a sè stesse; onde o perir dovranno

Dopo fiera battaglia o fuggir tosto,

Qual, allor che tempesta in ciel si genera,

Fuggonsi i venti e le bufere e i fulmini.

Al fin: se può di quattro corpi soli

Ogni cosa crearsi, e poi di nuovo

In quegli stessi dissiparsi il tutto;

Dimmi, per qual cagione essi piuttosto

Debbonsi nominar principii primi

D'ogni altra cosa? ch'all'incontro ogni altra

Cosa chiamarsi lor principio primo?

Giacch'essi alternamente in ogni tempo

Puon generarsi e varïar colore

E tutt'anco fra lor l'interna essenza.

Ma se forse dirai che possa il corpo

Della terra e del foco unirsi in modo

Con l'aura aerea e con l'umor dell'acque,

Che di quattro principii alcun non cangi,

Per cotale unïon, forma e natura;

Nulla di lor potrà crearsi mai,

Non l'alme, o ciò che senza mente ha vita,

Com'i bruti e le piante e l'erbe e i fiori;

Conciossiachè ciascuno in tal concorso

Della propria sostanza apertamente

Mostrerà la natura, ivi vedrassi

Starsi l'aria e la terra, il foco e l'acqua

Mescolati fra lor: ma i primi semi

Onde si debbon generar le cose

Mestiero è pur che di natura occulta

E cieca siano, acciò nessun prevaglia

E lite agli altri e cruda guerra muova;

Onde si vieti poi che nulla possa

Mai propriamente generarsi al mondo.

Anzi che questi infin dal cielo immenso

E dalle fiamme sue chiamano il foco;

E voglion pria ch'e' si trasformi in aria,

Quindi in acqua si cangi e quindi in terra;

E poi di nuovo, ritornando indietro

Fan produr dalla terra ogni elemento,

L'acqua pria, dopo l'aria e poscia il foco:

Nè, che cessin giammai di trasmutarsi

Tai cose insieme, alcun di lor concede;

Ma che sempre dal ciel scendano in terra,

Ed ognor dalla terra in ciel sormontino.

Il che far non si debbe in guisa alcuna

Dalla prima materia: anzi è pur d'uopo

Che qualche cosa invarïabil resti,

Acciò che affatto non s'annulli il tutto:

Poichè qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Quest'è sua morte, e non è più quel desso.

Or, se l'aria e la terra il foco e l'acqua

Si trasmutan fra lor, dunque non ponno

Primi semi chiamarsi; anzi conviene

Che sian d'altri principii incommutabili

Composti anch'essi, acciocchè il tutto al nulla

Non torni in un momento. Onde piuttosto

Pensa che siano i genitali corpi

Di tal natura, che, se forse il foco

Prodotto avran, toltine alcuni ed altri

Aggiunti, e varïando ordine e moto,

Possan l'aria crear l'acqua e la terra,

E che nel modo stesso ogni altra cosa

Perda la propria essenza e si trasformi.

Ma forse mi dirai — Chiaro è che 'l tutto

Cresce da terra in aria e vi si nutre:

E s'a' debiti tempi ancor non scende

Pioggia che irrighi alla gran madre il seno,

E se vita e calor non gli comparte

Co' suoi lucidi raggi il sol cortese,

Muoion le biade gli animai le piante. —

Anzi gli uomini stessi, affatto privi

D'arido pane e d'umid'acqua o vino,

Perdono il corpo; e con il corpo ancora

Tutta da tutti i nervi e tutte l'ossa

Gli si scioglie la vita e fugge l'alma.

Essi dunque han ristoro e nutrimento

Da certo cibo: e pur da certo cibo

Altri ed altri animali ed altre cose

Similmente han ristoro e nutrimento.

Che, essendo molti primi semi e molti

Comuni in molti modi a molti corpi

Mescolati fra lor, forza è che 'l vitto

Da varie cose varie cose prendano.

E spesso anco oltre a ciò non poco importa

Con quai sian misti, come posti, e quali

Movimenti fra lor diano e ricevano:

Poichè forman gli stessi il cielo, il mare;

Gli stessi ancor la terra, i fiumi, il sole,

Gli uomini, gli animai, l'erbe e le piante,

Mentre mischiati in varie guise insieme

Si muovon variamente. Anzi tu stesso

Poui sovente veder ne' nostri versi

Esser comuni a molte voci e molte

Molti elementi; e non pertanto è d'uopo

Dir ch'abbia ogni parola ed ogni verso

Vario significato e vario suono;

Chè tanto di possanza han gli elementi

Con la mutazïon dell'ordin solo.

Ma credibil è ben che i primi semi

Abbian più cause onde crear si possa

Tutte le cose di che 'l mondo è adorno.

Ma tempo è di pesar con giusta lance

D'Anassagora ancor l'omeomería

Mentovata da' Greci, e che non puossi

Da noi ridir nella paterna lingua

Con un solo vocabolo, ma pure

Facil sarà che la si spieghi in molti.

Pensa egli adunque che 'l principio primo,

Che da lui vien chiamato omeomería,

Altro non fosse ch'una confusione

Una massa un mescuglio d'ogni corpo,

In guisa tal che il generar le cose

Solamente consista in separarle

Dal comun caos ed accozzarle insieme;

E così l'ossa di minute e piccole

Ossa si creino, e di minute e piccole

Viscere anco le viscere si formino,

Da più gocce di sangue il sangue nasca,

Da più bricioli d'òr l'oro si generi,

Cresca la terra di minute terre,

Di foco il foco, l'acqua d'acqua; e finge

Ch'ogn'altra cosa in guisa tal si faccia;

Nè concede fra 'l pieno il vôto spazio,

Nè termin pone allo spezzar de' corpi.

Onde a me par, quand'io vi penso, ch'egli

E nell'uno e nell'altro erri egualmente,

Come color che poco avanti io dissi.

Aggiungi ch'egli delle cose i semi

Troppo deboli fa; se pure i semi

Per natura fra lor sono uniformi

Anzi son pur le stesse cose; et hanno

Egual travaglio egual periglio, e nulla

Può frenarli giammai nè proibirli

Che non corrano a morte. E qual è d'essi

Che mille e mille colpi, urti e percosse

A soffrir basti, e finalmente anch'egli

Non muoia o si dissolva? il foco o l'acqua

O l'aere? qual di questi? il sangue o l'ossa?

Nessun, cred'io, mentr'egualmente tutti

Sarian mortali, in quella guisa appunto

Che l'altre cose manifeste al senso

Son mortali anche lor, poi che perire

Con gli occhi stessi pur si veggon tutte

Da qualche vïolenza oppresse e vinte.

Ma tu già sai ch'annichilar non puossi

Nulla nè nulla anco crear dal nulla.

In oltre: perchè il cibo accresce e nutre

Il nostro corpo, è da saper ch'abbiamo

E le vene ed i nervi e 'l sangue e l'ossa

Miste e composte di straniere parti.

E, se diranno esser mischiati i cibi

Di più sostanze e corpicciuoli avere

D'ossa e di nervi e di vene e di sangue,

D'uopo sarà che 'l secco cibo e 'l molle

Composto sia di forestiere cose,

Anzi null'altro sia ch'un guazzabuglio

D'ossa e di sangue e di vene e di nervi.

In oltre: tutto ciò che in terra nasce

S'egli quivi si trova, è pur mestieri

Che sia la terra di stranieri corpi

Anch'ella un seminario: e con le stesse

Parole appunto argomentar ne lice

D'ogni altra cosa; onde, se 'l legno occulta

La cenere, il carbon, la fiamma e 'l foco,

Di forestiere parti il legno è fatto.

Or qui parmi che resti un solo scudo

Debile e mal sicuro, onde schermirsi

Anassagora tenta. Ei crede adunque

Che sia mischiato in ogni cosa il tutto

E dentro vi si celi; ma che quello

Un tal corpo apparisca e non un altro,

In cui più misti sono ed al di fuori

Più collocati e nella prima fronte:

Il che pur nondimen lungi è dal vero.

Chè convenia che le minute biade

Sovente ancor da duri sassi infrante

Desser segno di sangue o d'altra cosa

Di cui si nutra il nostro corpo, e sangue

Grondasse dalle pietre allor che l'una

Si stritola con l'altra: e l'erbe ancora

Per la stessa ragione e l'acque insipide

Stillar dovrian di bianco latte e dolce

Soavissime gocce, appunto come

Stillan le mamme dell'irsute pecore;

E della terra le spezzate zolle

Mostrarne erbe diverse e frondi e biade

Minutamente per la terra sparse,

Prima occulte a' nostr'occhi e poi palesi:

Sminuzzando le legna anco vedremmo

Picciole particelle ivi celarsi

E di fumo e di cenere e di foco.

Le quali tutte cose il senso stesso

Esser false n'accerta: onde a me lice

Dedur che misto in ogni cosa il tutto

Esser non può, ma ben convien che i semi

Comuni a molti corpi in molti corpi

Sian mischiati ed occulti in molti modi.

Ma sento un che mi dice — In su gli alpestri

Monti spesso addivien che l'alte piante

Fregan sì le vicine ultime cime

L'una con l'altra, a ciò forzate e spinte

Dal gagliardo soffiar d'austro e di coro,

Che foco n'esce onde s'alluma il bosco. —

Or questo è ver: ma non pertanto innato

Non è l'ardor negli alberi; ma molti

Semi vi son di foco, i quai per quello

Vïolento fregar s'uniscon tosto

Ed accendon le selve: chè, se tanta

Fiamma nascosta entro alle piante fosse,

Non potrebbe giammai celarsi il foco,

Ma serpendo per tutto in un momento

Ogni selva arderebbe ed ogni bosco.

Vedi tu dunque per te stesso omai

Quel che poc'anzi io dissi: importa molto

Come sian misti i primi semi e posti

E quai moti fra lor diano e ricevano;

E puon gli stessi varïati alquanto

Far le legna e le fiamme, appunto come

Puon gli elementi varïati alquanto

Formare et arme et orme e rima e Roma.

Al fin: se ciò ch'è manifesto agli occhi

Credi che non si possa in altra guisa

Crear che di materia a lui simíle,

Perdi 'n tal modo i primi semi affatto;

Poich'è mestier che tremoli e lascivi

Si sganascin di risa, e che di lagrime

Bagnino amaramente ambe le guance.

Su dunque or odi, e viepiù chiaro intendi

Ciò che da dir mi resta. E ben conosco

Quanto sia malagevole ed oscuro:

Ma gran speme di gloria il cor percosso

M'ha già con sì pungente e saldo sprone,

Et insieme ha svegliato entro al mio petto

Un così dolce delle muse amore,

Ch'io stimolato da furor divino

Più di nulla non temo, anzi sicuro

Passeggio delle nove alme sorelle

I luoghi senza strada, e da nessuno

Mai più calcati. A me diletta e giova

Gire a' vergini fonti e inebrïarmi

D'onde non tocche. A me diletta e giova

Coglier novelli fiori, onde ghirlanda

Peregrina ed illustre al crin m'intrecci,

Di cui fin qui non adornâr le muse

Le tempie mai d'alcun poeta tôsco.

Pria, perchè grandi e gravi cose insegno,

E seguo a liberar gli animi altrui

Dagli aspri ceppi e da' tenaci lacci

Della religïon; poi, perchè canto

Di cose oscure in così chiari versi,

E di nèttar febeo tutte le spargo.

Nè questo è, come par, fuor di ragione:

Poichè; qual, se fanciullo a morte langue,

Fisico esperto alla sua cura intento

Suol porgergli in bevanda assenzio tetro,

Ma pria di biondo e dolce mèle asperge

L'orlo del nappo, acciò gustandol poi

La semplicetta età resti delusa

Dalle mal caute labbra e beva intanto

Dell'erba a lei salubre il succo amaro,

Nè si trovi ingannata anzi piuttosto

Sol per suo mezzo abbia salute e vita;

Tal appunto or facc'io, perchè mi sembra

Che le cose ch'io parlo a molti indòtti

Potrian forse parer aspre e malvage,

E so che 'l cieco e sciocco volgo abborre

Da mie ragioni. Io perciò volsi, o Memmo,

Con soave eloquenza il tutto espórti;

E quasi asperso d'apollineo mèle

Te 'l porgo innanzi, per veder s'io posso

In tal guisa allettar l'animo tuo,

Mentre tu vedi in questi versi miei

Quanto dipinta sia l'alma natura

Vaga, adorna, gentil, leggiadra e bella.

Ma; perch'io già mostrai che i primi corpi

Infrangibili sono, e sempre invitti

Volano eternamente; or su veggiamo

Se la somma di tutti abbia prescritto

Termine o no: e; perchè il vôto ancora,

O luogo o spazio ove si forma il tutto,

Parimente trovossi; esaminiamo

S'egli sia circoscritto o pur s'estenda

Profondissimamente in tratto immenso.

Il tutto adunque in infinito è sparso

Per ogni banda: poich'aver dovrebbe

Qualche termine estremo, il qual non puote

Aver nulla giammai s'un'altra cosa

Non è fuori di lui che lo circondi:

Ma, perchè fuor del tutto esser non puote

Niente al certo, ei non ha dunque alcuno

Termine o fine o mèta: e non importa

In qual parte tu sia; qualunque luogo

Che tu possegga, d'ogni intorno lascia

Egualmente altro spazio in infinito.

In oltre: dato che finito fosse

Tutto quant'è lo spazio, io ti domando:

S'alcun giungesse all'ultimo confine

E fuor vibrasse una saetta alata,

Che vuoi piuttosto? ch'ella spinta innanzi

Dalla robusta man volando gisse

Là dove fosse indirizzata? o pensi

Che qualche cosa le impedisse il moto?

Qui d'uopo è pur che l'uno o l'altro accetti

E lo creda per ver: ma l'un e l'altro

Ti racchiude ogni scampo, anzi ti sforza

A confessar l'immensità del mondo:

Poichè, o venga impedita e le sia tolto

Il girne ove fu spinta o fuor se 'n voli,

Esser non può nell'ultimo confine

Dell'universo. E nella stessa guisa

Seguirò l'argomento incominciato,

E, dovunque tu ponga il fine estremo,

Domanderotti ciò che finalmente

Alla freccia avverrà. Confessa dunque

Che incircoscritto è 'l mondo e che non hai

Da sì fatte ragioni onde schermirti.

In oltre ancor: se terminato fosse

D'ogni intorno lo spazio ove la somma

Si genera del tutto, i primi semi

Spinti dal proprio peso all'imo fondo

Già sarebber concorsi, e sotto il cielo

Nulla potria formarsi; anzi non fôra

Più nè cielo nè sole, ove giacesse

Confusa in una massa ogni materia

Fin da tempo infinito in giù caduta.

Ma or non è concesso alcun riposo

A' corpi de' principii, perchè l'imo

Centro dell'universo in van si cerca

Ove concorrer tutti, ove la sede

Possan fermare; e con perpetuo moto

Si genera ogni cosa in ogni parte,

E per tempo infinito omai commossi

Della prima materia i corpi eterni

Son sempre in pronto in questo spazio immenso.

Finalmente abbiam posto innanzi agli occhi

Che l'un corpo dall'altro è circoscritto:

L'aer termina i colli, e l'aura i monti,

La terra il mare, il mar la terra: e nulla

Non è che fuor dell'universo estenda

I suoi propri confini. È la natura

Del luogo adunque e del profondo spazio

Tal, ch'i fiumi più torbidi e più rapidi

Non potrebber correndo eternamente

Giungerne al fin giammai, nè far che meno

Da correr li restasse. Or così grande

Copia di luogo han d'ogn'intorno i corpi

Senza fin, senza mèta e senza termine.

Che poi la somma delle cose un fine

A sè medesma apparecchiar non possa

Ben provide natura. Essa circonda

Sempre col vôto il corpo, ed all'incontro

Col corpo il vôto, e così rende immenso

L'uno e l'altro di lor. Chè, s'un de' due

Fosse termin dell'altro, egli fuor d'esso

Troppo si stenderebbe; e non potria

Durar nell'universo un sol momento,

Nè la terra nè 'l mar nè i templi lucidi

Delle stelle e del sol nè l'uman genere

Nè degli dèi superni i santi corpi:

Conciossiachè, scacciati i primi semi

Dalla propria unïon, liberi e sciolti

Correr dovrian per lo gran vano a volo;

O piuttosto non mai sariansi uniti

Nè generato alcuna cosa al mondo

Avrian; poichè scagliati in mille parti

Non avrebber potuto esser congiunti.

Chè certo è ben ch'i genitali corpi

Con sagace consiglio e scaltramente

Non s'allogâr per ordine nè certo

Seppe ciascun di lor che moti ei desse;

Ma, perchè molti in molti modi e molti

Varïati per tutto e già percossi

Da colpi senza numero, ogni sorte

Di moto e d'unïon provando, al fine

Giunsero ad accozzarsi in quella forma

Che già la somma delle cose mostra

E ch'ella ancor per molti lunghi secoli

Ha già serbato e serba: poichè, tosto

Ch'ell'ebbe una sol volta i movimenti

Confacevoli a lei, potette oprare

Sì, che l'avido mar ritorni intero

Per l'onde che da' fiumi in copia grande

Vi concorrono ognora, e che la terra

Ristorata dal sol rinnovi i parti,

Fertile il suol d'ogni animal fiorisca,

E dell'etere in somma ancor che labili

Vivan l'auree fiammelle: il che per certo

Far non potrian, se la materia prima

Non sorgesse per tutto e ristorasse

Ciò che nel mondo ad or ad or vien meno.

Poichè, qual senza pasto ogni animale

Disperde in varie parti il proprio corpo,

Tal appunto dovrian tutte le cose,

Se gli mancasse il consueto cibo

Della materia, dissiparsi anch'elle.

Nè colpo esterno vi sarebbe alcuno

Bastante a conservarle. I corpi in vero,

Che l'urtan d'ogni intorno, assai sovente

Ponno in parte impedirle infin che giunga

Materia che supplisca a ciò che manca:

Ma pur talvolta ripercossi indietro

Saltano, e insieme a' primi semi danno

Luogo e tempo alla fuga, ond'ognun d'essi

Sciolto da' lacci suoi ratto se 'n vola.

Dunqu'è mestier che d'ogn'intorno germini

Molta prima materia, anzi infinita,

Acciò restauri il tutto e l'urti e 'l cinga.

Or sopra ogni altra cosa avverti, o Memmo,

Di non dar fede a quel che dice alcuno;

Cioè, ch'al centro della somma il tutto

D'andar si sforza, e che in tal guisa il mondo

Privo è di colpi esterni, e mai non ponno

Dissiparsi e fuggirsi in altro luogo

I sommi corpi e gl'imi, avendo tutti

Natia propensïon di gire al centro

(Se credi pur che qualche cosa possa

In sè stessa fermarsi, e che quei pesi

Ch'or sono in terra di poggiar si sforzino

Tutti per aria e poi di nuovo in terra

Ricadendo posarsi, appunto come

Veggiam far delle cose ai simolacri

Per entro alle chiar'onde e negli specchi):

E nella stessa guisa ogni animale

Voglion che vaghi in terra, e che non possa

Quindi altramente sormontare in cielo

Nulla che sia quaggiù, che i corpi nostri

Possan leggieri e snelli a lor talento

Volarne all'etra ed abitar le stelle;

Mentre alcuni di noi mirano il sole,

Altri mirar della trapunta notte

I lucidi carbonchi, e le stagioni

Varie dell'anno e i giorni lunghi e i brevi

Con moto alterno esser fra noi divisi

Dal gran pianeta che distingue l'ore.

Ma tutto questo abbia pur finto ad essi

Un vano error, poi che balordi e ciechi

Per non dritto sentier s'incamminaro.

Chè centro alcuno esser non puote al certo

Ove immenso è lo spazio; e, se pur centro

Vi fosse, per tal causa ei non potrebbe

Ivi piuttosto alcuna cosa starsi

Che in qualsivoglia regïon lontana.

Poi ch'ogni luogo ed ogni vôto spazio

E per lo centro e fuor del centro deve

Egualmente lasciar libero il passo

A peso eguale ovunque il moto ei drizzi:

Nè l'intero universo ha luogo alcuno

Ove giungendo finalmente i corpi

Perdono il peso e si ristian nel vôto:

Nè ciò ch'è vôto resistenza farli

Potrà giammai nè raffrenarli il corso,

Ovunque la natura gli trasporti.

Dunque le cose in guisa tale unite

Star non potranno a ciò forzate e spinte

Dal nativo desio di gire al centro.

In oltre: ancora essi non fan che tutte

Corrano al centro, ma la terra e l'onde

Del mar de' fiumi e delle fonti, e solo

Ciò ch'è composto di terreno corpo.

Ma pel contrario poi voglion che l'aria

Lungi se 'n voli e similmente il foco:

E che per questo d'ogn'intorno in cielo

Scintillino le stelle e 'l sol fiammeggi,

Perchè fuggendo dalla terra il caldo

Al ciel sen poggi e vi raccolga il foco

(Poichè pur della terra anco si pasce

Ogni cosa mortal; nè mai potrebbero

Gli alberi produr frutti o fiori o frondi,

Se a poco a poco la gran madre il cibo

Non gli porgesse). Ma di sopra poi

Credon che un ampio ciel circondi e copra

Tutte le cose; acciò d'augelli in guisa

I recinti di fiamme in un baleno

Non fuggan via per lo gran vano a volo,

E che nel modo stesso ogni altra cosa

Si dissolva in un tratto e del tonante

Cielo il tempio superno in giù rovini,

E che di sotto a' piè ratto s'involi

Il nostro globo ascosamente, e tutti

Fra precipizi in un confusi e misti

Della terra e del cielo i propri corpi

Dissolvano in più parti e corran tosto

Pel vôto immenso; onde in un sol momento

Di tante meraviglie altro non resti

Che lo spazio deserto e i ciechi semi.

Poichè, in qualunque luogo i corpi restino

Privi di freno, in questo luogo appunto

Spalancata una porta avran le cose

Per gire a morte; ed ogni turba quindi

Della prima materia in fuga andranne.

Or; se tu leggerai quest'operetta

Attentissimamente, e tutto quello

Ben capirai ch'io ci ragiono dentro;

L'una causa dall'altra a te fia nota;

Nè cieca notte omai potrà impedirti

L'incominciata via, che ti conduce

Di natura a mirar gl'intimi arcani:

Sì le cose alle cose accenderanno

Lume che mostri alla tua mente il vero.

 

 

LIBRO SECONDO

 

Argomento

 

Il Poeta, dopo le lodi della filosofia, al cui studio eccita Memmo, continua a trattare delle qualità degli atomi e in ispecie del loro movimento. — I mutamenti continui a cui vanno sottoposti i corpi non ci permettono di supporre che la materia sia immobile. Donde: 1. il moto è essenziale agli atomi, perchè non v'ha centro ove possano mai fermarsi; 2. questo moto è rapidissimo sopr'ogni altro, perchè il suo teatro essendo il vôto, non ha alcun ostacolo che lo trattenga; 3. la direzione di questo moto è dall'alto al basso, e se alcuni corpi s'elevano come la fiamma, è uno stato forzato, contrario alla loro tendenza propria e naturale; 4. tuttavia non dee credersi che la caduta degli atomi sia rigorosamente perpendicolare; paralleli tra loro non avrebbero mai potuto unirsi in massa: sottoposti ad una direzione necessaria, non avrebbero potuto mai formare anime libere. Bisogna pertanto che si allontanino un poco, ma il meno possibile dalla direzione perpendicolare. Tali sono i moti che gli atomi ebbero sempre e sempre avranno, perchè la quantità di moto è sempre la stessa nella natura. Ecco quanto la ragione ci scopre; perchè i sensi non possono veder l'atomo, non che discernerne i moti. La ragione altresì ci fa conoscere le figure degli atomi; essa ne dice che i corpi i quali ci attorniano non potrebbero impressionare i nostri sensi in tanti modi diversi, se i loro atomi non fossero diversamente configurati. Ma al medesimo tratto essa c'insegna che, sebbene ci sia una infinità di atomi in ogni classe di figure, il numero di queste classi è limitato; non potrebbe essere infinito senza che l'atomo fosse immenso, e le qualità sensibili dei corpi progressive all'infinito. Questo numero poco considerevole di figure, combinato diversamente in tutti i corpi, basta a mettere fra essi quella varietà che vi si scorge. La solidità, l'indivisibilità, l'eternità, il moto e la figura, sono le sole qualità che convengano a corpi semplici come son gli atomi. Rispetto alle qualità che si riferiscono alla vista, all'udito, al gusto e all'odorato, sono senza più il resultato d'un'associazione; attribuirla agli atomi, è dare una base troppo fragile alla natura. Pertanto gli atomi non sono neppure sensibili, e dalla loro situazione e dai loro moti rispettivi dee ripetersi la sensibilità che posseggono certi accozzamenti. Mercè di queste poche qualità che il poeta assegna agli atomi, essi hanno, al parer suo, prodotto non solo il nostro mondo, ma altresì un'infinità d'altri; perchè egli non vuole che si limiti la potenza della natura. Pretende che potendo disporre d'un numero infinito di atomi, quel ch'ella fa quaggiù per noi, lo fa per altri in altre regioni dello spazio, e che il nostro mondo è senza più un individuo particolare d'una classe numerosa, un grande animale, sottoposto, come gli altri, alla nascita, all'incremento, alla declinazione e alla morte.

 

Dolce è mirar da ben sicuro porto

L'altrui fatiche all'ampio mare in mezzo,

Se turbo il turba o tempestoso nembo;

Non perchè sia nostro piacer giocondo

Il travaglio d'alcun, ma perchè dolce

È se contempli il mal di cui tu manchi:

Nè men dolce è veder schierati in campo

Fanti e cavalli e cavalieri armati

Far tra lor sanguinose aspre battaglie.

Ma nulla mai si può chiamar più dolce

Ch'abitar, che tener ben custoditi

De' saggi i sacri templi onde tu possa,

Quasi da rôcca eccelsa ad umil piano,

Chinar tal volta il guardo, e d'ogn'intorno

Mirar gli altri inquïeti e vagabondi

Cercar la via della lor vita, e sempre

Contender tutti o per sublime ingegno

O per nobile stirpe, e giorno e notte

Durare intollerabili fatiche

Sol per salir delle ricchezze al sommo

E potenza acquistar, scettri e corone.

Povere umane menti, animi privi

Del più bel lume di ragione, oh quanta

Quant'ignoranza è quella che vi offende!

Ed oh fra quanti perigliosi affanni

Passate voi questa volante etade

Che ch'ella siasi! Or non vedete aperto

Che nulla brama la natura e grida

Altro già mai, se non che sano il corpo

Stia sempre e che la mente ognor gioisca

De' piaceri del senso e da sè lungi

Cacci ogni noia ed ogni tema in bando?

Chiaro dunque n'è pur che poco è 'l nostro

Bisogno, onde la vita si conservi,

Onde dal corpo ogni dolor si scacci.

Che s'entro a regio albergo intagli aurati

Di vezzosi fanciulli accese faci

Non tengon nelle destre, ond'abbian lume

Le notturne vivande emulo al giorno;

Se non rifulge ampio palagio e splende

D'argento e d'òr; se di soffitte aurate

Tempio non s'orna e di canore cetre

Risonar non si sente; ah che, distesi

Non lungi al mormorar d'un picciol rio

Che 'l prato irrighi, i pastorelli all'ombra

D'un platano selvaggio, allegri danno

Il dovuto ristoro al proprio corpo;

Massime allor che la stagion novella

Gli arride e l'erbe di be' fior cosperge.

Nè più tosto già mai l'ardente febbre

Si dilegua da te, se d'oro e d'ostro

E d'arazzi superbi orni il tuo letto,

Che se in veste plebea le membra involgi.

Onde, poscia che nulla al corpo giova

Onor ricchezza nobiltade o regno,

Creder anco si dee che nulla importi

Il rimanente all'animo: se forse,

Qualor di guerra in simolacro armate

Miri le squadre tue, non fugge allora

Ogni religïon dalla tua mente

Da tal vista atterrita, e non ti lascia

Il petto allora il rio timor di morte

Libero e sciolto e d'ogni cura scarco.

Che se tai cose esser veggiam di riso

Degne e di scherno, e che i pensier noiosi

Degli uomini seguaci e le paure

Pallide e macilenti il suon dell'armi

Temer non sanno e delle frecce il rombo;

Se fra' regi e potenti han sempre albergo

Audacemente, e non apprezzan punto

Nè dell'oro il fulgor nè delle vesti

Di porpora imbevute i chiari lampi;

Qual dubbio avrai che tutto questo avvenga

Sol per mancanza di ragione, essendo

Massime tutto quanto il viver nostro

Nell'ombra involto di profonda notte?

Poichè, siccome i fanciulletti al buio

Temon fantasmi insussistenti e larve,

Sì noi tal volta paventiamo al sole

Cose che nulla più son da temersi

Di quelle che future i fanciulletti

Soglion fingersi al buio e spaventarsi.

Or sì vano terror sì cieche tenebre

Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo,

Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi

Dardi del giorno a saettar poc'abili

Fuor che l'ombre notturne e i sogni pallidi,

Ma col mirar della natura e intendere

L'occulte cause e la velata imagine.

Su dunque: io prendo a raccontarti, o Memmo,

Come della materia i primi corpi

Generin varie cose, e, generate

Ch'e l'hanno, le dissolvano, e da quale

Vïolenza a far ciò forzati sieno,

E qual abbiano ancor principio innato

Di muoversi mai sempre e correr tutti

Or qua or là per lo gran vano a volo.

Tu ciò ch'io parlo attentamente ascolta.

Chè certo i primi semi esser non ponno

Tutti insieme fra lor stivati affatto;

Veggendo noi diminuirsi ogn'ora

E per soverchia età languir le cose

E sottrar la vecchiezza agli occhi nostri,

Mentre che pur salva rimane in tanto

La somma; con ciò sia che, da qualunque

Cosa il corpo s'involi, ond'ei si parte

Toglie di mole, e dov'ei viene accresce,

E fa che questo invecchia e quel fiorisce,

Nè punto vi si ferma. In cotal guisa

Il mondo si rinnova, et a vicenda

Vivon sempre fra lor tutti i mortali.

S'un popol cresce, uno all'incontro scema;

E si cangian l'etadi in breve spazio

Degli animali, e della vita accese,

Quasi cursori, han le facelle in mano.

Se credi poi che delle cose i semi

Possan fermarsi e nuovi moti dare

In tal guisa alle cose, erri assai lunge

Fuor della dritta via della ragione.

Poi che, vagando per lo spazio vôto

Tutti i principii, è pur mestiero al certo

Che sian portati o dal lor proprio peso

O forse spinti dall'altrui percosse;

Poi che, allor ch'e' s'incontrano e di sopra

S'urtan veloci l'un con l'altro, avviene

Che vari in varie parti si riflettono:

Nè meraviglia è ciò, perchè durissimi

Son tutti e nulla gl'impedisce a tergo.

Et acciò che tu meglio anco comprenda

Che tutti son della materia i corpi

Vibrati eternamente, or ti rammenta

Che non ha centro il mondo ove i principii

Possan fermarsi, et è lo spazio vôto

D'ogn'intorno disteso in ogni parte

Senza fin, senza meta e senza termine,

Conforme innanzi io t'ho mostrato a lungo

Con vive e gagliardissime ragioni.

Il che pur noto essendo, alcuna quiete

Per lo vano profondo i corpi primi

Non han già mai; ma, più e più commossi

Da forza interna irrequïeta e varia,

Una parte di lor s'urta e risalta

Per grande spazio ripercossa e spinta,

Un'altra ancor per piccoli intervalli

Vien per tal colpo a raggrupparsi insieme,

E tutti quei che, d'unïon più densa

Insieme avviluppati ed impediti

Dall'intrigate lor figure, ponno

Sol risaltar per breve spazio indietro,

Formano i cerri e le robuste querce

E del ferro feroce i duri corpi

E i macigni e i dïaspri e gli adamanti:

Quelli che vagan poi pel vôto immenso

E saltan lungi assai veloci e lungi

Corron per grande spazio in varie parti,

Posson l'aere crearne e l'aureo lume

Del sole e delle stelle erranti e fisse.

Ne vanno ancor per lo gran vano errando

Senz'unirsi già mai, senza potere

Accompagnar non ch'altro i propri moti.

Della qual cosa un simulacro vivo

Sempre innanzi a' nostri occhi esposto abbiamo:

Poscia che, rimirando attento e fiso,

Allor che 'l sol co' raggi suoi penétra

Per picciol fôro in una buia stanza,

Vedrai mischiarsi in luminosa riga

Molti minimi corpi in molti modi,

E quasi a schiere esercitar fra loro

Perpetue guerre, or aggrupparsi ed ora

L'un dall'altro fuggirsi e non dar sosta:

Onde ben puoi congetturar da questo

Qual sia l'esser vibrati eternamente

Per lo spazio profondo i primi semi.

Sì le picciole cose a noi dar ponno

Contezza delle grandi e i lor vestigi

Quasi additarne e la perfetta idea.

Tieni a questo, oltr'a ciò, l'animo attento:

Ciò è, che i corpi, che vagar tu miri

Entro a' raggi del sol confusi e misti,

Mostrano ancor che la materia prima

Ha moti impercettibili ed occulti.

Chè molti quivi ne vedrai sovente

Cangiar viaggio, e risospinti indietro

Or qua or là or su or giù tornare

E finalmente in ogni parte. E questo

È sol perchè i principii, i quai per sè

Muovonsi, e quindi poi le cose piccole

E quasi accosto alla virtù de' semi,

Dagli occulti lor colpi urtate, anch'elleno,

Vengon commosse, ed esse stesse poi

Non cessan d'agitar l'altre più grandi.

Così dai primi corpi il moto nasce,

E chiaro fassi a poco a poco al senso;

Sì che si muovon quelle cose al fine

Che noi per entro a' rai del sol veggiamo,

Nè per qual causa il fanno aperto appare.

Or che principio da natura i corpi

Della prima materia abbian di moto

Quindi imparar puoi brevemente, o Memmo.

Pria; quando l'alba di novella luce

Orna la terra e che per l'aer puro

Vari augelli volando in dolci modi

D'armonïose voci empion le selve,

Come ratto allor soglia il sol nascente

Sparger suo lume e rivestirne il mondo,

Veggiam ch'è noto e manifesto a tutti:

Ma quel vapor quello splendor sereno,

Ch'ei da sè vibra, per lo spazio vôto

Non passa; ond'è costretto a gir più tardo,

Quasi dell'aere allor l'onde percuota:

Nè van disgiunti i corpicelli suoi,

Ma stretti ed ammassati; onde fra loro

Insieme si ritirano, e di fuori

Han mille intoppi, in guisa tal che pure

Vengon forzati ad allentare il corso.

Non così fanno i genitali corpi

Per lor simplicitade impenetrabili:

Ma; quando volan per lo spazio vôto,

Nè fuor di loro impedimento alcuno

Trovan che gli trattenga, e, dai lor luoghi

Tosto che mossi son verso una sola

Verso una sola parte il volo indrizzano;

Debbono allor viepiù veloci e snelli

De' rai del sol molto maggiore spazio

Passar di luogo in quel medesmo tempo

Ch'i folgori del sol passano il cielo;

Poscia che da consiglio o da sagace

Ragione i primi semi esser non ponno

Impediti già mai nè ritardati,

Nè vanno ad una ad una investigando

Le cose per conoscere in che modo

Nell'universo si produca il tutto.

Ma sono alcuni che di questo ignari,

Si credon che non possa la natura

Della materia per se stessa e senza

Divin volere in così fatta guisa

Con umane ragioni e moderate

Mutare i tempi e generar le biade,

Nè far null'altro a cui di gire incontra

Persuade i mortali e gli accompagna

Qual gran piacer che della vita è guida,

Acciò le cose i secoli propaghino

Con veneree lusinghe e non perisca

L'umana specie: onde, che fosse il tutto

Per opra degli dèi fatto dal nulla,

Fingono. Ma, per quanto a me rassembra

Essi in tutte le cose han travïato

Molto dal ver: poichè, quantunque ignoti

Mi sian della materia i primi corpi,

Io non per tanto d'affermare ardisco,

Per molte e molte cause e per gli stessi

Movimenti del ciel, che l'universo

Che tanto è difettoso esser non puote

Da Dio creato: e quant'io dico, o Memmo,

Dopo a suo luogo narrerotti a lungo.

Or del moto vo' dir quel che mi resta.

Qui, s'io non erro, di provarti è luogo

Che per se stessa alcuna cosa mai

Non può da terra sormontare in alto.

Nè già vorrei che t'ingannasse il foco

Ch'all'insù si produce e cibo prende.

E le nitide biade e l'erbe e i fiori

E gli alberi all'insù crescono anch'essi,

Benchè per quanto s'appartiene a loro,

Tutti e sempre all'ingiù caschino i pesi.

Nè creder dêi che la vorace fiamma,

Allor che furïosa in alto ascende

E dell'umili case e de' superbi

Palagi i tetti in un momento atterra,

Opri ciò da sè stessa e senza esterna

Forza che l'urti. Il che pur anco accade

Al nostro sangue, se dal corpo spiccia

Per piccola ferita e poggia in aria

E 'l suolo asperge di vermiglie stille.

Forse non vedi ancor con quanta forza

Risospinga all'insù l'umor dell'acqua

Le travi e gli altri legni? poichè, quanto

Più altamente gli attuffiamo in essa

E con gran vïolenza a pena uniti

Molti di noi ve gli spingiam per dritto,

Ella tanto più ratta e desïosa

Da sè gli scaccia e gli rigetta in alto

In guisa tal, che quasi fuori affatto

Sorgon dall'onde ed all'insù risaltano:

Nè per ciò dubitiamo, al parer mio,

Che per sè stesse entro lo spazio vôto

Scendan le travi e gli altri legni al basso.

Ponno dunque in tal guisa anco le fiamme

Dall'aria che le cinge in alto espresse

Girvi quantunque per sè stessi i pesi

Si sforzin sempre di tirarle al basso.

E non vedi tu forse al caldo estivo

Le notturne del ciel faci volanti

Correr sublimi e menar seco un lungo

Tratto di luce in qualsivoglia parte

Gli apra il varco natura? Il sole ancora,

Quando al più alto suo meriggio ascende,

L'ardor diffonde d'ogn'intorno e sparge

Di lume il suol: verso la terra adunque

Vien per natura anco l'ardor del sole.

I fulmini volar miri a traverso

Le grandinose piogge: or quinci or quindi

Dalle nubi squarciate i lampi strisciano,

E caggion spesso anco le fiamme in terra.

Bramo, oltr'a ciò, che tu conosca, o Memmo,

Che, mentre a volo i genitali corpi

Drittamente all'ingiù vanno pel vôto,

D'uopo è ch'in tempo incerto in luogo incerto

Sian fermamente da' lor propri pesi

Tutti sforzati a declinare alquanto

Dal lor dritto vïaggio, onde tu possa

Solo affermar che sia cangiato il nome,

Poichè, se ciò non fosse, il tutto al certo

Per lo vano profondo in giù cadrebbe

Quasi stille di pioggia, e mai non fôra

Nato fra i primi semi urto o percossa,

Onde nulla già mai l'alma natura

Crear potrebbe. Che se pure alcuno

Si pensa forse ch'i più gravi corpi

Scendan più ratti per lo retto spazio

E per di sopra ne' più lievi inciampino,

Generando in tal guisa urti e percosse

Che possan dare i genitali moti;

Erra senz'alcun dubbio, e fuor di strada

Dalla dritta ragion molto si scosta.

Poscia che ben ciò che per l'aria e l'acqua

Cade all'ingiuso il suo cadere affretta

E de' pesi a ragion ratto discende,

Perchè il corpo dell'acqua e la natura

Tenue dell'aria trattener non puote

Ogni cosa egualmente e vie più presto

Convien che vinta alle più gravi ceda:

Ma pel contrario in alcun tempo il vôto

In parte alcuna alcuna cosa mai

Non basta ad impedire, ond'ella il corso

Non segua ove natura la trasporta;

Onde tutte le cose, ancor che mosse

Da pesi disuguali, aver dovranno

Per lo vano quïeto egual prestezza.

Non ponno dunque ne' più lievi corpi

Inciampare i più gravi e per di sopra

Colpi crear per sè medesmi, i quali

Faccian moti diversi, onde natura

Produca il tutto: ed è pur forza al certo

Che dechinino alquanto i primi semi,

Nè più che quasi nulla; acciò non paia

Ch'io finga adesso i movimenti obliqui

E che ciò poi la verità rifiuti.

Poscia ch'a tutti è manifesto e conto

Che mai non ponno per sè stessi i pesi

Fare obliquo viaggio, allor che d'alto

Veder gli puoi precipitare al basso:

Ma che i principii poi non torcan punto

Dalla lor dritta via, chi veder puote?

Se finalmente ogni lor moto sempre

Insieme si raggruppa e dall'antico

Sempre con ordin certo il nuovo nasce,

Nè travïando i primi semi fanno

Di moto un tal principio, il qual poi rompa

I decreti del fato, acciò non segua

L'una causa dall'altra in infinito;

Onde nel mondo gli animali han questa,

Onde han questa, dich'io, dal fato sciolta

Libera volontà, per cui ciascuno

Va dove più gli aggrada? I moti ancora

Si dechinan sovente, e non in certo

Tempo nè certa regïon, ma solo

Quando e dove comanda il nostro arbitrio;

Poichè senz'alcun dubbio a queste cose

Dà sol principio il voler proprio, e quindi

Van poi scorrendo per le membra i moti.

Non vedi ancor che i barbari cavalli

Allor che disserrata in un sol punto

È la prigion, non così tosto il corso

Prendon come la mente avida brama?

Poichè per tutto il corpo ogni materia

Atta a far ciò dee sollevarsi e spinta

Scorrer per ogni membro, acciò con essa

Della mente il desio possa seguire.

Onde conoscer puoi che 'l moto nasce

Dal cuore, e che ciò pria dal voler nostro

Procede e quindi poi per tutto il corpo

E per tutte le membra si diffonde.

Nè ciò avvien come quando a forza siamo

Cacciati innanzi; poi che allora è noto

Ch'è rapita dal corpo ogni materia

Ad onta nostra in fin che per le membra

Un libero voler possa frenarla.

Già veder puoi come, quantunque molti

Da vïolenza esterna a lor mal grado

Sian forzati sovente a gire innanzi

E sospinti e rapiti a precipizio,

Noi non per tanto un non so che nel petto

Nostro portiam che di pugnarle incontra

Ha possanza e d'ostarle, al cui volere

Dalla stessa materia anco la copia

Talor forzata a scorrer per le membra

E cacciata si frena e torna indietro.

Per la qual cosa confessar t'è forza

Che questo stesso a' primi semi accaggia,

E ch'oltre a' pesi alle percosse agli urti

Abbian qualch'altra causa i moti loro;

Onde poscia è con noi questa possanza

Nata; perchè già mai nulla del nulla

Non poter generarsi è manifesto.

Chè vieta il peso che per gli urti il tutto

Formato sia quasi da forza esterna:

Ma, che la mente poi d'uopo non abbia

Di parti interïori ond'ella possa

Far poi tutte le cose e vinta sia

A soffrire, a patir quasi costretta,

Ciò puote cagionar de' primi corpi

Il picciol devïar dal moto retto

Nè mica in luogo certo o certo tempo.

Nè fu già mai della materia prima

Più stivata la copia o da maggiori

Spazi divisa; poichè quindi nulla

S'accresce o scema. Onde quel moto in cui

Son ora i primi corpi in quel medesmo

Furono ancor nella trascorsa etade

E fian nella futura; e tutto quello

Che fin qui s'è prodotto è per prodursi

Anco nell'avvenire, e con le stesse

Condizïoni e nella stessa guisa

Essere e crescer debbe, e tanta possa

Avere in sè medesmo a punto quanta

Per naturale invarïabil legge

Gli fu sempre concessa. Nè la somma

Varïar delle cose alcuna forza

Non può già mai; perchè, nè dove alcuna

Spezie di semi a ricovrar se 'n vada

Lungi dal tutto non si trova al mondo,

Nè meno ond'altra vïolenza esterna

Crear si possa e penetrar nel tutto

Impetuosamente e la natura

Mutarne e volger sottosopra i moti.

Non creder poi che maraviglia apporti

Che, essendo tutti i primi semi in moto

La somma non pertanto in somma quiete

Paia di star, se non se fosse alcuno

Mostra del proprio corpo i movimenti.

Poscia che de' principii ogni natura

Lungi da' nostri sensi occulta giace:

Onde, se quelli mai veder non puoi,

Ti fien anco nascosti i moti loro;

Massime perchè spesso accader suole

Che quelle cose che veder si ponno

Celan mirate da lontana parte

Anch'elle i propri moti agli occhi nostri.

Poichè sovente in un bel colle aprico

Le pecore lanute a passi lenti

Van bramose tosando i lieti paschi,

Ciascuna ove la chiama, ove l'invita

La di fresca rugiada erba gemmante,

E vi scherzan lascivi i grassi agnelli

Vezzosamente saltellando a gara:

E pur tai cose, se da lungi il guardo

Vi s'affissa da noi, sembran confuse

E ferme, quasi allor s'adorni e veli

Di bianca sopravvesta il verde colle.

In oltre; allor che poderose e grandi

Schiere di guerra in simolacro armate

Van con rapido corso i campi empiendo,

E su prodi cavalli i cavalieri

Volan lungi dagli altri e furibondi

Scuoton con urto impetuoso il campo;

Quivi al cielo il fulgor se stesso inalza,

Quivi splende la terra, e l'aria intorno

Arde tutta e lampeggia, e sotto i piedi

De' valorosi eroi s'eccita un suono,

Che misto con le strida e ripercosso

Dai monti in un balen s'erge alle stelle:

E pur luogo è ne' monti onde ci sembra

Starsi nel campo un tal fulgore immoto.

Or via; da quinci innanzi intendi omai

Quali sian delle cose i primi semi,

E quanto l'un dall'altro abbian diverse

E difformi le forme e le figure,

Non perchè sian di poco simil forma

Molti di lor, ma perchè tutti eguali

D'ogn'intorno non han tutte le cose.

Nè maraviglia è ciò; poscia che, essendo

Tanta la copia lor che fine o somma,

Come già dimostrammo, aver non puote,

Ben creder deesi che non tutti in tutto

Possan tutte le parti aver dotate

D'egual profilo o di simil figura.

Oltr'a ciò, l'uman germe e i muti armenti

Degli squammosi pesci e i lieti arbusti

E le fere selvagge e i vari augelli,

O vuoi quei che dell'acque i luoghi ameni

Amano e vansi spazïando intorno

Alle rive de' fiumi ai fonti, ai laghi,

O quei che delle selve abitatori

Volan di ramo in ramo: or tu di questi

Segui pur a pigliar qual più t'aggrada

Generalmente, e troverai che tutti

Han figure diverse e forme varie.

Nè potrebbero i figli in altra guisa

Raffigurar le madri nè le madri

Riconoscere i figli: e pur veggiamo

Che ciò far ponno e senza error, non meno

Che gli uomini fra lor si raffigurano.

Poichè sovente innanzi ai venerandi

Templi de' sommi dèi cade il vitello

Presso a fumante altar d'arabo incenso,

E dal petto piagato un caldo fiume

Sparge di sangue: ma l'afflitta ed orba

Madre pe' boschi errando in terra lascia

Del bipartito piede impresse l'orme;

Cerca con gli occhi ogni riposto luogo

S'ella veder pur una volta possa

Il perduto suo parto, e ferma spesso

Di queruli muggiti empie le selve,

E spesso torna dal desio trafitta

Del caro figlio a riveder la stalla:

Nè rugiadose erbette o salci teneri,

Mormoranti ruscelli o fiumi placidi

Non posson dilettarla o svïar punto

L'animo suo dalla noiosa cura,

Nè degli altri giovenchi altrove trarla

Le mal note bellezze, o i grassi paschi

Allevïarle il duol che la tormenta:

Sì va cercando un certo che di proprio

Ed a lei manifesto. I tenerelli

Capretti inoltre alle lor voci tremole

Et al rauco belar gli agni lascivi

Riconoscono pur l'irsute madri

E le lanose. In cotal guisa ognuno,

Qual natura richiede, il dolce latte

Delle proprie sue mamme a sugger corre.

Di grano al fin qualunque specie osserva;

E vedrai nondimen ch'ei non ha tanta

Somiglianza fra sè, ch'anco non abbia

Qualche difformitade: e per la stessa

Ragion vedrai che della terra il grembo

Dipingon le conchiglie in varie guise

Là dove bagna il mar con l'onde molli

Del curvo lido l'assetata arena.

Onde senz'alcun dubbio è pur mestiero

Che per la stessa causa i primi corpi

Poscia che son dalla natura anch'essi

E non per opra manual formati,

Abbian varie fra lor molte figure.

Già sciôr possiamo agevolmente il dubbio,

Per qual cagione i fulmini cadenti

Molto più penetrante abbiano il foco

Di quel che nasce da terrestri faci:

Con ciò sia che può dirsi che, il celeste

Ardor del fulmin più sottile essendo,

Composto sia di piccole figure,

Onde penétri agevolmente i fóri

Che non può penetrare il foco nostro

Generato da' legni. In oltre; il lume

Passa pe 'l corno, ma la pioggia indietro

Ne vien rispinta; or per qual causa è questo,

Se non perchè del lume assai minori

Gli atomi son di quegli onde si forma

L'almo liquor dell'acque? E perchè tosto

Vegghiam colarsi il vino, ed il restio

Olio all'incontro trattenersi un pezzo?

O perchè gli ha maggiori i propri semi

O più curvi e l'un l'altro in vari modi

A foggia d'ami avviluppati insieme;

Ond'avvien poi che non sì presto ponno

L'un dall'altro strigarsi e penetrare

I fóri ad uno ad uno e fuori uscirne.

S'arroge a ciò; che con soave e dolce

Senso gusta la lingua il biondo mèle

E 'l bianco latte; ed all'incontro il tetro

Amarissimo assenzio e 'l fier centauro

Con orribil sapor crucia il palato;

Ond'apprender tu possa agevolmente

Che son composti di rotondi e lisci

Corpi que' cibi che da noi gustati

Posson toccar soavemente il senso;

Ma quelle cose poi ch'acerbe ed aspre

Ci sembrano i lor semi hanno all'incontro

Vie più adunchi e l'un l'altro a foggia d'ami

Strettamente intrigati, onde le vie

Sogliono risecar de' nostri sensi

E con l'entrata dissiparne il corpo.

Al fin; tutte le cose al senso grate

E l'ingrate al toccar pugnan fra loro

Per le varie figure onde son fatte:

Acciò tu forse non pensassi, o Memmo,

Che l'aspro orror della stridente sega

Formato fosse di rotondi e lisci

Principii anch'egli, in quella guisa stessa

Che la soave melodia si forma

Da musico gentile, allor che sveglia

Con dotta man l'armonïose corde

Di canoro strumento; e non pensassi

Che con la stessa forma i primi corpi

Possano penetrar nelle narici

Dell'uomo, allor che i puzzolenti e tetri

Cadaveri s'abbruciano ed allora

Che tutta è sparsa di cilicio croco

La nuova scena e di panchei profumi

Arde di Giove il sacrosanto altare;

E non credessi che i color leggiadri

E le nostre pupille a pascer atti

Abbian simíli i propri semi a quelli

Che pungon gli occhi a lagrimar forzando

E paion brutti e spaventosi in vista:

Poichè ogni causa che diletta e molce

I sensi ha lisci i suoi principii al certo;

Ma ciò ch'è pel contrario aspro e molesto

Ha la materia sua scabrosa e rozza.

Son poscia alcuni corpi, i quali affatto

Non debbono a ragion lisci stimarsi

Nè con punte ritorte affatto adunchi;

Poi che più tosto han gli angoletti loro

In fuori alquanto, e che più tosto ponno

Solleticar che lacerare il senso,

Qual può dirsi la feccia ed i sapori

Dell'enula campana. E finalmente

Che la gelida brina e 'l caldo foco,

Dentati in varie guise, in varie guise

Pungono il senso, e l'un e l'altro tatto

Chiaro ne porge e manifesto indizio.

Poscia che 'l tatto, il tatto, oh santi numi!,

Senso è del corpo; o quando alcuna cosa

Esterna lo penétra, o quando nuoce

A quel che gli è nativo, o fuori uscendo

Ne dà venereo genital diletto,

O quando offesi entro lui stesso i semi

Ed insieme commossi ed agitati

Turbano i nostri sensi e gli confondono;

Come potrai sperimentar tu stesso,

Se talor con la man percuoti a caso

Del proprio corpo qualsivoglia parte,

Ond'è mestier che de' principii primi

Sian pur molto fra lor varie le forme,

Che vari sensi han di produr possanza.

Al fin; le cose che più dure e dense

Sembrano agli occhi nostri è d'uopo al certo

Ch'abbiano adunchi i propri semi e quasi

Ramosi e l'un con l'altro uniti e stretti;

Tra le quai senza dubbio il primo luogo

Hanno i diamanti a disprezzare avvezzi

Ogni urto esterno, e le robuste selci

E 'l duro ferro e 'l bronzo il qual percosso

Suol altamente rimbombar ne' chiostri.

Ma quel ch'è poi di liquida sostanza

Convien che fatto di rotondi e lisci

Principii sia; poichè fra lor frenarsi

Non ponno i suoi viluppi e verso il basso

Han volubile il corso. In somma tutto

Ciò che fuggirsi in un sol punto scorgi,

Com'il fumo e la nebbia il foco e 'l vento,

Se men degli altri hanno rotondi e lisci

I lor primi principii, è forza al meno

Ch'e' non gli abbian ritorti e strettamente

L'un con l'altro congiunti, acciò sian atti

A punger gli occhi e penetrar ne' sassi

Senza che stiano avviticchiati insieme:

Il che vede ciascuno esser concesso

Di conoscere a' sensi, onde tu possa

Apprender facilmente ch'e' non sono

Fatti d'adunchi, ma d'acuti semi.

Ma che amari tu vegga i corpi stessi

Che son liquidi e molli, a punto come

È del mare il sudor, non dèi per certo

Meraviglia stimar: poichè, quantunque

Sia ciò ch'è molle di rotondi e lisci

Semi composto, nondimen fra loro

Doloriferi corpi anco son misti:

Nè per ciò fa mestier ch'e' siano adunchi

E l'un l'altro intrigati, ma più tosto

Debbon, benchè scabrosi, esser rotondi,

Acciò che insieme agevolmente scorrere

Possano al basso e lacerare i sensi.

Ma; perchè tu più chiaramente intenda

Esser misti co' lisci i rozzi e gli aspri

Principii, onde ha Nettuno amaro il corpo;

Sappi che dolce aver da noi si puote

L'acqua del mar, pur che per lungo tratto

Sia di terra colata e caggia a stille

In qualche pozza e placida diventi;

Poscia che a poco a poco ella depone

Del suo tetro veleno i semi acerbi,

Come quelli che ponno agevolmente,

Stante l'asprezza lor, fermarsi in terra.

Or, ciò mostrato avendo, io vo' seguire

A congiunger con questo un'altra cosa

Che quindi acquista fede: ed è che i corpi

Della materia varïar non ponno

Le lor figure in infinite guise:

Chè, se questo non fosse, alcuni semi

Già dovrebbon di nuovo ai corpi misti

Apportar infinito accrescimento.

Poichè non in qualunque angusta mole

Si posson molto varïare insieme

Le lor figure: con ciò sia che fingi

Ch'e' sian pur quanto vuoi minuti e piccoli

I primi semi, indi di tre gli accresci

O di poc'altri; e troverai per certo

Che, se tu piglierai tutte le parti

Di qualche corpo, e varïando i luoghi

Sommi con gl'imi e co' sinistri i destri,

Dopo ch'in ogni guisa avrai provato

Qual dia specie di forme a tutto il corpo

Ciascun ordine lor, nel rimanente,

Se tu forse vorrai cangiar figure,

Anco altre parti converratti aggiungere:

Quindi avverrà che l'ordine ricerchi

Per la stessa cagion nuove altre parti,

Se tu forme cangiar vorrai di nuovo.

Dunque col varïar delle figure

S'augumentano i corpi: onde non dèi

Creder che i semi abbian tra lor difformi

Le forme in infinito, acciò non forzi

Ad esser cose smisurate al mondo:

Il che già falso io ti provai di sopra.

Già le barbare vesti e le superbe

Lane di Melibea tre volte intinte

Nel sangue di tessaliche conchiglie,

E dell'aureo pavon l'occhiute penne

Di ridente lepor cosperse intorno,

Da novelli colori oppresse e vinte

Giacerebbero omai; nè della mirra

Sarìa grato l'odor nè del soave

Mèle il sapore; e l'armonia de' cigni

Ed i carmi febei sposati al suono

Di cetra tocca con dedalea mano

Fôran già muti; con ciò sia che sempre

Nascer potriano alcune cose al mondo

Più dell'antiche prezïose e care,

Ed alcun'altre più neglette e vili

Al palato agli orecchi al naso agli occhi.

Il che falso è per certo, ed ha la somma

E dell'une e dell'altre un fin prescritto:

Ond'è pur forza confessar che i semi

Forme infinite varïar non ponno.

Dal caldo, al fine, alle pruine algenti

È finito passaggio, ed all'incontro

Per la stessa ragion dal gelo al foco;

Poichè finisce l'un e l'altro, e posti

Sono il tiepido e 'l fresco a loro in mezzo,

Adempiendo per ordine la somma.

Distanti adunque le create cose

Per infinito spazio esser non ponno,

Poscia c'han d'ogni banda acute punte

Quinci infeste alle fiamme e quindi al ghiaccio.

Il che mostrato avendo, io vo' seguire

A congiunger con questa un'altra cosa

Che quindi acquista fede: ed è che i semi

C'han da natura una figura stessa

Sono infiniti. Con ciò sia che, essendo

Finita delle forme ogni distanza,

Forz'è pur che le simili fra loro

Sian infinite o sia finita almeno

La somma: il che già falso esser provammo.

Or, poi che ciò t'è noto, io vo' mostrarti

In pochi, ma soavi e dolci versi,

Che de' primi principii i corpicciuoli

Sono infiniti in qualsivoglia specie

Di forme, e sol così posson la somma

Delle cose occupar, continuando

D'ogn'intorno il tenor delle percosse.

Poichè, se ben tu vedi esser più rari

Certi animali e men feconda in essi

La natura ti par, ben puote un'altra

O terra o luogo o regïon lontana

Esserne piu ferace ed adempirne

In cotal guisa il numero: sì come

Veggiam che fra i quadrupedi succede

Spezialmente agli anguimani elefanti;

De' quai l'India è sì fertile che cinta

Sembra d'eburneo impenetrabil vallo,

Tal di quei bruti immani ivi è la copia;

Benchè fra noi se ne rimiri a pena

Qualch'esempio rarissimo. Ma; posto

Che fosse al mondo per natura un corpo

Cotanto singolar ch'a lui simíle

Null'altro sia nell'universo intero;

Se non per tanto de' principii suoi

Non fia la moltitudine infinita,

Ond'egli concepirsi e generarsi

Possa, non potrà mai nascere al mondo

Nè, benchè nato, alimentarsi e crescere.

Poichè fingi con gli occhi che finiti

Semi d'una sol cosa in varie parti

Vadan pel vano immenso a volo errando:

Onde, dove, in che guisa e con qual forza,

In così vasto pelago e fra tanta

Moltitudine altrui, potranno insieme

Accozzarsi giammai? Per quanto io credo,

Ciò non faranno in alcun modo al certo.

Ma; qual, se nasce in mezzo all'onde insane

Qualche grave naufragio, il mar cruccioso

Sparger sovente in varie parti suole

Banchi, antenne, timoni, alberi e sarte,

Poppe e prore e trinchetti e remi a nuoto.

In guisa che mirar puote ogni spiaggia

Delle navi sommerse i fluttuanti

Arredi, ch'avvertir dovrian ciascuno

Mortale ad ischifar del mare infido

E l'insidie e la forza e i tradimenti

Nè mai fidarsi ancor che alletti e rida

L'ingannatrice sua calma incostante:

Tal, se tu fingi in qualche specie i semi

Da numero compresi, essi dovranno

Per lo vano profondo esser dispersi

In varie parti da diversi flutti

Della prima materia, in guisa tale

Ch'e' non potran congiungersi o congiunti

Trattenersi un sol punto in un sol gruppo

Nè per nuovo concorso augumentarsi.

E pur, che l'un e l'altro apertamente

Si faccia, il fatto stesso a noi ben noto

Ne mostra, e che formarsi e che formate

Posson crescer le cose. È chiaro adunque

Che sono in ogni specie innumerabili

Semi onde vien somministrato il tutto.

Nè superare eternamente ponno

I moti a lor mortiferi nè meno

Seppellir la salute eternamente,

Nè di sempre serbar da morte intatte

Le cose una sol volta al mondo nate

Gli accrescitivi corpi hanno possanza.

Tal con pari certame insieme fanno

Battaglia i semi infra di lor contratta

Fin da tempo infinito. Or quinci or quindi

Vince la vita, ed all'incontro è vinta:

Mista al rogo è la cuna, ed al vagito

De' nascenti fanciulli il funerale:

Nè mai notte seguío giorno nè giorno

Notte, che non sentisse in un confusi

Col vagir di chi nasce il pianto amaro

Della morte compagno e del feretro.

Abbi in oltre per fermo e tieni a mente,

Che nulla al mondo ritrovar si puote

Che d'un genere sol di genitali

Corpi sia generato e che non abbia

Misti più semi entro a se stesso; e quanto

Più varie forze e facoltà possiede,

Tanto in sè stesso esser più specie insegna

D'atomi differenti e varie forme.

Pria la terra contiene i corpi primi,

Onde con moto assiduo il mare immenso

Si rinnovi da' fonti i quai sossopra

Volgono i fiumi; ha d'onde nasca il foco,

Poi ch'acceso in più luoghi il suol terrestre

Arde, ma più d'ogni altro è furibondo

L'incendio d'Etna; ha poi donde le biade

E i lieti arbusti erga per l'uomo, ed onde

Porga alle fere per le selve erranti

E le tenere frondi e i grassi paschi.

Ond'ella sol fu degli dèi gran madre

Detta e madre de' bruti e genitrice

De' nostri corpi. E ne cantaro a prova

Degli antichi poeti i più sovrani

Ch'Argo ne desse; e finser che sublime

Sovr'un carro a seder sempre agitasse

Due leon domi ed accoppiati al giogo,

Affermando oltr'a ciò che pende in aria

La gran macchina sua, nè può la terra

Fermarsi in terra; aggiunsero i leoni,

Sol per mostrar ch'ogni più crudo germe

Dee, la natia sua ferità deposta,

Rendersi a' genitori obbedïente

Vinto da' loro officii; al fin gli ornaro

La sacra testa di mural corona,

Perch'ella regge le città munite

Di luoghi illustri. Or di sì fatta insegna

Cinta per le gran terre orrevolmente

Si porta ognor della divina madre

L'imagin santa. Ella da genti varie

Per antico costume è nominata

Ne' sacrifici la gran madre Idea.

Le aggiungon poscia le troiane turbe

Per sue fide seguaci; essendo fama

Che pria da quei confini incominciasse

A generarsi a propagarsi il grano:

Le danno i Galli, per mostrar che quegli

Ch'avranno offeso di lor madre il nume

O sieno ingrati a' genitor, non sono

Degni d'esporre a' dolci rai del giorno

Delle viscere lor prole vivente.

Dalle palme percossi in suon terribile

Tuonan timpani tesi e cavi cembali,

E con rauco cantar corni minacciano,

E la concava tibia in frigio numero

Suona e le menti altrui risveglia e stimola.

