HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
GIACOMO
LEOPARDI
ZIBALDONE
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
[1]Palazzo bello. Cane di notte dal
casolare, al passar del viandante.
Era la luna nel cortile, un lato
Tutto ne illuminava, e discendea
Sopra il contiguo lato obliquo un raggio...
Nella (dalla) maestra via s'udiva il carro
Del passegger, che stritolando i sassi,
Mandava un suon, cui precedea da lungi
Il tintinnìo de' mobili sonagli.
Onde Aviano raccontando una favoletta dice che una donna di
contado piangendo un suo bambolo, minacciogli se non taceva che l'avrebbe dato
mangiare a un lupo. E che un lupo che a caso di là passava, udendo dir
questo alla donna credettele che dicesse vero, e messosi innanzi all'uscio di
casa così stette quivi tutto quel giorno ad aspettare che la donna gli
portasse quella vivanda. Come poi vi stesse tutto quel tempo e la donna non se
n'accorgesse e non n'avesse paura e non gli facesse motto con sasso o altro,
Aviano lo saprà che lo dice. E aggiugne che il lupo non ebbe niente
perchè il fanciullo s'addormentò, e quando bene non l'avesse
fatto non ci sarìa stato pericolo. E fatto tardi, tornato alla moglie
senza preda perchè s'era baloccato ad aspettare fino a sera, disse
quello che nell'autore puoi vedere.
(Luglio o Agosto 1817).
Una Dama vecchia avendo chiesto a un giovane
di leggere alcuni suoi versi pieni di parole antiche, e avutili, poco dopo
rendendoglieli disse che non gl'intendeva perchè quelle parole non
s'usavano al tempo suo. Rispose il giovane: Anzi credea che s'usassero perchè
sono molto antiche.
Tutta la notte piove
E ritornan le feste a la dimane:
Fan del regno a metà Cesare e Giove.
Dal niente in letteratura si passa al mezzo e al vero, quindi al
raffinamento: da questo non c'è esempio che si sia tornato al vero.
Greci e latini italiani. Lo squisito gusto del volgo de' letterati non
può essere se non quando ei non è ancora corrotto. P.E. i
cinquecentisti volgari non peccavano d'altro che di poco, non di troppo, e
però erano attissimi a giudicar bene del molto, o sia del vero bello,
come faceano.
Il trecento fu il principio della nostra
letteratura, non già il colmo, imperocchè non ebbe se non tre
scrittori grandi: il quattrocento non fu corruzione nè [2]raffinamento
del trecento, ma un sonno della letteratura (che avea dato luogo all'erudizione)
la quale restava ancora incorrotta e peccava ancora più tosto di poco.
Poliziano, Pulci. Il cinquecento fu vera continuazione del trecento e il colmo
della nostra letteratura. Di poi venne il raffinamento del seicento, che nel
settecento s'è solamente mutato in corruzione d'altra specie, ma il buon
gusto nel volgo dei letterati non è tornato più, nè
tornerà secondo me, perchè dal niente si può passare al
buono, ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si possa.
Non il Bello ma il Vero o sia l'imitazione
della Natura qualunque, si è l'oggetto delle Belle arti. Se fosse il
Bello, piacerebbe più quello che fosse più bello e così si
andrebbe alla perfezion metafisica, la quale in vece di piacere fa stomaco nelle
arti. Non vale il dire che è il solo bello dentro i limiti della natura,
perchè questo stesso mostra che è l'imitazione della natura
dunque che fa il diletto delle belle arti, imperocchè se fosse il bello
per se, vedesi che dovrebbe come ho detto più piacere il maggior bello,
e così più piacere la descrizione di un bel mondo ideale che del
nostro. E che non sia il solo bello naturale lo scopo delle Belle Arti vedesi
in tutti i poeti specialmente in Omero, perchè se questo fosse, avrebbe
dovuto ogni gran poeta cercare il più gran bello naturale che si
potesse, dove Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che potea
farlo, e così gli Dei ec. e sarebbe maggior poeta Anacreonte che Omero
ec. e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è
falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec. Passioni morti
tempeste ec. piacciono egregiamente benchè sian brutte per questo solo
che son bene imitate, e se è vero quel che dice il Parini nella Oraz.
della poesia, perchè l'uomo niente tanto odia quanto la noia, e però
gli piace di veder qualche novità ancorchè brutta. Tragedia.
Commedia. Satira han per oggetto il brutto ed è una mera quistion di
nome il contrastar se questa sia poesia. Basta che tutti la intendono per
poesia Aristotele e Orazio singolarmente e che io dicendo poesia intendo anche
questi generi. V. Dati Pittori ed. Siena 1795. p.57.66.
Il brutto come tutto il resto deve star nel
suo luogo: e nell'Epica e lirica avrà luogo più di raro ma
spessissimo nella Commedia Tragedia Satira ed è quistion di parole ec.
come sopra. Il vile di raro si dee descrivere perchè di raro può
star nel suo luogo nella poesia (eccetto nelle Satire Commedie e poesia
bernesca) non perchè non possa essere oggetto della poesia. Ancora
potendo esser molti generi di una cosa e questi qual più qual meno
degno, [3]niente vieta che dei diversi generi di poesia altro abbia per
oggetto più particolarmente il bello altro il doloroso altro anche il
brutto e il vile, e però qual sia più nobile e degno qual meno e
non per tanto tutti sieno generi di poesia, nè ci sia oggetto di veruno
di essi che non possa essere oggetto della poesia e delle arti imitative ec.
La perfezione di un'opera di Belle Arti non si misura dal
più Bello ma dalla più perfetta imitazione della natura. Ora se
è vero che la perfezione delle cose in sostanza consiste nel perfetto
conseguimento del loro oggetto, quale sarà l'oggetto delle Belle Arti?
L'utile non è il fine della poesia
benchè questa possa giovare. E può anche il poeta mirare
espressamente all'utile o ottenerlo (come forse avrà fatto Omero) senza
che però l'utile sia il fine della poesia, come può l'agricoltore
servirsi della scure a segar biade o altro senza che il segare sia il fine
della scure. La poesia può esser utile indirettamente, come la scure può
segare, ma l'utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non
possa stare, come non può senza il dilettevole, imperocchè il dilettare
è l'ufficio naturale della poesia.
Sentìa del canto risuonar le valli
D'agricoltori ec.
Più ci diletterebbe una pianta o un
animale veduto nel vero che dipinto o in altro modo imitato, perchè non
è possibile che nella imitazione non resti niente a desiderare. Ma il contrario
manifestamente avviene: da che apparisce che il fonte del diletto nelle arti
non è il bello, ma l'imitazione.
Il quattrocento restò dal fare, ma
conservava l'idea del bello incorrotta; però benchè non facesse,
pure apprezzava il fatto anzi lo cercava: quindi l'infinito studio de' Classici
e l'erudizione dominante nel secolo. Il cinquecento col capitale acquistato nel
400 e coll'istradamento del 300 tornò a fare. Ma il seicento
perchè era non debole ma corrotto, non solamente non sapea far bene, ma
disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la dimenticanza di Dante
del Petrarca ec. che non si stampavano più. Nel principio del settecento
ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l'amore degli studi classici,
e la prima metà di questo secolo somiglia però al quattrocento,
nè si fa molto conto di quest'epoca di risorgimento perchè non
produsse (come il 400) nessun lavoro d'arte fuorchè la Merope, e
durò tanto poco che un uomo stesso potè aver veduto il tempo di
corruzione il risorgimento e il ricadimento. Ricadute le nostre lettere (nella
imitazione e studio degli stranieri) son comparsi nella seconda metà del
700 e principio dell'800 i nostri [4]ultimi lavori d'arte. Questi sono
di quegli scrittori che nella corruzione si conservano illesi, non possono
essere stimati da molti ec. Ma adesso l'arte è venuta in un incredibile
accrescimento, tutto è arte e poi arte, non c'è più quasi
niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere ma
con uno studio infinito senza il quale non si può avere, e senza il
quale a gran pezza l'aveano (spezialmente nella lingua) Dante il Petrarca
l'Ariosto ec. e tutti i bravi trecentisti e cinquecentisti. Questo avviene
perchè ora si viene da un tempo corrotto (oltrechè si sta pure
tra' corrotti) e bisogna porre il più grande studio per evitare la corruzione,
principalmente quella del tempo la quale prima che abbiamo pensato a
guardarcene s'è impadronita di noi, e poi quella dei tempi passati,
perchè adesso conosciamo tutti i vizi delle arti e ce ne vogliamo guardare,
e non siamo più semplici come erano i greci e i latini e i trecentisti e
i cinquecentisti perchè siamo passati pel tempo di corruzione e siamo
divenuti astuti nell'arte, e schiviamo i vizi con questa astuzia e coll'arte
non colla natura come faceano gli antichi i quali senza saperne più che
tanto pure perchè l'arte era in sul principio e non ancora corrotta non
gli schivavano ma non ci cadevano. Erano come fanciulli che non conoscono i
vizi, noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e l'esperienza gli
schiviamo. E però abbiamo moltissimo più senno e arte che gli
antichi, i quali per questo cadevano in infiniti difetti (non conoscendoli) in
cui adesso non cadrebbe uno scolaro. Vizi d'Omero concetti del Petrarca,
grossezze di Dante, seicentisterie dell'Ariosto del Tasso del Caro traduzione
dell'Eneide ec. E però adesso le nostre opere grandi (pochissime
perchè ancora siamo nella corruzione onde pochissimi emergono) saranno
tutte senza difetti, perfettissime, ma in somma non più originali, non
avremo più Omero Dante l'Ariosto. Esempio manifesto del Parini Alfieri
Monti ec. Onde apparisce quel che io disopra ho detto che dopo che le arti di
fanciulle e incorrotte si son fatte mature e corrotte, (come gli uomini di
mezza età viziosi) invecchiando e ravvedendosi, non potranno più
ripigliare il vigore della fanciullezza e giovinezza. Le arti presso i Greci e
i latini corrotte una volta non risorsero più presso noi van risorgendo:
primo esempio finora al mondo, dal quale solo si possono cavare le prove
pratiche della mia sentenza. Se non che i poeti e altri scrittori grandi d'oggi
stanno in certo modo agli antichi del 300 e 500 come i greci dei secoli
d'Augusto e degli imperatori, p.e. Dionigi Alicarnasseo, Dione, Arriano ad
Erodoto Tucidide Senofonte: ma questi eran passati per un'età e si trovavano
ancora in un'età più tosto di debolezza che di corruzione.
[5]Come i fanciulli e i giovinetti
benchè di buona indole pure per la malizia naturale, di quando in quando
scappano in qualche difetto e non per tanto sono differentissimi dagli uomini
grandi e cattivi, così gli antichi senza conoscere nè amare i
vizi delle arti, per la naturale tendenza dell'ingegno alla ricercatezza e cose
tali di quando in quando vi cadeano non riflettendo che fossero vizi, e non per
tanto infinitamente differivano dagli adulti artefici del 600 e 700 radicati nella
corruzione. E adesso chiunque, per pochissimo che abbia studiato a prima giunta
vede che quelli sono errori e che gli antichi hanno errato. P.E. chi non vede adesso
che è cosa ridicola e affettatissima il lamento d'Olimpia ec.
nell'Ariosto, quello d'Erminia ec. nel Tasso? E pure questi grandissimi poeti
perchè l'arte era giovane e senza esperienza in buona fede cascavano in
questi errori, e noi perchè siamo vecchi nell'arte col nostro senno e coll'esperienza
de' tempi corrotti, ce ne ridiamo e li fuggiamo. Ma questo senno e questa
esperienza sono la morte della poesia ec. Come però si dovrà dire
che l'Ariosto per esempio avesse somma arte se cadeva spessissimo in difetti
che il più meschino artefice d'oggidì conosce a prima vista? Non avea
somma arte ma sommo ingegno, pulitissimo, ma non corrotto, e meno poi ripulito.
Per guardarci dai vizi e dalla corruzione dello scrivere adesso
è necessario un infinito studio e una grandissima imitazione dei
Classici, molto molto maggiore di quella che agli antichi non bisognava, senza
le quali cose non si può essere insigne scrittore, e colle quali non si
può diventar grande come i grandi imitati. Come il cocchiere fa guidando
i cavalli per la china, che poco concede loro perchè troppo non gli
rapiscano.
Padron, se con lamenti e con rammarichi
Si rimediasse a le nostre miserie,
Bisognerebbe comperar le lagrime
A peso d'or: ma queste tanto possono
Le disgrazie scemar, quanto le prefiche
Svegliare i morti con le loro istorie:
Ne' guai non ci vuol pianto ma consiglio.
[6]Messer tale domandato da alcuni che
disputavano sopra una statua antica di Giove in terra cotta che ne sentisse, rispose:
Maravigliomi come non vi siate accorti che questo è un Giove in Creta:
volendo dire in terra cotta, ma in sembianza, nell'isola di Creta, dove Giove
fu allevato.
Sistema di Belle Arti.
Fine - il diletto; secondario alle volte,
l'utile. - Oggetto o mezzo di ottenere il fine - l'imitazione della natura, non
del bello necessariamente. - Cagione primaria del fine prodotto da questo oggetto
o sia con questo mezzo - la maraviglia: forza del mirabile e desiderio di esso
innato nell'uomo: tendenza a credere il mirabile: la maraviglia così
è prodotta dalla imitazione del bello come da quella di qualunque altra
cosa reale o verisimile: quindi il diletto delle tragedie ec. prodotto non
dalla cosa imitata ma dall'imitazione che fa maraviglia. - Cagioni secondarie e
relative ai diversi oggetti imitati - la bellezza, la rimembranza, l'attenzione
che si pone a cose che tuttogiorno si vedono senza badarci ec. - Cagione primitiva
del diletto destato dalla maraviglia ec. e però conseguentemente del
diletto destato dalle belle arti - l'orrore della noia naturale all'uomo,
ricerche sopra le cagioni di quest'orrore ec. - Cagioni dei difetti nelle belle
arti - Sproporzione, sconvenevolezza, cose poste fuor di luogo, al che solo
(contro l'opinione di chi pensa che provenga dall'avere le arti per oggetto il
bello) si riducono i difetti della bassezza della bruttezza deformità crudeltà
sporchezza tristizia tutte cose che rappresentate o impiegate nei loro luoghi
non sono difetti giacchè piacciono e per mezzo dell'imitazione producono
la maraviglia, ma sono difetti fuor di luogo p.e. in un'anacreontica l'imagine
di un ciclopo, (per lo più) in un'epopea per lo più la figura di
un deforme ec. Altri difetti e vizi; affettazione ec. quasi tutti si riducono
alla sconvenevolezza e inverisimiglianza che proviene dallo sconvenirsi tra
loro in natura quegli attributi della cosa inverisimile, onde la mente che
comprende la [7]sconvenienza degli attributi concepisce
l'inverisimiglianza. - Diversi rami della imitazione che formano i diversi
oggetti delle belle arti e i diversi generi p.e. di poesia, i quali tanto
più son degni e nobili quanto più degni ec. sono gli oggetti, onde
un genere che abbia per oggetto il deforme, sarà un genere poco
stimabile e da non mettersi p.e. coll'epopea, benchè anch'esso sia un
genere di poesia destando la maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell'imitazione.
Del Bello |
Del Sublime |
Del terribile |
Del ridicolo e vizioso ec. |
Epopea Lirica ec. |
Lirica Epopea ec. |
Tragica ec. |
Commedia satira poesia Bernesca ec. |
Vari rami del bello. Bello delicato - grazioso - ameno - elegante.
V. Martignoni ec. Annali di scienze e lettere n.8. p.252-54. Ci può
essere il bello delicato e il non delicato. Ercole, Apollo. Bello sublime. Giove. |
[8]Provatevi a respirare artificialmente, e a
fare pensatamente qualcuno di quei moltissimi atti che si fanno per natura; non
potrete, se non a grande stento e men bene. Così la tropp'arte nuoce a
noi: e quello che Omero diceva ottimamente per natura, noi pensatamente e con
infinito artifizio non possiamo dirlo se non mediocremente, e in modo che lo
stento più o meno quasi sempre si scopra. V. p.461.
Difficoltà d'imitare: più facile
il far più che quel medesimo: quanto sia difficile l'essere uguale:
quanto rara in natura l'uguaglianza perfetta: quindi la maraviglia nata
dall'imitazione e il diletto nato dalla maraviglia. V. Quintiliano, l.10.c.11.
quindi la maggior facilità di esprimere un bello ideale che il proprio
bello naturale anche minore dell'ideale.
Due gran dubbi mi stanno in mente circa le
belle arti. Uno se il popolo sia giudice ai tempi nostri dei lavori di belle
arti. L'altro se il prototipo del bello sia veramente in natura, e non dipenda
dalle opinioni e dall'abito che è una seconda natura. Della prima
quistione se mi verrà in mente qualche pensiero lo scriverò poi:
della seconda, osservo che a noi par conveniente a un soggetto (e la bellezza
sta tutta si può dire nella convenienza) quello che siamo assueffatti a
vederci, e viceversa sconveniente ec. e però ci par bello quello che ha
queste tali cose e brutto o difettoso quello che non le ha: benchè in
natura non debba averle o viceversa. P.e. ci par deforme una certa razza di
cani quando ha l'orecchie non tagliate ec. potenza della moda specialmente
intorno alla bellezza delle donne ec. Mi pare che in natura non ci siano quasi
altro che i lineamenti del bello, come sono l'armonia la proporzione e cose
tali che secondo il solo lume naturale debbono trovarsi in ogni cosa bella: e
che l'ombreggiare gli oggetti belli dipenda tutto dalle nostre opinioni. Per
questo si possono addurre infiniti esempi. E li distinguo in due classi: l'una
di quelli che provano la diversità di opinioni intorno agli oggetti in
natura; l'altra ec. intorno agli oggetti nell'imitazione ossia nelle belle
arti.
Natura Occhi azzurri belli tra' greci: neri tra
noi. Capelli biondi belli in Italia nel cinquecento: neri al presente. Diversissime
opinioni de' barbari intorno alla bellezza che pur mostrano che in natura non
ce n'è idea fissa. V. Camper Diss. sur
le beau physique. Cavalli scodati. Cani colle orecchie tagliate. Opinione
e senso de' nostri contadini circa la bellezza, e vedi quelle descritte nella
Beca e nella Nencia non già da scherzo, ma perchè di quella
sorta piacciono ai villani. Bello ideale ch'esprimerebbe p.e. un pittore moro
di qualunque genio ed entusiasmo si fosse. Il bello ideale non è [9]altro
che l'idea della convenienza che un artista si forma secondo le opinioni e
gli usi del suo tempo, e della sua nazione. Barba, e capelli tagliati o no. |
Belle Arti Pittura ec. de' cinesi. Musica de' turchi.
V. Martignoni Annal. di Scienze e lett. n.8. p.245. nota, ove anche della musica
francese e italiana. Presso noi non disdicono le fabbriche a mattoni nudi, anzi
son ridicole imbiancate e colorite. Il contrario de' Cinesi ai quali le nostre
facciate parrebbero cosa affatto greggia e rozza. |
I francesi hanno certe esagerazioni
familiari così usitate che sono vere frasi proprie della lingua e non di
questo o di quello scrittore o parlatore; le quali danno un'idea della sempiterna
affettazione e del tuono esaltato quando in uno quando in altro modo, con cui sono
scritti si può dir tutti i loro libri. Giammai persona non fu più
fedele al suo re. Nessun altro fu sì ricordevole del benefizio. (Aucun ne fut ec.) Non si vide mai tanto amore nè tanta
costanza. E nota che questo medesimo lo diranno a un bisogno di due o tre persone
o più in uno stesso libro. Troverai spessissimo che parlando di qualche
scrittore dozzinale ti diranno per esempio: egli ha tutta la tenerezza di
Racine e tutto lo spirito di Voltaire, egli è sublime come Corneille e
semplice come la Fontaine, egli stringe come Bourdaloue, commuove come Massillon,
trasporta come Bossuet: e ti maraviglierai come uno scrittore in cui si trovano
unite le qualità principali di più altri (secondo loro) grandi,
che ne hanno ciascheduno, una sola, non sia più grande di questi,
nè celebre presso tutta la nazione, e forse tu ne legga il nome per la
prima volta.
In molte opere di mano dove c'è
qualche pericolo (o di fallare o di rompere ec.) una delle cose più
necessarie perchè riescano bene è non pensare al pericolo e portarsi
con franchezza. Così i poeti antichi non solamente non pensavano al pericolo
in cui erano di [10]errare, ma (specialmente Omero) appena sapevano che
ci fosse, e però franchissimamente si diportavano, con quella bellissima
negligenza che accusa l'opera della natura e non della fatica. Ma noi
timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre
avanti gli occhi l'esempio di chi ha errato e di chi erra, e però
pensando sempre al pericolo (e con ragione perchè 1. vediamo il gusto
corrotto del secolo che facilissimamente ci trasporterebbe in sommi errori, 2.
osserviamo le cadute di molti che per certa libertà di pensare e di
comporre partoriscono mostri, come sono al presente p.e. i romantici) non ci
arrischiamo di scostarci non dirò dall'esempio degli antichi e dei Classici,
che molti pur sapranno abbandonare, ma da quelle regole (ottime e Classiche ma
sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in voli bassi, nè
mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non curante e
dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme
opere dell'arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di
farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già mediocri
di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è
insopportabile, ma mediocri nel genere delle buone cioè lavorate,
studiate, pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici
ottimamente imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà
di parole, (la quale soprattutto tradisce l'arte) insomma tutto, ma che non son
quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c'è
più Omero Dante l'Ariosto, insomma il Parini il Monti sono bellissimi ma
non hanno nessun difetto. V. p.461.
In Plauto il sommo pregio è quello
della forza comica che non è altro se non quella certa vivacità
dei personaggi ottenuta col mezzo del ridicolo, che nel mentre che vivifica
l'azione (a differenza delle Commedie di Terenzio dove c'è gran
serietà e però dice Cesare ch'egli manca di forza comica, a
ragione, perchè l'azione importando poco per se e non avendo la
importanza della tragedia, se non è continuamente rallegrata e
rinforzata dal ridicolo, resta debole, e come morta) ottiene il fine della
Commedia che è di distogliere [11]dal vizio il che principalmente
è operato dal ridicolo. Ma i costumi J presso Plauto sono poco insigni. Ciascuno
opera, è vero come dee (almeno per l'ordinario) ma 1. tutte le fisonomie
si rassomigliano: sempre appresso a poco è lo stesso parassito, lo
stesso padre, lo stesso servo traditore, lo stesso figlio scapestrato, la
stessa meretrice, ec.; 2. i tratti che qualche volta distinguono un volto dall'altro
sono grossolani: per esempio questa innamorata sarà leale, quest'altra
perfida; questo padre pieghevole, questo duro; questo figlio temperante
quest'altro lussurioso, ed ecco tutto; ec.; 3. c'è qualche volta molta
naturalezza ora in qualche scena bellissima che innamora, ora in qualche
Commedia intera, ma quivi le persone dicono quello che ogni uomo in quella
situazione direbbe, e benchè le parlate siano naturalissime, cavate dal
vero, e ritratte con grandissima finezza dalla natura, pure non sono modificate
secondo il carattere e il costume particolare della persona: insomma non si
vede in Plauto una figura tutta perfettamente delineata e ombreggiata, e i costumi
che egli dipinge sono del genere, p.e., del padre, o della specie, p.e., del
padre buono o del padre iracondo, e non dell'individuo, la qual cosa osservo
anche in Terenzio, il quale per altro è molto superiore a Plauto per li
costumi e la naturalezza, essendo penetrato più addentro nel cuore umano
ec. Qualche volta anche non è conservata in Plauto la naturalezza e la
verisimiglianza, specialmente nel fine delle Commedie, dove talvolta i
personaggi si risolvono troppo d'improvviso e a grado del poeta, essendo stati
fin allora di animo diversissimo e anche contrarissimo a quella tale
risoluzione. Ma egli pare che Plauto talora non volendo altro che far ridere e
satireggiare, della verisimiglianza non si curasse, anzi a bello studio
cercasse l'inaspettato, non già l'inaspettato verisimile che si
raccomanda in poesia, ma l'inaspettato inverisimile e grossolano che
però appunto è più ridicolo, come nel fine delle Bacchidi
dove fa innamorare all'improvviso per istrazio quei due vecchi venuti
all'opposto per bravare quelle meretrici, e in quella scena del Canapo dove
mette una tenzone di licet licet e di altre tali risposte sempre
ripetute, in un momento caldo e importante, dov'è impossibile che i
personaggi badassero a questi giuochi.
[12]L'arte di Ovidio di metter le
cose sotto gli occhi, non si chiama efficacia, ma pertinacia. ec.
I francesi colla loro pronunzia tolgono a
infinite parole che han prese dai latini italiani ec. quel suono espressivo che
aveano in origine, e che è uno dei più grandi pregi nelle lingue
ec. ec. Per esempio nausea in latino e in italiano con quell'au e con quel'ea
imita a maraviglia quel gesto che l'uomo fa e quella voce che manda scontorcendo
la bocca e il naso quando è stomacato. Ma noséé non imita niente,
ed è come quelle cose che spogliate degli spiriti e dei sali, umori, grasso
ec. restano tanti capomorti. (capogatti ec. non capigatti) V. questi pensieri
p.95.
Un'osservazione importantissima intorno alle
traduzioni, e che non so se altri abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno
che abbia profittato, è questa. Molte volte noi troviamo nell'autore che
traduciamo p.e. greco, un composto una parola che ci pare ardita, e nel
renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fatto questo siamo contenti.
Ma spessissimo quel tal composto o parola comechè sia, non solamente era
ardita, ma l'autore la formava allora a bella posta, e però nei lettori
greci faceva quell'impressione e risaltava nello scritto come fanno le parole
nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante parole dell'Alfieri
p.e. spiemontizzare ec. ec. Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato
una parola corrispondentissima proprissima equivalentissima, tuttavia non hai
fatto niente se questa parola non è nuova e non fa in noi
quell'impressione che facea ne' greci. E qui è così comune
l'inavvertenza che nulla più. Perchè se traducendo trovi quella
parola e non l'intendi, tu cerchi ne' Dizionari, e per esser quella, parola di
un classico, tu ce la trovi colla spiegazione in parole ordinarie, e con parole
ordinarie la rendi e non guardi, prima se quell'autore che traduci è il
solo che l'abbia usata; secondo se è il primo; perchè potrebbe
anche dopo lui esser passata in uso e nondimeno non essere stato meno ardito
nè nuovo nè esprimente il suo primo usarla. Ecco un esempio.
Luciano ne' Dial. de' morti; Ercole e Diogene; usa la parola . Cerca
ne' Lessici: spiegano: succedaneus ec. ma se tu volti: sostituto, o che so io,
non arrivi per niente all'efficacia burlesca e satirica di quella nuova parola
di Luciano che vuol dire: contrappersona, e colla sua novità ha una
vaghezza e una forza particolare specialmente di deridere. (N.B. bene, io non
so se questa voce di Luciano sia di lui solo: la trovo ne' Dizionari senza esempio,
onde potrebbe anche esser propria della lingua: e bisogna cercare migliori
dizionari che io per ora non ho; perchè cadrebbe a terra quest'esempio,
per altro sufficiente a dare ad intendere, vero o no che sia, la mia proposizione
e osservazione.) Quello che io ho detto delle parole va inteso anche dei modi
frasi, ec. ec. ec.
[13]Non credo che siano molto da
ascoltare quelli che credono che certi passi sublimi della Bibbia avanzino ogni
altro passo sublime di qualsivoglia autore; e lo provano colla grandezza
materiale dell'imagine; p.e., dicono, il misurare le acque colla mano e pesare
i cieli colla palma, (Is.40.12.) è ben più che scagliar la
folgore dall'alto di Ato e di Rodope e riempier di spavento i cuori de'
mortali, crollar l'Olimpo coll'accennar del capo, ec. ec. Senza dubbio non si
può dir niente di Dio che non sia infinitamente al di sotto del vero, e
però la Bibbia (e la Bibbia molto meno che qualunque altro) non dice mai
cosa che appetto al vero non sia strapiccolissima, e pure io ardirò di
affermare che quelle tali espressioni della Bibbia, nella poesia umana sono
esagerazioni, e che in essa poesia vale assolutamente più in rigore di
pregio poetico, quel Giove accennante col capo e scuotente l'Olimpo; quel
Nettuno che in quattro passi traversa provincie; quel grido di Marte ferito che
pareggia il grido di diecimila combattenti e d'improvviso atterrisce ambedue
gli eserciti, Greco e troiano; (Il.5); quella caduta dello stesso Dio che
disteso occupa sette iugeri di terreno; (Il.21.407.) di quelle tante imagini
sublimissime della Bibbia, perchè nella poesia umana ci vuole il mezzo
dappertutto, il mezzo, che è il gran luogo di verità e di natura,
e che nè anche col vero si dee oltrepassare: e il sublime dee scuotere
fortemente il lettore, ma non subbissarlo con cose che oltrepassino la
capacità nostra. E questo della poesia umana. Ma la poesia divina come
la Scrittura, dee veramente subbissare e oltrepassare la capacità umana,
e però quelle imagini (essendo poi per se stesse lontanissime dall'essere
esagerate) convengono ottimamente a questa sorta di poesia tutta essenzialissimamente
diversa dalla nostra; e però da noi non imitanda senza colpa poetica.
Del resto, io dico bene che quelle imagini convengono a quella poesia, ma non
già credo come dicono alcuni, che esse più tosto che al gusto orientale,
si debbano al più vivamente sentire la maestà divina che faceano
i lirici Ebrei: (Borgno, Diss. sopra i Sepolcri del Foscolo Milano 1813.p.86.
nota 1.) che per esser subito persuasi del contrario basta osservare i luoghi
della Bibbia dove non si parla di Dio nè di cose affatto sublimi, come
p.e. tutta la Cantica dove anzi si parla di amore e cose delicate, e pure vi si
vedono le stesse metaforone e traslatoni e cose eccessive: però
veramente e assolutamente derivate dal gusto orientale, a cui tuttavia non
negherò che l'ispirazione così poetica come divina non
accrescesse forza quanto alle imagini e frasi dette di sopra ec.
L'efficacia dell'espressioni bene spesso
è il medesimo che la novità. Accadrà molte volte che
l'espressione usitata sia più robusta più vera più
energica, e nondimeno l'esser ella usitata le tolga la forza e la snervi; e il
poeta sostituendo in suo luogo un'altra espressione men robusta, forse anche
men propria ma nuova, otterrà un buon effetto sulla fantasia del lettore,
ci sveglierà quell'immagine che l'altra espressione non avrebbe potuto
eccitare; e la sua frase sarà veramente più efficace, non per se
stessa, ma per la circostanza dell'esser nuova.
Nelle poesie del Monti (specialmente nelle
Cantiche) sono osservabili la [14]bellezza novità efficacia delle
imagini, particolarmente sublimi, ma anche di ogni altro genere, la mollezza e
dirò così sveltezza, agilità, disinvoltura dell'espressione;
la gran felicità nell'esprimere cose e imagini difficilissime, la
disinvolta e spedita nobiltà dello stile, e quella data colla scelta e
collocamento delle parole (o coll'uno o l'altra separatamente) a cose e imagini
per se stesse ignobili o quasi; la sublimità e grandezza delle
imaginazioni fantastiche, la grazia e forza del dipingere, la facilità e
felicità di certe rime disparatissime, come di qualche nome proprio,
lontanissimo dell'argomento, condottovi con mirabile franchezza e disinvoltura,
(nella qual facilità ebbe il Monti gran precursore, oltre a Dante il Menzini
nelle Satire); l'efficacia di molte espressioni acquistata colla novità
ec. ec. le quali cose tutte fanno uno stile suo proprio, elegante, (la quale
eleganza, la qual nobiltà ec. è anche molto spesso acquistata con
acconce parole latine destrissimamente, disinvoltamente, e morbidamente
insinuate nella composizione) efficace, nobile, proprio, e un genere di poesia
che si può dire originale, avendo molte tinte che non si vedono in
quello di Dante sempre più feroce, e quanto allo stile, di raro
così molle e pieghevole e armonioso e disinvolto e grazioso e anche
delicato ec. ec.; la sicurezza e franchezza del tocco sia quanto all'espressione
sia quanto al concetto alle immagini ec.
Gran verità, ma bisogna ponderarle
bene. La ragione è nemica d'ogni grandezza: la ragione è nemica
della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire
che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande
quanto più sarà dominato dalla ragione: che pochi possono esser
grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle
illusioni. Queste viene che quelle cose che noi chiamiamo grandi per es.
un'impresa, d'ordinario sono fuori dell'ordine, e consistono in un certo
disordine: ora questo disordine è condannato dalla ragione. Esempio:
l'impresa d'Alessandro: tutta illusione. Lo straordinario ci par grande: se sia
poi più grande dell'ordinario astrattamente parlando, non lo so: forse
anche qualche volta sarà più piccolo assai in riga astratta, e quest'uomo
strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un altro ordinario ed
oscuro si troverà minore: nondimeno, perchè è
straordinario si chiama grande: anche la piccolezza quando è straordinaria
si crede e si chiama grandezza. Tutto questo la ragione non lo comporta: e noi
siamo nel secolo della ragione: (non per altro se non perchè il mondo
più vecchio ha più sperienza e freddezza) e pochi ora possono
essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle arti. Anche chi è
veramente grande, sa pesare adesso e conoscere la sua grandezza, sa sviscerare
a sangue freddo il suo carattere, esaminare il merito delle sue azioni, pronosticare
sopra di se, scrivere minutamente colle più argute e profonde
riflessioni la sua vita: nemici grandissimi, ostacoli terribili alla grandezza:
che anche l'illusioni ora si conoscono chiarissimamente esser tali, e si
fomentano con una certa [15]compiacenza di se stesse, sapendo
però benissimo quello che sono. Ora come è possibile che sieno
durevoli e forti quanto basta, essendo così scoperte? e che muovano a
grandi cose? e senza le illusioni qual grandezza ci può essere o
sperarsi? (Un esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura.
Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi
giorni. I suoi parenti per alimentarlo come richiede la malattia in questi
giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze: essi ne soffriranno danno
vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne avrà nessun vantaggio
e forse anche danno perchè soffrirà più tempo. Che cosa dice
la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l'alimenti. Che cosa dice la natura?
Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile.
È da notare che la religione si mette dalla parte della natura). La
natura dunque è quella che spinge i grandi uomini alle grandi azioni. Ma
la ragione li ritira: e però la ragione è nemica della natura; e
la natura è grande, e la ragione è piccola. Altra prova che la
ragione è spesso nemica della natura, si cava dall'utilità
(così per la salute come per tutto il resto) della fatica a cui la natura
ripugna e così dalla ripugnanza della natura a cento altre cose o
necessarie o utilissime e però consigliate dalla ragione, e per lo
contrario dall'inclinazione della natura a moltissime altre o dannose o inutili
o proibite, illecite, e condannate dalla ragione: e la natura spesso tende con
questi appetiti a danneggiare e a distrugger se stessa.
Finisco in questo punto di leggere nello
Spettatore n.91, le Osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia
moderna o romantica che la vogliamo chiamare, e perchè ci ho veduto una
serie di ragionamenti che può imbrogliare e inquietare, e io per mia
natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose credute indubitabili,
però avendo nella mente le risposte che a quei ragionamenti si possono e
debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole lo scrittore (come tutti i romantici)
che la poesia moderna sia fondata sull'ideale che egli chiama patetico e
più comunemente si dice sentimentale, e distingue con ragione il patetico
dal malinconico, essendo il patetico, com'egli dice, quella profondità
di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo dell'impressione che
fa sui sensi qualche cosa della natura, p.e. la campana del luogo natìo,
(così dic'egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una torre
diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia
tra la poesia moderna e l'antica, chè gli antichi non provavano questi
sentimenti, o molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in questo superiori
agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste veramente la poesia,
però noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa
è la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per
non parlare dei romantici, che forse anche in qualche cosa differiscono ec. E
questo patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo
chiamare sensitività). Or dunque bisogna eccitare questo patetico,
questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com'è naturale,
consisterà la somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti
quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec. ec. scappano di strada. Che cosa
è che eccita questi sentimenti negli uomini? La natura, purissima, tal
qual'è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non
proccurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente: quell'albero, quell'uccello,
quel canto, quell'edifizio, quella selva, quel monte, [16]tutto da per
se, senz'artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di
dover eccitare questi sentimenti, nè ch'altri ci aggiunga perchè
li possa eccitare, nessun'arte ec. ec. In somma questi oggetti, insomma la
natura da per se e per propria forza insita in lei, e non tolta in prestito da
nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che faceano gli antichi?
dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli oggetti e quelle
circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti, e li sapevano
dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi oggetti nei
versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è possibile,
quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti, anche
dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto
più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume,
e coll'arte sua ci ha preparati a riceverne quell'impressione, dovechè
in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli
spessissimo non ci si bada, (qui cade la gran facoltà delle arti imitative
di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti comuni, vale a
dire così imitati, che si considerino nella poesia, dovechè nella
realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni ec. ec.
che nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec. come il Gravina
nella Ragion poet.) e bisogna poi perchè producano quei tali sentimenti
andarli a prendere pel loro verso: ed ecco ottenuto dagli antichi il
grand'effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono
e ci sublimano e c'immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e
tutti i secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro, ne
sono testimoni. Ma che? quando questi poeti, imitavano così la natura, e
preparavano questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano,
o non dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano
quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato
della poesia antica, per cui, non è più poesia, e i moderni
vincono a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se
questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per destarli bisogna imitare
la nuda natura, e quei semplici e innocenti oggetti, che per loro propria forza,
inconsapevoli producono nel nostro animo quegli effetti, bisogna
trasportarli come sono nè più nè meno nella poesia, e che
così bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l'attenzione
alle minute parti loro che nella realtà non si notavano, e nella
imitazione si notano, è forza che destino in noi questi stessissimi
sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci
sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto più parla in
persona propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa
già notata da Aristotele, al quale volendo o non volendo
senz'avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è prodotto dal
sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual
ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una
similitudine d'Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un'ode
d'Anacreonte, vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il
cuore senza paragone più che cento mila versi sentimentali;
perchè quivi parla la natura, e qui parla il poeta: e non si [17]avvedono
che appunto questo grand'ideale dei tempi nostri, questo conoscere così
intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno
ad uno tutti i più minuti affetti, quest'arte insomma psicologica,
distrugge l'illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno,
distrugge la grandezza dell'animo e delle azioni; (v. quel che ho detto in
altro pensiero) e che mentre l'uomo (preso in grande) si allontana da quella
puerizia, in cui tutto è singolare e maraviglioso, in cui l'immaginazione
par che non abbia confini, da quella puerizia che così era propria del
mondo a tempo degli antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo,
perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non
sa più palpitare per una cosa che conosce vana, cade tra le branche
della ragione, e se anche palpita (perchè il cuor nostro non è
cangiato ma la mente sola), questa benedetta mente gli va a ricercare tutti
i secreti di questo palpito, e svanisce ogn'ispirazione, svanisce ogni poesia;
e non si avvedono che s'è perduto il linguaggio della natura, e che
questo sentimentale non è altro che l'invecchiamento dell'animo nostro,
e non ci permette più di parlare se non con arte, e che quella santa semplicità,
che dalla natura non può sparire perchè la natura coll'uomo non
invecchia, e la qual sola ci può destare quei veri e dolci sentimenti
che andiamo cercando, non è più propria di noi come era propria
degli antichi, e che però per parlare come questa semplicità
parla, e come insegna la natura, e destare quei sentimenti che la sola natura
può destare, è forza in questo tristissimo secolo di ragione e di
lume, che fuggiamo da noi stessi, e vediamo come parlavano gli antichi che
erano ancora fanciulli, e con occhi non maliziosi nè curiosacci ma
ingenui e purissimi vedevano la santa natura e la dipingevano: e insomma non si
avvedono che essi amici della natura sola, vengono in effetto a predicar
l'arte, e noi amici dell'arte veniamo verissimamente a predicar la natura. Qui
cadrebbe in acconcio il discorrere dell'affettazione che è il vizio
generale nelle arti belle e abbraccia quasi tutti i vizi, e come il
sentimentale sia facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo invece
di destare quei sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel tale
oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e come questi
sentimenti sieno d'infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che fa il Breme
la poesia moderna al solo patetico (distinguetelo pur quanto volete dal malinconico
come di sopra ho detto), quasi che il sublime, l'impetuoso, l'esultante, il
giubilante (so bene che anche la gioja può esser patetica, ma non nei
casi ch'io dico) il grazioso disinvolto e insomma quasi tutta la poesia degli
antichi, l'epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di
trionfo, le descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di
Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non paresse
più tale, o almeno (non si sa poi perchè, quando non si ammettano
le due cose precedenti) dai moderni non dovesse più esser coltivata;
come non deve parere una pazzia difficile a credere che sia caduta in testa
d'un uomo savio? Dunque Virgilio non è poeta altro che nel quarto
dell'Eneide, e nell'episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? dunque [18]non
ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in uno stesso
componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? (E
dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole antiche.) Ma che?
abbiamo mutato natura affatto? non c'è più gioia se non mezzo
malinconica, non c'è più ira, non c'è più grandezza
e altezza di pensieri, senza quel condimento di patetico ec. ec.? (E se la
poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, nè
deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in genere non
pare che il Breme faccia gran caso della natura e del fine della poesia che
consiste in dilettare col mezzo della maraviglia prodotta dall'imitazione ec.)
Ma queste son follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con
diligenza ai ragionamenti del Breme ci si scopre una contraddizione nascosta,
ma realissima e fondamentale così del suo sistema come del romantico. Da
principio dice che gli antichi credevano tutto e si persuadevano di mille
pazzie, che l'ignoranza il timore i pregiudizi e somministravano allora gran materia
alla loro poesia, e non possono più somministrarne ai tempi nostri;
insomma evidentemente par che venga a conchiudere, che la poesia nostra bisogna
che sia ragionevole, e in proporzione coi lumi dell'età nostra, e in
fatti dice che ce la debbono somministrare la religione, la filosofia, le leggi
di società ec. ec. E così dicono i romantici. Ma se così
è, ecco l'illusione sparita, e se il poeta non può illudere non
è più poeta, e una poesia ragionevole, è lo stesso che
dire una bestia ragionevole ec. ec. E i romantici, non che facciano la poesia
ragionevole, vanno in cerca di mille superstizioni e delle più pazze
cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l'immaginazione anche al
presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita ec. e
ANCHE sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose AL TUTTO arbitrarie
nè lontane da quel Vero ec. In queste parole e specialmente in quell'anche
e in quell'al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente l'angustia del
metafisico, che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e piegare, cerca
di rimediarci colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la nostra
immaginazione ha bisogno d'esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma il
Breme senza nessuna dubitazione in parecchi altri luoghi) il vostro
ragionamento va tutto a terra: chè quando uno di noi si mette a leggere
una poesia sapendo di dover esser sedotto e desiderando di esserlo, tanto crede
al più falso quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero,
tanto agli spettri del Bürger quanto all'inferno dell'Odissea e dell'Eneide; e
quel dire che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie
è una miseria, quasi che la immaginativa dei moderni potesse essere
ingannata di tanto solo, e non più, e l'intelletto nostro nel mezzo
della lettura e dell'inganno della fantasia non comprendesse egualmente la
falsità delle invenzioni del Klopstock e di quelle di Omero e di
Virgilio. Il tutto sta se l'immaginazione nostra possa e debba esser sedotta
dalla poesia o no, se sì tutti i vostri ragionamenti seguenti sono
attaccati collo sputo, e il poeta deve pensare a sedurre come crede meglio, e
s'egli non sa sedurre, la colpa è sua, e non del genere che ha scelto.
Un'altra svista del Breme (e probabilmente di tutti i suoi settari) è
dove parlando della mitologia greca, dice che la natura è vita, che la
fantasia umana e la poesia si compiace in immaginare che tutto viva,
cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare [19]questa
sorgente della poesia moderna che consiste in non guardare nessuna cosa con
noncuranza, in attribuir senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le
possibili forme, in avvivare insomma la natura col mezzo d'idee
poeticamente analoghe ec. ec. Dunque non solo concede che la natura si
avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di contrapporre questo sistema
vitale al mitologico ec. e per esempio di questo avvivamento diverso da
quello che faceano i mitologi, si serve di un passo di lord Byron dove attribuisce
sospiri fragranti alla rosa innamorata. Ma che? non vuole che si avvivi
la natura così individualmente, diremo, e mediatamente, come i mitologi
faceano, personificando affetti e numi e piante ec. ma la natura immediatamente,
senza convertirla in individui, e riconoscendo vita sotto tutte le forme e
non esclusivamente sotto l'umana, in somma che tutto sia animato e
sensitivo, non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il Breme, non si
avvedono i romantici che questi che debbono avvivare la natura, questi poeti,
son uomini, e non possono naturalmente e per intimo impulso concepir vita nelle
cose, se non umana, e che questo dare agli oggetti inanimati, agli Dei, e fino
ai propri affetti, pensieri e forme e affetti umani, è così
naturale all'uomo che per levargli questo vizio bisognerebbe rifarlo; non si
avvede che il suppor vita nelle cose, p.e. inanimate, diversa dalla nostra,
ripugna di maniera al nostro istinto e alla nostra natura, che appartiene
appuntino a quello che si chiama cattivo gusto, al gusto che si chiama gotico,
che si chiama cinese; che il poeta non deve seguir nè la ragione
nè la metafisica (posto pur che la ragione ami meglio nelle cose che
non vivono, una vita diversa dalla nostra che uguale, e così
discorrete degli Dei ec.), ma la natura e l'istinto, e che per quanto si
può argomentare da questo istinto, il cavallo p.e. se avesse ragione e
immaginativa, attribuirebbe a Dio, (il cavallo sarebbe allora ragionevole, onde
nessuno si scandalizzi di quel che dirò) e alle cose inanimate ec. ec.
la figura e gli affetti e i pensieri del cavallo, e così gli altri
animali; (e questo pensiero non è mio ma dell'antico Senofane,
perchè molte cose son vecchie che si credono nuove, e molta sapienza
è antica alla quale si crede che quei cervelli non arrivassero) non si
avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del
poeta non è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa
rosa viva, e non viva come noi, se è possibile al metafisico, è
impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono mica i
metafisici ma il volgo; e non si avvede che lo stesso lord Byron non ha saputo
alla sua rosa e tutti i romantici non sapranno in eterno a nessunissima cosa
dare altri affetti o sensi che umani, perchè diversi affetti o sensi
appena ci sappiamo persuadere che ci possano essere, non che possiamo
immaginarci quali siano. ec. ec. Quanto all'arte di poetare e di scrivere che
il Breme pare che disprezzi per la maggior parte, mi sbrigo in due parole.
Questo imitar la natura questo destare i sentimenti che voi altri volete,
è facile o difficile? ognuno che li sente è sicuro purchè
si metta a scrivere di comunicarli subito agli altri, o no? Se sì, me ne
rallegro, e avrò piacere di vederne l'esperimento; se no, se questa cosa
è tra le difficili difficilissima, [20]se quand'uno ha concepito,
non ha fatto appena metà del cammino, se mille e centomila che provando
affetti e sentendo vivamente, hanno scritto, non sono riusciti a muovere negli
altri gli stessi affetti, e non si leggono da nessuno, se infiniti esempi e
ragioni provano quanta sia la forza dello stile, e come una stessa immagine
esposta da un poeta di vaglia faccia grand'effetto, e da un inferiore nessuno,
se Virgilio senz'arte non sarebbe stato Virgilio, se in poesia un bel corpo con
vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile ordine scelta ec. non si
soffrono e non si leggono e sono condannati non mica dai pregiudizi ma dal
tempo giudice incorrotto e inappellabile, se colla proprietà eleganza
nobiltà ec. ec. ec. delle parole e della lingua e delle idee,
colla scelta coll'ordine colla collocazione ec. ec. infinite necessarissime
doti si procacciano alla poesia; c'è bisogno dell'arte, e di grandissimo
studio dell'arte, in questo nostro tempo massimamente, per le ragioni che
più volte in questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i grandi
scrittori quelli che tutto il mondo venera, quelli così infinitamente
superiori ai pregiudizi, quelli finalmente i quali se non sono veramente ed
eternamente grandi, non c'è più cosa grande nè speranza di
diventar grande, noi vediamo che Cicerone (e l'eloquenza è cosa molto
simile alla poesia) studiò profondissimamente l'arte sua e la sua lingua
e la gramatica e gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e
con tutto questo studio non diventò già un uomo da nulla
nè un pedante nè un imitatore e che so io, ma diventò un
Cicerone: e se Cicerone come scrittore e oratore, o signor Breme, non vi
quadra, come nè anche Pindaro nè Orazio, vi do subito la buona
notte, e mi dispiace di non averlo saputo prima. (E già di sopra
s'è osservato che il primitivo bisogna impararlo dagli antichi.) Non si
ricorda il Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia,
dico, che i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli
uomini trovano, così nelle arti e nei mestieri come nelle cose usuali
della vita, e così in tutto. E così chi sente e vuol esprimere i
moti del suo cuore ec. l'ultima cosa a cui arriva è la semplicità,
e la naturalezza, e la prima cosa è l'artifizio e l'affettazione, e chi
non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immune
dai pregiudizi dell'arte, è innocente ec. non iscrive mica con
semplicità, ma tutto all'opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le
prime volte si mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e
naturalezza, che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei
fanciulli: ma per contrario non ci si vede altro che esagerazioni e
affettazioni e ricercatezze benchè grossolane, e quella
semplicità che v'è, non è semplicità ma
fanciullaggine: così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per un
certo verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con quella
di Anacreonte che pare il non plus ultra, e vedete se vi pare che si possa pur
chiamare semplicità. Onde il fine dell'arte che costoro riprovano, non
è mica l'arte, ma la natura, e il sommo dell'arte è la
naturalezza e il nasconder l'arte, che i principianti, o gl'ignoranti non sanno
nascondere, benchè n'hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce,
e tanto fa più stomaco quanto è più rozza: e i nove anni
d'Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli artifizi
del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli accrescendoli, e insomma
per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine di tutti quegli
studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i
romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre [21]bestemmiano l'arte
e predicano la natura, non s'accorgono che la minor arte è minor natura.
Non solamente bisogna che il poeta imiti e
dipinga a perfezione la natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza,
anzi non imita la natura chi non la imita con naturalezza. Però Ovidio
che senza naturalezza la dipinge, cioè va tanto dietro a quegli oggetti,
che finalmente ce li presenta, e ce li fa anche vedere e toccare e sentire, ma
dopo infinito stento suo, (così che a lui bisogna una pagina per farci
veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina) e con una più tosto
pertinacia ch'efficacia; presto sazia, e inoltre non è molto piacevole,
perchè non sa nasconder l'arte, e con quel tanto aggirarsi intorno agli
oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e incontentabilità, ma
anche perchè egli senza molti tratti non ci sa subito disegnar la
figura, e se non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la diligenza, e
la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei
poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza,
e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima
e sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell'Ariosto, Petrarca
ec. questa è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici
tra i moderni, questa è quella che col sentimentale e col sistema del
Breme, e nelle poesie moderne de' francesi, non si ottiene, e poi non si
ottiene; chè questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec.
scopre insomma il poeta che parla ec. In Ovidio si vede in somma che vuol
dipingere, e far quello che colle parole è così difficile,
mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante nò: pare che voglia
raccontare e far quello che colle parole è facile ed è l'uso
ordinario delle parole, e dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci
si metta, non indica questa circostanziola e quell'altra, e alzava la mano e
la stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno i romantici
descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi,
così anche prose ec. tanto in voga ultimamente) insomma in lui
c'è la negligenza, in Ovidio no.
Sì come dopo la procella oscura
Canticchiando gli augelli escon del loco
Dove cacciogli il vento (nembo) e la paura;
E il villanel che presso al patrio foco
Sta sospirando il sol, si riconforta (si
rasserena)
Sentendo il dolce canto e il dolce gioco;
Grandissima parte dell'opere utili
proccurano il piacere mediatamente, cioè mostrando come ce lo possiamo
proccurare: la poesia immediatamente, cioè somministrandocelo.
Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime)
perchè al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava
per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte
l'avarizia, la lussuria e l'ignavia. Ora queste non sono madri ma sorelle di
quell'effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della
ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni,
senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri nè forza
e impeto e ardore d'animo, nè grandi azioni che per lo più sono
pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni
vani come sono la gloria l'amor della patria la libertà ec. ec. cerca i
solidi cioè i piaceri carnali osceni [22]ec. in somma terrestri,
cerca l'utile suo proprio sia consistente nel danaro o altro, diventa egoista
necessariamente, nè si vuol sacrificare per sostanze immaginarie
nè comprometter se per gli altri nè mettere a ripentaglio un bene
maggiore come la vita le sostanze ec. per un minore, come la lode ec. (lasciamo
stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri,
togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le
qualità buone non accresce la massa, ma la sparte, sì che ridotta
in piccole porzioni fa piccoli effetti.) Quindi l'avarizia, la lussuria e l'ignavia,
e da queste la barbarie che vien dopo l'eccesso dell'incivilimento. E
però non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo
spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo
illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro
tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi c'incamminiamo a gran passi e quasi
siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non è la
ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra
le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e
certo nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi,
nè i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno di
ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i popoli. Le
illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o
quasi affatto, l'uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è
barbaro, non potendo più correre le cose come vuole il sistema del
mondo. La ragione è un lume; la Natura vuol essere illuminata dalla ragione
non incendiata. Come io dico accadde appresso i Greci e i Romani: al tempo di
Longino già erano quasi barbari, eppure non c'era stata nessuna
irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque la barbarie, da quelle
civilissime terre, perchè la civiltà era eccessiva. Cicerone era
il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma
poi tutte le altre Orazioni sue politiche; sempre sta in persuadere i Romani a
operare illusamente, sempre l'esempio de' maggiori, la gloria, la libertà,
la patria, meglio la morte che il servizio; che vergogna è questa?
Antonio un tiranno di questa razza ancora vive ec. E intanto Antonio che
sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno
vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro
di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto, che fosse dichiarato nemico
della patria: calcolavano cercavano ec. quello che in altri tempi senza un
istante di deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava
indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la
ragione, non importava un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei
posteri ec. eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello
che in un caso poteva succedere, non più ardore, non impeto, non
grandezza d'animo, l'esempio de' maggiori era una frivolezza [23]in quei
tempi tanto diversi: così perderono la libertà, non si
arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo
d'illusioni aveva fatto, vennero gl'imperatori, crebbe la lussuria e l'ignavia,
e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza esperienza storia,
erano barbari.
E la ragione facendo naturalmente amici
dell'utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri,
scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone.
Anche l'amore della maraviglia par che si
debba ridurre all'amore dello straordinario e all'odio della noia ch'è
prodotta dall'uniformità.
Vedendo meco viaggiar la luna.
Non è favoloso ma ragionevole e vero
il porre i tempi Eroici tra gli antichissimi. L'eroismo e il sagrifizio di se
stesso e la gloriosa morte ec. di cui parla il Breme, Spettatore, p. 47,
finiscono colle illusioni, e non è un minchione che le voglia in se, in
tempi di ragione e di filosofia, come sono questi, ch'essendo tali, sono anche
quello ch'io dico cioè privi affatto di eroismo. ec.
Quell'affetto nella lirica che cagiona
l'eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più, e più
dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, nè antico
nè moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado: e Orazio
quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto
ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca: il cui
stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose ma anche singolarmente
e nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e bella, Spirto
gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.) ha una semplicità e
candidezza sua propria, che però si piega e si accomoda mirabilmente
alla nobiltà e magnificenza del dire, (come in quel: Pon mente al
temerario ardir di Serse ec.) così in tutto il corpo e continuatamente,
come nelle varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità
e nobiltà che per l'ordinario: si piega alle sentenze (come in quel: Rade
volte addivien che a l'alte imprese ec.) quantunque di quelle spiccate non
n'abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini
delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il
sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sì 'l
fianco ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise ec. Le man le avess'io
avvolte entro i capegli ec.)
Il Testi ha dicitura competentemente poetica
ed elegante, non manca d'immagini, ha anche qualche immaginetta graziosa (come
dove dice di Davidde: E allor che in Oriente il dì nascea Usciva a
pascer l'agne Su la costa del monte o lungo il rio, nella Canzone Nelle
squallide spiagge ove Acheronte) ha sufficiente grandiosità ed anche
qualche eloquenza, le sentenze non sono mal collocate nè esposte,
quantunque non nuove, riesce anche benino assai nelle Canzone filosofiche all'Oraziana,
imita spesso e qualche volta quasi traduce Orazio, ma non ha l'animatezza la
scolpitezza, e la concisa nervosità e muscolosità ed energia e lo
spirito del suo stile, nè molta originalità e novità,
nè proprio proprio sublimità di concetti e d'invenzioni. Ma tutti
i pregi che ho detto, salvo solamente la grandiosità e l'eloquenza,
risplendono massimamente nelle Canzoni della prima parte, che sono per la
più parte filosofiche e Oraziane, dove lo stile è castigato e non
manca leggiadria di maniere e di concetti, perchè nelle altre parti,
quantunque s'innalzi maggiormente, e metta fuori più forza, e facondia,
e più energiche immagini e in somma sia più pindarico, è
difficile trovar canzone che non sia malamente e sporcamente e visibilmente e
tenacemente imbrattata della pece del suo secolo, che nella prima parte appena
appena si scorge qua e là come macchiuzze, e forse qualche canzona
n'è libera affatto e può parere d'un altro secolo. In oltre la
dicitura [24]diventa meno elegante e pulita e spesso le voci e le
locuzioni le metafore i traslati sono prosaici. In somma si vede molto il
febbricitante e il mal lavorato e mal limato del seicento.
Son proprio esclusivamente del Petrarca, in
quanto all'affetto, non solo la copia, ma anche quei movimenti pieni Je quelle
immagini affettuose (come: E la povera gente sbigottita ec.) e tutto
quello che forma la vera e animata e calda eloquenza. E dall'influsso che ha il
cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità come
d'olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche nominatamente quelle sull'Italia) e
che le odi degli altri appetto alle sue paiano asciutte e dure e aride, non
mancando a lui la sublimità degli altri e di più avendo quella
morbidezza e pastosità che è cagionata dal cuore.
Il Filicaia va dietro al sublime e anche
l'arriva, ma parlando sempre di cose della nostra Religione ha tolto a imitare
quel sommo sublime della scrittura, e per questo sommo sublime si fa
pregiare, che del resto, quando o non lo cerca o non lo arriva, non ha quasi cosa
ch'esca gran fatto dall'ordinario, non ha punto di leggiadria mai, non ha in
nessun modo la varietà del Testi ec. ma anche dove ha quel sommo sublime
di stile simile allo scritturale e profetico, non è molto piacevole per
cagione della monotonia delle sue Canzoni e perchè le impressioni di
quel sommo sublime essendo troppo veementi non possono durar gran tempo e si
spengono, e il lettore ci si assuefà, sì che con quella monotonia,
viene a rendersi il sublime inefficace, e le odi stucchevolucce. Le migliori
sono quelle per l'assedio e la liberazione di Vienna, e tra queste a mio giudizio
quella che incomincia Le corde d'oro elette. Sono anche queste macchiate
qua e là del seicentismo. Le parole, locuzioni, metafore prosaiche non
mancano, come quello: A tua Pietà m'appello della prima Canzone,
e nella seconda: E al tuo soldo arrolata è la vittoria.
Nuova strada per gl'italiani s'aperse il
Chiabrera, solo veramente Pindarico, non escluso punto Orazio, sublime alla greca
Omerica e Pindarica, cioè dentro grandi ma giusti limiti, e non
all'orientale come il Filicaja, sublime, colla conveniente e greca
semplicità, per mezzo dell'accozzamento , come
dice Longino, cioè di certe parti della cosa che unite tutte insieme
formano rapidamente il sublime, e un sublime come dico, rapido inaffettato e in
somma pindarico; robusto nelle immagini, sufficientemente fecondo nell'invenzione
e nelle novità, facile appunto come Pindaro a riscaldarsi infiammarsi,
sublimarsi anche per le cose tenui, e dar loro al primo tocco un'aria grande ed
eccelsa. Fu ardito caldo veemente urtantesi nelle cose, ardito nelle voci (come
instellarsi inarenare) nelle locuzioni nelle costruzioni, nel trarre dal
greco e latino le forme così de' sentimenti, (come: Canz. 70, Eroica: Meco
non vo' che vaglia sì sconsigliata voce, e altrove: A me non
scenda in cor sì ria parola: e nota ch'io dico le forme de'
sentimenti e non i sentimenti) come delle parole, nel che alle volte fu felice,
come: Canz. Eroica 23: Qual non fe scempio sanguinoso acerbo L'aspro cor
dell'Eacide superbo? Canz. Eroica 71: Sol fe contrasto il gran sangue di
Guisa ec. Imitò anche bene i greci e Pindaro e Orazio nell'economia
del comportamento. E certo alle volte è nobilissimo tanto pel sentimento
quanto per le parole: ma pochissimi pezzi finiscono di piacere; non arriva
quasi mai non ostante quello che s'è detto del suo stile estrinseco alla
felicità d'espressione, e alla bellezza della composizione delle parole
d'Orazio, è oscuro assai spesso per le costruzioni gli equivoci (non
già voluti, come i seicentisti, ma non avvertiti o trascurati) la
soppressione delle idee intermedie ne' passaggi (se ben questa è
naturale, perchè [25]il poeta fervido quantunque non passi mai da
un pensiero all'altro senza una qualche cagione e occasione che è come
il legame delle diverse idee, nondimeno questo legame essendo sottilissimo lo
salta facilmente, o anche non saltandolo affatto, il lettore non lo arriva a
vedere) e anche nel passare p.e. dalle premesse alla conseguenza ec. insomma
è sovente sconnesso, (ma questa potrebbe anche essere una lode per la
verità dell'imitazione dell'affetto e dell'estro, e tutto questo difetto
dell'oscurità lo ha comune con Pindaro) ha qualche macchia di
seicentisteria, che però è rara e non farebbe gran caso; ha
qualche metafora non seicentesca affatto, ma troppo ardita, alla pindarica
sì, ma soverchiamente ardita, come Canz. Eroica 14, dice dell'armi di
Toscana: Elle non tra i confin del patrio lito, Quasi belve in covili, Ma fero
udir gentili Per le strane foreste aspro ruggito: Canz. Eroica 41,
chiama le vele: le tessute penne; (se ben quella del ruggito si potrebbe
difendere colla similitudine che precede, delle belve, onde si riferisse a
quella, cioè la metafora non fosse più semplicemente delle armi
ruggenti, ma cambiate in fiere o assomigliate alle fiere e così
ruggenti, per una enallage pindarica) fa forza alla lingua nelle voci (come le
composte alla greca: ondisonante ec. che la nostra lingua non ama) nelle
forme trasportate dal greco e latino infelicemente, (giacchè non sempre
anzi non sovente è felice come ho detto di qualche volta) nelle
locuzioni nelle costruzioni; e quel ch'è più e che l'uccide,
è disugualissimo ridondante di pezzi deboli pel sentimento anzi anche di
Canzoni o intere o quasi; di stile per l'ordinario infelice lingua incolta (neglexit
linguae cultum, dice il Gravina nella lettera latina al Maffei, e
così è) sì che non sono se non rarissimi quei pezzi dei
quali si possa dire tutto il bene, e in cui, quando anche l'immagini e i sentimenti
sieno perfetti il che non è tanto raro, l'esteriore dello stile non
abbia difetti che saltano grandissimamente all'occhio e disgustano. Che s'egli
avesse avuto scelta (delectum rerum et limam amisit, dice verissimamente
il Gravina l. c.) e lima (delle quali forse e massime della seconda non era capace)
sarebbe il più gran lirico pindarico che abbia qualunque nazione antica
e moderna, da non potersegli paragonare nè Orazio nè verun altro
eccetto lo stesso Pindaro. Questi difetti principalmente (di scelta e di lima
tanto per le cose che per le parole, giacchè gli altri accennati di
sopra non son tanto gravi, e già si sa che un gran poeta deve aver
grandi difetti, sì che se non fossero altro che quelli, io non dubiterei
di tenerlo tuttavia per un gran lirico) fecero che siccome era nato effettivamente
il suo lirico all'Italia, così anche le venne meno, giacchè non
si può dire che sieno buone poesie liriche i versi del Chiabrera, ma
solamente che questi fu vero poeta lirico.
Una considerazion fina intorno all'arte
dello scrivere è questa che alle volte, la collocazione, diremo,
fortuita delle parole, quantunque il senso dell'autore [26]sia chiaro
tuttavia a prima vista produca ne' lettori un'altra idea, il che, quando
massime quest'idea non sia conveniente bisogna schivarlo, massime in poesia
dove il lettore è più sull'immaginare e più facile a
creder di vedere e che il poeta voglia fargli vedere quello ancora che il poeta
non pensa o anche non vorrebbe. Ecco un esempio Chiabrera Canz. lugubre
Le più belle canzoni del Chiabrera non sono per la maggior
parte altro che bellissimi abbozzi.
Che il Filicaja seguisse lo stile profetico
(così appunto dicevano quei due che ora citerò) lo scrive anche
il Redi nelle sue lettere, e similmente del Guidi dice il Crescimbeni nella sua
Vita che quantunque paia come il Chiabrera, aver bevuto ai fonti greci, nondimeno
molto sembra aver preso dall'Ebraico; talchè la sua apparenza ha assai
più del Profetico che del Pindarico, [27]e soggiunge che in
un certo libro si dice di lui che da alcune forme di Dante, e del Chiabrera
accoppiate con certi modi delle Orientali favelle ha preso il suo stile. E
aggiunge egli subito: E questa senza fallo è la cagione, per la quale
vien dato al carattere del Guidi il pregio di nuovo nel nostro Idioma. E finalmente
riferisce l'intenzione dello stesso Guidi, intesa dalla di lui stessa bocca da
esso Crescimbeni, e massime rispetto alla traduzione delle sei Omelie che il
Guidi fece per lasciare a' posteri almeno in ombra l'IMITAZIONE totale
del carattere profetico anche rispetto agli argomenti; cioè un genere
di Poesia sacra, che si vedesse trattata col gusto Davidico, e con l'entusiasmo
de' Profeti.
Emulo impotente di Pindaro il Guidi
cercò la grandezza e per trovarla si raccomandò anche agli
Orientali e tolse più forme e immagini dalla scrittura, ma gli
mancò la forza sufficiente di fantasia, nè in lui trovo nessuna
novità se non per rispetto al suo secolo, avendo sfuggito benchè
non affatto le seicentisterie. Nudo intierissimamente d'affetto, in
verità non si può dire che abbia disuguaglianze perchè
tutte quante le sue canzoni sono coperte si può dire ugualmente di uno
strato di perfetta e formale mediocrità, e freddezza. Io non so come si
possa dire che abbia trasportato ne' suoi versi il fuoco e l'entusiasmo di
Pindaro, (così la Biblioteca Italiana num. 8. Bibliografia)
quando io, lette tutte le sue canzoni mi trovo come un marmo: e si vede
bene ch'egli cerca di grandeggiare e d'innalzarsi, ma la sua grandezza
nè si communica col lettore innalzandolo, nè lo percuote e
stordisce, restando non dico gonfia (perchè in verità il suo
difetto non è la turgidezza) ma vota e senza effetto e questo per due
cagioni. L'una la debolezza della sua fantasia, che non gli suggeriva
spontaneamente e copiosamente cose grandi, l'altra (che in parte o tutta si
riferisce alla prima e solamente è più speciale) che i suoi
sublimi che sono sparsi a larghissima mano per tutte le sue Canzoni non sono formati
rapidamente dalla scelta , come
dice Longino, come fa Pindaro e Omero e il Chiabrera, con che vengono ad il
Lettore e te lo strascinano e sbalzano qua e là stordito e confuso a
voglia loro, ma è composto placidissimamente di lunghe enumerazioni di
cose di parti d'immagini accozzate e messe una dopo l'altra ordinatamente e in
simmetria senza rapidità di stile e freddamente sì che quantunque
le immagini metafore ec. stieno in regola e però non ci sia turgidezza,
contuttociò non fanno altro che un gran fresco perchè il sublime
non si può formare in quel modo. In somma ha bisogno di una pagina per
formare un quadro o pezzo qualunque sublime, dove Pindaro e il Chiabrera di
pochi versi, questi come Dante è nel dipingere, quello com'è Ovidio.
La dicitura non ha altro pregio che una purgatezza competente, senz'ombra di
proprietà nè d'efficacia; [28]nè anche ha quegli
ardiri spessissimo infelici, ma pure alle volte felici del Chiabrera, nè
l'oscurità nè veruno di quei difetti, che comunque tali pur
paiono aver che fare colla lirica ed esser quasi naturali a un vero lirico,
sì come a Pindaro. Lo stesso dico dell'intrinseco dello stile, tanto rispetto
all'oscurità quanto all'ardire che nel Guidi non si trova si può
dire altro ardire se non qualche cosa presa dalla Scrittura, come di sopra ho
detto, e quanto a queste cose prese dalla Scrittura io parlo delle canzoni, non
della traduzione delle sei Omelie, dove prese un po' più, tenendo dietro
al testo di esse, anzi le scelse apposta per tener dietro allo stile Davidico,
(quantunque l'abbia fatto senz'ombra di forza annacquatissimamente) che questa
traduzione è un vero mostro (per motivo dei pensieri del modo ec. mentre
sono Omelie in versi, con citazioni di Padri debolissime stiracchiate schifose)
e non merita che se ne dica altro: e pure son l'ultima e più studiata
cosa ch'egli facesse. Del resto il verso è sonante, e dico sonante
perchè non posso dire armonioso se per armonia vogliamo intendere la finezza
dell'arte di verseggiare trovata dagl'italiani dopo, il ritmo analogo ai sentimenti,
la varietà ec. ec.
Io solea dire ch'era una follia il credere e
scrivere che ci fosse o in Italia o altrove qualche poeta che somigliasse ad Anacreonte.
Ma leggendo il Zappi trovo in lui veramente i semi di un Anacreonte, e al tutto
Anacreontica l'invenzione e in parte anche lo stile dei Sonetti 24.34.41, e
dello scherzo: il Museo d'Amore. Anche le altre sue poesie sono lodevoli
non poco per novità de' pensieri (giacchè non c'è quasi
componimento suo dove non si veda qualche lampo di bella novità) con dignitoso
garbo e composta vivacità e certa leggiadria propria di lui (così
anche il Rubbi) per la quale si può chiamare originale, benchè di
piccola originalità. I Sonetti Amorosi ed hanno le doti sopraddette, e
qual più qual meno s'accostano all'Anacreontico.
Il Manfredi non ha altro che chiarezza e
facilità e gentilezza ed eleganza, senz'ombra ombra di forza in nessun
luogo, sì che quando il soggetto la richiede resta veramente compassionevole
e misero e impotente come nelle Quartine per Luigi XIV. Del resto la gentilezza
sua, ch'io dico è diversa dalla grazia e leggiadria e venustà,
ch'è cosa più interiore intima nel componimento e indefinibile.
Nè ha il Manfredi punto che fare coll'Anacreontico e la gentilezza sopraddetta
l'ha in ogni sorta di soggetti, gravi dolci leggiadri sublimi ec. Nei Canti del
Paradiso c'è mirabile chiarezza e facilità di esprimere e di
spiegare e dare ad intendere in versi lucidissimamente e senza dare nel
prosaico o nel basso, cose intralciate e difficili. Nelle Canzoni massimamente
ha imitato il Petrarca e anche affettatamente e servilmente come dove dice: Canzone
O tra quante il sol mira altera e bella Pel giorno natalizio di
Ferdinando di Toscana: Rade volte addivien, ch'altrui sublimi Fortuna ad
alto onor senza contrasti, (Rade volte addivien ch'all'alte imprese Fortuna
ingiuriosa non contrasti: Petrarca Spirto gentil ec.) e altrove.
Dei quattro lirici ch'io ho mentovati di
sopra oltre il Manfredi e il Zappi che sono di un'altra classe, mentre questi
appartengono a quella de' Pindarici e Alcaici e Simonidei ed Oraziani, ossia
Eroici e Morali principalmente, io do il primo luogo al Chiabrera, il secondo
al Testi de' quali se avessero avuto più studio e più fino gusto,
e giudizio più squisito quegli avrebbe potuto essere effettivamente il
Pindaro, e questi effettivamente l'Orazio italiano. Tra il Filicaia e il Guidi
non so a chi dare la preferenza; mi basta che tutti e due sieno gli ultimi e a
gran distanza degli altri due, mentre, secondo me, quando anche fossero stati
in tempi migliori, non aveano elementi di lirici più che mediocri anzi
forse non si sarebbero levati a quella fama ch'ebbero e in parte hanno.
[29]Tutto è o può
esser contento di se stesso, eccetto l'uomo, il che mostra che la sua esistenza
non si limita a questo mondo, come quella dell'altre cose.
Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati.
(Decembre 1818.)
Fàcciate alla finestra, Luciola,
Decco che passa lo ragazzo tua,
E porta un canestrello pieno d'ova
Mantato colle pampane dell'uva.
I contadì fatica e mai non lenta
E 'l miglior pasto sua è la polenta.
È già venuta l'ora di partire
In santa pace vi voglio lasciare.
Nina, una goccia d'acqua se ce l'hai:
Se non me la vôi dà padrona sei.
(Aprile 1819.)
Io benedico chi t'ha fatto l'occhi
Che te l'ha fatti tanto 'nnamorati.
(Maggio 1819.)
Una volta mi voglio arrisicare
Nella camera tua voglio venire.
(Maggio 1820.)
Ottimamente il Paciaudi come riferisce e
loda l'Alfieri nella sua propria Vita, chiamava la prosa la nutrice del
verso, giacchè uno che per far versi si nutrisse solamente di versi
sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il grasso
degli animali è la cosa meno atta a formare il nostro, e le cose
più atte sono appunto le carni succose ma magre, e la sostanza cavata
dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa
rispetto al verso.
Una giovane nubile educata parte in
monastero parte in casa con massime da monastero, esortava la sorella di un
giovane parimente libero, a volergli bene, e le ripeteva questo più
volte, e con premura, cosa di ch'io informato credetti che questo potesse
essere un artifizio dell'amore che non potendo a cagione della di lei educazione
monastica operare direttamente, operava indirettamente facendole consigliare
altrui un amor lecito, verso quell'oggetto, ch'ella forse si sentiva portata ad
amare con amore ch'ella avrà stimato illecito.
Un villano del territorio di Recanati avendo
portato un suo bue, già venduto, al macellaio compratore per essere ammazzato,
e questo sul punto dell'operazione, da principio dimorò sospeso e
incerto di partire o di restare, di guardare o di torcere il viso, e finalmente
avendo vinto la curiosità, e veduto stramazzare il bue, si mise a
piangere dirottamente. L'ho udito da un testimonio di vista.
Chi mi chiedesse qual sia secondo me il
più eloquente pezzo italiano, direi le due canzoni del Petrarca Spirto
gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi qualche cosa al Tasso ch'era in
verità eloquente, e principalmente parlando di se stesso, ed eccetto il
Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente. La sventura in gran
parte lo fece tale, e l'occorrergli spessissimo di difendersi ec. e in
qualunque modo parlar di se, perch'io sosterrò sempre che gli uomini
grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i piccoli diventano
qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l'interesse e la
profonda cognizione ec. non lasciano campo all'affettazione e alla
sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell'eloquenza e della
poesia, non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria,
dove necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di
pienezza di cuore. Onde quello che si dice della utilità derivante agli
scrittori dal trattare materie presenti, a miglior dritto si dee dire del
parlare di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di se non debba
interessar gran fatto gli uditori, [30]cosa falsissima: e si veda nel
migliore e più celebre pezzo del Bossuet, quello in fine all'Oraz. di
Condé che effetto fa l'introduzione di se stesso, al qual pezzo io paragono
quello di Cicerone nella Miloniana (ch'è forse la sua migliore Orazione
come questo è forse il più gran pezzo di essa) il quale si combina
parimente ch'è nel fine, dove per intenerire i giudici introduce
menzione di se stesso, e mi par che faccia un effetto incredibile, come e
più di quello che fa il Bossuet, tanto può l'introdurre se stesso
nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si crede.
La duttilità della lingua francese si
riduce a potersi fare intendere, la facilità di esprimersi nella lingua
italiana ha di più il vantaggio di scolpir le cose coll'efficacia dell'espressione,
di maniera ch'il francese può dir quello che vuole, e l'italiano
può metterlo sotto gli occhi, quegli ha gran facilità di farsi
intendere, questi di far vedere. Però quella lingua che purchè
faccia intendere non cerca altro nè cura la debolezza dell'espressione,
la miseria di certi tours (per li quali la lodano di duttilità)
che esprimono la cosa ma freddissimamente e slavatissimamente e annacquatamente
è buona pel matematico e per le scienze; nulla per l'immaginazione la
quale è la vera provincia della lingua italiana: dove però
è chiaro che l'efficacia non toglie la precisione anzi l'accresce, mettendo
quasi sotto i sensi quello che i francesi mettono solo sotto l'intelletto,
ond'ella non è men buona per le scienze che per l'eloquenza e la poesia,
come si vede nella precisa efficacia e scolpitezza evidente del Redi del
Galilei ec.
Nella quistione se [si] debba dire be ce
de ec. o bi ec. e però abbiccì o abbeccè
della quale v. il Manni Lez. di lingua toscana, io senza cercare l'uso di qual
città debba far legge ma quale sia più ragionevole preferisco l'abbeccè
ch'è anche nostro marchegiano, per ragioni cavate dalla natura la quale
pare che quel riposo vocale per la cui necessità soltanto si dà
il nome alle consonanti, lasciando le vocali sole come sono, (quantunque gli
antichi greci ebrei ec. nominassero anche le vocali) l'abbia ristretto all'e
onde provatevi a pronunziar sola una consonante p.e. l'f o l'n: (metto queste
sulle quali non cade la quistione nè l'uso di pronunziare piuttosto in
un modo che in un altro) vedrete che la pronunzia non potendo star sospesa e
finita nella pura consonante, e dovendo cascare in vocale vi casca nell'e:
così vediamo che i fanciulli nel leggere e chiunque strascina la
pronunzia delle parole, a quelle lettere che non hanno vocale dopo aggiunge un
mezzo e, come in aredenetemenete ine pace ec. Però gli
ebrei (e credo che così sia in tutte le lingue orientali) ponendo sempre
un riposo dopo ogni consonante o espresso o sottinteso, quando manca la vocale,
ci mettono o ci suppongono lo sceva tanto in mezzo che in fine delle parole, il
quale talora si pronunzia talora no, e in genere si può molto propriamente
rassomigliare all'e muta dei francesi, i quali non hanno altra vocale
muta che l'e, nuova prova di quel ch'io dico.
Io[1] per
esprimere l'effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte non so
trovare similitudine ed esempio più adattato di un [31]alito
passeggero di venticello fresco nell'estate odorifero e ricreante, che tutto in
un momento vi ristora in certo modo e v'apre come il respiro e il cuore con una
certa allegria, ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere,
ovvero analizzarne la qualità, e distinguere perchè vi sentiate
così refrigerato già quello spiro è passato, conforme appunto
avviene in Anacreonte, che e quella sensazione indefinibile è quasi
istantanea, e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate
a leggere, vi restano in mano le parole sole e secche, quell'arietta per
così dire, è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la
sensazione che v'hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete
sotto gli occhi. Questa sensazione mi è parso di sentirla, leggendo
(oltre Anacreonte) il solo Zappi.
Il gusto presente per la filosofia non si
dee stimare passeggero nè casuale, come fu varie volte anticamente p.e.
appresso i Greci al tempo di Platone dopo Socrate, e appresso i Romani in altri
tempi ancora, ma fra i nobili e gli scioli come presentemente al tempo di
Luciano, quando mantenevano il filosofo come ingrediente di corte e di famiglia
illustre, e si trattenevano benchè scioccamente con lui ec. V. Luciano
fra le altre opere nel trattato De mercede conductis. In questi tali tempi era
effetto di moda, e non avendo il suo principio radicale nello stato dei popoli
poteva passare e passava come ogni altra moda, sicch'era cosa accidentale che
sopravvenisse questo gusto piuttosto che un altro. Ma presentemente il commercio
scambievole dei popoli, la stampa ec. e tutto quello che ha tanto avanzato
l'incivilimento cagiona questo amore dei lumi e per conseguenza della filosofia,
e questo gusto filosofico che si manifesta nelle opere più alla moda e
quello spirito senza il quale si può dire che nessun'opera moderna
incontra: onde questo gusto avendo la sua ferma radice nella condizione
presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale nè passeggero
e molto differente da una moda.
La prosa per esser veramente bella (conforme
era quella degli antichi) e conservare quella morbidezza e pastosità composta
anche fra le altre cose di nobiltà e dignità, che comparisce in
tutte le prose antiche e in quasi nessuna moderna, bisogna che abbia sempre
qualche cosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una mezza
tinta generale, onde ci sono certe espressioni tecniche p.e. che essendo
bassissime nella poesia sono basse nella prosa; (giacchè qui non parlo
di quelle che son basse e plebee assolutamente le quali anche talvolta sconverranno
meno alla buona prosa di quelle ch'io dico qui) come altre che sono basse nella
poesia, alla prosa non disconvengono affatto: p.e. quei versi del Voltaire: Je
chante le héros qui régna sur la France Et par droit de conquête, et par
droit de naissance. Quel tecnicismo pessimo in questi versi, non disdice in
prosa. Da questo ch'io ho detto si vede quanto debba diventare come infatti diventa
geometrica arida sparuta dura, asciutta ossuta, e dirò così,
somigliante a una persona magra che abbia le punte dell'ossa tutte in fuori,
quella prosa tutta sparsa d'espressioni metafore frasi locuzioni modi tecnici
che usa presentemente massime in Francia, e quanto lontana da quella freschezza
e carnosità morbida sana vermiglia vegeta florida, e da quella pieghevolezza
e da quella dignità che s'ammira in tutte quelle prose che sanno
d'antico.
[32]La tartaruga lunghissima
nelle sue operazioni ha lunghissima vita. Così tutto è
proporzionato nella natura, e la pigrizia della tartaruga di cui si potrebbe
accusar la natura non è veramente pigrizia assoluta cioè
considerata nella tartaruga ma rispettiva. Da ciò si possono cavare
molte considerazioni.
Che il popolo latino non chiamasse testam il
capo, come il nostro lo chiama burlescamente la Coccia, e da questo non
sia venuta la voce italiana testa e la francese tête?
Quello che dice il Metastasio negli Estratti
della poet. d'Aristot. il Gravina nel Trattato della tragedia dove parla del
numero cap.26. e ho detto io nel Discorso sul Breme intorno alla materia
dell'imitazione la quale può esser ad arbitrio, come imitare in marmo in
bronzo in verso in prosa ec. è vero: e quello che ho detto io specialmente
mi par che sia vero senza eccezione: ma quanto al Metastasio poich'egli lo dice
per difender l'Opera, bisogna notare che gli elementi della materia non debbon
esser discordanti, che allora la imitazione è barbara: come forse si
può dir dell'Opera dove da una parte è l'uomo vero e reale per
imitar l'uomo, cioè la persona rappresentata, dall'altra è il
canto in bocca dell'uomo, per imitare non il canto ma il discorso della stessa
persona. Questa osservazione (considerazione) si può estendere a molte
altre materie d'imitazione mal composte. Quanto al canto però si osservi
che anche gli antichi cantavano le tragedie come dice il loro nome, se ben
questo fu forse ne' primi tempi quando la tragedia era veramente in mano di
gentaglia sua sciocca inventrice e il costume o non durò, o se
durò, fu perchè avea cominciato così e non si ardì
o non si volle mutare, e questa forse fu la cagione ancora che fece fare la
tragedia e la commedia in verso, di maniera che da questa pratica venuta da
vile origine non si dee stimare il giudizio de' greci e degli antichi su questo
particolare: i quali forse avrebbero fatto ambedue in prosa se l'una o l'altra
fosse stata invenzione del gusto, e non parto stentato di diversissime
circostanze e usanze vecchie ec.
È osservabile che [in] Celso nel
quale è singolarmente notata (e lodata) la semplicità e
facilità dello stile per le quali si sarà discostato meno degli
altri dal latino volgare, sono frequentissime e moltissime frasi costruzioni,
usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole assolutamente o prette italiane o
che si accostano alle italiane io dico di quelle che comunemente non s'hanno
per derivate dal latino nè per comuni alle due lingue ma proprie della
nostra, e che trovandole non presso Celso ma presso qualche scrittore latino
moderno, le stimeressimo poco meno che barbarismi, anche presentemente,
cioè non ostante che in effetto si trovino appresso Celso eccetto se non
ci ricordassimo espressamente, o ci fosse citata l'autorità di lui. Per
es. dice nel libro 1. capo 3. dopo il mezzo: interdum valetudinis causa
recte fieri, experimentisbcredo; CUM EO TAMEN NE quis qui valere et
senescere volet, hoc quotidianum habeat. (Con questo però che ec.
cioè, purchè locuzione pretta italiana.) E nel lib.2.c.8.
circa il fine: quos lienis male habet, si tormina prehenderunt, deinde
versa sunt vel in aquam inter cutem, vel in intestinorum laevitatem, vix ulla
medicina periculo subtrahit. Si trova però frase simile cioè prehendo
in significato di cogliere, ma presso i Comici latini. E parimente l.2.
c.11. nel fine: huc potius confugiendum est, cum eo tamen ut sciamus,
hic ut nullum periculum, ita levius auxilium esse. E c.17. alquanto sopra il
mezzo: recte medicina ista tentatur, cum eo tamen ne praecordia dura
sint, neve etc. e lib.3. c.5. sul fine: scire
licet... satius esse consistente jam
incremento febris aliquid offerre, quam increscente... cum eo tamen ut
nullo tempore is qui deficit non sit sustinendus. Così c.22. mezzo e
c.24. fine e l.4. c.6. E c.6. dopo il mezzo: in vicem ejus dari potest
vel intrita ex aqua ec. (in vece di questa), e così altrove usa questa
stessa frase; nota che qui non vuol dire alternativamente, ma [33]assolutamente
in vece, cioè escluso l'altro cibo ec. L'altro luogo dove l'usa è
lib.4. c.6. nello stesso modo assoluto. E lib.4. c.2. fine: post quae vix fieri
potest ut idem incommodum maneat. (semplicemente come noi diciamo
incomodo per piccola malattia.) E c.22. quod fere post longos morbos vis
pestifera huc se inclinat, quae ut alias partes liberat, sic hanc ipsam (nimirum
coxas) quoque affectam prehendit. E c.28.
del lib.5. sect.17. nam et rubet (impetiginis genus primum) et durior est, et
exulcerata est, et rodit. (come diciamo noi volgarmente talvolta
neutro e spesso anche impersonale, per prurire). E così ivi poco dopo:
squamulae ex summa cute discedunt, rosio major est. E poco dopo di un
altro genere d'impetigine dice: in summa cute finditur, et vehementius rodit.
Dove s'ingannerebbe chi credesse che Celso volesse per rodere intendere
lo stesso che erodere, poichè 1. egli usa sempre questo secondo
quando si tratta di significare corrosione, 2. negli esempi che addurrò
dove si vede il passivo di rodere, l'accompagnamento delle altre parole,
mostra che non si tratta di corrosione ma di prurito; e dice dunque ib. Sect. seguente
di un altro male simigliante: in quo per minimas pustulas cutis exasperatur et
rubet leviterque roditur: e poco sotto di un altro genere del
sopraddetto male: in qua similiter quidem, sed magis cutis exasperaturque
exulceraturque ac vehementius et roditur et rubet et interdum etiam
pilos remittit, 3. nella sez. precedente la 17. dice della scabbia o rogna per
tutta definizione queste parole: Scabies vero est durior cutis, rubicunda;
ex qua pustulae oriuntur, quaedam humidiores, quaedam sicciores. Exit ex quibusdam sanies, fitque ex his continuata exulceratio
PRURIENS, serpitque in quibusdam cito. Atque in aliis quidem ex toto desinit, in
aliis vero certo tempore anni revertitur. Quo asperior est, quoque PRURIT magis, eo difficilius tollitur. Itaque
eam quae talis est, , id est feram, Graeci appellant. Poi passa
ai rimedi che sbriga in poche righe senza far altro motto della natura del
male. Ora nella sez. seguente dice del primo genere d'impetigine, che
similitudine scabiem repraesentat, nam et rubet etc. come sopra; dove
egli ha la mira a quello che ha detto di sopra della scabbia com'è evidente:
ma ch'ella sia rossa, dura, esulcerata l'ha detto come io ho notato con
lineette, che corroda non l'ha detto punto: ora come sarà simile alla
scabbia la impetigine nam rodit, perchè rode? Bensì ha
detto che la scabbia prurit, e questo segno sostanziale mancherebbe alla
impetigine se il rodit non si prendesse in questo senso, che d'altronde non si
può prendere per corrodere. Vedi se il Forcellini o l'Appendice ha nulla
di rodere in significato di prurire[2]. E
lib.6. c.2. fine: Si parum per haec proficitur, vehementioribus uti licet, cum
eo ut sciamus, (senza il tamen) utique in recenti vitio id inutile
esse. E ib. c.18. sect.7. [34]Si quidquid laesum est, extra est, neque
intus reconditum, eodem medicamento tinctum linamentum superdandum est, et
quidquid ante adhibuimus cerato contegendum. In hoc autem casu
neque acribus cibis utendum neque asperis nec alvum comprimentibus. Così
altrove spesso, in primo casu, in eo casu ec. come noi diciamo: in questo caso,
nel primo caso ec. E lib.7. c.2. dopo il mezzo: Semper autem ubi scalpellus
admovetur, id agendum est ut et quam minimae et quam paucissimae plagae sint, cum
eo tamen ut necessitati succurramus et in modo et in numero. E c.7. sect.7.
At quibus id in angulo est, potest adhiberi curatio, cum eo ne (senza il
tamen) ignotum sit esse difficilem. E c.16.
quia et rumpi facilius motu ventris potest, et non aeque magnis
inflammationibus pars ea (venter), exposita est. E c.22.
adurendus est tenuibus et acutis ferramentis quae ipsis venis infigantur, cum
eo ne amplius quam has urant (senza il tamen) E c.27. circa il
mezzo: Sub quibus perveniri ad sanitatem potest, cum eo tamen quod non
(nota il quod non in vece del ne ch'è anche più
conforme alla frase italiana) ignoremus, orto cancro saepe affici stomachum
(l'ediz. di cui mi servo non ha la virgola dopo orto cancro quantunque
abbondantissima nell'interpunzione). E lib.8. c.10. sect.7. ab init. Quibus
periculis etiam magis id expositum quod juxta ipsos articulos ictum est.
In somma tutta la struttura della prosa di Celso è tale che accostandosi
infinitamente per la maniera il giro la costruzione la frase i modi e le parole
alla italiana, dà a conoscere più che forse qualunque altra prosa
latina dei buoni secoli, anche a chi non lo sapesse per altra parte, che la
lingua italiana deriva dalla latina. Onde non dubito che questa prosa non si
accostasse ancora e non fosse presa in grandissima parte quanto al modo, e
anche in qualche parte rispetto alle parole, dal volgare di Roma, o latino.
Il Libellus de Arte dicendi pubblicato sotto
il nome di Celso da Sisto a Popma in Colonia nel 1569 e ristampato come
rarissimo dal Fabricio in fondo alla Bibl. Lat. Lo giudico un compendio o uno
spoglio o un pezzo compendiato dell'opera di Celso sull'Eloquenza ch'era parte
della grand'opera sulle arti di cui c'è rimasta la medicina. E raccolgo
che sia di Celso dalla facile eleganza o piuttosto facilità elegante
tutta propria di Celso che si trova in vari luoghetti sparsi per tutto il brevissimo
libricciuolo misti a un rimanente confuso, o inelegante, e anche barbaro e
inintelligibile, il che dimostra l'altra parte del mio giudizio, cioè
che questa non sia l'opera intera di Celso, come pare ch'abbia creduto il
Fabricio l.4. c.8. fine p.506. fine, oltrechè come vedo nel Tiraboschi
qui non si trova [35]tutto quello che Quintiliano cita dell'opera di
Celso. Anche Curio Fortunaziano Retore nei Rettorici latini del Pithou, p.69.
cita Celso. Trovo poi anche parecchi modi e parole che mi persuadono che il
libretto sia cavato veramente da Celso, perchè sono frequenti e familiari
sue nei libri della Medicina, p.e. §.3. Oratoris artibus nemo instrui potest,
nisi cui ingenium et frequens studium est. Primum animi sit (assoluto)
oportet quaedam naturalis ad videndas ediscendasque res potentia. Tum
vox, (nota l'omissione del sit oportet, e la dipendenza di questo
periodo dal precedente familiarissimo a Celso) latus, decor, valetudo,
frugalitas, laboris patientia. E tutto il §. È di maniera affatto
Celsiana. E §.4. Super hoc, per oltre a ciò,
usitato da Celso, e la particella ubi per quando, allorchè,
se, familiarissimo a Celso, e usata spesso qui pure, cioè §.9. e
10. tre volte, 11. Due volte, e 17. due volte. E §.10. Neque alienum
est, ubi longior fuerit expositio vel narratio, extrema ita finire, ut
admoneas quaecumque dixeris. E ivi poco dopo: Nec semper debet orator veterum
se praeceptis addicere, sed scire debet incidere novam materiam
quae novi aliquid postulet. E quanto all'incidere, si trova anche in
simile maniera §.11. Evenit ut ante sit respondendum quam sit ponenda narratio,
ut pro Milone: Incidit caussae genus quod summam habet quaestionis. E ib.
più sopra: Alterum genus est in quo utique (modo familiarissimo a
Celso) aeque supervacua narratio est e così §.12. haec enim verisimilia
sunt, non utique vera. E §.13. Cum autem diu dicere volet, omne
argumentum ornatius exequetur. E ivi: Si unum argumentum validum
est et unum frivolum, a valido incipies, frivolum persequeris, rursum validum
repetes. E ivi: Cum aliquibus partibus causa laborat, utilius ordinem quaestionum
confundimus, quas ex toto tractare non expedit. Modo totalmente
celsiano, al quale è familiarissimo quando appo gli altri è se
non altro, raro, a mio parere, e che quasi solo basterebbe appresso me per
farmi credere che il libretto sia cavato veramente da Celso. Modo del resto
levato di peso dal greco , alla
qual lingua s'accosta anche moltissimo e la maniera di Celso in generale, e
molti modi frasi locuzioni ec. in particolare (e la semplicità e la forma
della costruzione tanto del tutto, quanto dei periodi, del collegamento loro
ec.), come a lingua madre, nel modo che alla italiana s'accosta come a lingua figlia.
Si trova anche nel §.3. l'avverbio in totum per totalmente,
che se ben mi ricorda, [36]si trova anche frequentemente appresso Celso.
Sento dal mio letto suonare (battere)
l'orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo
fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la
paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata
alla profondità della notte, o al mattino: ancora silenzioso, e
all'età consistente.
Nel Monti è pregiabilissima e si
può dire originale e sua propria la volubilità armonia mollezza
cedevolezza eleganza dignità graziosa, o dignitosa grazia del verso, e
tutte queste proprietà parimente nelle immagini, alle quali aggiungete
scelta felice, evidenza, scolpitezza ec. E dico tutte giacchè anche le
sue immagini hanno un certo che di volubile molle pieghevole facile ec. Ma
tutto quello che spetta all'anima al fuoco all'affetto all'impeto vero e
profondo sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. Egli è
un poeta veramente dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun
modo, e ogni volta che o per iscelta come nel Bardo, o per necessità ed
incidenza come nella Basvilliana è portato ad esprimer cose affettuose,
è così manifesta la freddezza del suo cuore che non vale punto a
celarla l'elaboratezza del suo stile e della sua composizione anche nei luoghi
ch'io dico, nei quali pure egli va bene spesso anzi per l'ordinario con ributtante
freddezza e aridità in traccia di luoghi di classici greci e latini, di
espressioni di concetti di movimenti classici per esprimerli elegantemente
lasciando con ciò freddissimo l'uditore, che non trova ancor quivi se
non quella coltura (la quale in questi casi più quasi nuoce di quello
giovi) che trova per tutto il resto della composizione sparso anch'esso di
traduzioni di pezzi de' Classici. Giacchè questo è il costume del
Monti e nella Basvilliana e per tutto di tradurre (ottimamente bensì, ma
quasi formalmente tradurre) frequenti luoghi, modi frasi pensieri immagini
similitudini metafore [37]ec. ec. d'autori classici: e la Musogonia segnatamente
si può dire che sia un vero centone di pezzi (nota bene) di Omero
Esiodo Callimaco Virgilio Orazio Ovidio, i cui nomi (con forse quello di
qualcun altro antico o italiano classico) se ve li scrivessero in margine a
modo delle Catenae patrum, non credo che ci sarebbe non dico pag. ma appena
stanza che non fosse compresa sotto quei nomi, di maniera ch'io non mi fiderei
di trovare in tutto il canto una diecina di ottave intieramente originali.
Lascio poi che il poemetto non ha nessun fine soddisfacente, non è se
non stiracchiatamente adattato alle circostanze d'allora, e un centone di pezzi
antichi per cantare quello che cantarono quegli stessi antichi è una
cosa ben miserabile.
La natura, come ho detto è grande, la
ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira.
Questa nimicizia di queste due gran madri delle cose non è stata accordata
se non dalla Religione la qual sola proponendo l'amore delle cose invisibili di
Dio ec. e la speranza di premio nella vita futura ha conciliato con mirabile
armonia la grandezza generosità sublimità, apparente pazzia delle
azioni (come son quelle dei martiri, il distacco dai beni terreni da' parenti
dalla patria ec. il disprezzo della morte, il sacrifizio de' piaceri e di tutto
all'amor di Dio al dovere ec.) colla ragione: armonia che fuor della religione
non si può trovare se non a parole, perchè tolta la speranza
della vita futura, l'immortalità dell'anima, l'esistenza della
virtù della sapienza della verità della beltà
personificata in Dio, la cura di questo essere intorno ai portamenti nostri ec.
l'amor di lui ec. non ci sarà mai si può dire, azione eroica e
generosa e sublime, e concetti e sentimenti alti, che non sieno vere e prette
illusioni e che non debbano scadere di prezzo quanto più cresce l'impero
della ragione, come già vediamo e che sono illusioni quelle grandezze
anche presenti nelle quali la religione non ha parte, e che collo indebolirsi
la forza della fede negli animi, scemano presentemente quelle azioni sublimi
delle quali erano molto più fecondi i secoli passati ignoranti che il
nostro illuminato. Similmente si può dire della dolcezza e
amabilità di tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere,
e colla religione sono verità, e alle quali la ragione per se ripugnerebbe,
la quale com'è nemica della grandezza così è nemica della
profonda e vera bellezza, e con lei, come tutto è piccolo così
tutto è brutto e arido in questo mondo.
Uno dei casi nei quali il seguir la ragione
è barbaro, e il seguir la natura è irragionevole, ma religioso
però, è di un padre p.e. che veda il figlio così affetto
da dover essere assolutamente infelice vivendo, da dover penare sempre e senza
riparo, tra dolori acuti, tra la mancanza di tutti i piaceri, tra una noia
perenne, tra una vergogna cocente per le imperfezioni fisiche ec. Desiderar la
morte a questo figlio, poniamo caso anche malato, anche disperato da' medici,
anche moribondo, o vero non solo desiderarla ma non dolersene consolarsene non
piangerne amaramente, è ragionevole e barbaro, e come barbaro e
snaturato, così anche contrario ai principi della religione.
[38]Non so se si possa far cosa
più dispiacevole altrui quanto ad uno che v'abbia fatto un dono
splendido, offrirne goffamente un altro molto inferiore, col che si viene a
mostrare di stimar poco quel dono comparandolo con quello che si presenta quasi
fosse atto a compensarlo, e di credere che il dono ricevuto si sia già
compensato sgravandosi dell'obbligo della gratitudine, e il donatore che nel donarvi
si compiaceva in se stesso aspettandosi da voi e la cognizione del benefizio, e
la gratitudine (quantunque dovesse essere anche necessariamente e prevedutamente
infruttuosa) si vede nell'atto della sua maggior compiacenza privo del premio
del suo sacrifizio, e di più senza potersene lagnare se non altro fra se
così altamente e generosamente come possono quelli che trovano
ingratitudine. La qual frustrazione di speranza dopo un sacrifizio e forse
anche uno sforzo fatto per conseguirla effettivamente, produce nell'uomo un
senso disgustosissimo.
Uomini singolari che si siano distinti o
data opera, o per sola natura, o, com'è infatti, se non altro,
più comune, per l'una e per l'altra maniera, dall'universale dei loro
contemporanei nelle operazioni, vita, istituto ec. metodo ec. ci furono anticamente
e ci sono stati ultimamente, e ci saranno stati in tutte le età, ma
è una cosa curiosa l'osservare la differenza dei tempi nella misura
della differenza tra i costumi di questi uomini singolari e quelli de'
contemporanei. Giacchè Rousseau p.e. e l'Alfieri sono passati in questi
ultimi tempi per uomini singolari quanto passarono un tempo in Grecia, Democrito
Diogene ec. e gli altri tanti filosofi che durarono anche in Roma sino a M.
Aurelio e dopo. E questa uguaglianza d'effetto è assoluta. Ma se
misureremo la cagion sua, cioè la differenza tra i costumi dell'Alfieri
e i presenti, messa in paragone con quella tra i costumi di Diogene e de' greci
suoi contemporanei troveremo una disparità infinita tra la misura
dell'una differenza e dell'altra essendo senza paragone maggiore quella di
Diogene, dal che avviene che queste due differenze assolutamente parlando siano
diversissime di peso quantunque rispettivamente considerate abbiano un'intensità
e misura e valore uguale. Il che mostra che i costumi presenti non solo variano
dagli antichi nella qualità in maniera che i costumi formali di Diogene
passerebbero oggi per pazzie, ma ancora in questo che a segnalarsi fra essi ci
bisogna una molto minore quantità di stravaganza (prendendo questo
termine in buona parte e per singolarità, stranezza ec.) che non
bisognava una volta, sicchè se qualcuno differisse ne' suoi costumi dai
presenti tanto, assolutamente parlando, quanto Diogene differiva dai greci,
passerebbe anche così, non per singolare, come passava Diogene, ma per
matto, quantunque relativamente alla qualità, la differenza fosse
consentanea e proporzionale ai costumi presenti. Bisognava più dose anticamente
per fare un effetto che ora si ottiene con molto meno, e la successiva e
proporzionale diminuzione o accrescimento di questa dose si può calcolare
anche nei tempi che sono di mezzo fra questi due estremi gli antichi e i
moderni, che sono veramente estremi, non solo cronologicamente ma anche
filosoficamente parlando, e questa dose calcolata può servire di termometro
ai costumi [39]anche trasportandolo dai tempi alle nazioni,
giacchè non è dubbio che la dose non sia presentemente molto
minore in Francia che in qualunque altro paese ec. e così anticamente e
in ciascuna età differente presso questo o quel popolo.
Dice Bacone da Verulamio che tutte le
facoltà ridotte ad arte steriliscono. Della quale verissima sentenza
farò un breve commento applicandolo in particolare alla poesia. Steriliscono
le facoltà ridotte ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che
le amplifichi, come trovavano quando ell'erano ancora informi e senza nome e
senza leggi proprie ec. e di ciò mi sovvengono (verbo usato in questo
significato dal Tasso) 4. ragioni. La 1. che quasi nessuno pensa più ad
accrescere una facoltà già stabilita ordinata composta e che si
ha per perfetta, perchè ognuno si contenta e si acquieta stimando la
cosa già compita il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte,
ma ciascuno che capitava a coltivare questa facoltà, si lambiccava il
cervello per ampliarla perchè non avea nome d'esser arte; quando l'ha
avuto quando anche in fatti non sia più ricca di prima, par ch'ell'abbia
già il tutto. La 2. (e questa è relativa particolarmente alla
poesia) perchè moltissimi anzi quasi tutto il volgo di quelli che si
applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente delle altre
facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite di
mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo
pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle
leggi, insomma la seconda ragione è la pedanteria. La 3. più
comune alle persone di senno e giudiziose e capaci, e anche esimie, è il
costume e l'abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se,
parte agli altri. A se, perchè coll'abito preso di leggere di sentire di
scrivere quella tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti
quantunque non siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri,
perchè non ardiscono di abbandonare la consuetudine corrente, e quantunque
non sieno schiavi dei pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche poesia non
si risolvono a parere stravaganti ideando cose non più sentite, dovendo
pubblicare un'azione drammatica ed esporla agli occhi del popolo, se la
facessero di capriccio e senz'adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi
le risa o il biasimo universale, se componessero un poema epico di forma
differente da quella che si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo
con ragione che dovrebbero essere ripresi d'aver barattati i nomi, non ricevendosi
per poema epico se non quello che è in questa forma consueta. E
così è in fatti che se uno intitola la sua opera tragedia, il
pubblico si aspetta quello che si suole intendere per
tragedia, e trovando cosa tutta differente
se ne ride. Nè senza ragione perchè il danno dell'età
nostra è che la poesia si sia già ridotta ad arte, in maniera che
per essere veramente originale bisogna rompere violare disprezzare lasciare da
parte intieramente i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi di generi ec.
ricevute da tutti, cosa difficile a fare, e dalla quale si astiene
ragionevolmente anche il savio, perchè le consuetudini vanno rispettate
massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono le poesie, nè va
ingannato il pubblico con nomi falsi. [40]E dare una nuova poesia senza
nome affatto e che non possa averne dai generi conosciuti è ragionevole
bensì, ma di un ardire difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli
reali, e non solamente immaginari nè pedanteschi. La 4. e la più
forte, e la più considerabile, che quando anche un bravo poeta voglia
effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta da ogni forma da ogni
consuetudine, e si metta a immaginare una poesia tutta sua propria, senza
nessun rispetto, difficilissimamente riesce ad essere veramente originale, o
almeno ad esserlo come gli antichi, perchè a ogni momento anche senz'avvedersene,
senza volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle forme, in quegli usi,
in quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in quelle immagini, in quei
generi ec. ec. come un riozzolo d'acqua che corra per un luogo dov'è
passata altr'acqua: avete bel distornarlo, sempre tenderà e
ricadrà nella strada ch'è restata bagnata dall'acqua precedente.
Giacchè la natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre
nuove, e se un poeta non fosse stato conosciuto dall'altro appena si sarebbero
trovati due poeti che avessero fatti poemi somiglianti perchè questo non
sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili
combinazioni che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere. Perciò quando
gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora una ora
un'altra tragedia senza forme senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura,
variava naturalmente a ogni composizione. Così Omero scrivendo i suoi
poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli
pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi
anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo
modo i poeti antichi difficilmente s'imbattevano a non essere originali,
o piuttosto erano sempre originali, e s'erano simili era caso. Ma ora con tanti
usi con tanti esempi, con tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante
letture ec. per quanto un poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a
ogni poco ci ritorna, mentre la natura non opera più da se, sempre
naturalmente e necessariamente influiscono sulla mente del poeta le idee
acquistate che circoscrivono l'efficacia della natura e scemano la
facoltà inventiva, la quale se ciò non fosse, malgrado i tanti
poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar naturalmente e senza
sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero poeta) cose sempre
nuove, e non tocche da altri, almeno non in quella maniera ec.
Una delle grandi prove dell'immortalità
dell'anima è la infelicità dell'uomo paragonato alle bestie che
sono felici o quasi felici, quando la previdenza de' mali (che nelle bestie non
è) le passioni, la scontentezza del presente, l'impossibilità di
appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d'infelicità ci
fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra che lo porta,
nè si può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza
non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti,
perchè ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in
tutte le opere della natura, che vi sia un animale, e questo il più
perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero
globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità, e una specie
di contraddizione colla sua esistenza al compimento della quale non è dubbio
che si richieda la felicità proporzionata all'essere di quella tale sostanza
(che per l'uomo è impossibile di conseguire) e una contraddizione
formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali,
anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacchè un uomo disperato
della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n'annoia, ne
patisce (cosa snaturata) e s'uccide come vediamo che fa (impossibile ne'
bruti). L'uccidersi dell'uomo è una gran prova della sua
immortalità. Verri Notte Romana 5. colloquio 6.
[41]La prima donna (del teatro,
attempata) non vuol recedere dagli antichi suoi diritti.
Quello che ho detto qui sopra della
difficoltà d'astenersi dall'imitare è confermato e dall'esempio
del Metastasio che se è vero quello che dice il Calsabigi nella lettera
all'Alfieri non volle mai leggere tragedie francesi, e da quello che scrive l'Alfieri
di se nella sua Vita, e tra l'altro del Caluso che gli negò una tragedia
del Voltaire ch'egli volea leggere mentre stava per comporne un'altra sullo
stesso argomento.
C'è una differenza grandissima tra il
ridicolo degli antichi comici greci e latini di Luciano ec. e quello de'
moderni massimamente francesi. La differenza si conosce benissimo e dà
negli occhi immediatamente. Ma quanto all'analizzarla e diffinire in che
consista, a me pare che sia questo, che quello degli antichi consistea principalmente
nelle cose, e il moderno nelle parole (e quando dico moderno intendo
principalmente le più moderne commedie satire e altri scritti ridicoli
giacchè il Goldoni p.e. ne aveva di quel ridicolo antico e attico e
così le più antiche nostre commedie e il Berni ec. a differenza
credo dei francesi anche antichi come il Boileau ec.). Quello degli antichi era
veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir
così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un
vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e
sorridere, quello era solido, questo fugace, quello durevole materia di riso
inestinguibile, questo al contrario. Quello consisteva in immagini,
similitudini paragoni, racconti insomma cose ridicole, questo in parole, generalmente
e sommariamente parlando, e nasce da quella tal composizione di voci da
quell'equivoco, da quella tale allusione di parole, da quel giucolino di parole,
da quella tal parola appunto, di maniera che togliete quella allusione, scomponete
e ordinate diversamente quelle parole, levate quell'equivoco, sostituite una
parola in cambio d'un'altra, svanisce il ridicolo. Ma quel de' greci e latini
è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane,
aeriformi, come quando Luciano nel paragona
gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del
pescatore. Ed erano i greci e latini inventori acerrimi e solertissimi di queste
immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così
recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è
incredibile come in quel frammento di Filemone Comico appo il Vettori Var. Lect. l.18. c.17. E la novità era cosa ordinarissima
nel ridicolo degli antichi comici secondo la forza comica di ciascheduno. E
quando anche non ci fossero immagini similitudini ec. sempre quel
motteggiare era più consistente più corputo, e con più
cose che non il moderno. Ma forse e senza forse presentemente, e massime ai
francesi par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque
ai greci, popolo il più civile dell'antichità, e a' latini. E
può essere che anche Orazio avesse una simile opinione quando disse male
de' sali di Plauto (esemplare di quel ridicolo ch'io dico tra' latini) e [42]infatti
le Satire e l'Epistole d'Orazio non sono di così solido ridicolo come
l'antico comico greco e latino, ma nè anche di gran lunga, così
sottile come il moderno. Ora a forza di motti s'è renduto spirituale
anche il ridicolo, assottigliato tanto che omai non è più
nè pur liquore ma un etere un vapore, e questo solo si stima ridicolo
degno delle persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono, e degno
del bel mondo e della civile conversazione. Il ridicolo nelle antiche commedie
nasceva anche molto dalle operazioni stesse ch'erano introdotti a fare i
personaggi sulla scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, nella
pura azione, come nelle Cerimonie del Maffei commedia piena di vero e antico
ridicolo, quel salire di Orazio per la finestra a fine d'evitare i complimenti
alle porte. Un'altra gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno
è che quello era preso da cose popolari o domestiche o almeno non della
più fina conversazione, la quale poi non esisteva allora per lo meno
così raffinata; ma il moderno massime il francese versa principalmente
intorno al più squisito mondo, alle cose dei nobili più raffinati
alle vicende domestiche delle famiglie più mondane ec. ec. (come anche
proporzionatamente era il ridicolo d'Orazio) sicchè quello era un ridicolo
che avea corpo, e come il filo d'un'arma che non sia troppo aguzzo, dura lungo
tempo, dove quello come ha una punta sottilissima, (più o meno, secondo
i tempi e le nazioni) così anche in un batter d'occhio si logora e si
consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio del rasoio a prima giunta.
Un'altra prova dell'esser la nostra lingua
italiana derivata dal volgare di Roma del buon tempo si trae dalle parole antichissime
Latine poi andate in disuso presso gli scrittori, che ora si trovano
nell'italiano, le quali è manifesto che con una successione continuata
sono passate da quegli antichissimi tempi sino a noi, perchè nessuno
certo l'è andato a pescare negli scrittori antichissimi latini perduti
poi ancora prima del nascere della nostra lingua, come Lucilio Ennio Nevio ec.
Di maniera che tra questi antichi che le usavano e noi che le usiamo non
bisogna lasciare nessun intervallo voto, perchè non sarebbero più
rinate, se non vogliamo dire che sia un caso, il che non si lascerà
credere appena agli Epicurei. Dunque non essendoci altra catena tra quegli
scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè gli scrittori le aveano
dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore e propagatore all'italiano
di quelle voci. Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi disusata,
poi tornata in uso a' tempi bassi e quindi nell'italiano, (v. il Du Cange)
certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così per
miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino barbari non la
trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a loro o
ignoti, o tutt'altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata la
quale non può esser altro che il popolare latino. E questo credo che si
possa parimente dire di moltissime altre voci.
[43]Diceva un marito geloso alla
moglie: Non t'accorgi, Diavolo che sei, che tu sei bella come un Angelo?
Quanto più del tempo si tiene a
conto, tanto più si dispera d'averne che basti, quanto più se ne
gitta, tanto par che n'avanzi.
Non vorrei parer di detrarre al valore delle
lodi colle quali V.S. s'è compiaciuta d'ornarmi pubblicamente, se
dirò che più dell'onore che me ne viene, mi rallegra la
benevolenza di V.S. che mi dimostrano, e questa tanto maggiore quanto essendo
più scarso il merito mio, conviene che abbondi quello che ha supplito al
suo difetto.
Proprietà, efficacia, ricchezza,
varietà, disinvoltura, eleganza ancora e morbidezza e facilità, e
soavità e mollezza e fluidità ec. sono cose diverse e possono
stare senza la , lepos
atticum, quella grazia che non si potrà mai trarre se non da un dialetto
popolare (capace di somministrarla) che gli antichi greci traevano dall'Attico
i latini massimamente antichi come Plauto Terenzio ec. dal puro e volgare e nativo
Romano, e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato giudiziosamente.
Non si trova in verun Dizionario italiano
ch'io abbia potuto consultare ma è comune fra noi la parola blitri
o blittri o blitteri che significa, un niente, cosa da nulla
ec. Questa casa è un blitri; questa città è un blitri
a misurarla con Roma ec. ec. Ora questa parola è totalmente e
interamente greca: , che
anche si diceva (come
anche noi) e forse anche , e non
significava nulla. V. Laerz. l.7. segm.57. e quivi le note del Casaub. e del
Menag. e il Du Fresne Glossar. Graec. in , e
nell'appendice
Il cantare che facciamo quando abbiamo paura
non è per farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice,
nè per distrarci puramente, ma (come trovo incidentemente e
finissimamente notato anche nella seconda lettera del Magalotti contro gli
Atei) per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione
potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E
già è manifesto che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci
e di credere che non sia tale, o minore che non è, e però
cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e per ultimo grado, per
persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne già persuasi, operando e
discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che accade nel caso
detto di sopra. E già è costume di moltissimi il detrarre quanto
più possono colle parole e colla fantasia a' mali che loro sovrastanno,
e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il coraggio non dal
disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o piccolezza, onde
son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè quando vien
loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono affatto,
(cioè si nascondono o impiccoliscono tutti i motivi di credere) e
così se il male non ha luogo effettivamente essi non han temuto, e gli
altri sì, e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto possono, e
così non temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un male
così evidente e reale e che li tocchi in modo che non possano
ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo
credono affatto male, cioè non lo voglion credere. E questi che [44]forse
spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai,
giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea
dell'avversità, e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro
sovrasti o sia accaduta, subito corrono col pensiero, ad arroccarsi e
trincerarsi e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire fra se che
non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie, come
sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce con
urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in uno
di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per l'altra
parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto
di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a
dissimularsi il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde
è nota l' degli
antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli con nomi
atti a nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v. Elladio appo
il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione del mal
augurio. E anche in italiano si dice, se Dio facesse altro di me, per
dire, s'io morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo
istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret etc. e così in
cento altri casi.
Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero
il latino così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che
i latini studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio
del Demostene, e Longino dove parla di Cicerone quando i latini scrittori senza
nessunissima esitazione nata dall'esser di diversa lingua, parlavano e
giudicavano degli scrittori greci.
Anche in nostra lingua le mutazioni della
pronunzia latina ec. hanno guasto parecchie parole, come da raucus espressivissima
del suono che significa, roco che perde quasi tutta l'espressione.
L'infelicità nostra è una
prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso che i
bruti e in certo modo tutti gli esseri della natura possono esser felici e sono,
noi soli non siamo nè possiamo. Ora è cosa evidente che in tutto
il nostro globo la cosa più nobile, e che è padrona del resto,
anzi quello a cui servizio pare a mille segni incontrastabili che sia fatto non
dico il mondo ma certo la terra è l'uomo. E quindi è contro le
leggi costanti che possiamo notare osservate dalla natura che l'essere
principale non possa godere la perfezione del suo essere ch'è la
felicità, senza la quale anzi è grave l'istesso essere
cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio
possono tutto ciò, e lo conseguono, il che è chiaro a mille segni
e per le ragioni ancora indicate in un altro pensiero.
La costanza dei 300. alle Termopile e in
particolare di quei due che Leonida voleva salvare, e non consentirono ma vollero
evidentemente morire, come anche la solita gioia delle madri o padri Spartani
(ma è più notabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti
per la patria, è similissima anzi egualissima a quella dei martiri e in
particolare di quelli che potendo fuggire il martirio non vollero assolutamente
desiderandolo come gli spartani desideravan di cuore di morire per la patria. E
un esempio recente di un martire che potendo fuggir la morte, non volle, si
può vedere nel Bartoli, Missione al gran Mogol. E la stessa applicazione
[45]fo pure di quelle madri e padri cristiani che godevano sentendo de'
loro figli martiri, e ancora esortandoli vedendoli portandoli accompagnandoli
offrendoli al martirio e nel supplizio confortandoli a non cedere, come le
spartane che esortavano ec. e quella che disse presentando lo scudo al figlio, o
con questo o su questo, e quelle che abbominavano i figli macchiati di
qualche viltà come parimente le cristiane ec. Da questo confronto
risulta una conformità non solita a considerarsi fra questi due generi
di eroismi, ed apparisce quello che ho detto altrove in questi pensieri che la
religione è la sola che abbia riunito l'eroismo e la grandezza delle
azioni e il valore e il coraggio e la forza d'animo ec. colla ragione ec. e che
abbia anzi risuscitato l'eroismo già quasi svanito allo scemare delle
illusioni: e quanto sia simile alle cose nostre quello che non si crede che
abbia esempio fuor delle circostanze della libertà, amor patrio ec. de'
greci de' Romani, in somma degli antichi e principalmente degli antichissimi,
quando come ho detto noi ne abbiamo anche esempi recenti ne' nostri ultimi
martiri, non solo ne' primi e antichi.
Soleva considerar come una pazzia quello che
dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno
con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che
anch'essi sono stati trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che
questo è un sentimento naturale, giacch'io giunto appena per
l'età a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e
tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di
parecchi anni, ma non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le
sue facoltà vizi ec. siccome non per altro (giacchè non era punto
per predilezione de' genitori) se non perch'era mutato il genere della vita
nostra che convivevamo con lui, anch'egli partecipava non poco alla nostra
larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in
quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e
gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in
quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima
invidia, cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo
passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli
avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la
pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e
senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi
queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei
beni ch'io aveva qualunque fossero, perch'io li comunicava con lui, forse parendomi
che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano
niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di
me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli
minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa
inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi
essere scarso quel bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con
assai meno travaglio di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che
questi tali non soffrano quegl'incomodi ch'essi in quelle circostanze hanno
sofferti.
[46]Quando colla lettura col
tratto col discorso coi trattenimenti o letterari o di qualunque genere (ma
massime coi libri in quanto al gusto dello scrivere, e colla conversazione
degli uomini in quanto al costume) ci siamo formati un abito cattivo, crediamo
che quello sia natura, giacchè non c'è cosa tanto simile e facile
ad esser confuso colla natura anche da' più oculati e da' filosofi,
quanto l'abito; e pretendiamo di dover seguire quell'abito p.e. nello scrivere,
(giacchè di questo io voglio qui parlare specialmente come quelli a cui
pare che lo scrivere in un italiano francese sia natura, e così la corruzione
del gusto in ogni genere e parte di scrittura e di stile) dicendo ch'è
natura, e che così vi viene spontaneamente e che la poesia deve fluire
dalla natura e cose tali. Ma non è natura, è abito, e abitaccio
pessimo, e volete vederlo? se siete veramente di buona indole per le Belle Arti
leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete subito che
quella è natura, e vi maraviglierete (come infatti succede, che quasi
paiano due naturalezze e non si sappia capir come, e dall'altra parte questa
duplicità ci faccia stupire) come sia tanto differente da quella che voi
credete che sia natura, eppur non potete negare che questa non sia
perch'è troppo evidente. Ed ecco se volete esser poeta e servirvi di
quello che vi somministra la natura, naturalmente, e rettamente, cominciate, se
siete uomo di giudizio, a conoscer la necessità assolutissima dello
studio, (oh bestemmia! necessario lo studio per iscrivere e poetar bene) e
della lezione dei classici e delle arti poetiche e dei trattati ec. ec. e
vedete appoco appoco la somma difficoltà d'imitare e seguir quella
natura che prima confondendola coll'abito giudicavate così facile a
esprimere, perchè infatti non c'è cosa più facile a
seguire che l'abito, nè più difficile a contrariare, il che
appunto fa la somma difficoltà del seguir la natura vera, e ciò
non si ottiene senza un contrabito tanto più difficile del primo quanto
bisogna erigerlo dai fondamenti, (del che in quell'altro essendo venuto su
appoco appoco, nell'età fresca, e da se, senza nostra fatica, non ci
eravamo accorti) erigerlo sbarbando prima l'altro, e questa è la gran
fatica che in quell'altro non ci fu punto, e finalmente erigerlo continuarlo e
finito conservarlo in mezzo a infinite cose (come letture necessarie, discorsi,
commercio usuale per negozi ec. trattenimenti conversazioni corrotte secondo il
solito, corrispondenze ascoltazione di discorsi altrui ec. ec.) che lo contrastano,
tanto più pericolose quanto vi richiamano a quell'altro abito prima
già fatto, onde il luogo resta sempre lubrico, ed è facile lo
scivolare nel cattivo. E così è necessarissimo lo studio per ben
servirsi di quella natura, senza la quale bensì non si fa niente, ma
colla quale sola avreste ben forse potuto quasi tutto, ma non potete più
nulla, anzi meno del nulla, giacchè non potete non far male, a cagione
dell'abito inevitabile fatto contro di lei.
La grazia non può venire altro che
dalla natura, e la natura non istà mai secondo il compasso della
gramatica della geometria dell'analisi della matematica ec. Quindi la scarsezza
di grazia nella lingua francese tutta analitica e tecnica e regolare, e diremo
angolare, massima scarsezza nell'esteriore dello stile, e poi anche nell'interiore
ec. se bene se ne compensano col nominar la grazia 20. Volte per pagina, e [47]non
c'è un libro francese dove non troviate a ogni occhiata grace, grace
massime parlando dei libri della loro nazione, encomiandoli ec. Grace grace,
mi viene allora in bocca, et non erat grace (pax pax et non erat pax, ma
non so se così veramente dica S. Paolo, o qual altro Scrittor sacro). V.
questi pensieri p.92-94.
Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.
Si suol dire che la resistenza stimola e
dà forze di compire, e condurre a fine quello che si è tentato.
Ora io soggiungo che spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci,
sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti. E questo spesso di
assoluta e determinata volontà, non già per soprabbondanza
meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore del bisognevole per la
resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente alla resistenza, come
se io voglio spingere una cosa da un luogo all'altro, provo che non cede alla
prima spinta, accresco la forza, e questa me la caccia più lontano ch'io
non voleva. Ma dico per deliberata volontà: p.e. do una spinta e non
giova, un'altra e non fa, la terza parimente, alla fine mi piglia la rabbia,
acchiappo la cosa colle mani, e la strascino molto più in là
ch'io non voleva prima ch'ella andasse, e volendo ch'ella stia dove dee,
bisogna che la riporti indietro al luogo conveniente, e così fo. E la distanza
alla quale l'ho portata è spesso più che doppia ed anche tripla
di quella a cui la voleva spingere. Questo accade perch'io allora non considero
più e non ho per fine della mia azione, di farla andare in quel tal
luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza, e mostrare la
superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo volere e la
sua forza, la quale tanto più si dimostra, e la vendetta e la vittoria
è tanto maggiore quanto io la porto più lontano, e insomma volti
allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che così si
conseguisce, e perciò non c'importa che veniamo a nuocere a quel primo
fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora
questo caso fisico ai morali.
Perciò si vuole che le parole che si
hanno da aggiungere alla nostra lingua o per arricchirla, o per
necessità ec. si prendano dal latino e non dal francese nè dal tedesco
ec. chiamando quelle buone e approvandole, e queste barbare, perchè
quelle ordinariamente o almeno assai più spesso e facilmente consentono
coll'indole della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e sembianza nativa
e la sua grazia ec. ma queste dissuonano manifestissimamente e sconvengono, e
sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme native, e la
venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa sconvenienza
si scorge anche nelle semplici parole, com'è chiaro, vedendosi subito
che vengono da un'altra fonte, laddove le latine non possono venire da un'altra
fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la
lingua italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese, non
però la italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto la
sorgente sia la stessa, nel corso si può bene il rivo essere, anzi
s'è mutato, e alterato, ed ha acquistato proprietà tali, che non
ha più nessun diritto di dare ad un altro rivo nato dalla stessa
sorgente, le sue acque, come [48]a lui convenienti. Laddove la fonte non
essendo alterata, restiamo sempre in diritto d'attingerne, e anche quivi con
giudizio, e quanto è permesso dalle alterazioni che ha sofferte il
nostro proprio rivo, per cagione delle quali alcune acque della stessa sorgente
non ci si potrebbero mescolare senza sconvenienza. Ed ecco la cagione del
diverso diritto, e delle diverse conseguenze che si devono dedurre dalla
fratellanza delle lingue e dalla figliolanza. Quello poi che ho detto delle
parole va inteso e molto più intensamente delle frasi che corrompono
più e sconvengono più, avendo faccia più manifestamente
straniera e dissimile. E che questa non sia pedanteria e cieca venerazione
dell'antichità si vede chiaro da questo che non solo non amiamo ma detestiamo
le parole greche, quantunque la lingua latina ne prendesse in tanta copia, e
appunto per uso d'arricchirsi, e per le diverse necessità d'esprimer
questa o quella cosa mancante di parola latina dove senza crearla di nuovo la
levavano di peso dal greco ed è costume usitatissimo dei latini come di
Cicerone di Celso ec. quantunque principalmente di chi scriveva di scienze come
Plinio ec. ma anche Orazio com'è notissimo ec. Ora perchè queste
hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore, ed anche gran parte delle
frasi strettamente prese, giacchè dei modi più largamente,
infiniti ne convengono a maraviglia alla nostra lingua. Al contrario
però di noi la lingua francese non fa una difficoltà al mondo di
spogliare la lingua greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi tempi se
n'è empiuta e satollata strabocchevolmente, onde già fanno dizionari
delle parole francesi derivate dal greco cosa per altro scellerata che guasta
quella lingua orrendamente (come guasta indegnamente la nostra la barbarie comunissima
di usar queste stesse parole greche massime le moderne pigliandole non dal
greco ma dal francese colla stessa barbarie però, quantunque i
più neppur sappiano che siano interamente greche ma le abbiano per pure
francesi, come despota, demagogo, anarchia, aristocrazia, democrazia, colle
terminazioni greche sole p.e. civismo, filosofismo ec. ec. che in gran parte
son politiche messe fuori dalla repubblica francese ma ce ne ha di tutti i
generi) e in principal modo perch'essendo adottata da tutti gli scrittori di
scienze la nomenclatura tratta dal greco onde non c'è scienza, anzi
neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec. che non sia piena di greco, e
perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non sia intieramente greca, le
parole greche essendo necessariamente di quel sembiante che tutti siamo soliti
di vedere nelle usate dagli scienziati, danno alla lingua francese (e darebbero
a qualunque lingua e daranno all'italiana se dalla francese saranno trasportate
stabilmente nella nostra) un'aria indegna di tecnicismo (per usare una
di queste belle parole) e di geometrico e di matematico e di scientifico che
ischeletrisce la lingua, riducendola in certo modo ad angoli e perchè
non c'è cosa più nemica della natura che l'arida geometria, le
toglie tutta la naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde
nasce la bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed
anche la forza e robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al
linguaggio tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta
dalle parole cioè col significato loro e coll'argomento e ragione, o col
concetto spiegato freddamente con esse.
[49]La favola del pavone
vergognoso delle sue zampe pecca d'inverisimile anzi d'impossibile,
giacchè non ci può esser parte naturale e comune in verun genere
d'animale, che a quello stesso genere non paia conveniente, e quando sia nel
suo genere ben conformata non paia bella: giacchè la bellezza è
convenienza, e questa è idea ingenita nella natura; quali cose
però si convengano, questo è quello che varia nelle idee non solo
dei diversi generi di animali, ma eziandio degl'individui di uno stesso genere,
come negli uomini, agli Etiopi (per non uscire dalla bellezza del corpo) par
bello il color nero, il naso camoscio, le labbra tumide, e brutti i contrari
che a noi paion belli, e tra i bianchi questa e quella nazione si diversifica
assaissimo nel valutar come bella questa o quella forma che all'altra nazione
dispiacerà. Ma che la natura abbia fatto parte stabile ed essenziale di
verun genere animalesco che a quello stesso genere paia brutta è
impossibile, giacchè non è possibile che un genere non abbia
nessuno cui stimi bello, e questo vediamo parimente nella specie, e le stesse
differenze ch'io ho notate nei giudizi degli uomini provengono dalla differente
forma loro come negli Etiopi, Lapponi, Selvaggi, isolani di cento figure ec. E
le altre differenze, come nello stimar più l'occhio ceruleo che il nero,
ec. versano non intorno a cose stabili e immutabili, ma, com'è chiaro da
questo esempio, mutabili, e differenti in una stessa specie secondo
gl'individui, giacchè altrimenti la natura avrebbe fatto una specie di
bruttezza assoluta, se parendo bruttezza a noi, paresse anche a quel tal genere
o specie. Ma la bruttezza assoluta ben noi ce la figuriamo che vedendo le
zampacce del pavone, e parendoci sconvenienti al resto del suo corpo, non
crediamo che possano parer belle a nessuno animale, ma il fatto non istà
così, anzi al pavone parebbono brutte nel proprio genere quelle zampe
più grosse carnose morbide ornate vestite ec. che a noi parrebbono
più belle, e giudica brutto quello del suo genere (o specie che la vogliamo
dire) che non ha le zampe perfettamente secche asciutte ec.
Quello che ho detto nel principio di questo
pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti quella favola non pecca
d'inverisimile non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali
naturalmente siamo portati a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi
nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni. E quantunque il filosofo facilmente
conosca il contrario, tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è
inverisimile il dir p.e. che le stelle cadano, anzi lo dice Virgilio e si dice
da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante
sia cosa impossibile.
[50]A quello che ho detto nel 3.
pensiero avanti al presente si aggiunga che le parole nuove si devono anche
cavare dalle radici che sono nella propria lingua, e questa è una fonte
principalissima e dalla quale Dante che passa pel creatore della lingua
derivò una grandissima, e forse la massima parte delle voci ch'egli
introdusse. E i derivati da questa fonte serbando com'è naturale il
colore nativo della lingua più che qualunque altro, se son fatti con
giudizio, vengono a formare il miglior genere di voci nuove che si possano
creare ec. ec. Ma questa fonte è tanto più scarsa quanto meno
sono le radici cioè quanto la lingua è meno ricca, onde la lingua
francese cedendo in questo senza paragone all'italiana non è dubbio che
di voci nuove secondo il bisogno, che non alterino la fisonomia della lingua ma
consuonino ec. dev'essere molto più atta a produrne la lingua italiana
che la francese. E infatti questa che passa per ricchissima in vocaboli delle
arti e scienze ec. è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli
non li piglia dal suo fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca
onde disdicono e stuonano manifestamente col resto della lingua e l'alterano e
imbastardiscono, e ciò perchè non sono lingue di uno stesso
genere ma diversissime, il cui genio anche nelle pure voci non ha che fare con
quello della francese, all'opposto della latina rispetto all'italiana principalmente.
Ora questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è
chiaro che non trattandosi di ricchezza J ma di roba presa altrove, tutti possono
prenderla egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai quali non
è niente più difficile da di fare
stereotipia, di quello che ai francesi stéréotypie ec. ec. e di formar nuovi
composti greci com'è questo ec. sì che è ricchezza fittizia,
non propria, ascita, misera, comune a tutti, e dannosa. Oltracciò i derivati
dalle proprie radici sono subito di noto significato, e intesi da tutti,
così in massima parte dalla lingua latina (dalla quale già non si
dee prendere quello che non sarebbe comunemente inteso) ma questi altri non si
capiscono da nessuno se non ci mettete la spiegazione etimologica ec. ovvero se
non li mettete nel vocabolario col loro significato, quando non sieno appoco appoco
passati in uso, ma ciò non può esser successo senza il detto
massimo inconveniente nel principio.
Anche la stessa negligenza e noncuranza e
sprezzatura e la stessa inaffettazione può essere affettata, risaltare
ec. Anche la semplicità la naturalezza la spontaneità. V. p.160.
Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente
al giorno di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri.
Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani
così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io
paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a [51]farmi
avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
Il più solido piacere di questa vita
è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in
certo modo reale stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura
umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non
è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo
e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera
e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto
ed ordine delle cose.
La varietà è tanto nemica
della noia che anche la stessa varietà della noia è un rimedio o
un alleviamento di essa, come vediamo tutto giorno nelle persone di mondo.
All'opposto la continuità è così amica della noia che
anche la continuità della stessa varietà annoia sommamente, come
nelle dette persone, e in chicchessia, e, per portare un esempio, ne' viaggiatori
avvezzi a mutar sempre luogo e oggetti e compagni e alla continua
novità, i quali non è dubbio che dopo un certo non lungo tempo,
non desiderino una vita uniforme, appunto per variare, colla uniformità
dopo la continua varietà. V. Montesquieu Essai
sur le Goût. De la variété. Amsterd. 1781. p.378. lin. ult. et des
Contrastes. p.384-385.
Intendo per innocente non uno incapace di
peccare, ma di peccare senza rimorso. V. p.276.
Può mai stare che il non esistere sia
assolutamente meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe
appunto all'uomo senza una vita futura.
Non mi maraviglio nè che gli antichi
Ebrei e, credo, gran parte o tutti gli orientali (v. le lettere premesse aux
principes discutés de la société Hébreo-Capucine etc.) e così i greci mancassero
p.e. del v. nè che avessero alcune lettere che noi non abbiamo,
come gli Ebrei p.e. il u i greci il J il ec. Le lettere che noi crediamo comunemente essere proprio tante e non
più quanto le nostre, o almeno in genere, sono in effetto moltissime
giacchè non vengono dalla natura ma dall'assuefazione io dico in
particolare, cioè la facoltà del parlare e articolare e formare diversi
suoni viene dalla natura, ma la qualità e differenza di questi suoni
ossia delle lettere viene dall'assuefazione. E infatti sono infiniti i modi [52]di
collocare ec. la lingua i denti le labbra ec. quelle parti che formano i detti
suoni, e noi vediamo come piccole differenze di collocazione formino suoni
diversissimi come il p. e il b. per esempio. Ora perchè
noi da fanciulli non abbiamo sentito altro che i suoni del nostro alfabeto abbiamo
solo imparato quelle tali collocazioni, e a quelle assuefatti e incapaci d'ogni
altra crediamo 1. che altre non ve ne siano in natura, 2. che tutte sieno
appresso a poco comuni per natura a tutti. Ma la prima cosa è mostrata
falsa dalle tante lettere degli alfabeti antichi o stranieri che noi non sappiamo
pronunziare o ignorandone il suono, come spesso negli antichi (quantunque
più spesso crediamo di saperlo), o il mezzo, come negli stranieri; e da
molte altre prove. L'altra cosa da quello che ho detto di sopra e dall'esperienza
continua di tanti che per minime circostanze piuttosto accidentali ed estrinseche
che organiche restan privi di certe lettere. Ora non è dunque maraviglia
che gli alfabeti dei popoli siano differenti secondo la differente assuefazione
tradizionale, da cui si dee rimontare alla origine d'essi alfabeti. E se ne
deduce che in natura o non c'è alfabeto, o molto più ricco che
non si crede volgarmente.
Un esempio di quanto fosse naturale e piena
di amabili e naturali illusioni la mitologia greca, è la
personificazione dell'eco.
Non ogni proposito deve nascondere il poeta,
come p.e. non dee nascondere il proposito d'istruire nel poema didascalico ec.
in somma i propositi manifesti e che si espongono p.e. nello stesso principio
del poema. Canto l'armi pietose ec. Ma sì bene quelli che non vanno
naturalmente col proposito manifesto, come col narrare il dipingere,
coll'istruire il dilettare, cose che il poeta si propone, ma non dee mostrare
di proporselo quantunque debba mostrare quegli altri propositi manifesti, i
quali servono più che altro di pretesto e manto ai propositi occulti. E
questo perchè questi ultimi non sono naturali come è naturale che
uno narri ec. ma deve parer che quel diletto, quella viva rappresentazione ec.
venga spontanea e senza ch'il poeta l'abbia cercata, il che mostrerebbe l'arte
e lo studio e la diligenza, e in somma non sarebbe naturale, giacchè figurandoci
il poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema, e questo
è il proposito manifesto, venga giù dicendo quello che gli si
somministra spontaneamente come fanno tutti quelli che parlano, e quantunque
egli qui metta un'immagine, qui un affetto, qui un suono espressivo, qui ec. e
tutto a bella posta e pensatamente, non deve parer ch'egli lo faccia
così, ma solo naturalmente, e così portando il filo del suo discorso,
e l'accaloramento [53]della sua fantasia e il suo cuore ec. Altrimenti
la natura non è imitata naturalmente e questi sono i propositi diremo
così secondari, quantunque spessissimo in realtà sieno primari,
(come ne' poemi didascalici dove il fine primario par l'istruire, e deve
parere, quando in verità è solo un mezzo essendo il vero fine il
dilettare) i quali bisogna nascondere. E oltre il poeta s'intenda l'oratore lo
storico, ed ogni qualunque scrittore. Affettazione in latino viene a dir lo
stesso che proposito, e presso noi lo stesso che proposito manifesto, anzi
questa può esserne la definizione
Spesso ho notato negli scritti de' moderni
psicologi che in molti effetti e fenomeni del cuore ec. umano, nell'analizzarli
che fanno e mostrarne le cagioni, si fermano molto più presto del fine a
cui potrebbero arrivare, assegnandone certe ragioni particolari solamente, e
questo perchè vogliono farli parere maravigliosi, come il Saint-Pierre
negli studi della natura lo Chateaubriand ec., e non vanno alla prima o quasi
prima cagione che troverebbero semplice e in piena corrispondenza col resto del
sistema di nostra natura. Questo ridurre i diversi fenomeni dell'animo umano a
principii semplici scema la maraviglia, e anche la varietà perchè
moltissimi si vedrebbero derivati da un solo principio modificato leggermente.
Costoro parlano sempre enfaticamente, notano con molta acutezza il fenomeno, ma
datane (se la danno, perchè spesso credono e fanno credere ch'il
fenomeno sia inesplicabile, vale a dire senza rapporto conosciuto al resto del
sistema giacchè da ciò solo nasce la maraviglia in qualunque cosa
del mondo) una ragione immediata e secondaria ed egualmente maravigliosa, non
rimontano come sarebbe pur facile alla sorgente che ridurrebbe il fenomeno e le
sue ragioni secondarie alle classi consuete. Io credo che chi istituisse
quest'analisi ultima farebbe cosa nuova (sia per la mala fede, o la minore
acutezza degli antecessori) e semplificherebbe d'assai la scienza dell'animo
umano, rapportando gl'infiniti fenomeni che sembrano anomalie (perchè
infatti la scienza non è ancora stabile nè ordinata e ridotta in
corpo) a principii universali o poco lontani da essi. Opera principale e
formatrice di tutte le scienze e scopo ordinario di chi ricerca le cagioni
delle cose. P.e. il desiderio naturale degli uomini di supporre animate le cose
inanimate tanto manifesto ne' fanciulli deriva dal desiderio e propensione
nostra verso i nostri simili, principio capitale, e primitivo, e fecondissimo.
V. il mio discorso sui romantici.
[54]Quando la poesia per tanto
tempo sconosciuta entrò nel Lazio e in Roma, che magnifico e immenso
campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già padrona
del mondo, le sue infinite vicende passate, le speranze, ec. ec. ec. Argomenti
d'infinito entusiasmo e da accendere la fantasia e 'l cuore di qualunque poeta
anche straniero e postero, quanto più romano o latino, e contemporaneo o
vicino proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non ci fu epopea latina
che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e
poetiche, eccetto quella d'Ennio che dovette essere una misera cosa. La prima
voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia. In
somma l'imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla poesia latina,
come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero principio, cioè
nel
Una prova di quello che ho detto di sopra
intorno alle lettere, o piuttosto un esempio, è l'u gallico (fino una
vocale) sconosciuto a noi italiani [55]settentrionali, e non so se ai
latini, e a quali altri stranieri presentemente. Il quale fu proprio interamente
dell'alfabeto greco (e non so se dicano lo stesso del vau ebreo) come ora
è proprio del francese, e come l'u nostro appresso questi è
formato dall'ou, così appuntino fra i greci (eccetto che questi l'hanno
anche ne' dittonghi dove i francesi in nessun altro). Il che,
se non c'è altra ragione in contrario credo che i francesi (dico tanto
quest'u detto gallico quanto esso dittongo ou) l'abbiano avuto dalla Grecia
nelle spedizioni che fecero colà quando fondarono la gallogrecia ec. (e
credo da S. Ireneo gallo che scrisse in greco, e Favorino parimente ec. che la
lingua greca fosse veramente comune nella Gallia, v. gli Storici) onde reso , sia poi
rimasto in Francia e anche nella Gallia transalpina cioè in Lombardia,
malgrado delle mutazioni d'abitatori di queste provincie ec. E il c e il g
schiacciato non sono evidentemente due lettere diverse dagli aperti ch e gh? E
non mancarono e mancano ai greci? (ai latini non so che dicano gli eruditi) ed
ora ai francesi, e credo agli spagnuoli agl'inglesi ec.?
Se tu domanderai piacere ad uno che non
possa fartisi senza ch'egli s'acquisti l'odio d'un altro, difficilissimamente
(in parità di condizione) l'otterrai non ostante che ti sia amicissimo.
E pure per quell'odio si guadagnerebbe o si crescerebbe il vostro amore e forse
grandissimo, sì che le partite par che sarebbero uguali. Ma infatti pesa
molto più l'odio che l'amore degli uomini, essendo quello molto
più operoso. Qui si fermerebbero gli psicologi moderni lasciando di
cercare il principio di questa differenza, ch'è manifestissimo,
cioè l'amor proprio. Giacchè chi segue il suo odio fa per se, chi
l'amore per altrui, chi si vendica giova a se, chi benefica, giova altrui,
nè alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui quanto a se.
Vita tranquilla delle bestie nelle foreste,
paesi deserti e sconosciuti ec. dove il corso della loro vita non si compie
meno interamente colle sue vicende, operazioni, morte, successione di
generazioni ec. perchè nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore
nè sanno nulla de' casi del mondo perchè quello che noi crediamo
del mondo è solamente degli uomini.
A. S'io fossi ricco ti vorrei donar tesori.
B. Oibò, non vorrei ch'ella se ne privasse per me. Prego Dio che non la
faccia mai ricca.
Linguaggio mutuo delle bestie descritto
secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa
originale e poetica introdotta così in qualche poesia, come, ma poi
scioccamente se ne serve, il Sanazzaro nell'Arcadia prosa 9. ad imitazione di
quella favola, s'io non erro, circa Esiodo.
Voce e canto dell'erbe rugiadose in sul
mattino ringrazianti e lodanti Iddio, e così delle piante ec. Sanazzaro
ib. e mi pare immagine notabile e simile a quella dei rabbini dell'inno
mattutino del sole ec. come anche l'altra immagine del Sanazzaro ivi, di un [56]paese
molto strano, dove nascon le genti tutte nere, come matura oliva, e correvi
sì basso il Sole, che si potrebbe di leggiero, se non cuocesse, con la
mano toccare.
Com'è costantissimo e indivisibile
istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza,
così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia
l'esserne contento, e l'odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio
il quale non può stare in natura e molto meno in quell'essere il quale
senza entrare nella teologia, è chiaro ch'essendo l'ordine animale il
primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i
globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest'ordine, viene a
essere il primo di tutti gli esseri nel nostro globo. Ora vediamo che in questo
è tanta la scontentezza dell'esistenza, che non solo si oppone
all'istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente,
cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non
può stare in natura se non corrotta totalmente. Ma pur vediamo che chiunque
in questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente dopo
poco tempo cadere in preda a questa scontentezza. Io credo che nell'ordine
naturale l'uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente,
e come le bestie, cioè senza grandi nè singolari e vivi piaceri,
ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e
temperata (eccetto gl'infortuni che possono essere nella sua vita, come gli aborti
le tempeste e tanti altri disordini (accidentali, ma non sostanziali) in
natura) insomma come sono felici le bestie quando non hanno sventure
accidentali ec. Ma non già credo che noi siamo più capaci di
questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni
e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare:
tout homme qui pense est un être corrompu, dice il Rousseau, e noi siamo
già tali. E pure vediamo che questi piccoli diletti non ostante che noi
siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque altro come dice
Verter ec. e vediamo il minore scontento dei contadini, ignoranti ec.
(quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti, e dei
fanciulli massimamente, che dei grandi. E l'esser l'uomo buono per natura, e guastarsi
necessariamente nella società, può servir di prova a questo
sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che
per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l'una all'altra, e che
l'istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata
dall'arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli
uomini fatti, ma ciò non prova che l'uomo sia fatto per l'arte ec.
giacchè la natura gli aveva dato quegl'istinti ch'egli perde poi ec.
Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e
l'uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del
corpo umano più atta alla società ec.
[57]S'è osservato che
è proprietà degli antichi poeti ed artisti il lasciar molto alla
fantasia ed al cuore del lettore o spettatore. Questo però non si deve
prendere per una proprietà isolata ma per un effetto semplicissimo e
naturale e necessario della naturalezza con cui nel descrivere imitare ec.
lasciano le minuzie e l'enumerazione delle parti tanto familiare ai moderni
descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi narra non come chi vuole
manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa maniera Ovidio il cui modo di
dipingere è l'enumerare (come i moderni descrittivi sentimentali ec.)
non lascia quasi niente a fare al lettore, laddove Dante che con due parole
desta un'immagine lascia molto a fare alla fantasia, ma dico fare non
già faticare, giacchè ella spontaneamente concepisce
quell'immagine e aggiunge quello che manca ai tratti del poeta che son tali da
richiamar quasi necessariamente l'idea del tutto. E così presso gli
antichi in ogni genere d'imitazione della natura.
I nostri veri idilli teocritei non sono
nè le egloghe del Sanazzaro nè ec. ec. ma le poesie rusticali
come la Nencia, Cecco da Varlungo ec. bellissimi e similissimi a quelli di
Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità, se non in quanto sono
più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno molto spesso una
tinta.
Circa le immaginazioni de' fanciulli
comparate alla poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter
sul fine della lettera 50. Una terza sorgente degli stessi diletti e delle
stesse romanzesche idee sono i sogni.
Il principio universale dei vizi umani
è l'amor proprio in quanto si rivolge sopra lo stesso essere, delle
virtù, lo stesso amore in quanto si ripiega sopra altrui, sia sopra gli
altrui, sia sopra la virtù, sia sopra Dio. ec.
Di alcuni principi che si sieno uccisi per
evitare qualche grande sventura o per non saperne sopportare qualcuna
già sopraggiunta loro, si legge, come di Cleopatra Mitridate ec. e
più, anzi forse solamente fra gli antichi. Ma di quelli che si sieno
uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio, come la malinconia
l'amore ec. non si legge ch'io sappia in nessuna storia. Eppure lo scontento
della vita e la noia e la disperazione dovrebb'essere tanto maggiore in loro [58]che
negli altri, in quanto questi possono supporre se non colla ragione (la quale
è ben persuasa del contrario) almeno coll'immaginazione (che non si
persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già nell'apice
dell'umana felicità, trovandola vana anzi miserabilissima, non possono
più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati per
così dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita
come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già i
loro desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei
miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può
sognare, come conquiste ec.
Disse la Dama: Voi mi avete rappacificata
colla poesia: Godo assai, rispose quegli, d'avere riconciliate insieme due belle
cose.
Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce
del maestro nelle scienze se i trattatisti avessero la mente più
poetica. Pare ridicolo il desiderare il poetico p.e. in un matematico; ma tant'è:
senza una viva e forte immaginazione non è possibile di mettersi nei
piedi dello studente e preveder tutte le difficoltà ch'egli avrà
e i dubbi e le ignoranze ec. che pure è necessarissimo e da nessuno si
fa nè anche da' più chiari, che però non s'impara mai
pienamente una scienza difficile p.e. le matematiche dai soli libri.
Tutto si è perfezionato da Omero in
poi, ma non la poesia.
Per un'Ode lamentevole sull'Italia
può servire quel pensiero di Foscolo nell'Ortis lett.19 e 20 Febbraio
1799. p.200. ediz. di Napoli 1821.
Una facezia del genere ch'io ho detto in un
altro pensiero essere stato proprio degli antichi è quella degli
Antiocheni che dicevano dell'imperatore Giuliano che aveva una barba da farne
corde, (Iulian. in Misopogone) la qual facezia allora applaudita e sparsa per
tutta la città e capace di muover Giuliano a scrivere un libro ironico e
giocoso (certo elegante e negli scherzi si può dir Attico e Lucianesco e
infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza sofistumi nello stile nè
in altro, e senza affettazioni nè pur nella lingua per altro elegante e
ricca e ciò perchè questo è un libro scritto per circostanza
e non come i
Caesares) contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi ec. parrebbe
grossolana, e di pessimo gusto. V. p.312.
E tanto è miser l'uom quant'ei si
reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro egloga ottava. Ora
in quello stato ch'io diceva in un pensiero poco sopra, egli non riputandosi
misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione alquanto [59]simile
a quella che i'ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e
così tutti secondo che si stimano infelici.
Quando l'uomo concepisce amore tutto il
mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l'oggetto
amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec. come si stasse
in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v'ispira il vostro pensiero
sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia nè del
disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel
solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l'animo
così potentemente da tutte le cose circostanti, come l'amore, e dico in
assenza dell'oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga,
fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà
essere paragonato.
Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze
degli uomini e di tante piccolezze e viltà e ridicolezze ch'io vedo fare
e sento dire massime a questi coi quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai
provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso (come chi
è mosso al vomito) per queste cose, quanto allora ch'io mi sentiva o
amore o qualche aura di amore, dove mi bisognava rannicchiarmi ogni momento in
me stesso, fatto sensibilissimo oltre ogni mio costume, a qualunque piccolezza
e bassezza e rozzezza sia di fatti sia di parole, sia morale sia fisica, sia
anche solamente filologica, come motti insulsi, ciarle insipide, scherzi
grossolani, maniere ruvide e cento cose tali.
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto
amando, benchè tutto il resto del mondo fosse per me come morto. L'amore
è la vita e il principio vivificante della natura, come l'odio il
principio distruggente e mortale. Le cose son fatte per amarsi scambievolmente,
e la vita nasce da questo. Odiandosi, benchè molti odi sono anche naturali,
ne nasce l'effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche
rodimento e consumazione interna dell'odiatore.
Quella miserabile lussuria di epiteti,
sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de'
nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili
ai latini ma più ai greci quanto allo stile, non si trova o più
rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di
parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e
opportunità di tutte le voci ec. come [60]in quello del Petrarca
messo dall'Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero padre armato
Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo Castità. Così anche le
rime del Petrarca sono molto più spontanee, e con ciò tutto
quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte
fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto ec. come nei
cinquecentisti.
Una bella e notabile similitudine è
quella dell'Alamanni nel Girone Canto 17. di un mastino e un lupo che si
scontrino a caso (così dice) per una selva, o ec. e la loro sorpresa scambievole
e timore e rabbia subita e azzuffamento: come pur quella del Martelli (non mi
ricordo quale) di una villanella cercante funghi e corrente dove vede
biancheggiare una foglia secca ec. prendendola per un fungo.
È pure un bella illusione quella
degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più
che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal
fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec. e ci par
veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono
più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che
ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della distruzione e annullamento
che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo
presenti effettivamente o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche
speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto
memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne
qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p.e. mutato
affatto da quel ch'era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi
ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro
il giorno della settimana e poi del mese e poi dell'anno rispondente a quello
dov'io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione.
Ragionevolezza benchè illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec.
civili ed ecclesiastiche in questo riguardo.
A ciò che ho detto in altro pensiero
intorno all'eloquenza di chi parla di se stesso si può aggiungere e
l'esempio continuo di Cicerone che piglia nuove forze ogni volta che parla di
se come fa tuttora, e quello di Lorenzino de' Medici nella sua Apologia che
Giordani crede il più gran pezzo d'eloquenza italiana e non vinto da
nessuno [61]straniero. Ora questo è un'Apologia di se stesso. Ed
è mirabile com'egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle
sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l'eloquenza greca e latina
tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa
e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi più fini
dell'eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza
negligenza ec. così nello stile e condotta ordine ec. interno, come
nell'esterno, cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella
costruzione ec. quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e
tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili
cinquecentisti volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec. come il Casa,
facevano quelle miserie di composizione di stile di lingua affettatissima e
più latina che italiana. Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono
Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le sue opere che ambedue parlano
sempre di se e il Tasso più dov'è più eloquente e bello e
nobile ec. cioè nelle lettere che sono il suo meglio. La migliore
orazione di Demostene è quella per la corona.
Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti
frasi metafore, tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura
e tanto usati da Orazio non sono bene spesso altro che un bell'uso di quel vago
e in certo modo quanto alla costruzione, irragionevole, che tanto è necessario
al poeta. Come in Orazio dove chiama mano di bronzo quella della
necessità (ode alla fortuna) ch'è un'idea chiara, ma espressa
vagamente (errantemente) così tirando l'epiteto come a caso a quello di
cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga bene cioè se le
due idee che gli si affacciano l'una sostantiva e l'altra di qualità
ossia aggettiva si possano così subito mettere insieme, come chi chiama duro
il vento perchè difficilmente si rompe la sua piena quando se gli va
incontro ec.
[62]Quel tanto trasportar parole
greche di netto in latino che fu di moda ai buoni secoli del Lazio (anche
appresso i più antichi latini scrittori, come dal francese parimente
assai i nostri antichi italiani) dovea pur produrre l'istesso senso che produce
ora in noi la moda di usar parole francesi in lingua italiana moda tanto antica
fra noi quanto appresso i latini cioè cominciata coi primi nostri
scrittori, ma ora tornata in voga come ai tempi d'Orazio e massimamente di
Seneca Plinio ec. dove pare (e v. quello che dice Seneca della voce, analogia)
che fosse considerata come una barbarie siccome presentemente, quantunque
avesse per se tanti esempi antichi, come fra noi anche di parole ora risibili
p.e. frappare per battere, vengianza nell'Alamanni Girone più volte e
senza necessità di rima, e parecchie altre di questo andare nello stesso
poema ec. Se non che forse allora come adesso sarà cresciuto quel gusto
e divenuto senza giudizio e diffusosi alle forme ec. e divenuto nocevole al
genio nativo della lingua. V. p.312.
Si suol dire che leggendo certi autori
semplici piani spontanei fluidi facili disinvolti naturali ec. pare a tutti di
saper far così che poi alla prova si vede come sia falso. Ma leggendo
Senofonte par proprio che tutti scrivano così e che non si possa
nè sappia scrivere altrimenti, se non quando si passa da lui a un altro
scrittore o da un altro scrittore alla lettura di esso. Perchè gli altri
scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte non si scorge neppur
ciò.
Nella gran battaglia dell'Isso, Dario
collocò i soldati greci mercenari nella fronte della battaglia, (Arriano
l.2. c.8. sez.9. Curzio l.3. c.9. sez.2.) Alessandro i suoi mercenari greci proprio
nella coda, (Arriano c.9. sez.5.) Curiosa e notabilissima differenza e da pronosticare
da questo solo l'esito della battaglia. Perchè era chiaro che tutta la
confidenza dei Persiani stava in quei 30m. greci, e pure eran greci anche i
mercenari d'Alessandro (Arriano c.9. sez.7.) ed egli li poneva alla coda.
Quindi è chiaro ch'egli confidava più nel resto che in questi, e
quello che era il più forte dell'esercito Persiano era il più
debole del Macedone. E Dario si fidava più del valore dei mercenari che
di coloro che combattevano per la loro patria e avea ragione: Alessandro avendo
gli stessi mercenari [63]sapeva che sarebbero stati più valorosi
gli altri che combattevano per l'onor loro e di lui e la vendetta della patria
ed avea somma ragione. E infatti la propria falange Macedone venuta alle mani
essa coi 30m. mercenari, combatterono ma furon vinti. E però da questa
sola diversità delle due ordinanze da cui si poteva arguire l'infinita differenza
fra gli animi de' due eserciti, era da congetturare quello che avvenne.
Della distinzione del ridicolo in quello che
consiste in cose e quello che in parole, data da me in altro pensiero vedi il
Costa della elocuzione p.70. e segg.
Una similitudine nuova può esser
quella dell'agricoltore che nel mentre che miete ed ha i fasci sparsi pel
campo, vede oscurarsi il tempo ed una grandine terribile rapirgli irreparabilmente
il grano di sotto la falce: ed egli quivi tutto accinto a raccoglierlo, se lo
vede come strappar di mano senza poter contrastare.
La Commedia allora principalmente è
utile quando fa conoscere il mondo, i suoi pericoli, vizi, vanità,
seduzioni, tradimenti, illusioni, ec. ai giovani alle giovanette ec.
giacchè ai vecchi che già lo conoscono non serve gran cosa, e
quanto alle massime di morale e gli esempi dei tristi puniti, delle
virtù, dei buoni premiati ec. sono miserabili cose e della cui utilità,
se non alquanto nel basso volgo, non si può disputare in buona fede, che
certo nessun giovane o persona qualunque di un certo mondo e in somma civile,
è tornata dalla commedia più virtuosa per le prediche o gli
esempi morali che ci ha sentite e vedute, bensì è facile che sia
(almeno in parte) disingannata dallo svelamento di tante trame che si tendono
alla povera gioventù, e dalla semplice imitazione e rappresentazione di
quello che succede nel mondo e che la gioventù ignora e crede molto
diverso, come appunto servono le storie più che tanti altri libri, colla
differenza che la commedia mostra la cosa più al vivo e al naturale e la
mette sotto gli occhi in luogo di narrarla, ond'è più persuasiva.
Diciamo in proporzione lo stesso degli altri generi di dramma.
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa
era viva secondo l'immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o
formata di esseri [64]uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si
giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e
Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e
così de' fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno
te lo sentivi quasi palpitare fra le mani credendolo un uomo o donna come
Ciparisso ec. e così de' fiori ec. come appunto i fanciulli.
Quello che ho detto p.32. di questi pensieri
della tartaruga si potrà forse dire anche del Pigro della cui vita
bisogna vedere presso i naturalisti se sia lunga.
Molti sono che dalla lettura de' romanzi
libri sentimentali ec. o acquistano una falsa sensibilità non avendone,
o corrompono quella vera che avevano. Io sempre nemico mortalissimo
dell'affettazione massimamente in tutto quello che spetta agli effetti
dell'animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre questa sorta d'infermità,
e ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e spontanea operatrice
ec. A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de' libri non ha veramente
prodotto in me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè anche
verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da se:
ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma
sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch'io provava, doveva andare
a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno
trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente.
Per esempio nell'amore la disperazione mi
portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe
portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore
ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di
sentire che quello mi sorgea così tosto perchè dalla lettura
recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in
somma la disperazione mi portava là, ma s'io fossi stato nuovo in queste
cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto,
dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch'io fuggissi quanto mai si
può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.
A quel pensiero dell'Algarotti che è
nel t.8. delle sue Op. Cremona Manini 1778-1784. p.96. si può aggiungere
il Jdei greci ch'è la [65]parola
corrispondente dov'è notabile l'indole di quella gentilissima e
amabilissima nazione che un uomo onesto e probo (quantunque non fosse bello,
giacchè questo nome come il suo astratto Jsi usurpava per significare
la sola perfetta probità e integrità in qualunque si trovasse) lo
chiamava buono e bello; tanto facea conto della bellezza, che non volea scompagnar
l'elogio e l'indicazione della virtù da quella della beltà e
ciò costantemente e per proprietà di lingua in maniera che si
dava questo titolo anche a chi fosse tutt'altro che bello. Popolo amante del
bello e dilicato e sensibile, conoscitore di quanto possa l'esterno e quello
che cade sotto i sensi per ornare l'interno, e quanto sia sublime l'idea della
bellezza che non dovrebbe mai essere scompagnata dalla virtù. Parimente
si può aggiungere la parola corrispondente latina frugi, che
viene a dire, utile dimostrante la qualità dell'antico popolo
romano dove un uomo tanto si stimava quanto giovava al comune, ed era obbligo e
costume dei buoni il non vivere per se ma per la repubblica, onde per indicare
un uomo di garbo, un uomo buono, si considerava la sua qualità relativa
al ben pubblico, cioè in genere la sua utilità e quello che si
poteva far di lui, onde lo chiamavano, frugi, uomo da profitto, da
cavarne costrutto.
Diceva una volta mia madre a Pietrino che
piangeva per una cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere
non piangere che a ogni modo ce l'avrei gittata io. E quegli si consolava
perchè anche in altro caso l'avrebbe perduta. Osservazioni intorno a
questo effetto comunissimo negli uomini, e a quell'altro suo affine,
cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo che
quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè quel male di
schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati,
quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. V. p.188. V. a questo
proposito il Manuale di Epitteto.
[66]Io mi trovava orribilmente
annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so
quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava
di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel
timore. Non ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli
elementi de' quali è formata la presente condizione umana forzata a temere
per la sua vita e a proccurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora
che l'è più grave, e che facilmente si risolverebbe a privarsene
di sua volontà (ma non per forza d'altre cagioni). E vidi come sia vero
ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in
tutto il resto, che l'analogia è uno de' fondamenti della filosofia
moderna e anche della stessa nostra cognizione e discorso, affatto pazza e
contraddittoria nella sua principale opera) l'uomo non doveva per nessun conto
accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita, ma
solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e l'essersene
accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii costituenti comuni
anche a tutti gli altri esseri (come dire l'amor della vita), e turba l'ordine
delle cose (poichè spinge infatti al suicidio la cosa più contro
natura che si possa immaginare).
Se tu hai un nemico mortale nella tal
città e vedi che v'è sopra un temporale, ti passa pur per la
mente la speranza ch'egli ne possa restare ucciso? Or come dunque ti spaventi
se quel temporale viene sopra di te, quando la probabilità ch'egli
uccida è tanto piccola che tu non ci sai neppur fondare quella cosa che
ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorgere in noi, dico la
speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in vece
fossero probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo il porci per esse in
nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore. Tant'è:
bisogna bene che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente,
il timore lo sia di più. Ma questa riflessione mi pare molto atta a
temperarlo. Il timore è dunque più fecondo d'illusioni che la speranza.
Di un calcolatore che ad ogni cosa che udiva
si metteva a computare, disse un tale: Gli altri fanno le cose, ed egli le conta.
[67]Qualunque domestico entra
nella mia famiglia non n'esce mai finchè non muore, come potete sentire
da quelli che ci sono stati, diceva un padrone di casa al nuovo suo cuoco,
dopo che due altri se n'erano licenziati spontaneamente.
Nelle favole del Pignotti (e forse in altre
ancora) per la più parte, è svanito il fine della favola,
ch'è l'istruire i fanciulli ec. col mezzo del dolce, della similitudine
ec. e non si conserva nemmeno in apparenza (come ne' poemi didascalici), giacchè
sono dirette a significar certi vizi del gran mondo, certe massime di politica,
certe fine qualità del carattere umano, che non giova punto nè
è possibile ai fanciulli di conoscere e comprendere: come p.e. quella
dell'asino del cavallo e del bue. Piuttosto quelle favole dalla loro prima
istituzione Esopiana si son ridotte a satirette non inurbane, o a meri giuochi
d'ingegno, cioè similitudini o novellette piacevoli, e alquanto
istruttive per gli uomini maturi, come i contes moraux di Marmontel, e le altre
opere di questo genere, eccetto che qui si parla di animali, piante ec. ec.
Notano (v. Roberti favola 62. nota) che le
femmine degli uccelli generalmente son meno belle dei maschi e se ne fanno
maraviglia: e ciò perchè nell'uomo pare il contrario. Poca riflessione.
Noi siamo uomini e la femmina ci par più bella del maschio, alle donne
pare il contrario, agli uccelli maschi certo par più bella la femmina, e
alle femmine l'opposto. Che se ci fosse un altro animale ragionevole che come
noi giudichiamo degli uccelli, così potesse giudicare della specie umana,
non è dubbio che per perfezione vistosità ec. rispettiva di forme
ec. ec. darebbe la preferenza al maschio, e chiamerebbe più bello
l'uomo che la donna, che da noi tuttavia si chiama il bel sesso.
Moltissime volte anzi la più parte si
prende l'amor della gloria per l'amor della patria. P.e. si attribuisce a
questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d'Attilio Regolo (se
è vero) ec. ec. le quali cose furono puri effetti dell'amor della
gloria, cioè dell'amor proprio immediato ed evidente, non trasformato
ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi
si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e
però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la [68]cercano
per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione,
così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano
la morte i patimenti ec. ed è evidente che così facendo erano
spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte
cercavano di morire anche senza necessità nè utile, (come puoi
vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile) e da quegli
Spartani accusati dall'opinione pubblica d'aver fuggito la morte alle Termopile
che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna. Ed esaminando bene
si vedrà che l'amor puramente della patria, anche presso gli antichi era
un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto quello della
libertà, l'odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti che poi si
comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben
intendere, perchè il sacrifizio precisamente per altrui non è
possibile all'uomo.
Guardate di dietro due, tre, o più
persone delle quali una parli. Voi discernete subito qual è quella che
parla, ma se non le vedrete, con tutto che siate alla stessa distanza, non la discernerete
punto, quando non la conosciate alla voce o per altra circostanza ec. E questo
è accaduto a me di non discernerla non vedendola, e discernerla poi al
primo sguardo veduta di dietro. Tanto è vero che il parlare anche delle
persone più modeste (com'era questa) è sempre accompagnato dai
moti del corpo. V. p.206.
Il gran giudizio e gusto e bella
immaginazione dei greci si dimostra fra mille altre cose anche nell'aver fatto
vecchio il barcaiuolo dell'inferno (cruda deo viridisque senectus, dice
Virgilio divinamente) cosa che conviene sommamente alla ruvidezza e squallore
di quel luogo. E nota che tutti gli altri uffizi attribuiti dalla mitologia
alle divinità, sono attribuiti a Dei giovani. Qui solamente,
perchè si trattava dell'inferno, l'uffizio è dato ad un vecchio.
Il nascere istesso dell'uomo cioè il
cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce
dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo
al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere. E nota [69]ch'io
credo che esaminando si troverà che fra le bestie un molto minor numero
proporzionatamente perisce in questo pericolo, colpa probabilmente della natura
umana guasta e indebolita dall'incivilimento.
Invenies
allum si te hic fastidit Alexis. Quest'è uno sbaglio formale. Nessun
vero amante crede di poter trovare un altro oggetto d'amore che lo compensi.
Oh infinita vanità del vero!
Quanto è più dolce l'odio che
la indifferenza verso alcuno! Perciò la natura intenta a proccurare la
nostra felicità individuale nello stato primitivo, ci avea lasciata l'indifferenza
verso pochissime cose, come vediamo nei fanciulli sempre proclivi a odiare o ad
amare, temere ec.
A quello che ho detto in altro pensiero si
può aggiungere che gli stessi fiorentini pronunziano effe elle emme esse
ec. e non effi elli ec. tanto è chiaro che la lingua umana dove manca
l'appoggio della vocale, cade naturalmente in un'e.
Beati voi se le miserie vostre / Non sapete.
Detto p.e. a qualche animale, alle api ec.
Dev'esser cosa già notata che come
l'allegrezza ci porta a communicarci cogli altri (onde un uomo allegro diventa
loquace quantunque per ordinario sia taciturno, e s'accosta facilmente a
persone che in altro tempo avrebbe o schivate, o non facilmente trattate ec.)
così la tristezza a fuggire il consorzio altrui e rannicchiarci in noi
stessi co' nostri pensieri e col nostro dolore. Ma io osservo che questa tendenza
al dilatamento nell'allegrezza, e al ristringimento nella tristezza, si trova
anche negli atti dell'uomo occupato dall'[70]uno di questi affetti, e
come nell'allegrezza egli passegia muove e allarga le braccia le gambe, dimena
la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente qua e
là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si
rannicchia, piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto,
cammina lento, e schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io
mi ricordo, (e l'osservai in quell'istesso momento) che stando in alcuni
pensieri o lieti o indifferenti, mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier
tristo, immediatamente strinsi l'una contro l'altra le ginocchia che erano
abbandonate e in distanza, e piegai sul petto il mento ch'era elevato.
La semplicità del Petrarca
benchè naturalissima come quella dei greci, tuttavia differisce da
quella in un modo che si sente ma non si può spiegare. E forse
ciò consiste in una maggior familiarità, e più vicina alla
prosa, di cui il Petrarca veste mirabilmente i suoi versi così
nobilissimi come sono. I greci poeti forse sono un poco più eleganti,
come Omero che cercava in ogni modo un linguaggio diverso dal familiare come apparisce
da' suoi continui epiteti ec. quantunque sia rimasto semplicissimo. Forse anche
la lingua italiana, essendo la nostra fa che noi sentiamo questa
familiarità dello stile più che ne' greci, ma parmi pure che vi
sia una qualche differenza reale.
Non v'ha forse cosa tanto conducente al
suicidio quanto il disprezzo di se medesimo. Esempio di quel mio amico [71]che
andò a Roma deliberato di gittarsi nel Tevere perchè sentiva
dirsi ch'era un da nulla. Esempio mio stimolatissimo ad espormi a quanti
pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi venni in disprezzo. Effetto
dell'amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del proprio niente,
ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto più fortemente
e costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi. E infatti
l'amor della vita è l'amore del proprio bene; ora essa non parendo
più un bene, ec. ec.
A un cavallo turco. Oh quanto tu sei meglio
degli uomini del tuo paese.
Colle persone colle quali penso di poter
convenire, non amo di parlare in compagnia, parte perchè i circostanti
non conoscendomi bene (giacchè io non soglio farmi conoscer da tutti)
darebbero di me a queste persone sia direttamente sia indirettamente una idea
falsa; parte perchè io stesso per non entrare in dispute ch'io sfuggo a
più potere con quelli che hanno diversi principii, e per non obbligare
quella stessa tal persona ch'io stimassi, ad entrarvi, dissimulerei necessariamente,
e così cercando d'ingannar gli altri, ingannerei anche colui, il quale
mi crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può convenire.
Io credo che la moltitudine assoluta di
ciascuna specie di animali sia in ragion diretta della loro piccolezza. Senza
dubbio una sola pianticella in una campagna contiene bene spesso più
formiche assai che non v'ha uomini in tutto quel campo. Così
discorriamola. Vedi i naturalisti, e se questa osservazione sia stata fatta da
nessuno di loro. Osservo anche la moltitudine degli uccelli i cui stormi sono
innumerabili, e nondimeno son vinti dalla folla degli animali più [72]piccoli
che si ritrova in questo o in quel luogo secondo le circostanze rispettive.
Anche il delitto bene spesso è un
eroismo, cioè p.e. quando il farlo torna in danno o pericolo, e
nondimeno si vuol fare per soddisfare quella tal passione ec. tanto più
eroismo quanto che bisogna superare tutta la forza della natura reclamante, e
dell'abitudine (se si tratta p.e. di un giovane, di un innocente ec.) ec. E
però è un eroismo anche senza il danno o il pericolo tutte le
volte che è commesso da persona non solita a commetterlo, costando
sempre uno sforzo e una vittoria di se stesso, nel che consiste l'eroismo.
Quindi da un delitto di questa sorta si può sempre argomentar bene o
almeno alquanto straordinariamente di una persona. In somma ogni sacrifizio di
cosa cara ogni sacrifizio difficile è un eroismo, anche quello della
virtù, e dei sentimenti più sacri, quando questo sacrifizio ancora
costa.
Anche il dolore che nasce dalla noia e dal
sentimento della vanità delle cose è più tollerabile assai
che la stessa noia.
Il sentimento della vendetta è
così grato che spesso si desidera d'essere ingiuriato per potersi
vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un indifferente,
o anche (massime in certi momenti d'umor nero) da un amico.
Tutto è nulla al mondo, anche la mia
disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed
io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò, la
vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano,
è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà
e s'annullerà, lasciandomi in un vôto universale, e in un'indolenza
terribile che mi farà incapace anche di dolermi.
[73]Io non ho mai provato invidia
nelle cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono
stato proclivissimo a lodare. L'ho provata posso dire per la prima volta (e
verso una persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche
cosa in un genere in cui capiva d'esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda
giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e
per tutto vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva
assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e
raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.
La cagione per cui il bene inaspettato e
casuale, c'è più grato dello sperato, è che questo patisce
un confronto cioè quello del bene immaginato prima, e perchè il
bene immaginato è maggiore a cento doppi del reale, perciò
è necessario che sfiguri e paia quasi un nulla. Al contrario
dell'inaspettato che non perde nulla del suo qualunque valore reale per la
forza del confronto troppo disuguale.
L'ame
est si mal à l'aise dans ce lieu, (dice la Staël delle catacombe liv.5
ch.2. de la Corinne) qu'il n'en peut résulter aucun bien pour elle. L'homme est
une partie de la création, il faut qu'il trouve son harmonie morale dans
l'ensemble de l'univers, dans l'ordre habituel [74]de la destinée; et de
certaines exceptions violentes et redoutables peuvent étonner la pensée, mais
effraient tellement l'imagination, que la disposition habituelle de l'ame ne
saurait y gagner. Queste parole sono una solennissima condanna degli
orrori e dell'eccessivo terribile tanto caro ai romantici, dal quale
l'immaginazione e il sentimento in vece d'essere scosso è oppresso e
schiacciato, e non trova altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder
gli occhi della fantasia e schivar quell'immagine che tu gli presenti.
Nell'autunno par che il sole e gli oggetti
sieno d'un altro colore, le nubi d'un'altra forma, l'aria d'un altro sapore.
Sembra assolutamente che tutta la natura abbia un tuono un sembiante tutto
proprio di questa stagione più distinto e spiccato che nelle altre anche
negli oggetti che non cangiano gran cosa nella sostanza, e parlo ora riguardo a
un certo aspetto superficiale e in parità di oggetti, circostanze ec. e
per rispetto a certe minuzie e non alle cose più essenziali
giacchè in queste è manifesto che la faccia dell'inverno è
più marcata e distinta dalle altre che quella dell'autunno ec.
Una delle cagioni del gran contrasto delle
qualità degli abitanti del mezzogiorno notata dalla Staël, Corinne
liv.6. ch.2. p.246. troisieme édition 1812., (oltre quella, qu'ils ne perdent
aucune force de l'ame dans la société, com'ella dice ivi, onde la natura anche
per questo capo resta più varia, e non così obbligata e avvezzata
alla continua uniformità, come succede per lo spirito di società
e d'eccessivo incivilimento in Francia) è che il clima meridionale
essendo [75]il più temperato, e la natura quivi (come dice la
stessa più volte) in grande armonia, essa si trova più spedita,
più dégagée, più sviluppata, onde siccome le circostanze della
vita son diversissime, così trovandosi i caratteri meridionali per la
detta cagione pieghevolissimi, e suscettibili d'ogni impressione, ne segue il
contrasto delle qualità che si dimostrano nelle contrarie circostanze, e
il rapido passaggio ec. Laddove negli altri climi la natura trovandosi meno
mobile più inceppata e dura, il violento difficilmente mostra pacatezza,
e l'indolente non divien quasi mai attivo, insomma la qualità dominante,
domina più assolutamente e tirannicamente di quello che faccia nel
mezzogiorno, dove non perciò si dee credere che manchino le
qualità dominanti nel tale e tale individuo, ma che in proporzione
lascino più luogo alle altre qualità, alla varietà loro
ec.
Il sentimento che si prova alla vista di una
campagna o di qualunque altra cosa v'ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti
quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può
afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra dietro a una farfalla
bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò lascia sempre nell'anima
un gran desiderio: pur questo è il sommo de' nostri diletti, e tutto
quello ch'è determinato e certo è molto più lungi
dall'appagarci, di questo che per la sua incertezza non ci può mai
appagare.
[76]La somma felicità
possibile dell'uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel
suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che
per esser certa, e lo stato in cui vive, buono, non lo inquieti e non lo turbi
coll'impazienza di goder di questo immaginato bellissimo futuro. Questo divino
stato l'ho provato io di 16 e 17 anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi
quietamente occupato negli studi senz'altri disturbi, e colla certa e
tranquilla speranza di un lietissimo avvenire. E non lo proverò mai
più, perchè questa tale speranza che sola può render
l'uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di
quella tale età, o almeno, esperienza.
L'incivilimento ha posto in uso le fatiche
fine ec. che consumano e logorano ed estinguono le facoltà umane, come
la memoria, la vista, le forze in genere ec. le quali non erano richieste dalla
natura, e tolte quelle che le conservano e le accrescono, come quelle dell'agricoltore
del cacciatore ec. e della vita primitiva, le quali erano volute dalla natura e
rese necessarie alla detta vita.
Un corollario del pensiero posto qui sopra
possono essere delle osservazioni sulla vita degli anacoreti senza disturbi e
colla speranza quieta e non impaziente del paradiso.
L'espressione del dolore antico, p.e. nel
Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere
per necessità differente da quella del dolor moderno. Quello era un
dolore senza medicina come ne ha il nostro, non sopravvenivano le sventure agli
antichi come necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla
in questa misera vita, ma [77]come impedimenti e contrasti a quella
felicità che agli antichi non pareva un sogno, come a noi pare, (ed
effettivamente non era tale per essi, certamente speravano, mentre noi
disperiamo, di poterla conseguire) come mali evitabili e non evitati.
Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le
calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti
propri di quello a cui sopravvenivano. (infatti il disgraziato al contrario di
adesso solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle
opinioni naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar
più l'odio che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come
suol essere in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza
il conforto della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure
da noi, non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer
del dolore, nè l'affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe,
era mescolato di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma
intieramente disperato. Somma differenza tra il dolore antico e il moderno per
cui con ragione si raccomanda al poeta artista ec. moderno di trattar soggetti
moderni, non potendo a meno trattando soggetti antichi di cadere in una di
queste due, o violare il vero, dipingendo i fatti antichi con prestare ai suoi
personaggi sentimenti e affetti moderni, o non interessare nè farsi [78]intendere
dai moderni col far sentire e parlare quei personaggi all'antica. Se non che
l'offendere il vero, nel primo caso non mi par così da schivare,
purchè si salvi il verosimile, divenendo cosa da puro erudito, quando
l'effetto di quella mescolanza è buono, il rilevare che gli antichi non
avrebbero potuto provare quei sentimenti, come io soglio anche dire dei vestimenti
e delle attitudini nella pittura, ec. dove purchè l'offesa del vero non
salti agli occhi, vale a dire si salvi il verisimile, sarà sempre meglio
farsi intendere e colpire i moderni, che assoggettarsi ad una miserabile
esattezza erudita che non farebbe nessuno effetto. Quindi non condanno punto
anzi lodo p.e. Racine che avendo scelto soggetti antichi (che colla loro natura
non erano incompatibili coi sentimenti moderni, e d'altronde erano per la loro
bellezza, tragicità, forza ec. preferibili ad altri soggetti de' giorni
più bassi) gli ha trattati alla moderna. La sensibilità era negli
antichi in potenza, ma non in atto come in noi, e però una facoltà
naturalissima (v. il mio discorso sui romantici), ma è cosa provata che
le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali
dell'anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze,
fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali,
giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto
soprattutto dal progresso della filosofia, e della cognizione dell'uomo, e del
mondo, e della vanità delle cose, e della infelicità umana, [79]cognizione
che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai
conoscere. Gli antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt'uno
col malinconico, avevano altri sentimenti entusiasmi ec. più lieti e
felici, ed è una pazzia l'accusare i loro poeti di non esser
sentimentali, e anche il preferire a quei sentimenti e piaceri loro che erano
spiritualissimi anch'essi, e destinati dalla natura all'uomo non fatto per essere
infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre, benchè naturali anch'esse,
cioè l'ultima risorsa della natura per contrastare (com'è suo
continuo scopo) alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione
della nostra miseria. La consolazione degli antichi non era nella sventura, per
es. un morto si consolava cogli emblemi della vita, coi giuochi i più
energici, colla lode di avere incontrata una sventura minore o nulla morendo
per la patria, per la gloria, per passioni vive, morendo dirò quasi per
la vita. La consolazione loro anche della morte non era nella morte ma nella
vita. V. p.105. di questi pensieri.
Le altre arti imitano ed esprimono la natura
da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo
stesso sentimento in persona, ch'ella trae da se stessa e non dalla natura, e
così l'uditore. Ecco perchè la
Staël (Corinne liv.9. ch.2.) dice: De tous les beaux-arts c'est (la musique)
celui qui agit le plus immédiatement sur l'ame. Les autres la dirigent vers
telle ou telle idée, celui-là seul s'adresse à la source intime
de l'existence, et change en entier la disposition intérieure. La [80]parola
nella poesia ec. non ha tanta forza d'esprimere il vago e l'infinito del
sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un'impressione
sempre secondaria e meno immediata, perchè la parola come i segni e le
immagini della pittura e scultura hanno una significazione determinata e
finita. L'architettura per questo lato si accosta un poco più alla
musica, ma non può aver tanta subitaneità, ed immediatezza.
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror de l'avvenire.
Si può osservare che il
Cristianesimo, senza perciò fargli nessun torto ha per un verso
effettivamente peggiorato gli uomini. Basta considerare l'effetto che produce sopra
i lettori della storia il carattere dei principi cristiani scellerati in comparazione
degli scellerati pagani, e così dei privati, dei Patriarchi, Vescovi, e
monaci greci (v. Montesquieu Grandeur ec. Amsterd. 1781. ch.22.) o latini. Le
scelleratezze dei secondi non erano per nessun modo in tanta opposizione coi
loro principii. Morto il fanatismo della pietà, e il primo fervore di
una religione che si considera come un'opinione propria, e una setta e cosa
propria, e di cui perciò si è più gelosi (anche per li
sacrifizi che costava il professarla) l'uomo in società ritorna
naturalmente malvagio, colla differenza che quando gli antichi scellerati operavano
o secondo i loro principii, o in opposizione di massime confuse poco note e
controverse, i cristiani operavano contro massime certe stabilite definite, e
di cui erano intimamente persuasi, e l'uomo è sempre tanto più [81]scellerato
quanto più sforzo costa l'esserlo, massimamente contro se stesso, come
per contrario accade della pietà. E infatti da quando il cristianesimo
fu corrotto nei cuori, cioè presso a poco da quando divenne religione
imperiale e riconosciuta per nazionale, e passò in uomini posti in
circostanze da esser malvagi, è incontrastabile che le scelleratezze mutaron
faccia e il carattere di Costantino e degli altri scellerati imperatori
cristiani, vescovi ec. è evidentemente più odioso di quello dei
Tiberi dei Caligola ec. e dei Marii e dei Cinna ec. e di una tempra di scelleraggine
tutta nuova e più terribile. E secondo me a questo cioè al cristianesimo
si deve in gran parte attribuire (giacchè il guasto cristianesimo era
una parte di guasto incivilimento) la nuova idea della scelleratezza
dell'età media molto differente e più orribile di quella
dell'età antiche anche più barbare: e questa nuova idea si
è mantenuta più o meno sino a questi ultimi tempi nei quali
l'incredulità avendo fatti tanti progressi, il carattere delle
malvagità si è un poco ravvicinato all'antico, se non quanto i
gran progressi e il gran divulgamento dei lumi chiari e determinati della
morale universale molto più tenebrosa presso gli antichi anche
più civili, non lascia tanto campo alla scelleraggine di seguire
più placidamente il suo corso. V. p.710. capoverso 1.
[82]Citerò un luogo delle
Notti romane, non perch'io creda che quel libro si possa prendere per modello
di stile, ma per addurre un esempio che mi cade in acconcio. Ed è quello
dove la Vestale dice che diede disperatamente del capo in una parete, e
giacque. La soppressione del verbo intermedio tra il battere il capo e il
giacere, che è il cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo
sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa di quella caduta, per la
mancanza di quel verbo, che par che ti manchi sotto ai piedi, e che tu cada di
piombo dalla prima idea nella seconda che non può esser collegata colla
prima se non per quella di mezzo che ti manca. E queste sono le vere arti di
dar virtù ed efficacia allo stile, e di far quasi provare quello che tu
racconti.
Io era oltremodo annoiato della vita,
sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici
sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro,
immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi
di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso,
proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa
vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole. La
tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un'osservazione
simile a questa.
[83]La cagione per cui trovo
nelle osservazioni di Mad. Di Staël del libro 14. della Corinna anche
più intima e singolare e tutta nuova naturalezza e verità,
è (oltre al trovarmi io presentemente nello stessissimo stato ch'ella
descrive) il rappresentare ella quivi il genio considerante se stesso e non le
cose estrinseche nè sublimi, ma le piccolezze stesse e le qualità
che il genio poche volte ravvisa in se, e forse anche se ne vergogna e non se
le confessa (o le crede aliene da se e provenienti da altre qualità
più basse, e perciò se n'affligge) onde con minore sublime ed astratto,
ha maggior verità e profondità familiare in tutto quello che dice
Corinna di se giovanetta.
Quantunque io mi trovi appunto nella
condizione che ho detta qui sopra pur leggendo il detto libro, ogni volta che
madame parla dell'invidia di quegli uomini volgari, e del desiderio di abbassar
gli uomini superiori, e presso loro e presso gli altri e presso se stessi, non
ci trovava la solita certissima e precisa applicabilità alle mie circostanze.
E rifletto che infatti questa invidia, e questo desiderio non può
trovarsi in quei tali piccoli spiriti ch'ella descrive, perchè non hanno
mai considerato il genio e l'entusiasmo come una superiorità, anzi come
una pazzia, come fuoco giovanile, difetto di prudenza, di esperienza di senno,
ec. e si stimano molto più essi, onde non possono provare invidia,
perchè nessuno invidia la follia degli altri, bensì compassione,
o disprezzo, e anche malvolenza, come a persone che non vogliono pensare come
voi, e come credete che si debba pensare. Del resto credono che ancor esse
fatte più mature si ravvedranno, tanto sono lontane dall'invidiarle. E
così precisamente [84]porta l'esperienza che ho fatta e fo. Ben
è vero che se mai si affacciasse loro il dubbio che questi uomini di
genio fossero spiriti superiori, ovvero se sapranno che son tenuti per tali, come
anime basse che sono e amanti della loro quiete ec. faranno ogni sforzo per
deprimerli, e potranno concepirne invidia, ma come di persone di un merito
falso e considerate contro al giusto, e invidia non del loro genio, ma della
stima che ne ottengono, giacchè non solamente non li credono superiori a
se, ma molto al di sotto.
Una prova in mille di quanto influiscano i
sistemi puramente fisici sugl'intellettuali e metafisici, è quello di
Copernico che al pensatore rinnuova interamente l'idea della natura e dell'uomo
concepita e naturale per l'antico sistema detto tolemaico, rivela una
pluralità di mondi mostra l'uomo un essere non unico, come non è
unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso
campo di riflessioni, sopra l'infinità delle creature che secondo tutte
le leggi d'analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al
nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano intorno
agli altri soli cioè le stelle, abbassa l'idea dell'uomo, e la sublima,
scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza
delle cose, dell'esser nostro, dell'onnipotenza del creatore, dei fini del
creato ec. ec.
Nella mia somma noia e scoraggimento intiero
della vita talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a
piangere la sorte umana e la miseria del mondo. Io rifletteva allora: io piango
perchè sono più lieto, e così è che allora il nulla
delle cose pure mi lasciava forza d'addolorarmi, e quando io lo sentiva
maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene.
[85]Cum
pietatem funditus amiserint
Pi tamen dici nunc maxime reges volunt.
Quo res magis labuntur, haerent nomina.
Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al
nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e
sentendo che tutto è nulla, solido nulla.
Prima di provare la felicità, o
vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo
alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro
è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la
fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e
perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la
infelicità dell'uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo la
trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la
vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle
lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l'uomo in comparazione di
questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può
tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.
Uomo colto in piena campagna da una grandine
micidiale e da essa ucciso o malmenato rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi
il capo colle mani ec. soggetto di una similitudine.
Quando le sensazioni d'entusiasmo ec. che
noi proviamo non sono molto profonde, allora cerchiamo di avere un compagno con
cui comunicarle, e ci piace il poterne discorrere in quel momento, (secondo
quella osservazione di Marmontel che vedendo una bella campagna non siamo
contenti se non abbiamo con chi dire: la belle campagne!) perchè in certo
modo speriamo di accrescere [86]il diletto di quel sentimento e il
sentimento medesimo con quello degli altri. Ma quando l'impressione è
profonda accade tutto l'opposto perchè temiamo, e così è,
di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal chiuso delle nostre anime,
per esporla all'aria della conversazione. Oltre ch'ella ci riempie in modo, che
occupando tutta la nostra attenzione, non ci lascia campo di pensare ad altri,
nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una certa attenzione che
ci distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente importuna, ma
impossibile.
Dice la
Staël, (Corinne liv.18. ch.4.) parlando de la statue de Niobé: sans doute dans
une semblable situation la figure d'une véritable mère serait
entièrement bouleversée; mais l'idéal des arts conserve la beauté dans
le désespoir; et ce qui touche profondément dans les ouvrages du génie, ce
n'est pas le malheur même, c'est la puissance que l'ame conserve sur ce
malheur. Bellissima condanna del sistema romantico che per conservare la
semplicità e la naturalezza e fuggire l'affettazione che dai moderni
è stata pur troppo sostituita alla dignità, (facile agli antichi
ad unire colla semplicità che ad essi era sì presente e nota e
propria e viva) rinunzia ad ogni nobiltà, così che le loro opere
di genio non hanno punto questa gran nota della loro origine, ed essendo una
pura imitazione del vero, come una statua di cenci con parrucca e viso di cera
ec. colpisce molto meno di quella che insieme colla semplicità e
naturalezza conserva l'ideale del bello, e rende straordinario quello
ch'è comune, cioè mostra ne' suoi eroi un'anima grande e un'attitudine
dignitosa, il che muove la maraviglia e [87]il sentimento profondo colla
forza del contrasto, mentre nel romantico non potete esser commosso se non come
dagli avvenimenti ordinari della vita, che i romantici esprimono fedelmente, ma
senza dargli nulla di quello straordinario e sublime, che innalza l'immaginazione,
e ispira la meditazione profonda e la intimità e durevolezza del
sentimento. E così ancora si verifica che gli antichi lasciavano a
pensare più di quello ch'esprimessero, e l'impressione delle loro opere
era più durevole.
Quando l'uomo veramente sventurato si
accorge e sente profondamente l'impossibilità d'esser felice, e la somma
e certa infelicità dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno
a se stesso, come persona che non può sperar nulla, nè perdere e
soffrire più di quello ch'ella già preveda e sappia. Ma se la
sventura arriva al colmo l'indifferenza non basta, egli perde quasi affatto
l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza così violato) o
piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli
passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si abborre come un
nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure, o l'idea e l'atto
del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente
se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il
tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della
vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il
qual sorriso è l'ultima espressione della estrema disperazione e della
somma infelicità. V. Staël Corinne l.17.
c.4. 5me édition Paris, 1812. p.184.185. t.3.
[88]Je vous l'ai dit
souvent, la douleur me tuerait; il y a trop de lutte en moi contre elle; il
faut lui céder pour n'en pas mourir, dice Corinna presso la Staël liv.14. ch.3.
t.2. p.361. dell'edizione citata qui dietro. E da questo venia che gli antichi
al carattere dei quali l'autrice ha voluto ravvicinare quello di Corinna quanto
era compatibile coi costumi e la filosofia moderna di cui l'arricchisce a piena
mano, erano vinti dall'infelicità in modo che esprimevano la loro disperazione
cogli atti e le azioni più terribili, e la sventura li mandava fuori di
se stessi, e gli uccideva. Quel se réposer sur sa douleur, quel piacere perfino
provato dai moderni per la stessa sventura e per la considerazione di essere
sventurato, era cosa ignota a quelli che secondo l'istinto della natura non
ancora del tutto alterata, correvano sempre dritto alla felicità, non
come a un fantasma, ma cosa reale, e trovavano il loro diletto dove la natura
primitivamente l'ha posto, cioè nella buona e non nella cattiva fortuna,
la quale quando loro sopravvenniva, la riguardavano come propria, non come universale
e inevitabile. Nè il desiderio della felicità era in essi
temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e da nessuna
filosofia. Perciò tanto più formidabile era l'effetto di quanto
impediva loro l'adempimento di questo desiderio.
Les
habitans du Midi craignant beaucoup la mort, l'on s'étonne d'y trouver des institutions
qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature d'aimer
à se livrer à l'idée même de ce que l'on redoute. Il y a
comme un enivrement de tristesse qui fait à l'ame le bien de la remplir
tout entière. Corinne l.10. ch.1 t.2. p.115. edizione citata qui
dietro [89]. A questo proposito si può notare quella indistinta e
pur vera voglia che noi proviamo avendo p.e. in mano una cosa fetente di sentirne
fuggitivamente l'odore. Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un
luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure
io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla
così di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente altrove. V. a tal
proposito un luogo notabile di Platone, Opp. Ed. Astii, t.4. p.236. lin.8-16. E così di ogni cosa che ci faccia
ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si
stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti in quel pensiero di
quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte ec. ma neanche hai
forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e il non volere ci lasci
andare un'occhiata. Similmente se ti si affaccia qualche pensiero che ti
addolori, la ricordanza di qualche cosa che ti faccia vergognare teco stesso
ec. La ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento che
dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere chiunque ci
faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell'ignoto ci fa
più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa o ci
abbrividisce o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e
anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale
squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così
credo, proviene dall'amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia
e della noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto
che rompe questa monotonia, ed esce dell'ordine comune, quantunque ci paia [90]più
grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e
non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell'agitazione,
che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si
ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che
il vuoto dell'anima, ch'è riempito, come ella dice da quel pensiero, e
occupato intieramente per quel punto. E in fine può anche derivare, e
penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo di quel
pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler troppo
intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni dal loro
fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p.e. chirurgica con troppa
intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere, o
belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non
trovarla, la fa perdere ec.
L'orrore e il timore della fatalità e
del destino si prova più (anche oggidì che la superstizione
è quasi bandita dal mondo) nelle anime forti e grandi, che nelle
mediocri per cagione che i desideri e i fini di quelle sono fissi, e ch'elle li
seguono con ardore, con costanza, e risoluzione invariabile. Così era
più ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la
costanza e la forza e la magnanimità erano virtù molto più
ordinarie che fra i moderni. E vedendo essi che spesse volte anzi frequentissimamente
i casi della vita si oppongono ai desideri dell'uomo, erano compresi da terrore
per la ragione della loro immobilità nel desiderare o nel diriggere le
loro azioni a quel tale scopo che forse e probabilmente non avrebbero [91]potuto
conseguire. Infatti nella infinita varietà dei casi è molto
più improbabile che segua precisamente quello a cui tu miri
invariabilmente, che gl'infiniti altri possibili. Ora accadendone piuttosto un
altro non è effetto di destino fisso che ti perseguiti, ma di cieco
accidente. Essi tuttavia com'è naturale come per un'illusione ottica o
meccanica confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora confondono)
l'immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè
non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l'immobilità
stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino.
Laddove gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella
moltiplicità dei loro fini, e si abbattono più facilmente a uno o
più di quelli che desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza
difficoltà all'andamento delle cose, e da questo si lasciano trasportare,
piegare, regolare, andando a seconda degli avvenimenti. Così essi non
avendo immobilità in loro, nè vedendo la somma difficoltà
di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l'intelletto più
libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un'opposizione forte e
stabile, (la qual forza e stabilità non è veramente se non nella
resistenza che le anime grandi oppongono agl'instabilissimi e casuali
avvenimenti) ma considerano tutto come effetto del caso, e delle combinazioni,
siccom'è infatti. Aggiungi l'invariabilità non solo dei fini, ma
anche dei mezzi nei primi, (cioè ne' magnanimi) che non permette loro di
cambiar principii, nè di regolare le loro azioni a norma degli avvenimenti,
ma li conserva sempre costanti nel loro proposito e nel modo di seguitarlo,
mentre il contrario accade nei secondi. E anche senza nessun proposito
nè scopo, si vedrà che la sola fermezza e immutabilità del
carattere, fa illusione sulla forza del destino ch'essendo [92]così
vario pare immutabile a quelli che non vedono se non una sola via, una sola
maniera di contenersi di pensare e operare, una sola sorta di avvenimenti, e
come questi dovrebbero o pare a loro che dovrebbero accadere. E questo timore
del destino si trova in conseguenza più o meno anche negli spiriti
mediocri, o puramente ragionevoli e filosofici ec. quando provano qualche desiderio
o mirano a qualche fine in modo che divengano immobili intorno a quel punto. V.
Staël Corinne l.13. c.4. p.306. t.2. edizione citata poco sopra. L'illusione
che ho detto si può in qualche modo paragonare a quella che noi proviamo
credendo la terra immobile perchè noi siam fermi su di lei, quantunque
ella giri e voli rapidissimamente. E già si sa che anche nei magnanimi
ella è più viva e presente secondo che essi si trovano in circostanze
di desideri e mire più vive, determinate e focose forti ferme ec. nelle
grandi passioni ec.
La società francese la quale fa che
l'esprit naturel se tourne en épigrammes plutôt qu'en poésie, dice la Staël,
(vedila, Corinne, liv.15. chap.9. p.80. t.3. edizione citata da me alla p.87.)
rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati come sono a
dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li renda
gradevoli, un'aria di novità, una grazia ascitizia, un garbo proccurato
ec. ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non li disobblighi
da quello a cui gli obbliga la raffinatezza della conversazione, (naturale nel
paese dove lo spirito di società è così grande, anzi
è l'anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo contrario credendo
che quest'obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare (e con ragione
avuto riguardo al gusto de' lettori nazionali che altrimenti li disprezzerebbero)
si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella conversazione per
renderla aggradevole e piccante ec. e però il loro stile è
così diverso da [93]quello de' greci e de' latini e
degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino quella prima frase che
si presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E
però le grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi
è curioso il vedere quello ch'essi chiamino naturalezza e
semplicità, come p.e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti. In
luogo delle grazie naturali il loro stile è tutto composto delle grazie
di società e di conversazione, e quando queste sono conseguite essi chiamano
il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in astratto quando paragonano
lo stil francese all'italiano p.e. o al latino ec. parte avuto riguardo alla
collocazione materiale delle parole e alla costruzione del periodo, e divisione
del discorso ec. paragonata con quella delle altre lingue, parte alla mancanza
delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure troppo evidenti, dei
giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si trovano nei cattivi stili
delle altre lingue, e che nel francese sono affatto straordinari e sarebbero
fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno ragione da un lato, ma
dall'altro non conoscono quella semplicità così intrinseca come estrinseca
dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza la politezza la tournure
la raffinatezza il limato il ricercato della conversazione, ma sta tutta nella
natura, nella pura espressione de' sentimenti che è presentata dalla
cosa stessa, e che riceve novità e grazia piuttosto dalla cosa,
se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello scrittore, quella
schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e non ascitizie, quel modo di
parlare che non viene dall'abitudine della conversazione e che par naturale
solamente a chi vi è accostumato (cioè ai francesi e agli altri
nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura universale, e dalla stessa
materia, quello insomma ch'era [94]proprio dei greci, e con una certa
proporzione, de' latini, e degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de'
trecentisti ec. i quali sono intraducibili nella lingua francese. Cosa strana
che una lingua di cui essi sempre vantano la semplicità non abbia mezzi
per tradurre autori semplicissimi, e di uno stile il più naturale,
libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile che si possa immaginare. E pur
la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le traduzioni francesi da
classici antichi per veder come stentino a ridurre nel loro stile di
società e di conversazione ch'essi chiamano semplice (e ch'è
divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei)
quei prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse
sieno lontane dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale.
Qui comprendo anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e
quella generale osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca Italiana
che le traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre un carattere
nazionale e diverso dallo stile originale e anche dalle parti più
essenziali di esso, e anche da' sentimenti. E basta anche notare come le
traduzioni e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non però suo
proprio ma similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue moderne,
all'italiano) si allontanino dall'indole della presente lingua francese, non
solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente nelle forme
sostanziali, e nell'insieme dello stile, che ora di francese non può
avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato
anche ogni vestigio d'arcaismo. E scommetto ch'egli riesce più facile a
intendere agl'italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue
classiche.
Il posseder più lingue dona una certa
maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perchè noi [95]pensiamo
parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed
esprimere tutti gl'infiniti particolari del pensiero. Il posseder più
lingue e il potere perciò esprimere in una quello che non si può
in un'altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che non ci
viene così tosto trovato da esprimere in un'altra lingua, ci dà
una maggior facilità di spiegarci seco noi e d'intenderci noi medesimi,
applicando la parola all'idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto
confusa nella nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne
sappiamo il significato chiaro e già noto per l'uso altrui, così
la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane
ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta. Cosa ch'io
ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna
corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine,
secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano
più presto trovate. Perchè un'idea senza parola o modo di esprimerla,
ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che
l'abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e
sensibile, e circoscritta.
Spesse volte il caso ha renduto
espressivissima una parola che parrebbe perciò originale e derivata
dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d'etimologia. P.e. nausea
quella parola sì espressiva presso i latini e gl'italiani (v. questi pensieri
p.12.) deriva dal greco nave,
onde ,
ionicamente , e in
latino nausea perch'ella suole accadere ai naviganti.
Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della
porca bianca da trovarsi da Enea all'imboccatura del Tevere per buono ed ultimo
augurio secondo Virgilio, avesse qualche altro significato ed origine nota e
verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo
che derivi dal nome di troia che noi diamo alle [96]porche, e che a
cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce antica
e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse
popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che
presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell'animale
o quell'oggetto materiale ch'è chiamato con un nome simile al loro. V.
la Cron. d'Euseb. l.1. c.46. e nota che quel racconto benchè da scrittor
greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un latino. V.
p.511. capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.76. e
segg. In questi pensieri si può osservare che quando noi per qualche
circostanza ci troviamo in istato di straordinario e passeggero vigore, come
avendo fatto uso di liquori che esaltino le forze del corpo senza però
turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all'entusiasmo, nè
però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è tutto
sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia e la
pietà non trova luogo allora nel cuor nostro o almeno non son questi i
sentimenti ch'ei preferisce, ma il vigore che proviamo dà un risalto
straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi
nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell'amor
patrio, dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e
delle altre passioni antiche. Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere
ordinariamente l'entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente
in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale
quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l'immaginazione, e i
sentimenti focosi gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso
della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee
dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci
potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di
qualcuna di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza. Ma
osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un
aria di festa che la felicità non ci pare un'illusione, [97]anzi
ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la
sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d'entusiasmo e di speranza,
e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura,
quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell'abitudine contratta colla
sperienza della vita.
Una delle cose più dispiacevoli,
è il sentir parlare di un soggetto che c'interessi, senza potervi
interloquire. E molto più se ne parlano a sproposito, o ignorando una circostanza
un fatto ec. che noi potremmo narrar loro, o in contraddizione coi nostri
sentimenti, in maniera che vengano a concludere il contrario di quello che noi
stimiamo o sappiamo. Il che è penoso anche quando la cosa non ci riguardi
in nessun modo personalmente, nè anche c'interessi. Ma soprattutto
s'ella ci riguarda o interessa, è veramente opera da uomo riflessivo lo
schivare questi tali discorsi in presenza p.e. di domestici che non vi potrebbero
metter bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto che
è loro a cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne
proverebbero molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente e con grande
studio alla passiva di ascoltare, non ostante l'inquietudine che sfuggirebbero
rinunziando anche a questa parte, il che però non ci è possibile.
Si suol dire che per ottenere qualche grazia
è opportuno il tempo dell'allegrezza di colui che si prega. E quando
questa grazia si possa far sul momento, o non costi impegno ed opera al
supplicato, convengo anch'io in questa opinione. Ma per interessar chicchessia
in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche benchè piccola
premura di un vostro affare, non c'è tempo più assolutamente
inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l'uomo è occupato
da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta che
o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna l'interessano
vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de' negozi
delle infelicità dei desiderii altrui. Nei [98]momenti di gioia
viva o di dolor vivo l'uomo non è suscettibile nè di compassione,
nè d'interesse per gli altri, nel dolore perchè il suo male l'occupa
più dell'altrui, nella gioia perchè il suo bene l'inebbria, e gli
leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E massimamente
la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è
tutto pieno della pietà di se stesso, o prova un'esaltazione di contento
che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come
un'illusione, per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima
e lo riempie tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni
all'interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza
origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione
di operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di
dare un corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto
di entusiasmo virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno
all'astratto e all'indefinito. Ma quando il nostro animo è già
occupato dalla realtà, ossia da quell'apparenza che noi riguardiamo come
realtà, il rivolgerlo ad un altro scopo, è impresa difficilissima
e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l'interesse
altrui per la vostra causa, quand'esso è già tutto per la
propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto
più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime
volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il
farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i
propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal pensiero
ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è sì caro, e quel
ch'è più, condurlo ad operare o a risolvere efficacemente
d'operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è
così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta,
cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi
dimenticarlo affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui
avrete finito, e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed
anche parlarvene, e rivolgere immediatamente la [99]conversazione sopra
quel soggetto.
Udrai dire sovente che per esser compatito o
per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o
sia stato nella stessa tua condizione. Se intendono del passato, andrà
bene. Ma non c'è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova
presentemente nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue. L'interesse
ch'egli prova per se, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo.
Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si rivolge sopra di
se, e le considera applicandole alla sua persona. Lo vedrai commosso, crederai
che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente. T'interromperà
ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io: oh per l'appunto se sapessi quello
ch'io provo: questo è propriamente il caso mio. Fa al proposito l'esempio
d'Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo a' suoi ginocchi. Si
proverà anche d'estenuare la tua miseria, il tuo bisogno, la
ragionevolezza de' tuoi desideri, per ingrandire quello che lo riguarda: Va
bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io all'opposto, e
così discorrendo. In somma sarà sempre impossibile di rivolger
l'interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui, (parlo
anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d'entusiasmo) e
quando l'uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche della sua
gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello d'un
altro, massimamente se sia della stessa specie. Sarà sempre
impossibile attaccar l'egoismo così di fronte, quando anche da lato
è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione
non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita
domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da
un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla
stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed
afflitto da una malattia simile alla tua ec. ec.
Pare un assurdo, e pure è esattamente
vero che tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale
nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
[100]È cosa osservata degli
antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare
allo spettatore o uditore più di quello ch'esprimessero. (V. p.86-87. di
questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la
loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni
dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello
scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta,
ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la
descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito,
distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l'arte e
l'affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la
cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri.
Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè
gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se
non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere
l'impressione della poesia o dell'arte bella, infinita, laddove quella de'
moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando
poche parti dell'oggetto, lasciavano l'immaginazione errare nel vago e
indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall'ignoranza
dell'intiero. Ed una scena campestre p.e. dipinta dal poeta antico in pochi
tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella
fantasia quel divino ondeggiamento d'idee confuse, e brillanti di un
indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e
maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i
moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi
quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella
finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell'oggetto intiero, e non
ha nulla di stravagante, ma è propria dell'età matura, che
è priva di quegl'inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati
nella fanciullezza.
(8. Gen. 1820.)
[101]La cagione per cui gli uomini
di gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p.e. le
continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec.
delle opere classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuazione del
Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo avviliscono presso noi
stessi l'idea di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti così
affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza. Il vederle
così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo
ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione
per quei grandi originali, ce la fa quasi parere un'illusione, ci dipinge come
facili triviali e comuni quelle doti che ci aveano destato tanto entusiasmo,
cosa acerbissima di vedersi quasi in procinto di dover rinunziare all'idolo
della nostra fantasia, e rapire in certo modo, e denudare, e avvilire agli
occhi nostri l'oggetto del nostro amore e della nostra venerazione ed ammirazione.
Perchè in ogni sentimento dolce e sublime entra sempre l'illusione, ch'è
il più acerbo dolore il vedersi togliere e svelare. Perciò quelle
tali imitazioni ci sarebbero gravi quando anche gareggiassero cogli originali,
togliendoci l'inganno di quell'unico e impareggiabile che forma il caro
prestigio dell'amore e della maraviglia. Nella stessa guisa che ci riesce dolorosissimo
il vedere o porre in ridicolo, o travisare, o imitare gli oggetti de' nostri
sentimenti del cuore; (v. Staël Corinne liv. Penult. ch. [6.] p. [328.] ediz.
quinta di Parigi) cosa che ci fa o dubitare o certificare della loro vanità
reale, e della nostra illusione, e ci strappa a quei soavi inganni che
costituiscono la nostra vita: nè c'è cosa che abbia questa forza
più della precisa imitazione o somiglianza di un altro oggetto che non
possiamo pregiare nè amare (sia per qualche grado di inferiorità
reale, di ridicolo, di travisamento ec. sia anche quando la somiglianza non
abbia niente [102]o poco d'inferiore) con quello che pregiamo ed amiamo,
e che occupa il cuore e l'immaginazione nostra in modo che ne siamo gelosissimi
e paurosi, e cerchiamo in tutti i modi di custodirlo. (8. Gen. 1820.)
È pure un tristo frutto della
società e dell'incivilimento umano anche quell'essere precisamente
informato dell'età propria e de' nostri cari, e quel sapere con precisione
che di qui a tanti anni finirà necessariamente la mia o la loro giovinezza
ec. ec. invecchierò necessariamente o invecchieranno, morrò senza
fallo o morranno, perchè la vita umana non potendosi estendere
più di tanto, e sapendo formalmente la loro età o la mia io veggo
chiaro che dentro un definito tempo essi o io non potremo più viver
goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci un'idea dell'ignoranza della propria
età precisa ch'è naturale, e si trova ancora comunemente nelle
genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti i mali
ordinari e certi che il tempo reca alla
nostra vita, mancando la previdenza sicura che determina il male e lo anticipa
smisuratamente, rendendoci avvisati del quando dovranno finire indubitatamente
questi e quei vantaggi della tale e tale età di cui godo ec. Tolta la
quale l'idea confusa del nostro inevitabile decadimento e fine, non ha tanta
forza di attristarci, nè di dileguare le illusioni che d'età in
età ci consolano. Ed osserviamo quanto sia terribile in un vecchio p.e.
d'80. anni, quel sapere determinatamente che dento 10. anni al più egli
sarà sicuramente estinto, cosa che ravvicina la sua condizione a quella
di un condannato, e toglie infinitamente a quel gran benefizio della natura
d'averci nascosto l'ora precisa della nostra morte che veduta con precisione
basterebbe per istupidire di spavento, e scoraggiare tutta la nostra vita.
Ci sono tre maniere di vedere le cose. L'una
e la più beata, di quelli per li quali esse hanno anche più
spirito che corpo, e voglio dire degli [103]uomini di genio e sensibili,
ai quali non c'è cosa che non parli all'immaginazione o al cuore, e che
trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un
rapporto continuo delle cose coll'infinito e coll'uomo, e una vita indefinibile
e vaga, in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e
in relazione cogli slanci dell'animo loro. L'altra e la più comune di
quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito, e voglio dire
degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell'immaginazione e del
sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p.e. alla scienza, alla politica
ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in
tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono, e sono
stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è
la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a
nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell'esistenza,
riempie però la vita, di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e
uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla
nascita al sepolcro. La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la
sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè
corpo, ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli
uomini per lo più di sentimento che dopo l'esperienza e la lugubre
cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza
toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la
vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le
illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita. E qui
voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri
animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell'uomo, sia
miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di
condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero della
ragione. Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento
continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera [104]che
la successone e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di
distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo,
giacchè volendosi governare secondo questo incontrastabile principio
ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che
tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una
dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia
quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole
della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua
saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede
come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia
più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai
come si dice volgarmente con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza,
sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia.
Dopo che l'eroismo è sparito dal
mondo, e in vece v'è entrato l'universale egoismo, amicizia vera e
capace di far sacrificare l'uno amico all'altro, in persone che ancora abbiano
interessi e desideri, è ben difficilissimo. E perciò quantunque
si sia sempre detto che l'uguaglianza è l'una delle più certe
fautrici dell'amicizia, io trovo oggidì meno verisimile l'amicizia fra
due giovani che fra un giovane, e un uomo di sentimento già disingannato
del mondo, e disperato della sua propria felicità. Questo non avendo
più desideri forti è capace assai più di un giovane
d'unirsi ad uno che ancora ne abbia, e concepire vivo ed efficace interesse per
lui, formando così un'amicizia reale e solida quando l'altro abbia anima
da corrispondergli. E questa circostanza mi pare anche più favorevole
all'amicizia, che quella di due persone egualmente disingannate, perchè
non restando desideri nè interessi in veruno, non resterebbe materia all'amicizia
e questa rimarrebbe limitata alle parole e ai sentimenti, ed esclusa
dall'azione. Applicate questa osservazione al caso mio col mio degno e
singolare amico, e al non averne trovato altro tale, quantunque conoscessi ed amassi
e fossi amato da uomini d'ingegno e di ottimo cuore.
(20. Gen. 1820.)
[105]E una delle gran cagioni del
cangiamento nella natura del dolore antico messo col moderno, è il
Cristianesimo, che ha solennemente dichiarata e stabilita e per così
dire attivata la massima della certa infelicità e nullità della
vita umana, laddove gli antichi come non doveano considerarla come cosa degna
delle loro cure, se gli stessi Dei secondo la loro mitologia s'interessavano
sì grandemente alle cose umane per se stesse (e non in relazione a un
avvenire), erano animati dalle stesse passioni nostre, esercitavano particolarmente
le nostre stesse arti (la musica, la poesia ec.), e in somma si occupavano
intieramente delle stesse cose di cui noi ci occupiamo? Non è
però ch'io consideri intieramente il cristianesimo come cagion prima di
questo cangiamento, potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso
(come opina Beniamino Constant in un articolo sui PP. della Chiesa riferito
nello Spettatore) ma solamente come propagatore principale di tale rivoluzione
del cuore.
Non per questo che il piacere del dolore
è conforto all'infelicità moderna, l'ignoranza di esso piacere
era difetto alla felicità antica.
Come nella speranza o in qualunque altra
disposizione dell'animo nostro, il bene lontano è sempre maggiore del
presente, così per l'ordinario nel timore è più terribile
il male.
Per le grandi azioni che la maggior parte
non possono provenire se non da illusione, non basta ordinariamente l'inganno
della fantasia come sarebbe quello di un filosofo, e come sono le illusioni de'
nostri giorni tanto scarsi di grandi fatti, ma si richiede l'inganno della
ragione, come presso gli antichi. E un grande esempio di questo è
ciò che accade ora in Germania dove se qualcuno si sacrifica per la libertà
(come quel Sand uccisore di Cotzebue) non accade come potrebbe parere, per
effetto della semplice antica illusione di libertà, e d'amor patrio e
grandezza di azioni, ma per le fanfaluche mistiche di cui quegli [106]studenti
tedeschi hanno piena la testa, e ingombra la ragione come apparisce dalle
gazzette di questi giorni dove anche si recano le loro lettere piene di
opinioni stravaganti e ridicole, che fanno dell'amor della libertà una
nuova religione, tutta nuovi misteri.
(26. Marzo 1820. e v. le Gaz. di Mil. del principio di questo
mese.)
Quando io era fanciullo, diceva talvolta a
qualcuno de' miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una
cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toccandolo con una
frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto, e non per questo erano altro
che miei fratelli. Io mi ricordo spesso di questo fatto, quando io vedo un uomo
(sovente di nessun pregio) servito riverentemente da questo e da quello in
cento minuzie, ch'egli potrebbe farsi da se, o fare ugualmente a quelli che lo
servono, e forse n'hanno più bisogno di lui, che alle volte sarà
più sano e gagliardo di quanti ha dintorno. E dico fra me, nè i
miei fratelli erano cavalli, ma uomini quanto me, e questi servitori sono
uomini quanto il padrone e simili a lui in ogni cosa; e tuttavia quelli si
lasciavano guidare benchè fossero tanto cavalli quant'era io, e questi
si lasciano comandare; e tra questi e quelli non vedo nessun divario.
(26. Marzo 1820.)
Le genti per la città dai loro letti
nelle lor case in mezzo al silenzio della notte si risvegliavano e udivano con
ispavento per le strade il suo orribil pianto ec.
Stile francese. Stile di conversazione.
Stile ordinario de' nostri pittori. Stile arcadico, o frugoniano.
Come potrà essere che la materia
senta e si dolga e si disperi della sua propria nullità? E questo certo
e profondo sentimento (massime nelle anime grandi) della vanità e
insufficienza di tutte le cose che si misurano coi sensi, sentimento non di
solo raziocinio, ma vero e per modo di dire sensibilissimo sentimento e dolorosissimo,
come non dovrà [107]essere una prova materiale, che quella
sostanza che lo concepisce e lo sperimenta, è di un'altra natura? Perchè
il sentire la nullità di tutte le cose sensibili e materiali suppone essenzialmente
una facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura diversa e
contraria, ora questa facoltà come potrà essere nella materia? E
si noti ch'io qui non parlo di cosa che si concepisca colla ragione,
perchè infatti la ragione è la facoltà più
materiale che sussista in noi, e le sue operazioni materialissime e matematiche
si potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia, ma parlo di un
sentimento ingenito e proprio dell'animo nostro che ci fa sentire la
nullità delle cose indipendentemente dalla ragione, e perciò presumo
che questa prova faccia più forza, manifestando in parte la natura di
esso animo. La natura non è materiale come la ragione.
Il riso dell'uomo sensitivo e oppresso da
fiera calamità è segno di disperazione già matura. V.
p.188.
Mi diedi tutto alla gioia barbara e
fremebonda della disperazione.
Se noi diciamo tomba e i greci
dicevano nello
stesso significato chi non vorrà credere che gli antichi latini abbian
detto tumbus o tumba dal greco, onde noi tomba mutato l'u
in o secondo il solito? Perchè dal greco immediatamente non è
possibile che il volgare l'abbia preso, (e notate che in greco moderno si pronunzia
timbos, sicchè se questa derivazione non fosse antichissima noi non
diremmo tomba, ma timba) e d'altronde le due parole sono troppo somiglianti, e
nello stesso valore, perchè l'una non derivi evidentemente dall'altra.
V. il Du Fresne e il Forcellini sì per questa come per tutte le altre
parole ch'io credo antiche e latine in questi pensieri.
(15. Apr. 1820.)
espressamente
per cubiculum si trova in Arriano Stor. di Alessandro l.7. verso il
fine. Transversare per attraversare è voce non solamente
de' bassi tempi ma antica, e sta nel Moretum. Camminare la bugia su pel naso,
si diceva anche ai tempi di Teocrito. Della voce v.
Fabric. B. G. in nota ad Phot. Cod.213. ed. vet. t.9. p.449.
[108]Vedi come la debolezza sia
cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro
con un passo traballante e con una cert'aria d'impotenza, tu ti senti
intenerire da questa vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una
bella donna inferma e fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche
sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti
sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e
riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare
tutto te stesso all'amore e alla difesa sua. Cagione di questo effetto è
la compassione, la quale io dico che è l'unica qualità e passione
umana che non abbia nessunissima mescolanza di amor proprio. L'unica,
perchè lo stesso sacrifizio di se all'eroismo alla patria alla
virtù alla persona amata, e così qualunque altra azione la
più eroica e più disinteressata (e qualunque altro affetto il
più puro) si fa sempre perchè la mente nostra trova più
soddisfacente quel sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed
ogni qualunque operazione dell'animo nostro ha sempre la sua certa e
inevitabile origine nell'egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne
sembri lontana. Ma la compassione che nasce nell'animo nostro alla vista di uno
che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un
sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto
relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò
appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà
è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le
più riguardevoli e distintive dell'uomo sensibile e virtuoso. [109]Se
già la compassione non avesse qualche fondamento nel timore di provar
noi medesimi un male simile a quello che vediamo. (Perchè l'amor proprio
è sottilissimo, e s'insinua da per tutto, e si trova nascosto ne' luoghi
i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili
a questa passione). Ma tu vedrai, considerando bene, che c'è una
compassione spontanea, del tutto indipendente da questo timore, e intieramente
rivolta al misero.
Baggeo deriva altresì dal
latino. V. il mio discorso sulla fama di Orazio. E il francese planer
dal greco , onde
anche in latino le stelle erranti si chiamano planetae cioè errabundi,
ed è ben verisimile che la parola francese sia derivata (non essendo
probabile dal greco) da planari detto forse volgarmente in latino nello
stesso senso. E nota in questo proposito i due participi palans, tis, e palatus,
a, um errante, segno certo di un antico verbo palari, fatto da colla
metatesi della (come da rapio
da forma) e colla
conseguente elisione della n. Buonus
per bonus è in Frontone, e vedi le ortografie del Cellario e del
Manuzio.
Da serpo, da sal,
da salio e salto
(ora non si trova altro che ), da semi- (onde forse i
francesi demi), da sudor,
benchè con altro significato.
L'ubbriachezza è madre
dell'allegrezza, così il vigore. Che segno è questo? Perchè
l'ubbriachezza non cagiona la malinconia? Prima perchè questa deriva dal
vero e non dal falso, e l'ubbriachezza cagiona la dimenticanza del vero, dalla
quale sola può nascere l'allegrezza. Secondo, che gli uomini nello
stato di natura, cioè di vigore molto maggiore del presente, eran fatti
per esser felici, e abbandonarsi alle illusioni, e vederle e sentirle come cose
vive e corporee e presenti.
Le parole come osserva il Beccaria (trattato
dello stile) non presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando
più quando meno [110]immagini accessorie. Ed è pregio
sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la
nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano
termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti.
Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è
adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto
più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella
delle parole, perchè l'abbondanza di tutte due le cose non fa
pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà delle
parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed
evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità. Il pericolo
grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto
matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di
cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benchè questo la
rende facile e comune, perch'è la lingua più artifiziale e
geometricamente nuda ch'esista oramai. Perciò ha bisogno di grandi
scrittori che appoco appoco la tornino ad assuefare allo stile e alle voci del
Bossuet del Fenelon e degli altri sommi prosatori del loro buon secolo, e
così nella poesia. Mad. di Staël mostra col fatto di averlo conosciuto,
e il suo stile ha molto della pastosità dell'antico a confronto
dell'aridità moderna e di quegli scheletri (regolari ma puri scheletri)
di stile d'oggidì. Ed anche non farebbe male ad attingere alle antiche
sue fonti d'Amyot e degli altri tali che usati con discrezione ridarebbero alla
lingua quel sugo ch'ella oramai ha perduto anche per la monotona e soverchia
regolarità della sua costruzione (che anch'essa contribuisce massimamente
a renderla comune in Europa) di cui tanto si lagnava il Fenelon ed altri
insigni. (V. l'Algarotti Saggio sulla lingua francese.) Adattiamo questa
osservazione a cose meno materiali. [111]V. p.100. di questi pensieri. E
riducendo l'osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura
delle cose, vedendo come la filosofia e l'uso della pura ragione che si
può paragonare ai termini e alla costruzione regolare, abbia istecchito
e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondo consista
nella immaginazione che si può paragonare alle parole e alla costruzione
libera varia ardita e figurata. Le voci greche (le voci non i modi) di cui
s'è tanto ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono
nelle nostre lingue esser altro che termini, con significazione nuda e
circoscritta, e aria tecnica e geometrica senza grazia e senza eleganza. E
quanto più ne abbonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto
più toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua.
Perchè la forza e l'evidenza consiste nel destar l'immagine dell'oggetto,
e non mica nel definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate
nella nostra lingua. Le metafore d'ogni sorta sono adattatissime per questa cagione
alla bellezza naturale e al colorito del discorso. E la lingua italiana
studiata di tanti scrittorelli d'oggidì che ancorchè sia piena di
modi e parole native, riesce sì misera e dissonante, vien tale (oltre
all'affettazione che si manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio
italiano, e stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e
stile modellato giudiziosamente sull'antico, e ridotti in succo e sangue
proprio gli antichi scrittori) perchè fa bruttissimo vedere
l'aridità moderna che questi non sanno schivare, colla freschezza il
colorito la morbidezza la vistosità l'embonpoint la floridezza il vigore
ec. antico.
Gridare a testa o quanto
se n'ha in testa è frase antichissima e greca. Manca ne' Lessici gr.
e lat. ma si trova in Arriano (ind. c. 30.): quantum
capita ferre poterant acclamasse interpreta il traduttore.
(30. Aprile 1820.)
[112]Quanto i greci facessero caso
della bellezza, oltre alla parola Jnotata già in questi
pensieri, vedi un luogo singolare di un antico in Clem. Aless. Cohort. ad
gentes c.4. dopo il mezzo ediz. di Venez. t.1. p.49. lin. ult. p.17. nel marg.
lat. e p.37. nel marg. gr. Qual è ora quel genitore che domandi a Dio
quella grazia come un bene principale e suo proprio e dei figli? Intorno ai
quali domanderanno piuttosto tutt'altro, sanità, ingegno,
docilità, virtù, abilità nei negozi, favore dei grandi,
ricchezza ec. ec. ma bellezza quando mai? Vedo che m'ha ingannato quella bestia
del traduttore, il quale dice formosos liberos, e il greco . Vi so
dir io che la differenza è piccola da vero.
Gesù Cristo fu il primo che
personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e
stabilisse l'idea del perpetuo nemico della virtù dell'innocenza dell'eroismo
della sensibilità vera, d'ogni singolarità dell'animo della vita
e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la
società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i
principali nemici dell'uomo, essendo pur troppo vero che come l'individuo per
natura è buono e felice, così la moltitudine (e l'individuo in
essa) è malvagia e infelice. (V. p.611. capoverso 1.)
La pazienza è la più eroica
delle virtù giusto perchè non ha nessuna apparenza d'eroico.
Impertinente è
una parola tutta latina, derivata da un verbo latino ec. però è naturale
che gli antichi o volgari latini dicessero impertinens.
(31. Maggio 1820.)
La gran diversità fra il Petrarca e
gli altri poeti d'amore, specialmente stranieri, per cui tu senti in lui solo
quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa piangere,
laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo
stesso effetto, è ch'egli versa il suo cuore, e gli altri l'anatomizzano
(anche i più [113]eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri
ne parlano.
La cagione di quello che dice Montesquieu
(Grandeur ec. c.4. Amsterdam 1781. p.31. fine) è non solamente che
nessun privato perde quanto il principe nella rovina di uno stato, ma eziandio
che nessuno crede di poter cagionare quella rovina che non può impedire.
Agevole viene da agere come facile
da facere, e questo agere essendo ignoto alla nostra lingua, non
è verisimile che il suo derivato agevole non ci sia venuto
già bello e formato dagli antichi latini che avranno detto agibilis.
A colui che occupa una nuova provincia o per
armi o per trattato è molto più vantaggioso il suscitarci e il
mantenerci due fazioni, l'una favorevole e l'altra contraria al nuovo governo,
di quello che averla tutta ubbidiente e sottomessa e indifferente dell'animo. Perchè
la prima fazione essendo ordinariamente più forte della seconda, e
perciò questa non potendo nuocere, si cavano da ciò due vantaggi.
L'uno d'indebolire i paesani e renderli molto più incapaci di riunirsi insieme
per intraprender nulla, di quello che se tutti fossero indifferenti, il che poi
viene a dire tacitamente malcontenti. L'altro di avere un partito per se molto
più energico e infervorato di quello che se non esistesse un partito
contrario, perchè i principi non dovendo aspettarsi di essere amati
nè favoriti dai sudditi per se stessi nè per ragione, debbono
cercare di esserlo per odio degli altri, e per passione. Giacchè il
contrasto eccita anche quei sentimenti che in altro caso appena si
proverebbero, e quello che non si farebbe mai per affetto proprio, si fa per
l'opposizione [114]altrui, come i migliori cattolici sono quelli che
vivono in paese eretico, e così l'opposto, nè ci ebbe mai tanto
ostinati e infocati partigiani del papa come a tempo dei Ghibellini. V. Montesquieu l. c. ch.6. p.68. (5 Giugno
1820.) E neanche dai benefizi i principi possono aspettar tanto quanto dallo
spirito di parte e dal contrasto che rende l'affare come proprio di colui che
lo sostiene, laddove la gratitudine è un debito verso altrui. E
l'esperienza di tutti i secoli dimostra quanta gratitudine ispirino i benefizi
de' regnanti e dei grandi. E se bene gli uomini hanno imparato a regolare i
capricci e le passioni loro, queste però naturalmente possono in loro
molto più dell'interesse.
(5. Giugno 1820.)
Tanto è vero che l'anarchia conduce
dirittamente al dispotismo, e che la libertà dipende da un'armonia delle
parti, e da una forza costante delle leggi e delle istituzioni della
repubblica, che Roma non fu mai tanto libera nel senso comune di questa parola,
quanto nei tempi immediatamente precedenti la tirannia. Vedete gli affari di
Clodio, e Montesquieu l. c. p.115. lin. ult. e 116. lin.1. e 5. chapit.11.
(6. Giugno 1820.)
E lo stesso si può dir della Francia
passata di salto da una libertà furiosa al dispotismo di Buonaparte.
La civiltà delle nazioni consiste in
un temperamento della natura colla ragione, dove quella cioè la natura
abbia la maggior parte. Consideriamo tutte le nazioni antiche, la persiana a
tempo di Ciro, la greca, la romana. I romani non furono mai così
filosofi come quando inclinarono alla barbarie, cioè a tempo della tirannia.
E [115]parimente negli anni che la precedettero, i romani aveano fatti
infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione delle cose, ch'era nuova
per loro. Dal che si deduce un altro corollario, che la salvaguardia della
libertà delle nazioni non è la filosofia nè la ragione,
come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le
virtù, le illusioni, l'entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo
lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo
del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per
così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l'intiero e l'intimo delle
cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb'essere il frutto dei lumi
straordinari di questo secolo.
(7. Giugno 1820.)
La barbarie non consiste principalmente nel
difetto della ragione ma della natura.
(7. Giugno 1820.)
Gli esercizi con cui gli antichi si
procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad
eccitare l'amor della gloria ec. ma contribuivano, anzi erano necessari a
mantenere il vigor dell'animo, il coraggio, le illusioni, l'entusiasmo che non
saranno mai in un corpo debole (vedete gli altri miei pensieri) in somma quelle
cose che cagionano la grandezza e l'eroismo delle nazioni. Ed è cosa
già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali,
e favorisce le immaginative, e per lo contrario l'imbecillità del corpo
è favorevolissima al riflettere, (7. Giugno 1820.) e chi riflette non
opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui.
[116]La superiorità della
natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con
calore che si faccia per ragione e non per passione, e la stessa religion
cristiana che pare ed è alienissima dalla passione, tuttavia
perchè l'umano si mescola in tutto, non è stata mai seguita e
difesa con vero interesse se non quando ci erano portati da spirito di parte,
da entusiasmo ec. Ed anche ora i divoti fanno come un corpo, e una classe la
quale s'interessa per la religione solamente per ispirito di partito, e quindi
le loro malignità verso i non divoti o gl'irreligiosi, e l'astio ec. e
le derisioni, tutte cose umane e passionate, e non divine nè ragionate
nè fatte con posatezza e freddezza d'animo.
(7. Giugno 1820.)
Gli antichi supponevano che i morti non
avessero altri pensieri che de' negozi di questa vita, e la rimembranza de'
loro fatti gli occupasse continuamente, e s'attristassero o rallegrassero
secondo che aveano goduto o patito quassù, in maniera che secondo essi,
questo mondo era la patria degli uomini, e l'altra vita un esilio, al contrario
de' cristiani.
(8. Giugno 1820.) V. p.253.
Dovunque si formano le scienze o le arti o
qualunque disciplina, quivi se ne creano i vocaboli. Se noi italiani non volevamo
usar parole straniere nella filosofia moderna, dovevamo formarla noi. Quelle
discipline che noi abbiamo formate (p.e. l'architettura) hanno i nostri
vocaboli anche presso le altre nazioni.
La cagione di quello che dice Montesquieu,
l. c. ch.11. p.124. fine è che l'uomo s'offende più del disprezzo
che del danno. E la cagione di questo è l'amor proprio il quale
considera più noi stessi che i nostri comodi. Vero è che certe
anime basse non si curano del disprezzo, e non si dolgono che [117]dei
danni. La cagione è che in questi l'amor proprio essendo più
basso, ha per oggetto prima i beni materiali che la stima l'onore la
dignità della persona, i quali diremmo in certo modo beni spirituali.
Per lo contrario ci sono ancora degli uomini superiori i quali disprezzando il
disprezzo, si guardano però dai danni, perchè questi son cose
reali, e il disprezzo appresso a poco ci nuoce tanto quanto noi lo stimiamo.
In quello che dice Montesquieu, l. c. ch.13.
p.138. e nella nota, osservate la differenza de' tempi e vedete l'esito de' regicidi
francesi a' tempi nostri. La cagione è che lo spirito del tempo
è, come si dice, di moderazione, vale a dire d'indolenza e noncuranza,
che ora si allega come per tutta difesa la differenza delle opinioni, quando
una volta due persone differenti d'opinioni in certi punti, erano lo stesso che
due nemici mortali, e che ancora considerando un uomo come reo e scellerato, la
virtù ora non interessa tanto come una volta, da volerlo punito a tutti
i patti. Questa vendetta della virtù si voleva e si cercava una volta in
contemplazione di essa virtù. Ora che questa si è conosciuta per
un fantasma, nessuno si cura di far male agli altri, e procacciarsi odii e
nimicizie che son cose reali, per la causa di un ente illusorio.
In proposito di quello che dice Montesquieu
della codardia fortunata e propizia di Ottaviano (l. c. ch.13. p.139. fine)
considerate che se il Senato l'avesse veduto [118]coraggioso l'avrebbe
creduto intraprendente. Ora chi intraprende, intraprende per se, e l'intraprendere
per se in Ottaviano ch'era l'erede e il figlio adottivo di Cesare, non poteva
esser altro che il cercare la monarchia. Il vederlo debole fece credere che
avrebbe preso il partito dei buoni ch'è il meno pericoloso,
perchè ha per se l'opinione pubblica, ed è la strada retta e
ordinaria. Gli arditi per lo più son cattivi, e il partito buono
è quello dei più deboli, perchè non ci vuole ardire per
abbracciare il partito ovvio e inculcato dalle leggi dalla natura e dall'opinione
sociale, cioè quello della virtù, ma bensì per entrare nel
partito odioso del vizio. Il fatto però sta che era già venuto
anche per Roma il tempo che la politica dovea prevalere al coraggio come ora, e
in tutti i tempi corrotti.
(9. Giugno 1820.)
Altro è primitivo altro è
barbaro. Il barbaro è già guasto, il primitivo ancora non
è maturo.
Non bisogna credere che un popolo non sia barbaro perchè
non somiglia ad altri barbari (come se i maomettani non fossero barbari perchè
non sono antropofagi). Vedete quante sorte di barbarie si trovano al mondo,
laddove la natura è una sola. Perchè questa ha leggi immutabili e
fisse, ma la corruttela varia infinitamente secondo le cagioni, e le
circostanze vale a dire i costumi le opinioni i climi i caratteri nazionali ec.
ec.
(9. Giugno 1820.)
Una gran differenza tra la legge di natura e
le leggi civili, è questa che la legge civile o umana si può
dimenticare o per [119]distrazione o per altro, e infrangerla senza
leder la coscienza, (come s'io mangio carne non ricordandomi che sia giorno di
magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione) laddove la legge naturale
non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga non
credendo, perch'ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte
continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.
La naturalezza dello scrivere è
così comandata che posto il caso che per conservarla bisognasse mancare
alla chiarezza, io considero che questa è come di legge civile, e quella
come di legge naturale, la qual legge non esclude caso nessuno, e va osservata
quando anche ne debba soffrire la società o l'individuo, come non
è straordinario che accada.
È osservabile come i francesi mentre
sono la nazione più moderna del mondo per costumi ec. abbiano tuttavia
quella disposizione antica che ora tutte le nazioni civili hanno abbandonata,
voglio dire il disprezzo e quasi odio degli stranieri. Il quale non può
tornar loro a nessuna lode, perchè contrasta assurdamente coll'eccessivo
moderno di tutte le altre loro opinioni costumi ec. Ed è tanto
più ridicola, quanto nei greci finalmente era ragionevole, perchè
non avendo conosciuto i romani se non tardissimo, (v. Montesquieu Grandeur ec.
ch.5. p.48. e la nota) non c'era effettivamente altra nazione che gli
uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è noto che non
ostante il loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi [120]nel
giudicare degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte
quelle novità forestiere che giudicavano utili, quando anche per adottar
queste bisognasse lasciare o correggere le loro proprie usanze.
Nelle repubbliche le cagioni degli
avvenimenti appresso a poco erano manifeste, si pubblicavano le orazioni che
aveano indotto il popolo o il consiglio a venire in quella tal deliberazione,
le ambascerie si eseguivano in pubblico, ec. e poi dovendosi tutto fare colla
moltitudine le parole e le azioni erano palesi, ed essendoci molti di egual
potere, ciascuno era intento a scoprire i motivi e i fini dell'altro e tutto si
divulgava. Vedete p.e. le lettere di Cicerone che contengono quasi tutta la
storia di quei tempi. Ma ora che il potere è ridotto in pochissimi, si
vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle
macchine che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da
persone nascostevi dentro. E il mondo umano è divenuto come il naturale,
bisogna studiare gli avvenimenti come si studiano i fenomeni, e immaginare le
forze motrici andando tastoni come i fisici. Dal che si può vedere
quanto sia scemata l'utilità della storia. V. Montesquieu l.c. ch.13.
fine. V. p.709. capoverso 1.
La cagione principale di ciò che dice
Montesquieu ch.14. p.155. è che il popolo quantunque sia composto
d'individui tutti animati da passioni basse, contuttociò queste essendo
particolari e infinite, non si può cattivare se non per le passioni
generali, cioè con quelle cose che la [121]natura ha fatte
piacevoli generalmente, amabilità, virtù, coraggio, servigi
prestati, abilità negli affari, integrità, onestà,
onoratezza ec. Sicchè le elezioni del popolo non possono costringere il
candidato ad abbassarsi se non in piccole cose, anzi per lo contrario, ad
ingrandirsi. Ma le passioni dell'individuo sono piccole e basse, e quando l'elezione
dipende da lui, per cattivarselo è necessario coll'abbiezione dell'animo
farsi indegno di qualunque onore o vantaggio, e così le dignità
è naturale che tocchino per lo più agl'indegni. Oltre la grande
spinta che dà all'ingegno all'eloquenza e a tutte le nobili
facoltà il desiderio di cattivarsi la moltitudine, che ordinariamente
non può giudicare se non colle regole vere, perchè queste sole
sono comuni.
(10. Giugno 1820.)
Perciò i giudizi ec. del tempo, e del
pubblico sono sempre giusti riguardo a qualunque oggetto.
La cagion vera secondo me di quello che dice
Montesquieu loc. cit. ch.14. p.157. di uno fatto accusare da Tiberio per aver
venduta colla sua casa la statua dell'imperatore, e di un altro che ec.
è che il materiale e il sensibile, avea molto più forza sugli
antichi, ed era molto più considerato in quei tempi d'immaginazione, che
in questi nostri tutti intellettuali.
Le cagioni di quello che nota Montesquieu
ch.14. fine, e se ne maraviglia, sono 1. che ciascuno è tanto infelice
quanto esso crede, e i poveri e ignoranti si credono assai meno infelici di
quello che fanno i ricchi e istruiti, non già che quelli non si credano
molto più sventurati di questi, ma misurando e ragguagliando l'opinione [122]della
propria infelicità quale ambedue la concepiscono si trova molto maggiore
in questi che in quelli. 2. che di un popolo mezzo barbaro è tutto proprio
il timore. 3. che per disprezzar la vita e le sventure non basta essere
infelici, ma si richiede magnanimità e profondità di sentimenti,
e forza d'animo, cose ignote alla plebe, altrimenti prevale il desiderio naturale
e cieco della propria conservazione. 4. che la prosperità dà
confidenza, ma le continue sventure primieramente in luogo di far l'uomo
generoso, l'avviliscono col sentimento della propria debolezza, e gli levano il
coraggio, massime se egli non è magnanimo per natura o per coltura; poi
la trista esperienza rende l'uomo tremebondo a causa del nessuno sperare, e
dell'aspettar sempre male. 5. finalmente che chi ha pochissimo, teme più
per quel poco, perchè non è avvezzo a confidare, nè a immaginar
nessuna risorsa, avendone sempre mancato, quando sia un popolo vissuto sempre
nella inazione come i moderni, e non avvezzo a continue imprese e vicissitudini
di fortuna, come gli antichi romani ancorchè poveri.
La cagione che adduce Montesquieu dell'esser
sovente il principio de' cattivi regni, come il fine dei buoni, (ch.15. p.160.)
non è buona, perchè va a terra quando un cattivo principe succede
a un buono. Io credo che la vera sia, prima, che il suo fine essendo di regnar
male, egli fa bene nel principio per inesperienza, e male nell'ultimo, al
contrario dei buoni, poi, che una certa generosità naturale [123]nei
primi momenti della prosperità e del potere è verisimile anche
nei cattivi, anzi sarebbe inverisimile il contrario. Poi coll'assuefazione a
quello stato si torna a riprendere il proprio carattere, interrotto da quella
novità straordinaria, come avviene spessissimo nella vita.
(11. Giugno 1820.)
L'efficacia del materiale e dello straordinario
anche a questi tempi si può arguire fra le mille altre cose dal fatto
ultimamente accaduto di quei giovani alunni di S. Michele di Roma usciti tutti
in folla e andati al palazzo papale a reclamare sotto le finestre del Ministro
contro gli abusi dell'amministrazione dell'ospizio. Un memoriale presentato in
nome di tutti loro, sarebbe stato indizio dello stessissimo malcontento, ma non
avrebbe fatto lo stesso effetto. Da questo caso si può anche argomentare
quanto il complotto sia più facile nei convitti e nella milizia, dove
ciascuno considerando gli altri come compagni e camerate, ci pone più
confidenza.
Lo spatrio cioè il trapiantarsi d'un
paese in un altro era possiamo dire ignoto agli antichi popoli civili,
finchè durò la loro civiltà, segno di quanto fosse il loro
amor patrio, e l'odio o disprezzo degli stranieri. Al contrario quando declinarono
alla barbarie. (V. Montesquieu Grandeur ec. ch.2. p.20. fine e ch.16. p.179. e
la nota 6.) Le colonie non erano altro che ampliazioni della patria, dove
ciascuno restava fra' suoi compatriotti, colle stesse leggi, costumi ec.
[124]La cagione di quella
contentezza di noi stessi che proviamo nel leggere le vite o le gesta dei
grandi e virtuosi (v. Montesquieu l.c. ch.16. p.176.) è che (eccetto i
malvagi di professione e di coscienza, i quali certo non provano questo effetto)
l'uomo o è buono, o mezzo buono mezzo cattivo, come la maggior parte,
nel qual caso ciascuno sente che l'istinto suo naturale e la sua destinazione
è la virtù, e si considera appresso a poco come virtuoso. Ora quello
che gli dà una grande idea della virtù e gli mostra coll'esempio
a che cosa porti, e come si faccia ammirare, accresce l'idea di se stesso,
ancorchè uno non vi rifletta, cioè ingrandisce l'opinione e la
stima di quella qualità, che ciascuno, anche senza avvedersene
distintamente, sente esser naturale in lui, e propria del suo essere.
Così dico del coraggio, e dell'eroismo ec. Oltre che quell'esempio e la
lode e la fama risultatane a quei grandi uomini, servendo come di sprone ad
imitarli, ciascuno in quel momento perchè prova un certo desiderio
benchè ordinariamente inefficace di fare altrettanto, si crede capace
confusamente di farlo se si presentasse l'occasione, la quale è lontana,
e in lontananza si vedono molte belle cose, e si fanno molti bei propositi.
Omero farà sempre in tutti questo effetto, e un francese diceva che gli
uomini gli parevano un palmo più alti quando leggeva Omero. Per questo
lato anche i cattivi sono suscettibili del detto effetto.
(12. Giugno 1820.)
[125]Per li fatti magnanimi
è necessaria una persuasione che abbia la natura di passione, e una
passione che abbia l'aspetto di persuasione appresso quello che la prova.
In proposito di quello ch'io dico nei miei
pensieri p.112. e nel luogo quivi citato, osservate che ora in uno stile
sostenuto sarebbe vergogna il dare all'uditore un epiteto che ricordasse un
pregio del corpo. Non così presso i greci, sia in ordine alla bellezza,
sia alla robustezza ec. Il corpo non era in così basso luogo presso gli
antichi come presso noi. Par che questo sia un vantaggio nostro, ma pur troppo
le cose spirituali non hanno su di noi quella forza che hanno le materiali, ed
osservatelo nella poesia ch'è la imitatrice della natura, e vedete
ch'effetto facciano i poeti metafisici, rispetto agli altri poeti.
La filosofia indipendente dalla religione,
in sostanza non è altro che la dottrina della scelleraggine ragionata; e
dico questo non parlando cristianamente, e come l'hanno detto tutti gli
apologisti della religione, ma moralmente. Perchè tutto il bello e il
buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù, la giustizia,
la magnanimità ec. essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie, quella
scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura aveva nascoste
sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo le rivelate,
per necessità viene a concludere che il vero partito in questo mondo,
è l'essere un perfetto egoista, e il far sempre quello che ci torna in
maggior comodo o piacere.
(16. Giugno 1820.)
[126]Arriano ancorchè detto
il secondo Senofonte, e vicinissimo certamente a lui nella semplicità e
purità dello stile, e nella negligente varietà e
irregolarità della costruzione ec. tuttavia si distingue da lui in
questo ch'egli (forse come uomo vissuto lungo tempo fra i romani, forse per
istudio di Tucidide, forse che la qualità ch'io dirò di Senofonte
non era propria di quel tempo tanto alieno dall'antica candidezza) è
più grave di Senofonte, e non ha quell'amabile familiarità e
quasi affabilità di Senofonte che tratta il lettore come suo amico, e
gli racconta o gli parla come se fosse presente. Così nelle orazioni
storiche, Arriano va sempre un mezzo tuono più alto di Senofonte, il
quale nelle stesse orazioni è piuttosto espositore della cosa che
oratore.
L'impressione che produce l'annunzio
improvviso di una grave sventura, non si accresce in proporzione della maggiore
o minor gravità di essa. L'uomo in quel punto la considera quasi come
somma, e tutto l'impeto del dolore si scarica sopra di essa, in maniera che non
avrebbe potuto raddoppiarsi, se la sventura annunziatagli fosse stata del
doppio maggiore, voglio dire però, se sin da principio gli fosse stata
annunziata così, perchè sopravvenendo un altro annunzio, la successione
della cosa lascia luogo all'accrescimento del dolore, sebbene neanche allora
l'accrescimento sarebbe in proporzione del raddoppiamento della sventura,
perchè l'anima è già esaurita e come intorpidita dal [127]dolore
passato. Ieri in mezzo a una festa, due fanciulli restano oppressi da una
pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che tutti due sieno figliuoli di una
stessa madre. Poi la gente si consola perchè viene in chiaro che sono di
due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi perchè il dolore
si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue? quando in una sola
appresso a poco sarebbe stato lo stesso in tutti due i casi. E quella che
tramortì all'annunzio, non avrebbe potuto soffrir di più se la
sventura per se stessa fosse stata doppia. Prescindendo dal caso che la morte
di due figli la privasse di tutta la figliuolanza, il che muterebbe la specie
della disgrazia, ed è fuor del caso. E potrebbe anche darsi che quel
solo figlio ch'ella perdè, fosse unico, laonde questa considerazione qui
non ha luogo.
(16. Giugno 1820.)
La gloria non è una passione
dell'uomo primitivo affatto e solitario, ma la prima volta che una truppa
d'uomini s'unì per uccidere qualche fiera, o per qualche altro fatto
dov'ebbero mestieri dell'aiuto scambievole, quegli che mostrò più
valore, sentì dirsi bravo schiettamente e senza adulazione da quella
gente che ancora non conoscea questo vizio. La qual parola gli piacque forte, e
così egli come qualche altro spirito magnanimo che sarà stato
presente, sentirono per la prima volta il desiderio della lode. E così [128]nacque
l'amor della gloria.
(18. Giugno 1820.)
La qual passione è così
propria dell'uomo in società, e così naturale, che anche ora in
tanta morte del mondo, e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i
giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta
come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le arti,
e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l'amor
del piacere, quanto per esser notati e invidiati, e vantarsi di vittorie
vergognose, che tuttavia il mondo ora appalude, non restando a un giovane altra
maniera di far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa.
Giacchè ora pochissimo anche all'animo, ma tuttavia all'animo resta
qualche via di gloria, ma al corpo ch'è quella parte che fa il
più, e nella quale consiste per natura delle cose, il valore della
massima parte degli uomini, non resta altra strada.
La varietà che la natura ha posta
nelle cose e negl'ingegni, è tanta, che fino gli stessi filosofi,
quantunque tutti cerchino la stessa verità, nondimeno a cagione dei diversissimi
aspetti nei quali una stessa proposizione si presenta ai diversi ingegni,
sarebbero tutti originali, se non leggessero gli altri filosofi, e non [129]osservassero
le cose cogli occhi altrui. Ed è facile a scoprire che una grandissima
parte delle verità dette ai nostri tempi da quegli scrittori che s'hanno
per originali, ancorchè queste verità passino per nuove, non
hanno altro di nuovo che l'aspetto, e sono già state esposte in altro modo.
(18. Giugno 1820.). E vedete come tutti gli scrittori non europei, come gli
orientali, Confucio ec. quantunque dicano appresso a poco le stesse cose che i
nostri, a ogni modo paiono originali, perchè non avendo letto i nostri
filosofi europei, non hanno potuto imitarli, o seguirli e conformarcisi non
volendo, come accade a tutti noi.
Dei nostri poeti d'oggidì altri non
sentono e non pensano, e così scrivono, altri sentono e pensano ma non
sanno dire quello che vorrebbero, e mettendosi a scrivere, per mancanza di
arte, si trovano subito voti, e di tutto quello che avevano in mente, non
trovano più nulla, e volendo pure scrivere si danno al fraseggiare, e
all'epitetare e se la passano in luoghi comuni e così chiudono la
poesia, perchè una cosa nuova da dire gli spaventa, non sapendo trovare
l'espressione che le corrisponda; altri finalmente sentendo e pensando e non
sapendo dir quello che vogliono, tuttavia lo vogliono dire, e questi sono
ridicoli per lo stento l'affettazione la durezza l'oscurità, e la
fanciullaggine della maniera, quando anche [130]i sentimenti non fossero
dispregevoli.
(21. Giugno 1820.)
In proposito di quello che ho detto p.96.
osservate come ragionevolmente gli antichi usassero la musica e la danza nei
conviti, e segnatamente dopo il pranzo, come dice Omero nel primo dell'Odissea,
e forse anche dove parla di Demodoco. L'uomo non è mai più
disposto che in quel punto ad essere infiammato dalla musica e dalla bellezza,
e da tutte le illusioni della vita.
A quello che ho detto p.128. aggiungi. Il
giovane che entra nel mondo vuol diventarci qualche cosa. Questo è un
desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidì il giovane privato non ha
altra strada a conseguirlo fuorchè quella che ho detto, o l'altra della
letteratura che rovina parimente il corpo. Così la gloria
d'oggidì è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in
luogo che una volta era posta nei contrarii. E così per conseguenza
s'infiacchiscono sempre più le generazioni degli uomini, e questo
effetto della mancanza d'illusioni esistentc nel mondo come una volta,
divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore secondo
quello che ho detto negli altri pensieri, della necessità del vigor del
corpo alle grandi illusioni dell'animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi
effetti della ordinaria vita giovanile d'oggidì, che a poco a poco
ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che altra
occupazione resta oggi a un giovane privato, o che altra speranza? E credete
che un giovane si possa contentare di una vita inattiva, [131]senza
nessuna vista, e nessuna aspettativa fuorchè di un'eterna monotonia, e
di una noia immutabile? Anticamente la vanità era considerata come
propria delle donne, perchè anche nelle donne c'è lo stesso
desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che
quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui, il quale diceva Celso
che adimi feminis non potest. Ora resta intorno alla vanità la
stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perchè
è propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini
ridotti alla condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di
figurare nel mondo, e l'uomo vecchio per la massima parte, è divenuto
inutile e spregevole, e senza vita nè piaceri nè speranze, come
la donna comunemente soleva e suol divenire, che dopo aver fatto molto parlar
di se, sopravvive alla sua fama invecchiando.
(22. Giugno 1820.)
Bisogna escludere dai sopraddetti, i negozianti
gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai, perchè in fatti
la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle classi disoccupate.
Una conseguenza del materiale delle
religioni antiche e dell'importanza che davano a questa vita, era che il
sacerdozio presso i romani fosse come un grado secolare, e presso le altre
nazioni, i sacerdoti, come i Druidi presso i Galli, si mescolassero moltissimo
negli affari civili, e nelle guerre e nelle paci, e combattessero ancora negli
eserciti [132]per la loro patria, l'amor della quale tanto è
lungi che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi n'era uno de' fondamenti.
E così a un di presso fra gli antichi Ebrei, dove anzi il governo civile
e militare era tutto fondato sopra la religione. E così dirò
degli oracoli consultati per le cose pubbliche, e di tutto l'apparato delle
religioni antiche, sempre ordinato ai negozi di questo mondo.
Relativamente a quello che ho detto p.80. si
può considerare che la barbarie cupa ed oscura, e vilmente e stranamente
crudele de' bassi tempi, non proveniva solamente dall'ignoranza, ma da questa
mescolata alla religion cristiana. Se fosse stata una barbarie pagana, quella
religione aperta, chiara, materiale, senza misteri, avrebbe dato a quella
ignoranza un colore più allegro, e a quei costumi un carattere meno
profondo. Male menti erano tutte piene di quel sombre, di quel
misterioso, di quel lugubre, di quello spaventoso della religion cristiana massimamente
guasta dalla superstizione; lo spirito del tempo era modellato sopra queste
forme metafisiche e astratte; l'uomo era malvagio per natura della società,
come sempre; aggiunta alla malvagità l'ignoranza la superstizione, e lo
spirito cupo del tempo, il vizio prese il carattere di metafisica, cosa
notabile, e ben diversa dagli antichi vizi che generalmente erano più naturali,
e quantunque gravi e dannosi, tuttavia si soddisfacevano apertamente, o al
più sotto un velo di politica superficialissima. E quindi [133]la
barbarie prese quel carattere tenebroso, e la malvagità divenne
scelleraggine profondissima.
(23. Giugno 1820.)
Aggiungete che la religion pagana come
più naturale che ragionevole, avrebbe servito a conservar qualche poco
di natura in quella barbarie. E la natura è un gran contravveleno e
medicamento in ogni corruzione umana, e un gran faro in mezzo alle tenebre
dell'ignoranza, quando non sia spento da una ragione corrotta, come allora.
Dice Luciano nelle Lodi della patria
(t.2. p.479.): , (vel ob honoris glriam),
Þ(properantes), J, . Questo è vero, e quando anche tu viva in una città molto
maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle opinioni antiche
a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che la gloria o qualunque
altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia romore particolare
nella tua patria. Ma la cagione non è mica l'amor della patria, come
stima Luciano, e come pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa
patria, tu provi lo stesso effetto [134]riguardo alla tua famiglia, e a'
tuoi più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che
i nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono
più intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più
per minuto le nostre qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri
costumi ec. E come non ti contenteresti di una fama anonima, cioè di
esser celebrato senza che si sapesse il tuo nome, perchè quella fama, ti
parrebbe piuttosto generica che tua propria, così proporzionatamente desideri
ch'ella sia sulle bocche di quelli presso i quali, conoscendoti più
intimamente e particolarmente, la tua stima viene ad essere più individuale
e propria tua, perchè si applica a tutto te, che sei loro noto minutamente.
E viene anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li nostri
simili, onde non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una specie
di animali diversa dall'umana, e così venendo per gradi, poco ci cureremmo
di esser famosi fra i Lapponi o gl'irocchesi, essendo ignoti ai popoli colti, e
non saremmo contenti di una celebrità francese o inglese, essendo
sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri
propri cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni
che si hanno o si sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le
emulazioni, le gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte
ec. ec. alle quali cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra
gloria, o qualunque vantaggio acquistato. In somma [135]la cagione
è l'amore immediato di noi stessi, e non della nostra patria. V. p.536.
capoverso 2.
Io non credo molto a quello che dice
Montesquieu Dialogue de Sylla et d'Eucrate, particolarmente p.293-295. per ispiegare
il carattere e le azioni di Silla. Questo è il solito errore di creder
che gli uomini si formino da principio un piano seguito di condotta, e seguano
sempre un filo di azioni, quando la nostra natura composta di cento passioni,
è sempre piena d'incongruenze, secondo che questa passione o quell'altra
piglia il di sopra. E anche i ragionamenti dell'uomo sono pieni di variazioni,
per cui ora ci par conveniente uno scopo, ed ora un altro, o volendo arrivare
allo stesso scopo, cambiamo strada del continuo. Solamente serve a mostrar
l'ingegno dello scrittore il condurre tutte le azioni disparatissime di un
personaggio famoso, come tante linee a uno stesso punto, e per questo capo
è stimabile e ingegnoso il celebre Manuscrit venu de Sainte-Helène,
attribuito alla Staël. Io credo che Silla avesse veramente una grandissima ambizione,
e questa di comandare, come tutti gli altri, poi, siccome il fantasma della
gloria era ancor grande e potente nelle menti romane, stimò più
ambizioso il rinunziare al comando che il ritenerlo, e così volle andare
allo stesso fine per un'altra strada. Forse ancora il pensiero di farsi tiranno
della patria, non era per anche maturo negli animi romani, nutriti in
così smisurato amore e pregio della libertà: ma la passione di Silla,
fu l'odio civile, e la ferocia [136]verso i suoi competitori, e per
isfogarla, volle il supremo comando, non ostante che per se stesso non lo
bramasse, e che dopo sfogata lo deponesse. Perchè il piacere della
vendetta, e del calpestare i suoi nemici, e vederli intieramente oppressi
domati e annientati, è un piacere anzi un'ambizione che in molti
può più che quella del comando in genere. E così Silla
contraddisse ai suoi principii romani e liberali, e diede un esempio fatale
alla libertà, per soddisfare a una passione particolare.
(24. Giugno 1820.)
La poesia malinconica e sentimentale è un respiro
dell'anima. L'oppressione del cuore, o venga da qualunque passione, o dallo
scoraggiamento della vita, e dal sentimento profondo della nullità delle
cose, chiudendolo affatto, non lascia luogo a questo respiro. Gli altri generi
di poesia molto meno sono compatibili con questo stato. Ed io credo che le continue
sventure del Tasso sieno il motivo per cui egli in merito di originalità
e d'invenzione restò inferiore agli altri tre sommi poeti italiani,
quando il suo animo per sentimenti, affetti, grandezza, tenerezza ec.
certamente gli uguagliava se non li superava, come apparisce dalle sue lettere
e da altre prose. Ma quantunque chi non ha provato la sventura non sappia
nulla, è certo che l'immaginazione e anche la sensibilità
malinconica non ha forza senza un'aura di prosperità, e senza un vigor
d'animo che non può stare senza un crepuscolo un raggio un barlume di
allegrezza.
(24. Giugno 1820.)
Oggidì le menti superiori hanno
questa proprietà che sono facilissime a concepire illusioni, e
facilissime e prontissime a perderle, (parlo anche delle piccole illusioni
della [137]giornata) a concepirle, per la molta forza dell'immaginazione
a perderle, per la molta forza della ragione.
Mentre io stava disgustatissimo della vita,
e privo affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi
disperava per non poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che
m'avea sempre confortato a sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo
di somma intelligenza e gran fama, ch'io diverrei grande, e glorioso
all'Italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie
sventure, (Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte l'accettassi
come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore che mi
portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente dalla vita,
mi riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io
pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal
mio amico, che ora pareva non si curasse più di vederli verificati,
nè di quella grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie
carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i
desideri e le belle viste e le occupazioni dell'adolescenza, mi si serrava il
cuore in maniera ch'io non sapea più rinunziare alla speranza, e la
morte mi spaventava? non già come morte, ma come annullatrice di tutta
la bella aspettativa passata. E pure quella lettera non mi avea detto nulla
ch'io non [138]mi dicessi già tuttogiorno, e conveniva nè
più nè meno colla mia opinione. Io trovo le seguenti ragioni di
questo effetto. 1. Che le cose che da lontano paiono tollerabili, da vicino
mutano aspetto. Quella lettera e quell'augurio mi metteva come in una specie di
superstizione, come se le cose si stringessero, e la morte veramente si
avvicinasse, e quella che da lontano m'era parsa facilissima a sopportare, anzi
la sola cosa desiderabile, da vicino mi pareva dolorosissima e formidabile. 2.
Io considerava quel desiderio della morte come eroico. Sapeva bene che in fatti
non mi restava altro, ma pure mi compiaceva nel pensiero della morte come in
un'immaginazione. Credeva certo che i miei pochissimi amici, ma pur questi
pochi, e nominatamente quel tale mi volessero pure in vita, e non consentissero
alla mia disperazione e s'io morissi, ne sarebbero rimasti sorpresi e abbattuti,
e avrebbero detto. Dunque tutto è finito? Oh Dio, tante speranze, tanta
grandezza d'animo, tanto ingegno senza frutto nessuno. Non gloria, non piaceri,
tutto è passato, come non fosse mai stato. Ma il pensar che dovessero
dire, Lode a Dio, ha finito di penare, ne godo per lui, che non gli restava
altro bene: riposi in pace; questo chiudersi come spontaneo della tomba sopra
di me, questa subita e intiera consolazione della mia morte ne' miei cari,
quantunque ragionevole, mi affogava, col sentimento di un mio intiero
annullarmi. La previdenza della tua morte ne' tuoi amici, che li consola anticipatamente,
è la cosa più spaventosa che tu possa immaginare. [139]3.
Lo stato non della mia ragione la quale vedeva il vero, ma della mia
immaginazione era questo. La necessità e il vantaggio della morte ch'era
reale faceva in me l'effetto di un'illusione, a cui l'immaginazione si
affeziona, e il vantaggio e le speranze della vita ch'erano illusorie, stavano
nel fondo del cuor mio come la realtà. Quella lettera di un tale amico,
mise queste cose viceversa. Insomma questa vita è una carnificina senza
l'immaginazione, e la sventura più estrema diventa anche peggiore e
somiglia a un vero inferno quando sei spogliato di quell'ombra d'illusione, che
la natura ci suol sempre lasciare. Se ti sopravviene una calamità senza
rimedio, e in qualunque affar doloroso, il communicarti con un amico, e il
sentir che questo ti conferma intieramente quello che già la tua ragione
vedeva troppo chiaro, ti toglie ogni residuo di speranza, e parendoti di accertarti
allora della totalità e irreparabilità del tuo male, cadi nella
piena disperazione.
Da queste considerazioni impara come tu
debba regolarti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare incredulo
al suo male, se è vero. Non la persuaderesti, e l'abbatteresti
davantaggio, privandola della compassione. Ella conosce bene il suo male, e tu
confessandolo converrai con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una
goccia d'illusione. I più disperati credi certo che la conservano, per
benefizio costante della natura. Guarda di non seccargliela, e vogli piuttosto
peccare nell'attenuare il suo male e mostrarti poco compassionevole, che
nell'accertarlo di quello [140]in cui la sua immaginazione contraddice
ancora alla sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii
certo che nell'intimo del suo cuore fa tutto l'opposto, dico nell'intimo,
cioè in un fondo nascosto anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole
ma col suo cuore, e come secondando il suo cuore tu darai una certa
realtà a quell'ombra d'illusione che gli resta, così nel caso
contrario tu gli porterai un colpo estremo e mortale. La solitudine e il
deserto l'avrebbero consolato meglio di te, perchè avrebbe avuto con se
la natura sempre intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle
calamità gravissime e reali che riducono alla disperazione della vita, e
non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di esser creduto esagerando,
nè di quelle provenienti da grandi illusioni e passioni, dove l'uomo
forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto.
(26. Giugno 1820.)
Il dolore o la disperazione che nasce dalle
grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è
paragonabile all'affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo
della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser
felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente
nell'anima. Le sventure o d'immaginazione o reali, potranno anche indurre il
desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della
vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno
di vita, e quest'altro dolore ch'io dico è tutto morte; e quella [141]medesima
morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più
viva, laddove quest'altra è più sepolcrale, senz'azione senza
movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un'oppressione
smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri
nella fanciullezza o dal pensiero dell'inferno. Questa condizione dell'anima
è l'effetto di somme sventure reali, e di una grand'anima piena una
volta d'immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita
così evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la
vanità delle cose, perchè senza ciò la gran varietà
delle illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno,
impedisce questa fatale e sensibile evidenza. E perciò non ostante che
questa condizione dell'anima sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con
tutto ciò essendo contrarissima anzi la più dirittamente
contraria alla natura, non si sa se non di pochi che l'abbiano provata, come
del Tasso.
La parola è un'arte imparata dagli
uomini. Lo prova la varietà delle lingue. Il gesto è cosa
naturale e insegnata dalla natura. Un'arte 1. non può mai uguagliar la
natura, 2. per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi momenti in cui
questi non la sanno adoperare. Perciò negli accessi delle grandi
passioni, 1. come la forza della natura è straordinaria, quella della
parola non arriva ad esprimerla,
(27. Giugno 1820.). V. al fine della pagina.
Nei trasporti d'amore, nella conversazione coll'amata, nei favori
che ne ricevi, anche negli ultimi, tu vai piuttosto in cerca della
felicità di quello che provarla, il tuo cuore agitato, sente sempre una
gran mancanza, un non so che di meno di quello che sperava, un desiderio di
qualche cosa anzi di molto di più. I migliori momenti dell'amore sono
quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e
quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale. In quel riposo
la tua anima meno agitata, è quasi piena, e quasi gusta la
felicità. (V. Montesquieu Temple de Gnide canto 5. dopo il mezzo.
p.342.). Così anche nell'amore, ch'è lo stato dell'anima il
più ricco di piaceri e d'illusioni, la miglior parte, la più
dritta strada al piacere, e a un'ombra di felicità, è il dolore.
(27. Giugno 1820.)
Curae leves loquuntur, ingentes stupent sta per
epigrafe del n.95. dello Spectator inglese, senza nome d'autore.
[143]Che vuol dire che fra tanti
imitatori che si sono trovati di opere e di scrittori classici, nessuno
è pervenuto ad occupare un grado di fama non dico uguale, ma neppur
vicino a quello dell'imitato? Non è già verisimile che essendo
più facile l'inventis addere, e il perfezionare una cosa inventata, che
l'inventarla già perfetta, ed essendoci stati molti imitatori di sommo
ingegno, massimamente in Italia in un tempo dove l'imitare era cosa di moda, e
perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator
di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non si sia mai data nessun'imitazione
che almeno agguagli l'opera imitata, e per conseguenza meritasse un posto
compagno a quello dell'originale. Ma il fatto sta che in materia di letteratura
o di arti, basta accorgersi dell'imitazione, per metter quell'opera
infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso, come in molti
altri, la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed intrinseco
dell'opera, quanto alla circostanza dello scrittore o dell'artefice. Laonde, o
imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare
all'immortalità, quando bene le vostre copie valessero effettivamente
molto più dell'originale.
Nella carriera poetica il mio spirito ha
percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio
forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie
letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione.
Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia
non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non
avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi
ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre
un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure
d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente
alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la felicità,
della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in
tutto e per tutto come quello degli antichi. [144]Ben è vero che
anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io
diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell'ultimo canto della
Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al
moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819.
dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra
le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che
avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla
nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura),
a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire
l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per
uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli
antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente
infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto
crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però
principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi
metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia
era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione
delle belle scene naturali ec. come ora ch'io ci resto duro come una pietra);
bensì quei versi traboccavano di sentimento.
(1. Luglio 1820.)
Così si può ben dire che in
rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i
fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che
filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la
fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al
vero, in somma filosofo.
È cosa già molte volte
osservata che come le Accademie scientifiche forse hanno giovato alle scienze,
promosse e facilitate le [145]scoperte ec. così le letterarie hanno
piuttosto pregiudicato alla letteratura. Infatti le Accademie scientifiche non
hanno quasi mai seguito un sistema di filosofia, ma lasciato il campo libero al
ritrovamento della verità, qualunque sistema ne dovesse esser favorito,
e massimamente nelle cose naturali era difficile seguire un sistema, dovendo promuovere
le scoperte che non possono derivare se non dal vero, e non si può
prevedere che cosa riveleranno, e a che sistema si adatteranno. Se avessero
seguito un sistema, avrebbero pregiudicato alle scienze, come le Accademie
letterarie alla letteratura. Il fatto sta che questa benchè abbia le sue
regole, tuttavia il porre in chiaro queste regole, e il decretarle e il farne
un codice, non le ha mai giovato. Tutti i grandi poeti greci sono stati prima
di Aristotele, e tutti i latini prima o contemporaneamente ad Orazio. Ma dunque
non giova che il buon gusto sia promosso e promulgato, e costituito per norma
delle opere letterarie? Certamente ci vuole il buon gusto in una nazione ma questo
dev'essere negl'individui e nella nazione intiera, e non in un'adunanza
cattedratica, e legislatrice, e in una dittatura. Primieramente non è
facile il promuovere le opere di genio. Gli onori la gloria gli applausi i
vantaggi sono mezzi efficacissimi per promuoverle, ma non quegli onori e quella
gloria che derivano dagli applausi di un'Accademia. Gli antichi greci e anche i
romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua
storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una
piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove
l'effetto non può esser mai quello che si fa nel popolo, e per piacere
ai critici si scrive 1. con timore, cosa mortifera, 2. si cercano cose
straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore
può far nascere l'originalità la grandezza e la [146]naturalezza
della composizione. In secondo luogo se il promuovere il genio non giova, se
gli sproni non l'aiutano, il freno l'ammazza, intendo un freno messogli dagli
altri e non dal proprio giudizio. Se questo manca, non ci è rimedio, ma
la magistratura letteraria non fa nascere le virtù letterarie, se non ci
sono i buoni costumi, intendo il retto giudizio e il buon gusto. Ma se il gusto
è corrotto non gioverà il promulgarlo, il ristabilirlo ec.?
Gioverà, voglio dire che le Accademie riusciranno a fare che non si
scriva più male, ma non che si scriva bene. L'Arcadia fu stabilita per isbandire
il seicentismo. Fu sbandito, ma lo stile Arcadico è un nome derisorio
che si dà in Italia a quelle poesie che non sanno di carne nè
pesce. Ora che rimedio trovereste al cattivo gusto? Ripeto quello che ho detto
nel principio dei miei pensieri. Quasi tutte le nazioni colte dopo il loro
secol d'oro, hanno avuto quello della corruzione, e ne sono risorte. Ma dopo
questo, un numero di scrittori veramente grandi e paragonabili ai primi (dico
in letteratura, non in fatto di pensieri, filosofia ec.), insomma un altro
secol d'oro è un esempio che ancora mi resta da vedere. Negli ottimi
secoli i grandi scrittori avevano modelli del buono da seguire, ma non del
cattivo da fuggire. Quelli possono giovare, questi nocciono. Dico che i cattivi
scrittori che si avevano, sì come non formavano classe, perchè il
gusto universale era buono, si dimenticavano affatto, e si sapeva a un di
presso in generale che non piacevano, piuttosto che perchè non
piacevano. Certamente l'idea de' loro vizi non era specificata, nè i difetti
notati per minuto, e si vede infatti che anche sommi scrittori cadevano in
difetti puerili. In somma la scienza del buono e del cattivo non era
organizzata, nè sminuzzata. Il gusto naturale tenea luogo di tutto. Dopo
la corruzione i letterati si rialzano tutti sbigottiti. Entrano gli scrupoli,
le paure, le sottigliezze. Si pesa [147]ogni cosa, si aguzzano gli
occhi, si va col piede di piombo, ogni legge ogni regola ogni idea è ben
definita e circoscritta, si prevedono tutti i casi, il gusto non è
più naturale ma artefatto, o lo diviene, perchè nessuno crede di
potersi contentare del gusto naturale, l'arte e la critica vanno al sommo, la
natura si perde (forse ella può più nel secolo guasto che nel
seguente), nascono opere perfette ma non belle.
(2. Luglio 1820.)
Tutto quello, si può dire, che i
moderni viaggiatori osservano e raccontano di curioso e singolare nei costumi e
nelle usanze delle nazioni incivilite, non è altro che un avanzo di
antiche istituzioni, massimamente se quelle particolarità spettano alle
classi colte. Perchè la natura quando è più libera, come
anticamente, e ora in gran parte appresso il popolo, è sempre varia. Ma
certamente nel moderno non troveranno niente di singolare nè di curioso,
e tutto quello che c'è da vedere negli altri paesi possono far conto di
averlo veduto nel proprio senza viaggiare. Eccetto le piccole differenze provenienti
dal clima e dal carattere di ciaschedun popolo, i quali però vanno
sempre cedendo all'impulso moderno di uguagliare ogni cosa, e certamente da per
tutto, massime nelle classi colte, si ha cura di allontanare tutto quello che
c'è di singolare e di proprio nei costumi della nazione, e di non
distinguersi dagli altri se non per una maggior somiglianza col resto degli
uomini. E in genere si può dire che la tendenza dello spirito moderno
è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte le nazioni una sola
persona. Non c'è più vestito proprio di nessun popolo, e le mode
in vece d'esser nazionali, sono europee ec.: anche la lingua oramai divien
tutt'una per la gran propagazione del francese, la quale io non riprendo in
quanto all'utile, ma bene in quanto al bello.
[148]Ora quell'¦rw che Esiodo dice essere un dono degli Dei per
promuovere il bene e l'accrescimento degli uomini, si può dire che sia
tolta di mezzo fra le nazioni, e quasi anche fra gl'individui. Una volta le nazioni
cercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e non sono mai
così superbe come quando credono di esserci riuscite. Così
gl'individui. A che scopo, a che grandezza a che incremento può portare
questa bella gara? Anche l'imitare è una tendenza naturale, ma ella
giova, quando ci porta a cercar la somiglianza coi grandi e cogli ottimi. Ma
chi cerca di somigliare a tutti? anzi perciò appunto sfugge di somigliare
ai grandi e agli ottimi, perchè questi si distinguono dagli altri?
Quando saremo tutti uguali, lascio stare che bellezza che varietà
troveremo nel mondo, ma domando io che utile ce ne verrà? Massimamente
alle nazioni (perchè il male è naturalmente più grande nei
rapporti di nazione a nazione, che d'individuo a individuo) che stimolo
resterà alle grandi cose, e che speranza di grandezza, quando il suo
scopo non sia altro che l'uguagliarsi a tutte le altre? Non era questo lo scopo
delle nazioni antiche. E non si creda che l'uguagliarsi nei costumi e nelle usanze,
senza però volersi uguagliare nel potere nella ricchezza nell'industria
nel commercio ec. non debba influire sommamente anche sopra queste altre cose,
influendo sullo spirito generale della nazione. Poco dopo che Roma fu divenuta
una specie di colonia greca in fatto di costumi e letteratura, divenne serva
come greci.
Ma questa è una bella
curiosità, che mentre le nazioni per l'esteriore vanno a divenire tutta
una persona, e oramai non si distingue più uomo da uomo, ciascun uomo
poi nell'interiore è divenuto una nazione, vale a dire che non hanno
più interesse comune con chicchessia, non formano più corpo, non
hanno più patria, e l'egoismo gli ristringe dentro il solo circolo de'
propri interessi, senza amore nè cura [149]degli altri, nè
legame nè rapporto nessuno interiore col resto degli uomini. Al
contrario degli antichi, che mentre le nazioni per l'esteriore erano composte
di diversissimi individui, nella sostanza poi, e nell'importante, o in quel
punto in cui giova l'unità della nazione, erano in fatti tutta una
persona, per l'amor patrio, le virtù, le illusioni ec. che riunivano
tutti gl'individui a far causa comune, e ad essere i membri di un sol corpo. E
per questo capo si può dire che ora ci son tante nazioni quanti
individui, bensì tutti uguali anche in questo che non hanno altro amore
nè idolo che se stessi.
Ed ecco un'altra bella curiosità
della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l'amor patrio d'illusione.
Ha voluto che il mondo fosse tutta una patria, e l'amore fosse universale di
tutti gli uomini: (contro natura, e non ne può derivare nessun buono
effetto, nessuna grandezza ec. L'amor di corpo, e non l'amor degli uomini ha sempre
cagionato le grandi azioni, anzi spessissimo a molti spiriti ristretti, la
patria come corpo troppo grande non ha fatto effetto, e perciò si sono
scelti altri corpi, come sette, ordini, città, provincie ec.). L'effetto
è stato che in fatti l'amor di patria non c'è più, ma in
vece che tutti gl'individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le
patrie si son divise in tante patrie quanti sono gl'individui, e la riunione
universale promossa dalla egregia filosofia s'è convertita in una separazione
individuale.
(3. Luglio 1820.)
Quello che ho detto qui sopra dell'amore o
spirito di corpo, deriva da questo. Tutti gli affetti umani derivano dall'amor
proprio conformato in diversissime guise. L'efficacia loro è tanto
maggiore, quanto derivano da un amor proprio più sensibile, [150]e
gli recano maggiore soddisfazione. Ora nello spirito di corpo la soddisfazione
dell'amor proprio è in ragione inversa della grandezza del circolo. Gli
spiriti elevati sono suscettibili di un circolo più grande, ma se questo
è smisurato, la detta soddisfazione svanisce prima di arrivare alla periferia
ch'è in tanta distanza dal centro, cioè l'individuo, come il
suono, gli odori, i raggi luminosi si estinguono a una certa distanza dal
centro della sfera.
(3. Luglio 1820.)
Quantum ad in vece di quod attinet ad, come
noi diciamo quanto a, e i francesi quant à, è usato da Tacito,
Agricol. cap.44. Et ipse quidem, quamquam medio in spatio integrae aetatis
ereptus, QUANTUM AD GLORIAM, longissimum aevum peregit. Esempio e significato
omesso nel Forcellini e nell'Appendice.
(3. Luglio 1820.)
Quel che ho detto qui sopra non è
l'ultima delle cagioni per cui il fervore del Cristianesimo s'indebolì
colla dilatazione di essa religione, di quella religione istessa, che (senza
però condannare l'amor della patria, dimostrato dallo stesso Cristo
piangente sopra Gerusalemme) tuttavia ha per uno de' fondamenti l'amore universale
verso tutti gli uomini. E contuttociò fintanto ch'ella fu come una
setta, il zelo e l'ardore per sostenerla fu infinito ne' suoi seguaci. Quando
divenne cosa comune, non fu più riguardato come proprio quello ch'era
di tutti, e lo spirito di corpo essendosi dileguato per la sua grandezza,
l'individuo non ci trovò più la soddisfazione sua particolare, e
il Cristianesimo illanguidì.
Aggiungete che lo spirito di corpo ci porta
a proccurare i vantaggi di esso corpo, e a compiacerci di quelli che ha, perchè
l'individuo che gli appartiene resta con ciò distinto e superiore agli
altri che non gli appartengono. L'amor di patria, l'amor di setta, di fazione
ec. vedete che è tutto fondato sopra l'ambizione, più o meno nascosta.
Per gli spiriti piccoli non [151]è fatto l'amore della nazione,
perchè non arrivano a desiderare nè a compiacersi di sovrastare a
persone così lontane e fuori della loro portata come sono i forestieri.
L'amor poi universale, manca affatto di questo fondamento dell'ambizione, che
è la gran molla che renda operoso l'amor di corpo, e perciò resta
naturalmente inefficace in quasi tutti, non essendoci speranza di distinguersi
dagli altri col mezzo dei vantaggi del suo corpo. E così spento
quell'amore ch'è utile per le ragioni sopraddette, quest'altro non gli
subentra, e se anche gli subentra resta inutile, non movendo efficacemente
l'uomo a nessuna intrapresa.
(4. Luglio 1820.)
Anche nell'interiore quasi tutti gli uomini
oggidì sono uguali nei principii nei costumi nel vizio nell'egoismo ec.
Sono tutti uguali e tutti separati, laddove anticamente erano tutti diversi e
tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo
inettissimi trovandoci tutti soli. E la stessa nostra uguaglianza è
(cosa curiosa) il motivo della nostra disunione, che nasce dall'universale
egoismo.
(4. Luglio 1820.)