E gli portano innanzi orrendi fulmini

In segno di furore, acciò bastevoli

Siano a frenar con la paura gli animi

Ingrati della plebe e i petti perfidi,

Di cotal dèa la maestà mostrandoli.

Or, tosto ch'ella entro le gran cittadi

Vien portata, di tacita salute

Muta arricchisce gli uomini mortali.

Spianan tutte le vie d'argento e bronzo,

Dan larghe offerte, e nevigando un nembo

Di rose fanno alla gran madre ed anco

De' seguaci alle turbe ombra cortese.

Qui di frigi Coreti armata squadra

(Sì gli chiamano i Greci) insieme a sorte

Suonan catene, ed a tal suon concordi

Muovon saltando i passi ebri di sangue;

E percotendo con divina forza

De' lor elmi i terribili cimieri

Rappresentan di Creta i Coribanti,

Che, siccome la fama al mondo suona,

Già di Giove il vagito ivi celaro,

Allor ch'intorno ad un fanciullo armato

Menâr gli altri fanciulli in cerchio un ballo

Co' bronzi a tempo percotendo i bronzi,

Acciò dal proprio genitor sentito

Divorato non fosse e trafiggesse

Con piaga eterna della madre il petto.

Quindi accompagnan la gran madre armati,

O forse per mostrar che la n'avverte

A difender col senno e con la spada

La patria terra ed a portar mai sempre

E decoro e presidio ai genitori.

Le quali tutte cose, ancor che dette

Con ordin vago a meraviglia e bello,

Son però false senza dubbio alcuno.

Chè d'uopo è pur che 'n somma eterna pace

Vivan gli dèi per lor natura e lungi

Stian dal governo delle cose umane,

D'ogni dolor, d'ogni periglio esenti,

Ricchi sol di sè stessi e di sè fuori

Di nulla bisognosi, e che nè merto

Nostro gli alletti o colpa accenda ad ira.

Ma la terra di senso in ogni tempo

Manca senz'alcun dubbio, e, perchè tiene

Di molte cose entro al suo grembo i semi,

Molti ancor ne produce in molti modi.

Qui; se alcun vuol chiamar Nettuno il mare,

Cerere il grano, et abusar più tosto

Di Bacco il nome che la propria voce

Pronunzïar del più salubre umore;

Concediamogli pur ch'egli a sua voglia

Dica gran madre degli dèi la terra;

Pur che ciò sia veracemente falso.

Sovente adunque, ancor che pascan l'erba

D'un prato stesso sotto un cielo stesso

E pecore lanute e di cavalli

Prole guerriera ed aratori armenti

E bevan l'acqua d'un medesmo fiume,

Vivon però sotto diversa specie,

E de' lor genitori in sè ritengono

Generalmente la natura e sanno

Imitarne i costumi: or tanto vari

I corpi son della materia prima

In ogni specie d'erba in ogni fiume.

Anzi, oltre a questo, ogni animal si forma

Di tutte queste cose, umido sangue,

Ossa, vene, calor, viscere e nervi,

Le quai son pur fra lor diverse e nate

Da principii difformi. E similmente

Ciò ch'arde il foco, se null'altro, almeno

Sol di sè stesso somministra i corpi

Che vibrar il calor, sparger la luce,

Agitar le scintille e largamente

Possono intorno seminar le ceneri.

E se tu con la mente in simil guisa

L'altre cose contempli ad una ad una,

Senz'alcun dubbio troverai che tutte

Celan nel proprio corpo e vi han ristretto

Molti semi diversi e varie forme.

Al fin: tu vedi in molte cose unito

Con l'odore il sapor: dunque è pur d'uopo

Che queste abbian dissimili figure.

Poichè l'odor penétra in quelle membra

Ove non entra il succo, e similmente

Penetra i sensi separato il succo

Dal sapor delle cose; onde s'apprende

Ch'ei le prime figure ha differenti:

Dunque forme difformi in un sol gruppo

Certamente s'uniscono e si forma

Di misto seme il tutto. Anzi tu stesso

Puoi sovente vedere ne' nostri versi

Esser comuni a molte voci e molte

Molti elementi, e non per tanto è d'uopo

Dir che d'altri elementi altre parole

Sian pur composte; non perchè comuni

Si trovin poche lettere o non possano

Formarsi mai delle medesme appunto

Due voci varie, ma perchè non tutte

Hanno ogni cosa in ogni parte eguale.

Or similmente all'altre cose accade,

Che, se ben molte hanno comuni i semi,

Possono ancor di molto vario gruppo

Formarsi al certo: ond'a ragion si dica

Che d'atomi diversi ognor si creino

Gli augelli i pesci gli animai le piante.

Nè creder dèi che non per tanto unirsi

Possan tutti i principii in tutti i modi;

Perchè nascer vedresti in ogni parte

Ognor nuovi portenti; umane forme

Miste a forme di fere, e rami altissimi

Spuntar tal volta da vivente corpo,

E molte membra d'animai terrestri

Con quelle degli acquatici congiungersi,

E le chimere con orribil bocca

Fiamme spirando partorire al mondo

Il tutto e pascer la natura a pieno.

Del che nulla esser vero aperto appare,

Mentre veggiam da genitrice certa

Nascer tutte le cose e crescer poi

Da certi semi e conservar la specie.

E d'uopo è ben che tutto questo accaggia

Per non dubbia ragion: Poichè a ciascuno

Scendon da tutti i cibi entro alle membra

I propri corpi, onde congiunti fanno

Convenevoli moti; ed all'incontro

Veggiam gli altrui dalla natura in terra

Ributtarsi ben tosto, e molti ancora

Fuggon cacciati da percosse occulte

Pe' meati insensibili del corpo,

I quai nè unirsi ad alcun membro o quivi

Produr moti vitali ed animarsi

Non poteron già mai. Ma, perchè forse

Tu non credessi a queste leggi astretti

Solo i viventi, una ragione stessa

Decide il tutto: che, siccome in tutta

L'essenza lor le generate cose

Son fra sè varie, in cotal guisa appunto

Forz'è che di dissimili figure

Abbiano i semi lor; non perchè molte

Sian di forma fra lor poco simili,

Ma sol perchè non tutte in ogni parte

Hanno eguale ogni cosa: or, vari essendo

I semi, è di mestier che differenti

Sian le percosse l'unïoni i pesi

I concorsi le vie gli spazi i moti,

I quai non pur degli animali i corpi

Disgiungon, ma la terra e 'l mar profondo

E 'l cielo immenso dal terrestre globo.

Or porgi in oltre a questi versi orecchio

Da me con soavissima fatica

Composti, acciò tu non pensassi, o Memmo,

Cbe nate sian di candidi principii

Le bianche cose e che di nero seme

Si producan le nere, o pur che quelle

Che son gialle o vermiglie, azzurre o perse

O rancie o di qualunque altro colore,

Sol tali sian perchè il color medesmo

Della prima materia abbiano i corpi:

Poscia ch'i primi semi affatto privi

Son di tutti i colori, e non può dirsi

Ch'in ciò le cose a' lor principii sieno

Simili nè dissimili. E, se forse

Paresse a te che l'animo non possa

Veder corpi cotali, erri per certo

Lungi dal ver: poichè, se i ciechi nati,

Che mai del sol non rimirâr la luce,

Conoscon pur sol per toccarli i corpi,

Benchè fin da fanciulli alcun colore

Non abbian visto, è da saper che ponno

Anco le nostre menti aver notizia

De' corpi affatto d'ogni liscio privi.

Al fin; ciò che da noi nel buio oscuro

Si tocca al senso dimostrar non puote

Colore alcuno. Or, perch'io già convinco

Che ciò succede, io vo' mostrarlo adesso.

Poscia ch'ogni color del tutto in tutti

Si cangia: il che per certo a patto alcuno

Far mai non ponno i genitali corpi

Chè forza è pur ch'invarïabil resti

Di chi muor qualche parte, acciò le cose

Non tornin tutte finalmente al nulla;

Poichè, qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Quest'è sua morte, e non è più quel desso:

Per la qual cosa attribuir non dèi

Colore ai semi, acciò per te non torni

Il tutto in tutto finalmente al nulla.

Se in oltre i primi corpi alcun colore

Non hanno, hanno però forme diverse

Atte a produrli e varïarli tutti.

Con ciò sia che, oltre a questo, importa molto

Come sian misti i primi semi e posti;

Acciò tu possa agevolmente addurre

Pronte ragioni, ond'è che molti corpi

Che poc'anzi eran neri in un momento

Di marmoreo candor se stessi adornino,

Com'il mar, se talvolta irato il turba

Vento che spiri dall'arene maure,

Cangia in bianco alabastro i suoi zaffiri.

Poscia che dir potrai che spesso il nero,

Tosto ch'internamente agita e mesce

La sua prima materia, e varia alquanto

L'ordine de' principii e ch'altri aggiunti

Corpi gli sono, altri da lui sottratti,

Puote agli occhi apparir candido e bianco.

Chè se dell'oceàn l'onde tranquille

Fosser composte di cerulei semi,

Non potrebber già mai cangiarsi in bianche:

Poichè, comunque si commuova un corpo

Di ceruleo color, non puote al certo

Di candidezza alabastrina ornarsi.

Chè: se dipinti di color diverso

Fossero i semi onde si forma un solo

Puro e chiaro nitor del sen di Teti,

Come sovente di diverse forme

Fassi un solo quadrato; era pur d'uopo

Che siccome da noi veggonsi in questo

Forme difformi, anco del mar tranquillo

Si vedesser nell'onde od in qualunque

Altro puro nitor vari colori.

Le figure, oltr'a ciò, benchè diverse,

Non ponno ostar che per di fuori il tutto

Quadro non sia: ma posson bene i vari

Colori delle cose oprar che nulla

D'un sol chiaro nitor s'orni e risplenda.

Senza che, ogni ragion ch'induce altrui

Ad assegnare alla materia prima

Differenti colori è vana affatto:

Poichè di bianchi semi i bianchi corpi

Non si veggon crear, nè men di neri

I neri, ma di vari e differenti:

Con ciò sia ch'è più facile a capirsi

E piu agevole a farsi, che da seme

Privo d'ogni color nascan le cose

Candide, che da nero o da qualunque

Altro che incontra gli combatta e gli osti.

Perchè, in oltre, i colori esser non ponno

Senza luce, e la luce unqua non mostra

La materia svelata agli occhi nostri;

Quindi lice imparar ch'i primi semi

Non son velati da nessun colore;

E qual colore aver potrà già mai

Nelle tenebre cieche, il qual si cangia

Nel lume stesso se percosso splende

Con retta luce o con obliqua o mista?

Come piuma che 'l collo e la cervice

D'innocente colomba orni e colori

Or d'acceso rubin fiammeggia ed ora

Fra cerulei smeraldi i verdi mesce,

E d'altero pavon l'occhiuta coda,

Qualor pomposo ei si vagheggia al sole,

Cangia così mille colori anch'ella.

I quai poscia che pur son generati

Solo allor che la luce urta ne' corpi.

Non dèi stimar che senza questo possa

Ciò farsi. E perchè l'occhio in sè riceve

Una tal sorta di percosse allora

Ch'ei vede il bianco e senza dubbio un'altra

Da quella assai diversa allor ch'ei mira

Il nero e qualsivoglia altro colore,

Nè quale abbian color punto rileva

I corpi che si toccano, ma solo

Qual più atta figura; indi ne lice

Saper che nulla han di mestiere i semi

D'alcun colore, e che producon solo

Con varie forme toccamenti vari.

Perchè incerta, oltre a questo è del colore

L'essenza e pende da figure incerte,

E tutte posson de' principii primi

In qualunque chiarezza esser le forme;

Ond'è che ciò che d'esse è poi formato

Anch'ei non è nel modo stesso asperso

D'ogni sorte color? dal che sovente

Nascer potrà ch'anco i volanti corvi

Vantin con bianche penne il color bianco,

E di nera materia i cigni neri

Sian fatti o di qualunque altro colore

O puro e schietto o fra sè vario e misto.

Anzi che, quanto in più minute parti

Si stritolan le cose, allor succede

Che tu meglio veder possa i colori

Svanir a poco a poco ed annullarsi;

Qual se in piccioli pezzi o l'oro o l'ostro

Si frange e 'l sovr'ogni altro illustre e chiaro

Color cartaginese a filo a filo

Si straccia e tutto si disperde in nulla:

Onde tu possa argomentar che prima

Spiran le parti sue tutto il colore,

Che scendan delle cose ai primi semi.

Perchè, al fin, tu non credi ch'ogni corpo

Mandi alle nari odor, voci all'orecchie,

Quindi avvien poi che non assegni a tutti

Gli odori e 'l suono: or in tal guisa appunto,

Perchè non tutte puoi veder con gli occhi

Le cose, è da saper che sono alcune

Tanto d'ogni color spogliate affatto

Quanto alcune di suon prive e d'odore,

E che non men può l'animo sagace

Intender ciò, ch'ei l'altre cose intende

Prive d'altri accidenti e note ai sensi.

Ma; perchè forse tu non creda ignudi

Sol di colore i primi semi; avverti

Che son disgiunti dal colore in tutto

E dal freddo e dal tiepido vapore,

E sterili di suon magri di succo

Corron per lo gran vano, e non esalano

Dalla propria sostanza odore alcuno,

Come suol esalarne alle narici

Il soave liquor dell'amaraco,

Della mirra l'unguento e il fior del nardo.

E se tu forse esperïenza brami,

Pria convienti cercar, fin che ti lice

E che puoi ritrovar, l'interna essenza

Dell'olio inodorifero che alcuna

Alle nostre narici aura non manda,

Acciò, mischiando e digerendo in esso

Molti odori diversi, egli non possa

Rendergli poi del suo veleno infetti.

Per questo, in somma, i genitali corpi

Nel generar le cose il proprio odore

Non debbon compatirli o 'l proprio suono,

Perchè nulla da lor puote esalare;

Nè 'l sapor finalmente o 'l freddo o 'l caldo,

Per la stessa ragion, nè similmente

Il tiepido vapor. E gli altri corpi;

Che son mortali, e perciò tutti a questa

Legge soggetti, che di molle i teneri,

Di rozza gli aspri, et i porosi in somma

Sian di rara sostanza, è d'uopo al certo

Che tutti sian da' lor principii primi

Diversi; se pur brami ad ogni cosa

Assegnar fondamenti incorruttibili,

Ove possa appoggiarsi ogni salute;

Acciò per te tutte le cose al fine

Non sian costrette a dissiparsi in nulla.

Or ciò che sente non di meno è d'uopo

Che di semi insensibili formato

Si confessi da te. Nè pugna il senso

Contro a questo ch'io dico, anzi egli stesso

Quasi per mano ad affermar ne guida

Che vero è pur che gli animai non ponno

Se non se d'insensibili principii

Nascer già mai. Poichè veder ne lice

Sorger dal tetro sterco i vermi vivi

Allor che per tempeste intempestive

Umido il suolo imputridisce, ed anco

Tutte le cose trasmutar se stesse.

Si trasmutan le frondi i paschi i fiumi

In gregge, il gregge si trasmuta anch'egli

In uomini, e degli uomini sovente

Dell'indomite fere e de' pennuti

Cresce il corpo e la forza: adunque i cibi

Tutti per lor natura in vivi corpi

Si cangiano; e di qui nasce ogni senso

Degli animai, quasi nel modo stesso

Che spiega il foco un secco legno in fiamma

E ciò che tocca in cenere rivolta.

Vedi tu dunque omai di qual momento

Sia l'ordine de' semi e la mistura

E i moti che fra lor danno e ricevono?

In oltre ancor; che cosa esser può quella

Che percuote dell'uom l'animo e 'l muove

E lo sforza a produr sensi diversi,

Se pur non credi i sensitivi corpi

Di materia insensibile formarsi?

Certamente la terra i legni i sassi,

Ancor che siano in un confusi e misti,

Non producon però senso vitale.

Fia dicevole dunque il rammentarsi

Di questa lega de' principii primi;

Cio è; che non di tutti in tutto a un tratto

Fassi 'l corpo sensibile ed il senso;

Ma che molto rileva in primo luogo

Quanto piccioli sian, qual abbian forma

Ordini, moti e positure al fine

Gli atomi che crear denno il sensibile.

Delle quai tutte cose alcun non vede

Nulla ne' rotti legni e nell'infranto

Terreno: e pur, se queste cose sono

Quasi per pioggia putrefatte e guaste,

Generan vermi, perchè, mossi essendo

Della materia i corpi dall'antico

Ordine lor per l'accidente nuovo,

S'uniscon poscia in tal maniera insieme

Che d'uopo è pur che gli animai si formino.

In somma; allor che di sensibil seme

Dicon crearsi il sensitivo, in vero

Dall'altre cose a giudicare avvezzi

Fanno allor molle la materia prima;

Perch'ogni senso è certamente unito

Alle viscere, ai nervi ed alle vene,

Che pur son molli e di mortal sostanza

Tutte create. Ma sia vero omai

Che possan queste cose eternamente

Restare in vita: non per tanto è forza

Ch'elle abbian pure o come parti il senso,

O sian simíli agli animali interi.

Ma non san per sè stesse esser le parti

Non che sentir, nè può la mano od altra

Parte del corpo esser da lui divisa

E per sè stessa conservare il senso,

Poichè tosto ogni senso ella rifiuta

Dell'altre membra. Onde riman che solo

Agl'intieri animali abbian simile

L'essenza, acciò che d'ogni intorno possano

Sentir con vital senso. Or come adunque

Potran chiamarsi genitali corpi

E la morte fuggir, mentre pur sono

Animali ancor essi e co' mortali

Viventi una sol cosa? il che se pure

Esser potesse, non farian giammai

Dall'unïon divisi altro ch'un volgo

Ed una turba d'animai nel mondo:

Come certo non ponno alcuna cosa

Gli uomini generar, le fere, i greggi,

Quando uniti fra lor piglian sollazzo

Venereo, altro che fere, uomini e greggi.

Che se forse, del corpo il proprio senso

Perdendo, altro ne acquistano, a che fine

Assegnar li si dee ciò che gli è tolto?

In oltre ancora; il che scansammo avanti;

Fin che veggiam che de' crestati augelli

Si cangian l'uova in animati polli,

E di piccioli vermi il suol ribolle

Allor che per tempeste intempestive

Divien putrido e marcio, indi ne lice

Saper che fassi di non senso il senso.

Ma; se forse dirai crearsi i sensi

Sol da non sensi, pur che pria che nasca

Abbia di moto un tal principio il parto;

Sol basterà ch'io ti dimostri aperto,

Che mai senza unïon dei corpi primi

Non si genera il parto e non si muta

Nulla senza lor gruppo innanzi fatto.

Poichè per certo la materia sparsa

Per le fiamme pe' fiumi in aria in terra,

Cose innanzi create, e' non s'accozza

In convenevol modo, onde comparta

Fra sè moto vital, per cui s'accenda

Senso che guardi 'l tutto, e gli animali

Difender possa da' contrari insulti.

In oltre; ogni animal, se più gran colpo

Che la natura sua soffrir non puote

Il fere, in un momento anco l'atterra

E s'avaccia a turbar tutti e scomporre

E del corpo e dell'alma i sentimenti:

Poichè si sciolgon de' principii primi

Le positure ed impediti affatto

Sono i moti vitali infino a tanto

Che squassata e scommossa ogni materia

Per ogni membro il vital nodo scioglie

Dell'anima dal corpo e fuor dispersa

D'ogni proprio ricetto alfin la scaccia.

Perchè qual altra cosa oprar può mai

Negli animali un vïolento colpo,

Se non crollarli e dissiparne il tutto?

Succede ancor che per minor percossa

Puon del moto vital gli ultimi avanzi

Vincer sovente; vincere, e del colpo

Acquietare i grandissimi tumulti,

E di nuovo chiamar ne' propri alberghi

Ciò che partissi, e nell'afflitto corpo

Moti produr signoreggianti omai

Di morte, e dentro rivocarvi i sensi

Quasi smarriti. Che per qual cagione

Posson più tosto ripigliar vigore

E dallo stesso limitar di morte

Tornare in vita, che partirsi et ire

Là dove è già quasi finito il corso?

Perchè il duolo, oltre a questo allor si genera

Che per le membra e per le vive viscere

Da qualche vïolenza i primi corpi

Vengono stimolati e nelle proprie

Lor sedi internamente si conturbano;

Ma, quando poscia alla lor prima stanza

Tornano, il lusinghevole piacere

Tosto si crea; quindi saper ne lice

Che mai non posson da dolore alcuno

Essere afflitti i genitali corpi

Nè pigliar per sè stessi alcun diletto;

Con ciò sia che non son d'altri principii

Fatti, per lo cui moto aver travaglio

Debbiano o pur qualche soave frutto

Di dolcezza gustar: non ponno adunque

Esser dotati d'alcun senso i semi.

Se, 'n somma, acciò che senta ogni animale,

Senso a' principii suoi deve assegnarsi,

Dimmi che ne avverrà? Fia d'uopo al certo

Che i semi onde si crea l'umano germe

Si sganascin di risa, e di stillanti

Lacrime amare ambe le gote aspergano,

E ne sappian ridir come sian miste

Le cose, e possan domandar l'un l'altro

Le qualità de' lor principii e l'essere:

Poscia che, essendo assomigliati a tutti

I corpi corruttibili, dovranno

D'altri elementi esser formati anch'essi

E quindi d'altri in infinito gli altri;

E converrà che ciò che ride o parla

O sa, creato sia d'altri principii

Che ridano ancor lor parlino e sappiano.

Che se tai cose esser delire e pazze

Ognun confessa, e rider puote al certo

Chi fatto è pur di non ridenti semi,

Et esser saggio e nel parlar facondo

Chi nato è pur di non facondi e saggi;

Dimmi, per qual cagion ciò che si mira

Aver senso vital non può formarsi

D'atomi affatto d'ogni senso ignudi?

Al fin; ciascuno ha da celeste seme

L'origine primiera; a tutti è padre

Quello stesso onde, allor che in sè riceve

L'alma gran madre terra il molle umore

Della pioggia cadente, i lieti arbusti

Gravida figlia il gran, le biade e gli uomini,

Ed ogni specie d'animai selvaggi,

Mentr'ella a tutti somministra i paschi

Onde nutrirsi, onde menar tranquilla

Possan la vita e propagar la prole;

Ond'a ragione ebbe di madre il nome.

Similmente ritorna indietro in terra

Ciò che di terra fu creato innanzi;

E quel che fu dalle celesti e belle

Regïoni superne in giù mandato

Di nuovo anch'egli riportato in cielo

Trova ne' templi suoi dolce ricetto:

Nè sì la morte uccider può le cose,

Che le annichili affatto. Ella discioglie

Solo il gruppo de' semi, e quindi un altro

D'altri poi ne congiunge, e fa che tutte

Cangin forma le cose, e acquistin senso

Tal volta ed anco in un sol punto il perdano.

Onde apprender si può che molto importa

Come sian misti i primi semi e posti,

E quai moti fra lor diano e ricevano;

Poichè forman gli stessi il cielo il sole,

Gli stessi ancor la terra i fiumi il mare

Gli augelli i pesci gli animai le piante;

E, se non tutti, una gran parte almeno

Son tai corpi fra lor molto simíli,

E solo han vario e differente il sito.

Tal, se dentro alle cose in varie guise

Cangiansi de' principii i colpi i pesi

I concorsi le vie gli spazi i gruppi

Gli ordini i moti le figure i siti,

Debbon le cose varïarsi anch'elle.

Or, mentre il vero io ti ragiono, o Memmo,

Sta' con l'animo attento ai detti nostri,

Perchè nuovi concetti entro all'orecchie

Tentan di penetrarti e nuove forme

Di cose agli occhi tuoi se stesse svelano.

Ma nulla è di sì facile credenza,

Che di molto difficile non paia

Al primo tratto; e similmente nulla

Per sì grande e mirabile s'addita

Mai da principio, che volgare e vile

A poco a poco non diventi anch'egli.

Com'il chiaro e purissimo colore

Del cielo, e quel che le vaganti e fisse

Stelle in sè stesse d'ogn'intorno accolgono.

E della luna or mezza or piena or scema

L'argenteo lume e i vivi rai del sole:

Che s'or primieramente all'improvviso

Rifulgessero a noi quasi ad un tratto

Posti innanzi a' nostr'occhi, e qual potrebbe

Cosa mai più mirabile chiamarsi

Di questa? o che già mai la gente innanzi

Men di credere osasse? quel ch'io stimo,

A nessun più ch'a te parsa sarebbe

Degna di maraviglia una tal vista:

E pur, già sazio non che stanco ognuno

Dal soverchio mirar, non degna ai templi

Risplendenti del cielo alzar pur gli occhi.

Onde non voler tu, solo atterrito

Dalla sua novità, la mia ragione

Correr veloce a disprezzar; ma prendi

Con più fino giudizio a ponderarla:

E, se vera ti par, consenti e taci:

Se no, t'accingi a disputarle incontra.

Poichè sol di ragion l'animo è pago;

Essendo fuor di questo nostro mondo

Somma immensa di spazio, egli ricerca

Ciò che là sia, fin dove può la mente

Penetrare a veder, dove lo stesso

Animo può spiegar libero il volo.

Pria, se ben ti rammenta, in ogni parte,

A destra et a sinistra, e sotto e sopra,

Per tutto è sparso un infinito spazio,

Com'io già t'insegnai, come vocifera

Per sè medesmo il fatto, e manifesta

È del profondo la natura a tutti.

Già pensar non si debbe in guisa alcuna

Ch'essendo in ogni banda un vano immenso

Per cui con moto eterno in varie guise

Numero innumerabile di semi

Per lo vano profondo irrequïeti

Volâr mai sempre ed a crear bastanti

Fûr questa terra e questo ciel che miri,

Nulla fuori di lui faccian que' tanti

Principii; essendo massime anco questi

Fatto dalla natura, e delle cose

Gli stessi semi, in molti modi a caso

Urtandosi l'un l'altro indarno uniti,

Avendo pur fatto que' gruppi al fine,

Che, repentinamente in varie parti

Lanciati, fosser poi sempre principii

E di terra e di mar, di ciel, di stelle,

D'uomini, d'animai, d'erbe e di piante.

Onde voglia o non voglia, è pur mestiero

Che tu confessi esser da noi lontani

Molti altri gruppi di materia prima;

Qual a punto stim'io questo che stringe

L'etere con tenace abbracciamento.

In oltre allor che la materia è pronta,

Il luogo apparecchiato, e nulla manca,

Debbon le cose generarsi al certo.

Or; se dunque de' semi è tanto grande

La copia quanto a numerar bastevole

Non è degli animai l'etade intera,

E la forza medesma e la natura

Ritengono i principii atta a vibrarli

In tutti i luoghi nella stessa guisa

Ch'e' fur lanciati; in questo egli è pur d'uopo

Confessar ch'altre terre in altre parti

Trovinsi, et altre genti ed altre specie

D'uomini e d'animai vivano in esse.

S'arroge a ciò, che non è cosa al mondo

Che si generi sola e sola cresca:

Il che principalmente in ogni specie

D'animai può veder chïunque volge

La mente a contemplarle ad una ad una;

Poscia che sempre troverà che molte

Son simili fra loro e d'una razza.

Così veder potrai che son le fere

Che van pe' monti e per le selve errando,

Così l'umana prole, e finalmente

Così de' pesci gli squammosi greggi

E tutti i corpi de' rostrati augelli.

Ond'è pur forza confessar che 'l cielo,

Per la stessa ragion, la terra, il sole,

La luna, il mare e tutte l'altre cose

Non sian nell'universo uniche e sole

Ma più tosto di numero infinito:

Poichè tanto altamente è della vita

Il termine prefisso a queste cose

E tanto ad esse naturale il corpo,

Quant'ogni altra sostanza ond'esse abbondano

Generalmente. Il che se ben intendi,

Tosto libera e sciolta e di superbi

Tiranni priva e senza dèi parratti

La natura per sè creare il tutto.

Con ciò sia che, sia pur detto con pace

De' sommi dèi che placidi e tranquilli

Vivon sempre un'età chiara e serena,

Chi dell'immenso regger può la somma?

Chi del profondo moderare il freno?

Chi dare il moto a tutti i cieli e tutte

Di fuochi eterei riscaldar le terre?

E pronto in ogni tempo in ogni luogo

Trovarsi, ond'egli tenebrosi renda

D'atre nuvole i giorni, e le serene

Regïoni del ciel con tuono orrendo

Squassi e vibri talor fulmini ardenti,

E spesso atterri i propri templi e spesso

Contro i deserti incrudelisca ed opri

Irato il telo onde sovente illesi

Restano gli empi e gl'innocenti oppressi?

In somma; allor che fu creato il mondo

Il mar la terra e generato il sole,

Gli furo esternamente intorno aggiunti

Molt'altri primi corpi ivi lanciati

Dal tutto immenso, onde la terra e 'l mondo

Crescer potesse ed apparir lo spazio

Del gran tempio del cielo e gli alti tetti

Erger lunge da terra e nascer l'aria.

Poscia che tutti i corpi ai propri luoghi

Concorron d'ogni banda, e si ritira

Ciascuno alla sua spezie, all'acqua l'acqua,

Alla terra la terra, il foco al foco,

Il cielo al ciel, finch'all'estremo termine

Di sua perfezïon giunga ogni cosa,

Ciò natura operando; a punto come

Suole allora accader, che nulla omai

Più di quel che spirando ognor se n'esce

Nelle vene vitali entrar non puote:

Chè debbe pur di queste cose allora

L'età fermarsi e con le proprie forze

La natura frenare ogni augumento.

Poichè ciò che si mira a poco a poco

Farsi più grande e dell'adulta etade

Tutti i gradi salir, più corpi al certo

Piglia per sè che fuor di sè non caccia;

Mentre che per le vene agevolmente

Può tutto il cibo dispensarsi, ed esse

Non son diffuse in guisa tal che molto

Ne rimandino indietro e sia maggiore

Dell'acquisto la perdita. Chè certo

Forz'è pur confessar che dalle cose

Spiran corpi e si partono: ma denno

Corrervi in maggior copia infin a tanto

Che le possan toccar l'ultima meta

Del crescer loro. Indi la forza adulta

Si snerva a poco a poco e sempre in peggio

L'età dechina: con ciò sia che, quanto

Una cosa è più grande, essa per certo,

Toltone l'augumento, ognor discaccia

Da sè tanto più corpi; e per le vene

Sparger non puossi in sì gran copia il cibo,

Che quant'è d'uopo somministri al corpo

E ciò ch'ad or ad or langue e vien meno

Sia per natura a rinnovar bastante.

Dunque a ragion ciascuna cosa in tutto

Perisce allor che rarefatta scorre

E che soggiace alle percosse esterne;

Poichè per lunga etade il cibo al fine

Manca senz'alcun dubbio, e mai non cessano

Di martellar di tormentar le cose

Esternamente i lor nemici corpi,

Fin ch'e' non l'hanno dissipate affatto.

Così della gran macchina del mondo

Le mura eccelse al fin crollate e scosse

Cadranno un giorno imputridite e marcie;

Poscia che il cibo dee rinnovellando

Reintegrar tutte le cose indarno;

Poichè nè sopportar posson le vene

Ciò che d'uopo saria, nè la natura

Ciò che d'uopo saria somministrarli.

E già manca l'etade; e già la terra

Quasi del tutto insterilita a pena

Genera alcuni piccoli animali,

Ella ch'un tempo generar poteo

Tutte le specie e smisurati corpi

Dare alle fiere. Poi che le mortali

Specie, così cred'io, dal ciel superno

Per qualche fune d'òr calate al certo

Non furo in terra, e 'l mar le fonti e i fiumi

Non si creâr da lagrimanti sassi;

Ma quel terren, che gli nutrica e pasce

Or di sè stesso, di sè stesso ancora

Generolli a principio. Egli a' mortali

Fu bastante a produrre il grano e l'uva;

Egli i frutti soavi, egli i fecondi

Paschi ne diè, ch'in questa etade a pena

Con fatica e travaglio aver si ponno.

E; benchè noi degli aratori armenti

Snerviam le forze, e le robuste braccia

Affatichiam de' contadini industri,

E ferree zappe e vomeri e bidenti

Logoriam per la terra; ella ne porge

A pena il cibo necessario al vitto:

Talmente il suolo a poco a poco scema

Di frutto e sempre le fatiche accresce.

E già l'afflitto agricoltor sospira

D'aver più volte consumati indarno

I suoi gravi travagli; e, quando insieme

I secoli trascorsi e l'età nostra

Piglia a paragonar, loda sovente

Le fortune del padre; e s'ange e duole

Che gli uomini primieri agevolmente

Fra gli stretti confini, allor che molto

La misura de' campi era minore,

Vivesser la lor vita; e non sovviengli

Ch'a poco a poco s'infiacchisce il tutto

E stanco al fin per la soverchia etade

Va di morte allo scoglio e vi si spezza.

 

LIBRO TERZO

 

Argomento.

 

Questo libro non tratta d'altro che dell'anima umana; era l'obbietto essenziale della filosofia di Epicuro; è quello altresì in cui pare che Lucrezio appunti tutti i suoi sforzi. Dopo una specie d'invocazione a Epicuro, come al genio della filosofia, il cui aiuto gli è specialmente necessario in questa parte del suo poema, dimostra l'importanza del subbietto che prende a trattare, inquantochè l'ignoranza degli uomini rispetto alla natura della loro anima, è causa di quel loro timore della morte che al poeta pare l'unico fonte di tutti i mali e di tutti i delitti. Entra poi in materia e si sforza di provare: 1. che l'anima è una parte reale di noi stessi, e non già un'affezione generale della macchina, un'armonia, come vollero alcuni filosofi; 2. che l'anima forma una medesima sostanza unitamente allo spirito, il quale risiede nel centro del petto, laddove l'anima è sparsa in tutto il corpo; 3. che l'una e l'altro sono corporei, sebbene constino dei più sottili atomi che siano in natura; 4. che son tutt'altro che semplici, constando di quattro principj, lo spiro, l'aria, il calorico, e un quarto (che a quanto pare non è altro che gli spiriti animali), al quale il poeta non dà nome, e ch'egli considera come l'anima della nostra anima; 5. che questi quattro principj son misti e combinati, senza poter mai agire separatamente, non essendo, a dir così, che proprietà differenti di una medesima sostanza, ma che possono signoreggiare più o meno, e che di qua origina la differenza dei caratteri; 6. Che l'anima e il corpo sono siffattamente uniti che non possono sussistere l'uno senza l'altro; ma che tuttavia non si dee credere, come opinò Democrito, che ad ogni elemento del corpo risponda un elemento dell'anima. Esposte partitamente tutte queste cose, egli viene al suo scopo, e s'industria di provare che l'anima nasce e muore contemporaneamente al corpo; dogma empio, ch'egli fonda sopra trenta prove; donde conclude che la morte non è da temere, e che gli uomini si disperano a torto d'uno stato che li rende quel che erano prima di nascere.

 

O tu che in mezzo a così buie e dense

Tenebre d'ignoranza erger potesti

D'alto saver sì luminosa lampa,

Di nostra vita i commodi illustrando,

Io seguo te, te della greca gente

Onore, e de' piè miei fissi i vestigi

Imprimo ove tu già l'orme segnasti;

Non per desio di gareggiar, ma solo

Per dolce amore ond'imitarti agogno.

Chè come può la rondinella a prova

Cantar co' cigni del Caïstro? o come

Ponno agguagliar le smisurate forze

De' leoni i capretti, e con le membra

Molli ancor per l'etade e vacillanti

Vincer nel corso le veloci damme?

Tu di cose inventor, tu padre sei,

Tu ne porgi paterni insegnamenti:

E, qual succhiar da tutti i fiori il mèle

Soglion le pecchie entro le piagge apriche,

Tal io dalle tue dotte inclite carte

Gli aurei detti delibo ad uno ad uno,

Aurei e di vita sempiterna degni.

Chè non sì tosto a sparger cominciossi

Il tuo parer che dagli dèi creata

Delle cose non sia l'alma natura,

Che dalle menti ogni timor si sgombra:

Fuggon del mondo le muraglie; e veggio

Pel vôto immenso generarsi il tutto;

De' sommi dèi la maestà contemplo

E le sedi quietissime, da' venti

Non commosse già mai, nè mai coverte

Di fosche nubi o d'atri nembi asperse,

Nè vïolate da pruine o nevi

O gel, ma sempre d'un diffuso e chiaro

E tranquillo splendor liete e ridenti.

Natura in oltre somministra all'uomo

Ciò che gli è d'uopo, e la sua pace interna

Non turba in alcun tempo alcuna cosa.

Nè più si mira ai danni nostri aperto

L'inferno e scritto di sua porta al sommo

— Uscite di speranza, o voi ch'entrate: —

Nè può la terra proibir che tutte

Non si mirin le cose che pel vano

Ci si fan sotto i piedi. Ond'io rapirmi

A te mi sento da cotal divino

E diletto e stupor, che la natura

Sol per tuo mezzo in cotal guisa a tutti

D'ogni parte svelata omai si mostri.

E perchè innanzi abbiam provato a lungo

Quali sian delle cose i primi semi

E con che varie forme essi per sè

Vadan pel vano errando, e sian commossi

Da moto alterno irrequïeto e vario,

E come possa da' lor gruppi al mondo

Crearsi il tutto; omai par che dell'alma

Dichiarar la natura e della mente

Ne' versi miei si debba, e 'l rio timore

Delle squallide rive d'Acheronte

Cacciarne affatto; il qual dall'imo fondo

Turba l'umana vita e la contrista,

E sparge il tutto di pallor di morte,

Nè prender lascia alcun diletto intero.

Poichè; quantunque gli uomini sovente

Dican che più son da temersi i morbi

Del corpo e della vita il disonore

Che le tartaree grotte, e che ben sanno

Che l'essenza dell'animo consiste

Nel sangue, e che non han bisogno alcuno

Di mie ragioni; a te di quindi è lecito

Dedur che molti per ventosa e vana

Ambizïon di gloria ed a capriccio

Van di ciò millantandosi che poi

Non approvan per vero. Essi medesimi,

Esuli dalla patria e dal commercio

Degli uomini cacciati, e sozzi e laidi

Per falli enormi, a tutte le disgrazie

Finalmente soggetti, il viver bramano;

E, dovunque infelici il piè rivolgano,

Fanno esequie dolenti, e nere vittime

Ai numi inferni del profondo Tartaro

Sol per placarli in sacrifizio offriscono,

E sempre in volto paurosi e pallidi

Ne' duri casi lor nelle miserie

Alla religïon l'animo affissano.

Ne' dubbiosi perigli è d'uopo adunque

Agli uomini por mente e nell'avverse

Fortune, chi desia ch'i lor interni

Sensi gli sian ben manifesti e conti;

Poi ch'allor finalmente escon le vere

Voci dall'imo petto, e via si toglie

La maschera e scoperto il volto appare.

In somma; l'avarizia e degli onori

L'ingorda brama, che i mortali sciocchi

Sforza a passar d'ogni giustizia il segno

E d'ogn'empio misfatto anco tal volta

I compagni i ministri, e notte e giorno

Durare intollerabili fatiche

Sol per salir delle ricchezze al sommo

E potenza acquistar, scettri e corone;

Sì fatte piaghe dell'umana vita

Dal timor della morte hanno in gran parte

Vita e sostegno. Chè la fama rea

E lo scherno e 'l disprezzo e la pungente

E sconcia povertà sembra che lungi

Sia dalla dolce incommutabil vita

E che sol della morte avanti all'uscio

Quasi omai si trattenga: onde i mortali

Mentre da cieco error forzati e spinti

Tentan fuggirsi indarno, al civil sangue

Corrono, e stragi accumulando a stragi

Raddoppian le ricchezze, empi e crudeli

De' fratelli e de' padri i funerali

Miran con lieto ciglio, e de' congiunti

Di sangue odian le mense e n'han sospetto.

Per lo stesso timor, nel modo stesso,

L'aver questi possente avanti agli occhi,

Quel da tutti stimato e riverito,

D'invidia il cor gli macera e v'imprime

Desio di gloria immoderato ardente;

Pargli che nelle tenebre e nel fango

Sian convolti i lor nomi. Altri perisce

Di folle aura di fama o d'insensate

Statue invaghito. E l'odio della vita

E del sole e del giorno appo i mortali

Col timor della morte è misto in guisa,

Ch'ancidon sè medesmi e dentro al petto

Se ne dolgono intanto: e non sovviengli

Che sol questa paura è delle noie

L'origine primier, questa corrompe

Ogni onesto pudor, questa i legami

Spezza dell'amicizia, e questa in somma

Volge sossopra la pietade e tosto

Dalle radici la diveglie e schianta:

Con ciò sia che già molti hanno tradito

E la patria e' parenti e' genitori,

Sol per desio di non veder gli orrendi

Templi sacrati al torvo re dell'ombre.

Poichè, siccome i fanciulletti al buio

Temon fantasmi insussistenti e larve,

Sì noi tal volta paventiamo al sole

Cose che nulla più son da temersi

Di quelle che future i fanciulletti

Soglion fingersi al buio e spaventarsi.

Or sì vano terror, sì cieche tenebre

Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo,

Non co' be' rai del sol, non già co' lucidi

Dardi del giorno a saettar poc'abili

Fuor che l'ombre notturne e' sogni pallidi,

Ma col mirar della natura e intendere

L'occulte cause e la velata immagine.

L'animo adunque, entro del quale è posto

Della vita il consiglio et il governo,

E che spesso da noi mente si chiama,

Prima dich'io che nulla meno è parte

Dell'uom che sian l'orecchie, il naso e gli occhi

Parti d'ogni animale: ancor che grande

Schiera di saggi abbian creduto e scritto

Che dell'animo il senso entr'una parte

Certa luogo non abbia e solamente

Sia del corpo un cert'abito vitale

Detto armonia da' Greci, il qual ne faccia

Viver con senso, benchè in parte alcuna

Non si trovi la mente; e, quale a punto

Sovente alcun sano vien detto, e pure

Non è la sanità parte del corpo,

Tal dell'animo nostro il senso interno

Non han locato in una certa parte.

Nel che parmi che molti abbian errato

Troppo altamente. Poi che spesso accade

Che nell'esterno il corpo egro e dolente

Ne sembra allor che d'altra parte occulta

Pur s'allegra e festeggia; et all'incontro

V'ha chi d'animo è afflitto, e in tutto il corpo

Lieto pur n'apparisce; in quella guisa

Che duol talora a qualche infermo un piede,

Mentre la testa alcun dolor non sente.

In oltre; allor che per le membra serpe

La placida quïete, e giace effuso

E privo d'ogni senso il grave corpo;

È pur in noi qualch'altra cosa intanto

Che s'agita in più modi, e dentro a sè

Ricever può d'ogni allegrezza i moti

E le noie del cuor vane e fugaci.

Or; accio che tu sappia anco che l'alma

Abita nelle membra e che non puote

Dalla sola armonia reggersi il corpo;

Pria convienti osservar che spesso accade

Che gran parte di corpo altrui vien tolta,

E pur dentro alle membra ancor dimora

La vita e l'alma; pel contrario, spesso

Non sì tosto fuggirsi alcuni pochi

Corpi di caldo ed esalò per bocca

Il chiuso spirto, che le vene e l'ossa

Lascia prive di sè l'alma e la vita:

Onde tu possa argomentar da questo

Che non di tutti i corpi in tutto eguali

Son le minime parti e che non tutte

La salute sostentano egualmente,

Ma che i semi del tiepido vapore

E quei dell'aura a conservar la vita

Vie più son atti. Entro del corpo adunque

È lo spirto vitale e 'l caldo innato,

Che lascia al fin le moribonde membra

Rigide e fredde e si dilegua e sfuma.

Onde, poichè dell'animo e dell'anima

La natura è dell'uom quasi una parte,

Di' pur che 'l nome d'armonia fu tratto

Dal canoro Elicona o d'altro luogo

Ed a cosa applicato che di propria

Voce avea d'uopo. Or, che che sia di questo,

Tu no 'l curar, ma gli altri detti ascolta.

L'anima dunque e l'animo congiunti

Son fra di lor, ed una stessa essenza

Si forma d'ambedue: ma quasi capo

È del corpo il consiglio, il qual da noi

Vien detto animo e mente. E questi in mezzo

Del cuore è posto; poi che quindi esulta

Il sospetto e 'l timor, qui l'allegrezza

Molce; qui dunque ha pur l'animo il seggio.

L'altra parte dell'anima è diffusa

Per tutto il corpo, e della mente al moto

Si muove anch'ella et obbedisce al cenno:

Ma sol per sè piace a sè stesso e seco

Gode l'animo, allor che nulla il corpo

Perturba o l'alma. E; come gli occhi e 'l capo

Sovente in noi lieve dolore offende,

Mentre che l'altre membra angoscia alcuna

Non sentono; in tal guisa anco alle volte

Lieta o mesta è la mente, ancor che l'altra

Parte dell'alma per le membra sparsa

Non provi novità. Ma se commosso

L'animo è poi da più gagliarda tema,

Veggiam che tutta per le membra a parte

L'alma è di ciò: tosto un sudor gelato,

Un esangue pallor n'occupa il corpo;

Balbutisce la lingua; e fioche e mozze

Dal petto escon le voci; abbacinati

Gli occhi in terra conficcansi; l'orecchie

Sentonsi zufolar; sotto i ginocchi

Fiacche treman le gambe e 'l piè vacilla.

Vedesi al fin che per terror di mente

Spesso l'uom s'avvilisce; onde ciascuno

Può di quindi imparar ch'unita e stretta

È l'anima con l'animo, e che, tosto

Che l'è spinta da lui, sferza e commuove

Le membra: e ciò senz'alcun dubbio insegna

Che l'essenza dell'animo e dell'anima

Incorporea non è. Ch'ove tu miri

Che la porge alle membra impulso e moto,

Che nel sonno le immerge, il volto muta,

E l'uom tutto a sua voglia agita e volge;

Nè senza tatto di tai cose alcuna

Far si può mai nè senza corpo il tatto;

Mestiero è pur che di corporea essenza

Si confessin da noi l'alma e la mente.

L'animo, in oltre, è sottoposto a tutti

Gli accidenti del corpo, e dentro ad esso

Partecipa con noi d'ogni suo danno:

Dunqu'è mestier che per natura anch'egli

Corporeo sia, mentre nel corpo immerso

Può da corporei dardi esser piagato.

Or, che corpo sia l'animo e di quali

Semi formato, in chiari detti esporti

Vo', se attento m'ascolti. Io dico dunque

Pria ch'egli è sottilissimo e composto

D'atomi assai minuti. E, se tu forse

Come ciò vero sia d'intender brami,

Quindi intendere il puoi. Nulla più ratto

Far si vede già mai di quelle cose

Che la mente propone e ch'ella stessa

A far comincia. Più veloce adunque

Corre per sè medesima la mente

D'ogni altra cosa che veder con gli occhi

Si possa. Ma di semi assai rotondi

E minuti convien che sia formato

Quel che mobile è tanto, acciò che spinti

Da piccolo momento abbiano il moto.

Che, se l'acqua si muove e per tantino

Di momento si mesce, ondeggia e scorre,

Ciò fa perchè il suo corpo è per natura

D'atomi molto piccoli e volubili

Contesto: ma se l'olio o 'l visco o 'l mèle

Più tenaci han le parti e men veloce

L'umido innato e vie più tardo il corso,

Questo gli avvien perchè la lor materia

Stretta è fra sè con più gagliardo laccio,

Nè di tanto sottili e sì rotondi

Atomi è fatta e così lisci e mobili.

Con ciò sia che sospesa aura leggiera

Può di molle papavero un gran mucchio

Sforzar col soffio a dissiparsi affatto,

Ma non può già per lo contrario un monte

O di pietre o di dardi. Adunque, quanto

I corpi son più lievi e più minuti

O più lisci o più tondi, essi altrettanto

Son più facili a muoversi; ma, quanto

Son più gravi all'incontro e più scabrosi,

Essi altrettanto han più fermezza in loro.

Dunque, perchè da noi già s'è provato

Che la mente dell'uomo è mobilissima,

Mestier sarà ch'i suoi principii primi

Molto piccioli sian, lisci e rotondi.

Il che se bene intenderai, saratti

D'utile non mediocre, ed opportuno

Dar potrà lume a molte cause occulte.

Ma di che tenue e sottil seme ell'abbia

L'essenza intesta e da che picciol luogo

Contenersi dovria se in un sol gruppo

S'unisse, a te palese anco da questo

Certamente farassi: osserva l'uomo,

Tosto che della morte acquista e gode

La sicura quïete e che dell'alma

Si fuggío la natura e della mente:

E nulla dal suo corpo esser limato

Veder potrai nella figura esterna,

Nulla nel peso; ogni altra cosa intatta

Ne conserva la morte, eccetto il senso

Vitale e 'l vapor caldo. Adunque è forza

Che di semi assai piccoli contesta

Sia tutta l'alma per l'interne viscere,

Per le vene e pe' muscoli e pe' nervi:

Poichè, quantunqu'ella s'involi affatto

Dal corpo, non per tanto illesa resta

D'intorno a lui la superficie estrema,

Nè pur gli manca del suo peso un pelo

Qual se dal vino o dal soave unguento

Sfuma lo spirto e si dissolve in aura

O d'altro corpo si dilegua il succo,

Che non sembra però punto minore

O di mole o di peso; e ciò succede

Sol perchè molti piccioli e minuti

Semi i succhi compongono e l'odore

Comparton delle cose a tutto il corpo.

Dunque, voglia o non voglia, è pur mestiero

Che l'essenza dell'animo e dell'anima

Si confessi da te fatta di semi

Piccioli assai, mentre in fuggir dal corpo

Della sua gravità nulla non toglie.

Nè già creder si dee che tal natura

Semplice sia: poich'un sottile spirto

Misto con vapor caldo a' moribondi

Dal petto esala, e 'l vapor caldo a forza

Trae seco d'aria qualche parte, e mai

Non si trova calor ch'in sè mischiato

Aere non abbia; poichè, rara essendo

La sua natura, è necessario al certo

Che fra gli atomi suoi molti principii

D'aria siano agitati. Or dunque omai

Della mente e dell'alma abbiam trovato

Tre varie essenze: e pur tre varie essenze

Non son bastanti a generare il senso:

Con ciò sia che capir nostro intelletto

Non può già mai come di queste alcuna

Basti a produrre i sensitivi moti

Ch'a più cose applicar possan la mente.

D'uopo fia dunque aggiungergli una quarta

Natura: e questa totalmente è priva

Di nome, nè di lei si trova al mondo

Più mobil cosa o di più tenue e raro

Corpo e ch'intesto sia di più minuti

O di più lisci e più rotondi semi.

Questa pria per le membra i sensitivi

Moti distribuisce, e, perchè fatta

È d'atomi assai piccioli, si muove

Pria d'ogni altra natura: il caldo quindi,

Quindi dell'aura l'invisibil forza

Riceve il moto; e quindi l'aere e quindi

Si mobilita il tutto. Il sangue scorre,

Senton tutte le viscere, e concesso

È finalmente all'ossa e alle midolle

Il diletto e 'l dolor. Nè questo o l'acre

Infirmità può penetrarvi mai

Senza che 'l tutto si perturbi, in guisa

Che luogo al viver manchi e che dell'alma

Fugga ogni parte pe' meati occulti

Del nostro corpo; ancor che spesso accaggia

Che restino interrotti i movimenti

Quasi al sommo del corpo, e sia bastante

L'uomo in tal caso a conservarsi in vita.

Or, mentr'io bramo di narrarti a pieno

Come sian fra di lor queste nature

Mescolate nel corpo et in qual modo

Abbian forza e vigor, me ne ritragge

La povertà della romana lingua:

Ma pur, com'io potrò, sommariamente

Dirolti. Poi che de' principii i corpi

Trascorron l'un con l'altro uniti in guisa

Che alcun non se ne sèpara, nè mai

Crear si può per interposto spazio

Un diverso poter, ma quasi molte

Potenze sono in un sol gruppo unite.

E qual degli animai l'interne viscere

Han tutte un certo odore, un certo caldo

Et un certo sapore, e pur veggiamo

Che di queste tre cose una sol cosa

Non per tanto si crea; tale il calore

E l'aere e la virtù cieca del vento

Fan tra lor misti una natura sola

Con questa per sè mobile energia

Ch'i movimenti gli comparte ed onde

Fin per entro alle viscere si crea,

Prima che altrove, il sensitivo moto.

Poscia che tal natura affatto occulta

È senza dubbio alcuno, e più riposta

Cosa di questa immaginar non puossi

Da noi, perch'ella stessa alma è dell'alma.

E; qual dentro alle membra e 'n tutto il corpo

Stassi misto ed occulto e della mente

E dell'alma il vigor, perchè di semi

Tenui e piccoli è fatto; in simil guisa

Questa tale energia priva di nome

È di corpi assai piccoli e sottili

Creata anch'ella, e sta nel corpo ascosta

Alma di tutta l'alma e signoreggia

In tutto il corpo. Or in tal modo è d'uopo

Che l'aura e l'aere e 'l vapor caldo insieme

Misti sian per le membra e che altri ed altri

Stian più sotto o più sopra, acciò che possa

Farsi di tutti un sol composto, e 'l foco

Distintamente e 'l caldo e l'energia

Dell'aere il senso non ancida e sciolga.

È nell'animo poi cert'altro caldo

Ch'ei piglia nello sdegno allor che ferve,

E che per gli occhi torvi incendio spira:

V'è del freddo timor compagna eterna

Molt'aura sparsa, atta a produr nel corpo

L'orror di morte e concitar le membra:

Ed evvi ancor quel placido e quïeto

Stato dell'aria, che dall'uom si gode

Nel cuor tranquillo e nel sereno volto.

Ma vie più di calor si trova in quelli

Che di cor son crudeli ed iracondi

D'animo e facilmente ardon di sdegno:

Qual sovra ogni altra cosa è la possanza

E 'l furor degl'indomiti leoni,

Che gemendo e mugghiando orribilmente

Squarcian tal volta il petto e più non ponno

In lor capir di sì grand'ira il flutto.

Ma le timide cerve han più ventosa

E più fredda la mente, e per le viscere

Concitan vie più presto aure gelate

Che fan sovente irrigidir le membra.

Ma d'aria al fin più placida e tranquilla

Vive il gregge arator; nè mai soverchio

Dell'ira il turba la fumante face,

Di caligine cieca ombre spargendo;

Nè mai dal tèlo del timor trafitto

Gelido torpe; ma nel mezzo è posto

Tra' paurosi cervi e' leon fieri.

Tal anco è l'uman germe: e, benchè molti

Siano egualmente di dottrina adorni,

Restan però nella natura impresse

Di qualunqu'alma le vestigia prime.

Nè già creder si dee che la virtude,

Siasi quant'esser voglia eccelsa e grande,

Sveglier possa già mai dalle radici

Dell'uomo i vizi e proibir che questi

Più facilmente non trascorra all'ira,

Quei dal freddo timor più presto alquanto

Assalito non venga, e più del giusto

Non sia quel terzo placido e clemente.

Anzi è mestier che in altre cose assai

Degli uomini fra lor sian differenti

Le nature e diversi anco i costumi

Che dependon da quelle. E; s'io non posso

Di tai cose esplicar le cause occulte,

Nè tanti nomi di figure imporre

Quanti d'uopo sariano a quei principii

Onde sì gran diversità di cose

Nasce nel mondo; io per me credo almeno

Di poter affermar che i naturali

Primi vestigi, che non puote affatto

Discacciar la ragion, sì lievemente

Restino impressi in noi, che nulla possa

Vietare all'uom che placida e tranquilla

E degna degli dèi vita non viva.

Così fatta natura è sparsa adunque

Pel corpo, e 'l custodisce e lo conserva:

Poichè l'anima e 'l corpo han le radici

Sì strettamente avviticchiate insieme,

Che impossibil mi par che possan l'une

Dall'altre esser divelte e che 'l composto

Ratto a morte non corra. E, quale a punto

Mal si può dall'incenso estrar l'odore

Senza ch'ei pèra e si corrompa affatto,

Tal dell'alma e dell'animo l'essenza

Mal diveglier si può dal nostro corpo

Senza ch'ei muoia e si dissolva il tutto.

Così fin dall'origine primiero

Create son d'avviluppati semi

Le predette nature, ed han comune

Fra lor la vita; nè capir si puote

Come nulla sentir possano i corpi

Dalle menti divisi o pur le menti

Separate da' corpi: ond'è pur d'uopo

Che di moti comuni e quinci e quindi

Per le viscere a noi s'accenda il senso.

In oltre; non si genera nè cresce

Mai per sè stesso il corpo, e d'alma privo

Tosto s'imputridisce e si corrompe.

Poichè; quantunque il molle umor dell'acque

Perda spesso il sapor che gli fu dato,

Nè per ciò sia distrutto, anzi rimanga

Senz'alcun danno; non per tanto i corpi

Non son bastanti a sofferir che l'alma

Si parta e gli abbandoni, ma convulsi

Muoion del tutto e fansi esca de' vermi;

Poichè fin da principio, anco riposti

Nelle membra materne e dentro all'alvo,

Hanno i moti vitali in guisa uniti

E scambievoli i morbi il corpo e l'alma,

Che non può l'un dall'altro esser diviso

Senza peste comun: tu quindi adunque

Ben conoscer potrai, che, se congiunta

La causa è di salute, è d'uopo ancora

Che unita sia la lor natura e l'essere.

Nel rimanente poi, s'alcun rifiuta

Che senta il corpo e crede pur che l'alma

Sparsa per ogni membro abbia quel moto

Che senso ha nome, egli per certo impugna

Cose veraci e manifeste al senso.

Chè, chi mai potrà dire in che consista

Del corpo il senso, altro che 'l senso istesso

Che sol n'addita e ne fa noto il tutto?

Nè qui sia chi risponda — Il corpo privo

D'anima, resta anco di senso ignudo: —

Posciach'egli, oltre a ciò, molt'altre cose

Perde senz'alcun dubbio, allor che lunga

Età l'opprime e lo converte in polve.

Ma, l'affermar che gli occhi oggetto alcuno

Veder non ponno e che la mente è quella

Che rimira per lor come per due

Spalancate finestre, a me per certo

Difficil sembra e che 'l contrario a punto

Degli occhi stessi ne dimostri il senso;

Massime allor che per soverchia luce

Ne vien tolto il veder de' rai del sole

L'aureo fulgor, perchè da' lumi i lumi

Son tal volta oscurati. Or ciò non puote

Alle porte accader; chè gli usci aperti

D'onde noi riguardiamo alcun travaglio

Non han già mai. Ma se i nostr'occhi in oltre,

Ci servon d'usci, ragionevol parmi

Che, traendoli fuor, debba la mente

Meglio veder senza le stesse imposte.

Nè qui ricever dèi per cosa vera,

Ben che tal la stimasse il gran Democrito,

Che del corpo e dell'alma i primi semi

Posti l'un presso all'altro alternamente

Varie faccian le membra e si colleghino.

Poichè non sol dell'anima i principii

Son di quegli del corpo assai minori,

Ma gli cedon di numero e più rari

Son dispersi per esso: onde affermare

Questo solo potrai, che tanti spazi

Denno appunto occupar dell'alma i semi,

Quanti bastano a noi per generare

I moti sensitivi entro alle membra.

Poichè tal volta non sentiam la polve

Nè la creta aderente al nostro corpo,

Nè la nebbia notturna, nè le tele

De' ragni allor che nell'andarli incontro

Vi restiamo irretiti, nè la spoglia

Degli stessi animai quando sul capo

Ci casca, nè le tele degli uccelli,

Nè de' cardi spinosi i fior volanti,

Che per soverchia leggerezza in giuso

Caggion difficilmente: e non sentiamo

Il cheto andar d'ogni animal che repa,

Nè tutti ad uno ad uno i segni impressi

In noi dalle zanzare. In cotal guisa

D'uopo è che molti genitali corpi

Muovansi per le membra ove son misti,

Pria che dell'alma gli acquistati semi

Possan, disgiunti per sì grande spazio,

Sentire e martellando urtarsi, unirsi

E saltar a vicenda in varie parti.

Ma vie più della vita i chiostri serra

L'animo a noi che l'energia dell'alma,

E più ne regge e signoreggia i sensi.

Con ciò sia che dell'alma alcuna parte

Non può per alcun tempo ancor che breve

Riseder senza mente entro alle membra;

Ma compagna la segue agevolmente,

E fuggendo per l'aure il corpo lascia

Nel duro freddo della morte involto.

Ma quegli a cui la mente illesa resta

Vivo rimane, ancor che d'ogni intorno

Abbia lacero il corpo: il tronco busto,

Ben che tolte gli sian l'alma e le membra,

Pur vive e le vitali aure respira,

E, dell'alma in gran parte orbo restando

Se non in tutto, non pertanto in vita

Trattiensi e si conserva; a punto come

L'occhio ritien la facoltà visiva,

Quantunque intorno cincischiato e lacero,

Fin che gli resta la pupilla intatta,

Pur che tu l'orbe suo tutto non guasti

Ma tagli intorno al cristallino umore

E solo il lasci; con ciò sia che farlo

Anco il potrai senza timore alcuno

Dell'esterminio suo; ma, se corrosa

Fia la pupilla, ancor che sia dell'occhio

Una minima parte, e tutto il resto,

Dell'orbe illeso e splendido rimanga,

Tosto il lume tramonta e buia notte

N'ingombra. Or sempre una tal lega a punto

Tien congiunti fra lor l'animo e l'alma.

Or via; perchè tu, Memmo, intender possa

Che son degli animai l'alme e le menti

Natie non pur ma sottoposte a morte;

Io vo' seguire ad ordinar condegni

Versi della tua vita e da me cerchi

Lungo spazio di tempo e ritrovati

Con soave fatica. Or su, fra tanto

L'un di questi due nomi all'altro accoppia;

E, quand'io, verbigrazia, esser mortale

L'alma t'insegno, a creder t'apparecchia

Che tale anco è la mente; in quanto l'una

Fa congiunta con l'altra un sol composto.

Pria: perchè già la dimostrammo innanzi

Di corpi sottilissimi e minuti

E fatta di principii assai minori

Di quegli onde si forma il molle corpo

Dell'acqua o della nebbia o 'l fumo o 'l vento;

Poichè nell'esser mobile d'assai

Vince tai cose, e per cagion più lieve

È sovente agitata; anzi tal volta

Commossa è sol da simolacri ignudi

In lei dall'acqua o dalla nebbia impressi

O dal fumo o dal vento: il che succede

Qualor sopiti in placida quïete

Veggiamo e di caligine e di fumo

L'aere intorno ingombrar sublimi altari,

Poscia che tali imagini per certo

Formansi in noi. Or; se tu vedi adunque

Che rotti i vasi in ogni parte scorre

L'acqua e via se ne fugge, e che la nebbia

E 'l fumo e 'l vento si dissolve in aura;

Ben creder dèi che l'anima e la mente

Si distrugga e perisca assai più presto,

E che in tempo minore i suoi principii

Sian dissipati, allor ch'una sol volta

Rapita dalle membra si diparte.

Con ciò sia che; se 'l corpo, il quale ad essa

Serve in vece di vaso, o perchè rotto

Sia da qualche percossa o rarefatto

Per mancanza di sangue, omai bastante

A frenarla non è; come potrai

Creder che vaglia a ritenerla alcuno

Aere che la circondi? Egli del nostro

Corpo è più raro: e con più forte laccio

Stringer potralla ed impedirle il corso?

In oltre; il senso ne dimostra aperto

Nascer la mente in compagnia del corpo

E crescer anco ed invecchiar con esso.

Poichè, siccome i piccoli fanciulli

Han tenere le membra e vacillante

Il pargoletto piè, così veggiamo

Che dell'animo lor debile e molle

È la virtù: ma, se crescendo il corpo

S'augumenta di forze, anco il consiglio

Maggior diviene e della mente adulta

Più robusto è 'l vigor: se al fin crollato

È dagli urti del tempo e vecchio omai

Langue il corpo e vien meno e se le membra

Perdon l'usate forze, anco l'ingegno

Zoppica, e, delirando in un sol punto

E la lingua e la mente, il tutto manca.

Dunqu'è mestier che tutta anco dell'alma

La natura si dissipi, qual fumo

Per l'aure aeree; poichè nasce e cresce

Col corpo, e per l'etade al fin diventa,

Com'io già t'insegnai, debile e fiacca.

S'arroge a ciò, che, se veggiamo il corpo

Soggetto a duri morbi e a dure ed aspre

Battaglie, anco la mente alle mordaci

Cure è soggetta alle paure al pianto:

Per la qual cosa esser del rogo a parte

Anco gli è d'uopo. Anzi, sovente accade

Che, mentre il nostro corpo infermo langue,

L'animo vagabondo esce di strada;

Poichè spesso vaneggia e di sè fuori

Parla cose da pazzi, ed è tal volta

Da letargo durissimo e mortale

Sommerso in alto e grave sonno eterno;

Cade il volto sul petto, e fissi in terra

Stan gli occhi, ond'egli o le parole udire

O conoscer i volti omai non puote

Di chi, standogl'intorno e procurando

Di richiamarlo in vita, afflitto e mesto

Bagna d'amare lagrime le gote.

Ond'è pur d'uopo il confessar che l'alma

Perisce anch'ella, mentre in lei penétra

Il contagio de' morbi, e 'l duolo e 'l morbo

Ambi del rogo a noi sono architetti;

Come di molti l'esterminio insegna.

In somma; per qual causa, allor che l'atra

Vïolenza del vino ha penetrato

Dell'uomo il corpo e per le vene interne

È diffuso l'ardor, tosto ne segue

Gravezza nelle membra, il piè traballa,

Balbutisce la lingua, ebra vaneggia

La mente, nuotan gli occhi, e crescon tosto

E le grida e i singhiozzi e le contese

E tutto ciò che s'appartiene a questo?

Or perchè ciò? se non perchè la forza

Vïolenta del vino entro allo stesso

Corpo anco l'alma ha di turbar costume?

Ma tutto quel che da cagione esterna

Turbar si puote et impedir, ne mostra

Che, s'egli fia da più molesto incontro

Turbato, perirà, restando affatto

Della futura età privo in eterno.

Anzi: sovente innanzi agli occhi nostri

Veggiamo alcun da repentino morbo

Cader, quasi da fulmine percosso:

Lordo ha il volto di bava, e geme e trema,

Esce fuor di sè stesso, i nervi stende,

E si crucia ed anela, ed incostante

Dibatte e stanca in varie guise il corpo;

Poichè del morbo la possanza allora

Per le membra distratta, agita e turba

L'alma e spuma, qual onda in salso mare,

Se borea il fiede impetuoso od austro,

Gorgoglia e bolle. Il pianto indi s'esprime,

Sol perchè punte dal dolor le membra

Fan che scacciati delle voci i semi

Escon per bocca avviluppati insieme:

Nasce il delirio poi, perchè l'interna

Virtù dell'alma e della mente allora

Si turba, e, com'io dissi, in due divisa

Vien sovente agitata, e quinci e quindi

Dallo stesso velen sparsa e distratta.

Ma, se 'l fiero accidente omai si placa

E l'atro umor del già corrotto corpo

Ne' ripostigli suoi fugge e s'asconde,

Prima allor vacillando in piè si rizza,

E quindi in tutti a poco a poco i sensi

Riede e l'alma ripiglia. Or questa dunque,

Mentre chiusa è nel corpo, avrà da tanti

Morbi travaglio e fia distratta e sparsa

In così varie e miserande guise,

E creder vuoi ch'ella medesma possa

Priva affatto del corpo all'aere aperto

Viver fra i venti e le tempeste e i nembi?

Perchè, in oltre, sanar con medic'arte

Si può la mente com'il corpo infermo

E sedarne i tumulti; anco da questo

Apprender puoi che l'è soggetta a morte.

Poich'è mestier ch'aggiunga parti a parti

E l'ordin cangi o dall'intera somma

Qualche cosa detragga ognun che piglia

A varïar la mente o qualunqu'altra

Corporea essenza trasmutar procura.

Ma possibil non è che l'immortale

Cangi sito di parti o nulla altronde

Riceva o perda del suo proprio un iota:

Poichè, qualunque corpo il termin passa

Da natura prescritto all'esser suo,

Quest'è sua morte, e non è più quel desso.

L'animo adunque, o sia da morbo oppresso

O da medica man restituito

Nel primiero vigor, chiaro ne mostra,

Com'io già t'insegnai, d'esser mortale.

Talmente par ch'alla ragion fallace

S'opponga il vero e gl'interchiuda affatto

Di refugio e di scampo ogni speranza,

E con doppio argomento il falso atterri.

Spesso, in somma, veggiam ch'a poco a poco

Perisce l'uomo e perde il vital senso

A membro a membro: pria l'ugna e le dita

Livide fansi, i piè quindi e le gambe

Muoiono, e scorre poi di tratto in tratto

Per l'altre membra il duro gel di morte.

Or, se dell'alma la natura adunque

Si divide in più parti e nello stesso

Tempo non è sincera, ella si debbe

Creder mortale. E, se tu forse stimi

Ch'ella se stessa in sè possa ritrarre

E le sue parti in un sol gruppo accôrre

E che per questo ad un ad un le membra

Perdano il vital senso, erri e vaneggi:

Poichè, ciò concedendo, il luogo almeno

In cui s'unisce in sì gran copia l'alma

Avria senso maggior; ma questo luogo

Non si vede già mai; perchè stracciata,

Com'io già dissi, e lacerata in molte

Parti fuor si disperge, e però muore.

Anzi; se pur ne piace omai supporre

Per vero il falso e dir che possa insieme

L'alma aggomitolarsi entro alle membra

Di quei che moribondi a parte a parte

Pérdono il senso; non per tanto è d'uopo

Che mortal si confessi: e poco monta

Ch'ella per l'aere si disperga o ch'ella,

Ritirando in sè stessa ogni sua parte,

Stupida resti e d'ogni moto priva;

Mentre già tutto l'uomo il senso perde

Più e più d'ogn'intorno, e d'ogn'intorno

Meno e meno di vita omai gli avanza.

Aggiungi che dell'uomo una tal parte

Determinata è l'animo et in luogo

Certo risiede, in quella guisa appunto

Che fan gli occhi e gli orecchi e gli altri sensi

Che governan le membra; onde, siccome

E le mani e gli orecchi e gli occhi e 'l naso

Separati da noi sentir non ponno

Nè lungo tempo conservarsi in vita;

Così non può per sè medesma e priva

Del corpo esser la mente e senza l'uomo,

Che gli serve di vaso o di qualunque

Altra natura immaginar tu possa

Più congiunta con lei, perch'ella al corpo

Con forte laccio è saldamente unita.

Finalmente: e dell'animo e del corpo

Le vivaci energie sane e robuste

Godon congiunte i dolci rai del giorno:

Chè priva delle membra e per sè sola

Non può la mente esercitare i moti

Vitali, ed all'incontro orbe dell'alma

Non pòn le membra esercitare i sensi.

Ma, qual, se tratto dalla testa un occhio

Lungi 'l getti dal corpo, egli non vede

Nulla per sè, tal separate ancora

Dall'uom l'alma e la mente oprar non ponno

Nulla: poichè mischiate e per le vene

E per l'ossa e pe' nervi e per le viscere

Trovansi in tutto il corpo, e i primi semi

Non ponno in varie parti a lor talento

Lungi saltare; onde ristretti insieme

Creano i moti sensiferi, che poscia

Dopo morte a crear non son bastanti

Poichè più non gli frena il freno stesso;

Chè corpo insieme ed animal sarebbe

L'aere per certo, se frenar se stessa

L'anima vi potesse e far quei moti

Che pria nel corpo esercitar solea

Per opera de' nervi. Ond'è pur forza

Che, poi che risoluto ogni coperchio

Fia del corpo dell'uomo e fuor cacciata

La dolce aura vitale, anco dell'alma

E della mente si dissolva il senso,

Mentre la stessa causa a due fa guerra.

Se 'l corpo, in somma, tollerar non puote

Dell'anima il partir senza che tosto

S'imputridisca e d'ogn'intorno spanda

Alito abominevole et orrendo,

Perchè dubbiar che sin dall'imo fondo

Sradicata da lui, ratta non fugga

Sparsa qual fumo l'energia dell'alma,

Onde per così putrida e sì grande

Ruina il corpo varïato e guasto

Perisca affatto? con ciò sia che mossi

Son da' propri lor luoghi i fondamenti

Dell'alma, e per le membra esalan fuori,

E per tutte le vie curve del corpo

E per tutti i meati; onde tu possa

Quind'imparar che per le membra uscío

Divisa l'alma in varie parti, e prima

Fu nel corpo medesimo distratta

Essa da sè che fuor di lui sospinta.

Anzi; mentre che l'anima si spazia

Ne' confin della vita, a noi sovente

Par nondimen che la perisca oppressa

Per qualche causa, e che dal corpo esangue

Si dissolvan le membra, e quasi giunga

All'estremo suo dì languido il volto:

Come suole accader quando sovente

Cascan gli uomini in terra, allor ch'ognuno

Trema insieme e desia di ritenere

L'ultimo laccio alle mancanti forze;

Poich'allor della mente ogni vigore

Si squassa, e seco ogni virtù dell'alma

Aspramente si crolla, e con lo stesso

Corpo ambedue s'indeboliscon tanto

Che dissolverle affatto omai potrebbe

Causa poco più grave. E nondimeno

Dubbiar vorrai che, finalmente uscita

L'anima fuor del corpo all'aria aperta

Debile e stanca e di ritegno priva,

Non sol non duri eternamente intatta,

Ma nè pur si conservi un sol momento?

Con ciò sia che non sembra ai moribondi

Di sentir accostar l'anima illesa

Al petto indi alla gola indi alle fauci;

Ma gli par che perisca in un tal sito

A lei prefisso, in quella guisa a punto

Che sa ciascun di noi ch'ogni altro senso

Nella propria sua parte si dissolve.

Chè se pure immortal fosse la mente,

Essa già mai non si dorria morendo

D'esser disciolta dal mortal suo laccio,

Anzi di volar via libera e snella

Goder dovrebbe e di lasciar la veste,

Qual gode di depor l'antica spoglia

L'angue già vecchio e le sue corna il cervo.

In somma; perchè mai non si produce

Dell'animo il consiglio o nella testa

O nel dorso o ne' piedi o nelle mani,

Ma sempre sta tenacemente affisso

In quel sito medesmo in cui natura

Da prima il collocò; se pur non sono

Prescritti i luoghi ove ogni cosa possa

Nascere e nata conservarsi in vita?

Chè tutti i corpi han le lor sedi, e mai

Non suol per entro alle pruine algenti

Nascer il foco o tra le fiamme il ghiaccio.

In oltre; se dell'anima l'essenza

A morte non soggiace e può sentire

Separata dal corpo, a quel ch'io stimo,

Forza sarà che la si creda ornata

De' cinque sentimenti: e noi medesmi

In null'altra maniera a noi proporre

Possiam che l'alme per l'inferno errando

Vadano: onde i pittori e de' poeti

I secoli primieri in cotal guisa

L'alme introdusser d'ogni senso ornate.

Ma non posson per sè privi dell'alma

O le mani o la lingua o 'l naso o gli occhi

O l'orecchie goder vita nè senso;

Nè per sè ponno i sensi, e senza mani

E senza lingua e senza orecchie e senza

Occhi e naso, goder senso nè vita.

E, perchè il senso esser ne mostra il senso

Comune a tutto il corpo ed ognun vede

Ch'animale è 'l composto, egli è pur d'uopo

Che, se questo con subita percossa

Si ferisce nel mezzo in guisa tale

Che restin separate ambe le parti,

E divisa e stracciato anco dell'alma

Sia col corpo il vigore e quinci e quindi

Senza alcun dubbio seminato e sparso.

Ma ciò che si divide et in più d'una

Parte si sparge, per sè stesso nega

D'esser dotato di natura eterna.

Fama è che pria nelle battaglie er'uso

L'oprar carri falcati, e che da questi

Spesso di mista uccisïon fumanti

Sì repente solean l'umane membra

Tronche restar che già cadute in terra

Tremar parean benchè divise affatto

Dal restante del corpo, ancor che l'animo

E dell'uom l'energia nulla sentisse

Per la prestezza di quel male il duolo:

Sol perchè tutto allor l'animo intento

Era in un con le membra al fiero Marte,

Alle morti alle stragi, e di null'altro

Parea che gli calesse, e non sapea

Che le ruote e le falci aspre e rapaci

Gli avean pel campo strascinato a forza

Già con lo scudo la sinistra mano.

Nè s'accorge talun, mentre in battaglia

Salta a cavallo e furïoso corre,

D'aver perso la destra. Un altro tenta

D'ergersi, ancor che d'uno stinco affatto

Privo, mentre nel suolo il piè morendo

Divincola le dita. E 'l capo in terra

Tronco dal caldo e vivo busto al vôlto

Mostra segni vitali ed apre gli occhi,

Finchè dell'alma ogni reliquia esali.

Anzi; se, mentre il minaccevol serpe

Sta vibrando tre lingue, a te piacesse

Di tagliar con la spada in varie parti

La lunga coda sua, veder potresti

Che ciascuna per sè di fresco incisa

S'attorce e sparge di veleno il suolo,

E con la bocca sè medesma indietro

Cerca la prima parte e 'l dente crudo

Vi ficca in guisa che pel duolo acerbo

Crucïata l'impiaga e con l'ardente

Morso l'opprime. Or direm noi ch'in tutte

Quelle minime parti un'alma intera

Si trovi? ma da ciò segue che molte

Anime siano in un sol corpo unite.

Dunque divisa è pur quella che sola

Fu prima; onde mortale e l'alma e 'l corpo

Stimar si dee, giacchè ugualmente entrambi

Possono in varie parti esser divisi.

Se l'alma, in oltre, è per natura eterna

E nel corpo a chi nasce occultamente

Penetra; e per qual causa altri non puote

Rammemorarsi i secoli trascorsi,

Nè delle cose da lei fatte alcuno

Vestigio ritener? Poichè, se tanto

La virtù della mente in noi si cangia

Che resti affatto ogni memoria estinta

Delle cose operate, al creder mio,

Ciò dalla morte omai lungi non erra.

Sì che d'uopo ti fia dir che perisce

L'alma di prima, e ch'all'incontro quella

Ch'or nel corpo dimora or si creasse.

Aggiungi che; s'in noi l'animo è chiuso,

Poi che 'l corpo è perfetto, allor che nasce

L'uomo e che pria ne' limitari il piede

Pon della vita; in nessun modo al certo

Non convenia ch'egli nel sangue immerso

Col corpo e con le membra in simil guisa

Crescer paresse; anzi per sè dovria

Viver solo a sè stesso e quasi in gabbia.

Onde, voglia o non voglia, è pur mestiero

Che si credan da noi l'alme e le menti

Natíe non pur ma sottoposte a morte.

Posciachè, se di fuori insinuate

Fossero, non potrian sì strettamente

Ai corpi unirsi: il che pur mostra aperto

Il senso a noi; mentre connesse in guisa

Per le vene, pe' nervi e per le viscere

Sono e per l'ossa, che gli stessi denti

Son di senso partecipi, siccome

N'additano i lor mali e lo stridore

Dell'acqua fredda e le pietruzze infrante

Da noi con essi in masticando il pane:

Nè, sì conteste essendo, uscirne intatte

Potranno e salve sè medesme sciôrre

E da' nervi e dall'ossa e dagli articoli.

Chè se tu forse penetrar ti credi

L'anima per le membra insinuata

Di fuor in noi, tanto più dee col corpo

Putrefatta perir; poichè disfassi

Tutto ciò che penètra, e però muore:

Con ciò sia che divisa al fin si spande

Pe' meati insensibili del corpo.

E qual, se per le membra è compartito,

Tosto il cibo perisce e di sè stesso

Porge ristoro e nutrimento al corpo,

Tal dell'alma e dell'animo l'essenza,

Benchè novellamente entri nel corpo

Intera, nondimen pur si dissolve

Mentre il penètra e che pe' fóri occulti

Vengon distribuite ad ogni membro

Le sue minime parti, onde si forma

Quest'altra essenza d'animo che poscia

Donna è del corpo e che di nuovo è nata

Di quella che perío distribuita

Già per le membra. Onde non par che l'alma

Priva sia di natal nè di ferètro.

In oltre; non rimangono i principii

Dell'anima nel corpo ancor che morto?

Che se pur vi rimangono e vi stanno,

Non par che giustamente ella si possa

Giudicare immortal, poichè libata

Fuor se ne gío parte di sè lasciando:

Ma, s'ella poi dalle sincere membra

Se 'n fugge in guisa che nel corpo alcuna

Parte di sè medesima non lascia,

Onde spirano i vermi entro alle viscere

Già rance de' cadaveri, e sì grande

Numero d'animali affatto privi

D'ossa e di sangue in ogni parte ondeggia

Per le tumide membra e per gli articoli?

Chè se tu forse insinuarsi a' vermi

L'anime credi e per di fuori entrare

Ignude entro i lor corpi, e non consideri

Come mill'e mill'anime s'adunano

In quel corpo medesmo ond'una sola

Già si partío; ciò nondimeno è tale

Che sembra pur che ricercar si debba

È forte dubitar, che l'alme i semi

Si procaccin de' vermi ad uno ad uno

E ne' luoghi ove sono esse per sè

Si fabbrichin le membra o pur di fuori

Sian ne' corpi già fatti insinuate.

Ma, nè come operar debbiano o come

Affaticarsi l'anime, ridire

Non puossi: con ciò sia che senza corpo

Inquïete e sollecite non vanno

Qua e là svolazzando a forza spinte

O dal male o dal freddo o dalla fame;

Chè per questi difetti ed a tal fine

Par che più tosto s'affatichi il corpo,

E ch'entro a lui del suo contagio infetto

L'animo a molte infermità soggiaccia.

Ma concedasi pur che giovi all'alme

Il fabbricarsi i corpi in quello stesso

Tempo che vi sottentrano: ma come

Debbian ciò fare imaginar non puossi.

Esse dunque per sè le proprie membra

Fabbricar non potranno: e non per tanto

Giudicar non si dee ch'insinuate

Sian ne' corpi già fatti, imperciocchè

Non potrian sottilmente esser connesse

Nè sottoposte per consenso a' morbi.

Al fine: ond'è che vïolenta forza

De' superbi leon sempre accompagna

La semenza crudele? e che da' padri

Han le volpi l'astuzia? e per natura

Fuggono i cervi ov'il timor gli caccia?

E l'altre proprietà simili a queste

Ond'è che tutte per le membra innate

Sembrano in noi? se non perch'una certa

Energia della mente in un con tutto

Il corpo cresce del suo seme e della

Propria semenza? Che se fosse immune

Da morte e corpo varïar solesse,

Permiste avrian le qualità fra loro

Gli animali, e potrebbe ircana tigre

Cani produr che de' cornuti cervi

Paventasser l'incontro, e lo sparviero

Gli assalti fuggiria delle colombe

Per l'aure aeree timido e tremante,

Pazzo ogni uomo saria, saggia ogni fera.

Poichè falso è che l'anima immortale,

Come alcun dice, in varïando il corpo

Si cangi: con ciò sia che si dissolve

Tutto ciò che si cangia e però muore;

Giacchè le parti sue l'ordin primiero

Mutano, onde poter debbono ancora

Per le membra dissolversi e perire

Finalmente col corpo. E, se diranno

Che sempre in corpi umani anime umane

Entrino, io chiederògli ond'è che possa

Pazza di saggia divenir la mente?

Nè prudente già mai nessun fanciullo

Si trovi, nè puledro adorno in guisa

Di virtù militar che possa in guerra

Far prova di sè stesso al par d'ogni altro

Bravo destrier? se non perchè una certa

Energia della mente in un col corpo

Cresce eziandio del proprio seme e della

Propria semenza, nè schifar si puote

Che ne' teneri corpi anco la mente

Tenerella non sia? Che se pur vero

Ciò credi, omai che tu confessi è d'uopo

Che l'anima è mortal, mentre si cangia

Sì fattamente per le membra e perde

La primiera sua vita e 'l proprio senso.

E come, in oltre, in compagnia del corpo

Divenuta robusta al fior bramato

Giunger dell'età sua l'alma potrebbe,

Se del primiero origine consorte

Non fosse? e come delle vecchie membra

Desidera d'uscir? forse paventa

Chiusa restar nel puzzolente corpo?

O che l'albergo suo già vacillante

Per la soverchia età caggia e l'opprima?

Ma non può l'immortale esser disfatto.

In somma, assai ridicolo mi sembra

Il dir che siano apparecchiate e pronte

Ne' venerei diletti e delle fere

Ne' parti l'alme, e che immortali essendo

Sian costrette a guardar membra mortali

Menti infinite e gareggiar fra loro

Qual prima o dopo insinuarsi deggia;

Se non se forse han pattuito insieme

Che quella che volando arriva prima

Anco prima s'insinui, e che di forze

L'una all'altra già mai lite non muova.

Gli alberi finalmente esser nell'etere

Non ponno nè le nubi entro all'oceano,

Nè vivo il pesce dimorar ne' campi,

Nè da legno spicciar tepido sangue,

Nè mai succo stillar da pietra alpina:

Certo ed acconcio è per natura il luogo

Ove cresca ogni cosa, ove dimori.

Così dunque per sè l'alma e la mente

Senza corpo già mai nascer non puote

Nè dal sangue vagar lungi e da' nervi:

Poichè, se ciò potesse, ella potrebbe

Molto più facilmente o nella testa

Vivere o nelle spalle o ne' calcagni,

E nascer anco in qualsivoglia parte

Del corpo, e finalmente abitar sempre

Nell'uomo stesso e nello stesso albergo

Onde; poichè prefisso i corpi nostri

Han per natura ed ordinato il luogo

Ove distintamente e nasca e cresca

La natura dell'animo e dell'anima,

Tanto men ragionevole stimarsi

Dee che si possa generare il tutto

Scevro dal corpo e mantenersi in vita.

Onde, tosto che 'l corpo a morte corre,

Mestier sarà che tu confessi, o Memmo,

Anco l'alma perciò distratta in esso.

Con ciò sia che l'unire all'immortale

Il caduco e pensar ch'ei possa insieme

Operare e soffrir cose a vicenda,

È solenne pazzia: poichè qual altra

Cosa mai sì diversa e sì disgiunta

E fra sè discrepante imaginarsi

Potria, quanto l'unirsi all'immortale

E perenne il caduco e fragil corpo

E soffrir nel concilio aspre tempeste?

In oltre; tutto quel che dura eterno

Conviene; o che respinga ogni percossa,

Per esser d'infrangibile sostanza,

Nè soffra mai che lo penètri alcuna

Cosa che disunir possa l'interne

Sue parti, qual della materia a punto

Gli atomi son la cui natura innanzi

Già per noi s'è dimostra; o che immortale

Viva, perchè dagli urti affatto esente

Sia, come il vôto che non tócco dura

Nè mai soggiace alle percosse un pelo:

O perchè intorno a lui nessuno spazio

Non sia dove partirsi e dissiparsi

Possa, come la somma delle somme

Fuor di sè non ha luogo ove si fugga

Nè corpo che l'intoppi e con profonda

Piaga l'ancida, e però dura eterna.

Ma nè, come insegnammo esser contesta

L'anima può d'impenetrabil corpo,

Chè misto è sempre infra le cose il vôto;

Nè però, come il vôto, intatta vive;

Poichè corpi non mancano che sórti

Dall'infinito ed agitati a caso

Possan cozzar con vïolento turbine

Questa mole di mente ed atterrarla

E farne in altri modi orrido scempio,

Nè del luogo l'essenza e dello spazio

Profondo manca ove distrarsi e spargersi

L'anima possa e per lo vano immenso

Spinta da qualunqu'altra esterna forza

Finalmente perir. Dunque non fia

Chiusa alla mente del morir la porta.

Chè se forse immortal credi più tosto

L'anima, perchè sia ben custodita

Dalle cose mortifere, o perchè

Tutto quel che l'incontra in qualche modo

Pria che le noccia risospinto a forza

Indietro si ritiri, o perchè nulla

Che nemico le sia possa incontrarla,

Erri lungi dal ver; poich'ella al certo,

Oltr'al mal che patisce allor ch'inferme

Giaccion le membra, è macerata spesso

Dal pensare al futuro, onde il timore

Nasce che la maltratta e le noiose

Cure che la travagliano, e rimorsa

È dalle colpe in gioventù commesse.

Aggiungi in oltre il proprio suo furore

E l'oblio delle cose; aggiungi il nero

Torrente di letargo in cui s'immerge.

Nulla dunque è la morte e nulla all'uomo

Appartenersi può, poichè mortale

È l'alma. E; come ne' trascorsi tempi

Nulla afflitti sentimmo, allor che 'l fiero

Annibale inondò d'armi e d'armati

Del Lazio i campi, e che squassato il tutto

Da così spaventevole tumulto

Di guerra sotto l'alte aure dell'etere

Tremò sovente, e fu più volte in dubbio

Sotto qual de' due popoli dovesse

Cader l'impero universal del mondo;

Tal a punto sentir nulla potremo

Tosto che fra di lor l'anima e 'l corpo,

Dall'unïon de' quai l'uomo è formato,

Disuniti saranno; a noi per certo,

Ch'allor più non saremo, accader nulla

Più non potrà; non se confuso e misto

Fia con la terra il mar, col mare il cielo.

Senza che; se distratta omai del nostro

Corpo la mente e l'energia dell'alma

Sentir potesse, non per tanto a noi

Ciò nulla apparterria; poichè formati

Siam d'anima e di corpo unitamente.

Nè; se l'età future avranno i semi

Nostri raccolto dopo morte ed anco

Di nuovo allo stess'ordine ridotti

C'hanno al presente, onde ne sia concesso

Nuovo lume di vita; a noi per certo

Nulla questo appartien, poi che interrotta

Fu la nostra memoria una sol volta.

Et or nulla di noi che fummo innanzi

Ne cal, nè punto ne contrista ed ange

Il pensar a color che della nostra

Materia in altre età nascer dovranno.

Poichè, se gli occhi della mente affissi

Del tempo omai trascorso all'infinito

Spazio e contempli quai pel vano immenso

I moti sian della materia prima,

Agevolmente crederai che i semi

Fossero in quello stesso ordine e sito,

In cui son or, molto sovente: e pure

Non può di questo rammentarsi alcuno,

Poich'interposte fûr pause alla vita

E sparsi i moti errâr lungi da' sensi.

Poichè quel ch'è per essere infelice

D'uop'è che vivo sia nel tempo in cui

Possa a mal soggiacere: or; se la morte

Da questo lo difende, e proibisce

Che quegli in cui ponno adunarsi i mali

Stessi che noi fan miseri vivesse

Ne' secoli trascorsi; omai ne lice

Senza dubbio affermar che nella morte

Non è di che temere, e che non puote

Esser mai chi non vive egro e dolente,

Nè punto differir da quei che nati

Unqua al mondo non son quelli a cui tolta

Fu da morte immortal vita mortale.

Onde: se vedi alcun che di sè stesso

Abbia compassïon, perchè sepolto

Dopo morte il suo corpo imputridirsi

Debbia, o da fiamme ardenti esser consunto,

O lanïato da rapaci augelli,

O da fiere sbranato; indi ti lice

Saper che non sincero il cor gli punge

Qualche stimolo cieco; ancor ch'e' neghi

Di creder che sentir dopo la morte

Si possa alcuna cosa; onde non serba

Ciò che promette largamente altrui,

Nè dalla vita sè medesmo affatto

Stacca, ma, nol sapendo, alcuna parte

Fa che resti di sè. Chè, mentre vivo

L'uom pensa che morendo o degli uccelli

Fia pasto il proprio corpo o delle belve,

Tosto di sè medesimo gl'incresce;

Sol perchè non si libera a bastanza

Dal corpo agli animai gettato in preda:

Ma quel si finge, e del suo proprio senso

L'infetta; e quindi, a lui stando presente,

D'esser nato mortal sdegna; e non vede

Che nella vera morte esser non puote

Nessun altro sè stesso, il qual vivendo

Pianga sè morto o lacerato od arso.

Con ciò sia che, se mal fosse, morendo,

Che dall'avido rostro o dall'ingorda

Bocca degli animai si divorasse

Dell'uomo il corpo, io non intendo il come

Duro non sia l'esser nel fuoco ardente

Arrostite le membra o soffocate

Nel mèle o per lo freddo intirizzite

Poste a giacer d'una gelata selce

Su l'equabile cima o per disopra

Dal grave peso della terra infrante.

— Ma nè l'albergo tuo vago et adorno

Nè l'amata consorte omai potranno

Accoglierti, nè i dolci e cari figli

Correrti incontro e con lusinghe e vezzi

Prevenirti ne' baci e 'l core e l'alma

Di tacita dolcezza inebrïarti.

Più non potrai con l'onorate imprese

O di mano o di senno o in pace o in guerra

Esser a te nè a' tuoi d'aiuto alcuno.

Povero te, povero te! gridando

Vanno: un sol giorno una sol'ora un punto

Nemico a' gusti tuoi potrà rapirti

Della vita ogni premio. — E taccion solo,

— Nè desiderio alcuno avrai di queste

Cose. — Il che se con gli occhi della mente

Molto ben guarderanno e seguitarlo

Vorran co' detti, omai scioglier se stessi

Potranno e dall'angoscie e dal timore,

Venti contrari alla tranquilla vita.

- Tu, qual da morte addormentato sei,

Tale al certo sarai nella futura

Età privo d'affanno e di cordoglio:

Ma noi vicini al tuo sepolcro orrendo

Te piangeremo insazïabilmente

Dal rogo in poca cenere converso;

Nè l'eterno dolor dal cuor profondo

Tolto mai ne sarà. — Chiedere adunque

Deggiamo a questi, onde sì tetro assenzio

Nasca allor ch'una cosa omai ritorna

Al sonno, alla quïete, e qual cagione

Abbia alcun di dolersi e pianger sempre.

Sogliono ancor, mentre sedendo a mensa

Tengon gli uomini in man coppe spumanti,

Di ghirlande odorose ornati il crine,

Dirsi di cuor l'un l'altro — È breve il frutto

Del bere, il già godemmo, e nel futuro

Forse più no 'l godrem; — quasi il maggiore

Mal che la tomba a questi tali apporti

Sia l'esser dalla sete arsi e consunti,

O dall'arida terra o da qualunque

Altro desio miseramente afflitti.

Ma nè la vita sua nè sè non cerca

Alcun, mentre di par giace sopito

In placida quïete il corpo e l'alma:

Onde apprender ben puoi ch'a noi conviene

Dormir sonno perpetuo, e non ci punge

Di noi medesmi desiderio alcuno:

E pur dell'alma i primi semi allora

Non lungi per le membra errando vanno

Ai sensiferi moti, anzi si desta

L'uom per sè stesso. Molto meno adunque

Creder si dee ch'appartener si possa

La morte a noi, se men del nulla è nulla:

Poichè più dissipata è nel feretro

L'unïon de' principii, e mai nessuno

Svegliossi dopo che seguìo la fredda

Pausa della sua vita una sol volta.

Al fin; se voci la natura stessa

Fuor mandasse repente ed in tal guisa

Prendesse a rampognarne — E qual sì grave

Causa, o sciocco mortal, ti spinge al duolo?

Perchè temi la morte, perchè piangi?

Perchè, se dolce la primiera vita

Ti fu nè tutti i comodi di quella

Scórser quasi congesti in un forato

Vaso, nè tutti trapassâr noiosi,

Perchè di viver sazio omai non parti

Dal mio convito e volentier non pigli

La sicura quïete? E, se profuso

Svanì ciò che godesti e se la vita

T'offende omai, per qual cagione, o stolto,

Cerchi d'aggiunger più quel che di nuovo

Dee malamente dissiparsi e tutto

Perire a te noioso? e non più tosto

Fine alla vita ed al travaglio imponi?

Con ciò sia che oggimai nulla mi resta

Che macchinar per te, nè trovar posso

Cosa che più ti piaccia. Il mondo è sempre

Lo stesso: e, se per gli anni ancor non langue

Il corpo tuo, se per vecchiezza estrema

Non hai le membra affaticate e stanche,

Sappi che nondimen ciò che ti resta

Sarà sempre il medesmo, ancor che vivo

Stessi ben mille e mill'etadi ed anco

Mai per morir non fossi; — qual risposta

Dar potrem noi, se non che la natura

Giusta lite ne muove e 'l vero espone?

Ma chi più del dover s'ange e lamenta

D'esser nato mortal, dunque a ragione

Non fia sgridato e rampognato in voce

Vie più alta e severa? — Asciuga, o stolto,

Dagli occhi il pianto, e le querele affrena. —

E, se per troppa età vecchio e canuto

Altri si duol — Tu pur godesti i premi

Che la vita ne dà, pria che languissi.

Ma, perchè sempre avidamente brami

D'aver quel che ti manca ed all'incontro

Sprezzi qual cosa vil ciò che possiedi,

Quindi avvien che imperfetta e poco grata

Ti rassembra la vita, e quindi, innanzi

Che tu possa partir pieno e satollo

Delle cose del mondo, all'improvviso

Ti sovrasta la morte. Or lascia adunque

Ciò che più tuo non è, benchè prodotto

Fosse al tuo tempo; e volentier concedi

Ch'altri possegga quel che indarno omai

Tenti di posseder. — Giusta per certo

Sarebbe, al creder mio, tal causa, e giusto

Un sì fatto rimprovero: chè sempre

Cedon l'antiche alle moderne cose

Da lor cacciate a viva forza, e l'una

Si ristaura dall'altra, e nulla cade

O nel tartaro cieco o nel profondo

Baratro. Acciò ne' secoli futuri

Gli uomini, gli animai, l'erbe e le piante

Crescan, han d'uopo di materia: e pure

Mestiero è che ciò segua, allor che avrai

Compito affatto di tua vita il corso.

Dunque non men di te caddero innanzi

Tai cose, e caderanno. In cotal guisa

Di nascer l'un dall'altro unqua non resta;

Nè fu dalla natura il viver dato

A nessuno in mancipio, a tutti in uso.

Pon mente, in oltre, come, pria ch'al mondo

Fossimo generati, alcun trascorso

Secolo antico dell'eterno tempo

A noi nulla appartenne. Or questo adunque

Specchio natura innanzi agli occhi nostri

Pose, acciò quivi un simolacro vero

Rimiriam dell'età che finalmente

Dee seguir dopo morte. Ivi apparisce

Nulla forse o d'orribile o di mesto?

Forse non d'ogni sonno alto e profondo

È piu sicuro il tutto? In vita in vita

Si patisce da noi ciascun tormento,

Che l'alme crucïar nel basso inferno

Credon gli sciocchi. Tantalo infelice

Non teme il grave ed imminente sasso,

Come fama di lui parla e ragiona:

Ma ben sono i mortali in vita oppressi

Dal timor degli dèi cieco e bugiardo,

E paventan ognor quella caduta

Che la sorte gli appresta. Erra chi pensa

Che Tizio giaccia in Acheronte e sempre

Pasca del proprio cor l'augel vorace:

Nè, per cercar lo smisurato petto

Con somma diligenza, unqua potrebbe

L'avoltoio trovar cibo che fosse

Bastante a sazïar l'avido rostro

Eternamente: e, sia quantunque immane

Tizio, e non pur con le distese membra

Occupi nove iugeri, ma tutto

Il grand'orbe terreno, ei non per tanto

Non potrà sofferir perpetua doglia

Nè porger del suo corpo eterno pasto.

Ma Tizio è quei che, dal rapace artiglio

D'amor ghermito, è lacerato e roso

Dal crudo rostro d'ansïosa angoscia;

E quei che per qualunque altro desio

Stracciano ad or ad or noie e tormenti.

Sisifo, in oltre, in questa vita abbiamo

Posto innanzi a' nostr'occhi: e quello è desso

Che dal popolo i fasci e le crudeli

Securi aver desidera, e si trova

Sempre ingannato, onde si crucia ed ange:

Perch'impero bramar, ch'affatto è vano

Nè mai può conseguirsi e sempre in esso

Durare intollerabili fatiche,

Questo è voler lo sdrucciolevol sasso

Portar sulla più alta eccelsa cima

Del monte alpestre, ond'egli poi si ruoti

Di nuovo e caggia in precipizio al piano.

Il pascer, oltr'a ciò, l'animo ingrato

Sempre de' beni di natura, e mai

Non empier nè saziar la brama ingorda;

Qual allor che degli anni in sè rivolti

Tornano i tempi e ne rimenan seco

Varie e liete vaghezze e lieti parti,

E pur sazio già mai l'uomo infelice

Non è di tanti e così dolci frutti

Che la vita gli porge; a quel ch'io stimo,

Altro questo non è che radunare

Acqua in vasi forati i quai non ponno

Empiersi mai; come si dice a punto

Che a far sian condannate in Acheronte

Dell'empio re le giovanette figlie.

Cerbero, fiera orribile e diversa

Che latra con tre gole, e 'l cieco Tartaro

Che fiamme erutta e spaventosi incendi,

E le furie crinite di serpenti,

Ed Eaco e Minosse e Radamanto

Non sono in alcun luogo e senza dubbio

Esser non ponno: ma la téma in vita

Delle pene dovute ai gran misfatti

Gravemente n'affligge e la severa

Penitenza del fallo, e 'l carcer tetro

E del sasso tarpeio l'orribil cima,

I flagelli, i carnefici, la pece

E le piastre infocate e le facelle,

E qual altro supplicio unqua inventasse

Sicilia de' tiranni antico nido;

I quai, ben che dal corpo assai lontani

Forse ne sian, pur di temer non resta

L'animo consapevole a sè stesso

De' malvagi suoi fatti; e 'l core e l'alma

Sì ne sferza e ne stimola e n'affligge,

Che nell'esser crudel Falari avanza;

Nè sa veder qual d'ogni male il fine

Sarebbe e d'ogni pena, anzi paventa

Che vie più dopo morte aspre e noiose

Non sian le sue miserie. Or quindi fassi

La vita degli sciocchi un vivo inferno.

Tal volta ancor puoi fra te stesso dire

— Vide pur Anco Marzio eterna notte,

Che di te, scellerato, assai migliore

Era per molte cause, e tanto avea

Dilatati i confini al patrio regno.

Anzi a molt'altri re, duci e signori

E capi di gran popolo convenne

Pur morir finalmente. E quello stesso

Che del vasto oceàn sul molle dorso

Vie lastricando passeggiò per l'alto

Con le sue legïoni, e sovra l'onde

Delle salse lagune a piede asciutto

Insegnò cavalcare, e pria d'ogni altro

Spezzò del mare il murmure tremendo,

Perduto il vital giorno, al fin disperse

L'anima fuor del moribondo corpo.

Polve è già Scipïone, alto spavento

D'Africa e chiaro fulmine di guerra,

Non altrimenti ch'un vil servo fosse.

Aggiungi poi delle dottrine i primi

Inventori e dell'arti e delle grazie:

Aggiungi delle nove alme sorelle

I divini compagni. Un sol Omero

Fu principe di tutti, e pur si giace

Sopito anch'ei nella medesma quiete

Che si giacciono gli altri. Al fin Democrito,

Poi ch'imparò dalla vecchiezza estrema

Che già languian della sua mente i moti,

Corse incontro alla morte e 'l proprio capo

Volontario le offerse. Anzi lo stesso

Epicuro morío, che 'l germe umano

Superò nell'ingegno, e d'ogni stella

Gli splendori oscurò, nato fra noi

Qual sole etereo ad illustrare il mondo.

E tu tèmi 'l morire, e te ne sdegni?

Tu che vivo e veggente hai quasi morta

La vita omai? Tu che nel sonno involto

La maggior parte dell'età consumi?

Tu che dormi vegliando e mai non resti

Di veder sogni, e di paura vana

Hai la mente sollecita, e non trovi

Sovente il mal che sì ti crucia ed ange,

Allor che d'ogn'intorno ebro infelice

Sì gravemente da noiose cure

Travagliato ed oppresso e fra pensieri

Dubbioso ondeggi in mille errori e mille? —

Ah! che, se gl'infelici uomini stolti

Drizzasser gli occhi a rimirar quel peso

Che sì gli opprime, e manifeste e conte

Gli fusser le cagioni onde ciò nasca

Et onde ognor tanta e sì grave alberghi

Quasi mole di male entro a' lor petti,

Non così viverían, come veggiamo

Viver molti di lor, senza sapere

Nè pur quel ch'e' si vogliano, nè sempre

Vorrian luogo mutar, quasi potessero

Da tal peso sgravarsi. Esce sovente

Un fuor di casa, a cui rincresce omai

Lo starvi, e quasi subito vi torna;

Come quello che fuori esser non vede

Cosa che più gli aggradi. A tutta briglia

Caccia questi 'l cavallo e furïoso,

Quasi aiuto portar deggia all'accese

Mura del suo palagio, in villa corre:

Ma tócco a pena il limitar bramato,

Sbadiglia e dorme, e d'oblïar procura

Ciò che tedio gli reca, e torna in fretta

Di nuovo alla città. Fugge in tal guisa

se stesso ognun: ma chi non può fuggirsi

Ne segue a viva forza e ne tormenta,

Sol perchè nota la cagion del morbo

All'infermo non è: chè s'ei mirarla

Senza velo potesse, ogni altra cura

Posta in non cale, a contemplare omai

Di natura i segreti e le cagioni

Tutto si volgeria: chè non d'un'ora,

Ma d'infiniti secoli in contesa

Si pon lo stato in cui dopo la morte

Staranno in ogni età tutti i mortali.

In somma; qual malvagia avida brama

Di vita a paventar sì fattamente

Ne' dubbiosi pericoli ne sforza?

Certo è 'l fin della vita: ogni mortale

D'uop'è che muoia. In un medesmo luogo

Sempre, oltr'a ciò, dimorasi, e vivendo

Mai non si gode alcun piacer che nuovo

Si possa nominar: ma, se lontano

Sei da quel che desideri, ti sembra

Che questo ecceda ogni altra cosa; e, tosto

Che tu l'hai conseguito, altro desio

Il cor ti punge. Un'egual sete han sempre

Quei che temon la morte, e mai non ponno

Saper che sorte la futura etade

Gli appresti, o ciò che porteragli il caso

O qual fin gli sovrasti. Ed allungando

La vita non per tanto alcun non puote

Scemar del tempo della morte un pelo,

Nè punto sminuir la lunga etade

In cui star gli convien privo di vita.

Onde, ancor che vivendo ogni uom godesse

Ben mille e mille secoli futuri,

Non fia nulla però men sempiterna

La morte che l'aspetta: e senza dubbio

Nulla men lungamente avrà perduto

L'esser colui che terminò la vita

Questo giorno medesimo, di quello

Che già morío mill'e mill'anni innanzi.

LIBRO QUARTO

 

Argomento.

 

Questo libro quarto non è altro che una continuazione del terzo. Il poeta si studia di spiegare il modo onde gli obbietti esterni agiscono sull'anima per via de' sensi. Le nostre sensazioni, al parer suo, sono prodotte da corpuscoli invisibili, sparsi nell'atmosfera, i quali, introducendosi nei diversi meati de' nostri corpi, affettano diversamente le nostre anime; questi simulacri si dividono in differenti classi. Gli uni sono trasmessi dai medesimi corpi, e sono emanazioni o della superficie o dell'interno degli obbietti; gli altri si formano nell'aere; altri non sono che un misto degli uni e degli altri, che il caso riunisce spesso nell'atmosfera. Tutti questi simulacri sono d'una finezza e d'una sottigliezza inconcepibili, e dotati per conseguenza di una grandissima velocità. Giusta questa nozione preliminare de' simulacri, il poeta crede potere spiegare in modo soddisfacente tutto il meccanismo delle sensazioni e delle idee.

1. La visione è prodotta da simulacri emanati dalla superficie stessa dei corpi, che ne fanno giudicare non solo del colore, della grandezza e della figura degli obbietti, ma altresì della loro distanza, del loro moto, ecc. È vero che spesse volte i giudizi che noi profferiamo in conseguenza di queste percezioni sono falsi; ma l'errore non procede mai dall'organo, il quale riferisce solo la sensazione precisa ch'esso prova, ma dalla precipitazione dell'anima, che si affretta sempre di aggiungere qualche cosa di suo al loro referto; donde egli conclude che i sensi sono guide infallibili, soli giudici della verità.

2. La sensazione del suono è eccitata dai corpuscoli staccati dai corpi, che vengono a percuotere l'organo dell'udito; quando questi elementi sono acconci dalla lingua e dal palato, formano parole; quando sono ripercossi da corpi solidi, come le rupi ecc. formano echi.

3. Il sapore è prodotto dai sughi che la triturazione esprime dagli alimenti, e che s'introducono nei pori del palato: se gli stessi alimenti non producono le stesse sensazioni sopra animali di specie differente; o sopra animali posti in circostanze diverse; questa varietà dipende insieme dall'organizzazione stessa degli animali, e dalla struttura delle molecole, dall'azione delle quali resultano i sapori.

4. Gli odori, che sono corpuscoli emanati dall'interno dei corpi, e che hanno per conseguenza un andamento lento e tardo, non sono neppur essi egualmente analoghi a tutti gli organi; si dica lo stesso dei simulacri della vista e degli elementi del suono.

Solo queste quattro specie di sensazioni sono eccitate da emanazioni; imperocchè il tatto è prodotto dall'impressione immediata degli obbietti.

Rispetto alle idee dell'anima, Lucrezio pretende che le riconosce dai simulacri, onde l'atmosfera è incessantemente ripiena; simulacri, il cui tessuto è così delicato, che s'insinuano in tutti i pori de' nostri corpi, e la cui successione e combinazione è così rapida, ch'egli crede potere spiegare col loro mezzo quella moltitudine d'idee, che assediano le nostre anime ad ogni istante, quelle imagini chimeriche di Centauri, di Scille ecc., e le altre illusioni di questo genere che c'illudono la notte ed il giorno.

Dopo questa teoria delle sensazioni e delle idee, il poeta entra in alcuni particolari relativi a cotale dottrina. 1. Esso combatte le cause finali, sforzandosi di provare che i nostri organi non sono stati fatti a contemplazione de' nostri bisogni, ma che gli uomini se ne sono serviti perchè gli hanno trovati fatti; 2. egli spiega perchè il bisogno di bere e mangiare è naturale a tutti gli animali; 3. come l'anima, sostanza sì delicata, può muovere una massa tanto pesante quanto sono i nostri corpi; 4. per quale meccanismo il sonno riesce a intorpidire tutte le facoltà dell'anima e del corpo, e donde vengono i sogni, de' quali è spesso accompagnato. Con l'occasione de' sogni, tratta dell'amore, del quale, come Buffon, crede che la voluttà fisica sia tutto quello che ha di buono; e avverte gli uomini di preservarsene con le pitture eloquenti ch'egli fa della sventura degli amanti. Finalmente termina questo tratto e tutto il libro con una specie di trattato anatomico e fisico sopra la generazione.

 

Vo passeggiando dell'aonie dive

I luoghi senza strada e da nessuno

Mai più calcati. A me diletta e giova

Gir a' vergini fonti e inebriarmi

D'onde non tocche. A me diletta e giova

Coglier novelli fiori onde ghirlanda

Peregrina ed illustre al crin m'intrecci,

Di cui fin qui non adornâr le muse

Le tempie mai d'alcun poeta tósco;

Pria, perchè grandi e gravi cose insegno

E seguo a liberar gli animi altrui

Dagli aspri ceppi e da' tenaci lacci

Della religïon; poi, perchè canto

Di cose oscure in così chiari versi,

E di nêttar febeo tutte l'aspergo.

Nè questo è, come par, fuor di ragione:

Poichè; qual, se fanciullo a morte langue,

Fisico esperto alla sua cura intento

Suol porgergli in bevanda assenzio tetro

Ma pria di biondo e dolce mèle asperge

L'orlo del nappo, acciò gustandol poi

La semplicetta età resti delusa

Dalle mal caute labbra e beva intanto

Dell'erba a lei salubre il succo amaro,

Nè si trovi ingannata, anzi consegua

Solo per mezzo suo vita e salute;

Tal a punto or facc'io. Perchè mi sembra

Che le cose ch'io parlo a molti indótti

Potrian forse parere aspre e malvage,

E so che 'l cieco e sciocco volgo aborre

Da mie ragioni; io per ciò volsi, o Memmo,

Con soave eloquenza il tutto esporti,

E quasi asperso d'apollineo mèle

Te 'l porgo innanzi, per veder s'io posso

In tal guisa allettar l'animo tuo;

Mentre dipinta in questi versi miei

La natura vagheggi, e ben conosci

Quanto l'utile sia che la n'apporta.

Ma; perchè innanzi io t'ho provato a lungo

Quali sian delle cose i primi semi,

E con che varie forme essi nel vano

Per sè vadano errando e sian commossi

Da moto eterno; e come possa il tutto

Di lor crearsi; e t'ho mostrato in oltre

La natura dell'animo, insegnando

Ciò ch'egli siasi e di quai semi intesto

Viva insieme col corpo ed in qual modo

Torni distratto ne' principii primi;

Tempo mi par di ragionarti omai

Di quel che molto in queste cose importa;

Cio è, che quelle imagini che dette

Son da noi simolacri altro non siano

Che certe sottilissime membrane

Ch'ognor staccate dalla buccia esterna

De' corpi or qua or là volin per l'aure,

E che quelle medesime, ch'incontro

Ci si fanno vegliando e di spavento

Empion gli animi nostri, anco dormendo

Ci si paran davanti, allor che spesso

Veggiamo ignudi simolacri et ombre

Sì spaventose e d'ogni luce prive

Che ne destan dal sonno orribilmente;

Acciò che forse non si pensi alcuno

Che del basso Acheronte uscendo l'alme

Volin tra' vivi o che rimanga intatta

Qualche parte di noi dopo la morte,

Quando, del corpo e della mente insieme

Dissipata l'essenza, il tutto omai

Avrà ne' semi suoi fatto ritorno.

Su dunque: io dico che de' corpi ogn'ora

Le tenui somiglianze e i simolacri

Vengon dal sommo lor vibrati intorno.

Questi da noi quasi membrane o bucce

Debbon chiamarsi, con ciò sia che seco

Portin sempre l'imagini il sembiante

E la forma di quello ond'esse in prima

Staccansi e per lo mezzo erran diffuse.

E ciò quindi imparar, benchè alla grossa,

Lice a ciascun. Pria; perchè molte cose

Vibran palesemente alcuni corpi

Lungi da sè; parte vaganti e sparsi,

Com'il fumo le querci, e le faville

Il fuoco; e parte più contesti insieme,

Come soglion tal or l'antiche vesti

Spogliarsi le cicale allor che Sirio

Di focosi latrati il mondo avvampa,

O quale a punto il tenero vitello

Lascia del corpo la membrana esterna

Nel presepio ove nasce, o qual depone

Lubrico sdrucciolevole serpente

La spoglia in fra le spine, onde le siepi

Delle lor vesti svolazzanti adorne

Spesso veggiamo. Or, se tai cose adunque

Si fanno, è ben credibile che debba

Vibrar dal sommo suo qualunque corpo

Di sè medesmo una sottile imago.

Con ciò sia che già mai ragione alcuna

Assegnar non si può, perchè staccarsi

Debbiano dalle cose i detti corpi

E non i più minuti e più sottili;

Massime essendo delle cose al sommo

Molti piccoli semi, i quai vibrarsi

Ponno con lo stess'ordine che prima

Ebbero e conservar la stessa forma,

E ciò tanto più ratti, quanto meno

Ponno i pochi impedirsi e nella fronte

Prima hanno luogo. Con ciò sia che sempre

Emergon molte cose e son vibrate

Non pur dai cupi penetrali interni,

Com'io già dissi; ma sovente ancora

Il medesmo color diffuso intorno

È dal sommo de' corpi. E l'auree vele

E le purpuree e le sanguigne spesso

Ciò fanno allor che ne' teatri augusti

Son tese e sventolando in su l'antenne

Ondeggian fra le travi: ivi 'l consesso

Degli ascoltanti, ivi la scena e tutte

L'imagini de' padri e delle madri

E degli dèi di color vari ornate

Veggionsi fluttuare; e, quanto più

Han d'ogni intorno le muraglie chiuse

Sì che da' lati nel teatro alcuna

Luce non passi, tanto più cosperse

Di grazia e di lepor ridon le cose

Di dentro, avendo in un balen concetta

L'alma luce del dì. Se adunque il panno

Dall'esterne sue parti il color vibra,

Mestiero è pur che tutte l'altre cose

Vibrino il tenue simolacro loro,

Poscia che quello e questi è dall'esterne

Parti scagliato. Omai son certi adunque

Delle forme i vestigi, che per tutto

Volano e son di sottil filo inteste

Nè mai posson disgiunte ad una ad una

Esser viste da noi. L'odore, in oltre,

Il fumo, il vapor caldo e gli altri corpi

Simili errar soglion diffusi e sparsi

Lungi da quelle cose onde esalaro;

Perchè, venendo dalle parti interne,

Nati dentro di lor, per tortuose

Vie camminando, son divisi, e curve

Trovan le porte ond'eccitati al fine

Tentan d'uscir: ma, pel contrario, allora

Che le tenui membrane dall'estremo

Color de' corpi son vibrate intorno,

Cosa non è che dissipar le possa;

Perch'elle in pronto sono e nella prima

Fronte locate. Finalmente è d'uopo

Che ciascun simolacro che apparisce

Negli specchi, nell'acqua ed in qualunque

Forbita e liscia superficie, avendo

La medesima forma delle cose

Ch'egli altrui rappresenta, anche consista

Nelle scagliate imagini volanti:

Con ciò sia che già mai ragione alcuna

Assegnar non si può, perchè staccarsi

Debbono i corpi che da molte cose

Son deposti o lanciati apertamente

E non i più minuti e i più sottili.

Son dunque al mondo i tenui simolacri

E simili alle forme delle cose,

I quai, benchè vedersi ad uno ad uno

Non possan, non per tanto, agli occhi nostri

Con urto assiduo ripercossi e spinti

Dal piano degli specchi, a noi visibili

Fannosi al fin; nè par che in altra guisa

Deggiano illesi conservarsi e tanto

A qualunque figura assomigliarsi.

Or, quanto dell'imagini l'essenza

Sia tenue, ascolta. E pria, perchè i principii

Son da' sensi dell'uom tanto remoti

E minori de' corpi che i nostr'occhi

Comincian prima a non poter vedere,

Or non di meno, acciò che meglio provi

Tutto quel ch'io ragiono, ascolta, o Memmo,

Ne' brevi detti miei quanto sottili

Sian d'ogni cosa i genitali semi.

Pria: sono al mondo sì fatti animali

Che la lor terza parte in guisa alcuna

Veder non puossi. Or qual di questi adunque

Creder si debbe ogn'intestino? quale

Del cuore il globo e gli occhi? e quai le membra,

Quai le giunture? e quai dell'alma in somma

Gli atomi e della mente? Or non conosci

Quanto piccioli sian, quanto sottili?

In oltre: ciò che dal suo corpo esala

Acuto odor, la panacea, l'assenzio

E l'amaro centauro e 'l grave abrótano,

Se fia mosso da te, vedrai ben tosto

Molte effigie vaganti in molti modi

Prive affatto di forze e d'ogni senso;

Delle quai quanto sia picciola parte

L'imagine, uom non è che sia bastante

A dire altrui nè con parole possa

Render di cosa tal ragione alcuna.

Ma, perchè tu forse vagar non creda

Quelle imagini sol che dalle cose

Vengon lanciate, altre si creano ancora

Per sè medesme in questo ciel che detto

Aere è da noi. Queste, formate in vari

Modi, all'in su van sormontando; e molli

Non cessan mai di varïar sembianza;

E novi Protei in qualsivoglia forma

Cangian sè stesse; in quella guisa a punto

Che le nubi talor miransi in alto

Facilmente accozzarsi, e la serena

Faccia turbar del mondo e 'l cielo intanto

Lenir col moto; con ciò sia che spesso

Ne sembra di veder per l'aere errando

Volar giganti smisurati e l'ombra

Distender largamente, e spesso ancora

Gran monti e sassi da gran monti svelti,

Precorrere e seguir del sole i raggi,

E belve alfin di non ben noto aspetto

Trar seco e generar nembi e tempeste.

Or, quanto agevolmente e come presto

Sian generate e dalle cose esalino

Perpetuamente e sdrucciolando cedano,

Tu quindi apprendi. Poichè sempre in pronto

Ogni estremo è de' corpi, onde si possa

Vibrare: e quando all'altre cose arriva

E' le penetra e passa; e ciò gli avviene

Principalmente in quelle vesti urtando

Ch'inteste son di sottil filo e raro:

E se ne' rozzi sassi o nell'opaco

Legno percuote, ivi si spezza in guisa

Che simolacro alcun non puote agli occhi

Rappresentar. Ma, se gli fiano opposti

Corpi lucidi e densi, in quella guisa

Che sovr'ogni altro di cristallo terso

E di forbito acciar sono gli specchi,

Nulla accade di ciò; poichè non puote

Come le vesti penetrarli et oltre

Passar nè dissiparsi in varie parti,

Già che la liscia superficie intero

Ed intatto il conserva e 'l ripercuote:

E quindi avvien che son per noi formati

De' corpi i simolacri, e che, ponendo,

Quando vuoi, ciò che vuoi, quanto vuoi tosto,

Dirimpetto allo specchio, appar l'imago.

Onde ben puossi argomentar che sempre

Dal sommo delle cose esalan fuori

Tenui effigie e figure. In breve spazio

Dunque si crean ben mille e mille imagini:

Ond'a ragion l'origine di queste

Si può dir velocissimo. E, siccome

Dee molti raggi in breve spazio il sole

Vibrarsi intorno acciò che sempre il cielo

Illustrato ne sia, tal anco è d'uopo

Che molti simolacri in molti modi

Sian dalle cose in un medesmo instante

Certamente scagliati in ogni parte;

Poichè, rivolgi pur dove t'aggrada

Lo specchio, ivi apparir vedrai le cose

Tra lor di forma e di color simíli.

Mira, oltr'a ciò, che, se tranquillo e chiaro

Di luce e di seren l'aere fiammeggia,

Talor sì sconciamente e così tosto

D'atra e nera caligine s'ammanta,

Che ne par che le tenebre profonde

Del cupo e cieco abisso, abbandonando

Le lor sedi natie tutte in un punto

E fuor volando ad eclissar le stelle,

Ripiene abbian del ciel l'ampie spelonche;

Tal già sorta di nembi orrida notte,

Veggiam d'atro timor compagne eterne

Spalancarsi nel ciel fauci infiammate,

Eruttar verso noi fulmini ardenti:

E pur, quanto di ciò picciola parte

Sia l'imago, uom non è che basti a pieno

A dire altrui, nè con parole possa

Render di cosa tal ragione alcuna.

Or via; quanto l'imagini nel corso

Celeri siano e qual prontezza in loro,

Mentre nuotan per l'aure, abbiano al moto,

Sì ch'in brev'ora, ovunque il volo indrizzino,

Spinte da vario impulso un lungo spazio

Passino; io con soavi e dolci versi,

Più che con molti, di narrarti intendo,

Qual più grato è de' cigni il canto umíle

Del gridar che le grue fan tra le nubi

Se i gran campi dell'aria austro conturba.

Pria: sovente veggiam ch'assai veloce

Movimento han le cose i cui principii

Interni atomi sian lisci e minuti.

Qual è forza che sia la luce e quale

Il tiepido vapor de' rai del sole;

Che, fatti essendo di minuti semi,

Son quasi a forza ogn'or vibrati, e nulla

Temono il penetrar l'aereo spazio

Sempre da nuovi colpi urtati e spinti;

Con ciò sia che la luce è dalla luce

Somministrata immantinente, et ave

Dal fulgore il fulgor stimolo eterno.

Onde per la medesima cagione

Mestiero è che l'effigie in un momento

Sian per immenso spazio a correr atte;

Pria, perchè basta ogni leggiero impulso

Che l'urti a tergo e le sospinga avanti;

Poi, perchè son di così tenui e rari

Atomi inteste, che lanciate intorno

Penetrano ogni cosa agevolmente

E volan quasi per l'aereo spazio.

In oltre; se dal ciel vibransi in terra

Minimi corpi, qual del sole a punto

È la luce e 'l vapor, miri che questi,

Diffondendo sè stessi, in un momento

Irrigan tutto il ciel superno e tutta

L'aria, l'acqua e la terra ove sì mobile

Leggerezza gli spinge. Or che dirai?

Dunque le cose che de' corpi al sommo

Sono al moto sì pronte e che lanciate

Nulla impedisce ir non dovran più ratte

E più spazio passar nel tempo stesso,

Che la luce e 'l vapor passano il cielo?

Ma di quanto l'imagini de' corpi

Sian veloci nel corso, io per me stimo

Esser principalmente indicio vero

L'esporsi a pena all'aria aperta un vaso

D'acqua, che, essendo il ciel notturno e scarco

Di nubi, in un balen gli astri lucenti

Vi si specchian per entro. Or tu non vedi

Dunque omai quanto sia minimo il tempo

In cui dell'auree stelle i simolacri

Dall'eterea magion scendono in terra?

Sì che, voglia o non voglia, è pur mestiero

Che tu confessi esser vibrati intorno

Questi minimi corpi atti a ferirne

Gli occhi e la vista penetrarne e sempre

Nascere ed esalar da cose certe;

Qual dal sole il calor, da' fiumi il freddo,

Dal mare il flusso od il reflusso edace

Dell'antiche muraglie ai lidi intorno:

Nè cessan mai di gir per l'aria errando

Voci diverse: e finalmente in bocca

Spesso di sapor salso un succo scende,

Quando al mar t'avvicini; ed all'incontro

Mescer guardando i distemprati assenzi

Ne sentiam l'amarezza. In così fatta

Guisa da tutti i corpi il corpo esala,

E per l'aere si sparge in ogni parte;

Nè mora o requie in esalando alcuna

Gli è concesso già mai mentre ne lice

Continuo il senso esercitare e tutte

Veder sempre le cose e sempre udire

Il suono ed odorar ciò che n'aggrada.

Perchè poi si conosce esser la stessa

Quella figura che palpata al buio

Fu con le mani e che nell'aureo lume

Dopo si vede e nel candor del giorno,

D'uop'è che la medesima cagione

Ecciti in noi la vista e 'l tatto. Or dunque,

Se palpiamo un quadrato e questo il senso

La notte ne commuove, e qual già mai

Cosa potrassi alla sua forma aggiungere

Il dì fuorchè la sua quadrata imagine?

Onde sol nell'imagini consiste

La cagion del vedere, e senza loro

Ciechi affatto sarian tutti i viventi.

Or sappi che l'effigie e i simolacri

Volano d'ogn'intorno e son vibrati

E diffusi e dispersi in ogni banda:

Ma, perchè solo atti a veder son gli occhi,

Quindi avvien che dovunque il vólto vòlti

Ivi sol delle cose a noi visibili

La figura e 'l color ti s'appresenta.