L'amore universale toglie l'emulazione e la
gara del suo corpo coll'altrui, la qual gara è la cagione
dell'accrescimento e dei vantaggi e pregi che gl'individui cercano di
proccurare alla patria, al partito ec. Gli uomini grandi sono suscettibili di
una emulazione grande, come con quelli delle altre nazioni. Gli uomini piccoli
al contrario non sentono emulazione se non coi cittadini de' paesi d'intorno,
con quelli delle altre famiglie, coi suoi propri cittadini ec. ec. ec.
(4. Luglio 1820.)
Al levarsi da letto, parte pel vigore
riacquistato col riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno,
parte per una certa rinnuovazione della vita, cagionata da quella specie
d'interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente o più lieto o meno
tristo, di quando ti coricasti. Nella mia vita infelicissima l'ora meno trista
è quella [152]del levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano
per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell'ora la gioventù
della giornata per questa similitudine che ha colla gioventù della vita.
E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla
meglio della precedente. E la sera che ti trovi fallito di questa speranza e
disingannato, si può chiamare la vecchiezza della giornata.
(4. Luglio 1820.). V. p.193. capoverso 1.
L'ubbriachezza mette in fervore tutte le
passioni, e rende l'uomo facile a tutte, all'ira, alla sensualità ec.
massime alle dominanti in ciascheduno. Così proporzionatamente il vigore
del corpo. È famoso quello di S. Paolo, castigo corpus meum et in
servitutem redigo. In fatti in un corpo debole non ha forza nessuna passione.
Altro è la forza altro la
fecondità dell'immaginazione e l'una può stare senza l'altra.
Forte era l'immaginazione di Omero e di Dante, feconda quella di Ovidio e dell'Ariosto.
Cosa che bisogna ben distinguere quando si sente lodare un poeta o chicchessia
per l'immaginazione. Quella facilmente rende l'uomo infelice per la
profondità delle sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla
varietà e colla facilità di fermarsi sopra tutti gli oggetti e di
abbandonarli, e conseguentemente colla copia delle distrazioni. E ne seguono
diversissimi caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente (ai nostri
tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a
soffrir grandemente della vita. L'altro scherzevole, leggiero, vagabondo,
incostante nell'amore, bello spirito, incapace di forti e durevoli passioni e
dolori d'animo, facile a consolarsi anche nelle più grandi sventure ec.
Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti di Dante e di Ovidio,
e vedete come la differenza della loro poesia [153]corrisponda appuntino
alla differenza della vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed
Ovidio sentissero e portassero il loro esilio. Così una stessa
facoltà dell'animo umano è madre di effetti contrarii, secondo le
sue qualità che quasi la distinguono in due facoltà diverse. L'immaginazione
profonda non credo che sia molto adattata al coraggio, rappresentando al vivo
il pericolo, il dolore, ec. e tanto più al vivo della riflessione,
quanto questa racconta e quella dipinge. E io credo che l'immaginazione degli
uomini valorosi (che non debbono esserne privi, perchè l'entusiasmo
è sempre compagno dell'immaginazione e deriva da lei) appartenga
più all'altro genere.
(5. Luglio 1820.)
Tutti più o meno parlano e gestiscono
da se soli, ma principalmente gli uomini di grande immaginazione, sempre facili
a considerar l'immaginato come presente. Così l'Alfieri nei pareri sulle
sue tragedie, racconta di questo suo costume, massime nei punti di passione o
di calore. Il qual costume è proprio più che mai de' fanciulli,
dove l'immaginazione può molto più che negli uomini.
(5. Luglio 1820.)
Io stimo che molte parole antiche che si
credono di diversissima origine, non sieno derivate da altro che da
antichissimo errore di scrittura, che le ha diversificate, mentre erano una
sola. Mi porta a crederlo la somiglianza materiale delle lettere o sia dei
caratteri, e l'uniformità del significato. Per esempio vuol dire
lo stesso che , e il e il sono due
caratteri somigliantissimi, e facilissimi a esser confusi nelle scritture. Io
non posso pensare che queste due parole di uno stessissimo significato, e
uguali eccetto nella terminazione che non fa caso, e nella prima lettera di cui
si disputa, non abbiano che far niente fra loro. E credo che si potrebbero
addurre molti altri esempi simili sì greci come latini, dove la
mutazione di una lettera o due, [154]con altre compagne nella figura, ha
tolto ai grammatici il sospetto della loro unicità nell'origine.
(5. Luglio 1820.)
Da quello che dice Montesquieu Essai sur le
Goût. Des plaisirs de l'ame. p.369-370. deducete che le regole della
letteratura e belle arti non possono affatto essere universali, e adattate a
ciascheduno. Bensì è vero che la maniera di essere di un uomo
nelle cose principali e sostanziali è comune a tutti, e perciò le
regole capitali delle lettere e arti belle, sono universali. Ma alcune piccole
o mediocri differenze sussistono tra popolo e popolo tra individuo e individuo,
e massimamente fra secolo e secolo. Se tutti gli uomini fossero di vista corta,
come sono molti l'architettura in molte sue parti sarebbe difettosa, e
converrebbe riformarla. Così al contrario. Intanto ella è
difettosa veramente rispetto a quei tali. Gli orientali aveano ed hanno
più rapidità, vivacità, fecondia ec. di spirito che gli
europei. Perciò quella soprabbondanza che notiamo nelle loro poesie ec.
se sarebbe difetto tra noi, poteva non esserlo, o esser minore appresso un
popolo più capace per sua natura di seguire e di comprendere coll'animo
suo quella maniera del poeta. Lo stesso dite dell'oscurità, del
metaforico eccessivo per noi, delle sottigliezze, delle troppe minuzie,
dell'ampolloso ec. ec. E questa distinzione fatela anche tra i popoli europei,
e non condannate una letteratura perchè è diversa da un'altra
stimata classica. Il tipo o la forma del bello non esiste, e non è altro
che l'idea della convenienza. Era un sogno di Platone che le idee delle cose esistessero
innanzi a queste, in maniera che queste non potessero esistere altrimenti (v.
Montesq. ivi. capo 1. p.366.) quando la loro maniera di esistere è
affatto arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu e non ha
nessuna ragione per esser piuttosto così che in un altro modo, se non la
volontà di chi le ha fatte. E chi sa che non esista un altro, o
più, o infiniti altri sistemi di cose così diversi dal nostro che
noi non li possiamo neppur concepire? [155]Ma noi che abbiamo rigettato
il sogno di Platone conserviamo quello di un tipo immaginario del bello. (V. il
discorso di G. Bossi nella B. Italiana). Ora l'idea della convenienza essendo
universale, ma dipendendo dalle opinioni caratteri costumi ec. il giudizio e il
discernimento di quali cose convengano insieme, ne deriva che la letteratura e
le arti, quantunque pel motivo sopraddetto siano soggette a regole universali
nella sostanza principale, tuttavia in molti particolari debbano cangiare
infinitamente secondo non solamente le diverse nature, ma anche le diverse
qualità mutabili, vale a dire opinioni, gusti, costumi ec. degli uomini,
che danno loro diverse idee della convenienza relativa.
E similmente osservate quanto sia vano il
pensare così assolutamente che la musica perchè diletta
sommamente l'uomo debba fare effetto sulle bestie. Distinguete suono (sotto
questo nome intendo ora anche il canto) e armonia. Il suono è la materia
della musica, come i colori della pittura, i marmi della scoltura ec. L'effetto
naturale e generico della musica in noi, non deriva dall'armonia ma dal suono,
il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono.
Questo è quello che la musica ha di speciale sopra le altre arti,
sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono
effetti e influssi naturali, e non bellezza. L'armonia modifica l'effetto del
suono, e in questo (che solo appartiene all'arte) la musica non si distingue
dalle altre arti, giacchè i pregi dell'armonia consistono nella imitazione
della natura quando esprimono qualche cosa, e in seguire quell'idea della convenienza
dei suoni ch'è arbitraria e diversa in diverse nazioni. Ora il suono non
è difficile che faccia effetto anche nelle bestie, ma non è
necessario, e massimamente quegli stessi suoni che fanno effetto nell'uomo
(quando vediamo anche tra gli uomini che certe nazioni si dilettano di suoni
tutti diversi da' nostri, e per noi insopportabili). [156]I loro organi,
e indipendentemente da questi, la loro maniera d'essere è differente
dalla nostra, e non possiamo sapere qual sia l'effetto di questa differenza.
Tuttavia se questa non sarà molto grande, o almeno avrà qualche
rapporto con noi in questo punto, il suono farà colpo in quei tali
animali, come leggiamo dei delfini e dei serpenti (V. Chateaubriand). Ma
l'armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo
dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un'altra,
laonde se l'astratto dell'armonia può esser concepito dalle bestie, non
perciò per loro sarà armonia e bellezza quello ch'è per
noi. E così non è la musica come arte ma la sua materia
cioè il suono che farà effetto in certe bestie. E infatti come
vogliamo prentendere che le bestie gustino la nostra armonia, se tanti uomini
si trovano che non la gustano? Parlo di molti individui che sono tra noi, e
parlo di nazioni, come dei turchi che hanno una musica che a noi par
dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso che qualche animale si trovasse
in disposizione così somigliante alla nostra, che nella musica potesse
sentire se non tutta almeno in parte l'armonia che noi ci sentiamo, vale a dire
giudicare armonico quello che noi giudichiamo. Il quale effetto è
più difficile assai dell'altro sopraddetto del suono, tuttavia non
è affatto inverisimile.
(6. Luglio 1820.)
Con questa distinzione di suono e armonia,
l'uno cagione di effetto naturale e indipendente dall'arte e generale nell'uomo,
(effetto arbitrario della natura, e non già necessario astrattamente)
l'altra di effetto naturale in astratto, ma dipendente dall'arte in concreto,
comprenderete perchè le bestie essendo talvolta influite dalla musica,
non lo sieno dalle altre arti. Ed è perchè la materia della
musica, è così efficace nell'uomo e così generalmente e
per natura, che non è maraviglia se la sua forza si estende anche ad
altri animali forse più analoghi degli altri all'uomo per questa parte
della loro natura. Ma non così la materia delle altre arti, eccetto i
colori, i quali [157]come fanno effetto naturale nell'uomo, così
per legge di analogia (che va ammessa non perchè fosse necessario alla
natura di osservarla, ma perchè la vediamo osservata) congetturo che
possano dar qualche diletto anche alle bestie, e forse se ne avrebbero delle
prove. Del resto nelle altre arti le bestie non essendo influite dalla materia
che nella musica ha influsso naturale e indipendente dall'arte, non possono
essere influite dall'arte stessa, non avendo la stessa idea della bellezza che
abbiamo noi, e che è tanto diversa anche tra noi. E quanto
all'imitazione del vero che in noi cagiona una maraviglia naturale,
potrebb'essere che la producesse anche in loro senza che noi ce ne accorgessimo,
e potrebb'essere che non la capissero, ma prendessero gli oggetti imitati per
veri, o finalmente (che dev'essere il più ordinario) si formassero di
quegli oggetti d'arte un'idea confusa tra l'oggetto vero, e un altro che lo
somigli, non potendo sapere quelle cose che sappiamo noi intorno all'artefice,
e alla maniera e alla difficoltà d'imitare in quel modo ec. ec. cose
tutte che producono la maraviglia. E infatti vedrete in molti barbari che le
belle imitazioni delle nostre arti in vece di destare maggior maraviglia,
appena li commuovono.
Del rimanente anche intorno alla bellezza e
a qualunque altra cosa appartenente alle arti, bisogna sempre ricordarsi della
differente maniera di esistere, differente capacità di comprendere, di
rapportare, di esser commossi ec. e così regolarsi nell'istituire il
paragone tra l'uomo e gli altri animali, e anche tra un uomo e un altr'uomo,
non riputando necessario e assoluto e perciò universale quello
ch'è arbitrario e relativo o nell'uomo o in qualunque animale, e
perciò può non trovarsi o trovarsi differentemente negli altri.
Il piacere che ci dà il suono non va
sotto la categoria del bello, ma è come quello del gusto dell'odorato
ec. La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i sensi. Ma la particolarità
del suono è di produrre per se stesso un effetto più spirituale [158]dei
cibi dei colori degli oggetti tastabili ec. E tuttavia osservate che gli odori,
in grado bensì molto più piccolo, ma pure hanno una simile
proprietà, risvegliando l'immaginazione ec. Laonde quello stesso
spirituale del suono è un effetto fisico di quella sensazione de' nostri
organi, e infatti non ha bisogno dell'attenzione dell'anima, perchè il
suono immediatamente la tira a se, e la commozione vien tutta da lui, quando
anche l'anima appena ci avverta. Laddove la bellezza o naturale o artifiziale
non fa effetto se l'anima non si mette in una certa disposizione da riceverlo,
e perciò il piacere che dà, si riconosce per intellettuale. Ed
ecco la principal cagione dell'essere l'effetto della musica immediato, a differenza
delle altre arti, e v. questi pens. p.79.
Osservate come non si legga ch'io sappia di
nessun effetto prodotto nelle bestie dal canto. (In verità anticamente
si diceva, excantare, ora incantare i serpenti, e Frigidus in
pratis CANTANDO rumpitur anguis dice Virgilio, ma son favole che non
hanno esperienze moderne a favore. D'Arione si legge che innamorò i
delfini col suono. Chateaubriand racconta di quel serpente ammansato dal suono
ec. ec. Del resto i poeti dicevano favolosamente che le bestie si fermassero a
udire il canto di questo o di quello). La ragione è perchè questo
è cosa più umana del suono, e perciò di un effetto
più relativo, come anche la differenza dei suoni cagiona diversi effetti
secondo la natura degli organi dove opera. Così nè più
nè meno i diversi odori, i diversi sapori, i diversi colori de' quali
l'uno diletterà principalmente questa persona, e l'altro quest'altra. Il
canto umano fa effetto grande nell'uomo. Al contrario quello degli uccelli non
molto. Grandissimo però dev'essere il diletto che cagiona negli uccelli,
giacchè si vede che questi cantano per diletto, [159]e che la
loro voce non è diretta ad altro fine come quella degli altri animali. (eccetto le cicale i grilli e altri tali che nel
continuo uso della loro voce non par che possano avere altro fine che il
diletto) Ed io sono persuaso che il canto degli uccelli li diletti non solo
come canto, ma come contenente bellezza, cioè armonia, che noi non possiamo
sentire non avendo la stessa idea della convenienza de' tuoni.
(7. Luglio 1820.)
Osservate ancora un finissimo magistero
della natura. Gli uccelli ha voluto che fossero per natura loro i cantori della
terra e come ha posto i fiori per diletto dell'odorato, così gli uccelli
per diletto dell'udito. Ora perchè la loro voce fosse bene intesa, che
cosa ha fatto? Gli ha resi volatili, acciocchè il loro canto venendo dall'alto,
si spargesse molto in largo. Questa combinazione del volo e del canto non
è certamente accidentale. E perciò la voce degli uccelli reca a
noi più diletto che quella degli altri animali (fuorchè l'uomo)
perchè era espressamente ordinata al diletto dell'udito. E credo che ne
rechi anche più agli altri animali che sono in uno stato naturale, e
forse perciò più capaci di trovarci o tutta o in parte quell'armonia
che ci trovano gli stessi uccelli, e che noi non ci troviamo, perchè
allontanandoci dalla natura, abbiamo perduto certe idee primitive intorno alla
convenienza, non assolute e necessarie, ma tuttavia dateci forse
arbitrariamente dalla natura. Io credo che i selvaggi trovino il canto degli
uccelli molto più dolce, e mi pare che si potrebbe provar lo stesso
degli antichi, i quali è noto che sentivano maggior diletto di noi nel
canto delle cicale ec. delle quali pure e simili si può notare che
cantano sopra gli alberi.
Da tutte le cose dette nei pensieri qui
sopra, inferite che le nostre cognizioni intorno alla natura o dell'uomo o
delle cose, e le nostre deduzioni, raziocini, e conclusioni, per la maggior
parte non sono assolute ma relative, [160]cioè sono vere in
quanto alla maniera di essere delle cose esistenti, e da noi conosciute per
tali, ma era in arbitrio della natura che fossero altrimenti. E intendo anche
della maggior parte degli assiomi astratti, pochi de' quali sono veramente
assoluti e necessari in qualunque sistema di cose possibili (benchè
paiano), eccetto forse in matematica. E apprendiamo a formarci della possibilità
un'idea più estesa della comune, e della necessità e verità
un'idea più limitata assai. Vedete in questo proposito il fine del primo
Libro del Zanotti sopra le forze che chiamano vive.
Applicate le cose dette nel pensiero che
incomincia Anche la stessa negligenza ec. (p.50.) alle produzioni
francesi riputate da quella nazione, modelli di semplicità naïveté
ec. p.e. al Tempio di Gnido di Montesquieu, sebbene in questo il male
deriva piuttosto dal contrasto della semplicità delle cose col ricercato
e manierato dello stile.
La rivoluzione Francese posto che fosse
preparata dalla filosofia, non fu eseguita da lei, perchè la filosofia
specialmente moderna, non è capace per se medesima di operar nulla. E
quando anche la filosofia fosse buona ad eseguire essa stessa una rivoluzione,
non potrebbe mantenerla. È veramente compassionevole il vedere come quei
legislatori francesi repubblicani, credevano di conservare, e assicurar la
durata, e seguir l'andamento la natura e lo scopo della rivoluzione, col ridur
tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima volta ab orbe condito
di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente lagrimevole in tutti i casi
se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile a riuscire
anche in questi tempi matematici, perchè dirittamente contraria alla
natura dell'uomo e del mondo. Le Comité d'instruction
publique réçut ordre de présenter un projet tendant à substituer un
culte raisonnable au culte catholique! (Lady Morgan, France [161]l.8. 3me édit. française, Paris
1818. t.2. p.284. note de l'auteur) E non vedevano che l'imperio della pura
ragione è quello del dispotismo per mille capi, ma eccone sommariamente
uno. La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano l'egoismo.
L'egoismo spoglio d'illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù
ec. e divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono
gl'individui. Divide et impera. Questa divisione della moltitudine,
massimamente di questa natura, e prodotta da questa cagione, è piuttosto
gemella che madre della servitù. Qual altra è la cagione sostanziale
della universale e durevole servitù presente a differenza de' tempi
antichi? Vedete che cosa avvenne ai Romani quando s'introdusse fra loro la filosofia
e l'egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoismo è così
forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalissimo, che le antiche
idee si risvegliassero ne' romani, fa pietà il vederli così torpidi,
così indifferenti, così tartarughe, così marmorei verso le
cose pubbliche. E Cicerone nelle filippiche il cui grande scopo era di render
utile la morte di Cesare, vedete se predica la ragione, e la filosofia, o non
piuttosto le pure illusioni, e quelle gran vanità che aveano creata e
conservata la grandezza romana. (8. Luglio 1820.). V. p.357. capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.145.
osservate come infatti l'eloquenza vera non abbia fiorito mai se non quando ha
avuto il popolo per uditore. Intendo un popolo padrone di se, e non servo, un
popolo vivo e non un popolo morto, sia per la sua condizione in genere, sia in
quella tal congiuntura, come alle nostre prediche il popolo non è vivo,
non ha azione ec. ec. Oltre che il soggetto delle prediche non ha il movimento,
l'azione, la vita necessarie alla grande eloquenza, e perciò quella del
pergamo, quando anche sia somma e perfetta, è tutt'altra eloquenza che
l'antica, e forma [162]un genere a parte. Del resto appena le repubbliche
e la libertà si sono spente, le assemblee, le società, i
tribunali, le corti, non hanno mai sentito la vera eloquenza, non essendo
uditorii capaci di suscitarla. E questo probabilmente è uno de' motivi
per cui la repubblica di Venezia non ha avuto mai eloquenza, perch'era una repubblica
aristocratica e non democratica. Vedete quello che dice Cicerone nell'oraz. pro
Deiotaro capo 2.
Racconta Diogene Laerzio di Chilone
Lacedemonio il quale interrogato in che differissero i dotti dagl'indotti,
rispose: nelle buone speranze (J). Io non so dire se avesse
riguardo alle cose di questo mondo o di una vita avvenire. Certamente rispetto
a quelle, oggidì avviene appunto il contrario. In che differisce l'ignorante
dal savio? Nella speranza.
Lo scopo dell'incivilimento moderno doveva
essere di ricondurci appresso a poco alla civiltà antica offuscata ed
estinta dalla barbarie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo
l'antica civiltà, e la paragoneremo alla presente, tanto più
dovremo convenire ch'ella era quasi nel giusto punto, e in quel mezzo tra i due
eccessi, il quale solo poteva proccurare all'uomo in società una certa
felicità. La barbarie de' tempi bassi non era una rozzezza primitiva, ma
una corruzione del buono, perciò dannosissima e funestissima. Lo scopo
dell'incivilimento dovea esser di togliere la ruggine alla spada già
bella, o accrescergli solamente un poco di lustro. Ma siamo andati tanto oltre
volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla. E osservate che
l'incivilimento ha conservato in grandissima parte il cattivo dei tempi bassi,
ch'essendo proprio loro, era più moderno, e tolto tutto quello che
restava [163]loro di buono dall'antico per la maggior vicinanza (del
quale antico in tutto e per tutto abbiam fatto strage), come l'esistenza e un
certo vigore del popolo, e dell'individuo, uno spirito nazionale, gli esercizi del
corpo, un'originalità e varietà di caratteri costumi usanze ec.
L'incivilimento ha mitigato la tirannide de' bassi tempi, ma l'ha resa eterna,
laddove allora non durava, tanto a cagione dell'eccesso, quanto per li motivi
detti qui sopra. Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di
frenarle com'era scopo degli antichi (Montesquieu ripete sempre che le
divisioni sono necessarie alla conservazione delle repubbliche, e ad impedire
lo squilibrio dei poteri, ec. e nelle repubbliche ben ordinate non sono
contrarie all'ordine, perchè questo risulta dall'armonia e non dalla
quiete e immobilità delle parti, nè dalla gravitazione smoderata
e oppressiva delle une sulle altre, e che per regola generale, dove tutto
è tranquillo non c'è libertà), non ha assicurato l'ordine
ma la perpetuità tranquillità e immutabilità del
disordine, e la nullità della vita umana. In somma la civiltà
moderna ci ha portati al lato opposto dell'antica, e non si può
comprendere come due cose opposte debbano esser tutt'uno, vale a dire
civiltà tutt'e due. Non si tratta di piccole differenze, si tratta di
contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano civili, o noi non lo siamo.
(10. Luglio 1820.)
Io riguardo l'indebolimento corporale delle
generazioni umane, come l'una delle principali cause del gran cangiamento del
mondo e dell'animo e cuore umano dall'antico al moderno. Così anche
della barbarie de' secoli di mezzo, stante la depravazione de' costumi sotto i
primi imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d'infiacchimento
corporale, come [164]appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e
perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli
antichi costumi e istituti che li rendevano vigorosissimi. V. la Ciroped. cap.
ult. art.5. e segg. sino al fine.
In proposito di quello che ho detto p.108.
notate come ci muova a compassione e c'intenerisca il veder qualunque persona
che nell'atto di provare un dispiacere, una sventura, un dolore ec. dà
segno della propria debolezza, e impotenza di liberarsene. Come anche il veder
maltrattare anche leggermente una persona che non possa resistere.
(11. Luglio 1820.)
Il racconto è uffizio della parola,
la descrizione del disegno (eseguito in qualunque modo). Quindi non è
maraviglia che quello sia più facile di questa al parlatore. E questa
è una delle primarie cagioni per cui era falso ed assurdo quel genere di
poesia poco fa tanto in pregio e in uso appresso gli stranieri massimamente,
che chiamavano descrittiva. Perchè quantunque il poeta o lo scrittore
possa bene assumere anche l'uffizio di descrivere, è da stolto il farne
professione, non essendo uffizio proprio della poesia, e quindi non è
possibile che non ne risulti affettazione e ricercatezza, e stento, volendolo
fare per istituto e per argomento, lasciando stare la noia che deve nascere
dalla lettura di una poesia tutta diretta a un uffizio proprio di un'altra
arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado qualunque studio, e
stentata, e tediosa per la continuazione di una cosa che non appartenendole non
può esser troppo lunga, al contrario di quelle che le appartengono,
nelle quali nessuno biasima che [la] poesia si ravvolga tutta intera.
(12. Luglio 1820.)
[165]Il sentimento della
nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a
riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non
comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più
materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri
viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto
mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene,
è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha
limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non
può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito,
ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2.
nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che
uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno,
2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso,
ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia
confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per
durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll'esistenza, e
quindi l'uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti
per estensione perch'è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o
più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura
porta con se materialmente l'infinità, perchè ogni piacere
è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è
indeterminata, e l'anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia
tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur
concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa
ch'ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un
cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma
in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere
il cavallo, [166]trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti
un vuoto nell'anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente,
non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non
potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente
sia eterno. E posto che quella material cagione che ti ha dato un tal
piacere una volta, ti resti sempre (p.e. tu hai desiderato la ricchezza, l'hai
ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente, ma non più come
cagione neppure di un tal piacere, perchè questa è un'altra
proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni appoco
a poco svaniscano, e che l'assuefazione, come toglie il dolore, così
spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere provato una volta ti
durasse tutta la vita, non perciò l'animo sarebbe pago, perchè il
suo desiderio è anche infinito per estensione, così che quel tal
piacere quando uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo uguagliarne
l'estensione, il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri sempre nuovi, come
accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l'anima. Quindi potrete
facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci
facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura
particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il
fatto è che quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la
soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il
piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e
non astratto, e che comprenda tutta l'estensione del piacere, ne segue che il
suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è
piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma [167]inferiorità
al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri
debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l'anima
nell'ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè
una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio
illimitato.
Veniamo alla inclinazione dell'uomo
all'infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell'uomo una
facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non
sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza
innata dell'uomo al piacere, è naturale che la facoltà
immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione
del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa,
ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti
Del resto il desiderio del piacere essendo
materialmente infinito in estensione (non solamente nell'uomo ma in ogni vivente),
la pena dell'uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti
della sua estensione, i quali l'uomo non molto profondo gli scorge solamente da
presso. Quindi è manifesto 1. perchè tutti [170]i beni
paiano bellissimi e sommi da lontano, e l'ignoto sia più bello del noto;
effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere,
effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l'anima
preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante
la considerazione qui sopra detta, l'anima deve naturalmente preferire agli
altri quel piacere ch'ella non può abbracciare. Di questo bello aereo,
di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il
più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in
questo, (v. il pensiero Circa l'immaginazione, p.57. e l'altro p.100.)
gl'ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e
a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno
ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono
l'anima in un abbisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere il
fondo nè i contorni. E questa pure è la cagione perchè
nell'amore ec. come ho detto p.142. Perchè in quel tempo l'anima si
spazia in un vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non
esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce le
possono rappresentare, nè la ragione ha verun potere di farlo. Ma la
natura nostra n'era fecondissima, e voleva che componessero la nostra vita. 3.
perchè l'anima nostra odi tutto quello che confina le sue sensazioni. L'anima
cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può
esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini per le sopraddette ragioni.
Quindi vedendo la bella natura, ama che l'occhio si spazi quanto è
possibile. La qual cosa il Montesquieu (Essai sur le goût, De la
curiosité. p.374.375.) attribuisce alla curiosità. Male. La
curiosità non è altro che una determinazione [171]dell'anima
a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi.
Perciò ella potrà esser la cagione immediata di questo effetto,
(vale a dire che se l'anima non provasse piacere nella vista della campagna ec.
non desidererebbe l'estensione di questa vista), ma non la primaria, nè
questo effetto è speciale e proprio solamente delle cose che appartengono
alla curiosità, ma di tutte le cose piacevoli, e perciò si
può ben dire che la curiosità è cagione immediata del
piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo
piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun
piacere può essere illimitato e perpetuo nell'anima, come il desiderio
generale del piacere. Del rimanente alle volte l'anima desidererà ed effettivamente
desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni
romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio
dell'infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora
l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina quello
che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va
errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua
vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe
l'immaginario. Quindi il piacere ch'io provava sempre da fanciullo, e anche ora
nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia,
come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle
sensazioni diletta moltissimo l'anima. Ne deducono ch'ella è nata per il
grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la
moltiplicità delle sensazioni, confonde l'anima, [172]gl'impedisce
di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento subitaneo del piacere,
la fa errare d'un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e
quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito. Parimente la
vastità quando anche non sia moltiplice, occupa nell'anima un più
grande spazio, ed è più difficilmente esauribile. La maraviglia
similmente, rende l'anima attonita, l'occupa tutta e la rende incapace in quel
momento di desiderare. Oltre che la novità (inerente alla maraviglia)
è sempre grata all'anima, la cui maggior pena è la stanchezza dei
piaceri particolari.
Da questa teoria del piacere deducete che la
grandezza anche delle cose non piacevoli per se stesse, diviene un piacere per
questo solo ch'è grandezza. E non attribuite questa cosa alla grandezza
immaginaria della nostra natura. Posta la detta teoria, si viene a conoscere
(quello ch'è veramente) che il desiderio del piacere diviene una pena, e
una specie di travaglio abituale dell'anima. Quindi 1. un assopimento
dell'anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll'oppio, ed
è grato all'anima perchè in quei momenti non è affannata
dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso,
e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se
ben l'anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n'avvede. 2. la vita
continuamente occupata è la più felice, quando anche non sieno
occupazioni e sensazioni vive, e varie. L'animo occupato è distratto da
quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei
piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro il provvedere ai suoi
bisogni ordinari ec. ec. ec.) giacchè li considera allora come piaceri
(essendo piacere tutto quello che l'anima desidera), e conseguitone uno, passa
a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha
campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza
di quei [173]piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni
avvenire o sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a
riempierlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il quale non è
troppo lungo perchè sottentri la noia; oltre che il riposo dalla fatica
è un piacere per se. Questa dovea esser la vita dell'uomo, ed era quella
dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, degli agricoltori ec. e gli
animali non per altra cagione se non per questa principalmente, vivono felici.
Ed osservate come lo spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica,
sembri anche oggidì, a chi vive nel mondo, lo spettacolo della
felicità, anche per la mancanza dei dolori, e delle cure e afflizioni reali.
3. il maraviglioso, lo straordinario è piacevole, quantunque la sua
qualità particolare non appartenga a nessuna classe delle cose piacevoli.
L'anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non sia di
dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere rispetto a lei
assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere, perchè una
tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo
stupore cagionato dall'oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi),
così quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla
singolarità. Quando anche la maraviglia non sia tanta che riempia
l'anima, se non altro l'occupa sempre fortemente, ed è piacevole per
questa parte. Notate che la natura aveva voluto che la maraviglia 1. fosse cosa
ordinarissima all'uomo, 2. fosse spessissimo intera, cioè capace di
riempier tutta l'anima. Così accade ne' fanciulli, e accadeva ne' primitivi,
e ora negl'ignoranti, ma non può accadere senza l'ignoranza, e
l'ignoranza d'oggi non può mai esser come quella dell'uomo che non vive
in società, perchè vivendo in società, [174]l'esperienza
de' passati e de' presenti l'istruisce, più o meno, ma sempre
l'istruisce, e la novità diventa rara. 4. anche l'immagine del dolore e
delle cose terribili ec. è piacevole, come ne' drammi e poesie d'ogni
sorta, spettacoli ec. Purchè l'uomo non tema o non si dolga per se, la
forza della distrazione gli è sempre piacevole. Non è bisogno che
quelle immagini siano di cose straordinarie: in questo caso cadrebbero sotto la
categoria precedente. Ma la semplice immagine del dolore ec. è
sufficiente a riempier l'animo e distrarlo. 5. la grandezza di ogni
qualsivoglia genere (eccetto del proprio male) è piacevole. Naturalmente
il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la piccolezza è
straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria.
Questo ch'io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla
inclinazione dell'uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si
potrebbe forse dir lo stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal
bello ch'è piacevole all'uomo per se stesso. In somma la noia non
è altro che una mancanza del piacere che è l'elemento della
nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo. Se non fosse la
tendenza imperiosa dell'uomo al piacere sotto qualunque forma, la noia,
quest'affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto abborrita non esisterebbe.
E infatti per che motivo l'uomo dovrebbe sentirsi male, quando non ha male
nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna occupazione spirituale o
corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor positivo, o annoiato [175]dalla
uniformità di una cosa non penosa nè dispiacevole per sua natura,
e ditemi per che motivo quest'uomo deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e
si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a quello stato. (Anzi è
famosa la risposta affermativa data dai medici consultati dal duca di Brancas,
se la noia potesse uccidere. Lady Morgan France l.8. notes). Non per altro se
non per un desiderio ingenito e compagno inseparabile dell'esistenza, che in
quel tempo non è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non
addormentato. E la natura è certo che ha provveduto in tutti i modi
contro questo male, all'orrore e ripugnanza del quale nell'uomo, si può
paragonare quell'orrore del vuoto che gli antichi fisici supponevano nella
natura, per ispiegare alcuni effetti naturali. Ha provveduto col dare all'uomo
molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete,
freddo, caldo ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran
varietà, colla immaginazione che l'occupa anche del nulla, ed anche col
timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo anch'esso
dell'amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura in
genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo o
quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e
sciolgono la noia, colle turbazioni degli elementi, coi dolori e coi mali
istessi, perchè è più dolce il guarir dai mali, che il
vivere senza mali; e con tali altri disastri, che si considerano come mali, e
quasi difetti della natura, scusandola col definirli per accidenti fuori dell'ordine;
ma che forse essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono
anch'essi al gran sistema universale. In somma il sistema della natura rispetto
all'uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile
della noia, che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente
all'uomo moderno, è quasi sconosciuto al primitivo (e così agli
animali). E osservate come i fanciulli anche in una quasi perfetta inazione,
pur di rado o non mai sentano [176]il vero tormento della noia,
perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli tutti interi, e la
forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad ogni fantasia
che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se stessi una sorgente
inesauribile di occupazioni e sempre varie. Questo senza cognizioni, senza
esperienze, senza viaggi, senz'aver veduto udito ec. in un mondo ristrettissimo
e uniforme. E laddove parrebbe che quanto più questo mondo e questo
campo si accresce e diversifica, tanto più ampio e vario per l'uomo
dovesse essere il fondo delle occupazioni interne come son quelle dei
fanciulli, e la noia tanto più rara, nondimeno vediamo accadere tutto il
contrario. Gran lezione per chi non vuol riconoscere la natura come sorgente
quasi unica di felicità, e l'alterazione di lei, come certa cagione
d'infelicità. Del resto che la forza e fecondità
dell'immaginazione 1. come rende facilissima l'azione, così spessissimo
renda facile l'inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità della
mente, la quale per lo contrario conduce all'infelicità, è
manifesto per l'esempio de' popoli meridionali, segnatamente degl'italiani,
rispetto ai settentrionali. Giacchè gl'italiani 1. come una volta per il
loro entusiasmo figlio di un'immaginazione viva e più ricca che profonda,
erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o
almeno non si disperano affatto di una vita sempre uniforme, e di una perfetta
inazione, è la stessa immaginazione ugualmente ricca e varia, e la
soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl'immerge senza che se
n'avvedano in una specie di rêve, come i fanciulli quando son soli
ec. cosa continuamente inculcata dalla Staël, laddove i settentrionali non
avendo tal sorgente di occupazione interna atta a consolarli, per
necessità ricorrono all'esterna, e divengono attivissimi. 2. la
profondità della mente, [177]e la facoltà di penetrare nei
più intimi recessi del vero dell'astratto ec. quantunque non sia loro
ignota a cagione della loro sottigliezza, prontezza e penetrazione, (che rende
loro più facile il concepimento e la scoperta del vero, laddove agli
altri bisogna più fatica, e perciò spesso sbagliano con tutta la
profondità) contuttociò non è il loro forte, e per lo contrario
forma tutta l'occupazione e quindi l'infelicità dei settentrionali colti
(osservate perciò la frequenza de' suicidi in Inghilterra) i quali non
hanno cosa che li distragga dalla considerazione del vero. E quantunque paia
che l'immaginazione anche appresso loro sia caldissima originalissima ec.
tuttavia quella è piuttosto filosofia e profondità, che immaginazione,
e la loro poesia piuttosto metafisica che poesia, venendo più dal
pensiero che dalle illusioni. E il loro sentimentale è piuttosto
disperazione che consolazione. E la poesia antica perciò appunto non
è stata mai fatta per loro; perciò appunto hanno gusti tutti
differenti, e si compiacciono degli enti allegorici, delle astrazioni ec. (v.
p.154.) perciò appunto sarà sempre vero che la nostra è
propriamente la patria della poesia, e la loro quella del pensiero. (V.
p.143-144.)
Dopo che la natura ha posto nell'uomo una
inclinazione illimitata al piacere, è rimasta libera di fare che questa
o quella cosa fosse considerata come piacere. Perciò le cagioni per cui
una cosa è piacevole, sono indipendenti dalla sovresposta teoria,
dipendendo dall'arbitrio della natura il determinare in qual cosa dovessero
consistere i piaceri, e conseguentemente quali particolari dovessero esser
l'oggetto della sopraddetta inclinazione dell'uomo. Esclusi quei piaceri che ho
annoverati poco sopra (p.172. segg.), i quali sono piaceri, non perch'è
piaciuto alla natura di volerli tali indipendentemente dalla inclinazione
dell'uomo al piacere, ma solamente o principalmente per questo, che l'uomo
desidera [178]illimitatamente il piacere. Del resto la virtù, i
piaceri corporali, quelli della curiosità (v. se vuoi Montesquieu nel
luogo citato p.170. qui sopra) (giacchè, come ho detto, per piacere
intendo e vanno intese tutte le cose che l'uomo desidera) ec. ec. sono piaceri
perchè la natura ha voluto, e potevano non essere con tutta la
inclinazione dell'uomo al piacere, come l'idea assoluta che l'uomo ha della
convenienza non è ragione perchè queste o quelle cose gli paiano
convenienti, e belle. E dei piaceri altri sono comuni, altri particolari di
questa o quella nazione, altri di questa o quella classe d'uomini, come i
piaceri appartenenti all'avarizia all'ambizione ec., altri anche individuali,
secondo le assuefazioni, le opinioni, le costituzioni corporali, i climi ec.
come l'idea rispettiva della bellezza dipende dalle assuefazioni costumi opinioni
ec. (V. Montesquieu l.c. De la
sensibilité. p.392.) E la natura ha posto nell'uomo diverse qualità
delle quali altre si sviluppano necessariamente, altre o si sviluppano o
restano chiuse e inattive secondo le circostanze. E di queste seconde altre la
natura voleva, o non proibiva che si sviluppassero, altre non voleva, e
sviluppandosi, rendono l'uomo infelice. E la cagione per cui le ha poste
nell'uomo non volendo che sviluppassero, starà nel sistema profondo
della natura, e probabilmente si potrebbe scoprire, se non ci fermassimo adesso
sul generale. Secondo queste diverse qualità, l'uomo trova piacevoli
diverse cose, e l'uomo incivilito prova diversi piaceri dal primitivo, e
sentirà dei piaceri che il primitivo non provava, e non proverà
molti di quelli che il primitivo provava. E perciò dall'esserci ora piacevole
una cosa il cui piacere dipenda dal nostro eccessivo incivilimento, non deduciamo
che questo era voluto dalla natura. E se ora [179]p.e. l'eccessiva
curiosità del vero ci proccura molti piaceri quando arriviamo a conoscerlo,
non perciò dobbiamo stimare che la natura ci volesse così
curiosi, nè che questi piaceri sieno naturali, nè che l'uomo
naturale ne avesse gran vaghezza, o non sapesse benissimo contenersi in questo
desiderio, nè per conseguenza che l'infelicità dell'uomo fosse
necessaria, e provenga dalla natura assoluta dell'uomo, quando proviene dalla
nostra rispettiva e corrotta. Perchè molte circostanze che hanno sviluppato
in noi questa o quella qualità non erano volute dalla natura, e
provengono dall'uomo e non da lei. Del resto atteso la detta teoria de' piaceri
particolari, potrebbe anche essere che l'idea dell'infinito, la maraviglia
e qualcuna delle cose piacevoli che ho annoverate come tali a cagione solamente
dell'inclinazione nostra al piacere, fossero piacevoli anche indipendentemente
da questa; e la ragione fosse l'arbitrio della natura, come negli altri
piaceri. Mi sembra però che la ragione della loro piacevolezza sia
bastantemente spiegata nel modo che ho fatto, e che tutti i loro accidenti
possano cadere sotto quelle considerazioni.
L'infinità della inclinazione
dell'uomo al piacere è un'infinità materiale, e non se ne
può dedur nulla di grande o d'infinito in favore dell'anima umana,
più di quello che si possa in favore dei bruti nei quali è
naturale ch'esista lo stesso amore e nello stesso grado, essendo conseguenza
immediata e necessaria dell'amor proprio, come spiegherò poco sotto.
Quindi nulla si può dedurre in questo particolare dalla inclinazione
dell'uomo all'infinito, e dal sentimento della nullità delle cose
(sentimento non naturale nell'uomo, e che perciò non si trova nelle
bestie, come neanche nell'uomo [180]primitivo, ed è nato da
circostanze accidentali che la natura non voleva). E il desiderio del piacere
essendo una conseguenza della nostra esistenza per se, e per ciò solo
infinito, e compagno inseparabile dell'esistenza come il pensiero, tanto
può servire a dimostrare la spiritualità dell'anima umana, quanto
la facoltà di pensare. Anzi è notabile come quel sentimento che
pare a prima giunta la cosa più spirituale dell'animo nostro (v.
p.106-107.), sia una conseguenza immediata e necessaria (nella nostra
condizione presente) della cosa più materiale che sia negli esseri
viventi cioè dell'amor proprio e della propria conservazione, di quella
cosa che abbiamo affatto comune coi bruti, e che per quanto possiamo
comprendere può parer propria in certo modo di tutte le cose esistenti.
Certamente non c'è vita senza amor di se stesso, e amor della vita. Quanto
poi alla facoltà che ha l'immaginazione nostra di concepire un certo
infinito, un piacere che l'anima non possa abbracciare, cagione vera per cui
l'infinito le piace, quanto dico a questa facoltà, la quale è
indipendente dalla inclinazione al piacere, e stava in arbitrio della natura di
darcela o non darcela, giudichi ciascuno quanto possa provare in favore della
nostra grandezza. Io per me credo 1. che la natura l'abbia posta in noi
solamente per la nostra felicità temporale, che non poteva stare senza
queste illusioni. 2. osservo che questa facoltà è grandissima nei
fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari ec. Quindi congetturo e mi par ben
verisimile che esista anche nelle bestie in un certo grado, e relativamente a
certe idee, come son quelle dei fanciulli ec. 3. considero che la ragione, la
quale si vuole avere per fonte della nostra grandezza, e cagione della nostra
superiorità sopra gli altri animali, qui non ha che far niente, se non
per [181]distruggere; per distruggere quello che v'ha di più
spirituale nell'uomo, perchè non c'è cosa più spirituale
del sentimento nè più materiale della ragione, giacchè il
raziocinio è un'operazione matematica dell'intelletto, e materializza e
geometrizza anche le nozioni più astratte. 4. che le illusioni sono anzi
affatto naturali, animali, atti dell'uomo e non umani secondo il linguaggio
scolastico, ed appartenenti all'istinto, il quale abbiamo comune cogli altri
animali, se non fosse affogato dalla ragione. Applicate queste considerazioni a
quello che soglion dire gli scrittori religiosi, che il non poter noi trovarci
mai soddisfatti in questo mondo, i nostri slanci verso un infinito che non
comprendiamo, i sentimenti del nostro cuore, e cose tali che appartengono
veramente alle illusioni, formino una delle principali prove di una vita
futura.
Tutto il sopraddetto intorno alla teoria del
piacere è un nuovo argomento del quanto si potrebbe semplificare la
teoria dell'uomo e delle cose, (v. p.53.) e del come il sistema intero della
natura si aggiri sopra pochissimi principii i quali producono gl'infiniti e
variatissimi effetti che vediamo, e stabiliti i quali, si direbbe che la natura
ha avuto poco da faticare, perchè le conseguenze ne son derivate
necessariamente e come spontaneamente. I fenomeni dell'animo umano notati dai
moderni psicologi perderebbero tutta la maraviglia, la quale deriva ordinariamente
dall'ignoranza della relazione e dipendenza che hanno gli effetti particolari
colle cause generali. P.e. quei fenomeni che ho analizzati e spiegati di sopra,
derivano immediatamente da un principio notissimo, che è l'amor del piacere.
E questo amor del piacere è [182]una conseguenza spontanea
dell'amor di se e della propria conservazione. Questo è un principio
anche più noto e universale, e quasi finale. Tuttavia quantunque la
natura potesse separar queste due cose, esistenza e amor di lei, e perciò
l'amor proprio sia una qualità posta da lei arbitrariamente nell'essere vivente,
a ogni modo la nostra maniera di concepir le cose appena ci permette
d'intendere come una cosa che è, non ami di essere, parendo che il
contrario di questo amore, sarebbe come una contraddizione coll'esistenza -
Perciò l'amor proprio si può considerare ancor esso (nella natura
quale la vediamo) come una conseguenza dell'esistere, e questo in certo modo
anche negli esseri inanimati. Ora discendiamo. Esistenza. amore dell'esistenza
(quindi della conservazione di lei, e di se stesso) - amor del piacere
(è una conseguenza immediata dell'amor proprio, perchè chi si
ama, naturalmente è determinato a desiderarsi il bene che è
tutt'uno col piacere, a volersi piuttosto in uno stato di godimento che in uno
stato indifferente o penoso, a volere il meglio dell'esistenza ch'è l'esistenza
piacevole, invece del peggio, o del mediocre ec.) - amore dell'infinito ec.
colle altre qualità considerate di sopra. Così queste
qualità che paiono disparatissime e particolarissime vengono
dirittamente dal principio generale dell'amor proprio, e tanto necessariamente
e materialmente, che si può dire che la natura, dato che ebbe all'uomo
l'amor proprio, e secondo la nostra maniera di concepire, data che gli ebbe
l'esistenza, non ebbe da far altro, e le dette qualità (delle quali ci
facciamo tanta maraviglia), senza opera sua, vennero da loro.
[183]Conseguito un piacere,
l'anima non cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare,
perchè il pensiero e il desiderio del piacere sono due operazioni
egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza.
(12-23. Luglio 1820.)
Noi supponiamo sempre negli altri una grande
e straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi veri o immaginari che
sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando anche
ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a qualunque
altra cosa.
(23. Luglio 1820.)
La speranza non abbandona mai l'uomo in
quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano
stoltamente quelli che dicono (gli autori della Morale universelle t.3.) che il
suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile
senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi,
è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a
sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra
troppo chiaro che non v'è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.)
Se nella giornata tu hai veduto o fatto
qualche cosa non ordinaria per te, la sera nell'addormentarti o per qualunque
altra cagione, e in qualunque stato, chiudendo gli occhi, ti vedi subito
innanzi, non dico al pensiero, ma alla vista, le immagini sensibili di quello
che hai veduto. E ciò quando anche tu pensi a tutt'altro, e neanche ti ricordi
più di quello che avevi veduto forse molte ore addietro, nel quale
intervallo ti sarai dato a tutte altre occupazioni. In maniera [184]che
questa vista, quantunque appartenga intieramente alle facoltà
dell'anima, e in nessun modo ai sensi, tuttavia non dipende affatto dalla volontà,
e se pure appartiene alla memoria, le appartiene, possiamo dire esternamente,
perchè tu in quel punto neanche ti ricordavi delle cose vedute, ed
è piuttosto quella vista che te le richiama alla memoria, di quello che
la stessa memoria te le richiami al pensiero. Effettivamente molte volte
neanche pensandoci apposta, ci ricorderemmo di alcune cose, che all'improvviso
ci vengono in immagine viva e vera dinanzi agli occhi. E notate che ciò
accade senza nessun motivo e nessuna occasione presente, che tocchi nella
memoria quel tasto, perchè del rimanente molte volte accade che una
leggerissima circostanza, quasi movendo una molla della nostra memoria, ci
richiami idee e ricordanze anche lontanissime, senza nessuno intervento della
volontà, e senza che i nostri pensieri d'allora ci abbiano alcuna parte.
Più volte m'è accaduto di
addormentarmi con alcuni versi o parole in bocca, ch'io avrò ripetute
spesso dentro la giornata, o dentro qualche ora prima del sonno, o vero
coll'aria di qualche cantilena in mente; dormire pensando o sognando tutt'altro,
e risvegliarmi ripetendo fra me gli stessi versi o parole, o colla stess'aria
nella fantasia. Pare che l'anima nell'addormentarsi deponga i suoi pensieri e
immagini d'allora, come deponiamo i vestimenti, in un luogo alla mano e vicinissimo,
affine di ripigliarli, subito svegliata. E questo pure senza operazione della
volontà. Parimente s'io dentro la giornata aveva letto per un certo
tempo del greco o latino o francese o italiano elegante ec. quando la mia
memoria era più pronta, (perchè ora [185]che nello
svegliarmi la trovo ottusissima, non mi accade così facilmente) mi
risvegliava con varie frasi di quelle lingue in mente, e quasi parlando quelle
lingue fra me, non ostante che nel sonno, nessuna idea me le avesse richiamate.
Questo pure involontariamente. E così si può dire di cento altre idee
d'ogni sorta, che al risvegliarti si presentano spontaneamente affatto.
(24. Luglio 1820.)
Qualunque cosa ci richiama l'idea
dell'infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro.
Così un filareo un viale d'alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine.
Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto
questa è determinata, e quella si può considerare come una
grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto
sarà più spazioso, più se sarà scoperto, arieggiato
e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o poco arieggiato, ed
oscuro, almeno quando l'idea di una grandezza infinita che ci deve presentare
deriva da quella grandezza che cade sotto i sensi, e non è opera totalmente
dell'immaginazione, la quale come ho detto, si compiace alcune volte del
circoscritto, e di non vedere più che tanto per potere immaginare ec.
(25. Luglio 1820.)
In ordine alle donne, diceva taluno, ho
già perdute due virtù teologali, la fede e la speranza. Resta
l'amore, cioè la terza virtù, della quale per anche non mi posso
spogliare, con tutto che non creda nè speri più niente. Ma presto
mi verrà fatto, e allora finalmente mi appiglierò alla
contrizione.
(25. Luglio 1820.)
[186]La ragione che reca
Montesquieu (Essai sur le goût. Des
plaisirs de la symétrie) perchè l'anima amando la varietà,
tuttavia dans la plupart des choses elle aime à voir une
espèce de symétrie, il che sembra che renferme quelque contradiction,
non mi capacita. Une des principales causes des plaisirs de notre ame,
lorsqu'elle voit des objets, c'est la facilité qu'elle a à les
appercevoir; et la raison qui fait que la symétrie plaît à l'ame, c'est
qu'elle lui épargne de la peine, qu'elle la soulage, et qu'elle coupe, pour
ainsi dire, l'ouvrage par la moitié. De-là suit une règle
générale: par-tout où la symétrie est utile à l'ame et peut aider
ses fonctions, elle lui est agréable; mais, par-tout où elle est
inutile, elle est fade, parce qu'elle ôte la variété. Or les choses que nous
voyons successivement doivent avoir de la variété; car notre ame n'a aucune
difficulté à les voir: celles, au contraire, que nous appercevons d'un
coup d'oeil doivent avoir de la symétrie. Ainsi, comme nous appercevons d'un
coup d'oeil la façade d'un bâtiment, un parterre, un temple, on y met de la
symétrie, qui plaît à l'ame par la facilité qu'elle lui donne
d'embrasser d'abord tout l'objet. Ora io domando perchè noi vedendo una
campagna, un paesaggio dipinto o reale ec. d'un colpo d'occhio come un parterre,
e gli oggetti di quella e di questa vista, essendo i medesimi, noi vogliamo in
quella la varietà, e in questa la simmetria. E perchè ne'
giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia [187]in luogo
della simmetria. La ragion vera è questa. I detti piaceri, e gran parte
di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli che derivano dalla
simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla convenienza. La
simmetria non è tutt'uno colla convenienza ma solamente una parte o
specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni gusti ec. che determinano
l'idea delle proporzioni, corrispondenze, ec. La convenienza relativa dipende
dalle stesse opinioni gusti, ec. Così che dove il nostro gusto indipendentemente
da nessuna cagione innata e generale, giudica conveniente la simmetria, quivi
la richiede, dove no non la richiede, e se giudica conveniente la varietà,
richiede la varietà. E questo è tanto vero, che quantunque si
dica comunemente che la varietà è il primo pregio di una
prospettiva campestre, contuttociò essendo relativo anche questo gusto,
si troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una certa
simmetria, come i toscani che sono avvezzi a veder nella campagna tanti
giardini. E così noi per l'assuefazione amiamo la regolarità dei
vigneti, filari d'alberi, piantagioni solchi ec. ec. e ci dorremmo della regolarità
di una catena di montagne ec. Che ha che far qui l'utile o l'inutile? perchè
quando sì, quando no negli oggetti della stessa natura? perchè in
queste persone sì, in quelle no? Di più quegli stessi alberi che
ci piacciono collocati regolarmente in una piantagione, ci piaceranno ancora
collocati senz'ordine in una selva, boschetto ec. La simmetria e la varietà,
gli effetti dell'arte e quelli della natura, sono due generi di bellezze. Tutti
[188]due ci piacciono, ma purchè non sieno fuor di luogo.
Perciò l'irregolarità in un'opera dell'arte ci choque
ordinariamente (eccetto quando sia pura imitazione della natura, come ne' giardini
inglesi) perchè quivi si aspetta il contrario; e la regolarità ci
dispiace in quelle cose che si vorrebbero naturali, non parendo ch'ella
convenga alla natura, quando però non ci siamo assuefatti come i toscani.
Notate che ne' pazzi i più
malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un riso stupido e
vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi prenderanno per
la mano con guardatura profondissima, e nel lasciarvi vi diranno addio
con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della
stessa disperazione e pazzia. Cosa però notabilissima anche nei savi
ridotti alla intiera disperazione della vita, e massimamente dopo concepita una
risoluzione estrema, che li fa riposare appunto in questa estremità
d'orrore, e li placa, come già sicuri della vendetta sopra la fortuna e
se stessi.
(26. Luglio 1820.)
Nessun dolore cagionato da nessuna sventura,
è paragonabile a quello che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile,
la quale sentiamo ch'è venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma
al pentimento vivo e vero.
Così il bene come il male aspettato
sono ordinariamente più grandi che il bene o il male presente. La
cagione di tutte due le cose è la stessa, cioè l'immaginazione determinata
dall'amor proprio occupato nel primo caso dalla speranza, nel secondo dal
timore.
Perchè una cosa non piacevole per se
stessa, tuttavia [189]piaccia quando riesce inaspettata, in somma da che
derivi il piacere della sorpresa considerata puramente come sorpresa, si spiega
colla teoria della noia esposta di sopra in questi pensieri. Perchè
l'uomo prova piacere ogni volta ch'è mosso potentemente, purchè
non dal timore o dal male. Perchè poi il piacere inaspettato riesca
ordinariamente maggiore dell'aspettato, si spiega parte colla detta ragione,
parte con quella che ho notata, p.73. E v. se
vuoi Montesquieu Essai sur le goût. Des plaisirs de la surprise.
Amsterdam 1781. p.386. Du je ne sais quoi. p.394. progression de la surprise
p.398.
L'affettazione ordinariamente è madre
dell'uniformità. Da ciò viene che sazia ben presto. In tutti gli
scritti di un gusto falso e affettato, come in tante poesie straniere, come
nelle poesie orientali, osservate che voi sentirete sempre un senso di
monotonia, come guardando quelle figure gotiche che dice Montesquieu, l.c. des
Contrastes p.383. E questo quando anche il poeta o lo scrittore abbia cercato
la varietà a più potere. Ragioni.
Dalle due sopraddette ragioni intendete
perchè la massima parte delle scritture e specialmente poesie francesi
stanchino sopra modo. Il loro eterno stile di conversazione 1. dev'essere
infinitamente meno vario del naturale, come l'arte della natura. 2. dà
un colore uniforme alle cose più varie, ed un colore ch'essendo estraneo
alla cosa, risalta, e stanca a brevissimo andare. In fatti osservate che le poesie
francesi paiono tutte d'un pezzo, per la grande monotonia, e il senso che producono
è questo, d'una cosa dura dura e non pieghevole, nè adattabile [191]a
niente.
Il suono dello j, e ge e gi
francese è un suono distintissimo che manca alla nostra lingua, e forma
effettivamente un'altra lettera dell'alfabeto. Nè si può chiamare
un composto di g, ed s. 1. perchè è distintissimo dal
suono di ciascuna di queste due lettere, 2. perchè si pronunzia tutto in
un solo istante, e non successivamente come noi italiani pronunzieremmo sgi o
sghi o gsi, ma sibbene come il z il quale è una lettera bella e buona
distintissima dalle altre, e non un composto di t ed s. Osservate anche le due
diverse pronunzie del z l'una o l'altra delle quali manca io credo a parecchie
nazioni, e la s schiacciata dei francesi che manca parimente a noi.
(28. Luglio 1820.)
Il primo autore delle città vale a
dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo riprovato,
cioè Caino, e questo dopo la colpa la disperazione e la riprovazione. Ed
è bello il credere che la corruttrice della natura umana e la sorgente
della massima parte de' nostri vizi e scelleraggini sia stata in certo modo
effetto e figlia e consolazione della colpa. E come il primo riprovato fu il
primo fondatore della società, così il primo che definitamente la
combattè e maledisse, fu il redentore della colpa, cioè
Gesù Cristo, secondo quello che ho detto p.112.
Con quello che dice Montesquieu, Essai sur
le Goût. Des diverses causes qui
peuvent produire un sentiment. De la sensibilité. De la
délicatesse p.389-393. spiegate la cagione per cui c'interessino tanto le
Storie romana e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie
ec. composte [192]sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell'interesse
non ci possa esser suscitato da nessun'altra storia, o poema sopra altri fatti
ancorchè benissimo cantati, come dall'Ossian, o tragedia d'altri argomenti,
quando anche appartengano alla nostra storia patria più immediata, come
agli avvenimenti de' bassi tempi ec. e molto meno dalle poesie orientali, e da
cento altre belle cose volute e messe in voga dai nostri romantici, che di vera
psicologia non s'intendono un fico. Tutto proviene dalla moltiplicità
delle cause che producono in noi un sentimento, e sono, rispetto alle dette
cose, ricordanze della fanciullezza, abitudine presa, fama universale di quelle
nazioni e di quei poeti, affezionamento ancorchè involontario, continuo
uso di sentirne parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per quelli che
ne hanno parlato, tutte ragioni la mancanza delle quali rende difficilissimo, e
forse impossibile il fare ugualmente interessante un soggetto nuovo, massime in
poesia, dove tutto il diletto proviene dall'interesse, e non può stare
colla sola curiosità, o desiderio d'istruirsi ec. come nelle storie e
simili. E v. il mio discorso sui romantici. Souvent notre ame se compose elle-même des raisons de plaisir, et
elle y réussit surtout par les liaisons qu'elle met aux choses. Questo e tutto l'altro che dice Montesquieu
è notabilissimo, e applicabile a diversissimi casi e condizioni nelle
quali ci riesce piacevole quello che ad altri non riesce, e a noi [193]stessi
non riusciva in altre circostanze. P.e. fu un tempo non breve in cui la poesia
classica non mi dava nessun piacere, e io non ci trovava nessuna bellezza. Fu
un tempo in cui io non trovava altro studio piacevole che la pura e secca
filologia, che ad altri par noiosissima. Fu un tempo in cui le scienze mi
parevano studi intollerabili. E quanti nelle loro professioni trovano piaceri,
che agli altri parranno maravigliosi, non potendo comprendere che diletto si
trovi in quelle occupazioni! E nominatamente in quello che appartiene alle
lettere e belle arti, chi non sa e non vede tuttogiorno che il letterato e
l'artista trova piaceri incredibili e sempre nuovi nella lettura o nella
contemplazione di questa o di quell'opera, che letta o contemplata dai volgari,
non sanno comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto lo troveranno
in cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate ancora la diversità
de' gusti ne' diversi tempi, classi, nazioni, climi ec.
(29. Luglio 1820.)
Gran magistero della natura fu quello
d'interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione
è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un rinascimento.
Infatti anche la giornata ha la sua gioventù ec. v. p.151. Oltre alla
gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di
una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall'altra è
un sommo rimedio contro la monotonia dell'esistenza. Nè questa si poteva
diversificare e variare maggiormente, che componendola in [194]gran
parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte.
Il ritrovare e procacciare la
felicità destinata dalla natura all'uomo, non è più opera
del privato neanche per se solo. Non in società, perchè ognuno
vede come ci si vive, e il privato non può migliorare le nostre istituzioni.
Non nella vita domestica solitaria e primitiva, perchè i piaceri suoi
non possono più cadere in persone disingannate ed esaurite nella immaginazione.
Il dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita; il
rinnuovare le illusioni perdute ec. ec. e opera solo de' potenti.
La politica non deve considerar solamente la
ragione, ma la natura, dico la natura vera e non artefatta nè alterata.
Il codice de' Cristiani in quante cose si scosta dalla fredda ragione per
accostarsi alla natura! Esempio poco o nulla imitato dai legislatori moderni.
Oltre che il virtuoso è per
l'ordinario sconosciuto e non voluto conoscere e confessare dalla moltitudine
che è formata dai tristi, tale è la misera condizione dell'uomo
in società, e dell'intrigo delle circostanze, ch'egli è sovente
sconosciuto e pigliato per tutt'altro, anche dagli altri pochissimi virtuosi.
Io mi sono abbattuto a dovere stimare ed amare due persone di rettissimo cuore,
che per alcuni incontri datisi tra loro, si stimavano scambievolmente con
intima persuasione, pessimi di carattere e di cuore. Tant'è, noi
giudichiamo del carattere degli uomini dal modo nel quale si sono portati verso
noi o perchè credessero di dovere, e anche dovessero portarsi
così, o arbitrariamente, o per forza di congiunture, o anche per colpa.
E il [195]più scellerato del mondo, se non ci avrà
nociuto, e per qualunque motivo, avrà avuto occasione di beneficarci,
anche semplicemente di trattarci bene, di mostrarcisi affabile manieroso
rispettoso ec. basterà questo perch'egli nell'animo nostro abbia un
posto non cattivo, ed anche di uomo onesto. E quando anche l'intelletto
ripugni, il cuore e la fantasia ne terranno sempre questo concetto. Questa
dovrebb'essere regola generale per qualunque senta dir bene o male di
chicchessia. Se quegli che parla, parla per altrui relazione, o se parla di
mala fede può avere altri motivi. Ma tolti questi due casi,
ordinariamente nella vita privata, tu devi supporre che quegli che ti parla ha
ricevuto bene o male da quella tal persona, e da tutto il suo discorso non
credere di restare informato se non di questo.
(31. Luglio 1820.)
Gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli
in dovere e farsi stimare bisogna sparlare bravare minacciare e far chiasso.
Bisogna adoperar l'espediente di quelle monache del Tristram Shandy.
(1 Agosto 1820.)
Sebbene è spento nel mondo il grande
e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l'inclinazione. Se è
tolto l'ottenere, non è tolto nè possibile a togliere il desiderare.
Non è spento nei giovani l'ardore che li porta a procacciarsi una vita,
e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai quali
anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa li debba portare e
li porti effettivamente. L'ardor giovanile, cosa naturalissima, universale,
importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione [196]degli
uomini di stato. Questa materia vivissima e di sommo peso, ora non entra
più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata
appunto come non esistente. Frattanto ella esiste ed opera senza direzione
nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto (opera perchè
quantunque tutte le istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si
distrugge, e la natura in un vigor primo freschissimo e sommo com'è in
quell'età) e laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata
alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così naturale,
e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia
e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire nè
impiegare in bene nè impedire che non iscoppi in temporali in tremuoti
ec. (1. Agosto 1820.).
Alla p.164. pensiero primo, aggiungi. Se tu
vedi un fanciullo, una donna, un vecchio affaticarsi impotentemente per qualche
operazione in cui la loro debolezza impedisca loro di riuscire, è
impossibile che tu non ti muova a compassione, e non proccuri, potendo,
d'aiutarli. E se tu vedi che tu dai incomodo o dispiacere ec. ad uno il quale
soffre senza poterlo impedire, sei di marmo, o di una irriflessione bestiale,
se ti dà il cuore di continuare.
Anche gli uomini già sazi della lode,
e persuasi della loro fama che non guadagna per le espressioni particolari di
questo o di quello, sono sensibili alla lode che riguarda qualche pregio
diverso da quelli per cui sono famosi. E però, eccetto le persone
avvezze a essere adulate in ogni cosa, nessuno diviene indifferente alla lode
in [197]genere, ma alla lode di quelle tali sue qualità. Di
più la lode più cara è spesso quella che cade sopra una
cosa nella quale tu desideri, ma dubiti o stimi di non esser lodevole, o che
altri non ti abbia per tale.
Dice Diogene Laerzio di Chilone che wÞß. E questo precetto si deve estendere, massimamente oggidì in tanta
propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi particolari di cui l'individuo
può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta altro mezzo per
non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità particolare, e come
una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio altrui offeso dall'avvantaggio
che tu hai sopra di loro, o anche dall'uguaglianza. Così se tu sei
ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è l'avvantaggio che tu hai
sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è necessaria una
maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in
faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai
in te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso
per se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè
ec. Ed era questa una cosa notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità
dei vantaggi individuali, che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella
prosperità avevano cura dell'invidiam deprecari tanto divina che
umana, e quindi un [198]seguito non interrotto di felicità li
rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone de Bello Parthico.
(4. Agosto 1820.). V. p.453. capoverso ult.
Montesquieu
(Essai sur le Goût. Du je ne sais quoi) fa
consistere la grazia e il non so che, principalmente nella sorpresa, nel dar
più di quello che si prometta ec. In questa materia della grazia
così astrusa nella teoria delle arti, come quella della grazia divina
nella teologia, noterò
In somma non saprei che dire. Si potrebbe
conchiudere che la grazia consiste in un certo irritamento nelle cose che appartengono
al bello e al piacere. Così si verrebbe ad escludere un viso mostruoso
ec. e dall'altra parte, il piacere troppo spiccato e sfacciato, come quello
della bellezza, dei godimenti corporali, del desiderio soddisfatto; potendo la
grazia chiamarsi piuttosto uno stuzzica-appetito, che una soddisfazione di
esso.
(4-9. Agosto 1820.)
L'affettazione nuoce anche alla maraviglia,
capital cagione del diletto nelle arti. Primieramente il conoscere il proposito
toglie [204]la sorpresa. Poi, e questo è il principale, non vedi
somma difficoltà in una figura somigliantissima al vero, ma stentata.
Oltre che lo stento detrae al vero, perchè non appartiene al vero se non
la naturalezza, non è maraviglia, che con fatica ti sia riuscito, quello
che volevi. E non è maraviglia che tu facci una cosa volendo, come che
tu la facci, senza che gli altri si accorgono che tu l'abbi voluto. E non
è difficile il fare una cosa difficile, difficilmente, ma in modo che
paia facile. Così c'è il contrasto fra la nota difficoltà
della cosa, e l'apparente difficoltà del modo. L'affettazione toglie il
contrasto ec. ec. V. se vuoi Montesquieu,
Essai sur le goût. Amsterdam 1781. du je ne sais quoi. p.396-397.
(9. Agosto 1820.)
In proposito di quello che ho detto p.197.
io so di una donna desiderosa di concepire che bastonava fieramente una cavalla
pregna, dicendo, tu gravida e io no. L'invidia e l'odio altrui per le
felicità che hanno, cade ordinariamente sopra quei beni che noi
desideriamo di avere e non abbiamo, o de' quali vorremmo esser gli unici o i
principali possessori ed esempi. Sopra gli altri beni non è cosa
ordinaria l'invidia, ancorchè sieno beni grandissimi. Del resto quantunque
l'invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali solamente
sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di questa
passione può condurre all'invidia e all'odio anche delle altre cose.
(10. Agosto 1820.)
Tutti i caratteri principali dello spirito
antico, che si trovano in Omero, e negli altri greci e latini, si trovano anche
[205]in Ossian, e nella sua nazione. Lo stesso pregio del vigor del
corpo, della giovanezza, del coraggio, di tutte le doti corporali. La stessa
divinizzazione della bellezza. Lo stesso entusiasmo per la gloria e per la
patria. In somma tutti i beati distintivi di una civilizzazione che sta nel suo
vero punto fra la natura e la ragione. Del resto, pietà filiale, e
paterna, e tutti gli altri sentimenti doverosi e naturali, hanno fra i caledoni
tutta la loro forza. Il divario tra i greci ed Ossian consiste principalmente
in una malinconia generata dalle disgrazie particolari, e non dalla disperante
filosofia, ma più propriamente e generalmente dal clima. Questa cagione
non solo si conosce ma si sente nell'Ossian, e perciò rende la sua malinconia
molto inferiore a quella dei meridionali, Petrarca, Virgilio, ec. nei quali si
conosce e sente anche una potenza di allegria, come pure in Omero ec. cosa
necessaria alla varietà, all'ampiezza della poesia composta di diversissimi
generi, e quasi anche al sentimento.
Ossian prevedeva il deterioramento degli
uomini e della sua nazione. V. Cesarotti osservazione ultima al poemetto della
guerra di Caroso. Ma certo quando egli diceva ec. (v. gli ultimi versi d'esso
poemetto) non prevedeva che la generazione degl'imbelli si dovesse chiamar
civile, e barbara la sua, e le altre che la somigliarono.
Oste albergatore, ed anche
ospite, ossia albergato, appresso gli antichi italiani. V. la Crusca. Hostis
aveva appunto questa seconda significazione appresso gli antichi latini. V. il
Forcellini. [206]Ed ecco una parola latina disusata ai tempi di Cicerone,
ricomparisce nei principii della nostra lingua. E forse hostis
avrà avuto anche il significato di albergatore, come oste oggidì,
e come hospes ed ospite in latino ed in italiano hanno lo stesso
doppio senso di albergatore e albergato.
(10. Agosto 1820.)
Straniero ossia ospite si
prendeva per nemico anche nell'antica lingua celtica. V. Cesarotti note
al Fingal, Canto primo. Bassano 1789. t.1. p.17. E così appoco appoco si
sarà cambiato il significato di hostis, cioè considerando
lo straniero come nemico.
Cleobulo, dice Diog. Laerz, (uxori) J J, V. p.233.
Il medesimo, JJ
In proposito di quello che ho detto p.68.
nel pensiero, Guardate, Chilone, dice il Laerz. . V. la
nota d'Is. Casaubono al Laerz. Vit. Polemon. l.4.
segm.16.
La grazia propriamente non ha luogo se non nei piaceri che
appartengono al bello. Una novità, un racconto curioso, una nuova
piccante, tutto quello che punge o muove o solletica la curiosità, sono
irritamenti piacevoli ma non hanno che far colla grazia. E quelli che
appartengono ai cibi, o a qualunque altro piacere parimente, somigliano alla
grazia, e possono esserne esempi, ma non confondersi con lei. Perciò la
grazia va definita semplicemente, un irritamento nelle cose che appartengono al
bello, tanto sensibile, quanto intellettuale, come il bello poetico ec.
[207]Le grazie della lingua sono
più che mai relative a quelle persone che la intendono perfettamente ec.
e non mai assolute. Così le grazie attiche, toscane ec. forse più
graziose per gli altri italiani che per gli stessi toscani, a cagione di una
certa sorpresa ec. ma poco o nulla agli stranieri.
Oggidì è cosa molto ordinaria
che un uomo veramente singolare e grande si distingua al di fuori per un volto
o un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo e
anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes, Pascal. Tant'è: la
grandezza appartenente all'ingegno non si può ottenere oggidì
senza una continua azione logoratrice dell'anima sopra il corpo, della lama
sopra il fodero. Non così anticamente, dove il genio e la grandezza era
più naturale e spontanea, e con meno ostacoli a svilupparsi, oltre la
minor forza della distruttrice cognizione del vero inseparabile oggidì
dai grandi talenti, e il maggior esercizio del corpo riputato cosa nobile e
necessaria, e come tale usato anche dalle persone di gran genio, come Socrate
ec. E Chilone uno de' sette savi non credeva alieno dalla sapienza il consigliare
come faceva, (Laerz.),
e questo consiglio si trova registrato fra i documenti della sua sapienza. In
particolare poi quanto alla politica, oggidì l'uomo di stato si
può dir che sia come l'uomo di lettere, sempre occupato alle
insaluberrime fatiche del gabinetto. Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava
agli affari civili, e nella sua giovanezza fortificava necessariamente il corpo
cogli esercizi la milizia ec. senza i quali sarebbe stato quasi infame; e lo
stesso esercizio della politica era pieno di azione corporale, trattandosi di
agire col popolo, clienti, impegni ec. ec. Così anche la vita di
qualunque altro uomo di genio era sempre piena di azione nell'esercizio stesso
delle sue facoltà. [208]Esempio ne può essere Omero,
secondo quello che si racconta della sua vita, viaggi ec. Di Cicerone che tanto
incredibilmente affaticò la mente e la penna, e che nacque di
quell'ingegno e natura unica che ognun sa, niun dice che fosse di corpo, non
che infermiccio, ma gracile, le quali qualità oggi s'hanno per segni
caratteristici, e condizioni indispensabili de' talenti non pur sommi ma
notabili, e massime di chi avesse coltivato e occupato tanto la mente negli
studi letterari e nello scrivere, come Cicerone anzi per una metà. Quel
che dico di Cicerone può dirsi di Platone, e di quasi tutti i
grandissimi ingegni e laboriosissimi letterati e scrittori antichi. V.
però Plutarco Vita di Cic.
(11. Agosto 1820.). V. p.233. capoverso 3.
La grazia appena io credo che possa esser
concepita dai francesi con idea vera. Certo i loro scrittori non la conoscono.
Lo confessa pienamente Thomas Essai sur les Éloges ch.9. Infatti manca loro cette
sensibilité tendre et pure, cioè inaffettata e naturale (l'avrebbero
per natura, ma la società non vuole che la conservino: l'avevano i loro
antichi scrittori) e cet instrument facile et souple vale a dire una
lingua come la greca e l'italiana. V. senza fallo quel passo di Thomas.
(13. Agosto 1820.)
Non solamente il bello ma forse la massima
parte delle cose e delle verità che noi crediamo assolute e generali,
sono relative e particolari. L'assuefazione è una seconda natura, e
s'introduce quasi insensibilmente, e porta o distrugge delle qualità
innumerabili, che acquistate o perdute, ci persuadiamo ben presto di non potere
avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi eterne e immutabili, a
sistema naturale, a Provvidenza ec. l'opera del caso e delle circostanze accidentali
e arbitrarie. Aggiungete all'assuefazione, le opinioni i climi i temperamenti
corporali o spirituali, e persuadetevi che molto ma molto poche verità
sono assolute e inerenti al sistema delle cose. Oltre all'indipendenza da
queste verità che può trovarsi in altri sistemi di cose.
(13. Agosto 1820.)
In somma dal detto qui sopra e da mille
altre [209]cose che si potrebbero dire, si deduce quanto giustamente i moderni
ideologisti abbiano abolite le idee innate. Archelao diceva secondo Diogene
Laerzio che non
è determinato dalla natura ma dalla legge. E così la legge
naturale ancora potrà esser considerata come un sogno. Abbiamo si
può dire innata l'idea astratta della convenienza, ma quali cose
si convengano in morale, appartiene alle idee relative. Considerate la morale
dei diversi popoli, massimamente barbari. E mettetevi nello stato primitivo
dell'uomo. Vedrete che il far male agli altri per vostro bene non vi ripugna.
Il vostro simile in natura non è una cosa così inviolabile, come
credete. L'uomo solitario e selvaggio fa mondo da se, e il suo simile è
come un'altra fiera del bosco. Bensì l'uomo è naturalmente
più inclinato al suo simile, come rispettivamente le altre bestie. Ma
anche il leone combatte col leone, e il toro col toro per li suoi diletti e
vantaggi. Ho detto p.178. che la natura ha poste negli esseri diverse
qualità che si sviluppano o no, secondo le circostanze. P.e. la
facoltà di compatire. In natura è molto meno operosa. Ma non
è già propria del solo uomo. In casa mia v'era un cane che da un
balcone gittava del pane a un altro cane sulla strada. V. quello che racconta
il Magalotti di una cagna nelle Lettere sull'Ateismo. In natura si ristringe a
quegli esseri che ci toccano più da vicino. Così gli uccelli coi
loro figliuolini, vedendoseli rapire ec. Se vedranno un [210]altro uccello
della specie loro, travagliato o moribondo, non se ne daranno pensiero. Secondo
lo sviluppo delle diverse qualità per le diverse circostanze, è
nata la legge detta naturale. Il rubare l'altrui non ripugna assolutamente alla
natura. Costume degli Spartani. Differenze dalle leggi antiche alle moderne. La
società non è già propria del solo uomo. Le formiche la
fanno per trasportar pesi. Le api hanno anche un governo. In somma considerando
la natura dell'uomo e delle cose, si vedrà che tolte alcune idee
astratte e indeterminate, ossia non applicate, ma da applicarsi, tutto il resto
è relativo, e dipende dalle circostanze, e che negli altri esseri come
nell'uomo ci sono diverse qualità ingenite che sviluppandosi o no, ci
fanno poi giudicare vanamente della somiglianza assoluta della nostra razza
colle altre.
(14. Agosto 1820.)
Diciamo male che il tal desiderio è
stato soddisfatto. Non si soddisfanno i desideri, conseguito che abbiamo
l'oggetto, ma si spengono, cioè si perdono ed abbandonano per la
certezza acquistata di non poterli mai soddisfare. E tutto quello che si
guadagna conseguito l'oggetto desiderato, è di conoscerlo intieramente.
(14. Agosto 1820.)
Come l'amore così l'odio si rivolge
principalmente sopra i nostri simili, nè si desidera mai così
intensamente la vendetta di una bestia come di un nemico. E notate: quando
altri ci abbia fatto del male non volendo, tuttavia il risentimento che [211]ne
proviamo è maggiore che per una bestia la quale volendo ci abbia fatto
un maggior male.
Alla p.196. capoverso primo, aggiungi. Ci
commuove molto più una rondinella che vede strapparsi i suoi figli, e si
travaglia impotentemente a difenderli, di quello che una tigre, o altra tal
fiera nello stesso caso. V. Virg. Georg. 4. Qualis populea moerens philomela
sub umbra ec.
È curioso che si riprenda (dagli
stranieri particolarmente) Michelangelo per aver troppo voluto dimostrare la
sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di nasconder sempre
questa scienza nell'arte dello scolpire o del dipingere, ed esser meglio
ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non
si curò di studiarla); e che frattanto gli stranieri massimamente non
sieno mai così contenti come quando hanno inzeppato le loro poesie di
tecnicismi, di formole, di nozioni astratte e metafisiche, di psicologia,
d'ideologia, di storia naturale, di scienza, di viaggi, di geografia, di
politica, e d'erudizione, scienza, arte, mestiero d'ogni sorta. E mentre non
vogliono l'erudizione antica, lodano e abusano vituperosamente della moderna.
(15. Agosto 1820.). V. la p.238. capoverso 8.
A proposito di quello che ho detto p.152.
pens. ult. notate che l'immaginazione dei fanciulli ha ordinariamente tutte due
queste qualità, ma l'una, cioè la fecondità, in maggior
grado. E perciò come sono facili a fissarsi in un'idea, così
anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di qualsivoglia
occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo studio non
solo pel poco intelletto, ma perchè son pieni di distrazioni. [212]Giacchè
la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per
attaccarsi a un altro. Eccetto alcuni fanciulli d'immaginazione destinata a
grandi cose, e a fargli infelici quando saranno maturi, la profondità
della quale li fissa fortemente in questa o in quella idea, ordinariamente
paurosa o dolorosa, e li tormenta nella stessa fanciullezza, com'è
accaduto a me. Ed è notabile come questa profondità della immaginazione
li renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del quale non trovano
pace, spaventandosi dello straordinario, e contando per disgrazia
insopportabile l'aver tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es. di
Pietrino, e mio. Del resto l'effetto della immaginazione dei fanciulli qual
sia, v. p.172. fine.
Domandava una donna (un cortigiano) a un
viaggiatore, avendogli a dire una cosa poco piacevole; volete ch'io vi parli
sinceramente? Rispose il viaggiatore, anzi ve ne prego. Noi altri viaggiatori
cerchiamo le rarità.
(16. Agosto 1820.)
La soprabbondanza della immaginazione
è quella che tormenta i fanciulli detti qui sopra, e perciò in
luogo di cercarla nello straordinario, cercano di spegnerla o addormentarla col
metodo. Cosa che accade anche agli uomini. V. il carattere di Lord Nelvil nella
Corinna.
(16. Agosto 1820.)
L'irritamento della grazia è
piacevole come un irritamento corporale nel gusto nel tatto, ec. E come una
maggiore irritabilità e dilicatezza del palato, fibre [213]ec.
rende più suscettibili e di più fino discernimento rispetto a
questi irritamenti corporali, così nella grazia riguardo allo spirito.
V. se vuoi Montesquieu l. più volte cit. De la délicatesse. Che se l'effetto rispettivo della grazia de'
due sessi è molto maggiore di un irritamento, la cagione non è la
sola grazia, come non la sola bellezza negli stessi casi. Ma la grazia irrita
allora una parte sensibilissima dell'uomo, che è l'inclinazione scambievole
all'uno de' due sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti che la
grazia per se, ed in qualunque altro caso non produrrebbe, quando anche fosse
in molto maggior grado. Così nella pittura farà molto più
effetto la grazia di una donna ec. che di un uomo, la grazia anche di un uomo,
che quella di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo
ai nostri simili viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello
che da questo oggetto. Lo stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo
dipinto o scolpito, o di un edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce
molto la considerazione in cui noi prendiamo quell'oggetto, cioè di
opera umana, e perciò forse più efficace in noi. Del resto tutto
il medesimo accade in materia del bello.
(17. Agosto 1820.)
Le illusioni per quanto sieno illanguidite e
smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la
massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle,
ancorchè sapute vane. E perdute una volta, nè si perdono in modo
che non ne resti [214]una radice vigorosissima, e continuando a vivere,
tornano a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza, e certezza acquistata.
Io ho veduto persone savissime, espertissime, piene di cognizioni di sapere e
di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte
come unico bene, e augurarla ancora come tale, agli amici loro: poco dopo,
bensì svogliatamente, ma tuttavia riconciliarsi colla vita, formare
progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni vantaggi temporali di quegli stessi
loro amici ec. Nè poteva più essere per ignoranza o non
persuasione certa e sperimentale della nullità delle cose. Ed a me pure
è avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente per non
poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla
vita futura, e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e
quel ritorno, non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè la
disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo
ch'io riprendeva le mie illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di
consolarmi, bastava all'effetto, ed è cosa indubitata che le
illusioni svaniscono nel tempo della sventura, (e perciò è
verissimo, e l'ho provato anch'io, che chi non è stato mai sventurato,
non sa nulla. Io sapeva, perchè oggidì non si può non
sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella vita.)
e ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e
dall'assuefazione. Ritornano con più o meno forza secondo le
circostanze, il carattere, il temperamento corporale, e le qualità spirituali
tanto ingenite come acquisite. Quasi tutti gli scrittori di vero e squisito
sentimentale, dipingendo la disperazione e lo scoraggiamento totale della vita,
hanno cavato i colori dal proprio cuore, e dipinto uno stato nel quale [215]essi
stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene? con tutta la loro disperazione
passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di
quelle acerbe verità e passioni che esprimevano, anzi dovessero
proccurarsene attualmente una intiera persuasione ec. per potere rappresentare
efficacemente quello stato dell'uomo, e per conseguenza sentissero ed avessero
quasi per le mani il nulla delle cose, tuttavia si prevalevano del sentimento
stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto più era vivo in
loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si
prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della
morte vivamente sentito, e vivamente espresso, non cercavano altro che di proccurarsi
alcuni piaceri della vita. E così tutti i filosofi che scrivono e
trattano le miserabili verità della nostra natura e ch'essendo privi
d'illusioni in fondo, non cercano poi altro veramente col loro libro che di
crearsi, e godersi alcuni illusorii vantaggi della vita (v. Cic. pro Archia
c.11.) Tant'è: la natura è così smisuratamente più
forte della ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre a ogni
credere, pure gli resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e questo
negli stessi seguaci suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano e la
divulgano; anzi con questo stesso predicare e divulgar la ragione contro la
natura, la danno vinta alla natura sopra la ragione. [216]L'uomo non
vive d'altro che di religione o d'illusioni. Questa è proposizione
esatta e incontrastabile: Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni
uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare
(giacchè i fanciulli massimamente non vivono d'altro che d'illusioni) si
ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta
spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e sostanziale. Ma le
illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della ragione e del sapere.
È da sperare che durino anche in progresso: ma certo non c'è
più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione
degli uomini, dell'incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la
quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e
dall'altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti
d'illusione, e della mortificazione reale, uniformità,
inattività, nullità ec. di tutta la vita. Le quali cose se
ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le
dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente e
senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno
altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo
addietro. Tanto è possibile che l'uomo viva staccato affatto dalla natura,
dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni [217]e visioni. A
riparlarci di qui a cent'anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate
età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento
senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno
questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri.
(18-20. Agosto 1820.)
Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet
ha soggiogato la sua lingua al suo genio. Io dico che il suo genio è
stato soggiogato dalla lingua costumi gusti del suo paese. I francesi che
scrivono sempre come conversano, timidissimi per conseguenza, o piuttosto codardi,
come dev'esser quella nazione presso cui un tratto di ridicolo scancella
qualunque più grave e seria impressione, e fa più romore degli
affari e pericoli di Stato, si maravigliano d'ogni minimo ardire, e stimano
sforzi da Ercole quelli che in Italia e nel resto d'Europa sono soltanto deboli
argomenti d'ingegno robusto, libero, inventore e originale. E per una parte
hanno ragione, perchè l'osar poco in Francia, dove la regola è di
vivre et faire comme tout monde, costa assai più che l'osar molto
altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire, e questa
robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete che
appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il [218]sentimento
ch'io provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un movimento forte,
sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per seguitarlo, trovo che
non c'è da far altro, e ch'egli è già tornato a parler
comme tout le monde. Cosa che produce una grande pena e disgusto e
secchezza nella lettura. Questo non ha che fare colle inuguaglianze proprie dei
grandi geni. Nessun genio si ferma così presto come Bossuet. Si vede
propriamente ch'egli è come incatenato, e fa sforzi più penosi
che grandiosi per liberarsi. E il lettore prova appunto questo medesimo stato.
E perciò volendo convenire che Bossuet sia stato veramente un genio,
bisogna confessare che tentando di domar la sua lingua e la sua nazione,
n'è stato domato. Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani. Se non
che la voce di tutta la Francia ha tanta forza, che forma il giudizio d'Europa.
E il ridirsi è quasi impossibile. Sicchè queste parole intorno a
Bossuet sieno dette inutilmente.
(20. Agosto 1820.)
Non è cosa così dispiacevole
come il vedere uno scrittore dopo intrapreso un gran movimento, immagine,
sublimità ec. mancar come di fiato. È cosa che in certo modo
rassomiglia agli sforzi impotenti di chi si vede che vorrebbe esser grande,
bello ec. nello scrivere, e non può. Ma questa è più
ridicola, quella più penosa. In Bossuet l'incontri a ogni momento. Una
grande spinta; credi che seguiterà l'impulso, ma è già
finito. Quando anche [219]il seguito del suo parlare sia forte magnifico
ec. non è più fuoco naturale, ma artifiziale, e preso dai soliti
luoghi. Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur momentanea, e queste
lagune sono immense e frequentissime. Perchè se la morale ch'egli sempre
predica è sublime, sono sublimità ordinarie, e appartengono al
consueto stile degli oratori, non hanno che fare coll'entusiasmo proprio e
presente. Ma tu vorresti ch'egli esaurisse l'affetto ec. Non mi state a
insegnare quello che tutti sanno. Dall'eccesso al difetto ci corre un gran
divario. Ed è contro natura che un uomo quando si è abbandonato
all'entusiasmo, ritorni in calma, appena incominciata l'agitazione. E non
c'è cosa più dispettosa che l'essere arrestato in un movimento
vivo e intrapreso con tutte le forze dell'animo o del corpo. Leggendo i passi
più vivi di Bossuet il passaggio istantaneo e l'alternativa continua e
brusca del moto brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e
travagliare. Si accerti lo scrittore o l'oratore, che finattanto che non si
stancano le sue forze naturali (non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il
lettore o uditore si stanca. E fino a quel punto non tema di peccare in eccesso.
Il quale anzi è forse meno penoso del difetto, in quanto il lettore
sentendosi stanco, lascia di seguir lo scrittore, e anche leggendo, riposa. Ma
obbligato [220]a fermarsi prima del tempo, non può, come nell'altro
caso, disubbidire allo scrittore, il quale per forza gli taglia le ali. In
somma se l'eloquenza è composta di movimenti ed affetti della specie
descritta, e di freddezze e trivialità mortali nel resto, allora Bossuet
sarà veramente eloquente in mezzo agli eleganti del suo secolo, come
dice Voltaire.
(21. Agosto 1820.)
Si dice con ragione che al mondo si
rappresenta una Commedia dove tutti gli uomini fanno la loro parte. Ma non era
così dell'uomo in natura, perchè le sue operazioni non avevano in
vista gli spettatori e i circostanti, ma erano reali e vere.
Della natura abbiamo tutto perduto
fuorchè i vizi. Veramente molti di questi non sono naturali, molti sono
peggiorati e accresciuti, ma molti saranno ancora primitivi, e in ogni modo non
c'è vizio primitivo che non ci rimanga. E tanto più malvagi
quanto non sono contemperati colle virtù e con altre qualità che
la natura avea poste in noi.
La compassione spesso è fonte di
amore, ma quando cade sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che
aggiunta la compassione lo possano divenire. E questa è la compassione
che interessa e dura e si riaffaccia più volte all'anima. Maggiori
calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non amabile, come in persona
vecchia e brutta, non destano che una compassione passeggera, la quale [221]finisce
ordinariamente colla presenza dell'oggetto, o dell'immagine che ce ne fanno i
racconti ec. (E l'anima non se ne compiace, e non la richiama.) I quali ancora
bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci momentaneamente, laddove
poche parole bastano per farci compatire una giovane e bella, ancorchè
non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò Socrate
sarà sempre più ammirato che compianto, ed è un pessimo
soggetto per tragedia. E peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse
dei brutti sventurati. Così il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia
caso o genere di poesia, si deve ben guardare dal dar sospetto ch'egli sia
brutto, perchè nel leggere una bella poesia noi subito ci figuriamo un
bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe disgustosissimo. Molto più s'egli
parla di se, delle sue sventure, de' suoi amori sfortunati, come il Petrarca
ec.
La vispezza e tutti i movimenti, e la
struttura di quasi tutti gli uccelli, sono cose graziose.
(21. Agosto 1820.)
E però gli uccelli ordinariamente
sono amabili.
Quella tal compassione che ho detto per
oggetti non amabili, si rassomiglia molto e partecipa del ribrezzo, come se noi
vediamo tormentare una bestia ec. E perciò a destarla ci vogliono grandi
calamità, altrimenti la compassione per li piccoli mali di quei tali
oggetti, appena, o forse neppur si desta negli stessi animi ben fatti.
(21. Agosto 1820.).
[222]Ses héros aiment mieux
étre écrasés par la foudre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS
INFLEXIBLE QUE LA LOI FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy dove discorre di Eschilo.
(22. Agosto 1820.)
La lettura per l'arte dello scrivere
è come l'esperienza per l'arte di viver nel mondo, e di conoscer gli
uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione, specialmente a
quello che è avvenuto a voi stesso nello studio della lingua e dello
stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto
dell'esperienza rispetto al mondo.
(22. Agosto 1820.)
Dice Macchiavelli che a voler conservare un
regno una repubblica o una setta, è necessario ritirarli spesso verso i
loro principii. Così tutti i politici. V. Montesquieu, Grandeur etc.
ch.8. dalla metà in poi, dove parla dei Censori. Giordani sulle poesie
di M. di Montrone applica questo detto alle arti imitatrici. Ai
principii s'intende, non quando erano bambine, ma a quel primo tempo in cui
ebbero consistenza. (Così anche si potrebbe applicare alle lingue.) Ed
io dico nello stesso senso; a voler conservare gli uomini, cioè farli
felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire alla natura. - Oh
pazzia. Tu non sai che la perfettibilità dell'uomo è dimostrata.
- Io vedo che di tutte le altre opere della natura è dimostrato tutto
l'opposto, cioè che non si possono perfezionare, ma alterandole, si
può solamente corromperle, e questo principalmente per nostra mano. Ma
l'uomo si considera quasi come fuori della natura, e non sottomesso alle leggi
naturali che governano tutti gli esseri, e appena si riguarda come [223]opera
della natura. - Frattanto l'uomo è più perfetto di prima. - Tanto
perfetto che, tolta la religione, gli è più spediente il morire
di propria mano che il vivere. Se la perfezione degli esseri viventi si misura
dall'infelicità, va bene. Ma che altro indica il grado della loro perfezione
se non la felicità? E qual altro è il fine, anzi la perfezione
dell'esistenza? in fatto sta che oggidì pare assurdo il richiamare gli
uomini alla natura, e lo scopo vero e costante anche dei più savi e
profondi filosofi, è di allontanarneli sempre più, quantunque
alle volte credano il contrario, confondendo la natura colla ragione. Ma anche
non confondendola, credono che l'uomo sarà felice quando si
regolerà intieramente secondo la pura ragione. Ed allora si
ammazzerà da se stesso.
(23. Agosto 1820.). V. p.358.
J, conferre
ad virtutem capessendam, era insegnamento della setta Cirenaica, o sia de'
seguaci puri di Aristippo. Laerz. in Aristippo l.2. segm.91.
(23. Agosto 1820.)
J. Insegnamento
della stessa setta. Ivi segm.93.
(24. Agosto 1820.)
Lord Byron nelle annotazioni al Corsaro
(forse anche ad altre sue opere) cita esempi storici, di quegli effetti delle [224]passioni,
e di quei caratteri ch'egli descrive. Male. Il lettore deve sentire e non
imparare la conformità che ha la tua descrizione ec. colla verità
e colla natura, e che quei tali caratteri e passioni in quelle tali circostanze
producono quel tale effetto; altrimenti il diletto poetico è svanito, e
la imitazione cadendo sopra cose ignote, non produce maraviglia, ancorchè
esattissima. Lo vediamo anche nelle commedie e tragedie, dove certi caratteri
straordinari affatto, benchè veri, non fanno nessun colpo. V. il
discorso sui romantici, intorno agli altri oggetti d'imitazione. E come non
produce maraviglia, così neanche affetti e sentimenti, e corrispondenza
del cuore a ciò che si legge o si vede rappresentare. E la poesia si
trasforma in un trattato, e l'azione sua dall'immaginazione e dal cuore passa
all'intelletto. Effettivamente la poesia di Lord Byron sebbene caldissima,
tuttavia per la detta ragione, la quale fa che quel calore non sia
communicabile, è nella massima parte un trattato oscurissimo di psicologia,
ed anche non molto utile, perchè i caratteri e passioni ch'egli descrive
sono così strani che non combaciano in verun modo col cuore di chi
legge, ma ci cascano sopra disadattamente, come per angoli e spicoli, e
l'impressione che ci fanno è molto più esterna che interna. E noi
non c'interessiamo vivamente se non per li nostri simili, e come gli enti
allegorici, o le piante o le bestie ec. così gli uomini [225]di
carattere affatto straordinario non sono personaggi adattati alla poesia.
Già diceva Aristotele che il protagonista della tragedia non doveva
essere nè affatto scellerato nè affatto virtuoso. Schernite pure
Aristotele quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo che abbian
fatto); alla fine la vostra psicologia, s'è vera, vi deve ricondurre
allo stesso luogo, e a ritrovare il già trovato.
(24. Agosto 1820.). V. p.238. pensiero 1.
La sola cosa che deve mostrare il poeta
è di non capire l'effetto che dovranno produrre in chi legge, le sue
immagini, descrizioni, affetti ec. Così l'oratore, e ogni scrittore di
bella letteratura, e si può dir quasi in genere, ogni scrittore. Il ne paraît point chercher à vous attendrir:, dice di Demostene il Card. Maury Discours sur l'Éloquence,
écoutez-le cependant, et il vous fera pleurer par réflexion. E
quantunque anche la disinvoltura possa essere affettata, e da ciò guasta,
tuttavia possiamo dire iperbolicamente, che se veruna affettazione è
permessa allo scrittore, non è altra che questa di non accorgersi
nè prevedere i begli effetti che le sue parole faranno in chi
leggerà, o ascolterà, e di non aver volontà nè scopo
nessuno, eccetto quello ch'è manifesto e naturale, di narrare, di celebrare,
compiangere ec. Laonde è veramente miserabile e barbaro quell'uso moderno
di tramezzare tutta la scrittura o poesia di segnetti e [226]lineette, e
punti ammirativi doppi, tripli, ec. Tutto il Corsaro di Lord Byron (parlo della
traduzione non so del testo nè delle altre sue opere) è tramezzato
di lineette, non solo tra periodo e periodo, ma tra frase e frase, anzi spessissimo
la stessa frase è spezzata, e il sostantivo è diviso dall'aggettivo
con queste lineette (poco manca che le stesse parole non siano così
divise), le quali ci dicono a ogni tratto come il ciarlatano che fa veder
qualche bella cosa; fate attenzione, avvertite che questo che viene è
un bel pezzo, osservate questo epiteto ch'è notabile, fermatevi sopra
questa espressione, ponete mente a questa immagine ec. ec. cosa che fa
dispetto al lettore, il quale quanto più si vede obbligato a fare
avvertenza, tanto più vorrebbe trascurare, e quanto più quella
cosa gli si dà per bella, tanto più desidera di trovarla brutta,
e finalmente non fa nessun caso di quella segnatura, e legge alla distesa, come
non ci fosse. Lascio l'incredibile, continuo e manifestissimo stento con cui il
povero Lord suda e si affatica perchè ogni minima frase, ogni minimo
aggiunto sia originale e nuovo, e non ci sia cosa tanti milioni di volte detta,
ch'egli non la ridica in un altro modo, affettazione più chiara del
sole, che disgusta eccessivamente, e oltracciò stanca per
l'uniformità, e per la continua fatica dell'intelletto necessaria a
capire quella studiatissima oscurissima e perenne originalità.
(25. Agosto 1820.)
[227]Come le persone di poca
immaginazione e sentimento non sono atte a giudicare di poesia, o scritture di
tal genere, e leggendole, e sapendo che sono famose, non capiscono il
perchè, a motivo che non si sentono trasportare, e non s'immedesimano in
verun modo collo scrittore, e questo, quando anche siano di buon gusto e
giudizio, così vi sono molte ore, giorni, mesi, stagioni, anni, in cui
le stesse persone di entusiasmo ec. non sono atte a sentire, e ad essere
trasportate, e però a giudicare rettamente di tali scritture. Ed
avverrà spesso per questa ragione, che un uomo per altro, capacissimo
giudice di bella letteratura, e d'arti liberali, concepisca diversissimo
giudizio di due opere egualmente pregevoli. Io l'ho provato spesse volte.
Mettendomi a leggere coll'animo disposto, trovava tutto gustoso, ogni bellezza
mi risaltava all'occhio, tutto mi riscaldava, e mi riempieva d'entusiasmo, e lo
scrittore da quel momento mi diventava ammirabile, ed io continuava sempre ad
averlo in gran concetto. In questa tal disposizione, forse il giudizio
può anche peccare attribuendo al libro ec. quel merito che in gran parte
spetta al lettore. Altre volte mi poneva a leggere coll'animo freddissimo, e le
più belle, più tenere, più profonde cose non erano capaci
di commuovermi: per giudicare non mi restava altro [228]che il gusto e
il tatto già formato. Ma il mio giudizio si ristringeva così alle
cose esterne, e nelle interne a una congettura dell'effetto che l'opera potesse
produrre in altrui. E l'opera non mi restava per conseguenza in grande
ammirazione. E noterò ancora che alle volte un'altra persona che si
trovava in circostanza da esser commosso, mi diceva mari e monti di quel libro,
ch'egli leggeva nel medesimo tempo. Questa considerazione deve servire
(25. Agosto 1820.)
Torno, tornio, tornire, torno torno,
intorno, attorno derivano dal greco ec. da; onde
anche in latino, tornus, tornare ec.
(26. Agosto 1820.)
Uomo o uccello o quadrupede ucciso in
campagna dalla grandine. V. p.85.
Il volume delle frutta de' nostri paesi va,
non esattamente, ma in genere, appresso a poco in ragione inversa della grandezza
delle piante fruttifere. Piccoli arboscelli producono la zucca, il cocomero
(uno in quest'anno se n'è veduto [229]fra noi del peso di
(30. Agosto 1820.)
L'abuso e la disubbidienza alla legge, non
può essere impedita da nessuna legge.
Il sistema di Napoleone metteva in somma le
sostanze dei privati inabili e inerti fra le mani degli abili e attivi, e il
suo governo, contuttochè dispotico, perciò appunto conservava una
vita interna, che non si trova mai ne' governi dispotici, e non sempre nelle
repubbliche, perchè l'uomo di talento e volontà di operare, era
quasi sicuro di trovare il suo posto di onore e di guadagno. Al che contribuiva
la moltiplicità infinita degl'impieghi la quale faceva che ogni uomo
abile ed operoso potesse essere mantenuto e arricchito a spese dei privati
inabili e pigri. (Oltre una certa sagacità ed equità nella scelta
dei talenti e delle persone). E per una parte non aveva il torto, perchè
il privato incapace e indolente, nè beneficato giova, nè
maltrattato nuoce alle cose pubbliche. E ne seguiva che tutto il corpo che
sotto qualunque governo sarebbe stato morto, si lagnasse di lui, e tutto quello
che parte sarebbe stato vivo in qualunque circostanza, parte lo era per la natura
e l'efficacia del suo governo, se ne lodasse.
(31. Agosto 1820.)
[230]Dice il Casa (Galateo c.3.)
che non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via, come
occorse alle volte, cosa stomachevole, il rivolgersi a' compagni, e mostrarla
loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni
soglion fare, con grandissima istanza pure accostandocela al naso, e dicendo:
Deh sentite di grazia come questo pute. Non solo dunque il piacere che si
prova, ma anche alcuni incomodi (oltre i dolori delle sventure ec.) si vogliono
quasi per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione
ci diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque
l'uomo è fatto per vivere in società. Ma io dico anzi che questa
inclinazione o desiderio, benchè paia naturale, è un effetto
della società, bensì effetto prontissimo e facile, perchè
si dimostra anche ne' fanciulli, e forse più spesso che negli adulti. V.
p.208. e 85. fine.
(4. Settembre 1820.)
Intertenere è
composto di una preposizione totalmente latina inter, che gl'italiani
dicono tra, onde trattenere ch'è quasi una traduzione d'intertenere.
E come trattenere manifesta origine italiana, così l'altro verbo
si dimostra palesemente per derivato dal latino a noi, non essendo verisimile
che gli antichi italiani inventassero una parola di questa forma. Interporre,
intercedere, interregno, sono parimente derivate dall'antico latino.
[231](Socrate)JJdice il
Laer. in Socr. l.2. segm.31. Oggidì possiamo dire tutto l'opposto, e
questa considerazione può servire a definire la differenza che passa tra
l'antica e la moderna sapienza.
Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e
più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti
d'oggidì, non solo in proporzione dei tempi, ma anche assolutamente.
Bisogna distinguere la cognizione materiale dalla filosofica, la cognizione
fisica dalla matematica, la cognizione degli effetti dalla cognizione delle
cause. Quella è necessaria alla fecondità e varietà
dell'immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia
dell'imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta.
Allora giova sommamente al poeta l'erudizione, quando l'ignoranza delle cause,
concede al poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso,
l'attribuire gli effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua
fantasia.
(5.
Settembre 1820.)
C'est que cela me donnera un battement de coeur, répondit - elle NAÎVEMENT; et je suis si heureuse quand le coeur me
bat! dice Lady Morgan (France. l.3. 1818. t.1 p.218.) di una Dama francese [232]e
civetta. Queste naïvetés negli scrittori francesi, come p.e. nel
Tempio di Gnido, contrastano in maniera col carattere del loro stile, della
loro lingua quale è ridotta presentemente, (giacchè nel francese
antico avrebbero fatto diversissima figura) e anche col carattere nazionale,
che sono piuttosto affettazioni che naturalezze, e non fanno verun buono
effetto, ma semplicemente risaltano, come una singolarità ricercata,
nello stesso modo che p.e. nello stile greco risalterebbero le eleganze e il
manierato del francese, e contrasterebbero col rimanente.
L'origine del sentimento profondo
dell'infelicità, ossia lo sviluppo di quella che si chiama
sensibilità, ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle
grandi e vive illusioni; e infatti l'espressione di questo sentimento, comparve
nel Lazio col mezzo di Virgilio, appunto nel tempo che le grandi e vive
illusioni erano svanite pel privato romano che n'era vissuto sì lungo
tempo, e la vita e le cose pubbliche aveano preso l'andamento dell'ordine e
della monotonia. La sensibilità che si trova nei giovani ancora
inesperti del mondo e dei mali, sebbene tinto di malinconia, è diverso
da questo sentimento, e promette e dà a chi lo prova, non dolore ma
piacere e felicità.
(6. settembre 1820.)
[233]A un gran fautore della
monarchia assoluta che diceva, La costituzione d'Inghilterra è cosa
vecchia e adattata ad altri tempi, e bisognerebbe rimodernarla, rispose uno
degli astanti, È più vecchia la tirannia.
(7.
Settembre 1820.)
Al
capoverso primo della p.206. aggiungi: Et si elles (les Françoises) ont un
amant, elles ont autant de soin de ne pas donner à l'heureux mortel des
marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne pas paroître
amoureux de sa femme en compagnie. Morgan, France. t.1.1818. p.253. liv.3.
A quello che ho detto p.207. si può
aggiungere quello che dice Algarotti dell'immenso studio che bisogna
oggidì per divenir letterato di qualche pregio nel mondo, dove non passa
più per vero letterato chi non è enciclopedico, studio al quale
solo basta appena la vita dell'uomo innanzi di poterlo mettere a frutto coi
parti del proprio ingegno, a differenza del poco studio che bisognava agli
antichi.
(8. settembre 1820.)
La compassione come è determinata in
gran parte dalla bellezza rispetto ai nostri simili, così anche rispetto
agli altri animali, quando noi li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza,
una grande e somma origine di compassione sia la differenza [234]del
sesso, è cosa troppo evidente, quando anche l'amore non ci prenda
nessuna parte. P.e. ci sono molte sventure reali e tuttavia ridicole, delle
quali vedrete sempre ridere molto più quella parte degli spettatori che
è dello stesso sesso col paziente, di quello che faccia o sia disposta o
inclinata a fare l'altra parte, massimamente se questa è composta di
donne, perchè l'uomo com'è più profondo nei suoi sentimenti,
così è molto più duro e brutale nelle sue insensibilità
e irriflessioni. E questo, tanto nel caso della bellezza, quanto della
bruttezza o mediocrità del paziente. Del resto è così vero
che le piccole sventure dei non belli non ci commuovono quasi affatto, che bene
spesso siamo inclinati a riderne.
Come la debolezza è un grande
eccitamento alla compassione, anche rispetto ai non belli, così non
è forse cosa tanto contraria alla compassione, quanto il veder l'impazienza
del male, la malignità dello spirito, pronto a schernire lo stesso o altro
male o difetto in altrui, il cattivo umore, la collera di chi soffre. E
pochissima o nessuna compassione può sperare chi non ha sortito dalla [235]natura
o acquistato dalla disgrazia una dolcezza e mansuetudine di carattere, almeno apparente.
E questo deve servir di regola ai poeti ed artisti nel formare i personaggi che
si vogliono compassionevoli. Sebbene l'eroismo, e il disprezzo del male che si
soffre possa ancora produrre un buon effetto, contuttociò relativamente
al muover la compassione non c'è miglior qualità della
sopraddetta, qualità la quale io so per esperienza che si acquista quasi
per forza coll'uso delle sventure, non ostante che naturalmente fossimo
dominati dalla qualità contraria.
Non è cosa tanto nemica della
compassione quanto il vedere uno sventurato che non è stato in niente
migliorato, nè ha punto appreso dalle lezioni della sventura, maestra
somma della vita. Perchè la prosperità abbagliando e distraendo
l'intelletto, è madre e conservatrice d'illusioni, e la sventura
dissipatrice degl'inganni, e introduttrice della ragione e della certezza del
nulla delle cose. E uno sventurato che non ha goccia di sentimento, che non
arriva a sublimare un istante l'anima sua colla considerazione dei mali, che
non ha acquistato nelle sue parole, almeno quando parla di se, niente di
eloquenza e di affetto, che non mostra una certa grandezza d'animo, non per
disprezzare, ma per nobilitare la sua sventura [236]quasi col sentimento
di esserne indegno, e di non lasciarsene abbattere senza una magnanima compassione
di se; uno sventurato che vi parla delle sue sventure, coll'amor proprio il
più basso, col dolore il più egoista, e vi fa capire che egli
è tanto afflitto del male che soffre, che voi non potreste mai arrivare
(notate) ad uguagliare l'afflizion sua colla vostra compassione (l'uomo
veramente penetrato di compassione si persuade che il paziente non sia
più addolorato di lui, in somma non fa differenza fra il paziente e se
stesso, essendo pronto a tutto per aiutarlo, e perciò non mette divario
tra il dolore del paziente e il suo proprio); questo sventurato non
otterrà forse un'ombra di compassione, e il suo male sarà
dimenticato, appena saremo lontani da lui.
Tutto quello che ho detto in parecchi luoghi
dell'affettazione dei francesi, della loro impossibilità di esser
graziosi ec. bisogna intenderlo relativamente alle idee che le altre nazioni o
tutte o in parte, o riguardo al genere, o solamente ad alcune
particolarità, hanno dell'affettazione grazia ec. perchè riflette
molto bene Morgan France l.3. t.1 p.257. Il faut pourtant accorder beaucoup à la différence des
manières nationales; et celles de la femme françoise la plus amie du naturel
doivent porter avec elle ce qu'un Anglois, dans le premier moment, jugera une
teinte d'affectation, jusqu'à ce que l'expérience en fasse mieux juger.
(9. settembre 1820.)
[237]Anche l'affettazione è
relativa, e la tal cosa parrà affettazione in un paese e in un altro no,
in una lingua e in un'altra no, o maggiore in questa e minore in quella,
dipendendo dalle abitudini, opinioni ec. L'espressione del sentimentale
conveniente in Francia sarà affettata per noi, quella conveniente per
noi, sarebbe parsa affettazione agli antichi. La grazia francese affettata per
noi, non lo sarà per loro. Tuttavia è certo che la naturalezza ha
un non so che di determinato e di comune, e che si fa conoscere e gustare da
chicchessia, ma com'ella si conosce quando si trova, così le assuefazioni
ec. impediscono spessissimo di essere choqués della sua mancanza, e di
avvedercene. V. p.201. fine.
La semplicità dev'esser tale che lo
scrittore, o chiunque l'adopra in qualsivoglia caso, non si accorga, o mostri
di non accorgersi di esser semplice, e molto meno di esser pregevole per questo
capo. Egli dev'esser come inconsapevole non solo di tutte le altre bellezze
dello scrivere, ma della stessa semplicità. Homme d'une simplicité rare, dice
La Harpe di La Fontaine (Éloge de La Fontaine), qui sans doute ne
pouvait pas ignorer son genie, mais ne l'appréciait pas, et qui même,
s'il pouvait être témoin des honneurs qu'on lui rend aujourd'hui, serait
étonné de sa gloire, et aurait besoin qu'on lui révélât le secret de son mérite.
La stessa cosa [238]in molto maggior grado si può dire degli
scritti di Senofonte, e caratterizzarne la semplicità.
(10. settembre 1820.)
Sono state sempre derise quelle poesie che
aveano bisogno di note per farsi intendere. E tuttavia queste note riguardavano
cose accessorie o secondarie, nomi, allusioni, fatti poco noti e male espressi
ec. Che si dirà di quei poemi che hanno bisogno di note dichiarative
delle cose sostanziali e principali, vale a dire dei caratteri, e delle
proprietà ed operazioni del cuore umano che descrivono, come sono i
poemi di Lord Byron? Questi sono i riformatori della poesia? Questi sono i
grandi psicologi? Ma senza psicologia sapevamo già da gran tempo che in
questo modo non si fa effetto in chi legge. V. le p.223-225.
La negligenza e l'irriflessione spessissimo
ha l'apparenza e produce gli effetti della malvagità e brutalità.
E merita di esser considerata come una delle principali e più frequenti
cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico
assai filosofo e sensibile, vedemmo un giovanastro che con un grosso bastone,
passando sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero
cane che se ne stava pe' fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno
all'amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione.
[239]Questa molte volte c'induce a far cose dannosissime o penosissime
altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria
e giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare il suo servitore
alla pioggia ec.) e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso
detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo,
e lo facciamo così alla buona, e considerandolo bene non lo faremmo.
Così la trascuranza prende tutto l'aspetto, e produce lo stessissimo
effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta
che tu riflettessi, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel
tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia
che fare col tuo carattere.
(11 settembre 1820.)
Non per altro che per odio della noia
vediamo oggidì concorrere avidamente il popolo agli spettacoli
sanguinosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri, che non hanno niente di
piacevole in se (come potevano averne quelli de' gladiatori e delle bestie nel
circo, per la gara, l'apparato ec.) ma solamente in quanto fanno un vivo contrasto
colla monotonia della vita. Così tutte le altre cose straordinarie, e
perciò gradite, benchè non solo non piacevoli, ma dispiacevolissime
in se.
Dall'orazione di M. Tullio pro Archia
si vede che la lingua greca era considerata allora come [240]universale,
nello stesso modo che la francese oggidì, e l'uso e intelligenza della
lingua latina era ristretta a pochi, Latina suis finibus, exiguis sane,
continentur. Perciocchè le scritture greche si leggono in quasi tutte le
genti, le latine restano dentro a' loro confini così stretti come sono.
Cic. l.c. E nondimeno l'impero romano fu forse il maggiore di quanti mai si
viddero, e i romani al tempo di Cicerone, erano già padroni del mare, ed
esercitavano gran commercio. Così ora si vede che gl'inglesi sono
padroni del mare e del commercio, e sebbene la loro lingua, è
perciò più diffusa di molte altre, nondimeno non è
nè conosciuta nè usata universalmente, ma da pochi in ciascun
paese, e cede di gran lunga alla francese, che non s'è mai trovata
favorita da un commercio così vasto. Onde si può ben dedurre, che
la diffusione di una lingua, se ha bisogno di una certa grandezza e influenza
della nazione che la parla (perchè la lingua francese, per quanto adattata
alla universalità, non sarebbe divenuta universale, se avesse
appartenuto a una piccola, e impotente nazione p.e. alla Svizzera),
contuttociò dipende principalmente dalla natura di essa lingua. Non vale
il dire che i greci erano diffusissimi per le colonie. Molto più lo
erano i romani in quel tempo, e non solo per le colonie, ma per le armate,
governi, tribunali ec. ec. Ma quando una lingua si diffonde per mezzo delle
colonie, si può dire che si diffonda piuttosto la nazione che la lingua,
essendo [241]ben naturale che una città di romani in qualunque
luogo del mondo, parli la lingua romana, e così un'armata ec. Ma questo
non ha che fare coll'adottarsi generalmente una lingua dagli stranieri, coll'essere
tutti gli uomini colti di qualunque nazione, quasi , (v.
p.684.) e col potere un viaggiatore farsi intendere con quella lingua in
qualunque luogo. Ora in questo consiste l'universalità di una lingua, e
non 1. nell'esser parlata da' nazionali suoi, in molte parti del mondo, 2.
nell'essere anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli che la
parlano naturalmente, sia coll'abolire la lingua dei vari paesi (quando anzi la
suppone
che questa si conservi), sia coll'alterarla o corromperla più o meno per
mezzo della mescolanza. Cosa che vediamo accaduta nel latino, del quale si
trovano vestigi notabilissimi in molte parti d'Europa (forse anche di fuori)
(come se non erro in Transilvania, in Polonia, in Russia ec.) e si vede ch'ella
si era stabilita nella Spagna e la Francia dove poi ne derivarono,
corrompendosi la latina, le lingue spagnuola e francese; e nell'Affrica
Cartaginese e Numidica ec.; quando della greca forse non si troveranno, o meno;
e contuttociò la lingua latina non è stata mai universale nel
senso spiegato di sopra, come non è universale oggi la lingua inglese
perciò ch'ella è stabilita e si parla come lingua materna in
tutte quattro le parti del mondo. (in ciascuna delle quattro parti). È
noto poi come i greci l'ignorassero sempre, il che forse contribuì a
conservar più a lungo la purità della loro lingua, la sola che
conoscessero. E quanto [242]alle colonie la Francia ha sempre o quasi
sempre ceduto all'Inghilterra, alla Spagna, e fino al Portogallo, come nel
commercio. Neanche la letteratura è cagione principale della universalità
di una lingua. La letteratura italiana primeggiò lungo tempo in Europa,
ed era conosciuta e studiata per tutto, anche dalle dame, come in Francia da
Mad. di Sévigné ec. senza che perciò la lingua italiana fosse mai
universale. E se gl'italianismi guastavano la lingua francese al tempo delle
Medici, come ora i francesismi guastano l'italiano, questo va messo nella
stessa categoria della corruzione che producono le colonie, le armate ec.
(corruzione facilissima e sensibilissima. Pochi soldati napoletani stanziati
nella mia patria al mio tempo per uno o due anni, aveano introdotto nel volgo
parecchie parole ed espressioni del loro dialetto. Perchè il volgo 1.
era colpito da quella novità. 2 si faceva un pregio o un capriccio
d'imitare quei forestieri ec.). La letteratura, lingua e costumi spagnuoli si
divulgarono molto, quando la Spagna acquistò una certa preponderanza in
Europa, e massime in Italia (dove restano ancora alcune parole derivate credo
allora dallo spagnuolo), ma l'influenza loro finì con quella della
nazione. Laonde sebbene la letteratura greca, massime al tempo di Cicerone
cioè [243]prima del secolo di Augusto, era infinitamente
superiore alla latina, e più divulgata e famosa, questa ragione non
basta. L'universalità di una lingua deriva principalmente, dalla
regolarità geometrica e facilità della sua struttura,
dall'esattezza, chiarezza materiale, precisione, certezza de' suoi significati
ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione,
e nel puro senso comune, ma non hanno che far niente colla bellezza, ricchezza
(anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica), dignità,
varietà, armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto meno
conferiscono o importano alla universalità di una lingua, quanto 1. non
possono esser sentite intimamente, e pregiate se non dai nazionali, 2.
ricercano abbondanza d'idiotismi, figure, insomma irregolarità, che
quanto sono necessarie alla bellezza e al piacere, il quale non può mai
stare colla monotonia, e collo scheletro dell'ordine matematico, tanto nocciono
alla mera utilità, alla facilità ec. La lingua greca sebbene
ricchissima ec. ec. ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione
(dico nativa, perchè poi fu alterata dagli scrittori più bassi
che pretendevano all'eleganza), laddove la latina era estremamente figurata, e
la proprietà de' suoi composti le dava una facilità e precisione
materialissima di significati, sebbene nuocesse non poco alla varietà la
quale non può risultare [244]dalla copia de' composti ma delle
radici, come nel latino e italiano. E di queste pure la lingua greca abbonda
sommamente, ma può anche fare a meno della massima parte, e con poche
radici, e infiniti composti formare tutto il discorso. Tale infatti era il
costume degli antichi scrittori greci (Luciano e gli altri più bassi,
sono molto più vari e ricchi di radici). Perchè il vocabolario di
ciascheduno, osservandolo bene, si compone di molto poche parole, che ritornano
a ogni tratto, essendo raro che quegli antichi varino la parola o la frase per
esprimere una stessa cosa. Onde segue che siccome la lingua greca per se stessa
è immensa, così passando da uno scrittore all'altro, ritrovate un
altro piccolo vocabolario suo proprio, del quale parimente si contenta, e le
espressioni familiari di ciascuno autor greco sono moltissime e continue, ma
diverse quelle dell'uno da quelle dell'altro, quasi fossero più lingue.
Dal che si può dedurre che la lingua greca benchè ricchissima nondimeno
con un piccolo vocabolario può comporre tutto il discorso, e questi
vocabolari possono esser molti e diversi, cosa dimostrata dal fatto, e dal
vedersi negli scrittori greci più che in quelli d'altra lingua, che la
facilità acquistata nel leggere e intendere uno scrittore, non vi giova
interamente nel passare a un altro, dovendovi quasi familiarizzare con un altro
linguaggio. Questo appartiene esclusivamente alla lingua, ma anche bisogna [245]notare
che la lingua greca come l'italiana, si presta a ogni sorta di stili, e non ha
carattere determinato, ma lo riceve dal soggetto e dallo scrittore, laonde il
suo carattere varia, anche in questo senso, e per questo motivo, secondo le
diverse opere, come la lingua di Dante o dell'Alfieri paragonata con quella del
Petrarca ec.
(12-13-14. settembre 1820.). V. p.1029. fine.
L'irresoluzione è peggio della
disperazione. Questa massima mi venne profferita nettamente e letteralmente in
sogno l'altro ieri a notte, in occasione che mio fratello mi pareva deliberato
per disperazione di farsi Cappuccino, e io ricusava di allegargli quelle
ragioni che gli avrebbero sospeso l'animo, adducendo la detta massima.
(14. Settembre 1820.)
La lirica si può chiamare la cima il
colmo la sommità della poesia, la quale è la sommità del
discorso umano. Però i francesi che sono rimasti molte miglia indietro
del sublime nell'epica, molto meno possono mai sperare una vera lirica, alla
quale si richiede un sublime d'un genere tanto più alto. Il Say nei
Cenni sugli uomini e la società, chiama l'ode, la sonata della
letteratura. È un pazzo se stima che l'ode non possa esser altro, ma ha
gran ragione e intende parlare delle odi che esistono, massime delle francesi.
[246]I francesi non solamente non
sono atti al sublime, nè avvezzi a sentirlo dai loro nazionali, o a
produrlo in qualunque forma (applicate questa osservazione ch'è anche
letteralmente di Lady Morgan, e universale, ai miei pensieri sopra Bossuet), ma
disublimano ancora le cose veramente sublimi, come nelle traduzioni ec.
Dalla teoria del piacere esposta in questi
pensieri si comprende facilmente quanto e perchè la matematica sia
contraria al piacere, e siccome la matematica, così tutte le cose che le
rassomigliano o appartengono, esattezza, secchezza, precisione, definizione,
circoscrizione, sia che appartengano al carattere e allo spirito dell'individuo,
sia a qualunque cosa corporale o spirituale.
Tant'è. Le cose per se stesse non
sono piccole. Il mondo non è una piccola cosa, anzi vastissima e
massimamente rispetto all'uomo. Anche l'organizzazione de' più minuti e
invisibili animaluzzi è una gran cosa. La varietà della natura
solamente in questa terra è infinita; che diremo poi degli altri
infiniti mondi? Sicchè per una parte si può dire che non la
grandezza delle cose, ma anzi la loro nullità così evidente e
sensibile all'uomo, è una pura illusione. Ma basta che l'uomo abbia veduto
la misura di una cosa ancorchè smisurata, basta che sia giunto a
conoscerne [247]le parti, o a congetturarle secondo le regole della
ragione; quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente,
ed egli ne rimane scontentissimo. Quando il Petrarca poteva dire degli
antipodi, e che 'l dì nostro vola A gente che di là FORSE l'aspetta,
quel forse bastava per lasciarci concepir quella gente e quei paesi come
cosa immensa, e dilettosissima all'immaginazione. Trovati che si sono,
certamente non sono impiccoliti, nè quei paesi son piccola cosa, ma
appena gli antipodi si son veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza
ogni bellezza ogni prestigio dell'idea che se ne aveva. Perciò la
matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e
circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini (sieno pure vastissimi,
anzi sia pur vinta l'immaginazione dalla verità), analizza,
quando il piacer nostro non vuole analisi nè cognizione intima ed esatta
della cosa piacevole (quando anche questa cognizione non riveli nessun
difetto nella cosa, anzi ce la faccia giudicare più perfetta di quello
che credevamo, come accade nell'esame delle opere di genio, che scoprendo [248]tutte
le bellezze, le fa sparire), la matematica, dico, dev'esser necessariamente
l'opposto del piacere.
(18. settembre 1820.)
L'occupazione della società, come
quella che offre la società francese, riempie veramente la vita, la
riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell'animo
come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch'era quella
dell'uomo primitivo. E la sera, l'uomo che ha passata la giornata tutta intera
nel mondo il più vivo, vario, e pieno, e ne' divertimenti anche meno
noiosi, e che si trova anche senza cure e dispiaceri, ripensando alla giornata
passata, e considerando la futura, non si trova di gran lunga così
contento e pieno, come colui che considera i bisogni ai quali ha provveduto, e
fa i suoi disegni sopra quelli a' quali provvederà l'indomani. Qualche
cosa di serio è necessario che formi la base della nostra occupazione
per condurci ad una certa felicità (più o meno serio, secondo
gl'individui), e se bene tutte le cose sono ugualmente importanti per se
stesse, e il nostro fine sia sempre il piacere, nondimeno il puro spasso non
è mai capace di soddisfarci. La cagione è che ci bisogna un fine
dell'occupazione, uno scopo al quale mirare, acciocchè al piacere
dell'occupazione si aggiunga quello della speranza, che bene spesso forma essa
sola il piacere dell'occupazione V. gli altri miei pensieri in questo
proposito.
[249]Gli Egesiaci (ramo della
setta Cirenaica) dicevano secondo il Laerzio (in Aristippo l.2. segm.95.) Questa
potrebb'esser la divisa di tutti i sapienti moderni, in quanto sapienti.
La natura in quanto natura assoluta e
primitiva non ci ha dato idea di altri doveri che verso noi stessi, ed ha
limitato le norme del giusto ai rapporti che l'animale ha con se stesso.
Già verso gli animali d'altra specie non è dubbio che la natura
non ha dettato nessuna regola di onestà e di rettitudine, perchè
l'uomo non prova nessuna ripugnanza nel far male agli altri animali anche senza
suo vantaggio e per mero diletto, come a uccidere una formica ec. E gli altri
animali si pascono bene spesso di animali di altra specie. Ma eziandio nella
propria specie, l'uomo assolutamente primitivo, non sente ingenitamente nessuna
colpa a far male a' suoi simili per suo vantaggio, come non la sentono gli
altri animali, che maltrattano, combattono, e alle volte anche si cibano dei
loro simili, ed anche (sento dire) dei propri figli. In quanto però alla
figliuolanza è certo che la natura ha dettato alcune leggi, o siano di
semplice amore e inclinazione libera, o sieno anche sentimenti di dovere; ma
non perpetui; solo fino a un certo tempo, come vediamo negli animali, [250]che
dopo alcun tempo è verisimile che non riconoscano affatto i propri
figli, massime quegli animali che ogni anno ne producono più d'uno. E
così avverrebbe all'uomo se il figlio arrivato all'età di
provvedersi da se, si separasse dai genitori, e questi l'uno dall'altro, come
fanno gli animali. Giacchè la necessità del concubitu prohihere
vago, non prova nulla in favore della società, perchè anche
gli uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di
matrimonio finchè bisogna all'educazione sufficiente dei prodotti di
quel tal matrimonio, e nulla più; e non per questo hanno società.
Nè la detta necessità, riguardo all'uomo, si estende più
oltre di questo naturalmente, ma artifizialmente, e a posteriori,
cioè posta la società, la quale necessita la perpetuità
de' matrimoni, e la distinzione delle famiglie e delle possidenze.
(19. settembre 1820.)
Una prova evidente e popolare, frequente
nella vita, e giornaliera, che il piccolo è considerato come grazioso,
si è il vezzo dei diminutivi che si sogliono applicare alle persone o
cose che si amano, o si vogliono vezzeggiare, pregare, addolcire, descrivere
come graziose ec. E così al contrario volendo mettere in ridicolo qualche
persona o cosa tutt'altro che graziosa, se le applica il diminutivo
perchè la renda ridicola colla forza del contrasto. Quest'uso è
così antico [251](nel latino, greco ec.) e così universale
oggidì che si può considerare come originato dalla natura, e non
dal costume o dalla proprietà di questa o quella lingua. E i francesi
che non hanno se non pochissimi diminutivi, nei casi detti di sopra, fanno grand'uso
di questi pochissimi, o suppliscono col petit, dimostrando che l'inclinazione
ad attribuire ed esprimer piccolezza in quelle tali circostanze, non è
capriccio o assuefazione, ma natura, ed effetto di un'opinione innata che la piccolezza
sia quasi compagna della grazia e piacevolezza, cose ben distinte dalla
bellezza colla quale non ha che fare questo attributo. E nello stesso modo,
volendo ingiuriare, dipingere come sgraziato, discacciare, ec. ec. qualunque
persona o cosa, si adopera l'accrescitivo; e in genere l'accrescitivo par che
sempre tolga grazia al soggetto, anzi sia l'opposto della grazia, e piacevolezza.
(22. settembre 1820.)
Bonaparte per isnidare i malandrini da una
contrada di Parigi v'introdusse i giullari e i giocolieri per richiamarvi il popolo,
e frequentarla. (V. Lady Morgan, France liv.5. principio). Il Papa alcuni mesi
addietro per isnidare i malviventi da Sonnino luogo di loro rifugio nei confini
del suo stato verso Napoli, decretò la distruzione di quel paese.
Bonaparte popolò il nido dei ladroni per cacciarneli, e ottenne [252]l'intento;
il Papa giudicò di non potere ottenerlo fuorchè colla distruzione
di quel luogo. Dice Cicerone che si devastano e distruggono le città
nemiche, ma che se distruggiamo le nostre proprie, ci caviamo gli occhi di
nostra mano.
Alla tirannia fondata sopra l'assoluta
barbarie, superstizione, e intera bestialità de' sudditi, giova
l'ignoranza, e nuoce definitivamente e mortalmente l'introduzione dei lumi.
Perciò Maometto, con buona ragione proibì gli studi. Alle tirannie
esercitate sopra popoli inciviliti fino a un certo punto, fino a quel mezzo,
nel quale consiste la vera perfezione dell'incivilimento e della natura,
l'incremento e propagazione dei lumi, delle arti, mestieri, lusso ec. non
solamente non pregiudica, ma giova sommamente, anzi assicura e consolida la
tirannia, perchè i sudditi da quello stato di mediocre incivilimento che
lascia la natura ancor libera, e le illusioni, e il coraggio, e l'amor di
gloria e di patria, e gli altri eccitamenti alle grandi azioni, passa
all'egoismo, all'oziosità riguardo all'operare, all'inattività,
alla corruttela, alla freddezza, alla mollezza ec. La sola natura è
madre della grandezza e del disordine. La ragione tutto all'opposto. La
tirannia non è mai sicura se non quando il popolo non è capace di
grandi azioni. Di queste non può esser capace per ragione, ma per
natura. Augusto, Luigi 14. ed altri tali mostrano di aver bene inteso queste
verità.
(28. settembre 1820.)
[253]Dal 2. pensiero della p.116.
inferite come, anche secondo questa sola considerazione, il Cristianesimo debba
aver reso l'uomo inattivo e ridottolo invece ad esser contemplativo, e per
conseguenza com'egli sia favorevole al dispotismo, non per principio
(perchè il cristianesimo nè loda la tirannia, nè vieta di
combatterla, o di fuggirla, o d'impedirla), ma per conseguenza materiale,
perchè se l'uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura se
non di una patria situata nell'altro mondo, che gl'importa della tirannia? Ed i
popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d'un'altra vita,
divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli
che producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche
astraendo dal dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere
il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini
dall'operare al pensare e al pregare, o vero all'operar solamente cose dirette
alla propria santificazione ec. sopra la quale specie di uomini è
impossibile che non sorga immediatamente un padrone. Non è veramente che
la religion cristiana condanni o non lodi l'attività. Esempio un San
Carlo Borromeo, un San Vincenzo de Paolis. Ma in primo luogo l'attività
di questi santi [254]se bene li portava ad azioni eroiche (e per questa
parte grandi) ed utili, non dava gran vita al mondo, perchè la grandezza
delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi stessi che assoluta, e
piuttosto intima e metafisica, che materiale. In secondo luogo, parendo che il cristianesimo
faccia consistere la perfezione piuttosto nell'oscurità nel silenzio, e
in somma nella totale dimenticanza di quanto appartiene a questo esilio, egli
ha prodotto e dovuto produrre cento Pacomi e Macari per un San Carlo Borromeo,
ed è certo che lo spirito del Cristianesimo in genere portando gli
uomini, come ho detto, alla noncuranza di questa terra, se essi sono
conseguenti, debbono tendere necessariamente ad essere inattivi in tutto
ciò che spetta a questa vita, e così il mondo divenir monotono e
morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle della religione antica, secondo
cui questa era la patria, e l'altro mondo l'esilio.
(29. settembre 1820.)
Il costume e la massima di macerare la
carne, e indebolire il corpo per ridurlo, come dice S. Paolo, in
servitù, dovea necessariamente illanguidire le passioni e l'entusiasmo,
e render soggetti anche gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e
così per una parte contribuire infinitamente a spegner la vita del
mondo, per l'altra ad appianar la strada al dispotismo, perchè non ci
son forse uomini così atti ad esser tiranneggiati [255]come i
deboli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza, o da lascivia
e mollezza, come presso i Persiani, che dopo il tempo di Ciro divennero l'esempio
dell'avvilimento e della servitù; o da macerazione ec. Nel corpo debole
non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza
d'illusioni ec.
(30. settembre 1820.)
Nel corpo servo anche l'anima è
serva.
L'allegria bene spesso è madre di
benignità e d'indulgenza, al contrario delle cure e dei mali umori.
Questa è cosa nota e osservata, sicchè non mi fermerò a cercarne
la ragione, ch'è facile a trovare. Ma solamente considererò l'armonia
della natura, la quale mirando sempre alla felicità degli esseri, e per
conseguenza l'allegria nel sistema naturale dovendo essere la condizione
più frequente della vita, ha voluto che fosse compagna della
piacevolezza verso i suoi simili, virtù somma nella società, e
per conseguenza che l'allegria fosse utile non solo all'individuo, ma anche
agli altri, e servisse alla società, e rendesse l'uomo verso altrui,
tale quale dev'essere.
L'uomo superiore, oggidì colla
cognizione e sperienza del mondo, si può dire, benchè sembri un
paradosso, che si avvezzi a pregiare piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo
alle cose reali. Perchè [256]mentre egli è inesperto del
mondo, i piccoli pregi, i principii di virtù, le piccole bellezze o
bontà o grandezze in qualsivoglia genere di cose, gli paiono
dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se stesso, com'è costume
degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa. Ma colla sperienza,
trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità,
sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei piccoli
pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza
dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini e le
cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non
istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le
concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali
ch'egli stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la misura della stima
assoluta, e il numero assoluto delle cose ch'egli stimava, perchè sono
molte più quelle cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza vicine, di
quelle che da principio non curava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. settembre 1820.)
Si mise un paio di occhiali fatti della
metà del meridiano co' due cerchi polari.
Una casa pensile in aria sospesa con funi a
una stella.
(1 Ottobre 1820.)
[257]Alle volte la vivacità
(sia del viso, o dei movimenti, o delle azioni ec.), alle volte la languidezza
e flemma è madre di grazia. E chi è preso più da quella,
chi più da questa.
Bisogna distinguere in fatto di belle arti,
entusiasmo, immaginazione, calore ec. da invenzione massimamente di soggetti.
La vista della bella natura desta entusiasmo. Se questo entusiasmo sopraggiunge
ad uno che abbia già per le mani un soggetto, gli gioverà per la
forza della esecuzione, ed anche per la invenzione ed originalità
secondaria, cioè delle parti, dello stile, delle immagini, insomma di
tutto ciò che spetta all'esecuzione. Ma difficilmente, o non mai, giova
all'invenzione del soggetto. Perchè l'entusiasmo giovi a questo, bisogna
che si aggiri appunto e sia cagionato dallo stesso soggetto, come l'entusiasmo
di una passione. Ma l'entusiasmo astratto, vago, indefinito, che provano spesse
volte gli uomini di genio, all'udire una musica, allo spettacolo della natura
ec. non è favorevole in nessun modo all'invenzione del soggetto, anzi
appena delle parti, perchè in quei momenti l'uomo è quasi fuor di
se, si abbandona come ad una forza estranea che lo trasporta, non è
capace di raccogliere nè di fissare le sue idee, tutto quello che vede,
è infinito, indeterminato, sfuggevole, e così vario e copioso,
che non ammette nè ordine, nè regola, nè [258]facoltà
di annoverare, o disporre, o scegliere, o solamente di concepire in modo chiaro
e completo, e molto meno di saisir un punto (vale a dire un soggetto) intorno
al quale possa ridurre tutte le sensazioni e immaginazioni che prova, le quali
non hanno nessun centro. Anzi provando pure, come ho detto, l'entusiasmo di una
passione, e volendo scegliere per soggetto la stessa passione, se l'entusiasmo
è veramente vivo e vero, non saprete determinarvi a veruna forma
trattabile di questo soggetto. In sostanza per l'invenzione dei soggetti
formali e circoscritti, ed anche primitivi (voglio dire per la prima loro
concezione) ed originali, non ci vuole, anzi nuoce, il tempo dell'entusiasmo,
del calore e dell'immaginazione agitata. Ci vuole un tempo di forza, ma
tranquilla; un tempo di genio attuale piuttosto che di entusiasmo attuale (o
sia, piuttosto un atto di genio che di entusiasmo); un influsso dell'entusiasmo
passato o futuro o abituale, piuttosto che la sua presenza, e possiamo dire il
suo crepuscolo, piuttosto che il mezzogiorno. Spesso è adattatissimo un
momento in cui dopo un entusiasmo, o un sentimento provato, l'anima sebbene in
calma, pure ritorna come a mareggiare dopo la tempesta, e richiama con piacere
la sensazione passata. Quello forse è il tempo più atto, e il
più frequente della concezione di un soggetto originale, o delle parti
originali di esso. E generalmente [259]si può dire che nelle
belle arti e poesia, le dimostrazioni di entusiasmo d'immaginazione e di sensibilità,
sono il frutto immediato piuttosto della memoria dell'entusiasmo, che dello
stesso entusiasmo, riguardo all'autore. (2. Ottobre 1820.). Laddove insomma
l'opinione comune che par vera a prima vista, considera l'entusiasmo come padre
dell'invenzione e concezione, e la calma come necessaria alla buona esecuzione;
io dico che l'entusiasmo nuoce o piuttosto impedisce affatto l'invenzione (la
quale dev'essere determinata, e l'entusiasmo è lontanissimo da qualunque
sorta di determinazione), e piuttosto giova all'esecuzione, riscaldando il
poeta o l'artefice, avvivando il suo stile, e aiutandolo sommamente nella
formazione, disposizione, ec. delle parti, le quali cose tutte facilmente
riescon fredde e monotone quando l'autore ha perduto i primi sproni
dell'originalità.
(3. ottobre 1820.)
Hanno questo di proprio le opere di genio,
che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando
anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l'inevitabile
infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili
disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi anche in uno stato di
estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della
vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che
appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono
sempre di consolazione, [260]raccendono l'entusiasmo, e non trattando
nè rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto
nella realtà delle cose, accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione
o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non
è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva. Tant'è,
siccome l'autore che descriveva e sentiva così fortemente il vano delle
illusioni, pur conservava un gran fondo d'illusione, e ne dava una gran prova,
col descrivere così studiosamente la loro vanità (v. p.214-215.),
nello stesso modo il lettore quantunque disingannato, e per se stesso e per la
lettura, pur è tratto dall'autore, in quello stesso inganno e illusione
nascosta ne' più intimi recessi dell'animo, ch'egli provava. E lo stesso
conoscere l'irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni
grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l'anima, quando
questa conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo della
nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca
l'anima del lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria
disperazione. (Gran cosa, e certa madre di piacere e di entusiasmo, e
magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti
maggior concetto di se, e delle sue disgrazie, e del suo stesso abbattimento e
annichilamento di spirito). Oltracciò [261]il sentimento del
nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo
sentimento è vivo, come nel caso ch'io dico, la sua vivacità
prevale nell'animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e
l'anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente
la morte perpetua delle cose, e sua propria. Giacchè non è
piccolo effetto della cognizione del gran nulla, nè poco penoso, l'indifferenza
e insensibilità che inspira ordinarissimamente e deve naturalmente
ispirare, sopra lo stesso nulla. Questa indifferenza e insensibilità
è rimossa dalla detta lettura o contemplazione di una tal opera di
genio: ella ci rende sensibili alla nullità delle cose, e questa
è la principal cagione del fenomeno che ho detto.
Osserverò che il detto fenomeno
occorre molto più difficilmente nelle poesie tetre e nere del
Settentrione, massimamente moderne, come in quelle di Lord Byron, che nelle
meridionali, le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui,
dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p.e. de' Trionfi e della
conferenza di Achille e di Priamo, dirò ancora di Verter, produce questo
effetto molto più che il Giaurro, o il Corsaro ec. non ostante che
trattino e dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità
delle cose.
(4. ottobre 1820.)
Io so che letto Verter mi sono trovato
caldissimo nella mia disperazione letto Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo
nessuno; molto meno consolazione. [262]E certo Lord Byron non mi rese
niente più sensibile alla mia disperazione: piuttosto mi avrebbe fatto
più insensibile e marmoreo.
L'uomo si disannoia per lo stesso sentimento
vivo della noia universale e necessaria.
Bisogna ricordarsi che l'invenzione della
polvere contribuì non poco all'indebolimento delle generazioni 1.
disavvezzando dal portare armatura, (v. Montesquieu ch.2. in proposito del gran
vigore de' soldati romani) 2. rendendo l'atto della guerra non più opera
della forza individuale o generale, ma quasi intieramente dell'arte; certamente
rendendo l'arte molto più arbitra della guerra che non era stata per
l'addietro ec. 3. sopprimendo o togliendo per conseguenza la necessità
di quegli esercizi che o direttamente o indirettamente come i giuochi atletici,
servivano a render gli uomini vigorosi ed atti alla guerra.
Lo spavento e il terrore sebbene di un grado
maggior del timore, contuttociò bene spesso sono molto meno vili, anzi
talvolta non contengono nessuna viltà: e possono cadere anche negli
uomini perfettamente coraggiosi, al contrario del timore. P.e. lo spavento che
cagiona l'aspetto di una vita infelicissima o noiosissima e lunga, che ci
aspetti ec. Lo spavento degli spiriti, così puerile esso, e fondato in
opinione così puerile, è stato (ed ancora è) comune ad
uomini coraggiosissimi. V. la p.531, e 535.
[263]L'intrigo può star
molte volte colla chiarezza, come anche si può essere strigato ed
oscuro. L'intrigo può venire o dallo scrittore, o dalla necessità
della materia, ed allora la chiarezza è difficilissima allo scrittore, e
il luogo può riuscir difficile al lettore, sebbene sia chiaro. Ma
spessissimo si confonde l'intrigo coll'oscurità, e si chiama oscuro
quello ch'è solamente intrigato, e intrigato quello ch'è
solamente oscuro. Applicate quest'osservazione ai cinquecentisti che bene
spesso sono intrigati e contuttociò chiari, ai trecentisti che per lo
più sono strigatissimi e sovente oscurissimi, agli scrittori
scientifici, tecnici, gramatici ec.
Una cosa stimabile non può essere
apprezzata degnamente se non da quelli che ne conoscono il valore.
Perciò la rarità non porta sempre con se la stima della cosa,
anzi spessissimo l'impedisce. Un uomo di grande ingegno fra gl'ignoranti o
è disprezzato, o apprezzato senz'ammirazione senza entusiasmo senza
nessuno di quegli affetti che paiono conseguenze infallibili dello
straordinario, e che debbano crescere tanto più quanto la cosa è
più straordinaria relativamente. Il conto che se ne fa, è come di
uno che abbia un utensile migliore degli altri, i quali talvolta lo chiedono in
prestito o se ne servono presso chi lo possiede, e non perciò stimano
che quell'uomo [264]sia una gran cosa, o superiore agli altri a cagione
di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con tanti altri.
Così le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o
ignorante, così la sensibilità massimamente e l'entusiasmo, il
quale anzi dalle persone ordinarie sarà stimato piuttosto un , che un , e deriso
come pazzia. Così si è veduto che eccetto i pregi sensibili, o
de' quali tutti sanno giudicare naturalmente, tutti gli altri sono stati assai
meno stimati nei secoli e nei luoghi dove sono stati più rari. Ed
è cosa certa che un grande ingegno non può essere intimamente conosciuto,
e però degnamente apprezzato e ammirato se non da un altro grande ingegno;
e così le sue opere; così tutto quello che spetta a discipline,
arti, abilità particolari, onde p.e. un grand'uomo di guerra non
riscuoterà degna ammirazione che da un altro grand'uomo dello stesso
mestiere.
(5. ottobre 1820.). V. p.273.
Anticamente il cercare e istruirsi in
diverse scuole non serviva come ora ad imparar sempre più,
giacchè tutte le scuole seguono gli stessi principii, e non si diversificano
se non per la diversa disciplina che professano. Ma allora per imparare le
dottrine di una scuola, bisognava disimparare quelle [265]dell'altra, e
scegliere quale si voleva seguire, giacchè ciascuna contraddiceva alle
altre. E perciò gli uomini di un certo ingegno mediocre si attaccavano
ad una setta, imparavano i dogmi di una sola scuola, di quelli erano contenti,
e si chiamavano col nome della loro setta. Altri un poco maggiori d'ingegno o
di presunzione introducevano qualche cangiamento nelle dottrine de' loro
maestri, o vi aggiungevano qualche cosa, e si facevano capi di un nuovo ramo
della setta stessa. Gl'ingegni superiori, non si servivano della istruzione che
prendevano in diverse scuole se non per isceglierne il meglio, o quello che
credessero tale, e fondere insieme i dogmi scelti da varie sette, per formare o
di essi soli, o di altri che v'aggiungessero del proprio, o di un nuovo sistema
cavato dalle varie e discordanti idee acquistate, una nuova scuola e setta,
come fece Platone che amò d'istruirsi in varie scuole, e ascoltò
Socrate, (altri due subito dopo la sua morte, nominati dal Laerzio nel principio
della vita di Platone), i Pitagorici, gli Egiziani, e voleva anche ascoltare i
maghi di Persia, ma non potè a cagione delle guerre d'Asia. E [266]delle
varie dottrine imparate e scelte da queste sette compose il suo nuovo sistema.
(6. Ottobre 1820.)
Le passioni e i sentimenti dell'uomo si
può dire che da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero
nel fondo più cupo dell'anima, e finalmente siano venuti e rimasti nel
mezzo. Perchè l'uomo naturale, sebbene sensibilissimo, tuttavia si
può dire che abbia le sue passioni nella superficie, sfogandole con ogni
sorta di azioni esterne, suggerite e volute dalla natura per aprire una strada
alla soverchia fuga ed impeto del sentimento, il quale appunto perchè
violentissimo nel dimostrarsi, e perchè richiamato subito al di fuori,
dopo un grand'empito esterno, presto veniva meno, se bene fosse molto più
frequente. L'uomo non più naturale, ma che tuttavia conserva un poco di
natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza della passione, come l'uomo
primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne dà segni se non
leggeri ed equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto nel profondo,
ed acquista maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è doloroso,
non avendo lo sfogo voluto dalla natura, diventa capace anche di uccidere o di
tormentare più o meno, secondo la qualità sua e dell'individuo.
Di queste persone si trovano anche oggidì, [267]perchè,
tolto qualche parte del volgo, nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta
la passione lanciarsi alla superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove
la natura trionfa); ma molti ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e
poterla provare contenuta e chiusa nel fondo dell'animo. Tuttavia è
certo che questi tali appartengono ad un'epoca di mezza natura, a quel tempo in
cui la vera sensibilità non era nè così ordinaria nelle
parole, nè così straordinaria nel fatto, come presentemente.
L'uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o sentimento che si
lanci all'esterno o si rannicchi nell'interno, ma quasi tutte le sue passioni
si contengono per così dire nel mezzo del suo animo, vale a dire che non
lo commuovono se non mediocremente, gli lasciano il libero esercizio di tutte
le sue facoltà naturali, abitudini ec. In maniera che la massima parte
della sua vita si passa nell'indifferenza e conseguentemente nella noia,
mancando d'impressioni forti e straordinarie. Esempio. Un amico o persona
desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che vediate per la prima volta. Il
fanciullo e l'uomo selvaggio l'abbraccerà, lo carezzerà,
salterà, darà mille segni esterni di quella gioia che l'anima
veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi [268]e
naturalissimi. L'uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo
prenderà per la mano, o al più l'abbraccerà lentamente, e
resterà qualche tempo in questo abbracciamento, o in altra positura, non
dando segno della gioia che prova se non colla immobilità della persona
e dello sguardo, e forse con qualche lacrima, e mentre il di dentro è
diversissimo, il di fuori sarà quasi quello di prima. L'uomo ordinario,
o l'uomo di sentimento affievolito e intorpidito dall'esperienza del mondo, e
dalla misera cognizione delle cose, insomma l'uomo moderno, conserverà
di dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se
non piccola, minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse
o no, quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di
quei piaceri che si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando
anche voi lo desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di
riempiervi o di scuotervi. V. p.270. capoverso 1.
Chi non ha uno scopo non prova quasi mai
diletto in nessuna operazione. Eccetto quelle che sono piacevoli per se stesse,
e nell'atto, (e sono ben poche, e il piacere che danno è sommamente
inferiore all'aspettazione) tutte le altre non sono dilettevoli se non fatte
con uno scopo e una speranza, e un'aspettativa [269]di cosa non presente
e che debba seguirne. Se bene molte di queste, o perchè lo scopo si
venga conseguendo a ogni tratto, come nello studio, o perchè lo scopo
sia tanto inerente e immedesimato con lei, che appena si lasci distinguere,
sogliono esser confuse colle azioni dilettevoli per se stesse, quando non
dilettano se non in quanto sono indirizzate a quel fine, e a quella speranza,
tolte le quali cose restano indifferenti o noiose, come si può vedere
considerando la stessa azione in due diversi individui.
La pura bellezza risultante da un'esatta e
regolare convenienza, desta di rado le grandi passioni (come dice Montesquieu),
per lo stesso motivo per cui la ragione è infinitamente meno forte ed
efficace della natura. Quella bellezza è come una ragione, perciò
non suppone vita nè calore, sia in se medesima, sia in chi la riguarda.
Al contrario un volto o una persona difettosa ma viva, graziosa ec. o fornita
di un animo capriccioso, sensibile ec. sorprende, riscalda, affetta e tocca il
capriccio di chi la riguarda, senza regola, senza esattezza, senza ragione ec.
ec. e così le grandi passioni nascono per lo più dal capriccio,
dallo straordinario ec. e non si ponno giustificare colla ragione.
(10. ottobre 1820.)
[270]Quello che ho detto
p.266.-268. deve servir di regola agli scrittori drammatici nell'esprimere e
modellare i caratteri dei diversi tempi.
(10. ottobre 1820.)
La semplice bellezza rispetto alla grazia
ec. è nella categoria del bello, quello ch'è la ragione rispetto
alla natura nel sistema delle cose umane. Questa considerazione può
applicarsi a spiegare l'arcana natura e gli effetti della grazia.
La ragione è debolissima e inattiva
al contrario della natura. Laonde quei popoli e quei tempi nei quali prevale
più o meno la ragione saranno stati e saranno sempre inattivi in
proporzione della influenza di essa ragione. Al contrario dico della natura. Ed
un popolo tutto ragionevole o filosofo non potrebbe sussistere per mancanza di
movimento e di chi si prestasse agli uffizi scambievoli e necessari alla vita.
ec. ec. E infatti osservate quegli uomini (che non sono rari oggidì) stanchi
del mondo e disingannati per lunga esperienza, e possiamo dire, renduti perfettamente
ragionevoli. Non sono capaci d'impegnarsi in nessun'azione, e neanche
desiderio. Simili al march. D'Argens, di cui dice Federico nelle Lettere, che
per pigrizia, non avrebbe voluto pur respirare, se avesse potuto. La conseguenza
della loro stanchezza, esperienza, e cognizione delle cose è una
perfetta indifferenza che li fa seguire il moto altrui senza muoversi da se
stessi, anche nelle cose che li riguardano. Laonde se questa indifferenza
potesse divenire universale [271]in un popolo, non esistendovi moto altrui,
non vi sarebbe movimento di nessuna sorta.
La gloria per lo più, massimamente la
letteraria, allora è dolce quando l'uomo se ne pasce nel silenzio del
suo gabinetto, e se ne serve di sprone a nuove imprese gloriose, e di
fondamento a nuove speranze. Perchè allora ella conserva la forza
dell'illusione, sola forza ch'essa abbia. Ma goduta nel mondo e nella
società, ordinariamente si trova esser cosa o nulla, o piccolissima, o
insomma incapace di riempier l'animo e soddisfarlo. Come tutti i piaceri da lontano
sono grandi, e da vicino minimi, aridi, voti, e nulli.
Coloro che dicono per consolare una persona
priva di qualche considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati
che sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà
e dovrà rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono
nell'illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora
se io non posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo? Nella
stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo,
le illusioni, il coraggio, l'attività, il movimento, la vita. Erano
illusioni, ma toglietele, [272]come son tolte. Che piacere rimane? e la
vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità,
la sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la
costanza, la giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti
immaginari. E tuttavia l'uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel
mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi
enti immaginari (astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno
infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è
capace di riempier l'animo umano, ma non è meglio una vita con molti
piaceri illusorii, che senza nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel
mondo si trovassero queste illusioni più realizzate, e se l'uomo di
cuore non si dovesse persuadere non solo che sono enti immaginari, ma che nel
mondo non si trovano più neanche così immaginari come sono? in
maniera che manchi affatto il pascolo e il sostegno all'illusione. E dall'altro
lato, non c'è maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello
che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde
quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno
l'uomo sarebbe infelice.
(11. ottobre 1820.). V. p.338. capoverso 2.
[273]Di un ricco avaro al quale
era stata rubata una piccolissima somma in un suo stanzino pieno di danaio,
disse taluno, S'è mostrato avaro (È stato avaro) anche nel
lasciarsi rubare.
(13. ottobre 1820.)
La maggior parte degli uomini vive per
abito, senza piaceri, nè speranze formali, senza ragion sufficiente di
conservarsi in vita, e di fare il necessario per sostenerla. Che se riflettessero,
astraendo dalla religione, non troverebbero motivo di vivere, e contro natura,
ma secondo ragione, conchiuderebbero che la vita loro è un assurdo,
perchè l'aver cominciato a vivere, secondo natura sibbene, ma secondo
ragione non è motivo giusto di continuare.
Alla p.263. pensiero 2. aggiungi.
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se ne
formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo
crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno
sarà infinitamente minor del giusto, sicchè relativamente
considereranno quel tal pregio come molto minore. Nella mia patria dove
sapevano ch'io era dedito agli studi, credevano ch'io possedessi tutte le
lingue, e m'interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ec. insomma
enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e per
l'ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato, non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che [274]avevano
di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse, A voi non
disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perchè
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma s'io mostrava che le mie
cognizioni fossero un poco minori ch'essi non credevano, la loro stima scemava
ancora, e non poco, e finalmente io passava per uno del loro grado. È
vero però che talvolta può succedere il contrario, e per
un'opinione simile, in tempi o luoghi ignoranti, un uomo o un pregio piccolo conseguire
una somma stima.
Alla p.252. capoverso 1. Vedi in questo
proposito la p.114. pensiero ultimo, e considera la gran contrarietà di
Catone ai progressi dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo
esempio di quello ch'io dico, cioè dell'esser gli studi, tanto ameni
quanto seri e filosofici, favorevolissimi alla tirannia. V. anche Montesquieu Grandeur etc. ch.10. principio. Certo la
profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione,
di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ec. non impedì la
tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando
n'ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne
avevano avuti mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia, sebbene
paiano suoi nemici, così scambievolmente la [275]tirannia giova
loro, 1. perchè il tiranno ama e proccura che il popolo si diverta, o
pensi (quando non si possa impedire) in vece che operi, 2. perchè
l'inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del
pensiero, mancando quella dell'azione, 3. perchè l'uomo snervato e ammollito
è più capace e più voglioso o di pensare, o di spassarsi
coll'amenità ec. degli studi eleganti, che di operare, 4. perchè
il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia
fomenta e introduce la riflessione, la profondità del pensare, la
sensibilità, lo scriver malinconico; l'eloquenza non più viva ed
energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5. perchè la mancanza
delle vive e grandi illusioni spegnendo l'immaginazione lieta aerea brillante e
insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione del vero, la
cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche
luogo all'immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalle
verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe
idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella
de' settentrionali, massime oggidì, fra' quali la poca vita della
natura, dà luogo all'immaginativa fondata sul pensiero, [276]sulla
metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione
delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla
matematica sublime che colla poesia.
(14. ottobre 1820.)
P.51 capoverso 4. aggiungi. Nello stesso
modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per
viltà, per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d'arte
nell'eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza,
per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali
ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso.
(14. ottobre 1820.)
La convenienza che cagiona la bellezza non
è solamente nelle parti della cosa. Molte cose possono esser così
semplici che quasi non abbiano parti. E il bello morale, e tutto quel bello che
non appartiene ai sensi, non ha parti. Ma la convenienza della cosa si
considera anche rispetto alle relazioni del tutto, o delle parti
coll'estrinseco. P.e. coll'uso, col fine, coll'utilità, col luogo, col
tempo, con ogni sorta di circostanza, coll'effetto che produce o deve produrre
ec. Una spada con una gemma sulla [277]punta, la qual gemma corrispondesse
perfettamente all'ornato, alle proporzioni, alla configurazione, alla materia
del resto, a ogni modo sarebbe brutta. Questa bruttezza non è
sconvenienza di parti, non di una parte coll'altre, ma di una parte col suo uso
o fine. Di questo genere sono infinite bruttezze o bellezze tanto sensibili,
che intelligibili, morali, letterarie ec.
(14. ottobre 1820.)
Quel vecchio che non ha presente nè
futuro, non è privo perciò di vita. Se non è stato mai
uomo, non ha bisogno se non di quel nonnulla che gli somministra la sua situazione,
e tutto gli basta per vivere. Se è stato uomo, ha un passato, e vive in
quello. La mancanza del presente, non è la cosa più grave per gli
uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si vede nella
realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per
tutti, e che ogni uomo manchi del presente. Il vuoto del futuro non
è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio della vita, che
ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi desideri,
passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e [278]intorpiditi, e ristretti,
e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti,
nè grandi speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè
l'estensione materiale del suo futuro è piccola, e non lo può
spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo spazio. Ma il giovane senza
presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività,
piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, non serve altro che ad attristarlo e stringergli il cuore. Le rimembranze
della fanciullezza e della prima adolescenza, dei godimenti di quell'età
perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti,
dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di gloria,
di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue, sono ardentissime
ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di moltissimo. Quanto
è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e
l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E
mancando questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore
è il senso di [279]morte, di nullità, di noia ch'egli
prova: insomma tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita
interiore è più energica. 3. Il giovane non ha provato nè
veduto. Non può esser sazio. I suoi desideri e passioni sono più
ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo assolutamente per l'età, ma
anche materialmente, per non avere avuto ancora di che cibarsi e riempiersi.
Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella natura, quando
anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo futuro è
materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a
percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta
pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera
eccessivamente, sembrandogli quel futuro più lungo e terribile di un'eternità.
Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età passata non
è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato
senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una
sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà
della vita, non vivrà, avrà perduto e gli sarà inutile la
sua unica esistenza. Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra [280]una perdita irreparabile fatta sopra
un'età che per lui non può più tornare.
(16. ottobre 1820.)
Il suo divertimento era di passeggiare
contando le stelle (e simili).
(16. ottobre 1820.)
Anche la mancanza sola del presente è
più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui sono
più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma
l'ardor giovanile non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non
è soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia
attuale, e la monotonia e l'inattività presente gli è di una pena
di un peso di una noia maggiore che in qualunque altra età,
perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo col lungo
uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla molto
meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da principio
mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia l'assuefazione
me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile di pazienza.
La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto eroica. Esempio
de' carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vita.
L'abito dell'eroismo può essere in un
corpo debole, ma l'atto difficilmente, e non senza un grande [281]sforzo,
nè senza ripugnanza, e quasi contro natura. E perciò vediamo
moltissimi che per abito sono tutt'altro che eroi, far non di rado azioni
eroiche; e viceversa. Anzi si può dire che gli uomini d'abito di
principii e d'animo eroico, lo sono di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel
fatto, lo sono di rado nell'abito nei sentimenti e nell'animo. Estendete queste
osservazioni all'entusiasmo.
Quell'usignuolo di cui dice Virgilio
nell'episodio d'Orfeo, che accovacciato su d'un ramo, va piangendo tutta notte
i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un
dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare
riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec. è
compassionevolissimo, a cagione di quell'impotenza ch'esprime, secondo quello
che ho detto in altri pensieri.
Il Buffon Hist. nat. de l'homme, combatte
coloro i quali credono che la separazione dell'anima dal corpo debba essere
dolorosissima per se stessa. A' suoi argomenti aggiungi questo, che forse
è il più concludente. Se volessimo considerar l'anima come
materiale, già non si tratterebbe più di separazione, e la morte
non sarebbe altro che un'[282]estinzione della forza vitale, in
qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi. Ma considerandola come
spirituale, è ella forse un membro del corpo, che s'abbia a staccare, e
perciò con gran dolore? O non piuttosto i legami tra lo spirito e la
materia, qualunque sieno, certo non sono materiali, e l'anima non si svelle
come un membro, ma parte naturalmente quando non può più
rimanere, nello stesso modo che una fiamma si estingue e parte da quel corpo
dove non trova più alimento, nel che, per dire un'immagine, noi non
vediamo nè ci figuriamo neanche astrattamente nessuna violenza e nessun
dolore sia nel combustibile sia nella fiamma. La morte nell'ipotesi della
spiritualità dell'anima, non è una cosa positiva ma negativa, non
una forza che la stacchi dal corpo, ma un impedimento che le vieta di
più rimanervi, posto il quale impedimento, l'anima parte da se,
perchè manca il come abitare nel corpo, non perchè una forza
violenta ne la sradichi e rapisca. Giacchè se l'anima è spirito,
non bisogna considerarla come parte del corpo, ma come ospite di esso corpo, e
tale che l'entrata e l'uscita sua sia facilissima leggerissima e dolcissima,
non essendoci mica nervi nè membrane nè ec. che ve la tengano
attaccata, o [283]catene che ve la tirino quando deve entrarvi. E quando
v'entra, la cosa è insensibile, e l'uomo certamente non se ne avvede;
così la sua uscita dev'essere insensibile, e tutta diversa dalla nostra
maniera di concepire. Come l'uomo non s'accorge nè sente il principio
della sua esistenza, così non sente nè s'accorge del fine,
nè v'è istante determinato per la prima conoscenza e sentimento
di quello nè di questo. V. p.290.
Qualunque uomo nuovo tu veda, purch'egli
viva nel mondo, tu sei certo di non errare, tenendolo subito per un malvagio,
qualunque sia la sua fisonomia, le maniere, il portamento, le parole, le azioni
ec. E chi vuol mettersi al sicuro deve subito giudicarlo per tale, e appresso a
poco non troverà mai di avere sbagliato veramente, non ostante che tutte
le apparenze gli possano dimostrare il contrario per lunghissimo tempo. Nello
stesso modo, e per la stessa ragione è pur troppo acerbissima
oggidì la condizione dell'uomo da bene che si unisce in matrimonio.
Perchè s'egli non intende di portare e far sempre vivere i suoi figli
nelle selve, deve tenere per indubitatissimo [284]fino da quel primo
punto, che il suo matrimonio non frutterà al mondo altro che qualche
malvagio di più. E questo non ostante qualunque indole, qualunque cura o
arte di educazione ec. Perchè da che un uomo qualunque dovrà
entrare nella società, è quasi matematicamente certo che
dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco a
poco; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli
ch'esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente saranno vinti. E
parimente dovrebb'esser dolorosissimo per l'uomo da bene il considerare nel
mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile
speranza di virtù, ch'egli ne possa concepire, è certissimo per
infallibile e continua esperienza, che saranno, almeno in gran parte, inutili e
vane. Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e
cercare il buon educatore, è d'istillare ne' suoi figli tanta dose di
virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco, a
proporzione della prima quantità. Questa sarebbe ben altra risposta da
darsi a chi vi consigliasse d'ammogliarvi, o v'interrogasse perchè non
l'abbiate fatto. Al che Talete interrogato [285]da Solone, dicono che
rispondesse col mostrargli le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli
o le sventure della sua prole. Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare
dei malvagi: per non dare al mondo altri malvagi.
(17. ottobre 1820.)
La speranza, cioè una scintilla, una
goccia di lei, non abbandona l'uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la
più diametralmente contraria ad essa speranza, e la più decisiva.
(18. ottobre 1820.)
Si può applicare alla poesia (come
anche alle cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho
detto altrove: che alle grandi azioni è necessario un misto di
persuasione e di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al
maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno
di un falso che pur possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie
della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un certo tal quale convincimento
che la cosa stia o possa stare effettivamente così. Perciò l'antica
mitologia, o [286]qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha
tutto il necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando
affatto dalla parte della persuasione, non può più produrre gli
effetti di una volta, e massime negli argomenti moderni, perchè negli
antichi, l'abitudine ci proccura una tal quale persuasione, principalmente
quando anche il poeta sia antico, perchè immedesimatasi in noi l'idea di
quei fatti, di quei tempi, di quelle poesie ec. con quelle finzioni, queste ci
paiono naturali e quasi ci persuadono, perchè l'assuefazione c'impedisce
quasi di distinguerle da quei poeti, tempi, avvenimenti ec. e così
machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta all'effetto, che la cosa
potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o altre tali
finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti moderni o
de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di falso,
perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso
non produrrà mai l'effetto dei poeti antichi, [287]sebbene il suo
favoloso e maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma
oggidì in tanta propagazione e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova
[o] nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell'intelletto, mancando la
detta assuefazione, la quale supplisce al resto ne' poeti antichi. E questa
è una gran ragione per cui la poesia oggidì non può
più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al
diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso
a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta
alla finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto
per le sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver
più effetto, il poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa
maneggiata con vero giudizio, scelta, e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti ec. produrre impressioni sufficienti e notabili.
(19. ottobre 1820.)
Anche gli animali si associano in molti
casi, e sempre per lo vantaggio comune. Oltre le formiche e le api che ho
notate altrove, si può osservare [288]la così detta ruota
che fanno i cavalli e altri animali per difendersi da comuni aggressori. Dalla
quale s'inferisce ancora che gli animali hanno idee sufficienti di ordinanza o
tattica, cioè del modo di accrescere e rendere più profittevoli
le forze individuali 1. coll'unione di molti individui, 2. colla disposizione e
figura di tutta la torma, 3. colla conveniente collocazione degl'individui. Di
tali società guerriere offensive e difensive, credo che la storia
naturale fornisca moltissimi esempi. Come anche in altri casi; p.e. se è
vero quello che si racconta dell'ordinanza delle grù nei viaggi che
fanno, della sentinella o svegliatrice che tengono. Così la catena delle
scimmie per passare i fiumi, così cento altri esempi dell'aiuto
scambievole che le bestie si prestano per vantaggio comune, e forse anche
talvolta per vantaggio del solo bisognoso e aiutato.
Tutte le cose si desiderano perfette
relativamente al loro genere. Tuttavia perchè il perfetto è
rarissimo in tutte le specie di cose, coloro che imitano o contraffanno,
sogliono mescolare alla imitazione qualche difetto, cioè imitare
piuttosto [289]e figurare e scegliere l'individuo difettoso che il
perfetto, per render la imitazione più verisimile e credibile, e fare
inganno, e persuadere che il finto sia vero. E laddove il difetto scema pregio
all'imitato e vi si biasima, accresce pregio all'imitazione e vi si loda.
Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non le fai tutte tonde
perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte così. Ed imiti
piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che contraffarne una inestimabile.
Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero, che
l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del
vantaggio che ne cava l'illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa
osservazione a regolamento di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da
imitare, acciocchè rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto
d'imperfezione, intorno alla quale siamo pure nello stesso caso. Applicate
quest'ultima riflessione ai protagonisti di Lord Byron.
(20. ottobre 1820.)
[290]Alla p.283. aggiungi. L'uomo
non si avvede mai precisamente del punto in cui egli si addormenta, per quanto
voglia proccurarlo. Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un
interrompimento, e quasi un'immagine di esso fine; e se l'uomo non può
sentire il punto in cui le sue facoltà vitali restano come sospese,
molto meno quando sono distrutte. Forse anche si potrà dire che
l'addormentarsi non è un punto, ma uno spazio progressivo più o meno
breve, un appoco appoco più o meno rapido; e lo stesso si dovrà
dir della morte. Di più è certo che i momenti i quali precedono
immediatamente il sonno, e il punto o lo spazio dell'addormentarsi definitivamente
(sebbene impercettibile), è dilettevole. Questo quando anche la cagione
del sonno, come il languore, il travaglio, la malattia, la semplice debolezza,
non siano dilettevoli, anzi l'opposto; e però i momenti più
lontani dal sonno siano penosi. Anzi anche il letargo proveniente da infermità,
anche mortale, è dilettevole. Che il torpore sia dilettevole l'ho notato
già in questi pensieri nella teoria del piacere, e assegnatane la
ragione. Credo che su questo fondamento il Napoletano [291]Cirillo abbia
opinato che la morte abbia un non so che di dilettevole. Nel che sono
interamente con lui, e non dubito che l'uomo (e qualunque animale) non provi un
certo conforto, e un tal qual piacere nella morte. Non già che le
cagioni di lei, e perciò i momenti più lontani da lei, siano
dilettevoli; ma sibbene i momenti che la precedono immediatamente, e quello
stesso punto o spazio impercettibile, e insensibile, in cui ella consiste. E
ciò in qualunque malattia, anche nelle acutissime, nelle quali il Buffon
pare che convenga che la morte possa esser dolorosa. Anzi il torpore della
morte dev'esser tanto più dilettevole, quanto maggiori sono le pene che
lo precedono, e da cui esso per conseguenza ci libera. E però
generalmente e sempre, il torpore della morte dev'essere più grato di
quello del sonno, perchè succede a molto maggior travaglio. Il qual sonno
come ho detto non è mai penoso, quando anche sia cagionato da pene,
anche da angoscie vive, come da febbre ardente ec. Quanto alle malattie dove
l'uomo si estingue appoco appoco, e con piena conoscenza fino all'ultimo,
è certo che non v'è momento così immediatamente vicino
alla morte, dove l'uomo anche il meno illuso non si prometta un'ora almeno di
vita, come si dice de' vecchi ec. E così la morte non è mai
troppo vicina al pensiero del moribondo, per la solita misericordia della
natura. Vedi p.599. capoverso 2. Io bene spesso trovandomi in gravi travagli o
corporali o morali, ho desiderato non solamente il riposo, ma la mia anima
senza sforzo, e senza eroismo, si compiaceva [292]naturalmente nell'idea
di un'insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua
inazione dell'anima e del corpo, la qual cosa desiderata in quei momenti dalla
mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso di morte, nè
mi spaventava punto. E moltissimi malati non eroi, nè coraggiosi anzi
timidissimi, hanno desiderato e desiderano la morte in mezzo ai grandi dolori,
e sentono un riposo in quell'idea, il quale sarebbe molto maggiore, se l'idea
della morte non fosse accompagnata dai timori del futuro, e da cento altre cose
estranee, e d'altro genere. Del resto il riposo ch'io desiderava allora mi piaceva
più che dovesse esser perpetuo, acciò non avessi dovuto
ripigliare svegliandomi gli stessi travagli de' quali era così stanco.
Se la morte e il sonno siano un punto o uno
spazio, non si ricerca riguardo a quei momenti nei quali l'uomo conserva ancora
una cognizione di se, che va scemando a poco a poco, giacchè questo non
si dubita che non sia uno spazio progressivo, ma riguardo al tempo non
sensibile, nè conoscibile, nè ricordabile. Il quale pare che
debba essere istantaneo, giacchè il passaggio dal conoscere al non
conoscere, [293]dall'essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma
al nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto, e
istantaneamente.
(21. ottobre 1820.)
Ho detto altrove; (p.55.) domandate piacere
ad uno, che non vi si possa fare senza incorrere nell'odio di un altro ec. La
cagione di questo è che l'odio è passione, la gratitudine ragione
e dovere, eccetto il caso che il benefizio produca l'amore passione,
giacchè questa non si può dubitare che spesso non sia più
efficace ed attiva dell'odio e di tutte le altre. Ma la semplice gratitudine
è tutta relativa ad altrui, laddove l'amore passione, benchè
sembri, non è tale, ma è fondata sommamente nell'amor proprio,
giacchè si ama quell'oggetto come cosa che c'interessa, ci piace, e la
nostra persona entra in questo affetto per grandissima parte. Ma la ragione non
è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che
l'uomo si muova per la ragione come, anzi più assai che per la passione,
anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La natura degli uomini e
delle cose, può ben [294]esser corrotta, ma non corretta. E se
lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante la
detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna estinguer la
passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere
la virtù l'eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali
erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma quando la sola passione
del mondo è l'egoismo, allora si ha ben ragione di gridar contro la
passione. Ma come spegner l'egoismo colla ragione che n'è la nutrice,
dissipando le illusioni? E senza ciò, l'uomo privo di passioni, non si
muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perchè le cose son fatte
così, e non si possono cambiare, chè la ragione non è
forza viva nè motrice, e l'uomo non farà altro che divenirne
indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com'è divenuto
in grandissima parte.
(22. ottobre 1820.)
Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e
del timor della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita
è meno amabile, e che la morte può [295]privarci di minore
spazio di tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno
discusso ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni
fuorchè le vere: v. lo Spettatore di Milano), sono, oltre quella che ho
recata, mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre. 1.
Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue
o scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno
gagliarda, l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o
considerarne la perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la
vita, coraggiosissimi nelle battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso
paurosissimi nelle malattie, tanto per la detta cagione della minor forza del
corpo, e quindi dell'animo, quanto perchè non possono opporre alla morte
quell'irriflessione, quel movimento, quell'energia, che gl'impedisce di
fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi. 2. Che molte cose vedute da lungi
paiono facilissime ad incontrare, e niente spaventose, e in vicinanza riescono
terribili, e poi ci si trovano mille difficoltà, mille crepacuori;
affezioni, progetti ec. che da lontano pareano facili ad abbandonare [296]per
forza di ardore di entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino
rincrescono infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si
considerano quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo
amor della vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto
che fossero cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della
maggiore o minor perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo
amore e di quest'odio crescano in proporzione che la cosa amata è
più in pericolo, e più bisognosa di cure per conservarla, e la
cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano quando si possiedono
sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o si
è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era maggiore del
giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in qualsivoglia
cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero
possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la
felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno.
Il vecchio per l'assuefazione è meno suscettibile [297]di mali, e
meno sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e
dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo
nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che
desidera, e a desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde
la vita del vecchio non è più infelice di quella del giovane,
anzi forse più felice secondo la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica,
tranquilla e inattiva non è penosa ma piacevole, quando s'accordi col
metodo, calma, e inattività dell'individuo. Certo il giovane muore in
una tal condizione, ma la condizione ch'egli desidera, specialmente nello stato
presente del mondo, è difficilissima o impossibile a conseguire. Egli
non trova altro che il nulla da cui fugge; il vecchio lo desidera, lo cerca, lo
trova come tutti gli altri di qualunque età, e a differenza delle altre
età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo lo soffre con
pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non
può non amar la vita, perchè questa è amabile per natura.
Aggiungete la tempesta delle passioni, dalla [298]quale il vecchio
è libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari,
delle azioni, degli stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane,
anche dopo averla sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi
è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e che
l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla
calma e all'INAZIONE continuamente in quasi tutte le sue operazioni.
Osservate ancora che la vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la
più felice vita, non sociale, ma naturale. Osservate anche oggidì
l'impressione che fa l'aspetto di essa vita rurale o domestica, nelle persone
più dissipate, o più occupate, e com'ella par loro la più
felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale
quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei
selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della
fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura
inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe [299]penosissima.
Si vedono bene spesso de' carcerati ingrassare e prosperare, ed esser pieni di
allegria, nella stessa aspettazione di una sentenza che decida della loro vita.
Dove anzi l'imminenza del male, accresce il piacere del presente, cosa
già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata
da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di gioia
maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male
imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e non più,
e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e
soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non ostante la mia
indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima. Anzi forse
questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della risoluzione
di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi. V. p.121.
pensiero 3. e confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con
quello.
(23. ottobre 1820.)
I principi non possono essere amati per
altra passione che per quella che consiste nell'amor di parte. [300]L'ambizione,
l'avarizia ec. cadono sotto la categoria dell'interesse, consistono nel freddo
calcolo dell'egoismo, e perciò spettano alla ragione, tutto l'opposto
del fervido, irriflessivo e cieco impeto della passione. E chi sacrifica se
stesso al principe per ambizione, avarizia, o altre mire di propria utilità,
non si sacrifica veramente al principe ma a se stesso, e tanto quanto lo crede
utile a se stesso, e in caso diverso, abbandona la sua causa. Ma l'amor di
parte conduce a sacrificarsi furiosamente, e senza riserva nè condizione
nè ritegno nè calcolo veruno, all'oggetto di questo amore, e così
la passione primieramente è più forte della ragione e
dell'interesse, e conduce ad affrontare molto maggiori ostacoli e pericoli; in
secondo luogo non è soggetta a cambiar di strada secondo le circostanze,
come l'interesse che da una causa porta a difenderne un'altra, secondo che
meglio torna. I principi dunque non potendo esser favoriti dai sudditi per
altra passione che per la sopraddetta, e l'interesse non essendo nè
così forte, nè molto meno così costante, la ragione poi
essendo inoperosissima (giacchè vediamo tutto giorno che quella parte [301]dei
sudditi la quale ama o favorisce il suo governo per mera persuasione, come
anche quella che lo odia nello stesso modo, è la parte più
immobile e più passiva del popolo), debbono fomentare l'amor di parte. E
siccome questo non è attivo anzi non esiste, se non v'è parte
contraria, perciò, quantunque sembri un paradosso, si può
affermare che giova al principe il dar luogo a una fazione contraria alla sua,
quando esista la favorevole, e sia più forte com'è il più
naturale e ordinario. Questa fu la pratica dei romani la quale riuscì
loro così bene come nessuno ignora. E i realisti di Francia, e le provincie
o città realiste non sarebbero così ardenti sostenitori del re,
se non avessero lo spirito di parte, e se non esistesse un partito contrario
considerabile, il quale non è più forte, ma se fosse, l'affare
sarebbe fuor del caso. E cento altri esempi e prove simili può fornire
la storia antica e moderna e presente. Quello dunque che ho detto p.113. de'
conquistatori, si può estendere a tutti i principi e governi.
(27. ottobre 1820.)
massime monarchici, oligarchici,
aristocratici ec. perchè nelle repubbliche [302]il caso è
alquanto diverso, e le fazioni sono utili per altre ragioni, ma non però
che anche questa non si possa applicare ad esse pure. V. p.1242.
Nelle estreme sventure tutte le altre
età ammettono la consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la
giovanezza non ammette e non vede altra consolazione che della morte. Il libro
di Crantore Jlodatissimo
dagli antichi, il libro di Cicerone de Consolatione dove espresse in
gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle altre età. Pel
giovane estremamente sventurato, o che si creda tale, non si può scriver
libro consolatorio.
La corruttela de' costumi è mortale
alle repubbliche, e utile alle tirannie, e monarchie assolute. Questo solo
basta a giudicare della natura e differenza di queste due sorte di governi.
(3.
novembre 1820.)
La plus grande marque qu'on
est né avec de grandes qualités, c'est d'être sans envie Madame la
Marquise de Lambert, Avis d'une mère à son fils. À Paris
et à Lyon 1808. p.67.
Une
résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame) contracteroit
avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les à la patience:
c'est à elle seule à les adoucir [303]. La même,
ibid. p.88. (5 Nov. 1820.).
Bione
Boristenite J (anxietate maiore detineatur), , colui che cerca le supreme felicità
(Laerz. in Bione, l.4 segm.48.). Chi sa pascersi delle piccole felicità,
raccogliere nell'animo suo i piccoli piaceri che ha provato nella giornata, dar
peso presso
se medesimo alle piccole fortune, facilmente
passa la vita, e se non è felice, può crederlo, e non accorgersi
del contrario. Ma chi non dà mente se non alle grandi felicità,
non considera come guadagno, e non proccura di pascersi e ruminare seco stesso
i piccoli accidenti piacevoli, le piccole riuscite, soddisfazioni, conseguimenti
ec. e tiene tutto per nulla, se non ottiene quel grande e difficile scopo che
si propone; vivrà sempre cruccioso, ansioso, senza godimenti, e in vece
della gran felicità, ritroverà una continua infelicità.
Massimamente che, conseguito ancora quel grande scopo, lo troverà molto
inferiore alla speranza, come sempre accade nelle cose lungamente desiderate e
cercate.
(6. Nov. 1820.). V. poco sotto.
Osservano i giuristi che nel Cod. Giustin.
non si trova legge contro i duelli (perlochè moltissimi si sforzano di
tirarci scioccamente quella di Costantino M. [304]contro i Gladiatori).
Così accade a chi fa il ritratto o la copia avanti che abbia veduto
l'originale, o ad un fanciullo che si faccia le vesti per quando sarà cresciuto.
Il faut s'arrêter et
séjourner sur les goûts et sur les plaisirs, pour en jouir: il faut de
repos pour le bonheur. Il n'y a point de présent pour une ame agitée: la soif
des richesses ne laisse jamais assez de calme pour sentir ce que l'on possède
(lo stesso dite di qualunque altro desiderio difficile a conseguire, e
vivissimo tuttavia)... Ils passent leur vie en désirs et en espérances: ainsi,
ils ne vivent pas, mais ils espérent de vivre. Madame de Lambert, Réflexions
sur les richesses. Paris 1808. à la suite des Avis d'une mère
à son fils. p.153.154.
Quel detto scherzevole di un francese Glissez,
mortels, n'appuyez pas a me pare che contenga tutta la sapienza umana,
tutta la sostanza e il frutto e il risultato della più sublime e
profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già
stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto nè alla ragione, ma
all'istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l'avevamo messo in pratica da [305]fanciulli.
Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza,
sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da
fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza
di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed
eseguivano senza sognarsi d'esser filosofi, e senza stenti nè fatiche
nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec.
Sicchè la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque
massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo; anzi tanto più,
quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi
operavamo per istinto e disposizione ch'era dentro di noi, ed immedesimata
colla nostra natura, e però più certamente e immancabilmente e
continuamente efficace. Così l'apice del sapere umano e della filosofia
consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l'uomo fosse ancora
qual era da principio, consiste a correggere i danni ch'essa medesima ha fatti,
a rimetter l'uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato, s'ella non
fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della
filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia.
(7. Nov. 1820.)
[306]Aristotele, o secondo altri,
Diogene, . (Laerz. in Aristot. l.5. seg.18.) Teofrasto definiva la bellezza (ib. 19.).
Pur troppo bene: perchè tutto quello che la bellezza promette, e par che
dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d'animo,
è tutto falso. E così la bellezza è una tacita menzogna.
Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perchè
non
è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è
relativo all'effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente.
Appelliamo tutto giorno ai posteri. Nelle
cose dove alla giustizia, al retto giudizio, alle retribuzioni dovute ec.
nuocono i difetti o vizi de' contemporanei in quanto contemporanei, va bene. Ma
in tutto il resto, in tutto quello che spetta ai vizi degli uomini come uomini,
o come animali depravati, non so quanto ci gioverà quest'appellazione.
Se potessimo appellare ai passati, saremmo più fortunati, ma il costume
del mondo è stato sempre di peggiorare, e che il futuro fosse peggiore
del presente e del passato. Le generazioni migliori non sono quelle davanti, ma
quelle di dietro; e non c'è speranza che [307]il mondo cambi
costume, e rinculi in vece di avanzare; e avanzando già non può
far altro che peggiorare. Massime a questi tempi e costumi presenti, non par
che possa succedere nè derivare altro che tempi e costumi peggiori. Vediamo
dunque che cosa ci resti a sperare dalla posterità. V. p.593. capoverso
1.
È un curioso andamento degli studi
umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno
acquistato fama stabile e universale, diventino classici, cioè i
loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano de'
fanciulli, come i trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte.
Omero che scriveva innanzi ad ogni regola,
non si sognava certo d'esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di
Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata,
analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli
altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E
si può ben dire che l'originalità di un grande scrittore,
producendo la sua fama, (giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e
non avrebbe servito di norma [308]e di modello) impedisce
l'originalità de' successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i
poveri gramatici, i quali dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno
dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di sillabe comuni ec. o almeno
avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti,
perchè Omero innocentemente, non sapendo il gran feto delle regole del
quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a suo talento, e fino
nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta lunga, e un'altra
breve.
Il Parnaso latino creato dopo che gli studi
aveano preso forma regolare, se non intieramente presso i latini (quantunque la
vera creazione del Parnaso latino si possa porre nel secolo di Augusto,
perchè i poeti antecedenti erano di pochissimo conto), certo però
presso i greci, dai quali tutta la letteratura latina derivò immediatamente;
non fu soggetto a questa difficoltà.
(8. Nov. 1820.)
Ma la poesia greca ebbe la disgrazia di
trovarsi tutta bella e formata prima della nascita delle regole. Dal che non
solo intorno alla prosodia, ma a tutto il rimanente, si possono [309]osservare
quelle conseguenze che sono naturali, e quelle differenze che ne dovevano
nascere, rispetto alla poesia latina.
Il faut être bien grand
pour avoir la force de ne l'être qu'à ses propres yeux. Madame de
Lambert, Portrait de M. de S. Paris 1808. à la suite des Avis d'une
mère à son fils. p.226.
Il est
dans l'âge où les sentimens deviennent plus délicats, parce qu'on
échappe à l'empire des sens: dans cet âge où l'on vit encore pour
ce qui plaît, et où l'on se retire pour ce qui incommode, il jouit des
plaisirs purs. Ib. p.227.
Di uno sciocco che sempre vien fuori colla
logica, dove ha gran presunzione, e la caccia in tutti i discorsi. Egli
è propriamente l'uomo definito alla greca; un ANIMALE logico.
Il gusto decisamente di preferenza che ha
questo secolo per le materie politiche, è una conseguenza immediata e
naturale, della semplice diffusione dei lumi, ed estinzione dei pregiudizi.
Perchè quando per una parte non si pensa più colla mente altrui,
e le opinioni non dipendono più dalla tradizione, [310]per
l'altra il sapere non è più proprio solamente di pochi, i quali
non potrebbero formare il gusto comune; allora le considerazioni cadono
necessariamente sopra le cose che c'interessano più da vicino,
più fortemente, più universalmente. L'uomo pregiudicato o
irriflessivo, segue l'abitudine, lascia andar le cose come vanno, e
perchè vanno e sono andate così, non pensa che possano andar
meglio. Ma l'uomo spregiudicato e avvezzo a riflettere, com'è possibile
che essendo la politica in relazione continua colla sua vita, non la renda
l'oggetto principale delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo gusto?
Nei secoli passati, come in quello di Luigi 14. anche gli uomini abili, non
essendo nè spregiudicati, nè principalmente riflessivi, della
politica conservavano l'antica idea, cioè che stesse bene come stava, e
toccasse a pensarvi solamente a chi aveva in mano gli affari. Più tardi,
gli uomini spregiudicati non mancavano, ma eran pochi: pensavano e parlavano di
politica, ma il gusto non poteva essere universale. Aggiungete che i letterati
e i sapienti per lo più vivono in una certa lontananza dal mondo;
perciò la politica non toccava il sapiente così dappresso, non
gli stava tanto avanti gli occhi, non era in tanta relazione [311]colla
sua vita, come ora che tutto il mondo è sapiente, e le cognizioni son
proprie di tutte le classi. Del resto, sebbene la morale per se stessa è
più importante, e più strettamente in relazione con tutti, di
quello che sia la politica, contuttociò a considerarla bene, la morale
è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla
politica: la vita, l'azione, la pratica della morale, dipende dalla natura
delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una
scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella
nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale
è un detto, e la politica un fatto: la vita domestica, la società
privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello
stato pubblico di un popolo. Osservatelo nella differenza tra la morale pratica
degli antichi e de' moderni sì differentemente governati.
(9 Nov. 1820.)
Oltracciò il comune è
bensì illuminato e riflessivo al dì d'oggi, ma non profondo, e
sebbene la politica domanda forse maggior profondità di lumi e di
riflessioni che la morale, contuttociò il suo aspetto e superficie offre
un campo più facile agl'intelletti volgari, e generalmente la politica
si presta [312]davantaggio ai sogni alle chimere alle fanciullaggini.
Finalmente il volgo preferisce il brillante e il vasto al solido ed utile, ma
in certo modo più ristretto e meno nobile, perchè la morale
spetta all'individuo, e la politica alla nazione e al mondo. E la superbia
degli uomini è lusingata dal parlare e discutere i pubblici interessi,
dall'esaminare e criticare quelli che gli amministrano ec. e il volgare si
crede capace e degno del comando, allorchè parla della maniera di
comandare.
Alla p.62. pensiero 1. Osservate però
che c'è una differenza in questo fra la letteratura latina e l'italiana,
in quanto non le sole cognizioni filosofiche o filologiche, le quali esigevano
l'uso delle parole greche, ma tutta la letteratura latina era derivata dalla
greca. Non così l'italiana dalla francese, eccetto nella filosofia ec.
anzi per lo contrario. Sicchè l'introdur parole greche in latino doveva
essere un poco più facile e naturale. Del resto la stessa cognazione e
fratellanza ch'era tra la greca e la latina esiste tra la lingua italiana e la
francese, e se la greca si vuol considerare per anteriore, se non altro nella
formazione e sistemazione, anche la lingua provenzale ci ha preceduto quasi
nello stesso modo.
Alla p.58. pensiero penultimo. Aggiungete
che il [313]tempo di Giuliano era tutto sofistico, e tale egli è
in tutte le altre sue opere, tali sono Libanio, Temistio ec. suoi più
famosi scrittori contemporanei. Ma nessuno è sofista quando parla di se
stesso e per se stesso, e in un'occasione che mette in vero movimento l'animo
suo.
Come la forza della natura giovanile, forza
che non può esser vinta in fatto da nessuna ragionevolezza,
studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il giovane
s'inebbri facilmente della felicità, così anche
dell'infelicità, quando questa è tanto grave che superi la
naturale inclinazione del giovane all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a
noncurare il male. E perciò il giovane è incapace d'altra consolazione
che della morte, come ho detto p.302. Nè religione, nè ragione,
nè altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane
sommamente sventurato, s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta
s'impiega in consolidare, e fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo
male.
La letteratura francese si può
chiamare originale per la sua somma e singolare inoriginalità.
[314]Alla p.252. La Spagna
è una prova e un esempio vivo e presente di quello ch'io dico. Nella
Spagna barbara di barbarie non primitiva ma corrotta per la superstizione, la
decadenza da uno stato molto più florido, civile, colto e potente, gli
avanzi de' costumi moreschi ec. nella Spagna, dico, l'ignoranza sosteneva la tirannia.
Questa dunque doveva cadere ai primi lampi di una certa filosofia, derivati
dall'invasione e dimora de' francesi, e dalla rivoluzione del mondo. L'ignoranza
è come il gelo che assopisce i semi e gl'impedisce di germogliare, ma
non gli uccide, come l'incivilimento, e passato l'inverno, quei semi germogliano
alla primavera. Così è accaduto nella Spagna, dove quel popolo,
tornato quasi vergine ha sentito le scosse dell'entusiasmo, e l'avea già
dimostrato nell'ultima guerra. E perciò s'è veduto quivi il contrario
delle altre nazioni, come osserva l'autore del Manuscrit venu de Sainte
Hèlene, cioè che lo spirito rivoluzionario esisteva solamente
in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati, nobili,
tutti quelli che nella rivoluzione non aveano che a perdere: [315]perchè
il torpore della nazione non derivava da eccesso d'incivilimento, ma da
difetto; e i pochi colti, probabilmente non lo erano all'eccesso, come altrove,
ma quanto basta e conviene, e non più. Quando la Spagna sarà bene
incivilita ricadrà sotto la tirannia, sostenuta non più dall'ignoranza,
ma per lo contrario dall'eccesso del sapere, dalla freddezza della ragione,
dall'egoismo filosofico, dalla mollezza, dal genio per le arti e gli studi
pacifici. E questa tirannia sarà tanto più durevole quanto
più moderata della precedente. E se il re di Spagna avrà vera politica
dovrà promuovere a tutto potere l'incivilimento del suo popolo (e in
questi tempi vi potrà riuscire più facilmente e più presto).
E con ciò non consoliderà la loro indipendenza, come si crede
comunemente, ma gli assoggetterà di nuovo, e ricupererà quello
che ha perduto. Non c'è altro stato intollerante di tirannia, o capace
di esserne esente, fuorchè lo stato naturale e primitivo, o una
civilizzazione media, com'è ora quella della Spagna, com'era quella de'
Romani ec. Atene e la Grecia quando furono sommamente civili, non furono mai
libere veramente.
(10 Nov. 1820.)
[316]Teofrasto notato dagli
antichi per uomo laboriosissimo e infaticabile negli studi, venuto a morte
nell'estrema vecchiezza per l'assiduità dello scrivere, secondo
ch'è riferito da Suida, e interrogato dagli scolari se lasciasse loro
nessun precetto o ricordo, rispose, Nient'altro se non che l'uomo disprezza
molti piaceri a causa della gloria. Ma non così tosto incomincia a
vivere che la morte gli sopravviene. Però l'amor della gloria è
così svantaggioso come checchessia. Vivete felici, e lasciate gli studi
che vogliono gran fatica, o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se
non che la vanità della vita è maggiore dell'utilità. Per
me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che
vada fatto. E così dicendo spirò. (Queste sono le sue proprie
parole come le riporta il Laerzio, in Theophrasto l.5 segm.41.)
Del rimanente mi pare che Teofrasto forse
solo fra gli antichi o più di qualunque altro, amando la gloria e gli
studi, sentisse peraltro l'infelicità inevitabile della natura umana,
l'inutilità de' travagli, e soprattutto l'impero della fortuna, e la sua
preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità
dell'uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto [317]meno
profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di
credere il filosofo felice per se, e la virtù sola o la sapienza,
bastanti per se medesime alla felicità. Laonde Teofrasto non ebbe giustizia
dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità di tristo e
doloroso sentimento che lo faceva parlare. Vexatur Theophrastus et libris et
scholis omnium philosophorum, quod in Callisthene suo laudarit illam sententiam:
Vitam regit fortuna non sapientia. Cic.
Tuscul. 3. et 5. (vedilo perchè contiene qualche altra cosa). Quod
maxime efficit Theophrasti de beata vita liber, in quo multum admodum fortunae
datur. Id. de Finibus l.4. Neanche ha
ottenuto dai moderni quella stima che meritava, essendo smarrite quasi tutte le
sue moltissime opere, nè restando altro che alcune fisiche, eccetto i
Caratteri; e io credo di essere il primo a notare che Teofrasto essendo
filosofo e maestro di scuola (e scuola eccessivamente numerosa), anteriore oltracciò
ad Epicuro, e certamente non Epicureo nè per vita nè per massime,
si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle
triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e
poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a'
dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale. Ma
così anche si vede che Teofrasto conoscendo le illusioni, non
però [318]le fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi
filosofi, ma le cercava e le amava, anzi si faceva biasimare dagli altri
antichi filosofi, appunto perchè onorava le illusioni molto più
di loro. Itaque miror quid in mentem [venerit] Theophrasto in eo libro quem De
divitiis scripsit: in quo multa praeclare, illud absurde. Est enim multus in laudanda magnificentia et
apparatione popularium munerum, taliumque sumtuum facultatem, fructum
divitiarum putat. Cic. de offic.
Così si vede che appunto chi conosce
e sente più profondamente e dolorosamente la vanità delle
illusioni, le onora e desidera e predica più di tutti gli altri, come
Rousseau, la Staël ec.
Che se Teofrasto vicino a morte le
abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo stesso è
una prova di quanto le avesse amate perchè non si ripudia quello che non
s'è mai amato, nè si abbandona quello che non s'è mai
seguito. Nè si mente senza vantaggio in punto di morte ec.
(11. Nov. 1820.)
[319]Sovente ho desiderato con
impazienza di possedere e gustare un bene già sicuro, non per
avidità di esso bene, ma per solo timore di concepirne troppa speranza,
e guastarlo coll'aspettativa. E questa tale impazienza, ho osservato che non
veniva da riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch'io andava fantasticando e
congetturando sopra quel bene o diletto. E così anche naturalmente
proccurava di distrarmi da quel pensiero. Se però l'abito generale di
riflettere, o vero l'esperienza e la riflessione che mi aveano già
precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei piaceri, e
la diffidenza dell'aspettativa, non operavano allora in me senz'avvedermene, e
non mi parvero natura.
(11 Nov. 1820.)
Dice Quintiliano l.10. c.1. Quid ego commemorem Xenophontis iucunditatem illam
inaffectatam, sed quam nulla possit affectatio consequi? E certo
ogni bellezza principale nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non
dall'affettazione o ricerca. Ora il traduttore necessariamente affetta,
cioè si sforza di esprimere il carattere e lo stile altrui, e ripetere
il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate quanto
sia difficile una buona traduzione in genere di bella letteratura, [320]opera
che dev'esser composta di proprietà che paiono discordanti e
incompatibili e contraddittorie. E similmente l'anima e lo spirito e l'ingegno
del traduttore. Massime quando il principale o uno de' principali pregi dell'originale
consiste appunto nell'inaffettato, naturale e spontaneo, laddove il traduttore
per natura sua non può essere spontaneo. Ma d'altra parte quest'affettazione
che ho detto è così necessaria al traduttore, che quando i pregi
dello stile non sieno il forte dell'originale, la traduzione inaffettata in
quello che ho detto, si può chiamare un dimezzamento del testo, e quando
essi pregi formino il principale interesse dell'opera, (come in buona parte
degli antichi classici) la traduzione non è traduzione, ma come
un'imitazione sofistica, una compilazione, un capo morto, o se non altro
un'opera nuova. I francesi si sbrigano facilmente della detta
difficoltà, perchè nelle traduzioni non affettano mai.
Così non hanno traduzione veruna (e lasciateli pur vantare il Delille, e
credere che possa mai essere un Virgilio), ma quasi relazioni del contenuto
nelle opere straniere; ovvero opere originali composte de' pensieri altrui.
[321]Una delle prime cagioni della
universalità della lingua francese, è la sua unicità.
Perchè la lingua italiana (così sento anche la tedesca, e forse
più) è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola,
potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli
scrittori ec. che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo
presso che alcuna relazione scambievole. Dante - Petrarca e Parini ec.
Davanzati - Boccaccio, Casa ec. V. p.244. Dal che come seguono infiniti e
principalissimi vantaggi, così anche parecchi svantaggi. 1. che lo
straniero trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore, e
passando a un altro, non l'intende. (Così nei greci) 2. che potendosi
scrivere o parlare italiano senza essere elegante ec. ec. ec. lo scrittore
italiano volgare scrive ordinariamente malissimo; così il parlatore ec.
Al contrario del francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e
parte, non parla francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i
francesi scrivono e parlano elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e
quanto al più e il meno, le differenze sono così piccole, [322]che
se i francesi le sentono nei loro diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili.
Laddove le differenze de' buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia.
Così anche dei greci.
E notate di passaggio che la lingua latina
ha una strada molto più segnata e definita, e rassomiglia in questo alla
francese. La cagione è che la lingua latina scritta, fu opera dell'arte
(onde il volgar latino differiva sommamente dal letterale) come è noto,
e come dimostra a prima vista la sua artificiosissima e figuratissima
costruzione. Laddove la forma della lingua greca e italiana fu opera della natura,
vale a dire che ambedue queste lingue si formarono prima della nascita, o
almeno della formazione e definizione delle regole, e prima che gli scrittori
fossero legati da' precetti dell'arte. Così la natura è sempre
varia, e l'arte sempre uniforme, o se non altro sommamente inferiore alla natura
in varietà.
In somma lo straniero e il francese parla
facilmente bene la sua lingua, dove la varietà non genera confusione o
difficoltà all'imperito.
[323]E l'unicità della
lingua francese, e la moltiplicità dell'italiana apparisce più
chiaro che mai dalla facoltà rispettiva nelle traduzioni. La lingua
tedesca ancora, passa per sommamente suscettibile di prendere il carattere e la
forma di qualunque lingua, scrittore, e stile, e quindi per ricchissima in
traduzioni vivamente simili agli originali. Non so peraltro se questa
facoltà consista veramente nello spirito dello stile, o solamente nel
materiale, come par che dubiti la Staël nell'articolo sulle traduzioni.
Il fatto sta che i francesi vantandosi
dell'universalità della loro lingua si vantano della sua poca bellezza,
della sua povertà, uniformità, ed aridità, perchè s'ella
avesse quanto si richiede per esser bella, e se fosse ricca e varia, e se non
fosse piuttosto geometria che lingua, non sarebbe universale. Ma il mondo se ne
serve come delle formole o dei termini di una scienza, noti e facili a tutti,
perchè formati sullo sterile modello della ragione, o come di un'arte o
scienza pratica, di una geometria, di un'aritmetica, ec. comuni a tutti i popoli,
perchè tutti dalle stesse maggiori deducono le stesse conseguenze.
(13. Nov. 1820.)
[324]Dalle sopraddette considerazioni
osserverai quanto sia giusta la maraviglia e degna la lode di quelli che dicono
che in Francia da Luigi
Demetrio Falereo . (Laerz.
in Demetr. l.5. seg.82.). Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat
circumcidi oportere altitudinem, opinionem autem de se relinquere. Così
l'interprete benissimo. Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune
parole dello stesso segm. poco addietro.
J(subint. , quod est
in superioribus) Detto dello stesso, appo il Laerz. l.c. segm.83.
Il vino è il più certo, e
(senza paragone) il più efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque
la natura.
A quello che ho detto poco sopra di
Teofrasto, [325]aggiungi i suoi Caratteri, dove com'è noto, e
forse superiormente a qualunque scrittore antico, massimamente greco e
prosatore, si dimostra molto avanzato nella scienza del cuore umano. Ora chi
conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la vanità delle
illusioni, e inclina alla malinconia, tanto più che la base di questa
scienza è la sensibilità e suscettibilità del proprio
cuore, nel quale principalmente si esamina la natura dell'uomo e delle cose.
(V. quello ch'io dirò in questi pensieri intorno al Massillon). Del
rimanente Teofrasto liberò due volte la sua patria dalla tirannide.
Plutarco, adversus Colot. in fine. p.1126. f. Non se n'ha altra testimonianza
che questa, come apparisce dal Fabricio.
Come i più ardenti zelatori delle
illusioni sono forse quelli che ne conoscono e sentono più vivamente e
universalmente la vanità, così i loro più ardenti impugnatori
son quelli che non la conoscono bene, o se la conoscono bene, non la sentono
intimamente e in tutta l'estensione della vita; cioè la conoscono in
teoria, ma non in pratica. Tali sono gli spregiudicati e gl'intolleranti filosofici
de' nostri giorni. [326]Perchè se la conoscessero e sentissero, e
ne comprendessero tutta l'immensa estensione, se ne spaventerebbero, la mancanza
di esse illusioni torrebbe loro quasi il respiro, cercherebbero di rifugiarsi
un'altra volta nel seno dell'ignoranza o dimenticanza del vero, e del
crudelissimo dubbio (dimenticanza che non gli alienerebbe, anzi li
ricondurrebbe alla religione), di richiamar l'attività ec. Se non altro
non sarebbero così ardenti nel combattere le illusioni, non cercherebbero
gloria nel dimostrar la vanità di tutte le glorie, non porrebbero molta
importanza nel dimostrare e persuadere che nulla importa, e per conseguenza
neanche questa dimostrazione.
Dicono che la felicità dell'uomo non
può consistere fuorchè nella verità. Così parrebbe,
perchè qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il
mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render felice?
Eppure io dico che la felicità consiste nell'ignoranza del vero. E
questo, appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e
perchè la natura ha fatto l'uomo felice. Ora essa l'ha fatto anche
ignorante, come gli altri animali. Dunque l'avrebbe fatto [327]infelice
esso, e le altre creature; dunque l'uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure
le altre creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari
moltissimi secoli perchè l'uomo acquistasse il complemento, anzi il
principale dell'esistenza, ch'è la felicità (giacchè
nemmeno ora siam giunti all'intiera cognizione nel vero); dunque gli antichi
sarebbero stati necessariamente infelici; dunque tutti i popoli non colti,
parimente lo saranno anche oggidì; dunque noi pure necessariamente per
quella parte che ci manca della cognizione del vero. Laddove tutti gli esseri
(parlo dei generi e non degl'individui) sono usciti perfetti nel loro genere
dalle mani della natura.
E la perfezione consiste nella
felicità quanto all'individuo, e nella retta corrispondenza all'ordine
delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest'ordine in un modo, e
la natura in un altro. Noi in un modo con cui l'ignoranza è incompatibile:
la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E se la
natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri,
perchè, supponendo che l'abbia posta riguardo all'uomo nella cognizione
del vero, ha nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli
non bastano a discoprirlo? [328]Non sarebbe questo un vizio organico,
fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso
così difficile il solo mezzo di ottener quello ch'ella voleva
soprattutto, e si prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la
felicità dell'uomo, il quale tiene evidentemente il primo rango
nell'ordine delle cose di quaggiù? Come ha ripugnato con ogni sorta di ostacoli
a quello ch'ella cercava? Ma l'uomo dovea ben tenere il primo rango, e lo
terrebbe anche in quello stato naturale che noi consideriamo come brutale; non
però dovea mettersi in un altr'ordine di cose, e considerarsi come appartenente
ad un'altra categoria, e porre la sua dignità, non nel primeggiare tra
gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente fuori
della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e indipendenti dalle leggi universali
della natura.
(14. Nov. 1820.)
È osservabile nella differenza tra i
giuochi greci e i romani, la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta
nel corso ec. appresso a poco coi soli istrumenti datici dalla natura, laddove
i romani colle spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione
di quei giuochi, [329]diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la
natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ec.: presso gli altri o al
semplice sollazzo, o all'addestramento militare. Così che quelli andavano
alla sorgente universale delle grandi imprese, questi si fermavano ad un mezzo
particolare. E questa differenza è anche più notabile in
ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini liberi per amor di
gloria. Quindi l'effetto favorevole all'entusiasmo, l'eccitamento,
l'emulazione, gli esercizi preparatorii ec. Gli spettacoli romani erano
eseguiti da' servi. Quindi non altro effetto utile che l'avvezzar gli occhi e
l'animo agli spettacoli e pericoli della guerra: utilità parziale e
secondaria, non generale e primitiva come l'altra. Nel che forse si
potrà anche notare la differenza tra un popolo libero e padrone, e un
popolo libero bensì, ma non padrone, se non di se stesso, com'era il greco.
V. p.360. capoverso 2.
Quello che ho detto altrove della
necessità di una persuasione per le grandi imprese, è applicabile
soprattutto alla massa del popolo, e combina con quello che dice Pascal che
l'opinione è la regina [330]del mondo, e gli stati dei popoli e i
loro cangiamenti, fasi, rovesciamenti provengono da lei. 1. Le passioni son
varie, l'opinione è una, e il popolo non può esser mosso in uno
stesso senso, se non da una cagione comune e conforme.
(15 Nov. 1820.)
[331]Quello ch'io dico della
filosofia de' romani, e in genere di ogni filosofia, si conferma dall'esser
cosa già osservata che la religione si ritrova presso la culla di tutti
i popoli, in quella guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina
alla lor tomba. (Essai sur l'indifférence
en matière de Religion. nelle prime linee del Capo 2. E poco
dopo il principio del C.1. dopo aver detto che la filosofia greca, tanto temuta
da Catone, e nondimeno insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di
Roma vincitrice del mondo, soggiunge ch'è un fatto degno della
più seria considerazione che tutti gl'imperi, la cui storia è da
noi conosciuta, e che erano stati consolidati dal tempo e dalla prudenza, si
videro rovesciati dai Sofisti. Nel capo secondo si estende maggiormente in
provare che la filosofia fu la distruttrice di Roma, e conviene con Montesquieu
il quale non teme di attribuire la caduta di quest'impero alla filosofia di
Epicuro, aggiungendo in nota che Bolinghbroke pensa in questo punto assolutamente
come Montesquieu: «L'obblio ed il disprezzo della Religione furono la cagione
principale dei mali che [332]provò Roma in seguito: la Religione
e lo Stato decaddero nella medesima proporzione.». T.4 p.428.). Colla
differenza che laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli stati
sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall'errore, io
dico che sono stabiliti e conservati dall'errore, e distrutti dalla verità.
La verità non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di
tutte le cose umane; e il tempo e l'esperienza non sono mai stati distruttori
del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del
vero. E chi considera le cose al rovescio, va contro la conosciuta natura delle
cose umane. Questo è il controsenso fondamentale in cui è caduto
l'autore sopracitato. Egli avrebbe difesa molto meglio la Religione se l'avesse
difesa non come dettame dell'intelligenza, ma come dettame del cuore. E quando
egli dice che dunque l'esistenza e la felicità, la perfezione e la vita
dell'uomo sarebbero contro natura, perchè la natura è il complesso
delle perpetue verità, s'inganna, perchè la natura è il
complesso delle verità in tal modo che tutto quello ch'esiste sia vero,
ma non tutto quello ch'è vero sia conosciuto da ciascuna delle di lei
parti. Ed una di queste verità che son comprese [333]nel sistema
della natura, è che l'errore e l'ignoranza è necessaria alla
felicità delle cose, perchè l'ignoranza e l'errore è
voluto, dettato, e stabilito fortemente da lei, e perch'ella in somma ha voluto
che l'uomo vivesse in quel tal modo in cui ella l'ha fatto. E non perchè
l'uomo ha voluto speculare il fondo delle cose, contro quello che doveva anzi
poteva fare naturalmente, perciò è meno vero ch'egli doveva
ignorare quello che ha scoperto, e che la sua felicità sarebbe stata vera,
se egli avesse errato, e ignorato quelle verità che così considerate
riescono indifferenti all'uomo, e che la natura ha seguite (ma segretamente)
nel suo sistema, perchè gli erano necessarie, (16. Nov. 1820.) o perchè così gli è piaciuto.
La natura può supplire e supplisce
alla ragione infinite volte, ma la ragione alla natura non mai, neanche quando
sembra produrre delle grandi azioni: cosa assai rara: ma anche allora la forza
impellente e movente, non è della ragione ma della natura. Al contrario
togliete le forze somministrate dalla natura, e la ragione sarà sempre
inoperosa e impotente.
[334]Non c'è uomo
costituito in carica o dignità, il quale confessi di averla cercata, e
non dica o voglia fare intendere d'esserne stato rivestito spontaneamente, anzi
contro sua voglia ec. Gl'incarichi, le dignità, gli onori, ciascuno li
cerca, e nessuno gli ha cercati.
Laerzio, Vit. Speusippi, l.4, seg.2,
dice di Speusippo: JJJJQuesto
è notabile nei progressi dello spirito umano. Ma non so quanto sia vero
perchè Platone aveva già riunite e legate nel suo sistema
filosofico la fisica (compresa l'astronomia), la metafisica, la morale, la
politica e le matematiche. È noto fra le altre cose il motto della sua
scuola: non entri nessuno se non è geometra. V. la nota d'Is. Casaubono
al detto passo.
(17. Nov. 1820.)
Ripetono spesso gli apologisti della
Religione che il mondo era in uno stato di morte all'epoca della prima comparsa
del Cristianesimo; che questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva
impossibile. Quindi [335]conchiudono che questo non poteva essere
effetto se non dell'onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua
verità, che l'errore perdeva il mondo, la verità lo salvò.
Solito controsenso. Quello che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni;
il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione.
E gli effetti ch'egli produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi,
eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione. Non consideriamo adesso
s'egli sia vero o falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore.
Ma come si stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni,
contraddicendo ai governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che il
fanatismo di una grande illusione trionfa di tutto. Non ha considerato
menomamente il cuore umano, chi non sa di quante illusioni egli sia capace,
quando anche contrastino ai suoi interessi, e come egli ami spessissimo quello
stesso che gli pregiudica visibilmente. Quante pene corporali non soffrono per
false opinioni i sacerdoti dell'India ec. ec.! E la setta dei flagellanti nata
sui principii del Cristianesimo, che illusione era? E i sacrifizi infiniti che
facevano gli antichi filosofi p.e. i Cinici alla professione della loro setta,
spogliandosi di tutto il loro nella ricchezza ec.? E il sacrifizio de' 300.
alle Termopili? Ma come [336]trionfò il Cristianesimo della
filosofia, dell'apatia che aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di
quel tempo non erano 1. nè stabili, definiti e fissi, 2. nè
estesi e divulgati, 3. nè profondi come ora; conseguenza naturale della
maggiore esperienza, della stampa, del commercio universale, delle scoperte geografiche,
che non lasciano più luogo a nessun errore d'immaginazione, dei
progressi delle scienze i quali si danno la mano in modo, che si può
dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque genere influisca sopra
lo spirito umano. Quei lumi erano bastati a spegnere l'error grossolano delle
antiche religioni, ma non solamente permettevano, anzi si prestavano ad un
error sottile. E quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava al metafisico,
all'astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava in quei tempi. V. Plotino,
Porfirio, Giamblico, e i seguaci di Pitagora, anch'esso astratto e metafisico.
L'Oriente poi, non solo allora, ma antichissimamente, aveva inclinato alla
sottigliezza, ed anche alla profondità e verità, nella morale e
nel resto. Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec. ec. A distrugger l'error
più [337]sottile vi volevano lumi molto più profondi,
sottili e universali di quelli d'allora. Tali sono quelli d'oggidì,
così perfetti che sono interamente sterili d'errore, e da essi non
può derivare error più sottile, come dai lumi antichi, il quale
pur dia qualche vita al mondo. Ai mali della filosofia presente, non c'è
altro rimedio che la dimenticanza, e un pascolo materiale alle illusioni.
Del resto è vero che il Cristianesimo
ravvivò il mondo illanguidito dal sapere, ma siccome, anche
considerandolo com'errore, era appunto un errore nato dai lumi, e non
dall'ignoranza e dalla natura, perciò la vita e la forza ch'ei diede al
mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato riceve da' liquori
spiritosi, forza non solamente effimera, ma nociva, e produttrice di maggior
debolezza. Applicate quest'osservazione 1. alla poca durata della vera e
primitiva forza del Cristianesmo sotto ogni rapporto, in paragone dell'infinita
durata della forza degl'istituti e religioni antiche, p.e. presso i romani. 2.
alla qualità di questa forza, tutta tetra, malinconica ec. in paragone
della freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec. della vita
antica: conseguenza naturale della [338]differenza dei dogmi. 3.
all'aspetto lugubre che presero tanto i vizi quanto le virtù dopo la
propagazione intera del Cristianesimo, cioè dopo estinto quel primo
fuoco febbrile della nuova dottrina (cosa da me osservata altrove): in maniera
che si può dire che il mondo (quanto alla vita, e al bello) deteriorasse
infinitamente se non a cagione del Cristianesimo, almeno a cagione della
tendenza che lo produsse e doveva produrlo, e dopo la sua introduzione:
giacchè prima restavano ancora molti errori più naturali, e
quindi più vitali e nutritivi, non ostante la filosofia.
(17. Nov. 1820.)
Un pensiero degno di essere sviluppato
intorno alla perpetua superiorità degli antichi sopra i moderni a causa
della maggior forza della natura, per anche non corrotta, o meno corrotta, sta
nelle notes historiques de l'Éloge historique de l'Abbé de Mably, par l'abbé
Brizard, avanti le Observations sur l'hist. de France. Kehll. 1789. t.1. p.114. Note II.
(17. Nov. 1820.)
Alla p.271. pensiero ult. Tale era l'idea
che gli antichi si formavano della felicità ed infelicità.
Cioè l'uomo privo di quei tali vantaggi della vita [339]benchè
illusorii, lo consideravano come infelice realmente, e così viceversa. E
non si consolavano mai col pensiero che queste fossero illusioni, conoscendo
che in esse consiste la vita, o considerandole come tali, o come realtà.
E non tenevano la felicità e l'infelicità, per cose immaginare e
chimeriche, ma solide, e solidamente opposte fra loro.
(18. Nov. 1820.)
Il Laerzio Vit. Platon. l.3. seg.79-80. dice
di PlatoneJ (arbitratus est.
Interpr.) J÷JJJnarrationes. Interpr.) J, (ut, quod incertum sit ista
post mortem sic se habere, ad moniti mortales etc. Interpr. ma non bene)
Alla inclinazione degli uomini di
partecipare altrui il piacere e il dolore, notata in altri pensieri, si dee
riferire in gran parte la smania (attribuita principalmente alle donne, e
propria soprattutto de' fanciulli, insomma degli uomini più leggeri e naturali)
di rivelare il segreto [340]o la cosa che si dovrebbe, e spesso anche
d'altronde si vorrebbe tener nascosta, di raccontar subito una nuova, una cosa
scoperta, un piacere un timore un dolore una noia provata ec. e tutta la
loquacità che appartiene al riferire, (20. Nov. 1820.) o al dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato ec. come
i fanciulli non si possono tenere di ciarlare su qualunque soggetto.
In somma considerate gli antichi e i
moderni: vedrete evidentemente una gradazione incontrastabile e notabilissima
di grandezza, sempre in ragion diretta dell'antichità. Cominciando dagli
uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni, come dicea quel francese,
e dalle piramidi di Egitto ec. discendete alle imprese nobilissime e
grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità delle
loro costruzioni fatte per l'eternità (cosa propria anche de' tempi
bassi, e fino al cinque o secento), alla profondissima impronta delle monete,
all'eroismo, e a tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci, i
romani ec. E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete come
l'uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest'ultimo
grado di piccolezza generale e individuale, e d'impotenza in cui lo vediamo
oggidì. In maniera che l'eterna fonte del grande (come del bello) sono
gli scrittori, le opere d'ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli
antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de' nostri tempi.
(V. p.338. capoverso 1.) Che segno è questo? La ragione ingrandisce o [341]impiccolisce?
La natura era grande o piccola?
(20 Nov. 1820.)
Una grandissima e universalissima fonte di
errori, controsensi, oscurità, sviste, contraddizioni, dubbi, confusioni
ec. negli scrittori e filosofi tanto antichi che modernissimi, è il non
aver considerata, e definita, e posta nelle basi del sistema dell'uomo, la
nemicizia scambievole della ragione e della natura. Posta la quale, che
è tanto evidente, e universale, si rischiarano, e determinano, e
risolvono infiniti misteri e problemi nell'ordine e composto delle cose umane.
Ma confondendo la ragione colla natura, il vero col bello, i progressi
dell'intelligenza coi progressi della felicità e col perfezionamento
dell'uomo, le nozioni e la natura dell'utile, il fine o scopo dell'intelligenza
(ch'è la verità) col fine e scopo vero dell'uomo e della natura
sua ec. non si viene mai a capo di diciferare il mistero dell'uomo, e di
accordare le infinite contraddizioni che par che s'incontrino in questa principalissima
parte del sistema universale, cioè in quella che riguarda la nostra
specie. Il combattimento della carne e dello spirito, dei sensi e della mente,
notato già dagli scrittori, massimamente religiosi, o non è
sufficiente, o non e stato bene inteso ed applicato, [342]ed esteso
quanto doveva; o è stato torto in senso contrario al giusto, e dedottene
conseguenze della stessa specie. ec. ec. ec.
(20. Nov. 1820.)
Il lavoro della terra era la principal
fatica e occupazione destinata all'uomo. Ora è curioso l'osservare che
la parte più oziosa della società è appunto quella la cui
sostanza consiste in terre.
Quanto sia vero che i doveri e la morale
determinata, non provengano da legge naturale nè sieno fondate sopra
idee innate e comuni a tutti gli uomini, si può anche vedere per questo
esempio. Il rispetto e l'immunità degli araldi, considerati
antichissimamente come persone sacre e inviolabili, e da Omero chiamati cari a
Giove, entra nel diritto così detto universale delle genti, e
l'abitudine ce la fa riguardare come un dover naturale. Ora mettiamoci coll'immaginazione
nello stato di natura, e vedremo che l'uomo non ha nessuna ripugnanza di far
male al suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti, come non l'hanno
gli altri animali, perchè il nemico è sempre nemico, e l'uomo
inclina a nuocergli quanto e come e quando e dove mai possa. Così che
l'inviolabilità degli araldi non è fondata sull'istinto, non
è insegnata dalla natura, ma è legge [343]di pura
convenzione, cagionata dall'utilità e necessità sua,
utilità e necessità riconosciuta dalla ragione e per via
d'argomento, non istillata e ingenita negli animi dalla natura senza bisogno di
riflessione. E così il diritto delle genti, che si crede naturale,
vediamo per questo esempio, che contiene una legge di pura convenzione, la
quale prima ch'esistesse, non era colpa il contravvenirle, come si sarà
mille volte fatto. In questo proposito ecco alcune parole dell'Essai sur
l'indifférence en matière de religion, alquanto dopo la metà del
Capo 4. Diciamolo pure, giacchè non v'ha verità più
sconosciuta e più importante: la Religione dei popoli è tutta la
loro morale. Questo (per notarlo di passaggio) dopo aver nei capi precedenti
voluto provar la religione colla morale, come fondamento di essa morale, e
deriso Hobbes che toglie la coscienza, e dice che in natura non ci sono doveri.
E qui viene a dire che la morale non si può provare se non colla
religione. In ogni modo puoi veder gli esempi ch'egli adduce prima e dopo il
detto luogo, per dimostrare la varietà delle coscienze, secondo la
varietà delle religioni.
(21 Nov. 1820.). V. p.356. fine.
La lingua italiana non si è mai tolto
il potere di adoperar quelle parole, frasi, modi, che sebbene antichi e non
usati, sieno però intesi da tutti senza difficoltà, e possano [344]cadere
nel discorso senza affettazione: i quali sono infiniti per chi conosce la
lingua, ma bene a fondo; e questi sono pochissimi o nessuno. La lingua francese
si è spogliata affatto di questa facoltà, e ammettendo facilmente
vocaboli e modi nuovi (intorno ai quali si sgridano gl'italiani perchè
non gli ammettono) non si è legate le mani se non per gli antichi,
cioè per quelli ch'ella già possedeva, e ha creduto di far
progressi quando ha perduto l'infinito che aveva (giacchè veramente era
ricca), e guadagnato il poco che non aveva. Nel che 1. io non vedo come una
lingua si possa accrescere, perchè anche in parità di partite, se
quanto si guadagna, tanto si perde, la lingua sarà sempre stazionaria in
fatto di ricchezza e varietà. 2. se, com'è certissimo, infinite
cose che non si sono potute esprimere se non con parole nuove, forestiere ec.
si potevano esprimere colle antiche, io non vedo perchè queste dovessero
esser posposte. Il caso è lo stesso in Italia, chi ben considera la
ricchezza immensa de' nostri antichi scrittori. 3. Le parole e modi che
maggiormente conferiscono alla evidenza, efficacia, forza, grazia ec. delle
lingue sono sempre, e incontrastabilmente le antiche, siccome quelle che erano
cavate più da presso dalla natura, e dall'oggetto significato (come deve
necessariamente accadere nella formazione delle lingue), e però lo rappresentavano
al [345]vivo, e ne destavano più fortemente, sensibilmente, facilmente
e prontamente l'idea, secondo però 1° i diversi aspetti o parti
più o meno vivi, principali, caratteristici, esprimibili; il diverso
numero di aspetti, parti, o relazioni della cosa, considerato dagl'inventori
della parola: 2° la diversa forza d'immaginazione, sentimento, delicatezza ec.
nei detti inventori: 3° la diversa loro facoltà di applicare il suono
alia cosa: 4° il diverso carattere della nazione, clima, circostanze naturali,
morali, politiche, geografiche intellettuali ec.: la dolcezza, o l'asprezza, la
ruvidezza o gentilezza ec. 5° la diversa impressione prodotta dagli stessi
oggetti ne' diversi popoli o individui. Solamente quella grazia che non deriva
dalla naturalezza, semplicità ec. l'eleganza ec. può guadagnare;
ma quella che deriva dai detti fonti, (massime nelle frasi e modi) ed è
la principale, e più solida e durevole; la forza poi assolutamente,
l'evidenza e l'efficacia, non possono altro che perdere infinitamente coll'abolizione
delle parole antiche, e peggio colla sostituzione delle nuove. Qui ancora ha
luogo la grande inferiorità dell'arte e della ragione alla natura, in
tutto il bello, il grande, il forte, il grazioso ec.
(21. Nov. 1820.)
Tutte le cose vengono a noia colla durata,
anche i diletti più grandi: lo dice Omero, lo vediamo tuttogiorno. La
monotonia è insoffribile. Ma un grande e forse sommo rimedio di questo
male, è lo scopo. Quando l'uomo si [346]propone uno scopo o
dell'azione, o anche dell'inazione, trova diletto anche nelle cose non dilettevoli,
anche nelle spiacevoli, quasi anche nella stessa monotonia; e quanto alle cose
dilettevoli, l'uniformità e durata loro non nuoce al piacere di chi le dirigge
a un fine. Io non credo che per altra più capitale, universale ed intima
ragione, gli studi sieno agli studiosi come un'eccezione dalla regola generale,
cioè la continuazione di essi non pregiudichi quasi mai al piacere.
Vedete tutto giorno delle persone che non leggono per altro fine che di passare
il tempo, trovar gran diletto nelle prime pagine di un libro, e non poterne
arrivare al fine senza noia, quando anche quel libro abbia per se stesso tutti
i mezzi per dilettare in seguito come nel principio. Ma l'uniformità del
diletto, senza uno scopo, produce inevitabilmente la noia, e perciò queste
tali persone che leggono per solo divertimento, si stancano così presto,
che non sanno concepire come nella lettura si trovi tanto divertimento, e
cercano del continuo di variare e passare nauseosamente da un libro a un altro,
senza trovar mai diletto in veruno, se non lieve e passeggero. Al contrario lo
studioso che della lettura si prefigge sempre uno scopo, quando anche leggesse
per ozio e passatempo. E così tutte le altre occupazioni [347]a
cui l'uomo si affeziona, applicandoci un interesse, e uno scopo più o
meno determinato, e più o meno grave e importante; dove la continuazione,
la lunghezza e la monotonia non arrivano mai ad annoiare.
(22. Nov. 1820.). V. p.359. capoverso 1.
Le buone poesie sono ugualmente
intelligibili agli uomini d'immaginazione e di sentimento, e a quelli che ne
son privi. E contuttociò quelli le gustano, e questi no, anzi non
comprendono come si possano gustare, primieramente perchè non sono
capaci nè disposti ad esser commossi, sublimati ec. dal poeta; e
oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non intendono la
verità, l'evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro che
quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec. che il poeta
descrive, vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta,
benchè chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose
e quelle verità che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non
intendono il poeta. Bisogna bene osservare che questo accade anche negli
scritti filosofici, profondi, metafisici, psicologici ec. affine di non
maravigliarsi dei diversissimi, e spesso contrarissimi effetti che producono in
diversi individui, e classi, e quindi del diverso concetto in cui son tenuti.
Perchè, ponete uno scritto di questo genere, pienissimo di
verità, e composto con [348]tutta quella chiarezza d'espressioni,
della quale possa mai esser suscettibile. Le parole dicono lo stesso all'uomo
profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale
dello scritto, e in somma tutti intendono perfettamente quello che l'autore
vuol dire. E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come
si crede comunemente. Perchè l'uomo superficiale; l'uomo che non sa mettere
la sua mente nello stato in cui era quella dell'autore; insomma l'uomo che
appresso a poco non è capace di pensare colla stessa profondità
dell'autore, intende materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che
hanno quei detti col vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo
il campo che l'autore scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose
ch'egli vedeva, e dai quali deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per
chiunque gli somigli sono incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità:
vedranno le stesse cose, ma non conosceranno nè sentiranno che abbiano
relazione insieme, e con quelle conseguenze che l'autore ne cava; non vedranno
la relazione scambievole delle parti del sillogismo (giacchè ogni umana
cognizione è un sillogismo): brevemente, intenderanno appuntino lo
scritto, e non capiranno la verità di quello che dice, verità che
esisterà realmente, e sarà compresa da altri. Così pure
non avranno tanta forza di mente da poter dubitare, e sentire la ragionevolezza
e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura o l'abito
danno per certe. Non basta intendere una proposizion vera, bisogna sentirne la
verità. C'è un senso della verità, come delle passioni,
de' sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello. Chi la intende, ma non
la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende
che sia verità, perchè non ne prova il senso, cioè la persuasione.
In questo numero di persone va posta la maggior parte dei moderni apologisti
della religione, uomini senza cuore, senza sentimento, senza tatto fino e
profondo nelle cose della natura, insomma senza esperienza della verità,
come quei lettori de' poeti che sono senza esperienza di passioni, entusiasmo,
sentimenti ec.; i quali, [349]posto che intendano anche perfettamente il
senso dei filosofi profondissimi che combattono, non intendono la verità
che quivi si contiene, e vi danno nettamente, precisamente e consideratamente
per falso, quello che voi saprete e sentirete ch'è vero, o viceversa.
Del resto per intendere i filosofi, e quasi ogni scrittore, è
necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza d'immaginazione, e di
sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi porre nei panni
dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di situazione, in cui egli
si trovava nel considerare le cose di cui scrive; altrimenti non troverete mai
ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in effetto. E ciò,
tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e l'assenso allo
scrittore, quanto nel caso contrario. Io so che con questo metodo non ho
trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che
tutti danno per oscurissimi. (22 Nov. 1820.)
L'Essai sur l'indifférence en matière
de religion, alquanto dopo il principio del capo V. nel luogo dove tratta delle
origini storiche del Deismo, dimostra i neri presentimenti che agitavano i Capi
della Riforma intorno al futuro stato delle opinioni, della religione, e dei
popoli. Buon Dio, qual tragedia, esclamava uno di essi, vedrà
mai la posterità! Pur troppo bene. Essi cominciavano [350]a
sentire e prevedere la febbre divorante e consuntiva della ragione, e della
filosofia; la distruzione di tutto il bello il buono il grande, e di tutta la
vita; l'opera micidiale e le stragi di quella ragione e filosofia che aveva
avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista devastazione in
Germania, patria del pensiero, (come la chiama la Staël) non inducendo gli
uomini da principio se non ad esaminar la religione, e negarne alcuni punti,
per poi condurli alla scoperta di tutte le verità più dannose, e
all'abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari. I lumi cagionati
dal risorgimento delle lettere, erano appunto allora giunti a quel grado che
bastava per cominciare l'infelicità e il tormento di un popolo, al quale
la natura era stata meno larga dei mezzi di felicità, che sono
l'immaginazione ricca e varia, e le illusioni. Ne avevano naturalmente quanto
bastava (e così gl'inglesi ai tempi di Ossian, come gli stessi germani
ai tempi de' Bardi e di Tacito), ma non tanti, nè tanto forti da
resistere ai lumi così lungamente, come i paesi meridionali, e
soprattutto (la Spagna e) l'Italia, dove anche oggidì si vive poco,
è vero, perchè manca il corpo e il pascolo materiale e sociale
delle illusioni, ma si pensa anche ben poco.
(23. Nov. 1820.)
La Spagna s'è trovata finora nello
stesso caso. Il suo clima, e la situazione geografica, e il governo ec. [351]proteggevano
le illusioni come in Italia, senza però lasciarnela profittare,
nè proccurarsene punto di vita, massime esterna e sociale.
A tutto quello che ho detto di Teofrasto, si
può aggiungere come altra cagione della qualità che ho notato in
lui, il suo sapere enciclopedico, che apparisce dal catalogo delle sue opere,
la massima parte perdute. Il qual sapere, e la quale speculazione intorno ad
ogni genere di scibile, egli non lo faceva servire, come Platone, all'immaginativa,
per fabbricarne un sistema fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come
Aristotele, alla ragione, per discorrere delle cose sul fondamento del vero e
dell'esperienza. Nel qual caso l'estensione, e varietà del sapere, influisce
necessariamente sulla profondità dell'intelletto, e il disinganno del
cuore.
In somma conviene che il filosofo si ponga
bene in mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene
e felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e
infelicemente. E perciò non riponga l'utilità in quelle cose che
semplicemente aiutano, conservano ec. la vita, considerata quasi fosse un bene
per se stessa, ma in quelle che la rendono [352]un bene, cioè felice
da vero. Ma felice da vero non la rende altro che il falso, ed ogni
felicità fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni
felicità si trova falsa e vana, quando l'oggetto suo giunge ad esser
conosciuto nella sua realtà e verità.
Ho veduto le lezioni di un tedesco, il sig.
Hufeland, dell'arte di prolungare la vita, lezioni dettate da lui per una
cattedra ch'egli occupava, dedicata espressamente a quest'arte. Prima bisognava
insegnare a render la vita felice, e quindi a prolungarla. Infelicissima com'è,
stimerei molto più chi m'insegnasse ad abbreviarla, perchè non ho
mai saputo che sia degno di lode, e giovi al pubblico colui che insegna a
prolungare l'infelicità. In vece di fondare queste cattedre che sono al
tutto straniere anzi contrarie alla natura dei tempi, i principi dovrebbero proccurare
che la vita dell'uomo fosse più felice, ed allora saremmo grati a chi
c'insegnasse a prolungarla. Se la durata fosse un bene per se stessa, allora
sarebbe ragionevole il desiderio di viver lungamente in qualunque caso.
Nominando i nostri antenati, sogliamo dire,
i buoni antichi, i nostri buoni antichi. Tutto il mondo ha opinione che gli
antichi fossero migliori di noi, tanto i vecchi che perciò gli lodano,
quanto i giovani che perciò li disprezzano. Il certo [353]è
che il mondo in questo non s'inganna: il certo è che, senza però
pensarvi, egli riconosce e confessa tutto giorno il suo deterioramento. E
ciò non solamente con questa frase, ma in cento altri modi; e tuttavia
neppur gli viene in pensiero di tornare indietro, anzi non crede onorevole se
non l'andare sempre più avanti, e per una delle solite contraddizioni,
si persuade e tiene per indubitato, che avanzando migliorerà, e non
potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe di esser perduto
retrocedendo.
Quanto anche la religion cristiana sia
contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido
raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per
questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era
punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e
negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei
genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e
sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean
liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in
pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354]età, non
pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette,
ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si
rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era
esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo
dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il
solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne
opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte
vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente
con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era
per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito
fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una
vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio,
non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli
a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi,
rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se
resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima
parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion
sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè n'ebbe
molti), e non lasciava [355]passare anzi cercava studiosamente l'occasione
di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze
che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con
una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi
figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di
preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto
questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava
in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al
collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione
per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto
se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più
compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età, fra le
più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec.
non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa
l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi
curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati,
se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza
marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo,
ed era stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro
è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo
matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei [356]principii
di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si
vanta per la più misericordiosa ec. Ma la ragione è così
barbara che dovunque ella occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da
qualunque principio ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto
diventa barbaro. Così vediamo le tante barbarie delle religioni antiche,
se ben queste fossero figlie dell'immaginazione. E anche senza i principii religiosi,
è pur troppo evidente che la sola stretta ragione, ci porta alle
conseguenze specificate di sopra. Non c'è che la pura natura la quale ci
scampi dalla barbarie, con quegli errori ch'ella ispira, e dove la ragione non
entra. S'ella ci fa piangere la morte dei figli, non è che per
un'illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto nulla, anzi
hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il
rallegrarsene, benchè sia conforme all'esatta ragione. Tutto ciò
conferma quello ch'io voglio dire che la ragione spesso è fonte di
barbarie (anzi barbarie da se stessa), l'eccesso della ragione sempre; la natura
non mai, perchè finalmente non è barbaro se non ciò che
è contro natura, (25. Nov. 1820.) sicchè
natura e barbarie son cose contraddittorie, e la natura non può esser
barbara per essenza.
Alla p.343. Vedilo ancora sulla fine del
Capo 5. da quel passo abbastanza lungo di Rousseau, Tutto ciò che
sento esser bene, [357]è bene, in poi. Dove l'autore insomma
viene a concludere che non esiste legge naturale, o secondo i Deisti che
combatte, o anche, come pare, secondo la propria persuasione, giacch'egli ne
vuol dedurre che non esiste regola di condotta, esclusa la religione, solo
canone dei doveri morali. E nel principio propriamente del Capo 6. dice, l'uomo
ha riconosciuto dovunque ed in qualunque tempo la distinzione essenziale del
bene e del male, del giusto e dell'ingiusto; e malgrado i vari errori nella
estimazione degli atti liberi considerati come virtuosi o viziosi, non v'ebbe
mai alcun popolo che confondesse le nozioni opposte del delitto e della
virtù. Siamo d'accordo. Così nel bello, tutti hanno la
nozione della convenienza, e nessuno ne ha il tipo. Ma stando così la
cosa, le diverse opinioni non si possono chiamare errori, come voi fate;
perchè non esiste il tipo del buono morale; e perchè non erra
quell'etiope che crede la figura della sua nazione, la più perfetta e la
sola bella nel genere umano.
Alla p.161. I fasti della rivoluzione
abbondano di altre prove di quello ch'io dico, e dimostrano qual fosse
l'assunto dei riformatori. Si eressero altari alla Dea ragione: Condorcet nel
piano di educazione presentato all'Assemblea legislativa ai 21 e 22 Aprile 1792
proponeva l'abolizione e proscrizione anche della religion naturale, come
irragionevole e contraria alla filosofia, e così di tutte le altre religioni.
(Essai sur l'indifférence en matière de religion Ch.5. presso alla fine,
nota) Non parlo del [358]nuovo Calendario, della festa all'Essere
Supremo di Robespierre ec. In somma lo scopo non solo dei fanatici, ma dei
sommi filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque modo complici
della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente filosofo e
ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango principalmente per
aver creduto alla chimera del potersi realizzare un sogno e un utopia, ma per
non aver veduto che ragione e vita sono due cose incompatibili, anzi avere
stimato che l'uso intiero, esatto, e universale della ragione e della
filosofia, dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte della vita e
della forza e della felicità di un popolo.
(27. Nov. 1820.)
Il vigore e il ben essere del corpo
conferisce alla serenità dell'animo, e la serenità dell'animo al
vigore e al ben essere del corpo. Come per lo contrario la debolezza o mal
essere del corpo, e la tristezza dell'animo. Così la natura aveva congegnata
e ordinata ogni cosa alla più felice condizione dell'uomo.
Alla p.223. Le dottrine non rimontano mai
verso la loro sorgente, e la Riforma invano si sforzava d'arrestare il corso
del fiume che la trascinava, dice l'Essai sur l'indifférence en
matière de religion, a poco più di un terzo del Capo 6.
Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si
guasta e perde quando s'allontana da' suoi principii, e non c'è altro
rimedio che richiamarvela, cosa ben difficile, perchè l'uomo non torna
indietro senza qualche ragione universale, necessaria ec. come sovversioni del
globo, o di [359]nazioni, barbarie simile a quella che rinculò il
mondo ne' tempi bassi, ec.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti,
e per sola ragione e riflessione, non mai; non essendo possibile che la causa
del male, cioè la corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ec. siano
anche la causa del rimedio. Del resto la religion Cattolica non si mantiene
meglio delle altre, dopo tanti secoli, se non per la somma cura
dell'antichità, e del conservare lo stato primitivo, e bandire la
novità, nello stesso modo che dice Montesquieu (l. cit. nel pensiero, a
cui questo si riferisce) della costituzione d'Inghilterra custodita e osservata
e protetta e richiamata sempre gelosamente dalla camera.
Alla p.347. Questa pure è una cagione
della gran differenza che passa fra i letterati e gl'illetterati, e anche fra i
letterati di professione, e i letterati di semplice genio, ornamento,
divertimento ec. nel gustare gli scritti anche i più popolari, e
adattati all'intelligenza e al diletto di chicchessia.
L'eloquenza massimamente giudiziaria, ma
anche d'ogni altro genere, consiste in gran parte nell'appianare le
scabrosità, riempiere i voti e le valli, agguagliare la superficie, e
raddrizzare le storture delle cose. E però succede bene spesso che
ascoltando o leggendo un pezzo eloquente tu sei persuaso di una cosa, della quale
da te stesso non ti saresti mai persuaso, e della quale dubiterai forse nel
seguito, o la condannerai; credi fattibile, e facile una cosa, che ti pareva e
tornerà a parerti impossibile [360]o difficile; ti svaniscono quelle
incertezze, quelle difficoltà ec. e tu sei costretto a non vedere e
dimenticare quello che vedevi, a contraddire e condannare te stesso, anzi
sovente a vedere e non vedere, ricordarti e dimenticare nello stesso tempo.
Tale è la proprietà non solo dell'eloquenza che strascina, ma
anche di quella secca eloquenza, fondata sopra uno stretto ragionamento, e una
dialettica per lo più ingannatrice (se non quanto al tutto, almeno
quanto alle parti): eloquenza della quale fra gli antichi sono modelli i
così detti Oratori attici, fra i moderni (parlo almeno degli oratori di
professione) forse il solo Bourdaloue, oratore veramente e propriamente attico,
il quale convince l'uomo di cose non sempre vere, se non altro, non interamente
vere.
(27. Nov. 1820.)
Non eadem omnibus esse honesta atque turpia,
sed omnia maiorum institutis iudicari. Corn. Nep. praef.
Alla p.329. fine. Nulla Lacedaemoni tam est
nobilis vidua quae non ad scenam eat mercede conducta. Magnis in laudibus totâ
fuit Graeciâ, victorem Olympiae citari. In scenam vero prodire, et populo esse
spectaculo, nemini in eisdem gentibus fuit turpitudini. Quae omnia apud nos
partim infamia, partim humilia, atque ab honestate remota ponuntur. Corn. Nep.
praef.
(27. Nov. 1820.)
L'uomo senza la cognizione di una favella,
non può concepire l'idea di un numero determinato. Immaginatevi di
contare trenta o quaranta pietre, senz'avere una denominazione da dare a
ciascheduna, vale a dire, una, due, tre, [361]fino all'ultima
denominazione, cioè trenta o quaranta, la quale contiene la somma di
tutte le pietre, e desta un'idea che può essere abbracciata tutta in uno
stesso tempo dall'intelletto e dalla memoria, essendo complessiva ma definita
ed intera. Voi nel detto caso, non mi saprete dire, nè concepirete in
nessun modo fra voi stesso la quantità precisa delle dette pietre; perchè
quando siete arrivato all'ultima, per sapere e concepire detta quantità,
bisogna che l'intelletto concepisca, e la memoria abbia presenti in uno stesso
momento tutti gl'individui di essa quantità, la qual cosa è
impossibile all'uomo. Neanche giova l'aiuto dell'occhio, perchè volendo
sapere il numero di alcuni oggetti presenti, e non sapendo contarli, è necessaria
la stessa operazione simultanea e individuale della memoria. E così se
tu non sapessi fuorchè una sola denominazione numerica, e contando non
potessi dir altro che uno, uno, uno; per quanta attenzione vi ponessi, affine
di raccogliere progressivamente coll'animo e la memoria, la somma precisa di
queste unità, fino all'ultimo; tu saresti sempre nello stesso caso.
Così se non sapessi altro che due denominazioni ec. Eccetto una
piccolissima quantità, come cinque o sei, che la memoria e l'intelletto
può concepire senza favella, perchè arriva ad aver presenti simultaneamente
tutti i pochi individui di essa quantità. Nello stesso modo e per la
stessa ragione [362]i numeri che rappresentano una quantità
troppo grande, come centomila, un milione e simili, e più, un bilione,
non ci destano se non un'idea confusa, quantunque noi sappiamo benissimo il
loro significato, e l'estensione o quantità precisa e misurata, che
comprendono: ma in questo caso non basta sapere interamente il significato
della parola, per concepire l'idea significata (cosa che forse non accade in
altro caso, se non in parole indefinite, o che esprimono idee indefinite): e
ciò perchè l'operazione della mente non si può estendere
in un medesimo tempo sopra tutte le parti di questa quantità, ed abbracciarle
e concepirle chiaramente tutte in una volta, malgrado il soccorso della
favella, il quale non basta quando le parti son troppe. Per parti intendo p.
es. le diecine, o anche le centinaia la somma delle quali, quando può
esser concepita chiaramente ci desta un'idea abbastanza chiara della data
quantità, a cagione dell'abitudine contratta coll'esercizio del
discorso, la quale abitudine ci fa concepir facilmente e prontamente
gl'individui compresi in ciascuna diecina. In genere l'idea precisa del numero,
o coll'aiuto della favella o senza, non è mai istantanea, ma composta di
successione, più o meno lunga, più o meno difficile, secondo la
misura della quantità.
(28. Nov. 1820.). V. p.1072. fine.
L'Essai sur l'indifférence en matière
de Religion, Capo 7. verso la fine, dice, Da una dottrina indigente nasce un
culto indigente al par di essa. Quindi quant'è maggiore il numero dei
dogmi che una setta ha conservato, tanto maggior vita e pompa e grandezza ha il
suo culto. E vedilo in quello che segue perchè fa al mio proposito.
Questa osservazione di fatto si può addurre fra le tante altre in
conferma di quello ch'io dico, che senza illusioni di cui l'uomo sia persuaso,
non c'è vita ne azione, giacchè l'uomo [363]non opera
senza persuasione, e se la persuasone non è illusoria, ma viene dalla
ragione, l'uomo non opera, perchè la ragione non lo persuade ad operare,
anzi ne lo distoglie, e lo getta nell'indifferenza. La pompa e la vita del
culto senza una persuasione della sua necessità, doverosità,
importanza, non ha potuto durare. Limitate le credenze, allargato il dubbio,
allargata la ragione e l'indifferenza, e la secca speculazione delle cose, il
culto è svanito, laddove si mantiene presso i cattolici, i quali ne
conservano tutte le basi, cioè tutti i dogmi, le credenze ec. tanto
relative ad esso culto, quanto generalmente alla Religione. Se non ch'egli va
languendo anche tra noi, sia nel fatto, sia nell'impressione e l'effetto che
produce, e il modo e l'animo con cui è considerato, e veduto o eseguito:
e ciò in proporzione dei progressi dell'incredulità, o
diminuzione della fede, perchè non si può dar gran cura,
nè coltivare, nè promuovere, nè esser molto affetti e
toccati, da quello che si considera come poco importante, e che non è in
relazione colla nostra opinione.
(29. Nov. 1820.)
I doveri dipendono dalle credenze; quanti
saranno dunque i simboli, tante saranno le morali... Chi non comprende che dal
momento che si rigetta ogni autorità vivente (dunque la morale
determinata deriva dall'autorità [364]non dalla natura), la
regola de' costumi addiviene tanto variabile e tanto incerta quanto la regola
della fede? Essai ec. poco sotto al luogo citato nel pensiero
precedente.
Ogni uomo ha diritto di giudicare di per se
stesso, e la diversità delle opinioni è tanto naturale quanto la
diversità de' gusti. Dott. Midleton
(Middleton) Introductory Discourse to a free Enquiry into the miraculous
powers. (Discorso preliminare alla libera Disquisizione sopra i poteri
miracolosi) p.38.
Quegli stessi che credono grave, o maggiore
che non è, ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche
malattia grave o mortale, la credono leggera, o minore che non è. E la
cagione d'ambedue le cose è la codardia che gli sforza a temere dove non
è timore, e a sperare dove non è speranza.
La filosofia e la natura de' tempi e della
vita presente s'ha per capital nemica della Religione, ed è vero.
Contuttociò se l'uomo doveva esser filosofo, far della ragione quell'uso
che ora ne fa, conoscere tutto quello che ora conosce, e generalmente s'egli
doveva vivere come ora vive, e se i tempi dovevano essere quali ora sono, o il
sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo e contraddittorio,
o bisogna necessariamente ammettere una Religione. Perchè se l'uomo doveva
essere inevitabilmente infelice, come ora accade, ne [365]segue che al
primo nell'ordine degli enti, è meglio il non essere che l'essere, ne
segue che l'uomo non solo non deve amare nè conservare la sua esistenza,
ma distruggerla; in maniera che la sua stessa esistenza rinchiuda non
dirò un germe nè un principio di distruzione, ma quasi una
distruzione formale e completa; ne segue che la vita ripugna alla vita,
l'esistenza all'esistenza, giacchè l'uomo non verrebbe ad esistere se
non per cercare di non esistere, quando conoscesse il suo vero destino. La qual
cosa è un'assurdità e una contraddizione sostanziale e capitale
nel sistema della natura. Per lo contrario se l'uomo non doveva essere quale
ora è, se la natura l'aveva fatto diversamente, se gli aveva opposto ogni
possibile ostacolo al conoscere quello che ha conosciuto e al divenire quello
ch'è divenuto, allora dallo stato presente dell'uomo, e dalle
assurdità che ne risultano, non si può dedur nulla intorno al
vero, naturale, primitivo ed immutabile ordine delle cose; come se un animale
si rompe una gamba, non se ne può dedur nulla intorno all'ordine generale,
perchè questo è un inconveniente particolare. Così lo
stato presente dell'uomo, e le assurdità sue, dovranno esser considerate
come una particolarità indipendente dall'ordine e dal sistema generale e
[366]destinato, e costante, e primordiale. Che se anche non c'è
più rimedio per l'uomo, nemmeno per chi si tagli una gamba, o sia
schiacciato da una pietra, c'è più rimedio. Basta che il male non
sia colpa della natura, non derivi necessariamente dall'ordine delle cose, non
sia inerente al sistema universale; ma sia come un'eccezione, un inconveniente,
un errore accidentale nel corso e nell'uso del detto sistema. V. p.370. e 1079.
fine.
Hanter frequentare, visitare
spesso, aver familiarità ec. verbo che Girard nei Sinonimi fa derivare
da hant (se ben mi ricordo) che nelle lingue del nord significa congiungere
o darsi le mani, non potrebbe piuttosto derivare da ? Ma bisognerebbe
anche vedere se quella parola settentrionale abbia nessuna relazione con questo
verbo greco.
L'idea di una grave sventura (come anche di
qualunque grande e strana mutazione di cose in bene come in male) che ci
sopraggiunga, massimamente improvvisa, non si può concepire intera, se
non altro ne' primi momenti; anzi è sempre confusissima, debolissima,
oscurissima, e difettosa. Non considero adesso l'impressione e la sorpresa e il
dolore ec. che deve naturalmente oscurar l'anima, e intorpidirla. Ma ponete che
vi si annunzi la morte di uno de' vostri cari e familiari, anche preveduta. Il
dispiacere, [367]la rimembranza delle relazioni avute con lui, la
novità che introduce nella vostra vita, vale a dire il troncamento di
tutte quelle relazioni, e il dover considerare quella persona in un modo tutto
diverso dal passato, cioè come morta, come incapace di essere amata o
beneficata, di amare e beneficare ec. ec. tutte queste cose che si presentano
in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno
stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della cosa, non ne
considerate nessuna, non siete capace di valutare nè l'estensione
nè la profondità nè la natura della cosa, nè di
formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l'idea in genere e confusamente,
non siete capace di pensarvi, nè vi pensate formalmente, non dirò
perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non sapete pensarvi. E
quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie,
sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo,
che voi considerandone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o rallegrarvene
separatamente. Giacchè questo pure è notabile, che l'atto del
piangere o rallegrarsi ec. in somma l'espressione J cade sempre sopra una parte
della cosa, non già sul tutto, perchè l'anima non è capace
di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo. P.e. nel [368]caso detto
di sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza, per una
tal riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che non
potete ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante
la prima impressione. Ma finattanto che l'idea o la cosa vi si presenterà
tutta intera, e voi non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non
piangerete mai, nè sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente.
E neanche dopo lungo tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale
e generale della disgrazia intera. (1. Dec. 1820.).
Si suol dire che la monotonia fa parere i
giorni più lunghi. Così è quanto alle parti del tempo
considerate separatamente. Ma quanto al complesso è tutto l'opposto,
perchè un giorno pieno di varietà, terminato che sia ti
parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà di credere a prima
giunta che una cosa fatta, accaduta, veduta, ec. oggi, appartenga al giorno di
ier o ier l'altro, perchè la moltiplicità delle cose allunga
nella tua memora lo spazio, e il maggior numero degli accidenti, accresce l'apparenza
del tempo. All'opposto in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà (e
m'è avvenuto) di credere che l'accaduto ieri o ier l'altro appartenga al
giorno d'oggi, o quello di più giorni fa, al giorno di ieri. E
ciò per la ragione contraria, e perchè l'uniformità
impiccolisce l'immagine delle distanze. Così la monotonia [369]prolunga
la vita in quanto la lunghezza è penosa, e l'abbrevia in quanto la
lunghezza è piacevole e desiderata; e la tua vita passata nell'uniformità
ti par brevissima e momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).
Non è forse cosa che tanto promuova
l'attività e l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto
l'incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non
ottenerlo vi attristi. Non già solamente perchè l'incertezza,
obbliga all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in
quanto un fine incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non
domandi maggior cura, il che può ben accadere (perchè un fine
può esser certo, posta però una grande attività per
conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal bisogno
delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per questo
solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di liberarti
dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che tu
desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non
poterlo conseguire. Anche materialmente m'è accaduto più volte di
dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che [370]mi
premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente, sebbene altri mi
consigliava di riposare perchè la dilazione non faceva alcun danno. Ma
io non poteva sostenere l'incertezza di una cosa che m'importava, laddove se
non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare. E
così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi
il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi
compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi,
l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben
da vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del
termine prefisso. (1. Dec. 1820.). V. p.712. capoverso 2.
Alla p.366. pensiero 1. Perciò coloro
che deducono la necessità assoluta della Religione dallo stato presente
dell'uomo, e dalla sua miseria, nihil agunt, se non provano ancora che
questo stato gli era destinato, e ch'egli vivendo così, segue i suoi
destini, e l'ordine assoluto delle cose, non arbitrario. Perchè anche
gli animali, p.e. le formiche, le api, i castori, hanno fra loro tanta
società quanto basta ai loro bisogni o comodi, e non per questo hanno
Religione, o legge di sorta alcuna. Anche gli animali hanno un uso sufficientissimo
di ragione, hanno il principio , il
principio di conoscenza innato in tutti gli esseri viventi, non già nel
solo uomo; e non per questo se ne servono come l'uomo, nè sono infelici.
E non è provato che la società, quale ora è, sia lo stato
naturale dell'uomo, [371]come per lo contrario è provato che
l'uomo senza società, non ha per natura o istinto, nessuna idea di
Religione, e non ne ha verun bisogno, tutti i suoi doveri non riguardando che
se stesso, ed avendo il loro immobile fondamento nell'istinto che lo porta ad
amarsi e conservarsi. (2. Dec. 1820.).
Sostengono come indubitato che l'uomo
è perfettibile. Vale a dire ch'egli può perfezionare se stesso,
perfezionar l'opera della natura. Considerate il sistema materiale del mondo,
tanto nelle minime che nelle massime cose, tanto nell'organizzazione di un
animale appena visibile, quanto nell'ordine degli astri, e voi troverete da per
tutto un artifizio, una sapienza, una maestria tale, che non solamente non si
può perfezionar nulla di quanto la natura ha fatto, non solamente non vi
si può nè aggiungere nè levarne cosa alcuna, nè alterare
in nessun modo senza guastare, ma quando anche noi avessimo quella stessa
potenza di fare che ha avuto la natura, non c'è uomo d'ingegno
così sottile e profondo e sublime, che fosse capace non dico di condurre
a termine, ma di concepir solamente un piano così magistrale,
così minuto, così strettamente legato insieme e corrispondente, così
perfetto in ogni menomissima parte, come quello che vediamo eseguito dalla
natura. Io dunque dico all'uomo [372]il quale asserisce d'essere
perfettibile, e di potersi, anzi doversi perfezionare da se: perfeziona il tuo
corpo, la tua notomia, la tua costruzione organica, o almeno qualche parte di
lei: se non puoi questo, almeno immagina un disegno più perfetto, più
completo, più giusto, più conveniente, più esatto,
più squisito di quello della natura, relativamente alla organizzazione
ec. del tuo corpo. L'uomo si mette a ridere, e confessa che non solo non
c'è cosa più perfetta, ma ch'egli con lunghissimo studio, dal
principio del mondo in poi, ancora non è arrivato a comprenderne
interamente tutta la perfezione, e ogni giorno rivela qualche altra cosa da
ammirare, ed accresce la sua maraviglia. Or come dunque non potendo
perfezionare il tuo corpo, anzi non potendo neppur comprendere tutta la misura
della sua perfezione naturale, presumi di perfezionare una parte tanto
più nobile, astrusa, e difficile, qual'è lo spirito? Come dunque
la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita e intera
in tutto il resto, e nominatamente nel tuo corpo, è stata così
stupida e manchevole e difettosa nella parte più rilevante di te, in
quella parte da cui dipendeva l'uso di quel tuo corpo così perfetto, e
che anche doveva molto influire sugli altri ordini di enti? Come ti ha lasciato
da far tanto in quella parte che più le doveva premere, non avendoti
lasciato nulla da fare in quella che importava meno, e ch'era subordinata alla
prima? Come soprattutto presumi di perfezionare, non solo il tuo spirito, [373]ma
anche l'ordine vastissimo delle altre cose terrestri, in quanto ha stretta
relazione e connessione e dipendenza cogli andamenti e lo stato della tua specie?
(2. Dec. 1820.).
La poesia e la prosa francese si confondono
insieme, e la Francia non ha vera distinzione di prosa e di poesia, non solamente
perchè il suo stile poetico non è distinto dal prosaico, e
perch'ella non ha vera lingua poetica, e perchè anche relativamente alle
cose, i suoi poeti (massime moderni) sono più scrittori, e pensatori e
filosofi che poeti, e perchè Voltaire p.e. nell'Enriade, scrive con
quello stesso enjouement, con quello stesso esprit, con quella
stess'aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco di parole
di frasi di maniere e di sentimenti e sentenze, che adopra nelle sue prose: non
solamente, dico, per tutto questo, ma anche perchè la prosa francese,
oramai è una specie di poesia. Filosofi, oratori, scienziati, scrittori
d'ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano eleganti, se non per uno stile
enfatico, similitudini, metafore, insomma stile continuamente poetico, e
montato principalmente sul tuono lirico. E ciò massimamente è accaduto
dopo l'introduzione de' poemi in prosa, siano poemi propriamente detti, siano romanzi,
opere descrittive, sentimentali ec. Ma [374]i francesi che si credono i
soli maestri e modelli e conservatori, e zelatori dello scriver classico a'
tempi moderni, non so in qual classico antico abbiano trovato questo costume,
per cui non si sa essere elegante nè eloquente, senza andare a quella
perpetua, dirò così, traslazione e e
concitazione di stile, ch'è propria della poesia. (L'eloquenza di
Bossuet, è appunto di questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di
convenzione; e lo stile biblico, e questo gergo forma l'eloquenza e l'eleganza
ordinaria d'ogni sorta di scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza,
non mai posatezza, non semplicità, non familiarità. Non dico
semplicità nè familiarità distintiva di uno stile o di uno
scrittore particolare, ma dico quella ch'è propria universalmente e
naturalmente della prosa, che non è uno scrivere ispirato.
Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più energici
dell'antichità, e mi dicano se c'è uomo così cieco che non
distingua subito come quella è prosa non poesia; se ridotta questa prosa
in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come accadrebbe nelle loro
prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente, energica,
consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico. Anche i loro scrittori
de' buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a questo difetto,
[375]nondimeno hanno un gusto e un sapore di prosa molto maggiore e
più distinto (eccetto pochi), hanno non dico austerità, neanche
gravità nè verecondia (pregi ignoti ai francesi) ma pur tanta
posatezza e castigatezza di stile quanta è indispensabile alla prosa:
come la Sévigné, Mme Lambert, Racine e Boileau nelle prose, Pascal ec. Anzi
letto Pascal, e passando ai filosofi e pensatori moderni, si nota e sente il
passaggio e la differenza in questo punto.
(2. Dic. 1820.). V. p.477. capoverso 1.
La ragione è nemica della natura, non
già quella ragione primitiva di cui si serve l'uomo nello stato
naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimente liberi, e
perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l'ha posta nell'uomo
la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della
natura è quell'uso della ragione che non è naturale, quell'uso
eccessivo ch'è proprio solamente dell'uomo, e dell'uomo corrotto: nemico
della natura, perciò appunto che non è naturale, nè
proprio dell'uomo primitivo.
Spesso gli uomini irresoluti, preso che
hanno un partito, sono costantissimi nel mantenerlo, a fronte delle maggiori difficoltà,
appunto per irresoluzione, e perchè non si sanno risolvere a lasciar
quello, e prenderne un altro; perchè ciò par loro più
difficoltoso; perchè si spaventano di tornare un'altra volta a
risolvere. Forse questo effetto accade principalmente in quelli che sono
irresoluti per infingardaggine, e che trovano più infingardo [376]e
facile il proseguire che il tornare indietro. Ma è comune, s'io non
erro, a tutti gl'irresoluti.
(3. Dic. 1820.)
L'Essai sur l'indifférence en matière
de religion, prima o seconda pagina del Capo 9. Ed è rimarcabile che
tutti gli uomini... uniscono costantemente all'idea della felicità,
l'idea del riposo, che non è altro fuorchè quella pace profonda,
inalterabile, di cui gode necessariamente un essere pervenuto alla sua
perfezione, e che S. Agostino chiama per eccellenza, la tranquillità
dell'ordine... In una parola non si trova felicità fuorchè nel
seno dell'ordine; e l'ordine è la sorgente del bene, come il disordine
è la sorgente del male, tanto nel mondo morale, quanto nel mondo fisico;
tanto pei popoli, quanto per gl'Individui. L'amore dell'ordine, o l'idea
della necessità dell'ordine, che è quanto dire dell'armonia e convenienza,
è innata, assoluta, universale, giacchè è il fondamento
del raziocinio, e il principio della cognizione o del giudizio falso o vero. Ma
l'idea di un tal ordine, è variabile, dipendente dall'abitudine,
opinione, ec. è relativa, e particolare. Il desiderio del riposo, non
è in quanto riposo, o quiete, ma
Il Capo 9. dell'Essai ec. qui sopra citato
è il più forte profondo e concludente forse di tutta l'opera,
perchè le prove della Religione non sono dedotte dalla considerazione
dell'uomo qual egli è, dalle opinioni ec. ma dalla natura dell'uomo. Farai
bene a rileggerlo. Ma ecco il suo raziocinio. La felicità non si trova
se non nella perfezione di cui l'essere è capace. Un essere non è
perfetto se le sue facoltà non sono perfettamente d'accordo fra loro,
perfettamente sviluppate secondo la loro natura, e se non godono ciascuna del
suo proprio oggetto secondo tutta l'estensione della sua capacità. Non
è perfetto s'egli non è in conformità colle leggi che
risultano dalla sua natura. Ma per conformarcisi [379]bisogna conoscerle.
Dunque l'uomo non sarà felice se non quando conosca se stesso, e i rapporti
necessari che ha con altri esseri. E deve poterli conoscere, altrimenti sarebbe
un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la
perfezione o la felicità, non avrebbe alcun mezzo di pervenirvi.
L'uomo dunque inclinando alla perfezione o felicità, inclina sommamente
alla cognizione del vero. Dalla cognizione deriva l'amore o l'odio, ossia il
giudizio relativo alla qualità buona o cattiva. Dall'amore o l'odio
deriva l'azione, perchè l'uomo non si può determinare se non a
quello che crede bene. L'ignoranza assoluta è uno stato di morte,
perchè, supponendo che l'uomo non abbia un motivo per creder le cose
buone o cattive, la sua indifferenza è totale, e non potendo amare
nè odiare, non può scegliere, dunque non può agire, dunque
non può vivere. Sicchè conoscere, amare, operare; ecco tutto
l'uomo. L'oggetto della facoltà di conoscere, è la verità.
L'estensione di questa facoltà si misura dal desiderio. L'uomo sente un
desiderio infinito di conoscere e così di amare. Dunque la sua
facoltà conoscitiva, o l'intelligenza è capace di conoscere la
verità infinita; la sua facoltà di amare, è capace di
amare il Bene infinito. Laddove la sua facoltà di agire essendo
limitata, egli non sente un desiderio infinito di agire, come essere fisico.
Dunque la felicità dell'uomo [380]consiste nella perfezione della
conoscenza; dell'amore, o sia disposizione dell'anima verso gli oggetti; e
dell'azione che deriva da questi due principii. Dunque consiste nel vero:
perchè
Primieramente quanto alla verità, che
cosa si debba intendere per verità, rispetto alla felicità
dell'uomo, e per conseguenza qual sia il fine e lo scopo e l'oggetto vero
della sua facoltà di conoscere, vedilo chiaramente esposto p.326. di
questi pensieri, capoverso 1. Quello solo basterebbe a rispondere a tutto
questo raziocinio.
Secondariamente, qual sia l'ordine, la perfezione
l'accordo delle facoltà dell'uomo, la sua corrispondenza co' suoi rapporti,
e colle leggi che risultano dalla sua natura, vedilo p.376-378. donde rileverai
che questo principio astratto, benchè vero, e confessato, non ha forza
di provar nulla nella questione delle vere leggi, dei veri rapporti, e della
vera natura particolare dell'uomo.
Veniamo al desiderio di conoscere.
Certamente bisogna che l'uomo conosca, cioè si possa determinare,
perch'egli è libero. Così accade anche al bruto. [381]Bisogna
che conosca bene per determinarsi bene. Dunque bisogna che conosca il vero,
e l'errore toglie la sua felicità. Falsa conseguenza. Bisogna che
conosca quello che fa per lui. La verità assoluta, e per così
dire il tipo della verità, è indifferente per l'uomo. La sua
felicità può consistere nella cognizione e giudizio vero o falso.
Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla
sua natura.
La facoltà di formare questo giudizio
non manca all'uomo ignorante, perchè tutto quello ch'egli deve sapere
gli è insegnato dalla natura. Bisogna esser bene stupido per ammetter
l'ipotesi di un'ignoranza che lasci l'uomo nell'intera indifferenza, come
quell'asino delle scuole, posto tra due cibi distanti e moventi d'un modo,
il quale si morria di fame. L'ignorante ignora il vero, ma non i motivi
di determinarsi. Anzi l'ignorante naturale, come il fanciullo, si determina
molto più presto, facilmente e vivamente, risolutamente e certamente
dell'uomo istruito o saggio. Di più le stesse cose per natura loro
indifferenti all'uomo, per poco che abbia perduto della natura, quelle cose che
non possono essere oggetti di azione, come piante, sassi, e che so io, non sono
indifferenti all'uomo primitivo nè al fanciullo, il quale da
piccolissime minuzie, cava argomento di amarle o di odiarle, e trova notabili
benchè immaginarie differenze, nelle cose più[382]indifferenti,
ed esagera e ingrandisce le piccole differenze reali: sicchè non gli
manca ma motivo di determinazione. Anzi la ragione e la scienza è
indifferentissima, e la natura e l'ignoranza è tutto l'opposto dell'indifferenza.
(V. il mio discorso sui romantici, e la p.69. di questi pensieri, capoverso 3.)
Perchè l'immaginazione e l'errore dà molto più peso alle
minuzie, che la ragione, e non ammette nè dubbi, nè freddezze nella
stessa certezza, come la ragione che conosce la poca importanza di tutto, e
perciò la poca differenza dell'utilità o bontà rispettiva.
Oltracciò la ragione e la scienza, tende evidentemente ad agguagliare il
mondo sotto ogni rispetto, ed estinguere o scemare la varietà,
perchè non c'è cosa più uniforme della ragione, nè
più varia della natura; e così la scienza promuove sommamente
l'indifferenza, perchè toglie o scema anche le differenze reali, e quindi
i motivi di determinazione.
E quanto al dubbio, cagione principalissima
d'indifferenza, lo stesso libro ch'io discuto reca un passo di Pascal, dove fra
le altre cose (degne d'esser lette) si dice: conviene che ciascuno prenda il
suo partito, e si collochi necessariamente o al dogmatismo, o al pirronismo...
Sostengo che non ha mai esistito un pirronista effettivo e perfetto. La natura
sostiene la ragione impotente, e l'impedisce di delirare fino a questo
punto... [383]La natura confonde i pirronisti, e la ragione confonde
i dogmatizzanti (vale a dire quelli che ammettono e sostengono delle
opinioni come certe). (Pensées de Pascal, Ch.21) Infatti il dubbio non ha quasi
esistito se non dopo la ragione e la scienza, e non c'è cosa così
sicura in quello che crede come l'ignoranza; e l'uomo naturale, tutto quello
che sa o crede sapere (e ciò per dettato della natura), lo tiene per
certissimo e non ci prova ombra di dubbio. Tanto è vero che l'ignoranza
conduce alla totale indifferenza, e quindi all'inazione e alla morte: o
piuttosto tanto è vero che si dia un'ignoranza assoluta, ossia uno stato
dell'anima privo affatto di credenza, e di giudizi: tanto è stolto il
confondere la mancanza della verità, colla mancanza dei giudizi, quasi
non si dassero giudizi se non veri, o quasi dal detto principio risultasse la
necessità di un giudizio vero assolutamente, e non piuttosto di un
giudizio veramente utile e adattato alla natura dell'uomo.
Quanto al desiderio che ha l'uomo di
conoscere, desiderio che si pretende infinito, come quello di amare, e a
differenza di quello di operare
1° Non è vero ch'egli sia infinito
per se, ma solo materialmente, e come desiderio del piacere, ch'è
tutt'uno coll'amor proprio. E non è vero che l'uomo [384]naturale
sia tormentato da un desiderio infinito precisamente di conoscere. Neanche
l'uomo corrotto e moderno si trova in questo caso. Egli è tormentato da
un desiderio infinito del piacere. Il piacere non consiste se non che nelle
sensazioni, perchè quando non si sente, non si prova nè piacere
nè dispiacere. Le sensazioni non le prova il corpo, ma l'anima,
qualunque cosa s'intenda per anima. La sensazione dell'intelligenza, è
il concepire. Dunque l'oggetto della facoltà intellettiva, è il
concepire. (non il vero, come dirò poi.) L'uomo desidera un piacere
infinito in tutte le cose, ma non può provare una certa infinità,
se non se nella concezione, perchè tutto il materiale è limitato.
V. la pag.388. di questi pensieri, fine. L'uomo dunque prova piacere nella
maggior estensione possibile della concezione, ossia dell'atto della
facoltà intellettiva. V. questi pensieri p.170. fine, e p.178. fine -
179. principio. Questo è indipendente dal vero. L'uomo non desidera di
conoscere, ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può,
se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll'immaginazione,
non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi
esclude l'infinito. E da queste cose si potrà dedurre che anche la
curiosità, o desiderio di conoscere, o piuttosto di concepire, [385]derivi
[non] da una determinazione arbitraria della natura, a fare che il conoscere o
concepire sia piacere, ma da questo stesso, che l'uomo desidera illimitatamente
il piacere, contro quello che ho inclinato a credere nella teoria del piacere.
Del resto questo desiderio infinito di concepire, dev'essere essenzialmente
comune anche ai bruti. V. p.180. fine.
2° E tanto è miser l'uomo quant'ei
si reputa, e tanto è beato quant'ei si reputa. Così tanto
è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla credenza di
conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è
totalmente indifferente all'uomo anche per questo capo. Anzi il desiderio
infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso appagato
dalla natura col mezzo della immaginazione e delle persuasioni false ossiano
errori; ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè dai sensi
col mezzo degli oggetti reali. Che se l'uomo avesse questa tendenza infinita
non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al vero, perchè
la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua
felicità? Perchè avrebbe radicate nella sua mente tante illusioni
che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare,
e non del tutto? Perchè la verità sarebbe così difficile a
scoprire? Da che l'uomo tende infinitamente alla precisa cognizione, nessuna
verità è indifferente per lui. [386]Non solo la cognizione
delle verità religiose, morali ec. ma di qualunque verità fisica
ec. ec. diviene necessaria alla sua felicità. Ora quando anche si voglia
supporre che l'uomo primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le
verità religiose e morali, (come par che supponga il nostro libro)
è certo che non gli ebbe per infinite altre, è certo che infinite
se ne ignorano ancora, che infinite se ne ignoreranno sempre, che la massima
parte degli uomini è (tolto nella religione rivelata) ignorante quanto i
primitivi, che i fanciulli lo sono parimente, anche quanto alla religione.
È certo che quantunque l'uomo conosca Dio ch'è infinito, non lo
conosce nè lo può conoscere infinitamente (come neanche amare,
quantunque l'autore presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita,
essendo infinito il desiderio); anzi limitatissimamente. Dunque la sua
cognizione non è infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere
è infinita, manca del suo oggetto, e perciò della sua
felicità. Dunque l'uomo non può esser felice: dunque
ripeterò coll'autore egli è un essere contraddittorio,
perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità,
non ha alcun mezzo di pervenirvi. E le illusioni che la natura ha poste
saldissimamente in tutti noi, perchè ce le ha poste? Per contendergli
espressamente la sua felicità? E se l'ignoranza è
infelicità, perchè l'uomo esce dalle mani della natura,
così strettamente infelice? In somma [387]le assurdità
sono infinite quando non si vuol riconoscere che l'uomo esce perfetto dalle
mani della natura, come tutte le altre cose; che la verità assoluta
è indifferente all'uomo (quanto al bene, ma non sempre, anzi di rado,
quanto al nuocergli); che lo scopo della sua facoltà intellettiva, non
è la cognizione, in quanto cognizione derivata dalla realtà, ma
la concezione, o l'opinione di conoscere, sia vera, sia falsa. Che vuol dire
che gl'ignoranti in luogo di esser più infelici, sono evidentemente i
più felici?
Posti questi principii, dice
l'autore, (cioè i sovresposti p.378-380.) consideriamo la filosofia e
la Religione ne' loro rapporti colla felicità. E segue mostrando che
la filosofia non rivela nè prescrive nulla fuorchè il dubbio, tanto
ne' principii o nelle verità, quanto ne' doveri: e la Religione tutto
l'opposto. Siamo d'accordo, ma la natura? l'avete dimenticata? Non c'è
altra maestra che la filosofia o la religione? tutte due ascitizie e non
inerenti alla natura dell'uomo. Laddove tutti gli altri esser viventi, che
hanno lo stesso desiderio infinito della felicità, ne hanno la maestra,
gl'insegnamenti, e i mezzi in se stessi. La natura non insegna nulla? non
prescrive nulla? Concedo la vostra definizione della felicità, ammetto
le facoltà dell'uomo che voi ammettere, dico che debbono esser d'accordo
[388]fra loro, d'accordo colle leggi che risultano dalla loro natura,
perfettamente sviluppate secondo la loro natura, godere del loro oggetto
secondo la loro natura. I principii son veri, l'applicazione è falsa.
Voi continuate a stare sull'assoluto invece di passare al relativo.
Cioè, la natura dell'uomo non è quella che voi dite. Del resto so
anch'io che la filosofia è più contraria alla natura che la
religione, ma non ne segue che non ci siano altri insegnamenti se non della
Religione o della filosofia, che non ci siano altre cognizioni, altri amori,
altre azioni, cioè quelli che la natura ci ha ispirati e dettati;
nè molto meno che questi non sieno analoghi alle nostre facoltà,
ed alle leggi della nostra natura; nè che l'uomo naturale sia infelice
ec. ec. ec. e che le leggi della nostra natura non sieno quelle della nostra
natura. Convien conoscerle, dic'egli, per conformarcisi. E io dico che l'uomo
le conosce dal suo nascere, e dovea necessariamente conoscerle per non essere
un ente contraddittorio, e bisognoso per esser felice, di cose che non possiede
essenzialmente e primordialmente, al contrario di tutti gli altri enti.
(7. Dic. 1820.)
Alla p.384. Così il desiderio che ha
l'uomo di amare, è infinito non per altro se non perchè l'uomo si
ama di un amore senza limiti. E conseguentemente desidera di trovare [389]oggetti
che gli piacciano, di trovare il buono (intendendo per buono anche il bello, e
tutto ciò che affetta gradevolmente qualunque delle nostre
facoltà); desidera dunque di amare, ossia di determinarsi piacevolmente
verso gli oggetti. E lo desidera senza confini, tanto rispetto al numero di
questi oggetti, quanto rispetto alla misura della loro bontà, amabilità,
piacevolezza. Questo è desiderio innato, inerente, indivisibile dalla
natura non solo dell'uomo, ma di ogni altro vivente, perchè è
necessaria conseguenza dell'amor proprio, il quale è necessaria
conseguenza della vita. Ma non prova che la facoltà di amare sia infinita
nell'uomo: e così il desiderio infinito di conoscere non prova che la
sua facoltà di conoscere sia infinita: prova solamente che il suo amor
proprio è illimitato o infinito. E infatti come si potrà dire che
la facoltà nostra di conoscere o di amare sia infinita? - Ma noi possiamo
conoscere un Bene infinito ed amarlo. Bisognerebbe che lo potessimo conoscere
infinitamente ed amare infinitamente. Allora la conseguenza sarebbe in regola.
Ma non lo possiamo nè conoscere nè amare, se non imperfettissimamente.
Dunque la nostra cognizione e il nostro amore, benchè cadano sopra un
Essere infinito, non sono infinite, nè possono mai [390]essere.
Dunque le nostre facoltà di conoscere e di amare sono essenzialmente ed
effettivamente limitate come la facoltà di agire fisicamente,
perchè non sono capaci nè di cognizione nè di amore
infinito, nè in numero nè in misura, come non siamo capaci di
azione infinita fisica. (E se noi avessimo delle facoltà precisamente
infinite, la nostra essenza si confonderebbe con quella di Dio). Dunque il
nostro desiderio infinito di conoscere (cioè concepire), e di amare, non
può esser mai soddisfatto dalla realtà, ossia da questo, che la
nostra facoltà di conoscere e di amare possieda realmente un oggetto
infinito in quanto è infinito, e in quanto si possa mai possedere
(altrimenti la possessione non sarebbe infinita): ma solamente può esser
soddisfatto dalle illusioni (o false concezioni, o false persuasioni di
conoscenza e di amore, e di possesso e godimento) e dalle distrazioni ovvero occupazioni
(v. p.168. 172-173.175. ivi, fine-176. principio): due grandi istrumenti
adoperati dalla natura per la nostra felicità. (8. Dicembre. 1820.).
L'immaginarsi di essere il primo ente della
natura e che il mondo sia fatto per noi, è una conseguenza naturale
dell'amor proprio necessariamente coesistente con noi, e necessariamente
illimitato. Onde è naturale che ciascuna specie d'animali s'immagini, se
non chiaramente, certo confusamente e fondamentalmente la stessa cosa. Questo
accade nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie. Ma
proporzionatamente lo vediamo accadere anche negl'individui, riguardo, non solo
alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima specie.
[391]Il bene non è assoluto
ma relativo. Non è assoluto nè primariamente o assolutamente
nè secondariamente o relativamente. Non assolutamente perchè la
natura delle cose poteva esser tutt'altra da quella che è; non relativamente,
perchè in questa medesima natura tal qual esiste, quello ch'è
bene per questa cosa non è bene per quella, quello che è male per
questa è bene per quell'altra, cioè gli conviene. La convenienza
è quella che costituisce il bene. L'idea astratta della convenienza si
può credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose in qualunque
ordine e natura. Ma l'idea concreta di essa convenienza è relativa. Non
si può dunque dire che un essere sia più buono di un altro,
cioè abbia o contenga maggior quantità o somma di bene,
perchè il bene non è bene se non in quanto conviene alla
natura degli esseri rispettivi. Solamente, questo si può dire degl'individui
rispetto agli altri individui della stessa specie. Ogni specie dunque, ed ogni
individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è
perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci
perfezione assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie
è più perfetta di un'altra) possiede tutto il bene che è
bene per [392]lui, perchè il resto non sarebbe bene: è
tanto buono quanto può essere, perchè per lui non c'è
buono fuori della sua natura; anzi fuori di questa, tutto è per lui
cattivo, perchè non c'è bene assoluto. Tutto ciò tanto nel
fisico che nel morale. (8. Dicembre. 1820.). Questo io credo che sia il sistema
(Leibniziano se non erro) dell'Ottimismo.
Oltre il progresso dei lumi esatti; dello
studio e imitazione degli esemplari tanto nazionali che antichi; della
regolarità della lingua, dello scrivere e della poesia ridotti ad arte
ec. un'altra gran cagione dell'estinguersi che fece subitamente l'originalità
vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana,
originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la
nascita di essa letteratura, può essere l'estinzione della
libertà, e il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale
costringe lo spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose,
a rivolgersi alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto
monarchico in Italia e fuori, quanto al governo. E le lettere italiane risorsero
dal sonno del quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de' Medici fondatori della
monarchia toscana e distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento
(come poi sotto Leon X.) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta
diversa da quella del trecento, e (quel che è più) da quella che
sogliono sempre prendere nel loro risorgimento [393]o nascere. La letteratura
italiana non è stata più propriamente originale e inventiva.
L'Alfieri è un'eccezione, dovuta al suo spirito libero, e contrario a
quello del tempo, e alla natura de' governi sotto cui visse. (8. Dicembre.
1820.).
A quello che ho detto p.175. fine- 176.
principio, riferisci quello che ho detto p.153. capoverso primo. I fanciulli
parlano ad alta voce da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno, si
raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec. o che loro sono accadute, si
lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano ad alta voce le cose che fanno,
e non v'è per loro tanta solitudine ed inazione materiale, che non sia
piena società conversazione, ed azione spirituale; società ed
azione non languida nè passeggera, ma energica, presente, simile al
vero, accompagnata anche da gesti e movimenti fisici d'ogni sorta, durevole ed
inesauribile.
(9. Dic. 1820.)