E, quanto sia da noi lungi ogni corpo,

Il simolacro suo chiaro ne mostra:

Poichè, allor ch'ei si vibra, in un istante

Quella parte dell'aria urta e discaccia

Ch'è fra sè posta e noi; questa in tal guisa

Sdrucciola pe' nostri occhi, e quasi terge

L'una e l'altra pupilla, e così passa:

Quindi avvien che veggiamo agevolmente

La lontananza delle cose, e, quanto

Più d'aere è spinto innanzi e ne forbisce

E molce le pupille aura più lunga,

Tanto a noi più lontan sembra ogni corpo;

Ch'ambedue queste cose in un baleno

Fannosi al certo, e che si vegga insieme

Quai sian gli oggetti e quanto a noi discosti.

Nè qui vogl'io che meraviglia alcuna

T'occupi l'intelletto, ond'esser deggia

Che non potendo i simolacri all'occhio

Tutti rappresentarsi, ei pur bastante

A scorger sia tutte le cose opposte.

Poichè nel modo stesso aura gelata,

Che lieve spiri e ne ferisca il corpo

Coi pungenti suoi stimoli, non suole

Mai commover le membra a parte a parte

Ma tutte insieme; e le percosse e gli urti

Ricevuti da lor quasi prodotti

Sembran da cosa che ne sferzi o cacci

Fuor di sè stessa unitamente il senso.

In oltre: allor che tu maneggi un sasso,

Tocchi di lui la superficie estrema

E l'estremo color; ma già non puoi

Sentir quella nè questo, anzi la sola

Durezza sua ti si fa nota al tatto.

Or via, perchè l'imago oltre allo specchio

Si vegga, intendi. Chè remota al certo

Apparisce ogni effigie, in quella guisa

Che fan gli oggetti i quai veracemente

Si miran fuor di casa, allor che l'uscio

Libero per sè stesso e aperto il varco

Concede al guardar nostro e fa che molte

Cose lungi da noi scorger si ponno.

Con ciò sia che per doppio aere procede

Anco questa veduta. Il primo è quello

Ch'è dentro all'uscio, indi a sinistra e a destra

Seguon l'impòste: indi la luce esterna

Gli occhi ne terge e 'l second'aere e tutte

Le cose che di fuor veracemente

Son da noi viste. In cotal guisa adunque,

Tosto che dello specchio il simolacro

Per lo mezzo si lancia, allor ch'ei viene

Vér le nostre pupille, agita e scaccia

Tutto l'aere frapposto, e fa che prima

Veggiam lui che lo specchio: indi si scorge

Lo specchio stesso, e nel medesmo istante

Percuote in lui la nostra effigie e tosto

Gli occhi indietro reflessa a veder torna,

E, cacciandos'innanzi e rivolgendo

Tutto l'aere secondo, opra che prima

Veggiam questo che lei: quindi l'imago

Dallo specchio altrettanto appar lontana,

Quant'ei dall'occhio situato è lungi.

Sappi, oltr'a ciò, che delle nostre membra

Quella parte ch'è destra, entro allo specchio

Sinistra esser ne pare. E questo accade,

Perchè, giungendo al piano suo l'imago,

L'urta, e da lui non è reflessa intatta

Ma drittamente ripercossa e infranta:

Qual, se una molle maschera di créta

Battuta in un pilastro o in una trave

Tal nella fronte la primiera forma

Serbi indietro volgendosi, che possa

Esprimer sè medesma in un istante,

L'occhio che fu sinistro allor farassi

Destro e sinistro pel contrario il destro.

Ponno ancor tramandarsi i simolacri

Di specchio in specchio e generar tal ora

Cinque imagini e sei. Poichè qualunque

Cosa, ancor che remota e posta in parte

Occulta al veder nostro, indi si puote

Trar con più specchi in vari siti e certi

Locati alternamente e far che giunga

D'essa per torte vie l'effigie all'occhio.

Tant'è ver che l'imagine traluce

Di specchio in specchio, e, se l'è destra, riede

Sinistra, e quindi ripercossa indietro

Pur di nuovo si volge e torna a destra.

Anzi, qualunque lato abbian gli specchi

Curvo a foggia di fianco, a noi riflette

Dei destri corpi i simolacri a destra;

O perch'ivi l'imagine trapassa

Di specchio in specchio, e quindi a noi se n' vola

Due volte ripercossa; o perchè, mentre

Corre verso i nostr'occhi, erra aggirata,

Spinta a ciò far dalla figura esterna

Dello specchio medesimo, ch'essendo

Curva fa che ver noi tosto si volga.

Parne, oltr'a ciò, ch'entri l'effigie ed esca

Nosco e che 'l piede fermi e i gesti imiti;

Poichè da quella parte, onde ne piace

Partirne e dallo specchio allontanarsi,

Tornar non ponno i simolacri all'occhio

Nostro, poich'incidenti e ripercossi

Sempre fan con lo specchio angoli eguali.

Odian poi le pupille i luminosi

Oggetti e schivan d'affissarsi in loro;

Anzi, se troppo il guardi, il sol t'accieca,

Perchè molto possente è l'energia

De' suoi lucidi raggi, e son vibrati

D'alto per l'aer puro i simolacri

Impetuosamente, e fiedon gli occhi

Tutta turbando e confondendo insieme

La lor fabbrica interna. Inoltre; il lume,

Qual or troppo è gagliardo, abbruciar suole

Spesso i nostr'occhi; perchè in sè di fuoco

Molti semi racchiude atti a produrre,

Mentre passan per lor, noia e dolore.

Giallo, in oltre, divien ciò che rimira

L'uom ch'è da regia infirmitade oppresso;

Perchè di giallo molti semi esalano

Dall'itteriche membra i quali incontro

Vanno all'effigie delle cose, e molti

Ne son misti negli occhi e di pallore

Col lor tetro velen tingon il tutto.

Dalle tenebre poi scorger si ponno

Tutte le cose a' rai del lume esposte;

Perchè, quando ai nostri occhi arriva il primo

Aere vicin caliginoso e fosco

Ed aperti gl'ingombra, incontinente

Segue il secondo lucido e sereno

Ch'ambi quasi gli purga e l'ombra scaccia

Di quell'aere primier, perchè di lui

È più tenue, più snello e più possente:

Onde, non così tosto empie di luce

I meati degli occhi, e ciò che tenne

Chiuso pria l'aer cieco apre e rischiara,

Che de' corpi illustrati i simolacri

Seguon senz'alcun velo ed a vederli

N'incitan la pupilla. Il che non puossi

Far pel contrario dalla luce al buio;

Perchè l'aere secondo oscuro e grosso

Succede al tenue e luminoso, e tutti

I meati riempie, e cinge intorno

Le vie degli occhi, ond'impedito affatto

Sia d'ogni corpo a' simolacri il moto.

Succede ancor che le quadrate torri

Riguardate da lungi appaian tonde,

Sol perchè di lontan gli angoli suoi

Molto ottusi si veggono, o più tosto

Più da noi non si veggono e svanisce

Affatto ogni lor piaga e non ne giunge

Pur a muoverne il senso un picciol urto:

Poichè, mentre l'imagine per lungo

Tratto si muove, è dagli stessi incontri

Dell'aere a forza rintuzzata; e quindi,

Tosto che tutti gli angoli a' nostr'occhi

Son resi impercettibili, costrutta

Ci par di sassi fabbricati al torno;

Ma non tali però che differenza

Fra lor non abbia e' veramente tondi

E da presso veduti; anzi ne sembra

Che tutti sian quasi adombrati e finti.

Parne, oltr'a ciò, che al sol l'ombra si mova,

E segua i nostri passi, e 'l gesto imíti;

Se pur credi che l'aria, essendo priva

Di luce, passeggiar debba e seguire

Dell'uomo i gesti ed emularne i moti;

Chè null'altro che aria orba di luce

Esser può mai quel che da noi si suole

Ombra chiamar. Ciò senza dubbio accade,

Perchè resta per ordine la terra

Priva de' rai del sol dovunque il passo

Da noi si volga e le si pari il lume,

E quei luoghi all'incontro onde partimmo

S'illustran tutti ad uno ad uno. Or quindi

Pare a noi che l'istessa ombra del corpo

Sempre ne segua; con ciò sia che sempre

Nuovi raggi di luce in ordin certo

Si diffondon per l'aria, e quei di prima

Spariscon, quasi lana arsa nel fuoco;

Onde resta la terra agevolmente

Di luce ignuda, e nella stessa guisa

Se n'adorna e riveste, e scuote e purga

L'atra e densa caligine dell'ombre.

Nè qui nulla di men gli occhi ingannati

Punto non son: poichè, dovunque il lume

Si trovi o l'ombra, il veder tocca a loro;

Ma, se i raggi medesimi di luce

Camminano in più luoghi e se la stessa

Ombra di qui si parta e vada altrove

O pur, come poc'anzi io ti diceva,

Segua tutto il contrario, il ciò discernere

Opra è della ragion, nè posson gli occhi

Mai delle cose investigar l'essenza:

Onde non voler tu questo difetto,

Che solo è del consiglio, ingiustamente

Agli occhi attribuir. Ferma ne sembra

La nave che ci porta, anco che voli

Per l'alto a piene vele. Ir giureresti

L'immobil lido e verso poppa i colli

Fuggirsi e i campi, allor che spinto innanzi

Dalle forze del vento il curvo pino

Indietro se gli lascia. Ogni astro immoto

Parne e dell'etra alle caverne affisso:

E pure astro non v'ha che irrequïeta-

mente non giri; con ciò sia che tutti

Sorgendo i lunghi cerchi a veder tornano,

Tosto che i globi lor chiari e lucenti

Han misurato il ciel. Nel modo stesso

Par che 'l sol non si muova e che la luna

Stia ferma: e pur chiaro ne mostra il fatto

Ch'ambi con giro assiduo ognor passeggiano

I gran campi dell'etra. E, se da lungi

Miri di mezzo al mar monti sublimi

Disgiunti in guisa ch'all'intere armate

Navali sia fra lor l'esito aperto,

Nondimen ti parrà che tutti insieme

Faccian una sol'isola. A' fanciulli

Che già cessato han di girare attorno

Par che talmente e le colonne e gli atri

Girino anch'essi, che a gran pena omai

Credon che sopra lor l'ampio edifizio

Di cader non minacci. E, quando in cielo

Già con tremulo crin l'alba apparisce

E la splendida giuba in alto estolle,

Quel monte, a cui sì da vicino il sole

Par che sovrasti e che da' rai lucenti

Del suo fervido globo arso ti sembra,

Lungi a pena è da noi due mila tratti

Di freccia, anzi tal volta a pena è lungi

Sol cinquecento: e pur fra 'l sole ed esso

Sai che giaccion di mar pianure immense,

D'etere inaccessibili campagne,

E gran tratti di terra in cui son vari

Popoli e d'animai specie diverse.

L'acqua, oltr'a ciò, che nelle pozze accolta

Per le vie lastricate in mezzo ai sassi

Ferma si sta, benchè non sia d'un dito

Punto più alta, nondimeno agli occhi

Lascia tanto abbassar sotterra il guardo,

Quanto l'ampie del ciel fauci profonde

S'apron lungi da noi, sì che le nubi

Veder ti sembra e l'auree stelle e 'l sole

Splender sotterra in quel mirabil cielo

Tosto, al fin, che si ferma in mezzo al fiume

Il veloce cavallo e che si affissano

Gli occhi nell'onde rapide e tranquille,

Parne che 'l corpo suo quantunque immoto

Sia portato a traverso, e che la propria

Forza il fiume al contrario urti e respinga,

E, dovunque da noi l'occhio si volga,

Girne sembra ogni cosa ed a seconda

Notar dell'acque. E finalmente i portici,

Ben che sian d'egual tratto e da colonne

Non mai fra lor dispàri abbian sostegno,

Pur nondimen, se dalla somma all'ima

Parte son riguardati, a poco a poco

Stringer mostran sè stessi in cono angusto,

Più e più sempre avvicinando il destro

Muro al sinistro e 'l pavimento al tetto

Sin che di cono in un oscuro acume

Vadano a terminar. Sorto dall'acque

Ai naviganti 'l sol par che nell'acque

Anco s'attuffi e vi nasconda il lume:

Ma quivi altro mirar che cielo e mare

Non puossi. E crederai sì di leggiero

Che sian offesi d'ogn'intorno i sensi?

Zoppe, in oltre, nel porto agl'imperiti

Esser paion le navi e con infranti

Arredi premer di Nettuno il dorso;

Poichè quel che de' remi e del governo

Sovrasta al salso flutto e fuor n'emerge

Dritto senz'alcun dubbio agli occhi appare,

Ma non fanno così l'altre lor parti

Ricoperte dall'onde, anzi rifratte

Mostran voltarsi e ritornar supine

Verso il margine estremo e ripercosse

Quasi al sommo dell'acque ir fluttuando.

E, s'in tempo di notte a ciel sereno

Per lo vano dell'aria il vento spinge

Nugole trasparenti, allor ci sembra

Che gli splendidi segni ai nembi incontro

Vadano in regïon molto diversa

Dal loro vero viaggio. E, se la mano

Supposta all'un degli occhi il preme ed erge,

Doppio al senso divien ciò che si mira,

Doppio delle lucerne il lume ardente,

Doppio di casa ogni ornamento, e doppie

Degli uomini le facce e doppi i corpi.

Al fin, quando sepolte in dolce sonno

Giaccion tutte le membra e gode il corpo

Una somma quïete, allor sovente

Parne esser desti non per tanto e moverne,

E mirar nella cieca ombra notturna

L'aureo lume del giorno, e 'n chiuso luogo

Cielo e mari passar fiumi e montagne,

E con libero piè scorrer pe' campi,

E parole ascoltar, mentre il severo

Silenzio della notte il mondo ingombra,

E risponder tacendo alle proposte.

Et, in somma, guardando, ognor veggiamo

Molt'altre cose simili, che tutte

Cercan di vïolar quasi la fede

A ciascun sentimento ancor che indarno:

Poichè di queste una gran parte inganna

Per la fallace opinïon dell'animo

Che si forma da noi, mentre prendiamo

Per noto quel che non è noto al senso.

Se finalmente alcun crede che nulla

Non si possa saper, questi non sa,

Anco se la cagion possa sapersi,

Ond'ei di nulla non saper confessa.

Dunque il più disputar contro a costui

Opra vana saria, mentr'egli stesso

Col suo proprio cervel corre all'indietro.

Ma, concesso anco questo, nondimeno

Chiederògli di nuovo in qual maniera,

Non avend'egli conosciuto innanzi

Cosa che vera sia, sappia al presente

Quel che 'l sapere e 'l non saper significhi,

Onde il falso dal ver, dal dubbio il certo

Discerna. E, in somma, troverai che nacque

La notizia del ver dai primi sensi:

Nè ponno i sensi mai, se non a torto,

Ripudiarsi da te; mentre è pur d'uopo

Che presti ognun di noi fede maggiore

A quel che può per sè medesmo il falso

Vincer col vero. E qual di maggior fede

Cosa degna sarà che 'l nostro senso?

Forse da falso senso avendo origine

Potrà mai la ragione esser bastevole

I sensi a confutar? mentr'ell'è nata

Tutta da' sensi, i quai se non son veri,

Mestiero è ancor ch'ogni ragion sia falsa.

Forse potran redarguir l'orecchie

Gli occhi? o 'l tatto l'orecchie? o della lingua

Confutare il sapor l'udito o 'l tatto?

Forse il riprenderan gli occhi o le nari?

Non per certo il faran: poichè diviso

È de' sensi il potere, et a ciascuno

La sua parte ne tocca; e però deve

Quel ch'è tenero o duro o freddo o caldo

Freddo o caldo parer tenero o duro

Distintamente; ed è mestier ch'i vari

Colori delle cose, e tutto quello

Ch'è congiunto ai color, distintamente

Si senta; e della bocca ogni sapore

Ha distinta virtù; nascon gli odori

Dal suon distinti, e 'l suon distinto anch'egli

Finalment'è prodotto: ond'è pur d'uopo

Che l'un dall'altro senso esser ripreso

Non possa. E molto men creder si debbe

Che pugni alcun di lor contro sè stesso;

Con ciò sia che prestargli egual credenza

Sempre dovriasi e per sospetto averlo.

Dunqu'è mestier, che ciò che appare al senso

In qual tempo tu vuoi sia vero e certo.

E, se non puoi con la ragione disciôrre

La causa per che tondo appaia all'occhio

Da lungi quel che da vicino è quadro,

Meglio è però, se di ragion v'è d'uopo,

False cause assegnar che con le proprie

Mani trar via quel ch'è già noto e conto

E vïolar la prima fede e tutti

Scuotere i fondamenti ove la propria

Vita e salute ogni mortale appoggia.

Poichè non solo ogni ragione a terra

Cade, ma, quel ch'è peggio, anco la vita

Tosto vien men che tu non credi ai sensi,

Nè schivar curi i ruinosi luoghi

Nè l'altre cose simili che denno

Fuggirsi e segui le contrarie ad esse.

In van dunque ogni copia di parole

Fia contro i sensi apparecchiata e pronta.

Al fin: siccome, oprando un architetto

Nelle fabbriche sue torta la riga

Falsa la squadra e zoppo l'archipenzolo,

Mestiero è che mal fatto e sconcio in vista

Curvo, obliquo, inchinato e vacillante

Riesca ogni edifizio e già minacci

Imminente caduta, anzi sorgendo

Da bugiardi ingannevoli giudìci

Ruini affatto e torni eguale al suolo;

Così d'uopo sarà ch'ogni ragione,

Che da sensi fallaci origin ebbe,

Cieca si stimi e mal fedele anch'ella.

Or, come ogni altro senso il proprio obietto

Senta per sè medesmo, agevolmente

Può capirsi da noi. Pria s'ode il suono

E s'intendon le voci allor ch'entrando

Nell'orecchie il lor corpo agita il senso.

Che corporea per certo anco la voce

E 'l suon d'uopo è che sia, mentre bastanti

Sono a movere il senso e risvegliarlo.

Poichè raschian sovente ambe le fauci

Le voci, e nell'uscirsene le strida

Inaspriscon vie più l'asper'arteria:

Con ciò sia che, sorgendo in stretto luogo

Turba molto maggior, tosto che i primi

Principii delle voci han cominciato

A volarsene fuori e che ripieni

Ne son tutti i polmon, radon al fine

La troppo angusta porta ond'hanno il passo.

Dubbio adunque non è che le parole

Siano e le voci di corporei semi

Create, con ciò sia ch'offender ponno.

Nè t'è nascosto ancor quanto detragga

Di corpo e quanto sminuisca altrui

Di forza di vigor di robustezza

Un continuo parlar, che cominciando

Dal primo albór della nascente aurora

Duri insino alla cieca ombra notturna,

Massime se gli è sparso in larga vena

Con altissime strida. Egli è pur forza

Dunque ch'ogni parola et ogni voce

Corporea sia, poichè parlando l'uomo

Sempre del corpo suo perde una parte.

Nè con forma simíl possono i semi

Penetrar nell'orecchie, allor che mugge

La tromba o 'l corno in murmure depresso,

Et allor che morendo al canto snoda

La lingua il bianco cigno e di soavi

Ben che flebili voci empie le valli

Del canoro Elicona ove già nacque.

Dunque da noi son certamente espresse

Le voci in un col corpo e fuor mandate

Con dritta bocca. La dedalea lingua

Variamente movendosi gli accenti

Articola, e la forma delle labbra

Dà forma in parte alle parole anch'essa.

Dall'asprezza de' semi è poi creata

L'asprezza della voce e parimente

Il levor dal levor. Chè, se per lungo

Spazio correr non dee prima che possa

Penetrar nell'orecchie, ogni parola

Si sente articolata e si distingue

Dall'altre; con ciò sia che 'n simil caso

Tutte conservan la struttura prima:

Ma, se lungo all'incontro è più del giusto

L'interposto cammin, forza è che, mentre

Fendon le voci il soverchio aere e vanno

Per l'aure a volo, in un confuse e miste

Siano e scomposte e dissipate in guisa,

Che ben possan l'orecchie un indistinto

Suono ascoltar, ma non però discernere

Punto qual sia delle parole il senso:

Sì confusa è la voce ed impedita.

In oltre, allor che 'l banditore aduna

La gente, un solo editto è da ciascuno

Inteso. In mille e mille voci adunque

Qua e là senza dubbio una sol voce

Si sparge in un balen poichè diffusa

Ogni orecchio penètra e quivi imprime

La forma e 'l chiaro suon delle parole.

Parte ancor delle voci, oltre correndo

Senza alcuno incontrar, perisce al fine

Per l'aure aeree dissipata indarno:

Parte in dense muraglie in antri cavi

In curve e cupe valli urta e reflessa

Rende 'l suono primiero, e spesso inganna

Con mentita favella il creder nostro.

Il che bene intendendo, agevolmente

Saper potrai per qual cagione i sassi

Ti riflettan per ordine l'intera

Forma delle parole, allor che cerchi

Per selve opache e per montagne alpestri

Gli smarriti compagni e li richiami

Con grida alte e sonore. E mi sovviene

Ch'una sola tua voce or sei or sette

Volte s'udío, tal reflettendo i colli

Ai colli stessi le parole a gara

Iteravano i detti. I convicini

Di questi luoghi solitari han finto

Che Fauni e Ninfe e Satiri e Silvani

Ne siano abitatori; e che la notte

Con giochi e scherzi e strepitosi balli

Rompan dell'aer fosco i taciturni

Silenzi e dalla piva e dalla cetra

Tocca da dotta man spargano all'aure

Dolci querele armonïosi pianti;

E che 'l rozzo villan senta da lungi,

Qual or squassando del biforme capo

La corona di pino il dio de' boschi

Spesso con labbro adunco in varie guise

Anima la siringa e fa che dolce

Versin le canne sue musa silvestre.

Altri han finto eziandio mostri e portenti

Simili a' sopraddetti, onde si creda

Che non sian dagli dèi sole e diserte

Le lor selve tenute; e però vanno

Millantando miracoli; o son mossi

Da qualch'altra cagion; chè troppo in vero

D'aver gente che l'oda avido è l'uomo.

Or, quanto a quel che segue a maraviglia

Non s'ascriva da te, che per gli stessi

Luoghi ove penetrar gli occhi non ponno

Penetrin le parole e sian bastanti

A commoverne il senso; il che tal ora

Veggiam parlando a porte chiuse insieme:

Con ciò sia che trovar libero il varco

Posson per torte vie le voci e 'l suono,

Ma non l'effigie, che divise e guaste

Forz'è che sian se per diritti fóri

Non li tocca a passar, come son quelli

Del vetro onde ogni specie oltre se n' vola.

S'arroge a ciò che d'ogn'intorno il suono

Sè medesmo propaga e d'una voce

Molte voci si creano, in quella guisa

Ch'una sola favilla in più faville

Tal or si sparge: di parole adunque

Ogni luogo vicin ben che nascosto

Empier si può. Ma per diritte strade

Corre ogn'imago: ond'a nessun fu dato

Il veder sopra sè, ma bene a tutti

L'udir chi ne favella. E, nondimeno

Questa voce medesma, allor che passa

Per vie non dritte, è dagli estremi intoppi

Più e più rintuzzata; onde all'orecchie

Giunge indistinta, e d'ascoltar ne sembra

Più che note e parole un suon confuso.

Ma la lingua e 'l palato, in cui consiste

Del gusto il senso, han di ragione e d'opra

Parte alquanto maggior. Pria nella bocca

Si sentono i sapori, allor che 'l cibo

Masticando si spreme in quella guisa

Che si fa d'una spugna. Il succo espresso

Quindi si sparge pe' meati obliqui

Della rara sostanza della lingua:

E del nostro palato, e, se di lisci

Semi è composto, dolcemente tocca

Gli strumenti del gusto e dolcemente

Gli molce e li solletica; ma, quanto

Son più aspri all'incontro e più scabrosi

Gli atomi suoi, tanto più punge e lacera

Del palato i confin: ma giù caduto

Per le fauci nel ventre, alcun diletto

Più non ne dà, benchè si sparga in tutte

Le membra e le ristori. E nulla monta

Di qual sorte di cibo il corpo viva,

Pur che distribuir possa alle membra

Concotto ciò che pigli e dello stomaco

Sempre intatto serbar l'umido innato.

Ma tempo è d'insegnarti onde proceda

Che vari han vario cibo, ed in che modo

Quel che sembra ad alcuni aspro ed amaro

Possa ad altri parer dolce e soave.

Anzi è tal differenza in queste cose

E tal diversità, che quello stesso

Ch'ad altri è nutrimento ad altri puote

Esser tetro e mortifero veleno.

Poichè spesso il serpente, a pena tócco

Dall'umana saliva, in sè rivolge

Irato il crudo morso onde s'uccide:

E spesso anco le capre e le pernici

S'ingrassan con elleboro, che pure

Senza dubbio è per noi tósco mortale.

Or, acciò che tu sappia in che maniera

Possa questo accader, pria mi conviene

Ridurti a mente quel ch'io dissi innanzi:

Cio è, ch'i semi fra le cose in molti

Modi son misti. Or; come gli animali

Che prendon cibo son fra sè diversi

Nell'estrema apparenza, et ogni specie

L'ambito delle membra ha differente;

Così nascono ancor di vari semi

E di forma difformi. I semi vari

Fan poi varie le vie, vari i meati

E vari gl'intervalli in ogni membro

E nel palato e nella lingua stessa.

Dunque alcuni minori, altri maggiori

D'uopo è che sian, altri quadrati ed altri

Triangolari, altri rotondi ed altri

Scabrosi in varie guise e di molt'angoli;

Poichè tal differenza esser conviene

Tra le figure de' meati estremi

E fra tutte le vie de' nostri sensi,

Qual richieggon degli atomi le forme,

I moti e le testure. Or, quando un cibo

Che par dolce ad alcuno ad altro amaro

Sembra, a quei ch'e' par dolce i lisci semi

Debbon soavemente entro i meati

Penetrar della lingua, ed all'incontro

A quei ch'e' sembra amaro i rozzi e gli aspri.

Quindi intender potrassi agevolmente

Tutte le cose appartenenti al gusto:

Poichè, senz'alcun dubbio, allor che l'uomo

O per bile eccedente o per qualunque

Altra cagion langue da febbre oppresso,

Già tutto è 'l corpo suo turbato, e tutti

Gli atomi ond'è composto han vari e nuovi

Siti acquistato: e da tal causa nasce,

Che quei corpi medesimi ch'innanzi

S'adattaro alle fauci or non s'adattino,

E sian gli altri di sorte che produrre

Debbiano, in penetrando acerbo senso:

Posciachè gli uni e gli altri entro il sapore

Del miel son mescolati; il che di sopra

Con più ragione io t'ho dimostro a lungo.

Or via; come l'odor giunto alle nari

Le tocchi e le solletichi, insegnarti

Vo', s'attento m'ascolti. E prima è d'uopo

Suppor che molte cose in terra sono,

Onde di vario odor flutto diverso

Continuo esala e per l'aereo spazio

Vola e s'aggira: e ben credibil sembra

Che sia vibrata d'ogn'intorno e sparsa

Qualche specie d'odor; ma questa a questi

Animali convien, quella a quegli altri

Per le forme difformi. E quindi accade

Che del mèle all'odor ben che lontano

Corran le pecchie, e gli avvoltoi al lezzo

De' fracidi cadaveri; e che l'ugna

Delle belve fugaci, ovunque impressero

Le proprie orme nel suol, tirin de' bracchi

Il robusto odorato; e che da lungi

Possan l'oche sentir l'umano sito

E difender da' Galli il Campidoglio.

Tal vari han vario odor, che gli conduce

Ne' paschi a lor salubri e gli costringe

A fuggir dal mortifero veleno;

E tal degli animai duran le specie.

Dunque fra questi odori alcuni ponno

Per lo mezzo diffondersi e volare

Vie più lungi degli altri; ancor che mai

Non possa alcun di loro ir sì lontano

Quanto il suono e la voce (io già tralascio

Di dir quanto l'effigie e i simolacri

Che fiedon gli occhi ed a veder m'incitano)

Poichè tardo si muove e vagabondo,

E talvolta perisce a poco a poco

Per l'aereo sentier distratto e sparso

Pria che giunga alle nari. E ciò succede

Principalmente, perchè fuori esala

Dall'imo centro delle cose a pena

(Che ben dall'imo centro uscir gli odori

Mostra il sempre olezzar più degl'interi

I corpi infranti stritolati ed arsi);

Poi perchè gli è di maggior semi intesto

Della voce e del suon; come vedere

Lice a ciascun, perchè la voce e 'l suono

Penetra per le mura ove l'odore

Mai non penétra. Ond'eziandio si vede

Che non è così agevole il potere

Rintracciar con le nari ove locati

Siano i corpi odoriferi; chè sempre

Più divien fredda ogni lor piaga e fiacca

Per l'aure trattenendosi, e non giunge

Calda al senso e robusta: e quindi spesso

Errano i bracchi e in van cercan la traccia.

Nè però negli odori e ne' sapori

Ciò solo avvien: ma similmente è certo

Che non tutti i color, non delle cose

Tutte l'effigie in guisa tal s'adattano

Di tutti al senso, ch'a vedersi alcune

Non sian dell'altre più pungenti ed aspre.

Anzi; qual or l'ali battendo il gallo,

Quasi a sè stesso applauda, agita e scaccia

Le cieche ombre notturne e con sonora

Voce risveglia ogni animale all'opre;

Non ponno incontro a lui fermi e costanti

Trattenersi un momento i leon rapidi

Nè pur mirarlo di lontan, ma tosto

Precipitosamente in fuga vanno:

E ciò, perchè de' galli entro alle membra

Trovansi alcuni semi, i quai negli occhi

De' leon penetrando, ambe le luci

Gli pungono in tal guisa e così aspro

Dolor gli danno, che ristarli a petto

Non ponno ancor che fieri ancor che indomiti:

E pur dagli stess'atomi non hanno

Mai le nostre pupille offesa alcuna,

O perch'essi non v'entrano, o più tosto

Perch'entrandovi han poi l'esito aperto

Per gli stessi meati onde in tornando

Non ponno i lumi in alcun modo offenderne.

Or su, quai cose a muoverne bastanti

Sian l'alma, intendi, e 'n brevi detti ascolta

Onde possa venir ciò che ne viene

In mente. E prima sappi che vagando

Van molte effigie d'ogn'intorno in molti

Modi, e son così tenui e sì cedenti

Che ben spesso, incontrandosi per l'aria,

Si congiungono insieme agevolmente

Quasi tele di ragni o foglie d'oro.

Poichè queste eziandio vie più sottili

Son dell'istesse imagini che ponno

Gli occhi irrigare e concitar la vista:

Con ciò sia che pel raro entran del corpo

E la tenue natura a mover atte

Son della mente e risvegliarne il senso.

Dunque e centauri e scille e can trifauci

Veggiamo e di color ombre ed imagini

Che già morte ridusse in poca polve;

Posciachè simolacri d'ogni genere,

Parte che per sè stessi in aria nascono,

Parte che nati son da cose varie,

Per lo vano del cielo errando volano,

E di questi e di quelli a caso unitisi

Nuove forme sovente anco si creano.

Con ciò sia che la specie di centauro

Certamente non può dal vivo origine

Aver, poichè nel mondo unqua non videsi

Un simile animal: ma, se l'effigie

D'un uomo e d'un cavallo a caso incontransi,

L'apparirne un tal mostro è cosa agevole;

Già che tosto ambedue forte congiungonsi

Per la natura lor ch'è sottilissima.

Tutti gli alti portenti a questo simili

Nel medesimo modo anco si creano:

E, lievi essendo sommamente, corrono

Vie più del vento del balen del fulmine,

Come già t'insegnammo. Ond'assai facile

Fia che in un colpo sol possa commoverne

L'animo qualsisia cedente imagine;

Già che ben sai che per natura è tenue

La mente anch'essa a maraviglia e mobile.

E che ciò ch'io ragiono altronde nascere

Non possa che da quel ch'io ti rammemoro,

Ben dee ciascuno agevolmente intendere;

Mentre ogni spettro che da noi con l'animo

Vedesi a quel che miran gli occhi è simile,

Et in simil maniera anco si genera.

Dunque; perchè già mai veder non puossi,

Verbigrazia, un leone in altra guisa

Che per l'imagin sua ch'entra negli occhi;

Quindi lice imparar che nello stesso

Modo senz'alcun dubbio anco la mente

Da varie effigie di leoni è mossa

Da lei viste egualmente e nulla meno

Di quel che rimirar possano gli occhi,

Se non ch'ella più tenui e più sottili

Specie discerne. E certamente altronde

Esser non può, che, quando il sonno ha sparse

Di dolce onda letèa tutte le membra,

Della mente il vigor stia vigilante,

Se non perchè l'imagini medesme

Che vegliando miriam gli animi nostri

Concítano in tal guisa, che di certo

Ne sembra di veder chi molto innanzi

Brev'ora ancise e poca terra asconde.

E questo avvien, perchè del corpo i sensi,

Tutti in un con le membra avviluppati

In profonda quïete, allor non ponno

Con le cose veraci e manifeste

Convincer l'ingannevoli, e sopita

Giace, oltr'a questo, e langue ogni memoria,

Nè basta a dissentir che già morisse

Quel che vivo mirar crede la mente.

In somma; che l'imagine passeggi,

Che mova acconciamente ambe le braccia

E le mani e la testa e tutto il corpo,

Meraviglia non è: poichè sognando

Ne sembra di veder che i simolacri

Possan far ciò; perchè svanendo l'uno

E creandosi l'altro in altro sito,

Pare a noi che il medesimo di prima

Abbia in un tratto varïato il gesto.

Chè ben creder si dee che questo avvenga

Con somma ed ammirabile prestezza:

Tanto mobili son gli spettri, e tanta

È la lor copia e così grande il numero

Delle minime parti d'ogni tempo.

E qui di molte cose interrogarmi

Lice, e che molte io ne dichiari è d'uopo,

Se di spiegar perfettamente altrui

Di natura desio gli ultimi arcani.

E pria può domandarmisi, in che modo

L'animo umano ove il desio lo sprona

Tosto volga il pensier. Forse han riguardo

L'effigie al voler nostro, e senza indugio

Qual or n'aggrada, a noi vengono incontro?

Se la terra se 'l mar se brami il cielo,

Se i ridotti degli uomini o' conviti

O' solenni apparati o le battaglie,

Forse ad un cenno sol crea la natura

Spettri sì vari e te li pone avanti?

Massime allor che in un medesmo luogo

Fissa ogni altro ha la mente ad altre cose.

Che poi? quando legati in dolce sonno

Passar veggiamo i simolacri e movere

Le pieghevoli membra acconciamente,

Qual or tutti a vicenda agili e snelli

Con le braccia e co' piè scherzano in danza?

Forse nell'arte del ballare esperti

Vagano i simolacri, e però sanno

Menar, dormendo noi, tresche notturne?

O più tosto fia ver che in ogni tempo

Sensibil molti tempi si nascondano

Che l'umana ragion sola comprende?

E che quindi l'effigie apparecchiate

Sian tutte in tutti i tempi in tutti i luoghi?

Tanta è la loro agilità nel moto,

Tanta la copia! E, perchè tenui e rare

Son vie più dell'imagini che gli occhi

Fiedono, unqua mirarle acutamente

L'alma non può, se non s'affissa in loro:

E per questo ogni specie in un baleno

Sfuma, se non se l'animo in tal guisa

Apparecchia sè stesso; e ben sè stesso

In tal guisa apparecchia, e brama e spera

Di veder ciò che segue; e 'l vede in fatto.

Noto forse non è che gli occhi nostri

Si preparano anch'essi e le pupille

Fissano, allor che tenui cose e rare

Hanno preso a guardar? dunque non vedi

Che non pôn senza questo acutamente

Nulla mirare? E pur conosce ognuno

Che, se l'animo nostro altrove è volto,

Le cose anco vicine e manifeste

Ci sembran lontanissime et oscure.

A che dunque stimar dèi meraviglia,

Ch'ei non possa altr'imagini vedere

Che quelle in cui s'affissa? In oltre; ogni uomo

Da segni piccolissimi conchiude

Tal or gran cose, e nol pensando in mille

Frodi s'avvolge e sè medesmo inganna.

Succede ancor, che varïando effigie

Vadan gli spettri, onde chi prima apparve

Femmina in un balen maschio diventi,

E d'una in altra etade e d'una in altra

Faccia si muti; e che mirabil cosa

Ciò non si stimi il sonno opra e l'oblio.

Or qui vorrei che tu schivassi in tutto

Quel vizio in cui già molti hanno inciampato,

Cio è, che non credessi in alcun modo

Che sian degli occhi nostri i chiari lumi

Creati per veder, nè che le gambe

Nascan atte a piegarsi acciò che l'uomo

Or s'inchini or si drizzi or muova il passo,

Nè che le braccia nerborute e forti

Date ne sian dalla natura et ambe

Le man quasi ministre onde si possa

Far ciò ch'è d'uopo a conservar la vita,

Nè l'altre cose simili che tutte

Son da loro a rovescio interpretate.

Poichè nulla già mai nacque nel corpo

Perchè usar lo potessimo, ma quello

Ch'all'incontro vi nacque ha fatto ogni uso.

Nè fu prima il veder che le pupille

Si creasser degli occhi; e non fu prima

L'arringar che la lingua, anzi più tosto

Della lingua l'origine precesse

Di gran tratto il parlare; e molto innanzi

Fur prodotte l'orecchie che sentite

Le voci e 'l suono; e tutte al fin le membra

Fur pria dell'uso lor: dunque per l'uso

Nate non son. Ma l'azzuffarsi in guerra,

L'uccidersi, il ferirsi e d'atro sangue

Bruttarsi il corpo, pel contrario, innanzi

Fu che per l'aria i dardi a volo andassero:

Pria natura insegnò che da schivarsi

Eran le piaghe; e poi l'arte maestra

Le corazze inventò, gli elmi e gli scudi.

Et è molto più antico il dar quïete

Alle membra già stanche o su la dura

Terra o sull'erbe molli all'aria aperta,

Che 'l nutrirne a grand'agio in piume al rezzo:

E prima a dissetar l'arsicce fauci

La man concava usammo e l'onde fresche

Che le tazze d'argento e 'l vin di Creta.

Dunqu'è ben ragionevole che fatto

Per l'uso sia ciò che dall'uso è nato:

Ma tal non è quel che prodotto innanzi

Fu che dell'util suo notizia desse,

Come principalmente esser veggiamo

Le membra e' sensi: ond'incredibil parmi

Che per utile nostro unqua potesse

La natura crear le membra e i sensi.

Similmente parer cosa ammiranda

Non dee che cerchi ogni animale il proprio

Vitto e senz'esso a poco a poco manchi.

Perch'io, se ben sovvienti, ho già dimostro

Che da tutte le cose ogn'or traspirano

Molti minimi corpi in molti modi:

Ma forz'è pur che in maggior copia assai

Li convenga esalar dagli animali

Che son dal moto affaticati e stanchi:

Senza che molti per sudore espressi

Son dall'interne parti, e molti sfumano

Dalle fauci anelanti e sitibonde.

Or quindi il corpo rarefassi, e tutta

La natura vien men: quindi il dolore

Si crea; quindi i viventi amano il cibo

Per ricrear le forze e sostenere

Le membra e per le vene e per le viscere

Sedar l'ingorda fame. Il molle umore

Penetra similmente in tutti i luoghi

Che d'umor han bisogno; e dissipando

Molti caldi vapor che radunati

Nello stomaco nostro incendio apportano

Quasi fuoco, e gli estingue e vieta intanto

Ch'e' non ardano il corpo. In simil guisa

Dunque s'ammorza l'anelante sete:

Tal si pasce il desio delle vivande.

Or; come ognun di noi gire e fermarsi

Possa ovunque gli aggrada e in varie guise

Mover le membra, e da qual urto il grave

Pondo del nostro corpo impulso e moto

Abbia; vo' dir: tu quel ch'io dico ascolta.

Pria l'effigie d'andar fassi alla mente

Incontro, e la percuote: indi si crea

La volontà: poichè nessun non piglia

Mai nulla a far, se no 'l prevede e vuole

L'animo pria; ma senza dubbio è d'uopo

Che di ciò ch'ei prevede i simolacri

Gli sian già noti e manifesti. Adunque,

Tosto che dall'imagini è commossa

La mente in guisa tal che stabilito

Abbia di gir, fiede il vigor dell'alma

Ch'è diviso e disperso in tutto il corpo

E pe' nervi e pe' muscoli: nè questo

È difficile a far, poichè congiunto

L'uno è con l'altro: indi 'l vigor predetto

Ripercuote le membra: e così tutta

Spinta è la mole a poco a poco e mossa.

In oltre; allor d'ogni animale il corpo

Divien molto più raro; e, come deve,

L'aria che sempre per natura è mobile

Largamente vi penetra, e per tutte

Le sue minime parti si diffonde:

E quindi avvien che, qual navilio urtato

Dalle vele e da' remi, il corpo nostro

Per due cause congiunte al fin si move.

Nè per cosa mirabile s'additi

Che sì tenui corpuscoli sian atti

A girar sì gran corpo e mover tutto

Il pondo suo; mentre sì spesso il vento,

Che pur anch'egli è di sottili e rari

Atomi intesto, impetuosamente

Move un vasto navilio, e un sol piloto

È possente a fermarlo, ancor che voli

Furïoso per l'alto a piene vele,

Pur che tosto ove dee giri il governo;

Et un solo architetto erge tal ora

Sol con timpani e taglie immensi pesi.

Or, come 'l sonno per le membra irrighi

La sicura quïete e della mente

Sciolga ogni affanno, io con soavi carmi

Più che con molti di narrarti intendo;

Qual più grato è de' cigni il canto umíle

Del gridar che le grue fan tra le nubi

Se i gran campi dell'aria austro conturba.

Tu con acute orecchie e con sagace

Mente m'ascolta; acciò che poi non nieghi

Tutto quel ch'io ti dico, e non disprezzi

Con animo ostinato e repugnante

La mia vera ragion pria che l'intenda.

Pria: si genera il sonno, allor che l'alma

Per le membra è distratta e fuori in parte

Cacciata esala e in parte anco rispinta

Ne' penetrali suoi fugge e s'asconde;

Con ciò sia che languisce e quasi manca

Il corpo allor. Ma non è dubbio alcuno

Che dell'anima umana opra non sieno

Tutti i sensi dell'uom: dunque, se il sonno

Ce li tiene impediti, è pur mestiero

Che turbata sia l'alma e fuor dispersa.

Ma non tutta però; chè gelo eterno

Di morte ingombreriane, ove nascosta

Dell'alma alcuna parte entro alle membra

Non rimanesse in quella guisa a punto

Che sotto a molta cenere sepolto

S'asconde il foco, onde repente il senso

Tal possa in noi rinnovellarsi, quale

Può da sepolto ardor sorger la fiamma.

Ma, di tal novità quai le cagioni

Siano e quai cose ne conturbin l'alma

E faccian tutto inlanguidirne il corpo,

Brevemente dirò: tu non volere

Ch'io sparga intanto ogni mio detto al vento.

Primieramente, essendo il corpo nostro

Dall'aure aeree d'ogn'intorno cinto,

D'uopo è che sia, quanto alle parti esterne,

Dagli stessi lor colpi urtato e pesto:

E per questa cagion tutte le cose

Son coverte da callo o da corteccia

O da cuoio o da setole o da velli

O da spine o da guscio o da conchiglie

O peli o piume o lana o penne o squamme.

E nell'interne ancor sedi penètra

L'aere medesmo e le percuote e sferza,

Mentre da noi si attragge e si respira.

Onde, essendo le membra in varie guise

Quinci e quindi agitate ed arrivando

Pe' fóri occulti le percosse a' primi

Elementi del corpo, a poco a poco

Nasce a noi per lo tutto e per le parti

Una quasi del senso alta ruina.

Poichè turbansi in guisa i moti i siti

De' principii dell'anima e del corpo,

Che di quella una parte è fuor cacciata,

Un'altra indietro si ritira e cela,

Et un'altra ve n'ha cui per le membra

Sparsa e distratta un vicendevol moto

Non lice esercitar, poichè natura

I meati e le vie chiuse gli tiene:

E quindi è poi che, varïati i moti,

Sfuma altamente e si dilegua il senso.

E, non v'essendo allor cosa che possa

Quasi regger le membra, il corpo langue,

Caggion le braccia e le palpebre, e tosto

Ambe s'inchinan le ginocchia a terra.

È dal pasto, oltr'a ciò, creato il sonno;

Perchè quel che fa l'aria agevolmente

Fanno anco i cibi, allor che per le vene

Vengon distribuiti. E più d'ogni altro

È profondo il sopor che sazi e stanchi

N'assal; perchè in tal caso una gran massa

D'atomi si rimescola agitata

Da soverchia fatica, e similmente

L'anima si ritira e si nasconde

In più cupi recessi, e fuor cacciata

Esala in maggior copia, e fra sè stessa

Più sparsa in somma e più distratta è dentro.

Onde il più delle volte in sogno appare

O cosa a cui per obbligo s'attende

O che gran tempo esercitossi innanzi

O che molto ci appaga. All'avvocato

Sembra di litigare e pe' clienti

Citar leggi e statuti: il capitano

Co' nemici s'azzuffa, e sanguinose

Battaglie indice: i naviganti fanno

Guerra co' venti e con le sirti: ed io

Cerc'ognor di spïar gli alti segreti

Di natura e spiati acconciamente

Nella patria favella esporli in carte:

Tal quasi sempre ogni altro studio ed arte

Suol dormendo occupar gli animi umani.

E, chiunque più giorni intento e fiso

Stette a mirar per ordine una festa,

Veggiam che spesso, ancor che i sensi esterni

Lungi ne sian, pur negl'interni aperte

Sono altre strade onde venirgl'in mente

Possan gli stessi simolacri: e quindi

Avvien che lungo tempo avanti agli occhi

Gli stanno in guisa, ch'eziandio vegliando

Pargli veder chi balli e salti e mova

Le pieghevoli membra acconciamente,

E sentir delle cetre i dolci carmi

E de' nervi loquaci il suon concorde,

E mirare il medesimo consesso

E di varie pitture e d'oro e d'ostro

Splender la scena ed il teatro intorno.

Tanto il voler, tanto lo studio importa,

Ed a quali esercizi assuefatti

Non pur gli uomini sian, ma tutti i bruti.

Con ciò sia che sovente, ancor che dorma

Il feroce destrier steso fra l'erbe,

Quasi a nobil vittoria avido aspiri,

Sbuffa, zappa, nitrisce, anela e suda

E per vincer pugnando opra ogni forza.

E spesso immersi in placida quïete

Corrono i bracchi all'improvviso, e tutto

Empion di grida e di latrati il cielo,

E, qual se l'orme di nemiche fiere

Si vedessero innanzi, aure frequenti

Spirano; e spesso ancor, poi che son desti,

Seguon de' cervi i simolacri vani

Quasi dati alla fuga, in fin che, scosso

Ogn'inganno primier, tornino in loro.

Ma le razze sollecite de' cani

Delle mandre custodi e degli alberghi,

Quasi abbian visto di rapace lupo

L'odïata presenza o di notturno

Ladro il sembiante sconosciuto, spesso

S'affrettan di cacciar dagli occhi i lievi

Lor sonni incerti e di rizzarsi in piedi.

E, quanto son di più scabrosi e rozzi

Atomi intesti, tanto più commossi

D'uopo è che siano e tormentati in sogno.

Quindi la plebe de' minuti augelli

Suol repente fuggirsi e paurosa

Turbar con l'ali a ciel notturno i boschi

Sagri ai rustici dèi, qual or sepolta

In piacevole sonno a tergo avere

Par lor di smerlo audace il rostro ingordo.

Ma che fan poi negl'improvvisi e grandi

Moti gli animi umani? Essi per certo

Fan sovente gran cose. Espugnan regi,

Son presi, attaccan guerre, alzan gridando

Le voci al ciel quasi nemico acciaio

Vivi gli scanni. Altri combatte, e sparge

Di pianto il suol, di gemiti e sospiri

L'aria, e, quasi pantera o tigre od orso

Digiun lo sbrani, empie di strida il tutto.

Altr'in sogno favella, e ne rivela

Tal or cose importanti, e porge spesso

Degli occulti misfatti indicio aperto.

Molti da breve sonno a sonno eterno

Fan passaggio crudel. Molti, assaliti

Da spavento terribile improvviso,

Qual se d'alta montagna in cupa valle

Fosser precipitati, oppressi in guisa

Restan, che quasi mentecatti e scemi,

Desti, a gran pena, pel disturbo interno

Delle membra agitate, in sè ritornano.

Siede poi l'assetato o presso un fiume

O presso un fonte o presso un rivo, e tutto

Quasi l'ingoi' con l'anelanti fauci.

E spesso anco i bambin dal sonno avvinti

Pensan d'alzarsi i panni o sopra un lago

O sovra un corto doglio e di deporvi

Il soverchio liquor di tutto il corpo;

Mentre intanto d'Olanda i prezïosi

Lini vanno irrigando e le superbe

Coltri tessute in Babilonia o in Menfi.

In oltre; quei che dell'etade al primo

Bollor son giunti e che maturo il seme

Hanno omai per le membra, effigie e spettri

Veggono intorno di color gentili

E di volto leggiadri; indi eccitarsi

Sentono i luoghi di soverchio seme

Gonfi, e, quasi che allor compiuti in uno

Abbian tutti i lor voti, un largo fiume

Spargon sovente, ond'è men puro il letto.

Dunque il seme ch'io dissi entro alle membra

S'eccita allor che per l'adulta etade

Comincia il corpo a divenir robusto:

Chè vari effetti han varie cause; e quindi

Sol dell'uomo il vigor provoca e smuove

Nell'uom l'umano seme, il quale, uscendo

Fuor de' luoghi natii, da tutto il corpo

Si parte, e per le membra e per gli articoli

Cade in certe di nervi inteste sedi

A lui convenïenti, e tosto irrita

Le parti genitali: esse irritate

Gonfian per troppo seme: e quindi nasce

Il desio di vibrarlo ove comanda

La sfrenata libidine, e la mente

Brama quel corpo onde ferilla amore.

Così dunque ciascun che saettato

Sia dallo stral di Venere, o per donna

Che dagli occhi leggiadri incendio spiri

O per vago fanciul cui la vezzosa

Feminil guancia ancor piuma non veli,

Quasi a fermo bersaglio il pensier volge

Tosto ond'uscío l'aspra sua piaga, e brama

D'unirsi a chi l'offese e di lanciare

L'umor tratto dal corpo entro il suo corpo,

Perch'il molto desio piacer gli annunzia.

Quest'è Venere in noi: quindi fu tratto

D'amore il nome; indi stillaro in prima

Le veneree dolcezze, indi le fredde

Cure i petti ingombrâr; poichè, se lungi

È l'oggetto che s'ama, al men presenti

Ne stan l'effigie e 'l desiato nome

Sempre all'orecchie si raggira intorno.

Ma fuggir ne convien l'esca d'amore

E l'imagini sue, volgendo altrove

La mente, e dal soverchio umor del corpo

Sgravarne ovunque n'è concesso, e mai

Fissa non ritener d'un solo oggetto

Nel cor la brama e per noi stessi intanto

Nutrir cure mordaci e certo duolo:

Con ciò sia che la piaga ogn'or più viva

Diventa e col nudrirla infistolisce,

Cresce il furor di giorno in giorno e sempre

La miseria del cor fassi più grave,

Se tu con dardi nuovi i primi dardi

Prontamente a cacciar non t'apparecchi

Come d'asse si trae chiodo con chiodo.

E, con vagante affetto or quello or questo

Dolce frutto di Venere cogliendo,

Le fresche piaghe non risani e volgi

Dell'alma afflitta in altra parte i moti.

Nè da' frutti d'amor chi schiva amore

Mena lungi la vita, anzi ne prende

Senza travaglio alcun tutti i contenti:

Con ciò sia che più certo e più sincero

Quinci tragge il piacer chi mai non pose

Il cauto piè su l'amorosa pania,

O tosto al men senza invescarvi l'ale

Ne 'l ritrasse e fuggío. Chè gli ostinati

Miseri amanti, i quai nel tempo stesso

De' godimenti lor van fluttuando

In un mar d'incertezze e stanno in forse

Di qual parte fruir gli occhi o le mani

Debbiano in prima, il desïato corpo

Premon sì stretto che dolore acerbo

Gli danno, e spesso nell'amate labbra

Lascian de' propri denti impressi i segni

E ne suggon i baci avidamente;

Perch'impuro è 'l diletto, e con occulti

Stimoli pungentissimi gl'incita

Ad oltraggiar, che ch'egli sia, quel desso

Che d'un tanto furor produce i germi.

Ma Venere ogni pena in fra gli amori

Mitiga dolcemente, e dolcemente

Frena i morsi e l'offese il piacer misto;

Poichè speran ch'un giorno anco attutarsi

Possa l'incendio lor dal corpo stesso

Onde il cieco desio surse e la vampa.

Il che nega all'incontro apertamente

Natura: anzichè questa è quella sola

Cosa, di cui quanto più l'uom possiede,

Tanto arde più di crudel brama il petto.

Poichè 'l cibo e l'umor dentro alle membra

Si piglia, e, perch'ei puote alcune parti

Certe occupar, quinci è mestier che resti

Del mangiare e del ber sazio il desio:

Ma del volto leggiadro e del soave

Color dell'uomo altro non gode il corpo

Fuor che le tenui imagini volanti,

Che porta il vento d'infelice speme.

E; qual dormendo un assetato infermo

Cerca di liquor freddo o fonte o rio

Che 'l grave incendio delle membra estingua.

Ma cerca indarno, e de' gelati umori

Fuor che le vane effigie altro non trova,

E di sete in bevendo arde nell'onde;

Tal con fallaci simolacri e spettri

Venere in fra gli amor beffa gli amanti,

Che mai di vagheggiar l'amato aspetto

Saziar non ponno i desïosi lumi

Nè detrar con le mani alcuna parte

Mentre per tutto il corpo errano incerti.

In somma; allor che vigorose e forti

Han già le membra e dell'etade il fiore

Godono, allor che presagisce il corpo

Gaudi non più sentiti e che la stessa

Venere attende a seminare i campi

Delle giovani donne; avidamente

Congiungon petto a petto e bocca a bocca,

E mordendosi il volto ansano indarno;

Poichè quindi limar nulla non ponno

Nè penetrar con tutto il corpo il corpo;

Come par che tal volta abbian talento;

Sì desïosamente avviticchiati

Stan con lacci venerei in fin che lassi

Per soverchio piacer solvonsi i membri.

Al fin, poichè l'ardor ne' nervi accolto

Fuor se n'uscío, la vïolenta brama

Ha qualche pausa: indi la rabbia stessa

Riede e 'l furor; mentre toccar di nuovo

Cercan l'amato corpo, e mai non ponno

Arte alcuna trovar che gli risani

Dal mal che gli ange e gli tormenta il core.

Tal per cieca ferita incerti errando

Tabidi fansi a poco a poco e mancano.

Aggiungi che 'l vigor scema e la forza,

Che l'angoscie e i travagli ogn'or n'affliggono,

Che sotto il cenno altrui l'età si logora,

La roba intanto si disperde e fonde,

Dansi le sicurtà, langue ogni uffizio,

E la gloria e la fama egra vacilla.

Splende d'unguenti 'l crin, ridono in piede

Sicionii coturni, ornan le dita

Grossi smeraldi in fino oro legati;

E di serico manto adorno il corpo

Giornalmente rifulge; e le ricchezze

Da' paterni sudor ben acquistate

Divengon fasce, ghirlandette e mitre,

E tal volta in lascivi abiti molli

Cangiansi e in vesti melitensi e cee;

E quel che al vestir nobile ed al vitto

Servir dovrebbe è dissipato in giuochi

In musiche in conviti in giostre in danze

In profumi in corone in rose in fiori.

Ma tutto in van; poichè di mezzo al fonte

Dolce d'amore un non so che d'amaro

Sorge, che sin tra' fiori ange gli amanti;

O perchè dagli stimoli trafitto

Della propria coscienza in sè ritorna

L'animo, e di menar forse gli duole

La vita all'ozio ed alle piume in preda

E tra sozzi bordelli indegnamente

Perire in sen d'una bagascia infame;

O perchè l'avrà detto una parola

D'ambiguo senso, che nel core infusa

Qual foco sotto cenere s'avviva;

O perchè troppo ha cupidi e vaganti

Gli occhi, e troppo gli volge al suo rivale,

E con lui troppo parla e troppo ride.

E di mali sì gravi amore abbonda,

Allor che favorevole e propizio

Si mostra altrui quanto mostrar si puote:

Ma, quand'egli all'incontro incrudelisce

Verso i mendici suoi miseri servi,

N'ha tanti e tanti che co' gli occhi stessi

Puoi vederne infiniti. Onde assai meglio

Ti fia lo star ben vigilante e desto,

Com'io già t'insegnai, pria che la dolce

Esca t'alletti in cui nascosto è l'amo:

Posciachè lo schivar d'esser indótto

A cader nella rete è molto meno

Malagevole a far, che preso uscirne

E romper di Cupido i forti nodi.

E pur avvinto et irretito ancora

Sciôr ti potrai, se tu medesmo a te

Non sei d'impedimento e non dissimuli

Tutti i vizi dell'animo e del corpo

Di colei che tu ami e che desideri:

Poichè 'l più delle volte i folli amanti

Ciò fanno, e spesso attribuiscon loro

False prerogative. E quindi accade

Che molte, ancor che brutte, in varie guise

Piacciono e s'hanno in somm'onore e in pregio.

Ulivastra è la mora: inculta ad arte

La sciatta e sporca: Pallade somiglia

Chi gli occhi ha tinti di color celeste:

Forte e gagliarda è la nervosa e dura;

Piccoletta, la nana, e delle Grazie

O sorella o compagna e tutta sale:

Quella ch'immane è di statura, altrui

Terrore insieme e meraviglia apporta,

Piena d'onor di maestà nel volto.

È balba e quasi favellar non puote?

Fra sè stessa borbotta. È muta affatto?

Un ingenuo pudor fa che non parli.

È ritrosa odïosa e linguacciuta?

Divien lampada ardente. È tisicuzza

E co' denti tien l'anima? vien detta

Gracile e gentilina. È morta omai

Di tossa? cagionevole s'appella.

È paffuta, popputa e naticuta?

Sembra Cerere stessa amica a Bacco.

Sime ha le nari? è Satira o Silena.

Grosse ha le labbra sue? bocca è da baci.

Ma lungo fia s'io ti racconto il resto.

Ma pur; sia quanto vuoi bella di faccia,

Paia a Venere stessa in ogni membro

Di leggiadria di venustà simile;

Ben dell'altre ne son, ben senza questa

Vivemmo innanzi; ben si sa che tutte

Fa le cose medesime che fanno

Quelle che son deformi, e che sovente

Di biacca intride e di cinabro il volto,

Folle, e con tetri odor se stessa ammorba,

Sì che fin dalle serve avuta a schivo

È fuggita, odïata e mostra a dito.

Ma di serti e di fior l'escluso amante

Spesso piangendo orna la fredda soglia,

E di soavi unguenti unge l'impòste

Misero, e baci al superb'uscio affigge.

Che poi se dentro al limitare il piede

Ferma, un'aura leggier che lo percuota

L'offende sì, che di ritrarlo omai

Cerca oneste cagioni: un punto solo

Rasciuga il pianto di molt'anni e freno

Pone ai lamenti: anzi sè stesso accusa

Di solenne pazzia, chiaro veggendo

D'aver più ad una femmina concesso

Che a mortal cosa attribuir non lice.

Nè ciò punto è nascosto alle moderne

Veneri nostre, onde ogni industria ogni arte

Usan per occultar ciò che in segreto

Fanno, allor che tener gran tempo avvinti

Fra i legami d'amor braman gli amanti.

Ma tutto in van; chè, se mirar non puossi

Con gli occhi della testa, al men con quelli

Dell'animo si mira e si contempla.

E, se bella è di mente e se ti porta

Vicendevol amor, non vieteratti

Punto il dar venia alle miserie umane.

Nè per infinto amor sempre sospira

La donna, allor che nelle braccia accoglie

Dell'uomo il corpo e lo si stringe al seno

E mirandolo fiso avidi baci

Liba or dagli occhi e dalle labbra or sugge:

Con ciò sia che di cuore il fa sovente

Cercando il comun gaudio, e s'affatica

Di giunger tosto all'amorosa meta.

Nè per altra cagione ai maschi loro

Sottopor si potrian gli uccelli e i greggi

E gli armenti e le fiere e le cavalle,

Se non perch'ardon di lussuria e tutte

Di focoso desio pregne e di seme

Van liete incontro al genital diletto

De' lascivi mariti, et a vicenda

Il maneggiano anch'esse. Or tu non vedi

Forse come color, che spesso avvinti

Furon da vicendevole piacere,

Nella stessa prigione e fra gli stessi

Lacci sian tormentati? Anzi sovente

Per le pubbliche vie sogliono i cani

Tentar di separarsi ed ogni sforzo

Metter in ciò, mentre legati intanto

Stan con nodi venerei: il che per certo

Far non potrian, se di scambievol gusto

Non gioissero in prima ond'ingannati

Fossero e strettamente insieme aggiunti.

Dunque, voglia o non voglia, il gaudio loro

È comun senza dubbio e vicendevole.

E, se per avventura il viril seme

Fia nel carnal congiungimento attratto

E con subita forza a sè rapito

Dal seme femminil, nascono i figli

Simili allor dal patrio seme al padre,

Dal materno alla madre: e, se tal volta

Vedesi alcun che d'ambidue l'effigie

Egualmente ritenga e in un confonda

De' genitori i volti, ei del paterno

Corpo è cresciuto e del materno sangue,

Mentre, eccitati per le membra i semi

Da scambievole ardor, furo in tal guisa

Sbattuti insieme e rimenati e misti,

Che nè questo nè quel vinto o vincente

Dir si poteo nell'amoroso incontro.

Posson anco alle volte agli avi loro

Nascer simili i figli e de' proavi

Rinovar le sembianze: e ciò succede

Perchè spesso mischiati in molti modi

Celano i genitor molti principii

Nel proprio corpo, che di mano in mano

Dalla stirpe discesi i padri a' padri

Danno: e quindi è che Venere produce

Con diversa fortuna aspetti vari,

E de' nostri antenati i volti imita

I moti, i gesti, le parole e 'l pelo:

Poscia che nulla meno è certo il seme

Onde nascon in noi sì fatte cose

Di quello onde si crean le facce, i corpi

E l'altre umane membra: ed è prodotto

Dal patrio sangue delle donne il sesso,

E l'uom formato è del materno corpo.

Poichè d'entrambi i semi in un commisti

Costa ogni parto; e, qual de' genitori

È più simile al figlio, ei nel suo corpo

Ha maggior parte, o sia femmina o maschio.

Nè pôn gli dèi la genital semenza

Disturbare ad alcun, sì ch'ei non vegga

Scherzar vezzosamente a sè d'intorno

I figli e 'l dolce nome oda di padre

E fra sterili amplessi ed infecondi

L'età consumi. Al che fede prestando

Molti, di molto sangue afflitti e mesti

Cospergon l'are, e prezïosi incensi

V'ardon, e d'oro e d'ostro ornan gli altari;

Acciò gravide poi di largo seme

Rendan le mogli. Ma de' numi indarno

Affatican l'orecchie, e dell'occulto

Fato i vani decreti indarno stancano.

Con ciò sia ch'infeconde il troppo crasso

Seme le rende o 'l troppo tenue e liquido;

Questo, perchè non puote a' genitali

Vasi attaccarsi, onde vibrato a pena

Si dissolve in più parti e fuor se n'esce;

Quello, o perchè lanciandosi non vola

Tanto lungi che basti, o perch'i luoghi

Debiti non penètra, o, penetrati

Ch'e' gli ha, non così bene in un si mesce

Col seme femminil. Chè molto varie

Son l'armonie di Venere: e da questi

Più che da quei di molte donne il seno

Divien grave e fecondo: e molte fûro

Sterili innanzi a più mariti, e poscia

Non per tanto trovâr chi di bramato

Parto arricchille e di soavi figli:

E chi pria varie mogli ebbe infeconde

Spesso un'altra ne prese onde poteo

Munir di figli la vecchiezza inferma.