Il mio sistema intorno alle cose ed agli
uomini, e l'attribuir ch'io fo tutto o quasi tutto alla natura, e pochissimo o
nulla alla ragione, ossia all'opera dell'uomo o della creatura, non si oppone
al Cristianesimo.
1° La natura è lo stesso che Dio.
Quanto più attribuisco alla natura, tanto più a Dio: quanto
più tolgo alla ragione, tanto più alla creatura. Quanto
più [394]esalto e predico la natura, tanto più Dio.
Stimando perfetta l'opera della natura, stimo perfetta quella di Dio; condanno
la presunzione dell'uomo di perfezionar egli l'opera del creatore; asserisco
che qualunque alterazione fatta all'opera tal qual è uscita dalle mani
di Dio non può esser altro che corruzione. Laddove coloro che si credono
più amici della religione; attribuendo tutto o quasi tutto alla ragione,
fanno dipendere la massima e principal parte dell'ordine umano ed universale,
dalle facoltà della creatura. Sostenendo la perfettibilità
dell'uomo, sostengono che l'opera della natura, cioè di Dio, era
imperfetta; che l'uomo può essere perfezionato non già da Dio, ma
da se stesso; che per conseguenza la perfezione o felicità della prima
delle creature terrestri derivi e debba derivare da essa e non da Dio.
2° Io ammetto anzi sostengo la corruzione
dell'uomo, e il suo decadimento dallo stato primitivo, stato di
felicità; come appunto fa il Cristianesimo. S'io dico che l'uomo fu
corrotto dall'abuso della ragione, dal sapere, e dalla società, questi sono
i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione, e non tolgono che la causa
originale non sia stata il peccato. Io non credo che nessuna vera e soda ragion
di fede provi la scienza infusa in Adamo. S'egli ebbe subito un linguaggio, si
può stimare, ed è ben verosimile che n'abbiano anche le bestie
per servire a [395]quella tal società di cui abbisognano; a
quella che sarebbe convenuta anche all'uomo nello stato primitivo, come
conviene alle bestie che sono ancora in esso stato; a quella che Dio volle
indicare (e non altro) quando disse: Non est bonum esse hominem solum:
faciamus ei adiutorium simile sibi (Gen. 2.18.); a quella della quale ho
detto bastantemente altrove. E contuttociò le bestie non hanno scienza
infusa, e dalla Genesi non risulta niente di questo, riguardo ad Adamo, anzi il
contrario. Giacchè qualunque cosa si voglia intendere per l'albero della
scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che Dio diede
all'uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis (Gen. c.2.
v.8.15.23.24.) (s'intende voluttà e felicità terrena, contro
quello che si vuol sostenere, che all'uomo non sia destinata naturalmente se
non se una felicità spirituale e d'un'altra vita), fu De ligno autem
scientiae honi et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte
morieris (Gen. 2.17.). Non è questo un interdir chiaramente all'uomo
il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacchè questo fu
il solo comando o divieto) un ostacolo agl'incrementi della ragione, come
quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice
della felicità, e vera perfezione [396]di quella tal creatura,
tal quale egli l'aveva fatta, e in quanto era così fatta? Il serpente
disse alla donna Scit enim Deus quod in quocumque die comederitis ex eo,
aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii, scientes bonum et malum.
(Gen. 3.5.) In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle
sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era
destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s'egli avrebbe saputo
contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione,
in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda la
felicità umana: fu appunto il vedere s'egli avrebbe saputo conservarsi
quella felicità che gli era destinata, e vincere il solo ostacolo o
pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione e del
sapere. Questa fu la prova a cui Dio volle assoggettar l'uomo, se bene lo fece
in un modo o materiale, o misterioso. Di che cosa poi si trattava [?] È
egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere il
bene ed il male? (che in somma è quanto dire la cognizione) Secondo voi
altri apologisti della Religione, non è. Ma all'autor della Religione
parve che fosse, perchè l'uomo già sapeva abbastanza per natura,
cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò
che gli conveniva sapere. La colpa dell'uomo fu volerlo sapere per opera sua,
cioè non [397]più per natura, ma per ragione, e
conseguentemente saper più di quello che gli conveniva, cioè
entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi non
dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir
quello, che alle leggi della sua natura, era contrario che si scoprisse. Questo
e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai
nostri primi padri; peccato di superbia nell'aver voluto sapere quello che non
dovevano, e impiegare alla cognizione, un mezzo e un'opera propria, cioè
la ragione, in luogo dell'istinto, ch'era un mezzo e un'azione immediata di
Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato precisamente da chi
sostiene la perfettibilità dell'uomo. I primi padri finalmente peccarono
appunto per aver sognata questa perfettibilità, e cercata questa
perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato, la loro superbia,
non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta: ragione, parlando
assolutamente, non male adoperata, giacchè non cercava se non la scienza
del bene e del male. Or questo appunto fu peccato e superbia. Condannato
ch'ebbe la donna e l'uomo, disse Iddio: Ecce Adam quasi unus ex nobis factus
[398]est, sciens bonum et malum. (Gen. 3.22.) E non aggiunse
altro in questo proposito. Dunque egli non tolse alla ragione umana quell'incremento
che l'uomo indebitamente gli aveva proccurato. Dunque l'uomo restò
veramente simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai
di quando era stato creato. Dunque il decadimento dell'uomo, non
consistè nel decadimento della ragione, anzi nell'incremento. V. p.433.
capoverso 1. E sebben l'uomo ottenne precisamente quello che il serpente aveva
promesso ad Eva, cioè la scienza del bene e del male, non però
questa accrebbe la sua felicità, anzi la distrusse. Questi mi paiono
discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati ma solidi, e dedotti naturalmente
e da dedursi dalle parole e dallo spirito bene inteso della narrazione Mosaica,
e se ne può efficacemente concludere che lo spirito di questa narrazione,
è di attribuire formalmente la corruzione e decadenza dell'uomo
all'aumento della sua ragione, e all'acquisto della sapienza; considerar come
corruttrice dell'uomo la ragione e il sapere: cioè come mezzi espressi
di corruzione, perchè la causa primaria fu la disubbidienza, ma la disubbidienza
a un divieto che proibiva appunto all'uomo di proccurarsi e di rendere efficaci
questi mezzi di corruzione e d'infelicità.
[399]3° Avanti il peccato, ossia
avanti il sapere, erat autem uterque nudus, Adam scilicet et uxor eius, et
non erubescebant. (Gen. 2.25.) Ma come prima Adamo ebbe mangiato del
frutto, ET APERTI SUNT OCULI AMBORUM: cumque COGNOVISSENT se esse
nudos, consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata. (3.7.) E Dio disse
loro: QUIS enim INDICAVIT TIBI quod nudus esses, nisi quod ex ligno
de quo praeceperam tibi ne comederes, comedisti? (3.11.) Questi luoghi
suggerirebbero vaste osservazioni sulla legge naturale, pretesa innata. In sostanza
è chiaro 1. che la decadenza dell'uomo consistè nella decadenza
dallo stato naturale o primitivo, giacchè subito dopo il peccato l'uomo
provò una contraddizione colla sua natura, vergognandosi della
nudità, ossia del modo nel quale era stato fatto: vergogna, e per conseguente
dovere, che non esisteva innanzi alla corruzone. 2. Che questa decadenza o
corruzione in luogo di consistere in quella della ragione, fu anzi cagionata
dal sapere, giacchè l'uomo allora seppe quello che prima non
sapeva, e non avrebbe saputo nè dovuto sapere, cioè di esser
nudo. Quando aprirono gli occhi, come dice la Genesi, allora conobbero
di esser nudi, e si vergognarono della loro natura (contro quello che prima era
[400]avvenuto); e decaddero dallo stato naturale, o si corruppero.
Dunque l'aprir gli occhi, dunque il conoscere fu lo stesso che
decadere o corrompersi; dunque questa decadenza fu decadenza di natura, non di
ragione o di cognizione. 3. Che l'uomo naturale sarebbe vissuto come gli altri
animali senza vestimenti. Questo è un gran colpo, tanto alla pretesa
legge di natura, ingenita ed essenziale: quanto alla pretesa necessità,
o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell'uomo alla
società. Una gran parte del bisogno che l'uomo ha dell'aiuto scambievole,
che il bambino ha per lungo tempo de' genitori, consiste ne' vestimenti. Di
più, una gran parte del bisogno che l'uomo ha di una certa arte, di un
certo uso della sua ragione, consiste nel bisogno de' vestimenti.
4° Quanto alla società, non quella
primitiva, e tenue e comune anche agli animali, che ho definita di sopra, ma
quella intera, e bisognosa di leggi, di costumi, di riti, di potere e sudditi,
di comando e ubbidienza ec. ec. vedi quello che ne pensi la religion Cristiana
p.112. capoverso 1.191. capoverso 2.
5° La descrizione che fa Mosè del
paradiso terrestre, prova che i piaceri destinati all'uomo naturale in questa
vita, erano piaceri di questa vita, materiali, sensibili, [401]e
corporali, e così per tanto la felicità. Oltracciò Dio
pose Adamo in paradiso voluptatis ut OPERARETUR et custodiret illum.
(2.15.) Dunque sebben l'uomo fu condannato dopo il peccato a lavorar la terra maledetta
nell'opera di esso, (3.17.) e scacciato dal paradiso di voluttà
(3.23.) ut operaretur terram de qua sumptus est (ib.), si deve intendere
a lavorarla con sudore, e con ingratitudine d'essa terra, secondo il contesto
della Genesi, e non che la sua vita avanti il peccato, e la sua felicità
dovesse consistere nella contemplazione, ed essere inattiva, ossia senza opere
e occupazioni corporali ed esterne, e piacere di queste opere. Infatti chi non
vede che l'uomo corrotto, ossia l'uomo tal qual è oggi ha molto
più bisogni degli altri viventi, molto più ostacoli a proccurarsi
il necessario, e quindi ha mestieri di molto più fatica per la sua
conservazione? Fatica di stento, comandata dalla ragione e dalla necessità,
ma ripugnante alla natura: fatica non piacevole ec. Laddove gli altri animali
con poca fatica, e quasi nessuno stento si procacciano il bisognevole; non
lavorano la terra, nè questa produce loro spinas et tribulos,
(3.18.) cioè non contrasta ai loro desideri, ma somministra loro il necessario
spontaneamente; ed essi raccolgono e non [402]seminano. Intendo parlare
di qualunque cibo del quale si pascano. Del vestire, l'uomo abbisogna nello
stato presente, essi no, ma nascono vestiti dalla natura. La società
primitiva qual è usata anche dagli animali; il raziocinio primitivo,
ossia il principio di cognizione comune a tutti gli esseri capaci di scelta,
erano destinati a supplire ai bisogni dell'uomo. La società qual
è, la ragione qual è ridotta, accresce smisuratamente questi bisogni:
il mezzo di servire ai bisogni e di estinguerli, è divenuto padre, e
cagione, e fonte perenne e abbondantissima di bisogni. I bisogni naturali
dell'uomo sarebbero pochissimi, come quelli degli altri anmali; ma la
società e la ragione aumentano il numero e la misura de' suoi bisogni
eccessivamente. Questa distinzione fra' bisogni naturali, e sociali o fattizi,
e nonpertanto inevitabili nel nostro stato, formava il fondamento della setta
Cinica, la quale si prefiggeva di mostrare col fatto, di quanto poco abbisogni
l'uomo naturalmente. V. l'epitaffio di Diogene nel Laerzio. L'uomo fu dunque
veramente condannato alla fatica, e fatica di stento; vi fu condannato a
differenza degli altri animali; ed essendovi stato condannato sotto l'aspetto
che ho esposto, non ne segue che la sua vita innanzi la corruzione dovesse
essere inattiva, cioè dovesse [403]contenere meno attività
ed occupazione fisica, di quello che ne contenga la vita degli altri animali.
6° Se la Religione ha poi divinizzato la
ragione e il sapere; dato la preferenza allo spirito sopra i sensi; fatto
consistere la perfezione dell'uomo nella ragione a differenza dei bruti; e in
somma dato alla ragione il primato nell'uomo sopra la natura: tutto ciò
non si oppone al mio sistema. L'uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato,
la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l'uomo era divenuto sociale:
quindi l'uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la
sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli era, decaduto dalla sua
perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro che nella sua essenza o
condizione propria e primordiale. Da questo stato di corruzione, l'esperienza
prova che l'uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova
anche la ragione, perchè quello che si è imparato non si
dimentica. In fatti la storia dell'uomo non presenta altro che un passaggio continuo
da un grado di civiltà ad un altro, poi all'eccesso di civiltà, e
finalmente alla barbarie, e poi da capo. Barbarie, s'intende, di corruzione,
non già stato primitivo [404]assolutamente e naturale,
giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta mai
l'uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l'uomo tal quale
è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato
di civiltà media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile
colla sua ragione già radicata in un posto più alto del primitivo.
Questo stato non è il naturale assoluto, ma è quello stabilito
appresso a poco dalla religione, come dirò poi. Lo stato naturale
assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il discorso de' miracoli,
è sopraumano, e non entra in filosofia. Perchè dunque l'uomo
corrotto com'è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo
stato puramente naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri
esseri, rimane, colla detta ragione, spiegato in filosofia. In religione anche
meglio; perchè Dio in pena del peccato, avendo condannato l'uomo
all'infelicità della corruzione derivata da esso peccato, non voleva
nè doveva fare questo miracolo. Volendo mostrargli la sua misericordia,
e dare al suo stato una perfezione compatibile colla sua condanna, cioè
colla sua infelicità, non restava altro che perfezionare la sua ragione,
cioè quella parte che aveva prevaluto immutabilmente nell'uomo [405]per
la sua disubbidienza, e con ciò causata la sua corruzione. La perfezion
della ragione non è la perfezione dell'uomo assolutamente, ma bensì
dell'uomo tal qual è dopo la corruzione. Perchè la perfezione di
un essere non è altro che l'intiera conformità colla sua essenza
primigenia. Ora l'essenza primigenia dell'uomo supponeva e conteneva l'ubbidienza
della ragione, in somma tutto l'opposto della perfezion della ragione. Questa
perfezione dunque non poteva essere la sua felicità in questa vita, non
essendo la perfezione dell'ente. Non poteva dunque se non formare la sua
felicità in un'altra vita, dove la natura dell'ente in certo modo si cambiasse.
La ragione (massime relativamente all'altra vita) non può essere
perfezionata se non dalla rivelazione. Fu dunque necessario che Dio rivelasse
all'uomo la sua origine, e i suoi destini; quei destini che avrebbe conseguiti
rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe conseguiti insieme colla
felicità terrena. Laddove il Cristianesimo chiama beato chi piange,
predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola suppone essenzialmente
l'infelicità di questa vita, per conseguenza [406]naturale degli
addotti principj. Ma da questi segue ancora che la maggior felicità
possibile dell'uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il
più vero ed intero, all'infelicità naturale, è la religione.
Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana
assolutamente, e quindi la felicità naturale, e quindi la
felicità temporale, è impossibile all'uomo dopo la corruzione. La
ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior
grado dell'uomo corrotto è la perfezione di essa ragione, che forma oggi
la sua parte principale. La perfezion della ragione non può condurre se
non alla felicità di un'altra vita. Quindi, e anche senza ciò, la
perfezion della ragione e della cognizione, non può stare senza la rivelazione.
Dunque il migliore stato dell'uomo corrotto, è la Religione, e
siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene,
perciò, sebben suppone l'infelicità di questa vita, contiene
però il maggior conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi
la maggior perfezione possibile dell'uomo in questa vita. Ecco come la Religione
si accorda mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.
[407]7° La perfezion della ragione
consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci, anzi
l'opposizione intrinseca ch'ella ha colla nostra felicità. V. p.304.
capoverso 2. Questa è tutta la perfettibilità dell'uomo,
conoscersi incapace affatto a perfezionarsi, anzi ch'essendo egli uscito
perfetto sostanzialmente dalle mani della natura, alterandosi non può
altro che guastarsi. Ora la Religione confonde appunto la nostra ragione, gli
mostra la sua insufficienza, la corruttela che ha introdotto nell'uomo, e
l'impossibilità ch'ell'ha di felicitarci: ed ecco la perfezion della
ragione. Perchè queste cose l'uomo non le avrebbe conosciute nel suo
stato primitivo, ma prevaluta la ragione, egli non può giungere a
maggior perfezione che di conoscere l'impotenza e il danno della ragione. La
perfezion della ragione consiste a richiamar l'uomo quanto è possibile
al suo stato naturale; ritorno ch'essendo fatto mediante quella ragione stessa
che ha corrotto l'uomo, ed avendo il suo fondamento in questa medesima
corruttrice, non può più equivalere allo stato naturale,
nè per conseguenza alla nostra perfezion primitiva, nè quindi
proccurarci quella felicità che ci era destinata. Ma contuttociò,
riguardo a questa vita, è la miglior condizione che l'uomo possa
sperare. Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente [408]la
natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle
qualità ch'eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla
natura, appaga la nostra immaginazione coll'idea dell'infinito, predica
l'eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni
che costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato
dell'uomo sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede tanto alla
natura, quanto è compatibile colla società. Osservate infatti che
lo stato di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo
mezzanamente civile. Vita, attività, piaceri della vita domestica,
eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e pubblica
degl'individui e delle nazioni, virtù pubbliche e private, importanza
data alle cose, compassione e carità ec. ec. Tutte le illusioni che
sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane,
acquistano vita e forza nel Cristianesimo. Esempio della Spagna fino al 1820.
del suo eroismo contro i francesi ec. Le sue stesse superstizioni non erano
altro che illusioni, e però vita. Osservate ancora che tutto quello che
v'è di meno della civiltà media nello stato di un popolo,
è contrario al Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello
stato de' bassi tempi, della Spagna ec. Perchè il Cristianesimo puro,
conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta civiltà, quanta
nè più nè meno conviene all'uomo sociale. D'altra
parte osservate che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun
popolo al di là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo
cristiano veramente, è stato mai al [409]di qua nè al di
là della civiltà media. Le società o barbare
assolutamente, o corrotte e barbare per corruzione, sono incivilite dal
Cristianesimo, e portate al detto stato di civiltà media. Esempio de'
popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo. All'opposto le
società eccessivamente incivilite, e strettamente ragionevoli, (come
anche gl'individui) non sono state mai cristiane. Esempio de' nostri tempi. In
luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi di queste
società, sono l'egoismo, la morte, il tedio, l'indifferenza, l'inazione,
la mala fede pubblica e privata, l'assenza di ogni eroismo, sacrifizio,
virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo, o
sviluppatasi naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma la sostanza
e la ragione della vita, e ch'essendo ispirata dalla natura è confermata
dal Cristianesimo.
8° La detta perfezion della ragione è
relativa a questa vita. Ma la ragione non può esser perfetta se
non è relativa all'altra vita. Perchè quel richiamarci ch'ella
deve fare alla natura, e alle illusioni naturali, essendo un richiamo fatto
dalla ragione, non può esser altro che persuasione di esse illusioni.
Dopo ch'esse son conosciute, come ci torneremmo, se non [410]ci
persuadessimo di nuovo che fossero vere? Un ritorno della ragione, non
ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, istabile e
passeggero, come quello de' moderni filosofi sensibili, che cercando a
più potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al
più, momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza,
indifferenza e morte. Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle
illusioni, cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere. Ma non
son vere se non rispetto a Dio e ad un'altra vita. Rispetto a Dio ch'è
la virtù, la bellezza ec. personificata; la virtù sostanza, e non
fantasma, come nell'ordine delle cose create. Rispetto a un'altra vita, dove la
speranza sarà realizzata, la virtù e l'eroismo premiato ec. dove
insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà. Dunque
la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa come all'altra vita,
perchè ho mostrato che la perfezione rispetto a questa vita dipende
dalla perfezione rispetto all'altra) consiste formalmente nella cognizione di
un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la perfezione, e quindi la
felicità dell'uomo corrotto. Dunque l'uomo corrotto non poteva
esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione.
Ed ecco strettamente [411]dimostrato e dichiarato come all'uomo corrotto
sia necessaria quella cognizione, ch'era contraria alla natura dell'uomo
primitivo; e come il Cristianesimo divinizzando la ragione e il sapere, non si
opponga al mio sistema che divinizza la natura nemica della ragione e del
sapere.
9° L'esperienza conferma che l'uomo qual
è ridotto, non può esser felice sodamente e durevolmente (quanto
può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente)
religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni,
senza le quali non c'è felicità, ma ch'essendo conosciute dalla
ragione, non possono più parer vere all'uomo, come paiono agli altri viventi,
se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongano
avere in un'altra vita. A questo effetto contribuirono anche le Religioni
antiche, il Maomettismo, le sette d'ogni genere, e tutte quelle opinioni che
hanno dato vita a un popolo o ad una società, e indottala ad operare.
Riferite a questo tutto quello che ho detto altrove della necessità di
una persuasone per condurre alle azioni, e di una persuasione che abbia
l'aspetto d'illusione e di passione, ec. Giacchè la persuasione che
tutto sia nullo, non conduce all'azione. E la persuasione che le cose sieno
cose, non può [412]aver fondamento nè ragione, se non se
nell'idea e persuasione di un'altra vita. Ma questa ci deve persuadere: dunque
bisogna che la religione ci persuada, e non si può essere indifferenti
circa la sua qualità e verità. Altrimenti se la Religione si considera
e si segue come una delle altre illusioni, questa non sarà più
persuasione, e tanto le altre illusioni, quanto questa, mancheranno di nuovo
del loro fondamento, e non ci potranno quindi condurre all'azione durevole,
alla perfezione, alla felicità. Ecco perchè la Religione si trova
presso la culla di tutti i popoli; ecco perchè gl'imperi o stati fondati
o conservati dalle opinioni religiose, sono distrutti dalla filosofia; ecco
perchè la decadenza di Roma fu compagna della decadenza della sua
Religione ec. ec. V. gli altri pensieri. Perchè indebolendoo mancando le
credenze Religiose, indebolisce, o manca il principio di azione, cioè la
credenza alle illusioni, o sia la persuasione della realtà delle cose,
le quali non possono essere reali ed importanti se non rispetto ad un'altra
vita. E nello stesso modo, mancando quella tal Religione che realizza quelle
tali illusioni, manca quel tale stato di un popolo, e la sostituzione di
un'altra Religione, non riconduce quello stesso stato, anzi lo cambia. E
così avvenne del Cristianesimo rispetto al paganesimo in Roma.
Perchè l'uomo credendo [413](non dico conoscendo ma credendo)
diversamente, opera diversamente. Quindi resta giustificata anzi lodata la
gelosia che gli antichi politici greci e Romani manifestarono sempre per le
loro antiche credenze, colle quali doveva mancare e mancò il loro stato.
10° Dal sopraddetto segue che il
Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia indifferente per
l'uomo, non prova che la felicità dell'uomo consista nel conoscere. Col
prevaler della ragione e del sapere, l'uomo non potendo più credere
quello che credeva naturalmente, bisognava ch'egli tornasse a crederlo mediante
questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva più estinguere.
La cognizione del vero gli era dunque necessaria, non come indirizzata al vero,
ma come solo fonte di quella credenza che gli bisognava per riacquistare quella
felicità che la stessa cognizione gli avea tolta. Verità o
errore, bastava ed importava solamente che l'uomo credesse quelle cose, senza
le quali non poteva esser felice. Ma l'errore l'avrebbe potuto credere
stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non poteva credere
stabilmente altro che il vero. Bisognava dunque ch'egli trovasse verità reali
in quelle opinioni e in [414]quei giudizi che formano e servono di base
alla vita umana. Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente
veri, se non supposta una Religione, e una Religion vera, cioè universalmente
e stabilmente credibile. Ecco dunque come la ragione non poteva condurre
alla felicità senza la rivelazione. La verità non era necessaria
all'uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità. Ora
la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e
di sapere. E l'uomo senza credenza stabile, non ha stabile motivo di
determinarsi, quindi di agire, quindi di vivere.
Ma siccome la verità era necessaria
all'uomo, soltanto come unico fondamento di quelle credenze che sono necessarie
alla sua vita, perciò tutta quella parte di verità che non serve
di fondamento a queste credenze, è indifferente all'uomo, anzi nociva,
anche nello stato presente di corruzione. Al contrario di quello che accadrebbe
se la felicità dell'uomo o naturale o corrotto dovesse necessariamente
consistere nella cognizione assoluta; il cui oggetto essendo la verità
assolutamente, nessuna minima verità sarebbe indifferente all'uomo, e
l'uomo sarebbe infelice finchè non avesse conosciuta tutta la generale e
particolare estensione della verità, perch'egli prima di questo punto,
non sarebbe arrivato alla [415]sua perfezione. Al qual punto però
gli è formalmente impossibile di arrivare, come ho detto altrove. V.
p.385-386. e p.389-390. Dove che la Religione, avendo insegnato all'uomo quelle
verità che realizzano le credenze necessarie alla sua felicità,
non solo non insegna, o suppone le altre verità, ma anzi, come ho detto
di sopra, e come prova l'esperienza, non c'è maggior nemico della
Religione che un secolo pieno di cognizioni. E la Religion Cristiana si adatta
e si deve adattare alla capacità dell'ignorante, e conviene, anzi trova
il suo miglior posto nell'ignoranza delle altre verità. Le quali anche
astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell'uomo, quantunque
già ragionevole, perchè non sono altro che un'estensione di
questa ragione e sapere che distruggono la umana felicità, e un
più vasto eccidio di quelle opinioni e illusioni parziali, che anche
dopo prevaluta la ragione, possono esser credute stabilmente, se il
sapere, l'esperienza ec. non si applicano parzialmente a sradicarle,
cioè finchè dura l'ignoranza parziale. La quale può occupare
maggiore o minore spazio, e quanto più ne occupa tanto più l'uomo
è felice. P.e. le scoperte geografiche sono indifferenti alla religione.
Ma geometrizzando l'idea del mondo, distruggono quelle belle illusioni che
ancora restavano a causa dell'ignoranza parziale intorno a questo capo. [416]E
la perfezione della ragione non consiste nella cognizione di queste
verità, perchè non consiste nella cognizione della verità
in quanto verità, ma in quanto stabile fondamento delle credenze
necessarie o utili alla vita. E ci deve richiamare alla natura o alla felicità
naturale per una strada diversa dalla primitiva, la quale è
irrevocabilmente perduta. Ora se alcune delle dette credenze hanno già
un fondamento stabile nell'ignoranza parziale, la ragione e il sapere, distruggendole
nuocono alla nostra felicità, e non corrispondono alla loro perfezione
la quale consiste in richiamarci alla natura. Laddove scoprendo queste
verità parziali ch'erano stabilmente nascoste, ci allontanano
maggiormente dalla natura, e quindi dalla felicità. V. p.420. capoverso
1.
11° Il mio sistema non si fonda sul
Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto il fin qui detto
suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo: ma
tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto. Frattanto osserverò
che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può supplire a spiegare
quella parte della natura delle cose che nel mio sistema resta intatta, ovvero
oscura e difficile.
Così il Cristianesimo aiuta il mio
sistema riempiendone le necessarie lagune nelle cose dove non arriva il nostro
ragionamento: e di più l'appoggia precisamente; come apparisce dal
sopraddetto, massime dalla esposizione di quei luoghi della Genesi, i quali
somministrano una formale e stretta dimostrazion religiosa del punto principale
del mio sistema, cioè che la corruzione e l'infelicità
conseguente dell'uomo, è stata operata dalla ragione e dalla
cognizione, (9-15.
Dic. 1820.) e consiste immediatamente
nell'esso incremento loro.
Alla p.416. L'ignoranza parziale può
sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato dalla ragione, anche
nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile
fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali; dunque tener
l'uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo
più o meno felice. Per [421]conseguenza quanto maggiore per
estensione, e per profondità sarà questa ignoranza parziale,
tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de' selvaggi.
S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze,
giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi
e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro
quelli fabbricati dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi
all'opposto, com'essendo un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto
quello che si oppone a esso stato. Perciò le superstizioni, le barbarie
ec. non conducono alla felicità, ma all'infelicità. V. p.314.
Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice
possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un
certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, [422]mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto
era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita,
perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità
naturale. Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e
perciò dannosi e barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi)
conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di
quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior
numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una
più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo più
vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e
minor parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi
derivata da ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa
ma positiva. Questa non poteva conferire alla felicità, ma all'infelicità,
allontanando maggiormente l'uomo dalla natura: se non in [423]quanto
quell'ignoranza qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali,
perchè la natura trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente
quando manca il suo maggiore ostacolo ch'è la scienza. E però
quella barbarie produceva una vita meno lontana dalla natura, e meno infelice,
più attiva ec. di quella che produce l'incivilimento non medio ma
eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito p.162. capoverso
1. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è dubbio che quella
non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non per altro,
per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo stesso
motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e
natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi
Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro, sibariti, ec. ec.
Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne
ed europee.).
Ma il detto effetto delle antiche religioni
non poteva durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale
di esse religioni: vale a dire, quanto durasse quella tal misura e
profondità d'ignoranza che permettesse di credere veramente [424]e
stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano
fondate. Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando
l'ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma
perciò appunto più rozze, non potevano più esser credute,
nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne
derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi
appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava richiamare quelle
illusioni. Ma come, se restavano e non potevano più allontanarsi la
ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano
padroni dell'uomo? (qui osservate gl'inutili sforzi di Cicerone nelle
Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non
più come verità, perchè tali non erano più credute;
e com'egli non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di
persuadersi dell'immortalità dell'anima, e del premio delle buone azioni
nell'altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni
col mezzo di una tal qual religione, e v. gli altri pensieri). Bisognava dunque
richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa
ragione e sapere. Dico col mezzo, perchè non c'era altro modo di
richiamarle, se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva
farlo se non la ragione e il sapere già stabilito. Ma come quella stessa
ragione e sapere che le avevano distrutte, potevano permettere che
risorgessero, anzi introdurle di nuovo nell'anima? Sarebbe convenuto che la
ragione rinegasse se stessa. (come conviene ora a qualunque filosofo vuol
vivere). Non c'era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e
creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione
tornasse a far la base delle illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel
nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero l'aspetto stabile di
verità agli occhi degli uomini. In somma bisognava che questa religione,
nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione
e del sapere. O parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione
assicurasse la ragione, che quelle credenze ch'ella aveva ripudiate, erano
vere. Ecco dunque arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole
[426](cioè rivelata, perchè senza il fondamento della
rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere
quello che, umanamente parlando, è veramente falso?) o almeno
perfettamente conforme a quella tal misura della ragione e sapere di quei tali
tempi. Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel
momento in cui l'eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto
o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso o dubbio
senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive,
gettava l'uomo nell'inazione, nell'indifferenza, nell'egoismo (e quindi nella
malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda
barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi
ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l'eroismo, l'amor patrio,
l'amore scambievole ec. erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente
parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami
sociali, e anche individuali, cioè dell'uomo con se stesso e con la
vita: quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che
si sviluppano naturalmente nell'uomo ridotto in società, (quali
sono quasi tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte: [427]quel
momento a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o
Pirroniana. (V. Diog. Laerz. l.9. Luciano
passim, e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo,
cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non però divulgato, anzi
bambino).
Con ciò si potrà spiegare
perchè il Cristianesimo fosse rivelato in quel tempo, e non prima
nè dopo: e per la pienezza de' tempi famosa nel Vecchio
Testamento si potrà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in
cui la ragione e il sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti,
aveano incominciato una devastazione, e una rivoluzione micidiale nell'uomo, e
una mortificazione generale dei popoli colti e degl'individui. In maniera che
quello era il punto in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande
rivelazione del vero relativo all'uomo diveniva precisamente, e per la prima
volta necessaria.
E il Cristianesimo fece certo un gran bene,
e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della
ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione. Ma appunto
perchè la medicina era composta di ragione, e perchè le origini
del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate, cioè il guasto fatto
dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò [428]quel
rimedio era bensì l'unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma
relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore al male.
Giacchè questo era necessariamente più naturale, e quindi
più conducente alla felicità di quaggiù. E infatti la
vita, sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore, meno
attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice,
giacchè il Cristianesimo non aveva insegnato all'uomo che la vita
è ragionevole, e ch'egli deve vivere, se non insegnandogli che deve
indirizzar questa ad un'altra vita, rispetto alla quale solamente, è
ragionevole questa vita: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Ma il detto effetto non fu colpa del
Cristianesimo, ma delle cause che aveano, come si è detto, prodotta la
necessità di questo rimedio; cause che presto o tardi doveano
necessariamente emergere dall'andamento che avea preso la ragione (ossia dalla
superiorità che aveva acquistata, e che dovea naturalmente crescere e
portar gli uomini a quel punto) e dallo stato di società, a cui l'uomo
era irrevocabilmente ridotto. Sicchè presto o tardi era indispensabile e
certa la nascita del Cristianesimo, o di una [429]Religione ammissibile
dalla ragione, anzi prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole
delle antiche le quali non erano conformi nè adattabili se non ad un
grado di ragione e di sapere molto minore. Quindi, posta la corruzione
dell'uomo operata dalla ragione e dal sapere, l'uomo doveva necessariamente
arrivare una volta, a quella poca felicità di vita, che il Cristianesimo
stabilisce dogmaticamente, e anche produce attivamente, ma come seconda e
necessaria, non come prima e libera cagione. Era dico indispensabile presto o
tardi il Cristianesimo, posta la corruzione operata dalla ragione, e lo era 1.
umanamente: perchè la ragione prima di arrivare a quell'estremo al quale
è giunta oggidì, doveva naturalmente spaventarsi di se stessa; e
vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose, e quindi venirsi a distruggere
la vita e il mondo, doveva considerar se stessa come assurda, e concludere che
ci doveva esser qualche verità ignota la quale dasse alle cose quella
realtà ch'essa non poteva più scoprire nè ammettere.
Quindi anche da se stessa [430]dovea rifugiarsi nel seno di una religione
astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una religione
misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà
delle cose di cui la ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente
colle sue forze, veniva stabilita dall'opinione verisimile, e creduta vera, di
un Dio infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere la
detta realtà. Così che la ragione sopra un fondamento oscuro, ma
creduto vero, veniva a creder quelle cose, che dall'una parte non poteva
credere sopra un fondamento chiaro e dettagliato; dall'altra parte le sembrava
ancora assurdo il negare, a dispetto della natura e del sentimento intimo che
le asseriva. Sicchè la ragione anche da se, nel suo corso naturale,
prima di distrugger tutto, doveva necessariamente immaginare, e persuadersi di
una religion rivelata. 2. molto più divinamente. Perchè supposto
un Dio, e che questi abbia cura delle sue creature, quando per non veder perire
[431]il primo degli enti terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua
vita quaggiù, o ridursi all'ultima infelicità, non rimase altro
mezzo che la credenza di una rivelazione, era troppo conveniente alla sua
misericordia l'adoperarlo, e perchè questa credenza fosse stabile e
certa, fare che fosse vera, cioè rivelar da vero.
Del resto sebbene io dico che la
civiltà media è il migliore stato dell'uomo corrotto e sociale, e
che il Cristianesimo lo mette nè più nè meno in questo
stato, ciò non contraddice a quello ch'io soggiungo, che l'uomo era
più felice prima che dopo il Cristianesimo. Perchè questo stato
di civiltà media può avere diversi gradi, cioè contener
più o meno di natura, o di ragione; di credenze naturali o non naturali;
e quindi essere più o meno felice. Ma oggidì non essendo
più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore
incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa
vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo. V. poi gli altri miei pensieri
circa gli effetti del Cristianesimo (o delle cause che lo produssero) [432]sulla
società, sulla qualità e sulla felicità di questa vita.
Del resto osservate che il Cristianesimo
limita estremamente l'esercizio della ragione, di quella facoltà
distruttrice della vita; di quella facoltà che l'aveva reso necessario;
di quella al cui guasto egli è venuto a riparare; di quella che in certo
modo l'invocò e lo produsse. Perchè, tranne alcune proposizioni
generali fondamentali, che hanno bisogno della ragione per esser giudicate e
credute, vale a dire, l'esistenza, la provvidenza, la manifestazione, e
l'infallibilità di un Dio, tutte le altre proposizioni particolari che
la religione insegna, sono indipendenti dall'esame e dall'intervento della
ragione. E sebben questa, credendole, e regolando con esse le azioni e la vita,
opera ragionevolmente e conseguentemente, in vista di quelle proposizioni
generali, contuttociò, l'uso e l'esercizio suo resta scarsissimo nella
vita cristiana, limitandosi al solo fondamento, e al solo generale, il quale
esclude essenzialmente ogni operazion della ragione in tutti i particolari, che
sono il [433]più, e che formano e regolano la vita. Anche per
questo capo il Cristianesimo conduce l'uomo alla civiltà media,
ingiungendo l'inazione e l'acciecamento della ragione nella vita, sebbene essa
ragione sia la fonte di questa inazione ec. dipendente dalla persuasione attiva
ch'ella ha, delle proposizioni fondamentali.
(18. Dic. 1820.)
Alla p.398. Di più, soggiunse Iddio: nunc
ergo ne forte mittat manum suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et
vivat in aeternum. (Gen. 3.22.) Dunque il ragionamento è chiaro.
S'egli mangerà del frutto dell'albero di vita, vivrà realmente in
eterno: dunque avendo colto e mangiato dell'albero della scienza, aveva realmente
acquistato essa scienza. E Dio non gliel'aveva tolta, perchè nello
stesso modo gli poteva togliere l'immortalità, se avesse mangiato
dell'albero della vita. Ora egli tanto non giudicava di togliergli
quest'immortalità, nel caso che ne avesse mangiato, che anzi
perchè non ne mangiasse (non per il peccato, ma per questo espresso
motivo, secondo la chiarissima narrazione della Genesi) lo cacciò dal
paradiso, dov'era quell'albero di vita. Et emisit eum (segue immediatamente
[434]la Gen.) Dominus Deus de paradiso voluptatis... et collocavit
ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum gladium atque versatilem,
AD CUSTODIENDAM VIAM LIGNI VITAE. (23.24.) Vengano adesso i teologi, e mi
dicano che la corruzione dell'uomo consistè nella ribellione della carne
allo spirito, e nella superiorità acquistata da quella, ossia nell'assoggettamento
della parte ragionevole e intellettiva. Ovvero che questo fu il proprio effetto
della corruzione e del peccato. È vero, e dico anch'io, che allora
incominciò quella nemicizia della ragione e della natura ch'io sempre
predico, nemicizia che non ha luogo negli altri viventi, provveduti per altro
di raziocinio, e del principio di cognizione. Ma questa nemicizia, questo
squilibrio, questo contrasto di due qualità divenute allora incompatibili,
provenne e consistè nell'incremento e preponderanza acquistata dalla
ragione; e la degradazione dell'uomo non fu quella della ragione nè
della cognizione, nè l'offuscazione dell'intelletto. Anzi dopo il
peccato, e mediante il peccato l'uomo ebbe l'intelletto
rischiaratissimo, acquistò la scienza del bene e del male, e divenne
effettivamente per questa, quasi unus ex nobis, disse Iddio. [435]Tutto
ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali. Allora insomma la ragione
dell'uomo cominciò a contraddire alle sue 1. inclinazioni, 2. credenze
primitive, cosa che per l'avanti non aveva fatto; e questa fu una ribellione
della ragione alla natura, o dello spirito al corpo, non della natura alla
ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate che il mio sistema è
l'unico che possa dare alla narrazion della Genesi, una spiegazione quanto
nuova, tanto letterale, facile, spontanea, anzi tale che non può esser
diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo come assurdo. E infatti
secondo i teologi i quali considerano l'incremento della ragione e sapere come un
bene assoluto per l'uomo, e la parte ragionevole come primaria in lui
assolutamente ed essenzialmente (non accidentalmente, cioè posta la
corruzione); secondo i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi, resta
assurdissimo, giacchè pone l'incremento della ragione e l'acquisto della
scienza come effetto preciso e diretto del peccato. Laddove il mio sistema che
pone la perfezion vera ed essenziale dell'uomo, nel suo stato primitivo,
cioè in [436]quello stato in cui fu creato, ed uscì
immediatamente dalle mani di Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della
ragione e del sapere, trova il senso letterale e incontrovertibile della
Genesi, profondissimo, e conforme alla più sublime ed ultima filosofia.
(19. Dic. 1820.)
Nella Genesi non si trova nulla in favore
della pretesa scienza infusa in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo
linguaggio, come ho detto p.394. fine. Dio, dice la Genesi, adduxit ea
(gli animali) ad Adam, ut videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit
Adam animae viventis, (che forse è quanto dire: omnis enim anima
vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens) ipsum est
nomen eius. Appellavitque Adam
nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias
terrae. (Gen. 2.19. et 20.) Questo
non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di
quelle qualità degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente
di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi, all'orecchio ec.:
qualità dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli
oggetti sensibili [437]nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico
e quelle parole che formano le radici degl'idiomi.
Del resto sostengo anch'io, anzi fa parte
essenziale del mio sistema la proposizione che Adamo ebbe una scienza infusa:
ma in questo modo. Ogni essere capace di scelta, anzi tale che non si
può determinare all'azione (neppure a quella necessaria per conservarsi,
eccetto le azioni che chiamano hominis, se ce ne ha veramente) e per
conseguenza non può vivere, senza un atto elettivo e definito della sua
volontà, ha bisogno di credenze, cioè deve credere che le cose
siano buone o cattive, e che quella tal cosa sia buona o cattiva, altrimenti la
sua volontà non avrà motivo per determinarsi ad abbracciarla o
fuggirla, per decidersi a fare o non fare, all'affermativo o al negativo. E
l'uomo e l'animale in questa indifferenza diverrebbe necessariamente come
quell'asino delle scuole, di cui vedi p.381. Le piante e i sassi che non si
muovono da se, nè dipendono da se nell'azione e nella vita, non hanno
bisogno di credenze, ma l'animale che dipende da se nell'azione e nella vita,
ha bisogno di credere, giacchè non c'è altro motivo [438]nè
mobile, nè altra forza, (eccetto l'estrinseche) che lo possa
determinare, e definirne la scelta. Qualunque essere non è macchina, ha
bisogno di credenze per vivere. Dunque anche gli animali, se non sono purissime
macchine: dunque hanno anch'essi il principio di ragionamento, senza cui non
v'è credenza, perchè il credere non è altro che tirare una
conseguenza.
Ma io dico credenze, non cognizioni.
L'oggetto della cognizione è la verità; l'oggetto della credenza
è una proposizione credibile, e dico credibile relativamente in tutto e
per tutto alle qualità generali o individuali, essenziali o accidentali
dell'essere che crede, perchè una cosa può esser credibile a una
specie o genere, e non ad un'altra; a un individuo di quella specie o genere, e
non ad un altro; a questo medesimo individuo oggi, e non domani.
La verità dunque non entra in questo
discorso, ma solo bisogna sapere quali determinazioni a credere siano atte a produrre
una determinazione ad operare, vantaggiosa (e questo veramente)
all'essere pensante e vivente; e perciò quali determinazioni a credere,
o sia quali credenze, sieno atte a produrre la sua felicità.
Io dunque dico che queste credenze
determinanti l'uomo bene (cioè non altro che convenientemente alla sua
propria e particolare essenza), e perciò conducenti [439]alla
felicità, sono (come negli altri animali) le credenze ingenite, primitive,
e naturali.
In questo modo io sostengo che Adamo ebbe
non una scienza propriamente, ma delle credenze infuse: non la cognizione del
vero, indifferente per lui, ma delle opinioni credute veramente vere da lui,
opinioni di credere il vero (senza di che non v'è credenza), e opinioni
veramente convenienti alla sua natura, e alla sua felicità, e quindi
conducenti alla perfezione. E Adamo ne dovette avere necessariamente, come gli
altri animali, perchè senza credenze non c'è vita per quegli
esseri che dipendono nell'operare dalla determinazione della propria
volontà, come ho dimostrato.
Queste credenze ingenite, primitive e
naturali, non sono altro se non quello che si chiama istinto, idee innate ec.
Gli animali ne hanno: non si contrasta: ma non perciò non son liberi: se
non fossero liberi sarebbono macchine pure: l'istinto non è altro che
quello che ho detto, cioè credenze ingenite. Queste non tolgono la libertà,
perchè non fanno altro che determinare la volontà, e non
già forzare macchinalmente gli organi: nello stesso modo [440]che
una credenza qualunque, o ingenita o acquistata, non toglie la libertà o
la scelta all'uomo. Che il ragionamento necessario per iscegliere sia determinato
da principii naturali ed innati, o da principii acquistati colla cognizione, da
principii veri, o da principii falsi ma creduti naturalmente veri; questo
è indifferente alla libertà, com'è indifferente alla
felicità relativa che ne dipende, il vero o il falso assoluto. E il
ragionamento della scelta, è ragionamento nello stessissimo modo, da
qualunque principio parta. Sicchè i bruti hanno istinto e insieme
libertà piena. L'uomo dunque che aveva libertà piena, aveva
ancora ed ha tuttavia istinto. Considerate l'uomo naturale, il fanciullo ec. e
vedrete quante sieno le sue azioni determinate da principii ingeniti, sieno
principii di sola credenza, sieno anche di vera cognizione delle cose come
sono. P.e. il bambino, applicategli le labbra alla mammella, ne succhia il
latte senza maestro. Ma è cosa già osservata, e quanto naturale
ad accadere, tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai
più, e tuttavia degnissima d'esser sempre meglio osservata, che la forza
dell'istinto, scema in proporzione che crescono le altre forze determinatrici
dell'uomo, cioè la ragione e la cognizione; e così [441]in
proporzione che l'uomo si allontana dalla natura, per la società,
l'alterazione o sostituzione di altri mezzi a quelli che la natura ci aveva
dato per gli stessi fini ec. ec. E come l'uomo perde la felicità
naturale, così pure, anzi precedentemente, perde la forza attuale
dell'istinto, e dei mezzi ingeniti di ottener questa felicità.
Perciò è un vero acciecamento il dire che il bruto ha dalla
natura tutta quella istruzione che gli bisogna per esistere: l'uomo no: e
dedurne ch'egli dunque ha bisogno di ammaestramento, di società ec.
insomma ch'egli esce imperfetto dalle mani della natura, e conviene che si
perfezioni da se. Anche l'uomo aveva naturalmente tutto il necessario; se ora
non sente più d'averlo, viene che l'ha perduto; ha perduto la perfezione
volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi. Osserviamo l'uomo
primitivo, il bambino, e proporzionatamente l'ignorante, e vedremo quanto essi
o sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano
di quello che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe
servito ai nostri bisogni veramente, ed era l'istrumento che ci
conveniva, e che [442]la natura ci avea posto in mano; e sebben falso in
assoluto, era vero in relativo, e pienamente sufficiente al suo fine,
cioè insomma, alla nostra esistenza perfetta secondo la nostra
particolare essenza, e quindi alla nostra felicità.
Ma bisogna ben intendere che cosa siano
queste credenze ingenite, o vero istinto, e idee innate. Idee precisamente innate
non esistono in alcun vivente, e sono un sogno delle antiche scuole. La natura
influisce sulle idee o credenze di qualunque animale, non ponendoci
identicamente e immediatamente quelle tali idee e credenze, ma mediatamente,
cioè disponendo l'animale, e l'ordine delle cose relativo a lui, in tal
maniera, che l'animale si determini naturalmente a credere questo e non quello.
Così che la credenza non è neppur essa determinata primitivamente,
non più della volontà, ma deve anch'essa determinarsi prima di
determinare la volontà. Ma come le azioni o determinazioni della
volontà sono naturali quando vengono da credenze naturali, così
le credenze o determinazioni dell'intelletto sono naturali, quando sono conformi
al modo in cui la natura avea disposto e provveduto che l'intelletto si determinasse;
cioè ai mezzi di credenza che [443]la natura ci ha dati, come nelle
credenze ci ha dato i mezzi di azione.
Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che
le idee o credenze, le più primitive, le più necessarie
all'azione la più vitale, e quindi tutte le idee o credenze moventi del
bambino appena nato, (e così d'ogni altro animale): tutte le idee o
credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o no all'azione,
non vengono altro che dall'esperienza, e quindi non sono se non tante
conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di un'operazione sillogistica,
da una maggiore ec. (E qui osservate la necessità del raziocinio ne'
bruti.)
Questa esperienza che deve necessariamente
formare la base o come chiamano, le antecedenti del sillogismo, senza il qual
sillogismo non v'è idea nè credenza, può esser di due
sorte. L'una è quella che deriva dalle inclinazioni naturali, passioni
affetti ec. tutte cose veramente ingenite, e assolutamente primitive, sebbene
molte di esse possano svilupparsi più o meno, o nulla; possono
alterarsi, corrompersi ec. L'uomo che sente fame (quest'è un'esperienza)
e si sente portato dalla natura al cibo (questa non è idea, ma inclinazione),
ne deduce che bisogna cibarsi, che il cibo è cosa buona. Ecco la
conseguenza, cioè la [444]credenza. Dunque si determina e risolve
a cibarsi. Ecco la determinazione della volontà prodotta dalla previa
determinazione dell'intelletto, ossia dalla credenza. Segue il cibarsi,
cioè l'azione, che deriva dalla volontà determinata in quel modo.
L'altro genere di esperienza, è
quello che appartiene ai sensi esterni. E l'uno e l'altro genere di esperienza
sono i soli fonti della cognizione in atto (non in potenza); i soli fonti o del
credere o del sapere. Qual conseguenza poi si debba tirare da una data
esperienza, questo è ciò ch'è relativo, perchè
l'uomo naturale, ne tira una; l'uomo sociale, istruito ec. un'altra;
quell'animale di diversa specie, un'altra: e via discorrendo. E così son
relative e si diversificano le credenze.
Sicchè la credenza è naturale,
quando l'animale tira da quella esperienza, quella conseguenza che la natura ha
provveduto che ne tirasse, e viceversa. E quindi l'azione che ne deriva
è naturale, quando proviene da una credenza naturale, ossia da una
conseguenza tirata naturalmente, e viceversa. E quindi la vita è
naturale quando le azioni derivano da credenze naturali, e viceversa. E quindi
finalmente l'uomo è perfetto e felice come ogni altro vivente, quando la
sua vita si compone di azioni naturali, e viceversa.
[445]Non sono dunque precisamente
innate nè le idee nè le credenze, ma è innata nell'uomo la
disposizione a determinarsi dietro quella tale esperienza, inclinazione ec. a
quella tal credenza o giudizio. E in questo senso io nomino le idee innate e
l'istinto. E così appunto avviene nei bruti, i quali non hanno altre
idee innate che in questo senso, e tuttavia generalmente parlando, tutti gli
animali della stessa specie, hanno le stesse credenze cioè si
determinano a credere nello stesso modo; e operando giusta tali credenze,
sono tutti perfetti e felici relativamente alla loro essenza. Tali credenze
pertanto sono effettivamente naturali, e figlie legittime della natura, sebbene
non partono immediatamente dalla sua mano. Ma quod est caussa caussae, est etiam caussa caussati. Nello
stesso modo che le azioni conformi a dette credenze, sono naturali, sebbene
eseguite immediatamente dall'individuo, e non dalla natura: sebben libere, e
non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da credenze
religiose, filosofiche ec. le quali tuttavia, senza esser forzate, si chiamano
e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446]L'uomo si allontana dalla
natura, e quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze di ogni
genere, ch'egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto che non
facesse (perchè s'è mille volte osservato ch'ella si nasconde al
possibile, e oppone milioni di ostacoli alla cognizione della realtà); a
forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ec. la sua
ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a confrontare, e finalmente
a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva
avere. E così alterandosi le credenze, o ch'elle arrivino al vero, o che
diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell'uomo;
le sue azioni non venendo più da credenze naturali non sono più
naturali; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni,
perchè non giudica più di doverlo fare, nè più ne
cava la conseguenza naturale ec. E per tal modo l'uomo alterato, cioè
divenuto imperfetto relativamente alla sua propria natura, diviene infelice.
(L'uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze
esterne, che gl'impediscano di conformar le azioni alle credenze, cioè
di far quello ch'egli giudica buono per lui, o non far quello ch'egli giudica e
crede [447]cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli da
altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec. ec. ec. Quest'infelicità
non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco
l'infelicità antica.)
Da queste osservazioni deducete che
propriamente la nemica della natura non è la ragione, ma la scienza e
cognizione, ossia l'esperienza che n'è la madre. Perchè anche le
operazioni e tutta la vita dell'uomo naturale, e degli altri viventi, è
perfettamente ragionevole, giacchè deriva da credenze tirate in
forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei tali dati. L'esperienza,
crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente le basi di
questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette conseguenze
o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi a
credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire
quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi. Ma la ragione
assolutamente in se stessa, è innocente; ed ha la sua intera azione
anche [448]nello stato naturale; vale a dire, anche nello stato naturale
l'uomo (e così nè più nè meno il bruto) è
conseguente, e si determina a credere quello che gli par vero, per via di perfetto
raziocinio; e si determina ad abbracciare o fuggire quello che crede veramente
buono o cattivo per lui, rispetto alla sua natura generale e individuale, e
alle sue circostanze di quel tal momento in cui si determina.
Del resto, come l'indifferenza assoluta,
ossia la mancanza di ogni determinazione dell'intelletto, cioè di ogni
credenza, sarebbe mortifera per l'animale libero, e dipendente dalla sua
propria determinazione; così anche appresso a poco il dubbio,
ch'è quasi tutt'uno col detto stato. Così anche sarà
cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi (riferite a
questo capo l'angoscia e il tormento dell'irresoluzione): e quindi lo stato
dell'uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà maggior
facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue l'operare);
cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto maggior
forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere. (s'intende
già che la credenza sia buona per lui, perchè la supposizione
contraria [449]è fuor del caso). Ora è cosa dimostrata
dalla continua esperienza, che l'uomo si determina al credere, tanto più
facilmente, prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo
stato naturale, come appunto accade negli animali, che non hanno nè
difficoltà nè lentezza nè dubbio intorno alle loro idee o
credenze, innate nel senso detto di sopra. E così il fanciullo,
l'ignorante, ec. E per lo contrario, quanto più si è lontani
dallo stato naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior
difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell'intelletto, e
tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza.
Così che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la
determinazione e forza nell'operare, ch'è in ragion diretta colla
certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere. Hoc unum
scio, me nihil scire: famoso detto di quell'antico sapiente. E questa
è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta,
la perfezione della sapienza. Laddove il fanciullo e l'ignorante, si può
dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo
tutto quello che crede. E questa è la sommità dell'ignoranza. (Onde
credendo quello ch'è conforme alla natura, e credendolo in questo modo,
ne viene a esser felice e [450]perfetto.) In maniera che, dove alla
determinazione dell'uomo, non è necessario, anzi non può servir
altro che la credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a
determinarlo, viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione.
E in vece che l'ignoranza, tal qual è in natura, (non l'assoluta,
cioè la negazione di ogni credenza, o determinazione dell'intelletto,
che in natura non si dà) conduca l'uomo o l'animale all'indifferenza,
come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e l'eterna esperienza lo prova).
E l'uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente
si determina, quanto più sa. Tanto minore è la determinazione,
quanto maggiore è il sapere. E tanto è lungi che la credenza sia
incompatibile coll'ignoranza, che per lo contrario è molto più
compatibile coll'ignoranza che col sapere.
Se poi ancora dubitaste di quello ch'io
dico, cioè che in Adamo fu primitivamente infusa la credenza come
negli altri animali, e non la scienza propria; basta che osserviate
quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato egli acquistò la scienza
del bene e del male. La scienza del bene e del male, non è altro che la
cognizione assoluta, [451]la credenza vera non più relativamente
ma assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone o
cattive, non relativamente all'uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la
cognizione della realtà, della verità assoluta che per se stessa
è indifferente all'uomo, e nociva quando il conoscerla è
contrario alla natura del conoscente. Se dunque Adamo l'acquistò dopo il
peccato, non l'aveva per l'avanti. In fatti la Scrittura dice espressamente che
non l'aveva, e il serpente persuase alla donna di peccare per acquistarla.
Questo è un argomento vittorioso, ultimo, e decisivo. Come poteva essere
infusa primitivamente la scienza in Adamo, se dopo e mediante il peccato
egli acquistò la scienza del bene e del male? E qual fosse l'effetto di
questa precisa scienza, vedilo p.446-447.
(22. Dic. 1820.)
È cosa mille volte osservata che gl'individui
naturalmente son portati a misurar gli altri individui da se stessi,
cioè a creder vero assolutamente quello ch'è vero soltanto
relativamente a loro. Anzi naturalmente, l'individuo appena può concepire
formalmente un altro individuo di diverso carattere, indole, pensare, fare ec.
Al più concepirà che questo sia, perchè lo vede, ma non il
come sia, non la espressa e definita costituzione di quell'individuo, diversa
dalla sua. Neanche nelle menome e accidentali differenze, e quotidiane e usuali.
Se dunque gl'individui, quanto più naturalmente le specie e i generi,
rispetto alle altre specie e generi! se dunque le specie e i generi di uno
stess'ordine di cose, quanto più tutto quest'ordine di cose
complessivamente, rispetto a un altr'ordine, o esistente o possibile! [452]Ella
è cosa certa e incontrastabile. La verità, che una cosa sia
buona, che un'altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente
assoluti, e non sono altro che relativi. Quest'è una fonte immensa di
errori e volgari e filosofici. Quest'è un'osservazione vastissima che
distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni
e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente
generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v'è quasi altra
verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa
dev'esser la base di tutta la metafisica.
(22. Dic. 1820.)
In proposito della pretesa legge naturale,
come in natura non esista idea nè legge di contratto, e come non ci
possa assolutamente esser contratto obbligatorio in natura, ancorchè
fatto realmente, e con tutta la possibile perfezione, vedilo nell'Essai sur
l'indifférence en matière de Religion, una ventina di pagg. dopo il principio
del Capo X.
(22. Dic. 1820.)
Tanto è vero che lo straordinario
è fonte di [453]grazia, che gli uomini malvagi, purchè la
loro malvagità abbia un carattere deciso, aperto, franco, coraggioso,
sia una malvagità schietta forte e costante, non timida, indecisa, nascosta,
variabile ec. come quella di tutti: questi tali fanno per lo più fortuna
colle donne a preferenza dei buoni. Non già solamente perchè i
malvagi sono più furbi dei buoni, ma propriamente per questo che sono
malvagi, e perchè quel non so che di coraggioso, di fiero ec. insomma di
straordinario che ha quella tale malvagità, picca e piace, e rende
amabile. Così che lo stesso odioso diventa amabile, perciò
appunto ch'essendo decisamente odioso, viene a essere straordinario.
(22. Dic. 1820.)
Clarissimum deinde omnium ludicrum certamen,
et ad excitandam (alii legunt exercitandum, sed non probatur) corporis animique
virtutem efficacissimum, Olympiorum, initium habuit. Velleius hist. rom. l.1. c.8.
(22 Dic. 1820.)
Quale idea avessero gli antichi della
felicità (e quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita,
della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse loro solido
e reale, [454]si può arguire anche da questo, che delle grandi
felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e
temevano perciò l'invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari
la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi
ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare
soddisfazione agli Dei, e mitigare l'invidia loro. Deos immortales precatus
est, ut, si quis eorum invideret OPERIBUS ac fortunae suae, in ipsum
potius saevirent, quam in remp. Velleio l.1. c.10. di Paolo Emilio. E
così avvenne essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo
trionfo, e l'altro 3 giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum.
V. pure Dionigi Alicarnasseo l.12 c.20. e 23. ediz. di Milano, e la nota del
Mai al c.20. V. ancora questi pensieri p.197. fine. Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i Dei in comunione della
nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili, [455]non dubitando
ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali.
(23. Dic. 1820.). V. p.494. capoverso 1.
Come in quei popoli che non conoscono o non
pregiano oro nè argento, il più ricco de' nostri, profondendo
danaio, non sarebbe in onore, anzi se non avesse altro mezzo per esser
pregiato, sarebbe posposto all'infimo di quella gente, e per danari non
otterrebbe neanche il necessario; così dove l'ingegno o lo spirito non
è in pregio, o non si sa valutare, l'uomo il più ingegnoso, il
più spiritoso, il più grande, se non avrà altre doti,
sarà dispregiato, e posposto agli ultimi. Così s'egli avrà
un certo ingegno o un certo spirito, che in quel paese non si pregi.
Così relativamente ai tempi. In ciascun luogo e in ciascun tempo,
bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa,
è povero, per molto ch'egli sia ricco d'altra moneta.
(23. Dic. 1820.).
Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur
Roma triumphati dum caput orbis erit.
Ovid. Amorum l.1.
Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,
Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
[456]Dum domus Aeneae Capitoli
immobile saxum
Adcolet, imperiumque pater Romanus habebit.
Virg. Aen. IX. 446.
sque ego postera
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex.
Hor. Carm. III. od.30. v.7.
Roma non è più la Regina del
mondo, nè il padre Romano tiene le redini dell'imperio, nè il
pontefice ascende più al Campidoglio colla Vestale, e questo da lunghissimo
tempo; e tuttavia si leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non
son caduti dalla memoria degli uomini, e dura la fama di Orazio. La fortuna
giuoca nel mondo, e certo questi poeti non s'immaginavano che il tempo dovesse
penar più a distruggere i versi loro, che l'immenso e saldissimo imperio
Romano, opera di tanti secoli. Ma quelle carte sono sopravvissute a quella gran
mole, per mero giuoco della fortuna la quale ha distrutte infinite altre opere
degli antichi ingegni, e conservate queste oltre allo spazio segnato dalla
stessa speranza, dallo stesso amor proprio, dalla stessa forza immaginativa de'
loro autori.
(23. Dic. 1820.)
[457]Quanto sia vero che l'amore
universale distruggendo l'amor patrio non gli sostituisce verun'altra passione
attiva, e che quanto più l'amor di corpo guadagna in estensione, tanto
perde in intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo,
che i primi sintomi della malattia mortale che distrusse la libertà e
quindi la grandezza di Roma, furono contemporanei alla cittadinanza data
all'Italia dopo la guerra sociale, e alla gran diffusione delle colonie spedite
per la prima volta fuori d'Italia per legge di Gracco o di Druso, 30 anni circa
dopo l'affare di C. Gracco, e 40 circa dopo quello di Tiberio Gracco, del quale
dice Velleio, (II. 3.) Hoc initium in urbe Roma civilis sanguinis, gladiorumque
impunitatis fuit. col resto, dove viene a considerarlo come il principio
del guasto e della decadenza di Roma. Vedilo l.2. c.2. c.6. c.8. init. et c.15.
et l.1. c.15. fine. colle note Varior. Le quali colonie portando con se
la cittadinanza Romana, diffondevano Roma per tutta l'Italia, e poi per tutto
l'impero. V. in particolare Montesquieu, Grandeur
etc. ch.9. p.99-101. e quivi le note. Ainsi Rome n'étoit pas proprement une
Monarchie [458]ou une République, mais la tête d'un corps
formé par tous les peuples du monde... Les peuples... ne faisoient un corps que
par une obéissance commune; et sans être compatriotes, ils étoient tous
Romains. (ch.6. fin. p.80. dove però egli parla sotto un
altro rapporto.) Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe
più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita,
non si amò nè Roma nè il mondo: l'amor patrio di Roma divenuto
cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso
che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo
per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
(24. Dic. 1820.)
Quanta parte abbia nell'uomo il timore
più della speranza si deduce anche da questo, che la stessa speranza
è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a temere, e più
forti, sono resi timidi dalla speranza, massime s'ella è notabile. E
l'uomo non può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la
speranza è maggiore. Chi spera teme, e il disperato non teme nulla. Ma
viceversa la speranza non [459]deriva dal timore, benchè chi teme
speri sempre che il soggetto del suo timore non si verifichi.
(26. Dic. 1820.)
Osservate che la passione direttamente opposta
al timore, è la speranza. E nondimeno ella non può sussistere
senza produrre il suo contrario.
Le Filippiche di Cicerone, contengono
l'ultima voce romana, sono l'ultimo monumento della libertà antica, le
ultime carte dov'ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai
contemporanei. D'allora in poi la libertà non fu più l'oggetto di
culto pubblico, nè delle lodi, e insinuazioni degli scrittori (non solo
romani, ma quasi possiamo dire di qualunque nazione, se non de' francesi ultimamente.
E infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà
delle nazioni civilizzate.) Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato
come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I suoi
fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come
Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori. Si alzarono statue e monumenti
agli antichi liberali, si citarono, condannarono e proscrissero i moderni.
L'elogio della libertà, per una strana contraddizione, fu permesso ne'
discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo. Passato quel termine,
gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei, quello che
hanno divinizzato, [460]e divinizzano allo stesso tempo, negli antenati.
Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli antichi fatti,
libertà ec. esecratore degli antichi nemici della libertà, e de'
moderni amici; lodatore di Nasica ed Opimio uccisori di Tiberio e Caio Gracchi,
(uomini per altro, secondo lui, egregi anzi sommi, se non in quanto attentarono
alla libertà) ed esecratore della congiura contro Cesare ec.
Perchè appena egli arriva a costui, si cambia scena manifestamente e
tutto a un tratto, e il suo linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene
abbiettissimo e servilissimo nel seguito. Ed è tanto improvvisa e
sensibile questa mutazione, ch'egli è anche gran panegirista di Pompeo
l'immediato antagonista di Cesare: e di Pompeo repubblicano, perchè lo
biasima dovunque egli manca ai doveri verso una patria libera.
(27. Dic. 1820.). V. p.463. capov.1.
Quelle rare volte ch'io ho incontrato
qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di
fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia, quanto all'esterno, sebbene
l'interno fosse contento. Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo,
alterarlo, guastarlo, e perderlo [461]col dargli vento. E dava il mio
contento in custodia alla malinconia.
(27. Dic. 1820.)
Alla p.8. capoverso 1 e p.10. fine. Non
solamente nelle azioni naturali, o manuali, insomma materiali, ma in tutte
quante le cose umane, è necessario l'abbandono o la confidenza: e per lo
contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura, attenzione e studio di
riuscire è cagione che non si riesca. Se tu non hai nulla da perdere ti
diporterai franchissimamente nel mondo. E acquisterai facilmente il buon tratto
e la stima, quando non avrai più stima da conservare: o in proporzione.
E viceversa. Che se ti troverai in un luogo, occasione ec. dove ti prema assai
di figurare, probabilmente sfigurerai. E se parlando con una persona, ne avrai
guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non perderla, quando ti
sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla. La qual cosa
succede massimamente nell'amore, o anche nella galanteria, che cercando di
conservare, si perde quella stima e quell'amore di una persona che si è
guadagnato senza cercarlo. Così discorrete di cento altri generi di
cose. La natura insomma è la sola potente, e l'arte non solo non
l'aiuta, ma spesso la lega; e lasciando [462]fare si ottiene quello che
non si può ottenere volendo fare. La noncuranza dell'esito, e la sicurezza
di riuscire è il più sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa
cura, e il troppo timore di non riuscire, è cagione del contrario.
Nè si può nelle cose umane acquistar facilmente questa sicurezza,
e schivar questo timore, senza una certa noncuranza, o senza esser preparato in
alterutram partem. E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto
perduto, e niente da perdere nè da conservare, riescono meglio degli
altri nella vita. Nè c'è un disperato così povero e impotente
che non sia buono a qualche cosa nel mondo, da che è disperato. E questo
è il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces fortuna iuvat.
(28. Dic. 1820.).
Chiunque conosce intimamente il Tasso, se
non riporrà lo scrittore o il poeta fra i sommi, porrà certo
l'uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo tempo.
Quanto a, preposizione italiana,
usata anche in latino da Tacito, come ho detto in altro pensiero, deriva
intieramente dal greco: , ec. si
dice nello stesso significato, e negli stessi casi.
[463]Alla p.460. Se non altro non
si potè più nè lodare nè insinuare e inculcare la
libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu
più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente o al moderno.
Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e
Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celeberrimi i
sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la
tirannia, lodi mai la libertà in persona propria. Dei poeti, come
Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più de' tiranni
presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani. Il più libero
è Lucano.
(28. Dic. 1820.)
L'egoismo comune cagiona e necessita
l'egoismo di ciascuno. Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi
vivere se non t'adopri tutto per te solo. E quando gli altri ti tolgono quanto
possono, e per li loro vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere,
conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi.
Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè
gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de' sacrifizi e
liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti
cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se con tutte le sue
forze; onde bisogna che ciascuno [464]contrasti agli altri quanto
può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto il potere: essendo
necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se ne deve seguire
l'effetto, cioè se vuoi vivere. E l'azione essendo eccessiva, dev'esserlo
anche la reazione. E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee crescere
necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda,
dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto
sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle
altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse
tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno
forza avesse adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è
perduto, posto il sistema dell'egoismo universale. Anche per altra parte,
questo egoismo cagiona l'egoismo individuale, cioè non solo per
l'esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza
della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de' sacrifizi
magnanimi: e per la misantropia che ispira il veder tutti occupati per se
stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e
pronti a danneggiarvi o beneficati o no. [465]La qual cosa cambia il
carattere delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente
l'egoismo, anche negli animi più ben fatti. Anzi principalmente in
questi, perchè l'egoismo non vi entra come passione bassa e vile, ma
come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de' malvagi
e degl'ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri
esse, merito perire: diceva Ottone Imp. appresso Tacito Hist. l.1. c.21.
(2. Gen. 1821.). V. p.607. fine.
Velleio II. 76. sect.3. Adventus deinde in
Italiam Antonii, praeparatusque (cioè apparatusque substantive) Caesaris
contra eum, habuit belli metum: sed pax contra Brundisium composita. Che vuol
dire contra Brundisium? Gl'interpreti si storcono, e chi legge circa, chi
difende la volgata. Leggete: sed pax contra Brundisii composita. Contra
è avverbio. Si temeva la guerra, ma all'incontro fu fatta la pace a
Brindisi. V. però gl'istorici, e le edizioni di Velleio, posteriori a
quella del Burmanno seconda e postuma, Lugd. Bat. 1744. ap. Sam. Luchtmans.
(2. Gen. 1821.). Post Brundisinam pacem. Vel. II.
86. sect.3.
[466]Sopra ogni dolore d'ogni
sventura si può riposare, fuorchè sopra il pentimento. Nel
pentimento non c'è riposo nè pace, e perciò è la
maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri
pensieri.
(2. Gen. 1821.). V. p.476. capoverso 1.
È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo
però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che
Senofonte non premise nessun preambolo alla , sebbene dal secondo libro in
poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un
epilogo o riassunto brevissimo delle cose dette prima. Vedi il Laerz. in Xenoph.
Luciano, de scribenda histor. ec. E Luciano dice che molti per imitarlo non
ponevano alcun proemio alle loro istorie. Ed aggiunge, (potentiâ) J. Io qui non vedo maraviglia nessuna.
Esaminate bene quell'opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale
(si può dire, e per la massima parte militare) di quella Spedizione. Infatti
procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec. ec.
infatti l'opera si chiude con una lista effettiva o somma dei giorni, spazi
percorsi, nazioni ec. lista indipendente dal resto, per la sintassi. E di queste
enumerazioni ne [467]sono sparse per tutta l'opera. Non doveva dunque
avere un proemio, non essendo propriamente in forma d'opera, ma di Commentario
o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali. Chi si vuol far maraviglia di
Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il quale comincia i suoi
Commentari de bello G. e C. ex abrupto, appunto come Senofonte. E
questo perchè non erano Storia ma commentari. Nè pone alcun
preambolo a nessuno de' libri in cui sono divisi. Così Irzio. Eccetto
una specie di avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib.8. de b. G.
(il quale era necessario non per l'opera in se, ma per la circostanza, ch'egli
n'era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b.
Alexandrino, nè quello de b. Africano, nè quello
d'autore incerto de b. Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano
subito in materia. Da queste osservazioni deducete 1. un'altra prova che Senofonte
è il vero autore della K. A. non Temistogene ec. trattandosi di un
giornale, che non poteva essere scritto o almeno abbozzato se non in
praesentia, e dallo stesso Generale (come i commentarii di Cesare), o
almeno da qualche suo intimo confidente. Questa proprietà, di essere
cioè scritta da un testimonio di [468]vista, anzi dal principale
attore e centro degli avvenimenti non è comune a nessun'altra opera storica
greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè ai commentarii di
Cesare. Perciò ella è singolarmente preziosa anche per questo
capo, e propria più delle altre a darci la vera idea de' costumi,
pensieri, natura degli antichi, e de' loro fatti; come le lettere di Cicerone
in altro genere di scrittura, sono la più recondita e intima sorgente
della storia di quei tempi. V. p.519. capoverso 2.
2. Che poco saggiamente Arriano volle
scrivere l'(in 7.
libri perchè 7. son quelli di Senofonte) a imitazione della detta opera.
Perch'egli non poteva scrivere, nè scrisse, nè intese o
pensò di scrivere un giornale. Quindi le due opere sono essenzialmente
di diverso genere, cioè l'una un diario, l'altra una storia. Meno male
Onesicrito, in quello che scrisse d'Alessandro a imitazione pure di Senofonte.
Perch'egli fu compagno di Alessandro nella sua spedizione, come Senofonte di
Ciro. V. il Laerz. l.6. in Onesicrito. Del resto, se la storia di
Senofonte non ha proemio, ciò viene perch'era destinata a continuare e
far tutto un corpo con quella di Tucidide. Infatti gli antichi notando la
mancanza del proemio nella K. A. non parlano di quest'altra. [469]E v.
le ultime parole e Dionigi
Alicarnasseo nelle testimonianze de Xenophonte.
È osservabile che Senofonte in
quest'altra opera riesce minor di se stesso, perchè si sforza d'imitar
Tucidide, e ciò servilmente, volendo che il suo stile non si distinguesse
da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero tutt'una. E tanto peggio,
quanto lo stile di Tucidide è quasi l'opposto di quello ch'era proprio
di Senofonte. Infatti chi ha un poco di criterio, può facilmente notare
nei libri . una
brevità forzata, una differenza sensibile dallo stile delle altre opere
Senofontee, uno studio impotente di esser efficace, rapido, forte ec. Cosa
contraria all'indole di Senofonte: e v. Cicerone nei testimoni de Xenophonte
ec. e Dionigi Alicarnasseo parimente nelle testimonianze de Xenophonte.
Anzi nelle stesse frasi, parole, modi, insomma nell'esterno e materiale dello
stile, Senofonte abbandona spesso il suo costume per seguir quello di Tucidide,
così che anche l'esteriore dello stile riesce alquanto nuovo a chi ha
l'orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte. Fino nell'ortografia,
Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro quello che suole
nelle altre [470]opere) per , e così nei composti
dov'entra questa preposizione: consuetudine ch'io credo familiare a Tucidide.
(2. Gen. 1821.)
Quello che si è detto di sopra
intorno ai proemi particolari di ciascun libro K. A. eccetto il primo, non
è vero nel 6to... il quale non ha proemio nessuno. Se non che
il capo 3. cominciando con un breve epilogo, ho creduto lungo tempo che i due
capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto cominciasse col 3zo
capo. E però vero che il detto epilogo non rinchiude se non le cose
dette ne' due capi antecedenti, e non tutto il detto nella parte superiore
dell'opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi libri.
(3. Gen. 1821.)
La natura non è perfetta
assolutamente parlando, ma la sola natura è grande, e fonte di
grandezza. Perciò tutto quello che è, o si accosta al perfetto,
secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è grande.
Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti ec.
nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un uomo
perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è mai perfetto. [471]L'eroismo
e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali
erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli
antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del carattere eroico; al
contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto più perfetti
sono i loro eroi, ed anche i loro poemi.
(3. Gen. 1821.)
Venga un filosofo, e mi dica. Se ora si
trovassero le ossa o le ceneri di Omero o di Virgilio ec. il sepolcro ec.
quelle ceneri che merito avrebbero realmente, e secondo la secca ragione? Che
cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù, della gloria ec. di Omero
ec.? Tolte le illusioni, e gl'inganni, a che servirebbero? Che utile reale se
ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno, le dispergesse e perdesse, o
profanasse disprezzasse ec. che torto avrebbe in realtà? anzi non oprerebbe
secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque meriterebbe il biasimo,
l'esecrazione degli uomini civili? E pur quella si chiamerebbe barbarie. Dunque
la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell'uomo sociale e
delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste essenzialmente negli
errori e nelle illusioni? Lo stesso [472]dite generalmente della cura
de' cadaveri, dell'onore de' sepolcri ec.
(3. Gen. 1821.)
Velleio II. 98. sect.2. Quippe legatus
Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque ferocissimas, plurimo cum earum excidio,
nunc acie, nunc expugnationibus, in pristinum pacis redegit modum; ejusque
patratione, Asiae securitatem, Macedoniae pacem reddidit. Eiusque patratione a
che si riporta? Spiegano eiusque pacis Patratione (così l'indice Velleiano).
Ottimamente: fatta la pace, o con quella PACE, rendè LA PACE alla
Macedonia. Leggo: eiusque belli patratione, (4. Gen. 1821.),
ovvero eiusque patratione belli. V. p.477. capoverso 2.
Non solo la facoltà conoscitiva, o
quella di amare, ma neanche l'immaginativa è capace dell'infinito, o di
concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito, e di concepire
indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l'anima non vedendo i confini,
riceve l'impressione di una specie d'infinità, e confonde l'indefinito
coll'infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente
nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e
indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente espressamente
una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio
insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua [473]immaginazione,
o concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e
soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non
però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non
la lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce o le pare, di non
averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di
non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e
quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non
essendo colpevole.
(4. Gen. 1821.)
Velleio II. 90. sect.4. ut quae maximis
bellis numquam vacaverant, eae sub C. Antistio, ac deinde P. Silio legato,
ceterisque, postea etiam latrociniis vacarent. Leggo, ceterisque postea,
etiam etc. Parla delle Spagne.
Velleio II. 102. sect.2. Mox in
conloquium (cui se temere crediderat) circa Artageram graviter a quodam, nomine
Adduo vulneratus. Come non si ha da correggere: in conloquio?
Del vigore del corpo, quanto influisca sopra
l'animo, e in genere come lo stato dell'animo corrisponda a quello del corpo,
v. alcune sentenze degli antichi nella nota del Grutero a Velleio II. 102.
sect.2.
[474]Di un francese di nazione o
di costume, ch'a ogni tratto si buttava in ginocchio avanti alle donne. Se
raccontava loro, poniamo caso, una storietta galante, o una nuova di gazzetta,
e quelle non ci credevano, per dimostrazione, per supplicarle a credere, come
per impetrar fede o credenza, si buttava in ginocchio.
(5. Gen. 1821.)
Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio
nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive,
trovate spessissimo che dopo aver detto come quel tale era pazientissimo de'
travagli e de' pericoli, attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla guerra,
o ai maneggi politici, soggiunge poi, che nell'ozio era molle ed effeminato, o
almeno si compiaceva anche dell'ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle
frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell'ozio, quanto laborioso diligente
e tollerante nel negozio. V. il libro II.
c.88. sect.2. c.98. sect.3. c.102. sect.3. c.105. sect.3. Dappertutto
fa menzione dell'ozio, e sempre li trova inclinati anche a questo e non poco,
sebbene sieno gli uomini più attivi di quel secolo. Cosa ignota agli
antichi Eroi romani, i quali nell'ozio non trovavano nè potevano trovare
nessun piacere. E infatti questo lineamento [475]nei ritratti sbozzati
da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu l'epoca della decisa e
sviluppata corruzione de' Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben
nota in questo proposito. (Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo
all'ozio, 1.13. sect.3. ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti
dell'incivilimento e della corruzione. Notate quanto ella porti per sua natura
all'inazione, all'ozio, e alla pigrizia: che anche gli uomini più
splendidi e attivi, in questa condizione della società, inclinano naturalmente
all'inazione. La causa è il piacere che nell'antico stato di Roma non si
poteva trovar nell'ozio, e perciò l'uomo desiderando il piacere e la
vita si dava necessariamente all'azione: e così accade in tutte le
nazioni non ancora o mediocremente incivilite. La causa è pure
l'egoismo, per cui l'uomo non si vuole scomodare a profitto altrui, se non
quanto è necessario, o quanto giova a se stesso. La causa è la
mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di grandezza di virtù di
eroismo, ec. tolte le quali idee, deve sottentrar quella di non far nulla,
lasciar correre le cose, e godere del presente. La causa [476]per ultimo
nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle illusioni,
ma del principio di esse, non solo della vita dell'animo, ma della vita delle
cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino queste
illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi o
importanti, e di essere o considerarsi come importante; la nullità, o
piccolezza, e ristretta esistenza del suddito ancorchè innalzato a posti
sublimi. Del resto paragonate questo tratto del carattere Romano a quei tempi,
col carattere francese oggidì, nazione snervata dall'eccessiva
civiltà, col carattere de' loro uomini più insigni per l'azione;
e ci troverete un'evidente conformità.
(5. Gen. 1821). V. p.620. fine. e 629. capoverso 1.
Alla p.466. pensiero 1. Quippe ita se res
habet, ut plerumque, qui fortunam mutaturus Deus, (Voss. leg. cui
fortunam. al. delent qui,
et melius) consilia corrumpat, efficiatq., QUOD MISERRIMUM EST, ut
quod accidit, etiam merito accidisse videatur, et casus in culpam transeat.
Velleio II. 118. sect.4.
(6. Gen. 1821.)
Non punir mai l'ingiuria che non hai
meritata, nè lasciare impunita quella che hai meritata. [477]Perdona
al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore. Non far caso di chi ti schernisce
a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia a ragione.
(7. Gen. 1821.)
Alla p.375. principio. In questo proposito,
la differenza o dell'ingegno o del giudizio, si può vedere in Livio, il
quale è il poeta della storia, poeta vero e grande, e degno di servir di
studio e di maestro ai poeti; e nondimeno è il modello splendidissimo
della più perfetta prosa. Laddove costoro, e pessimi prosatori, (7. Gen. 1821.) e non perciò migliori poeti ordinariamente.
V. p.526. capoverso 1.
Alla p.472. Tanto più che quella
guerra, come consistente in domar popoli affatto barbari, non pare che fosse
finita con trattato, nè con altri mezzi artifiziali, ma solamente con
quel semplice fine che deriva dalla forza. V. Floro IV. 12. sect.17. e Dione
LIV. 34. p.764-765. dove nella nota 316. citandosi questo passo di Velleio,
pare che si sia letto appunto nel modo ch'io suggerisco.
(8. Gen. 1821.)
Velleio I. 2. sect.2. di Codro: Immixtusque
castris hostium, de industria, imprudenter, rixam ciens, [478]interemptus
est. È vero che, secondo la storia o la favola, Codro fu ucciso imprudenter,
cioè senza sapere ch'egli fosse il Re degli Ateniesi e v. il passo di Val.
Mas. citato nelle note a questo luogo. Ma che razza di costruzione è
questa? De industria si riferisce al rixam ciens che vien dopo l'imprudenter;
l'imprudenter all'interemptus est che vien dopo il rixam ciens.
Chi traspone e legge, de ind. rix. ciens, impr. inter. est. Chi emenda
oltracciò, de ind., ab imprudente, rix. ciens, inter. est. A me
pare che il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile, togliendo la
virgola dopo de industria e dopo imprudenter, e trasportandola
dopo hostium. Giacchè il de industria, non ha nè
deve aver niente che fare coll'immixtusq. castris host. il che
già s'intende ch'era fatto de industria; ma solo col rixam
ciens. Ma ille imprudenter? grida il Lipsio. Signor sì, de
industria imprudenter, con istudiata imprudenza, pensatamente incauto.
Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli Velleiani. Imprudenter
per imprudentemente, incaute, improvide si usa benissimo da
ottimi scrittori. (come imprudens, imprudentia, e così prudenter
ec.) Il Forcellini cita Terenzio, [479]Nepote, Cesare.
(8. Gen. 1821.)
Il veder morire una persona amata, è
molto meno lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e
nell'animo da malattia (o anche da altra cagione). Perchè? Perchè
nel primo caso le illusioni restano, nel secondo svaniscono, e vi sono
intieramente annullate e strappate a viva forza. La persona amata, dopo la sua
morte, sussiste ancora tal qual'era e così amabile come prima, nella
nostra immaginazione. Ma nell'altro caso, la persona amata si perde
affatto, sottentra un'altra persona, e
quella di prima, quella persona amabile e cara, non può più
sussistere neanche per nessuna forza d'illusione, perchè la presenza
della realtà, e di quella stessa persona trasformata per malattia
cronica, pazzia, corruttela di costumi ec. ec. ci disinganna violentemente, e
crudelmente: e la perdita dell'oggetto amato non è risarcita neppur
dall'immaginazione. Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo
stesso eccesso del dolore, come nel caso di morte. Ma questa perdita è tale,
che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna
maniera. [480]Da ogni lato ella presenta acerbissime punte.
(8. Gen. 1821.)
Che il nostro pensare non sia altro
che il pensare latino, perduto il significato proprio, e conservato il
metaforico di ponderare col pensiero, come appunto il ponderare
latino e italiano oggidì non ritiene se non la significazione traslata
di considerare o meditare; e come gli antichi latini adoperassero
veramente il loro pensare in maniera similissima alla presente italiana,
vedilo in una nota dell'Heinsio a Velleio II. 129. sect.2. Consulta ancora il
Forcellini, e l'Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i
francesi lo sogliamo adoperare frequentemente: è naturale che questo
succeda; il est bien naturel ec. si adoperava anche in latino, sebbene i
Lessicografi non l'abbiano osservato (nè il Forcellini, nè l'Appendice).
Asconio in Orat. contra L. Pison. Argumento: Sed ut ego ab eo dissentiam,
facit primum, quod Piso etc. deinde, quod magis NATURALE est, ut in ipso
recenti reditu invectus sit in Ciceronem (Piso), responderitque insectationi
eius, qua revocatus erat ex provincia, quam [481](in altra edizione
trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o magis quam,
nel qual significato prius quam si trova in ottimi esempi appresso il
Forcellini: e notate anche qui la somiglianza coll'italiano prima che,
avanti innanzi anzi che, per piuttosto che; e similmente più
presto che ec.) post anni intervallum. Questo esempio è
veramente notabile e forse unico ne' buoni scrittori. V. però la nota
del Burmanno alle prime parole della sezione 4. del capo 128. lib. II. di
Velleio, dove peraltro .
(9. Gen. 1821.)
Quanta sia la forza d'immaginazione nei
fanciulli, e com'ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima
età, influiscono grandemente anche nel resto della vita, si può
vedere ancora in questa osservazione minuziosa. Noi da fanciulli per lo
più concepiamo una certa idea, un certo tipo di ciascun nome di uomo: e
la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi
più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi.
Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle
circostanze particolari di quelle persone relativamente [482]a noi, alle
nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un'altra persona
diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito
di quella persona un'idea conforme al detto tipo. E il nome può essere
elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da
noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell'altra
bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo
una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a
credere quel soggetto diverso da quel tipo e da quell'idea ec. Così
viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone.
Ed anche da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo dominio, dura
per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi
momenti, e proporzionatamente alla forza dell'impressione ricevuta da
fanciulli, e dell'immagine concepita. Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente
una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son
grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa possa
appartenere [483]ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che
porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo
nome, provo sempre un impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo
porta. E ordinariamente l'idea che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza,
amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome,
nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime
persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima
età. Anche però viceversa potrà accadere che noi da
fanciulli concepiamo idea della persona, dal nome che porta, massime se si
tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e
giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce il nome, col suono
materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con
altre idee. E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell'idea
concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è
certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a noi
tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci [484]formiamo una
tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di quella persona. Idea
più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze; ma
ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene per lo più
falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall'indifferenza), secondo
questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a un certo genio o
contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome.
(10. Gen. 1821.)
Non si è mai letto di nessun antico
che si sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e v.
il Suicidio ragionato di Buonafede. Nè perchè questo accade
oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in
quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria. Dai poemi di Ossian
si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal
concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto
più dal disperarsi e uccidersi per questo. Gli antichi Celti e gli altri
antichi si uccidevano per disperazioni [485]nate da passioni e sventure,
non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all'uomo, ma
come proprie dell'individuo, perciò disgraziato e infelice, e
disperantesi. La disperazione e scoraggimento della vita in genere, l'odio
della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmente
infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la
nullità e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l'idea
che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non
è mai entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti
questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per
l'opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali,
conseguire e godere quei beni ch'essi stimavano ch'esistessero.
(10. Gen. 1821.)
[486]Il desiderio di mettere gli
altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho
detto in altri pensieri) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior
forza quanto ciascun individuo è più vicino alla natura. I
fanciulli non lo possono frenare in nessun modo, tanto che per amore, per
preghiere, o per forza d'importunità, [487]non communichino ai
circostanti, o a quelli ch'essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei
dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro alquanto
straordinarie, che hanno sperimentato o sperimentano; come udendo una buona o
cattiva musica, o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca: vedendo
qualunque oggetto che faccia loro impressione ec. e tanto in bene quanto in
male. Gli uomini poi più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il
volgo, non si può tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino,
vedi vedi, senti senti. E questa esclamazione è così
naturale che anche in una gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec.
tutti o moltissimi esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno
in particolare, o anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da
quello. Ma nessuno si può tenere dall'esclamare in quel modo, dando
evidente indizio della inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia
di partecipare. E osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso
anche [488]nella solitudine e senza nessuno uditore, quando l'uomo provi
simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti
quando anche non c'è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così
in tutti i modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere
soddisfatta realmente. E sebben questo accade tanto più, quanto
l'individuo tiene del primitivo, e tanto più frequentemente, quanto
più spesso egli è suscettibile di maravigliarsi, o di provar
sensazioni forti e vive; contuttociò è frequentissimo
anche negli uomini più colti ec. e basterebbe fare attenzione per vedere
quanto spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo. Ci
avvenga, dico, o in solitudine e fra noi stessi, o in compagnia. Ed io non
credo che vi sia uomo sì taciturno, e nemico del parlare, del
conversare, e del communicarsi altrui, che provando una sensazione
straordinariamente forte e viva, non sia costretto quasi suo malgrado, o senza
riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni, dinotanti
il desiderio e l'intenzione di communicare e far parte altrui di ciò
ch'egli prova.
(10 Gen. 1821.)
[489]Floro I. 8. Haec est
prima aetas populi Romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem,
quadam fatorum industria. Tam variis ingenio, ut Reipublicae ratio et utilitas
postulabat. Quel quadam fatorum industria a che ha relazione?
All'avere avuto il popolo Romano una prima età ovvero un'infanzia? Cosa
veramente straordinaria e bisognosa di molto ingegno dei destini. Leggi continuamente,
quadam fatorum industria tam variis ingenio ec. perchè le dette parole
non si possono riportare se non a queste che seguono; e queste dipendono intieramente
da quelle. V. però
le ultime ediz. di Floro.
(11. Gen.
1821.)
Floro I.
12. Veientium quanta res fuerit,
indicat decennis obsidio. Tunc primum hiematum sub pellibus: taxata stipendio
hiberna: adactus miles sua sponte iureiurando, "nisi capta urbe
remeare." Spolia de Larte Tolumnio rege ad Feretrium reportata. Denique
non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et subterraneis dolis peractum urbis
excidium. [490]Tutto questo fa un periodo solo, e non va
distinto se non colle minori interpunzioni. L'hiematum sub pellibus, il taxata
hiberna, l'adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non
istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come apparisce
sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente: Ea
denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio mitterentur:
universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur. HOC TUNC VEII
FUERE. Le quali parole chiudono la dimostrazione dell'antica grandezza e forza
di Veio. V. però le ult. edizioni di Floro.
(11 Gen. 1821.)
J; disse quella vecchia fantesca a Talete
caduto in una fossa mentre andava contemplando le stelle. (Laerz. 1.34. in Thalete.)
[491]Ω , , (dum
coelum suspiceret. Ficin.) , , (in
foveam. id.) J (Thracia
quaedam eius ancilla concinna et lepida. id.) , J ,(pervidere
contenderet. id.), J , J . , (obiici
potest. id. aptius, cadit, convenit) (in
philosophia versantur. id.) Platone nel Teeteto, , alquanto
prima della metà. (p.127. f. Lugduni 1590.) E v. il Menag. ad Laert. I.
34. E Diogene Cinico si maravigliava J... Jw (cioè gli astronomi) , (Laerz.
VI.
Tutto questo si può dire non solo dei
sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l'impotenza del sapere
umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il [492]curarsi
delle cose poste fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine,
e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria,
l'inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose
che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono veramente J, e
finalmente la sommità, l'ultimo grado del sapere, consiste in conoscere
che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra' piedi,
l'avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo
e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito
di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci
stavano tra' piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo
vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in tante
fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e
infelicità. Quanto non si è studiato, che cosa non si è
consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati,
quali secreti, quali misteri [493]scoperti o cercati di scoprire, quante
scienze, quante arti, quante discipline inventate, quante istituzioni fatte, o
politiche o morali o religiose ec. per iscoprire la nostra origine, i nostri
destini, la natura delle cose, l'ordine universale, la nostra felicità!
Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l'ordine delle
cose era quello nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi,
quello ch'esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno fatto altro che
turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo
senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il
bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i
nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al
mare: la verità reale era quella che sapevamo senz'avvedercene, e senza
pensare o credere di sapere. Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto
assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch'eravamo
fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra
essenza, [494]separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale
e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali. Si è
ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano
chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità,
quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti
nascendo: e non s'è trovata, se non quanto si è potuto conoscere
ch'ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla.
(12. Gen. 1821.)
Hic sive invidia deum, sive fato,
rapidissimus procurrentis imperii cursus parumper Gallorum Senonum incursione subprimitur.
Floro I. 13. principio, entrando a raccontare la prima guerra gallica.
Floro 1. 13. ed. Manhem. Adeo tum quoque
in ultimis religio publica privatis adfectibus antecellebat. Perchè tum
quoque? Forse ne' tempi seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè
di Traiano, la religione pubblica fu più a cuor de' Romani, che ne'
primi tempi di Roma? O non più tosto ella venne indebolendo a
proporzione del tempo, e all'età di Floro, era, si può dire,
estinta nel fatto? [495]E non solo ai Romani, ma a tutti i popoli
è sempre avvenuto e avviene lo stesso. Questa era cosa confessata da
tutti anche allora, e la somma religiosità dell'antica Roma era
notissima e famosissima. Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche
nell'infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private,
laddove in seguito fu tutto l'opposto. Io credo però che in ultimis
l'abbiano inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi
frangenti, e così abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo,
cioè nell'ultima calamità. Male. In ultimis vuol dire negl'infimi,
come apparisce dalle parole di Floro che precedono. V. il Forcellini, e le ult.
ediz. di Floro. V. p.510. capoverso 2.
Floro 1. 13. avendo detto che i Romani
distrussero la gente dei Galli Senoni in maniera che hodie nulla Senonum
vestigia supersint, soggiunge con breve intervallo: ne quis exstaret in
ea gente, quae incensam a se Romam urbem gloriaretur. Che vada letto qui
per quae non par da dubitare, e sarà già osservato. Ma e
così, [496]e in ogni modo, come avea da restare alcuno in
quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente:
acciò non restasse nessuno DI quella gente. Chiunque ha senso
o di latinità o solamente di ragione, conoscerà che la
preposizione in qui non ha luogo.
(12. Gen. 1821.)
Chiunque è sommo in qualsivoglia
professione per triviale o leggera o poco rilevante ch'ella sia, certo è
che poteva esser grande in altra professione di più alto affare.
Perchè non si arriva alla perfezione in veruna cosa per piccola ch'ella
sia, senza molta e singolare virtù, forza, capacità,
facilità, e idoneità d'indole e d'ingegno.
(13. Gen. 1821.)
Dicono e suggeriscono che volendo ottener
dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto
di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non
altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura. Voltaire
consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall'amore. [497]Ou bien
buvez: c'est un parti fort sage. Non so quanto bene. Il vino, ossia la forza
del corpo, come ho detto altrove, ed è vero, sebbene inclini all'allegrezza,
e sopisca i dolori dell'animo, contuttociò dà risalto alle
passioni dominanti o abituali di ciascheduno. Bensì le
rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o disperato in
amore. V. p.501 capoverso 1
Favella e favellare derivano
evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b
in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se
dicessimo fabella e fabellare. Qui non c'è niente di
notabile o strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli
Etimologi. Ma che ha da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle
favole? Qui appunto consiste il singolare e l'osservabile in questa
derivazione. Perocchè l'antico e primitivo significato di fabula,
non era favola, ma discorso, da for faris, quasi piccolo
discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia [498]nugae,
e finalmente di finzione e racconto falso. Appunto come il greco J nel suo significato proprio, valeva lo
stesso che , verbum
dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred'io, adoperato
se non in questa o simili significazioni, così esso come i suoi
derivati. Poi fu trasferito alla significazione di favola. Il detto
senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc. è
evidente negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però
ne' più antichi e più puri. V. il Forcellini in tutte queste
voci. Ma dopo, e massimamente ne' bassi tempi il significato usuale e comune di
fabula nelle scritture non era altro che favola. E tuttavia la
nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale, come ho detto,
è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e
proprio valore. Certo non è andata a pescare questo significato nelle
antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta significazione
tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e
continuata senza [499]interruzione fino alla nascita e alle origini
della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per
mezzo del volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche
avessero conservata in uso la detta significazione sino all'ultimo, non
avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare,
usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il significato
più comune di quella parola fose stato un altro. E tale era infatti appresso
gli scrittori. Del resto come J e fabula vuol dire al tempo stesso discorso
e favola, e da quel primo significato fu trasferito al secondo
così viceversa nella nostra lingua novella e novellare,
dal significato di favola o racconto, trasferiti a quello di ciance
o di favella, hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola
e di discorso. V. la Crusca.
(13. Gen. 1821.). V. p.871. fine.
La fecondità e istabilità e
velocità della immaginazione e concezione (vera o falsa, che [500]ciò
non monta) ne' fanciulli, apparisce ancora da una osservazione che ho fatta in
quelli che trovandosi in età di mezzana fanciullezza (6. 7. 8. anni, o
cosa simile), e sapendo già tanto e più di lingua da potere
infilare un discorso, nondimeno sebbene sieno loquaci, anzi quanto più
sono loquaci, (il che è segno di fecondità) tanto più
esitano e stentano, nel fare un discorso continuato, un racconto ec. Ho dunque
notato che ciò non deriva principalmente dalla difficoltà di
trovare o combinar le parole (anzi come ho detto, i più loquaci sono
più soggetti a questo: i meno loquaci riescono molto meglio in un
discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla moltiplicità delle
idee che si affollano loro in mente. Onde non sanno scegliere, si confondono,
saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e improvvisamente soggetto;
i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo incominciato
colla testa dell'uomo, finiscono colla coda del pesce. Quanta dunque non
dev'essere l'attività interna, la moltiplicità delle occupazioni
ancorchè disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e
alleggerire o spegnere [501]i pensieri o le sensazioni dolorose, la
varietà, e nel tempo stesso la vivacità delle immagini e
concezioni (giacchè ciascuna è capace di strapparli intieramente
da quella che presentemente gli occupa); in somma la vita dell'animo, e per
conseguenza la felicità de' fanciulli anche i meno felici rispetto alle
circostanze esteriori!
Alla p.497.
J
Amorem sedat fames; sin minus, tempus:
Eis vero si uti non vales, laqueus.
Detto di Crate Cinico presso il Laerzio (VI.
(13. Gen. 1821.).
Come gl'italiani per proprietà di
lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi, andare,
camminare ec. così fra' latini, oltre i citati dal Forcellini, Floro
1. 13. Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt. Movent, et inde certamen. Parla dei
Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus, come [502]soggiunge
immediatamente. E II. 8. quum ingenti strepitu ac tumultu movisset ex Asia (Antiochus).
(14. Gen. 1821.) V. Sveton. in D. Julio c.60.1. e quivi le note
degli eruditi.
Come dice Dante Quinci si va, CHI vuole
andar per pace, idiotismo assai comune e usitato nella nostra lingua,
così anche i latini. Floro II. 15. sul principio: Atque SI QUIS trium
temporum momenta consideret, primo commissum bellum, profligatum secundo,
tertio vero confectum est. Parla delle 3. guerre Puniche. (14. Gen. 1821.). Più manifesto, e conforme all'uso italiano
è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è
locuzioneregolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio
Od.
Floro II. 15. Sed huius caussa belli
(tertii Punici) (scil. fuit), quod contra foederis legem (Carthago) adversus
Numidas quidem semel parasset classem et exercitum, frequens autem Masinissae
fines territabat. Sed huic bono socioque regi favebatur. Questa enallage o
transizione da parasset a territabat qui non conviene. Trovo
però in altre edizioni territaret. Ma di più quel quidem
e quell'autem sono particelle avversative, o disgiuntive. Ma come ora si
legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono ad
altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa. [503]Laddove erano la
stessa cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che
Floro dice contro i Numidi. V. gli storici. Leggo: Masinissa (v.
però gli Storici, se ciò è vero di lui) e volentieri
ancora trasferirei il quidem dopo semel. La cagione di questa guerra
fu che contro i patti Cartagine aveva una volta preparato esercito e flotta contro
i Numidi. Massinissa però frequentemente (vedete il frequens
autem opposto al semel quidem, e così mi pare che debba
essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo, perchè l'adversus
Numidas quidem che opposizione o forza disgiuntiva ha con frequens
autem?) infestava i di lei confini. Ma (notate quel ma, che
intendendo il luogo in altro senso, non istà convenientemente) i
Romani favorivano questo buono e alleato principe.
(14. Gen. 1821.)
In luogo che un'anima grande ceda alla
necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce,
dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione
della necessità e irreparabilità de' suoi mali, infelicità,
disgrazie [504]ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o
senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed
esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del
mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla
necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che
sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi, sempre
più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure, e
nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile
che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che
potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e
bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti
bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò
domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi
di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di
ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo,
non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, [505]si
racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non
cedente. Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino,
nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non
abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se siamo magnanimi, e
costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro
la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e
capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria, dello
strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che
arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro
un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della
necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi
disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile,
nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla
considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente da me, [506]concepiva
un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io odiava
non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile
dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla
quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere
odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me
stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile
dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia;
nell'urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le
cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì
(eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole
delle nostre miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di
creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di
oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente [507]dagli
uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie
degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più
l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso.
Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso,
la sua vita, la sua nascita ec.
(15. Gen. 1821.)
Gli adulatori e gli amici dei tiranni non
guadagnano altro se non di essere esclusi dalla misericordia che le generazioni
future porteranno all'età e generazioni loro. E di partecipare all'odio
senza essere stati esenti dai pericoli e dai mali, anzi tutto l'opposto, e
spesso più degli altri. (15. Gen. 1821.)
Qual è la più grata compagnia?
Quella che rileva l'idea che abbiamo di noi medesimi; quella che ci fa
compiacere di noi stessi, che ci persuade di valer più che non
credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità, dove non
credevamo di meritar lode, o non tanta; [508]quella da cui partiamo con
maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi.
Tutto è amor proprio nell'uomo e in qualunque vivente. Amabile non pare
e non è, se non quegli che lusinga, giova ec. l'amor proprio degli
altri. Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi per farsi
stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi desiderare e
far fortuna: nominatamente nella galanteria. Cosa ben conosciuta dai professori
di quest'ultima arte. V. quello che Lord Nelvil [dice] di Mad. d'Arbigny presso
la Staël nella Corinna. Si desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si
trova un pascolo un piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene
perchè, ma si attribuisce all'amabilità delle sue maniere e del
suo carattere. La ragion vera [è] ch'egli sa fare che noi ci stimiamo da
più di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che avevamo
di noi.
(15. Gen. 1821.)
Come noi diciamo in paragone, in
comparazione per rispetto, appetto, verso, appresso, così
Floro II. 15. della terza Punica: et in comparatione priorum, [509]minimum
labore. Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto uno di
Curzio che la contiene materialmente, ma non equivale nel senso; quas in
comparatione meliorum, avaritia contempserat. L'Appendice nulla.
(15 Gen. 1821.)
Il Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì 'l fianco,
Che memoria de l'opra anco non langue,
Quando assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua che
sangue.
Non è stato osservato, ch'io sappia,
che quest'ultima iperbole è levata di peso da Floro III. 3. nel racconto
che fa di quella medesima battaglia contro i Teutoni, della quale il Petrarca. Ut victor Romanus de cruento flumine non plus aquae
biberit quam sanguinis Barbarorum. Giacchè
l'armata Romana era assetata, e combattè quasi per l'acqua. E forse
Floro ha preso questa immagine da quel luogo di Tucidide nell'assedio di
Siracusa, riferito ed esaminato da Longino. (15. Gen. 1821.). V. p.724. principio.
[510]Floro III. 3. Iam diem pugnae
a nostro Imperatore petierunt, et sic proximum dedit. In patentissimo, quem Raudium
vocant, campo concurrere. Leggerei: et hic p. d..
(15. Gen. 1821.)
Alla p.495. Così II. 14. vir
ULTIMAE sortis Andriscus. Così Velleio I. II. sect.1 qui se
Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE. Del resto o sia sbaglio
dei Codd. o proprietà di Floro, e figura grammaticale a lui familiare,
io trovo anche altre volte il quoque messo da lui piuttosto prima che
dopo quello a cui pare che si dovrebbe effettivamente riferire, considerando il
sentimento. Così II. 14. fine. Sebbene quivi si potrà forse
spiegare e tollerare. Ma III. 6. dove dice di Pompeo destinato alla guerra
Piratica, Sic ille quoque ante felix, dignus nunc victoria Pompeius visus
est. Il quoque non par che si possa riportare se non all'ante
e non all'ille (quantunque i pirati fossero stati già combattuti
e vinti da P. Servilio l'Isaurico) perchè la forza di questo luogo par
che consista nella contrapposizione dell'ante felix, col dignus nunc
victoria. Onde pare che il luogo vada corretto. V. il Forcellini dove parla
del quoque congiunto coll'et [511]o etiam. V. pure
le ult. ediz. di Floro.
Alla p.96. Dalla bianchezza di quella porca
si crede che derivasse il nome di Alba dato alla città fondata da
Ascanio, e questo pure può confermare il mio sospetto, avendola fondata
Ascanio quasi nuova troia.
(15 Gen. 1821.)
In questi luoghi di Floro: Postquam
rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine (Tib. Gracchus) rostra
conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e non ha detto, nè anche
accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus (III. 14.): e: Quum
se in Aventinum recepisset (C. Gracchus), INDE quoque obvia Senatus manu, ab
Opimio consule oppressus est (III. 15.) l'inde non par che si possa intendere
se non per ibi o illuc, eo, ec. E in questo senso si può paragonare
l'uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri antichi fecero
dell'onde, quinci, quindi. V. la Crusca. e allo Spagnuolo donde che val sempre
dove. E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la particella inde
col nome obvius. E non perciò pare che significhi, o possa significare
moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi italiani, onde vai,
per dove vai) QUO LOCO inter [512]se OBVII fuissent. Sallust. Cui mater
MEDIÂ se se tulit OBVIA SILVÂ. Virgil. Questi esempi recati dal Forcellini
fanno per l'uso di obvius in luogo. Esempi di obvius unito a particelle o casi
che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini, nè
l'Appendice, e in ogni modo qui non par che farebbero al caso. Neanche ne hanno
di obvius con particelle o casi indicanti moto a luogo, come illuc obvius,
ovvero eo obvius, ovvero ad eum obvius o simili. Solamente questo di Virgilio:
Audeo TYRRHENOS EQUITES ire obvia CONTRA. Del resto obvius negli esempi del
Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi, mihi,
ec. Nè alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o
l'Appendice non hanno questi luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno
veruno nè pur lontano di questo significato. (16. Gen. 1821) V. pur nella Crusca altronde per altrove,
ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi, egloga 10. Melibea,
verso il fine, (Versi e prose di Mons. Bern. Baldi. Venetia 1590. p.204.) Fuggiam
fuggiamo altronde, Ch'a noi sen vien a volo Di vespe horrido stuolo, E sotto
aurato manto il ferro asconde. V. nel Forc. aliunde in un esempio
per alibi. V. pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde
ec. se ha nulla al caso. V. p.1421.
Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha
forza di uccidere, o cagionare un'estrema malattia, ed è più
facile il fingere questi casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella
vita: sebbene [513]molte volte si attribuiscono a dolor d'animo quelle
infermità che vengono da tutt'altro, o almeno, anche da altre cause. E
massimamente è difficile e strano che il dolor d'animo, una sventura non
corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la
detta sventura ec. e che in somma la vita dell'uomo si vada consumando e si
spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell'animo. (non dico le
generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce
in genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual
è la cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell'animo. Ma come?
Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola. Una
gran cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a
riprender possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo
(purchè viva) torna infallibilmente a sperare quella felicità che
avea disperata; prova quella consolazione [514]che avea creduta e
giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba verità, che
avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più fermo,
totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della natura
che richiama gli errori e le speranze.
(16. Gen. 1821.)
Da fanciulli, se una veduta, una campagna,
una pittura, un suono ec. un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine
poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è
sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è sempre indeterminata
e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno,
illusione ec. (quasi anche ogni concezione) di quell'età tien sempre
all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i
minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi
che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura
ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo
all'infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente,
durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere di quella
sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo [515]qual
fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare
con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in
proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che
forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo
pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza
della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono
come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie;
vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè
ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione
immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse
circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente
dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine
fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso
della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così
io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei
luoghi, spettacoli, incontri, ec. nel ripensare a quei racconti, favole,
letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o
nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati
fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle
poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non
rispetto e in virtù della fanciullezza.
E osservate che anche i sogni piacevoli
nell'età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale,
tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito
come nell'età prima spessissimo.
(16. Gen. 1821.)
Oltre la compassione, si può notare
come indipendente affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che
sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa.
Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p.e.
un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un
uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in
qualche precipizio, senz'avvedersene. [517]E simili. Questo dei mali non
ancora accaduti. Allora proviamo ancora un'assoluta necessità
d'impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore. Certo è che
il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo
ec. il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è
contro natura. Nell'atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec.
ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all'apparenza,
contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran
pena. E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione,
la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose
inanimate, o negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in
pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, utile, e che
so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa
necessità di esclamare, d'impedirlo potendo. ec. E ciò,
quantunque quella cosa [518]non appartenga a veruno in particolare, e la
sua perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare. Così che quel
sentimento dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente
all'oggetto paziente, forse ancora quand'esso abbia un possessore, e che questo
c'interessi. Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a
rompere la sua porcellana senza turbarsi. Ma non solamente le donne; anche gli
uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di
nessuno, purch'elle sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta
sensazione, indipendentemente dalla volontà. La radice di questo
sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio. Par che la natura
nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione,
e una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi. V. la
pagina seguente. L'orrore della distruzione (il quale si potrebbe in ultima
analisi riportare all'amor proprio) non par che [519]abbia parte in
questo, almeno principalmente. Noi vediamo perire tuttogiorno senza ripugnanza,
o cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto.
(17. Gen. 1821.)
Alla pagina superiore. Par ch'ella ci abbia
tutti incaricati in solido, di provvedere per parte nostra alla conservazione
di tutto il buono, (osservate queste parole, le quali potrebbero
estender di molto questo pensiero, p.e. al morale, al bello di ogni genere e
immateriale ec.), e impedirne la distruzione, e che questa danneggi positivamente
ciascuno per la sua parte. In questo aspetto forse si potrebbe riferire alla
lunga all'amor proprio, e forse no.
Alla p.468. Oltre che nella Salita di
Ciro l'autore parla di Senofonte con un tale temperamento di modestia, e di
amore, col quale chiunque conosca il cuore umano, leggendo la detta opera, riconosce
a prima vista che l'uomo non parla nè può parlare se non di se
stesso.
(17. Gen. 1821)
[520]L'intiera filosofia è
del tutto inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di
azione. In questo senso io sostengo che la filosofia non ha mai cagionato
nè potuto cagionare alcuna rivoluzione, o movimento, o impresa ec.
pubblica o privata; anzi ha dovuto per natura sua piuttosto sopprimerli, come
fra i Romani, i greci ec. Ma la mezza filosofia è compatibile
coll'azione, anzi può cagionarla. Così la filosofia avrà
potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di Francia, di
Spagna ec. perchè la moltitudine, e il comune degli uomini anche
istruiti, non è stato nè in Francia nè altrove mai
perfettamente filosofo, ma solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre
di errori, ed errore essa stessa; non è pura verità nè
ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento. E questi errori semifilosofici,
possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori per loro particolar
natura mortificanti, come quelli derivati da un'ignoranza barbarica e diversa
dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle [521]credenze della
natura, o primitiva, o ridotta a stato sociale ec. Così gli errori della
mezza filosofia, possono servire di medicina ad errori più anti-vitali,
sebben derivati anche questi in ultima analisi dalla filosofia, cioè
dalla corruzione prodotta dall'eccesso dell'incivilimento, il quale non
è mai separato dall'eccesso relativo dei lumi, dal quale anzi in gran
parte deriva. E infatti la mezza filosofia è la molla di quella poca
vita e movimento popolare d'oggidì. Trista molla, perchè, sebbene
errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura, come
gli errori e le molle dell'antica vita, o della fanciullesca, o selvaggia ec.:
ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in credenze o cognizioni non
naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto imperfettamente
ragionevole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza è
parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione.
E presto o tardi, ci [522]deve arrivare, perchè tale è
l'essenza sua, al contrario degli errori naturali. E l'azione presente non
può essere se non effimera, e finirà nell'inazione come per sua
natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle
nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione
e non di natura inerente sostanzialmente e primordialmente all'uomo. Del resto
la mezza filosofia, non già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava
sussistere l'amor patrio e le azioni che ne derivano, in Catone, in Cicerone in
Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco, e negli altri antichi filosofi e
patrioti allo stesso tempo. Quali poi fossero gli effetti de' progressi e perfezionamento
della filosofia presso i Romani è ben noto.
Osservate ancora che il movimento e il
fervore cagionato oggidì dalla mezza filosofia, va perdendo di giorno in
giorno necessariamente tanti fautori e promotori ec. quanti si vanno di mano in
mano perfezionando nella filosofia coll'esperienza ec. e quanti di semifilosofi,
divengono o diverranno appoco appoco filosofi.
(17. Gen. 1821.)
Nisi quod magnae indolis signum est, sperare
[523]semper. Floro IV. 8.
Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus!
et quam verum est quod moriens (Brutus) efflavit, «non in re, sed in verbo
tantum esse virtutem.» Floro IV. 7.
Floro IV. 6. Quid contra duos exercitus
necesse fuit venire in cruentissimi foederis societatem? Trasponete
l'interrogativo dopo exercitus. Così vuole il contesto, e anche
la semplice osservazione di questo passo, perch'io non so come il venire in
foederis societatem con due eserciti (di Antonio e di Lepido), s'abbia da
poter dire contra duos exercitus. V. le ult. ediz. di Floro.
(18. Gen. 1821.)
Molto acutamente Floro dice di Antonio il
triumviro: Desciscit in regem: nam aliter salvus esse non potuit, nisi confugisset
ad servitutem. (IV. 3.) Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come
Antonio: non poteva essere se non signore o servo: libero e uguale agli [524]altri,
non poteva. E così quasi tutti i Romani di quello e de' seguenti tempi:
così la massima parte degli uomini d'oggidì. Non c'è altro
stato che non convenga loro, fuorchè l'uguaglianza e la libertà.
Non saprebbero se non regnare, o come fanno, servire. Ma servendo, sarebbero
più adattati al regno che alla libertà. E tale è la natura
degli uomini servi per carattere, e corrotti dall'incivilimento, spogli di
virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni
grandi forti e nobili, d'integrità, di coraggio, d'ingegno, di eroismo,
capacità di sacrifizi, ec. ec. Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente,
e a mantenere relativamente e generalmente lo stato uguale e libero di un
popolo. In chi domina l'egoismo, non può che servire o regnare.
Così i nostri principi. Regnano, e saprebbero servire. (Così i
nostri magistrati, ministri, grandi. Regnano e servono. Sanno riunir l'una cosa
all'altra. Le mettono effettivamente in opera ambedue.) Ma come sarebbero
capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno,
e che son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e di
uguaglianza. Questa non può nè convenire particolarmente,
nè conservarsi in una nazione, senza le qualità e le forze della
natura. Un uomo o una nazione snaturata, non può esser libera, nè
[525]molto meno uguale: non può se non regnare o servire. La
libertà richiede homines non mancipia, , e chi
è schiavo o dei padroni servendo, o di se stesso, dell'egoismo, e delle
basse inclinazioni regnando, non può comportare lo stato libero,
nè uguale. L'amor di se stesso è inseparabile dall'uomo. Questo
lo porta ad innalzarsi. Dove l'innalzamento ec. in somma la soddisfazione
dell'amor proprio è impossibile, quivi l'uomo non può vivere. Ora
nello stato di perfetta libertà ed uguaglianza, l'individuo non fa progressi
senza virtù e pregi veri, perchè la sua fortuna, gli onori, le
ricchezze, i vantaggi ec. dipendono dalla moltitudine, la quale non potendo giudicare
secondo gli affetti e inclinazioni particolari, perchè queste son varie
e infinite, e non si accordano insieme, bisogna che giudichi secondo le regole
e le opinioni universali, cioè le vere. Chi dunque manca di virtù
e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti), non può sopportare la
libertà e l'uguaglianza, nè trovar vita in questo stato.
(18. Gen. 1821.)
Sane quod Poematis delectari se ait, id [526]non
abhorret ab huius compendii scriptore, quando stylus eius est in historia
declamatorius, ac Poetico propior, adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat:
dice G. G. Vossio di Floro. (de Historic. latt. l.1.) Nel lib. IV. c.11. dove
Floro dice di Antonio il triumviro: patriae, nominis, togae, fascium oblitus,
pare che questa sia un'imitazione di Orazio: (Od.
Anciliorum, NOMINIS et
TOGAE
BLITUS aeternaeque Vestae.
(18. Gen. 1821.). V. p.723. fine.
Alla p.477. Floro è noto per il molto
che ha di poetico, non solo nell'invenzione, nell'immaginazione, evidenza,
fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto
nella facoltà, quanto nella maniera, nello stile, e nella volontà.
E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza, ed
ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si
troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in
qualcuno de' nostri cinquecentisti. E quella stessa dose di pregi (senza [527]i
quali però non ci può esser buona nè vera prosa)
basterebbe per fare ammirare uno scrittore de' nostri tempi, e farlo giudicare
sommo ed unico. (Aggiungete tutto quello che spetta alla lingua: eleganza,
purità sufficientissima, armonia, varietà ec. forma de' periodi,
e loro disposizione e connessione ec.) Ora i migliori e sommi prosatori
francesi, in ordine a questi pregi, non sono degni di venir nemmeno in
confronto con uno de' peggiori ed infimi classici latini.
(19. Gen. 1821.)
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli
uomini il nulla nel tutto. X, Æ . (Elegiae
scriptor non satis probatus) I[3]. (Ita
enim se habet res) , (si quid
prosa oratione scribere velint, praestant) J , . (si
poeticae sibi partes vindicare velint, non assequuntur) (scil. ) . Laerz.
in Xenocrate, l.4. segm. [528]15. E v. se ha nulla in questo proposito
il Menagio.
(19. Gen. 1821.)
Come i piaceri così anche i dolori
sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che
nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni per le
quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne' fanciulli) manca
l'assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev'essere molto
più sensibile ed energico relativamente all'animo loro, che al nostro.
Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini
naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel primitivo,
sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente;
contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del
bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente
negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che
si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta
dagli altri, [529]e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non
ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto,
cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore
in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.
Osservate ancora che dolor cupo e vivo
sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata
di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse
corrispondere all'aspettativa, al giubilo precedente. E che il dolore della
speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza. Non dico alla
misura del piacere provato, realmente, perchè infatti neanche i
fanciulli provano mai soddisfazione nell'atto del piacere, non potendo
nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto
altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile, non
tanto perchè il piacere fosse passato, quanto perchè non avea
corrisposto alla speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o
pentimento, come se non avessimo goduto [530]per nostra colpa.
Giacchè l'esperienza non ci aveva ancora istruiti a sperar poco,
preparati a veder la speranza delusa, assuefatti a consolarci facilmente di
tali e maggiori perdite ec.
Insomma considerando in quella età le
cose come importanti, o più importanti di quello che le consideriamo in
altra età, (così relativamente e in particolare, come in generale
e assolutamente) è naturale che come i piaceri, così i dolori di
quell'età sieno maggiori in proporzione dell'importanza che gli oggetti
del dolore o del piacere hanno nella nostra opinione.
Così nella speranza di qualche bene,
quale non era la nostra inquietudine, i nostri timori, i nostri palpiti, le
nostre angosce ad ogni piccolo ostacolo, o apparenza di difficoltà, che
si opponesse al conseguimento della detta speranza!
E se poi l'oggetto stesso della speranza
(ancorchè minimo, rispetto alle nostre opinioni presenti) non si
conseguiva, quale non era la nostra disperazione! In maniera che forse in
seguito, nelle più grandi sventure della vita, non abbiamo provato,
nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come per quelle minime
sventure fanciullesche.
[531]Lascio stare il timore e lo
spavento proprio di quell'età (per mancanza di esperienza e sapere, e
per forza d'immaginazione ancor vergine e fresca): timor di pericoli di ogni
sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente di quell'età,
e di nessun'altra; timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni,
immagini reali, spaventose per quell'età e indifferenti poi, come
maschere ec. ec. (V. il Saggio sugli Errori popolari degli antichi.) Quest'ultimo
timore era così terribile in quell'età, che nessuna sventura,
nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza in altra
età, di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma
paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi. L'idea degli spettri,
quel timore spirituale, soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci
agitava frequentemente in quell'età, aveva un non so che di sì
formidabile e smanioso, che non può esser paragonato con verun altro
sentimento dispiacevole dell'uomo. Nemmeno il timor dell'inferno in un
moribondo, credo che possa essere così intimamente terribile.
Perchè la ragione e l'esperienza rendono inaccessibili a qualunque sorta
di sentimento, quell'ultima e profondissima [532]parte e radice
dell'animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale
scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il
detto timore.
(20. Gen. 1821.). V. p.535 capoverso 1.
Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas
sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi
haberes, qui illis aeque, ac tu ipse, gauderet? Cic. Lael. sive de Amicitia.
Cap.6.
(20. Gen. 1821.)
Il piacere umano (così probabilmente
quello di ogni essere vivente, in quell'ordine di cose che noi conosciamo) si
può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste
solamente nel futuro. L'atto proprio del piacere non si dà. Io spero un
piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato
un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non
perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche
godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade
di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi
desideri; ci mette [533]in migliori circostanze pel futuro, sia
riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all'opinione e persuasone
nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella
prova, quel saggio fattone. ec. Io provo un piacere: come? ciascuno individuale
istante dell'atto del piacere, è relativo agl'istanti successivi; e non
è piacevole se non relativamente agl'istanti che seguono, vale a dire al
futuro. In questo istante il piacere ch'io provo, non mi soddisfa, e siccome
non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere, ma ecco
che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere
crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto. Andiamo più
avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per
provarlo. Questo è il discorso, il cammino, l'occupazione, l'operazione,
e la sensazione dell'animo nell'atto di qualunque siasi piacere. Giunto
l'ultimo istante, e terminato l'atto del piacere, l'uomo non ha provato ancora
il piacere: resta dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione
debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, [534]di averlo provato; e
va ruminando, e compiacendosi di quello che ha sentito, e provando così
un altro piacere, il di cui oggetto è bensì passato, ma non il
piacere (perchè come può esser passato quello che non è
mai stato, e che è sempre futuro?) e l'atto di questo nuovo piacere
è composto di una successione d'istanti della stessa natura che l'altro
atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si
rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi
più agl'istanti successivi di quell'atto, ch'è già finito,
si riferisce ad altri atti; l'idea del così detto piacere provato, gli
dà un'idea di quelli ch'egli crede di poter provare; concepisce una
migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione o di
proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così prova un piacere,
ma sempre ed ugualmente futuro. Così p.e. se tu sei stato lodato, o ti
sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec. L'atto di quel piacere
è stato quale l'ho descritto: ma finito l'atto, lo vai ruminando a parte
a parte, e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato
o sul semplice gusto della [535]ricordanza, o sulla relazione che quel
preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi
dunque o devi provare, coll'idea che ti dà della futura vita, coi
disegni, coll'idea di te stesso, delle tue forze ec. colle speranze o reali, o
rispetto all'opinione e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo
all'atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere.
Così il piacere non è mai nè passato nè presente,
ma sempre e solamente futuro. E la ragione è, che non può esserci
piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e infinito in
ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai
essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e
sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa
credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è
quello che si chiama piacere; è tutto il piacer possibile. Quindi il
piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non
consiste che nel futuro. (20. Gen. 1821.). V. p.612. capoverso 1.
Alla p.532. Questo si può osservare [536]anche
negli effetti fisici o esterni delle dette sensazioni interne, sieno relativi
alla salute, sieno ai moti, ai gesti, sieno alle risoluzioni e azioni alle
quali strascinano i fanciulli e i primitivi, e ciò con tale
irresistibilità, e violenza infallibile, quale non ha verun'altra
sensazione interna nelle altre età e condizioni, ma solamente alcune
delle esterne e fisiche. Tant'è, l'immaginazione, o le sensazioni
interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello stato naturale,
la stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze esterne e
meccaniche in quella e nelle altre età o condizioni.
(20. Gen. 1821.)
Nihil est enim appetentius similium sui,
nihil rapacius, quam natura. Cic. Lael. sive de
Amicit. c.14.
(21 Gen.
1821.)
Alla
p.135. Fructus enim ingenii et virtutis,
omnisque praestantiae, tum maximus capitur, cum in proximum quemque confertur. Cic. Lael.
sive de Amicit. c.19. fine. E v. il capoverso superiore.
(21. Gen. 1821.)
È degna di esser veduta, consultata,
e anche [537]tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione
di Tullio (Lael. sive de Amicitia c.13. Nam quibusdam etc. sino alla fine)
contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum,
securitatem; qua frui non possit animus, si tamquam parturiat unus pro pluribus:
e quindi venivano a prescrivere il curam fugere, e l'honestam rem
actionemve, NE SOLLICITUS SIS, aut non suscipere, aut susceptam deponere.
La qual filosofia, è presso a poco la filosofia dell'inazione e del
nulla, la filosofia perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni.
E quella disputazione di Tullio si può avere per una disputazione contro
l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome. Quae est enim ista
securitas? dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa porti. Ma il
principale è, che non solamente porta a mille assurdità e
scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cicerone chiama la
natura, optimam bene vivendi ducem. c.5.): ma non ottiene neanche il suo
fine, ch'è la felicità dell'individuo [538]in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed
è contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo
nello stato sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone
impugna. Eccoci tutti filosofi a quella maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene?
siamo noi felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile,
la virtù dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non
dico in genere, e nella società, ma in particolare, e in ciascuno. Chi
è o fu più felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure,
le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla
nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, nazione,
amore del nostro bene, e non curanza di quello degli altri, o del pubblico ec.?
Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?
(21. Gen. 1821.).
È cosa evidente e osservata tuttogiorno,
che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi
tanto al credere, quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti,
e temporeggianti, i più tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione:
i più inclinati e soliti a lasciar le cose [539]come stanno; i
più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado
l'utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore
l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore
la difficoltà e l'angustia di risolvere.
(21. Gen. 1821.)
Ma non perciò è segno di molto
talento il soler sempre e subito determinarsi a non credere (come anche a non
fare). Anzi perciò appunto è indizio di piccolo spirito. Il non
credere, è una determinazione: e gli uomini veramente sapienti, e
profondi, ed esperti, sanno quante cose possano essere, quanto sia difficile il
negare, quanto sia vero che dall'incertezza e oscurità delle cose, dalla
difficoltà di affermare, deriva necessariamente anche quella di negare,
cioè affermare che una cosa non è, genere anch'esso di
affermazione. E però se una cosa non manca affatto di prova, o di prova
sufficiente a muover dubbio, o s'ella non è del tutto assurda, o
riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o col fatto, o colla
ragione; eccetto in questi casi, [540]il vero saggio e filosofo e
conoscitore delle cose in quanto (sono conoscibili), , e
ritiene come l'assenso così anche il dissenso. Ma uomini di non molto
ingegno, bensì di molta apparenza, o desiderio di essa apparenza,
credono mostrar talento quando al primo aspetto di una proposizione o cosa non
ordinaria, o difficile a credere (o non concorde colle loro opinioni e
principii, o non ben dimostrata o fondata), si determinano subito a non
credere. E se ne compiacciono seco stessi, e si credono forti di spirito,
perchè sanno determinatamente e prontamente non credere, quando è
tutto l'opposto. E se bene in questo si mescola spesse volte l'ostentazione,
non è però che non lo facciano ordinariamente di buona fede, e
con verità, e che l'interno non corrisponda alle parole. Giacchè
hanno veramente questa facilità di risolversi a non credere.
Perchè appunto sono lontani dalla vera e perfetta sapienza, e cognizione
delle cose.
(22. Gen. 1821.)
Sic enim mihi perspicere videor, ita natos
esse nos, [541]ut inter omnes esset societas quaedam; (ecco l'amore
universale, notato anche da Cicerone, e naturale, perchè la natura, e
tutti gli animali tendono più che ad altro al loro simile; preferiscono
nella inclinazione, nell'amore, nella società, il loro simile, allo
straniero e diverso. Questo è il vero confine dell'amore universale
secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi. Ma seguitiamo)
maior autem, ut quisque proxime accederet. Itaque cives, potiores, quam peregrini; et propinqui quam alieni. (Così
che nel conflitto degl'interessi di coloro che nobis proxime accedunt,
cogl'interessi degli stranieri, alieni, lontani, quelli vincono nell'animo, nella
inclinazione, e nella natura nostra: e non già nella sola parità
di circostanze, ma quando anche o il bene, o la salute e incolumità de'
vicini, porti agli strani un danno sproporzionato; quando anche si tratti di un
solo o pochi vicini, e di molti lontani; quando si tratti della sola sua patria
in comparazione di tutto il mondo. E tali sono realmente gli effetti e la
misura dell'amore dei bruti verso i loro [542]figli ec. rispetto agli
altri loro simili: delle api di un alveare, rispetto alle altre ec. E v. il
pensiero seguente.) Cum his enim amicitiam NATURA IPSA peperit. Cic.
Lael. sive de Amicitia c.5. sulla fine.
(22. Gen. 1821.)
Quapropter a natura mihi videtur potius,
quam ab indigentia, orta amicitia, et applicatione magis animi cum quodam sensu
amandi, quam cogitatione, quantum illa res utilitatis esset habitura. Quod
quidem quale sit, etiam in bestiis quibusdam animadverti potest; quae ex se
natos ita amant ad quoddam tempus, et ab eis ita amantur, ut facile earum
sensus appareat. Quod in homine multo est evidentius. Cic. Lael. sive de
Amicitia c.8.
(22. Gen. 1821.)
Della superiorità delle forze della
natura, della fortuna, dello spontaneo, dell'amor naturale e fortuito (materia
del pensiero precedente), sopra quelle della ragione, della provvidenza
(umana), dell'arte, dell'amore ragionato e proccurato, cose sempre deboli, e
più eleganti (a tutto dire) che forti e potenti; è degno di esser
veduto un luogo insigne ed elegante di [543]Frontone (Ad M. Caes. l.1. epist.8.
ediz. principe. pag.58-61.) simile in parte ad un altro nelle Lodi della Negligenza.
(p.371.).
(22. Gen. 1821.)
La superiorità della natura su la
ragione e l'arte, l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a
quella, la necessità della natura alla felicità dell'uomo anche sociale,
e l'impossibilità precisa di rimediare alla mancanza o depravazione di
lei, si può vedere anche nella considerazione dei governi. Più si
considera ed esamina a fondo la natura, le qualità, gli effetti di
qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio, profondo,
riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve con
piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già
da poco, ma da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita
della società (non dico natura) primitiva in poi, non c'è
governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda
essenzialmente i germi del male e della infelicità maggiore o minore de'
popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato [544]nè
sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui non derivino inconvenienti,
incomodi, infelicità (e non poche nè leggere) dalla natura e dai
difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o
possa essere. Insomma la perfezione di un governo umano è cosa
totalmente impossibile e disperata, e in un grado maggiore di quello che sia
disperata la perfezione di ogni altra cosa umana. Eppure è certo che, se
non tutti, certo molti governi sarebbono per se stessi buoni, e possiamo dire
perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è innata ed
essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini nelle
cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non
può camminar da se, nè per molle e macchine, nè per
ministerio d'Angeli, o per altre forze naturali o soprannaturali, ma per
ministerio d'uomini); tuttavia non è imperfezione primitiva, e inerente
all'idea del governo stesso, indipendentemente dalla considerazione de' suoi
ministri, nè inerente alla natura dell'uomo, ancorchè ridotto in
società. Consideriamo.
[545]Il governo monarchico
assoluto e dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l'uomo
odia naturalmente la servitù, e soffre di miglior animo i mali della
cattiva e sregolata libertà; o che questo è il peccato, il
flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e de' passati,
dall'estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per qualunque
ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e
contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il
peggiore di tutti i governi. Tale sarà oggidì; non mica in principio:
anzi in principio, lo giudico e credo il più perfetto, e posso dire il
solo perfetto, e ragionevole e naturale. Cioè, posto che v'abbia ad
essere un governo, io dico che questo, nello stato primitivo della
società, non doveva nè poteva esser altro che il monarchico assoluto;
e non volendo questo, non c'era ragione di volere un governo.
L'uomo per natura è libero, e uguale
a qualunque altro della sua specie. Ma nello [546]stato di
società, non è così. La ragione, il principio, lo scopo
della società, non è altro che il ben comune di coloro che la
compongono e si uniscono in un corpo più o meno esteso. Senza questo
fine, la società manca della sua ragione. E siccome ella è non
solamente irragionevole se non ha questo fine, ma è ancora non pure
inutile ma dannosa all'uomo, se sussiste senza conseguirlo; perciò se il
detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè
questa per se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all'uomo
più nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
Ora il ben commune di un corpo o
società, non si può ottenere, se non per la cospirazione di tutti
i membri di lei a questo fine. Così accade in tutte le cose: che un effetto,
il quale deve risultare da molte cagioni, e da molte forze, operanti ciascuna
per la sua parte; non può realizzarsi senza l'accordo e cospirazione congiunta
e convenevole di tutte queste forze, verso il detto effetto. Ecco il principio
d'unità: principio che risulta necessariamente dallo scopo della
società, ch'è il ben comune. E perciò, come nel ben [547]comune,
e non in altro, consiste la ragione della società; così questa
rinchiude essenzialmente il principio di unità. A segno che società,
considerandola bene, importa per sua natura, unità, vale a dire
unione di molti: la quale unione è imperfetta, se non è
perfettamente una, in quello che concerne la sua ragione e il suo scopo:
giacchè nel rimanente, dove la società non ha bisogno di
unità, l'uomo sebbene associato, è come fuori della società,
e conserva le sue qualità naturali, vale a dire la sua libertà,
la cura di se stesso, e de' suoi negozi ec. In somma nelle altre parti indipendenti
dal ben comune, la società non sussiste, e non è società,
sebbene ella sussista nel medesimo tempo, in quello che spetta alla sua ragione
e destinazione e scopo.
Ma le volontà degl'individui riuniti
in corpo, gl'interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e
così sopra qualunque altra cosa, sono infinite, e diversissime. Quindi
le forze di ciascuno, non possono cospirare ad un solo fine, tra perchè
non tutti si curano di proccurarlo; e perchè le opinioni, le
volontà ec. quando [548]anche si accordino nel cercarlo
assolutamente, non si accordano relativamente nel determinarlo, sia in genere e
totalmente; sia in parte, e in particolare; sia riguardo ai tempi, alle
opportunità di cercarlo e proccurarlo ec. E l'uno crede o vuole che
questo sia o debba essere il fine; l'altro che sia o debba esser quello: l'uno
che questo giovi al fine convenuto e stabilito; l'altro che noccia o non giovi:
l'uno che bisogni cercare il detto fine, oggi, o in questa maniera; l'altro che
bisogni aspettare fino a domani, o cercarlo in quest'altro modo. E così,
chi non si cura del ben comune, non corrisponde al fine della società,
è inutile e dannoso alla società. Chi se ne cura, non cospira,
nè può cospirar cogli altri, sia positivamente, sia negativamente,
cioè col fare, o coll'astenersi dal fare, secondo i bisogni, e i fini
ec. Dunque neppur egli corrisponde al fine della società, il quale non
può risultare se non dall'accordo dei membri verso il ben comune:
altrimenti ciascuno poteva senza società, proccurarlo da se; e la
società era inutile.
[549]In un corpo dunque
perfettamente libero e uguale, manca affatto l'unità, solo mezzo di
ottenere il solo scopo della società; anzi solo costituente della società:
e però in un corpo libero ed uguale, non esiste se non il nome e la sembianza
della società; vale a dire che più persone si trovano insieme di
luogo, ma non in società.
Come dunque lo scopo della società
è il ben comune; e il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione
degl'individui al detto bene, ossia l'unità; così l'ordine, lo
stato vero, la perfezione della società, non può essere se non
quello che produce e cagiona perfettamente questa cospirazione e unità.
Giacchè la perfezione di qualunque cosa, non è altro che la sua
intera corrispondenza al suo fine.
Come dunque riunire ad un sol centro le
opinioni, gl'interessi, le volontà di molti? Non c'è altro mezzo
che subordinarle, e farle dipendere e regolare da una sola opinione,
volontà, interesse; vale a dire dalle opinioni, volontà,
interessi di un solo. L'unità è ottenuta; ma perch'ella sia vera
unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente
[550]diriggere e regolare e determinare le opinioni interessi
volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di ciascuno:
in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente
da lui solo, in tutto quello che concerne lo scopo di detta
società, cioè il di lei bene comune. Ecco dunque la monarchia assoluta
e dispotica. Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma inerente
all'essenza, alla ragione della società umana, cioè composta
d'individui per se stessi discordanti.
Colla monarchia assoluta e dispotica,
l'unità è, come dissi, ottenuta. Questo è il mezzo per
conseguire il bene comune. Ma esso bene, cioè il fine, sarà
ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà di
quel solo corrisponderanno e tenderanno effettivamente al detto fine; e quanto
i suoi interessi saranno tutta una cosa cogl'interessi comuni.
Ecco la necessità di un principe
quasi perfetto: irreprensibile nei giudizi e opinioni [551]prudenza ec.
per discernere e determinare il vero bene universale e i veri mezzi di
ottenerlo; irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza,
nelle inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine),
per diriggere effettivamente le sue forze e quelle de' sudditi a quel fine, nel
quale egli giudica riposto il comun bene.
Se il principe non è tale, siamo da
capo. Siccome egli è divenuto l'anima e la testa, e in somma la forza
movente della società, anzi si può dire che la forza attiva e negativa
della società sia tutta riposta e rinchiusa in lui; così quanto
egli non mira al ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà),
tanto la società manca di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo
fine, e diventa di nuovo inutile e dannosa. E tanto più dannosa, quanto
maggiori sono i mali che derivano dalla servitù, dall'esser tutti
destinati al bene di un solo, dall'impiegare le loro forze non più pel
loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li capricci,
e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso vuole
il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare
il loro bene, ma il loro [552]male. In somma tutte le calamità
che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di
tutti i viventi d'ogni specie, e quindi certa sorgente d'infelicità.
Così la società diviene un male infinito, diviene formalmente
l'infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore
o minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se
stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal di lei fine,
ch'è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio fine.
Se dunque la società non può
stare, anzi non esiste senza unità; e la perfetta unità non
può stare senza un principe assoluto; nè questo principe
corrisponde al fine di essa unità, e società, e di se stesso, se
non è perfetto; perchè il governo monarchico e la società
sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto. Perfezione ancorchè
relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli animali, nè
fra le cose. Ed ecco lo stato di società necessariamente imperfetto. Ma
parlando di quella perfezione che è nell'uso e nella vita comune (Cic.
de Amicit. c.5.); un principe [553]perfetto in questo senso si poteva
trovare nei principii della società. 1. Perchè la virtù,
le illusioni che la producono e conservano, esistevano allora: oggi non
più. 2. Perchè la scelta può cadere sopra il più
degno e il più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per buona e
retta volontà, di corrispondere al fine del principato e della
società, ossia 1° di conoscere, 2° di proccurare il ben comune di quel
corpo che lo sceglieva.
Se dunque i primi popoli, le prime
società, scelsero al principato quell'uomo che eminebat per doti
dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto
uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l'uomo,
al fine della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla
perfezione della società.
Se questa scelta, questo patto sociale, di
ubbidire pel comune vantaggio ad un solo che fosse degno e capace di conoscerlo
e proccurarlo, abbia mai avuto luogo effettivamente; non [554]appartiene
al mio proposito. Questo discorso non considera nè deve considerare
altro che la ragione delle cose, e quindi come avrebbero dovuto andare, e
avrebbero potuto andare da principio, e secondo natura; non come sono andate, o
vanno. Del resto negli scarsi vestigi storici che rimangono delle antichissime
monarchie (e questo discorso non appartiene se non alle antichissime e
primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di effettiva e realizzata
corrispondenza del primitivo governo monarchico, col pubblico bene delle
rispettive società. Così nei popoli Americani, così nei
selvaggi (dove la tirannia par che s'ignori, sebbene si conosca la monarchia, o
militare, o civile), così negli antichi Germani, de' quali Tacito ed
altri; così fra i Celti, de' quali Ossian; così fra i greci
Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia
posteriore al primitivo. Insomma considerando le storie de' primi tempi, si
può vedere che l'idea della tirannia, sebbene antica, non è
però antichissima: [555]bensì antichissima e primordiale
nella società è l'idea della monarchia assoluta. V. Goguet, Origine
delle scienze e delle arti. Assoluta s'intende, non mica in modo che questa
parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per costituente la natura
di quel tale governo. Ma senza tante definizioni, e sanzioni, e formole, e
spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano col fatto al
reggimento di un solo assolutamente; senza però neppur pensare ch'egli
dovesse esser padrone della vita, dell'opera, e delle sostanze loro a
capriccio, ma in vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le
definizioni, le circoscrizioni, le formole chiare e precise, non sono in
natura, ma inventate e rese necessarie dalla corruzione degli uomini, i quali
oggidì hanno bisogno di stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni
(o morali o materiali) distintissime, minutissime, specificatissime,
numerosissime, matematiche ec. perchè si tolga alla malizia ogni sutterfugio,
ogni scanso, ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e indeterminato.
E già vengo a quesa corruzione.
[556]Essendo gli uomini quali ho
detto di sopra, si poteva trovare un principe e capace e buono. Essendo la
società nello stato primitivo e naturale, senza troppe regole, senza
troppa ambizione, senza impegni, senz'altre corruzioni e impedimenti; si poteva
e scegliere il detto uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
Ridotti gli uomini allo stato di
depravazione (e il nostro discorso comprende tanto l'antica, quanto la moderna
depravazione, perchè anche l'antica bastava all'effetto che
dirò), non fu più possibile trovare un principe perfetto. Quando
anche si fosse trovato, non fu più possibile, ch'egli divenuto principe,
si conservasse tale: sì per la corruzione individuale degli uomini;
sì per la generale della società; i costumi mutati, le illusioni
cominciate a scoprire, la virtù cominciata a conoscere inutile o meno
utile di certi vizi, gli esempi che hanno forza di guastare qualunque divina
indole. In somma non fu più possibile che l'uomo anche più
perfetto, avuto in mano il potere, non se ne abusasse. Quando anche [557]fosse
stato possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia
nata e cresciuta, l'ambizione ec. e quindi la necessità di regole fisse,
strette, e indipendenti dall'arbitrio, rendevano impossibile la scelta del
successore. Bisognò dunque, perch'ella fosse certa e invariabile
commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario. E dove questo non fu
stabilito, non si guadagnò altro che un aumento di mali nelle turbolenze
della scelta, perchè la società ridotta com'era, non poteva
più scegliere nè senza turbolenza, nè un principe degno.
Dacchè il monarca non fu più o
eleggibile, o bene scelto, la monarchia divenne il peggiore di tutti gli stati.
Perchè un uomo veramente perfetto per quell'incarico, essendo raro da
principio, rarissimo in seguito, com'era possibile, che senza una scelta
accurata, si potesse trovare quest'uomo rarissimo, capace del principato?
Com'era possibile che [558]l'azzardo della nascita, o di una scelta
parimente, si può dir casuale, perchè diretta da tutt'altro che
dal vero, si combinasse a cadere appunto in quest'uomo sommo e quasi unico,
difficilissimo a trovare anche mediante la più matura considerazione e
cura? Tanto più che la corruzione della società, esigeva allora
in un perfetto principe, maggiori e più difficili qualità che per
l'addietro: così che non solo il buono era più straordinario di
prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era
più sufficientemente perfetto per allora.
La perfezione dunque del principe cosa
essenziale alla monarchia, non fu più nè considerata, nè
possibile, nè effettiva, e non entrò più nell'ordine della
società. E siccome, oltre che la perfezione era rarissima, il principe era
tale in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli poteva non
solo non essere il migliore, ma anche il peggiore degl'individui: e ciò
non solo per accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione,
il potere, l'adulazione ec. contribuivano [559]positivamente,
definitamente, e necessariamente a farlo tale.
Da che dunque il principe fu cattivo, o non
perfetto, la monarchia perdè la sua ragione, perchè non poteva
più corrispondere al suo scopo, cioè al ben comune.
L'unità restava, ma non il di lei fine: anzi l'unità in vece di
condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo impossibile.
Così anche la società, perduta la sua ragione e il suo scopo,
cioè il comun bene, tornava ad essere inutile e dannosa, con quel di
più che risultava dall'assurdità, barbarie, e pregiudizio sommo,
dell'esser tutti nelle mani di un solo, inteso a danneggiarli.
In questo stato tornava meglio, o sciorre
affatto la società, o diminuire, laxare, quell'unità,
ch'essendo da principio e in natura il massimo e più necessario de' beni
sociali, così dopo la corruzione, è il sommo de' mali, e
l'istrumento e sorgente delle più terribili infelicità.
[560]Allora fu che i popoli
abbandonando, e distruggendo il loro primo, vero, e naturale governo, inerente
alla vera natura della società, si rivolsero ad altri governi, alle
repubbliche ec. divisero i poteri, divisero in certo modo l'unità; ripigliando
quella parte di libertà e di uguaglianza, che restava loro sotto la
primitiva monarchia, andarono anche più oltre, e ne ripigliarono tanta,
quanta non era compatibile colla natura e ragione della società. Ed era
ben naturale, perchè quel monarca assoluto che doveva disporre di
quest'altra porzione di libertà ec. non esistendo più pel comun
bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
Così le repubbliche d'ogni
qualsivoglia sorta, e in ragione e in fatto sono posteriori alla monarchia
assoluta, e l'idea e l'esistenza della tirannia non è antichissima, ma
nella teoria, ed effettivamente nella storia, precede immediatamente l'idea e
l'esistenza degli stati liberi. Giacchè l'antichissima e primitiva forma
e idea di governo, non è altra che quella dell'assoluta monarchia.
Osservate la storia greca, osservate la romana. V. Goguet loc. cit. Dovunque e sempre la monarchia [561]precede
la libertà, e la libertà nasce dalla corrotta monarchia, come
dalla libertà anche più corrotta successivamente, e più
cattiva di quello che fosse nel suo primo rinascimento, nasce una nuova
monarchia: libertà e nuova monarchia tutte due cattive, perchè
tutte due derivate da cattivo principio. Eccetto che la libertà ed
uguaglianza naturale precede la monarchia primitiva, o nello stato dell'uomo
insociale e solitario, o in quella prima infanzia della società, dov'ella
è piuttosto un'adunanza materiale d'uomini che una società.
Riprendendo il filo del discorso:
coll'influenza, la forza, la viridità, l'osservanza della natura, era
finita la perfezione e l'utilità dell'assoluta monarchia: coll'assoluta
monarchia era finito lo stato vero ed essenziale della società. Lungi dunque
dalla natura, e lungi dall'essenza di se stessa, la società non poteva
esser più felice. Nè vi poteva più esser governo perfetto,
non solo perchè l'uomo era allontanato dalla natura, fuor della [562]quale
non v'è perfezione in qualunque stato; ma anche e principalmente
perchè quel solo governo che potesse da principio esser perfetto,
perchè il solo conveniente all'essenza della società, era da circostanze
irrimediabili e perpetue escluso per sempre dalla perfezione; ed anche (presso
questo o quel popolo) escluso effettivamente ed intieramente dalla società.
La natura, sola fonte possibile di
felicità anche all'uomo sociale, è sparita. Ecco l'arte, la
ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno avanti per supplire all'assenza
o corruzone della natura, rimediarci, sostituire i loro (pretesi) mezzi di
felicità, ai mezzi della natura; occupare in somma il luogo da cui la
natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre l'uomo cioè a quella
felicità, a cui la natura lo conduceva. Quante forme di governo non sono
state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante chimere, quante utopie
ne' pensieri de' filosofi! certo essi erravano ne' principii, giacchè
pretendevano d'immaginare un governo perfetto, e [563](lasciando tutto
il resto, lasciando le assurdità e impossibilità
nell'applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del governo
non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non
ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e
conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma non
può esser altro che semplicissima.
Fra tante miserie di governi che quasi
facevano a gara, qual fosse il più imperfetto e cattivo, e il meglio
adattato a proccurare l'infelicità degli uomini; egli è certo ed
evidente, che lo stato libero e democratico, fino a tanto che il popolo conservò
tanto di natura da esser suscettibile in potenza ed in atto, di virtù di
eroismo, di grandi illusioni, di forza d'animo, di buoni costumi; fu certamente
il migliore di tutti. L'uomo non era più tanto naturale, da potersi
trovar uno che reggesse al dominio senza corrompersi, e senza abusarne: e dopo
inventata la malizia, il potere senza limiti, non poteva più sussistere,
nè per parte del principe che ne [564]abusava inevitabilmente,
nè per parte del popolo. Perchè se questo non era costretto e
circoscritto da freni, da leggi, da forze, in somma da catene, non era
più capace di ubbidire spontaneamente, di badare tranquillamente alla
sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino, o il pubblico a se
stesso, non aspirare all'occasione anche al principato, in somma non era capace
di non tendere alla in ogni cosa.
L'ubbidienza e sommissione totale al principe, e l'esser pronto a servirlo, non
è insomma altro che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a
sacrificarsi per gli altri, un contribuire pro virili parte al pubblico
bene. Dico quando la detta sommissione è spontanea. Ma l'egoismo non
è capace di sacrifizi. Dunque la detta sommissione spontanea non era
più da sperare; la comunione degl'interessi d'ogni individuo coll'interesse
pubblico era impossibile. Nato dunque l'egoismo, nè il popolo poteva
ubbidir più se non era servo, nè il principe comandare senza esser
tiranno. (V. p.523. capoverso ult.) Le cose non andavano più alla buona,
nè secondo natura, e questo o quello non andava in questo o quel modo,
se non per una necessità certa e definita: ed era divenuta
indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione
della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole,
delle forze.
[565]Ma restava ancora nel mondo
tanta natura, tanta forza di credenze naturali o illusioni, da poter sostenere
lo stato democratico, e conseguirne una certa felicità e perfezione di
governo. Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all'entusiasmo ec. uno stato
che esigge grand'azione e movimento: uno stato dove ogni azione pubblica
degl'individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della
moltitudine, giudice, come ho detto altrove, per lo più necessariamente
giusto; uno stato dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva
mancar di premio; uno stato dove anzi era d'interesse del popolo il premiare i
meritevoli, giacchè questi non erano altro che servitori suoi, ed i
meriti loro, non altro che benefizi fatti al popolo, il quale conveniva che
incoraggisse gli altri ad imitarli; uno stato dove, se non altro, e malgrado le
ultime sventure individuali, non può quasi mancare al merito, ed alle grandi
azioni il premio della gloria, quel fantasma immenso, quella molla onnipotente
nella società; uno stato, del [566]quale ciascuno sente di far
parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e interessato dal
proprio egoismo, e come a se stesso; uno stato dove non c'è molto da invidiare,
perchè tutti sono appresso a poco uguali, i vantaggi sono distribuiti
equabilmente, le preminenze non sono che di merito e di gloria, cose poco
soggette all'invidia, e perchè la strada per ottenerle è aperta a
ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e volontà
di ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in
somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società,
è però il primitivo dell'uomo, naturalmente libero, e padrone di
se stesso, e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo
della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato
finchè restava tanta natura da sostenerlo, e quanta bastava perch'egli
fosse ancora compatibile colla società; era certamente dopo la monarchia
primitiva, il più conveniente all'uomo, il più fruttuoso alla vita,
il più felice. [567]Tale fu appresso a poco lo stato delle
repubbliche greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
Ma come l'uguaglianza è incompatibile
con uno stato il cui principio è l'unità, dal quale vengono
necessariamente le gerarchie; così la disuguaglianza è incompatibile
con quello stato, il cui principio è l'opposto dell'unità,
cioè il potere diviso fra ciascheduno, ossia la libertà e
democrazia. La perfetta uguaglianza è la base necessaria della
libertà. Vale a dire, è necessario che fra quelli fra' quali il
potere è diviso, non vi sia squilibrio di potere; e nessuno ne abbia
più nè meno di un altro. Perchè in questo e non in altro
è riposta l'idea, l'essenza e il fondamento della libertà. Ed
oltre che senza questo, la libertà non è più vera,
nè intera; non può neanche durare in questa imperfezione.
Perchè, come l'unità del potere porta il monarca ad abusarsene, e
passare i limiti; così la maggioranza del potere, porta il maggiore ad
abusarsene, e cercare di accrescerlo; e così le [568]democrazie
vengono a ricadere nella monarchia. Nè solamente la del
potere, ma ogni sorta di , è
incompatibile e mortifera alla libertà. Nella libertà non bisogna
che l'uno abbia sopra l'altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima,
in somma di cose che non possano essere nè invidiate per parte degli
altri, nè abusate, e portate oltre i limiti da chi le possiede.
Altrimenti nascono le invidie negli uni, il desiderio di maggior superiorità
negli altri. Questi cercano d'innalzarsi, quelli di non restare al di sotto, o
di conseguire gli stessi vantaggi. Quindi fazioni, discordie, partiti,
clientele, risse, guerre, e alla fine vittoria e preponderanza di un solo, e
monarchia. Perciò gli antichi legislatori, come Licurgo, o i savi
repubblicani, come Fabrizio, Catone ec. proibivano le ricchezze, gastigavano
chi possedeva troppo più degli altri (come fece Fabrizio nella censura),
proscrivevano il sapere, le scienze, le arti, la coltura dello spirito, insomma
ogni sorta di .
Perciò tutte le repubbliche e democrazie vere, sono state povere e ignoranti
[569]finchè ha durato il loro ben essere. Perciò gli
Ateniesi arrivavano ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della
virtù segnalata, della mera gloria, ancorchè spoglia di onori esterni;
ed è osservabile che la superiorità del merito anche fra i Romani
fu tanto più sfortunata, quanto la democrazia era più perfetta,
cioè ne' primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec. Colle ricchezze,
il lusso, le aderenze, la coltura degl'ingegni, la troppa disuguaglianza delle
dignità, ed onori esteriori, del potere ec. ed anche la sola eccessiva
sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte
le democrazie.
Ma siccome è impossibile la durevole
conservazione della perfetta uguaglianza, e la perfetta uguaglianza è il
fondamento essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile della
democrazia, così questo stato non può durar lungo tempo, e si
risolve naturalmente nella monarchia, se non è abbastanza fortunato per
cader piuttosto nell'oligarchia, o nel governo degli ottimati, cioè
nell'aristocrazia, le quali [570]però non sono ordinariamente,
anzi si può dir sempre, fuori che un altro gradino alla monarchia. V.
p.608. capoverso 1.
Il solo preservativo contro la troppa e
nocevole disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le
illusioni naturali, le quali diriggono l'egoismo e l'amor proprio, appunto a
non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi
nell'uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, e rifiutare ogni singolarità
e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli, e delle virtù
conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di tutti. Il
solo rimedio contro le disuguaglianze che pur nascono, è la natura,
cioè parimente le illusioni naturali, le quali fanno e che queste
disuguaglianze non derivino se non dalla virtù e dal merito, e che la
virtù e l'eroismo comune della nazione, le tolleri, anzi le veda di buon
occhio, e senza invidia, e con piacere, come effetto del merito, e non si
sforzi di arrivare a quella superiorità, se non per lo stesso mezzo
della virtù e del merito. E che quelli che hanno conseguita la detta
superiorità, sia di gloria, sia di uffizi e dignità (giacchè
quella di ricchezze, e altri tali vantaggi, non ha luogo finchè dura
nella [571]repubblica l'influenza della natura), non se ne abusino, non
cerchino di passar oltre, sieno contenti, anzi impieghino il poter loro a
mantener l'uguaglianza e libertà, si comunichino agli altri,
diminuiscano l'invidia de' loro vantaggi col fuggire l'orgoglio, la cupidigia,
il disprezzo o l'oppressione degli inferiori ec. ec. ec. E tutto questo
accadeva effettivamente nei primi e migliori tempi delle antiche democrazie,
cioè ne' più vicini alla natura, e per gli effetti e le opere e i
costumi, e materialmente per l'età. Ma spente le illusioni, scemata o
tolta la natura, tornato in campo il basso egoismo fomentato dai vantaggi e dai
mezzi d'ingrandimento nei superiori, irritato negl'inferiori dalla stessa
inferiorità, aggiunte le ricchezze, il lusso, le clientele, gl'impegni,
le ambitiones, la filosofia, l'eloquenza, le arti, e le altre infinite
corruzioni e della
società, le democrazie s'indebolirono, crollarono e finalmente caddero.
E qui torniamo al principio del nostro discorso, [572]cioè come i
governi che paiono e si trovano oggi imperfettissimi, e talora insostenibili,
fossero o perfetti, o buoni, ed anche utilissimi da principio, e durante i
costumi naturali. E come non vi sia peste, nè maggiore nè
più certa a qualsivoglia stato pubblico, che la corruzione, e l'estinzione
della natura. E come quei governi che durando la natura erano buoni, cessata la
natura divengono senz'altro pessimi. E come alla natura non si può supplire,
e la mancanza di lei non ha rimedio nessuno; nè senza lei si può
mai sperare perfezione o felicità di governo fino alla fine dei secoli;
ma tutto (e sia pure il governo il più profondamente studiato,
combinato, e perfettamente filosofico) sarà sempre imperfettissimo,
pieno di elementi discordanti, mal adattato all'uomo (al quale nulla si
può più adattare, quand'egli non è più quello che dovrebb'essere),
inetto alla vera felicità; e quindi o in fatto, o certo nella vera teorica,
precario, istabile, mal situato, mal piantato, barcollante, incongruente, incoerente,
[573]falso ec. Il che si potrà anche vedere da quello che segue.
Tutti i vari governi per li quali
andò successivamente o simultaneamente errando o lo spirito umano, o il
caso, o la forza delle circostanze particolari, non servirono ad altro che a
disperare i veri filosofi (certamente pochi), convinti dall'esperienza della
necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione e sconvenienza di
tutto quello che 1° mancava di natura sola norma vera e invariabile d'ogni
istituzione mondana; 2° non corrispondeva all'essenza e alla ragione della
società, la quale richiede la monarchia assoluta.
Quasi tutte però le diverse
aberrazioni della società in ordine ai governi, vennero a ricadere in
questa monarchia, stato naturale della società, e il mondo, massime in
questi ultimi secoli, era divenuto, si può dir, tutto monarchico assoluto.
Specialmente poi dall'abuso e corruzione della libertà e democrazia,
nata immediatamente dall'abuso e corruzione della [574]monarchia
assoluta, era nata pure immediatamente una nuova monarchia assoluta. Ma non
già quella primitiva, quella ch'era buona ed utile e conveniente alla
società durante l'influenza della natura, e mediante questa sola: ma
quella che può essere nell'assenza della natura; cioè quella
tanto essenzialmente pessima, quanto la primitiva è sostanzialmente e
solamente ottima: Insomma la tirannia, perchè la monarchia assoluta
senza natura, non può esser altro che tirannia, più o meno grave,
e quindi forse il pessimo di tutti i governi. E la ragione è, che tolte
le credenze e illusioni naturali, non c'è ragione, non è
possibile nè umano, che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene
altrui, cosa essenzialmente contraria all'amor proprio, essenziale a tutti gli
animali. Sicchè gli interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre
infallibilmente posposti a quelli di un solo, quando questi ha il pieno potere
di servirsi degli altri, e delle cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi,
sieno anche capricci, insomma per qualunque soddisfazione sua.
Il mondo ha marcito appresso a poco in
questo stato dal principio dell'impero romano, fino al nostro secolo.
Nell'ultimo secolo, la filosofia, la cognizione delle cose, l'esperienza, lo
studio, l'esame delle storie, degli uomini, i confronti, i paralelli, il
commercio scambievole d'ogni sorta d'uomini, di nazioni, di costumi, le scienze
d'ogni qualità, le arti ec. ec. hanno fatto progressi tali, che tutto il
mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar se stesso, e lo
stato suo, e quindi principalmente [575]alla politica ch'è la
parte più interessante, più valevole, di maggiore e più
generale influenza nelle cose umane. Ecco finalmente che la filosofia,
cioè la ragione umana, viene in campo con tutte le sue forze, con tutto
il suo possibile potere, i suoi possibili mezzi, lumi, armi, e si pone alla
grande impresa di supplire alla natura perduta, rimediare ai mali che ne son
derivati, e ricondurre quella felicità ch'è sparita da secoli
immemorabili insieme colla natura. Giacchè insomma la felicità e
non altro, è o dev'esser lo scopo di questa nostra oramai perfetta
ragione, in qualunque sua opera: come questo è lo scopo di tutte le
facoltà ed azioni umane.
Che saprà fare questa ragione umana
venuta finalmente tutta intiera al paragone della natura, intorno al punto
principale della società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli
ultimi del passato, e nei primi anni di questo secolo. Riconosciuta per
indispensabile la monarchia, e d'altronde la monarchia [576]assoluta per
tutt'uno colla tirannia, la filosofia moderna s'è appigliata (e che altro
poteva?) al partito di puntellare. Non idee di perfetto governo, non ritrovati,
scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione. Modificazioni, aggiunte,
distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall'altra, dividere, e poi
lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, toglier
di qua, aggiunger di là: insomma miserabili risarcimenti, e sostegni, e
rattoppature e chiavi, e ingegni d'ogni sorta, per mantenere un edifizio, che
perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo, non si può
più reggere senza artifizi che non entrano affatto nell'idea primaria
della sua costruzione. La monarchia assoluta s'è cangiata in molti paesi
(ora mentre io scrivo s'aspetta che lo stesso accada in tutta Europa) in
costitutiva. Non nego che nello stato presente del mondo civile, questo non sia
forse il miglior partito. Ma insomma questa non è un'istituzione che
abbia il suo fondamento e la sua ragione nell'idea e nell'essenza o della società
in generale e assolutamente, o [577]del governo monarchico in
particolare. È un'istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli
uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente dev'essere istabile,
mutabile, incerta e nella sua forma, e nella durata, e negli effetti che ne
dovrebbero emergere perch'ella corrispondesse al suo scopo, cioè alla
felicità della nazione.
1° Tutto quello che non ha il suo fondamento
nella natura della cosa, ha un'esistenza sostanzialmente precaria. La cosa
può restare, e la modificazione perire, alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi,
diversificarsi in mille guise, non ottenere il suo scopo, restare quanto al
nome e all'apparenza, non quanto al fatto. Insomma le convengono tutte quelle
proprietà, che nelle scuole si attribuiscono all'accidente, e che
lo definiscono. Di più, ancorchè resti, e resti in tutta la sua
relativa perfezione o integrità, difficilmente può giovare, e
valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione nell'essenza e
natura della cosa.
2° La ragione e l'essenza della monarchia
consiste in questo, che alla società è necessaria [578]l'unità.
L'unità non è vera se il capo o principe non è propriamente
e interamente uno. Questo non vuol dir altro se non che essere assoluto,
cioè padrone egli solo di tutto quello che concerne il suo fine,
cioè il bene comune. Quanto più si divide il potere, tanto
più si pregiudica all'unità, dunque tanto più si viola, si
allontana e si esclude la ragione e la perfezione e della monarchia e della
società.
Così che lo stato costituzionale non
corrisponde alla natura e ragione nè della società in genere,
nè della monarchia in specie. Ed è manifesto che la costituzione
non è altro che una medicina a un corpo malato. La qual medicina sarebbe
aliena da quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza lei. Dunque bisogna
compensare l'imperfezione della malattia, con un'altra imperfezione. E
così appunto la costituzione non è altro che una necessaria
imperfezione del governo. Un male indispensabile per rimediare o impedire un
maggior male. Come un cauterio in un individuo affetto da reumi ec. Che sebbene
quell'individuo vive [579]mediante quel cauterio, altrimenti non
vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è
diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un
male, un vizio, un'imperfezione: e sebbene non nuoce più il primo male,
nuoce il rimedio: e quell'individuo non è mica perfetto nè sano.
Così una gamba di legno a chi ha perduto la naturale. Il quale cammina
bensì con quella gamba, che altrimenti non potrebbe sostenersi: ma non
perciò resta ch'egli non sia imperfetto.
Ed ecco (per conclusione del mio discorso)
come quei governi e quelle cose d'ogni genere, che da principio e secondo
natura, sarebbero ed erano perfette, tolta la natura, non possono più
esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione, del sapere, dell'arte: e
queste non possono mai riempiere il luogo della natura, e fare perfettamente le
di lei veci: anzi rimediando a un male, ne introducono necessariamente un
altro: perchè esse stesse introdotte che sono in qualunque genere di
cose, ne formano un'imperfezione, e rendono quella tal cosa imperfetta per
ciò solo che le contiene.
(22-29. Gen. 1821.)
Da tutto il sopraddetto deducete questo
corollario. L'uomo è naturalmente, primitivamente, [580]ed
essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità
appartengono inseparabilmente all'idea della natura e dell'essenza costitutiva
dell'uomo, come degli altri animali. La società è nello stesso
modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste
qualità la società non è perfetta, anzi non è vera
società. Pertanto l'uomo in società bisogna che necessariamente
si spogli e perda delle qualità essenziali, naturali, ingenite,
costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può ben perdere
in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un
essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e
indipendente affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali,
perch'essendo primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione,
quanto dura quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo
stesso che voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la
quale è parimente indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi,
sarà un altro [581]essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo
della libertà e della uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza
umana, e non sarebbe un uomo, ch'è impossibile. Nè egli si
può condannare a perdere realmente e radicalmente questa qualità,
neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà propria e
libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in
tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e
come egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire
per sempre; così l'istante appresso egli può disubbidire in
diritto, e non può non poterlo fare. V. p.452. capoverso 1. Dunque la
società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali
e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde alla
sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno per
conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell'ordine delle
cose.
Del resto tutto quello ch'io dico della
necessità dell'unità, e quindi dipendenza [582]soggezione
e disuguaglianza nella società, non appartiene e non ha forza in quanto
a quella società veramente primordiale, che entra nell'essenza, ordine e
natura della specie umana e degli animali: società imperfetta in quanto
società; perfetta in quanto all'essenza vera e primitiva dell'uomo e
degli animali, e all'ordine delle cose, dove nulla è perfetto
assolutamente, ma relativamente. Volendo appurare l'idea della società,
ne risulta direttamente la conseguenza che ho detto, cioè la
necessità dell'unità, e quindi della monarchia ec. Ma questi
appuramenti, queste circoscrizioni, queste esattezze, queste strettezze, queste
sottigliezze, queste dialettiche queste matematiche non sono in natura, e non
devono entrare nella considerazione dell'ordine naturale, perchè la
natura effettivamente non le ha seguite. E non solo non è imperfetto
quello che non corrisponde geometricamente alle dette idee, purchè
però sia naturale; ma anzi non può esser perfetto tutto quello
che vien ridotto e conformato alle dette idee, perchè non è
più conforme al suo [583]stato essenziale e primitivo. E dovunque
ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera imperfezione (quando anche
questa rimedii ad altri più gravi inconvenienti e corruzioni),
cioè discordanza dalla natura, e dall'ordine primitivo delle cose, il
quale era combinato in altro modo, e fuor del quale non v'è perfezione,
benchè questa non sia mai assoluta, ma relativa. La stretta precisione
entra nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non
si trovava nell'effetto. È necessaria ai nostri tempi, dove l'ordine
delle cose è corrotto, ed è come degnissimo d'osservazione
altrettanto evidente e osservato, che la stretta precisione delle leggi,
istituzioni, statuti governi ec. insomma delle cose, è sempre cresciuta
in proporzione che gli uomini e i secoli sono stati più guasti: ed ora
è venuta al colmo, perchè anche la corruzione è eccessiva,
e ha passato tutti i limiti. L'appresso a poco, il facilmente e
simili altre idee, non convengono ai sistemi presenti, dove nulla è, se
può non essere: convengono ottimamente [584]alla natura, dove
infinite cose erano, e potevano non essere, ma la natura aveva provveduto
bastantemente, quando avea provveduto che non fossero, e non erano in fatto.
Altrimenti come si sarebbe potuta corromper la natura, e l'ordine delle cose,
in quel modo in cui vediamo che ha fatto? Della qual corruzione, tutti,
più o meno, bisogna che convengano. Ma ciò non avrebbe potuto
accadere se tutto quello che era, non avesse potuto non essere, nè
essere nè andare altrimenti. Il qual effetto è lo scopo della
ragione e de' presenti sistemi, sempre diretti a rendere impossibile il
contrario, se il sistema appartiene alla pratica, e a dimostrare impossibile il
contrario, se il sistema appartiene alla speculativa.
Questa pure è una gran fonte di
errori ne' filosofi, massime moderni, i quali assuefatti all'esattezza e
precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, considerano e
misurano la natura con queste norme, credono che il sistema della natura debba
corrispondere a questi principii; e non credono naturale quello che non
è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, [585]si
può dir tutto il preciso non è naturale: certo è un gran
carattere del naturale il non esser preciso. Ma il detto errore è
fratello di quello che suppone nelle cose il vero, il bello, il buono, la
perfezione assoluta.
Nella natura e nell'ordine delle cose
bisogna considerare la disposizion primitiva, l'intenzione, il come le cose
andassero da principio, il come piaccia alla natura che vadano, il come
dovrebbero andare; non la necessità, nè il come non possano non
andare. Ed egli è certissimo che, sebben l'ordine delle cose andava naturalmente
nell'ottimo modo possibile, e regolarissimamente, contuttociò andava alla
buona; e la massima parte delle cagioni corrispondeva agli effetti sufficientemente
(che questo si richiede alla provvidenza dell'effetto voluto: la sufficienza
della causa), non necessariamente. E ciò non solo negli uomini, ma negli
animali, e in tutti gli altri ordini di cose. E perciò appunto si
trovano e accadono tuttogiorno nel mondo tanti inconvenienti, aberrazioni,
accidenti particolari contrari all'ordine generale: e non parlo già di
quelli soli che derivano da noi, ma di quelli indipendenti [586]affatto
dall'azione e dall'ordine nostro. I quali accidenti che si chiamano mali,
disastri, ec. danno tanto che fare ai filosofi, i quali non vedono come possano
aver luogo nell'opera della natura: ed alcuni sono stati così temerari,
che siccome la ragione nelle sue piccole opere si sforza di escludere la possibilità
d'ogni accidente particolare contrario a quel tal ordine generale; così
hanno creduto che se la ragione umana avesse presieduto all'opera della natura,
questi accidenti non avrebbero avuto luogo. Ma le dette imperfezioni accidentali
non entrano nel piano della natura, (sebbene neppur questo possiamo dire non
conoscendo l'intero ordine ed armonia delle cose): non ne sono però matematicamente
e necessariamente esclusi; e sono da lei quasi permessi, in quel modo come
dicono i Teologi che Dio permette il peccato, ch'è sommo male e imperfezione,
ma accidentale: e in ogni modo il piano, il sistema, la macchina della natura,
è composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e non
risponde all'esattezza matematica.
[587]Così dunque la
società veramente primordiale, e naturale alla specie umana, come a
quelle dei bruti, senza principato, senza soggezione, senza disuguaglianza,
senza gradi, senza regole, poteva benissimo corrispondere al fine, cioè
al comun bene, come vi corrisponde quella delle formiche: al qual fine non
può mai corrispondere una società più stretta e formata,
se manca di unità. Ma quella primissima società camminava alla
buona, e così alla buona conseguiva l'intento della natura, e la sua
destinazione. Nè per questo era necessario opporsi alla natura, e
introdurre una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione
nell'ordine delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità
ingenite ed essenziali dell'uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza
contrarie alla libertà ed uguaglianza naturale.
Che se le api hanno un capo, e quindi
soggezione e disparità, questo non fa obbiezione veruna. Tutto essendo
relativo, la natura che ha fatto gli uomini liberi e uguali, e così
infinite altre specie di animali; poteva far le api (e altre tali specie, [588]se
ve ne ha) disuguali e soggette. E siccome ella lo ha fatto, dando una superiorità
ingenita e naturale a certi individui di quella specie, sopra gli
altri individui; perciò, come lo stato dell'uomo e degli altri animali
non può esser perfetto senza libertà ed uguaglianza,
perchè queste sono naturali in loro; così per lo contrario lo
stato delle api non è perfetto senza soggezione e disuguaglianza,
perchè la loro specie è così fatta e ordinata da natura, e
la perfezione consiste nello stato naturale.
Negli uomini dunque non c'è nulla di
simile, nè si può dedur nulla in proposito loro, dall'esempio
delle api. Perchè le piccole (certo piccole in proporzione della disparità
delle api), dico le piccole disparità o superiorità di forze, di
statura, d'ingegno ec. che s'incontrano negli uomini, sono disparità o
superiorità accidentali, e provenienti da cause subalterne; come sono
inferiorità accidentali quelle che vengono da malattie, da cadute,
disgrazie d'ogni genere ec. Sono dico accidentali queste o superiorità,
o inferiorità, cioè non sono regolari, e non appartengono all'ordine
primitivo, costante, invariabile, [589]essenzale della specie, come la disparità
delle api. Che se queste tali superiorità dessero a chi le possiede, un diritto
di comandare e di essere ubbidito, 1. dove molti le possedessero in ugual grado,
o non si saprebbe a chi ubbirire, o tutti quei tali dovrebbero comandare, ed
ecco svanita l'idea dell'unità: 2. dove non ci fosse disparità
nessuna, il principato non sarebbe naturale, dove ci fosse, sarebbe naturale:
3. e di più siccome le disparità possono nascere accidentalmente
in diversi tempi, perciò in una stessa società anzi generazione
di uomini, oggi non sarebbe naturale il principato, domani sì: 4. il
fanciullo futuro superiore di forze ec. siccome ancora non è tale, e
forse non diverrà tale, se non per cause accidentalissime, e
imprevedibili; così non avrebbe ancora nessun'ombra di quel diritto al
comando, che avrà poi per natura: 5. questo diritto supposto
naturale, non dovrebbe tuttavia durare se non quanto durasse la
superiorità in quello o in quei tali; sicchè questi perdendo il
vigore del corpo, o dell'ingegno, o dell'animo, la virtù, il coraggio
ec. per malattie, per disgrazie, per circostanze, per cangiamento e corruzione
di [590]opinioni, di costumi ec. per abuso fatto del corpo, o in ogni
modo invecchiando, il che è inevitabile; perderebbero essenzialmente non
solo in fatto ma in diritto quel comando, che si suppone avessero naturalmente
e per se. V. p.609. capoverso 1. Insomma gli accidenti sono del tutto fuori
d'ogni considerazione, intorno all'ordine primitivo e stabile, e alla natura di
qualunque cosa.
(29-31 Gen. 1821.)
Del resto quanto sia facile, ovvia, e
primitiva l'idea che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata,
e che declini dalla primissima forma di società, comune si può
dire a tutte le specie di viventi, è necessaria l'unità,
cioè un capo, e questo veramente uno, cioè assoluto, si
può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in ogni genere di
società, pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di
cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia destinata
tutta insieme a un oggetto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire un uomo di
nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una compagnia di
negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno [591]mediante
un capitale comune e indivisibile (cioè un panorama), dava questo consiglio:
Sceglietevi e riconoscete un capo, e ubbiditelo in tutto. (che altro
è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia
assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui,
cosa contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà
pregiudizio all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà
pregiudicato, e la discordia (cioè il contrario dell'unità)
v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). V. p.598. capoverso 1.2.3.
Quod si hoc apparet in bestiis, volucribus,
nantibus, agrestibus, cicuribus, feris, primum ut se ipsae diligant; (id enim
pariter cum omni animante nascitur) (dunque Cicerone riconosceva le bestie per
dotate di libertà) deinde, ut requirant, atque appetant, ad quas se
applicent, eiusdem generis animantes; idque faciunt cum desiderio, et cum
quadam similitudine amoris humani: quanto id magis in homine fit natura, qui et
se ipse diligit, et alterum anquirit, cuius animum [592]ita cum suo
misceat, ut efficiat paene unum ex duobus? Cic. Lael. sive de Amicit. c.21.
fine.
Della nostra naturale inclinazione di
partecipare agli altri le nostre alquanto straordinarie sensazioni o piacevoli
o dispiacevoli, v. un luogo insigne di Cic. (Lael. sive de Amicit. tutto il
c.23.) il qual passo, io credo che sia stata la prima fonte di questa
osservazione, tanto familiare e nota ai moderni.
(31. Gen. 1821.)
Cic.
Lael. sive de Amicit. c. II. Quod si rectum statuerimus, vel concedere amicis,
quidquid velint, vel impetrare ab iis, quidquid velimus, PERFECTA QUIDEM
SAPIENTIA SIMUS, SI NIHIL HABEAT RES VITII; sed loquimur de iis amicis, qui
ante oculos sunt, quos videmus, aut de quibus memoriam accepimus, aut quos
novit vita communis. Leggi si perfecta q. s. simus, nihil h. r. v. come
richiede evidentemente il senso, che altrimenti zoppica, e sibi non constat.
(31. Gen. 1821.).
Communicare per particeps
fieri, essere, o venire a parte, del qual significato il Forcellini [593]non
reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità ed autorità
(l'Appendice nulla) si trova presso Cicerone: (Lael. sive de Amicit. c.7.) Itaque,
si quando aliquod officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut communicandis,
(cioè nel prender parte ai pericoli dell'amico) quis est, qui id non
maximis efferat laudibus? V. un non so che di simile nella Crusca.
Alla
p.307. Quid autem interest, ab iis, qui postea nascentur sermonem fore de te,
cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sint, qui nec pauciores, et certe meliores
fuerunt viri? L'Affricano maggiore al minore, presso Cicerone, Somn.
Scipion. c.7. V. p.643. capoverso 3.
Quid autem est horum in voluptate?
melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis
voluptatibus gloriando sese, et praedicatione effert? (Cic. Paradox. I. c.3.
fine) Oggi sibbene, o M. Tullio, nè c'è maggior gloria per la
gioventù, nè scopo alla carriera loro più brillantemente,
manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di ottener lode e
stima più sicuro e comune, che quello [594]di seguire e
conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della
gioventù, non è altro che la voluttà, e il trionfo e la
gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione, e che sa e
può godere e immergersi nei vili piaceri più degli altri. Le
voluttà sono lo stadio della gioventù presente: tanto che
già non si cercano principalmente per se stesse, ma per la gloria che
ridonda dall'averle cercate e conseguite. E se non di tutte le voluttà
si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento medesimo, in cui
le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade tuttogiorno
ancor questo) certo desidererebbe di poterlo fare, di aver testimoni del suo
godimento: anzi questo godimento consiste per la massima parte nella
considerazione e aspettativa del vanto che gliene risulterà: e subito
dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e vantarsi della voluttà
provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a nuove voluttà;
e colla certezza di nuocere, tradire, essere [595]ingiusto e ingrato
verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che cercava. E sebbene
certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo rende
però più lodevole agli occhi della presente generazone, il che tu
o Marco Tullio, sti mavi che non potesse avvenire.
(1 Feb. 1821.)
Quella frase o metafora nostra volgarissima
e familiare di cuocere per molestare, travagliare, tormentare, e
affligger l'animo (così la Crusca v. Cuocere §.3.), fu parimente
presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne' più antichi.
O Tite, si quid ego adiuvero, CURAMQUE levasso,
QUAE nunc
TE COQUIT, et versat in pectore fixa,
Ecquid erit pretii?
Ennio presso Cicerone (Cato maior seu de
Senect. c.1.) Il Forcellini ne porta anche altri due esempi, l'uno di Virgilio,
l'altro di Stazio. L'Appendice nulla.
JJ. L'ignoranza
fa l'uomo pronto, [596]la considerazione ritenuto; L'ignoranza fa
che l'uomo si risolva facilmente, la ragione difficilmente. In latino
traducono così: Inscitia quidem audaciam, consideratio autem tarditatem
fert. Sentenza di Tucidide, lib.2. nell'orazione funebre detta da Pericle,
che incomincia, J . Sentenza
celebre presso gli antichi. Luciano: (in Epist. ad Nigrinum, quae praemittitur
Nigrino, seu de Philosophi moribus) (scamperò) , J J, . Imperitia
audaces, res autem considerata timidos efficit. Plinio (Epist. IV. 7.): Hanc
ille vim, (seu quo alio nomine vocanda est intentio quicquid velis obtinendi)
si ad potiora vertisset, quantum boni efficere potuisset? quamquam minor vis
bonis, quam malis inest, ac sicut J J, , ita
recta ingenia debilitat verecundia, perversa [597]confirmat
audacia. S. Girolamo: (Epist. 126. ad Evagr.) (così è numerata
nella mia ediz. t.3. p.31. a.) Tuum certe spiritualem illum interpretem non
recipies; qui imperitus sermone et scientia, tanto supercilio et auctoritate
Melchisedek Spiritum Sanctum pronunciavit, ut illud verissimum comprobarit,
quod apud Graecos canitur: imperitia confidentiam, eruditio timorem creat.
Stupeo, o stupesco, stupefacio,
stupefio, stupidus, ec. coi composti, non solo si sono conservati
materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben
questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il
significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite
altre parole delle quali resta quasi il corpo e non l'anima, tuttavia la nostra
lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di
stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia
registrata nella Crusca.
(1. Feb. 1821.)
[598]Alla p.591 Igitur initio
reges (nam in terris nomen imperii id primum fuit) (cioè, il
primo governo, le premier pouvoir, come traduce Dureau-Delamalle, la
più antica signoria, come traduce Alfieri, fu regia, vale a dire
assoluta) diversi, pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita
hominum sine cupiditate agitabatur, sua cuique satis placebant.
(Cioè, l'egoismo non turbava l'ordine pubblico). Sallustio, Bell.
Catilinar. c.2.
Ius bonumque apud eos, (i romani de' primi
tempi della repubblica) non legibus magis quam naturâ valebat.
Sallustio, Bell. Catilinar. c.9.
Regium imperium, quod initio conservandae
libertatis atque augendae reipublicae fuerat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.6.
fine.
At populo romano nunquam ea copia fuit,
(praeclari ingenii scriptorum) quia prudentissimus quisque (cioè, ceux
qui avaient le plus de lumières, Dureau-Delamalle, qual
più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume erat: ingenium nemo
sine corpore exercebat: (luogo degno di essere riportato qualunque volta io
discorrerò di questa materia) optimus quisque facere quam dicere, [599]sua
ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare, malebat. Sallustio,
Bell. Catilinar. c.8. fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam
ducem, tanquam deum, sequimur, eique paremus... Quid enim est aliud, gigantum
modo bellare cum diis, nisi naturae repugnare? Cic. Cato mai. seu de Senect.
c.2. Sentenze attissime o congiunte o separate, a servire di epigrafe o motto a
qualche mio libro. V. p.601 capoverso 1.
Alla p.291. margine. Nemo enim est tam
senex, qui se annum non putet posse vivere. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.7.
fine. E lo dice in proposito dei contadini che seminano ancorchè
vecchissimi per l'anno futuro.
Qual cosa è più lontana dal
noto e comune significato del verbo latino defendere, quanto il
significato di proibire nel francese défendre, nello spagnuolo defender
e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il significato proprio
e primitivo del latino defendere (admodum propria et Latina huius
verbi significatio, [600]ut ait Gell. l.9. c.1. dice il Forcellini)
è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione
francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello,
propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di
diverse età di scrittori. Ora, come il verbo prohibeo, che ha
questa medesima significazione, aveva ancora presso i latini espressamente
quella di proibire o défendre (v. il Forcellini) così
è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non presso i
noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato
al sopraddetto. In ogni modo è chiaro [che] l'uso del defendere
in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva
dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale,
se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente
nelle origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza
della conservazione costante di quell'antichissimo significato, non più
noto agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e
che si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non [601]avessimo
questa prova della sua costante conservazione fino all'ultima età della
lingua latina.
(2 Feb. 1821.)
Alla p.599 Omnia vero, quae secundum naturam
fiunt, sunt habenda in bonis. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.19. in proposito
della morte dei vecchi.
(3. Feb. 1821.)
Cic. Cato mai. seu de Senect. c.23. Et ex
vita ita discedo, tamquam ex hospitio, non tamquam ex domo. Il contesto
vuol che si legga: At ex vita.
Quid
enim habet vita commodi? quid non potius laboris? Sed habeat sane: habet certe
tamen, aut satietatem, aut modum. Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod
multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque me vixisse poenitet; quoniam ita
vixi, ut non frustra me natum existimem. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.23. in
persona di Catone.
La mente nostra non può non solamente
conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia. Al di
là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera
di essere, una cosa diversa dal nulla. Diciamo che l'anima nostra è
spirito. La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne
concepisce altra idea, se non questa, ch'ella ignora che cosa e quale e come
sia. Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che
gli antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco da , e in
latino spiritus da spiro: ed anche anima presso i latini
si prende per vento, come presso i greci derivante
da , flo
spiro, ovvero refrigero); immagineremo una fiamma; assottiglieremo
l'idea della materia quanto potremo, per formarci un'immagine e una
similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla
sostanza medesima non arriva nè l'immaginazione, nè la concezione
dei viventi, di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale,
giacchè finalmente è l'anima appunto e lo spirito che non
può concepir se stesso. In così perfetta oscurità pertanto
ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con
che [603]fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire
che l'anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e
perciò non può perire? Chi ce l'ha detto? Noi vogliamo l'anima
immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo
e vediamo operati dall'anima. Sia. Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui
si spengono tutti i lumi. Che vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza
immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e quasi che
l'avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare ch'ella è del
tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere
immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi?
E quindi esservi gli elementi immateriali de' quali sieno composte le
dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali. Fuor
della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l'affermazione sono
egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l'immateriale
è indivisibile? Forse l'immateriale, e l'indivisibile nella nostra mente
sono tutt'uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente
ho già dimostrato come l'idea delle parti non ripugni in nessun modo
all'idea dell'immateriale. Secondariamente, se l'immateriale è indivisibile
e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le
sostanze immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte?
Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno
una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi
dire che l'anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza
sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si
può sciogliere, così anche perchè non si può
comporre, non potrà cominciare. Meglio quei filosofi antichi i quali
negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente
che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state. Il fatto sta
che l'anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come
tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi
nell'anima [605]diversissime facoltà? la memoria, l'intelletto,
la volontà, l'immaginazione? Delle quali l'una può scemare, o
perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l'anima.
Delle quali altri son più, altri meno forniti: come dunque la sostanza
dell'anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti
dell'anima. Primo, l'anima stessa non ci è nota, se non come una
facoltà. Secondo, se l'anima è perfettamente semplice, e, per maniera
di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti, e a tutta se stessa,
come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando
un'altra, e continuando ad essere? Come può accader questo, se noi
pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam
admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit,
non posse interire? (Cic. Cato mai. seu de Senect. c.21. fine, ex Platone.)
V. p.629. capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà
e [606]forza di un Padrone dell'esistenza, non c'è ragione veruna
perchè l'anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante
l'immaterialità debba essere immortale; non potendo noi discorrere in
nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo
nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della
materia, una proprietà piuttosto che un'altra, una maniera di esistere,
la semplicità o la composizione, l'incorruttibilità o la corruttibilità.
(4. Feb. 1821.)
Cum proelium inibitis, (moneo
vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque
patriam in dextris vestris portare. Parole che Sallustio (B. Catilinar.
c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell'esortazione ai soldati prima della
battaglia. Osservate la differenza dei tempi. Questa è quella figura
rettorica che chiamano Gradazione. Volendo andar sempre crescendo,
Sallustio mette prima le ricchezze, poi l'onore, poi la gloria, poi la libertà,
[607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte
le cose. Oggidì, volendo esortare un'armata in simili circostanze, ed
usare quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria,
che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il
più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo
neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all'amor
proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l'onore, del quale si suole
aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente
le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto
si sacrifica e s'ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido
secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di tutti
questi beni il solo capace di stuzzicar l'appetito, e di spinger davvero a qualche
impresa anche i vili.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.465. Bisogna combattere ad armi
uguali, chi non vuol restare sicuramente inferiore. Dunque [608]tutto il
mondo oggidì essendo armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda
della medesima arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far
qualche cosa.
Alla p.570. principio. Perchè come
gli oligarchi e gli ottimati a forza di fazioni, di clientele, di largizioni,
di artifizi di ogni sorta, hanno vinto la plebe in cui risiedeva il potere, e
l'hanno vinta colle forze comuni: così questi pochi nei quali risiede
ora il potere; mediante l'egoismo e la ,
inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo, non
si accordano neppure intorno agl'interessi comuni di questa piccola
società, il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando
il ben proprio, si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si
suddivide di nuovo per gli stessi motivi; finattanto che più presto o
più tardi, la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale
essendo indivisibile, finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609]una
forma stabile. Così accadde in Roma. Gli uomini chiari per gloria
militare o domestica, per ricchezze, potere, eloquenza ec. esercitavano
già una specie di oligarchia, quando questa, abbassati tutti gli altri,
si venne a ristringere nei primi Triumviri, finattanto che Cesare tolti di
mezzo gli altri triumviri, ristrinse tutto in lui solo. Così nel secondo
triumvirato.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.590./6. Anche durando in quel tale
che si suppone monarca per diritto di natura, tutte le qualità che gli
davano questo diritto; posto il caso che un altro membro di quella medesima
società, arrivasse o coll'età, o coll'esercizio del corpo o dello
spirito ec. ec. a possedere quelle stesse qualità in maggior grado, o
anche maggiori, o più numerose qualità; il primo monarca perderebbe
il suo diritto che si suppone naturale, alla monarchia, e non solo ancora vivendo,
ma essendo ancor tale, quale incominciò a regnare, e per se medesimo in
tutto e per tutto lo stesso, a ogni modo non dovrebbe più [610]regnare.
(4. Feb. 1821.)
Neanche l'amor proprio è infinito, ma
solamente indefinito. Non è infinito, dico io non già secondo
l'origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le
sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè
contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l'infinità.
Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e
l'amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè
per estensione, contuttociò l'animo umano o di qualunque vivente non
è capace di un sentimento il quale contenga la totalità
dell'infinito, e in questo senso dico io che l'amor proprio non è
infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l'animo
nostro abbia niente d'infinito, non più che quello di qualsivoglia
animale. E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla
infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata [611]infinità
dell'amor proprio. Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita
capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e
inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito amor del piacere, il
quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor proprio infinito, o
senza limiti nè misura.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.112. Prima di Gesù Cristo, o
fino a quel tempo, e ancor dopo, da' pagani, non si era mai considerata la
società come espressamente, e per sua natura, nemica della virtù,
e tale che qualunque individuo il più buono ed onesto, trovi in lei
senza fallo e inevitabilmente, o la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi.
E infatti sino a quell'ora, la natura della società, non era stata
espressamente e perfettamente tale. Osservate gli scrittori antichi, e non ci
troverete mai quest'idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo
nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani. Anzi (ed
avevano [612]ragione in quei tempi) consideravano la società e
l'esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di rendere
virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma il buono e la società, non
solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente amiche e compagne.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.535. fine. Così anche il
piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto
speranza; cioè l'atto del piacere della speranza, cammina in quel
medesimo modo che ho notato nell'atto del piacere presente, o della rimembranza
o considerazione del piacere passato.
(5. Feb. 1821.)
Non è veramente furbo chi non teme, o
presume e confida con certezza, di non poter essere ingannato, trappolato ec.:
perchè non conosce dunque e non apprezza a dovere le forze della sua
stessa furberia.
E per la stessa ragione non è sommo
in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da
non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto
quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e [613]distintivi
dell'uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui.
Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque
(ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e
valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la
sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della
perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono
così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente
posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia
facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che
si crede perfetto. In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona
professione: e l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza
se stesso. Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri
cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione
stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano
dall'uguaglianza, e riabbassa sempre più l'idea di se stesso.
(5. Feb. 1821.)
[614] , .
Isocrate, . Detto
convenientissimo a quasi tutti i padri, le madri, e gli educatori de' nostri
tempi.
(5. Feb. 1821.)
È cosa notabile come l'uomo
sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata
la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a
quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e
senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli
che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per
vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di
nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse
nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari
altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di
rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, ossia
scopo, e speranza, senza [615]i quali la vita non è vita, non si
conosce, manca del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova
in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi,
(ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se
stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel
servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho
detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio
ec. tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è
più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è
stato mai animato verso il bene altrui così sensibilmente. E ciò
accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che
avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini
stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra nell'animo
suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in
non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e
non è più capace della felicità, senza cui la vita manca
del suo fine, e scopo. E il desiderio e la cura [616]e la speranza della
felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria,
riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non
più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità
altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo. E l'animo dell'uomo
che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto,
risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè
nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei corpi
di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici
spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue proprio, e restituivano ad
una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale;
quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più
vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una
persona, per se stessa inetta a vivere.
Ed è anche una cagione del detto
effetto, quella ch'io son per dire. L'uomo che sebbene disperato, non
perciò si odia (cosa che avviene per [617]lo più, non mica,
come parrebbe, prima che l'uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente,
ed inutilmente odiato, e così l'amor proprio, tentato ogni mezzo di
soddisfarsi, resta del tutto mortificato, e l'animo esaurito d'ogni forza, si
riduce alla calma, e alla quiete dello spossamento, e perde affatto la capacità
di ogni sentimento vivo) l'uomo dico il quale senza odiarsi, solamente
considera se stesso, e la vita sua come inutile, prova una compiacenza e
soddisfazione, una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se
stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe più a nulla; e l'uso
qualunque di se stesso e della vita, gittata già come cosa inutilissima,
sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia più capace
d'illusioni, nè di credersi buono a gran cose; tuttavia lo conforta, rappresentandolo
a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro (e piuttosto) col
pensiero di avere almeno adoprato, e non gittato affatto, quell'avanzo di
esistenza, e di forza viva e materiale.
(5. Feb. 1821.).
[618]Vedendosi esclusi essi dalla
vita, cercano di vivere in certo modo in altrui, non per amor loro, e quasi
neanche per amor proprio, ma perchè, sebben tolta la vita, resta
però loro l'esistenza da occupare e da sentire in qualche maniera.
(6. Feb. 1821.)
La disperazione della natura è sempre
feroce, frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna,
ma la vuol vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria
morte ec. Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo,
perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana,
o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a
vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità
riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva dalla prima, in quel modo che
ho spiegato di sopra p.616. fine, 617. principio, tuttavia non è quasi
propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e
singolarmente propria de' tempi moderni. Ed ora infatti, si può dir che
qualunque ha [619]un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha
l'esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e
giunti a un'età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino alla
morte in questo stato di tranquilla disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto
agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata.
Conseguenza della prima disperazione è l'odio di se stesso,
(perchè resta ancora all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi
odiare) ma cura e stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo
e l'indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore
(perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di
odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non
porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando
le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso
dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva,
desiderativa ec. insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi
perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi tutta
l'elasticità delle [620]molle e forze dell'anima. Ordinariamente
la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di
tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole
pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l'opposto, ma per
una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la quale porta
l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o
quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo suo
finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo
è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli
antichi erano frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può
facilmente vedere quanto debba guadagnare l'attività, la varietà,
la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire,
i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di
azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6. Feb. 1821.)
Floro IV. 12. verso la fine: Hic finis
[621]Augusto bellicorum certaminum fuit: idem rebellandi finis
Hispaniae. Certa mox fides et aeterna; CUM IPSORUM INGENIO IN PACIS PARTES
PROMTIORE: tum consilio Caesaris. Dopo aver letto tutto ciò che
Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli II. 17. 18. III. 22. e
in quel medesimo capo che ho citato, nelle cose che precedono immediatamente il
riferito passo; (notate che Floro, si crede per congettura dai critici, oriundo
Spagnuolo) considerando l'assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel
luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a
dire che la Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium
dijudicari non potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et
uter populus alteri pariturus foret; (II.90 sect.3.) dopo, dico, tutto
questo e le altre infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo
antico e moderno, fa maraviglia che Floro chiami l'indole [622]e
l'ingegno degli Spagnuoli, promtius in pacis partes. Ma questa è
appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli scrittori
filosofici moderni, massime stranieri. Somma disposizione all'attività,
ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed
a trovar piacevole e cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti alla
mollezza, e all'inerzia. Tante risorse trovano questi popoli nella loro
immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è
occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all'esterno. Leur vie n'est qu'un rêve, dice la Staël. Tanta è l'attività della loro
anima, che questa come è capacissima di condurli ad una somma
attività nel corpo (anzi alla sola vera attività esterna,
perchè la sola che abbia il suo principio nell'attività
interiore, come si vede nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali,
che sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che come
viventi) così anche li dispensa dall'attività del corpo, e ne li
compensa, ogni volta che questa manca: trovando essi bastante vita nel [623]loro
interno, nel loro individuo. Anzi questa proprietà, pregiudica bene
spesso all'attività esterna, e per una soprabbondanza di vita interiore
rende il mezzogiorno rêveur, indolente, insouciant
(quantunque, offerta l'occasione, l'attività del corpo, ch'è
l'effetto dell'entusiasmo e dell'immaginazione, o che allora è forte e
viva, quando proviene da questi principii, prorompe vivamente; eccetto se
l'assuefazione non ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l'italiano). Ailleurs, c'est la vie qui, telle quelle est, ne suffit
pas aux facultés de l'ame; ici, (parla
dei contorni di Napoli) ce sont les facultés de l'ame qui ne suffisent pas
à la vie, et la surabondance des sensations inspire une rêveuse
indolence dont on se rend à peine compte en l'éprouvant. (Staël,
Corinne l. II. ch.1. Paris 1812. 5me
édit. t.2. p.176.) Così infatti vediamo accaduto negl'italiani
terribili anticamente, ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e
negligentissimi, e nulla curanti di novità e di movimento nella pace.
Così negli [624]Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell'ultimo
secolo, e fortissimo guerriero e belligero nei due precedenti; e così
anticamente bellicosissimo, o certo valorosissimo in difendersi fino ad
Augusto; e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e
similmente nel principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo
e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo nazionale,
e vivissima, e generale, ed atrocissima. Così nei francesi valorosi in
guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacchè
anche questo effetto deriva dalle stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi
naturalmente, con tutto ciò obbligati dalle circostanze, all'inazione
esterna, la suppliscono e compensano ed occupano intieramente, con una vivissima
azione interna. E per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei
detti popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di
bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita all'anima:
e per conseguenza non deriva, [625]non si fonda, non è
sufficiente all'uomo, se non in forza dell'energia, dell'immaginazione, delle
facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l'opposto accade nei Settentrionali,
bisognosi di attività e di movimento e di novità e varietà
esterna, se vogliono vivere, giacchè non hanno altra vita, mancando
dell'interna. E perciò in apparenza molto più attivi degli altri
popoli, ma in realtà, e se vince la naturale tendenza ed indole,
torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred'io, mettere
insieme coi meridionali in questo punto.
(7. Feb. 1821.)
Lo scopo dei governi (siccome quello
dell'uomo) è la felicità dei governati. Forse che la
felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa cosa? Hanno
sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e pretendono
che costassero all'umanità molto più sangue e molte più
vite, che non costano i governi ordinati e regolari e monarchici,
ancorchè guerrieri, ancorchè tirannici. Sia pure: che ora non
voglio contrastarlo. [626]Orsù, ragguagliamo le partite,
dirò così, delle vite. Poniamo che negli stati presenti, che si
chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro, 70 anni l'uno:
negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero 50 soli anni,
a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno. E che quei
70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in qualsivoglia condizione individuale,
che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di
attività e varietà ch'è il solo mezzo di felicità
per l'uomo sociale. Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale
dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità pubblica
e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini?
cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in
natura, tal qual ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee,
di ordine, e perfezione matematica. Oltracciò domando: la somma vera
della vita, dov'è maggiore? in quello stato dove ancorchè gli
uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe
(com'è realmente) esistenza, ma non vita, [627]anzi nel fatto, un
sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè
più breve, tutta però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una
parte 100 anni di esistenza, e dall'altra non più che 40, o 30 di vita,
la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non
contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? Questi sono i veri calcoli
convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar le cose, ma le pesi, e
ne stimi il valore. E non faccia come il secco matematico che calcola le
quantità in genere e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e
qualità, e natura, e peso, e forza specifica e reale.
Aggiungo poi questo ancora. Nego che la
mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza.
Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de' principi, e non
cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i
disordini e le turbolenze di un popolo libero. Dico che la vitalità
negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare
abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da
preponderare, [628]e far pendere la bilancia dalla parte della vita:
brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che
nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che
potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli
stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della
vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di
quelli o simili stati, non può esser tanta. Gli esercizi e l'attività
continua del corpo primieramente, e poi (che non poco, anzi sommamente
contribuisce al ben essere fisico, e alla durata della vita) gli esercizi ed
attività dell'anima, la varietà, il movimento, la forza delle
azioni ed occupazioni, la rarità della noia, dell'inerzia ec. conseguenze
necessarie degli stati antichi, erano cause così grandi e certe di
vitalità, come sono grandissime e certissime cause di mortalità
(e mortalità ben più vasta, insita, e necessaria che non quella
che deriva dalle turbolenze) i contrari delle predette cose, e nominatamente la
mollezza, il lusso, i vizi corporali e spirituali ec. ec. conseguenze tutte
necessarie degli stati presenti: insomma la corruzione fisica e morale, la
continua noia, o mal essere [629]dell'animo ec. Così che non
è vero che le cagioni di morte (e così dico, le cagioni di
miserie, di sventure, dolori ec.) fossero maggiori anticamente, anzi all'opposto
sono maggiori oggidì. Ed intendendo anche per vita, l'esistenza
strettamente, si viene a conchiudere che la somma di questa, era maggiore negli
antichi governi, e a causa degli antichi governi, che ne' presenti, e a causa
de' presenti.
(8. Feb. 1821.)
Alla p.476. Vedi il ritratto di Silla in
Sallustio Bell. Iugurthin. c.99.
Alla p.605. fine. Ma quando anche si
supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch'egli
non possa perire. Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per
poter pronunziare s'egli è immortale o mortale? Non c'è che una
maniera di perire, cioè il disciogliersi? Nella materia non ce
n'è altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma
parimente non conosciamo altra maniera d'essere che quella della materia. Se
una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]ignota e
inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e
inconcepibile all'uomo. Dico può perire, non dico perisce, perchè
non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce,
ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo,
ed ella non può perire come la materia. Dico può perire, perchè
non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di
perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile
all'uomo) una tal morte, che una tale esistenza. Tutte due sono ugualmente
fuori della nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di
là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se
la semplicità è principio necessario d'immortalità,
neanche la materia può perire. Se la materia è composta,
sarà composta di elementi che non sieno composti. Non cerco ora se
questi elementi sieno quelli de' chimici, o altri più remoti e
primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e
fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se
quidquam admistum dispar [631]sui, atque dissimile. Queste
sostanze dunque, se non c'è altra maniera di perire, fuorchè il
risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno
perire. Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e
quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte
le parti sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza. Bene; ma queste parti
come possono perire? - Anch'esse avranno parti, finattanto che sono materia -
Or via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si
arriverà mai a fare ch'elle non abbiano altre parti, e non sieno materia
(come certo non si arriverà); neanche si arriverà a fare che la
materia perisca. Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime
parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto
lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente,
cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito:
chè dall'esistenza nel nulla, come dal nulla nell'esistenza, non si
può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere
semplicissimo e senza parti, non c'è maggior principio nè ragione
d'immortalità, di quello che sia nella materia, e nell'essere il
più composto possibile.
Ma se per principio d'immortalità in
un ente semplice e senza parti, intendono l'impossibilità di cangiar
natura, e per perire non intendono l'annullarsi, giacchè neanche la
materia si può naturalmente annullare, e tanta materia esiste oggi nè
più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il
risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle
quali la materia e qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non
possono neppur esse risolversi, nè cangiar natura, ancorchè
divise in quante parti, e quanto menome si voglia. E la quantità di
queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle primitive
sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia,
esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che
sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella sostanza
sarà sempre della stessissima natura. In maniera che anche per questa
parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può
contenere [633]maggiore immortalità, cioè
immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i
quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente
esistere.
(9. Feb.
1821.)
Quand on
est jeune, on ne songe qu'à vivre dans l'idée d'autrui: il faut établir
sa réputation, et se donner une place honorable dans l'imagination des autres,
et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n'est point
réel; ce n'est pas nous que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre
âge, nous revenons a nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons
à nous consulter et à nous croire. Mme. la Marquise de Lambert,
Traité de la Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes,
Paris 1808. 1re édit. complète. p.150. Il vient un temps dans
la vie qui est consacré à la vérite, qui est destiné à connoître
les choses selon leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout.
Alors nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous
consulter [634]et à nous croire sur notre bonheur. Ib. p.153.
Queste riflessioni sono osservabili. Non solo nella vecchiezza, ma nelle
sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato
nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e
la sua felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da
lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo.
Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma
trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il
piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può, cerca la sua
felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla
società, e però dipendenti dagli altri. Questo è
inevitabile. Solamente o principalmente l'uomo sventurato, e massime quegli che
lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la
sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e
insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e dai vantaggi che ci
risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o sperare.
Forse per questo, o anche [635]per questo, si è detto che l'uomo
che non è stato mai sventurato non sa nulla. L'anima, i desideri, i
pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine
non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero.
Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i
suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazioni colle
cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle riposte in lui
solo. Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo
sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e
cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può
somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione).
Ma altre illusioni, forse più savie perchè meno dipendenti, e
perciò anche più durevoli, sottentrano a quelle relative alla
società. E questo è in somma quello che si chiama contentarsi di
se stesso, e omnia tua in te posita ducere, con che Cicerone (Lael. sive de
Amicit. c.2.) definisce la sapienza. Un sistema, [636]un complesso, un
ordine, una vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro.
(9. Feb. 1821.)
«La solitude» dit un grand homme, «est l'infirmerie des ames.» Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153. fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher. Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.145. alla
metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun
giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione,
che sono l'unico nostro avere. L'esperienza e la verità ci spogliano
alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti. Non si vive se non
perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla
vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco
del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo e sventuratissimo,
ha più del giovane più fortunato; il giovane è più
ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza.
Ma Mad. Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite
così dette reali, che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente,
così nulla si può perdere. Bensì quel detto è vero
per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e [637]dello
spirito umano, e della società.
(10. Feb. 1821.)
Io non soglio credere alle allegorie,
nè cercarle nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze
del volgo. Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era
felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità
provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso,
e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose,
della nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della
felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto
significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non
sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura
dell'uomo e di questo mondo. V. quest'allegoria notata, e sebbene non
profondamente, tuttavia bastantemente spiegata nel morceau détaché di Mad. Lambert intitolato Psyché en grec. Ame.
(così) dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus p.284-285. E forse
l'allegoria sopraddetta sarà stata osservata anche dagli altri, e
così credo. Certo è che, o la non la significa nulla, o significa
quel ch'io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con
altro sistema la non si spiega. Del resto combinando quest'osservazione, col
racconto della Genesi, [638]dove l'origine immediata della
infelicità e decadimento dell'uomo, si attribuisce manifestamente al
sapere, come ho dimostrato altrove; mi si fa verisimile che in somma queste
gran massime: l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero
è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura,
ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più
perfetta o perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente
note, ma proprie, e quasi fondamentali dell'antichissima sapienza, se non altro
di quella arcana e misteriosa, come l'orientale, e come l'egiziana dalla quale
è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza
greca.
(10. Feb. 1821.)
Vorranno i puristi che quando manca alla
lingua nostra il vocabolo di una tal cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o
adottarne uno straniero, o derivarne uno da lingue antiche, si usino
circollocuzioni. Lascio quanto le circollocuzioni troppo frequenti (e converrebbe
che fossero frequentissime) tolgano di grazia, di forza, di proprietà,
di rapidità al discorso, ed inceppino, ritardino, [639]impaccino,
infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque caso. Ma dico primieramente
che si daranno infinite occorrenze, dove una di quelle cose che non hanno
vocabolo italiano, accada di esprimerla frequentissimamente, tratto tratto,
più volte nello stesso periodo. Ora quando a grande stento si
sarà trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che
sarà spesso necessario ch'ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto,
e in un periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n'è
trovata una che equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non
ha più la stessa forza, e non dice tutto, non esprime più quella
tale idea, se non è tutta distesa ed intera? Una parola si adatta a
prendere tutte le positure, s'introduce da per tutto, si maneggia facilmente,
speditamente, e a beneplacito. Ma una circollocuzione, un corpo grosso e
disadatto, che se non ha tanto di luogo, non può entrare o giacere, come
troverà sito, dirò così, in quelle pieghe, in quei
cantoni, in quegli spicoli, in quegli spazietti, [640]in quei passaggetti,
in quelle rivolte (rivolture, rivoltatine, che in tutti questi modi si
può dire, come dice il Firenzuola, le rivolture degli orecchi) in
quelle giratine, in quelle tortuosità, in quelle angustie e stretture
del discorso o del periodo, così frequenti, dove spessissimo
vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed entrerebbe la parola,
la circollocuzione non già?
Dico in secondo luogo che infinite cose vi
sono, le quali non si possono esprimere mediante veruna circollocuzione.
Verbigrazia quello che i francesi intendono così spesso per la parola génie
(usata nello stesso senso dal Magalotti, come dice il Monti nella Biblioteca
Italiana). Come esprimere per circollocuzione quello che non si può
definire? Dove manca la facoltà della definizione, manca parimente della
circollocuzione. E queste tali cose che s'intendono chiaramente, facilmente, e
pienamente, per via di una parola convenuta, ma non si potrebbero nè
definire adequatamente, nè dare ad intendere per nessuna
circollocuzione, sono infinite in ogni genere, massimamente poi nelle materie
filosofiche della natura ch'elle sono oggidì, nelle materie astratte ec.
Ed è ben naturale, [641]perchè le parole son fatte per le
cose: a quella tal cosa, corrisponde quella tal parola; altre parole,
ancorchè molte non corrispondono. Sussiste la cosa, sussiste l'idea,
sussiste la maniera di significarla e definirla, ma quella maniera, quel mezzo,
e non altro.
Ogni volta che qualunque disciplina o
cognizione, o speculazione umana, ma specialmente la filosofia, e la metafisica
che considera i principii e gli elementi delle cose, i quali poco o nulla
cadono nel sermone e nell'uso comune, le intimità, i secreti, le parti
delle cose rimote e segregate dai sensi e dal pensiero dei più; ogni
volta, dico, che questa ha ricevuto qualche incremento, o preso qualche nuovo
sentiero, o cercata o trovata qualche novità, è stata necessaria,
ed effettivamente adoperata la novità delle parole in qualunque lingua.
Lascio la latina che prima di Lucrezio e Cicerone era affatto impotente nelle
materie filosofiche, e che tuttavolta aveva, come abbiamo noi nella francese,
il sussidio e la miniera di una lingua sorella, ricchissima in questo genere,
come negli altri. La novità della filosofia di Platone, domandava la novità
delle parole in quella medesima [642]lingua greca, sì ricca per
ogni capo, e segnatamente nelle materie filosofiche tanto familiari alla Grecia
da lunghissimo tempo. E Platone inventava nuove parole, e tali, che in quella
stessa lingua, così pieghevole, e trattabile; così non solamente
ricca, ma feconda; così avvezza alle novità delle parole;
così facile così suscettibile così spontaneamente
adattabile alla formazione di nuove voci, riuscivano strane, assurde e ridicole
ai volgari, al comune, alla gente che considera l'effetto, cioè la
novità della voce, e non pesa la cagione, cioè la novità
delle cose, e delle speculazioni. Come che noi
possiamo dire mensalità, e J calicità.
(non c'è di meglio per esprimere in italiano questa parola: così
mi sono accertato.) V. Laerz. (in Diog. Cyn. l.6. segm.53.) e il Menag. se ha
nulla, e potrai anche riportare quel fatto che il Laerz. riferisce in
proposito. Tanto le astrazioni ec. sono lontane dall'uso comune. E queste e
altre tali parole le formava Platone, certo non più lodato per la
sapienza di quello che fosse per la purità ed eleganza della favella
Attica, e dello stile, e per tutti i pregi della eloquenza, [643]della
elocuzione, e del bello scrivere e dire.
(10. Feb. 1821.)
Non è bisogno che una lingua sia
definitamente poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella
lingua che è definitamente matematica. La migliore di tutte le lingue
è quella che può esser l'uno e l'altro, e racchiudere eziandio tutti
i gradi che corrono fra questi due estremi.
(11. Feb.
1821.)
Les
enfans aiment à être traités en personnes raisonnables. Mme. de
Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel,
sur l'éducation d'une jeune demoiselle; ou Lettre III. dans ses oeuvres
complètes citées ci-dessus, (p.633.) p.356.
Che rileva dunque che tu sia famoso tra
coloro che nasceranno, se fosti ignoto a coloro che nacquero prima? (tra
coloro, o quei che verranno, se fosti ignoto a coloro, o quelli che furono?) I
quali non cedono alla posterità rispetto al numero, e indubitatamente la
vincono rispetto alla virtù. [644](Il numero dei quali non cede a
quello de' posteri, e la virtù indubitatamente prevale, o senza fallo
prevale.).
(11. Feb. 1821.)
Non c'è forse persona tanto
indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o
lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai
più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca
una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l'uomo ha,
per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per
tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo
senso. Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non
ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi
l'unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e notomizzare
oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente
naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una
persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era
possibile o probabile ch'io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva
intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o
cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi
nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta,
non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così
la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita,
mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi interessasse allora
dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava profondamente: è
partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a
lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà
più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a riandare, s'io
poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec. e mi doleva di
non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non [646]essermi
regolato secondo questo pensiero.
(11. Feb. 1821.)
Nessun secolo de' più barbari si
è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non
credesse di essere il fiore dei secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito
umano e della società. Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare
del tempo nostro, e non consideriamo l'opinione presente, ma le cose, e quindi
congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale da
poter giudicarci rettamente.
(12. Feb. 1821.)
La somma della teoria del piacere, e si
può dir anche, della natura dell'animo nostro e di qualunque vivente,
è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di
amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene
senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque
piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun
piacere possibile è proporzionato ed uguale alla [647]misura
dell'amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può
soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere,
ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale
relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di
più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto
anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque
nell'atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non
sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere;
dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè
il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria
dell'animale all'indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che
deriva dall'indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè
l'indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente,
e al tempo stesso indefinitamente, perchè l'animale fosse pago,
cioè felice, cioè l'amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente
soddisfatto: cosa [648]contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità
è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì
come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità,
è senza limiti necessariamente, perchè la felicità
assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso
è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo
desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt'uno
coll'amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita,
in quell'ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo
concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente.
Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi
desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità
senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non
può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non
può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere
è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere
realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o
aspettativa che ne segue. Le [649]présent
n'est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir
est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal. Quindi segue che il più felice
possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla
felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura. Nei
quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di
quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato
dall'azione continua, da' presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza
di rendere il vivente infelice. Quindi l'attività massimamente, è
il maggior mezzo di felicità possibile. Oltre l'attività,
altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri
da me notati nella teoria del piacere, p.e. (ed è uno de' principali) lo
stupore 1. di carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i
più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i
più infelici: sii grande e infelice, detto di D'Alembert, Éloges
de l'Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini
grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di
felicità li tormenta: questo desiderio [650]bisogna sentirlo il
meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente. 2.
derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via dell'oppio, o
proveniente da lassezza ec. ec. 3. derivato da impressioni straordinarie, dalla
maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec.
insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4. dalla
immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento
indefinito, dalla bella natura ec. e v. la teoria del piacere. Notate che
l'immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono
alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte
dell'attività. E perciò sono piuttosto un dono della natura
(ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente
l'attività è il mezzo di distrazione il più facile,
più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale
e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1828.).
Les
passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer
dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos actions;
elle doit parer et embellir [651]toute votre personne. On dit que
Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa demeure; la
pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit plus où la
placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres. Depuis ce
temps-là, elle en est inséparable. Mme de Lambert, Avis d'une
mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées
ci-dessus, (p.633.), p.60-61. Che vuol dir questo, se non che niente
è buono senza la naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa
anche alla letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io
dico del sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13. Feb.
1821.)
La
curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et plus
vite dans le chemin de la vérité. Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.72. Non intendo
pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo. La curiosità
o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non
l'effetto della conoscenza. Esaminate la natura, e [652]vedrete quanto
la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo; come non
gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli appartengono,
o che sono state nascoste dalla natura (p.e. le cose fisiche, astronomiche ec.
le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante, del mondo);
com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per informarsi
di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono
appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali, basta
alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili
ed ovvie). Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere
una causa, che realmente non è quella ec. In somma non è niente
vero, che l'uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione.
La curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una
di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un andamento non dovuto,
come tante altre qualità, passioni ec. buone ed utili, anzi necessarie
in [653]quel grado che la natura aveva dato loro, ma pessime e
mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più del
dovere, e modificatesi diversamente. Così che sebbene queste
qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò
sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato
presente si deve giudicare della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne
intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono.
(13. Feb. 1821.). V. p.657. capoverso 1.
Les femmes apprennent volontiers l'Italien, qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour. Les Auteurs
Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots,
une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de
l'esprit. Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.73-74.
(13. Feb. 1821.)
Plus il y a de monde, (cioè,
più gente ci sta d'intorno, più ci troviamo in mezzo al mondo
attualmente) et plus les passions acquièrent d'autorité. Ib. p.81. Un philosophe [654]assuroit: «... que
plus il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d'autorité...» Mme
Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV. dans ses oeuvres
complètes citées ci-dessus, p.395. Così è generalmente: ma
all'uomo veramente sventurato accade tutto il contrario. Ogni volta ch'egli si
presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi
desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non
concepisce veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo
contrario, le sue passioni si spengono. E nella solitudine, essendo lontane le
cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano.
(13. Feb. 1821.)
Modérez
votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont dangereuses, et
elles ne donnent ordinairement que beaucoup d'orgueil; elles démontent les ressorts
de l'ame... Notre ame a bien plus de quoi jouir, qu'elle n'a de quoi connoître:
(i mezzi di godere che quelli di conoscere: questo è il senso, [655]come
apparisce dal contesto, e da altri luoghi delle sue opere paralleli a questo)
nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien
être; mais nous ne voulons pas nous en tenir là; nous courons
après des vérités qui ne sont pas faites pour nous... Ces réflexions
dégoûtent des sciences abstraites. Mme de Lambert, Avis d'une mère
à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus,
p.74-75-76.
Nous
avons en nous de quoi jouir, mais nous n'avons pas de quoi connoître. Nous
avons les lumières propres et nécessaires à notre bien
être; mais nous courons après des vérités qui ne sont pas faites
pour nous... Ces réflexions dégoûtent des vérités abstraites. La
même, Traité de la Vieillesse, l. c. p.146-147.
(13. Feb. 1821.)
Examinez
votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a
point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise. La Morale
n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner. Mme Lambert,
Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p.84. E segue
mostrando con parecchi esempi, come ciascuna [656]imperfezione conduca,
serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une
foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage. ib. p.
citée. Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre
una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere
modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si
presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro
che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella prima
costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e
primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle
prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi
più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra
ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si
confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso
a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più
facilmente. [657]In somma da tutto ciò si conferma la dottrina
della perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno
originalmente buone anche quelle qualità, che per una parte si hanno per
naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e
non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della
ragione. La qual ragione, anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è
un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata. Ma tal quale era
innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed
è adoperata oggidì.
(14. Feb. 1821.)
Alla p.653. Effettivamente la
curiosità naturale, porta l'uomo, il fanciullo ec. a voler vedere,
sentire ec. una cosa o bella, o straordinaria, o notabile relativamente all'individuo.
Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per saper la cagione di quel tale
effetto che gli è piaciuto di vedere, udire ec. Anzi l'uomo naturale
ordinariamente, si contiene nella maraviglia, [658]gode del piacere che
deriva da lei, e se ne contenta. Così che la curiosità primitiva
non porta l'uomo naturalmente, se non a desiderare e proccurarsi la cognizione
di quelle cose, ch'essendo facili a conoscere (e l'uomo naturale desidera di
conoscerle fino a quel punto fino al quale son facili), e quindi non essendo
state nascoste dalla natura; la cognizione loro non nuoce all'ordine primitivo,
non altera l'uomo, non isconviene alla sua natura, non pregiudica alla sua
felicità e perfezione: non entrando quei tali oggetti nell'ordine delle
cose che la natura ha voluto fossero sconosciute e ignorate. Così si
vede anche negli altri animali.
(14. Feb. 1821.)
La ragione di quanto ho più volte
osservato circa la difficoltà anzi impossibilità di riuscire in
quelle cose che si fanno con troppo impegno, e tanto più quanto queste
cose sono naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza,
è questa. Non riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa
naturalmente. [659]Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di
essi non è secondo natura. Dunque ec. Non basta che un'operazione sia
naturale: ma quanto più è o dev'esser naturale, tanto più
bisogna farla naturalmente. Anzi non è naturale, se non è fatta
naturalmente.
(14. Feb. 1821.)
L'invenzione e l'uso delle armi da fuoco, ha
combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque
cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell'arte,
colla tendenza, dico, di uguagliar tutto. Così le armi da fuoco, hanno
uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile,
l'esercitato all'inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la
guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un'uguaglianza che sembrava contraria
direttamente alla sua natura. E l'artifizio, sottentrando alla virtù, [660]ed
agguagliandola, e anche superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato
gl'individui, tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra,
l'entusiasmo quasi del tutto, spenta l'emulazione, e toltale la materia, spento
l'eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano, o se
anche non l'ha spento, l'ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile,
e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine ha contribuito sommamente
anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita. Tanto è
vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e
si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l'arte e la ragione,
in qualunque cosa.
(14 Feb. 1821.)
Diogene, J J, , , , JJ; Laerz.
in Diog. Cyn. 6.68. Dalla nota del Menag. si rileva ch'egli l'ha inteso della
insensibilità dell'atto della morte.
[661]Delle diverse opinioni
intorno alla pretesa legge naturale, v. alcuni sentimenti e dommi di Diogene,
ap. Laert. in Diog. Cyn. VI. 72-73. e quivi il Menagio, il quale riporta in
proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera Pyrronianarum
Hypotyposeon, e l'altra Adversus Mathematicos, ossia adversus
cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a questo argomento, ed
a quello ch'io sostengo, che non c'è verità nessuna assoluta.
(14. Feb. 1821.)
Dell'influenza del corpo sull'animo, e
dell'esercizio sulla virtù, v. le sentenze di Diogene, ap. Laert. in
Diog. Cyn. VI. 70. e quivi il Menag. se ha nulla.
(14. Feb. 1821.)
On aime à savoir les foiblesses des
personnes estimables, non già solamente di quelle che si
odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci
obbligano e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec. e in questo senso lo
dice Mad. Lambert, La Femme Hermite.
Nouvelle Nouvelle. [662]dans ses oeuvres complètes citées
ci-dessus (p.633.), p.229. Tu puoi però applicarti questo
pensiero, e rendertelo proprio, giacchè Mad. lo stende, lo spiega, e l'applica
in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra comune, non fa gran
colpo e non se ne osserva l'originalità. Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle
tali persone: et j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des
conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus indulgens pour
celles d'autrui. Ma si può considerare questa verità molto
più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al
teatro, alla poesia, a' romanzi ec. ed alle arti imitatrici, e confermarne
quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto.
(15. Feb.
1821.)
Je crois que son estime (si parla di una
persona amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai
dichiarato il proprio amore) doit être le prix de tout ce que je fais
de bien; et je fais encore plus [663]grand cas d'elle (de son
estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui
supposer. (Quella che parla è una donna, e l'amato è
un uomo). Mme. Lambert, Lieu cité ci-dessus,
p.234.
Messer tale sentendo dire che la vita
è una commedia, disse che oggidì è piuttosto una prova di
commedia, ovvero una di quelle rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o
simili fanno per loro soli. Perchè non ci sono più spettatori,
tutti recitano, e la virtù e le buone qualità che si fingono,
nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.
Anzi proponeva questo mezzo di fare che il
mondo cessasse finalmente di essere un teatro, e la vita diventasse per la
prima volta, almeno dopo lunghissimo tempo, un azion vera. S'ella fu mai tale,
fu perchè gli uomini, se non altro la maggior parte, erano veramente
buoni, o tendevano alla virtù. Questo ora è impossibile, e non
è [664]più da sperare. Dunque si cercasse il detto fine
per un altro verso, quasi opposto. Si riformassero il Galateo, le leggi,
gl'insegnamenti pubblici e privati, l'educazione de' fanciulli, i libri di
Morale, i vocabolari ec. In maniera che quello che non è più necessario,
anzi è disutile e dannoso in sostanza, non fosse più necessario neanche
in apparenza. Così si toglierebbe agli uomini la necessità di
mentir sempre, e inutilmente, perchè non ingannano più nessuno;
l'imbarazzo in cui questa li pone tante volte; la contraddizione fra
l'esteriore, e l'interiore; la falsità ec. si ricondurrebbe la
verità nel mondo; la vita resterebbe nè più nè meno
la stessa qual è oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e
queste maniere di convenzione, e questo genere aereo ed inutile di bienséances,
e di onore, e di riguardi a un pubblico che pensa ed opera come te, si toglierebbero
agli uomini molti incomodi, e fatiche, e attenzioni, e sollecitudini [665]vane;
e la vita sarebbe un fatto e non una rappresentazione: finalmente si
concorderebbero una volta insieme quelle due cose discordi ab eterno, i detti e
i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si
sarebbe stancato di tante apparenze divenute inutili da che non servono
più ad ingannare, e da che la commedia non è più
spettacolo, e tutti sono attori. Che avrebbe messo d'accordo la sostanza coll'apparenza,
non già cambiando la sostanza, che Dio ce ne scampi, ma lasciandola
intatta, e cambiando l'apparenza, les bienséances, il linguaggio ec.
cioè facendo che apparisca e si dica quello ch'è vero. E notava
che il mondo sembra che già inclini a questo, e non i fatti coi detti,
ma i detti si comincino ad accomodare, ad accordare, a pacificare coi fatti; ed
oramai vengano a trattato con questi loro nemici, e domandino essi le
condizioni di pace. E che forse [666]anche oggidì l'esteriore
coll'interiore, i detti coi fatti sono più d'accordo che non furono da
grantempo.
(16. Feb. 1821.)
Je sentis que c'étoit quelque chose de bien
douloureux, que de savoir ce que l'on aime attaché à quelque chose de parfait:
(cioè la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna
dell'amor suo: e in questo senso lo dice Mad. Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que
je devois à mon amie, (amata da colui ch'era amato dalla persona che
parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer
ont augmenté son mérite à mes yeux. Mme. de Lambert lieu cité
ci-dessus, (p.661. fine), p.265. fine.
Elle (l'imagination) nous
donne de ces joies sérieuses qui ne font rire que l'esprit. (cioè,
il bello spirito, il bell'umore). Mme de Lambert, Réflexions nouvelles sur
les [667]femmes, dans ses Oeuvres complètes citées
ci-dessus, (p.633.), p.166.
(16. Feb. 1821.)
Quello che ho detto in altro pensiero
intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai,
perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo
che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose;
dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea di tutti
i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri
individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza,
o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo. Senza ciò, e
massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo
durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo tempo
anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli
altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per
relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi. P.e. avendo io di due
anni veduto un colonnello, l'idea [668]ch'io mi formo naturalmente della
persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto,
del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec.
Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè
minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda
da quell'età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le
loro inclinazioni, questa o quell'altra azione ec. derivino bene spesso da minutissime
circostanze della loro fanciullezza, e come i caratteri ec. e le opinioni
massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si
diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze
appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e
l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori conoscitori dell'uomo.
(16. Feb. 1821.). V. p.675. principio
Quella maravigliosa facilità che
hanno [669]i fanciulli di passare immediatamente dal più profondo
dolore alla gioia, dal pianto al riso ec. e viceversa, e ciò per minime
cagioni; questa somma volubilità e versatilità d'indole e d'immaginazione,
non dev'ella esser causa di una molto maggiore felicità, o molto minore
miseria che nelle altre età?
(16. Feb. 1821.)
L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un
rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même
qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel. Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa
fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.99.
fine. Così è naturalmente nella società, così porta
la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e
piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna [670]più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo
il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così
se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascun individuo non avendo per fine se non se medesimo, non
curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta
al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società
a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è
perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da
principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta
quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua.
Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto
è stato maggiore, tanto peggiore è stata [671]la condizione
della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni
che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto
il dispotismo. (Sotto il quale stato la Francia era divenuta la patria del
più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante
gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.)
L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per
egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male
impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano
dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec.
Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e
per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime
dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve
più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono
animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia
relativo alla conversazione, [672]sia generalmente alla vita) cangia
quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua
propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e
perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano
tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra
più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più
forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia
cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec. è inutile, dannoso e
pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di
quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano
in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere
un esempio dal passo cit. di Mad. di Lambert, si vede nel fatto che oggidì,
il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non
solamente non è più così dannosa come [673]una
volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad
accordarti spontaneamente, e in forza del vero, e del merito nulla, come di nessuna
altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti
come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del
tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri,
deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non
perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli
inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti.
Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i
loro difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede
tutto l'opposto. Essi profittano di te e de' tuoi riguardi verso loro, per
innalzarsi, e della tua poca resistenza quanto a te, per deprimerti. Quello che
concedi [674]loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello
che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano
e tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto
ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima
età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto
si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli
poteva godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son
barbari, perchè distruttivi della società, e contrari
direttamente all'essenza ragione, e scopo suo. Quindi si veda quanto sia vero,
che lo stato presente del mondo, è propriamente barbarie, o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata
dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie.
(17. Feb. 1821.)
[675]Alla pag.668. fine. E questa
non è forse una delle minime cagioni di quella verità Quot
homines, tot sententiae, detto di Terenzio, (Phorm. Act. 2. sc.4. ver.14.) Quot homines, tot sententiae: suus cuique mos. (Negli
adagi del Manuzio questo proverbio è riportato così, quot
homines, non capita.) E similmente Oraz. (Sat. l.2. sat.1. v.27-28.) Quot
capitum vivunt, totidem studiorum Millia. Ed Euripide (in Phoenissis):
J
J
J
.
Cunctis idem si pulchrum, et egregium foret,
Nulla esset anceps hominibus contentio.
At nunc simile nil, nil idem mortalibus:
Nisi verba forsan inter istos concinunt,
At re tamen, factisque convenit nihil.
[676]E Cicerone (de Fin. bon. et
mal. c.5. verso il fine): sed quot homines, tot sententiae: falli igitur
possumus. Luogo omesso dal Manuzio.
Riferite le dette sentenze alla opinione
comune, che si dia verità assoluta, anche tra gli uomini.
(17. Feb. 1821.)
Non siamo dunque nati fuorchè per
sentire, qual felicità sarebbe stata se non fossimo nati?
(18. Feb.
1821.)
ENFIN
ELLES AIMENT L'AMOUR, ET NON PAS L'AMANT. Ces personnes se livrent à
toutes les passions les plus ardentes. Vous les voyez occupées du jeu, de la
table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu. Parla di quelle
donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs de l'amour, di
quelle che ne cherchent dans l'amour que les plaisirs des sens, (o della
galanteria dell'ambizione ec.) que celui d'être fortement occupées et
entraînées, et que celui d'être aimées; di quelle che [677]possono
associer d'autres passions à l'amour, e lasciare du vide dans (leur) son
coeur, e che après avoir tout donné, possono non essere uniquement
(occupées) occupé de ce qu'on aime; di quelle che se font une habitude de
galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE LA QUALITÉ D'AMIE A CELLE D'AMANT; di
quelle che NE CHERCHENT QUE LES PLAISIRS, ET NON PAS L'UNION DES COEURS, e conseguentemente
ÉCHAPPENT A TOUS LES DEVOIRS DE L'AMITIÉ: in somma delle donne d'oggidì
tutte quante, e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre
specie, conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà
l'amour d'usage et d'à-présent, et où les conduit une vie frivole
e dissipée. Mme. de Lambert, Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses
oeuvres complètes, citées ci-dessus (p.633.) p.179.
(18. Febbraio 1821.)
[678]Il faut convenir que
les femmes sont plus délicates que les hommes en fait d'attachement. Il
n'appartient qu'à elles de faire sentir par un seul mot, par un seul
regard, tout un sentiment. Mme. de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.187.
Gli esercizi della persona che egli faceva
in compagnia di cotali gentili uomini, non solamente per allora li furon cagione
della fermezza e gagliardìa del corpo, ma eziandio dell'animo. - Lo dice
di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, famoso militare fiorentino, ancor
giovane, Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini Tebalducci Malespini,
ediz. di Lucca, Francesco Bertini, 1818. [in] 8.
p.19..
(18 Feb. 1821.)
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que
nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit: nos
desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? Mme. de Lambert, lieu cité ci-derrière (p.677.
fine) p.188. [679]La solitudine è lo stato naturale di
gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo
ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava
la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un
conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall'ubbidire alla
natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino. Ma anche per
altra cagione la solitudine è oggi un conforto all'uomo nello stato
sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione del vero in quanto
vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi;
nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben
lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la
felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per
lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo
oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse
primitivamente, in quella vita occupata o da continua [680]sebben
solitaria azione, o da continua attività interna e successione
d'immagini disegni ec. ec. e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho
già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini
oggidì, eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino
le illusioni per quanto sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente
la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed
osservate che quanto si racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in
quell'epoca, dove la vita, l'energia, la forza, la varietà originata
dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di
società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo
sotto il despotismo. Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio
degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico
la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima
energia della vita sociale. Perchè oggidì è così la
cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni, [681]laddove
anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le
risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva. Il giovanetto
ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto
all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i
disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e
questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche,
quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo
disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine
appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena,
e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo
d'ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero?
Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che
prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora
essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la
immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare [682]e
desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più
presto assai di prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi
l'uomo quanto è più savio e sapiente, cioè quanto
più conosce, e sente l'infelicità del vero, tanto più ama
la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi, laddove
nello stato primitivo l'uomo amava tanto più la solitudine, quanto
maggiormente era ignorante ed incolto. E così l'ama oggidì,
quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la
sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se
stesso. La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella
società all'uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e
conoscente; perchè la presenza della società, non è altro
che la presenza della miseria, e del vuoto. Perchè il vuoto non potendo
essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella
società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine,
dove le illusioni [683]sono oggi più facili per la lontananza
delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all'opposto di quello ch'erano
anticamente.
(20. Feb. 1821.)
La sua compagnia (di Antonio Giacomini) ne'
collegi de' magistrati fu qualche volta ad alcuni non molto gioconda. Nondimeno
il suo parere le più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel
consiglio degli ottanta e de' richiesti e pratiche, nelle quali
PIÙ LARGHE consultazioni l'autorità de' PARTICOLARI cittadini
cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto più facilmente,
che non fa ne' magistrati DI MINOR NUMERO D'UOMINI. Jacopo Nardi, Vita
d'Antonio Giacomini. Lucca per Francesco Bertini 1818. p.85-86.
(22. Feb. 1821.)
Nardi ec. l. cit. qui sopra p.83. Di
quelle doti e di quelle virtù che o per natura o per instituto e lezione
tutte furono sue. Che ha da far qui la lezione? oltre che lo stesso Nardi
p.102. dice ch'egli non aveva dato opera alle scienze. Leggi ed elezione,
opposto a natura. Ma v. l'altra ediz. del 1597. Firenze, Sermartelli, in 4°
(23. Feb. 1821.)
[684]Lorenzo de' Medici, Apologia
ec. nel fine: Non mi sarebbe TANTA fatica. Leggi STATA. L'errore
è nell'ediz. di Lucca per Francesco Bertini dietro il Nardi, Vita del
Giacomini, p. ult. 136. Non so delle altre stampe.
.[4]
;
.[5] ,
.
Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4.
Scena 3.
(23. Feb. 1821.).
Alla p.241 ...che il mondo, o qualche buona
parte del mondo sia quello che in greco si dice diglottos, e noi
possiamo dire bilingue. Come veramente oggidì quasi tutto il mondo
civile è bilingue, cioè parla tanto le sue lingue particolari,
quanto, al bisogno, la francese. Eccettuato la stessa Francia, la quale non è
bilingue, non solamente rispetto al grosso della nazione, ma anche de'
letterati e dotti, pochi sono [685]quelli che intendono bene, o sanno
veramente parlare altra lingua fuori della propria loro. Il che se derivi da
superbia nazionale, o da questo che usandosi la loro favella per tutto il
mondo, non hanno bisogno d'altra per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto
alla intelligenza ed uso de' libri forestieri, dalla facilità e copia
delle traduzioni che hanno, questo non è luogo da ricercarlo.
(23. Feb. 1821.)
La lingua italiana porta pericolo, non solo
quanto alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch'è
barbaro, ma anche, (e questo è il principale) di cadere in quella
timidità povertà, impotenza, secchezza, geometricità, regolarità
eccessiva che abbiamo considerata più volte nella lingua francese. In
fatti da un secolo e più, ella ha perduto, non solamente l'uso, ma quasi
anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi, e irregolarità
felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente consisteva la
facilità, l'onnipotenza, la varietà, [686]la volubilità,
la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la proprietà (ÞdiÅthw), la pieghevolezza sua. Non parlo mica di quelle inversioni
e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina,
sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori,
e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e
riconosciuti da nessun buono scrittore italiano. Ma parlo di quella libertà,
di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua
nostra si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile di
tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido, nel
monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel
genio, nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e
specificatamente alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle
forme particolari e speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche
nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente per la qualità
individuale de' vocaboli e delle frasi. Ma oggidì ella va a perdere,
anzi ha già perduto presso [687]il più degli scrittori, le
dette qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche
presso quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi.
(e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti scrittori facciano
pessima comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per
quanto non sia barbara, non è l'italiana: e gli antichi accidenti in una
sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la lingua nostra si
riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non erro, il
Fénélon, della francese. Del che mi pare che bisogni stare in somma guardia,
tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi,
essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio di
geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia
nativa (ancorchè conservi le parole e i modi, e scacci i barbarismi), di
diventare unica come la francese, laddove ora ella si può chiamare un
aggregato di più lingue, ciascuna adattata al suo soggetto, o anche a
questo [688]e a quello scrittore; e così divenuta impotente, in
luogo di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la sua natura, e
quella di tutte le belle e naturali lingue, come le antiche, non puramente
ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il linguaggio magrissimo ed
asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si chiamano esatte, e non sia
veramente adattata se non a queste, che tale infatti ella va ad essere, e lo
possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella poesia italiana moderna
de' volgari poeti. Come appunto è accaduto alla lingua francese,
perchè ancor ella da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al
secolo di Luigi 14. non era punto unica, ma l'indole sua primitiva e propria
somigliava moltissimo all'indole della vera lingua italiana, e delle antiche;
era piena d'idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di
varietà; subordinatissima allo scrittore (notate questo, che
forma la difficoltà dello scrivere, come pure dell'intendere la nostra
lingua a differenza della francese) e suscettibile di prendere quella forma e
quell'abito che il soggetto richiedesse, o il carattere dello scrittore, o che
questi volesse darle; adattata [689]a diversissimi stili; piena di
nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione;
coraggiosa; niente schiva degli ardiri com'è poi divenuta;
parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi,
all'intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua
italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena
di sève, di sangue e di colorito ec. ec. Delle quali
proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel
Bossuet e in altri scrittori di quel tempo. Talmente che s'ella fosse rimasta
quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir tutto. E
s'ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori
quanto n'ebbe l'italiana, che l'avessero condotta secondo il suo carattere
primitivo, e d'allora, alla perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe
anche più evidente questo ch'io dico [690]della prima e originale
natura della lingua francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla
considerazione de' loro antichi scrittori, ma non si può pienamente
sentire perch'ella non ebbe scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne
ebbe quanto basta. Nè quel primo genere prese mai stabilità, ma
quando le fu data forma stabile e universale nella nazione, fu ridotta, quale
oggi si trova, ad essere in ogni possibile genere di scrittura, piuttosto una
serie di sentenze e di pensieri esattissimamente esposti e ordinati, che un
discorso. Dove l'intelletto e l'utilità non desidera nulla, ma l'immaginazione
il bello, il dilettevole la natura, i sensi ec. desiderano tutto.
(24. Feb. 1821.)
Il secolo del cinquecento è il vero e
solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
Quanto alla lingua moltissimi disconvengono
da questo ch'io dico, volendo che il suo vero secol d'oro, fosse il trecento.
Ma osservino. Quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani,
hanno bene e convenientemente [691]adoperata la nostra lingua, e tutti
più o meno possono servire di norma al bello scrivere, e sarebbe
ammirato e studiato uno scrittore d'oggidì che avesse tanti pregi di
lingua quanto l'infimo de' mediocri scrittori di quel tempo. Questo è
ben altro che ammirare la felicità della Francia dove tutti appresso a
poco scrivono bene quanto alla lingua. Considerate quello che ho detto altrove
del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non vi parrà
poca meraviglia che una lingua così difficile, varia, ricca, immensa,
pieghevole e subordinata allo scrittore, come l'italiana, trovasse un secolo,
dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni sorta di
soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in quelle
cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come lettere
e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi [692]perfetto modello
della buona lingua italiana a tutti i secoli. Diranno che anche nel trecento
accadeva lo stesso. Voglio lasciar passare questa proposizione, che ben considerata
parrà forse falsissima. Ma supponendo che sia verissima, che maraviglia
che scriva bene, chi in questo medesimo, che egli scrive, porta inseparabilmente
la ragione dello scriver bene? Giacchè noi diciamo che i trecentisti scrivevano
bene, perciò appunto ch'erano trecentisti; e indistintamente tutto
quello ch'è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel
secolo, si approva e si dice bene scritto, perchè appartiene al
trecento. E si dà a quel secolo autorità di regolare il nostro
giudizio intorno alla bella lingua italiana, non a noi di giudicare se quel
secolo usasse una bella lingua. Io so e dico che la usava bellissima, e do ragione
e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori
del trecento i modelli [693]o il fondamento e la sorgente della buona
lingua italiana di tutti i secoli. Quest'autorità l'hanno avuta tutti i
padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.): e l'hanno avuta
non già per capriccio o pregiudicata opinione de' successori, ma per la
forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perchè la
natura è la massima fonte del bello. Ma non perciò le dette
qualità derivavano in quei padri da merito loro, nè essi ponevano
(eccetto pochissimi) veruno studio alla bellezza e all'ordine della lingua. Nel
modo che Omero certamente non sudava per seguire e praticare le regole del
poema epico, le quali non esistevano, anzi sono derivate dal suo poema, e
quella maniera ch'egli ha tenuto è poi divenuta regola. Ma Omero come
ingegno sovrano ch'egli era, studiava la natura e gli uomini e il bello per
creare le regole che ancora non esistevano: laddove i trecentisti erano quasi
tutti uomini da poco e ignorantissimi, e scrivevano quello che veniva loro
nella [694]penna. E quanto è venuto loro nella penna, tanto si
è giudicato che fosse il più bel fiore della nostra lingua, non
dico ingiustamente, ma certo senza merito loro. V. p.705. Aggiungete che fuori
de' Toscani, pochissimi in quel secolo scrivevano la lingua nostra in modo che
si potesse sopportare, all'opposto del cinquecento dove tutta l'Italia scriveva
correttamente e leggiadramente, così che il trecento, quando anche non
valessero le suddette ragioni, non si potrebbe riputare il migliore della
nostra lingua, nè paragonare al cinquecento se non quanto alla Toscana.
Quanto alla letteratura nessuno disconviene
da quello ch'io dico, perchè il trecento ebbe tre o quattro letterati
famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza. Quello però
ch'io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si
giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento
[695]sia l'ottimo ed aureo secolo della letteratura italiana, anzi in questo
pregio superi non solo tutti gli altri secoli italiani, ma anche tutti i migliori
secoli delle letterature straniere; se si ponesse mente a questo ch'io son per
dire.
Primieramente la stessa universalità
che ho notata in quel secolo rispetto alla buona lingua, si deve anche notare
rispetto al buono stile: e ciò in tutti i generi e di soggetti, e di
scrittori nelle scritture più familiari e usuali ec. insomma con tutte
quelle particolarità che ho notate quanto alla lingua p.691. Collo
studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo stile del
cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità,
e tant'altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente
una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla
troppa lunghezza de' periodi, e dalla troppa copia [696]delle figure di
dizione, e dall'eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle
sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con
ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne' latini, ma
che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che lo
stesso secolo ha ottimamente adoperati): vizio ignoto si può dire al
trecento, e a tutti gli altri secoli ancorchè viziosissimi: vizio
provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è
pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni; vizio che
avrebbe potuto molto correggersi con un maggiore studio de' greci, ma
principalmente degli ottimi e primi, perchè i più moderni
declinarono anch'essi (sebbene valenti) a questo difetto, e ad un'indole di
scrittura più latina che greca: vizio che non saprei se appartenga più
allo stile ovvero alla lingua: vizio finalmente che se non togliere, certo si
può moltissimo [697]alleggerire con una diversa punteggiatura,
come si è fatto da molti presso i latini, i quali pure ne avevano gran
bisogno, tanto per la lunghezza de' periodi talvolta, i quali si sono divisi
col mezzo de' punti, quanto massimamente e sempre per la qualità della loro
costruzione. La detta perfezione prima o dopo quel secolo non si è mai
veduta in nessunissimo stile nè italiano nè forestiero, dai
latini in poi (dico quanto allo stile non ai pensieri): nessun'altra nazione ci
è pervenuta in veruno de' suoi migliori secoli; e forse quello stesso
maggior grado di perfezione che lo stile forestiero ha conseguito ne' suoi
secoli d'oro, non si troverà che fosse così universale negli scrittori
nazionali di quel tempo, com'era la detta perfezione in Italia nel cinquecento.
Secondariamente il pregio letterario del
cinquecento è meno [698]conosciuto, e stimato assai meno del
vero, perchè non si conosce la somma e singolare ricchezza di quel
secolo. Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona parte dalla Crusca
fra' testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e per lusso, e
simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani, non adoperati
dall'antica Crusca, e la massima parte de' cinquecentisti non toscani, non sono
letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi dotti, di nome solo
da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla moltitudine dei
letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti quanti gli
stranieri. E tuttavia è somma la copia di quegli scrittori che essendo
così ignorati, sono tuttavia o più degli altri, o quanto gli
altri che si conoscono, pregevolissimi e degnissimi di considerazione, di
studio, e d'immortalità. E giacciono in quelle vecchie stampe, in preda
ai tarli, e alla polvere [699](se però sono stati mai stampati,
come p.e. la storia del Baldi, di cui parla il Perticari, è ms.), in fondo
alle librerie, scorrettissimamente, e sordidamente stampati, senza veruno che
si curi di guardarli. Da quelle poche operette insigni del cinquecento
ristampate in questi ultimi anni, e da quelle che si è proposto di
ristampare, e che si è veduto come non cedano forse a veruna delle
già note e famose, si può conoscere quanta ricchezza di quel
secolo, quanta gloria nostra, sia oscurata e sepolta dalla dimenticanza, dall'ignoranza,
dalla pigrizia, dalla noncuranza di questo secolo. Che se porrete mente quanto
minore sia il numero de' buoni cinquecentisti noti alla universalità
degl'italiani, rispetto a quelli conosciuti dai letterati, i quali pur tanti ne
ignorano; e quanto pochi fra quei medesimi conosciuti universalmente fra noi,
si conoscano fuori d'Italia; non vi farete più maraviglia se la fama del
[700]cinquecento letterato è oramai nell'Europa, piuttosto nome
che fatto; piuttosto un avanzo di antica tradizione, che opinione presente;
potendosi contar sulle dita i cinquecentisti noti fuori d'Italia. E così
dico proporzionatamente di tutta l'altra nostra letteratura. Ma gli stranieri hanno
ben ragione, se non ne sanno più, di quello che ne sappiamo noi stessi,
i quali generalmente ci troviamo appresso a poco nel medesimo caso.
Del resto quello ch'io dico della perfezione
di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti.
Anzi io mi maraviglio come quella tanta gravità e dignità che
risplende ne' prosatori, si cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel
secolo, e bene spesso anche negli ottimi. I difetti dello stile poetico di quel
secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti,
i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec. lasciando i più essenziali
difetti di arguzie, insipidezze ec. anche nell'Ariosto e nel Tasso. E non
è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile)
furono nello stile più vicini alla [701]perfezione che i
cinquecentisti, e così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi
due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia
migliore è la più antica, all'opposto della prosa, dove l'arte
può aver più luogo). E dal trecento in poi lo stil poetico
italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini,
nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti.
V. gli altri miei pensieri in questo proposito. Parlo però del stile
poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il
Metastasio e l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta),
quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono
piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l'Italia dal cinquecento
in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente [702]versi
senza poesia. Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del
cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in
qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta
(se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
(27. Feb. 1821.)
Camillo Porzio, La congiura de' Baroni del
Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I. ediz. terza, cioè Lucca 1816.
per Franc. Bertini, p.23. E vedeva ciascuno che indugiava più
l'occasione che il lor animo, ad offendersi, e che con ogni picciola scintilla
di fuoco infra di loro si poteva eccitare grandissimo incendio. Che vuol
dire, l'occasione indugiava ad offenderti? oltre che il lor animo
era già offeso, e gravissimamente, come viene dal dire. Leggi ad accendersi,
lezione confermata ancora dal seguito del surriferito passo.
Ivi, p.24. Affermando il Re essergli
stato rimesso da' suoi predecessori (il tributo alla Chiesa) [703]e
che si doveva per il regno di Napoli e di Sicilia; ma che egli allora solo
quello di Napoli possedeva. Rimesso potrebbe valer condonato, e predecessori
riferirsi al Papa: potrebbe valer mandato, e predecessori
riferirsi al Re. Senso sempre oscurissimo. Io leggerei: predecessori che e'
o ch'e'. V. p.708. capoverso 2.
Ivi, p.37. Suavissima riputo e verissima la
sentenza che c'insegna li costumi de' soggetti andar sempre dietro all'usanze
de' dominatori. Leggi savissima.
(27. Feb. 1821.)
Non possiamo nè contare tutti gli
sventurati, nè piangerne uno solo degnamente.
Allo sviluppo ed esercizio della
immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente e
momentanea; del sentimento, la sventura. Esempio me stesso: e il mio passaggio
dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva, essendo quella in me presso
ch'estinta.
(28. Feb. 1821.)
[704]L'uomo dev'esser libero e
franco nel maneggiare la sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente
e disinvoltamente nelle piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo,
ma come quegli ch'essendo esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta
francamente e scioltamente nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza
e cognizione. Laonde la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta
scienza e non dall'ignoranza. La quale debita e conveniente libertà
manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori. Perchè quelli che
vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi della lingua, non si
portano liberamente, anzi da schiavi. Perchè non possedendola intieramente
e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno così legati che
pare che camminino fra le uova. E quelli che si portano liberamente, hanno
quella libertà de' plebei, che deriva dall'ignoranza della lingua, dal
non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E questi in comparazione [705]degli
altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione.
Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar
bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione);
dall'altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione. Quando anzi il
dimostrarla, non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra
dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa
incorrere. Perchè in somma è la stessa cosa che l'affettazione; e
l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà,
perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello
scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza.
(28. Feb. 1821.)
Alla p.694. Perchè la lingua non era
ancora formata nè stabilita, nè il suo corpo ordinato, e neppure
la sua gramatica. Essi la formavano, ma per forza del tempo, e [706]di
circostanze accidentali ed estrinseche, non come Omero per forza del suo
proprio ingegno formava l'Epopea. (Eccettuo però Dante Petrarca e il
Boccaccio: e nel secondo massimamente ritrovo una forma ammirabilmente stabile,
completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di
servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte.) Quindi non è
maraviglia se quel trecentista andava per una strada, quest'altro per un'altra;
se non ci è maggiore difficoltà che mettergli d'accordo tra loro,
e coll'ordine della lingua, anche in cose essenziali, e ordinare la forma e i
precetti della lingua sopra i trecentisti; se formicano d'imperfezioni e di scorrezioni;
se non sono uguali neppure, nè in verun modo a se stessi ec. ec. ec.
Formata che fu la lingua, allora divenne possibile, necessaria e difficilissima
la perfezion sua: la qual perfezione da nessun secolo è stata portata
nè in così alto grado, nè in tanta universalità
come nel cinquecento. [707]Ed ecco in qual senso e per quali ragioni io
dico che il cinquecento fu il vero ed unico secol d'oro della nostra lingua;
cioè rispetto all'adoprarla, dove che il trecento l'avea preparata;
rispetto allo spendere quel tesoro che il trecento avea magnificamente e
larghissimamente accumulato; e in tal maniera che della lingua sarà
sempre poverissimo chi non si provvederà immediatamente a quel tesoro:
essendo veramente il trecento la sorgente ricchissima inesausta e perenne della
nostra lingua; sorgente aperta e necessaria a tutti i secoli. (28. Feb. 1821.)
Perchè in fatti il secol d'oro di una
lingua o di qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma
quello che l'adopra, la compone de' materiali già pronti, e la forma;
giacchè realmente quel secolo che formò e determinò la lingua
italiana fu più veramente il cinquecento che il trecento, lasciando
stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati, s'io non erro, in
quel secolo, dal Bembo. Ma il cinquecento [708]formò e
determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella
coltura e nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella
copia, nella varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta
è compatibile colla chiarezza e bellezza, e colla necessità di
essere intesi, e quindi convenientemente ordinati nel favellare): in somma e
soprattutto, non mutò in verun conto l'indole e natura sua primitiva,
come la cambiò interamente la francese, nella formazione e
determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo di Luigi 14.
(1. Marzo 1821.)
Camillo Porzio l. cit. (p.702.) p.80. In
un tratto di ciascuno il sacco, il fuoco e la morte si temeva. Leggi da
ciascuno. (1 Marzo 1821.).
Alla p.703. Che se rimesso in questo
senso (di traditum che in latino viene e metaforicamente, e quasi anche
propriamente a dire la stessa cosa) paresse strano, questo non avverrà
se non a coloro che non conosceranno l'usanza [709]e lo stile di questo
scrittore.
(2. Marzo 1821.)
Alla p.120. Aggiungete che nelle monarchie,
o reggimenti di un solo o di pochi (che reggimento di pochi si può veramente
chiamare ogni monarchia, dove non è possibile che tutto effettivamente
dipenda, derivi, e si regoli secondo la volontà di uno solo, massime
quanto più ella è grande) le cagioni degli avvenimenti sono molto
più menome e moltiplici che negli stati liberi e popolari,
ancorchè paia l'opposto. Perchè le cagioni che operano in tutto
un popolo, o nella massima, o in buona parte di quello, o in somma in molti,
non sono nè così piccole, nè tante, nè così
varie, nè così difficili a congetturare, quando anche fossero
nascoste, come quelle che operano in uno o in diversi individui
particolarmente. E si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de'
regni, come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi
affettacci di quel re, di quel ministro ec. da menome circostanze, da una
passioncella, da una parola, da una ricordanza, da un'assuefazione individuale,
[710]da un carattere particolare, da inclinazioni; da qualità,
accidenti della vita, amicizie o nimicizie ec. contratte dal principe o dal ministro
ec. nello stato privato. Quindi si può vedere, quanto la storia
oggidì sia oscura e difficile allo scrittore, e come spesso debba
riuscire in gran parte falsa, e quindi inutile ai lettori; consistendo la
chiave di sommi avvenimenti, la spiegazione di somme maraviglie, nella
cognizione di aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a sapere. E
così oggi gli scrittori di aneddoti e bazzecole di corte, sono
più benemeriti forse della storia, che i sommi storici, e scrittori
delle massime cose.
(2. Marzo 1821.)
Alla p.81. fine. L'uomo in tanto è
malvagio nè più nè meno, in quanto le azioni sue
contrastano co' suoi principii. Quanto più dunque da un lato i principii
1. sono meglio stabiliti, definiti, divulgati, chiariti, specificati, e
formati;
(2. Marzo 1821.)
Lettere diverse da quelle del nostro
alfabeto sono pure il Jgreco, e
la zediglia spagnuola, analoghe fra loro, ma che non si possono confondere col
nostro z, o t, o s, e si pronunziano con una conformazione di organi appropriata
loro. E si troverà più differenza tra questa conformazione di
organi, e quella che si richiede per la pronunzia del nostro z, o t, o s, di
quella che si possa trovare fra la conformazione di organi nella pronunzia del
d, e l'altra nella pronunzia del t: le quali però nessuno dubita [712]che
non sieno lettere diverse, benchè la lingua e i denti le producano
ambedue, con leggerissimo e quasi insensibile divario di collocazione.
Così che dalla piccola differenza di collocazione non si può dedurre
che due o più lettere sieno le stesse, perchè basta un nulla a
diversificarle, come se ne potrebbero addurre altri esempi. Del resto dico lo
stesso del thau ebraico, e del th inglese.
(3. Marzo 1821.)
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le
felicità di questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via
questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benchè
ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l'infelice
è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non
consista che in assenza di beni; laddove è pur troppo vero che non si
dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non
è veramente tale.
(3. Marzo 1821.)
Alla p.370. Ma osservate che spessissime
volte questa impazienza pregiudica al fine. Perchè tu, volendo veder
l'esito in qualunque [713]modo, per liberarti dal timore di non ottenere
il tuo fine, perdi quello che avresti conseguito se non avessi temuto, e se
quindi ti fossi diportato più quietamente, con meno confusione ec.
Insomma avessi sostenuto di aspettare che la cosa andasse come doveva, e nel
tempo conveniente ec. Insomma spessissimo nei negozi dubbi, ancorchè non
di somma importanza, affrettando l'esito, non tanto per ismania di conseguire,
quanto per impazienza di dubitare, perdiamo il nostro intento: e questo ci
accade anche nelle menome e giornaliere e materiali operazioni della vita.
Notate quelle parole non tanto per ismania ec. nelle quali consiste la
novità e proprietà di questo pensiero, perchè il detto
effetto dell'impazienza è comunemente notato, ma si attribuisce
all'impazienza di conseguire.
(3. Marzo 1821.)
[714]Spesse volte il troppo o
l'eccesso è padre del nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che
prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si
può notare ordinariamente nella vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza
loro, si converte in insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione,
anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi
in questo proposito quello che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p.620
fine - 625 principio. Il poeta nel colmo dell'entusiasmo della passione ec. non
è poeta, cioè non è in grado di poetare. All'aspetto della
natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito,
mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di
distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace
di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun
frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di
teoria nè di pratica. L'infinito non si [715]può esprimere
se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti
scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito,
l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo
l'infinito non lo sentiva. I sommi dolori corporali non si sentono,
perchè o fanno svenire, o uccidono. Il sommo dolore non si sente,
cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà,
è di render l'uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli
l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la
passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza
azione esteriore, nè si può dire, interiore. E perciò i
sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel
successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p.366-368. Anzi
non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione,
ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque
verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla [716]tutta
intera simultaneamente. Così sarebbe anche la somma gioia.
Ma bisogna osservare che di rado avviene che
la gioia ancorchè grande e straordinaria, ci renda attoniti, e quasi
senza senso, e che la sua grandezza ne renda impossibile il pieno e distinto
sentimento. Questo ci accadeva forse e senza forse da fanciulli, e sarà
pure senza fallo avvenuto negli uomini primitivi; ma oggidì per poco che
l'uomo abbia di esperienza e di cognizione, è ben difficile che sia
suscettibile di una gioia, la quale sia tanta da non poter essere contenuta
pienamente nell'animo suo, e da ridondare. Bensì egli è suscettibilissimo
(almeno il più degli uomini) di un tal dolore. Ma la somma gioia
dell'uomo di oggidì, è sempre o certo ordinariamente tale che
l'animo n'è capacissimo; e questo, non ostante ch'egli vi debba
necessariamente esser poco assuefatto, laddove quanto al dolore o a qualunque
passione dispiacevole, non è così. Ma il fatto [717]sta
che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale;
il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e
perchè la gioia fosse tale da superare la capacità dell'animo
nostro, si richiederebbe, come ne' fanciulli e ne' primitivi, una forza e
freschezza d'immaginazione persuasiva, e d'illusione, che non è
più compatibile colla vita di oggidì.
(4. Marzo 1821.)
Porzio l. cit. (p.702.) p.126. E se egli
ec. a cui fa dubbio che ec. non l'abbia ad osservare? Leggi a
cui fia.
Ivi, p.134. ed i Principi allora
affermano di aver perdonato i falli quando han potere di castigargli; ma se
sopraffatti da' pericoli maggiori differiscono la vendetta, non perciò la
cancellano. Non c'è senso. Leggi quando non han potere. (4.
Marzo 1821.).
Nunquam minus solus quam cum solus.
Ottimamente vero: ma (contro quello che si usa [718]credere e dire)
perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si
trova in compagnia del vero (cioè del nulla, e quindi non c'è maggior
solitudine); chi lontano dagli uomini, in compagnia del falso. Laonde questo
detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene molto più a'
nostri secoli, e non al sapiente solo, ma alla universalità degli
uomini, e massime agli sventurati.
(4. Marzo 1821.)
L'uomo d'immaginazione di sentimento e di
entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a
poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo,
non corrisposto nell'amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente
profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta
la bellezza, l'ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto
corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed
ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante [719]escluso
dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considerazione e
nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli
è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello,
quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova
quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle
braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi.
Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per
altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui,
anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla
e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un
povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente,
senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma [720]si
vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella
divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente
così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima,
dico la bellezza astratta, e la natura.
(5. Marzo 1821.)
Oggidì i viaggi più curiosi e
più interessanti che si possono fare in Europa cioè nel paese
incivilito, sono quelli de' paesi meno inciviliti, cioè la Svizzera, la
Spagna e simili, che tuttavia conservano qualche natura e proprietà. Le
descrizioni de' costumi, de' caratteri, delle opinioni, delle usanze di questi
paesi hanno sempre della varietà, della singolarità, della
importanza, della curiosità. Quelle degli altri paesi Europei (salvo
nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come ho detto in altro pensiero
p.147. perchè il popolo è sempre più tenace della natura)
i quali non hanno oramai proprietà, cioè carattere proprio, si
rassomigliano tutte fra loro, e col carattere de' costumi, [721]opinioni
ec. di quella tal nazione, alla quale quelle altre si descrivono, così
che pochissimo possono aver di curioso, eccetto nelle minute
particolarità di usanze sociali, ec. nelle quali l'incivilimento e il
commercio universale, non è per anche arrivato ad agguagliare
interamente il mondo. Ma in grosso, e nella sostanza, e nelle cose principali,
e per natura loro, non per capriccio, importanti, possiamo oramai dire, che di
queste tali nazioni, conosciuta una, son conosciute tutte. (5. Marzo 1820.).
Dovunque l'arte tiene la principal parte in
luogo della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile
curiosità. P.e. gli Stati uniti si diversificano molto dal governo,
costumi ec. degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d'arte,
non di natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere,
è cosa artifiziale, non naturale. [722]Quindi la curiosità
che ne deriva, è una curiosità secca, e quella varietà,
è quasi falsa, ascitizia, non propria delle cose, non sostanziale, non
inerente alla nazione, e alla natura di lei, e per così dire, una
varietà monotona. Al contrario di quella curiosità e
varietà che deriva dalla considerazione della Svizzera, della Spagna ec.
curiosità e varietà, naturale, propria, innata. V. il pensiero
precedente.
(5. Marzo 1821.)
Lo sventurato non bello, e maggiormente se
vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così
nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi ec. come nella vita.
(6. Marzo 1821.)
Porzio l. cit. (p.702.) p.145. principio. ciascun
vedeva che quella prima dell'altre gli anderebbe ad oppugnare. Leggi egli
anderebbe, altrimenti non regge il senso.
Ivi p.155. Che se nell'altre rocche [723]de'
Baroni fusse stata la metà di provvisione ec. Manca una qualche
parola, come di detta, di questa, di tale provvisione, conforme
apparisce dagli antecedenti, dove riferisce le provvisioni che si trovarono nel
castello di Sarno, quando fu avuto dal Re.
(6. Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum,
macies, et nova febrium
Terris
incubuit cohors,
Semotique
prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
Orazio, od.3. v.29-
(7. Marzo 1821.)
Alla p.526. Florum, perpetuum Horatii
imitatorem observat Rosellus Baumon in Massoni Hist. Critica Rei literar.
Tom.14. p.222. Fabricio, B. Lat. l.2. c.23. §.2. t.1. p.626.
[724]Alla p.509. Da questa
osservazione deducete che Floro, stampato la prima volta in
(7. Marzo 1821.)
L'uomo è così inclinato alla
lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè
curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste
l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare
presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale
è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa,
non sia del tutto minimo nell'opinione altrui.
(7. Marzo 1821.)
I poeti, oratori, storici, scrittori in
somma di bella letteratura, oggidì in Italia, non manifestano mai, si
può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non intendo
dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione ec. contenga
[725]grandissima forza, sia per [se] stesso fortissimo, abbia gran vita,
grande sprone. Ma tutte le opere letterarie italiane d'oggidì sono
inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui). Il
più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta,
è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio del Monti, e dopo il
Monti, ma in assai minor grado, dell'Arici. Ma oltre che questo pregio è
rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi
è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono
allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di
vena, e soggiungo che non solamente non è, ma non può essere, se
non in qualche singolarissima indole.
La forza creatrice dell'animo appartenente
alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi. Dopo che
l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto, [726]e così ha realizzata e confermata la sua infelicità;
inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non
è più propria se non de' fanciulli, o al più de' poco
esperti e poco istruiti, che son fuori del nostro caso. L'animo del poeta o
scrittore ancorchè nato pieno di entusiasmo di genio e di fantasia, non
si piega più alla creazaone delle immagini, se non di mala voglia, e
contro la sottentrata o vogliamo dire la rinnuovata natura sua. Quando vi si
pieghi, vi si piega ex instituto, , per
forza di volontà, non d'inclinazione, per forza estrinseca alla
facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal animo ogni
volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più
così frequente) si rivolge all'affetto, [727]al sentimento, alla
malinconia, al dolore. Un Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi,
nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde proporzionatamente
anche ai latini, eccetto Ovidio. E anche l'Italia ne' principii della sua poesia,
cioè quando ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto)
sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio alle
altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i
tempi ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione
che abbiamo, e non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce.
Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i
nostri avoli, quando noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura
delle cose? di voler fingere una [728]facoltà che non abbiamo, o
abbiamo perduta, cioè l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa
e sterile, e inabile a creare? di voler essere Omeri, in tanta diversità
di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in
quello stesso modo, ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle
fatiche a quegli esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto
questo ci è impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo,
è cambiato anche l'animo, e che la mutazione di questo è un
effetto necessario, perpetuo, e immancabile della mutazione di quelli. Diranno
che gl'italiani sono per clima e natura più immaginosi delle altre nazioni,
e che perciò la facoltà creatrice della immaginativa,
ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che così
fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi, e
vedo negli [729]altri, anche ne' poeti più riputati, che questo
non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come in
cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo; ovvero
intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè
anche l'immaginativa italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose
umane, è illanguidita e spossata in maniera, che per quel che spetta al
creare, non ha quasi più se non quella disposizione che gli deriva dalla
volontà e dal comando dell'uomo, non da sua propria ed intrinseca
virtù, ed inclinazione.
Ma la vera causa per cui gl'italiani, a
differenza di tutti gli altri, non conoscono oggidì altra poesia che la
immaginativa, e della sentimentale sono affatto digiuni, ve la dirò io.
In quest'ozio, in [730]questa noia, in questa frivolezza di occupazioni,
o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita, in somma senza nè
patria nè guerre nè carriere civili o letterarie nè altro
oggetto di azioni o di pensieri costanti, l'italiano non è capace di
sentir nulla profondamente, nè difatto egli sente nulla. Tutto il mondo
essendo filosofo, anche l'italiano ha tanto di filosofia che basta e per farlo
sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli l'immaginazione,
di cui la natura l'avrebbe dotato; ma non quanta si richiede a conoscere intimamente
le passioni, gli affetti, il cuore umano, e dipingerlo al vivo; oltre che
quando anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli, giacchè
bisogna convenire che all'italiano d'oggidì manca la massima parte di
quello studio ch'è duopo per iscriver cose, come son queste,
difficilissime. Sicchè l'italiano, ancorchè si metta a scrivere
col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova
più nulla, e non sapendo che si dire, ricorre ai generali; [731]ovvero
volendo esprimere proprio quello ch'ei sente, non sa farlo, e scrive come un
fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l'italiano
non essendo oggidì capace di poesia affettuosa, ricorre e si dedica
interamente alla immaginosa, non per natura o per vocazione, ma per
volontà ed elezione. E appunto perciò o non vi riesce punto, o
solamente coll'imitare, e tener dietro agli antichi, come un fanciullo alla mamma;
nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti: il quale non è
poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl'italiani,
come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e
della vecchia lingua.
Ma gl'italiani contuttociò, e contro
la natura de' tempi e della poesia, si gittano ad un genere che oggi non
può essere se non o forzato o imitativo, e lo fanno perchè questo
riesce loro molto più facile del sentimentale. [732]1. nessuno
dubita che l'imitare a certi ingegni massimamente, che hanno pochissima o
forza, o abitudine ed esercizio di forza, e d'impazienza e di calore ec. non
sia molto più facile che il creare. E gl'italiani d'oggidì,
poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non trascrivono, come
spesso fanno, e come fa l'Arici, che quello si chiama copiare. 2. Come è
più facile un racconto che un dramma, perchè nel dramma ogni
errore d'imitazione è palese, e si richiede una molto più esatta
corrispondenza alla natura ed al vero; così agl'italiani
d'oggidì, persone, come ho detto, che non sentono, e non hanno bastante
cognizione del cuore umano, è molto più facile il genere immaginativo,
che alla fine è cosa arbitraria, e dove si può anche abbagliare,
come ha fatto l'Ariosto, di quello che il sentimentale dove bisogna seguire
esattamente e passo passo la natura ed il vero, e dove il cuor di ciascuno,
è prontissimo [733]e acutissimo e rigoroso giudice della verità
o falsità, della proprietà o improprietà, della
naturalezza, o forzatura, della efficacia o languidezza ec. delle invenzioni,
delle situazioni de' sentimenti, delle sentenze, delle espressioni ec. E la
facoltà immaginativa si può in qualche modo fingere, o forzare, o
almeno comandare: la sensitiva non mai. E perciò non è maraviglia
se quei moderni italiani i quali, nelle circostanze che ho esposte di sopra,
hanno pur voluto pubblicare opere sentimentali, sono stati fischiati, o degni
di esserlo. Tanto più che la imitazione, (e questi tali si son dati
tutti e totalmente alla imitazione degli stranieri) se disdice
all'immaginativo, molto più al sentimentale, per la stessa ragione per
cui il sentimento non si può nè fingere nè proccurare,
almeno forzatamente. E così tutti i sensati italiani e forestieri, si
accordano in dire che l'Italia manca del genere sentimentale. [734]Ma
non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l'odierna
Italia manca di letteratura, certo di poesia. Quasi che il detto genere fosse
proprio di questa o quella nazione, e non del tempo. Quasi che oggidì la
condizione generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il
mancare di questo genere non fosse lo stesso che mancar di poesia.
La poesia sentimentale è unicamente
ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio
dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de'
secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben
concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri tempi, e non
farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così
raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacchè il sentimentale
è fondato e sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione [735]dell'uomo
e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della
poesia l'essere ispirata dal falso. E considerando la poesia in quel senso nel
quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia
poesia, ma piuttosto una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è
più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della
prosa. Può anche esser più sublime e più bella, ma non per
altro mezzo che d'illusioni, alle quali non è dubbio che anche in questo
genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che
facciano gli stranieri.
(8. Marzo 1821.)
La lingua greca da' suoi principii fino alla
fine, non lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente
nuovi vocaboli. Non è quasi scrittor greco di qualsivoglia secolo, che
venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il
vocabolario greco di qualche novità. [736]Non è secolo
della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno
a Costantino, giacchè credo che S. Basilio e S. Crisostomo si citino nel
Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la lingua non si trovi
arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano ne' più
antichi. E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del proprio
fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa
forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia
de' suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di
conformare la novità delle parole alla novità delle cose, senza
ricorrere ad aiuti stranieri. Insomma il tesoro e la natura, e non solamente
ricchezza, ma fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale
da bastare da per se sola, a tutte le novità che occorresse di
esprimere, come un paese così fertile che fosse sufficiente ad
alimentare [737]qualunque numero di nuovi abitatori o di forestieri. E
questo si può vedere manifestamente anche per quello che interviene
oggidì. Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e
di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino
d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica
occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna
lingua viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre
cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e
s'invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione
di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione
francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle
parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove voci
greche. La fisica, la Chimica, la storia naturale, le matematiche, [738]l'arte
militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di
scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e diversissime da quelle che
si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorchè nuove di pianta,
hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro
nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia subito dal trarre il
suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti secoli spenta, resta
sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che prima
mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di
scoprire, prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che
manchi alla lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la
fonte delle sue denominazioni e parole. Il qual uso, ancorchè io lo
biasimi e condanni per le ragioni che ho dette altrove, non è
però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza immortale di
quella lingua.
[739]Così la lingua greca
che non avea nè Accademie nè Vocabolari, senza perder mai la
facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo terreno ubertosissimo,
costantemente però e tenacemente nemica delle merci straniere (o per carattere
nazionale, o per la stessa ricchezza sua che bastava a tutto) si mantenne
sempre come fertile e prolifica e viva e vegeta e copiosa, così pura e
sincera, fino ai tempi che Costantino trasportando quasi l'Italia nella Grecia,
e l'occidente in oriente, con quella infinita e subitanea novità di
costumi, di abitatori, di corte, ec. introducendo e stabilendo, ed erigendo per
così dire la lingua latina nel bel mezzo delle provincie greche e della
lingua greca, forzò quell'idioma per sì lungo spazio indomito e
vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e illeso fra tutti i pericoli di
barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere, e mescolarle colle proprie
(non per bisogno, ma per uso e [740]commercio quotidiano, e presenza di
gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e finalmente imbarbarire suo
malgrado e a viva forza. V. p.981. capoverso 1. La qual mescolanza e quasi fusione
di usi costumi opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava
già fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già messo il piede,
tuttavia credo che contribuisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le
une colle altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i
loro primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero
fatto per l'addietro, il quale allontanamento e declinazione dal primitivo,
è l'ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli
uomini.
Della lingua latina non si può dire
la stessa cosa che ho detto della greca. E tuttavia mi par di vedere che la
primitiva proprietà, natura, essenza ed organizzazione della lingua
latina, fosse ottimamente ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto. Ma
questo [741]non seguì per le ragioni che son per dire. Non
andrò ora cercando se le radici latine (dico primitive e pure latine)
sieno così copiose come le greche. Il commercio e la diffusione dei
greci, il molto maggior tempo ch'essi durarono e con essi i loro studi, e la
loro lingua, li pose in grado di accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro
radici, molto più che i latini, popolo ristretto in brevi limiti
finattanto che col resto del mondo non conquistò anche la Grecia: ma
allora i progressi delle sue cognizioni, del suo dominio, del suo commercio,
non giovarono a quello delle sue radici; certamente questo non corrispose a
quell'altro, per la ragione che dirò poi. V. in questo proposito
Senofonte J.
Lasciando le radici, osserverò che la
stessa immensa facoltà dei composti che si ammira, e rende più
che altra cosa inesauribile la lingua greca, l'aveva ancora ne' suoi principii
la lingua latina, e l'ebbe per lungo tempo, cioè per lo meno sino a
Cicerone il quale principalmente [742]fissò, ordinò,
stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina.
Ponete mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete in
quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a significare
diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti, ossia decomposti, e
derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli
stessi mezzi si rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente
e facilissimamente. Osservate per esempio il verbo duco o facio e
consideratelo in tutti i suoi derivati o composti, e sopraccomposti, e in tutti
i loro e suoi significati ed usi o propri o metaforici, ma però sempre
così usitati, che benchè metaforici, son come propri. Con ogni
esame mi sono accertato che il verbo duco e il verbo facio per la
copia de' composti, sopraccomposti, con preposizione e senza, derivati e loro
composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di questi che suoi,
è adattattissimo a servire di esempio. (Ludifico, carnifex, sacrificium,
labefacto ed altri infiniti sono i composti del verbo facere senza
preposizione nè particelle ec. ma con altri nomi, alla greca.) E con
queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina
fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer tutto
facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza,
trattabilità, duttilità ec. Come questa facoltà di
servirsi così bene delle sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare
conquistare con sì [743]poca fatica, metter così bene e a
sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare con sì gran
profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella lingua greca
durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella lingua
latina, alla quale abbiamo veduto ch'era non meno naturale e caratteristica che
alla greca, a cui poi si attribuì e si attribuisce come esclusivamente
sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi parranno
verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella
pigliava forma, consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o
dopo questo tempo la cosa non avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno
scrittore nel quale per la copia, varietà, importanza, pregio e fama
singolarissima degli scritti, si riputasse che la lingua tutta fosse contenuta.
L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel tempo che ho detto, e l'ebbe in Cicerone.
Questi per tutte le dette condizioni, per l'eminenza del suo ingegno, e lo
splendore [744]delle sue gesta, del suo grado, della sua vita, e di
tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma formata e perfezionata non
solo la lingua, ma la letteratura, l'eloquenza, la filosofia latina, trasportando
il tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto il primo il sommo
letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli
altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue
opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l'autorità e
l'esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir
di norma e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò
giunta al suo termine; gl'incrementi di essa si stimarono già finiti; si
credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè la
novità; si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo
di arricchire; le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse. ec. E
così Cicerone fra gl'infiniti benefizi fatti alla sua [745]lingua,
gli fece anche indirettamente per la troppa superiorità e misura della
sua fama e merito, troppo soverchiante e primeggiante, questo danno di arrestarla,
come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare se
fosse passata oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e
produttrice, la fertilità, e inaridirla. Nello stesso modo che avvenne
alla eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa
persona (v. Velleio nel fine del 1mo libro). Che siccome per la
letteratura si stimò quasi giunta l'ora del riposo, tanto egli l'aveva
perfezionata (v. p.801. fine) (cosa che non accadde mai nella Grecia,
giacchè a nessuno scrittore in particolare competeva questa
qualità, e la perfezione di un secolo il quale s'intreccia e addentella
col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo, che in se stesso
racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così appunto
intervenne anche alla lingua, la quale similmente, [746]come già
matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì. Questa
può essere una ragione. Quest'altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e
la letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la Grecia, se
non fu l'inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè
informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute,
le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa
medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così
che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera
si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per
esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e
nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua
è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno
anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e
primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando
le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747]quindi pose
sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa
tutto il tesoro della favella. Ma ai latini non accadde lo stesso. La loro
letteratura, le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un
tratto, e belle e formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate,
provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi:
in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto
le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che
quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un
linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e
ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio,
e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non
avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per
manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono, [748]ma
riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie
filosofiche s'era lagnato della novità delle cose e della povertà
della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna
filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo
della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose
era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero
1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali, se non fossero
appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle
tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche
popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non
riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima e
familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime,
e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle
moderne materie filosofiche e simili. E di più erano necessarie.
Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose,
e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche
osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le
discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può
trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura
tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma,
immediatamente e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua
latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove,
disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla
novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo
terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava
già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà
generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò
nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato [750]da suo pari
con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di
coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era
possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose,
accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo
Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è oggi
relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca
già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi
occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda
cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti
della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua,
come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè
così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella
avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole, [751]davan sacco alla lingua greca che l'aveva tutto alla
mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà
dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria
lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole
e modi greci in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come
che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci
entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda. Orazio
già avea dato poco buon esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino
e cortigiano, in somma tutto l'opposto del carattere Romano, e nelle opere
tanto seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re. Non
è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria
eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov'egli
difende e ragiona su questo suo costume. Egli però come uomo di basso ma
sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non pregiudicò grandemente
colla pratica; anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se, giovasse piuttosto
o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti,
e li credo anch'io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco [752]tempo
dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec. per ambedue le dette ragioni
la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina impoveriva dall'un canto e
dall'altro imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo.