Tanto, acciò che si mesca il seme al seme

Generativamente e che s'adatti

Il tenue al crasso e 'l crasso al tenue, importa

A qual uom sia la femmina congiunta

Nel diletto venereo; e molto ancora

Monta di che bevanda e di che cibo

L'un e l'altro si nutra e si conservi,

Poichè per altre cose entro alle membra

Si coagula il seme ed all'incontro

Per altre anco s'estenua e divien marcio.

E non poco, oltr'a ciò, l'arte rileva,

Onde il blando piacer che ne dà vita

Preso è da noi: che delle fere in guisa

E degli altri quadrupedi animali

Stimar si dee che molto più sien atte

Le donne a concepir; poich'in tal modo,

Stando i lombi elevati e 'l petto chino,

Ponno i debiti vasi il viril seme

Ricever molto meglio. E non ha d'uopo

Di movimenti effemminati e molli:

Anzi a sè stessa il concepir contrasta

La donna, allor che del consorte a gara

Il diletto carnal lieta accompagna

Col moto delle nàtiche, e bramosa

E di mora e di requie impazïente

Con tutto il petto disossato ondeggia;

Poichè 'l vomere allor dal cammin dritto

Del solco genital caccia, e rimuove

Da' luoghi a lui proporzionati il seme.

E per questa cagion le meretrici

Costuman d'agitarsi, acciò ch'insieme

Schifin lo spesso ingravidare e dieno

Maggior gusto a' lor drudi: il che non sembra

Che d'uopo sia per le consorti nostre.

Nè creder mai che per divin volere

O per le frecce di Cupido amata

Sia tal volta una femmina deforme:

Con ciò sia che tal or la donna stessa

Con l'azioni piacevoli e co' modi

Avvenenti e leggiadri e con lo schietto

Culto del proprio corpo opra che l'uomo

S'avvezzi agevolmente a viver seco.

Nel resto il conversar genera amore;

Chè, sia pur quanto vuol lieve ogni colpo,

Ciò che spesso è percosso in lungo spazio

Pur cede e cade: or tu non vedi adunque

Che fin dell'acque le minute stille

Con l'assiduo grondar fórano i sassi?

LIBRO QUINTO

 

Argomento.

 

Dopo le lodi di Epicuro, che Lucrezio non solo tiene per un Dio, ma pone ai disopra delle divinità, le cui scoperte utili al genere umano hanno meritato loro l'apoteosi, egli espone, il subbietto di questo canto, ch'egli spende nello spiegare la formazione del nostro mondo per via del concorso fortuito degli atomi. Ma prima d'entrare in materia, gli è forza porre in sodo contro certi filosofi, a capo de' quali è Aristotile, che il mondo ha avuto un principio, e che avrà una fine. A provare questa verità, comincia dal combattere tre opinioni contrarie alla sua dottrina; la prima che i corpi celesti e la stessa terra sono altrettante divinità; la seconda che il nostro mondo essendo il soggiorno degli Dei, dev'essere indistruttibile; la terza che questo stesso mondo dee sussistere eternamente, perchè è l'opera della medesima divinità. Dopo avere così cercato di abbattere i sistemi de' suoi avversari, si sforza di mettere in sodo il proprio; e di provare che il nostro mondo ha avuto un principio ed avrà una fine: 1. perchè la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria, che comunemente si chiamano elementi, sono sottoposti ad alterazioni e vicissitudini continue; 2. perchè i corpi stessi che ci paiono i più solidi, s'esauriscono a lungo andare, e cadono in rovina; 3. perchè v'ha un gran numero di cause, così interne come esterne, che lavorano del continuo alla distruzione del mondo; 4. perchè l'origine delle arti e delle scienze non data da tempo troppo remoto; 5. finalmente, perchè la discordia che regna tra gli elementi nemici, come il fuoco e l'acqua, non può aver termine che con la rovina totale del mondo; gl'incendj, le inondazioni, i diluvj, i terremoti, sono, a dir così, malattie del globo che ci avvertono che è mortale.

Posti così questi preliminari, il poeta entra in materia, e spiega la formazione del mondo per mezzo del concorso fortuito degli atomi. In origine i principj di tutti i corpi erano confusi in una sola massa. Il caos si compose ad ordine insensibilmente: le molecole eterogenee si svolsero le une dalle altre; le molecole omogenee si accostarono, si riunirono, s'alzarono o si abbassarono secondo le loro diverse gravità. La terra si collocò nel centro del nostro sistema; l'aria al disopra della terra, e la materia eterea, co' suoi fuochi, spiegò la sua vasta cinta intorno al mondo; la formazione del mare, delle montagne e de' fiumi, tenne presto dietro a questo primo sviluppo. Gli astri cominciarono a muoversi, e Lucrezio assegna parecchie cause a' loro moti, secondo il metodo di Epicuro, suo maestro, che non adotta e non rigetta nessun sistema, ma dà più arditamente sentenza sopra la causa che tien la terra sospesa in mezzo all'aere, e sulla grandezza reale del sole, della luna e delle stelle, ch'egli pretende sia eguale alla loro grandezza apparente, quantunque questa piccolezza non impedisca, a suo detto, che il sole illumini e scaldi il mondo. Torna dipoi al suo andamento scettico, ed espone storicamente tutte le opinioni degli antichi filosofi sulle rivoluzioni annua e diurna del sole sull'aumento e decremento successivo e periodico dei giorni e delle notti, sulle differenti fasi della luna, e sugli eclissi solari e lunari.

Dopo queste particolarità astronomiche, Lucrezio torna alla terra, di cui segue le diverse produzioni dal primo istante della sua origine; essa fece crescere prima le piante, i fiori e gli alberi; dipoi procreò gli animali e gli uomini stessi, mediante le particole di fuoco e d'umido che riteneva ancora dal suo antico mescolamento con gli altri elementi. In questi primi tempi furono animali mostruosi che perirono, non potendo sussistere nè propagarsi, colpa del vizio della loro conformazione; razze intere si spensero così, perchè non avevano le qualità necessarie per vivere indipendenti, nè per meritare la nostra protezione. Ma la terra non ha mai prodotto centauri, nè simili animali, composti di due nature incompatibili; dopo aver procreato le prime generazioni di ogni specie, e aver forniti gli animali di organi atti alla propagazione, la terra, esausta, si riposò, e abbandonò agl'individui la cura di riprodursi da sè e di seguire il primo impulso ch'era stato lor dato.

Tuttavia gli uomini, figli della terra, abitatori delle foreste, si nudrivano di ghiande e d'altri frutti selvatichi, si dissetavano ai fonti e ai fiumi, facevan la guerra alle bestie feroci, e sebbene spesso fosser pasto di esse, non morivano in maggior numero che al dì d'oggi. Presto s'introdussero i matrimonj: si formarono delle piccole società particolari, la cui unione fu resa ancor più stretta dalla nascita del linguaggio, che secondo Lucrezio, è creato dalla natura e dal bisogno, e non dal capriccio d'un legislatore, che di proprio moto abbia distribuito i nomi agli obbietti. Ma la scoperta del fuoco, il quale fu o portato sulla terra dal fulmine, o acceso nelle foreste per lo stropicciamento degli alberi agitati dai venti, finì di dissipare la barbarie. Soddisfatti i bisogni naturali, s'introdussero i fittizj; vi furono ambiziosi che si fecero re e spartirono i campi. Ma gli uomini, che si rammentavano esser tutti fratelli, tutti figli della stessa madre, uccisero i loro tiranni, e vissero gran tempo nell'anarchia, della quale sentirono finalmente gli svantaggi; si crearono dunque allora de' magistrati, si fecero delle leggi alle quali fu convenuto di sottoporsi. Presto la religione venne anch'essa a puntellare l'autorità; l'idea degli Dei, nasce, secondo Lucrezio, da simulacri illusorj, che apparivano la notte, e a cui la paura diede essere reale. Il rumore del tuono, gli effetti del fulmine, i terremoti, le inondazioni gelarono di spavento tutti i cuori; si rizzarono altari; gli uomini si prostrarono a terra; s'instituirono quelle cerimonie religiose che sussistono ancora al dì d'oggi e che sussisteranno sempre.

Tuttavia le arti si arricchivano tutti i giorni per nuove scoperte. Grandi incendj, eccitati nelle foreste, diedero occasione alla fusione dei metalli, che l'uomo trovò nel grembo della terra, e de' quali si fece instrumenti ed armi; le guerre diventarono allora più sanguinose, e per sopraggiunta d'orrore si fecero combattere negli eserciti gli animali più feroci. L'uomo si perfezionava così nelle arti utili, come nelle arti di distruzione. I drappi sottentrarono alle spoglie delle bestie: l'agricoltura divenne scienza; finalmente la musica, l'astronomia, la navigazione, l'architettura, la giurisprudenza, la poesia, la pittura, la scultura, furono i frutti d'un lavoro ostinato suggerito dal bisogno e diretto dall'esperienza.

 

Chi mi darà la voce e le parole

Convenïenti a sì nobil soggetto?

Chi l'ali al verso impennerammi in guisa

Ch'ei giunga al merto di colui che tali

Premi acquistati col suo raro ingegno

Pria ne lasciò sol per bearne a pieno?

Nessun, cred'io, che di caduco e frale

Corpo formato sia. Poichè, se pure

Dir debb'io ciò ch'io sento e che del vero

La veneranda maestà richiede,

Fu dio, dio fu per certo, inclito Memmo,

Quel che primo insegnò del viver nostro

La regola infallibile e la dritta

Norma che sapïenza or chiama il mondo,

E che fuor di sì torbide procelle

E di notte sì cieca in sì tranquillo

Stato l'umana vita ed in sì chiara

Luce ripose. E che ciò sia, confronta

Con le sue le divine invenzïoni

Ch'a pro dell'uman germe anticamente

Fûr dagli altri trovate. E senza dubbio

Chiaro vedrai che, se dall'alma Cerere,

Come fama ragiona, il gran le biade

Date ne fûro, e se dall'uve espresse

Bacco il dolce liquore, obbligo in vero

Tener gli se ne dee; ma pur la vita

Senza pan senza vin nel modo stesso

Conservar si potea che molti popoli

Fan, se 'l grido è verace, anco al presente:

Ma già non si potea lieti e felici

Viver mai senz'un cor candido e schietto;

Onde tanto più merta esser chiamato

Dio chi pria della vita i non fallaci

Piacer trovò, che per lo mondo sparsi

Soavemente ancor gli animi allettano.

E, se d'Ercole i fatti esser più illustri

Tu credessi de' suoi, molto più lungi

Dal vero ancor trascorreresti, o Memmo.

Poichè qual nocumento or ne potrebbe

Apportar quell'orribile cignale

Già per le piaghe altrui dell'Erimanto

Sì noto abitator? quale il nemeo

Spaventoso leon? quale il cretense

Tauro o l'idra di Lerna, orrida peste

Di cento serpi velenose armata?

O qual già mai la triplicata forza

Del tergemino mostro? o quale, in somma,

Di Diomede i destrier che per le nari

Spiravan fuoco alle bistonie terre

Ed all'Ismaro intorno? o per l'adunche

Lor ungna i già tremendi arcadi augelli

Di Stinfalo abitanti? o 'l sempre desto

Angue, di forza e di statura immane,

Il qual con ceffo irato e bieco sguardo

Negli orti dell'esperidi donzelle

Fu custode de' pomi aurei lucenti

Al tronco stesso avviticchiato intorno?

Ed a chi nocerebbe il mar vicino

All'Atlantico lido od il severo

Pelago immenso, ove de' nostri alcuno

Non giunse e tanto il barbaro d'ardire

Non ha che girvi osasse? ogni altro mostro

Simile ai già narrati, a morte spinto

Dal forte invitto e glorïoso Alcide,

Ben che morto non fosse, e di che danno

Vivo al fin ne saria? Di nullo al certo,

Se dritto è 'l mio giudizio: in così fatta

Guisa di belve ancor pregna è la terra,

E di gelido orror colma e di téma

Per le selve profonde e pe' gran monti:

Luoghi che lo schivargli è in poter nostro.

Ma, se l'alma non è purgata e monda

Dalle fallaci opinïon del volgo,

Venti contrari alla tranquilla vita,

Quai guerre allor, mal nostro grado, e quanti

Ne s'apprestan perigli? e quai pungenti

Cure stracciano il petto a chi non frena

Gli sfrenati appetiti? e chenti e quali

Ne tormentano il cor vane paure

Che sorgon quindi? e quali stragi e quante

Generan la superbia e l'arroganza,

L'ira, la fraude, la sozzura, il lusso,

La gola, il sonno e l'ozïose piume?

Dunque, colui che debellò primiero

Tali e tante sciagure, e via cacciolle

Lungi da' nostri petti e non con l'armi

Ma pur col senno, un sì grand'uomo adunque

Convenevol non fia che fra' celesti

Numi s'ascriva, e che per dio s'adori?

Massime, avendo de' medesmi dèi

Scritto divinamente e delle cose

Tutta svelata a noi l'interna essenza?

Di cui mentr'io le sacre orme calcando

Seguo lo stile incominciato, e mostro

Nelle parole mie con quai legami

D'amicizia e d'amor tutte le cose

Create sian dalla natura e quanto

Star ne debbiano avvinte e come indarno

Procuran di schivar del tempo edace

I decreti immutabili ed eterni;

Qual dell'animo uman principalmente

Già si provò che di natia sostanza

Creata è la natura e che non puote

Eternamente conservarsi intatta,

Ma che spesso ingannar soglion gli spettri

Le menti di chi dorme allor che parne

Veder chi morte in cenere converse;

Nel resto il preso metodo mi tira

A dovert'insegnar, che di mortale

Corpo è il mondo e nativo, ed in quai modi

Il concorso degli atomi fondasse

La terra, il cielo, il mar, le stelle, il sole

E 'l globo della luna, e quai viventi

Nascan dal grembo dell'antica madre

E quali anco all'incontro in alcun tempo

Nascer già mai non ponno, e come gli uomini

Varïando favella incominciassero

L'un l'altro insieme a conversar per mezzo

De' nomi delle cose, e com'entrasse

Il timor degli dèi ne' petti nostri

Che sol qua giù quasi beate e sante

Custodisce le selve, i laghi, i templi,

Sacri a' numi immortali e l'are e gl'idoli.

Del sole, in oltre, e della luna il corso

Dirotti onde proceda e con qual forza

Natura i moti lor tempri e governi;

Acciò tu forse non pensassi, o Memmo,

Che tai cose per sè libere e sciolte

Vadano ogn'or per lo gran vano errando

Spontaneamente in fra la terra e 'l cielo

Per dar vita alle piante al grano all'erbe

Agli uomini alle fere, e non pensassi

Che nulla mai ne si raggiri intorno

Per opra degli dèi. Poichè; quantunque

Già sappia alcun ch'imperturbabil sempre

E tranquilla e sicura i santi numi

Menin l'etade in ciel; se non di meno

Meraviglia e stupor l'animo intanto

Gl'ingombra onde ciò sia che possan tutte

Generarsi le cose e spezialmente

Quelle che sopra 'l capo altri vagheggia

Ne' gran campi dell'etra; ei nell'antiche

Religïon cade di nuovo, e piglia

Per sè stesso a sè stesso aspri tiranni

Che 'l miser crede onnipotenti, ignaro

Di ciò che puote e che non puote al mondo

Prodursi e come finalmente il tutto

Ha poter limitato e termin certo.

Nel resto; acciò ch'io non ti tenga a bada

Pur fra tante promesse; or via contempla

Primieramente il mar la terra il cielo.

La loro essenza triplicata, i loro

Tre corpi, o Memmo, tre sì varie forme,

Tre sì fatte testure, un giorno solo

Dissolverà; nè, se mill'anni e mille

Si resse, eterna durerà, ma tutta

La gran macchina eccelsa al fin cadrà.

E so ben io quant'impensata e nuova

Cosa e stupenda è per parerti, o Memmo,

La futura del mondo alta ruina,

E quanto il ciò provar con argomenti

Sia difficile impresa; a punto come

Succede allor che inusitate e strane

Cose appòrti all'orecchie, che negato

T'è non per tanto il sottoporle al senso

Degli occhi e delle mani, onde munita

S'apre il varco la fede e può secure

Del cor guidarle e della mente al tèmpio.

Ma io la pur dirò: forse a' miei detti

Per sè medesmo intera fede il fatto

Sforzeratti a prestar: forse vedrai

L'ampia terra agitata orribilmente

Squassarsi in breve e dissiparsi il tutto.

Il che lungi da noi volga fortuna,

E più tosto il mio dir che 'l fatto stesso

N'induca a confessar che debbe al fine

Dagli urti dell'età percosso e vinto

Con orrendo fragor cadere il mondo.

Del che pria ch'io gli oracoli futuri

Prenda a svelar, molto più santi e certi

Di quei ch'è fama che dal sacro lauro

Di Febo e dalle pitie ampie cortine

Uscisser già; se nol ricusi, io voglio

Porgerti in brevi sì, ma però saggi

Detti un lungo conforto: acciò che forse

Dalla religïon tenuto a freno

A creder non ti dia che 'l cielo, il mare,

La luna, il sole, il terren globo e tutte

L'auree stelle vaganti e gli astri immobili

Abbian corpo immortal santo e divino,

E che giusto però sia che coloro

Che del mondo atterrar le mura eccelse

Con gli argomenti lor bramano, e tanto

Osan che sin d'Apollo i rai lucenti

Smorzar vorriano ed oscurar notando

Con mortal lingua gl'immortali e divi,

Qual nuovi al ciel nemici empi giganti,

Del temerario ardir paghino il fio.

Ma vadan pur sì fatte cose in bando

Dalla divina maestà sì lungi,

E si stimin sì vili e tanto indegne

D'esser ascritte in fra gli eterni dei,

Che più tosto dagli uomini credute

Sian di moto vital prive e di senso.

Posciachè irragionevole per certo

Par che sia l'affermar, che della mente

La natura e 'l consiglio unir si possa

A qualunque materia; in quella stessa

Guisa che per lo ciel nascer le piante

Non ponno, e dentro il mar sorger le nubi,

Nè spirto e vita aver ne' campi i pesci,

Nè da legno spicciar tiepido sangue,

Nè mai succo spillar da pietra alpina.

Certo ed acconcio è per natura il luogo,

Ove crescan le cose, ov'abbian vita.

Così dunque per sè l'alma e la mente

Senza corpo già mai nascer non puote

Nè dal sangue vagar lungi e da' nervi.

Poichè, se ciò potesse, ella potrebbe

Molto più facilmente o nella testa

Vivere o nelle spalle o ne' calcagni,

E nascer anco in qualsivoglia parte

Del corpo, e finalmente abitar sempre

Nell'uomo stesso e nello stesso albergo.

Onde; poi che prefisso i corpi nostri

Han da natura ed ordinato il luogo

Ove distintamente e nasca e cresca

La natura dell'animo e dell'anima;

Tanto men ragionevole stimarsi

Dee, che la possa separata affatto

Dal corpo e dalla forma d'animale

Nascer già mai, nè mantenersi in vita

O del sol nelle fiamme o della terra

Nelle putride zolle o ne' sublimi

Campi dell'etra o nel profondo abisso

Del mar. Dunque, se d'anima e di vita

Son prive affatto queste cose, or come

Goder pônno immortal senso e divino?

Nè men creder si dee che in alcun luogo

Del mondo aver possan gli dèi le sante

Lor sedi. Con ciò sia che la sottile

Forma de' numi eterni è sì remota

Da tutti i nostri sensi che la sola

Mente v'aggiunge col pensiero a pena;

E, perch'ella ogni tatto ogni percossa

Schiva dell'altrui man, toccar non deve

Nulla ch'al tatto altrui sia sottoposto;

Che chi tócco non è toccar non puote.

Sì che d'uopo fia pur ch'assai difformi

Sian dalle nostre degli dèi le sedi

E tenui e a' corpi lor simili in tutto,

Sì come altrove io proverotti a lungo.

Il dir poscia che dio per util nostro

Volesse il mondo fabbricare, e quindi

Com'opra commendabile e divina

Da noi doversi commendare e crederlo

Eterno ed immortal, nè convenirsi

Il tentar con parole in alcun modo

Dal suo seggio sturbarlo e fin dall'imo

Scuoterlo e volger sottosopra il tutto;

Il finger, dico, queste cose ed altre

Molte a lor simiglianti è, s'io non erro,

Un'espressa pazzia. Poichè qual utile

Può mai la nostra grazia agl'immortali

E beati apportar, ch'a muover gli abbia

Ad oprar cosa alcuna a pro degli uomini?

E qual mai novità tanto allettarli

Poteo, che dopo una sì lunga quiete

Da lor goduta per l'innanzi il primo

Stato bramasser di cangiare in meglio?

Con ciò sia che piacer le cose nuove

Debban solo a color che dall'antiche

Han qualche danno. Ma chi visse innanzi

Sempre lieto e contento e mai soggetto

A travagli non fu, come? e da cui?

Quando? e perchè d'una tal brama acceso

Esser poteo? Forse, mi credo, allora

In tenebre la vita ed in tristezza

Si giacque, in fin che delle cose il primo

Origine rifulse. E qual avrebbe

Dato all'uom nocumento il mai non essere

Uscito a respirar l'aure vitali?

Posciachè ben conviensi a ognun che nasce

Il procurar di conservarsi in vita,

Fin che gioie e diletti inebrian l'alma:

Ma chi mai non gustò del viver nostro

L'amor, nè fu del numero, qual danno

Dal non esser creato unqua aver puote?

In oltre: onde impiantate ai numi eterni

Fûr le idee, fûr gli esempli, ond'essi in prima

Tolser ciò che d'oprare ebber talento?

E come unqua saper de' primi corpi

Potetter l'energia? come vedere

Quant'essi in varïando ordine e sito

Fosser atti a produr, se dalla stessa

Natura col crear non li fu dato

Vero indizio di ciò? Poichè in tal guisa

Fûr delle cose molti semi in molti

Modi percossi eternamente e spinti,

E da' propri lor pesi ebbero in sorte

D'esser cacciati e trasportati in varie

Parti dell'universo e d'accozzarsi

Fra loro in varie guise e di tentare

Tutto ciò che crear poteano, in modo

Che per cosa mirabile additarsi

Non dee, s'in tai dispositure al fine

Caddero e in tali vie, quali or bastanti

Sono a produr rinnovellando il tutto.

Chè se pur delle cose ignoti affatto

Mi fossero i principii, io non per tanto

Ardirei d'affermar sicuramente

Per molte e molte cause e per le stesse

Proporzioni del ciel, che l'universo

Che tanto è difettoso esser non puote

Per opra degli dèi fatto dal nulla.

E pria: quanto del ciel copre e circonda

La volubile forza; indi in gran parte

È da monti occupato e da boscaglie,

Nidi di fere e d'animai selvaggi,

E da rupi scoscese e da paludi

Vaste ingombrato e da profondi abissi

Di mar che largamente apre e disgiunge

I confin della terra; indi l'ardente

Zona e le fredde a miseri mortali

Tolte han quasi due parti. Or quel che resta

Di spine e bronchi e triboli coperto

Già fôra, se dell'uom non l'impedisse

L'industria a gemer per la vita avvezza

Con gagliardo bidente e con adunco

Aratro a fender della terra il dorso.

Chè, se volgendo le feconde zolle

Col vomere sossopra e 'l suolo arando,

Fertil non si rendesse, il gran le biade

Mai per sè non potrian nell'aure molli

Sorger: e nondimen, cerche sovente

Con travaglio e fatica allor che tutte

Già di fronde e di fiori ornano i campi,

O da' rai troppo caldi arse del sole

Sono o da pioggia repentina oppresse

O da gelida brina intempestiva

Ancise o dal soffiar d'austro e di coro

Con urto impetüoso a terra sparse.

In oltre: ed a qual fin nutre e feconda

Natura delle belve in mare in terra

Il germe orrendo all'uman germe infesto?

E perchè le stagion varie dell'anno

N'adducon tanti morbi? e perchè vaga

Immatura la morte? Arrogi a questo,

Che 'l misero fanciul, quasi dall'onde

Vomitato nocchier, nudo ed infante

Giace sul terren duro, e d'ogni aiuto

Vitale ha d'uopo, allor ch'a' rai del giorno

Fuor dell'alvo materno esponlo in prima

Con acerbo dolor natura, e 'l tutto

Di lugubri vagiti empie e di pianto;

Qual a punto conviensi a chi nel breve

Corso di nostra vita esser dee segno

Ad ogni stral delle sventure umane.

Ma crescono all'incontro armenti e greggi

E fiere d'ogni sorte, e non han d'uopo

Di cembali, di tresche o di nutrice

Che con dolce e piacevole loquela

Senza punto stancarsi in vari modi

Gli vezzeggi, gli alletti e gli lusinghi,

Nè, secondo che vario è 'l tempo e il cielo,

Cercan vesti diverse, e finalmente

Non han d'armi mestier, non d'alte mura

Con le quai sè medesmi e le lor cose

Guardin; mentre per sè porge feconda

Largamente la terra e delle cose

La dedalea natura il tutto a tutti.

Pria: perchè il terren duro e l'acque molli,

Dell'aure il lieve spirto e 'l vapor caldo,

Dalla cui mistïon sembra che 'l tutto

Si formi, ad un ad un nativo il corpo

Hanno e mortal; creder si dee che 'l mondo

Sia tutto anch'ei della natura stessa.

Poichè qualunque cosa ad una ad una

Le sue parti ha native ed è di forme

Caduche, esser da noi sempre si vede

Natia non pur, ma sottoposta a morte.

Onde, veggendo noi le principali

Membra del mondo riprodursi estinte,

Quindi lice imparar che in somigliante

Guisa il cielo e la terra ebbero il primo

Giorno e ch'a tempo suo l'estremo avranno.

Nè qui vorrei che tu credessi, o Memmo,

Ch'io fin or corruttibile supposta

Abbia fuor di ragion la terra e 'l foco

E l'aure aeree e il mar profondo e detto

Che questi stessi corpi anco di nuovo

Si rigeneran tutti e si fan grandi.

Pria; perchè parte della terra adusta

Dal sol continuo e stritolata e infranta

Dalla forza de' piè, sfuma di polve

Nebbie e nubi volanti, che per tutto

L'aere da' venti son disperse e sparse;

Parte ancor delle glebe a forza è data

Dalle piogge alla piena e rase e róse

Son da' fiumi le rive anch'esse in parte.

In oltre; sminuito è dal suo canto

Ciò ch'altri nutre: e perchè dubbio alcuno

Non v'ha che sia madre del tutto ed urna

Anco e sepolcro universal del tutto,

Rasa è dunque la terra e si rintégra.

Nel resto; ch'i torrenti i fiumi il mare

Abbondin sempre d'umor nuovo, e sempre

Stillin chiaro liquor le vive fonti,

Mestier non ha d'alcuna prova: a pieno

Certamente il dimostra il lungo corso

Dell'acque; E pria ciò che dall'acque in alto

Ergesi, e brevemente opra che nulla

Cresca il liquido umor più che non deve:

Parte, perchè da' venti, allor ch'irati

Volgon sossopra il mar, per l'aure è sparso

E dal sol dissipato: e parte ancora,

Perch'egli a tutti i sotterranei chiostri

Vien largamente compartito, e quivi

Lascia il salso veleno, e di nuov'anco

Sorge in più luoghi, e tutto al fin s'aduna

De' fiumi al capo e in bella schiera e dolce

Scorre sopra 'l terren per quella stessa

Via che per sè medesma aprirsi in prima

Poteo col molle piè l'onda stillante.

Or dell'aria dich'io, che 'n tutto il corpo

Innumerabilmente ogn'or si muta.

Poichè ciò che dal mare e dalle cose

Terrestri esala, entro il profondo e vasto

Pelago aereo se ne vola e tutto

Si cangia in aria: or, se da questa i corpi

Non fossero all'incontro alle spiranti

Cose restituiti, il tutto omai

Saria disfatto e trasmutato in aria:

Dunque l'aere già mai di generarsi

Non cessa d'altre cose e in altre cose

Giornalmente corrompersi; che tutte

Mancar già noto e manifesto è a tutti.

Ma de' liquidi raggi il largo fonte

Di recente candor mai sempre irriga

Le stelle e l'etra e gli elementi, e ratto

Ministra al ciel con nuovo lume il lume.

Poichè ciò che di lume, ovunque il vibri,

Ei perda, indi imparar perfettamente

Si può da noi, che non sì tosto al sole

Veggiam le nubi sott'entrare e tutti

Quasi interromper di sua luce i rai,

Che repente di lor svanisce affatto

L'infima parte, e 'l terren globo adombrasi

Ovunque i foschi nembi il volo indrizzino:

Onde conoscer puoi che sempre il tutto

D'uopo ha di splendor nuovo, e che perisce

Ciò che pria di fulgor si sparse intorno,

E che per altra via vedersi i corpi

Non potrebbero al sol, s'egli il principio

D'un perpetuo fulgor non ministrasse.

Anzi i lumi terrestri al buio accesi,

Le pendenti lucerne e le corrusche

Di fumante splendor pingui facelle,

Anch'esse ardendo in cotal guisa avacciansi

Di sparger nuova luce, ed istan sempre

Di scintillar con tremole fiammelle;

Instano, e luogo alcun quasi interrotto

Non lascia il lume lor: con sì gran fretta

De' suoi lucidi rai l'alta ruina

Col veloce natal sostiene il foco.

Il sol dunque, così, la luna e tutte

L'auree immobili stelle e le vaganti

Creder dèi che per altro ogn'ora ed altro

Successivo natal vibrino intorno

Il lume e perdan la primiera forma:

D'uopo è pur dunque il confessar che queste

Cose, com'altri pensa, esser non ponno

Di corpo irresolubile ed eterno.

In somma: dall'etade il bronzo il marmo

Vinto al fin non si mira? e l'alte rôcche

Non rovinano a terra? e il duro sasso

Non è róso e marcisce? e l'are e i templi

De' numi eterni e' simolacri e gl'idoli

Non vacillan già lassi, e d'ogn'intorno

Mostrano aperto il travagliato fianco?

Nè può la santa maestà del fato

Debellare i confin nè farsi incontra

Di natura alle leggi e vïolarle.

Al fin non veggiam noi d'ogni uomo illustre

Ceder l'alte memorie ed invecchiarsi

Per subito accidente? e le robuste

Selci da' monti alpestri anco alle volte

Staccarsi e rovinar, nè d'un finito

Tempo soffrir le smisurate forze?

Con ciò sia che staccarsi e 'n giù repente

Non potrebber cader, se dell'etade

Fin da tempo infinito ogni urto ogn'impeto

Prive d'ogni fragor sofferto avessero.

Al fin: mira oggi mai ciò che d'intorno

N'è sopra e 'l terren globo abbraccia e stringe,

E, com'altri han creduto, eternamente

Sol di sè pasce e in sè riceve il tutto:

Tutto è nativo e di mortal sostanza

Formato: con ciò sia che ciò che nutre

Di sè le cose e l'augumenta è d'uopo

Che scemi, e, quando poscia in sè ricevele,

È mestier che s'accresca e si restauri.

In oltre: se la terra e 'l ciel non ebbero

Alcun principio genitale e sempre

Perpetui fûro, e per qual causa innanzi

Alla guerra tebana e d'Ilio al rogo

Non cantaro altre cose altri poeti?

Ove di tanti uomini illustri e tanti

Cadder le gesta glorïose? e come

Non fioriscon anc'oggi in luogo alcuno

Di fama eterna alle memorie inserte?

Ma, sì come stim'io, nuova è la somma

Del tutto, e nuovo è 'l mondo, e molto innanzi

Non ebbe il nascimento: ond'alcune arti

Inventansi anche adesso, et anco adesso

Pulisconsi alcun'altre. Or molti arnesi

Fûro aggiunti alle navi, or messi in uso

I sonori concerti: e finalmente

Questa stessa cagione e questa stessa

Natura delle cose, ancor che molto

Sia che già fu trovata, omai del tutto

Quasi sepolta in sempiterno oblío,

Pur di fresco è risorta, vie più vaga

E più bella che mai, per le immortali

Opre del gran Gassendo, onore e lume

Del bel paese ove la Senna inonda.

Et io pur or principalmente, io stesso

Fui trovato fra tanti, ed ebbi in sorte

D'esporla altrui nella paterna lingua

Pria d'ogni altro toscan, come dettolla

Per entro ai dotti suoi carmi robusti

Pria d'ogni altro romano il gran Lucrezio.

Chè se forse tu credi esserc'innanzi

State più volte le medesme cose

Ch'al presente ci son, ma che l'umana

Specie da grave incendio arsa perisse,

E ruinasse ogni città squassata

Da crudel terremoto, o troppo gonfi

Per pioggia assidua dal natio lor letto

Uscissero i torrenti e d'ogn'intorno

Sommergesser la terra et affogassero

Ogni uomo ogni animal; tanto più vinto

T'è d'uopo il confessar che debbe al fine

La terra e 'l ciel pur dissiparsi in tutto:

Che, ove da tali e tanti morbi e tanti

E sì fatti perigli il mondo fosse

Tentato, ivi eziandio, se causa alcuna

Più robusta l'urtasse, alte ruine

Mostreria di sè stesso e strage orrenda.

Nè per altra cagion d'esser mortali

Pur ne sovvien, se non perchè soggetti

Siam tutti a' mali stessi onde natura

Già tolse ad un ad un gli altri di vita.

In oltre: tutto quel che dura eterno

Conviene; o che respinga ogni percossa

Per esser d'infrangibile sostanza,

Nè soffra mai che lo penetri alcuna

Cosa che disunir possa l'interne

Sue parti, qual della materia a punto

Gli atomi son, la cui natura innanzi

Già per noi s'è dimostra; o ch'immortale

Viva, perchè dagli urti affatto esente

Sia, come il vôto il qual durando intatto

Mai non soggiace alle percosse un pelo;

O perch'intorno a lui nessuno spazio

Non sia dove partirsi e dissiparsi

Possa, come la somma delle somme

Fuor di sè non ha luogo ove rifugga

Nè corpo che l'intoppi e con profonda

Piaga l'ancida e però vive eterna.

Ma nè, come insegnammo, esser contesto

Il mondo può d'impenetrabil corpo,

Chè misto è sempre in fra le cose il vôto;

Nè però com'il vôto intatto vive,

Poichè corpi non mancano che sorti

Dall'infinito ed agitati a caso

Possan cozzar con vïolento turbine

Questa somma di cose ed atterrarla,

O farne in altri modi orrido scempio;

Nè del luogo l'essenza e dello spazio

Profondo manca, ove distrarsi e spargersi

Il mondo possa e per lo vano immenso

Spinto da qualunqu'altra esterna forza

Finalmente perir. Dunque alla terra

Al mare al cielo al sol mai del ferètro

Non è chiusa la porta; anzi all'incontro

Sta sempre aperta, e con profonda e vasta

Gola minaccia d'inghiottirsi il tutto.

Sì che d'uopo fia pur che tu confessi

Ch'egli ancora è natio; poichè mortale

Essendo non avrebbe omai potuto

Schermir d'immensa età gli urti e la possa.

Al fin: poichè fra lor vedi le membra

Principali del mondo in così fatta

Guisa pugnar con empia orribil guerra,

Forz'è pur che tu dica; una battaglia

Sì lunga aver dee qualche fine, o quando

Del sole il foco o qualunqu'altro ardente

Vapor, succhiando e dissipando affatto

Il nutritivo umor, vittoria avranne.

Il che far tutta via tenta, ma pure

Non han per anco i suoi gran sforzi effetto.

Tanto i fiumi d'umor vanno all'incontro

Compartendo alle cose, e dal più cupo

Gorgo minaccian d'annegare il tutto;

In van, poscia che i venti, allor che irati

Spazzan soffiando il mar, scemano in parte

L'acque, e l'etereo sol co' raggi anch'egli

Le scema in parte e le disperge in aura,

E pria tutte le cose arder confida

Che possa unqua l'umor giungere al fine

Bramato dell'impresa. In così fatta

Guisa fan tutta via con posse eguali

Fra lor cruda battaglia, e di gran cose

Muovon gran lite, e per finirla a gara

Opran ogni lor forza; avendo il foco

Vinto una volta e dominato il mondo,

Come fama ragiona, e 'l liquor molle

Regnato un'altra pel contrario e tutto

Sommerso il grembo dell'antica madre:

Che vinse il foco e molte cose allora

Ardendo incenerì, ch'Eto e Piróo

Di strada usciti il temerario auriga

Mal frenati da lui per ogni clima

Della terra e del ciel trassero a forza:

Ma quel che tutto può, padre e signore,

D'ira infiammato allor, con vïolento

E repentino fulmine gettollo

Dal cocchio in terra; e 'l sol fattosi incontro

Al cadente garzon, tosto riprese

La gran lampa del mondo, e ricongiunse

I dispersi cavalli e per l'usato

Calle gli spinse ancor lassi e tremanti,

Quindi reggendo il suo viaggio il tutto

Porse alle cose il debito ristoro:

Qual de' greci poeti anticamente

Cantâr l'inclite trombe; in ciò bugiarde,

Poichè vincer può il foco ove più corpi

Della materia sua dall'infinito

Sórti assalgon l'umor, quindi o le forze

Dal lor contrario rintuzzate e dome

Caggiono o dall'ardenti aure abbruciate

Muoion le cose. E similmente è fama

Ch'un tempo vincitor fosse a vicenda

L'umor del foco, allor che i fiumi uscendo

Fuor dell'alvo natio molte sommersero

Ampie terre e città: ma poi ch'indietro

Il nemico vigor dall'infinito

Sórto per qualche causa il piè ritrasse,

Fûr le piogge affrenate e in un represso

L'orgoglio e 'l corso impetüoso a' fiumi.

Ma io, come degli atomi il concorso

Fondasse il cielo, il terren globo, il mare,

La luna e 'l sol, racconterotti, o Memmo.

Chè certo è ben ch'i genitali corpi

Con sagace consiglio e scaltramente

Non s'allogâr per ordine, nè certo

Seppe nessun di lor che moti ei desse:

Ma; perchè molti primi semi in molti

Modi fûr già per infinito tempo

Da colpi innumerabili percossi,

E da' propri lor pesi ebbero in sorte

D'esser commossi e trasportati in varie

Parti dell'universo e d'accozzarsi

Fra loro in ogni guisa e di tentare

Tutto ciò che produr potean congiunti;

Quindi avvien poi che, dissipati e sparsi

Per lo vano infinito ed ogni sorte

Di moto e d'unïon provando, al fine

Più s'adattano insieme, e non sì tosto

Adattati si son che di gran cose

Divengon semi ed a produr son atti

La terra, il mare e gli animali e 'l cielo.

Qui nè dell'aureo sol potea mirarsi

Il cocchio luminoso errar per l'alto,

Nè stelle o mare o ciel nè finalmente

Vedersi aria nè terra o cosa alcuna

Simigliante alle nostre. Indi una certa

Nuova tempesta insorse et una massa

D'atomi che svanir fe' dello spazio

Le parti; ed a congiungersi i principii

Simili incominciaro et ad aprirne

Il mondo e le sue membra e le sue parti,

Disgiungerle, ordinarle e d'ogni sorte

Di principii arricchirle; i cui concorsi

Gli spazi i pesi le percosse i moti

Le vie gli accozzamenti alta discordia

Turbava, e vi mescea risse e battaglie,

Per le varie figure e per le forme

Difformi; onde restar tutte in tal guisa

Congiunte non potean, nè compartirsi

Convenevoli moti. Or questo, o Memmo,

È separar dal terren globo il cielo,

E far che d'acque separate abbondi

Disgiunto il mare, e similmente i puri

Fochi dell'etra ardan divisi anch'essi.

Posciachè della terra i genitali

Corpi, perch'eran gravi e l'un con l'altro

Tutti in più modi avviluppati, univansi

Primieramente, e nel più basso centro

Prendean lor sedi; e quanto più connessi

Insieme s'adunâr, tanto più lungi

Spresser quei che produrre il mar le stelle

Doveano e 'l sole e della luna il corno

Lucido e le muraglie alte del mondo:

Con ciò sia che tai cose e di più lisci

Corpi son fatte e di più tondi e piccoli

Atomi che la terra. E quindi accade

Che l'etra in pria, per lo suo raro uscendo

Impetuosamente e molte seco

Fiamme traendo, sormontò leggiero:

Quale a punto veggiam, quando per l'erbe

Di rugiada ingemmate il mattutino

Aureo lume del sol d'ostro si tinge,

Gli stagni e i laghi esalar nebbia, e' fiumi

Perenni, e 'l terren molle anco tal volta

Fumar si mira; or, poi ch'in alto ascesi

S'uniscon questi corpi e in un sol gruppo

Compressi intorno da rabbiosi venti

Corrono ad accozzarsi, il ciel sereno

Copron di nubi. In cotal guisa adunque

Il lieve etere allor, che per natura

D'ogn'intorno si sparge, in una massa

Sola ridotto circondò se stesso

Da tutti i lati, e, largamente sparso

Per lo vano infinito, intorno chiuse

Di folta siepe e d'ampie mura il resto.

Della luna e del sol quindi i principii

Seguîr, che nè la terra attribuirsi

Poteo nè 'l vasto ciel: poichè nè gravi

Eran sì, che, depressi e da' lor propri

Pesi spinti all'in giù, nel basso centro

Fosser atti a seder, nè lievi in guisa

Che scorrer per l'altissime campagne

Potesser; ma fra l'etra e 'l nostro globo

Han pur tal sito, che girar due corpi

Ponno e di tutto il mondo esser gran parte:

Qual nell'uomo eziandio lice ad alcune

Membra ferme posar, ben ch'altre ed altre

Sian mai sempre agitate. Or, queste adunque

Cose accolte in sè stesse, in un baleno

La terra, ov'or dell'oceàn profondo

Vòlto è 'l clima maggior, cadde depressa,

E formò del suo grembo ampia caverna

Nel salso gorgo. E quanto più dall'etere

E da' raggi del sol di giorno in giorno

Verso gli estremi limitari aperta

Sovra e da tutti i lati era compressa

E con urti continui a condensarsi

Forzata ed a ristringersi ed unirsi

Nel centro suo; tanto più spresso il salso

Sudore usciane e dilatato i molli

Campi intorno accrescea del mare ondoso,

E dell'aria i principii e del vapore

Tanto più n'esalavano e volando

Lungi da terra i chiari eccelsi templi

Condensavan del ciel. Scendeano in tanto

I campi, e s'appianavano; e degli alti

Monti l'erto salía; ch'i duri sassi

Non poteano abbassarsi et egualmente

Ceder tutte le parti. In cotal guisa

Dunque formato di concreto corpo

Fu della terra il pondo, e, quasi un fango

Di tutto il resto, sdrucciolò nell'imo

Centro e qual feccia si fermò nel fondo.

Quindi il mar quindi l'aere e l'etra ignifero

Restâr liquidi e molli e l'un dell'altro

Più lieve; e liquidissimo e purissimo

L'etere e leggerissimo all'aeree

Aure sovrasta. E, ben che queste all'etere

Turbino il molle corpo, ei non per tanto

Con lor non si rimescola, ma lascia

Che tutte queste cose ogn'or s'avvolgano

Fra vïolenti turbini, e permette

Ch'elle sian da procelle incerte e varie

Sempre agitate: egli però con certi

Impeti i fuochi suoi move scorrendo:

Chè volgersi con ordine et avere

L'etere una sol forza, aperto mostra

Un sì vasto oceàn che, vada o torni,

Certo è nel moto e un sol tenor conserva.

Or cantiamo onde i moti abbian le stelle.

Pria: se l'ampio del cielo orbe s'aggira,

Creder si dee che quinci e quindi il polo

Sia dall'aria compresso e d'ambi i lati

Di fuor chiuso e ristretto; indi ch'un altro

Aer sopra ne scorra e 'l corso indrizzi

Là 've del mondo eterno a volger s'hanno

Le stelle ardenti, e che di sotto un altro

Erga al contrario il ciel; come tal ora

Miri i fiumi aggirar le ruote e i plaustri.

Forse immobile è l'orbe, ancor che tutti

Sian mossi i chiari segni; o, perch'eterei

Rapidi ondeggiamenti ivi racchiusi

Strada cercando son portati in volta

E per gli ampi del ciel templi sublimi

Si rivolgon per tutto ignee procelle;

O pur scorre d'altronde, e per di fuori

L'aer da qualche parte agita e mesce

Gli eterei fuochi; o ch'essi stessi pônno

Serper là ove gli chiama ove gl'invita

D'ognuno il proprio cibo, e, mentre a volo

Se ne van per lo cielo, esca e ristoro

Porgono ai vasti lor corpi fiammanti.

Posciachè l'asserir qual delle addotte

Cause sia vera in questo nostro mondo

È difficile impresa: a me sol basta

Il dir ciò ch'esser puote e che succede

Per l'universo in vari mondi in varie

Guise creati; e delle stelle ai moti

Piacemi l'assegnar varie cagioni

Che possibili sian per l'universo:

Delle quai non pertanto una esser debbe

Quella ch'agli aurei segni i movimenti

Porga: ma l'affermar qual sia di queste

Opra non è di chi cammina al buio.

Acciò poi che la terra entro il più cupo

Centro stia ferma, è di mestier che sfumi

Il pondo o manchi a poco a poco, e ch'abbia

Sotto un'altra natura a sè congiunta

Fin da principio e strettamente unita

Con le molli del mondo aeree parti

Alle quai vive inserta. E quindi all'aere

Non è di peso, e non lo preme e calca:

Come nulla aggravar posson le membra

Proprie alcun uom nè d'alcun peso al collo

Esser la testa, e qual ne' piedi al fine

Alcun pondo del corpo unqua non senti;

Ma qualunqu'altra mole esternamente

Posta sopra di noi, ben che di peso

Di gran lunga minor, spesso n'offende;

Tanto importa a qual cosa e a cui s'appoggi.

Tal dunque il terren globo incontinente

Trasportato non fu quasi alïeno

D'altronde, nè d'altronde all'aure imposto

Alïene da lui; ma già con esse

Nacque fin dall'origine primiero

Del mondo; e, qual di noi paion le membra,

È d'esso una tal parte. Accade in oltre

Ch'ella, da grave tuon scossa repente,

Tutto ciò ch'ell'ha sopra agita e scuote:

Il che far non potria, se circondata

Non fosse d'ogn'intorno e dall'aeree

Aure e dall'ampio ciel; poichè comuni

Fin da principio han le radici e stanno

Fra lor tai corpi acconciamente uniti.

Forse non vedi ancor quanto gran pondo

Di corpo in tutti noi regga a sua voglia

Il vigor tenuissimo dell'alma,

Sol perch'ella è con lui sì acconciamente

Unita? e qual virtude erger il corpo

Da terra ed avvezzarlo agile e pronto

Al salto al nuoto alla palestra al corso

Finalmente potria, fuor che dell'alma

Il debile vigor che il frena e regge?

Vedi tu dunque omai quanto possente

Rïesca un tenue corpo, allor che unito

Viene ad un grave; in quella guisa a punto

Che son l'aure alla terra e l'alma all'uomo.

Nè maggiore o minor molto è del sole

L'orbe e l'ardor, di quel ch'appare al senso.

Chè, sia pur quanto vuoi lungo lo spazio

Onde luce e calor vibrano i fuochi,

Ei però nulla toglie e nulla rade

Dal corpo delle fiamme, e null'affatto

Stringer si mira o raccorciarsi il fuoco.

Quindi, perchè del sol la fiamma e 'l lume

Lanciato arriva a' nostri sensi e puote

Tutta del suo color tinger la terra,

Dee da terra il suo globo anco apparirne

Tal che veracemente alcun non possa

Crescerlo o sminuirlo. Anco la luna,

O con luce non sua vaghi e passeggi

Dell'etra i campi o per se stessa il lume

Vibri, che che ne sia, punto maggiore

Non è di quel ch'ella si mostra all'occhio.

Poichè, fissando di lontano il guardo

Per molto aer frapposto, ogni altro corpo

Pria confuso n'appar che scopra affatto

Gli ultimi tratti: ond'è pur d'uopo ancora

Che, poichè chiara e certa e come a punto

Dall'estremo suo limbo è circoscritta

N'appar la luna, ella di quinci in alto

Tanta a punto quant'è da noi si scorga.

Al fin; poich'ogni fiamma in terra accesa,

Mentre chiara scintilla e 'l proprio ardore

Vibra, ben che da lungi agli occhi nostri

D'assai poco ingrandirsi o impiccolirsi

Mostra; ben puossi argomentar da questo

Che le fiamme che quinci arder nell'etra

Veggonsi d'assai poco esser minori

Pônno o maggior di quel ch'appare al senso.

Nè punto dee maravigliarsi alcuno,

Che sì piccolo sol lume sì grande

Vibri, che 'l mare e 'l ciel tutto e la terra

Irrighi e sparga di calore il tutto.

Poich'esser può che quinci aperto un solo

Fonte di tutto il mondo in larga vena

Sorga e da tutti i mondi eternamente

Scaturisca un sol fiume, ove in tal guisa

Del calor della luce i genitali

Semi concorran d'ogn'intorno, e dove

S'aduni il gruppo in guisa tal, che n'esce,

Quasi da proprio suo fonte perenne,

Questo lume ed ardor. Forse non vedi

Quanto ancor largamente i prati irrighi

D'acqua un picciol ruscello e i campi allaghi?

Esser dunque anco può che l'aer nostro,

Dal picciol fuoco onde risplende il sole,

Di cocenti fervori arda, se tanto

Per sè stesso è disposto e così pronto

Che per debili ardor possa infiammarsi:

Qual tal volta le biade arder ne' campi

E la stoppa veggiam, ben che una sola

Favilla l'accendesse, e fumo e fiamma

D'ogn'intorno eruttar. Forse anco il sole,

Splendendo in ciel con la rosata lampa,

Molto di fervor cieco a sè d'intorno

Fuoco possiede; il qual non luce, e quindi

Può de' lucidi rai tanto robuste

Render le calorifiche percosse.

Nè chiara appar nè semplice nè certa

La cagione, ond'il sol dall'orbe estivo

Giunga al flesso brumal d'egocerote

E quinci indietro ritornando il corso

Dal cancro indrízzi al solstizial confine,

E come in un sol mese il giro stesso

Compir sembri la luna in cui si logora

Dal sole un anno. Or la cagion di queste

Cose, torno a ridirti, una nè certa

Assegnar non si dee. Ch'esser ben puote,

Qual del grande Abderita il saggio e santo

Parer già fu, che, quanto più vicini

Son gli astri a noi, tanto men ratti e mobili

Sian dal turbo del ciel portati in volta:

Con ciò sia che languisca e per di sotto

La vïolenta sua rapida forza

Più e più si dilegui; e quindi accaggia,

Che 'l sol con l'altre stelle inferïori

Rimanga indietro a poco a poco a' fervidi

Segni che son da noi molto più lungi.

Ma del sol più vicina anco alla terra

Certo è la luna: e, quanto più dimessa

Giace l'orbita sua lungi dal cielo

Et a noi s'avvicina, il proprio corso

Tanto degli altri segni anco ha più tardo;

E quanto al fin con turbine men rapido

Al sole inferïor gira per l'etere,

Tanto più l'altre stelle aggiunger ponno

Il suo lucido globo e trapassarlo:

E quindi avvien che di tornar più ratta

A' segni appar; poichè all'incontro i segni

Tornan più ratti a lei. Fors'anco puote

Esser che da traverso un'aria scorra

Dall'alterne del mondo oblique parti

In un tempo prefisso, e sia bastante

A spingere e scacciar da' segni estivi

Il sole al brumal punto ed al rigore

Aspro del verno; e ch'un altr'aer tosto

Fin dall'ombre gelate al calorifero

Flesso in dietro il rispinga e a' segni fervidi:

E con pari ragion la luna e l'altre

Stelle che nel grand'orbe i lor grand'anni

Volgon creder si dee ch'ire e tornare

Possan per l'aere alterno atto a cacciarle.

Forse non vedi ancor da vari venti

Spinte scorrer le nubi in varie parti

E più ratte dell'altre ir le piu basse?

Dunque chi può negar che pei gran cerchi

Dell'etra l'aer basti in così varie

Guise a portar sì varie stelle in volta?

Ma con vasta caligine sorgendo

La notte ingombra il terren globo; o quando

Già scaccia il sol dopo il suo lungo corso

Del ciel l'estime parti, e spira intorno

Languidi i raggi omai debili e stanchi

Per lo troppo vïaggio e dal soverchio

Aer interposto conquassati e laceri;

O perchè la medesima energia

Che pel ciel sovra noi l'orbe sospinse

Sforzalo anco a voltar sotterra il corso.

Ma del vecchio Titon la bianca amica

Con la fronte di rose e co' crin d'oro

Mena in certa stagion l'alba vezzosa

Per l'eteree campagne e n'apre il lume;

O perchè di sotterra a noi tornando

Quel medesimo sol co' rai precorre

Sè stesso, e del lor foco il cielo accende;

O perchè molte fiamme e molti semi

D'ardore in stagion certa han per costume

D'unirsi, e fan che sempre un lume nuovo

Di sol si crei; come da' monti d'Ida

Fama è che, mentre in orïente appare

L'aureo lume del dì, miransi intorno

Varie fiamme disperse, indi in un solo

Quasi globo adunarsi e formar l'orbe.

Nè dee con tutto ciò gran meraviglia

Parerti, o Memmo, che in stagion sì certa

Questi semi di fuoco atti ad unirsi

Sieno e del sol rinnovellare il lume;

Poichè molte da noi cose mirarsi

Posson, ch'in ogni specie in tempo certo

Fannosi. In certo tempo il bosco e 'l prato

Si veste, in certo tempo anco si spoglia

Di fiori e frondi; e nulla meno in certo

Tempo i denti a cader sforza l'etade,

E di molle lanugine a velarsi

Il giovinetto corpo e le pulite

Guance di molle barba; e finalmente

Le nebbie, i venti, le tempeste e i fulmini.

Le nevi e i ghiacci in non gran fatto in certi

Tempi si crean. Poichè non prima i primi

Principii delle cose in questa o in quella

Guisa s'unir, che, qual prodotte al mondo

Fur dal caso le cose in fin dal primo

Lor nascimento, omai tal ne consegue

La natura di tutte in ordin certo.

Crescer poi lice ai giorni et alle notti

Smagrirsi, e divenir più brevi ai lumi

Qual or l'ombre all'incontro hanno augumento:

O perchè sotto terra e sopra terra

Il medesimo sol con disuguali

Cerchi correndo il ciel divide e l'orbe

Parte in non giuste parti, e ciò che all'una

Tolse rende all'opposta, in fin che al segno

Pervenga ove dell'anno il nodo a punto

Alle tenebre cieche il lume adegua;

Poich'a mezzo il cammin del vïolento

Soffio di borea e d'austro il ciel disgiunge

Quinci e quindi egualmente ambe le mete,

E ciò pel sito e positura obliqua

Dal grand'orbe de' segni in cui serpendo

Il sol logora un anno e con obliquo

Lume circonda il terren globo e 'l cielo

(Qual a punto osservâr quei che nell'etere

Tutto osservâr di ben disposte imagini

L'orbe trapunto): o perchè l'aere in certe

Parti è più denso, onde sotterra il fuoco

Dubbio i tremoli rai vibra e non puote

Sì facilmente penetrarlo e sorgere

Sì ratto in orïente; indi l'inverno

Duran le lunghe notti in fin che giunga

L'alta insegna del dì cinta di raggi:

O forse ancor perchè dell'anno in varie

Stagioni alternamente han per costume

D'unirsi alcune fiamme e dissiparsi

Or più presto or più tardi, e far che 'l sole

Cada e risorga in vari luoghi e certi.

Splender poi può la luna, perchè i raggi

La percuotan di Febo; ond'ella volga

Vèr noi di giorno in giorno in apparenza

Lume tanto maggior quanto dall'orbe

Suo s'allontana, in fin ch'opposta e piena

Tutta d'argentea luce ella rifulse

E l'esequie del sol vide nascendo;

E quindi ancor per lo contrario il lume

Tanto quasi nasconda a poco a poco

Quanto a lui più vicin gira il suo cerchio

Dall'altra parte del zodiaco a punto:

Come parve a color ch'ad una palla

Fingon che la sia simile e che volga

Sotto l'orbe del sole il proprio corso,

Ond'avvien ch'affermar paiano il vero.

Fors'anco può di propria luce ornata

Volgersi e di splendor forme diverse

Agli occhi appresentar; chè forse un altro

Corpo con lei s'aggira e in varie guise

L'incontra e l'impedisce, e non si vede,

Perchè privo di luce il ciel trascorre.

E puote anco il suo globo intorno a' poli

Propri aggirarsi; in quella guisa a punto

Che potria per metà tinta una palla

Di lucente candor volta in sè stessa

Varie forme mostrarne e vario lume,

In fin ch'ella vèr noi tutta volgesse

La parte luminosa e l'apparente

Suo sguardo, e quindi a poco a poco indietro

Rivolgesse il suo globo e n'occultasse

La sua lucida faccia; in quella stessa

Guisa ch'i babilonici dottori,

I caldei confutando, incontro all'arte

Degli astrologi lor tentan provarne;

Come verificarsi ambi i pareri

Non possano, o vi sian ferme ragioni

Onde quel più che questo altri difenda.

Al fin: perchè non può con ordin certo

Di figure e di forme esser prodotta

Sempre una nuova luna, et ogni giorno

Scemar da quella parte ond'essa in prima

Creata fu mentre dall'altra opposta

Va crescendo altrettanto e si restaura?

Certo che 'l dimostrar con evidente

Ragion che ciò sia falso e con parole

Convincerlo abbastanza, è dura et aspra

Impresa, quand'ognun vede mill'altre

Cose con ordin certo esser prodotte.

Torna la vaga primavera e seco

Venere torna e messaggier di Venere

Zeffiro alato e l'orme sue precorre;

Cui la madre de' fior tutta cosperge

La strada innanzi di color novelli

Bianchi, gialli, vermigli, azzurri e misti,

E di soavi odor l'aere riempie.

Quindi nel luogo suo l'arida estate

Succede, e per compagna ha l'alma Cerere

Sparsa di polve il crin e il soffio etesio

Del rigido aquilon. Quindi l'autunno

Ne segue, e in un con lui l'evio Evoè:

Quindi l'altre stagioni e quindi gli altri

Venti, e Volturno altitonante ed Austro

Cinto di nembi e turbini sonori.

La bruma al fin reca le nevi e 'l pigro

Ghiaccio n'apporta; e strepitando il verno

Giunge, e le membra altrui sforza a gelarsi.

Non è dunque stupor se in certo tempo

Muore et in certo tempo anco rinasce

La luna, poichè pur si creano al mondo

Tante e sì varie cose in certo tempo.

Ma del sol parimente e della luna

Creder dèi che l'eclisse in vari modi

Possa avvenir. Chè, per qual causa il lume

Del sole a noi può tôr la luna e 'l volto

Da noi lungi offuscarli interponendo

Fra gli ardenti suoi raggi e gli occhi nostri

L'orbe suo cieco, e nel medesmo tempo

Far non può questo stesso un altro corpo

Che scorra il ciel sempre di lume ignudo?

E chi toglie anco al sol che in certo tempo

Non lasci i fuochi suoi languidi ed anco

Restauri i lumi, allor che i luoghi infesti

Alle fiamme ha trascorsi atti ad estinguerle

Tra via per l'aure e dissiparle affatto?

E perchè può la terra anco a vicenda

Spogliar la luna di splendore e 'l sole

Sovra oppresso tener, mentre in un mese

Scorre della piramide terrestre

L'ombre rigide e dense; e nello stesso

Tempo opporsi non può qualc'altro corpo

Al suo lucido globo e sotto l'orbe

Scorrer del sole, e 'l lume suo profuso

Esser atto a celarne e i vivi raggi?

O pur, s'ella medesima rifulge

Del suo proprio splendor, perchè non puote

Languir del mondo in qualche certa parte,

L'aure passando al lume suo nemiche?

Nel resto; con ciò sia ch'io t'ho risolto

Come nel vasto mondo e per l'immenso

Spazio si possa generare il tutto,

E come i vari moti e i vari cerchi

Della luna e del sol da noi sapersi

Possano, e per qual causa e da qual forza

Sian rotati i lor globi, et in qual modo

Soglian mancar per l'eclissato lume

E la terra coprir d'ombre improvvise

Allor che quasi i propri lumi han chiusi,

E come poi con isvelata faccia

Tornino ad illustrar l'aure tranquille

E di candida luce empiano il tutto;

Or di nuovo mi volgo al nascimento

Del mondo e della terra al molle dorso,

Ed a ciò ch'alla luce aurea del giorno

Nel primiero suo parto ergere osasse

E commetter de' venti al soffio incerto.

Pria le specie dell'erbe e 'l verde onore

La terra germinò: florido il prato

Di color di smeraldo a' colli intorno

Rifulse e in tutti i campi: a varie piante

Quindi concesso fu d'ergersi a gara

Per l'aure a lente briglie. E, come in prima

Nel corpo de' quadrupedi animali

Si creano e nelle membra degli uccelli

Le piume e i velli e 'l duro pelo e 'l molle,

Tal dalla nuova terra erbe e virgulti

Salsero in prima: e poi create in varie

Guise fûr d'animai specie diverse.

Posciachè nè dal ciel cadder nè fuori

Delle salse lagune usciro in secco

I terreni abitanti: onde sol resta

Che la terra a ragion madre del tutto

Chiamata sia, poichè di terra il tutto

Nacque. E non pochi ancor sono i viventi

Che dall'umide piogge e dal vapore

Caldo de' rai del sol nascono in terra:

Stupor dunque non è s'in maggior numero

Nacquero e vie più grandi, allor che nuova

Era la terra ed era l'etra adulta.

Pria de' pennuti augelli il vario germe

Nella nuova stagion di primavera

Dall'uovo esclusi deponeano il guscio;

Qual depor le cicale al caldo estivo

Soglion la tenue spoglia e per sè stesse

Vitto e vita cercar. La terra allora

Pria ne diè gli animali. Erano i campi

E di caldo e d'umor molto abbondanti,

E dovunque opportuno offriasi il luogo.

Molti del suolo alle radici affissi

Quasi ventri crescean; che poi ch'al tempo

Maturo apria de' pargoletti infanti

La tenerella etade a sugger atta

L'umore e spirar l'aure, ivi natura

Della terra volgea l'occulte vene,

Che poscia aperte rifondeano un succo

Simile al latte; in quella guisa a punto

Ch'ogni femmina adesso, allor che figlia,

Suol di latte abbondar, perchè si volge

Del nutrimento alle mammelle ogn'impeto.

Ai fanciulli porgea cibo e ristoro

La terra, il vapor veste, e letto il prato

Di molli erbette e tenere abbondante.

Ma ne' rigidi verni il nuovo mondo

Nè soverchio calor nè tempestosi

Venti eccitar potea; poich'egualmente

Cresce ogni cosa e vigor prende e forza.

Sì che molto a ragion di madre il nome

Pria la terra acquistossi e giustamente

Se 'l tiene ancor; poich'ella stessa il germe

Uman produsse, e quasi sparse in certo

Tempo ogni altro animal ch'ebro e baccante

Scorre pe' monti e per le selve, e tutte

Creò le specie degli aerei augelli.

Ma, perchè qualche termine al suo parto

Pur al fin si dovea, steril divenne

Quasi per troppa età donna impotente.

Poichè del mondo stesso il tempo al fine

Varia tutta l'essenza, e d'uno in altro

Stato il tutto si cangia, e nulla dura

Simile a sè medesmo: il tutto altrove

Fuggesi, il tutto muta, il tutto volge

Natura. Con ciò sia ch'altro divenga

Putrido e per vecchiezza egro e languente,

Altri nasca all'incontro e forza acquisti.

Così dunque l'età varia del mondo

L'essenza, e d'un la terra in altro stato

Si cangia: omai quel che poteo non possa,

E possa quel che non sofferse innanzi.

Vari in oltre crear mostri e portenti

Allor tentò la terra in varie guise,

E di faccia ammirabili e di membra.

Delle mani e de' piè molti eran privi:

Molti ancor senza faccia e senza volto

Ciechi affatto nascean; molti impediti

Di membra, che fra lor per tutto il corpo

Intrigate e legate erano in guisa

Che nulla oprar potean, non rifuggirsi

A luogo alcun, non le malvage cose

Schifar, non le giovevoli seguire,

Non usarle a' bisogni. Altri portenti

Producea di tal sorte ed altri mostri:

In van, poichè natura il propagarsi

Vietolli; ond'arrivare al fior bramato

Non potean dell'età nè trovar cibo

Nè venerei diletti avere insieme.

Con ciò sia che concorrer molte cose

Debbon negli animali, acciò sian atti

A servar propagando il proprio germe;

Primieramente i pascoli, le vie

Dopo onde i semi genitali uscire

Possan per tutto il corpo allor che sono

Rilassate le membra; e, perchè al maschio

Si congiunga la femmina, ad entrambi

È d'uopo onde accoppiar possan insieme

Gli scambievoli gaudi. Allora è forza

Che molti d'animai germi diversi

Perisser, nè bastanti a propagare

Fosser la specie lor. Poichè qualunque

Di dolce aura vital si nutre e pasce,

O l'astuzia o la forza o la prestezza

Finalmente del corso ha per custode,

Che sin dal primo tempo il serba intatto.

E molti ancor per l'util che ne danno

Son da noi conservati e custoditi.

Primieramente i fier leoni e tutte

L'altre belve crudeli hanno in difesa

La forza: dall'astuzia il proprio scampo

Riconoscon le volpi e dalla fuga

I cervi; ma i fedeli e vigilanti

Cani, e qualunque germe al mondo nasce

Di veterino seme, e i mansueti

Greggi lanosi e gli aratori armenti,

Tutti dell'uomo alla tutela, o Memmo,

Si dièr, poi che fuggiro avidamente

I morsi delle fere e seguir volsero

La pacifica vita e i larghi paschi,

Che senza lor travaglio apparecchiati

Gli son da noi quasi condegno premio

Dell'util ch'e' ne danno. Or quei ch'alcuna

Non ebber di tai cose onde potessero

Viver per sè medesmi o di qualch'utile

Essere all'uman germe, e per qual causa

Tollerar si dovea ch'ei si nutrissero

Per nostro mezzo o dal furor nemico

Fosser guardati? Essi giaceano adunque

Preda e pasto degli altri entro i fatali

Lor nodi avvolti, insin che tutti al fine

Fur quei germi malnati affatto estinti.

Ma nè visser già mai centauri al mondo,

Nè con doppia natura e doppio corpo

Pôn di membra straniere in un congiunte

Formarsi altri animai, se quinci e quindi

Pari a pari energia non corrisponde.

E ciò quind'imparar lice a ciascuno,

Sia quantunque d'ingegno ottuso e tardo.

Pria; fiorisce il cavallo agile e forte

Poco dopo tre anni; ancor bambino

Tènero è l'uom, mentre per anco il petto

Palpa toccando alla nutrice e tenta

Suggerne il dolce latte: allor che manca

Per l'età già cadente il consueto

Vigor dell'uno e che dal corpo infermo

Languida e dalle membra oppresse e stanche

Gli s'invola la vita, allora a punto

Veggiam ch'all'altro in sul fiorir degli anni

Spunta la vaga giovanezza e veste

Di lanugine molle ambe le guance:

A ciò tu forse non ti creda, o Memmo,

Che nascer d'animai tanto diversi

Debbian centauri e scille o somiglianti

Mostri de' quai le membra esser veggiamo

Fra lor tanto discordi, e che degli anni

Giunger con egual passo al fior bramato

Non posson, nè di corpo esser robusti

Nè toccar dell'età l'ultima meta,

Nè di venereo ardor nè di costumi

Insieme convenir, nè degli stessi

Cibi nutrirsi. Le barbute greggi

S'ingrassan di cicuta, ove all'incontro

La cicuta è per l'uomo aspro veleno.

Chè se 'l foco e la fiamma incenerisce

De' leoni egualmente i fulvi corpi

E d'ogni altro animal che 'n terra alberghi,

E com'esser può mai ch'una chimera

Leon pria, quindi capra, al fin serpente,

Dal tergemino corpo unqua spirasse

Fuoco e fiamma per bocca? Onde chi finge

Che nel primo natal del mondo infante,

Quando nuova pur anco era la terra,

Nuovo il mar, nuova l'aria e nuovo il cielo,

Così fatti animai nascer potessero;

Chi ciò, dico, appoggiato a questo solo

Nome di novità vano e fallace

Finge, ben puote ancor nel modo stesso

Finger molt'altre cose e scioccamente

Dir ch'allor da per tutto arene d'oro

Volgean sott'acqua i fiumi, e che di gemme

Fiorían i boschi, e che ne' membri ogni uomo

Sì grand'impeto avea che 'l mar d'un salto

Varcava e con le mani a sè d'intorno

Tutto volgea rapidamente il cielo.

Poichè l'essere stati in terra sparsi

Molti semi di cose, allor che in prima

Largamente il terren ne diede i vari

Germi degli animai, punto non prova

Che potesser fra lor misti e confusi

Nascer uomini e belve, armenti e greggi:

Con ciò sia che, quantunque il suolo abbondi

D'erbe anco adesso e d'alberi fronzuti

E di biade e di frutti, essi non pônno

Germinar non per tanto insieme avvinti:

Tal fermo e fisso in suo costume il tutto

Procede e le dovute differenze

Per certa legge di natura osserva.

Nascean gli uomini allor per le campagne

Tutti, qual convenia, molto più rozzi

Poichè la rozza terra avean per madre,

E dentro di maggiori e di più salde

Ossa fondati, e di più forti nervi

Stabiliti ed acconci; e nulla o poco

O da caldo o da freddo o da stranieri

Climi o da nuovi cibi erano offesi,

Nè del corpo patian difetto alcuno.

E molti errando delle fere in guisa,

Per più nel ciel del sol lustri volanti

Traean lor vita. E non vi avea per anco

Chi con braccio robusto al curvo aratro

Desse regola e norma, e le campagne

Or con zappe or con rastri or con bidenti

Culte e molli rendesse, e propagasse

I novelli virgulti o dall'eccelse

Piante troncasse i folti antiqui rami.

Quel ch'il sole o la pioggia o 'l suol fecondo

Producea per sè stesso i petti umani

Sazïava abbastanza: e grato e dolce

Cibo spesso porgean nelle foreste

Le ghiandifere querce o le mature

Rubiconde corbezzole o l'agresti

Poma o le noci o l'odorose fraghe,

Che maggiori e più belle e più soavi

Nasceano allor della gran madre in grembo.

E molti anco, oltre a ciò, l'età fiorita

Del mondo producea divi alimenti

Ampi abbastanza a' miseri mortali.

Ad estinguer la sete i fiumi i fonti

Invitavan allor l'umano germe,

Com'or fan gli animai l'onde tranquille

Che d'alto caggion mormorando al chino.

Ed al fin vagabondi al ciel notturno

Abitavan que' popoli primieri

Delle Ninfe i silvestri orridi templi,

Onde liquidi uscían lubrici rivi

Che le grotte solean d'ogni sozzura

E dal fango lavar gli umidi sassi,

Gli umidi sassi sovra 'l verde musco

D'umor chiaro stillanti, e parte al piano,

Non capendo in sè stessi, impetuosi

Scendere e furibondi errar pe' campi.

Nè sapean maneggiar col foco alcuna

Cosa, nè con le pelli o con le spoglie

Delle fere coprian l'ignude membra;

Ma ne' boschi, negli antri e nelle selve

Ricovravan sè stessi o nelle cave

Grotte; e, per ischifar de' venti irati

Gli assalti e delle piogge, il sozzo e squallido

Corpo asconder solean tra gli arboscelli.

Nè poteano aver l'occhio al comun bene,

Nè fra loro introdur riti o costumi,

Nè formar nè servar leggi e statuti.

Quel ch'offerto dal caso o dalla sorte

Della preda venía, quel desso a punto

Prendea ciascuno, ammaestrato e dotto

Ad esser per sè stesso a sè bastante

Et a viver contento. Inculta e rozza

Venere congiungea per le foreste

I corpi degli amanti: all'uomo in braccio

Ogni donna poneasi o da focoso

Vicendevol desio vinta o da mano

Vïolenta e rapace o da sfrenata

Cieca lussuria; e prezzo allor non vile

Eran le ghiande e le castagne elette.

Delle mani e de' piè tutti affidavansi

Nel mirando valor, seguian co' sassi

Atti ad esser lanciati e co' bastoni

Noderosi e pesanti i fieri germi

De' selvaggi animai; molti di loro

Vincean, pochi fuggian per le caverne.

Ma l'irsute lor membra, in ciò simili

A' setosi cignai, nel suolo ignude

Stendean le notti e le coprian di frondi.

Nè vaganti per l'ombre il giorno e 'l sole

Paurosi cercar solean piangendo,

Ma taciti aspettar muti e sepolti

Nel sonno, in fin che 'l sol nato dall'onde

Con la rosea facella ornasse il cielo

Di novello splendor: chè, sempre avvezzi

Sin da piccioli infanti a veder l'ombre

Nascer nel mondo alternamente e 'l lume,

Non poteano additar per meraviglia

Nè temer che perpetua orrida e densa

Notte l'aere ingombrasse eternamente,

Spenti i raggi del sol. Ma vie maggiore

Noia prendean, che gli animai selvaggi

Spesso infesta rendeano e perigliosa

La quiete e 'l sonno agl'infelici: ond'essi

Dalle grotte cacciati i tetti loro

Fuggian smarriti o pel venir d'un fiero

Spumifero cignale o d'un robusto

Leone; e nella notte intempestiva

Solean tremanti agli ospiti crudeli

Cedere i letti lor stesi di fronde.

Nè molto allor più ch'al presente il dolce

Lume del viver fuggitivo e frale

Perdean piangendo i miseri mortali.

Chè; se ben più ch'adesso allor ciascuno

Da' selvaggi animai còlto improvviso

Pasti vivi porgea per divorarsi

Da' fieri denti, e 'l bosco e 'l monte e tutta

Intorno empiea di gemiti e di strida

La selvosa foresta in viva tomba

Seppellir vive viscere veggendo;

E se ben chi trovava alcuno scampo,

Tenendo poi sul già corroso e guasto

Corpo e su le maligne ulcere tetre

Le man tremanti, in voce orrenda e fiera

Solea chiamar la morte, in fin che spento

Da sozzi ingordi vermini crudeli

Fosse di vita ignudo affatto e casso

D'aiuto e di consiglio ed ignorante

Di ciò che giovi alle ferite o noccia;

Non però mille e mille schiere ancise

Vedeansi in un sol giorno orribilmente

Tinger di sangue i mari e d'ogn'intorno

La terra seminar d'ossa insepolte;

Nè dell'ampio ocean l'onde orgogliose

Fean le navi in un punto e i naviganti

Naufragar fra le sirti e fra gli scogli;

Chè folle il mar di tempestosi flutti

Armato indarno incrudeliasi e folle

Spesso a' venti spargea minacce indarno,

Nè potean le lusinghe allettatrici

Della placida sua calma incostante

Invitar con inganno i legni all'onde:

Cieca allor si giacea la scelerata

Arte del fabbricar fuste e galee

E navi d'ogni sorte. Allor sovente

La scarsezza del vitto a' corpi infermi

Togliea la vita; or pel contrario spesso

L'abbondanza de' cibi altrui sommerge:

Quegli incauti il velen porgean tal ora

Per sè stessi a sè stessi; or più sagaci

Questi e più scaltri a' lor nemici il danno.

Ma; poi ch'a fabbricar case e capanne

Si diero e ad abitarle, e che l'ignude

Membra vestîr d'irsute pelli e 'l foco

Messero in uso, e ch'un sol tetto accolse

Con la moglie il marito e note al mondo

Fur del privato amor le caste nozze,

E che nascer di sè non dubbia prole

Vedea ciascuno; allor primieramente

Cominciò l'uman germe ad ammollirsi.

Poichè 'l foco operò che i corpi algenti

Non potessero omai nell'aria aperta

Soffrir più tanto freddo, agevolmente

Venere altrui scemò le forze, e 'l fiero

Spirto de' genitor fransero i figli

Con lusinghe e con vezzi. Allora in prima

Cominciâr l'amicizie: i confinanti

Non s'offendean: raccomandâr l'un l'altro

I figli pargoletti e 'l fragil sesso

Con le voci e co' cenni, altrui mostrando

In lor balba favella opra esser giusta

Il dar soccorso a' miseri e mal fermi.

Nè però generarsi una totale

Pace fra lor potea; ma la migliore

Parte osservâr religïosi i patti:

Poichè 'l genere uman spento e distrutto

Già fôra, e lor semenza indarno omai

Tentato avrian di propagar le genti.

Ma l'umana natura i vari accenti

Pria formò della lingua, e l'util poscia

Diede i nome alle cose; in quella stessa

Guisa che par che la medesma infanzia

I teneri fanciulli induca al gesto,

Mentre fa che da lor sia mostro a dito

Quel ch'all'occhio han presente. Ogni animale

Sente il proprio vigore, ond'abusarlo

Possa. Pria ch'al vitel nascano in testa

Le corna, egli con esse irato affronta

E 'l nemico rival preme ed incalza.

Ma de' fieri leoni i pargoletti

Figli e delle pantere, allor ch'a pena

Nelle branche hanno l'ugna e i denti in bocca,

Già co' piedi e co' morsi altrui fan guerra.

Senza che, confidar tutti gli augelli

Veggiam nell'ale e dalle proprie penne

Chieder tremolo aiuto. Il creder dunque

Ch'alcuno allor distribuisse i nomi

Alle cose e che quindi ogni uom potesse

Apparare i vocaboli primieri,

È solenne pazzia. Poichè, in qual modo

E perchè chiamar questi ad un'ad una

Poteo le cose a nome e i vari accenti

Esprimer della lingua, e nello stesso

Tempo a far il medesimo bastante

Alcun altro non fu? Ma, se le voci

Non per anco appo gli altri erano in uso,

Onde fu del lor utile a costui

La notizia inserita? e chi gli diede

Questa prima potenza, ond'ei sapesse

Specolar con la mente e porre in opra

Ciò che far gli aggradasse? in oltre: un solo

Non poteo sforzar molti e soggiogarli

Sì ch'apprender da lui fosser contenti

Delle cose i vocaboli, nè certo

Er'atto ad insegnar nè far intendere

Ciò ch'al fatto sia d'uopo a gente sorda:

Poichè nè pazïenti avrian sofferto,

Che suoni e voci inaudite indarno

Gli stordisse l'orecchie. E, finalmente,

Perchè mai sì mirabile stimarsi

Dee, che il genere uman, che voce e lingua

Di robusto vigor dotata avea,

Secondo i vari suoi sensi ed affetti

Vari nomi ponesse a varie cose?

Se le fere e gli armenti e i muti greggi

Soglion voci dissimili formare

Quando han speme o timor, noia o diletto?

E ciò da cose manifeste e conte

Può ciascuno imparar. Pria; s'irritato

Freme il molosso e la gran bocca aprendo

Nude mostra le zanne e i duri denti,

Già d'insano furor pregno e di rabbia

In suon molto diverso altrui minaccia

Da quel ch'ei latra e d'urli assorda il mondo:

Ma; se poi, lusingando, i propri figli

Lecca e scherza con essi, o con le zampe

Sossopra voltolandoli e co' morsi

Leggermente offendendoli, sospesi

I denti, i molli sorsi a imitar prende;

Col gannir della voce in altra guisa

Suole ad essi adular, che se lasciato

In casa del padrone urla et abbaia

O se fugge piangendo umile e chino

Della rigida sferza i duri colpi.

In somma: non ti par ch'assai diverso

Dir si deggia il nitrir delle cavalle,

Quando nel fior dell'età sua trafitto

Il destrier dagli stimuli pungenti

Del dio pennuto incrudelisce e sbuffa

E feroce e superbo armi armi freme,

Da quando ei tra la greggia errando sciolto

Scuote i membri e nitrisce? E, finalmente

I vari germi degli alati augelli,

Gli sparvieri e gli astor, l'aquile e i merghi

Che del mar sotto l'onde e vitto e vita

Cercan, voci assai varie in vari tempi

Formano e se fra lor pe 'l cibo han guerra

E combatton la preda: ed anco in parte

Mutan con le stagioni il rauco canto;

Qual fanno i corvi e le cornacchie annose,

Qual or, se vera è la volgar credenza,

Chiaman l'acqua e le piogge o i venti o l'aure.

Dunque; se gli animali, ancor che muti,

Spinti da vari sensi ebbero in sorte

Di formar varie voci e vari suoni;

Quanto è più ragionevole che l'uomo

Potesse allor con altri nomi ed altri,

Altre ed altre appellar cose difformi?

Acciò poi che tu sappia in qual maniera

Ebber gli uomini il fuoco; il fulmin prima

Portollo in terra, indi ogni ardor si sparse:

Poichè molte veggiam cose incitate

Dalle fiamme del ciel ardere intorno

Là 've caldi vapori erran per l'aure.

E pur; se vacillante, allor che 'l fiero

Soffio di borea impetuoso o d'austro

Scuote e squassa le selve e i rami, appoggia

D'antica pianta antica pianta ai rami;

Spesso avvien ch'eccitata e fuori espressa

Dal fregar vïolento al fin s'accende

Fiamma che sfavillando alluma il bosco,

Mentre tronco con tronco in varie guise

S'urta a vicenda e si consuma e stritola.

Il che dar similmente a noi mortali

Poteo le fiamme. A cuocer quindi il cibo

Co' suoi caldi vapori ed ammollirlo

L'aureo sol n'insegnò; poichè percosse

Molte da' vivi suoi raggi lucenti

Cose vedean per le campagne apriche

Deporre ogni acerbezza e maturarsi.

Onde quei che più scaltri eran d'ingegno

Mostrâr con cibi nuovi in nuovi modi

Cotti e conditi, ogni dì più inventandone,

Come l'antico vitto e la primiera

Vita aspra e rozza in delicata e molle

Già mutar si potesse. I regi intanto

Cominciaro a fondar cittadi e rôcche

Per lor rifugio; indi gli armenti e i campi

Divisero, e secondo il proprio merto

Di beltà, di valor, d'ingegno e d'arte

Gli assegnaro a ciascun; chè molto allora

La bellezza era in pregio, e valea molto

La forza. Il mio e 'l tuo quind'inventossi;

E l'oro si trovò; che facilmente

A' più vaghi di faccia a' più robusti

Di membra ogni onor tolse, e gli uni e gli altri

Sottomesse a' più ricchi ancor ch'indegni.

Che se regger sua vita altri bramasse

Con prudenza e con senno, è gran tesoro

Per l'uomo il viver parco allegramente;

Chè penuria già mai non fu del poco

In luogo alcun. Ma desïâr gli sciocchi

D'esser chiari e potenti, acciò ben ferma

Fosse la lor fortuna a stabil base

Quasi appoggiata, e per poter mai sempre

Facultosi menar placida vita:

In van, poichè, salir tentando al sommo

Grado ed onor, tutto di spine e bronchi

Trovâr pieno il vïaggio; ove al fin giunti,

Spesso dal sommo ciel nell'imo abisso

L'invidia, quasi fulmine, gettolli

Con dispregio e con scherno. Ond'io per l'uomo

Stimo assai meglio un obbedir quïeto,

Ch'un voler con l'impero a varie genti

Dar legge e sostener scettri e diademi.

Lascia pur dunque omai ch'altri s'affanni

In van sangue sudando, e per l'angusto

Calle dell'ambizion corra e s'aggiri:

Poichè, quasi da fulmine percossi

Dall'invidia, cader sogliono a terra

Quei che son più degli altri eccelsi e grandi

Che sol per l'altrui bocca ad esser saggi

Apprendono, e gli onor chieggon più tosto

Mossi a ciò far dalle parole udite

Che da' propri lor sensi. E non è questo

Più or nè sarà poi ch'e' fosse innanzi.

Quindi, ucciso ogni re, sossopra omai

Giacea l'antica maestà del soglio,

E gli scettri superbi e del sovrano

Capo il diadema illustre intriso e lordo

Di polvere e di sangue or sotto i piedi

Piangea del volgo il suo regale onore:

Chè troppo avidamente altri calpesta

Ciò che pria paventò. Dunque il governo

Tornava alla vil feccia e all'ime turbe;

Mentr'ognuno il primato e 'l sommo impero

Per sè chiedea. Quindi insegnaro in parte

A crear magistrati e promulgare

Leggi, a cui sottoporsi a tutti piacque.

Poichè 'l genere uman, di viver stanco

Per mezzo della forza, egro languìa

Tra guerre e nimicizie: ond'egli stesso

Tanto più volentier soppose il collo

Delle rigide leggi al grave giogo,

Quanto più aspramente a vendicarsi

Correa ciascun che dalle giuste e sante

Leggi non si permette. Il viver quindi

Per mezzo della forza a tutti increbbe:

Ond'il timor delle promesse pene

Di nostra vita i dolci premi infesta.

Chè la forza e l'ingiuria intorno avvolge

Ciascuno, e a quel ritorna assai sovente

Onde già si partío: nè facil cosa

È che placida vita e senza guerra

Viva chi della pace i comun patti

Vïola con l'opre sue; poichè, quantunque

Egli i numi immortali e l'uman germe

Possa ingannar, creder non dee per questo

Ch'ogn'or star deggia il maleficio occulto;

Poichè, parlando in sogno o vaneggiando

Egri, molto sovente i lor misfatti,

Già gran tempo a ciascun celati indarno

Propalâr per sè stessi e ne pagaro,

Quando men se 'l credeano, acerbo fio.

Or; come degli dèi fra numerose

Genti la maestà si divolgasse,

Come d'altari ogni città s'empiesse,

Come solenni sagrifici e pompe

Fosser prima introdotte, ond'anc'adesso

Negli affari importanti e ne' sacrati

Luoghi fioriscon venerande in guisa

E tal danno a' mortali alto spavento

Che già del terren globo in ogni parte

A drizzar nuovi templi a' sommi dèi

Ne sforza e a celebrar ne' dì solenni;

Non è molto difficile a sapersi.

Poscia che sin d'allor solean le genti,

D'animo ancor ben deste e vie più in sogno,

Faccie egregie veder d'uomini eccelsi

E corpi d'ammirabile grandezza.

E, perch'essi apparian di mover l'alte

Lor membra e di vibrar voci superbe,

Come d'aspetto maestosi e d'ampie

Forze, gli dieder senso; e non mortale

Vita gli attribuîr, perch'i lor volti

Eran sempre i medesmi e la lor forma

Durava e dura veramente eterna;

Nè punto a caso immaginâr che vinti

Esser non potean mai da forza alcuna

Quei che di sì gran forza eran dotati.

E in oltre s'avvisâr che di fortuna

Superasser d'assai tutti i mortali,

Perchè mai della morte il rio timore

Non potea tormentarli e perchè in sogno

Molte far li vedean cose ammirande

Senza punto stancarsi. A ciò s'aggiunga

Ch'essi intorno vedean con ordin certo

Moversi il cielo e in un col ciel le varie

Stagion dell'anno, e non sapean di questo

Le varie cause investigare; e quindi

Prendean per lor rifugio il dare a' sommi

Numi il fren d'ogni cosa e far che 'l tutto

Obbedisca a' lor cenni. E in ciel locavano

Degli alti dèi l'eterne sedi e i templi;

Perchè volgersi 'n ciel vedeano il sole

La luna il dì la notte, e della notte

Tutti i lucidi segni, e le vaganti

Notturne faci e le volanti fiamme,

E le nubi e le piogge e la rugiada,

La neve, i venti, i fulmini e l'acerba

Grandine e i rapidissimi rimbombi

De' tuoni e il fiero murmure tremendo.

Povero uman legnaggio! ahi quanti, allora

Ch'egli a' numi immortali opre sì fatte

Diede e l'ire gli aggiunse e le vendette,

Quanti, ahi quanti essi allor pianti a sè stessi,

Quante a noi piaghe acerbe, e a' minor nostri

Chenti e quai partorîr lagrime amare!

Nè punto ha di pietà, che 'l sacerdote

Spesso velato il crin verso una sorda

Statua per terra si rivolga e tutti

Corrano al sacro altar, nè ch'ei s'inchini

Prostrato al suolo e tenda ambe le palme

Innanzi ai templi a Dio sacrati, e l'are

Di sangue di quadrupedi animali

Sparga in gran copia e voti aggiunga a voti,

Anzi è somma pietade il poter tutte

Mirar le cose e con sereno ciglio

E con placido cor. Chè, mentre, ergendo

Gli occhi, ammiriam del vasto mondo i templi

Celestiali e superni e l'etra immobile

Tutt'ardente di stelle e vienne in mente

Dell'aureo sole e della luna il corso,

Tosto dagli altri mali oppresso anch'egli

Quel noioso pensier di mezzo al petto

Il già desto suo capo al cielo estolle;

E qual forse gli dèi potere immenso

Abbiano occulto a noi ch'in varie guise

Ruoti i candidi segni, egro sospira:

Posciachè 'l dubbio cor dall'ignoranza

Tentato cerca, e se principio avesse

Il mondo e s'egualmente aver dee fine,

E fin a quanto le sue mura e tanti

Moti e sì vari a tollerar sien atte

Con sì grave fatica, o pur se 'l tutto

Per opra degli dèi vita immortale

Goda e scorrendo per immenso spazio

Di tempo disprezzar possa in eterno

D'età perpetua le robuste forze.

In oltre: a cui non s'avvilisce il petto

Per timor degli dèi, cui non vien meno

L'animo, cui d'alto spavento oppresse

Non s'agghiaccian le membra allor che d'ampia

Torrida nube il folgor piomba e rapidi

Scorron per l'alto ciel murmuri orrendi?

Or non treman le genti e 'l popol tutto?

Non quasi un mortal gelo i re superbi

Sentonsi al cor, mentre de' numi eterni

Temon l'ire nemiche, allor che giunto

Credon quel tempo in cui de' gran misfatti

Pagar debbono il fio? Che se l'immensa

Forza d'euro e di noto in mar sonante

Squassa e ruota su l'onde il sommo duce

D'un'armata navale, e s'in quel punto

L'urtan le schiere avverse e gli elefanti,

Non chied'egli con voti a' sommi dèi

Pace? non con preghiere a' venti irati

Pauroso e tremante aure seconde?

In van: che nullameno ei pur sovente

Da vïolento turbine assalito

Spinto è di morte al guado. In cotal guisa

Calca una certa vïolenza occulta

Tutte l'umane cose, e prende a scherno

I nobil fasci e le crudeli scuri.

Al fin: quando la terra orribilmente

Sotto i piè ne vacilla e scosse al suolo

Caggiono o stanno di cadere in forse

Ampie terre e città; qual meraviglia

È, se gli uomini allor cura non hanno,

Qual si dovria, di lor medesmi, e solo

Ampia danno agli dèi forza e miranda

Che freni e volga a suo talento il tutto?

Nel resto: il rame poi l'argento e l'oro

Trovati e 'l duro ferro e 'l molle piombo

Furo, allor che su' monti arse le selve

Fiamma, o da nube ardente ivi lanciata,

O da provida man per le foreste

Ov'allor combatteasi in guerra accesa

Per terror de' nemici, o perch'indótti

Dalla fertilità d'alcun terreno

Scoprir grasse campagne e paschi erbosi

Voleano o ancider fere ed arricchirsi

Di preda; con ciò sia che molto prima

Nacque il cacciar col fuoco e con le fosse,

Che il cinger con le reti e con le strida

E co' bracchi e co' veltri e co' mastini

Destar le selve. Or; che che sia di questo,

Per qualunque cagion la fiamma edace

Fin dall'ime radici in suon tremendo

Divorasse le selve e il suolo ardesse;

Dalle fervide vene entro i più cavi

Luoghi del monte un convenevol rio

Scorrea di puro argento e di fin oro

E di piombo e di rame; ove rappreso

Poscia intorno splendea d'un vivo e chiaro

Lume e d'un liscio e nitido lepore.

Dalla cui dolce vista affascinati

Gli uomini il si prendean; quindi, veggendo

Ch'egli in sè ritenea la forma stessa

Ch'avean le cave pozze onde fu tratto,

Tosto allor s'accorgean che trasformarsi

Liquefatto dal fuoco in ogni forma

Potea di cose e, quanto altrui piacesse,

Col batterlo e limarlo ed arrotarlo,

Tirarsi in punte acute ed in sottili

Tagli, onde poscia di saette armarsi

Potessero e tagliar piante silvestri

E spianar la materia e rimondare

Le travi e gli altri necessari arredi

Per uso delle fabbriche, e pulirli

Anco e forarli e conficcarli insieme.

Nè men punto ad oprar sì fatte cose

Con l'argento e con l'òr gli uomini prima

S'accingean che col forte e duro rame:

In van posciachè vinta ogni sua possa

Era a ceder costretta, e non potea

Soffrir tanta fatica. Indi in maggiore

Pregio era il rame, l'òr negletto e vile

Giaceasi inutil pondo: ora all'incontro

Si giace il rame, e 'n sommo pregio è l'oro.

Tal dell'umane cose i tempi muta

La volubil età: quel ch'una volta

Caro esser ne solea d'ogni onor privo

Finalmente divien. Quindi succede

Che l'òr già dispregevol com'era

Non sembra; anzi vie più di giorno in giorno

È bramato e cercato; e, ritrovato,

Di lodi adorno, e fra' mortali sciocchi

Fiorisce ed ha meravigliosi onori.

Or tu per te medesmo agevolmente

Ben conoscer potrai, come trovata

Fosse del ferro la natura e l'uso.

Armi pria fûr le mani e l'ungna e i denti,

E i sassi, e, in un co' sassi, i tronchi rami

De' boschi, e, poi che ne fûr note in prima,

Le fiamme e 'l foco. Indi trovossi il ferro

E 'l rame. E pria del ferro il rame in opra

Fu messo, perchè allor copia maggiore

N'era e vie più trattabile natura

Avea del ferro. Essi la terra adunque

Coltivavan col rame; in guerra armati

Di rame usciano, e tempestosi flutti

Mescean fra lor d'avverse schiere, e vaste

Piaghe fean tra' nemici, e i greggi e i campi

Rapian; ch'armati essendo, agevolmente

Tosto ognun li cedea nudo ed inerme.

Quindi di passo in passo i ferrei brandi

Dagli uomini inventati, e quindi volte

Furo in obbrobrio e in disonor le falci

Di rame; e cominciâr gli agricoltori

A fender della terra il duro seno

Solamente col ferro; et adeguati

Fûr della guerra i perigliosi incontri.

E pria fu da' mortali in uso posto

Il salir su i cavalli e moderarli

Col freno e con la spada armar la mano,

Che il tentar sovr'i carri a due corsieri

Della guerra i perigli. E i carri a due

S'inventàr pria ch'a quattro e che di falci

Crudeli armati. Indi a lucani buoi

Gravâr di torri il vasto orribil dorso

I Peni, e gl'insegnâr delle battaglie

A soffrir le ferite e in strane guise

Di Marte a scompigliar l'ampie caterve:

Tal d'altro altro poteo l'empia e crudele

Discordia partorir, ch'all'uman germe

Fosse poi spaventevole fra l'armi:

E tal sempre vie più di giorno in giorno

Della guerra al terror terrore accrebbe.

Tentaro i tauri anche in battaglia, e spesso

Fêr prova d'inviar contro i nemici

I crudeli cignali. E in lor difesa

I Parti vi mandâr fieri leoni,

Con severi maestri e con armate

Guide ch'a moderarli e porli freno

Fosser bastanti: in van: poich'infiammati

Di strage indifferente ambe le schiere

Scompigliavan crudeli e de' lor capi

D'ogni intorno scotean l'orribil creste,

Nè potean de' cavalli i cavalieri

Piegare i petti spaventati e messi

Da' lor fremiti in fuga e rivoltarli

Col fren contro i nemici. E d'ogni parte

Le leonze irritate a precipizio

Si lanciavan dal bosco, e i vïandanti

Assalian furibonde e inaspettate

Gli rapivan da tergo, e con acerbe

Piaghe a terra gettandoli i crudeli

Denti in essi affiggeano e l'ugne adunche.

Agitati i cignali eran da' tori

E calpesti co' piedi, e per di sotto

Spalancati i cavalli i fianchi e 'l ventre

Dalle corna robuste ed atterrati

Dagli urti in minaccevole sembiante.

Ma con l'orride zanne i fier cignali

I compagni uccidean, del proprio sangue

Tingendo i dardi in sè spezzati; e miste

Stragi facean di cavalieri e fanti:

Con ciò sia ch'i cavalli o dell'irato

Morso schivando i perigliosi incontri

Lanciavansi a traverso o con le zampe

Movean eretti aspra battaglia ai venti;

In van, poichè: da' nervi i piè succisi,

Ruinar li vedresti e gravemente

Sovra 'l duro terren battere il fianco.

Che se alcuni abbastanza essere innanzi

Domi in casa credean, nel maneggiarli

S'accorgean ch'irritati e d'ire accesi

Eran poi dalle piaghe e dalle strida,

Dal terror, dalla fuga e dal tumulto:

Poichè tutti fuggian, come sovente

Mal difesi dal ferro or gli elefanti

Soglion anco fuggir, tra' suoi lasciando

Molte di ferità vestigia orrende.

Sì far potean: ben ch'io mi creda a pena

Ch'essi pria molto bene imaginarsi

Non dovesser con l'animo e vedere

Quanto gran comun danno e laido scempio

Fosse poi per succederne; e più tosto

Contrastar si potria che ciò nel tutto

Sia più volte accaduto in vari mondi

Variamente creati che in un certo

E solo orbe terren. Ma ei non tanto

Ciò fêr con speme di futura palma,

Quanto per dar che gemere a' lor fieri

Nemici e disperati essi morire

Diffidando del numero e dell'armi.

Pria di nessili vesti il nudo corpo

Gli uomini si coprian che di tessuto

Manto. Il manto tessuto è dopo il ferro:

Chè solo il ferro a prepararne è buono

Gli stromenti da tessere, e non pônno

Farsi per altra via tanto pulite

Le fusa, i subbi, i pettini, le spole,

Le sbarre, i licci e le sonanti casse.

Ma pria le lane a lavorar costretto

Da natura fu l'uom che il femminile

Sesso; poichè nell'arti il viril germe

Preval molto alle donne, e di gran lunga

È di lor più ingegnoso e diligente;

E ciò, fin ch'i severi agricoltori

Se l'ascrisser a vizio e v'impiegaro

Le femmine, e per sè volser più tosto

Soffrir dure fatiche e in opre dure

Durar le membra et incallir le mani.

Fu poi delle semente e degl'innesti

Primo saggio et origine la stessa

Creatrice del tutto alma natura;

Con ciò sia che le bacche e le caduche

Ghiande sotto a' lor alberi nascendo

Tempestivi porgean sciami di figli:

Onde tratto eziandio fu l'inserire

L'una pianta nell'altra e 'l sotterrare

Nel suol pe' campi i giovani rampolli;

Quindi tentâr del dolce campicello

Altre ed altre colture: e vider quindi

Farsi ogn'or più domestici e più dolci

I salvatichi frutti, accarezzando

La terra e con piacevoli lusinghe

Più e più coltivandola. E sforzaro

Le selve e i boschi a ritirarsi a' monti

Cedendo i luoghi inferiori ai culti,

Per aver poi ne' campi e su pe' colli

E prati e laghi e rivi e grasse biade

E dolci e liete vigne, e perchè lunghi

Tratti potesser di cerulei olivi

Profusi ir distinguendo e per l'apriche

Collinette e pe' campi e per le valli:

Qual a punto vedersi anco al presente

Può di vario lepor tutto distinto

Ciò che di dolci intramezzati pomi

Ornan gl'industri agricoltori e cinto

Tengon intorno di felici arbusti.

In oltre: il contraffar le molli voci

Degli augei con la bocca innanzi molto

Fu ch'in musiche note altri potesse

Snodar la lingua al canto e dilettarne

L'orecchie. E pria gli zeffiri spirando

Per lo vano da' calami palustri

Insegnâr co' lor sibili a dar fiato

Alle rustiche avene. Indi impararo

Gli uomini a poco a poco i dolci pianti

Che sparger, tocca da maestra mano,

La piva suol, che per le selve e i boschi

Trovossi e per l'antiche erme foreste,

Alberghi de' pastori, e tra' felici

Ozi divini. In cotal guisa adunque

Trae fuor l'etade a poco a poco ogni arte

Dal buio in cui si giacque, e la ragione

L'espon del giorno al lume. Or con sì fatte

Cose addolcir solean le prime genti

L'animo, allor che sazio aveano il corpo

Di cibo; poi ch'allor sì fatte cose

Tutte in grado ne son. Dunque, prostrati

Non lungi al dolce mormorar d'un rio

Fra molli erbette, i pastorelli, all'ombra

Di salvatiche piante, il proprio corpo

Tenean col poco in allegrezza e in festa:

Massime allor che la stagion ridente

Dell'anno il prato cospergea di fiori.

Allora in uso eran gli scherzi, allora

Le facete parole, allora il dolce

Sganasciarsi di risa: allor festante

L'amorosa lascivia incoronava

Le spalle e 'l capo con ghirlande inteste

Di fior novelli e di novelle frondi,

Invitando a ballar quel popol rozzo

Goffamente e senz'arte et a ferire

Con dolci salti alla gran madre il dorso;

Onde nascer solean dolci cachinni,

Perch'allor vie più nuove et ammirande

Eran tai cose. E quindi avean del sonno

Il dovuto conforto i vigilanti,

Varïando e piegando in molti modi

Le voci e 'l canto e con adunco labbro

Scorrendo sovra i calami: e disceso

Quindi ancor si conserva un tal costume

Appo quei che, da morbo e da noiose

Cure infestati, il consueto sonno

Perdono; e, benchè questi appreso omai

Abbiano il modo di sonar con arte

Osservando de' numeri concordi

Le varie specie, essi però maggiore

Frutto alcun di dolcezza indi non hanno

Di quel che della terra i rozzi figli

Aveano allor. Chè le presenti cose

Se non se forse di più care e dolci

Pria si gustâr, principalmente al senso

Piaccion, e s'han dall'uomo in sommo pregio:

Ma la nuova e miglior quasi corrompe

L'antiche invenzioni, e muta i sensi

A ciò che pria ne fu soave. In questa

Guisa l'acqua e le ghiande incominciaro

Dagli uomini a schifarsi, e posto in uso

Fu da tutti in lor vece il grano e l'uva:

In questa guisa a poco a poco i letti

Stesi d'erbe e di frondi abbandonati

Furo, e 'l suo primo onor perse la pelle

E la veste ferina; ancor che fosse

Trovata allor con sì maligna invidia,

Che ben creder si dee ch'a tradimento

Fosse ucciso colui che pria portolla,

E ch'al fin tra le spade insidïose

Tutta del proprio sangue intrisa e lorda

Fosse astretto a lasciarla e non potesse

Trarne a pro di sè stesso utile alcuno.

Allor dunque le pelli or l'oro e l'ostro

Ne travaglian la vita, e di noiose

Cure n'empiono il petto, e ne fan guerra:

Onde, a quel che stim'io, vie più la colpa

Risiede in noi: chè della terra i nudi

Figli del duro ghiaccio aspro tormento

Senza pelle soffrian; ma nulla offende

Noi l'esser privi di purpureo manto

Di ricchi fregi e di fin oro intesto,

Pur che veste plebea l'ignude membra

Ricopra e dal rigor del verno algente

Possa intatti serbarne. Indarno adunque

Suda il genere uman sempre e s'affanna

E fra vani pensier l'età consuma,

Sol perch'ei non conosce e non apprezza

Punto qual sia dell'aver proprio il fine

E fin là 've 'l piacer vero s'estenda.

E ciò ne spinse a poco a poco in alto

Mare a fidar la vita ai venti infidi,

E fin dall'imo fondo ampi bollori

D'aspre guerre eccitò. Ma i vigilanti

Globi del sole e della luna, intorno

Girando e compartendo il proprio lume

Al gran tempio e versatile del mondo,

Agli uomini insegnâr come dell'anno

Si volgan le stagioni e come il tutto

Nasce con certa legge ed ordin certo.

Già di forti muraglie e di sublimi

Torri cinti viveansi, e già divisa

S'abitava la terra; allor fioriva

Di curvi pini il mar; già collegati

L'un l'altro avean aiuti, avean compagni:

Quando in versi a cantar l'opre famose

Cominciaro i poeti, e poco innanzi

Fûr le lettre inventate. Indi non puote

L'età nostra veder ciò che s'oprasse

In pria, se non se fin là 've ne addita

I vestigi il discorso. Or la cultura

De' campi, e l'alte rôcche e le robuste

Mura e le navi audaci, e le severe

Leggi, l'armi, le vie, le vesti e l'altre

Cose a lor somiglianti, e tutte in somma

Del viver le delizie, i dolci carmi

Le ingegnose pitture e le dedalee

Statue, l'uso insegnonne e dell'impigra

Mente il discorso, il qual di passo in passo

Sempre s'avanza. In cotal guisa adunque

Trae fuor l'etade a poco a poco il tutto

Dal buio in cui si giacque, e la ragione

L'espon del mondo a' luminosi raggi:

Poichè farsi vedean nota con l'arte

L'una cosa dall'altra, in fin che giunti

Fûr dell'umana industria al sommo giogo.

LIBRO SESTO

 

Argomento.

 

Questo libro, speso per intiero nella spiegazione delle meteore, comincia dalle lodi di Epicuro, e dall'esposizione del subbietto che il poeta s'accinge a trattare, subbietto tanto più importante, in quanto è, al parer suo, il precipuo fonte della superstizione tra gli uomini. Entra dunque in materia, svolge a lungo le cause del tuono, dei lampi, del fulmine, e da queste spiegazioni conclude non esser Giove che scaglia i fuochi del cielo, in mezzo alle nuvole, ma che questo fenomeno è prodotto da vapori infiammabili che si accendono naturalmente nell'atmosfera. Dai fulmini passa alle trombe, che provengono a un dipresso dalle medesime cause, e ne distingue due specie: le trombe di mare, flagello terribile ai naviganti, e le trombe di terra, uragano non meno pericoloso, ma più raro. Dipoi, trattato che ha della formazione delle nuvole, della pioggia e dell'arco baleno, scende ai fenomeni terrestri, ricerca le cause dei terremoti, spiega perchè il mare si contenga sempre tra le sue rive, donde vengono le eruzioni dell'Etna, le piene periodiche del Nilo, e quelle esalazioni minerali, il cui vapore dà la morte agli uomini, ai quadrupedi ed agli uccelli; di qui entra in particolarità curiose sulla causa che rende i pozzi più freddi di state che di verno, sulle proprietà singolari di alcune fontane e sulla virtù attrattiva e comunicativa della calamita; tratta finalmente delle malattie contagiose e pestilenziali, e termina questo tratto con la descrizione della peste, che devastò l'Attica al tempo della guerra del Peloponneso, e che fu narrata da Tucidide.

 

Prima agli egri mortali Atene, un tempo

Sovr'ogni altra città chiara e famosa,

Gli almi parti fruttiferi e le sante

Leggi distribuì; pria della vita

Dimostronne i disagi e dienne i dolci

Sollazzi; allor che di tal mente un uomo

Crear poteo che già diffuse e sparse

Fuor di sua bocca veritiera il tutto;

Di cui, quantunqu'estinto, omai l'antico

Grido per le divine invenzïoni

Della fama sull'ali al ciel se n' vola.

Poichè: allor ch'ei conobbe a noi mortali

Esser quasi oggi mai pronto e parato

Tutto ciò che n'è d'uopo ad un sicuro

Vivere e per cui già lieta e felice

Può menarsi la vita, esser potenti

Di ricchezze e d'onor colmi e di lode

Gli uomini e i figli lor per fama illustri,

E pur sempre aver tutti ingombro il petto

D'ansie cure e mordaci e vil mancipio

Di nocive querele esser d'ognuno

L'animo; ei ben s'accorse ivi il difetto

Nascer dal vaso stesso, e tutti i beni

Che vi giungon di fuori ad uno ad uno

Dentro per colpa sua contaminarsi;

Parte, perchè sì largo e sì forato

Vedeal, che per empirlo al vento sparsa

Fôra ogn'industria ogni fatica ogni arte;

Parte, perchè infettar quasi il mirava

D'un malvagio sapor tutte le cose

Ch'in lui capían. Quindi purgonne il petto

Con veridici detti, e termin pose

Al timore al desío: quindi insegnonne

Qual fosse il sommo bene ove ciascuno

Di giunger brama, e n'additò la via

Onde per dritto calle ognun potesse

Corrervi, e quanto abbia di male in tutte

L'umane cose altrui fe noto, e come

Manchin naturalmente e 'n varie guise

Volino, o ciò sia caso o di natura

Occulta vïolenza, e per quai porte

Debba incontrarsi; e al fin provò che l'uomo

Spesso in van dentro al petto agita e volge

Di noiosi pensier flutti dolenti.

Poichè, siccome i fanciulletti al buio

Temon fantasmi insussistenti e larve,

Sì noi tal volta paventiamo al sole

Cose che nulla più son da temersi

Di quelle che future i fanciulletti

Soglion fingersi al buio e spaventarsi.

Or sì vano terror sì cieche tenebre

Schiarir bisogna e via cacciar dall'animo,

Non co' bei rai del sol, non già co' lucidi

Dardi del giorno a saettar poc'abili

Fuor che l'ombre notturne e i sogni pallidi,

Ma col mirar della natura e intendere

L'occulte cause e la velata imagine.

Ond'io vie più ne' versi miei veridici

Seguo la tela incominciata a tesserti.

E; perch'io t'insegnai che i templi eccelsi

Del mondo son mortali, e che formato

È 'l ciel di natio corpo, e ciò ch'in esso

Nasce e mestier fa che vi nasca al fine

Per lo più si dissolve; or quel ch'a dirti

Mi resta, o Memmo, attentamente ascolta;

Poich'al salir sul nobil carro a un tratto

Incitar mi poteo l'alta speranza

Di famosa vittoria, e ciò che 'l corso

Pria tentò d'impedirmi ora è converso

In propizio favor. Già tutte l'altre

Cose che 'n terra e 'n ciel vede crearsi

L'uomo, allor che sovente incerto pende

Con pauroso cor, gli animi nostri

Col timor degli dèi vili e codardi

Rendonli e sotto i piè calcanli a terra;

Posciachè a dar l'impero agl'immortali

Numi ed a por nelle lor mani il tutto

Sol ne sforza del ver l'alta ignoranza;

Chè, veder non potendo il volgo ignaro

Le cause in modo alcun d'opre sì fatte,

Le ascrive a' sommi dèi. Poichè; quantunque

Già sappia alcun, ch'imperturbabil sempre

E tranquilla e sicura i santi numi

Menan l'etade in ciel; se non di meno

Meraviglia e stupor l'animo intanto

Gl'ingombra, onde ciò sia che possan tutte

Generarsi le cose e specialmente

Quelle che sovra 'l capo altri vagheggia

Ne' gran campi dell'etra; ei nell'antiche

Religïon cade di nuovo, e piglia

Per sè stesso a sè stesso aspri tiranni

Che 'l miser crede onnipotenti; ignaro

Di ciò che possa e che non possa al mondo

Prodursi, e come finalmente il tutto

Ha poter limitato e termin certo;

Ond'errante vie più dal ver si scosta.

Che se tu dalla mente omai non cacci

Un sì folle pensiero e no 'l rispingi

Lungi da te, de' sommi dèi credendo

Tai cose indegne ed alïene affatto

Dall'eterna lor pace; ah! che de' santi

Numi la maestà limata e rósa

Da te medesmo a te medesmo innanzi

Farassi ogn'or; non perchè possa il sommo

Lor vigore oltraggiarsi, ond'infiammati

Di sdegno abbian desio d'aspre vendette;

Ma sol perchè tu stesso a te proposto

Avrai ch'essi pacifici e quïeti

Volgan d'ire crudeli orridi flutti;

Nè con placido cor visiterai

I templi degli dèi, nè con tranquilla

Pace d'alma potrai de' santi corpi

L'immagini adorar ch'in varie guise

Son messi all'uom delle divine forme.

Quindi lice imparar quanto angosciosa

Vita omai ne consegua. Ond'io, che nulla

Più desio che scacciar da' petti umani

Ogni noia ogni affanno ogni cordoglio,

Ben che molto abbia detto, ei pur mi resta

Molto da dir, che di politi versi

D'uopo è ch'io fregi. Or fa mestiero, o Memmo,

Ch'io di ciò che negli alti aerei campi

E 'n ciel si crea l'incognite cagioni

Ti sveli, e le tempeste e i chiari fulmini

Canti e gli effetti loro e da qual impeto

Spinti corran per l'aria: acciò che folle

Tu, le parti del ciel fra lor divise,

Di paura non tremi, onde il volante

Foco a noi giunga o s'ei quindi si volga

A destra et a sinistra, et in qual modo

Penetri dentro a' chiusi luoghi, e come

Quindi ancor trïonfante egli se n'esca:

Chè, veder non potendo il volgo ignaro

Le cause in modo alcun d'opre sì fatte,

Le ascrive a' sommi dèi. Tu, mentre io corro

Quella via che mi resta alla suprema

Chiara e candida meta a me prescritta,

Saggia musa Calliope, almo riposo

Degli uomini e piacer degl'immortali

Numi del cielo, or me l'addita e mostra;

Tu che sola puoi far con la tua fida

Scorta, ch'io di bel lauro in riva all'Arno

Colga l'amate fronde e d'esse omai

Glorïosa ghirlanda al crin m'intessa.

Pria: del ceruleo ciel scuotonsi i campi

Dal tuon, perchè l'eccelse eteree nubi

S'urtan cacciate da contrari venti:

Con ciò sia che 'l rimbombo unqua non viene

Dalla parte serena; anzi, dovunque

Son le nubi più folte, indi sovente

Con murmure maggior nasce il suo fremito.

In oltre: nè sì dure nè sì dense

Com'i sassi e le travi esser mai ponno

Le nubi, nè sì molli nè sì rare

Come le nebbie mattutine o i fumi

Volanti; poi che o dal gran pondo a terra

Spinte cader dovrian, qual cade a punto

Ogni trave ogni sasso, o dileguarsi

Come 'l fumo e la nebbia e 'n sè raccôrre

Non potrian fredde nevi e dure grandini.

Scorre il tuono eziandio sulle diffuse

Onde aeree del mondo, in quella guisa

Che la vela tal or tesa negli ampli

Teatri strepitar suole agitata

Fra l'antenne e le travi e spesso in mezzo

Squarciata dal soffiar d'euro protervo

Freme e de' fogli il fragil suono imita:

Chè tuoni esserci ancor di questa sorta

Ben conoscer si puote, allor che 'l vento

Sbatte o i fogli volanti o le sospese

Vesti. Poichè tal volta anco succede

Che non tanto fra lor testa per testa

Possano urtarsi le contrarie nubi,

Quanto scorrer di fianco e con avverso

Moto rader del corpo il lungo tratto;

Onde poscia il lor tuono arido terga

L'orecchie e molto duri, in fin ch'ei possa

Uscir da' luoghi angusti e dissiparsi.

Spesso parne eziandio che in simil guisa

Scosso da grave tuon tremi e vacilli

Il tutto e che del mondo ampio repente

Sradicate l'altissime muraglie

Volin pel vano immenso, allor ch'accolta

Di vento irato impetuosa e fiera

Improvvisa procella entro alle nubi

Penetra e vi si chiude, e con ritorto

Turbo, che più e più ruota ed avvolge

D'ogni parte la nube, intorno gonfia

La sua densa materia, indi l'estrema

Sua forza e 'l vïolento impeto acerbo

Squarciando il cavo sen la vibra, ed ella

Scoppia e scorre per l'aria in suon tremendo.

Nè mirabile è ciò; poichè sovente

Picciola vescichetta in simil guisa

Suole in aria produr, piena di spirto,

D'improvviso squarciata, alto rimbombo.

Evvi ancor la ragione onde i robusti

Venti facciano il tuon, mentre scorrendo

Se ne van tra le nubi. Elle sovente

Volan ramose in varie guise ed aspre

Per lo vano dell'aria: or, nella stessa

Guisa che, allor che 'l vïolento fiato

Di coro i folti boschi agita e sferza,

Fischian le scosse fronde e d'ogn'intorno

Tronchi orrendo fragor spargono i rami,

Tal del vento gagliardo anco alle volte

L'incitato vigor spezza e 'n più parti

Col retto impeto suo squarcia le nubi:

Poichè, qual forza ei v'abbia, aperto il mostra

Qui per sè stesso in terra, ove più dolce

Spira e pur non per tanto in fin dall'ime

Barbe i robusti cerri abbatte e schianta

Son per le nubi ancor flutti, che fanno

Gravemente frangendo un quasi roco

Murmure, qual sovente anco negli alti

Fiumi e nell'alto mar che vada o torni

Soglion l'onde produr rotte e spumanti.

Esser puote eziandio, che, se vibrato

D'una nube in un'altra il fulmin piomba,

Questa, se con molt'acqua il fuoco beve,

Tosto con alte grida il mondo assordi;

Qual, se tal or dalla fucina ardente

Sommerso in fretta è l'infocato acciaio

Nella gelida pila, entro vi stride.

Chè se un'arida nube in sè riceve

La fiamma, in un momento accesa ed arsa

Con smisurato suon folgora intorno;

Qual se pe' monti d'apollinei allori

Criniti il foco scorra e con grand'impeto

Gli arda cacciato dal soffiar de' venti;

Chè nulla è ch'abbruciando in sì tremendo

Suon tra le fiamme strepitando scoppi

Quanto i delfici lauri a Febo sacri.

Al fin: d'acerba grandine e di gelo

Un fragor vïolento un precipizio

Spesso nell'alte nubi alto rimbomba;

Che, allor che 'l vento gli condensa e gli empie,

Frangonsi in luogo angusto eccelsi monti

Di grandinosi nembi in gelo accolti.

Folgora similmente, allor che scossi

Vengon dagli urti dell'avverse nubi

Molti semi di foco; in quella guisa

Che, se pietra è da pietra o da temprato

Acciar percossa, un chiaro lume intorno

Sparge e vive di fuoco auree scintille.

Ma, pria ch'a' nostri orecchi arrivi il tuono,

Veggon gli occhi il balen; perchè più tardo

Moto han sempre i principii atti a commoverne

L'udito che la vista. Il che ben puossi

Quindi ancora imparar; che, se da lungi

Vedi con dubbio ferro un tronco busto

Spezzar d'albero annoso, il colpo miri

Pria che 'l suon tu ne senta: or nello stesso

Modo agli occhi eziandio giunge il baleno

Pria che 'l tuono all'orecchie, ancor che 'l tuono

Sia vibrato col folgore e con lui

D'una causa prodotto e d'un concorso.

Spesso avvien ch'in tal guisa ancor si tinga

D'un lume velocissimo e risplenda

D'un tremulo fulgor l'atra tempesta.

Tosto che 'l vento alcuna nube assalse

E, quivi in giro vòlto, il cavo seno,

Qual sopra io ti dicea, n'addensa e stringe;

Ferve per la sua mobile natura;

Come tutte scaldate arder le cose

Veggiam nel moto, ond'anco il lungo corso

Strugge i globi girevoli del piombo.

Tal dunque acceso il vento, allor ch'in mezzo

Squarcia l'opaca nube, indi repente

Molti semi d'ardor quasi per forza

Spressi disperge, i quai di fiamma intorno

Vibran fulgidi lampi: or quinci il tuono

Nasce, il qual vie più tardo il senso muove

Di qualunque splendor ch'arrivi all'occhio:

Chè ciò tra folte e dense nubi avviene

E in un profondamente altre sopr'altre

Con prestezza ammirabile ammassate.

Nè t'inganni il veder che l'uom da terra

Può vie meglio osservar per quanto spazio

Si distendan le nuvole che quanto

Salgano ammonticate in verso il cielo.

Poichè; se tu le miri allor che i venti

Per l'aure se le portano a traverso,

O allor che pe' gran monti altre sopr'altre

Si stanno accumulate e le superne

Premon l'inferne immobili, tacendo

Del tutto i venti; allor potrai le vaste

Lor moli riconoscere e vedere

L'altissime ed orribili spelonche

Quasi costrutte di pendenti sassi;

Ove, poi che tempesta il cielo ingombra,

Entran rabbiosi venti, e con tremendo

Murmure d'ogn'intorno ivi racchiusi

Fremono, e minaccevoli e superbi

Vibran, di fere in guisa ancor che in gabbia,

Per le nubi agitate or quinci or quindi

I lor fieri ruggiti, e via cercando

Si raggiran per tutto, e dalle nubi

Convolgon molti semi atti a produrre

Il foco, e in guisa tal n'adunan molti,

E dentro a quelle concave fornaci

Ruotan la fiamma lor, fin che coruschi,

L'atra nube squarciata, indi risplendono.

Avviene ancor che furïoso e rapido

Per quest'altra cagion l'aureo fulgore

Di quel liquido foco in terra scenda,

Perchè molti di foco han semi accolti

Le nubi stesse: il che vedersi aperto

Può da noi, quando asciutte e senz'alcuno

Umido son, che d'un fiammante e vivo

Color splendon sovente. E ben conviene

Ch'elle accese in quel tempo e rubiconde

Spargano in larga copia alate fiamme,

Perchè molti di sol raggi lucenti

Mestier è pur ch'abbian concetti. Or, quando

Dunque il furor del vento entro gli sforza

A raccogliersi in uno e stringe e calca

Premendo il luogo, essi diffondon tosto

Gli espressi semi in larga copia; e quindi

Della fiamma il color folgora e splende.

Folgora similmente, allor che molto

Rarefansi eziandio del ciel le nubi.

Poichè; qual or, mentre per l'aure a volo

Se n' vanno, il vento leggermente in varie

Parti le parte e le dissolve; è d'uopo

Che cadan lor malgrado e si dispergano

Quei semi che 'l balen creano: ed allora

Folgora senza tuono e senza tetro

Spavento orrendo e senz'alcun tumulto.

Nel resto; qual de' fulmini l'interna

Natura sia, bastevolmente il mostra

La lor fiera percossa e dell'ardente

Vapor gl'inusti segni e le vestigia

Gravi e tetre esalanti aure di zolfo;

Chè di foco son queste e non di vento

Note nè d'acqua. E per sè stessi in oltre

Degli eccelsi edifici ardono i tetti,

E con rapida fiamma entro gli stessi

Palagi scorron trïonfanti. Or questo

Foco sottil più d'ogni foco è fatto

D'atomi minutissimi e sì mobili

Che nulla affatto può durarl'incontra;

Posciachè furibondo il fulmin passa,

Com'il tuono e le voci, entro i più chiusi

Luoghi degli edifici e per le dure

Pietre e pel bronzo, e in un sol tratto e in uno

Punto liquido rende il rame e l'oro.

Suole ancor procurar che, intere e sane

Rimanendo le botti, il vin repente

Sfumi: e ciò perchè tutti intorno i fianchi

Del vaso agevolmente apre e dilata

Il vegnente calor, tosto ch'in lui

Penetra, e in un balen solve e disgiunge

Del vino i semi; il che non par che possa

In lunghissimo tempo oprare il caldo

Vapor del sol: così possente è questo

Di corrusco fervore impeto e tanto

Vie più tenue e più rapido e più grande.

Or; come il fulmin sia creato, e tanto

Abbia in sè di vigor che in un sol colpo

Aprir possa le torri e fin dall'imo

Squassar le case e le robuste travi

Sveglierne e ruinarle, e de' famosi

Uomini demolir gli alti trofei,

Spaventar d'ogn'intorno ed avvilire

E gli armenti e i pastori e le selvagge

Belve, e tant'altre oprar cose ammirande

Simili alle narrate; io brevemente

Sporrotti, o Memmo, e senza indugio alcuno

Creder dunque si dee che generato

Il fulmin sia dalle profonde e dense

Nubi; poichè già mai dal ciel sereno

Non piomba o dalle nuvole men folte.

E ben questo esser vero aperto mostra,

Ch'allor s'addensan d'ogn'intorno in aria

Le nubi in guisa tal che giureresti

Che tutte d'Acheronte uscite l'ombre

Rïempisser del ciel l'ampie caverne:

Tal, insorta di nembi orrida notte,

Ne sovrastan squarciate e minaccianti

Gole di timor freddo, allor che prende

Fulmini a macchinar l'atra tempesta.

In oltre: assai sovente un nembo oscuro,

Quasi di molle pece un nero fiume,

Tal dal cielo entro al mar cade nell'onde

E lungi scorre, e di profonda e densa

Notte caliginosa intorno ingombra

L'aria, e trae seco a terra atra tempesta

Gravida di saette e di procelle,

E tal principalmente ei stesso è pieno

E di fiamme e di turbini e di venti,

Ch'in terra ancor d'alta paura oppressa

Trema e fugge la gente e si nasconde.

Tal sovra 'l nostro capo atra tempesta

Forza dunqu'è che sia; chè nè con tanta

Caligine oscurar potriano il mondo

Le nuvole, se molte unite a molte

Non fosser per di sopra e i vivi raggi

Escludesser del sol, nè con sì grande

Pioggia opprimer potrian la terra in guisa

Ch'i fiumi traboccar spesso e i torrenti

Facessero e notar nell'acque i campi,

Se non fosse di nuvole altamente

Ammassate fra lor l'etere ingombro.

Dunque di questi fochi e questi venti

È pieno il tutto; e per ciò freme e vibra

Folgori d'ogn'intorno irato il cielo.

Con ciò sia che poc'anzi io t'ho dimostro

Che molti di vapor semi in sè stesse

Han le concave nubi, e molti ancora

D'uop'è che dall'ardor de' rai del sole

Glie ne sian compartiti. Or; questo stesso

Vento ch'in un sol luogo, ovunque scorre,

Le unisce a caso e le comprime e sforza.

Poichè spressi ha d'ardor molti principii

E con lor s'è mischiato; ivi s'aggira

Profondamente insinuato un vortice,

Che dentro a quelle calde atre fornaci

Aguzza e tempra il fulmine tremendo;

Che per doppia cagion ratto s'infiamma;

Con ciò sia che si scalda e pel suo rapido

Moto e del foco pel contatto. E quindi

Non sì tosto per sè ferve agitata

L'energia di quel vento o gravemente

Delle fiamme l'assal l'impeto acerbo,

Che tosto allor quasi maturo il fulmine

Squarcia l'opaca nube, e di corrusco

Splendor l'aere illustrando il lampo striscia;

Cui tal grave succede alto rimbombo,

Che repente spezzati opprimer sembra

Del ciel gli eccelsi templi. Indi un gelato

Tremor la terra ingombra, e d'ogn'intorno

Scorron per l'alto ciel murmuri orrendi;

Chè tutta quasi allor trema squassata

La sonora tempesta e freme e mugge:

Per lo cui squassamento alta e feconda

Tal dall'etra cader suole una piova,

Che par che l'etra stesso in pioggia vòlto

Siasi e che tal precipitando in giuso

Ne richiami al diluvio. Or sì tremendo

Suon dal ratto squarciarsi in ciel le nubi

Vibrasi e dalla torbida procella

Del vento in lor racchiuso, allor che vola

Con ardente percossa il fulmin torto.