Ed è curioso come tristo l'osservare che siccome la lingua latina
rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa
barbarie alla greca, quando già mezzo barbara le si riversò
tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori,
così oggidì la lingua francese rende con eccessiva usura alla
nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici in Francia
ec. La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non all'antica indole,
certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme colla letteratura parimente
corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali
Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare. Solamente noterò
per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo
curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della
lingua italiana. [753]Il qual Frontone, come apparisce ora dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così
della lingua latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io,
è l'ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche distinta
rinomanza. Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare il troppo
libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde, come
appunto gran parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una
riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture,
distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla
a' suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova. Perchè
la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch'è viva,
e come è assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura
delle cose, così è pregiudizievole e porta discapito il volerla
riporre più indietro che non bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
[754]che avea già fatto dirittamente e debitamente. Laddove
bisogna riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene
al tempo e alle circostanze, osservando solamente che questo luogo sia proprio
suo e conveniente alla sua natura. Ma Frontone in luogo di purificare la
lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare, l'antica
ortografia, volendo quasi immedesimare, in dispetto della natura e del vero, il
suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati, e quelle mutazioni
che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la modifica, dipendesse
dalla volontà dell'uomo il fare che non fossero passati e non fossero
accadute, e il cancellare tutto l'intervallo di tempo ed altro che sta fra il
presente e l'antico. Nè osservò che siccome la lingua cammina
sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e variabilissime,
così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua
modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva, [755]quando
è contraria all'indole della lingua, scema o distrugge 1. la sua potenza
e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e propria, altera
perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua
essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto
vano, che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca,
così è impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo
i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali
è fatta, non per qualche ente immaginario, come la virtù o la
giustizia ch'è immutabile o si suppone. E perchè Cicerone non
iscrisse come il vecchio Catone ec. non perciò resta ch'egli non sia,
come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè che Virgilio non sia il primo poeta latino, e limpidissimo
specchio di latinità (riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla
elocutionum), perciò che la sua lingua è ben diversa [756]da
quella di Ennio di Livio Andronico, ec. e anche di Lucrezio. Bisogna
però ch'io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in
quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio
e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di
quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a
fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si
rende assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua
lingua veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli
antichi, non però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di
antichità a' suoi scritti, col solo materiale e parziale uso delle
parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura sapesse poi veramente di
antico, e se quelle parole e modi vi cadessero acconciamente e naturalmente, o
forzatamente, e dissonando dal corpo della composizione. Frontone non sognò
neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e
formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto
in tratto. Il che [757]fanno i nostri per impotenza, ignoranza,
povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser buoni scrittori
italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come capita, un certo
numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non sapendo vedere se
corrispondano al resto e all'insieme del colorito e dell'andamento, e testura
del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora cucito sopra un panno
vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io dica quello
ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi
scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, e incapacità,
e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi, e decisa insufficienza
alle imprese, agli assunti ec. quanto negli odierni italiani: e Frontone del
resto non fu niente povero d'ingegno. Il suo peccato si può ridurre
all'aver considerato come modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio
e che lo stesso Lucrezio (che tanto l'arricchì nella parte filosofica)
piuttosto Catone che Tullio; all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse
la perfezione della lingua latina, all'avere attinto più da quelli che
da questi, e consideratili come fonti più ricchi o più sicuri
ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme però
all'ordinario rispetto per l'antico) maggiore autorità in fatto di
lingua. ec. ec. Questo sia detto in trascorso e per digressione.
Tornando al proposito, cioè
all'arricchire [758]la lingua del prodotto delle sue proprie sostanze, e
dalla greca e latina, passando alle vive, questa è sempre stata e sarà
sempre facoltà inseparabile dalla vita delle lingue, e da non finire se
non colla loro morte. Tutte le lingue vive la conservano, eccetto quelli che vorrebbero
che la italiana la deponesse. La francese, la quale a differenza dell'italiana,
si è spogliata della facoltà di usare quelle delle sue parole e
modi antichi e primitivi, che le potessero tornare in acconcio (come ho detto
altrove); parimente a differenza di ciò che si esigerebbe dalla
italiana, ha conservato sempre ed usato la facoltà di mettere a frutto e
moltiplico il suo presente tesoro. E la stessa lingua latina, la quale per le
ragioni che ho detto, perdè in parte questa facoltà dopo Cicerone,
non la perdè, se non in quanto a quella felicissima ed immensa facoltà
di composti e sopraccomposti o con preposizione o particella, ovvero di
più parole insieme; facoltà che la metteva quasi [759](cioè
in proporzione della quantità delle radici e de' semplici) al paro della
greca; facoltà che si può vedere e nelle primitive parole latine
composte nei detti modi, o con avverbi (come propemodum e mille altre),
in somma come le greche, e che sono durate nell'uso della latinità sino
alla fine, ma non però imitate nè accresciute; e in quelle che
poi caddero dall'uso, e si possono veder ne' più antichi latini (come in
Plauto lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille altre, e prendo le
primissime che ho incontrate subito), e servono a far conoscere la primitiva
costituzione, forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà in
fine, ch'è la massima e più ricca sorgente della copia delle
parole, e della onnipotenza di tutto esprimere, ancorchè nuovissimo; il
che si ammira nel greco, e si potè una volta notare anche nel latino. I
primi scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec. antico (come
lectisternium antica festa romana) abbondano siffattamente di parole
composte alla greca di due o più voci, che non si può forse
leggere un passo di detti autori ec. senza trovarne, ma la più parte
andate in disuso. Spesso eran proprie di quel solo che le inventava. Talvolta
anche di eccessiva lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di
antico poeta riferita da Varrone (De L. L. lib.4.) (p.3. della mia ediz. del
400.) Quest'uso ottimo e felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata,
o comunque [760]lasciata trasandare, abbandonare, dismettere, dimenticare
alla lingua latina, che era per forza d'essa facoltà così bene
istradata alla onnipotenza, ne' suoi principii. Ma la facoltà di
arricchire la propria lingua col prodotto delle sue proprie radici in ogni
altro genere, coi derivati ec. non fu mai abbandonata finch'ella visse, e non
poteva esserlo, stante ch'ella vivesse. Non solamente i cattivi o mediocri, ma
anche i buoni ed ottimi scrittori dopo Cicerone, se ne prevalsero tutti, e
tutti scrivendo aumentarono il tesoro della lingua, e questa non lasciò
mai di far buoni e dovuti progressi, finchè fu adoperata da buoni e degni
scrittori.
Così deve tenersi per fermissimo,
ch'è indispensabile di fare a tutte le lingue finch'elle vivono. La
facoltà de' composti pur troppo non è propria delle nostre lingue.
Colpa non già di esse lingue, ma principalmente dell'uso che non li
sopporta, non riconosce nelle nostre lingue meridionali [761](delle
settentrionali non so) questa facoltà, delle orecchie o non mai assuefatteci,
o dissuefattene da lungo tempo. Perchè del resto 1. le nostre
preposizioni, massimamente nella lingua italiana, sarebbero per la più
parte, appresso a poco non meno atte alla composizione di quello che fossero le
greche e latine, e noi non manchiamo di particelle attissime allo stesso uso,
anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re, tra o
stra, arci, dis, o s, in negativo o privativo, e
affermativo, mis, di, de ec. E di queste abbondiamo anzi più de'
latini, e forse anche dei greci stessi, e credo certo anche de' francesi e
degli spagnuoli.) V. il Monti, Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi
p.2078. 2. anche ai composti di più parole la lingua massimamente
italiana, sarebbe dispostissima, come già si può vedere in alcuni
ch'ella usa comunemente (valentuomo, passatempo, tuttavolta, capomorto,
capogatto, tagliaborse, beccafico, falegname, granciporro, e molti e molti
altri); v. p.1076. e Monti, Proposta ec. v. guardamacchie ed anche la
lingua francese (emportepièce, gobemouche, fainéant coi derivati
ec.) 3. non manchiamo neppure di avverbi atti a servire alla composizione. 4.
la nostra lingua benchè non si pieghi e non ami in questo genere la
novità, ha però non poco in questo genere, come i composti colla
preposizione in, tra, fra, oltra, [762]sopra, su, sotto,
contra, anzi ec. ec. e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito
nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche
l'ardire de' composti, de' quali egli abbonda (come indiare, intuare,
immiare, disguardare ec. ec.) massime con preposizioni avverbi, e
particelle. E così gli altri antichi nostri. Ma a noi pure è avvenuto,
come ai latini, che questa onnipotente facoltà, propria della primitiva
natura della nostra lingua, (sebbene allora pure in minor grado che, non solo
della greca, ma anche della latina) s'è lasciata malamente e
sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino buona
parte di quelli che si sono trovati in uso, e si adoprino come recentissimi,
attestando continuamente la primiera facoltà e natura della nostra
lingua; ma de' veramente nuovi e recenti non si gradiscono. E tutto questo
appresso a poco è avvenuto anche alla lingua francese. V. p.805. Dei
composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà,
ma non però nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne
resta ancor tanta da potere, senza [763]la menoma affettazione formare e
introdurre molti nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi,
mollissimi per l'una parte; e per l'altra utilissimi; specialmente con
preposizioni e particelle ec. Quanto poi ai derivati d'ogni specie
(purchè sieno secondo l'indole e le regole della lingua, e non riescano
nè oscuri nè affettati) e a qualunque parola nuova che si possa
cavare dalle esistenti nella nostra lingua, che stoltezza è questa di
presumere che una parola di origine e d'indole italianissima, di significazione
chiarissima, di uso non affettata nè strana ma naturalissima, di suono
finalmente non disgrata all'orecchio, non sia italiana ma barbara, e non si possa
nè pronunziare ne scrivere, per questo solo, che non è registrata
nel Vocabolario? (E quello che dico delle parole dico anche delle locuzioni e
modi, e dei nuovi usi qualunque delle parole o frasi ec. già correnti,
purchè questi abbiano le dette condizioni.) Quasi che la lingua italiana
sola, a differenza di tutte le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito,
si debba, mentre ancor vive nell'uso quotidiano della nazione, considerar come
morta e morire vivendo, ed essere a un tempo viva e morta. Converrebbe che
anche questa nazione vivesse come morta, cioè che nella sua esistenza
non [764]accadesse mai novità, divario, mutazione veruna,
nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e
più di quello che si dice della China, la cui lingua in tal caso
potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto
conforme alla vita e alle condizioni de' nostri antichi, e di que' secoli dopo
i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la
lingua italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che
libertà che facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra
presente, più di quello che nell'adoprare la greca e latina che sono
antiche ed altrui? e le cui fonti sono disseccate e chiuse da gran tempo,
restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono aperte, e quelle
lingue vissero. Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani i quali
nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi dubbio se
ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno superstiziosi di
quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua nostra. E noi medesimi
oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta Europa) derivando,
come facciamo spessissimo, [765]dal greco le parole che ci occorrono per
li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai parlatori di
quella lingua, non formiamo voci parimente ignote all'antica lingua greca? Ci
facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o se non hanno per se
l'autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi in una lingua
morta, stranierissima, e al tutto fuori d'ogni nostro diritto? Il che, sebbene
si facesse con buon giudizio, e coi dovuti rispetti all'indole di quella lingua
(al che per verità pochi hanno l'occhio nella formazione di tali voci),
a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la eredità che
ci è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi,
dai quali non si può nè ricavare nè pretendere altro
servigio che dell'usarli identicamente. Ma la nostra lingua propria è
un'eredità, un capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da' nostri
maggiori, i quali come l'hanno fatto fruttare, così ce l'hanno [766]trasmesso
perchè facessimo altrettanto, e non mica perchè lo seppellissimo
come il talento del Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione,
credessimo di custodirlo, e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni
prodotto, la vegetazione, il prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo
come di un capitale morto ec.
Osservo anche questo. Noi ci vantiamo con
ragione della somma ricchezza, copia, varietà, potenza della nostra
lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi
di tutte le forme, prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in
essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi
moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra
favella. Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste
qualità? Forse dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza?
Così ordinariamente si dice, ma c'inganniamo di gran lunga. Le dette
qualità, le lingue non [767]le hanno mai per origine nè
per natura. Tutte a presso a poco sono disposte ad acquistarle, e possono non
acquistarle mai, e restarsene poverissime e debolissime, e impotentissime, e
uniformi, cioè senza nè ricchezza, nè copia, nè
varietà. Tale sarebbe restata la lingua nostra, senza quello ch'io
dirò. Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi
nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate, e con molto studio ed impegno,
e da molti, e assiduamente, e per molto tempo. Quello che proccura alle lingue
le dette facoltà e buone qualità, è principalmente
(lasciando l'estensione, il commercio, la mobilità, l'energia, la
vivacità, gli avvenimenti, le vicende, la civiltà, le cognizioni,
le circostanze politiche, morali, fisiche delle nazioni che le parlano)
è, dico, principalmente e più stabilmente e durevolmente che
qualunque altra cosa, la copia e la varietà degli scrittori che l'adoprano
e coltivano. (V. p.1202.) Questa siccome, per ragione della maggior durata, e
di altre molte circostanze, fu maggiore nella Grecia che nel Lazio,
perciò la lingua greca possedè le dette [768]qualità,
in maggior grado che la latina; ma non prima le possedè che fosse
coltivata e adoperata da buon numero di scrittori, e sempre (come accade
universalmente) in proporzione che il detto numero e la varietà o de'
soggetti o degli stili o degl'ingegni degli scrittori, fu maggiore, e s'accrebbe.
La lingua latina similmente non le possedè (sebben meno della greca,
pure in alto grado) se non quando ebbe copia e varietà di scrittori.
Tutte le lingue antiche e moderne che hanno mancato di questo mezzo, hanno
anche mancato di queste qualità. Per portare un esempio (oltre le lingue
Europee meno colte) la lingua Spagnuola, nobilissima, e di genio al tutto classico,
e somigliantissima poi alla nostra particolarmente, sì per lo genio,
come per molti altri capi, e sorella nostra non meno di ragione che di fatto, e
di nascita che di sembianza, costume, indole, non è inferiore alla
nostra nelle dette qualità, se non perchè l'è inferiore
principalmente nella copia e varietà degli scrittori. Se la lingua
francese, non ostante la gran quantità degli scrittori, e degli [769]ottimi
scrittori, si giudica ed è tuttavolta inferiore alla nostra ed alle
antiche per questo verso, ciò è avvenuto per le ragioni
particolari che ho più volte accennate. La riforma di essa lingua, la
regolarità prescrittale, la figura datale, avendo uniformato tutti gli
stili, la poesia alla prosa; impedita la varietà e moltiplicità
della lingua, secondo i vari soggetti e i vari ingegni; tolta la
libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori, in questo particolare;
tolto loro l'ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e timidi ec. ec. la Francia
è venuta a mancare della varietà degli scrittori, non ostante che
n'abbia la copia, ed abbia la varietà de' soggetti, perchè tutti
i soggetti da tutti gl'ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo modo. E
ciò deriva anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà di
quella nazione, e della influenza della società: così stretta e
legata, che tutti gl'individui francesi fanno quasi un solo individuo. E laddove
[770]nelle altre nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi,
in quello è pregio e necessità il rassomigliarsi anzi l'uguagliarsi
agli altri, e ciascuno a tutti e tutti a ciascuno. Queste ragioni rendendogli
timidi dell'opinione del ridicolo ec. e scrupolosi osservatori delle norme
prescritte e comuni nella vita, li rende anche superstiziosi, timidi, schivi
affatto di novità nella lingua. Ma tutto ciò quanto alle sole
forme e modi, perchè questi soli, sono stati fra loro determinati, e prescritti
i termini (assai ristretti) dentro i quali convenga contenersi, e fuor de'
quali sia interdetto ogni menomo passo. E così quanto allo stile uniforme
si può dire in tutti, e in tutti i generi di scrittura, anche nelle
traduzioni ec. tirate per forza allo stile comune francese, ancorchè
dallo stile il più renitente e disperato; e quanto in somma
all'unità del loro stile, e del loro linguaggio che ho notata altrove.
Ma non quanto alle parole, nelle quali, restata libera in Francia la facoltà
inventiva, e il derivare novellamente dalle proprie fonti, sempre aperte
sinchè la lingua vive; la lingua francese cresce di parole ogni giorno e
crescerà. Che se le cavassero sempre dalle proprie fonti, o con quei
rispetti che si dovrebbe, non avrei luogo a riprenderli, come ho fatto altrove,
e della corruzione e dell'aridità a cui vanno portando la loro lingua. [771]La
quale inoltre, da principio, era, come la nostra, attissima alla novità
ed al bell'ardire, anche nei modi, secondo che ho detto altrove. La lingua
tedesca, rimasa per tanti secoli impotente ed umile, ancorchè parlata da
tanta e sì estesa moltitudine di popoli, non per altro che per avere
avuto nell'ultimo secolo e ne' pochi anni di questo, immensa copia e
varietà di scrittori, è sorta a sì alto grado di
facoltà e di ricchezza e potenza.
La lingua italiana dunque, scritta per sei
secoli fino al 18vo. inclusivamente, e scritta da una
infinità di autori d'ogni soggetto, d'ogni stile, d'ogni carattere,
d'ogni ingegno, oltracciò abbondantissima, quanto e più, certo
prima di qualunque altra lingua viva, non solo di scrittori comunque, ma
scrittori peritissimi nel linguaggio, coltivatori assidui, ed espressamente
dedicati allo studio della lingua, maestri e modelli del bel parlare,
studiosissimi delle lingue antiche per derivarne nella nostra tutto il buono e
l'adattato, liberi, coraggiosi, e felicemente arditi nell'uso della lingua;
questa lingua [772]dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi
principii, come tutte le altre, e da barbare origini; di più, cresciuta
e fatta se non matura certo adulta e vigorosissima fra le tenebre
dell'ignoranza, della superstizione, degli errori della barbarie; non per altro
che per li detti motivi, e prima e sola fra le viventi, è venuta in tal
fiore di bellezza, di forza, di copia, di varietà, ec. che giunge quasi
a pareggiare le due grandi antiche (chi bene ed intimamente e in tutta la sua
estensione la conosce), non avendo rivale fra le moderne. Se dunque abbiamo
veduto come le doti delle lingue, e in ispecie la copia e la varietà,
non derivano principalmente se non dalla copia e varietà degli
scrittori, e non da natura di essa; ne segue che quando gli scrittori lasceranno
per trascuraggine o ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno impediti di
farlo, la lingua non arricchirà, non crescerà, non monterà
più, e siccome le cose umane, non si fermano mai in un punto, ma vanno
sempre innanzi o retrocedono, così la lingua non avanzando più,
retrocederà, [773]e dopo essere isterilita, impoverirà
ancora, perderà quello che avea guadagnato, e finalmente si ridurrà
a tal grado di miseria e d'impotenza, che non sarà più
sufficiente all'uso e al bisogno, e allora sì che le converrà
domandare soccorso alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel
motivo appunto il quale si credeva doverla preservare dalla corruzione, e
mantenerla pura e sana. Forse che non vediamo già accadere tutto questo?
Quante ricchezze delle già guadagnate, e per così dire, incamerate,
ha ella perduto quasi e senza quasi del tutto! Ma di questo dirò poi.
Vogliamo noi dunque ridurre la lingua
italiana e nelle parole e nei modi, a quella stessa paura, scrupolosità,
superstizione, schiavitù, grettezza, uniformità della lingua
francese nei soli modi? Almeno i francesi hanno una scusa nella natura della
loro nazione, a cui la società è vita, alimento, diletto, e
spavento, sanguisuga, tormento, morte. [774]A noi manca questa scusa, se
già non vogliamo infrancesire interamente anche nei costumi, usi, vita,
gusti, idee, inclinazioni ec. e perdere fino alla sembianza, aspetto, forma
d'italiani, come abbiamo più che incominciato.
Diranno che la lingua, benchè per lo
mezzo, e l'ardire e libertà degli scrittori, è giunta però
a quella perfezione, la quale non possa oltrepassare senza guastarsi. Vi
giunse, cred'io, nè più nè meno in quel punto in cui
finì di pubblicarsi l'ultimo Vocabolario della Crusca, giacchè in
questo o certo nei precedenti, sono riportate moltissime parole
coll'autorità di scrittori ancora viventi e scriventi. Anzi il Buonarroti
scrisse la Fiera appostatamente per somministrar parole al Vocabolario. L'ultimo
tomo dunque di questo, e quell'anno, quel mese, quel giorno in cui fu pubblicato
chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, state aperte da cinque secoli.
Ma lasciando le burle, do e non concedo che la lingua italiana, sia stata
già [775]portata dagli scrittori a quella somma perfezione a cui
possa pervenire in ordine a tutte le altre qualità, (errore
manifestissimo, ma lasciamolo passare). Nella ricchezza, copia, e
varietà nego che veruna lingua del mondo, o attuale o possibile, possa
mai essere perfetta finchè non muore. E ciò nasce che le cose
ancora vivono sempre, e si modificano sempre novellamente, e si moltiplicano le
conosciute: ora una lingua non è mai perfettamente ricca, anzi perfettamente
fornita del necessario, finch'ella non può esprimere perfettamente, e
convenientemente tutte le cose, e tutte le possibili modificazioni delle cose
di questo mondo. Sicchè una lingua non avrà più mestieri
di accrescimento, allora solo quando o essa o il mondo sarà finito.
Quali effetti produca poi, e quanto sia
pericoloso il volere arrestare una lingua, come già perfetta, e lo
scoraggirsi di accrescerla, per la persuasione [776]che ciò non
sia più necessario, nè lecito e giovevole, nè possibile,
si può vedere in quello che ho detto della lingua latina.
E prima di partire da questo soggetto della
ricchezza e copia e bontà generale e potenza delle lingue proccurata
principalmente dalla copia e varietà ed ingegno degli scrittori,
osserverò che quella medesima superiorità di circostanza ch'ebbe
la lingua greca sulla latina, e che fu seguita dall'effetto di restarle
realmente e sempre superiore nella sostanza, l'abbiamo noi pure sopra tutte le
altre lingue viventi, e colte. Perchè siccome la coltura della lingua
greca, e gli scrittori suoi, incominciati assai per tempo, abbracciarono
lunghissimo spazio, e il loro numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in
proporzione di questo spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà
e potenza della lingua greca, crebbe in modo che non potè mai essere
agguagliata dalla latina: così la lingua italiana [777]scritta
già come ho detto da sei secoli in qua, e, si può dire, in
ciascun secolo, abbondantissima di diversissimi scrittori e cultori, ha su
tutte le altre lingue moderne e colte quello stesso vantaggio di circostanza
ch'ebbe la greca sulla latina. Vantaggio che per nessuno ingegno e nessuno
sforzo e studio di nessuna nazione ci potrà mai esser levato, se noi non
vorremo. Ma ecco che noi siamo fermati, e la lingua nostra non fa più
progressi. La lingua francese infaticabilmente si accresce di tutte le parole
che le occorrono. La lingua tedesca avanza e precipita come un torrente, e
guadagna tuttogiorno vastissimi spazi, in ogni genere di accrescimento. Noi da
qualche tempo arrestati, neghittosi, ed immobili, manchiamo del bisognevole per
esprimere e per trattare la massima parte delle cognizioni e delle discipline e
dottrine moderne, ed usi e opinioni ec. ec. oggi più rapide nel crescere
e propagarsi, e variare ec. di quello che mai [778]fossero, e in
proporzione che la nostra indolenza e infingardaggine presente, è
opposta alla energia ed attività passata. Così la lingua italiana
perde il vantaggio dello spazio che avea guadagnato per valore de' suoi antichi
e primi padri, sopra le altre lingue, e queste correndo più velocemente
che mai, fra tanto che la nostra siede e dorme, riguadagneranno tutto lo spazio
perduto per la inerzia de' loro antichi, arriveranno ben presto la nostra e la
passeranno. E la nostra non solo non sarà più nè superiore
nè uguale alle altre colte moderne, ma tanto inferiore, che divenuta impotente,
e buona solo a parlare o scrivere ai bisavoli; o non saprà esprimer
niente del bisognevole, nè parlare e scrivere in nessun modo ai
contemporanei; o lo farà (come già lo fa per quel poco che parla
e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello che ne dice non del suo,
ma copiando o seguendo gli stranieri) invocando l'altrui soccorso, servendosi
degl'istrumenti e mezzi altrui, e quasi trasformandosi [779]in un'altra,
o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno straniero (come i
piccoli e deboli confederati de' grandi e potenti) essa ch'era capo di tutte le
lingue viventi. Laddove siccome le altre lingue (come anche le altre
letterature, e repubbliche scientifiche) raddoppiano l'energia e la veemenza e
gagliardia del loro corso, così che in breve riguadagneranno lo spazio
perduto da' loro maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo, ci
pareggeranno finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a
moltissimi rami del sapere è già accaduto): così conviene
che ancor noi pareggiamo i nostri ai loro sforzi, e così non perdendo il
vantaggio acquistato, restiamo perpetuamente superiori a tutti, se non nel
presente valore, certo pel detto vantaggio acquistato dagli avi, e mantenuto da
noi.
Conchiuderò con una osservazione che
benchè fatta, io credo, da altri, tuttavia merita di essere ripetuta,
perchè sia sempre più [780]considerata e sempre meglio svolta.
Non solamente i bisogni della lingua aumentano e si rinnuovano tuttogiorno, ma
i mezzi della lingua, senza la novità delle parole, tuttogiorno diminuiscono.
Quante voci e modi e frasi che una volta erano e usitatissime, e naturalissime,
e chiarissime, e comunissime, ed utilissime efficacissime espressivissime
frequentissime nel discorso, ora per essere antiquate, o non son chiare, o
anche potendosi intendere, anche essendo chiarissime, non si debbono nè
possono usare perchè non riescono e non cadono naturalmente, e
manifestano e sentono quello che sopra ogni cosa si deve occultare, lo studio e
la fatica dello scrittore. Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno
rinnovando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci
e locuzioni. Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente
col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre
fatto tutte le lingue colte o non colte, e come si è sempre inculcato a
tutte le lingue [781]colte, ma per lo contrario perderà
continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola
e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare
ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per un altro verso che
quello stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la intolleranza
della giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a dirittura. E per
parlare particolarmente della lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1.
quanto le lingue sieno soggette a perdere delle ricchezze loro: 2. come
perdendo da una parte e non guadagnando dall'altra, la lingua non più
per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo è fuggito, anzi temutone
da tutti gli scrittori italiani il biasimo e il ridicolo) ma per decisa
povertà e necessità imbarbarisca? Prendiamoci il piacere di
leggere a caso un foglio qualunque del Vocabolario e notiamo tutte quelle
parole e frasi ec. che sono uscite fuor d'uso, e che non si potrebbero usare, o
non senza difficoltà. Io credo che nè meno due terzi del
vocabolario [782]sieno più adoperabili effettivamente nè
servibili in nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile.
Queste perdute, infinite altre che sebbene dimenticate e fuor d'uso, sono però
ricchezza viva e realissima (come spesso necessarissima) perchè chiare a
chiunque, e ricevute facilmente e naturalmente dal discorso e dagli orecchi di
chi si voglia, ma tuttavia sono abbandonate e dismesse per ignoranza della
lingua (la quale in chi maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova,
perchè il pieno possesso dell'immenso tesoro della lingua non appartiene
oggi a nessuno neanche de' più stimati per questo); finalmente la mancanza
delle voci nuove adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono
gli scrittori d'oggidì a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua
loro del tutto insufficiente ai loro concetti, benchè sempre poverissimi,
triti, ordinari, triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè spesso
anzi per lo più vecchissimi e canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità,
(e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti)
l'arruolare al nostro esercito [783]nuove truppe, l'accrescere la nostra
città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e
quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è
anzi l'unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla
irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue
che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori
camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono
impedite di più camminare nè progredire, nè muoversi in verun
lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella
stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini e le cose
umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in
ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e
conveniente novità, non è preservarle, ma tutt'uno col guidarle
per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie.
(8-14. Marzo 1821.)
[784]Da torvo parola
italianissima e di Crusca, il Caro nell'Eneide (l.2. dove parla del simulacro
di Pallade) fece torvamente, parola che non si trova nel Vocabolario. Ci
può esser voce più chiara, più naturale, e ad un tempo
più italiana di questa? Ma perchè non istà scritta nella
Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre la famosissima
Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella
voce non si potrà usare? Questo lo dico per un esempio, . Del resto
questo è un derivato senza ardire nessuno, e sebbene anche di questa
specie se ne danno infiniti, e così anche giovano moltissimo alla
lingua, sì per la moltitudine, sì anche individualmente;
nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi nuovi di parole o modi
già correnti, fatti con un certo ardire. Ma ho portato questo esempio
per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre proprie radici,
che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole vecchie e
usitate, sì per la chiarezza che per la naturalezza, per la forma, suono
ec. e quindi sieno tanto italiane quanto la stessa Italia. Del qual genere se
ne danno, come ho detto, infiniti a ogni passo.
(15. Marzo 1821.)
[785]Tutto quello che ho detto
della derivazione di nuove parole o modi ec. dalle proprie radici, o dei nuovi
usi delle parole o modi già correnti, lo voglio estendere anche alle
nuove radici, non già straniere, non già prese dalle lingue madri,
ma italiane, e non già d'invenzione dello scrittore, ma venute in uso
nel linguaggio della nazione, o anche nelle scritture anche più rozze ed
impure, purchè quelle tali radici abbiano le condizioni dette di sopra
in ordine ai nuovi derivati ec. E queste nuove radici possono esser nuove in
due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell'uso quotidiano; o nuove
ancora in questo. V. p.800. fine. Qui non voglio entrare nelle antichissime
quistioni, qual popolo d'Italia, qual classe ec. abbia diritto di somministrar
nuovi incrementi alla lingua degli scrittori. Osserverò solamente 1.
quel luogo di Senofonte circa la lingua attica che ho citato p.741. in marg.
notando che la Grecia si trovava appunto nella circostanza dell'Italia per la
varietà dei dialetti, e che quello che prevalse [786]fu quello
che tutti gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè
l'attico, come quello che fra noi si chiama propriamente italiano.
Giacchè c'è gran differenza tra quell'attico usitato da' buoni
scrittori greci, divulgato per tutto, quello di cui parla Senofonte ec. ec. e
l'attico proprio. Nello stesso modo fra il toscano proprio, e il toscano
sinonimo d'italiano. V. p.961. capoverso 1. 2. Che senza entrare in discussioni
è ben facile il distinguere (almeno agli uomini giudiziosi,
perchè già senza buon giudizio non si scriverà mai bene
per nessun verso) se una parola usitata in questa o quella parte d'Italia, non
però ammessa ancora o nelle scritture o nel vocabolario, ec. abbia le
dette condizioni, cioè sia chiara, facile, inaffettata, di sapore di
suono di forma italiana. (Giacchè di origine italiana, è sempre
ch'ella è usata in Italia da molti, purchè non sia manifestamente
straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite sono le antiche parole
straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra lingua.) In questo caso
qualunque sia la parte d'Italia che la usa, una voce, una frase qualsivoglia
sarà sempre [787]italiana, e salva quanto alla purità,
restando che per usarla nelle scritture si considerino le altre qualità
necessarie oltre la purità ad una voce o frase per essere ammessa nelle
scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o quella occasione
ec. 3. Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè
coll'accogliere, e porre nel loro tesoro le nuove voci create dall'uso della
nazione; e che come quest'uso è sempre fecondo, così le porte
della scrittura e della cittadinanza, sono sempre aperte, per diritto naturale,
a' suoi novelli parti, in tutte le lingue, fuorchè nella nostra, secondo
i pedanti. E questa è una delle massime, e più naturali e
legittime e ragionevoli fonti, della novità, e degl'incrementi necessari
della favella. Perchè cogl'incrementi delle cognizioni, e col successivo
variar degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o estrinseche ec. ec.
crescono le parole e il tesoro della lingua nell'uso quotidiano, e da quest'uso
debbono passare nella scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da
contemporanea, e delle cose del tempo ec. Così cresce ogni momento di
parole proprissime e francesissime [788]la lingua francese, mediante
quel fervore e quella continua vita di società e di conversazione, che
non lascia esser cosa bisognosa di nome, senza nominarla; massime se appartiene
all'uso del viver civile, o alle comuni cognizioni della parte colta della
nazione: e per l'altra parte mediante quella debita e necessaria libertà,
che non fa loro riguardare come illecita una parola in ogni altro riguardo
buona, e francese, ed utile, e necessaria, per questo solo che non è
registrata nel vocabolario, o non anche adoperata sia nelle scritture in
genere, sia nelle riputate e classiche. 4. Ripeterò quello che ho detto
della necessità di ammettere la giudiziosa novità a fine appunto
di impedire che la lingua non diventi barbara. Perchè la novità
delle cose necessitando la novità delle parole, quegli che non
avrà parole proprie e riconosciute dalla sua lingua, per esprimerle; forzato
dall'imperioso bisogno ricorrerà alle straniere, e appoco appoco si
romperà ogni riguardo, e trascurata la purità della lingua, si cadrà
del tutto nella barbarie. [789]Il che si può vedere, oltre
l'esempio nostro, per quello della lingua latina, perchè questa
parimente, dopo Cicerone, mancata, o per trascuraggine e ignoranza, come ho
detto altrove, e per non trovarsi nè così perfetti possessori, e
assoluti padroni della lingua, nè così industriosi, oculati,
giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di lei fondo, e negoziatori
della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità, scoraggimento,
falsa e dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse già perfetta,
o ch'ella in quanto a se non fosse più da crescere nè da muovere,
nè da toccare; o per superstizione di pedanti che sbandissero le nuove
voci tratte dall'uso, o dalle radici della lingua, come mancanti di
autorità competente di scrittori (il che veramente accadeva, come si
vede in Gellio); o anche per falsa opinione che le radici o l'uso, o insomma il
capitale proprio della lingua non avessero effettivamente più nulla da
dare, che facesse al caso, o convenisse alle scritture ec. ec.: mancata dico
per tutte queste ragioni alla lingua latina la debita libertà, e la [790]giudiziosa
novità, ebbe ricorso, per bisogno, allo straniero, e degenerò in
barbaro grecismo. E come, per fuggir questo male, è necessario dar
giusta e ragionata (non precipitata, e illegittima, e ingiudicata e anarchica)
cittadinanza anche alle parole straniere, se sono necessarie, molto più
bisogna e ricercare con ogni diligenza, e trovate accogliere con buon viso, e
ricevere nel tesoro della buona e scrivibile e legittima favella, sì i
derivati delle buone e già riconosciute radici, sì le radici che
non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per l'uso della
nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le cerchi, le
chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti, e
a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua.
Per aver poco bisogno [795]di voci
straniere, è necessario che una nazione, non solo abbia coltivatori di
ogni sorta di cognizioni e nel tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori
della lingua, ed in se stessa una vita piena di varietà, di azione, di
movimento ec. ec. ma ancora ch'ella sia l'inventrice o di tutte o di quasi
tutte le cognizioni, e di tutti gli oggetti della vita che cadono nella lingua,
e non solo pura inventrice, ma anche perfezionatrice, perchè dove le discipline,
e le cose s'inventano, si formano, si perfezionano, quivi se ne creano i
vocaboli, e questi con quelle discipline e con quegli oggetti, passano agli
stranieri. Così appunto è avvenuto alla Grecia, e però
appunto la sua lingua si fe' così ricca, e potè mantenersi
così pura, a differenza della latina. Perchè la greca abbisognava
di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna disciplina (si
può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto
che la lingua diveniva tale): la latina viceversa. All'Italia da principio
veniva ad accader quasi lo stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline
che si conobbero in quei tempi, [796]abbondandone nel suo seno i
coltivatori, e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo
anche molta vita e varietà e riputazione al di fuori, e spirito
patriotico, sebben disunito, pure e forse anche più valevole, a fornirla
di molti oggetti di lingua. Ma essendosi fermata nel momento che le discipline
e sono cresciute di numero, e tutte portate a un perfezionamento rapidissimo, e
vastissimo; non essendo intervenuta per nessuna parte ai travagli immensi di
questi ultimi secoli, tanto nel perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto;
di più avendo nello stesso tempo per diverse cagioni, trascurata affatto
la sua lingua, in maniera che anche quegli italiani scrittori che hanno
cooperato alquanto (e ben poco, e pochi) col resto dell'Europa, al progresso
ultimo delle cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo
scritto non italiano, ma barbaro, ed avendo adottate di pianta le rispettive
nomenclature o linguaggi che aveano trovate presso gli stranieri nello stesso
genere, o in generi simili al loro (se per avventura essi ne fossero stati
gl'inventori): è doloroso, ma necessario il dire, che s'ella d'ora
innanzi non vuol esser la sola parte d'Europa meramente ascoltatrice, o
ignorare affatto le nuove universalissime cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei,
e di cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come
bisogna pur fare in ogni modo; le conviene ricevere [797]nella
cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona
quantità di parole affatto straniere. Si consoli però che tutte
le nazioni, quando più quando meno hanno avuto il medesimo bisogno,
quale in un tempo, quale in un altro; l'ha avuto anche la sua antica lingua,
cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei principii della nostra
lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova
nei principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà
far quello ch'io dico con retto e maturo e accurato e posato giudizio. Anzi si
dia fretta a introdurre e scegliere queste medesime voci straniere se non vuole
che la lingua imbarbarisca del tutto, e senza rimedio. Perchè l'unica
via di arrestare i progressi della corruttela è questa. Proclamare lo
studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che
ciascun scrittore impadronitosi bene della lingua e conosciutone a fondo l'indole
e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre, e impiegare e spendere la
novità necessaria, anche straniera. Finchè uno scrittore qualunque
(che non sia da bisavoli) [798]sarà privo di questa
libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria
novità si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e
se le presenta e prescrive come purità di lingua, e tra la
facoltà di trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri
(originali e propri, o no, ma solamente moderni): disperando di una
purità nella quale sia non solamente difficile, (come sempre sarà
ed in ogni caso) ma del tutto impossibile di esprimere i suoi pensieri, la
trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora la buona intenzione)
colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella barbarie la quale sola
gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere. Ovvero al
più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori
vuotissimi e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando
nessun de' due può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i
primi, senza riunire le due qualità e i due pregi che consistono nelle
parole e nelle cose. Disordini però tutti già tanto inoltrati in
Italia, e bisognosi di sì lunga opera, e di tanto ingegno e [799]giudizio,
e di tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se
ne verrà certo a capo in questa generazione, e chi sa quando.
(Giacchè per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe
prima in somma rimettere in piedi l'Italia, e gl'italiani, e rifare le teste e
gl'ingegni loro, come lo stesso bisognerebbe per la letteratura, e per tutti
gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa nazione; che con questi
ingegni, con queste razze di giudizi e di critica, faremo altro che ristaurare
la lingua.) Perchè se si presume di averlo conseguito collo sbandire e
interdire e precludere affatto la novità delle cose e del pensiero,
lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè
eccetto pochissimi i più puri e vuoti scrivono barbarissimamente, dico,
non ostante l'amore ch'io porto a questa purità, e lo stimarla
necessarissima, che il rimedio è peggio del male. Vero è che da
gran tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente dispensati
dal pensare, e anche dal [800]dire, talmente che se alcuno de' nostri
scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da' monti o dal
mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in
una nazione posta nel mezzo d'Europa si possa scrivere in modo, che l'aver
letto, si può dire, qualunque de' libri italiani che ora vengono in luce,
sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla. Del
resto il punto sta che la novità ch'io dico (e parlo in particolare
della straniera) si sappia convenevolmente introdurre. Perchè tutte le
lingue antiche e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno
avuto il tempo della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo
anche l'italiana, non ostante l'aggiunta de' molti nuovi e necessari elementi
stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi
profondamente, e sempre più il proprio terreno.
(16. Marzo 1820.)
Alla p.785. Oltre di queste due sorte di
novità ce ne sono altre simili delle quali intendo pur di parlare.
Cioè una voce italianissima e di buona lega può esser nuova per
questo [801]solo, che non si trova nel vocabolario trovandosi ne' testi;
o non trovarsi nè in questi nè in quello, ma bensì ne'
buoni libri di lingua non citati (che sono infiniti, massime de' buoni tempi ed
hanno in diritto la stessissima autorità che i citati) o finalmente
trovarsi solo nelle scritture mediocri o pessime in lingua, ma pure aver tutte
le condizioni richieste per esser legittima. E di queste parole o frasi ce ne
ha moltissime. Massimamente poi se si trovino nelle scritture non buone de'
buoni tempi, dove a ogni modo la natura e l'indole vera e prima della lingua
italiana la conosceva e la sentiva ciascun italiano molto meglio che
oggidì, e l'Italia aveva la mente e le orecchie molto meno inclinate e
meno avvezze alle parole ai modi al genio straniero delle lingue.
(16. Marzo 1821.)
Alla p.745. Difficilmente si vedrà
che una qualunque nazione una qualunque letteratura abbia avuto in due diversi
tempi (eccetto se il tempo e la nazione è del tutto rinnuovata, come
l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e sommi in [802]uno
stesso genere. Da che quel genere ne ha avuto uno perfetto, e riguardato come
perpetuo modello, sebbene quel genere possa avere diverse specie, gl'ingegni
grandi e superiori, o sdegnando di non poter essere se non uguali a quello, e
di dovere avere un compagno, o per la naturale modestia e diffidenza di chi
conosce bene e sente la difficoltà delle imprese, temendo di restare
inferiori in un assunto, di cui già è manifesta, sperimentata,
conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei propri loro; si
sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de' quali è
propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati
dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi
fosse facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua
difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto
al buon successo. Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere
ha già avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi
si può più essere originale, senza che, è impossibile esser
sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale, v'è quella eterna
difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada già
fatta, in un modo o in un altro s'imbattono in quella; o confondono il genere
con quella tale strada, quasi fosse l'unica a convenirgli, benchè mille
ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai. La stessa Grecia in tanta
copia di scrittori e poeti d'ogni genere, [803]e di buoni secoli
letterati dopo Omero, e, quel ch'è forse più, in tanta distanza
da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio.
E lo stesso Omero (se è vero che l'Odissea è posteriore all'Iliade,
come dice Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando l'Odissea.
Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che l'Iliade e l'Odissea
non sieno di uno stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua,
dal fare, e dall'Argomento di quella, con quel languore, e sovente noia che
ognuno può vedere. La qual congettura io rimetto a quei critici che sono
profondamente versati nelle antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi,
e conoscono intimamente i due poemi: purchè oltre a questo, siano anche
persone di buon gusto e giudizio. Taccio de' latini e degl'infelici loro
tentativi di Epopea dopo Virgilio, così prestante ed eminente in essa
fra loro, come Cicerone nell'eloquenza. Sebbene il Tasso non si può
veramente nel [804]suo genere dire perfetto, neppur sommo come Omero
(che sommo fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi),
contuttociò l'Italia dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria,
sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa carriera. Anzi
quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema dell'Ariosto e
quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si accingesse a quel travaglio
dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla
all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec. Dopo
Molière la Francia non ha avuto grandi comici, nè l'Italia dopo
Goldoni. Tutto questo, sebbene apparisca forse principalmente nella
letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami del sapere, o
di altri pregi umani. Si possono però citare in contrario il Racine dopo
il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo
Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e fama. La quale per
cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante, sorpassante e
somma sì nel modello, come nel successore o successori.
(17. Marzo 1821.). V. p.810. capoverso 1.
[805]Alla p.762. Per poco che si
osservi facilmente si scuopre che tutte le lingue colte, da principio hanno
avuto e adoperato estesamente la facoltà dei composti, come poi tutte,
cred'io, (eccetto la greca che la conservò fino alla fine) l'hanno quale
in maggiore quale in minor parte perduta. Tutte però hanno conservato o
tutti, o maggiore o minor parte dei loro primi composti, divenuti bene spesso
così familiari, che han preso come apparenza e opinione di radici, e
forse così hanno servito di materia essi stessi a nuove composizioni. La
lingua Spagnuola ha composti, e derivati da' composti (come pure le altre
lingue, chè anche questi derivati sono un bellissimo e fecondissimo
genere di parole): ed alcuni bellissimi e utilissimi e felicissimi altrettanto
che arditi, come tamaño, demàs, e da questo ademàs,
demasìa, demasiado, demasiadamente, sinrazon, sinjusticia, sinsabor,
pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità,
ec. che sono di grande uso e servigio. Tutte le lingue colte hanno ancora avuto
delle particelle destinate espressamente alla composizione e che non si trovano
fuor de' composti. Così la greca, così la latina, così la
francese, la spagnuola (des ec. ec.), l'inglese [806](mis
ec. ec.) ec. Ed è tanta la necessità de' composti che senza
questi nessuna lingua sarebbe mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza,
o coltura, o anche semplice potenza di discorrere di molte cose, o di alcune
cose particolarmente e specificatamente. Perchè le radici converrebbe
che fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le
piccole gradazioni, e differenze e nuances e accidenti di una cosa, per
ciascuna delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice,
altrimenti il discorso non sarà mai nè espressivo nè
proprio, e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco, improprio, dubbio,
oscuro, generico, indeterminato. Così appunto avviene alla lingua
ebraica (la quale non par che si possa mettere fra le colte) perchè con
bastanti radici e derivati, è priva di composti: o quasi priva: non
avendo che fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come
casi o inflessioni o accidenti o affezioni (J) de' nomi e de' verbi, o segnacasi ec. e
non variando punto il significato essenziale, nè la sostanza della
parola; come presso noi batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne
ec. che non si chiamano, nè sono composti nel nostro senso. Dal che
segue ch'ella ed è soggetta alle dette difficoltà, e disordini; e
resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe eziandio quando anche in quella
lingua esistessero altri libri, oltre la Bibbia, se però questi libri
mancassero parimente de' composti. Ci vorrebbero, ho detto, infinite radici.
Ora [807]una più che tanta moltitudine di radici, è
difficilissima per natura, giacchè un composto, subito s'intende, ma
perchè una radice, sia subito e comunissimamente intesa (com'è
necessario), e passi nell'uso universale, ci vuol ben altro. Perciò la
invenzione delle radici in qualunque società d'uomini parlanti, o primitiva
o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella lingua che non
può esprimersi senza radici, perch'ella non si esprimerà mai se
non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell'Ebraico) avrà una
quantità di significati. V. se vuoi, Soave, append. al Capo 1. Lib.3.
del Compendio di Locke, Venezia 37a ediz. 1794. t.2. p.12. fine-13.
e Scelta di opusc. interess. Milano 1775. volume 4. p.54. e questi pensieri
p.1070. capoverso ult. E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua
appena è cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di
esprimere molte cose, e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e
le loro differenze ec. perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e
trovati i composti, osservate. Che sarebbe l'aritmetica se ogni numero si
dovesse significare con cifra diversa, e non colla diversa composizione di
pochi elementi? Che sarebbe la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi
colla sua cifra o figura particolare, come dicono della scrittura Cinese? La
stessa [808]facilità e semplicità di metodo, e nel tempo
stesso fecondità anzi infinità di risultati e combinazioni, che
deriva dall'uso degli elementi nella scrittura e nell'aritmetica, anzi in tutte
le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè, secondo
i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di un certo
tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così
composti e fatti anche nell'ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri
sulla semplicità del sistema dell'uomo); deriva anche dall'uso degli
elementi nella lingua. Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia necessario
anche oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in
qualunque lingua, la facoltà de' nuovi composti, atteso l'immenso numero
delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella lingua nostra);
numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente si accresce: e d'altra
parte l'impossibilità della troppa moltiplicità delle radici,
sì al fatto, o all'invenzione, sì all'uso, intelligenza, e
diffusione, sì anche alle facoltà della memoria e dell'intelletto
umano, ed alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola,
chiarezza quasi incompatibile colle nuove radici (v. p.951.), e
compatibilissima coi nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che
deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre termini, come ho
spiegato altrove: non così i composti derivati dalla propria lingua. Lo
dico senza dubitare. La lingua più ricca sarà sempre quella che
avrà conservata [809]più lungamente, e più
largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella che
la conserverà maggiore, e maggiormente l'adoprerà. L'esempio
della lingua greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e
anche oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia
sentenza, già sì evidente in ragione. E d'altra parte la mia
teoria serve a spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre
uguale alla copia qualunque delle cose. Se dunque vogliamo che una lingua sia
veramente onnipotente quanto alle parole, conserviamole o rendiamole, e se
è possibile, accresciamole la facoltà de' nuovi composti e
derivati, cioè l'uso degli elementi ch'essa ha, e il modo, la
facoltà di combinarli quanto più diversamente, e moltiplicemente
si possa. Questo, e non la moltiplicità degli elementi forma la vera e sostanziale
ricchezza copia e onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma
di tutte le altre cose umane e naturali. Generalizziamo un [810]poco le
nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch'io dico, e come, per natura
universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale
e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza copia e
potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e chiarezza
dell'espressione: dico quanto alle parole.
(18. Marzo 1821.)
Alla p.804. Bisogna osservare che quanto
agli autori drammatici la cosa va diversamente, sì perchè
infinite e diversissime sono le circostanze che decidono de' successi del
teatro, massime in certe nazioni, e secondo la differenza di queste; sì
massimamente perchè il teatro di qualunque nazione benchè abbia
già il suo sommo drammatico, vuol sempre novità, anzi non domanda
tanto la perfezione quanto la novità degli scritti; questa richiede
sopra ogni altra cosa, a questa fa bene spesso più plauso che ai capi
d'opera dei sommi autori già conosciuti. Così che ad un
drammatico resta sempre [811]il suo posto da guadagnarsi, la sua parte
di lode da proccurarsi, il suo eccitamento all'impresa, e il suo premio
proposto al buon successo, e tutte queste cose son tali, che anche un autore di
grande ingegno ne può essere soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli
incidenti di società che eccitano a composizioni teatrali, oltre coloro
che per mestiere ed interesse ricercano e stimolano scrittori di tal genere,
oltre gl'interessi o i bisogni degli autori, gl'impegni, il desiderio di certe
lodi di certi successi diremo così cittadineschi, o di partito, o di
conversazione, e di amici ec. oltre massimamente la varietà successiva
de' costumi e delle usanze non meno teatrali e appartenenti alle rappresentazione
quanto di quelle che occorrono nella vita e nelle cose da rappresentarsi.
Così che allo scrittore drammatico, resta sempre un campo sufficiente. E
la gran fama di Sofocle non impedì che gli succedesse un Euripide. La
differenza tra questo e gli altri generi di componimento, consiste che gli
effetti, l'uso, la destinazione di questo è come viva, [812]e
sempre viva, e cammina, laddove degli altri è come morta ed immobile.
Non sarebbe così se esistessero come anticamente quelle radunanze del
popolo, dove Erodoto leggeva la sua storia, e se le poesie fossero scritte come
i poemi d'Omero per esser cantati alla nazione, e se i tempi de' Tirtei e de'
Bardi non fossero svaniti. Perchè tali componimenti non essendo
più di uso, ci contentiamo di quello che in quel tal genere è
già perfetto, e appena desideriamo altro nuovo modello di perfezione.
Altrimenti accade di quello che è sempre di uso vivo, e se tale avesse
continuato ad essere l'eloquenza latina dopo Cicerone ella avrebbe forse avuto
nuovi sommi oratori.
(18. Marzo 1821)
In quelle parole che incominciano per s
impura, la lingua par che abbia bisogno di un appoggio avanti la s,
ossia avanti la parola. La lingua francese e la spagnuola amano questo appoggio
nelle così fatte parole che hanno ricevute da' latini o da chicchessia,
ovvero formate da loro. E la spagnuola principalmente che non ha se non
pochissime parole cominciate da s impura. [813](Il Franciosini ne
riporta solo 16, e tutte cominciate da sc con dietro varie vocali). Ora
dovendo dare alla lingua questo appoggio di una vocale non si è scelta
altra che la e. Così da sperare gli spagnuoli hanno fatto esperar,
i francesi espérer, da species gli spagnuoli especie, i
francesi espèce, da spiritus gli spagnuoli espiritu i
francesi esprit, da studium gli spagnuoli estudio i
francesi estude che poi tolta via la s hanno fatto étude,
da scribere gli spagnuoli escrivir, gli antichi francesi escrire,
da stomachus estomago estomac ec. ec. Tanto è vero che dove la
lingua ha bisogno di un appoggio o gradisce un appoggio per pronunziare una
consonante, e riposarla nella vocale, senza che questa sia determinata, la
lingua sceglie naturalmente e cade e si riposa nella e. E così
anche, come si vede per la detta osservazione, quando questa vocale le ha da
servire come di gradino alla pronunzia di consonanti. L'Italia quanto alla s
impura non è stata più delicata dei latini e de' latini. [814]Vero
è però che quando la s impura, sarebbe preceduta da consonante,
l'Italia per usanza non naturale, ma gramaticale, artifiziale, acquisita, e
particolare sua, v'interpone la i non la e (in ispirito
ec.). Credo però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani.
Del resto riferite alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec. e
non if il.
(18. Marzo 1821.)
La nostra condizione oggidì è
peggiore di quella de' bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera
certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice che possa essere, o
pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di
proccurarsela. La natura che in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li
tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se qualcuno di essi potesse desiderar
mai di morire, nessuna cosa gl'impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del
tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene
spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio
delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo spesso, e con
piena ragione, e siamo costretti a desiderarla [815]e considerarla come
il sommo nostro bene. Ora stando così la cosa ed essendo noi ridotti a
questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior
miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che
siccome è sommo, così d'altra parte sarebbe intieramente in
nostra mano; impediti, dico, o dalla Religione, o dall'inespugnabile,
invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino,
ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che
la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte
le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da
che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di
esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata
è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che
quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire,
in dispetto della natura, e per forza di ragione, s'è anzi impossessato
di noi; [816]perchè questa stessa ragione c'impedisce di soddisfarlo,
e di riparare nell'unico modo possibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha
fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura
non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna
di quelle cose dov'elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in
quella dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la
ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi
seco alleanza, per porre il colmo all'infelicità nostra, coll'impedirci
di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va
d'accordo colla natura in questo solo, che forma l'estremo delle nostre
disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli
estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè dunque debbono astenersi
dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo. Se la
Religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla
[817]nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara
cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso
della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa
nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellato dalla
mente dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero
fatti e ci faceano beati; questa sola ne conserva, questa sola non potrà
mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente
deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè
meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata
disperazione dell'infelice. La nostra sventura il nostro fato ci fa miseri, ma
non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci
piaccia. L'idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e
irrimediabilmente, perchè nata una volta quest'idea nella mente nostra,
come [818]accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio come
arrischiare l'infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la
sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra
l'infinito e il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia
dubbio. Così che siccome l'infelicità per quanto sia grave,
nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo sempre piccola cosa
quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più
servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo
ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia;
così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della
infelicità dell'uomo misero, ma non istupido nè codardo, è
l'idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente
il più gran male dell'uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le
sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazione; o i suoi pregiudizi.
(19. Marzo 1821.)
[819]Che cosa è barbarie in
una lingua? Forse quello che si oppone all'uso corrente di essa? Dunque una
lingua non imbarbarisce mai, perchè ogni volta ch'ella imbarbarisse,
quella barbarie non potendo essere in altro che nell'uso corrente (altrimenti
sarà barbarie parziale di questo o di quello, e non della lingua), non
sarebbe barbarie essendo conforme all'uso. Barbaro nella lingua non è
dunque altro se non quello che si oppone all'indole sua primitiva: e chiunque
ponga mente, converrà in questo: giacchè in fatti una parola, uno
scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi all'uso di quel tempo, lo
seguono, ne derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana.
Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe [820]mai stato
barbaro per nessuna lingua. Al più si potrebbe dire se quella lingua di
quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec. confrontando
fra loro i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue
fra loro, delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non
perciò si giudica barbara. Anzi si chiamerebbe barbara se contro
l'indole sua, volesse adottare e accomodarsi all'andamento di una lingua
migliore più bella ec. come se la lingua inglese volesse adottare le
forme della greca ec. Insomma barbarie in qualunque lingua non è
nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che contraddice
all'uso corrente, ma quello solo che contraddice all'indole sua primitiva, per
conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è
la sua natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e
bruttezza in lei, quello ch'è virtù e bellezza in un'altra, se si
oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera [821](benchè
relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che sia.
Da queste osservazioni particolari; facili,
chiare, e di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma
tanto vera quanto le precedenti, e che non si può negare se queste si
riconoscono, e concedono. Che cosa è barbarie nell'uomo? Quello che si
oppone all'uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro. Barbarie
è quel solo che si oppone alla natura primitiva dell'uomo. Ora domando
io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec. presenti sarebbero stati compatibili
colla nostra prima natura. Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha
posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano compatibili colla nostra
primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione
sì di ciascuno di noi, sì de' fanciulli, selvaggi, ignoranti ec.
ec. che non ha bisogno di dimostrazione. Dunque se non sono compatibili,
è quanto dire che le ripugnano e contrastano. Dunque? dunque son
barbari. [822]Che sieno conformi all'uso e all'abitudine, non val
più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo
depravato nella lingua. Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni
de' naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia
nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione
è erronea, e deriva dall'inganno parte dell'abitudine, parte della immaginaria
perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e
vizio tutto ciò che si oppone all'indole e natura particolare e
primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione
in altra specie.
(20. Marzo 1821.)
Non solamente ciascuna specie di bruti stima
o esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di
esser la prima e più perfetta nella natura, e nell'ordine delle cose, e
che tutto sia fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo. E
così accade tra gli uomini, che implicitamente [823]e
naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v'è popolo sì
barbaro che non si creda implicitamente migliore, più perfetto,
superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente non v'è stato secolo
sì guasto e depravato, che non si sia creduto nel colmo della
civiltà, della perfezione sociale, l'esemplare degli altri secoli, e massimamente
superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell'ultimo punto dello
spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con questa differenza però, che
sebbene tutto è relativo in natura, è relativo peraltro alle specie,
così che le idee che una specie ha della perfezione ec. appresso a poco
sono comuni agl'individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla
specie). Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben
portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il
mondo destinato all'uso [824]e vantaggio suo, contuttociò con
poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri
individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie
intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e
l'apice della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo
degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi)
o qualche individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di
altri popoli e secoli, perchè le idee relative del bello e del buono
sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando non
derivino da pregiudizi, da circostanze particolari, o da alterazione qualunque
di questa o di quella parte della specie, com'è avvenuto fra gli uomini,
essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche
alterate le idee naturali, e diversificate le opinioni ec.
Questo, dico, accade facilmente
all'individuo umano, rispettivamente alla sua propria specie. Ma rispetto ad
un'altra specie non [825]così. 1. Perchè le idee che son
vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna specie di viventi)
le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente: quello ch'è
buono e perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi
misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori
d'assai; nè possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra
ci sia tanta bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè la
perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma
universale. 2. Perchè non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente
di un'altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch'essa ha del
buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee,
le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacità
della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà nè
intellettiva, nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva
[826]ec. ec.
(20. Marzo 1821.)
An censes (ut de me ipso aliquid more senum
glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum
fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne
melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et
contentione traducere? SED, NESCIO QUOMODO, ANIMUS ERIGENS SE,
POSTERITATEM SEMPER ITA PROSPICIEBAT, QUASI, CUM EXCESSISSET E VITA, TUM
DENIQUE VICTURUS ESSET; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales
essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem gloriae niteretar.
Catone maggiore appresso Cic. Cato maior seu de
Senect. c. ult. 23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro,
e non mai presente, come ho detto in altri pensieri. Con la quale osservazione
io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa
fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta [827]nella
posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei
desideri delle speranze nostre la lode ec. di coloro che verranno dopo di noi.
L'uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè
presso a' contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato
che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza
(quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non
piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto
nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere,
infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai
presente); allora l'animo suo erigens se quasi fuori di questa vita, posteritatem
respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè
debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la
felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già
troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza
del piacere, non avendo [828]più luogo dove posarsi, nè
oggetto al quale indirizzarsi dentro a' confini di questa vita, passa
finalmente al di là, e si ferma ne' posteri, sperando l'uomo da loro e
dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre
impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce
l'uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la
felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d'altra parte
una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe
se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più
dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei,
colla illusione della posterità. Illusione appunto più comune
negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose,
o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali
disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor
vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze,
disperati dell'attuale e vero piacere in questa vita, e d'altronde [829]bisognosi
di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo
alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là
dell'esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non
solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra
da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto
capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella
appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo
nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto
insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che
futuro, dico un piacere attuale e presente. (20. Marzo 1821.). Applicate questi
pensieri alla speranza di felicità futura in un altro mondo.
La ingiuria eccita in tutti gli animi il
desiderio di vederla punita, ma negli alti il desiderio di punirla.
(20. Marzo 1821.)
Desiderar la vita, in qualunque caso, e in
tutta l'estensione di questo desiderio, [830]non è insomma altro
che desiderare l'infelicità; desiderar di vivere è quanto desiderare
di essere infelice.
(20. Marzo 1821.)
Non solamente è ridicolo che si
pretenda la perfettibilità dell'uomo, in quanto alla mente, o a quello
che vi ha riguardo, come ho detto in altro pensiero, ma anche in quanto ai
comodi corporali[6].
Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si crede quasi impossibile
la vita umana, senza di questi, o certo molto più misera, e si stimano i
ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la perfezione e la
felicità della nostra specie, massime di certe comodità che
sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e
indispensabili all'uomo. Ora io non domanderò a costoro come abbian
fatto gli uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come
facciano oggi tanti popoli di selvaggi; parecchi ancora de' nostrali e sotto a'
nostri occhi, tuttogiorno. (anzi ancora quegli stessi più che mai
assuefatti a tali cose pretese indispensabili, quando per mille
diversità di accidenti, si trovano in circostanza di mancarne, alle
volte anche volontariamente.) I quali tutti, in luogo di accorgersi della loro
infelicità, hanno anzi creduto [831]e credono e si accorgono
molto meno di essere infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro: e
molto meno lo erano e lo sono, sì per questa credenza, come anche
indipendentemente. Non chiamerò in mio favore la setta cinica, e
l'esempio e l'istituto loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di
quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell'uomo.
Non ripeterò che, siccome l'abitudine è una seconda natura,
così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra
corruzione. E che molti anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non
solamente per l'assuefazione, la quale, com'è noto, dà o toglie
la capacità di questo o di quello, e di astenersi da questo o da quello;
ma anche senza essa per lo indebolimento ed alterazione formale delle generazioni
umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi
inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun
luogo nella umanità primitiva. Così la medicina, così
l'uso di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni, di [832]preservativi
contra il caldo, il freddo ec. di chirurgia ec. ec. Lascerò tutte queste
cose e perchè sono state dette da altri, e perchè potrebbero
deridermi come partigiano dell'uomo a quattro gambe. Solamente ripeterò
quel ragionamento che ho usato nella materia della perfettibilità
mentale. Dunque se tutto questo era necessario o conveniente alla perfezione e
felicità dell'uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra
in tutto, glielo ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei?
Diranno che la natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha
lasciato a lui che con queste facoltà ritrovasse e si procacciasse il
bisognevole, e che all'uomo ha lasciato più che al bruto, perchè
a lui diede maggiori facoltà, e così proporzionatamente ha fatto
secondo le maggiori o minori facoltà negli altri bruti. Altro è
questo, altro è mettere una specie di viventi in una infinita distanza
da quello che si suppone necessario al suo ben essere, e alla perfezione della
sua esistenza. Altro è permettere anzi volere e disporre che infinito [833]numero,
che moltissime generazioni di questi viventi restassero prive o affatto o in
massima parte di cose necessarie alla loro perfezione. Altro è mettere
nel mondo il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero,
col solo compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran
numero di secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a
minorare l'infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente
altro che la felicità. Altro è ordinare le cose in modo che gran
parte di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi)
dovesse restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco
nella stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può
applicare anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie
facoltà dell'uomo). E tutto ciò in una specie privilegiata, e che
si suppone la prima nell'ordine di tutti gli esseri. Bel privilegio davvero, ch'è
quello di veder tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa
perfezione [834]e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed
essa intanto per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade,
sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare
lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine. Osserviamo
quanti studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per terra e per
mare a remotissime parti, e combattendo infiniti ostacoli, sì della
fortuna, sì (ch'è più notabile) e massimamente della
natura, per ridurci, quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di
quelle stesse cose che ora si stimano essenziali alla nostra vita. Osserviamo
quante di queste, ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora
dei medesimi travagli infiniti per esserci procacciate. Osserviamo quanto
ancora ci manchi, quanto sia di scoperta recentissima o assolutamente o in
comparazione dell'antichità della specie umana; quanto ogni giorno si ritrovi,
e quanto si accrescano le cognizioni pretese utili alla vita, anche delle
più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.); quante cose si
ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e che i nostri [835]posteri
giudicheranno tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo.
Domando se tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine
primario della natura ch'è la felicità e perfezione delle cose esistenti
e il loro ben essere, e massime de' viventi, e de' primi tra' viventi, entravano
nel sistema, nel disegno, nel piano della natura, nell'ordine delle cose, nella
primordiale disposizione e calcolo relativamente alla specie umana. Domando se
nel piano nell'ordine nel calcolo de' mezzi conducenti al fine essenziale e
primario, ch'è la felicità e perfezione, mezzi per conseguenza
necessari ancor essi, v'entrava anche il caso. Ora è noto quante
scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell'uso il
più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le debba
l'uomo se non al puro e semplice caso. Dunque il puro e semplice caso entrava
nel sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come mezzo
necessario; dunque [836]ella ne ha fatto dipendere il fine essenziale e
primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e tale altro
caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o accadendo bensì quello
ma non questo ec. la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse
imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte
quelle parti dell'ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione
colla specie umana.
Bisogna osservare che la sfera del caso si
stende molto più che non si crede. Un'invenzione venuta dall'ingegno e
meditazione di un uomo profondo, non si considera come accidentale. Ma quante
circostanze accidentalissime sono bisognate perchè quell'uomo arrivasse
a quella capacità. Circostanze relative alla coltura dell'ingegno suo;
relative alla nascita, agli studi, ai mezzi estrinseci d'infiniti generi, che
colla loro combinazione l'han fatto tale, e mancando lo avrebbero reso diversissimo
(onde è stato detto che l'uomo è opera del caso); relative alle
scoperte e cognizioni acquistate da altri prima [837]di lui, acquistate
colle medesime accidentalità, ma senza le quali egli non sarebbe giunto
a quel fine; relative all'applicazione determinata della sua mente a quel tale
individuato oggetto ec. ec. ec. Nello stessissimo modo discorrete di una
scoperta fatta p.e. mediante un viaggio, mediante un'Accademia, una intrapresa
pubblica, o regia ec. la quale scoperta si suol mettere del tutto fuori della
sfera degli accidenti. E vedrete che siccome da una parte la sfera del caso, in
tutte le cose, massime umane, si stende assai più che non si crede,
così d'altra parte, o tutte o il più di quelle invenzioni ec. che
ora sono d'uso creduto di prima necessità, ed essenziale alla vita
umana, sono effettivamente dovute al caso. Paragonate ora questa incredibile
negligenza della natura, nell'abbandonare a un mezzo sì incerto lo scopo
primario della primaria specie di viventi, cioè la felicità
dell'uomo; con quella certezza e immancabilità di mezzi che la natura ha
adoperata per tutti gli altri suoi fini, ancorchè di minore importanza:
e giudicate se si possa mai supporre [838]per vera.
(21. Marzo 1821.). V. p.870. fine.
Quanto più l'indole, la struttura,
l'andamento di una lingua, è conforme alle regole naturali, semplice,
diritto ec. tanto più quella lingua è adattata alla universalità.
E per lo contrario tanto meno, quanto più ella è figurata,
composta, contorta, quanto più v'ha nella sua forma di arbitrario, di
particolare e proprio suo, o de' suoi scrittori ec. non della natura comune
delle cose. Le prime qualità spettano per eccellenza alla lingua
francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto più della latina,
anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede alla francese, come
tutte le lingue moderne Europee, quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità
alla latina, anzi la vinca di gran lunga, e neppure alla greca.
Come queste qualità giovino alla
universalità di una lingua, è manifesto già per se stesso,
ma lo sarà anche più per le segg. considerazioni. Un effetto
naturale di dette qualità, è che il linguaggio degli scrittori, o
nulla [839][o] poco differisca dal familiare, e comune alla nazione.
Così accade alla Francia, il contrario in Italia, il contrarissimo nel
latino. Questo effetto cagiona che, quella stessa lingua che si parla
trovandosi scritta, 1. se ne dimezzi per così dire la difficoltà:
2. le persone volgari, o la conversazione qualunque alta o bassa dei parlatori
di quella lingua, sia tanto buona maestra e propagatrice di essa presso gli
stranieri, fuori o dentro il paese, come lo possano essere gli scrittori: 3. e
per lo contrario gli scrittori lo siano tanto, quanto i negozianti, i
viaggiatori, e chiunque parla quella lingua cogli stranieri, sì nel suo
proprio paese come fuori: 4. quindi e i parlatori e gli scrittori propaghino
tutti unitamente una sola e stessa lingua ovvero linguaggio; o vogliamo dire
due linguaggi così poco differenti, che inteso qualsivoglia de' due,
senza nessuna fatica s'intenda e si parli anche l'altro. Effetto notabilissimo:
perchè l'influenza degli scrittori è somma nel propagare una lingua;
ma d'altra parte per mezzo degli scrittori, non può mai divenire [840]universale,
se da essi non s'impara a parlarla cioè usarla; ed allora potrà
esser divulgata per solo studio e ornamento, com'era una volta l'italiana:
l'influenza de' parlatori è somma, ma minore assai, se non cospira con
quella degli scrittori, se per mezzo di essa non si viene a capo di mettersi in
relazione col resto della nazione, colla totalità per così dire
di essa, il che non si può fare se non per mezzo degli scrittori, e
tanto più, quanto più questi sono divulgati intesi e letti dalla
totalità della nazione, e non dalla sola classe letterata. La unione di
queste due influenze, partorisce dunque un effetto massimo. Lo straniero di
qualunque condizione, per qualunque circostanza, per qualunque inclinazione,
per qualunque professione, per qualunque mezzo, per qualunque fine, abbia
dovuto, abbia voluto, si sia abbattuto ad apprendere quella lingua, è
padrone di tutta quanta ella è, di parlarla e intender chi la parla, di
leggerla, di scriverla, di usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel
commercio, e al tavolino; di mettersi in communicazione con tutta [841]quella
nazione che la parla o scrive, e con tutti quegli stranieri che l'adoprano in
qualunque modo e per qualunque motivo. Il letterato che l'ha appresa per istruirsi,
e per conoscere quella letteratura; il negoziante che l'ha appresa per usi di
mercatura; quegli che l'ha appresa senza studio, e per sola pratica o de' nazionali,
o de' forestieri ec. ec. tutti sono appresso a poco nello stesso grado, ed
hanno gli stessi vantaggi.
Questi effetti risultano dalla parità
di linguaggio fra gli scrittori e la nazione, e risultano in maggiore o minor
grado, in proporzione che la causa è maggiore o minore. In Francia
è grandissima, e non solo la detta parità di linguaggio, ma anche
la effettiva popolarità e nazionalità degli scrittori e della
letteratura. In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l'opposto) la
lingua scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla parlata molto meno che
fra' latini, tuttavia differisce, credo, più che in qualunque altro
paese culto, certamente Europeo. [842]E questo forse in parte cagiona la
nessuna popolarità della nostra letteratura, e l'essere gli ottimi libri
nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorchè pel
soggetto non abbiano a far niente con lei. Il che però deriva ancora
dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi
anche piacevoli, che regna nelle altre classi d'Italia; noncuranza che deriva
finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni
attività, ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna
originalità degli scrittori ec. Queste cagioni influiscono parimente
l'una sull'altra, e nominatamente sulla disparità della lingua scritta e
parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono sì a tener
lontano dall'Italia ogni spirito di patria, ogni vita, ogni azione; sì
ad impedire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a
mantenere la intera divisione che sussiste fra la classe letterata e le altre,
fra la letteratura e la nazione italiana. Nel cinquecento, e anche durante il
seicento, sebbene la lingua scritta italiana, si [843]fosse allontanata
dalla parlata, molto più che nel trecento (non però quanto oggidì),
tuttavia la letteratura continuava ancora in grandissima relazione colle
classi, se non volgari, certo non di professione letterata, e quindi anche
passava agli stranieri. E ciò, parte perchè la nazione conservava
ancora un sentimento, uno spirito patrio, un'azione, una vita, e gli scrittori
bastante libertà ed originalità; parte perchè l'italiano
che si parlava, era italiano ancora, più o meno, e non barbaro, come
oggidì, che volendo scrivere come si parla, non si scriverebbe italiano,
anzi appena si riuscirebbe a farsi intendere alla stessa nazione. Ed allora lo
studio della lingua era più diffuso, e la letteratura parimente, e
più viva e in movimento, e maggiore il numero dei letterati di
professione, e degli scrittori buoni, e di quelli che senza esser letterati,
aveano tanta letteratura quanto basta per essere buon lettore, e per curarsi di
leggere. E gli argomenti che si trattavano erano più nazionali,
più importanti, più nuovi, [844]più propri dello
scrittore ec. brevemente c'era un altro spirito letterario e negli scrittori e
nella nazione.
Dall'applicazione di questi principii alle
lingue moderne, passiamo alle lingue antiche. Che la forma e struttura di una
lingua fosse così ragionevole, così conforme alla stretta
verità ed ordine delle cose, come lo può essere in qualche lingua
moderna, non era possibile fra gli antichi, dove regnava molto più
l'immaginazione, che la secca e infelice ragione. Non bisogna dunque nelle
ragioni della universalità di una lingua antica, ricercar troppa
conformità, con quelle che richiedonsi allo stesso effetto in una lingua
moderna. Una lingua antica poteva essere adattata alla universalità fino
a un certo segno, e conseguirla, ma non mai quanto una moderna. La lingua greca
sebbene più figurata non solo della francese, ma della italiana (dico
della italiana che non pecchi di troppa, e a lei non naturale conformità
col latino andamento, come peccò alle volte nel 500. al contrario [845]del
300, e della sua vera indole) contuttociò era nella sua primitiva qualità,
di una forma, se non ragionevole, naturalissima però, e semplicissima, e
facilissima. Sino a tanto ch'ella mantenne il suo vero genio, mantenne anche
queste proprietà. Le mantenne in Erodoto, in Senofonte, negli Oratori
Attici, e generalmente più o meno in tutti gli scrittori degli ottimi
suoi secoli sempre appresso a poco, in proporzione dell'antichità
rispettiva. Gli scrittori che successero a questi, benchè buoni ancor
essi, benchè lontani dalla turgidezza, dall'arguzia, dalla decisa
oscurità, dalla soverchia intralciatura, dalla immodestia dello stile e
della lingua, allontanarono però moltissimo la lingua greca, da quella
nativa, nuda, schietta, spontanea, facile bellezza e grazia de' suoi ottimi e
primi scrittori, e sforzarono la sua primitiva natura ed indole, accostandola
piuttosto alla struttura latina, che alla propria sua. Questo si nota in
Polibio, in Dionigi d'Alicarnasso, ma molto più ne' susseguenti, come in
Luciano, molto più e soprattutto in Longino. Scrittori elegantissimi, [846]di
eleganza non affettata, non impura, non corrotta, non malsana, ma diversa da
quella semplicissima eleganza dell'antica lingua greca, e se non contraria e
ripugnante, certo rimota dall'indole e dal costume suo primitivo: nello stesso
modo che si può dire di alcuni cinquecentisti modellatisi forse troppo
sui latini, e non perciò corrotti, nè affettati, nè
ripugnanti all'indole della lingua italiana, ma diversi dal di lei primitivo
costume manifestato nei trecentisti; appresso i quali la lingua italiana, come
somiglia moltissimo nell'andamento alla greca, così ebbe poi a patire
quella stessa, benchè per se medesima non cattiva, diversificazione che
patì, come ho detto, la lingua greca; e come questa, cessare appoco appoco
da quella parità di linguaggio ch'era tra gli scrittori e la nazione,
nell'una e nell'altra lingua, come della greca lo dirò poi. Di facilissima
ch'era l'antica scrittura greca, divenne appoco a poco, se non oscura, certo
difficile, essendo declinata in quell'idioma lavorato ed ornato, che o nello
stesso [847]tempo, o poco prima o dopo, divenne proprio de' latini, da'
quali io non discrederei che fosse passato quel costume e quel gusto ai greci
(ma bisognerebbe esaminare gli scrittori greci intermedii fra Demostene, e
quelli che furono ai tempi Romani); sebben potesse molto naturalmente nascere
dallo studio, dagli Atticisti che uscivan fuori, dal ridursi la cosa a regola,
e la eleganza a misura e meditazione, e ricerca ec. Longino, sebbene
fioritissimo delle possibili eleganze e gentilezze della lingua greca, le
ricerca tanto, e le accumola (senza però affettazione), che si trovano
più frasi e modi figurati in lui che in dieci antichi greci tutti
insieme; e sì per questo sì per la struttura intrecciata,
composta, manipolata dell'orazione; la lunghezza, e strettissima e fortissima
legatura de' periodi, le ambagi ec. riesce tanto difficile quanto i più
difficili e lavorati scrittori latini. Ai quali egli somiglia tanto, che,
massime vedendolo studioso di Cicerone, non dubito, quanto a lui, che quello
scrivere non gli sia derivato dai latini, e ch'egli non abbia o voluto
trasportare, [848]o (come si fosse) trasportato l'indole e gli spiriti
latini nella lingua greca, quanto però questa lo comportava;
perchè a ogni modo, come faranno sempre tutte le lingue, ella conserva
anche presso lui, il suo sembiante diverso dall'altrui. Non dirò niente
de' Sofisti, e degli altri scrittori dell'infima letteratura greca, anche di
quella letteratura già moriente e disperata (come ai tempi di Teofilatto
Arcivescovo di Bulgaria). I quali quando volevano stare davvero sull'attillato,
scrivevano in modo che unita alla viziosa e corrotta ricercatezza, arguzia, e
oscurità dello stile, la ricercatezza, e attortigliamento, e
tortuosità della lingua, sono di tanta difficoltà ad intenderli,
di quanto poco uso ad averli intesi.
Questa declinazione della lingua greca dal
suo primo sentiero, e costume ed indole, si può far manifesto ancora
considerando la lingua d'Isocrate. Il quale è tanto famoso per la
delicatissima cura che poneva nella scelta e collocazione delle parole, nella
struttura ed armonia de' periodi, che si potrebbe credere ch'egli, quantunque
pel tempo appartenga a quegli [849]antichi scrittori ch'io ho distinto
da' più moderni, pel carattere però della sua lingua appartenesse
piuttosto a quegli ultimi. E pure la sua cura, qualunque fosse, è
così nascosta, la sua lingua, la collocazione e l'ordine delle sue
parole, la struttura de' periodi, e dell'orazione, così facile, piana,
semplice, naturale, spontanea, che non solo non si allontana dalla primitiva
indole della sua lingua, ma riesce anche più chiaro e facile e stralciato
di parecchi altri degli ottimi; e certo non meno di veruno di essi. Tanto che a
paragonare Isocrate stimato l'elegantissimo e l'accuratissimo degli ottimi scrittori
greci, col meno elegante e lavorato de' buoni, si troverà questo, molto
più difficile, e men piano e svolto di lui. Sicchè, come da
Senofonte ed Erodoto conosciamo qual fosse la semplicità e la
soavità, da Tucidide e Demostene la forza e il nervo di quella antica
lingua greca, così da Isocrate conosciamo qual ne fosse la eleganza, e
la galanteria; e quanto diversa da quella che sotto questo nome fu introdotta [850]ne'
secoli e dagli scrittori ancor buoni e notabilissimi, ma non ottimi, della
greca letteratura.
Finchè questa dunque durò nel
suo primo ed ottimo stato, la diversità fra la lingua parlata e scritta,
fu piccola, e, credo io, non molto maggiore di quella che ora sia in Francia.
Prova ne può essere fra le altre molte l'aver letto Erodoto la sua storia
al popolo, e averne riscosso quegli applausi nazionali che tutti sanno. Cosa
che non sarebbe avvenuta, se (posta nel rimanente la parità delle
circostanze) il Guicciardini avesse letta la sua storia alla moltitudine. E se
T. Livio o Tacito avessero fatto lo stesso, non al cospetto di giudici scelti e
intelligenti, ma avendo per giudice, o anche avendo ad esser giudicati da
alcuni pochi, ma applauditi però con entusiasmo dalla moltitudine,
crediamo noi che vi sarebbero riusciti? Quanto alle Orazioni de' famosi oratori
latini, dette nella concione, ognuno sa, che le scritte erano diverse dalle recitate,
e però da quelle che abbiamo di Cicerone non possiamo argomentare che [851]quello
stesso linguaggio egli usasse col popolo.
Sì dunque la naturalezza, semplicità
e facilità di forma della lingua greca, tanto negli antichi scrittori,
quanto nella nazione; sì la quasi uniformità di linguaggio che ne
seguiva fra i detti scrittori, e il popolo, come questa era effetto di quella,
così ambedue unitamente contribuivano a rendere la lingua greca adattata
alla universalità; adattata dico in proporzione dei tempi, non quanto
bisognerebbe esserlo oggidì, nè quanto lo è la francese,
chè oggidì una lingua per essere universale, ha bisogno di essere
arida e geometrica, e la greca era floridissima e naturalissima; di essere
ristretta, e la greca era larghissima e ricchissima; di essere non bella, e la
greca era bellissima. Perciò la greca non era, e nessuna bella e
naturale lingua lo potrà esser mai, pienamente nè stabilmente
universale; ma, sì per le dette ragioni, sì per le recate in
altro pensiero, serviva a quella universalità lassamente [852]considerata,
e non assolutamente, che poteva convenire ad un tempo, dove nè la
ragione, nè le cognizioni esatte, nè la filosofia, nè
l'esattezza assolutamente, nè il commercio scambievole delle nazioni, e
de' loro individui fra essi, avevano fatto progressi paragonabili in grandezza
nè in estensione agli odierni. E si può anche notare, che siccome
erano ancora i tempi della immaginazione e non della ragione, così
(sebben quella è varia, e questa monotona, e uniforme dappertutto)
contuttociò quella stessa immaginazione che regolava quella lingua fra i
greci, poneva anche gli altri popoli, ancora governati dalla immaginazione, in
grado di adattarsi senza troppa difficoltà a quella lingua, come
conforme al carattere di que' secoli, e di trovare corrispondente alla propria
inclinazione, la naturalezza di quella lingua (parola che io intendo qui di
opporre alla ragionevolezza e geometria, e di adoperarla in questo senso).
Egli è evidente che quanto più
l'andamento di una lingua è naturale semplice facile, e non capriccioso
presso gli scrittori, [853]tanto più si conforma al carattere
della favella usuale e popolare. E che siccome queste qualità di una
lingua, la rendono più o meno atta alla universalità, così
anche alla detta conformità fra il parlato e lo scritto,
conformità dalla quale di nuovo nasce una grande attitudine alla
universalità. Perchè la favella del popolo, sebbene immaginosa ordinariamente
e in qualunque nazione, è però sempre semplice, piana, facile, o
inclina sempre a queste qualità, ed alla naturalezza dell'ordine, e si
allontana dal lavorato, dall'arbitrario, da tutto quello che deriva puramente
dall'individuo o da una data classe d'individui, e non dalla natura e delle
cose e del popolo: natura che sebben diversa dalla ragione, e molto più
varia e copiosa e rigogliosa della ragione; tuttavia presso a poco si rassomiglia
da per tutto e in tutti i popoli. Onde il linguaggio comune di qualunque
popolo, massime relativamente a quelle nazioni che appartengono ad una stessa
classe (come le nazioni colte di Europa) e formano quasi una famiglia; un tal
linguaggio [854], dich'io, per lo meno dentro i limiti di quella tal
famiglia di nazioni, è sempre per se medesimo, e astraendo dalle
circostanze particolari, adattato più o meno alla universalità.
Non così quello degli scrittori, i quali bene spesso allontanandosi
appoco appoco dall'andamento popolare della loro lingua, si allontanano
altresì dal carattere universale. E così la lingua scritta di
questa o quella nazione, prendendo appoco appoco un andamento proprio, e
qualità proprie e speciali, per questa proprietà e
specialità, si viene allontanando più o meno dalla linea
universalmente riconosciuta, ed allontana dalla universalità la loro
lingua che vi era naturalmente adattata. Giacchè siccome la lingua della
nazione influisce su quella dello scrittore, così anche la scritta sulla
parlata. Talmente che anche la lingua popolare di una nazione, sebbene senza
fallo adattata da principio alla universalità, può e viene
effettivamente perdendo più o meno, o scemando la sua disposizione a
questa qualità.
[855]Il detto effetto degli
scrittori, e diversificazione della lingua scritta, dall'andamento naturale
della lingua, accadde in Grecia, ma tardi, e dopo i loro sommi scrittori. Non
è accaduto in Francia. È seguito in Italia dal cinquecento in
poi. Seguì in Roma, nella prima stabile formazione della lingua latina
scritta, e per opera de' primi veramente classici di quella nazione. Del che
resta a parlare.
I primi scrittori latini, ancorchè
perduti, pur si conosce dai loro frammenti, o da quel poco che ne resta
comunque, che, al pari di tutti i primi scrittori di qualunque lingua, avevano
un andamento naturale e semplice, che si accosta al vero e antico genio della
lingua greca, a quello dell'antica lingua italiana, ossia del trecento; e per
conseguenza anche al loro linguaggio nazionale e parlato. Il che si dimostra
anche per altre ragioni, quando non bastasse la semplice e facile loro andatura
per convincere che non si scostavano molto dal latino volgare. [856]Una
delle quali ragioni, o argomenti e conghietture (giacchè del latino non
ci resta il parlato, ma il solo scritto), si è il trovare in essi buon numero
di parole, modi, forme, che non si trovano negli autori dell'aurea
latinità, e che pure son passate, o somigliano alle passate nella nostra
lingua, derivata in gran parte (come con grandi ragioni si prova) dal volgare
latino. E in genere si trova ne' detti antichi latini gran conformità
(anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia)
coll'italiano, e molto maggiore, che ne' seguenti latini scrittori.
Ma o provenisse dalla differenza dei tempi
fra l'ottima letteratura greca e la latina (che certo la greca venne a tempi di
maggior naturalezza, anzi gli ottimi suoi secoli furono compagni degli ottimi
tempi della greca repubblica, laddove quelli della latina furono contemporanei
precisamente della declinazione e corruzione morale e politica del popolo romano,
avvenuta per l'eccesso di civiltà, e questo per l'eccesso di potere); o
provenisse da [857]questo che i greci formarono da se la loro letteratura
e il loro gusto, e quindi più naturalmente, laddove i latini la
formarono sopra quella dei greci (onde ella fu tutto parto di studio,
trovò al suo stesso nascere l'arte già formata e insignorita
dello scrivere, e fece per l'aiuto l'esempio, e l'insegnamento di una nazione
straniera, così rapidi progressi, che la natura appena ebbe scarsissimo
tempo di precedere l'arte, e la letteratura latina fu subito e intieramente in
balia delle regole, e dichiaratamente artifiziale, e polita: oltre che la
stessa arte anche in Grecia, piuttosto declinava già all'eccessivo, di
quello che lasciasse più niente alla natura: onde la letteratura latina
superò immantinente a gran distanza, quella della Grecia contemporanea,
com'è naturale che in un paese dove la letteratura è recente,
ella non declini prima di essere stata ottima, e l'eccesso dell'arte non abbia
luogo, prima [858]che lo abbia avuto il di lei giusto grado: nel quale
però durò poco appo i latini, e la loro letteratura come fu
rapida in salire, così nello scendere: e ciò per la condizione
de' tempi già precipitanti lungi dalla natura, il torrente della
civiltà che ingrossava e tagliava i nervi alla grandezza e alla forza
della specie umana; il contagio dell'arte già passata nella Grecia al di
là della maturità, sì nel resto, come nello scrivere; e la
circostanza che la letteratura latina tardò tanto da cominciare quando
restava poco tempo a poter durare in buon essere, poco tempo alla forza alla
grandezza, alla vera vita degli uomini, poco tempo all'imperio della natura, e
delle facoltà vitali dell'uomo, quando era imminente la corruzione e il
precipizio della società, di Roma, delle nazioni civili, della
libertà, del mondo) da quale di queste cagioni provenisse, o da ambedue
insieme, il fatto sta che appena la lingua latina scritta prese forma stabile,
e acquistò [859]perfezione, si allontanò dalla parlata
più di quello che mai facesse lingua colta del mondo; pose e creò
una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella del popolo; si
allontanò quanto mai si possa dire dall'andamento e struttura naturale e
comune e universale del discorso (senza però opporsi alla natura): e per
tutte queste ragioni la lingua latina, non ostante l'estesissima diffusion
della nazione, divenne la meno adattata alla universalità che mai si
vedesse: e non ottenne, seppur vogliamo credere o dire che mai l'ottenesse,
questa universalità, se non quando fu imbarbarita; e perduta la sua
proprietà, la lingua scritta si confuse un'altra volta colla parlata,
prese tante forme e caratteri, quanti popoli e scrittori l'adoperarono, e
divenne piuttosto una famiglia di lingue tutte barbare, che una lingua universale
nè colta. Il che presto accadde, e durò fino al nascere [860]delle
sue figlie, o piuttosto fino al crescere che queste fecero, e al separarsi da
lei, perchè per lungo tempo (siccome accade in tutte le lingue figlie)
non si poterono considerare se non come parte di quella famiglia di lingue
barbare contenute nella latina, smembrandosi questa e facendosi in brani, come
il grande imperio della sua nazione, e contemporaneamente al di lui misero diflusso.
Del resto la lingua latina scritta ne' primi
veri e formati classici di essa, fu ridotta a tale artifizio, squisitezza,
tortuosità, intrecciatura, composizione, lavoro, circuito, tessitura di
periodi, obliquità di costruzione ec.; acquistò subito
così stretta proprietà di modi, di frasi, di voci,
proprietà inviolabile senza offesa formale della lingua; tanto precisa
distinzione nell'uso de' suoi sinonimi, ossia delle innumerabili voci destinate
alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che quella
lingua contenne il più di eleganza arbitraria che mai si vedesse, fu
opera espressa dello scrittore più che qualunque altra; abbisognò
di sì [861]profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata
cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a
volerla trattare senza offendere la sua sì propria e individuale e
arbitraria altrettanto che definita proprietà; che allontanandosi estremamente
dal volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la
parlata, s'impossibilitò ancora, sì per questa, sì per
quelle ragioni, alla universalità. Alcuni scrittori latini, che anche
nel tempo della perfezionata loro lingua letterata, si accostarono un poco
più degli altri ai loro antichi scrittori, o al popolo, e conservarono
maggiormente l'antico carattere della lingua; si accostarono altresì
più degli altri agli ottimi greci, furono più semplici,
più facili e piani, meno contorti e lavorati ec. e si avvicinarono
ancora al genio futuro della lingua italiana. Tali furono Cesare, Cornelio Nipote,
e sopra tutti Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove, [862]della
gran somiglianza che ha, sì col greco, sì massimamente coll'italiano,
tanto nell'andamento, come nelle minute forme, frasi, voci. E dovunque si trova
nei latini scrittori, un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che
non fu mai proprio della loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti
scrittori); si trova altresì maggiore e notabile somiglianza col
carattere della lingua greca, e della nostra, e quindi anche del volgare latino,
da cui la nostra è derivata, e a cui non dubito che Celso non si
accostasse notabilmente, e più che ogni altro Classico conosciuto del
secolo d'oro o d'argento. Tuttavia anche in questi scrittori medesimi, si trova
sempre un'aria di maggior coltura, una lingua più lavorata, più
nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli ottimi greci,
anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli con questi. E
certo quel candore, quella nuda venustà de' greci, e anche [863](ma
quanto alla sola lingua) de' nostri trecentisti, non fu mai propria della
scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva. E verisimilmente
non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave che
graziosa, e quantunque naturale e semplice anch'essa (come tutte le antiche,
non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere e
forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante
e vagheggiatrice, come la nazione greca.
(21-24. Marzo 1821.)
Come la proprietà delle parole
è ben altro che la secchezza e nudità di ciascuna, così
anche la semplicità e naturalezza e facilità della struttura di
una lingua e di un discorso, è ben altro che l'aridità e
geometrica esattezza di esso. Così distinguete il carattere dell'ottima
e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata francese.
Così quello dell'ottima e antica e propria lingua e scrittura italiana,
sì da quello della [864]francese, sì da quello dell'odierna
italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le parole, modi ec.
è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento e del
carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente
all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra
lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali
ancorchè straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè
cagione assoluta di barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque
lingua è sostanzialmente barbara, e la vera cagione della barbarie di
una lingua, che non può non esser barbara, quando si allontana, non
dalle frasi o parole, ma dal carattere e dall'indole sua. E tanto più
barbaro è l'odierno italiano scritto, quanto il sapore italiano di certi
vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la cui
italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla
innazionalità ed anche coll'assoluta differenza del carattere totale
della scrittura.
(24. Marzo 1821.)
[865]Lodo che si distornino
gl'italiani dal cieco amore e imitazione delle cose straniere, e molto
più che si richiamino e invitino a servirsi e a considerare le proprie;
lodo che si proccuri ridestare in loro quello spirito nazionale, senza cui non
v'è stata mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza nazionale, ma
appena grandezza individuale; ma non posso lodare che le nostre cose presenti,
e parlando di studi, la nostra presente letteratura, la massima parte de'
nostri scrittori, ec. ec. si celebrino, si esaltino tutto giorno quasi
superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono inferiori agli ultimi: che ci
si propongano per modelli; e che alla fine quasi ci s'inculchi di seguire
quella strada in cui ci troviamo. Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e
riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev'essere, non la
superbia nè la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E
questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa.
Senza ciò non faremo [866]mai nulla. Commemorare le nostre glorie
passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti
è conforto all'ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa
vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare
e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella incapacità
d'ogni retto giudizio, e mancanza d'ogni arte critica, di cui lagnavasi
l'Alfieri (nella sua vita) rispetto all'Italia, e che oggidì è
così evidente per la continua esperienza sì delle grandi
scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre)
o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.
(24. Marzo 1821.)
Che vuol dire che i così detti
barbari, o popoli non ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore
civiltà, hanno sempre trionfato de' popoli civili, e del mondo? I
Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de' Persiani già corrotti, i
Romani de' greci giunti al colmo della civiltà, i settentrionali de'
Romani nello [867]stesso caso? Anzi che vuol dire che i Romani non
furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte
le forze dell'uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la
scienza ec. e l'impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non
è proprio nè facoltà che della natura, e non della
ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa,
così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno
sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano. Non dubito di
pronosticarlo. L'Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi
barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma finattanto
però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene
e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili
saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la
civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice,
non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla
barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta
opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne'
bassi tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si
dovrà aspettare. Il mondo allora comincerà un altro andamento, e
quasi un'altra essenza ed esistenza.
(24. Marzo 1821.)
[868]Quella sentenza che gli
uomini sono sempre i medesimi in tutti i tempi e paesi, non è vera se
non in questo senso. I periodi che l'uomo percorre, e quelli di ciascuna
nazione paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra loro, sono sempre
appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono
questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini di
quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, e questa nazione oggi trovandosi
in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in altra epoca. Come
chi dicesse che l'orbita de' pianeti è sempre la stessa, non però
verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi si trovano, fosse sempre
una. I periodi della società si rassomigliano in tutti i tempi. Questo
è un vero assioma. E l'eccessiva civiltà avendo sempre condotto i
popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di
essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà
falso per la prima volta. Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i
tempi, a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è proposizione
o falsa o ridicola. Falsa se si vuole estendere agli effetti delle
facoltà umane, che ora sviluppate, ora [869]no, ora più,
ora meno, ora attivissime, ora così sepolte nel fondo dell'animo da non
lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come p.e. la sensibilità odierna
negli antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione ec. ec.), hanno diversificato
la faccia del mondo in maniera infinita, e in moltissime guise. Domando io se
questi italiani d'oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo
presente si rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della
Troiana. Domando se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci
riconoscerebbe per uomini, e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole
significare fuorchè questo, che l'uomo fu sempre composto degli stessi
elementi e fisici e morali in tutti i tempi. (ma elementi diversamente
sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali). Cosa che tutti
sanno. Le qualità essenziali non sono mutate, nè mutabili, dal
principio della natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali,
e queste per la diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una
diversità [870]rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in
quelle cose, che sole naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque
in quest'ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il
sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica
trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com'è conforme
all'opinione universale).
(25. Marzo 1821.)
Intorno alla ragione proclamata, e alla
tentata geometrizzazione del mondo, nella rivoluzione francese v. anche parecchie
cose notabili, e qualche notizia e fatto nell'Essai sur l'indifférence en
matière de Religion nell'ultima parte del capo 10. (che
abbraccierà una 20na di pagg.) dove riduce le dottrine che ha
esposte, all'esempio formale della rivoluzione francese, da quel periodo che
incomincia Esisteva, sono già trent'anni, una nazione governata da
una stirpe antica di re ec. sino alla fine del capo.
(26. Marzo 1821.)
Alla p.838. principio. Osservate ancora [871]quanti
di quei mestieri che servono alla preparazione di cose anche usualissime, e
stimate necessarie alla vita oggidì, sieno per natura loro nocivi alla
salute e alla vita di coloro che gli esercitano. Che ve ne pare? Che la natura
abbia molte volte disposto alla sussistenza o al comodo di una specie, la
distruzione o il danno di un'altra specie, o parte di lei, questo è
vero, ed evidente nella storia naturale. Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente
la distruzione di una parte della stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione
essenziale dell'altra parte (certo niente più nobile per natura, ma
uguale in tutto e per tutto alla parte sopraddetta), questo chi si potrà
indurre a crederlo? E questi tali mestieri, ancorchè usualissimi, e
comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno barbari, essendo
manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e li suppone,
ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque ella
pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara?
(30. Marzo 1821.)
Alla p.499. fine. A quello che ho detto
della derivazione di favellare ec. da fabulari ec. aggiungete lo
spagnuolo hablar, habla ec. cioè fablar, [872]fabla
ec. da fabula ec. secondo il costume spagnuolo di scambiare la f
nell'h, come in herir per ferir, in hembra per fembra,
in hazer o hacer per facer, e mille altre parole.
(30. Marzo 1821.)
L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque
individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè
l'individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce
dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque
effettivamente l'individuo odia l'altro individuo, e l'odio degli altri
è una conseguenza necessaria ed immediata dell'amore di se stesso, il
quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene ad essere innato in ogni
vivente. V. p.926. capoverso 1.
Dal che segue per primo corollario, che
dunque nessun vivente, è destinato precisamente alla società, il
cui scopo non può essere se non il ben comune degl'individui che la
compongono: cosa opposta all'amore esclusivo e di preferenza, che ciascuno
inseparabilmente [873]ed essenzialmente porta a se stesso, ed all'odio
degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza la società.
Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver
considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non
simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una
società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità
d'interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o
vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando
agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non
pregiudichi agl'interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono
ai generali. Cosa che accade nelle società de' bruti, e non può
mai accadere in una società, così unita, ristretta, precisa, e
determinata da tutte le parti, come è quella degli uomini.
È cosa notabilissima che la
società tanto più per una parte si è allargata, quanto
più si è ristretta, dico fra gli uomini. E quanto più si
è ristretta, tanto più è mancato [874]il suo scopo,
cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la cospirazione di
ciascuno individuo al detto fine. Conseguenza naturale, ma niente osservata,
del corollario precedente, e della proposizione da cui questo deriva.
Osservate.
Ridotto l'uomo dallo stato solitario a
quello di società, le prime società furono larghissime. Poco
ristrette fra gl'individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva
estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società.
Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società era effettivamente
cercato dagl'individui, perchè da un lato non pregiudicava, dall'altro
favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio. E il ben comune risultava
effettivamente da dette società, simili più o meno alle naturali,
e conforme alle considerazioni fatte nel precedente corollario. Le
società si sono ristrette di mano in mano che veniamo giù
discendendo dai tempi naturali; e ristrette per due capi: 1. tra gl'individui
di una stessa società: 2. tra le diverse società. Oggi questa
ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi. Ciascuna
società è così vincolata 1. dall'obbedienza che deve per
tutti i versi, in tutte le minuzie, con ogni matematica esattezza al suo capo,
o governo, 2. dall'esattissimo [875]regolamento, determinazione,
precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche, religiose,
civili, pubbliche, private, domestiche ec. che legano l'individuo agli altri
individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta, che
maggior precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa
parte. Le diverse società poi, sono così strette fra loro (dico
le civili massimamente, ma non solamente), che l'Europa forma una sola
famiglia, tanto nel fatto, quanto rispetto all'opinione, e ai portamenti
rispettivi de' governi, delle nazioni, e degl'individui delle diverse nazioni.
In questo momento poi, l'Europa è piuttosto una nazione governata da una
dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o
vogliamo dire comandati da diversi governatori, la cui potestà e
facoltà deriva e risiede nel corpo intero di essi ec. di quello che si
possa chiamare composta di diverse nazioni.
Che è derivato e deriva da tutto
ciò? [876]1. L'incamminamento espresso della società ad un
senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad allargarsi
tanto anzi sciogliersi per una parte, ch'è la più importante,
quanto per l'altra si stringe. Cosa ch'è sempre accaduta dal principio
della società in poi, in proporzione del maggiore stringimento di essa.
Considerate le antiche lassissime società, e vedrete che amor di patria,
ossia di essa società, si trovava in ciascun individuo, che calore in
difenderla, in proccurare il suo bene, in sacrificarsi per gli altri ec. Venite
giù di mano in mano, e troverete le società sempre più
ristrette e legate in proporzione dell'incivilimento. Ma che? Osservate i
nostri tempi. Non solo non c'è più amor patrio, ma neanche
patria. Anzi neppur famiglia. L'uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla
solitudine primitiva. L'individuo solo, forma tutta la sua società.
Perchè trovandosi in gravissimo conflitto gl'interessi e le passioni, a
causa della strettezza e vicinanza, svanisce l'utile della società in
massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l'uno
individuo, e gl'interessi [877]suoi, nocciono a quelli dell'altro, e non
essendo possibile che l'uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso
ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e
prevalendo naturalmente l'amor proprio, questo si converte in egoismo, e l'odio
verso gli altri, figlio naturale dell'amor proprio, diventa nella gran copia di
occasioni che ha, più intenso, e più attivo. 2. Si è
perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società,
ch'è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se
n'è perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl'individui al
detto fine.
Dilatiamo ora queste considerazioni, e
seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla storia dell'uomo, paragoniamo principalmente
gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e
poco grande, cioè di pochi, con la società strettissima, e
grandissima, cioè di moltissimi.
Ho detto che l'amor proprio è
inseparabile [878]dall'uomo, e così l'odio verso gli altri
ch'è inseparabile da esso, e che per conseguenza esclude primitivamente
ed essenzialmente la stretta comunione e società sì degli uomini,
che degli altri viventi. Ma siccome l'amor proprio può prendere
diversissimi aspetti, in maniera, ch'essendo egli l'unico motore delle azioni
animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui
derivano tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così nelle
antiche e poche ristrette società (come pure accade anche oggi in
parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando furono scoperte,
come alcune Americane) l'amor proprio fu ridotto ad amore di quella
società dove l'individuo si trovava, ch'è quanto dire amor di
corpo o di patria. Cosa ben naturale, perchè quella società giovava
effettivamente all'individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e dovuto,
così che l'individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in lei,
trasformava l'amor di se stesso nell'amore di lei. Come appunto accade nei
partiti, nelle congregazioni, negli ordini ec. massime quando sono nel
primitivo [879]vigore, e conservano la prima lor forma. Nel qual tempo gl'individui
che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e considerano i suoi
vantaggi, gloria, progressi, interessi ec. come propri: e quindi amandolo,
amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi. Che questo in ultima analisi
è l'unico principio dell'amor di corpo, di patria, di Religione,
universale o dell'umanità, e di qualunque possibile amore in qualunque
animale.
Dunque l'amor proprio si trasformava in amor
di patria. E l'odio verso gli altri individui? Non già spariva,
ch'è sempre ed eternamente inseparabile dall'amor proprio, e quindi dal
vivente: ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni.
Cosa naturale e conseguente, se quella tal società o patria, era per
ciascuno individuo come un altro se stesso. Quindi desiderio di soverchiarle,
invidia de' loro beni, passione di render la propria patria signora delle altre
nazioni, ingordigia altresì de' loro beni e robe, e finalmente odio ed
astio dichiarato; tutte cose che nell'individuo trovandosi verso gli altri
individui, lo rendono per natura, [880]incompatibile colla società.
Dovunque si è trovato amor vero di
patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si
odia come straniero, la patria non si ama. Lo vediamo anche presentemente in
quelle nazioni, dove resta un avanzo dell'antico patriotismo.
Ma quest'odio accadeva massimamente nelle
nazioni libere. Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o
solamente inattivo e debole, perchè l'individuo non fa parte della
nazione se non materialmente. L'opposto succede nelle nazioni libere, dove
ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt'uno colla patria, odiava
personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno.
Con queste osservazioni spiegate la gran
differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e
di operare verso le altre nazioni, paragonata colla maniera moderna. Lo
straniero non aveva nessun diritto sopra l'opinione, l'amore, il favore degli antichi.
E parlo degli antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste,
degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la
filosofia di allora (che dava molto più nel segno della presente)
insegnava e inculcava l'odio nazionale e individuale dello straniero, come di
prima necessità alla conservazione [881]dello stato, della
indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non era considerato
come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della
giustizia, dell'onesto, delle virtù, dell'onore, della gloria stessa, e
dell'ambizione; delle leggi ec. tutto era rinchiuso dentro i limiti della
propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una
città. Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte, e
per certi rapporti necessari, e dove il danno sarebbe stato comune se non
avesse esistito.
La nazione Ebrea così giusta, anzi
scrupolosa nell'interno, e rispetto a' suoi, vediamo nella scrittura come si
portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del
Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere,
uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di
gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di
legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine
Divino, e così cento altre guerre, spesso nell'apparenza ingiuste, co'
forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e
congruenza, questa opinione, che non sia peccato l'ingannare, o far male comunque
all'esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi ywg [882]ossia
gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro:
(v. il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere,
chiamano oggi i Cristiani \ywg goiìm) riputando
peccato, solamente il far male a' loro nazionali.
E con queste osservazioni si deve spiegare
una cosa che può far maraviglia nella Ciropedia. Dove Senofonte vuol
dare certamente il modello del buon re, piuttosto che un'esatta istoria di
Ciro. E nondimeno questo buon re, dopo conquistato l'impero Assirio, diventa
modello e maestro della più fina, fredda, e cupa tirannide. Ma bisogna
notare che questo è verso gli Assiri, laddove verso i suoi Persiani, Senofonte
lo fa sempre umanissimo e liberalissimo. Ma egli stima che sia tanto da buon re
l'opprimere lo straniero, e l'assicurarsi in tutti i modi della sua soggezione,
come il conservare una giusta libertà a' nazionali. Senza la qual
distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello,
e prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera intenzione, e all'idea
ch'egli ebbe del buon Principe. Nel qual proposito osserverò che la
regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per tutto i
Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella, [883]nazion
dominante, e queste, soggette e dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il
quale anzi a costo d'inimicarsi i Macedoni, pare che tra' suoi sudditi di qualunque
nazione volesse stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i
conquistati adottando le vesti e le usanze loro. Il suo scopo fu certo quello
di conservarli piuttosto coll'amore che col timore, e colla forza: e non li
stimò schiavi (secondo il costume di quei tempi), ma sudditi. E quanto
ai Romani, vedi in questo particolare la fine del Capo 6. di Montesquieu, Grandeur
etc. Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri
conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e
compatrioti: ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com'è
noto, e come ho detto in altro pensiero p.457.
Tornando al proposito, Platone nella
Repubblica l.5. (vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li
faranno schiavi, non desoleranno le campagne, nè bruceranno le case
loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari. E le Orazioni
d'Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de' Greci, sono spietate
verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo, a
sterminarli. Sono notabilissime in questo proposito le sue due Orazioni , e , dove
inculca di proposito l'odio de' Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni
che l'amore dei greci, e come conseguenza di questo. V. specialmente quel luogo
del panegirico, che comincia , e
finisce J, dove
parla di Omero e de' Troiani, p.175-176. della ediz. del Battie, Cambridge
1729. molto dopo la metà dell'orazione ma ancor lungi dal fine. E questa
opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e
ingiustizia verso gli stranieri, è il [884]carattere costante di
tutti gli antichi greci e romani, e massime de' più cittadini, e
assolutamente de' più grandi e famosi: nominatamente poi degli
scrittori, anche i più misericordiosi, umani e civili.
È insigne a questo proposito un luogo
di Temistio nell'Orazione scoperta dal Mai J In eos
a quibus ob praefecturam susceptam fuerat vituperatus cap.25. Eccolo J J. , J. , J , , J J. (regium dominatum exercuit. Maius.) J , J (qui
clementia indiget. Maius.) J , (Mediol.
regiis typis. 1816. inventore et interprete Angelo Maio p.66. V. tutto quel
capo, e parte del resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo riferito
principalmente, e dà gran luce e tutta appropriata, al mio discorso. V.
anche l'oraz.10. di Temistio dell'ediz. Harduin. p.132. B-C. e l'Oraz. 1. p.[885]6.
B. citt. qui in margine dal Mai, come contenenti luoghi paralleli al riportato.)
Così egli lodando Teodosio magno. E infatti la filantropia, o amore
universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell'uomo
nè de' grandi uomini, e non si nominò se non dopo che parte a
causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto
l'amor di patria, e sottentrato il sogno dell'amore universale, (ch'è la
teoria del non far bene a nessuno) l'uomo non amò veruno fuorchè
se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più
i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente
essere (com'è oggi) meno odioso, perchè si oppone meno a' suoi
interessi, e perch'egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i
lontani, quanto i vicini.
Da tutte queste osservazioni e fatti,
risulta un'altra osservazione e un altro fatto conosciutissimo, e
caratteristico dell'antichità; o piuttosto risulta la spiegazione di
questo fatto. Perchè amando l'individuo la patria sua, e conseguentemente
odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre fossero sempre nazionali. E
tanto più accanite, quanto l'individuo era da ambe le parti più
infiammato della sua causa, cioè dell'amor patrio. Massimamente dunque
lo erano quelle de' popoli liberi, o fatte a un popolo libero, [886]per
la stessa ragione, per cui, come ho detto, un popolo libero ama maggiormente la
patria, e maggiormente odia lo straniero. Così che sì la nazione
e l'armata straniera, sì l'individuo straniero, era come nemico privato
dell'individuo che combatteva pel suo popolo libero, e per la sua patria. E
questa è una delle principali e più manifeste ragioni per cui i
popoli più amanti della patria loro, e fra questi i liberi, sono stati
sempre i più forti, i più formidabili al di fuori, i più
bellicosi, i più intrepidi, i più atti alle conquiste, ed effettivamente,
per così dire, i più conquistatori.
Dall'esser le guerre, nazionali, dovea
risultare quest'altro effetto, che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha
luogo in tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che
conservano maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli
Spagnuoli. Cioè le guerre dovevano essere, a morte, e senza perdono (giacchè
tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza distinzione ec. E l'effetto
della vittoria doveva essere il cattivare intieramente non solo il governo, ma
la nazione intiera; (come si vide principalmente in Asia a tempo de' monarchi
Assiri nelle lor guerre co' Giudei ec. e al tempo di Tito Vespasiano) [887]o
certo spogliarla de' costumi, leggi, governatori propri, dei tempii, de'
sepolcri, della roba, del danaio, delle proprietà, delle mogli, dei
figli ec. e ridurla se non in ischiavitù, come si costumò antichissimamente,
spogliando il vinto anche del suo paese; certo però in servitù: e
considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non partecipe di nessun
vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei, se non come suddita,
nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè ec. come
se fosse di altra razza d'uomini. E conseguentemente e congruentemente:
perchè insomma tutta quanta la nazione essendo stata ed essendo nemica
del vincitore, tutta si trattava come nemica vinta e domata, e tutta era preda
del nemico trionfante. Quindi la disperazione delle guerre l'ostinazione delle
resistenze le più inutili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni
intiere, piuttosto che aprir le porte al nemico, perchè in fatti il
vinto andava nelle mani e nell'assoluta balìa di un nemico mortale,
com'egli lo era del vincitore. Quindi anche il combattere le nazioni intere, e
l'essere tutti soldati, quanti potevano portar armi, e ciò sempre:
cioè tanto in guerra quanto (se non in atto certo in potenza e
disposizione) nel tempo di pace. Perchè le nazioni, massime vicine,
erano sempre in istato di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando
l'una di sorpassar l'altra in [888]qualunque modo per conseguenza
necessaria del vero amor patrio. (V. in questo proposito, se però vuoi,
l'Essai sur l'indifférence en matière de Religion ch.10. dove
discorre di proposito in questa materia, sebbene in senso opposto al mio,
durante 9. pagg. della traduz. di Bigoni cioè dalla p.160. alla 169.
ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è tutto ancora. Quando
i rapporti sociali ec. sino a quello che incomincia: INCEDO PER IGNES. Egli
trova anche una conformità di quest'ultimo costume nella moltitudine
delle armate odierne, che fa derivare dalla nazionalità delle guerre di
questi ultimi anni. Osservo però che questo derivò in principio
dalla sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
Conchiudo che l'indipendenza, la
libertà, l'uguaglianza di un popolo antico, non solo non importava
l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza degli altri popoli, rispetto a
lui, e per quanto era in lui; ma per lo contrario importava la soggezione e
servitù degli altri popoli, massime vicini, e l'obbedienza de'
più deboli. E un popolo libero al di dentro era sempre tiranno al di
fuori, se aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua
libertà. Nel modo stesso che un principe, per esser egli indipendente e
libero, e non aver legami nè ostacoli alla sua volontà, non
perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo. Anzi quanto più
è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a'
sudditi, o a' più deboli di lui. Così quanto [889]più
una nazione sentiva ed amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli
liberi, tanto più era nemica delle straniere, e desiderosa di elevarsi
sopra loro, di farsene ubbidire, e conquistate, opprimerle; tanto più
invidiosa de' loro beni, ingorda del loro ec. effetto naturale dell'amor
nazionale, come lo è dell'amor proprio rispetto agl'individui: essendo
insomma l'amor patrio, non altro che egoismo nazionale, e rispetto alla nazione
intera, egoismo della nazione. E così dite di qualunque amore o spirito
di corpo, di parte ec. Quella nazione dove regna fortemente e vivacemente ed
efficacemente l'amor nazionale, è come un grande individuo: e alla maniera
dell'individuo, amando se stessa, si ama di preferenza, e desidera, e cerca di
superare le altre in qualunque modo. E quanto all'essere un popolo tanto
più tiranno di fuori, quanto più geloso della libertà propria,
e nemico della tirannia di dentro, v. l'esempio moderno, che pare all'autore
dell'Essai ec. di vedere nell'Inghilterra rispetto a' suoi stabilimenti
fuor d'Europa. Vedilo, dico, al luogo citato nella pagina precedente.
Questi quadri paiono non solamente
disgustosi, anzi terribili, ma tali che nessun male, nessun cattivo stato si
possa paragonare col detto stato delle nazioni antiche. E ciò
avverrà massimamente a quelli che considerano la vita come un bene per
se stessa, qualunque ella sia. Ma passiamo ora ai moderni, e consideriamo il
rovescio della medaglia.
2. Per qual cagione l'amore universale sia
un sogno, non mai realizzabile, risulta dalle cose dette in questo discorso, e
l'ho esposto già in altri pensieri. Ora non potendo il vivente senza
cessar di vivere, spogliarsi nè dell'amor proprio, nè dell'odio
verso altrui, resta che queste passioni prendano un aspetto, quanto si
può migliore; resta che l'amor proprio dilati quanto più
può il suo oggetto (ma non può troppo dilatarlo senza perdersi il
se stesso ch'è indivisibile dall'uomo, e quindi ricadere inevitabilmente
nell'amor di se solo); e che l'odio verso altrui si allontani quanto più
si può, cioè scelga uno scopo lontano. Questo avviene per la
prima parte, quando l'individuo trova una comunione e medesimezza d'interesse
con quelli che lo circondano; e per la seconda, quando egli non trova la principale
opposizione a questo interesse se non ne' lontani. Ecco dunque l'amor patrio, e
l'odio degli stranieri. E per tutte queste ragioni, io dico, che stante l'amor
proprio, e l'odio naturale dell'uomo verso altrui, passioni che lo rendono per
natura indisposto alla società, una società non può
sussistere veramente, cioè essere effettivamente ordinata al suo scopo
ch'è il ben comune di tutta lei, se le dette passioni non prendono il
detto aspetto; cioè: la società non può sussistere
senz'amor patrio, ed odio degli stranieri. Ed essendo l'uomo essenzialmente
ed [893]eternamente egoista, la società per conseguenza, non
può essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con
verità, se l'uomo non diventa egoista di essa società,
cioè della sua nazione o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre.
E per tutte queste ragioni, ed altre che ho spiegato altrove, dico, e segue evidentemente,
che la società ed esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
3. Come senz'amor patrio non c'è
società, dico ancora che senz'amor patrio non c'è
virtù, se non altro, grande, e di grande utilità. La
virtù non è altro in somma, che l'applicazione e ordinazione
dell'amor proprio (solo mobile possibile delle azioni e desiderii dell'uomo e
del vivente) al bene altrui, considerato quanto più si possa come
altrui, perchè in ultima analisi, l'uomo non lo cerca o desidera,
nè lo può cercare o desiderare se non come bene proprio. Ora se
questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi
questo mai col ben proprio, l'uomo non lo può cercare. Se è il
bene di pochi, l'uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca
estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca
grandezza. Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e
premio, così che è rara e difficile; giacchè siamo da
capo, mancando allora o essendo poco efficace lo sprone che muove l'uomo ad
abbracciar la virtù, cioè il ben proprio. Talchè anche per
questo capo [894]è dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza,
o poca importanza e pregio delle società, dei corpi, dei partiti ec. E
riguardo all'altro capo, cioè la poca utilità delle virtù
che si rapportano al bene o agl'interessi qualunque di pochi, o poco importanti
ec. questa è la ragione per cui non sono lodevoli, anzi spesso dannosi i
piccoli corpi, società, ordini, partiti, corporazioni, e l'amore e
spirito di questi negl'individui. Giacchè le virtù e i sacrifizi
a cui questi amori conducono l'individuo, sono piccoli, ristretti, bassi,
umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità. In oltre nuocono alla
società maggiore, perchè siccome l'amor di patria produce il
desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l'amore de'
piccoli corpi, essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione
degl'individui verso quelli che non appartengono a quella tal corporazione, e
il desiderio di superarli in qualunque modo. Così che nasce la solita
disunione d'interessi, e quindi di scopo, e così queste piccole
società, distruggono le grandi, e dividono i cittadini dai cittadini, e
i nazionali dai nazionali, restando tra loro la società sola di nome.
Dal che potete intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere,
come particolarmente di queste famose moderne e presenti, le quali
ancorchè studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene
di tutta la patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene,
e sempre gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire
i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l'amor della
setta (fosse pur questa purissima) nuoce all'amore della nazione ec. V. p.1092.
principio. Resta dunque che l'egoismo sociale, abbia per oggetto una
società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere negl'inconvenienti
delle piccole, non sia tanto grande, che l'uomo per cercare il di lei bene, sia
costretto a perdere di vista se stesso; [895]il che egli non potendo
fare mentre vive, ricadrebbe nell'egoismo individuale. L'egoismo universale
(giacchè anche questo non potrebb'essere altro che egoismo, come tutte
le passioni e tutti gli amori dei viventi) è contraddittorio nella sua
stessa nozione, giacchè l'egoismo è un amore di preferenza,
che si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l'universale
esclude l'idea della preferenza. Molto più poi è stravagante
l'amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i
viventi, e quanto si possa, di tutto l'esistente: cosa contraddittoria alla natura,
che ha congiunto indissolubilmente all'amor proprio una qualità
esclusiva, per cui l'individuo si antepone agli altri, e desidera esser
più felice degli altri, e da cui nasce l'odio, passione così naturale
e indistruggibile in tutti i viventi, come l'amor proprio. Ma tornando al proposito,
la detta società di mezzana grandezza, non è altro che una
nazione. Perchè l'amore delle particolari città native è
dannoso oggi, come l'amore de' piccoli corpi, non producendo niente di grande,
come non dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d'altra
parte, staccando l'individuo dalla società nazionale, e dividendo le
nazioni in tante parti, tutte intente a superarsi l'una coll'altra, e quindi
nemiche scambievoli. Del che non si può dare maggior pregiudizio. Le
città antiche, se anche erano piccole come le moderne, e tuttavia servivano
[896]di patria, erano però più importanti assai,
per la somma forza d'illusioni che vi regnava, e che somministrando grandi
eccitamenti, e premi grandi ancorchè illusorii, bastava alle grandi
virtù. Ma questa forza d'illusioni non è propria se non degli antichi,
che come il fanciullo, sapevano trar vita vera da tutto, ancorchè menomo.
La patria moderna dev'essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione
d'interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria
l'Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è
la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non
si dà virtù grande. Da tutto ciò deducete il gran
vantaggio del moderno stato, che ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la
possibilità della virtù, certo della virtù grande, e
grandemente utile; della virtù stabile e solida, e che abbia una base e
una fonte durevole e ricca.
4. Lascio la gran vita che nasce dall'amor
patrio, e in proporzione della sua forza, ch'è massima ne' popoli
liberi, e che gli antichi godevano mediante questo; e la morte del mondo,
sparito che sia l'amor patrio, morte che noi sperimentiamo da gran tempo.
5. Le guerre moderne sono certo meno
accanite delle antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto. Questo
è naturalissimo. Non esistendo più nazioni, [897]e quindi
nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore. Chi vince
non vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I soli governi sono nemici fra
loro. Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come
l'asino di Fedro cambia solamente la soma, o l'asinaio); ma sopra il solo governo.
Una nazione conquistata perde il suo governo, e ne riceve un altro che presso a
poco è il medesimo. Non essendo nemica della conquistatrice, non avendo
avuto guerra con essa, nè questa con lei, partecipa ai di lei vantaggi,
alle cariche pubbliche ec. Non perde le proprietà, nè la
libertà civile, nè i costumi ec. (Alle volte non perderà
neppure le sue leggi). Ma come tutto il suo, non era suo, ma del suo padrone,
così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui, come presso gli
antichi, passa di peso e senza scomporsi ad essere di un altro padrone.
Anticamente il privato perdeva
individualmente le sue proprietà perchè individualmente ne aveva.
Ora non egli che non le ha individualmente, e non le può perdere, ma il
suo principe vinto perde tutte insieme le proprietà de' suoi sudditi,
ch'erano generalmente ed unitamente sue; e questo per conseguenza accade senza
cangiamenti nello stato de' particolari, e senza nuove violazioni de' diritti
privati e individuali. S'ella diviene dipendente al di fuori, lo era già
al di dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di nome,
perchè la sua indipendenza era pur tale. E se ora dipende dallo
straniero, lo straniero è per lei tutt'uno che il nazionale;
perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista; ed ella non
amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo straniero, se non
come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo. Il diritto delle nazioni
[898]è nato dopo che non vi sono state più nazioni.
Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della conquista, e gli
gode ora come la conquistatrice. Quanto alle guerre, elle non sono già
nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche. Perchè
la sorgente delle guerre, che una volta era l'egoismo nazionale, ora
è l'egoismo individuale di chi comanda alle nazioni, anzi
costituisce le nazioni. E questo egoismo, non è nè meno cupido,
nè meno ingiusto di quello. Dunque, come quello, misura i suoi desiderii
dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e la forza è l'arbitra
del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia,
perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti.
Questi che esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del
Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra
che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli
Cristiani fino a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse
ingiustizie, le stesse guerre, lo stesso trionfo della forza ec. nè il
Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto; colla
differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora
gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o
gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i
proprii, adesso verso nessuno; allora le nimicizie [899]partorivano le
grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi vizi e la
viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono oppresse,
la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la servitù
è comune a lui col vincitore; allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa
naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più
nè meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda; allora
chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso
chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la
move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel
muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi
tra loro, sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le
nazioni anticamente.
Lascio le atrocità commesse anche ne'
primi e più fervorosi tempi Cristiani sopra i Capi delle nazioni vinte:
cosa conseguente, perch'essi erano i vinti, e non le nazioni. E così
costumavasi, per naturale effetto, anche anticamente, nella vittoria di nazioni
serve al di dentro e monarchiche. Nè mancano esempi più recenti
nelle storie, di questa naturale conseguenza dello stato presente dei popoli,
cioè dell'odio privato o pubblico fra' loro capi, e delle sevizie usate
sopra i principi vinti o prigioni ec.
Vengo all'atto della guerra. Anticamente,
dicono, combattevano le nazioni intere: le guerre de' tempi [900]Cristiani
fatte con piccoli eserciti, hanno meno sangue, e meno danni. Ma anticamente
combatteva il nemico contro il nemico, oggi l'indifferente coll'indifferente,
forse anche coll'amico, il compagno, il parente; anticamente nessuno era che
non combattesse per la causa propria, oggi nessuno che non combatta per causa
altrui; anticamente il vantaggio della vittoria era di chi avea combattuto,
oggi di chi ha ordinato che si combatta. È in natura che il nemico
combatta il suo nemico, e per li suoi vantaggi; e ciò si vede anche nei
bruti, certo non corrotti, anche dentro la loro propria specie, e co' loro
simili. Ma non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che un individuo
senza nè odio abituale, nè ira attuale, con nessuno o quasi
nessuno vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che certo non ama
gran fatto, e probabilmente non conosce, uccide un suo simile che non l'ha offeso
in nessuna maniera, e che, per dir poco, non conosce neppure e non è
conosciuto dall'uccisore. Anzi di più, un individuo ch'egli odia per lo
più molto meno di quello che gli comanda di ucciderlo, e certo molto
meno di gran parte fra' suoi stessi compagni d'arme, e fra' suoi concittadini.
Perchè oggi gli odi, le invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini,
e nulla ordinariamente coi lontani: l'egoismo individuale ci [901]fa
nemici di quelli che ci circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza
con noi; e massime di quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano
allo stesso scopo che noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli
che essendo più elevati di noi, destano per conseguenza l'invidia
nostra, e pungono il nostro amor proprio. Lo straniero al contrario ci è
per lo meno indifferente, e spesso più stimato dei conoscenti,
perchè la stima ec. è fomentata dalla lontananza, e dalla ignoranza
della realtà, e dallo immaginario che ne deriva: ed infatti in un paese
dove non regni amor patrio, il forestiero è sempre gradito, e i costumi,
i modi ec. ec. tanto suoi, come di qualunque nazione straniera, sono sempre
preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente. Così che il
soldato oggidì è molto più nemico sì di quelli in
cui compagnia combatte, sì di quelli in cui vantaggio, per cui volere,
sotto di cui combatte, che di coloro ch'egli combatte ed uccide. E tutto
ciò per natura delle cose, e non per capriccio. Talchè, se
vorremo una volta considerar bene le cose, non le apparenze, troveremo molta
più barbarie oggidì nella uccisione di un nemico solo, che
anticamente nel guasto di un popolo: perchè questo era del tutto secondo
natura; quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902]Voglio andare anche
più avanti, e mostrare che questo preteso vantaggio del poco numero de'
combattenti, ha sussistito finora non per altro se non perchè le nazioni
hanno conservato qualche cosa di antico, e continuato ad essere in qualche modo
nazioni; e che ora che hanno cessato affatto di esserlo, il detto vantaggio non
può più sussistere.
Certo che le nazioni non essendo più
nemiche l'una dell'altra, e gli eserciti essendo come truppe di operai pagati
perchè lavorino il campo del padrone, e il numero di un esercito non
richiedendosi che sia se non quanto è quello dell'altro, le guerre si
potrebbero sbrigare con pochissimo numero di combattenti, e anche con un compromesso,
dove due sole persone pagate combattessero insieme per decider la causa. Ma
l'egoismo dell'uomo porta ch'egli impieghi ad ottenere il suo fine tutte quante
le forze ch'egli può impiegare a tale effetto.
Un grand'esercito, sì per se stesso,
sì per le imposte che bisognano a mantenerlo, non si mantiene senza
incomodo e danno e spesa dei sudditi. Finchè i sudditi non sono stati
affatto servi, finchè la moltitudine è stata qualche cosa,
finchè la voce della nazione si è fatta sentire, finchè la
carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è stata ad intierissima
disposizione di questo solo che comanda, e come la carne, così tutto il
resto, e la nazione per tutti i versi; fino, dico, [903]ad un tal punto,
il principe non potendo adoperare la nazione a' suoi propri fini, se non sino
ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose. La
nazione, che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente 1. di
guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2. le leve
forzate, o almeno eccessive,
[905]Ma da che il progresso
dell'incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte
esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le
nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per
conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti
i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo
appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son divenute
più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute. Ed è cosa
ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta
della natura delle cose e dell'uomo. Perchè quanto un uomo può
adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può
adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto
quanto può la nazione, segue ch'egli l'adopri effettivamente senz'altri
limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo
prova. Luigi 14. o primo, o uno de' primi di quei regnanti che appartengono
all'epoca della perfezione del dispotismo, diede subito l'esempio al mondo,
della moltitudine delle armate. Dato che sia questo esempio il seguirlo
è necessario. Perchè siccome oggi la grandezza di un'armata
è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si
possa a quella del nemico, [906]così se quella del nemico
è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste,
facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica;
nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse
ragioni, nel caso opposto, come ho detto p.902. Infatti l'esempio di Luigi 14.
fu seguito sì da' principi suoi nemici, sì da Federico secondo,
il filosofo despota, e l'autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui
felicemente coltivato e promosso. Ed egli parimente obbligò alla stessa
cosa i suoi nemici. Finalmente la cosa è stata portata all'eccesso da
Napoleone, per ciò appunto ch'egli è stato l'esemplare della
forse ultima perfezione del despotismo. Non però quest'eccesso è
l'ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.
Dico inevitabilmente, supposti i progressi o
la durata del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose,
secondo l'andamento dei tempi, il sapere che regna ec. non pare che per ora,
possano far altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici. E in questo
caso, dico inevitabilmente, sì per l'egoismo naturale dell'uomo, e
conseguentemente del principe, egoismo il cui effetto è sempre
necessariamente proporzionato al potere dell'egoista; sì ancora
perchè dato che sia l'esempio, e preso il costume questo andamento, la
cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse. E [907]che
ciò sia vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume,
ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla
volontà? Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono
mai guerreggiare? Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose
che si tentasse o proponesse al Congresso di Vienna. E certo l'occasione era
l'ottima che potesse mai darsi, ed altra migliore non si darà mai. So
però che nulla se n'è fatto. Forse avranno conosciuta
l'impossibilità, che realmente vi si oppone. Primo, qual è oggi
la guarentia de' trattati, se non la forza o l'interesse? Qual forza dunque o
quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con
tutte le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente
che, anche volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato
precedente, in tempo di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra
nel primo luogo? e generalmente, chi non conosce la natura universale e
immutabile dell'uomo? Se dunque il principe conosce tutto ciò, dunque
sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo, è obbligato a tenersi
e provvedersi in modo ch'egli sappia resistere quanto più si può,
a qualunque forza che il nemico voglia impiegare per attaccarlo. Chi è
colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico
l'assalterà [908]con cento o con mille, anzi avendo più da
creder questo che quello? E quando si fosse fatto l'accordo generale, e
osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi
improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non
mancherebbe. Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo
un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe
sull'incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume.
E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo
sempre continuo il pericolo che i governi portano l'uno dall'altro. E
ciò ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono
ora in tempo di pace, così che non c'è ora un tempo dove un paese
resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de' tempi
antichi, sì de' secoli cristiani anteriori a questi ultimi.
Da tutto ciò segue che le armate non
solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente
ciascuno di superare l'altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi
quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli
antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi,
spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per
marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza,
e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è
notabile, perduto l'amor di patria, e l'indipendenza interna, la novità
del padrone, e delle leggi, governo ec. non solo non è odiata nè
temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per
l'altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno
più di qualunque altro, [909]e più assai di chi
combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma
contro natura assolutamente. E lo stesso dite di tutte le altre conseguenze del
dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente da essa.
Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate,
sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati,
privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura,
collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue
fatiche; inceppato e scoraggiato il commercio e l'industria, collo impadronirsi
che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec. ec. ec. In
somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come
anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza
straordinaria; lo saranno dall'interno più che dall'estero, e da questo
ancora, secondo le circostanze ec. ec. E tutto ciò non già
verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza
immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e peggiore
ne' principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà inevitabilmente
a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e grandissime
parti. E tutto ciò senza ricavarne quell'entusiasmo, quel movimento, quelle
virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle
fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che
derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo
contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910]il
torpore, la freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il
tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi
dell'incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto
delle genti creato, dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole
delle nazioni distrutto, dell'antica barbarie abolita.
Queste mie osservazioni sono in senso tutto
contrario a quello dell'Essai ec. loc. cit. da me p.888. il quale fa
derivare la moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale,
ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla
totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi di quest'odio, e di
questo egoismo.
6. Non solamente le virtù pubbliche,
come ho dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni,
sono distrutti dal loro stato presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor
di patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi
sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti,
e pieni d'integrità. Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio,
del sentimento che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della
libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità
che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive
che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella
è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle
illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il
vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà. Queste son cose
evidenti nelle storie, ed osservate da tutti i filosofi, e politici. Ed
è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in
proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una
nazione; e l'indebolimento di queste [911]cose, colla corruttela dei
costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della
perdita dell'amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della
libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo
sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la
producono, sull'amor patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale.
È cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de' costumi in
Francia da Luigi 14. il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della
perfezione del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della
moltitudine, sino alla rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato
alla perduta morale francese, quanto era possibile
(30. Marzo-4. Aprile 1821.)
Analogo al pensiero precedente è
questo che segue. [912]È cosa osservata dai filosofi e da'
pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si
può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della
schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat
social l.3. ch.15. ed altri. Puoi vedere anche l'Essai sur
l'indifférence en matière de Religion, ch.10. nel passo dove cita in
nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.) Dal
che deducono che l'abolizione della libertà è derivata
dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi,
questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che
strettamente presa, è falsa, perchè la libertà s'è
perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ha toccate in cento
luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che l'abolizione della
schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o
vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in
maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
La conseguenza, dico, è falsa: ma il
principio della necessità della schiavitù ne' popoli precisamente
liberi, è verissimo. Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di
questa proposizione.
L'uomo nasce libero ed uguale agli altri, e
tale egli è per natura, e nella stato primitivo. Non così nello [913]stato
di società. Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a
ciascuno de' suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli
occorrono, ma nella società ch'è fatta pel ben comune, o ella non
sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano
insieme, ovvero conviene ch'essi si prestino uffizi scambievoli, e provvedano
mutuamente a' loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non
può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io p.e.
pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo
viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità delle
diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente,
ovvero tali quali li avrebbe esercitati l'individuo anche nella condizione
naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e
conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita
sociale, e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità;
altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come
sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per
l'assuefazione, quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle
cose pubbliche e veglia al bene e all'esistenza precisa di essa società;
quello delle persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914]la
società nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la
società istessa dalle altre società ec. ec. ec. In somma, o la
società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la
differenza dei mestieri e dei gradi.
Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie,
e così accadde infatti da principio, e accade ne' popoli ancora non
inciviliti, siccome ne' civili. Ma corrotta appoco appoco la società, e
introdotto l'abuso del potere; e quindi i popoli avendo scosso il giogo e
ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche
l'uguaglianza. Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla
libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa libertà non
può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella uguaglianza di cui
mai possa esser capace la società.
Ma la libertà ed uguaglianza
dell'uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma non
conviene nè si compatisce, massime nella sua stretta nazione, collo
stato di società, per le ragioni sopraddette. Restava dunque, che richiedendosi
nella società che l'uomo serva all'uomo, e questo opponendosi alla
uguaglianza, l'uomo di una tal società fosse servito da uomini di un'altra,
o di più altre società o nazioni, ovvero da una parte di quella
medesima società, posta fuori de' diritti, de' vantaggi, delle
proprietà, della uguaglianza, della libertà di questa, insomma
considerata come estranea alla [915]nazione, e quasi come un'altra razza
e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla razza libera e
uguale. Ecco l'uso della schiavitù interna ne' popoli liberi e uguali;
uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto egli
è più intollerante della propria servitù, come si è
veduto negli antichi. In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero
veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i
servigi bassi, che avrebbero degradata l'uguaglianza dell'uomo libero, la
coltura della terra ec. destinata agli schiavi: e l'uomo libero, chiunque si
fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato
ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in
sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio
comune della società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo
proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria col mezzo
della guerra ec. colle sole differenze che nascevano dal merito individuale ec.
Tale infatti era la schiavitù nelle
antiche repubbliche. Tale in Grecia, tale quella degl'Iloti, stirpe tutta
schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos () terra (oppidum)
o città (casi Strabone presso il Cellar. 1.967.) del Peloponneso, presa
a forza da' Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione
in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti in perpetuo. V. l'Encyclopéd. Antiquités, art. Ilotes, e
il Cellario 1.973. Tale la schiavitù presso i Romani, della quale v. fra
gli altri il Montesquieu, [916]Grandeur etc. ch.17. innanzi alla
metà. Floro 3.19. Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo
suburbana provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur. Hic AD CULTUM
AGRI frequentia ergastula, CATENATIQUE CULTORES, materiam bello
praebuere. E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si
può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò.
Ne avevano i Romani, cred'io, d'ogni genere di nazioni; e Floro l.c. nomina un
servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell'ultima epist.
greca, una serva Sira ec. ec. cose che si possono vedere in tutti gli scrittori
delle antichità Romane. V. il Pignorio De Servis, e, se vuoi,
l'articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano 1. Aprile 1818.
Quaderno 97. p.244. fine-245. principio, dove si tocca questo argomento della
gran moltitudine de' servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si
cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava
Affricana è nominata nel Moretum.
E qual fosse l'idea morale che gli antichi
avevano degli schiavi, si può dedurre da cento altri scrittori e luoghi,
e fatti, e costumi degli antichi, ma segnatamente da questo luogo di Floro
3.20. Enimvero servilium armorum dedecus feras. Nam et ipsi per fortunam
IN OMNIA OBNOXII (scil. nobis) tamen QUASI SECUNDUM HOMINUM GENUS SUNT, et
in bona libertatis nostrae adoptantur.
Questa seconda razza di uomini
serviva dunque alla uguaglianza e libertà de' popoli antichi, in
proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze rispettive di
questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec. per [917]fare o comperare
degli schiavi. E l'antica uguaglianza e libertà, si manteneva
effettivamente coll'aiuto e l'appoggio della schiavitù, ma della
schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la
repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera ed uguale.
Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione, aveva bisogno,
e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l'una non era indipendente
neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti di altre ec.
E la verità di tutte queste cose, e
come l'uso o la necessità della schiavitù in un popolo libero
abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente nella
uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per questa
osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso. Arriano (Histor. Indica, cap.10. sect.8-9. edit.
Wetsten. cum Expedit. Alexand. Amstelaed. 1757. cura Georg. Raphelii, p.571.)
dice fra le cose che si raccontavano degl'Indiani: () I , I J, I (qua quidem in re Indis cum Lacedaemoniis
convenit. Interpres.) , I , , I . ( nedum. Index
vocum.) [918]Osservate subito che questa cosa pare ad Arriano
maravigliosa e singolare. Poi osservate, che gl'indiani erano liberi,
cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma
ch'era una specie di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano
città libere e indipendenti assolutamente. (Id. ibid. c.12. sect.6. et
5. p.574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità? Sebbene
Arriano non l'osserva, ella si trova però in quello ch'egli soggiunge
immediatamente. Ed è questo: I Distinguuntur
autem Indi omnes in septem potissimum genera hominum (interpres.), ossia,
caste. (Id. ib. c.11. sect.1. p.571.) La prima de' sofisti (), la
seconda degli agricoltori (), la
terza de' pastori e bifolchi (, ), la 4ta
opificum et negotiatorum ( ), la
quinta dei militari ( ) i quali
non avevano che a far la guerra quando bisognava, pensando gli altri a fornirli
di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di guerra che di pace) e prestar
loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire i cavalli, condurre gli
elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi, sicchè non
restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum sive
inquisitorum ( ), specie
d'ispettori di polizia, i quali non potevano [919]riferir niente di
falso, e nessun indiano fu incolpato mai di menzogna J (c.12.
sect.5. p.574. fine); la settima finalmente , ,
(liberae. interpres) : casta
per sapienza e giustizia ( ) sopra
tutti prestante, dalla quale si sceglievano i magistrati, i regionum
praesides (), i prefetti
(), i quaestores
(J), i (copiarum
duces), , , . (ib.
c.12. sect.6-7.) Ecco dunque la ragione perchè gl'indiani non usavano
schiavitù. Perchè sebben liberi, non avevano l'uguaglianza.
Ma come dunque senza l'uguaglianza
conservavano la libertà? Neppur questo l'osserva Arriano, ma la cagione
si deduce da quello ch'egli immediatamente soggiunge: (ib. sect.8-9) , J , , J J . , J J , (non mollis
vita sed omnium laboriosissima. interpres.)