Tal volta ancor l'impetuosa forza

Del vento esternamente urta e penètra

Qualche nube robusta e di maturo

Fulmin già pregna; onde repente allora

Quel vortice di fuoco indi ruina

Che noi con patria voce appelliam fulmine:

E lo stesso succede anche in molt'altre

Parti, dovunque un tal furore il porta.

Succede ancor che l'energia del vento,

Ben che senz'alcun foco in giù vibrata,

Pur tal or, mentre viene, arde nel lungo

Corso, tra via lasciando alcuni corpi

Grandi che penetrar l'aure egualmente

Non ponno, e dallo stesso aere alcuni altri

Piccioletti ne rade i quai volando

Misti in aria con lui formin la fiamma:

Qual, se robusta man di piombo un globo

Con girevole fionda irata scaglia,

Ferve nel lungo corso, allor che molti

Corpi d'aspro rigor tra via lasciando

Nell'aure avverse ha già concetto il foco.

Ma suole anco avvenir che dello stesso

Colpo l'impeto grave ecciti e svegli

Le fiamme, allor che ratto in giù vibrato

Senza foco è del vento il freddo sdegno:

Poichè, quando aspramente ei fiede in terra,

Pôn da lui di vapor molti principii

Tosto insieme concorrere e da quella

Cosa che 'l fiero colpo in sè riceve;

Qual s'una viva pietra è da temprato

Acciar percossa, indi scintilla il foco,

Nè, perchè freddo ei sia, quei semi interni

Di cocente splendor men lievi e ratti

Concorrono a' suoi colpi. Or dunque in questa

Guisa accendersi ancor posson le cose

Dal fulmin, se per sorte elle son atte

La fiamma a concepir: nè puote al certo

Mai del tutto esser freddo il vento, allora

Che con tanto furor dall'alte nubi

Scagliato è in terra sì che, pria nel corso

Se col foco non arse, almen commisto

Voli col caldo e a noi tiepido giunga.

Ma che 'l fulmine il moto abbia sì rapido

E sì grave e sì acerba ogni percossa,

Nasce perchè lo stesso impeto innanzi

Per le nubi incitato in un si stringe

Tutto e di giù piombar gran forza acquista

Indi, allor che le nubi in sè capire

L'accresciuta lor forza omai non ponno,

Spresso è 'l vortice accolto, e però vola

Con furia immensa; in quella guisa a punto

Che da belliche macchine scagliati

Volar sogliono i sassi. Arrogi a questo;

Ch'ei di molti minuti atomi e lisci

Semi è formato; e contrastare al corso

Di natura sì fatta è dura impresa;

Ch'ei ne' corpi s'insinua e per lo raro

Penetra, onde per molti urti ed intoppi

Punto non si ritien ma striscia ed oltre

Vola con ammirabile prestezza:

In oltre; perchè i pesi han da natura

Tutti propensïon di gire al centro,

E, s'avvien che percossi esternamente

Sian da forza maggior, tosto s'addoppia

La prontezza nel moto e vie più grave

Divien l'impeto loro, onde più ratto

E con più vïolenza urti e sbaragli

Tutto ciò ch'egl'incontra e non s'arresti.

Al fin; perchè con lungo impeto scende,

D'uopo è che sempre agilità maggiore

Prenda che più e più cresce nel corso,

E 'l robusto vigor rende più forti

E più fieri i suoi colpi e più pesanti;

Poichè fa che di lui tutti i principii

Che gli son dirimpetto il volo indrizzino

Quasi in un luogo sol, vibrando insieme

Tutti quei che 'l suo corso ivi han rivolto.

Forse e dall'aria stessa alcuni corpi

Seco trae, mentre vien, che crescer ponno

Con gli urti lor la sua prontezza al moto.

E per cose penètra intere, e molte

Ne passa intere e salve, oltre volando

Pe' lor liquidi pori. Ed anco affatto

Molte ne spezza, allor che i semi stessi

Del fulmine a colpir van delle cose

Ne' contesti principii e 'nsieme avvinti.

Dissolve poi sì facilmente il rame

E 'l ferro e 'l bronzo e l'òr fervido rende,

Perchè l'impeto suo fatto è di corpi

Piccioli e mobilissimi e di lisci

E rotondi elementi, i quai s'insinuano

Con somma agevolezza e insinuati

Sciolgon repente i duri lacci e tutti

Dell'interna testura i nodi allentano.

Ma vie più nell'autunno i templi eccelsi

Del ciel di stelle tremole splendenti

Squassansi d'ogni intorno e tutta l'ampia

Terra, e allor che ridente il colle e 'l prato

Di ben mille color s'orna e dipinge;

Con ciò sia che nel freddo il foco manca,

Nel caldo il vento, e di sì denso corpo

Le nuvole non son. Ne' tempi adunque

Di mezzo, allor del folgore e del tuono

Le varie cause in un concorron tutte:

Chè lo stretto dell'anno insieme mesce

Col freddo il caldo; e ben d'entrambi è d'uopo

I fulmini a produrne, acciò che nasca

Grave rissa e discordia e furibondo

Con terribil tumulto il cielo ondeggi

E dal vento agitato e dalle fiamme.

Chè del caldo il principio e 'l fin del pigro

Gelo è stagion di primavera; e quindi

Forz'è che l'un con l'altro i corpi avversi

Pugnino acerbamente e turbin tutte

Le miste cose: e del calor l'estremo

Col principio del freddo è 'l tempo a punto

Ch'autunno ha nome, e in esso ancor con gli aspri

Verni pugnan l'estati; onde appellarsi

Debbon queste da noi guerre dell'anno

Nè per cosa mirabile s'additi

Ch'in sì fatta stagion fulmini e lampi

Nascan più ch'in null'altra ed agitati

Molti sian per lo ciel torbidi nembi;

Con ciò sia che con dubbia aspra battaglia

Quinci e quindi è turbata, e quinci e quindi

Or l'incalzan le fiamme or l'acqua e 'l vento.

Or questo è specular l'interna essenza

Dell'ignifero fulmine, e vedere

Con qual forza ei produca i vari effetti;

E non, sossopra rivolgendo i carmi

Degli aruspici etruschi, i vari segni

Dell'occulto voler de' sommi dèi

Cercar senz'alcun frutto; ond'il volante

Foco a noi giunga, e s'ei quindi si volga

A destra od a sinistra, ed in qual modo

Penetri dentro a' chiusi luoghi, e come

Quindi ancor trïonfante egli se n'esca,

E qual possa apportar danno a' mortali

Dal ciel piombando il fulmine ritorto.

Chè se Giove sdegnato e gli altri numi

I superni del ciel fulgidi templi

Con terribile suon scuotono e ratte

Lancian fiamme ed incendi ove gli aggrada:

Dimmi ond'è ch'a chiunque alcuna orrenda

Scelleraggin commette il seno infisso

Non fan che fiamme di fulmineo tèlo

Aneli, e caggia, a' malfattori esempio

Acre sì ma giustissimo? e più tosto

Chi d'alcun'opra rea non ha macchiata

La propria coscïenza, entro alle fiamme

È ravvolto innocente, e d'improvviso

È dal foco e dal fulmine celeste

Sorpreso e in un sol punto ucciso ed arso?

E perchè ne' diserti anco alle volte

Vibrangli, e l'ire lor spargono al vento?

Forse con l'esercizio assuefanno

La destra a fulminar? forse le braccia

Rendono allor più vigorose e dotte?

Perchè soffron ch'in terra ottuso e spento

Sia del gran padre il formidabil tèlo?

Perchè Giove il permette, e nol riserba

Contro a' nemici? e perchè mai no 'l vibra

Finalmente e non tuona a ciel sereno?

Forse, tosto ch'al puro aere succede

Tempestosa procella, egli vi scende,

Acciò quindi vicin l'aspre percosse

Meglio del tèlo suo limiti a segno?

In oltre: ond'è ch'in mar l'avventa, e l'acque

Travaglia e 'l molle gorgo e i campi ondosi?

E, s'ei vuol che del fulmine cadente

Schivin gli uomini i colpi, a che no 'l vibra

Tal che tra via si scerna? e, s'improvviso

Vuol col foco atterrarne, e perchè tuona

Sempre da quella parte onde schivarsi

Possa? e perchè di tenebroso e scuro

Manto innanzi il ciel cuopre, e freme e mugge?

Forse credèr potrai ch'egli l'avventi

Insieme in molte parti? o forse stolto

Ardirai di negar ch'unqua avvenisse

Che potesser più fulmini ad un tratto

Dal cielo in terra ruinar? ma spesso

Avvenne, e ben che spesso avvenga è d'uopo,

Che, siccome le piogge in molte parti

Caggion del nostro mondo, anco in tal guisa

Caschin molte saette a un tempo stesso.

Al fin; perchè degli altri numi i santi

Templi e l'egregie sue sedi beate

Crolla con fulmin violento, e frange

Spesso le statue degli dèi costrutte

Da man dedalea, e con percossa orrenda

Toglie all'imagin sua l'antico onore?

E perchè tanto spesso i luoghi eccelsi

Ferisce; noi molti veggiam ne' sommi

Gioghi d'un foco tal non dubbi segni?

Nel resto; agevolmente indi si puote

Di quei l'essenza investigar che i Greci

Prestèri nominar dai loro effetti,

E come e da qual forza in mar vibrati

Piombin dall'alto ciel. Poichè tal ora

Scender suol dalle nubi entro le salse

Onde quasi calata alta colonna,

Cui ferve intorno dal soffiar de' venti

Gravemente commosso il flutto insano;

E qualunque navilio in quel tumulto

Resta sorpreso, allor forte agitato

Cade in sommo periglio. E questo avviene

Qual or del vento il tempestoso orgoglio

Squarciar non sa la cava nube affatto

Che a romper cominciò; ma la deprime

Sì, che quasi calata a poco a poco

Paia dal ciel nell'onde alta colonna;

Come sia d'alto a basso o nebbia o polve

Tratta col pugno e con lanciar del braccio

E distesa per l'acque: or, poi che 'l vento

Furïoso la straccia, indi prorompe

In mare e nelle salse onde risveglia

Il girevole turbo, il molle corpo

Della nube accompagna; e non sì tosto

Gravida di sè stesso in mar l'ha spinta,

Ch'ei nell'acque si tuffa e con tremendo

Fremito a fluttuar le sforza, e tutto

Agita e turba di Nettuno il regno.

Succede ancor che sè medesmo avvolga

Il vortice ventoso in fra le nubi

Dell'aria i semi lor radendo, e quasi

Emulo sia del prèstere suddetto.

Questi giunto ch'è in terra, in un momento

Si dissipa, e di turbo e di procella

Vomita d'ogn'intorno impeto immane.

Ma, perch'ei veramente assai di rado

Nasce e forz'è che in terra ostino i monti,

Quinci avvien che più spesso appar nell'ampia

Prospettiva dell'onde e a cielo aperto.

Crescon poscia le nubi, allor che in questo

Ampio spazio del ciel ch'aere si chiama

Volando molti corpi aspri e scabrosi

D'improvviso s'accozzano in sì fatta

Guisa, che leggermente avviluppati

Star fra lor non di men possano avvinti.

Questi pria molti semi e molte piccole

Nubi soglion formar; che poscia in varie

Guise insieme s'apprendono e congiungono,

E congiunte s'accrescono e s'ingrossano,

E da' venti cacciate in aria scorrono

Fin che nembo crudel n'insorga e strepiti.

Sappi ancor che de' monti il sommo giogo,

Quanto al ciel più vicin sorge eminente,

Tanto più di caligine condensa

Fuma continuo e d'atra nebbia è ingombro.

E questo avvien perchè sì tenui in prima

Nascer soglion le nuvole e sì rare,

Che 'l vento che le caccia, anzi che gli occhi

Possan mirarle, in un le stringe all'alta

Cima de' monti; u' finalmente, insorta

Turba molto maggior, folte e compresse

Ci si rendon visibili, e dal sommo

Giogo paion del monte ergersi all'etra;

Chè ventosi nel ciel luoghi patenti

Ben può mostrarne il fatto stesso e il senso,

Qual or d'alta montagna in cima ascendi.

In oltre: che natura erga da tutto

Il mar molti principii, apertamente

Ne 'l dimostran le vesti in riva all'acque

Appese, allor che l'aderente umore

Suggono: onde vie più sembra che molti

Corpi possano ancor dal salso flutto

Per accrescer le nubi in aria alzarsi;

Chè col sangue è dal mar lungi il discorso.

In oltre; d'ogni fiume e dalla stessa

Terra sorger veggiam nebbie e vapori,

Che quindi, quasi spirti, in alto espressi

Volano, e di caligine spargendo

L'etere, a poco a poco in varie guise

S'uniscono e a produr bastan le nubi:

Chè di sopra eziandio preme il fervore

Del signifero cielo, e quasi addensi

Sotto l'aria di nembi orridi ingombra.

Succede ancor, che a tal concorso altronde

Vengan molti principii atti a formare

E le nubi volanti e le procelle:

Chè ben dèi rammentar che senza numero

È degli atomi 'l numero, e che tutta

Dello spazio la somma è senza termine,

E con quanta prestezza i genitali

Corpi soglian volare e come ratti

Scorrer per lo gran spazio immemorabile.

Stupor dunque non è, se spesso in breve

Tempo sì vasti monti e terre e mari

Cuopron sparse dal ciel tenebre e nembi,

Con ciò sia che per tutti in ogni parte

I meati dell'etra, e del gran mondo,

Quasi per gli spiragli, aperta intorno

È l'uscita e l'entrata agli elementi.

Or su, com' il piovoso umor nell'alte

Nubi insieme s'appigli e come in terra

Cada l'umida pioggia, io vo' narrarti.

E pria dubbio non v'ha che molti semi

D'acqua in un con le nuvole medesme

Sorgan da tutti i corpi; e certo ancora

È che sempre di par le nubi e l'acqua

Ch'in loro è chiusa in quella guisa a punto

Crescan, ch'in noi di par cresce col sangue

Il corpo e 'l suo sudore e qualunqu'altro

Liquore al fin che nelle membra alberghi.

Spesso eziandio quasi pendenti velli

Di lana, dalle salse onde marine

Suggono umido assai, qual ora i venti

Spargon sull'ampio mar nuvole e nembi.

E per la stessa causa anco da tutti

I fiumi e tutt'i laghi all'alte nubi

L'umor s'attolle; u' poi che molti semi

D'acqua perfettamente in molti modi

D'ogn'intorno ammassati in un sol gruppo

Si son, tosto le nuvole compresse

Dall'impeto del vento in pioggia accolti

Cercan versarli in due maniere in terra;

Chè l'impeto del vento insieme a forza

Gli unisce, e la medesima abbondanza

Delle nuvole acquose, allor che insorta

N'è turba assai maggior, grava e di sopra

Preme, e fa che la pioggia indi si spanda.

In oltre: quando i nuvoli da' venti

Anco son rarefatti o dissoluti

Da' rai del sol, gronda la pioggia a stille,

Quasi di molle cera una gran massa

Al foco esposta si consumi e manchi.

Ma furïosa allor cade la pioggia,

Che le nubi ammassate a viva forza

Restan gagliardamente ad ambi i lati

Compresse e dal furor d'irato vento.

Durar poi lungo tempo in uno stesso

Luogo soglion le piogge, allor che insieme

D'acqua si son molti principii accolti

E ch'altre ad altre nubi ad altri nembi

Altri nembi succedono e di sopra

Scorrongli e d'ogn'intorno, allor che tutta

Fuma e 'l piovuto umor la terra esala.

Quindi; se co' suoi raggi il sol risplende

Fra l'opaca tempesta e tutta alluma

Qualche rorida nube ad esso opposta,

Di ben mille color vari dipinto

Tosto n'appar l'oscuro nembo e forma

Il grand'arco celeste. Or, ciascun'altra

Cosa ch'in aria nasca in aria cresca

E tutto ciò che nelle nubi accolto

Si crea, tutto dich'io la neve i venti

E la grandine acerba e le gelate

Brine, e del ghiaccio la gran forza e 'l grande

Indurarsi dell'acqua e 'l fren che puote

Arrestar d'ogn'intorno a' fiumi il corso;

Tutte, ancor ch'io non le ti sponga, tutte

Tu per te non di meno agevolmente

E trovar queste cose e col pensiero

Veder potrai come formate e d'onde

Prodotte sian, mentre ben sappia innanzi

Qual natura convenga agli elementi.

Or via, da qual cagion tremi agitata

La terra, intendi. E pria suppor t'è d'uopo

Ch'ella, sì come è fuori, anco sia dentro

Piena di venti e di spelonche, e molti

Laghi e molte lagune in grembo porti,

E balze e rupi alpestri e dirupati

Sassi e che molti ancor fiumi nascosti

Sotto il gran tergo suo volgano a forza

E flutti ondosi e in lor sassi sommersi:

Chè ben par che richiegga il fatto stesso,

Ch'essere il terren globo a sè simile

Debba in ogni sua parte. Or, ciò supposto,

Trema il suol per di fuori entro commosso

Da gran ruine; allor che 'l tempo edace

Smisurate spelonche in terra cava:

Con ciò sia che cader montagne intere

Sogliono, ond'ampiamente in varie parti

Tosto con fiero crollo tremor serpe:

Ed a ragion; chè da girevol plaustri

Scossi lungo le vie gli alti edifici

Treman per non gran peso e nulla manco

Saltano ovunque i carri a forza tratti

Da feroci cavai fan delle ruote

Quinci e quindi trottar gli orbi ferrati.

Succede ancor che vacillante il suolo

Sia dagli urti dell'onde orribilmente

Squassato, allor che d'acque in ampio e vasto

Lago per troppa età dall'imo svelta

Rotola immensa zolla; in quella stessa

Guisa che fermo star non puote un vaso

In terra, se l'umor prima non resta

D'esser commosso entro il dubbioso flutto.

In oltre: allor che d'una parte il vento

Ne' cavi chiostri sotterranei accolto

Stendesi e furïoso e ribellante

Preme con gran vigor l'alte spelonche,

Tosto là 've di lui l'impeto incalza

Scosso è 'l van della grotta, e sopra terra

Tremano allor gli alti edifici, e, quanto

Più sublime ognun d'essi al ciel s'estolle,

Tanto inchinato più verso la stessa

Parte sospinto di cader minaccia,

E scommessa ogni trave altrui sovrasta

Già pronta a rovinar. Temon le genti

Sì che dell'ampio mondo al vasto corpo

Credon ch'omai vicino alcun fatale

Tempo sia che 'l dissolva e tutto il torni

Nel caos cieco, una sì fatta mole

Veggendo sovrastar. Chè se il respiro

Fosse al vento intercetto, alcuna cosa

No 'l potria ritener nè dall'estremo

Precipizio ritrar quando vi corre:

Ma, perch'egli all'incontro eternamente

Or respira or rinforza e quasi avvolto

Riede e cede respinto, indi più spesso,

Ch'in ver non fa, di ruinar minaccia

La terra; con ciò sia ch'ella si piega

E 'ndietro si riversa, e dal gran pondo

Tutta nel seggio suo tosto ritorna.

Or quindi è ch'ogni macchina vacilla,

Più che nel mezzo al sommo, e più nel mezzo

Ch'all'imo, ove un tal poco a pena è mossa.

Ecci ancor del medesimo tremore

Quest'altra causa; allor ch'irato il vento

Subito e del vapor chiuso un'estrema

Forza, o di fuori insorta o dalla stessa

Terra, negli antri suoi penetra, e quivi

Pria per l'ampie spelonche in suon tremendo

Mormora, e, quando poi portato è 'n volta

Il robusto vigor, fuor agitato

Se n'esce con grand'impeto, e fendendo

L'alto sen della terra in lei produrre

Suol profonda caverna. Il che successe

In Sidonia di Tiro e nell'antica

Ega di Acaia. Or quai cittadi abbatte

Questo di vapor chiuso esito orrendo

E 'l quindi insorto terremoto? In oltre

Molte ancor ruinâr muraglie in terra

Da' suoi moti abbattute, e molte in mare

Co' cittadini lor cittadi illustri

Caddero e si posâr dell'acque in fondo.

Chè se pur non prorompe, al men la stessa

Forza del chiuso spirto e 'l fiero crollo

Del vento, quasi orror, tosto si sparge

Pe' folti pori della terra, e quindi

Con non lieve tremor la scuote; a punto

Come quando per l'ossa un freddo gelo

Mal nostro grado ne commuove e sforza

A tremare e riscuoterci. Con dubbio

Terror dunque paventa il folle volgo

Per le città: teme di sopra i tetti;

Di sotto, che natura apra repente

Le terrestri caverne, e l'ampia gola

Distratta spanda e in un confusa e mista

Delle proprie ruine empier la voglia.

Quindi; ancor che si creda essere eterna

La terra e 'l ciel; più non di men commosso

Da sì grave periglio, avvien tal ora

Ch'ei non so da qual parte un tale occulto

Stimolo tragga di paura, ond'egli

Vien costretto a temer che sotto i piedi

Non gli manchi la terra e voli ratta

Pel vano immenso e già sossopra il tutto

Si volga e caggia a precipizio il mondo.

Or cantar ne convien perchè non cresca

Il mare. E pria molto stupisce il volgo

Che maggior la natura unqua no 'l renda,

Ove scorron tant'acque, u' d'ogn'intorno

Scende ogni fiume. Aggiunger dèi le piogge

Vaganti e le volubili tempeste,

Che tutto il mar tutta irrigar la terra

Sogliono; aggiunger puoi le fonti: e pure

Fia 'l tutto a gran fatica appo l'immenso

Pelago in aggrandirlo una sol goccia.

Stupor dunque non è che 'l mar non cresca.

In oltre: di continuo il sol ne rade

Gran parte. Chè asciugar l'umide vesti

Con gli ardenti suoi raggi il sol si scorge:

Ma di pelago stese in ogni clima

Vegghiam campagne smisurate: e quindi,

Ben che da ciascun luogo il sol delibi

D'umor quanto vuoi poco, in sì gran tratto

Forz'è pur ch'ampiamente involi all'onde.

Arrogi a ciò, ch'una gran parte i venti

Ponno in alto levarne, allor che l'onda

Sferzan del mar; poichè ben spesso in una

Notte le vie vegghiam seccarsi e 'l molle

Fango apprendersi tutto in dure croste.

In oltre: io sopra t'insegnai che molto

Ergon anche d'umor l'aeree nubi

Da lor del vasto pelago concetto

E di tutto quest'ampio orbe terrestre

Spargonlo in ogni parte allor ch'in terra

Piove e che seco il vento i nembi porta.

Al fin: perchè la terra è di sostanza

Porosa e cinge d'ogn'intorno il mare

Indissolubilmente a lui congiunta,

Dêe, sì come l'umor da terra scende

Nel mar, così dalle sals'onde in terra

Penetrar similmente e raddolcirsi:

Perch'egli a tutt'i sotterranei chiostri

Vien largamente compartito, e quivi

Lascia il salso veleno, e di nuov'anco

Sorge in più luoghi e tutto al fin s'aduna

De' fiumi al capo, e 'n bella schiera e dolce

Scorre sopra il terren per quella stessa

Via che per sè medesma aprirsi in prima

Poteo col molle piè l'onda stillante.

Or, qual sia la cagion che dalle fauci

D'Etna spirin tal or con sì gran turbo

Fuochi e fiamme, io dirò: che già non sorse

Questa di tetro ardor procella orrenda

Di mezzo a qualche strage, e le campagne

Di Sicilia inondando i convicini

Popoli sbigottiti a sè converse,

Quando, tutti del ciel veggendo i templi

Fumidi scintillar, s'empíano il petto

D'una cura sollecita e d'un fisso

Pensiero, onde temean ciò che natura

Macchinasse di nuovo a' danni nostri.

Dunque in cose siffatte a te conviene

Fissar gli occhi altamente, e d'ogn'intorno

Estender lungi in ampio giro il guardo;

Onde poi ti sovvenga esser profonda

La somma delle cose, e vegga quale

Picciolissima parte è d'essa un cielo,

E qual di tutto il terren globo un uomo.

Il che ben dichiarato e quasi posto

Innanzi agli occhi tuoi, se ben tu 'l miri

E 'l vedi, cesserai senz'alcun dubbio

D'ammirar molte cose. E chi di noi

Stupisce, se alcun v'ha che nelle membra

Nata da fervor caldo ardente febbre

Senta o pur qualsivoglia altro dolore

Da morbo cagionatogli? non torpe

All'improvviso un piè? spesso un acerbo

Dolore i denti non occupa, e gli occhi

Stessi penètra? Il sacro fuoco insorge,

E scorrendo pel corpo arde qualunque

Parte n'assalse, e per le membra serpe.

E questo avvien, perchè di molte e molte

Cose il vano infinito in sè contiene

I semi, e questa terra e questo stesso

Ciel ne porta abbastanza, onde ne' corpi

Crescer possa il vigor d'immenso morbo.

Tal dunque a tutto il cielo a tutto il nostro

Globo creder si dee che l'infinito

Somministri abbastanza, onde repente

Agitata tremar possa la terra,

E per l'ampio suo dorso e sovra l'onde

Scorrer rapido turbine, eruttare

Foco l'etnea montagna, e fiammeggiante

Mirarsi il ciel; chè ciò ben anco avviene

Spesso, e gli eterei templi arder fûr visti,

Qual di pioggia o di grandine sonante

Torbido nembo atra tempesta insorge

Là 've da fiero turbo i genitali

Semi dell'acque trasportati a caso

Insieme s'adunâr. — Ma troppo immane

È 'l fosco ardor di quell'incendio. — Un fiume

Anco, che in ver non è, par non di meno

Smisurato a colui ch'alcuno innanzi

Maggior mai non ne vide, e smisurato

Sembra un albero un uomo; e in ogni specie,

Tutto ciò che ciascun vede più grande

Dell'altre cose a lui simili, il finge

Immane, ancor che sia col mar profondo

Con la terra e col cielo appo l'immensa

Somma d'ogni altra somma un punto un nulla.

Or, come dalle vaste etnee fornaci

D'improvviso irritata in aria spiri

Non di men quella fiamma, io vo' narrarti.

Pria: tutto è pien di sotterranei e cavi

Antri sassosi il monte: e in ognun d'essi

Chiuso senz'alcun dubbio è vento ed aria;

Chè nasce il vento ov'agitata è l'aria.

Questo; poi ch'infiammossi, e tutto intorno

Ovunqu'ei tocca, infurïato i sassi

Scalda e la terra, e con veloci fiamme

Ne scuote il caldo foco; ergesi in alto

Rapido, e quindi fuor scaccia dal centro

Per le rette sue fauci e lungi sparge

L'incendioso ardore, e vie più lungi

Seco ne porta le faville e volge

Fra caligine densa il cieco fumo,

E pietre insieme di mirabil peso

Lancia; sì che dubbiar non dèi che questo

Non sia di vento impetuoso un soffio.

In oltre: il mar della montagna all'ime

Radici i flutti suoi frange in gran parte

E 'l bollor ne risorbe. Or fin da questo

Mar per vie sotterranee all'alte fauci

Del monte arrivan gli antri. Indi è mestiero

Dir che l'acque penètrino, e ch'insieme

S'avvolgan tutte in chiuso luogo e fuori

Spirino, e quindi a forza ergan le fiamme

E lancin sassi in alto e sin dal fondo

Alzin nembi d'arena. In simil guisa

Son dall'alta montagna al sommo giogo

Ampie cratère, orribili spiragli:

Così pria nominâr l'atre fessure

Che fûr da noi fauci chiamate e bocche.

Con ciò sia che nel mondo alcune cose

Trovansi, delle quali addur non basta

Una sola cagion ma molte, ond'una

Non di men sia la vera (in quella stessa

Guisa che, se da lungi un corpo esangue

Scorgi d'un uom, che tu n'adduca è forza

Di sua morte ogni causa, acciò compresa

Sia quell'una fra lor; chè nè di ferro

Troverai ch'e' perisse o di tropp'aspro

Freddo o di morbo o di velen, ma solo

Potrai dir ch'una cosa di tal sorta

L'ancise: il contar poi qual ella fosse

Tocca de' curïosi spettatori

Al volgo); or così dunque a me conviene

Far di molt'altre cose il somigliante.

Cresce il Nilo l'estate, unico fiume

Di tutto Egitto, e dalle proprie sponde

Fuor trabocca ne' campi. Irriga spesso

Questi l'Egitto, allor che 'l sirio cane

Di focosi latrati il mondo avvampa;

O perchè sono alle sue bocche opposti

D'estate i venti aquilonari, a punto

Nel tempo stesso che gli etesii fiati

Soffiando lo ritardano, e, premendo

L'onde e forte incalzandole di sopra,

Gonfianle e le costringono a star ferme.

Chè scorron senza dubbio al Nilo incontra

L'etesie; con ciò sia che dall'algenti

Stelle spiran del polo, ove quel fiume

Fuor del torrido clima esce dall'austro

Fra' neri Etiopi e dal calore arsicci.

Indi dal mezzodì sorgendo a punto

Può di rena ammassata anco un gran monte

Ai flutti avverso di quel vasto fiume

Oppilar le sue bocche, allor che 'l mare

Agitato da' venti entro vi spinge

L'arena; onde avvien poi che 'l fiume stesso

Men libera l'uscita e men proclive

Abbia dell'onde sue l'impeto e 'l corso.

Esser forse anco può che, più ch'in altro

Tempo, verso il suo fonte acque abbondanti

Piovano allor che degli etesii venti

Il soffio aquilonar tutti imprigiona

I nembi in quelle parti, e ben cacciate

Vêr mezzodì le nubi e quivi accolte

E spinte alle montagne insieme al fine

S'urtano e si condensano e si premono.

Forse e dell'Etïopia i monti eccelsi

Fanno il Nilo abbondar, quando ne' campi

Scendon le bianche nevi, a ciò costrette

Da' tabifici rai del sol che cinge

Il tutto, il tutto alluma, il tutto scalda.

Or via: cantar conviemmi i luoghi e i laghi

Averni, e qual natura abbiano in loro

Brevemente narrarti. In prima, adunque;

Ch'e' si chiamino Averni, il nome è tratto

Dalla lor qualità, poichè nemici

Sono a tutti gli augei; perch'ivi a pena

Giungon volando, che scordati affatto

Del vigor delle penne, in abbandono

Lascian le vele e qua e là dispersi

Ruinan con pieghevoli cervici

A precipizio in terra, e, se no 'l soffre

La natura del luogo e sotto steso

V'è qualche lago, in acqua. Un simil lago

È presso a Cuma assai vicino al monte

Vesuvio, ove continuo esalan fumo

Piene di calde fonti atre paludi.

Ènne un d'Atene in su le mura in cima

Della rôcca di Palla, ove accostarsi

Non fûr viste già mai rauche cornici,

Non allor che di sangue intrisi e lordi

Fumano i sacri altari; e in così fatta

Guisa fuggendo van non le vendette

Dell'adirata dea, qual già de' Greci

Cantâr le trombe adulatrici e false,

Ma sol per sè medesma ivi produce

La natura del luogo un tale effetto.

Fama è ancor ch'in Soria si trovi un altro

Averno, ove non pur muoian gli augelli

Che sopra vi volâr, ma che non prima

V'abbian del proprio piè segnate l'orme

Gli animali quadrupedi ch'a terra

Sian forzati a cader, non altrimenti

Che se agl'inferni dèi repente offerti

Fossero in sacrificio. E tutto questo

Pende da cause naturali, e noto

N'è il lor principio: acciò tu forse, o Memmo,

Dell'Orco ivi più tosto esser non creda

La spaventevol porta, e quindi avvisi

Che nel cieco Acheronte i numi inferni

Per sotterranee vie conducan l'alme;

Qual fama è che sovente i cervi snelli

Conducan fuor delle lor tane i serpi

Col fiato delle nari. Il che dal vero

Quanto sia lungi, ascolta: io vengo al fatto.

Pria torno a dir quel che sovente innanzi

Io dissi; e questo è, che figure in terra

Trovansi d'ogni sorta atte a produrre

Le cose; e che di lor molte salubri

Sono all'uomo e vitali, et anco molte

Atte a renderlo infermo e dargli morte.

E che meglio nutrir ponno i viventi

Questi semi che quei, già s'è dimostro

Per la varia natura e pe' diversi

Congiungimenti insieme e per le prime

Forme fra lor difformi: altre inimiche

Son dell'uomo all'orecchie, altre alle nari

Stesse contrarie, e di malvagio senso

Altre al tatto altre all'occhio altre alla lingua.

In oltre: veder puoi quanto sian molte

Cose aspramente a' nostri sensi infeste,

Sporche gravi e noiose. In prima: a certi

Alberi diè natura una sì grave

Ombra, che generar dolori acerbi

Di capo suol, se sotto ad essi alcuno

Steso tra l'erbe molli incauto giacque.

È sul monte Elicona anco una pianta,

Che co 'l puzzo de' fior gli uomini uccide.

Poichè tutte da terra ergonsi al cielo

Tai cose, perchè misti in molti modi

Di lor molti principii in grembo asconde

La terra e separati a ciò che nasce

Distintamente li comparte. Il lume

Che di fresco sia spento, allor che offese

Ha col grave nidor l'acute nari,

Ivi ancor n'addormenta. E per lo grave

Castoreo addormentata il capo inchina

La donna sopra gli omeri e non sente

Che 'l suo bel lavorio di man le cade,

S'il fiuta allor che de' suoi mestrui abbonda.

E molte anco oltr'a ciò cose possenti

Trovansi a rilassar ne' corpi umani

L'illanguidite membra e nelle proprie

Sedi interne a turbar l'animo e l'alma.

Al fin: se tu ne' fervidi lavacri

Entrerai ben satollo e trattenerti

Vorrai nel soglio del liquor bollente,

Quanto agevol sarà ch'al vaso in mezzo

Tu caggia! E de' carbon l'alito grave

E l'acuta virtù quanto penétra

Facilmente al cervel! se pria bevuto

Non abbiam d'acqua un sorso, o se le fredde

Membra innanzi non copre il fido servo,

O se da' penetrabili suoi dardi

Con grato odor non ne difende il vino.

E non vedi tu ancor che nella stessa

Terra il solfo si genera, e che il tetro

Puzzolente bitume ivi s'accoglie?

Al fin: dove d'argento e d'òr le vene

Seguon, cercando dell'antica madre

Con curvo ferro il più riposto grembo;

Forse quai spiri allor puzzi maligni

La sotterranea cava, e che gran danno

Faccian col tetro odor gli aurei metalli,

Quai degli uomini i vólti e qua' de' vólti

Rendan tosto i color, non vedi? o forse

Non senti in quanto picciolo intervallo

Soglion tutti perir quei che dannati

Sono a forza a tal opra? Egli è mestiero

Dunque, che tai bollori agiti e volga

In sè la terra, e fuor gli spiri e sparga

Per gli aperti del ciel campi patenti.

Tal dênno anco agli augelli i luoghi averni

Tramandar la mortifera possanza,

Che spirando dal suol nell'aure molli

Sorge e 'l ciel di sè stessa infetto rende

Da qualche parte: ove non prima è giunto

L'augel che dal non visto alito grave

D'improvviso assalito il volo perde;

E tosto là, d'onde la terra indrizza

Il nocivo vapor, cade; e, caduto

Che v'è, quel rio velen da tutti i membri

Toglie del viver suo gli ultimi avanzi:

Poichè quasi a principio un tal fervore

Eccita, onde avvien poi che, già caduto

Ne' fonti stessi del velen, gli è forza

La vita affatto vomitarvi e l'alma,

Con ciò sia che di mal gran copia ha intorno.

Succede anco tal or, che questo stesso

Vïolento vapor de' luoghi averni

Tutto l'aere frapposto apra e discacci,

Sì che quindi agli augei sotto rimanga

Vòto quasi ogni spazio. Ond'ivi a pena

Giungon, che d'improvviso a ciascun d'essi

Zoppica delle penne il vano sforzo

E 'l dibatter dell'ali è tutto indarno.

Or qui, poichè gli è tolto ogni vigore

Dell'ali e sostenersi omai non ponno,

Tosto dal natio peso a forza tratti

Caggiono in terra a precipizio, e tutti

Qua e là per lo vôto omai giacendo

Da' meati del corpo esalan l'alma.

Freddo è poi nell'estate entro i profondi

Pozzi l'umor, perchè la terra allora

Pel caldo inaridisce e, s'alcun seme

Tiene in sè di vapor, tosto il tramanda

Nell'aure: or, quanto il sol dunqu'è più caldo,

Tanto il liquido umor ch'in terra è chiuso

Più gelato divien. Ma, quando il nostro

Globo preso è dal freddo e si condensa

E quasi in un s'accoglie, è d'uopo al certo

Ch'egli allor, nel ristringersi, ne' pozzi

Sprema se caldo alcun cela in se stesso.

Fama è ch'un fonte sia non lungi al tempio

D'Ammon, che nella luce alma del giorno

L'acque abbia fredde e le riscaldi a notte.

Tal fonte è per miracolo additato

Da quegli abitatori: e 'l volgo crede

Che dal sol vïolento entro commosso

Per sotterranee vie rapidamente

Ferva, tosto che 'l cieco aere notturno

Di caligine orrenda il mondo copre.

Il che troppo dal ver lungi si scosta:

Posciachè; se, trattando il nudo corpo

Dell'acqua, il sol dalla superna parte

Non può punto scaldarlo, allor che vibra

Pien d'un tanto fervor l'etereo lume;

Dimmi, e come potria cuocer sotterra

Che di corpo è sì denso il freddo umore

E col caldo vapore accompagnarlo?

Massime quando a gran fatica ei puote

Con gli ardenti suoi rai de' nostri alberghi

Penetrar per le mura e riscaldarne?

Qual dunqu'è la cagion? Certo è mestiero

Ch'intorno a questo fonte assai più rara

Sia ch'altrove la terra, e che di fuoco

Molti vicini a lui semi nasconda.

E quinci avvien che non sì tosto irriga

La notte d'ombre rugiadose il cielo,

Che 'l terren per di sotto incontinente

Divien freddo e s'unisce: indi succede

Che, quasi ei fosse con le man compresso,

Imprimer può tal foco entro a quel fonte,

Che 'l suo tatto e 'l saper fervido renda.

Quindi; tosto che 'l sol cinto di raggi

Nasce, e smuove la terra e rarefatta

Col suo caldo vapor l'agita e mesce;

Tornan di nuovo nell'antiche sedi

Del fuoco i corpi genitali, e in terra

Dell'acque il caldo si ritira: e quindi

Fredda il giorno divien l'acqua del fonte.

In oltre: il molle umor da' rai del sole

Forte è commosso e nel diurno lume

Dal suo tremolo foco è rarefatto:

E quinci avvien che, quanti egli d'ardore

Semi in grembo ascondea, tutti abbandoni;

Qual sovente anch'il gel che in sè contiene

Lascia e 'l ghiaccio dissolve e i nodi allenta.

Freddo ancora è quel fonte, ove posata

La stoppa, in un balen concetto il foco,

Vibra splendide fiamme a sè d'intorno,

E le pingui facelle anch'esse accese

Dalla stessa cagion per l'onde a nuoto

Corron dovunque le sospinge il vento.

Perchè nell'acque sue molti principii

Son certamente di vapore, e forza

È che da quella terra in sin dal fondo

Sorgan per tutto il fonte e spirin fuori

Nell'aure uscendo delle fiamme i semi;

Non sì vivi però, che riscaldare

Possan nel moto lor l'acque del fonte.

In oltre: un cotal impeto gli astringe

Sparsi a salir rapidamente in aria

Per l'acque e quivi unirsi. In quella stessa

Guisa che d'acqua dolce in mare un fonte

Spira, che scaturisce e a sè d'intorno

Le salse onde rimuove. Anzi; in molt'altri

Paesi il vasto pelago opportuno

Ai nocchier sitibondi util comparte,

Dolci dal salso gorgo acque esalando.

Tal dunque uscir da quella fonte ponno

Que' semi e insinuarsi entro alla stoppa;

Ove poi che s'uniscono e nel legno

Penetran delle faci, agevolmente

Ardon, perchè le faci anco e la stoppa

Molti semi di fuoco in sè nascondono.

Forse non vedi tu che, se a' notturni

Lumi di fresco spenta una lucerna

S'accosta, ella in un súbito s'accende

Pria che giunga alla fiamma? E nella stessa

Guisa arder soglion le facelle; e molte

Cose, oltre a ciò, dal vapor caldo a pena

Tocche, pria da lontan splendono accese

Che l'empia il foco da vicino. Or questo

Stesso creder si dee che in quella fonte

Anco all'aride faci accader possa.

Nel resto, io prendo a dir qual di natura

Scambievole amistade opri che questa

Pietra che i Greci con paterna voce

Già magnète appellâr, perch'ella nacque

Ne' confin di Magnesia, e 'n lingua tósca

Calamita vien detta, allettar possa

Il ferro e a sè tirarlo. Or questa pietra

Ammirata è da noi, perch'ella forma

Spesso di vari anelli una catena

Da lei pendente. E ben tal or ne lice

Cinque vederne e più, con ordin certo

Disposti, esser da lieve aura agitati,

Qual or questo da quello a lei di sotto

Congiunto pende e quel da questo i lacci

Riconosce e 'l vigor del nobil sasso:

Tanto la forza sua penetra e vale!

Ma d'uopo è che in materie di tal sorta,

Pria che di ciò che si propose alcuna

Verisimil ragion possa assegnarsi,

Sian molte cause stabilite e ferme;

E per troppo intrigate e lunghe vie

Giungervi ne convien: tu dunque attente

Con desïoso cuor porgi l'orecchie.

Primieramente confessar n'è d'uopo,

Che di ciò che si vede alcuni corpi

Spirin continuo e sian vibrati intorno

I quai, gli occhi ferendo a noi, la vista

Sian atti a risvegliarne, e che da certe

Cose esalin perpetuo alcuni odori;

Qual dal sole il calor, da' fiumi il freddo,

Dal mare il flusso ed il reflusso edace

Dell'antiche muraglie a' lidi intorno;

Nè cessin mai di trasvolar per l'aure

Suoni diversi: e finalmente in bocca

Spesso di sapor salso un succo scende,

Quando al mar siam vicini; ed all'incontro,

Riguardando infelici il tetro assenzio,

Ne sentiam l'amarezza. In così fatta

Guisa da tutti i corpi il corpo esala

E per l'aere si sparge in ogni parte:

Nè mora o requie in esalando alcuna

Gli è concesso già mai, mentre ne lice

Continuo il senso esercitare, e tutte

Veder sempre le cose e sempre udire

Il suono ed odorar ciò che n'aggrada.

Or convien che di nuovo io ti ridica

Quanto raro e poroso abbiano il corpo

Tutte le cose di che 'l mondo è adorno:

Il che, se ben rammenti, anco è palese

Fin dal carme primier. Poichè, quantunque

Sia di ciò la notizia utile a molte

Cose, principalmente in questo stesso

Di ch'io m'accingo a ragionarti è d'uopo

Subito stabilir che nulla ai sensi

Esser può sottoposto altro che corpo

Misto col vôto. Pria dentro alle cave

Grotte sudan le selci, e distillanti

Gocce d'argenteo umor grondano i sassi:

Stilla in noi dalla cute il sudor molle;

Cresce al mento la barba, al capo il crine,

Il pelo in ogni membro: entro le vene

Si sparge il cibo e s'augumenta, e nutre,

Non che l'estreme parti, i denti e l'ungna.

Passar pe 'l rame similmente il freddo

Senti e 'l caldo vapor; senti passarlo

Per l'oro e per l'argento, allor ch'avvinci

Con man la coppa: e finalmente il suono

Vola per l'angustissime fessure

Di ben chiuso edificio: il gel dell'acque

Penetra e delle fiamme il tenue spirto

E de' corpi odorosi e de' fetenti

L'alito acuto: anzi del ferro stesso

Non curar la durezza e penetrarlo

Suol, là 've d'ogni intorno il corpo è cinto

Di fino usbergo, il contagioso morbo,

Ben che venga di fuori: e le tempeste

Insorte in terra e 'n ciel fuggon repente

Dalla terra e dal ciel: chè nulla al mondo

Può di non raro corpo esser contesto.

S'arroge a ciò, che non han tutti un senso

I corpi che vibrati esalan fuori

Da' sensibili oggetti, e che non tutte

Pôn le cose adattarsi a un modo stesso.

Primieramente; il sol ricuoce e sforza

La terra a inaridirsi; e pure il sole

Dissolve il ghiaccio, e l'altamente estrutte

Nevi co' raggi suoi su gli alti monti

Rende liquide e molli: al fin la cera

Esposta al suo vapor si strugge e manca.

Il fuoco similmente il rame solve

E l'oro e 'l fa flussibile, ma tragge

Le carni e 'l cuoio, e in un l'accoglie e stringe.

L'acqua il ferro e l'acciar tratto dal fuoco

Indura, e dal calor le carni e 'l cuoio

Indurato ammollisce. Alle barbute

Capre sì grato cibo è l'oleastro,

Che quasi asperso di nettareo succo

Par che stilli d'ambrosia; ove all'incontro

Nulla è per noi più di tal fronde amaro.

Timidi al fin l'amaraceno e tutti

Fuggon gli unguenti i setolosi porci,

Perchè spesso è per loro aspro veleno

Quel che col grato odor sembra che l'uomo

Tal or ricrei: ma pel contrario il fango,

A noi spiacevolissimo, agl'immondi

Porci è sì dilettevole, che tutti

Insazïabilmente in lui convolgonsi.

Rimane ancor da dichiararsi, innanzi

Che di ciò ch'io proposi io ti ragioni,

Che, avendo la natura a varie cose

Molti pori concesso, egli è pur forza

Ch'e' sian tra lor diversi e ch'abbian tutti

La lor propria natura e le lor vie.

Poichè son gli animai di vari sensi

Dotati, e ciascun d'essi in sè riceve

Il proprio obietto; chè  'l sapore altrove

Penètra, altrove il suon, l'odore altrove.

In oltre: insinuarsi altre ne' sassi

Cose veggiamo, altre nel legno ed altre

Passar per l'oro, e penetrar l'argento

Altre ed altre il cristal: poichè tu miri

Quinci scorrer la specie, ir quindi il caldo,

E per gli stessi luoghi un più d'un altro

Corpo rapidamente il varco aprirsi.

Chè certo a ciò la lor natura stessa

Gli sforza, varïando in molti modi

Le vie, qual poco innanzi io t'ho dimostro,

Per le forme difformi e per l'interne

Testure. Or; poi che stabilite e ferme

Tai cose e con buon ordine disposte,

Quasi certe premesse, a te palesi

Già sono, o Memmo, apparecchiate e pronte;

Nel resto agevolmente indi mi lice

La ragione assegnarti e la verace

Causa svelarti, onde l'erculea pietra

Con incognita forza il ferro tragga.

Pria: forz'è che tal pietra in aria esali

Fuor di sè molti corpi, onde un fervore

Nasca che tutta l'aria urti e discacci

Posta tra 'l ferro e lei. Tosto che vôto

Dunque comincia a divenir lo spazio

Predetto e molto luogo in mezzo resta,

D'uop'è che sdrucciolando i genitali

Semi del ferro entro a quel vano uniti

Caggian repente, e che lo stesso anello

Segua, e tutto così corra pel vôto.

Chè cos'altra non v'ha che da' suoi primi

Elementi connessa et implicata

Stia con lacci più forti insieme avvinta

Del freddo orror del duro ferro. E quindi

Meraviglia non è, se molti corpi

Dal ferro insorti per lo vano a volo

Non van, qual poco innanzi io t'ho dimostro,

Senza che 'l moto lor lo stesso anello

Non segua: il che fa certo, e 'l segue ratto,

Fin che giunga alla pietra e ad essa omai

Con catene invisibili s'attacchi.

Questo avvien similmente in ogni parte,

Onde vôto rimanga alcun frapposto

Spazio, che, o sia da' fianchi o sia di sopra

Tosto caggiono in lui tutti i vicini

Corpi; poich'agitati esternamente

Son da' colpi continui e per sè stessi

Forza non han da sormontar nell'aure.

S'arroge a ciò, per aiutarne il moto,

Che, tosto che da fronte al detto anello

L'aer più grave è divenuto e 'l luogo

Più vacuo, incontinente avvien che l'aria

Che dietro gli è quasi 'l promuova e spinga

Da tergo innanzi; poichè l'aer sempre

Tutto ciò che circonda intorno sferza.

Ma spinge il ferro allor, perchè lo spazio

Vôto è dall'un de' lati e può capirlo.

Questo, poi che del ferro alle minute

Parti s'è sottilmente insinuato,

Pe' suoi spessi meati innanzi 'l caccia,

Quasi vela e navilio ala di vento.

Al fin: tutte le cose entro il lor corpo,

Con ciò sia che 'l lor corpo è sempre raro,

Dènno aver d'aria qualche parte; e l'aria

Tutte l'abbraccia d'ogn'intorno e cinge.

Quindi è che l'aria che nel ferro è chiusa

Con sollecito moto esternamente

È mai sempre agitata; e però sferza

Dentro e muove l'anello, e vêr la stessa

Parte ove già precipitò una volta

E nel van, presa forza, indrizza il corso.

Si scosta ancor dal detto sasso e fugge

Tal volta il ferro, et a vicenda amico

Il segue e le s'appressa. Io stesso ho visto

Entro a' vasi di rame a' quai supposta

Sia calamita saltellar gli anelli

Di Samotracia e i piccioli ramenti

Di ferro in un con essi ir furïando:

Sì par che di fuggir da questa pietra

Goda il ferro et esulti, ove interposto

Sia rame. E nasce allor discordia tanta,

Perchè, poi che nel ferro entra e l'aperte

Vie del rame il fervor tutte interchiude,

Indi a lui l'ondeggiar segue del sasso,

E, trovando già pieno ogni meato

Del ferro, omai non ha, com'avea innanzi,

Luogo ond'oltra varcar: dunque costretto

Vien nel moto ad urtar spesso e percuotere

Nelle ferree testure; e in simil guisa

Lungi da sè le spinge, e per lo rame

L'agita; e senza quel poi le risorbe.

Nè qui vogl'io che meraviglia alcuna

Tu prenda, che 'l fervor che sempre esala

Fuor di tal pietra a discacciar bastante

Non sia nel modo stesso anco altri corpi.

Poichè nel pondo lor parte affidati

Restano immoti, e tal è l'oro; e parte,

Perchè raro hanno il corpo e passa intatto

Il magnetico flutto, in alcun luogo

Scacciati esser non ponno, e di tal sorte

Par che sia 'l legno. Or la natura adunque

Del ferro in mezzo posta, allor che l'aria

Certi minimi corpi in sè riceve,

Spinta è da' fiumi del magnesio sasso.

Nè tai cose però sono alïene

Dall'altre in guisa tal, ch'io non ne possa

Molte contar ch'unitamente insieme

Si congiungono anch'esse. In prima io veggio

Con la sola calcina agglutinarsi

Le pietre e i sassi. Si congiunge insieme

Con la colla di toro il legno in guisa

Che l'interne sue vene assai più spesso

Soglion di propria imperfezione aprirsi

Che di punto allentar le commessure

I taurini lacci abbian possanza.

Con l'umor delle fonti il dolce succo

Del vin si mesce: il che non può la grave

Pece e l'olio leggier; ma piomba al fondo

Quella delle chiar'acque, e vi sormonta

Questo e galleggia. Il porporin colore

Dell'eritree conchiglie anch'ei sommerso

Cade: e pur questo stesso unqua non puote

Dall'amica sua lana esser disgiunto;

Non, se tu, per ridurla al suo natio

Candor, col flutto di Nettuno ogni arte

Ogni industria porrai; non, se lavarla

Voglia con tutte l'acque il mar profondo.

Al fin; con un tal glutine s'unisce

L'argento all'oro, e con lo stagno il rame

Si salda al rame. E quante omai ne lice

Altre cose trovar di questa sorta!

Che dunque? Nè tu d'uopo hai di sì lunghi

Rivolgimenti di parole, ed io

Perdo qui troppo tempo: onde sol resta,

Memmo, che tu dal poco apprenda il molto.

Quei corpi, ch'a vicenda han le testure

Tai che 'l cavo dell'uno al pien dell'altro

S'adatti insieme, uniti ottimamente

Stanno: ed anco esser può ch'abbian alcuni

Altri principii lor, quasi in anelli

Percurvi a foggia d'ami; e quindi accaggia

Ch'e' s'avvinchin l'un l'altro: il che succedere

Dêe, più ch'a nulla, a questa pietra e al ferro.

Or; qual sia la cagion che i fieri morbi

Reca, e d'onde repente a pena insorto

Possa il cieco velen d'orrida peste

Strage tanto mortifera all'umano

Germe inspirar, non ch'agli armenti e a' greggi,

Brevemente dirotti. In prima adunque

Sai che già t'insegnammo esser vitali

All'uom molti principii ed anco molti

Morbi a noi molti cagionarne e morte.

Questi, poi che volando a caso insorti

Forte il ciel conturbâr, rendono infetto

L'aere: e quindi vien poi tutto il veleno

Del morbo e del contagio; o per di fuori,

Come vengon le nuvole e le nebbie

Pel ciel cacciate dal soffiar de' venti;

O dalla stessa terra umida e marcia

Per piogge e soli intempestivi insorto

Spira e vola per l'aria e la corrompe.

Forse non vedi ancor tosto infermarsi

Per novità di clima e d'aria e d'acqua

Chi di lontan paese ove già visse

Giunge a' nostri confin? sol perchè molto

Vario è da questo il lor paterno cielo.

Poichè quanto crediam che differente

Sie dall'anglico ciel l'aria d'Egitto

Là 've l'artico polo è sempre occulto?

E quanto varïar stimi da Gade

Di Ponto il clima e dagli Etiopi adusti?

Con ciò sia che non pur fra sè diversi

Son que' quattro paesi e sottoposti

Ai quattro venti principali, ai quattro

Punti avversi del ciel; ma vari ancora

Gli uomini di color molto e di faccia

Hanno. E generalmente ogni nazione

Vive alle proprie infirmità soggetta.

Nasce in mezzo all'Egitto e lungo il fiume

Del Nilo un certo mal che lebbra è detto;

Nè più s'estende. In Atíde assaliti

Son dalle gotte i piè. Difetto e duolo

Soglion gli occhi patir dentro agli achivi

Confini; e ad altre membra ed altre parti

Altro luogo è nemico: il vario clima

Genera un tal effetto. E quindi avviene

Che, s'un cielo stranier turba e commuove

Sè stesso e l'aria a noi nemica ondeggia,

Serpe qual nebbia a poco a poco o fumo,

E tutto, ovunque passa agita e turba

L'aere e tutto il trasmuta, e finalmente

Giunto nel nostro ciel dentro il corrompe

Tutto e a sè l'assomiglia e stranio il rende.

Tosto dunque un tal morbo una tal nuova

Strage cade o nell'acque o nelle stesse

Biade penétra o in altri cibi e pasti

D'uomini e d'animali; o ancor sospeso

Resta nell'aria il suo veleno; e quindi,

Misto spirando e respirando il fiato,

Siam con l'aure vitali a ber costretti

Quei mortiferi semi: in simil guisa

Suol la peste sovente anco assalire

I buoi cornuti e le belanti greggie.

Nè monta s'in paese a noi nemico

Si vada e muti cielo, o se un corrotto

Aere spontaneamente a noi d'altronde

Se n' voli o qualche grave e inconsueto

Spirto che nel venir generi il morbo.

Una tal causa di contagio un tale

Mortifero bollor già le campagne

Ne' cecropi confin rese funeste,

Fe' diserte le vie, di cittadini

Spopolò la città. Poichè, venendo

Da' confin dell'Egitto ond'ebbe il primo

Origin suo, molto di cielo e molto

Valicato di mar, le genti al fine

Di Pandïone assalse. Indi appestati

Tutti a schiere morían. Primieramente

Essi avean d'un fervore acre infiammata

La testa e gli occhi rosseggianti e sparsi

Di sanguinosa luce. Entro le fauci

Colavan marcia; e da maligne e tetre

Ulcere intorno assediato e chiuso

Era il varco alla voce; e degli umani

Sensi e segreti interprete la lingua

D'atro sangue piovea, debilitata

Dal male, al moto grave, aspra a toccarsi.

Indi, poi che 'l mortifero veleno

Sceso era al petto per le fauci e giunto

All'affannato cuor, tutti i vitali

Claustri allor vacillavano. Un orrendo

Puzzo volgea fuor per la bocca il fiato,

Similissimo a quel che spira intorno

Da' corrotti cadaveri. Già tutte

Languian dell'alma e della mente affatto

L'abbattute potenze, e su la stessa

Soglia omai della morte il corpo infermo

Languiva anch'egli. Un'ansïosa angoscia

Del male intollerabile compagna

Era: e misto col fremito un lamento

Continuo e spesso un singhiozzar dirotto,

Notte e dì, senza requie, a ritirarsi

Sforzando i nervi e le convulse membra,

Sciogliea dal corpo i travagliati spirti,

Noia a noia aggiugnendo e duolo a duolo.

Nè di soverchio ardor fervide alcuno

Avea l'estime parti; anzi in toccarle

Tepide si sentian. Di quasi inuste

Ulcere rosseggiante era per tutto

L'infermo corpo; in quella guisa a punto

Che suole allor che per le membra il sacro

Fuoco si sparge. Ardean nel petto intanto

Divorate le viscere; una fiamma

Nello stomaco ardea quasi in accesa

Fornace; sì che non potean le membra

Fuor che la nudità, nulla soffrire,

Ben che tenue e leggiero. Al vento al freddo

Volontari esponeansi: altri di loro

Nell'onde algenti si lanciâr de' fiumi:

Molti precipitosi a bocca aperta

Si gettavan ne' pozzi. Era sì intensa

La sete che immergea gli aneli corpi

Insazïabilmente entro le fredde

Acque, che breve stilla all'arse fauci

Parean gli ampi torrenti. Alcuna requie

Non avea 'l mal: stanchi giacean gl'infermi:

Timida l'arte macaonia e mesta

Non s'ardia favellar. L'intere notti

Privi affatto di sonno i lumi ardenti

Stralunavan degli occhi. Ed altri molti

Davan segni di morte: era dell'alma

Perturbata la mente e sempre involta

Fra cordoglio e timor; rugoso il ciglio,

Severo il volto e furibondo; in oltre

Sollecite l'orecchie e d'un eterno

Rumore ingombre; il respirar frequente,

O grande e raro; d'un sudor gelato

Madido il collo e splendido; gli sputi

Tenui piccioli e salsi, e d'un colore

Simile al croco, e per l'arsicce e rauche

Fauci da grave tossa a pena eretti.

I nervi in oltre delle mani attrarsi

Solean, tremar gli articoli, e da' piedi

Salir pian piano all'altre membra un gelo,

Duro nunzio di morte: avean compresse

Fino all'estremo dì le nari, in punta

Tenue il naso ed aguzzo, occhi sfossati,

Cave tempie e contratte, e fredda ed aspra

Pelle ed orrido ceffo e tesa fronte.

Nè molto gìa, che da penosa e cruda

Morte oppressi giacean: la maggior parte

Perian l'ottavo dì, molti anche il nono

Esalavan lo spirto. E se alcun d'essi

V'era, chè v'era pur, che da sì fiero

Morbo scampasse, ei non di men, corroso

Da sozze piaghe e da soverchia e nera

Proluvie d'alvo estenuato, al fine

Tisico si moria. Con grave duolo

Di testa anco tal or putrido un sangue

Grondar solea dall'oppilate nari

In sì gran copia, che, prostrate e dome

Dell'infermo le forze, a dileguarsi

Quindi 'l corpo astringea. Chi poi del tetro

Sangue schifava il gran profluvio, ingombri

Tosto i nervi e gli articoli dal grave

Malor sentiasi e fin l'istesse parti

Genitali del corpo. Altri, temendo

Gravemente la morte, il viril sesso

Troncâr col ferro; altri restaro in vita

Privi de' piedi e delle mani, ed altri

Perdean degli occhi i dolci amati lumi:

Tale avean del morir tema e spavento.

E molti ancor della trascorsa etade

La memoria perdean, sì che sè stessi

Non potean più conoscere. E, giacendo

Qua e là di cadaveri insepolti

Smisurate cataste, i corvi i cani

I nibbi i lupi non per tanto e l'altre

Fiere belve ed uccelli o fuggian lungi

Per ischifarne il lezzo o, tocche a pena

Con l'affamato rostro o col digiuno

Dente le carni lor, tremanti al suolo

Cadeano anch'essi e vi languian morendo.

Nè però temerario alcun augello

Ivi il giorno apparia, nè delle selve

Nel notturno silenzio uscian le fere:

Languían di lor la maggior parte oppresse

Dal morbo e si morian. Principalmente

Steso in mezzo alle vie de' fidi cani

L'abbattuto vigor l'egra e dolente

Alma vi deponea; poichè 'l veleno

Contagioso del mal toglieali a forza

Dalle membra la vita. Erano a gara

Rapiti i vasti funerali e senza

L'usate pompe. Alcun rimedio certo

Più comun non v'avea. Quel ch'ad alcuno

Diede il volgersi in petto il vital spirto

Dell'aria e 'l vagheggiar del cielo i templi,

Ruina ad altri apparecchiava e morte.

Fra tanti e sì gran mali era il peggiore

D'ogni altro e 'l più crudele e miserando,

Ch'a pena il morbo gli assalía che tutti,

Quasi a morte dannati e privi affatto

D'ogni speranza, sbigottiti e mesti

Giaceansi; e, con pietoso occhio guardando

Degli altri i funerali, anch'essi in breve

Senz'aiuto aspettar nel luogo stesso

Giaceansi. E questo sol più che null'altro

Strage a strage aggiungea; chè 'l rio veleno

Dell'ingordo malor sempre acquistava

Nuove forze dagli egri, e sempre quindi

Nuova gente assalía. Poichè; chiunque;

Troppo di viver desïoso e troppo

Timido di morir fuggia gl'infermi,

Di visitar negando i suoi più cari

Amici, anzi sovente, empio, aborrendo

La madre il padre la consorte i figli;

Con morte infame, abbandonati e privi

D'ogni umano argomento, il fio dovuto

Pagavan poi di sì gran fallo, e quasi

Bestie a torme morian per poca cura.

Ma chi pronto accorrea per aiutarli

Periva o di contagio o di soverchia

Fatica, a cui di sottoporsi astretto

Era dalla vergogna e dalle voci

Lusinghiere degli egri e di lamenti

Queruli miste. Di tal morte adunque

Morian tutti i migliori. E, contrastando

Di seppellir negli altrui luoghi i propri

Lor morti, dalle lagrime e dal pianto

Tornavan stanchi a' loro alberghi: in letto

Quindi giacea la maggior parte oppressa

Da mestizia e dolor. Nè si potea

Trovare in tempo tale un che non fosse

Infermo o morto o in grave angoscia e in pianto.

In oltre; ogni pastore ogni guardiano

D'armenti e già con essi egri languieno

I nervuti bifolchi; e, nell'anguste

Lor capanne stivati e dall'orrenda

Mendicità più che dal morbo oppressi,

S'arrendean alla morte. Ivi mirarsi

Potean su i figli estinti i genitori

Cader privi di vita, ed all'incontro

Spesso de' cari pegni i corpi lassi

Sovra i padri e le madri esalar l'alma.

Nè di sì grave mal picciola parte

Concorse allor dalle vicine ville

Nella città: quivi il portò la copia

De' languidi villan, che vi convenne

D'ogni parte appestata. Era già pieno

Ogni luogo ogni albergo: onde, angustiati

Da sì fatte strettezze, ognor più cruda

La morte allor gli accumulava a monti.

Molti, da grave insopportabil sete

Aspramente abbattuti, il proprio corpo

Gían voltolando per le strade; e giunti

Alle bramate silani, ivi distesi

Giaceansi in abbandono, e con ingorde

Brame nel dolce umor bevean la morte.

E molte anco, oltr'a ciò, veduto avresti

Per le pubbliche vie miseramente

D'ogn'intorno perir languide membra

D'uomini semivivi, orride e sozze

Di funesto squallore, e ricoperte

Di vilissimi stracci, immonde e brutte

D'ogni lordura, e con l'arsiccia pelle

Secca su le nud'ossa e quasi affatto

Nelle sordide piaghe omai sepolta.

Tutti al fin degli dèi gli eccelsi templi

Eran pieni di morti, e d'ogn'intorno

Di cadaveri onusti: i lor custodi

Fatti in van per pietà d'ospiti infermi

Gli avean refugio. Degli eterni e santi

Numi la maestà la veneranda

Religïon quasi del tutto omai

s'era posta in non cale: il duol presente

Superava il timor. Più non v'avea

Luogo l'antica usanza onde quel pio

Popolo seppellir solennemente

Solea gli estinti: ognun confuso e mesto

S'avacciava all'impresa, e al suo consorte,

Come meglio potea, dava il sepolcro,

E molti ancor, da súbito accidente

E da terribil povertà costretti,

Fêr cose indegne: i consanguinei stessi

Ponean con alte e spaventose strida

Su i roghi altrui, vi supponean l'ardenti

Faci; e spesso fra lor gravi contese

Facean con molto sangue, anzi che privi

D'ufficio estremo abbandonare i corpi.

VARIE LEZIONI

 

LIBRO PRIMO.

 

v. 31.

. . . . . . . . . . . . . . . . non riede

v. 36.

Di natura e del ciel gli alti segreti

v. 62.

. . . . . . . . ognor si volga, e quali

Sian degli dèi l'essenze e delle cose;

v. 81.

Gli occhi mortali e le s'oppose il primo.

v. 92.

. . . . . . . . . . . . . . . . i chiusi e saldi

Chiostri e le porte di natura aprire.

v. 109.

L'ara a macchiar della gran dea triforme

v. 120.

Che prima al re titol di padre desse;

Che tolta dalla man de' suoi più cari

Fu condotta . . . . . . . . . . . . .

v. 127.

Nel tempo istesso di sposarsi offerta

A piè del genitore ostia dolente

v. 162.

Dell'immortale Omero essergli apparsa

L'immagine piangendo e di natura

A lui svelando i più riposti arcani.

v. 178.

. . . . . . . . de' Greci entro i latini

Versi l'oscure invenzioni; essendo

Massime di.mestier che di parole

Spesso nuove io mi serva, a ciò costretto.

Sì dalla lingua mia che della greca

Vie più scarsa è di voci e sì da quelle

Cose ch'io spiegar tento e che null'altro

Spiegò già mai nell'idïoma nostro.

v. 192.

Aprire innanzi . . . . . . . . . . .

v. 195.

Scuoter bisogna . . . . . . . . . . .

v. 215.

Non avrian di mestier: da tutte ognuna

Nascer potrebbe; e sorgere vedremmo

Uomini ed animai dal sen dell'acque,

Dal grembo della terra augelli e pesci

E dal vano dell'aria armenti e greggi

Con parto incerto: abiterian le belve

Tutte indistintamente e per l'amene

Campagne e per l'inculte erme foreste

v. 262.

Da certo seme e la sua specie intanto

Propugnando conserva: onde ben puossi

Chiaramente dedur che dalla propria

Materia ha cibo e divien grande il tutto.

v. 268.

Se ne' debiti tempi a fecondarla

Non cadesse la pioggia, e gli animali

Propagar non potrian privi di cibo

v. 344-45.

Che forza le percuota atta a disciorle.

v. 349.

Alla gran madre Terra in grembo versa

v. 351.

Ma sorgon quindi le lucenti biade,

Ne verdeggiano gli alberi e crescendo

Gravano i rami lor di dolci frutti.

v. 376.

Ascolta in oltre, ed a quei corpi attendi

Che tu medesmo a confessar costretto

Sei che pur son, ben che non puoi vedergli.

v. 386.

Tal or le selve annose in su gli eccelsi

Monti con soffio impetuoso svelle;

Tal con fiero e crudel mormore insorto

v. 395.

L'acqua d'alto cader . . . . . .

v. 414.

Nè i fervidi bollor nè i freddi pigri

Mirar si pòn nè le sonore voci;

E pur forz'è, che di tai cose ognuna

Corporea sia, poichè commuove il senso

v. 437.

Consumate che son, ma di potere

Scorger quai d'ora in or minime parti

Se ne vadan staccando invidïosa

La natura ne toglie. Al fin pupilla

Non v' ha che scorga, ancor che fissa, i corpi

Che il tempo e la natura a poco a poco

Danno alle cose che da lor costrette

A crescer son con certo modo e legge.

Nè quei che d'or in or perde chiunque

Langue per macie o per età vien meno,

Ne quei che rode con l'edace sale

Di giorno in giorno il mar dai duri scogli.

N'è chiaro dunque pur che la natura

Con invisibil corpo opera il tutto.

v. 450.

. . . . . . . ti fia; perchè tu meglio .intenda

Ciò ch'io ragiono, e senza dubbi, e senza

Sempre errando cercar quai le cagioni

Sian delle cose, interamente creda

Alle parole . . . . . . . . . . .

v. 454.

È dunque il vôto un intangibil spazio

In cui corpo non è; perchè, se tale

Non fosse, non potriansi in alcun modo

Mover le cose; già che a tutte in pronto

Saria sempre l'officio che de' corpi

È proprio, e questo è il contrastare al moto

De' corpi e l'impedirlo: ir dunque innanzi

Nulla al certo potria, mentre di cedere

Non darebbe il principio alcuna cosa.

v. 469

. . . . . . . . . . . . . .molte cose agli occhi

Paian solide in tutto, elle pur sono

Di porosa sostanza. Indi dell'acqua

Scorre il liquido umor per le spelonche.

v. 536 (è aggiunto).

Che sia cagion de' movimenti loro.

v. 663.

. . . . . . . . .provar che sia celato

Per entro alcuna cosa il vôto spazio,

Se per già noto io non suppongo ancora

v. 824.

Perchè, essendo di fragile natura,

Discord'egli è che sian rimasti illesi

Dopo un eterno tempo di percosse.

v. 906.

. . . . . . .che da lui . . . . . . . . . .

v. 940.

Scorrendo rapidissimo divide

v. 1164.

. . . . . . . . . . . . . . . la fiamma e '1 fumo.

v. 1184.

Le mamme fan delle lanose pecore;

v. 1418.

Ch'or son sotterra di poggiar in alto

Tentino e in ricader di nuovo in terra

Abbian posa e quiete, a punto come

v. 1423.

. . . . . . . . . . . . . . guisa anco di sotto

Si sforzan di provar che gli animali

Vaghino, e che da terra in vèr le parti

Del ciel più basse a ricader bastanti

Altrimenti non sian, che i corpi nostri.

 

LIBRO SECONDO.

 

v. 71.

Nè dell'oro il fulgor nè l'orgoglioso

Chiaro splendor delle purpuree vesti;

v. 135.

Senza fin senza modo intorno sparso

Profondissimamente in tratto immenso,

v. 619.

. . . . . . . . . . . . . . . .In somma tutte

Le cose che fuggirsi in un momento

Vedi e svanir, come le fiamme il fumo

Le nebbie e le caligini, se tutti

Non hanno i semi loro lisci e rotondi,

D'uopo è al men che ritorti e l'un con l'altro

Non gli abbiano intrigati; acciò sien atte

v. 1133.

Di vezzosa colomba orni e coroni

v. 1468.

Spazio infinito, l'animo ricerca

v. 1478.

Dunque pensar già non si dee che, essendo

Sparso a noi d'ogn'intorno un infinito

Spazio, nel quale in mille guise e mille

Numero innumerabile di semi

Profondi immensamente, irrequieti

 

LIBRO TERZO.

 

v. 34.

. . . . . . . . . . . . .ma sempre d'un sereno e puro

Etere cinte e d'un diffuso e chiaro

v. 40.

. . . e scritte di sua porta al sommo

L'acerbe note di colore oscuro:

Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.

v. 102.

Cibo e sostegno; chè la fama rea

E '1 disprezzo e lo scherno e la pungente

E sconcia povertà disgiunte affatto

Par che sian dalla dolce e stabil vita

E che sol della morte avanti all'uscio

Si vadan trattenendo: . . . . . .

v. 129.

L'origin prima, questa è che corrompe

v. 624.

Può di molli papaveri un acerbo

v. 630.

Di quegli onde si forma il chiaro e il liquido

Umor dell'acqua o pur la nebbia o il fumo;

v. 631.

O pur dal fumo: il che succede allora

Che noi sopiti in placida quiete

Veggiam per l'aere atri vapori e fumo

D'ogn'intorno esalar sublimi altari.

v. 638.

Impetuosa l'acqua e via se n' fugge,

E fumo e nebbia si dissolve in aura;

v. 916.

. . . . . . . . . . . . . .ed i poeti

Ne' secoli primieri. . . . . .

v. 1061.

E i luoghi ove abitar dènno esse stesse

Si vadan fabbricando o pur di fuori

v. 1174.

Che ancor l'alma perì distratta in esso.

v. 1269.

Spazio e contempli quanto varii e quanti

v. 1352.

Deggiamo a questi che vi sia d'amaro

Cotanto, se una cosa. . . . . .

v. 1369.

Con ciò sia che in tal guisa a noi pur lice

v. 1497.

Pascer sempre, oltre a ciò, l'animo ingrato

De' beni di natura, e mai contento

 

LIBRO QUARTO.

 

v. 347.

In oltre: se palpata una figura

Al buio si ravvisa esser la istessa

Vista nel lume e nel candor del giorno,

D' uop'è . . . . . . . . . . .

v. 371

. . . . . .e noi: sì questa allora

Trascorre pe' nostr' occhi, e quasi terge

v. 422.

Riflessa indietro a veder gli occhi torna.

v. 522.

. . . . . . impercettibili, ne sembra

Tornito l'edificio, ma non tale

Che differenza non vi sia fra quello

E gli edificii veramente tondi

E visti da vicin: per ciò non pare

Da lungi ancor ch'ei non sia tondo affatto.

v. 598.

Distese sotto vaste aeree piaggie

v. 748.

Rovini in tutto e al fin s'adegui al suolo;

v. 993.

Che fiedon gli occhi e fan vedersi intorno)

v. 1033.

Dolor gli dan, che più durargli a petto

v. 1060.

Parte che dalle cose ognor si staccano,

v. 1157.

Tanta è la loro agilitade e tanta

È la lor copia. O perchè . . . . .

v. 1358.

E un'altra vien ad esser per le membra

v. 1464.

L'occupa quasi con le fauci ingorde.

v. 1701.

Ferma, un'aura che lieve lo precorra

v. 1723.

E co' succhiati labbri umetta i baci;

 

LIBRO QUINTO.

 

v. 205.

Posciachè ragionevole per certo

Non sembra l'affermar . . . . . .

v. 253.

Il dir poi che gli dèi per util nostro

Vollero il mondo fabbricare, e ch'egli

Da noi per ciò dee commendarsi e credersi

Eterno ed immortale, e ch'empio e folle

Quinci sia chi presuma o in fatti o in detti

v. 279.

Giacque in fin che la prima delle cose

v. 312.

. . . . . . . . . . .cause e per li stessi

Movimenti del ciel. . . . . . . .

v. 315.

Per util nostro dagli dèi creato.

v. 336.

. . . . . . . . . . . .allor che tutti

Già di fronde e di fior s'ornano i campi,

v. 470.

. . . . . . . . . . . .la primiera fiamma:

v. 644.

Che un tempo anche l'umor fosse a vicenda

Dominatore, allor. . . . . . . . . . .

v. 834.

Così dunque la terra incontinente

Trasportata non fu quasi alïena

D'altronde, nè d'altronde all'aure impósta

Aliene da lei;

v. 992.

Si crei di sol; come da' monti d'Ida

v. 1019.

Scemarsi e divenir più brevi i lumi

v. 1057.

Tutto quasi nasconda a poco a poco

Quanto più presso a lui gira il suo cerchio

v. 1186.

Era la terra e ben per l'etra adulta.

v. 1240.

Molti ancor senza braccia . . . . .

v. 1250.

. . . . . . . . . al fin bramato

v. 1283.

La pacifica quiete .

v. 1304.

. . . . . . . anni, e allor bambino

v. 1320.

. . . . . . . . . . . . . . al fin bramato

v. 1344.

Volgean sotto a quei fiumi . . . . .

v. 1372.

Per lo cielo del sol . . . . . . .

v. 1429.

. . . . . . . . . . .tutti affidandosi

v. 1594.

. . . . . . . . . . . nitrir fra le cavalle

v. 1599.

. . . . . .ei della greggia . . . . . .

v. 1648.

Di beltà di vigor . . . . . . . .

v. 1798.

. . . . . . . . . . .i dolci eremi infetta.

v. 1729.

. . . . . . . . . . . .venerande e tale

Danno agli egri mortali alto spavento

v. 1733.

. . . . . .e a celebrarne i dì solenni;

v. 1796.

. . . . . .occulto a noi . . . . . . . .

v. 1805.

. . . . . .scorrendo con perpetuo tratto

v. 1807.

D'immensa età le smisurate forze.

v. 1821.

. . . . . . . . . .un sommo duce

In armata navale, ed allor quando

v. 1825.

non fa preghiere a' venti irati

Pauroso e non chiede aure seconde?

v. 1842.

Trovossi e . . . . . . . . . . .

v. 1843.

Allorchè sopra i monti . . . .

v. 1862.

. . . . . . . .rame che rappreso

Poscia al suolo splendea . . . . . .

 

LIBRO SESTO.

 

v. 52.,

Scuoter bisogna . . . . . . . .

v. 115.

Son nunzie all'uom . . . . . . . .

v. 252.

Vedi con la bipenne un tronco busto

v. 285.

Qual or che po' gran monti accumulate

Si stanno altre sopr'altre e le superne

v. 338.

. . . . . .altrui fe manifesto,

E come d'ogn'intorno egli si spanda

E voli in varie guise, e ciò sia caso

O di natura impulso, e per quai porte

v. 382.

Gole d'atro terrore . . . . . .

v. 400.

Oscurasser del sol . . . . . . . . . .

v. 479.

. . . . . .colpi. In simil guisa

Dunque accendersi . . . . . . . . .

v. 684.

Questi primieramente alcune picciole

v. 721.

L'aer sotto, di nembi orridi il copre.

v. 896.

Quindi, ancor che.l'uom creda esser eterno

v. 1105.

. . . . . . . . in terra, s'è pur tale

La natura del luogo, ovvero in acqua,

Se un lago ivi si estende. Un . . . .

v. 1276.

Spremer può tanto foto entro a quel fonte,

v. 1314.

Tal dunque uscir di quella fonte fuori

Denno, u' poichè s'uniscono e nel legno

Penetrano delle faci anco, e la stoppa

Molti semi di fuoco in sè nasconde.

v. 1430.

Fugge gli unguenti il setoloso porco,

v. 1431.

. . . . . . . . . . per lui aspro veleno

v. 1445.

Il suo proprio sensibile; chè altrove

Le qualità tangibili, i sapori

Altrove, il lume, i simolacri altrove

(Il suo proprio sensibile, chè altrove

De' succhi penetrar vedi il sapore,

Altrove il suono e ancor l'odore altrove).

v. 1506.

Com'il vento nel mar naviglio e vela.

v. 1563.

. . . . . . . . . . ma quella al fondo

Piomba delle chiar'acque, e vi . . . .

v. 1586.

E curvi . . . . . . . . . . . . . . .

Curvati . . . . . . . . . . . . . . .

v. 1697.

. . . . . . Ardea nel petto intanto

Divorante le viscere una fiamma:

Nello stomaco ardea quasi un'accesa

Fornace . . . . . . .

v. 1707.

. . . . . . . . . .gli aridi corpi

LA SCIENZA DI LUCREZIO

 

Nel Poema della Natura[10] la Fisica vale di fondamento alla religione ed alla Morale. È forza giudicarla.

Ad esser giusti con Lucrezio, bisogna riflettere che il suo poema è il più antico monumento della scienza a Roma. Prima dl lui si possono citare appena due o tre autori che abbiano scritto di Fisica; i più hanno tradotto aridamente alcuni libri di Epicuro. Del resto i Romani non coltivarono mai le scienze per sè stesse, e se talora le riguardarono come una materia d'erudizione, non pensarono mai a fare indagini e scoperte. Se ne levi le Questioni naturali di Seneca, ove t'abbatti in idee che sembrano originali e che forse son prese dalla Grecia, tutti gli autori latini, i quali hanno scritto di scienza non sono che compilatori o semplici traduttori. Alcuni toccarono dell'inettitudine letteraria dei Romani, i quali, senza lo studio e l'imitazione degli esemplari greci, non avrebbero avuto letteratura; ma ancor più manifesta è la loro inettitudine scientifica. Questo popolo di agricoltori e soldati, stimava poco, come è noto, le pure speculazioni dello spirito, ed in matematiche, per esempio, studiava soltanto quello ch'era necessario per l'agrimensura, la castrametazione, l'architettura, oppure per l'astrologia giudiziaria. Un fatto riferito da Plinio mostra qual fosse l'ignoranza dei Romani nelle scienze esatte in un tempo non lontano da quello in cui visse Lucrezio. Sebbene i greci avessero dei quadranti solari da quasi tre secoli, i Romani n'ebbero conoscenza solo al tempo della prima guerra punica. Fino allora avevano senza più tre divisioni del giorno; il levar del sole, il suo tramonto e il suo passaggio al meridiano, passaggio che si determinava alla grossa così. Avevan notato che quando il sole era al suo più alto punto, appariva tra due edifici vicini alla Curia. Tutti i giorni un ufficiale dei Consoli aveva il carico di osservare e proclamare ad alta voce questa comparsa. Si aveva così l'ora del mezzogiorno. Più innanzi, l'anno 262 avanti l'era nostra, si trasportò a Roma un quadrante trovato a Catania. Sebbene non fosse esatto a gran pezza, non essendo regolato sopra il meridiano di Roma, se ne servirono per un secolo poco comodamente. In molte case v'era uno schiavo chiamato horarius, il cui unico impiego era di correre di tempo in tempo al Foro, ov'era posto il quadrante, e di tornare a dar l'ora a' suoi padroni. Si andava a prender l'ora come si va a prender l'acqua alla fonte. E se il cielo era annuvolato non si poteva averla. Solo l'anno in cu morì Terenzio, quasi un mezzo secolo avanti alla nascita di Lucrezio, s'introdusse a Roma la prima clepsidra.

Nè meglio si coltivavano le scienze fisiche e naturali. E pure i Romani, più di qualunque altro popolo, avrebbero potuto fare molte e svariate osservazioni sulla natura L'estensione delle conquiste, le spedizioni lontane davano loro il modo di comparare i fenomeni dei più diversi climi, e se l'amore della scienza non fosse stato soffocato in loro dallo spirito militare, avrebbero, a lungo andare, potuto comporre il più ampio repertorio di cognizioni utili e preziose. Ma i pretori e i proconsoli letterati che governavano le provincie lontane, si contentavano di mandare a Roma migliaia d'animali rari per i bisogni e i piaceri del circo, senza darsi pensiero di fare indagini o collezioni, e i Romani assistevano a queste immense ecatombe senza che si sia trovato mai fra loro un naturalista, che abbia avuto l'idea di descrivere questi animali, di osservare le loro abitudini, e di valersi d'un'occasione tanto straordinaria e sì propizia ai progressi del sapere.

Un greco, Alessandro Magno, avea inteso meglio quai doveri avesse un conquistatore. Non bastò alla sua ambizione, non meno generosa che insaziabile, di sottoporre il mondo alle sue armi; volle sottoporre anche la natura alla scienza. Quando gli fu aperto l'impero dei Persiani, fece padrone il suo maestro Aristotile di valersi di somme immense, e di comandare a migliaja d'uomini in Grecia ed in Asia, cacciatori, uccellatori, pescatori, i quali dovevano inviare al filosofo le specie dei più rari animali e le più curiose osservazioni «perchè nulla di quanto ha vita gli restasse ignoto.» Per una combinazione felicissima, combinazione unica nella storia, avvenne che un'anima regia, tanto valorosa da conquistare il mondo, fosse al medesimo tratto tanto sublime da volere che fosse esplorato, e che inoltre egli avesse per raccogliere tanti tesori il genio più vasto, più universale, il più capace di abbracciare tutta la natura. Dei cinquanta volumi composti da Aristotile sopra gli animali, uno solo è in piè, e di tal precisione, che gli scienziati moderni ne hanno stupore.

Noto l'inettitudine scientifica dei Romani, di tanto inferiori ai Greci, per far meglio spiccare il merito di Lucrezio, il quale, dei primi a Roma, s'è occupato intorno a queste materie difficili, e sebbene, a dir vero, non mostrasse maggiore originalità che i suoi concittadini, seppe almeno esporre nella sua lingua, con precisione pari allo splendore, la fisica di una grande scuola. Anche s'intende meglio come il poeta fosse entusiasta del suo maestro, ed ammirasse senza riserva e senza critica dei paradossi che, nella sua semplicità romana, ei doveva credere il sommo della scienza.

Fino al cominciare di questo secolo non si conosceva come Lucrezio avesse tradotto Epicuro, o almeno mancava il modo di comparare la traduzione con l'originale. Le notizie del filosofo greco non si potevan trarre che da Lucrezio, da Diogene Laerzio, il quale riferì soprattutto compiacentemente la vita e le massime morali di quel saggio, e da Cicerone, al quale non si può credere a chius'occhi, perchè si reca a debito di screditare e punzecchiar d'epigrammi la dottrina della voluttà. Ma tutte queste notizie sparse non mostravano come Lucrezio avesse reso il pensiero del maestro, in che avesse rimutato la dottrina di lui, nè per quali studj l'avesse adattata al genio della lingua latina e alle richieste della poesia. Questo giudizio potè meglio farsi quando nel 1809, si scoperse, negli scavi d'Ercolano, un libro d'Epicuro sulla Fisica, del quale si lessero e decifrarono parecchi frammenti. Pertanto noi possiamo studiare da noi stessi e vedere coi nostri occhi la fedeltà dell'interprete. Le idee contenute in quasi tutti questi frammenti si ritrovano qua e là nel Poema della Natura e talvolta nello stesso ordine. È il vero che i versi del poeta non sono sempre una semplice traduzione. Epicuro, come ognun sa, è arido e breve, abborre da tutti i lenocinj del dire e così per lo stile come per la regola della vita, estimava che la perfezione consistesse nell'astinenza. Di chè Lucrezio è costretto a non dare tale e quale la parola del maestro; egli s'attiene scrupolosamente al suo pensiero, ma lo allunga, lo parafrasa per renderlo intelligibile. Nella maggior parte de' passi che dan luogo a riscontri, si vede ch'egli è esattamente letterale, che mostra temere di valersi di tutti i suoi diritti, che la sola libertà ch'ei prenda è quella di fondere un commentario nella traduzione, studiandosi di spiegare, ma astenendosi dall'abbellir e soverchiamente la concisa aridità del maestro. Se Lucrezio è talora arido, lo fu in prova. Adesso, quando leggiamo quei versi vigorosi e ricchi, ma spenti e privi di-grazia nelle parti più dogmatiche del poema, noi non ci figuriamo la fatica ch'egli dee avervi spesa. Avvezzi alla facile testura, alla bella scelta delle parole, all'arte delicata di Virgilio, la ruvida inesperienza del vecchio poeta ci offende. Noi vorremmo che questi versi didattici fossero più armoniosi e più forbiti, e non pensiamo che era già molto averli fatti chiari e precisi. Bisognava creare la lingua della scienza. Questo fu il compito del poeta, tanto più difficile in quanto egli aveva a-combattere contro gli ostacoli della versificazione. Se il massimo oratore romano potè vantarsi a buona equità di aver trovato vocaboli latini e nuove espressioni per le idee della filosofia greca, ed arricchito la lingua nazionale, Lucrezio dee partecipare con lui a questo onore.

Si potrebbe far il quesito come a Lucrezio, settatore sì fedele di Epicuro, sia venuto in animo di comporre un poema, quando il suo maestro faceva professione di spregiare la poesia e trascorreva a dire «che era mestieri costringere i giovani a passar oltre, a fuggirla, turando loro le orecchie con cera, come fece Ulisse a' suoi compagni[11].» Epicuro scacciava i poeti perchè eran gli autori della Favola, gli araldi incantatori della superstizione. Ma Lucrezio stimava di certo che la poesia è legittima, quando si fa servire all'epicureismo, e ch'è lecito secondo egli dice, di aspergere di miele l'orlo del vaso che contiene il vero:

Musæo contingens cuncta lepore.

Così tra noi certe sette religiose, dannano la forma del romanzo, ma la giudicano ottima, quando un autore se ne serve per ornare e propagare le loro proprie dottrine.

La fisica epicurea, nel complesso, non è migliore ne peggiore della fisica delle altre scuole dell'antichità. Gli antichi, come è noto, non osservavano gran fatto la natura, ed ancor meno facevano esperienze, e soprattutto seguivano un metodo che quasi sempre li dilungava necessariamente dal vero. In cambio di studiare gli effetti per rintracciarne di poi le cause, cominciavano con l'ammettere certi principj i quali dovevano bastare alla spiegazione di tutta la natura. Innanzi tratto imaginavano le cause, e quando credevano averle scoperte, se ne servivano per ispiegare i fenomeni. Similmente nel sistema di Epicuro tutto dipende dallo scontro fortuito degli atomi, le cui diverse combinazioni producono il cielo, la terra, gli uomini, il corpo e l'anima. Tutta la natura è una serie di conseguenze che il filosofo trae da un primo principio adottato da lui. Pertanto nel Poema della natura v'ha una quantità d'ipotesi ardite più o meno felici, delle quali alcune sono profonde verità, altri errori fanciulleschi, che è bene indicare con esempj.

Questo miscuglio di errori grossolani e d'ipotesi plausibili ha dato motivo a giudizi o troppo severi o troppo indulgenti intorno alla scienza del poema. Il Gassendi, mentre rifiuta le conclusioni metafisiche di Epicuro rimette in onore il suo sistema nella piena luce del secolo XVII, se ne vale a combattere la filosofia di Cartesio, spende il più della sua vita a dilucidare con dotti commenti la fisica celebrata da Lucrezio, ne accetta i principj. E tuttavia egli non era un semplice erudito; era veramente filosofo e assai versato nelle scienze. Altri per contro hanno spregiato al tutto quella Fisica, non tenendo conto che delle conclusioni irreligiose e negative degli Epicurei. In un secolo di fede, il Gassendi rifiutava tutte le conseguenze che portavan pericolo alla morale e ritenea solo l'innocente Fisica; in un secolo d'incredulità e di ribellione, Voltaire si facea beffe di quella fisica, esaltando il pregio delle conseguenze morali, che ne derivano.

Egli diceva con gran disinvoltura: «Lucrezio era un fisico da far pietà; e in questo si aggiustava a tutti gli altri antichi. Non basta l'ingegno ad imparare la fisica; è un'arte a cui esercitare si richiedon strumenti... Tutta la fisica antica è come parto di uno scolaro assurdo. Ben diversa è la filosofia dell'anima e ben diverso quel buon senso, che assistito dal coraggio dello spirito fa pesare con giustezza i dubbj e i verisimili. Questo è il gran merito di Lucrezio.» È chiaro che Voltaire, mentre spregia il fisico, applaude a' suoi ardimenti di moralista, e lo loda come un utile ausiliario della sua propria impresa filosofica. Di che la scienza di Lucrezio fu vantata o spregiata secondo i tempi, perchè ogni secolo celebra nei libri dell'antichità quello che può servire alle sue proprie passioni.

Io non mi diffonderò sopra certi errori che son grandi teoriche assai dubbie, sempre confutate, ma pur sempre sostenute in alcune scuole da grandi intelletti. Quando, per atto d'esempio, Lucrezio nega le cause finali, egli, al mio parere, s'inganna, ma tocca un problema difficile, che può ricevere soluzioni diverse, senza che il diffinitore pro o contro ne venga in deriso. L'opinione del poeta, rigettata dal senso comune, torna di tratto in tratto, sotto nuovi aspetti, nella scienza più seria. È rabbracciata nel secolo XVIII, e trova tanto favore, che chi non l'accetta passa per un dappoco. Voltaire, il cui buon senso sapeva resistere anche a' suoi amici, far fronte ai loro motteggi e rifiutare la loro parola d'ordine, diceva ironicamente «Io rimango cause-finalier, vale a dire un imbecille... Affermare che l'occhio non è fatto per vedere, nè l'orecchio per udire, nè lo stomaco per digerire non è ella la più enorme assurdità, la più intollerabil follia che sia mai caduta in mente umana? Per quanto io sia disposto al dubbio, questa demenza mi pare evidente, e lo dico[12].» Il Voltaire allude. qui direttamente a Lucrezio, il cui sistema è questo: «Noi non abbiamo avuto le gambe per camminare, ma camminiamo perchè abbiamo le gambe; i filosofi hanno capovolto l'ordine rispettivo degli effetti e delle cause.» La teorica di Epicuro celebrata dal d'Holbach, abbandonata al principio del nostro secolo, confutata da Bernardino di Saint-Pierre, con un sapere più minuto che potente, è novellamente rimessa oggi in campo in libri di cui gli scienziati fan caso. Un'idea filosofica sì importuna e che riprovata di continuo, torna in luce, non può riporsi tra gli errori puerili. D'altra parte è sì formidabile che bisogna tenerne conto.

Tuttavia a torto si crederebbe che le spiegazioni antiche, contrarie alle cause finali, fossero in origine argomenti ispirati dall'empietà. S'incontrano spesso nelle dottrine più religiose. Il pio Empedocle pretendeva «che l'acqua scorrendo nel corpo, s'è scavato un serbatojo, che è diventato lo stomaco; che l'aria, tendendo ad uscire, s'è aperto un passo, e che di là son nate le narici; se la spina dorsale è divisa in vertebre, questo avviene, perchè nel torcersi s'è rotta[13].» Anassagora, il quale comunemente viene reputato il padre della filosofia spiritualista, e fu il primo a proclamare che lo spirito presiede all'ordine universale della natura, dice «che l'uomo è il più intelligente degli animali perchè ha le mani.» Di qui appare che Lamettrie, l'autore dell'Uomo macchina, era un plagiario. Tutte le dottrine, anteriori a Platone spiegavano per tal guisa l'origine degli esseri. Aristotile è il primo che abbia stabilito le cause finali con una precisione scientifica[14]. Epicuro e Lucrezio s'erano attenuti alle più vecchie teoriche, che più conferivano al loro disegno. Dunque la negazione delle cause finali non è, come altri si figura spesso, una ardita novità; fu il primo balbettio della filosofia fanciulla.

Io non toccherò neppure altre teoriche visibilmente erronee ed anzi puerili che no sull'origine dell'uomo e degli animali. Come l'uomo è apparso in questo inondo; di dove è uscito? dalla terra, dall'acqua, dal fuoco, dal loto fazionato da Prometeo, o dalle mani di Deucalione? Qui la scienza non è più sapiente che la favola, e le spiegazioni fisiche date dalle diverse scuole antiche sono quasi tutte così ingenue che non occorre discuterle. In simili problemi è lecito alla filosofia di errare[15].

Io trapasso pure con molte altre ipotesi quella dei Simulacri, con la quale Lucrezio spiega l'origine delle nostre idee, la percezione esterna e la visione. Dai corpi, egli dice, escono lievi membrane che entrano ne' nostri occhi e rappresentano l'oggetto. Questa teorica, che al dì d'oggi ci pare assai bizzarra, regnò nelle scuole. Gassendi non fa difficoltà di ammetterla. D'altra parte codeste son questioni di pura fisica[16].

Senza insistere in questi difficili problemi, da cui la scienza non seppe mai bene estricarsi, stiamo contenti a più modesti riflessi e citiamo alcuni esempi di Lucrezio in cui spicca il cattivo metodo della fisica antica. Il poeta suol dare di alcuni fenomeni naturali una spiegazione arbitraria; senza alcun fondamento, con una serenità ed una sicurtà che fanno sorridere. Volendo, per atto d'esempio, indicare le cause del sonno, comincia dal pregare il lettore di star bene attento, e in versi sonori annunzia questo vero: «Il sonno nasce in noi, quando l'anima si decompone nella macchina, ed una delle sue parti è cacciata fuori, mentre l'altra si raccoglie, più strettamente nell'interno del corpo[17].» Molti ragionamenti della fisica antica richiamano alla mente la scienza medica di certi personaggi di Molière.

Talora Lucrezio si affanna a spiegare fatti che non esistono. La fisica antica non badava molto ad avverare i fatti prima di ricercarne le cause, e sovente esponeva dottamente le cagioni d'un fenomeno prima d'essersi accertata che realmente fosse. È l'eterna storia del dente d'oro sì argutamente narrataci dal Fontenelle[18]. Lucrezio c'insegua perchè il leone trema e fugge alla vista del gallo. La causa, egli dice, è che dal corpo dell'uccello escono atomi che pungono e feriscono la pupilla del leone e che abbattono il suo coraggio[19]. Le ragioni date dal poeta son facetamente precise. Non manca niente alla spiegazione se non che il fatto sussista. Per altro era creduto da tutta l'antichità. Plinio il vecchio, il naturalista; lo credeva con gli altri tutti, e a nessun fisico venne mai in mente di provar se era vero. Avrebbero risparmiato molte false ragioni se avessero fatto come Cuvier, il quale, se ben ricordo, per curiosità mise un gallo nella gabbia d'un leone. Il re degli animali, non che ne tremasse, corse assai lietamente addosso al suo preteso spauracchio e se lo mangiò.

È inutile moltiplicar questi esempj, perchè le ipotesi fantastiche, il non osservare, son difetti della fisica di tutte le scuole antiche. V'ha un'altra specie d'errori meno perdonabili, più propri della scuola d'Epicuro, pe' quali gli si nega con ragione lo spirito scientifico. Intendo degli errori astronomici. E pure l'astronomia. era già molto innanzi. Del cielo e del moto degli astri si avevano cognizioni precise o almeno opinioni assai plausibili. Pitagora ed altri filosofi avevano già applicato all'astronomia il calcolo matematico e la geometria. Il grande astronomo Eudosso aveva fatto di belle scoperte e rispetto all'andamento del cielo dato spiegazioni ragionevoli un mezzo secolo prima di Epicuro. Ma questo negligente filosofo non ne tiene alcun conto, non si cura di conoscerle e se ne sta contento alla vecchia astronomia popolare, a quella che s'incontra nei primi sistemi, nei poeti antichi e nei pregiudizj del popolo. Strana ignoranza di cui bisogna dire due parole.

Sebbene talora si celebrino i servizi resi da Epicuro alla scienza fisica, egli non fu fisico e non fu vago delle ricerche scientifiche. Egli non ha altra passione che la morale e non intende che a condurre l'uomo alla felicità, a liberarlo dai timori superstiziosi. Prende da Democrito il sistema degli atomi, non già perchè sia curioso dei segreti della natura, ma perchè il sistema che dice esser l'universo un prodotto del caso gli pare il più atto di tutti ad escludere l'idea d'una importuna Provvidenza. Dichè la scienza per lui non è un fine, ma un mezzo, non è l'oggetto delle sue meditazioni, ed egli medesimo dichiara, nella sua lettera a Pitocle, che spregiava le speculazioni scientifiche. «Tieni per fermo che altri dee mettersi allo studio dei fenomeni celesti, sia in generale, sia in particolare, per l'unico fine della pace dell'anima. Questo è l'unico oggetto di tutte le parti della filosofia[20].» Se l'epicureismo, che a primo tratto mostra essere una scuola di fisica, non ha mai prodotto nulla in fisica, è da accagionarne Epicuro, il quale appropriandosi la scienza de' suoi predecessori, la congelò ne' suoi Manuali, Formulari e Compendj; e inceppò per sempre gli studj dei suoi discepoli. Onde Lucrezio è il solo che si sia sforzato di arricchire la dottrina del maestro, e, tenendole fede, la propagò almeno con l'originalità del genio.

Per Epicuro la scienza è sì indifferente e i metodi scientifici gli sono sì estranei, che dei più importanti problemi egli ammette al medesimo tempo le più contrarie soluzioni, sì veramente che le une e le altre possano accordarsi con la sua etica, di cui solo gli cale. Per lui l'importante è che la spiegazione d'un fenomeno non supponga l'intervento degli Dei nel mondo. Non si dà pensiero se questa spiegazione sia vera o falsa, se contraddica ad un'altra già ammessa, e per noncuranza, a tener salda la sua morale, non fa caso di quella regola elementare della logica, la quale insegna che due proposizioni contraddittorie non possono essere egualmente vere. Nell'astronomia campeggia specialmente questa noncuranza di Epicuro. Egli medesimo ci svela ingenuamente lo stato della sua mente e il suo metodo, che si può riepilogare nei termini seguenti: «essendochè lo spettacolo dei gran movimenti celesti può turbarci, è forza occuparsi intorno all'astronomia, ma solo a fine di persuadersi che l'ordine regolare del cielo non richiede la mano d'un ordinatore sovrano, e che è senza più l'effetto di cause naturali. Fra le spiegazioni che si danno dei fenomeni, eleggete quella che vi piace. Non può esser cattiva quando vi libera dal timore[21].» L'astronomia di Lucrezio è bizzarra perchè, sulla fede del suo maestro, egli propone a un tratto le ipotesi più serie e le più puerili, senza distinzione e alla mescolata.

Se ne volete esempj, eccone alcuni riepilogati in brevi proposizioni. Il sole non è più grande nè più piccolo di quel che pare. Il sorgere e il tramontare del sole, della luna e degli astri, voi potete spiegarli, secondo la recente astronomia, col loro moto intorno alla terra, o credere, secondo l'antica fisica che gli astri s'accendono o si spengono ogni giorno.[22] — Crediate che la- luna ha una luce sua propria, se già non amaste meglio ammettere che la accatta dal sole. — Per spiegare gli eclissi, voi potete adottare l'opinione degli astronomi, che gli attribuiscono all'interposizione d'un corpo, o seguire la credenza popolare, la qual vuole che gli astri si spengano. La miglior prova dell'indifferenza di Epicuro si è che, conoscendo le spiegazioni date dai veri astronomi, non crede che porti il pregio eleggere le une anzi che le altre.

Questa indifferenza è tanto più notevole in quanto Epicuro seguiva strettamente il sistema di Democrito, di quel gran filosofo geometra, il quale col solo intuito di una mente penetrativa e senza l'aiuto degli strumenti di cui il caso ha poi dotato la scienza moderna, aveva scoperto certi misteri del cielo. Egli, per atto d'esempio, insegnava che il sole non è tale quale noi lo veggiamo; che è immensamente grande; che la via lattea, è un aggregato di stelle, le quali, per la loro lontananza, sfuggono alla nostra vista e che «le une vicine all'altre s'illuminano vicendevolmente per cagione della loro densità[23], e che le macchie le quali si vedono nella luna debbono attribuirsi all'altezza delle sue montagne, ed alla profondità delle sue valli.

Gli epicurei, come il loro maestro, facevano professione di spregiare le matematiche. Secondo loro, v'ha una. sola scienza, quella della felicità. E che! dicevano. Perderemo noi il tempo, come Platone, nella geometria, nei numeri e nello studio degli astri, quando sappiamo che queste scienze sono fondate sopra falsi principj: falsis initiis profecta vera esse non possunt. E seppure ci conducessero al vero non ci condurrebbero al sommo bene. Ridevano dei matematici, i quali forse non sanno «quanti stadj v'ha da Atene a Megara, ma che sanno puntualmente a quanti cubiti ascende lo spazio che separa la luna dal sole, che delineano triangoli sopra dei quadrati con non so quante sfere e misurano lo stesso cielo.» Di che non ci fa meraviglia che Balbo abbia detto che Epicuro non sapeva «quanto fa due e due» che i suoi discepoli non avevano mai delineato una figura sulla dotta polvere dei geometri.» Gli epicurei parlavano delle scienze esatte con aperto disprezzo, tanto più inconcepibile, in quanto essi medesimi fondavano tutto il loro sistema sulla scienza fisica. Non dimentichiamo un fatto curioso: un giorno, un gran matematico, Polieno, essendosi convertito alla dottrina di Epicuro, dichiarò subito che tutta la geometria è falsa: magnus rnathematicus, Epicureo assentiens, totam geometriam falsam essa credidit[24]. Non è giusto pertanto, come noi abbiamo fatto altrove, di paragonare la scuola Epicurea ad un convento?

Traviato da questa noncuranza di Epicuro, sì poco tenero delle scoperte della scienza, Lucrezio rasenta talora le più belle verità senza fermarvisi, o vi si ferma solo per combatterle. Egli ribatte come una sciocchezza, vanus stolidis error, l'opinione dei filosofi, che ammettono gli antipodi. Ed egli poi espone con precisione ammirabile questa opinione che egli rifiuta; tantochè meglio non direbbe un fisico moderno. «Ci può capir nell' animo, egli dice, che, dei corpi gravi, sotto i nostri piedi, esercitino la loro gravitazione all'insù, affissi alla terra in una positura inversa alla nostra, appunto come le nostre immagini riflesse nell'acqua? Giusta questi principj si afferma che sulla superficie opposta della terra vanno e vengono degli esseri animati che non risicano di cadere nelle regioni inferiori del loro cielo, appunto come noi non risichiamo di essere trasportati verso la nostra volta celeste. Ci dicono altresì che questi popoli vedono il cielo quando noi vediamo le fiaccole notturne che, alternano con noi le stagioni, i giorni, le notti, che durano quanto a noi[25]. È strano che Lucrezio dopo aver sì bene compreso l'opinione sugli antipodi, la rifiuti. La docilità con cui segue Epicuro non gli lascia ammettere quello che con la sua penetrazione aveva sì bene inteso.

Quello che Lucrezio rigettava con tanto disprezzo in nome di una scienza incredula, sarà per innanzi rigettato dai Padri della Chiesa, con disprezzo anche maggiore in nome della religione. Mi sia concesso far qui una riflessione venutami spesso all'animo nel leggere questo poema.

Le opinioni sulla fisica non sono di lor natura religiose od empie. Esse non sono proprietà di questa o quella setta, e spesso mutan parte col tempo. Tuttavia, per valerci del linguaggio corrente, noi dichiariamo talora che una certa opinione sulla fisica è spiritualista, cert'altra materialista e la accettiamo o rigettiamo anticipatamente secondo la dottrina che seguiamo, non riflettendo che cotali teoriche non hanno bandiera, o almeno non le sono in tutto e per tutto fedeli. Abbiamo qui avuto un esempio che quello che fu epicureo è divenuto cristiano. Parecchie volte le opinioni di liberi pensatori si sono mutate in opinioni religiose e viceversa. Ne potremmo trovare molti esempj nello stesso Lucrezio. Egli, filosofo materialista com'è, afferma il libero arbitrio (la libertà nell'epicureismo è un'opinione sulla fisica) e per contro le dottrine religiose dell'antichità lo negano. Rispetto alla generazione spontanea, il pio Empedocle ammette che gli esseri senza germe possono nascere dalla fermentazione degli elementi, ed all'incontro l'incredulo Lucrezio riconosce a modo suo i germi preesistenti[26]. Lucrezio altresì sostiene contro alla religione la permanenza delle specie, e al presente i materialisti la negano e gli spiritualisti la affermano[27]. Tra gli antichi le anime pie credono che il mondo sia eterno, e l'empio Lucrezio pensa che il mondo debba di corto esser distrutto. Pertanto non si deve, come sì spesso si suole, abbracciane con amore o rigettare con odio una nuova opinione sulla fisica, sotto pretesto ch'è amica o nemica. Il punto sta a vedere se è vera o falsa. È empia oggi; sarà forse religiosa domani. Senza essere indifferenti, amiamola come se dovessimo per innanzi odiarla o disamarla; odiamola come se un giorno potessimo recarci ad amarla. E veramente le idee sulla fisica sono pericolose solo perchè furono dichiarate tali. Quando la loro fortuna è sicura tutti vi si acconciano. Di pericolose diventano innocenti. I sistemi primamente condannati di Copernico e di Galileo hanno poi somministrato armi nuove alla religione, e per tornare in sull'esempio di Lucrezio, la teoria degli antipodi, che in passato aveva agitato sì gagliardamente gli animi, fu accettata dalle dottrine più contrarie, senza che alcuna ne sentisse detrimento.

Tuttavia questa scienza inetta, vieta, in cui s'adagiava la infingardia d'Epicuro e che egli aveva elevata ad articoli di fede, è vestita da Lucrezio della più splendida e spesso della più amabile poesia. Questa vile materia lavorata dall'immaginazione del poeta, assume talvolta forme squisite.

Per citare un esempio a proposito delle fasi della luna. Lucrezio, seguendo Epicuro, ci dice da prima: «La natura non potrebbe ella produrre una luna per giorno... distruggere la luna della notte passata, e metterne in suo luogo una nuova?» La spiegazione del fenomeno è ridicola e moverebbe a chiedere ad Epicuro dove vanno a finire le lune vecchie. Ebbene, Lucrezio anche in questa miserabile dimostrazione, resta gran poeta; si studia di appagarsi con raffronti, crede vedere nella natura un gran numero di produzioni periodiche e viene per cotal via a fare un quadro delle alternative delle stagioni che, egli dice, possono assimigliarsi alle fasi della luna, quadro pieno di forza e di grazia, nel quale appare come l'immaginazione d'un poeta può nascondere sconcissimi errori non già con artificj, ma con splendide verità accessorie[28].

Adunque Epicuro non è un filosofo fisico, sebbene la sua dottrina si fondi sulla fisica. Egli ha adottato il sistema di Democrito come quello che gli pareva il più atto a mettere in quiete l'animo; ma egli disprezza i progressi della scienza, soprattutto quelli dell'astronomia. Non solo egli la sprezza apertamente, ma ne ammette volontieri le spiegazioni più puerili perchè diminuiscono l'importanza dei fenomeni, li rimpiccioliscono e pertanto impediscono che lo spettacolo del cielo diventi un oggetto di spavento o di stupore. Essendo che egli non pregi che la morale, egli esclude dalle sue meditazioni tutto quanto non può servire alla tranquillità dell'animo, tutto quanto potrebbe turbare la sua indifferente quietudine. E anche qui saremmo mossi a compararlo a certi quietisti moderni i quali altresì dichiarano che spregian le scienze come inutili alla conoscenza dei nostri doveri morali, perchè inquietano la mente e la fede e tolgono l'anima dall'unica cura e pensiero della salute[29].

Se la scienza epicurea in certi punti è assai debole, in altri è solida. Essa contiene una teoria fisica, la quale non è punto da spregiare, e se ne argomenta ne' suoi inventori una singolare penetrativa. Questa teoria è un gran progresso nella scienza. I primi filosofi fisici, cercando di spiegare l'universo e l'origine della natura, avevan fatto venir tutto da un principio unico: Talete dall'acqua, Anassimene dall'aria, Eraclito dal fuoco. Altri, come Senofane, ammettevano due principj, la terra e l'acqua. Eraclito pone i quattro elementi. Queste spiegazioni primitive, le quali, con tutta la loro apparente ingenuità eran già grandi intuiti della natura, furono di gran lunga superate da Leucippo e da Democrito. Questi due grandi fisici, estendendo i limiti della scienza antica, per via di profondi ragionamenti, riconobbero che questi pretesi elementi semplici sono corpi composti, e che questi corpi, risalendo fino ai loro primi principj, sono formati di particole che non è più possibile dividere, che sono insecabili άτομος. Questa teorica non è abbandonata, e la scienza moderna si fonda ancora su questa ipotesi[30].

Tuttavia i nostri fisici, mentre riconoscono la perfetta chiarezza di questa teorica molecolare, chiarezza, che, a lor detto, non fu mai superata, pretendono che gli atomisti hanno veduto solo un lato delle cose, che hanno ammesso nella natura delle combinazioni meccaniche senza più, vale a dire svariati aggregati di atomi che formano gli esser diversi come gli aggregati di lettere formano le parole[31], ma che questi filosofi antichi son lontani le mille miglia dall'idea di una vera combinazione chimica. Fatte queste riserve, è forza convenire, che il sistema atomico, assai preciso sopra certi punti, meno esplicito sopra altri, somiglia molto alle nostre teoriche molecolari. Queste antiche ipotesi ritengono tutto il loro pregio. Sono incomplete, non hanno previsto nè abbracciato tutto, non danno all'atomo tutte le virtù, nè tutte le evoluzioni che per noi si attribuiscono alle molecole, ma non sono rifiutate dalla scienza con temporanea. Di che certi versi di Lucrezio che inchiudono i principj più generali del sistema, potrebbero ancora porsi per epigrafe ai nostri libri di fisica e di chimica. Quando il poeta dice «I principj che formano il cielo, il mare e la terra, i fiumi ed il sole, sono i medesimi, che misti ad altri o trasportati in altre combinazioni, hanno formato i frutti della terra, gli alberi, gli animali»

 

Namque eadem cœlum, mare, terras, flumina, solem

Constituunt, eadem fruges, arbusta, animantes,

Verum aliis, alioque modo commixta moventur (I, 820).

 

questi versi si applicano precisamente ai così detti corpi semplici, ai così detti elementi indecomponibili, e un chimico dei nostri giorni potrebbe porli a capo del suo trattato[32].

Oltre queste ipotesi profonde, si posson raccogliere qua e la nell'atomismo molte verità fisiche, che noi non vogliamo annoverare, ma delle quali è uopo dare qualche esempio. Lucrezio riconosce che lo spazio è infinito. Vuolsi notare altresì che gli epicurei, i quali erano astronomi da poco e che anche si piccavano di spregiare l'astronomia, erano pure in forza del semplice raziocinio arrivati a pensare che lo spazio infinito è popolato di mondi. Metrodoro diceva: «Pretendere che non vi sia che un mondo solo, nell'infinito, sarebbe non meno assurdo che il pensare che un vasto campo è fatto per produrre una sola spiga di grano[33].» Mentre Pitagora, Platone, Aristotile credevano non vi fosse che il nostro sistema, la terra, il sole, i pianeti e le stelle, gli epicurei credevano che al di là vi fossero altri sistemi di egual natura, e secondo loro, la somma di tutti questi sistemi compone quel ch'essi chiamano il gran Tutto, omne immensum. Se uno spazio infinito, dice Lucrezio, si estende per ogni verso, se principj creatori della materia in numero infinito si muovono ab eterno in quelle pianure incommensurabili, in che maniera avrebbero prodotto solo la nostra terra, e il nostro firmamento e si può credere che al di là di questo mondo tanti elementi restino oziosi[34]?» In questi vasti concepimenti che tenevano da Democrito, gli epicurei s'incontrano pure con le congetture della scienza moderna.

Sopra altri punti di fisica gli atomisti son iti più oltre che molti altri filosofi dell'antichità. Per esempio, hanno detto che tutti i corpi tendono per natura verso il centro del mondo e che meno gravi cedono naturalmente il posto agli altri. Ammettono l'esistenza del vuoto, negata dalla maggior parte delle scuole; tra le altre da quelle di Platone e di Aristotile. Non solo gli atomisti la ammettono come concezione razionale, ma fin dal principio hanno fatto esperienze per dimostrarlo[35]. È chiaro che nell'atomismo il vuoto era necessario perchè gli atomi irreduttibili potessero muoversi e combinarsi.

A proposito del vuoto, che con gli atomi, è il fondamento di tutto il sistema, notiamo un'osservazione o almeno una idea, assai rilevante. Gli epicurei riconoscono che nel vuoto tutti i corpi, quale si sia la loro gravità cadono con pari celerità. Lucrezio ha visto chiarissimamente e spiegato bene quello che non fu poi dimostrato che col mezzo della macchina pneumatica. Quando altri è avvezzo agli incerti barlumi della fisica antica e stupisce come il poeta abbia potuto esprimere questa legge con tanta esattezza e precisione. Nell'acqua o nell'aria i corpi accelerano la loro caduta a proporzione della loro gravità, perchè la densità dell'acqua e la lieve fluidità dell'aria non possono opporre a tutti la medesima resistenza, ma devono cedere più facilmente ai più pesanti. Per contro il vuoto non resiste mai, ai corpi; dà il varco egualmente a tutti. Onde tutti i corpi debbono cadere con pari celerità nel vuoto quale che si sia l'ineguaglianza della loro gravità[36].

Non so perchè la scienza moderna pretenda talora che gli antichi non riconoscevano che l'aria è materiale. Lucrezio, dopo aver detto che «vi son corpi dei quali bisogna ammettere l'esistenza, sebbene sfuggono alla vista,» fa una lunga e poetica descrizione delle devastazioni dell'aria, che egli paragona ad un fiume distruttore, e conclude che l'aria «sebbene invisibile è un corpo, perchè spazza il mare, la terra, le nuvole del cielo e ch'è capace di portarsene tutto seco nella violenza dei suoi turbini[37].» Questa pittura e le conclusioni formali del poeta fisico non lasciano giustamente tassare la fisica antica di non aver conosciuto la materialità dell'aria.

Si trovano in Lucrezio parecchie spiegazioni giustissime di fenomeni spaventevoli per via di comparazioni semplicissime tratte dell'osservazione cotidiana e che somigliano a quelle che si leggono nei nostri trattati di fisica. Per esempio quando egli parla del tuono e dei lampi, mostra, per liberare gli uomini dai loro timori superstiziosi, che queste pretese minaccie del cielo sono senza più fenomeni naturali facilmente spiegabili. Egli muove il quesito perchè il lampo si veda prima che si senta il tuono ed osserva assai giustamente che il suono ha minor velocità che la luce. Questa non era al suo tempo una verità comune, perchè, se crediamo a Plutarco «i fisici opinano che il lampo esca dalla nube dopo il tuono, sebbene si veda prima.[38]» Lucrezio,secondo il costume della sua setta assomiglia questo fenomeno formidabile ad un fatto noto che ciascuno ha potuto osservare. Si deve altresì notar qui la precisione di questo linguaggio poetico. Il rumore del tuono arriva al nostro orecchio dopo che il lampo ha percosso i nostri occhi, perchè gli oggetti che vanno all'udito non corrono sì velocemente come quelli che eccitano la vista. Se voi da lontano ponete mente allo spaccalegne che percuote con la scure il tronco di un albero, vedrete il colpo prima di udire il suono. Così noi vediamo il lampo prima di sentire il tuono, sebbene il suono si muova al medesimo tempo che la luce e che l'uno e l'altro sian prodotti dalla stessa causa, dal medesimo cozzo delle nuvole[39].» Lasciando stare come sia vera l'osservazione che il suono sia men veloce della luce, si ha in questi versi una prova novella di quell'animosità sì rara tra gli antichi, la quale consiste a spiegare per via di cause meramente fisiche fenomeni di cui tutti sentivan terrore.

Se passando ad un diverso ordine di considerazioni, volessimo riscontrare le opinioni di Lucrezio in fisiologia, potremmo citare versi notevoli i quali mostrano che il poeta non era nuovo di questa scienza. I nostri fisiologi approvano quello ch'egli dice della nutrizione, della facile assimilazione delle sostanze riparatrici nella giovinezza «quando il colpo acquista più che non dissipi:

 

Plura sibi adsumunt quam de se corpora mittunt;

 

e quello ch'egli dice della vecchiaia, in cui le perdite sono maggiori che gli acquisti e in cui l'accasciamento della natura tormentata, affaticata dagli oggetti esterni, non può più resistere, ai loro urti distruttori[40]. «Parimente egli sa come nelle piante, i succhi circolano in canali invisibili.»[41]. Con rara finezza di linguaggio, egli spiega la sensazione del gusto, che in certo modo rende visibile, quando c'insegna che la triturazione esprime, come l'acqua d'una spugna il sugo degli alimenti, che s'insinua nei pori del palato e nelle vie complicate della lingua[42]. Sono da leggere questi passi ch'io tocco appena per sapere quale energia e valore venga ai versi da una rigorosa esattezza.

Nè mancano nel Poema della Natura certi presentimenti rispetto ad alcuni problemi posti dalla scienza più moderna e che per l'antichità erano fosche tradizioni o lontani intuiti del genio. Sui primi saggi della creazione, sugli animali che noi chiamiamo antidiluviani, sulle specie perdute vi sono nel poema detti notevolissimi. Le specie che non erano difese, nè dalla forza nè dall'agilità nè dall'astuzia o che non erano tanto utili perchè l'uomo ne prendesse la protezione, dovettero sparire. Troppo deboli, ridotte all'impotenza dalla infelicità del loro destino, erano preda agli animali voraci finchè la natura le avesse interamente distrutte:

 

Scilicet haec aliis prædæ lucroque jacebant

Indupedita suis,fatalibus omnia vinclis,

Donec ad interitum genus id natura redegit (V, 873).

 

Non abbiamo già qui in pochi versi concisi la celebre teorica di Darwin sopra la selezione naturale, e la battaglia per l'esistenza? Così sui terremoti s'incontrano qua e là molti raggi di luce che per certo non rischiarano la nostra geologia, ma che sono come il primo crepuscolo di questa scienza. Il poema non è dunque senza importanza anche come trattato di fisica. Può a buona equità chiamarsi il romanzo della natura, ma, come tutti i romanzi ben fatti e di mano maestra, è pieno di verità.

 

Constant Martha

INDICE

Introduzione

Lucrezio — Libro I

Libro II.

Libro III.

Libro IV.

Libro V.

Libro VI.

Varie Lezioni

La scienza di Lucrezio

 



[1] Le Poeme de Lucrèce par Constant Martha. Paris, 1873.

[2] Vita e Poesie di Alessandro Marchetti, per opera e cura di Francesco Marchetti suo figlio. Veuezia, 1755.

[3] Cosimo di Vincenzo figlio naturale di Galileo Galilei. Il Nelli nega questi miracoli del suo ingegno.

[4] Il Nelli non concede che il Bellini fosse scolaro del Marchetti, e sostiene che per ironia lo chiamasse vir doctissimus amicissimusque et olim praeceptor meus.

[5] Questo sonetto è anche più esplicito della Protesta ch' ei premise alla versione di Lucrezio.

PROTESTA

Tito Lucrezio Caro per sua disavventura nacque gentile e fu di setta epicureo: per la qual cosa tu non dovrai punto maravigliarti, o pio e discreto lettore, s’egli in alcune cose fa contrario alla religione. Io nondimeno, scorgendo in esso fra le tenebre di pochi errori vivamente risplendere molti lumi della più salda e sensata filosofia e della più robusta e nobile poesia, non ho stimato se non ben fatto d'arricchire d'opra sì degna la mia volgare materna lingua. Sappi però ch'io talmente abborrisco gli empi suoi dogmi intorno all'anima umana ed al sommo Iddio, sì fattamente gli detesto, che per difesa de' lor contrari sarei prontissimo, ogni qual volta il bisogno ciò richiedesse, non solo ad impiegare tutto l'ingegno e le forze mie, ma anco a spargere tutto il mio sangue; avvenga che io mi pregi veramente d'esser filosofo, ma più mi glorii d'esser crstiano.

Con questi medesimi sentimenti vivo io sicuro ch'anco tu sarai per leggere questo poema: onde non temo punto che possa nè pure in minima parte restarne offesa la tua bontà. Se poi per quello che risguarda la mia traduzione, tu ci trovi per entro cosa che non così pienamente ti soddisfaccia, compatisci la difficoltà dell'impresa, maggiore al certo che altri senza farne prova non crederebbe.

Nel resto amami, com'io cordialmente t'amo, e vivi felice.

[6] Tomo XXI.

[7] Tra le sue Poesie dette eroiche v'è il seguente sonetto a Cosimo terzo credendo (dice il titolo) di dedicargli la traduzione di Lucrezio.

Itene, o versi miei; del re toscano

Inchinate il divino alto intelletto:

Ite, e spiegate a lui del gran romano

I carmi eccelsi in umil stile e schietto.

Dite quai d'eloquenza il saggio petto

Sparga torrenti oltre ogni ingegno umano.

Mentre assegna, per cause, ond'ogni effetto

Penda in quest'ampio spazio, il pieno e 'l vano;

Onde il mare e la terra e 'l ciel tonante,

L'auree stelle vaganti e gli astri immoti,

Gli augelli, i pesci, gli animai, le piante.

Ite, scevri dal volgo, a lui sol noti;

A lui pien di virtù sì varie e tante

Voi stessi offrite e i miei pensier divoti.

[8] Le Misanthrope, acte II, sc 6. Confronta il Marchetti. IV. 1653-1684.

[9] Saggio di Storia letteraria fiorentina del secolo XVII scritta in varie lettere da Giovambattista Clemente Nella. — In Lucca, 1759.

[10] Le parole Rerum natura rispondono a quel che noi diciamo la Natura. E si traduce: Natura delle cose; il che, massime sotto il rispetto della scienza, è ben diverso.

[11] Plutarco, Come si dee leggere.

[12] Diz. filosof., articolo Dieux

[13] Aristotile, Delle parti degli animali, I, 1.

[14] Fisica, II. 8.

[15] Lucrezio, V, 799 del testo latino.

[16] IV, 33.

[17] IV, 917.

[18] Histoire des Oracles.

[19] IV, 714.

[20] Diogene X, 85 e 35. — De Fin., v. 20.

[21] Cicerone, De natura Deor. 1, 25. — V. De Fato. 16. - Diogene X. 76.

[22] Lettera d'Epicuro ad Erodoto — Diogene, X, 91. 94.

[23] Plutarco. Opinioni dei Filosofi, III. 1.

[24] Cicerone, Academ., II, 33; De Finib., I. 21; De nat. Deor., II, 18. — Luciano. Icaromenippo, 6. — Cicerone dice spiritosamente che Epicuro, avrebbe fatto meglio a imparare la geometria dal suo amico Polieno che a fargliela disimparare.

[25] I, 1058.

[26] I, 160.

[27] V, 920.

[28] V, 736.

[29] Possiamo tanto più fare questo raffronto in quantochè Epicuro chiamava salute la perfezione morale. «Egregie mihi hoc dixisse videtur Epicurus initium est salutis notitia peccati.» Seneca lett., 28 «Iste homo non est unus e populo, ad salutem spectat.» 10.

[30] Hœfer, Histoire de la Chimie.

[31] Una tragedia ed una commedia si fanno con le medesime lettere; nell'una le lettere sono combinate in un modo, nell'altra diversamente. Questa comparazione fatta già da Leucippo e da Democrito fu rimessa in campo dà Lucrezio.

[32] Berthelot, Chimie organique fondée sur la synthese. Introd.

[33] Plut., Opinioni de' filosofi I, 5.

[34] Lucrezio. II, 1053. Al credere di Lucrezio, questi mondi devono essere abitati. II, 1075.

[35] Leucippo diceva: «un vaso pieno di cenere può ricevere tanta acqua quanta ne riceve quando è voto, il che presuppone inevitabilmente dei piccoli pori tra le particole della cenere; se non che la cenere e l'acqua occuperebbero simultaneamente lo stesso luogo. L'esperienza lascia molto a desiderare; ma ha il merito d'essere una esperienza.

[36] II, 230.

[37] I, 271.

[38] Un principe deve esser dotto.

[39] VI, 164.

[40] II.1122. V. Etudes medicales sur les poetes latins par le Docteur D. Moniére.

[41] I, 347.

[42] IV, 615