Questa costituzione, che si vede ancora
sussistere fra [920]gl'indiani quanto alla distinzione in caste, e al
divieto di passare dall'una all'altra o per matrimonii, o comunque; a questa
costituzione che sussiste, credo, in parte anche nella Cina, dove il figlio
è obbligato ad esercitare la professione del padre, e dove i ranghi sono
con molta precisione distinti; questa costituzione, di cui, se ben ricordo, si
trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel primo o ne' primi libri
della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova pure qualche indizio nel
popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata esclusivamente al
Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in parte, fosse comune,
fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell'Asia, e si vede, se non erro,
anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell'Affrica; questa costituzione
di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre
conosciute, e massime nelle più antiche, come nell'antica costituzione
di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse
l'unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà
senza l'uguaglianza.
Perocchè, ponendo un freno e un
limite all'ambizione, e alla cupidigia degl'individui, e togliendo [921]loro
la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro
condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie
interne; viene a conservare l'equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della
repubblica (che dev'essere il principale scopo degl'istituti politici), a
perpetuare l'ordine stabilito ec. ec.
Vero è però, anzi troppo vero,
che in questa costituzione io dubito che si possano trovare i grandi vantaggi
della libertà. Si troverà la quiete, e la detta costituzione
sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di
contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti
del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in
verità è sempre nemico del bene. Ma l'entusiasmo, la vita, le
virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con
questa costituzione. Tolte le due molle dell'ambizione e della cupidigia, vale
a dire dell'interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno
della grande speranza; deve seguirne l'inattività, e il poco valore in
tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec. L'interesse
proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo meno, con quello
del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non sarebbe [922]legato,
o certo poco legato, coll'avanzamento individuale, e di quello stesso che
avesse procurato l'avanzamento della patria; di più non partecipando, se
non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non sentendo intimamente di
far parte della patria, e d'esser compatriota de' suoi capi; l'amor patrio in
questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente esistere, o certo non
dev'esser molto forte, nè cagione di grandi effetti, nè capace di
spingere l'individuo a grandi sacrifizi.
Il fatto dimostra queste mie osservazioni.
Perchè una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev'essere, secondo
il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè libero, e quanto all'interno,
durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa
essere conquistatore. Ora ecco appunto che Arriano ci dice, come gl'indiani non
solo non furono mai conquistatori, ma per una parte, da Bacco e da Ercole in
poi era opinione fino ad
Alessandro (l.c. c.9. sect.10. p.569); ed ecco la cagione per cui anche senza
troppa forza nazionale, ed interna, il loro stato potè durare lungamente:
per l'altra parte era pure opinione (sect.12. p. cit.) , (ad bellum
missum [923]esse. interpres). E altrove più brevemente: (c.5.
sect.4. p.558.) J , J, J.
Cioè fino ad Alessandro. Conseguenza naturale della detta costituzione,
sebbene Arriano lo riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la
relazione che hanno queste cose tra loro. V. p.943. capoverso 2.
Il fatto sta che siccome nessuna nazione
è così atta alla qualità di conquistatrice, come una
nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho ragionato nel
pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il
maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e
da' suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco]
l'uguaglianza, senza cui non c'è vera libertà, e cangiano i
costumi, lo stato primitivo, l'ordine della repubblica; sicchè
finalmente la precipitano nella obbedienza. Cosa anche questa dimostrata dal
fatto.
(4-6. Aprile 1821.)
Siccome l'amor patrio o nazionale non
è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta
la società, com'è naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta
la famiglia, l'amor di famiglia, che si vede anche ne' bruti; così esso
non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi
che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento. L'uomo non
è sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell'altro.
Come dunque amerà [924]la sua patria sopra tutte, e come
sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da questo
amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna di
essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto
più s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei?
Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della
nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per
sottrarsi al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al
compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che
il nazionale ha potuto o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che
tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui
non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec. ec.; da che egli ha cessato
di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza,
la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni
sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si sono confuse
insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio
e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e
dell'azione. E questi pregiudizi che si rimproverano alla Francia,
perchè offendono l'amor proprio degli stranieri, sono la somma
salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli
antichi; [925]la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste,
di quei sacrifizi che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per
conservarsi nazione, e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui
quella nazione, sebbene così colta ed istruita (cose contrarissime all'amor
patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque altra, la
sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla forza di questi
pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire
quella preponderanza sulle altre nazioni d'Europa, ch'ella ebbe finora, e che
riacquisterà verisimilmente.
(6. Aprile 1821.)
Si considera come sola cosa necessaria la
vita, la quale anzi è la cosa meno necessaria di tutte le altre.
Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno la loro
ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili,
non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna
cosa.
(6. Aprile 1821.)
La superiorità della natura sopra
tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può
vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro
che oggi portano questo nome, e in genere tutte le persone istruite di questo
secolo, che è indubitatamente [926]il più istruito che mai
fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del
sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva
già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere
all'uomo sociale quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le
antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso
tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate,
cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie primitiva,
e non di corruzione.
(6. Aprile 1821.)
Alla p.872. E non per altra cagione sono
odiose e riputate contrarie alla buona creanza le lodi di se medesimo, se non
perchè offendono l'amor proprio di chi le ascolta. E perciò la
superbia è vizio nella società, e perciò l'umiltà
è cara, e stimata virtù.
(7 Aprile 1821.)
In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano
grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie
alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di
buono. E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni
orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a
tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè
ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione
e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di
vero grande nè di vero bello, e ciò tanto [927]riguardo
alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo e virtù della vita, quanto alle
produzioni dell'ingegno e della immaginazione. E la causa per la quale i Greci
e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa,
che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla
natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione
dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli orientali le
cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo
più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla
natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può
dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può
venire in paragone de' greci e de' Romani. Il che può derivare anche da
questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani,
degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec. ec. essendo venuti più per
tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria
loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità,
col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci
è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta
naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della
grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa [928]e
signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi ha
potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi
più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di grande e
di bello rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in
qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità,
della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli. . Platone
in persona di quel sacerdote Egiziano.
(10. Aprile 1821.). V. p.2331.
Spegnere parola tutta propria oggi
degl'italiani, non pare che possa derivare da altro che da mutato,
oltre la desinenza, il in p,
mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè
labiali, e il doppio in gn,
questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus
fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta
parola greca, è necessario supporre ch'ella fosse usitata nell'antico
latino, (sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere
esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel
passare questa parola dal latino in italiano) tanto più che l'uso del
detto verbo spegnere è limitato, (cred'io) alla sola Italia. Il
Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb,
exsp, sb, sp. Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10. Aprile 1821.)
La lingua Sascrita, quell'antichissima
lingua indiana, che quantunque diversamente alterata e corrotta, e distinta in
moltissimi dialetti, vive ancora e si parla in tutto l'Indostan, [929](Annali
di Scienze e Lettere Milano. 1811. Gennaio. vol.5. n.13. Vilkins, Gramatica
della lingua Sanskrita: articolo tradotto da quello di un cospicuo letterato
nell'Edinburgh Review. p.28-29-31. fine-32. principio. e 32. mezzo. 35.
fine-36. principio) e altre parti dell'India, (ivi 28. fine) e segnatamente
sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste all'oriente della
medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William (Guglielmo) Jones
famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì delle
lingue orientali e occidentali (ivi 37. princip. e fine), non dubitò
di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della
Latina, e dell'una e dell'altra più sapientemente raffinata (ivi
52.); quella lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del
nostro secolo, non senza appoggio di notabili argomenti e confronti, che sieno
derivate, o abbiano avuto origine comune con lei, le lingue Greca, Latina,
Gotica, e l'antica Egiziana o Etiopica (come pure i culti popolari primitivi di
tutte queste nazioni) (ivi. 37.38. princip. e fine); questa lingua, dico,
antichissima, ricchissima, perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle
preposizioni coi nomi (i suoi otto casi rendono superfluo l'uso delle
preposizioni. ivi 52. fine), ma le adopera esclusivamente da prefiggersi
ai verbi, come si fa in greco, laddove, sole, rimangonsi prive affatto
d'ogni significato. (ivi.) Così che tutte le sue preposizioni sono destinate
espressamente ed unicamente alla composizione, e a variare e moltiplicare col
mezzo di questa, i significati [930]dei verbi. (Altre
particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle
particolarità e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente
l'osserva l'Estensore dell'articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d'esso
articolo, cioè dalla metà della p.52. a tutta la p.53.).
(11. Aprile 1821.)
Oggi l'uomo è nella società
quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di
loro. S'ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane
premendo le vicine, e queste premendo nè più nè meno in
tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così
l'uomo nella società egoista. L'uno premendo l'altro, quell'individuo
che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o
per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser
sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha dintorno per tutti
i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza
le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria.
(11. Aprile 1821.)
A quello che ho detto delle guerre antiche
paragonate colle moderne, aggiungete che una nazione intera potrà muover
guerra per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora più
difficilmente che il principe), ma non mai per un assoluto capriccio. Al
contrario il principe. Perchè molti non possono avere uno stesso
capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile, secondo le [931]teste,
e senza una causa uniforme di esistere. Così che la nazione non si
può accordare tutta intiera in un capriccio. Ma s'ella non ha bisogno di
convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo, e questo solo avendo
capricci come gli altri perchè uomo, e più degli altri
perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della guerra e della
pace, e di tutto quello che spetta a' suoi sudditi; vedete quali sono le conseguenze;
osservate se combinino coi fatti, e poi anche ditemi se dalla
possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano
esser più rare o più frequenti delle antiche.
(11. Aprile 1821.)
Non è cosa più dispiacevole e
dispettosa all'uomo afflitto, e oppresso dalla malinconia, dalla sventura
presente, o dal presente sentimento di lei, quanto il tuono della frivolezza e
della dissipazione in coloro che lo circondano, e l'aspetto comunque della
gioia insulsa. Molto più se questo è usato con lui, e soprattutto
s'egli è obbligato per creanza, o per qualunque ragione a prendervi
parte.
(12. Aprile 1821.)
La stessa proporzionata disparità
ch'è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla
immaginazione, alla letizia, alla felicità per l'una parte, e al vero,
alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l'altra parte; la
stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o
moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene
l'antichità era il tempo del bello, [932]e della immaginazione,
tuttavia anche allora la Grecia e l'Italia ne erano la patria, e il luogo.
E quantunque non fossero quei tempi adattati alla profondità
dell'intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne' Settentrionali
si vede l'inclinazione loro naturale a queste qualità, e negl'inni, nei
canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa
malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di certe
verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le
più triviali. Insomma vi si nota un carattere di pensiero diversissimo
nella profondità, da quello de' meridionali degli stessi tempi. (V. se
vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere, Milano. vol.6. n.18. Giugno 1811.
Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p.376-378. e 383 fine - 385.
dove si riportano parecchi aforismi e documenti de' Bardi.) Così per lo
contrario, sebbene l'età moderna è il tempo del pensiero,
nondimeno il settentrione ne è la patria, e l'Italia conserva
tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello, della
sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità. In quello
dunque che ho detto de' miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla
filosofia, paragonandomi col successo de' tempi moderni agli antichi, si
può anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e
settentrionali.
(12. Aprile 1821.)
L'estensione reale e strettamente
considerata, della quale è capace una lingua, in quanto lingua [933]usuale,
quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e molto minore che non
si crede. Una stretta conformità di linguaggio, e per conseguenza una
medesima lingua strettamente considerata, non è comune se non ad un
numero ben piccolo di persone, e non occupa se non un piccolo tratto geografico.
1. Ognuno sa e vede in quante lingue
riconosciute, e scritte, e distinte con precisione, sia divisa l'Europa, e il
mondo, e come ciascuna nazione usi una lingua differente precisamente dalle
altre, e propria sua, sebbene possa aver qualche maggiore o minore
affinità colle forestiere.
2. Diffondendosi una nazione, ed occupando
un troppo largo tratto di paese, e crescendo a un soverchio numero d'individui,
l'esperienza continua dei secoli, e la fede di tutte le storie, dimostra che la
lingua di quella nazione si divide, la conformità del linguaggio si
perde, e per quanto quella nazione sia veramente ed originariamente la
stessissima, la sua lingua non è più una. Così è
accaduto alla lingua de' Celti, diffusi per la Gallia, la Spagna, la Bretagna,
e l'Italia ec. con che la lingua celtica s'è divisa in tante lingue,
quanti paesi ha occupato la nazione. Così alla teutonica, alla slava ec.
e fra le orientali all'arabica, colla diffusione de' maomettani.
3. Sebbene un popolo conquistatore trasporti
e pianti la sua lingua nel paese conquistato, e distrugga anche del tutto la
lingua paesana, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera,
finattanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci. Testimoni
i Romani, [934]la cui lingua piantata colla conquista nella Francia e
nella Spagna, (per non estenderci ora ad altro) e distrutta intieramente la
lingua indigena (giacchè quei minimi avanzi che ne potessero ancora
restare, non fanno caso), non fece altro che alterandosi a poco a poco, finalmente
emettere dal suo seno due lingue da lei formalmente diverse, la francese, e la
spagnuola. Lo stesso si potrebbe dire d'infinite altre famiglie di lingue Europee,
e non Europee, che uscite ciascuna da una lingua sola, colla diffusione dei
loro parlatori, si sono moltiplicate e divise in tante lingue quante compongono
quella tal famiglia.
4. Anche dalle osservazioni precedenti si
può dedurre, che questa impossibilità naturale e positiva dello
estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori
(o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque
cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue
che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il
posto da altre, e ne le caccia: ma che è un'impossibilità materiale,
innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o
muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe
appoco appoco in più lingue. E ciò intendo di confermare anche
colle osservazioni seguenti.
5. Le colonie che trasportano di pianta una
lingua in diversi luoghi, portandovi i di lei stessi parlatori [935]naturali,
sono soggette alla stessa condizione. Testimoni i tre famosi e principali
dialetti delle colonie greche, Jonico, Dorico, Eolico, per tacere d'infiniti
altri esempi.
6. Ciò non basta. Solamente che una
nazione, senza occupare paesi discosti, e forestieri, senza trasportarsi in
altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più che tanto grande, la sua
lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide, e si
diversifica più o meno dalla sua primitiva, in proporzione della
distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla prima fonte della
nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non in quel preciso e
ristretto luogo dov'ella fu primieramente parlata. Testimoni i moltissimi
dialetti minori ne' quali era divisa la lingua greca dentro la stessa Grecia,
paese di sì poca estensione geografica, il Beotico, il Laconico, il
Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei dialetti
principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese, Delfico,
Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano,
Siracusano, Tarentino ec. (V. Sisti, Introduz. alla lingua greca §.211.) Testimoni
i dialetti della lingua italiana, della francese, della spagnuola, della tedesca,
e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori siano
più che tanto estesi di numero e di paese. Che la lingua Ebraica fosse
distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa
Cananea. v. Iudic. c.12. vers.5-6. e quivi i comentatori. La lingua Caldaica
ec. non è che un Dialetto dell'Ebraica. La samaritana parimente; o
l'ebraica è un dial. della Samarit. o figlia o corruzione di essa. ec.
De' tre dialetti egiziani-coptici tutti tre scritti, v. il Giorgi.
7. Neppur questo è tutto. Ma dentro i
confini di un medesimo ed unico dialetto, non v'è città, il cui
linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo della
città più immediatamente vicina. Non differisca dico, nel tuono e
inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione
diversa delle [936]parole, e in alcune parole, frasi, maniere,
intieramente sue proprie e particolari. Questo si vede nelle città di
Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana,
non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina),
si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana, e dappertutto.
Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco è
diverso dal campestre. Di più senza uscire dalla città medesima,
è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto,
secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi).
Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune,
neppure ad una stessa città, s'ella è più che tanto
estesa, e popolata. E così credo che avverrà pure in Parigi ec.
V. p.1301. fine.
Da questi dati caviamo alcune conseguenze
più alte ed importanti. 1. Che la diversità de' linguaggi
è naturale e inevitabile fra gli uomini, e che la propagazione del genere
umano portò con se la moltiplicità delle lingue, e la divisione e
suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente il non potersi intendere, nè
per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero di
uomini. La confusione de' linguaggi che dice la Scrittura essere stato un
gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella
natura, e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà
essenziale delle nazioni ec.
2. Che il progetto di una lingua universale,
(seppure per questa s'è mai voluta intendere una lingua propria e nativa
e materna e quotidiana di tutte le nazioni) è una chimera non solo
materialmente, e relativamente, e per le circostanze e le difficoltà che
risultano dalle cose quali ora sono, [937]ossia dalla loro condizione
attuale, ma anche in ordine all'assoluta natura degli uomini; vale a dire non solamente
in pratica, ma anche in ragione.
3. Considerando per l'una parte la naturale
e inevitabile ristrettezza, che ho detto, de' confini di una lingua assolutamente
uniforme; per l'altra parte, che la lingua è il principalissimo
istrumento della società, e che per distintivo principale delle nazioni
si suole assegnare la uniformità della lingua; ne inferiremo
I. Una prova di quello che ho detto p.873.
fine-877. intorno alla ristrettezza delle società primitive quanto
all'estensione; cioè si conoscerà come la natura avesse effettivamente
provveduto anche per questa parte alla detta ristrettezza.
II. Una nuova considerazione intorno agli
ostacoli che la natura avea posto all'incivilimento. Giacchè
l'incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi
in proporzione della estensione di essa società e del commercio scambievole
ec.; e per l'altra parte, l'istrumento principale della società essendo
la lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se
non fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura
si sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed
all'alterazione [938]degli uomini che ne aveva a seguire. Opposizione
che non si è vinta, se non con infinite difficoltà, con gli
studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo forza alla natura, come si
sono superate tutte le altre barriere che la natura avea poste
all'incivilimento e alla scienza.
III. Come la società, così
anche la lingua fa progressi coll'estensione: e la lingua di un piccolo popolo,
è sempre rozza, povera, e bambina balbettante, se non in quanto ella
può essere influita dal commercio coi forestieri, che è fuori
anzi contro il caso. Si vede dunque che la natura coll'impedire l'estensione di
una lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento, anzi anche
la semplice maturità o giovanezza. Da ciò segue che la lingua
destinata dalla natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini, era una
lingua di ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima influenza.
Dunque segue che essendo la lingua l'istrumento principale della
società, la società destinata agli uomini dalla natura, era una società
di pochissima influenza, una società lassa, e non capace di corromperli,
una società poco maggiore di quella ch'esiste fra i bruti, come ho detto
in altri pensieri.
IV. Colla debolezza della lingua
destinataci, la natura avea provveduto alla conservazione del nostro stato
primitivo, non solo in ordine alla generazione contemporanea, [939]ma
anche alle passate e future. Mediante una lingua impotente, è impotente
la tradizione; e le esperienze, cognizioni ec. degli antenati arrivano ai successori,
oscurissime incertissime debolissime e più ristrette assai di quelle ristrettissime
che con una tal lingua e una tal società avrebbero potuto acquistare i
loro antenati; cioè quasi nulle. Perchè i bruti non avendo
lingua, non hanno tradizione, cioè comunicazione di generazioni,
perciò il bruto d'oggidì è freschissimo e naturalissimo
come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore. Tali dunque
saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle sue facoltà.
Il fatto lo conferma. Tutti i popoli che non hanno una lingua perfetta, sono
proporzionatamente lontani dall'incivilimento. V. p.942. capoverso 1. E
finchè il mondo non l'ebbe, conservò proporzionatamente lo stato
primitivo. Così pure in proporzione, dopo l'uso della scrittura dipinta,
e della geroglifica. L'incivilimento, ossia l'alterazione dell'uomo, fece
grandi progressi dopo l'invenzione della scrittura per cifre, ma però
sino a un certo segno, fino all'invenzione della stampa, ch'essendo la perfezione
della tradizione, ha portato al colmo l'incivilimento. Invenzioni tutte
difficilissime, e soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la
natura fosse lontana dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.
E questo si può riferire a quello che
ho detto [940]in altri pensieri contro coloro che considerano
l'incivilimento come perfezionamento, e quindi sostengono la perfettibilità
dell'uomo. Il quale incivilimento apparisce e dalla ragione e dal fatto che non
si poteva conseguire, e molto meno perfezionare senza l'invenzione della
scrittura per cifre; invenzione astrusissma, e mirabile a chi un momento la
consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare, non già casualmente,
ma necessariamente per lunghissima serie di secoli, com'è accaduto.
Torno dunque a domandare se è verisimile che la natura alla perfezione
di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e ordinato un tal mezzo ec.
ec. Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua, cosa anch'essa
difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non quello che
riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua. Lo stesso
altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri. ec. ec. V.
p.955. capoverso 1. e il mio pensiero circa la diversità degli alfabeti
naturali.
Altro è la perfettibilità
della società, altro quella dell'uomo ec. ec. ec.
(12-13. Aprile 1821.)
Quello che ho detto in parecchi pensieri
della compassione che eccita la debolezza, si deve considerare massimamente in
quelli che sono forti, e che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali
questo sentimento contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel
tale oggetto amabile o compassionevole: amabilità che in [941]questo
caso deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in
quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno
della sua debolezza. Al qual proposito si ha una sentenza o documento de' Bardi
Britanni rinchiusa in certi versi che suonano così: Il soffrire con
pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di coraggio e d'anima
sublime; e l'abusare della propria forza è segno di codarda ferocia.
(Annali di Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p.932.) p.378.) L'uomo forte ma
nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento
della sua forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi
anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire
l'amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed
egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli,
ancorchè giustamente.
(13. Aprile 1821.)
A quello che ho detto altrove della
derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo verbo è lo
stesso che il tourner dei francesi, il quale significa la stessa cosa
che in latino volvere. Giacchè appunto nello stesso modo, da volvere,
gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare.
(13. Aprile 1821.)
[942]Alla p.939. La maravigliosa e
strana immobilità ed immutabilità (così la chiama
l'Edinburgh Review negli Annali di Scien. e Lettere vol.8. Dicembre 1811. n.24
Staunton, Traduz. del Ta-Tsing-Leu-Lee. p.300.) della nazione Chinese,
dev'esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver essi
alfabeto nè lettere, (l. cit. Rémusat, Saggio sulla lingua e letteratura
Chinese, dal Magasin Encyclopédique, p.324. fine) ma caratteri esprimenti le cose
e le idee cioè un dato numero di caratteri elementari e principali rappresentanti
le principali idee, i quali si chiamano chiavi, e sono nel sistema di alcuni
dotti Chinesi 214, (ivi p.313.319) in altri sistemi molto più, in altri
molto meno, (ivi p.319.) ma il sistema delle 214 è il più comune
e il più seguito da' letterati chinesi nella compilazione de' loro
dizionarii. I quali caratteri elementari o chiavi diversamente combinati fra
loro (come ponendo sopra la chiave che rappresenta i campi, l'abbreviatura
di quella che rappresenta le piante, si fa il segno o carattere che
significa o rappresenta primizia dell'erbe e delle messi; e ponendo
questo medesimo carattere sotto la chiave che rappresenta gli edifizi,
si fa il carattere che significa tempio, cioè luogo dove si
offrono le primizie (l. cit. p.314.)) servono ad esprimere o rappresentare le
altre idee: essendo però le dette combinazioni convenute, e gramaticali,
come lo sono le chiavi elementari; altrimenti non s'intenderebbero. (p.319.
fine.)
Nel qual modo e senso un buon dizionario
chinese, secondo Abel-Rémusat (Essai sur la langue et la littérature chinoise.
Paris
(14. Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 2.
La lingua chinese è tutta
architettata e fabbricata sopra un sistema di composti, non solo quanto ai
caratteri, de' quali v. il pensiero precedente ma parimente alla pronunzia,
ossia a' vocaboli. Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti i caratteri
non sono più di 352. secondo il Bayer, e 383. secondo il Fourmont. Ed
eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta per
via di quattro toni, dell'uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec.
p.317.-318. e 320. lin.7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi sono composti;
come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano
originalmente nelle nostre lingue. Annali ec. l. cit. nel pensiero anteced.
Rémusat p.319. mezzo-320. mezzo.
(14. Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 1.
Alla p.923. marg. Un tal popolo dev'essere
insomma necessariamente stazionario. E qual popolo infatti è più
maravigliosamente stazionario del Chinese, (v. qui dietro p.942. princip.) nel
quale abbiamo osservato una somigliante costituzione? Sir George (Giorgio)
Staunton, Segretario d'Ambasciata nella missione di Lord Macartney presso
l'Imperatore della China, nella introduzione alla sua versione inglese del
Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come [944]fra le
cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti,
secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere
agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la
quasi totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione
della proprietà fondiaria; e LA NATURALE INCAPACITÀ ED
AVVERSIONE E DEL POPOLO E DEL GOVERNO AD ESSERE SEDOTTI DA MIRE D'AMBIZIONE, E
DA DESIO D'ESTERE CONQUISTE. Edinburgh Review loco citato qui dietro (p.942.
principio.) p.295. Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso
articolo (Annali di Sc. e Lettere. Milano. Gennaio 1812. vol. IX. n.25. p.42.
mezzo) nomina (ad altro proposito) la istituzione delle caste dell'India,
dove io l'ho già notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di
più nell'antico Egitto. Questo lo fa incidentemente,
sicchè non ha verun'altra parola su questo punto.
(14. Aprile 1821.)
Alla p.943. Così che la lingua
Chinese quanto supera le altre lingue nella moltiplicità, complicazione,
e confusione degli elementi e della costruttura della scrittura, tanto le
avanza nella semplicità e piccolo numero degli elementi dell'idioma.
(14. Aprile 1821.)
Alla p.943. In somma la scrittura Chinese
non rappresenta veramente le parole (che le nostre son quelle che le rappresentano,
e ciò per via delle lettere, che sono ordinate e dipendenti in tutto
dalla parola) ma le cose; e perciò tutti osservano [945]che il
loro sistema di scrittura è quasi indipendente dalla parola: (Annali
ec. p.316. p.297.) così che si potrebbe trovare qualcuno che intendesse
pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere una sillaba della
lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o in qual più
gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei vocaboli che
volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza della scrittura,
e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non hanno
nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè
stile, e conviene prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le
loro poesie non sono composte di versi, nè le prose oratorie di periodi;
(p.297.) il genio della lingua non ammette il soccorso delle comuni
particelle di connessione, e presenta meramente una fila d'immagini sconnesse,
i cui rapporti debbono essere indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro
qualità. ([p.] 298.) E così viceversa bene spesso
taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla China, non sono tampoco in grado
di leggere il libro più facile, benchè sappiano essi parlar bene
il chinese, e farsi comprendere. (p.316.).
(14. Aprile 1821.)
Si condanna, e con gran ragione, l'amor de'
sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si
conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si
conoscono e si esaminano le opere dei pensatori. Frattanto però io dico
che qualunque uomo ha forza di pensare da se, qualunque s'interna colle sue
proprie facoltà e, dirò così, co' suoi propri passi, nella
considerazione delle cose, in somma qualunque vero pensatore, non può
assolutamente a meno di non formarsi, o di non seguire, o generalmente di non
avere un sistema.
[946]1. Questo è chiaro dal
fatto. Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto
ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche
sistema, più o meno ardenti e impegnati. Lasciando gli antichi filosofi,
considerate i moderni più grandi. Cartesio, Malebranche, Newton,
Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti
quanti. Non v'è un solo gran pensatore che non entri in questa lista. E
intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale,
nella politica, nella scienza dell'uomo, e in qualunque delle sue parti, nella
fisica, nella filosofia d'ogni genere, nella filologia, nell'antiquaria,
nell'erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata
ec. ec.
2. Come dal fatto così è
chiaro anche dalla ragione. Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co' suoi
propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un'altra a
quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come
possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e
contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l'una
dall'altra. E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e
la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema
comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le
nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano. Ma il pensatore non
è così. Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella
considerazione delle cose. È impossibile [947]ch'egli si contenti
delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E se se ne contentasse,
la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe
nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di
questa parola) è il trovar le ragioni delle verità. Queste
ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col
mezzo del generalizzare. Non è ella, cosa notissima che la
facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? Non è
confessato che la filosofia consiste nella speculazione de' rapporti? Ora
chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame
delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i
rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali,
ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di
trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema
già prima trovato o proposto: un sistema più o meno esteso,
più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo
nelle sue parti.
3. Il male è quando dai generali si
passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle
verità che lo debbono formare. Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi,
ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai
generali. Questi sono i vizi de' piccoli spiriti, parte per la loro stessa
piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi; parte per la
pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque
maniera, affine [948]d'imporre alla moltitudine, e parer d'assai. Allora
l'amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è
dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza ad
accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari,
dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi. Allora
le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in
quell'aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose servono al
sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb'essere. Ma che le cose
servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo e il
pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d'altri), è non solamente
ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all'uomo, necessario;
è inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo
scopo: e concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser
filosofo nè pensatore per grande, e spregiudicato, ed amico del puro
vero, ch'ei possa essere, il quale non si formi o non segua un sistema
(più o meno vasto secondo la materia, e secondo che l'ingegno del filosofo
è sublime, e secondo ch'è acuto e penetrante nella investigazione
speculazione e ritrovamento de' rapporti) e ch'egli non sarebbe filosofo
nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si confonderebbe con chi
non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto chiaro e stabile
intorno a veruna cosa. (I quali pure hanno sempre un sistema, più o meno
chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più
chiaro e certo, che non l'hanno i pensatori.) Sia [949]pure un sistema
il quale consista nell'esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e
quello che fa quasi il carattere del nostro secolo.
(16. Aprile 1821.). V. p.950. capoverso 2.
Dalla sciocca idea che si ha del bello
assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano
esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per esempio un'opera
scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch'è utile,
anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è
bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso,
quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello
il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè
ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca
onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che
conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso,
perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze
convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il
rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non
è bello, per questo lato è cattivo, e non v'è cosa di
mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l'esser
quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico dei libri, si deve
estendere a tutti [950]gli altri generi di cose chiamate utili, e
generalmente a tutto.
(16. Aprile 1821.)
Rassegnato e sommesso, perchè
l'indole degli abitatori determinata dall'influenza del clima, è
composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l'Indiano, dice l'Autore
(Collin di Bar, Storia dell'India antica e moderna, ossia l'Indostan considerato
relativamente alle sue antichità ec. Parigi 1815.), è capace de'
più magnanimi sforzi. I popoli del nord della penisola, meno
ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore
della compagnia inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle regioni
gangetiche. (Fra questi deve intender certo i Maratti.) Spettatore di Milano,
Quaderno 43. p.113. Parte Straniera. 30. Dicemb. 1815. Dello stato e genio
pacifico degli antichi Indiani v. p.922. De' Cinesi parimente meridionali v.
p.943. capoverso ultimo.
(16. Aprile 1821.)
Alla p.949. Mancare assolutamente di sistema
(qualunque esso sia), è lo stesso che mancare di un ordine di una connessione
d'idee, e quindi senza sistema, non vi può esser discorso sopra veruna
cosa. Perciò quelli appunto che non discorrono, quelli mancano di
sistema, o non ne hanno alcuno preciso. Ma il sistema, cioè la connessione
e dipendenza delle idee, de' pensieri, delle riflessioni, delle opinioni,
è il distintivo certo, e nel tempo stesso indispensabile del filosofo.
(17. Aprile 1821.)
Lo Spettatore di Milano 15. Febbraio 1816.
Quaderno 46. p.244. Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger
Litter. Zeitung, rendendo brevissimo conto di un opuscolo [951]tedesco
di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e
dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso Scherz,
(17. Aprile 1821.)
Lo stesso autore nel medesimo opuscolo, come
si vede nel luogo citato, alla fine della detta pag.244. critica Herder che
tante parole ha introdotto tolte dal latino e dal greco. Questa critica
è forse giusta anche rispetto al latino, nella lingua tedesca, la quale
non si trova nella circostanza della italiana, non essendo figlia, come questa,
della latina; come neanche rispetto alla francese, non essendole sorella, come
la nostra. E quanto alla latina, le deve bastare quello che per le circostanze
de' tempi antichi ec. ella ne ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani
ec. ma questa fonte si deve ora ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come
quella che non ne deriva originariamente, e vi ha solo attinto per cause
accidentali. La lingua inglese sarebbe la più atta a comunicare le sue
fonti colla tedesca, e viceversa. V. p.1011. capoverso 2. Ma rispetto alla
lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè derivando ella dalla
latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre e non
istagna. Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare soprattutto
di non chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e
più breve di farlo corrompere e inaridire. Quella lingua che ha
prodotta, e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì largamente la
nostra. come si [953]dovrà stimare che non possa nutrirla ed
accrescerla, che non abbia più niente che le convenga di ricavarne? Quel
terreno che ha prodotto una pianta della sua propria sostanza, e del proprio
succo, e di più l'ha allevata, e condotta a perfettissima
maturità e robustezza e vigore ec. come si dovrà credere e affermare
che non sia adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata?
che il di lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo
nè sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in
abbondanza? Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse
perch'ella non possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano
più, e così venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove?
in qual terreno migliore, e più appropriato di quello che l'ha prodotta
e cresciuta a tanta grandezza, prosperità, floridezza ec.?
Osservo ancora che l'italiano è
derivato dalla corruzione del latino, così che le parole e i modi della
bassa latinità, se sono barbare rispetto al latino, nol sono all'italiano;
e la bassa latinità è una fonte ricchissima e adattatissima anch'essa
alla nostra lingua, ed io posso dirlo con fondamento per osservazione ed
esperienza particolare che ne ho fatto, e cura che ci ho posto. Quante parole
infatti dell'ottima lingua italiana, appartengono precisamente alla bassa
latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente e considerar
come barbaro assoluto quello ch'è solo barbaro relativo. Per esempio [954]l'antica
lingua persiana, cioè prima che fosse inondata da parole arabe per
effetto della conquista della Persia fatta dai Califi e dagl'immediati
successori di Maometto[7],
fu lingua purissima, fu scritta purissimamente ebbe gran cura della
purità nella scrittura, ed ebbe autori Classici non meno stimati in
Oriente una volta per la purità della lingua, di quello che il fosse
Menandro fra i greci. (ma de' cui scritti la più gran parte
è perita.) E Firdosi nel suo Shahnamah, e molti de' suoi
contemporanei, si vantano di usare il pretto Persiano, e di esser mondi da ogni
parola araba o forestiera (così che nel Dizionario di Richardson
mancano nove decimi delle parole da essi usate, per esser questo Dizionario
fatto per la lingua e i dialetti persiani moderni.) Ora qualunque purissima
parola persiana, o di qualunque purissima lingua d'oriente, antica o moderna,
parrebbe a noi, non solo impura, o barbara, ma intollerabile, suonerebbe peggio
che barbaramente, e ci saprebbe più che barbara nelle lingue nostre. Così
dunque se le parole della bassa latinità riescono barbare nel latino,
non si debbono stimare nè barbare nè impure in italiano, il quale
deriva dalla bassa latinità più immediatamente che dalla alta.
Altrimenti si dovranno stimar barbare tante parole purissime e italianissime
che derivano dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e
come tali sono registrate ne' Glossari latinobarbari.
Bensì bisogna distinguere i diversi
generi che ci sono di bassa latinità. Giacchè la bassa
latinità germanica per esempio, in quanto è piena di voci
germaniche ec. sarà adattata a somministrar materia ad altre lingue, ma
non alla nostra. E perciò bisogna considerare che l'indole [955]delle
parole e frasi ec. del medio evo, sia conforme all'indole di quel linguaggio
dal quale è derivata la lingua italiana precisamente.
(17. Aprile 1821.)
Alla p.940. Quello che ho detto delle lingue
rispetto ai luoghi, si deve applicare proporzionatamente anche ai tempi, essendo
certo ed evidente che le lingue vanno sempre variando, non già
leggermente, ma in modo che alla fine muoiono, e loro ne sottentrano altre,
secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni ec. e delle circostanze
fisiche, politiche, morali, ec. proprie dei diversi secoli della società.
In maniera che si può dire che come nessuna lingua è stata,
così neanche nessun'altra sarà perpetua.
(18. Aprile 1821.)
L'antichità e l'eccellenza della
lingua sacra degl'indiani (sascrita), hanno naturalmente chiamato a se
l'attenzione e destato la curiosità degli Europei. I ragguardevoli suoi
titoli ad essere considerata come la più antica lingua che l'uman genere
conosca, muovono in noi quell'interesse da cui le vetustissime età del
mondo sono circondate. Costruita secondo il disegno più perfetto forse
che dall'ingegno umano sia stato immaginato giammai, essa c'invita a ricercare
se la sua perfezione si restringa ne' limiti della sua struttura, o se i pregi
delle composizioni indiane partecipino della bellezza del linguaggio in cui
sono dettate. Spettatore di Milano 15. Luglio 1817. Quaderno 80. parte
straniera. p.273. articolo di D. Bertolotti sopra la traduzione inglese del
Megha [956]Duta, poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814. estratto
però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa
traduzione, come apparisce in parecchi luoghi, e fra l'altro da' puntini che il
Bertolotti pone dopo alcuni paragrafi di esso articolo, come p.274.275. ec.
(18. Aprile 1821.)
La lingua greca va considerata rispetto
all'italiana nell'ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non
quanto alle parole. Dico quanto ai modi, massimamente per la sua
conformità naturale o somiglianza in questa parte colla lingua latina
sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli scrittori
latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca le forme
della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua formata in
grandissima parte sui modi della greca. Del che vedi un ell'articolo del Barone
Winspear (Bibliot. Ital. t.8. p.163.) nello Spettatore di Milano, 1. Settembre
1817. Parte italiana, Quaderno 83. p.442. dal mezzo al fine della pagina. E
così pure, parte per lo studio immediato de' greci esemplari, (del che
vedi ivi p.443. dal principio al mezzo) parte per lo studio de' latini, e la
derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per una
naturale conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione
della lingua nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella B.
Italiana [957]vol.1. p.15. la costruzione gramaticale di quella
lingua è capace di una perfetta imitazione de' concetti greci, a
differenza della tedesca della quale ha detto il contrario), per tutte queste
ragioni si trova una evidentissima e somma affinità fra l'andamento
greco e l'italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo e
vero, cioè in quello del trecento. Da tutto ciò segue che la
lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per
fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d'infinite e variatissime
forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec. Non così quanto alle
parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre
della nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli
scrittori o l'uso latino ne derivarono, e divenute precisamente latine,
passarono all'idioma nostro come latine e con sapore latino, non come greche.
Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all'uso dell'italiano, tuttavia
soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai
difetti notati da me p.951-952. Che p.e. chi dice filosofia eccita
un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in
quella parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia,
cioè la derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è
quello che produce la vivezza ed efficacia, [958]e limpida evidenza
dell'idea, quando si ascolta una parola.
(19. Aprile 1821.)
Una delle principali cagioni per cui
l'infelicità rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde
l'infelicità toglie la forza, non è altra se non che
l'infelicità debilita l'amor di se stesso. E intendo massimamente della
infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone
all'amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia ostinatissima e
fortissima che gli fa, e coll'obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a
quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente
illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome
avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi una tale
infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o
all'odio di se stesso ch'è il sommo grado, e la somma intensità
dell'amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad
uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso;
giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se
medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o
contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto
del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l'amor di se stesso è l'unica
possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch'è
applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec. [959]Diminuita
dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è
possibile mentre l'uomo vive) l'elasticità e la forza di molla, l'uomo
non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti
vivi e forti ec. nè verso se stesso, nè verso gli altri,
giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può
spingere altra forza che l'amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto.
E così l'uomo ch'è divenuto per forza indifferente verso se
stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all'inazione fisica
e morale. E l'indebolimento dell'amor proprio, in quanto amor proprio e
radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte)
cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione
dell'indebolimento della virtù, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della
magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il più
nemico dell'amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per
trionfare e manifestarsi, il più contrariato e danneggiato dalla forza
dell'amore individuale. Così il detto indebolimento secca la vena della
poesia, e dell'immaginazione, e l'uomo non amando, se non poco, se stesso, non
ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più
la natura, nè l'efficacia della bellezza ec. Una nebbia grevissima
d'indifferenza sorgente immediata d'inazione e insensibilità, si spande
su tutto l'animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che [960]egli
è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell'oggetto ch'è
il solo capace d'interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso
tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto
nell'uomo dall'infelicità, è la diffidenza di se stesso o delle
cose, affezione mortifera, com'è vivifica e principalissima nel mondo e
nei viventi la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità
primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente, innanzi all'esperienza. ec. ec.
Così pure l'uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza
delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi
sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di
grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo questa
qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola
bene.
(19. Aprile 1821.)
Le sopraddette considerazioni possono
portare ad una gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del
sistema delle cose umane, o la teoria dell'uomo, facendo conoscere come sotto
tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca
quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti
della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o
minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti
si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni.
(19. Aprile 1821.)
[961]Alla p.786. E prima della
potenza Ateniese e degl'incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto
ionico il più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato
d'allora, per lo molto commercio della nazione o nazioni e repubbliche che
l'usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero,
da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto
prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama.
Così che Giordani crede (B. Ital. vol. 2. p.20.) che Empedocle (il quale
parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico)
della sua patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o
più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè vedesse
più frequentato fuori della Grecia l'ionico, al quale Omero, Erodoto e
Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità. Di maniera
che ancor dopo prevaluto l'attico si seguitò da alcuni a scrivere ionico,
non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama.
Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di
Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose
indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio. Ora questo dialetto
ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti i
dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene lib. II.
p.513. notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus (notante
etiam Porphyr. ap. Eus. l.10. praep. c.2. p.466.) usum , Herodotum
. (Fabric.
B. G. II. c.20. §.2. t. I. 697. nota K.) cioè l'uno del dialetto
ionico puro, l'altro del dialetto ionico variato o misto. E
contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino
Dionigi d'Alicarnasso (Epist. ad Cneium Pompeium p.130. Fabric.) Æ.
(20. Aprile. Venerdì Santo. 1821.)
Sono perciò rare tra' francesi le
buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall'abate
De-Lille. I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che
altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non trovo opera
di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere:
credo anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la
georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior somiglianza che
la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la
maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla
francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni
decoro. Staël, B. Ital. vol.1. p.12. Esaminiamo.
Che la traduzione del Delille sia migliore
d'ogni altra traduzione francese qualunque (in quanto traduzione), di questo ne
possono e debbono giudicare i francesi meglio che gli stranieri. Se poi fatto
il paragone tra la detta traduzione e l'originale, vi si trovi tutta quella
conformità ed equivalenza che i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque
concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa trovare in versione
francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri che a' francesi, e
noi italiani massimamente siamo meglio [963]a portata, che qualsivoglia
altra nazione, di giudicarne.
Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o
in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e
sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque
lingua. Come il pensiero, così il sentimento delle qualità
spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a
noi usuale. I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti
felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla
lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in
male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua
familiare, e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera
a una frase nostrale, trasportando quell'ardimento, quella eleganza ec. in
nostra lingua. Di maniera che l'effetto di una scrittura in lingua straniera sull'animo
nostro, è come l'effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera
oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli
oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a
renderle con esattezza; sicchè tutto l'effetto dipende dalla camera
oscura piuttosto che dall'oggetto reale. Così dunque accadendo rispetto
alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati o a rendersi
familiare un'altra lingua invece della propria, o a rendersene familiare e
quasi propria più d'una, con grandissimo uso [964]di parlarla, o
scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue morte,
forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità
delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle.
E l'effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa
facoltà nella propria. Ora la facoltà di adattarsi alle forme
straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si
può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere,
in coloro che adoprano la francese.
Notate ch'io dico, gustare e sentire, non
intendere nè conoscere. Questo è opera dell'intelletto il quale
si serve di altri mezzi. E quindi i francesi potranno intendere e conoscer
benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle
più che tanto.
Ho detto che gl'italiani in questo caso
possono dar giudizio meglio che qualunque altro. 1. La lingua italiana, come ho
detto altrove, è piuttosto un aggregato di lingue che una lingua,
laddove la francese è unica. Quindi nell'italiana è forse
maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere,
non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando la corrispondente,
e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla
dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione e
immaginazione. E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà
è certo minore che in qualunque altra. 2. Queste considerazioni rispetto
alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta
della lingua latina, o della greca. Perchè alle forme di queste lingue,
la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua
del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre
conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di
fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di
carattere. Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n'è
allontanata più che qualunque altra sorella o affine. E il genio della
lingua francese è tanto diverso da quello della latina, quanta
differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno
stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec. La
somiglianza delle parole, cioè l'essere grandissima parte delle parole
francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una somiglianza
materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono, per la
somma differenza della pronunzia. Ma in ogni caso il suono e la struttura sono
cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui
parole avessero un'etimologia comune, [966]e nondimeno esser lingue
diversissime.
In conseguenza se ai francesi pare di
ravvisare il gusto, l'andamento, il carattere di Virgilio nel Delille, e a noi
italiani pare tutto l'opposto, io dico che in ciò siamo più degni
di credenza noi, che col mezzo della lingua propria (solo mezzo di sentire le
altre) possiamo meglio di tutti sentire le qualità della francese e
(più ancora) della latina; di quello che i francesi che col mezzo della
loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non ristretta facoltà
di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che spetta alla
lingua.
Passo anche più avanti, e dico esser
più difficile ai francesi che a qualunque altra nazione Europea, non
solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un'idea precisa e limpida,
il familiarizzarsi, e finalmente anche l'imparare le lingue altrui. Dice
ottimamente Giordani (B. Italiana vol.3. p.173.) che Niuna lingua, nè
viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d'un'altra lingua
già ben saputa. Questo è certissimo. S'impara la lingua che non
sappiamo, barattando parola per parola e frase per frase con quella che
già possediamo. Ora se questa lingua che già possediamo, non
si presta se non pochissimo e di pessima voglia e difficilissimamente a questi
baratti, è manifesto che la difficoltà d'imparare le altre lingue,
dovrà essere in proporzione. E siccome questa lingua già posseduta
è [967]l'unico strumento che abbiamo a formare il concetto della
natura forza e valore delle frasi e delle parole straniere, se lo strumento
è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente sarà anche
l'effetto.
Ciò è manifesto 1. dal fatto.
La gran difficoltà di certe lingue affatto diverse dal carattere delle
nostrali, consiste in ciò, che cercando nella propria lingua parole o frasi
corrispondenti, non le troviamo, e non trovandole non intendiamo, o stentiamo a
intendere, o certo a concepire con distinzione ed esattezza la forza e la
natura di quelle voci o frasi straniere. 2. da una ragione anche più intimamente
filosofica e psicologica delle accennate. Le idee, i pensieri per se stessi non
si fanno vedere nè conoscere, non si potrebbero vedere nè
conoscere per se stessi. A far ciò non c'è altro mezzo che i
segni di convenzione. Ma se i segni di convenzione son diversi, è lo
stesso che non ci fosse convenzione, e che quelli non fossero segni, e
così in una lingua non conosciuta, le idee e pensieri che esprime non
s'intendono. Per intendere dunque questi segni come vorreste fare? a che cosa riportarli?
alle idee e pensieri vostri immediatamente? come? se non sapete quali idee e
quali pensieri significhino. Bisogna che lo intendiate per mezzo di altri segni,
della cui convenzione siete partecipe, cioè per mezzo di un'altra lingua
da voi conosciuta; e quindi riportiate quei segni sconosciuti, ai segni [968]conosciuti,
i quali sapendo voi bene a quali idee si riportino, venite a riportare i segni
sconosciuti alle idee, e per conseguenza a capirli. Ma se il numero dei segni
da voi conosciuti è limitato, come farete a intendere quei segni sconosciuti
che non avranno gli equivalenti fra i noti a voi? Non vale che quei segni
sconosciuti corrispondano a delle idee, e che voi siate capacissimo di queste
idee. Bisogna che sappiate quali sono e che lo sappiate precisamente, e non lo
potete sapere se non per via di segni noti. Bisogna che se p.e. (e questo
è il principale in questo argomento) quei segni sconosciuti esprimono un
accidente, una gradazione, una menoma differenza, una nuance di qualche
idea che voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere con segni noti,
voi intendiate perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro e limpido di
quella tale ancorchè menoma gradazione; e se questa non si può
esprimere con verun segno a voi noto, come giungerete al detto effetto? Solamente
a forza di conghietture, o spiegandovisi la cosa a forza di circollocuzioni.
Con che non è possibile, o certo è difficilissimo che voi giungiate
a formarvi un'idea chiara, distinta ec. di quella precisa idea, o mezza idea
ec. espressa da quel tal segno. E perciò dico che i francesi non sono
ordinariamente capaci di concepire le proprietà delle altre lingue, se
non in maniera più o meno oscura, ma che [969]sempre conservi
qualche cosa di confuso e di non perfetto. Ciascuna lingua (lasciando ora le
parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò ad altre
lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca) ha
certe forme, certi modi particolari e propri che per l'una parte sono difficilissimi
a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l'altra parte
costituiscono il principal gusto di quell'idioma, sono le sue più native
proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le
grazie più intime, recondite, e più sostanziali di quella
favella. Nessuna lingua dunque è uno strumento così perfetto che
possa servire bastantemente per concepire con perfezione le proprietà
tutte e ciascuna di ciascun'altra lingua. Ma la cosa va in proporzione, e
quella lingua ch'è più povera d'inversioni (Staël l.c. p.11.
fine) chiusa in giro più angusto (ib.), più monotona, (ib. p.12.
principio), più timida, più scarsa di ardiri, più legata,
più serva di se stessa, meno arrendevole, meno libera, meno varia,
più strettamente conforme in ogni parte a se stessa; questa lingua dico
è lo strumento meno atto, meno valido, più insufficiente,
più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre lingue, e delle
loro particolarità.
Che se ciò vale quanto al perfetto
intendere, [970]molto più quanto al perfetto gustare, che risulta
dal senso intero e preciso e completo di qualità tanto più numerose,
e tanto più menome e sfuggevoli, e tanto più proprie ed intime e
arcane e riposte e peculiari di quella tal lingua. Una lingua, che come
confessa un francese (Thomas, il cui luogo ho riportato altrove) se refuse
peut-être (à la grâce), parce quelle ne peut nous donner ni
cette sensibilité tendre et pure qui la fait naître, ni cet instrument facile
et souple qui la peut rendre; una tal lingua dico, che è la
francese, come potrà essere perfetto istrumento per concepire e sentire
come conviene, le grazie ec. delle altre lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato,
che a questo effetto, gli uomini non hanno altro istrumento che la loro propria
lingua, come potranno il più de' francesi, ancorchè dotti e dilicati,
sentire profondamente e perfettamente, e formarsi idea netta di queste tali
grazie, e vestirsi in somma intieramente, com'è necessario, delle altre
lingue, e del genio loro?
Il fatto conferma queste mie obbiezioni.
Ciascun popolo ama di preferenza, e gusta e sente la propria letteratura meglio
di ogni altra. Questo è naturale. Ma ciò accade sommamente ne'
francesi, i quali generalmente non conoscono in verità altra letteratura
che la loro (dico letteratura, e non scienze, filosofia ec.). [971]Le
altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle traduzioni, che essendo
fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il genio, la nessuna adattabilità
della loro lingua, trasportano le opere straniere non solo nella lingua, ma
nella letteratura loro, e le fanno parte di letteratura francese. Così
che questa resta sempre l'unica che si conosca in Francia universalmente, anche
dalla universalità degli studiosi. Ed è anche vero generalmente,
che non solo non conoscono, ma noncurano, e disprezzano, o certo sono
inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere. Che se non disprezzano
la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini sono conseguenti, viene
ch'essi parlano come parla tutto il mondo che esalta quelle letterature, viene
ch'essi stimano quelle letterature come compagne o madri della loro, e nel
mentre che stimano la loro come la più perfetta possibile, anzi la sola
vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch'è diversissima, e
in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano di proporsi per
modello e norma, e citare al loro tribunale e confronto ec. ec.; viene ch'essi
credono di gustarle pienamente, e di giudicarne perfettamente ec.
Ciascuno straniero è soggetto a
cadere in errore giudicando dei pregi o difetti di una lingua altrui, morta o
viva, massime de' più intimi e reconditi e particolari. E così
giudicando di quei pregi o difetti [972]di un'opera di letteratura
straniera, che appartengono alla lingua, e di tutta quella parte dello stile
(ed è grandissima e rilevantissima parte) che spetta alla lingua, o ci
ha qualche relazione per qualunque verso. Ma i giudizi de' francesi sopra
questi soggetti, e de' francesi anche più grandi e acuti e stimabili,
sono quasi sempre falsi: in maniera che per lo più la falsità
loro, va in ragione diretta della temerità ed assurance con cui
sono ordinariamente pronunziati; vale a dire ch'è somma. E
ordinariamente i francesi, quando parlano di certe intimità delle
letterature straniere, appartenenti a lingua, fanno un arrosto di granciporri.
Questo quanto al gustare. Quanto
all'intendere, il fatto non è meno conforme alle mie osservazioni.
Perchè la francese insieme coll'italiana, è senza contrasto, la nazione
meno letterata in materia di lingue, sia lingue antiche classiche, cioè
greca e latina, (nelle quali la Francia non può in nessun modo
paragonarsi all'Inghilterra, Germania, Olanda ec.) sia lingue vive, delle quali
la maggior parte dei francesi si contenta di essere ignorantissima, o di
saperne quanto basta per usurpare il diritto di sparlarne, e giudicarne a
sproposito e al rovescio. Nell'Italia (dove però l'ignoranza non
è tanto compagna della temerità) [973]il poco studio delle
lingue morte o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e dalla generale
inerzia che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi regna. Ed ella
non è più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o
di studi, o di qualsivoglia disciplina, e professione della vita. Ma nella
Francia le circostanze sono opposte: in luogo che vi regni l'inerzia, vi regna
l'attività e le ragioni di lei; in luogo che vi regni l'ignoranza, vi regnano
tutte le altre maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone
discipline e professioni fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione
geografica, e tutte le altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale
relazione co' forestieri, tanto nell'interno della Francia stessa, quanto
fuori. Perchè dunque ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni
nella poca e poco generale coltura delle lingue altrui, vive o morte? Fra le
altre cagioni che si potrebbero addurre, io stimo una delle principali quella
che ho detto, cioè la difficoltà che oppone la loro stessa lingua
all'intelligenza e sentimento delle altre, e l'insufficienza dello strumento
che hanno per procacciarsi e la cognizione, e il gusto delle lingue altrui.
[974]Una celebre Dama Irlandese
morta pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce come cosa notabile che di tanti
emigrati francesi che soggiornarono sì lungo tempo in Inghilterra,
nessuno o quasi nessuno, quando tornarono in Francia coi Borboni, aveva
imparato veramente l'inglese, nè poteva portar giudizio se non incompleto,
inesatto, anzi spesso stravagantissimo e ridicolo, sopra la lingua e letteratura
inglese; sebbene tutte erano persone ottimamente allevate, e ornate, qual
più qual meno, di buoni studi.
Io non intendo con ciò di detrarre,
anzi di aggiungere alla gloria di quei dottissimi e sommi letterati francesi
che malgrado tutte le dette difficoltà, facendosi scala da una ad altra
lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi delle altrui lingue e
letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec. sono divenuti così
padroni delle lingue e letterature straniere che hanno coltivate, ne hanno
penetrato così bene il gusto ec. quanto mai possa fare uno straniero, e
forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale. (Cosa per altro rara, che,
eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime
oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della
lingua e letteratura italiana: e così discorrete delle altre). E non
ignoro quanto debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai [975]dotti
francesi di questo e del passato secolo. Ma questi tali dotti presenti o
passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e letteratura
loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome
è costume naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente
conosce ed intende.
(20-22. Aprile. Giorno di Pasqua. 1821.). V. p.978. capoverso 3.
Tra i libri diversi si annunziano le Lettere
sull'India di Maria Graham, autrice di un Giornale del suo soggiorno
nell'India, nelle quali campeggia un curioso paragone del Sanscritto col
latino, col persiano, col tedesco, coll'inglese, col francese e coll'italiano,
e si parla pure a lungo delle principali opere composte in Sanscritto. Bibl.
Italiana vol.4. p.358. Novembre 1816. n.11. Appendice. Parte italiana. rendendo
conto del Giornale Enciclopedico di Napoli n. V.
(22. Aprile 1821.)
Il sistema di Copernico insegnò ai
filosofi l'uguaglianza dei globi che compongono il sistema solare (uguaglianza
non insegnata dalla natura, anzi all'opposto), nel modo che la ragione e la
natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente l'uguaglianza naturale
degl'individui di una medesima specie.
(22. Aprile 1821.)
La scrittura dev'essere scrittura e non
algebra; [976]deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e
l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli
affetti dell'animo, è ufficio delle parole così rappresentate.
Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti
ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la
scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più
scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le
vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura
non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se
non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? Imparate imparate l'arte
dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte
che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è
necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà,
in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il
lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel
leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole,
e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che
si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni
ec. Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella
maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una [977]delle
somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo
scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non
ha sbagliato mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che
vuol produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non
c'è difficoltà. E che difficoltà nell'imitare in questo
modo? Che difficoltà nell'esprimere il calpestio dei cavalli col trap
trap trap, e il suono de' campanelli col tin tin tin, come fanno i
romantici? (Bürger nell'Eleonora. B. Ital. tomo 8. p.365.) Questa è
l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella
che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi,
e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22. Aprile. Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto più qualsivoglia imitazione
trapassa i limiti dello strumento che l'è destinato, e che la
caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e
proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura
che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece
delle chiome scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla
scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento.
Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]cosa
contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde
la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie,
de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto
giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno
si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
(23. Aprile. 1821.)
Oggi non può scegliere il cammino
della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero.
(23. Aprile. 1821.)
Per l'invenzione della polvere l'energia che
prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono
in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato essenzialmente il modo
di guerreggiare. B. Italiana t.5. p.31. Prospetto Storico-filosofico ec. del
Conte Emanuele Bava di S. Paolo, 2° ed ult. estratto.
(23. Aprile 1821.)
Alla p.975. Una lingua timidissima non
è buono nè perfetto strumento a gustare una lingua coraggiosa ed
ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una lingua tutta
regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua naturalmente
e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali come occidentali),
una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua che non ha,
si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec. ( ) a
gustare le proprietà [979]delle altre lingue.
(24. Aprile. 1821.)
Passa rapidamente sulla ricerca del
linguaggio de' primi abitatori dell'Italia, e sembra persuaso che la lingua di
quelle genti, siccome pure la greca e la latina, derivassero dall'indiana,
giacchè i popoli indiani dalle spiagge dell'Oriente, passarono in turme
alle Occidentali, e posero sede nella Grecia ed in Italia. Formata, ossia
ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè quella derivata, secondo il
Ciampi, dall'indiana), non perciò perirono l'etrusca, l'osca, la volsca,
la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero la lingua
della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal volgo, in
quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d'Italia è
tuttora tenace dei propri dialetti. Infatti alcune voci toscane sono ancora
probabilmente di origine etrusca. Biblioteca Italiana tomo 7. pag.215. rendendo
conto dell'opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a
saeculo quinto R. S. Acroasis. Accedit
etc. Pisis. Prosperi. 1817.
(24. Aprile 1821.)
Trae perfino un argomento a suo favore dalla
lingua valacca, la quale derivata dai soldati romani che vi si
lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in molte parole ed in molte frasi
colla italiana, e ne [980]mette fuori di dubbio la rimota
antichità. Bibl. Ital. l. cit. nel pensiero antecedente, rendendo conto
della stessa opera. p.217. fine.
(24. Aprile 1821.)
La lingua del Lazio adunque si dovette
propagare nel contiguo Illirico e all'Oriente, non meno che si propagò
in amendue le Gallie all'Occidente; e il nome Romania, che fino a'
nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi:
ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo
conferma) (vedi Caronni in Dacia. Milano, 1812. pag.32.) non che il
gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono
una prova convincente. Articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di
Milano. 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.245. fine. (25. Aprile 1821.).
Basta che la voce OCO che
significa anch'essa OCCHIO in russo, (cioè oltre la voce Glass
che significa lo stesso) sia tanto simile all'OCULUS de' latini, onde
dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la
parola OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo
della parola OCCUS o OCCOS che significava un OCCHIO in
greco antico, come lo attestano Esichio ed Isidoro. Luogo citato qui sopra,
p.244. principio. Sì dunque la voce russa Oco derivata dal latino
mediante la propagazione [981]della lingua latina nell'Illirico,
avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244. verso il mezzo ec. e Bibl. Italiana vol. 8. p.208. rendendo conto dell'opera dello
stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l'on découvre
entre la langue des Russes et celle des Romains. Milan.
1817. chez Stella, en 4°. gr. dove l'autore dimostra questa
propagazione.) essendo la lingua russa figlia dell'illirica (ivi); sì
ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c
all'uso spagnuolo) dimostrano che quell'antichissima voce occus,
benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel latino
volgare. (25. Aprile 1821.). Occhio però viene da oculus
come da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l'antico sonnoCCHIoso, da auricula,
orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (v. pag.1181.
marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula
o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che
anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja
da auricula, ovicula ec.) da ungula, unghia ec. V. p.2375. (e la
p.2281. e segg.).
Alla p.740. La lingua greca si era
conservata sempre pura, in gran parte per la grande ignoranza in cui erano i
greci del latino. La quale si fa chiara sì da altri esempi che ho
allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel giudizio timidissimo
che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di
Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin. p.134.) sì ancora da
questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci,
colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole
latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica
notò il Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del
quarto secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine
barbaramente scritte in caratteri latini. (Didym. Alexandr. De Trinitate Lib.1. cap.15. Bonon. typis Laelii a Vulpe
1769. fol. p.18. gr. et lat. cura Johannis Aloysii Mingarellii. Vide ib. eius
not.3. e la Lettera a Mons. Giovanni Archinto Sopra un'opera inedita di un
antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del Calogerà
1763. tomo XI. e ristampata nell'Appendice alla detta opera: Cap.3. pag.465.
fine-466. principio. del che non si troverà [982]così
facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra
sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi
del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine,
com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al
contrario de' latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri
latini ec. Quanto poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi
in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la
conquista della Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste parole
del Cav. Hager, nel luogo cit. qui dietro (p.980.) p.245. Basta consultare
la celebre opera di S. Agostino, DE CIVITATE DEI, onde vedere quanto i
Romani al medesimo tempo erano solleciti d'imporre non solo il loro giogo, ma
anche la loro lingua a' popoli da loro sottomessi: Opera data est, ut
imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis gentibus
per pacem societatis, imponeret (Lib. XIX, cap.7.) Ai Greci medesimi, dice
Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in lingua latina: illud
quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine responsa
darent, (Lib. II., c.2. n.2.) e ciò quantunque la lingua greca fosse
tanto famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la lingua latina
obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per mezzo di
un interprete in latino: Quin etiam... per interpretem loqui cogebant...
quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur.
(ibid.) [983]E tuttavia la Grecia resistè. Ma dopo Costantino, alla
Corte Bizantina, segue lo stesso autore l.c. come si osserva da S. Crisostomo
(adv. oppugnatores vitae monasticae. Lib. III. tom. I., p.34. Paris. 1718, edit Montfaucon.) era
un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a' tempi di Giustiniano, le
leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino. E
soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE furono pubblicate a Costantinopoli
in latino.
(25. Aprile
1821.)
Nelle Mémoires
de l'Acad. des Inscriptions, Tom.24. si trova: Bonamy, Réflexions sur la
langue latine vulgaire. (25. Aprile 1821.). E son pur da vedere in
questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711. p.914.
Un nostro missionario (cioè italiano)
il P. Paolino da S. Bartolomeo, mostrò l'affinità della lingua
tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha
cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita:
così la nomina anche p.208. samscrdamica) che è la madre
di tutte le lingue delle Indie. Bibliot. Ital. vol.8. p.206.
(25. Aprile 1821.)
Che il verbo latino serpo sia lo
stesso che il greco , è
cosa evidente, come pure i derivati, serpyllum etc. Ma che gli antichi
latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in
composizione, lo stesso verbo senza la [984]s, come in greco, lo
raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che
significa appunto lo stesso che il greco , composto
di ,
cioè sursum repo, come anche . (Del
verbo non ha
esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo. Ve n'è però
esempio in Arriano, Expedit. lib.6. c.10. sect.6. e nell'indice è
spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella
nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l'ha evidentissima
nel detto verbo , dal
quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè
mediante l'uso del volgo romano, differente in questo dagli scrittori.
(25 Aprile 1821.)
Delle qualità e pregi della lingua
Sascrita, v. alcune cose estratte da un articolo di Jones nelle Notizie
letterarie di Cesena 1791. 24. Nov. p.365. colonna 1. Dell'abuso ch'ella fa
talvolta de' composti v. ib. p.363. colonna 2. fine. Abuso simile a quello che
ne facevano talvolta gli antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai
maggiore, secondo la natura de' popoli orientali che sogliono sempre e in ogni
genere spingersi fino all'ultimo e intollerabile eccesso delle cose.
(25. Aprile 1821.)
La scoperta e l'uso delle armi da fuoco
oltre agli effetti da me notati negli altri pensieri, ha scemato ancora
notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e generalmente negli uomini. La victoire... s'obtient aujourd'hui par la regularité
et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains. Nos guerres ne
se décident plus guère que de loin, à coups de canon et de fusil;
et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le bruit et
l'effet de [985]nos
armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à l'armes
blanches sont devenus fort rares. Così il Barone Rogniat, Considérations
sur l'Art de la guerre, Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817. Introduction,
p.1. E come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi
da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o
privata, a tradimenti, e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo:
oltre l'influenza che ha l'educazione militare, e la natura delle guerre sopra
l'intero delle nazioni. Sarà bene ch'io legga tutta intera l'opera
citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a
molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi
popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza dell'uomo ec. E certo la
guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi
avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della
società, e dell'uomo e dei viventi.
(25. Aprile 1821.)
La soverchia ristrettezza e superstizione e
tirannia in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la
barbarie e licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e
smoderata libertà dei popoli. I quali ora perciò non divengono
liberi, perchè [986]non sono eccessivamente servi, e
perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse, essendo
più moderata che fosse mai.
(25. Aprile 1821.)
Come non si dà mai l'atto nè
il possesso del diletto, così neanche dell'utilità, giacchè
utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non
è riposta in altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga
chiamato.
(25. Aprile 1821.)
Dal confronto delle poesie di Ossian, vere
naturali e indigene dell'Inghilterra, colle poesie orientali, si può
dedurre (ironico) quanto sia naturale all'Inghilterra la sua presente poesia
(come quella di Lord Byron) derivata in gran parte dall'oriente, come
dice il riputatissimo giornale dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla
Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale.
(Spettatore di Milano. 1. Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno 101. p.233. e
puoi vederlo.)
Infatti le poesie d'Ossian sebben sublimi e
calde, hanno però quella sublimità malinconica, e quel carattere
triste e grave, e nel tempo stesso, semplice e bello, e quegli spiriti marziali
ed eroici, che derivano naturalmente dal clima settentrionale. Non già
quella sublimità eccessiva, quelle esagerazioni, quelle spaccamontate
delle pazze fantasie orientali; nè quel sapore aromatico; nè
quello splendore abbagliante, come dice il citato giornale, nè quel
fasto, nè quella voluttà, nè quei profumi (sono
espressioni dello stesso); nè quel colore vivo e sfacciato, ed ardente;
nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza strabocchevole in ogni
genere e parte di letteratura e poesia; nè quella mollezza, quella
effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi) eccessiva e nauseosa
e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali. Ed è veramente
maraviglioso, come il paese de' più settentrionali d'Europa, stimi
naturale e propria e [987]adattata alla sua indole la poesia de' paesi
più meridionali e ardenti del mondo. Un paese poi come l'Inghilterra,
così pieno di filosofia, e cognizioni dell'uomo, e de' caratteri
nazionali e fisici ec. ec. Meno male se l'orientalismo fa progressi in Francia,
(come negli scritti di Chateaubriand) paese più meridionale che
settentrionale. Ma non c'era popolo colto, a cui l'orientalismo convenisse meno
che all'Inghilterra, dove però trionfa, e donde io credo che sia passato
in Francia sulla fine del secolo passato, e donde si va diramando per l'Europa
la detta scuola. Il fatto sta che tutto il mondo è paese, e da per tutto
si crede naturale e nazionale quello che fa effetto per la cagione appunto
contraria, cioè per la novità, pel forestiero, pel contrasto col
carattere e l'indole propria e nazionale; e come la poesia [in] Italia ha corso
rischio, (e non ne è forse fuori) di una nuova corruzione mediante il
settentrionalismo, l'Ossianismo ec. così viceversa l'inglese, mediante
il meridionale e l'orientale. E certo se la poesia settentrionale pecca in
qualche cosa al gusto nostro, egli è nell'eccesso del sombre, del buio,
del tetro; e la orientale al contrario, nell'eccesso del vivo, del chiaro, del
ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec. Vedete quanta conformità di
carattere fra queste due poesie!
(25. Aprile 1821.)
Il diletto è sempre il fine, e di
tutte le cose, l'utile non è che il mezzo. Quindi il piacevole, è
vicinissimo al fine delle cose umane, o quasi lo stesso con lui; l'utile che si
suole stimar più del piacevole, non ha altro pregio che d'esser
più lontano da esso fine, o di condurlo non immediatamente ma
mediatamente. [988]
(26. Aprile 1821.)
I latini erano veramente rispetto
alla lingua loro e alla greca 1. perchè parlavano l'una come l'altra, ma
non così i greci generalmente, anzi ordinariamente: 2. perchè
scrivendo citavano del continuo parole e passi greci, in lingua e caratteri
greci, ovvero usavano parole o frasi greche nella stessa maniera; ma non i
greci viceversa, del che vedi p.981. e p.1052. capoverso 3. e p.2165.
3. Resta memoria di parecchie traduzioni
fatte dal greco in latino anche ne' buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori
latini, come Cicerone. Ed anche restano di queste traduzioni, o intere o in
frammenti, come quelle di Arato fatte da Cicerone e da Germanico, quella del
Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte da Terenzio, quelle fatte da
Apuleio o attribuite a lui, quelle dell'Odissea fatta da Livio Andronico,
dell'Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio, da Ninnio Crasso
(Fabric. B. Gr. 1.297.) ec. tutte anteriori a Costantino. V.
Andrès Stor. della letteratura, ediz. di Venezia, Vitto. t.9. p.328 329.
cioè Parte 2. lib.4. c.3. principio. Non così nessuna traduzione,
che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi
tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche e
appartenenti a quella scienza che allora prevaleva. Non mai letterarie. (V.
Andrès, t.9. p.330. fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio
che ci rimane, e l'altra perduta di un Capitone Licio, non pare che si possano
riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia,
fatto a solo uso, possiamo dire, elementare. [989]E si può dire
con verità quanto alla letteratura, che la comunicazione che v'ebbe fra
la greca e la romana, non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo
che la letteratura Romana era già grandissima e nobilissima, anzi
superiore assai alla letteratura greca contemporanea. 4°, I latini scrivevano
bene spesso in greco del loro. Così fa molte volte Cicerone nelle
epistole ad Attico (forse anche nelle altre); dove forse per non essere inteso
dal portalettere, la qual gente, com'egli dice, soleva alleviare la fatica e la
noia del viaggio leggendo le lettere che portava; ovvero per evitare gli altri
pericoli di lettere vertenti sopra negozi pubblici, politici ec. dal contesto
latino passa bene spesso a lunghi squarci scritti in greco, e tramezzati al
latino, e scritti anche in maniera enigmatica e difficile. Restano parecchie
lettere greche di Frontone. Resta l'opera greca di Marcaurelio, il quale
imperatore scriveva parimente, com'è naturale, in latino, e così
bene, come si può vedere nelle sue lettere ultimamente scoperte[8].
Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste, e quindi cittadino
Romano, ed appena si mosse mai d'Italia. Nondimeno dice di lui Filostrato: , J(Fabric.
3.696. not.). Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p. 2166. Non così i
greci sapevano mai scrivere in latino. Anzi Appiano in Roma scrivendo a
Frontone, uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone
rispondeva parimente in greco, non in latino. E così molti libri di
autori greci si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990]romani
o latini.
Le stesse cose appresso a poco si possono
notare avvenute a noi riguardo al francese. Giacchè fino a tanto che la
nostra letteratura prevalse o per merito reale, o per continuazione di fama e
di opinione generale, e la nostra lingua era per tutti i versi più
studiata, più conosciuta, più dilatata fra i francesi ed altrove,
e la nostra letteratura parimente, sì nella nazione, che fra' suoi
letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi che scrivevano in
ambedue le lingue francese e italiana. Ora accade tutto l'opposto: e si trovano
degl'italiani, come anche non pochi d'altre nazioni, che scrivono e stampano
così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole, testi
francesi si allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così
viceversa in Francia, dove difficilmente si troverà un francese che
sappia scrivere altra lingua che la sua, e scrivendo a' forestieri scriveranno
in francese, e riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è
più necessario che in qualunque altro paese colto, che i passi o parole
che si citano di libri forestieri, (e massime italiani) si citino in francese,
o se n'aggiunga la traduzione.
Osservo ancor questo. Ridotti in provincie
romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste
provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in
latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, [991]Lucano, Columella, Prudenzio,
Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Sidonio Apollinare, S. Prospero,
S. Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio,
Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano, Arnobio, S. Ottato,
Mario Vittorino, S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio
Scozzese. V. p.1014. Parecchi de' quali arrivarono ancora all'eccellenza nella
lingua latina. Non così i greci. E dico tanto i greci Europei, quanto
quelli nativi delle colonie greche nell'Asia Minore, o delle altre parti
dell'Asia divenute greche di lingua e di costumi dopo la conquista di
Alessandro, e così dell'Egitto, o di qualunque luogo dove la lingua
greca prevalesse nell'uso quotidiano, ovvero anche solamente come lingua degli
scrittori e della letteratura. Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in
greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino Alessandrini, Petronio
Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al numero ed estensione delle
dette provincie greche, massime paragonandoli alla gran copia degli altri
scrittori latini forestieri di ciascuna provincia, ancorchè
minore. E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico all'eccellenza,
ma appena alla mediocrità nella lingua latina. V. p.1029. E Macrobio,
che si stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec. (v. il Fabricio, B.
Latina t.2. p.113. l.3. c.12. §.9. nota (a.)) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano)
Graeculum latine balbutire credas. (Fabric. ivi) Cosa applicabilissima
agli odierni francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e
massime nella nostra. E di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e
più antico di Macrobio, dice il Salmasio (Praef. de Hellenistica p.39.)
ec. V. il Fabricio l.c. p.99.nota(b) l.3. c.12
[992]Ma del resto i greci di
qualunque parte, ancorchè sudditi romani, ancorchè cittadini
romani, ancorchè vissuti lungo tempo in Roma o in Italia,
ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai
latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio del
loro linguaggio, come sì è veduto p.982-983. ancorchè nel
tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione
latina, ancorchè impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de'
Romani, e nella stessa Roma, ancorchè finalmente nominati con nomi e
prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco.
Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione;
così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così Arriano
prenominato Flavio (Fabric. B. G. 3.269. not. b.) fatto cittadino Romano,
senatore, Console, caro all'imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia
armata in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato Cocceiano
dall'Imperatore Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e familiare del
detto Imperatore e di Traiano; così l'altro Dione prenominato Cassio e cognominato
parimente Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec.
così Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.;
così Erode Attico prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino
ec.; (v. per ciascuno di questi il Fabricio) così quell'Archia poeta ec.
(v. Cic. pro Archia).
Da tutto ciò si deduce in primo
luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci [993]di
qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti
della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore. Considerando
ancora che generalmente gli scrittori greci di qualunque età, e nominatamente
i sopraddetti e loro simili, che per le loro circostanze, parrebbono non solo a
portata ma in necessità di aver conosciuto la letteratura latina, non
danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè la nominano
ec. e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne servono per
usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec. non mai di letteratura.
Questa è cosa universale negli scrittori greci.
In secondo luogo risulta dalle sopraddette
cose, che i mezzi usati dai romani per far prevalere la loro lingua, come nelle
altre nazioni, così in Grecia, e ne' moltissimi paesi dove il greco era
usato, (v. p.982-83.) laddove riuscirono in tutti gli altri luoghi, non
riuscirono e furon vani in questi. Ed osservo che la lingua latina non prevalse
mai alla greca in nessun paese dov'ella fosse stabilita, sia come lingua
parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca avea prevaluto a tutte le
altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi) paesi, e in quasi mezzo
mondo; e quello che [994]non potè mai la lingua nè la
potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel che pare, in
poco spazio, l'arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani, (come il turco
ec.) e così perfettamente, come vediamo anche oggidì. Ma la
lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non
estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla
lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella
lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo
superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così
dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole,
(Annali 1811. n.18. p.386. Notiz. letterar. di Cesena 1792. p.142.) e che al
Cav. Angiolini che se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve
somigliante ne' suoni alla greca: (Lettere sopra l'Inghilterra, Scozia, ed
Olanda. vol.2do. Firenze 1790. Allegrini. 8vo anonime, ma
del Cav. Angiolini) (Notizie ec. l.c.) lingua della cui purità erano
depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono
per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta
influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura: (Annali ec. l.c.
p.385.386. principio.) quella lingua così ricca, e ogni giorno
più ricca di tanti poemi, parte de' quali anche [995]oggi si
ammirano. Questa lingua e letteratura cedette alla romana; v. p.1012. capoverso
1. la greca non mai; neppur quando Roma e l'Italia spiantata dalle sue sedi, si
trasportò nella stessa Grecia. Perocchè sebbene allora la lingua
greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.)
imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in ultimo, piuttosto
i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere
il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia vinta e suddita a divenir
latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua. Ed ora la lingua latina
non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive
ancora in quell'antica e prima sua patria. Tanta è l'influenza di una
letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e
di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi
di Costantino, possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e
non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosissimi scrittori
passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri. V. p.996.
capoverso 1. Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua.
(V. p.766. segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si
spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser
formata, nè per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome
immatura e imperfetta. E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch'ella
scarseggiava sommamente di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che
per lo più passavano solo di bocca in bocca. Non così una lingua
abbondante di scritti. Testimonio ne sia la Sascrita, [996]la quale
essendo ricca di scritture d'ogni genere, e di molto pregio secondo il gusto
orientale, e della nazione, vive ancora (comunque corrotta) dopo lunghissima
serie di secoli, in vastissimi tratti dell'India, malgrado le tante e
diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo spazio di tempo. E
sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommamente contribuì
a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per
così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dovè
cedere, giacchè non solamente non potè snidare la lingua e
letteratura greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi
nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi.
(29. Aprile. 1821.). V. p.999. capoverso 1.
Alla p.995. Infatti i greci anche nel tempo
della barbarie, conservarono sempre la memoria, l'uso, la cognizione delle loro
ricchezze letterarie, e la venerazione e la stima de' loro sommi antichi
scrittori. E questo a differenza de' latini, dove ne' secoli barbari, non si sapeva
più, possiamo dir, nulla, di Virgilio, di Cicerone ec. L'erudizione e la
filologia non si spensero mai nella Grecia, mente erano ignotissime in Italia;
anzi nella Grecia essendo subentrate alle altre buone e grandi discipline, durarono
tanto che la loro letteratura sebbene spenta già molto innanzi, quanto
al fare, non si spense mai quanto alla memoria, alla cognizione e [997]allo
studio, fino alla caduta totale dell'impero greco. Ciò si vede primieramente
da' loro scrittori de' bassi tempi, in molti de' quali anzi in quasi tutti
(mentre in Italia il latino scritto non era più riconoscibile, e nessuno
sognava d'imitare i loro antichi) la lingua greca, sebbene imbarbarita,
conserva però visibilissime le sue proprie sembianze: ed in parecchi
è scritta con bastante purità, e si riconosce evidentemente in
alcuni di loro l'imitazione e lo studio de' loro classici e quanto alla lingua
e quanto allo stile; sebbene degenerante l'una e l'altro nel sofistico, il che
non toglie la purità quanto alla lingua. Arrivo a dire che in taluni di
loro, e ciò fino agli ultimissimi anni dell'impero greco, si trova
perfino una certa notabile eleganza e di lingua e di stile. In Gemisto è
maravigliosa l'una e l'altra. Tolti alcuni piccoli erroruzzi di lingua (non
tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue opere o molte di loro si
possono sicuramente paragonare e mettere con quanto ha di più bello la
più classica letteratura greca e il suo miglior secolo. Oltre a
ciò l'erudizione e la dottrina filologica, e lo studio de' classici
è manifesto negli scrittori greci più recenti, a differenza de'
latini. Gli antichi classici, e singolarmente Omero, benchè il
più antico di tutti, non lasciarono mai di esser citati negli scritti
greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse. E vi si alludeva spessissimo
ec. Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si possa
paragonare a un Longino o a un Porfirio. Non chiederò che mi si mostri
nel nono secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il 2do
secolo fino al 14mo, un latino, non dico uguale, ma somigliante [998]di
lontano a Fozio, uomo nei pregi della lingua e dello stile non dissimile dagli
antichi, e superiore agli stessi antichi nell'erudizione e nel giudizio e
critica letteraria, doti proprie di tempi più moderni. Tenendomi
però a' tempi bassissimi, e potendo recare infiniti esempi, mi contenterò
degli scritti di quel Giovanni Tzetze, che fu nel 12mo secolo, e di
Teodoro Metochita che viveva nel 14mo; scritti pieni di indigesta ma
immensa erudizione classica.
Secondariamente la mia proposizione
apparisce da quei greci che vennero in Italia nel trecento, e dopo la caduta dell'impero
greco, nel quattrocento. E mentre in Italia si risuscitavano gli antichi
scrittori latini che giacevano sepolti e dimenticati da tanto tempo nella loro
medesima patria, i greci portavano qua il loro Omero, il loro Platone e gli
altri antichi, non come risorti o disseppelliti fra loro, ma come sempre
vissuti. Della erudizione e dottrina di quei greci, delle cose che fecero in
Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere che scrissero, parte in
greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino, riducendosi allora
finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de' loro antichi e
già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade se non
accennarle.
(29. Aprile. 1821.)
[999]Alla p.996. E la letteratura
latina non potè impedire che la sua lingua non si spegnesse, laddove la
greca ancor vive, benchè corrotta, perchè sapendo il greco
antico, si arriva anche senza preciso studio a capire il greco moderno. Non
così sapendo il latino, a capir l'italiano ec. Onde la presente lingua
greca non si può distinguere dall'antica, come l'italiano ec. dal
latino, che son lingue precisamente diverse, benchè parenti. E neppure
si capisce l'italiano sapendo il francese, nè ec.
(29. Aprile. 1821.). V. p.1013. capoverso 1.
In prova di quanto la lingua greca, fosse
universale, e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante
la maggiore estensione del dominio romano e de' romani pel mondo; si potrebbe
addurre il Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi
imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori Giudei (così
tutti chiamano gli Ebrei di que' tempi), quantunque l'Evangelio di S. Marco si
creda scritto in Roma e ad uso degl'italiani, giacchè è rigettata
da tutti i buoni critici l'opinione che quell'Evangelio fosse scritto
originariamente in latino; (Fabric. B. G. 3. 131.) quantunque v'abbia
un'Epistola di S. Paolo cittadino Romano, diretta a' Romani, un'altra agli
Ebrei; quantunque v'abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè
universali, di S. Giacomo, e di S. Giuda Taddeo. Ma senza entrare nelle quistioni
intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti,
osserverò quello che dice il Fabric. B. G. edit. vet. t.3. p.153. lib.4.
c.5 §.9 parlando dell'Epistola di S. Paolo a' Romani: graece scripta est,
non latine, etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse ROMANE t}amwr, quo vocabulo Graecam [1000]linguam
significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus
ad Eutychium observavit. E p.131. nota (d) §.3. parlando delle
testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il
Vangelo di S. Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi
dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi
observavit Seldenus. Intendi l'opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii
Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem
Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus.
Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem. dell'Archeol. §.2. principio e fine,
chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per
conseguenza anche i romani. E così nella Scrittura passim
opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula).
Così ne' Padri antichi. Il che pure ridonda a provare la mia
proposizione. E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè
i non ebrei), scrive in greco. V. anche il Forcell. v. Graecus in fine.
Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo
scritto primieramente i suoi libri della Guerra Giudaica nella lingua sua patria,
qualunque fosse questa lingua, o l'Ebraica, come crede l'Ittigio, (nel Giosef.
dell'Havercamp, t.2. appendice p.80. colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri,
(v. Basnag. Exercit. ed. Baron. p.388. Fabric. 3. 230. not. p), in uso,
com'egli dice, de' barbari dell'Asia superiore, cioè, com'egli stesso
spiega (de Bello Iud. Proem. art.2. edit. Haverc. t.2. p.48.) de' Parti, de'
Babilonesi, degli Arabi più lontani dal mare, de' Giudei di là
dall'Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric. l.c. Gioseffo l.c. p.47. not. h.)
volendo poi, com'egli dice, accomodarla all'uso de' sudditi dell'imperio [1001]Romano,
, e
scrivendo in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric. 3. 229. fine e 230.
principio.) e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, . (Idem, l.c. art.1. p.47.) E così traslatata la
presentò a Vespasiano e a Tito, Impp. Romani. (Ittigio l.c.
Fabric. 3.231. lin.8. Tillemont, Empereurs
t.1. p.582.).
(30. Aprile. 1821.)
La lingua greca, benchè a noi sembri
a prima vista il contrario, e ciò in gran parte a cagione delle
circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec. rispetto alla latina, è
più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale si trova
ne' classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne' classici del
miglior tempo; e l'una e l'altra comparativamente, qual'è presso gli
scrittori dell'ottima età dell'una e dell'altra lingua. E ciò
malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua
greca. Questa dunque è la cagione perch'ella fosse più atta della
latina ad essere universale: e n'è la cagione sì per se stessa e
immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la lingua volgare
e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta.
(1. Maggio 1821.)
Quello che ho detto della difficoltà
naturale che hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a
gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le
moderne Europee e colte, alla lingua nostra. Giacchè la lingua [1002]francese
è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli
estremi fra le lingue nella cui indole ec. signoreggia l'immaginazione, e
quelle dove la ragione. (Intendo la lingua francese qual è ne' suoi
classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha preso una forma
stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia). Si giudichi dunque quanto ella sia
propria a servire d'istrumento per conoscere e gustare le lingue antiche, e
molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël (vedi p.962.)
la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre, perciocch'è
nata da lei. Anzi tutto all'opposto, se c'è lingua difficilissima a
gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina,
la quale occupa forse l'altra estremità o grado nella detta scala delle
lingue, ristringendoci alle lingue Europee. Giacchè la lingua latina
è quella fra le dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non
parlare adesso della Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione.
Generalmente poi le lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e
però estremamente separate dalla lingua francese. Ed è ben
naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate dall'immaginazione
più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le meno
adattabili alla lingua francese, all'indole sua, ed alla conoscenza e molto
più al gusto de' francesi. [1003]Nella scala poi e proporzione
delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la
Spagnuola) occupa senza contrasto l'estremità della immaginazione, ed
è la più simile alle antiche, ed al carattere antico.
Parlo delle lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè
non voglio entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre
l'immaginazione più che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno
parte che in qualunque lingua formata. Proporzionatamente dunque dovremo dire
della lingua francese rispetto all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto
alle antiche. E il fatto lo conferma, giacchè nessuna lingua moderna
colta, è tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai
francesi, quanto l'italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il
genio, che dell'italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo
di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana
sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle
sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale delle parole
(siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che p.e. la lingua
inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel
tradurre ec. mentre una traduzione francese dall'italiano dal latino o dal
greco non è riconoscibile) appartengano a tutt'altra famiglia di lingue.
(1 Maggio 1821.). V. p.1007. capoverso 1.
[1004]Uno dei principali dogmi del
Cristianesimo è la degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo
più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della
Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana. Il
principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta
degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o
particolari, ch'io adduco per dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente
alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si
trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci
allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec. ec.: tutte
queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del
Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.
(1. Maggio 1821.)
Tanto era l'odio degli antichi (quanti
aveano una patria e una società) verso gli stranieri, e verso le altre
patrie e società qualunque; che una potenza minima, o anche una
città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da' Romani),
non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la resistenza
si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la
deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consultazione
vervna; e dipendeva dall'essere assaliti, non [1005]già dalla
considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di
resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec. E questa era,
come ho detto, una conseguenza naturale dell'odio scambievole delle diverse
società, dell'odio che esisteva nell'assalitore, e che obbligava
l'assalito a disperare de' patti; dell'odio che esisteva nell'assalito, e che
gl'impediva di consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque
utilità nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera
distruzione di se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso
gli antichi, e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.
Oggi per lo contrario, la resistenza dipende
dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi,
nel cedere o nel resistere. E se questo calcolo decide pel cedere, non
solamente una città ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad
un'altra potenza, ancorchè non eccessivamente più forte;
ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata
speranza. Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si
decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de' mezzi: io posso
impiegar tanti uomini, tanti danari ec. il nemico tanti: resta dalla parte mia
tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero
non cediamo. [1006]E senza venire alle mani, nè far prova
effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma,
quelle leggi, quel governo ec. che comanda il più forte: e in computisteria
si decidono le sorti del mondo. Così discorretela proporzionatamente
anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.
In questo modo oggi il forte, non è
forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli esercizi militari ec. non servono
perchè si faccia esperienza di chi deve ubbidire o comandare ec. ec. ma
solamente perchè si possa sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni
determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero inutili, giacchè
in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i grandi effetti, sono
come se quelle truppe ec. non avessero esistito.
Ed è questa una naturale conseguenza
della misera spiritualizzazione delle cose umane, derivata dall'esperienza,
dalla cognizione sì propagata e cresciuta, dalla ragione, e dall'esilio
della natura, sola madre della vita, e del fare. Conseguenza che si può
estendere a cose molto più generali, e trovarla egualmente vera,
sì nella teorica, come nella pratica. Dalla quale spiritualizzazione che
è quasi lo stesso coll'annullamento, risulta che oggi in luogo di fare,
si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le
contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007]risultati
dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando
quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare
effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo morti.
Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e
dev'essere necessariamente tutt'uno con questa.
(1. Maggio 1821.)
Alla p.1003. fine. Oltre le dette
considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta
dall'Italiana, perciò ch'ella è fra le moderne colte (e per
conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno
libera; naturale conseguenza dell'essere sopra tutte le altre, modellata sulla
ragione. Al contrario l'italiana è forse e senza forse, fra le dette
lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che
conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta per
verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl'italiani, e
degli stessi linguisti. Nella quale libertà la lingua italiana somiglia
sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più
caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca. A
differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da' suoi ottimi
scrittori, e da' suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e
sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera, anzi forse
meno di qualunque altra lingua antica, uno de' primi distintivi delle quali
è la libertà. Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun
modo della ragione, è però suddita, dirò così, di
se stessa, e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual
costume fisso e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella non
può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè
oltrepassarlo ec. in verun modo; così che sebbene ella è
ricchissima di forme in se stessa, non è però punto adattabile a
verunissima altra forma, nè pieghevole se non ai modi determinati dalla
sua propria usanza. E perciò appunto, come ho detto altrove, ella non
era punto adattata alla universalità, perchè l'ardire non era accompagnato
dalla libertà. E la perfetta attitudine alla universalità
consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come
la francese. Un'altra attitudine meno perfetta nell'essere e ardita e varia, e
nel tempo stesso libera, come la greca. L'ardire e la varietà, sebbene
per lo più sono compagne della libertà, non però sempre;
nè sono la stessa cosa colla libertà, come si vede nell'esempio
della lingua latina, e bisogna perciò distinguere queste qualità.
Del resto la servilità e timidezza
della lingua francese, la distingue dunque più che da qualunque altra,
dalle antiche, e fra le moderne dall'italiana.
[1009]E queste sono le ragioni per
cui la lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto
p.1003. tuttavia n'è tanto lontana e dissimile, massimamente
nell'indole; e per cui la lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la
sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi alla francese, che
l'è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati che verun altro
a conoscere e gustar l'italiano, cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per
cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue antiche, e alle
stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino e il greco, di
quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di parentela, di
famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.
Quello che ho detto qui sopra dell'ardire,
della varietà, della libertà, si deve estendere a tutte le altre
qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell'italiana, e conseguenti
dall'esser esse modellate sull'immaginazione e sulla natura, come dire la
forza, l'efficacia, l'evidenza ec. ec. qualità che in parte derivano pure
dalle altre sopraddette, e scambievolmente l'una dall'altra, e perciò
mancano essenzialmente alla lingua francese.
Nè queste qualità, che dico
proprie delle lingue [1010]antiche, si deve credere ch'io lo dica
solamente in vista della greca e della latina, ma di tutte; ed alcune (come la
varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente. Esse qualità
infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v. p.994.) nella Sascrita, (v.
Annali di scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n.13. p.54. fine-55.)
(lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e
così in tante altre. Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi
sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura,
maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro.
(2. Maggio 1821.)
Della lingua volgare latina antica v.
Andrès, Dell'Orig. d'ogni letteratura ec. Parte 1. c.11. Ediz. Veneta
del Vitto. t.2. p.256-257. nota. La qual nota è del Loschi. Che
però egli s'inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di
Celso, scrittore non dell'antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea
latinità.
(4. Maggio 1821.)
Se i tedeschi oggidì hanno tanto a
cuore, e stimano così utile l'investigare e il conoscere fondatamente le
origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist. lib.4. cap.4.) si lagnava
che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette
origini; Dolendum ec. v. Andrès luogo cit. qui sopra, p.249.
quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua
latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di
perfetta [1011]cognizione; lingua così ricca, così colta,
così letterata ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti d'ogni
genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua teutonica
originaria della tedesca (Andrès, ivi, p.249.251.253. lin.6.14.18.
paragonando anche questi ult. tre luoghi colla p.266. lin.9) è
difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a conoscere se non in
piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e scarsissima di
monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun pregio.
(Andrès, 249-254.) Aggiungete che l'esser la lingua latina
universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in
parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte
ec. ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza. Se la
lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio
si potesse pur tutta conoscere ec. che cosa si potrebbe attingere da una lingua
dimenticata, e nota ai soli dotti ec. ec.? chi potrebbe intendere a prima
giunta le parole che se ne prendessero? ec. V. p.3196.
(4. Maggio 1821.)
Il sentimento moderno è un
misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la
santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la
santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si
può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo
santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e
preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4. Maggio 1821.)
Alla p.952. Meno straniera è la
lingua francese all'inglese (e perciò meno inetta ad esserle fonte di
vocaboli ec.) a cagione dell'affinità che questa seconda lingua prese
colla prima, dopo l'introduzione della lingua francese in Inghilterra, mediante
la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit. poco sopra, p.252.
fine, 255. fine-256. principio. Annali di Scienze e lettere. Milano. Gennaio
1811. n. 13. p.30. fine.) [1012]Laddove la lingua tedesca, secondo che
il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac. des Inscr. tome 41.) fra
tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più d'ogni altra
conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi
p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare
dell'antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza
nell'andamento, e maggiore affinità nella costruzione. (ivi p.253.
principio.).
(4. Maggio 1821.)
Alla p.995. principio. Cedette alla romana
in modo che nella moderna lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours
sur l'introduction de la langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de
l'Ac. des inscr. tome 41.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella
provenzale, al dire dell'Astruc. (Ac. des Inscr. tome 41.), appena
trovasi una trentesima parte di voci gallesi; siccome la lingua spagnuola
tutta figlia della latina, non più conserva alcun vestigio dell'antico
parlare di quelle genti. (Andrès, luogo cit. di sopra, p.252.).
(4. Maggio 1821.)
Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e
quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'una [1013]volgare,
e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo
che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l.c. p.256. nota),
che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia,
vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di
Milano, Quaderno 97. p.242.) è noto e certo, senza entrare in altre
quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l.c.) Del quale antico volgare latino
parlerò forse quando che sia, di proposito. Ora si veda quanto fosse
impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i
negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua
diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è
capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua, come ho
detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale.
Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua
indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma
era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir,
doppia ec.
(4. Maggio 1821.). V. p.1020. capoverso 1.
Alla p.999. Così chi sapesse l'antica
lingua teutonica, non intenderebbe perciò la tedesca, senza espresso e
fondato studio. (Andrès, loco cit. di sopra, p.1010; non ostante che la
tedesca, secondo il Tercier, ec. v. p. [1014]1012. principio.
(5. Maggio 1821.)
La vantata duttilità della
lingua francese (Spettatore di Milano. Quaderno 93. p.115. lin.14) oltre alle
qualità notate in altro pensiero, ha questa ancora, che non è
punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè duttilissima,
è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri, uniforme e
monotona. Cosa che a prima vista non par compatibile colla duttilità, ma
in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza,
dall'ardire, e dalla varietà.
(5. Maggio 1821.)
Alla p.991. Così Beda inglese,
nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l'anglo-sassone:
(Andrès, loc. cit., p.1010, p.255. fine) diversa dalla Celtica, stabilita
nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come
si rileva da quello ch'egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre
poeta improvvisatore nella sua lingua. (Andrès, p.254.) Cosa la
quale, se non altro, dimostra ch'ella era una lingua già ridotta a una
certa forma (lo riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli
Angli.).
(5. Maggio 1821.)
L'u francese, del quale ho discorso
in altro pensiero, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie
greche, come Marsiglia ec. [1015]Mediante le quali colonie ec. la lingua
e letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle
Gallie. V. il Cellar. dove parla di Marsiglia. E le Gallie ebbero scrittori
greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. V.
anche il Fabric. dove parla di Luciano, B. Gr. lib.4. c.16. §.1 t.3. p.486.
edit. vet.
Dalle quali osservazioni si potrebbe anche
dedurre che le parole francesi derivate dal greco, e che non si trovano negli
scrittori latini, e che io in parecchi pensieri, ho supposto che fossero nel
volgare latino, come planer ec. fossero venute nella lingua francese immediatamente
dalle antiche communicazioni avute colla lingua e letteratura greca. Questo
però non mi par molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu
spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la
latina vi prevalse interamente; e che della celtica ch'era pur la nazionale,
appena si trova vestigio nella francese (v. p.1012. capoverso 1.). Quanto meno
dunque si dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han
fatto un dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco. Inoltre
questo argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016]per
le parole italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate
dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre
però la lingua greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere
della lingua italiana, e vi si stabilì la latina: che per conseguenza vi
è tanto più vicina alla nostra, in ordine di tempo: anzi
immediatamente vicina. V. p.1040. fine. Del resto anche in Sicilia durò
la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo dopo il dominio romano.
Diodoro fu siciliano, e così altri scrittori greci. E vedi Porfir. Vit.
Plotin. cap.11. donde par che apparisca che in Sicilia a quel tempo vi fossero
cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire, in tutte le parti
dell'imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano ec. Cecilio
Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec. scrisse in greco.
V. Costantino Lascaris nel Fabricio, B. Gr. t.14. p.22-35. edit. vet. (6.
Maggio 1821.). Ma nel terzo secolo T. Giulio Calpurnio Siciliano, poeta
Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino. E così altri
Siciliani ec.
Un effetto dell'antico sistema di odio
nazionale, era in Roma il costume del trionfo, costume che nel presente sistema
dell'uguaglianza delle nazioni, anche delle vinte colle vincitrici, sarebbe
intollerabile; costume, fra tanto, che dava sì gran vita alla nazione,
che produceva sì grandi effetti, e sì utili per lei, e che forse
fu la cagione di molte sue vittorie, e felicità militari e politiche.
(6. Maggio 1821.)
[1017]Dalla mia teoria del piacere
seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi
intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può
concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze
umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche
già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e
distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre
ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro,
la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che la
realtà non può contenere. E ciò può vedersi
massimamente nell'amore, dove la passione e la vita e l'azione dell'anima
essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì
più vive e sensibili, e risaltano più che nelle altre
circostanze. Ora osservate che per l'una parte il desiderio e la speranza del
vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi
è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già
da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea infinita
(cioè più sensibilmente indefinita di quella che
presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir meno di qualunque [1018]altra
idea ec. Per l'altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile
dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la
sorgente de' maggiori piaceri che l'uomo possa provare.
(6. Maggio 1821.)
I filosofi moderni, anche i più veri
ed effettivi, e quelli che più mettono in pratica la loro filosofia,
sono persuasi che il mondo non potendo mai esser filosofo, bisogna che chi lo
è, dissimuli questa sua qualità, e nel commercio sociale si diporti
per lo più nello stesso modo, come se non fosse filosofo. All'opposto i
filosofi antichi. All'opposto Socrate, il quale si mostrò nel teatro al
popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici e tutti gli altri. Così
che i filosofi antichi formavano una classe e una professione formalmente
distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a differenza de'
moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono appresso a poco
intieramente colla moltitudine e colla universalità. Conseguenza
necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza
sui moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà,
un corpo visibile, una forma sensibile, un'azione allo [1019]stesso
pensiero, alla stessa ragione. Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si
contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell'interno, e non ha veruna
o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell'esteriore. E
generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l'apparenza e la
sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per
conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i
più ignoranti e inesperti, o più naturali.
(6. Maggio 1821.)
La lingua cinese può perire senza che
periscano i suoi caratteri: può perire la lingua, e conservarsi la
letteratura che non ha quasi niente che far colla lingua; bensì è
strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si vede che la letteratura cinese
poco può avere influito sulla lingua, e che questa non ostante la
ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse
sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta.
(7. Maggio 1821.)
Dalle osservazioni fatte da me sulla poca
attitudine dei francesi a conoscere e gustare le altre lingue, risulta che per
lo contrario gl'italiani sono forse i più atti del mondo al detto oggetto.
E ciò stante la moltitudine, dirò così, delle lingue che
la loro lingua contiene (laddove la francese [1020]è unica);
stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua varietà; stante la sua
libertà singolare fra tutte le lingue colte, come ho detto altrove, e
inerente al suo carattere; stante la sua arrendevolezza, la quale produce
l'arrendevolezza del gusto e della facoltà conoscitiva rispetto a quanto
appartiene alle altre lingue; mentre l'arrendevolezza della propria lingua,
viene ad essere l'arrendevolezza e adattabilità dell'istrumento che
serve a conoscere e gustare le altre lingue. E ciò tanto più si
deve dire degl'italiani rispetto alle lingue antiche, massime la latina e la
greca, sì per la conformità d'indole ec. che hanno colla nostra;
sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni
a queste lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra.
(7. Maggio 1821.)
Alla p.1013. fine. Si potrebbe dire che
anche la lingua greca pativa lo stesso inconveniente, e ancor peggio, stante la
moltiplicità de' suoi dialetti. Ma ne' dialetti era divisa anche la
lingua latina, come tutte le lingue, massimamente molto estese e divulgate, e
molto più, diffuse, come la latina, fra tanta diversità di
nazioni e di lingue. Il che apparisce non tanto dalla Patavinità
rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce
che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo
però esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli
scrittori latini di diverse nazioni e parti, (v. Fabric. [1021]B. G.
l.5. c.1. §.17. t.5. p.67. edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet); le quali si
possono anche inferire dalle diverse lingue nate dalla latina ne' diversi
paesi, ed ancora viventi (che dimostrano una differenza d'inflessioni, di
costrutti, di locuzioni ec. che se anticamente non fu tanta quanta
oggidì, certo però è verisimile che fosse qualche cosa, e
che appoco appoco sia cresciuta, derivando dalla differenza antica) quanto da
questo, che è nella natura degli uomini che una perfetta
conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo numero di
persone. (V. p.932. fine.) Così che io non dubito che la lingua latina
non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come la
greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori, e
applicati alla letteratura. V. qui sotto.
Del resto la lingua italiana patisce ora
(serbata la proporzione) l'inconveniente della lingua latina, forse più
che qualunque altra moderna colta. Ond'ella è per questa parte meno
adattata di tutte alla universalità, distinguendosi sommamente, non solo
il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto. Non era così anticamente,
ed allora l'italiano era più acconcio alla universalità, come lo
prova anche il fatto. Nel trecento lo scritto e il parlato quasi si confondevano.
In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento appresso a poco: e forse
potrebbero ancora confondersi, se i toscani scrivessero l'italiano o il
toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d'Italia, l'italiano non si parla.
(7. Maggio 1821.). V. p.1024. capoverso ult.
Al capoverso superiore. E perciò
appunto meno noti oggidì, a differenza dei greci. Nel modo che i
dialetti d'Italia o di Francia, posto il caso che la lingua italiana o francese
uscisse dell'uso, come la latina, non sarebbero conosciuti dai posteri, se non
confusissimamente; per non [1022]essere stati ridotti a forma, nè
applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura, salvo qualche poco in Italia.
Ma così poco e insufficientemente, che si può credere che gli
scritti italiani vernacoli, non passerebbero, e onninamente non passeranno (se
non forse pochissimi, come quelli del Goldoni e del Meli) alla posterità.
(8. Maggio 1821.)
Quanto la natura abbia proccurata la
varietà, e l'uomo e l'arte l'uniformità, si può dedurre
anche da quello che ho detto della naturale, necessaria e infinita
varietà delle lingue, p.952. segg. Varietà maggiore di quella che
paia a prima vista, giacchè non solo produce p.e. al viaggiatore, una
continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli
uomini, parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa
favorevolissima alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa
specie quelli che non sono intesi da noi, nè c'intendono: perchè
la lingua è una cosa somma, principalissima, caratteristica degli uomini,
sotto tutti i rapporti della vita sociale. Per lo contrario, lasciando le altre
cure degli uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le diverse
lingue; oggi, in tanto e così vivo commercio di tutte, si può
dir, le nazioni insieme, si è introdotta, ed è divenuta
necessaria, una lingua comune, cioè la francese; la quale [1023]stante
il detto commercio, e l'andamento presente della società, si può
predire che non perderà più la sua universalità, nemmeno
cessando l'influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec. della sua
nazione. E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco
appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l'imparasse
il fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua
strettamente universale.
(8. Maggio 1821.)
In proposito di quello che ho detto altrove,
che la lingua italiana non si è mai spogliata della facoltà di
usare la sua ricchezza antica, e la francese all'opposto, v. Andrès,
Stor. d'ogni letteratura. Venez. Vitto. t.3. p.95. fine-99. principio,
cioè Parte 1. c.3. e t.4. p.17. cioè Parte II. introduzione.
(8. Maggio 1821.)
Alcuni scrittori greci degli ultimissimi
tempi dell'impero greco, furono anche superiori in eleganza a molti de' tempi
più antichi ma corrotti, come gli scrittori latini del cinquecento in
Italia superarono bene spesso gli antichi latini posteriori a Cicerone e a
Virgilio. Dopo il secolo d'Augusto non è stato mai tempo in cui
sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con coltura e con
pulitezza la lingua de' romani. Andrès, l. cit. qui sopra, p.96.
(8. Maggio 1821.)
[1024]Sebbene la lingua Celtica
fosse così bella ed atta alla letteratura, e per conseguenza, formata, e
stabilita e ferma (espressioni del Buommattei in simil senso), come si vede
oggidì ne' monumenti che ne avanzano, e come ho detto p.994. fine;
sebben fosse così antica e radicata ec. nondimeno laddove i greci
ancorchè sudditi romani, e vivendo in Roma o in Italia, scrivevano
sempre in greco e non mai in latino, nessuno scrittor gallo, nelle medesime circostanze,
scrisse mai che si sappia in lingua celtica, ma in latino.
(9. Maggio 1821.)
Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro
scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse
gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o
sembianza d'imitazione, o di lingua o stile antiquato, come i nostri moderni
imitatori del trecento o del cinquecento). Nè Polibio, nè Dionigi
Alicarnasseo (sebben questi più degli altri, e gli può venir
dopo), nè Plutarco, nè lo stesso Luciano atticissimo ed
elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli
antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli
paragonati per questo capo.
(9. Maggio 1821.)
Alla p.1021. Così che la presente
corruzione della lingua italiana e parlata e scritta, aggiunge un nuovo e
fortissimo ostacolo alla sua universalità. Giacchè gli stranieri
non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana
scritta, se non l'antica, non passando [1025]e non meritando di passare
le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente letteratura (non
dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata, riconosciuta
e propria. D'altra parte non conoscono nè possono conoscere altra lingua
italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa dall'antica e
parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana. Lo stesso
appresso a poco si può dire dello spagnuolo.
(9. Maggio 1821.)
La cognizione stessa che i greci di
qualunque tempo, ebbero de' padri e teologi latini ec. soli scrittori latini
ch'essi conoscessero, non fu (se non forse ne' più barbari secoli di
mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini dei padri, ed autori
ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del cristianesimo, e negli ultimi
anni dell'impero greco (Andrès, loc. cit. da me p.1023. t.3. p.55.),
quando la dimostrarono principalmente in occasione del concilio di Firenze.
(ivi).
(9. Maggio 1821.)
Sebben l'uomo desidera sempre un piacere
infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque
quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si
tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi concepiamo
confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni [1026]più
vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che
l'infinità, o l'indefinito del materiale. Così che i nostri
desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono
mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la
più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che
noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser
altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell'animo
nostro finisce assolutamente sull'ultimo confine della materia, ed è
confinata intieramente dentro i termini della materia.
(9. Maggio 1821.)
Se i principi risuscitassero le illusioni,
dessero vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con
qualche sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni
costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero
una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche,
gli onori renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza;
tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita,
e diverrebbero grandi e forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali massimamente,
e fra queste singolarmente l'Italia e la Grecia (purchè tornassero ad
esser nazioni) diverrebbero un'altra volta invincibili. Ed allora [1027]si
tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale
sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre
non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de' motivi e
dell'alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra
per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura,
appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni genere di azione, di
energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle
regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura:
Quod latus mundi nebulae malusque
Juppiter urget.
Notabile che come gli antichi si
rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni al settentrionale,
così la civiltà ec. antica fu principalmente meridionale, la moderna
settentrionale. È già notato che la civiltà progredisce da
gran tempo (sin da' tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi
del sud. Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del
moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell'esser
tolta ai popoli meridionali l'attività e l'uso della molla principale
della loro vita, cioè della immaginazione; molla che quando
è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze
corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire i
popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi veramente i popoli settentrionali,
massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla, per
nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso
altrui, per mera influenza di coloro, ai quali essi ubbidiscono, se anche sono
comandati di mangiar della paglia.
(10. Maggio 1821.)
[1028]La cosa più
durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non
per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente
piacevole.
(10. Maggio 1821.
Delle prime grammatiche italiane v.
Andrès, Stor. della letteratura, ediz. di Venezia del Vitto. t.9. p.316.
fine. cioè Parte 2. lib.4. c.2.
(10. Maggio 1821.)
Del sogno d'istituire una lingua universale
v. Andrès, loc. cit. qui sopra, p.320. e il Locke del Soave t.2.
p.62-76. ediz. terza di Venezia 1794.
(10 Maggio 1821.)
La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti
dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita. Così Dante nell'italiano,
ec. Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri, sono i
più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita,
della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in
proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.)
Se la universalità di una lingua
dipendesse dalla diffusione di coloro a' quali essa è naturale, nessuna
lingua avrebbe oggi questa proprietà più dell'inglese,
giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più gran parte del
mondo, e sono più numerosi di quelli d'ogni altra nazione europea; e la
nazione inglese è la più viaggiatrice del mondo.
(11. Maggio 1821.)
[1029]La lingua latina
superò per esempio la lingua antica Spagnuola, la Celtica ec. mediante
la semplice introduzione nella Spagna, nelle Gallie ec. del governo, leggi,
costumi Romani. Ma a superar la greca non le bastò neppure il trasportar
nella Grecia la stessa Roma, e quasi la stessa Italia.
(11. Maggio 1821.)
Alla p.991. Eccetto il solo Fedro, o ch'egli
fosse Trace, come è creduto comunemente, (la lingua della letteratura in
Tracia era la greca, come mostrano Lino, Orfeo Traci, e il più recente
Dionigi famoso gramatico detto il Trace) o Macedone come vuole il Desbillons.
(Disputat. 1. de Vita Phaedri, praemissa Phaedri fabulis, Manhemii 1786. p. v.
seq.) La cui latinità, sebbene a molti non pare eccellente e
perfettissima certo però è superiore al mediocre.
(11. Maggio 1821.)
Alla p.245. La lingua francese si mantiene e
si manterrà lungo tempo universale, a cagione della sua struttura ed
indole. E certo però che l'introduzione di questa lingua nell'uso
comune, e il principio materiale della sua universalità, si deve ripetere
e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza
morale come la più civilizzata nazione del mondo, e per conseguenza
dalle sue mode, ec. o vogliamo dire dalla moda di esser francese, [1030]dal
regno e dittatura della moda, che la Francia ha tenuto e tiene ec.; e
principalissimamente ancora dalla sua letteratura, dalla estensione di lei, e
dalla superiorità ed influenza che ella ha acquistata sopra le altre
letterature, non per altro, se [non] per essere esclusivamente e propriamente
moderna, e perchè la letteratura precisamente moderna è nata (a
causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima che in qualunque
altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata più che in
qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in
qualunque altro paese. Ma la durata di questa universalità, quando anche
cessino le dette ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà
alla sua propria indole; laddove quella tal quale universalità
acquistata già dalle lingue spagnuola, italiana ec. sono finite insieme
colle ragioni estrinseche che la producevano, non avendo esse lingue
disposizione intrinseca alla universalità. Con queste
osservazioni rettifica quello che ho detto p.240-245. E in quanto alla
letteratura, ed alla influenza morale ec. ec. è certo che queste furono
le ragioni estrinseche della universalità della lingua greca, la
quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche, mancanti
affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale, [1031]nè
durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse delle ragioni
estrinseche di universalità.
(11. Maggio 1821.). V. p.1039. fine.
Che la lingua italiana massimamente e
proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò
poi, sieno derivate dall'antico volgare latino, si dimostra non solo coi fatti
oscuri, e coll'erudizione recondita, ma col semplice ragionamento sopra i fatti
notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è
derivata dall'antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana
è una lingua volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua
scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta
partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua
latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva
sì dall'indole del latino scritto che non poteva mai esser volgare,
sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana
è derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente
scritta o letterata, ma volgare e parlata, non può esser derivata dal
latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.
Da che ci era un latino volgare assai
differente dallo scritto, è costante che l'italiano volgare derivato dal
latino, non può esser derivato dallo scritto, ma da quello volgare e
parlato.
[1032]Questo ragionamento serve per
tutte le lingue derivate dal latino, e per tutte quelle derivate da qualunque
altra lingua antica, dove lo scritto differisse notabilmente dal parlato. Ma
serve specialmente per l'italiano, ch'è la lingua volgare di quello
stesso paese a cui fu naturale il latino.
Qual lingua avrà parlato l'Italia ne'
secoli bassi? forse il latino scritto? Chi può credere
quest'assurdità che i secoli barbari parlassero meglio de' civili? Forse
le lingue de' popoli settentrionali, suoi conquistatori? 1. È noto e
costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi popoli in luogo
d'introdurre la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi e adoperavano
quella di costoro. V. Andrès, t.2.
p.330.
2. Di parole settentrionali ognuno sa quanto
poche ne rimangano nell'italiano, e così pure nel francese e nello
spagnuolo, e come il corpo, la sostanza, il grosso, il fondo principale e
capitale di queste lingue, e massime dell'italiano, derivi dal latino, e sia
latino.
Dunque l'Italia ne' secoli bassi parlò
certamente il latino. Latino corrotto, ma latino. Qual latino dunque? Lo
scritto no: dunque il volgare, cioè la sua lingua di prima, il suo
volgare di prima. Giacchè la sua lingua, il suo volgare di prima, non
era il latino [1033]scritto, nè poteva essere, ma il latino
volgare. Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente, ma la
sostanza, il grosso ec. della lingua allora parlata, doveva esser quello di
detto volgare, da che oggi il grosso dell'italiano è derivato dal
latino, ed è latino.
Comunemente pare che si supponga che
s'interrompesse o affatto o quasi affatto l'uso volgare del latino in Italia,
restandone solo l'uso civile, religioso e letterario, e che da quest'uso, e dal
latino scritto ec. rinascesse poi di nuovo l'uso di una lingua volgare latina,
o derivata dal latino, cioè dell'italiana; e così questa venga ad
essere derivata dal latino scritto, sia per mezzo del provenzale che nascesse
prima dell'italiano, o per qualunque altro mezzo.
Queste sono favole assurdissime e (oltre che
non hanno alcun fondamento) contrarie alla natura delle cose.
Dovunque il latino non è stato in uso
se non come lingua civile, religiosa, scritta, letteraria ec. le lingue
nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo che dal latino scritto ec.
derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua figlia della latina, la lingua
volgare ha per lo contrario scacciata la latina anche dalla scrittura, e dall'uso
letterario e civile. In Germania, [1034]in Inghilterra, in Polonia dove
ne' secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia anche dopo), ma non mai come
lingua parlata, e solo come civile, religiosa, letteraria; non vi è nata
dal latino nessuna lingua; restano le antiche lingue nazionali, restano le
lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue derivate dalle dette
naturali e volgari, e la latina è sparita dall'uso civile e dal
letterario. Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino fu introdotto
solamente come lingua del governo ec. v. p.982.983. Lo stesso pure dell'italiano,
dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono la stessa lingua
lor madre, dall'uso civile, politico, letterario. E questo si può vedere
pure nell'esempio della lingua francese introdotta come civile ec. in
Inghilterra per la conquista de' Normanni (v. p.1011. fine); dell'arabica
introdotta già nello stesso modo in parte della Spagna (Andrès 2.
263.-273.), e poi similmente scacciate dalla letteratura e da ogni luogo. V.
pure gli Ann. di Sc. e lett. num.11. p.29.32. E così porta la natura
delle cose, che non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo, e
s'introduca nel popolo, ma quella del popolo vinca quella degli scrittori, i
quali scrivono pure pel popolo e per la moltitudine; non la scritta scacci la
parlata, ma la parlata superi presto o tardi, ed uniformi più o meno la
scritta a se medesima. V. p.1062.
Se la lingua gotica o qualunque altra lingua
settentrionale o no, si fosse stabilita veramente in Italia come lingua volgare
e parlata, restando ancora la latina come scritta ec.; oggi noi parleremmo e
scriveremmo quella o quelle tali lingue, e non una lingua derivata dalla
latina.
Ma accadendo il contrario è manifesto
che la lingua volgare d'Italia, fu senza interruzione latina; e se fu tale
senza interruzione fino a noi, dunque fu senza interruzione quel latino volgare
più o meno alterato, che si parlava anticamente, e non già lo [1035]scritto;
dunque noi oggi parliamo una lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo
capitale appartiene, anzi è lo stesso che quello dell'antico volgare
latino.
Discorro allo stesso modo dello Spagnuolo e
del francese. Se queste lingue sono volgari, e derivano dal latino, dunque dal
latino parlato, e non dallo scritto; dunque dal latino volgare; dunque la
lingua latina si stabilì nella Spagna e nella Francia come lingua
parlata, e non solamente come lingua civile, governativa, letteraria (e
così è infatti, e nella lingua francese restano pochissime parole
Celtiche, nella spagnuola nessun vestigio dell'antica lingua di Spagna:
Andrès, 2. 252.); dunque il volgare latino più o meno alterato da
mescolanza straniera, si mantenne senza interruzione in Ispagna e in Francia
(siccome in Valacchia) dalla sua prima introduzione, sino al nascimento della
lingua spagnuola e francese, e per mezzo di queste sino al dì d'oggi.
Dell'antica origine della presente lingua spagnuola, e come i più vecchi
monumenti che ne restano, siano, come quelli della lingua provenzale, francese
ec. conformissimi al latino, v. un esempio recato in quella lingua
dall'Andrès 2.286.fine.
Conchiudo. Se la lingua italiana,
ch'è volgare, è derivata dal latino, ella dunque non può
essere [1036]derivata dal latino scritto sì diverso dal parlato,
ma dirittamente viene dall'antico volgare latino, ed è nella sostanza e
nel suo fondo principale, lo stesso che il detto volgare. E lo è per la
circostanza della località (lasciando ora le prove di fatto e di
erudizione) più di quello che lo siano lo spagnuolo e il francese.
Questo ragionamento però vale per qualunque lingua derivata sì
dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e ciascuna lingua
moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal volgare di
essa lingua, e non dallo scritto. Che se la lingua tedesca, a detta del
Tercier, è fra tutte ec. v. p.1012. principio, questo accade
perchè la lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non
bene determinata e formata alla scrittura, come lingua illetterata
ancorchè scritta, pochissimo o nulla differiva dalla parlata e volgare.
Ma altrettanta e forse maggiore uniformità si vedrebbe fra l'italiano e
l'antico volgare latino, se di questo si avesse maggior notizia. E dico
maggiore uniformità non senza ragione di fatto, considerando la molta differenza
che passa poi realmente fra l'odierno tedesco e il teutonico (Andrès, 2.
249-254.); e la somma rassomiglianza che io in molti luoghi ho cercato di provare,
fra l'italiano, [1037]e il latino volgare antico. Così che la
lingua italiana in vece di essere la più moderna di tutte le viventi
Europee, come pretendono, (Andrès, 2.256. e passim) si verrebbe a
conoscere o la più antica, o delle più antiche, perdendosi
l'origine di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto, sebbene
alterato) nella oscurità delle origini dell'antichissimo e primo latino.
A differenza dello spagnuolo e del francese, perchè in queste nazioni
l'uso del volgare latino, fu certo molti e molti secoli più tardo che in
Italia.
(12. Maggio 1821.)
Basta vedere il principio dell'Orazione
attribuita a Demostene, dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese,
per conoscere come fosse fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza
delle nazioni, e come si aiutassero delle favole, delle tradizioni ec. per
persuadersi, e tener come cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la
propria nazione fosse di genere e di natura, e quindi di diritti ec. ec.
diversa dalle altre. Persuasione utilissima e necessaria, come altrove ho dimostrato.
(12. Maggio 1821.)
Una lingua non si forma nè stabilisce
mai, se non applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall'esempio
di tutte. Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai
formata nè stabilita, [1038]e molto meno perfetta. Come dunque la
perfezione dell'italiana starà nel 300? Altro è scrivere una
lingua (come si scriveva l'antica teutonica, non mai ben formata nè
perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l'italiano non
fu applicato che nel 500. Nel 300. veramente e propriamente da tre soli
(lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa
chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una lingua
fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della perfezione
della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec. ma nel tempo dei
primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello
d'Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone
(contemporanei) giacchè allora il latino fu applicato generalmente a
lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300. E così
dico pure delle altre lingue o morte, o viventi.
(12. Maggio 1821.). V. p.1056.
Nei tempi bassi furono veramente i
tedeschi e gl'inglesi, ossia la parte colta di queste nazioni, che scrivevano
il latino, se ne servivano per le corrispondenze, lettere ec. e parlavano le
lingue nazionali. E così pure gl'italiani, i francesi, gli spagnuoli,
che parlavano già un volgare assai diverso dal latino scritto. Ma
questa:
1.E una che
appartenendo allo scritto e non al parlato, non entra nel mio discorso. E la [1039]universalità
del latino, ch'era allora universale in occidente, era universalità che
appartenendo alla sola scrittura, non ha che fare con quella che rende gli uomini
parlatori di due lingue, cioè veramente , della
quale sola io discorro.
2. La lingua latina era allora veramente
morta, appresso a poco come oggi, non essendo parlata, ma solo scritta. E una
lingua solamente scritta è lingua morta. Ora, quantunque l'uso di una
tal lingua morta fosse allora più comune che oggidì, e
così anche fosse dopo il risorgimento delle lettere; la universalità
delle lingue morte che si studiavano e si studiano o per usi letterarii, o per
vecchia costumanza, non entra nel mio discorso, il quale tratta solo della universalità
delle lingue vive. Così anche oggi si potrebbe chiamare presso a poco
universale la lingua greca in Europa, e ne' paesi colti, ma come lingua morta.
(12. Maggio 1821.)
Alla p.1031. principio. Come la letteratura,
così la lingua francese è precisamente moderna, sì per
l'influenza somma nella lingua della letteratura che la forma (e nel nostro
caso l'ha singolarmente formata e determinata, mutandola assai da quella ch'era
da principio, e dalla sua stessa indole primitiva); sì per l'influenza
immediata sulla lingua francese delle stesse cagioni che hanno influito sulla
letteratura francese, e formatala. [1040]Or come la lingua francese
è strettamente moderna, e quindi strettamente propria all'odierna universalità,
per esser modellata sulla ragione, e oggi (secondo il vero andamento del
secolo) quasi sulla matematica; così la lingua greca era propria alla
universalità de' tempi suoi, massime fra' popoli del meriggio orientali
e occidentali, che sono e furono sempre più immaginosi; e ciò per
essere strettamente antica, e questo per essere strettamente modellata (nel
perfetto) sulla natura. A differenza della latina modellata piuttosto
sull'arte. E si può dire che la perfezione della lingua greca era
conforme, ed aveva il suo fondamento nella natura, non essendo perciò
meno perfetta, nè artificiata; e la perfezione della latina era conforme,
ed aveva il suo modello, il suo tipo, il suo fondamento, la sua norma
nell'arte.
(12. Maggio 1821.)
Alla p.1016. In ogni modo le parole greche
che si trovano nell'uso familiare e popolare, italiano o francese, (massime se
non si trovano presso gli scrittori latini) non possono esser derivate se non
dall'antico volgare latino, da qualunque parte esso le abbia ricevute, o dalla
Grecia direttamente, e ab antico, per qualunque mezzo; o da un'origine comune
con quella della lingua greca, ovvero dalle colonie greche d'Italia o delle
Gallie, o da qualunque [1041]comunicazione avuta colla lingua greca.
Come infatti le dette parole avrebbero potuto pervenire a noi, senza passare
pel volgare latino? Quando la lingua greca si spense nelle Gallie assai per
tempo, e così pure in Italia (sebben forse più tardi p.e. in
Sicilia, che nelle Gallie); ed all'incontro il volgare latino stabilitosi in
detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e dura dal suo
stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque, le parole
greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie de'
soli scrittori) nell'italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo);
quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi
come loro primitive; dovettero essere necessariamente nell'antico volgare
latino, che sta di mezzo fra l'uso del greco in alcuni paesi d'Italia o di
Francia, e l'uso dell'italiano o del francese: in maniera che le dette parole
hanno dovuto passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere
all'antico volgare latino. Nè dopo la grande e principale alterazione di
questo volgare, e il nascimento de' volgari moderni che ne derivano, l'Italia o
la Francia hanno avuto colla lingua greca, (e massime coll'antica, o anche antichissima,
alla quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042]comunicazione
veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune
parole e modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo
uso; qualità osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran
rilievo presso loro.
Resta dunque inconcusso il mio discorso, e
la mia proposizione, che le parole o modi italiani o francesi o spagnuoli, che
derivano dal greco, che spettano all'uso volgare, al capitale antico, primitivo,
proprio di dette lingue, che non si trovano presso gli scrittori latini,
debbono essere stati indispensabilmente ed esserci venuti dal volgare antico
latino, derivando le dette lingue dal latino, anzi da esso volgare, e non
potendo aver preso nessuna parola o modo volgare, o primitivo loro,
immediatamente dalla lingua greca.
Il qual discorso, se si tratta di parole o
modi italiani, ha la sua piena forza, e dimostra l'esistenza di dette parole o
modi nell'antico volgare latino proprio, cioè in quello che si
parlava anticamente in Italia. Trattandosi di parole francesi, lo può
solamente dimostrare, rispetto all'antico volgare latino che si parlava nelle
Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva, come dialetto)
da quello parlato in Roma o in Italia. Vale a dire che in quel volgare, vi
poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie
greco-galliche, il quale non [1043]si trovasse nel volgare latino di
Roma, o d'Italia. Massimamente se le dette parole non si trovano oggi se non se
nella lingua francese, e se mancano all'italiana. E così anche
viceversa, se qualche parola greca passò in quest'ultimo volgare dalle
Colonie greco-italiane, o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec. ec.
dopo l'introduzione del volgare latino nelle Gallie. (13. Maggio 1821.).
Giacchè le altre parole greche introdotte già nel latino prima di
quel tempo, ancorchè venute dalle colonie greche d'Italia, non fa
maraviglia se passarono col latino anche in Francia ed altrove.
L'Inghilterra in dispetto del suo clima,
della sua posizione geografica, credo anche dell'origine de' suoi abitanti,
appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale. Essa ha
del settentrionale tutto il buono (l'attività, il coraggio, la profondità
del pensiero e dell'immaginazione, l'indipendenza, ec. ec.) senz'averne
il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità, la politezza,
la sottigliezza (attribuita già a' Greci: v. Montesquieu Grandeur etc.
ch.22. p.264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova
simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e
fecondità d'immaginazione, e simili buone qualità, senz'averne il
torpore, la inclinazione all'ozio o alla inerte voluttà, la mollezza,
l'effeminatezza, la corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio
pacifico ec. ec. Basta paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o
russo ec. per conoscere l'enorme differenza che passa fra il carattere inglese
e il settentrionale. E siccome l'Italia non ha milizia, e la Spagna non la sa
più adoperare, ec. non v'è milizia in Europa più
somigliante alla francese dell'inglese, più competente colla francese,
per l'ardore e la vita individuale, la forza morale [1044]la
suscettibilità ec. del soldato, e non la semplice forza materiale, come
quella de' tedeschi, de' russi ec. V. p.1046.
Tutto ciò verrà forse da altre
cagioni, ma forse anche dal loro governo e costituzione politica, stata sempre
più simile alle antiche di qualunque altra Europea, fino al dì
d'oggi ch'è stata appresso a poco adottata da' francesi, dov'è
troppo presto per vederne gli effetti. Ora egli è certo che l'antico
è sempre superiore al moderno in quanto spetta alla immaginazione, e che
in questa, anche gli antichi settentrionali che cedevano ai meridionali
antichi, erano però ben superiori ai meridionali moderni.
(13. Maggio 1821.)
La rimembranza del piacere, si può
paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la
speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il
ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver
provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo,
perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova
egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può
conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del
godimento.
(13. Maggio 1821.)
[1045]Chi vuol vedere quanto abbia
la natura provveduto alla varietà, consideri quanto l'immaginazione sia
più varia della ragione, e come tutti si accordino in ciò che
spetta o è fondato su questa, e viceversa. Per esempio osservi come
fossero varie le lingue antiche architettate sul modello della immaginazione, e
quanto monotone quelle moderne che più sono architettate sulla ragione.
Osservi come una lingua universale debba esser modellata e regolata in tutto e
perfettamente dalla ragione, appunto perchè questa è comune a
tutti, ed uguale e uniforme in tutti.
(13. Maggio 1821.)
La Francia è per geografia la
più settentrionale delle regioni Europee che si comprendono sotto la
categoria delle meridionali. Così dunque la sua lingua partecipa di
quella esattezza, di quella, per così dire, pazienza, di quella monotonia,
di quella regolarità, di quella rigorosa ragionevolezza che forma parte
del carattere settentrionale. E così pure la sua letteratura in gran
parte filosofica, e generalmente il suo gusto letterario, sebben ciò
derivi in gran parte dall'epoca della sua lingua e letteratura; epoca moderna,
e per conseguenza epoca di ragione. Come per lo contrario l'Inghilterra
ch'è per carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali,
(v. p.1043.) ha una lingua delle [1046]più libere d'Europa colta
per indole; e per fatto la più libera di tutte (Andrès, t.9. 290
291. 315-316.); e parimente la letteratura forse più libera d'Europa, e
il gusto letterario ec. Parlo della sua letteratura propria, cioè della
moderna, e dell'antica di Shakespeare ec. e non di quella intermedia presa da
lei in prestito dalla Francia. E parlo ancora delle letterature formate e stabilite
ed adulte; e non delle informi o nascenti.
(13. Maggio 1821.)
Alla p.1044. Ciò è manifesto
anche dal fatto, dalla continua e famosa gara della nazione inglese colla
francese, dalle molte vittorie, e talvolta formidabili, degl'inglesi sopra i
francesi, riportate massime anticamente ec. ec. e dall'essere stata forse
l'Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l'unica potenza che si sia battuta
a solo a solo colla francese, con costante competenza, ancorchè tanto
inferiore di popolazione, e considerando specialmente le altre potenze di forze
uguali all'Inghilterra, fra le quali essa si troverà l'unica capace di
far fronte per lo passato alla Francia.
(14. Maggio 1821.)
Principalissime cagioni dell'essersi la
lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel
fine della lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua ricchezza, e la
sua libertà d'indole e di fatto. La qual libertà produce in buona
parte la ricchezza; la qual libertà è la più [1047]certa,
anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque
lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante
l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente
declinare dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la
sua naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se
fra le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi
si veda quanto bene provveggano alla conservazione della purità del
nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per buona
fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle
principali parti, e uno de' caratteri distintivi. E ciò è
naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione nel
trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e
l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e
scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo,
rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano
tempo il principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima
coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può di gran lunga
mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e
numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E
questa antichità [1048]di formazione e di coltura,
antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui
l'indole primitiva della lingua italiana formata, è più libera
forse di quella d'ogni altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser
più naturale, più immaginosa, più varia, più
lontana dal geometrico ec.).
Tutte le lingue non formate sono libere per
indole, e per fatto. Tutte le lingue nella loro formazione primitiva, sono parimente
libere, qual più qual meno, e per indole e per fatto. La quale
libertà vengono poi perdendo appoco appoco secondo le circostanze della
loro formazione. Tutte ne perdono alquanto (e giustamente) coll'essere ridotte
a forma stabile, ma qual più qual meno, e ciò dipende dal carattere
sì dei tempi come delle nazioni e degli scrittori che le formano.
Parlando dunque delle lingue dopo che sono
perfettamente formate, io trovo rispetto alla libertà, tre generi di
lingue. Altre libere per natura e per fatto, come l'inglese. Altre libere per
natura, ma non in fatto, come si vuole oggi ridurre la nostra lingua da'
pedanti, non per altro se non perchè i pedanti non possono mai conoscere
fuorchè la superficie delle cose, e susseguentemente non hanno mai
conosciuto nè conosceranno l'indole della lingua italiana. Una [1049]tal
lingua, malgrado la libertà primitiva e propria della sua formazione, e
del suo carattere formato, è soggetta niente meno a corrompersi,
non usando nel fatto, di questa libertà, secondo il genio proprio suo;
ed a perdere la prima e nativa libertà, per usurparne poi
necessariamente una spuria ed impropria ed aliena dal suo carattere, come oggi
ci accade. E già nel 500. si era cominciata a dimenticare da alcuni
(come dal Castelvetro ec.) questa qualità della nostra lingua, dico la
libertà, cosa veramente accaduta a quasi tutte le lingue, e spesso ne'
loro migliori secoli, appena vi s'è cominciata a introdurre, la sterile
e nuda arte gramaticale, in luogo del gusto, del tatto, del giudizio, del
sentimento naturale e dell'orecchio ec.
Il terzo genere è delle lingue non
libere nè per natura nè in fatto, come la francese. Lingue che
vanno necessariamente a corrompersi. La lingua latina, la cui formazione non le
diede un'indole libera (v. p.1007. fine-1008.), si corruppe con maravigliosa
prestezza. Ed osservo nella poetica d'Orazio che a' suoi tempi la novità
delle parole era contrastata agli scrittori latini, come oggi agli italiani da'
pedanti, cosa che io non mi ricordo [1050]mai di aver notato in nessun
scrittor greco in ordine alla lingua greca (e lo stesso dico d'ogni altra
lingua antica). Al più i gramatici e filologi greci non molto antichi
nè degli ottimi tempi della favella, faranno gli smorfiosi intorno alla
purità dell'Atticismo, e all'escludere questa o quella parola o frase da
questo o quel dialetto, riconoscendola però per greca, e non
escludendola dalla scrittura greca, come fanno i toscani rispetto all'italiana.
Diranno che la lingua francese, la
più timida, serva, legata di tutte quante le lingue antiche e moderne, colte
o incolte, si mantiene tuttavia pura. Rispondo
1. La lingua francese schiava rispetto ai
modi è liberissima (sia per legge o per fatto) nelle parole.
2. La servilità di una lingua
è incompatibile colla durata della sua purità, a causa della
inevitabile mutazione e novità delle cose. Ma la lingua francese formata
com'è oggi, è ancor nuova. Le circostanze hanno voluto che ella
ricevesse una forma stabile in un tempo moderno, e da questa forma fosse
ridotta ad esser lingua precisamente di carattere moderno. Non è dunque
maraviglia se le cose moderne non la corrompono. La quale modernità [1051]di
formazione, fu anche la causa della sua servilità. Se fosse stato
possibile che la lingua francese ricevesse una forma di genere simile a quella
che ha presentemente, e divenisse così servile, al tempo in cui fu
formata p.e. la lingua italiana; ella sarebbe oggi così barbara, e
sformata; avrebbe talmente perduta quella tal forma ed indole, che non si
potrebbe più riconoscere. Come infatti la lingua francese così formata
come fu dall'Accademia, non si riconosce dall'antica; e gli Accademici (o
l'età e il genio d'allora) per ridurla così doverono trasformarla
affatto dall'antica sua natura (v. Algarotti Saggio sulla lingua francese); il
che sarebbe stato insomma lo stesso che guastarla, e la lingua francese si
chiamerebbe oggi corrotta, se prima di quel tempo ella avesse mai ricevuta una
forma stabile. E quantunque non l'avesse ricevuta, e gli scritti anteriori non
sieno per lo più di gran pregio, nondimeno il solo Amyot, tenuto anche
oggi per classico, mostra che differenza passi tra l'antica e primitiva e
propria indole della lingua francese e la moderna; mostra che se quella lingua
fosse stata mai classica, (il che non mancò se non dalla copia di tali
scrittori) la presente sarebbe barbara; mostra quanto quella lingua fosse
libera nelle forme e nei modi ec. mostra la differenza delle nature de' tempi
anche in Francia ec. E notate che anche Amiot, come pure Montagne, Charron ec.
furono nel secolo del 500. epoca della vera formazione delle lingue italiana e
spagnuola, e della letteratura di queste nazioni. E ben credo che lo stile
d'Amyot formi la disperazione de' moderni francesi [1052]che si studino
d'imitarlo (v. Andrès, t.3. p.97. nota del Loschi), giacchè la
loro lingua ne ha perduta interamente la facoltà, e v. il luogo di
Thomas che ho citato altrove.
3. Ho già detto in altri luoghi come
la lingua francese vada effettivamente degenerando dagli stessi scrittori
classici del tempo di Luigi
Dell'ignoranza del latino presso i greci v.
Luciano, Come vada scritta la storia.
(14. Maggio 1821.)
Alla p.988. Citavano ancora non rare volte i
latini (come Cicerone nel libro de Senectute) passi anche lunghi di scrittori
greci recati da essi in latino. Non così i greci viceversa, se non
talvolta (e in tempi assai posteriori anche ai principii della Chiesa greca)
qualche passo di Padri o scrittori ecclesiastici latini rivolto in greco; ma
ben di rado, massime in proporzione delle molte autorità di padri greci
ec. che recavano i latini, [1053]voltandoli nel loro linguaggio. E
generalmente l'uso de' padri ec. latini nella Chiesa e scrittori greci, fu
sempre senza paragone minore di quello delle autorità greche nella
Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non ostante la riconosciuta supremazia
della Chiesa Romana.
(15. Maggio 1821.)
Considerando per una parte quello che ho
detto p.937. seguenti, intorno alla naturale ristrettezza e povertà
delle lingue, e come la natura avesse fortemente provveduto che l'uomo non
facesse fuorchè picciolissimi progressi nel linguaggio, e che il
linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per servire alle sole
necessità estrinseche e corporali della vita; e per l'altra parte
considerando le verissime osservazioni del Soave (Appendice 1. al capo 11.
Lib.3. del Saggio di Locke) e del Sulzer (Osservaz. intorno all'influenza
reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla ragione, nelle
Memorie della R. Accadem. di Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti,
Milano 1775. vol.4. p.42-102.) intorno alla quasi impossibilità delle
cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e perfezione
ec. delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec. del linguaggio;
considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e principalissima
prova, di quanto il nostro presente [1054]stato e le nostre cognizioni
sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli
la natura vi avesse posti.
(15. Maggio 1821.)
Come senza una lingua sono quasi impossibili
le cognizioni e nozioni, massime non corporee, o immateriali, e senza una
lingua ricca e perfetta, la moltitudine e perfezione delle dette cognizioni ed
idee, e il perfezionamento o il semplice incremento delle lingue conferisce
assolutamente a quello delle idee, conforme ha evidentemente dimostrato, oltre
a tanti altri e più antichi da Locke in poi, (Sulzer, l. cit. qui
dietro, p.101. nota del Soave) e massime più moderni, il Sulzer nelle
Osservazioni citate nella pag. qui dietro; così proporzionatamente senza
una lingua (propria) arrendevole, varia, libera ec. è difficilissima la
perfetta cognizione, e il perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle
altre lingue, mancando o scarseggiando l'istrumento della concezione dei segni,
come nell'altro caso sopraddetto, l'istrumento della concezione chiara e fissa,
determinata e formata delle cose e delle idee, e della memoria di dette
concezioni.
(15. Maggio 1821.)
Non solo la greca parola , come dissi altrove, deriva
da spirare ec. ma anche la latina animus e quindi anima da
vento.
V. Sulzer, luogo cit. alla pag. qui dietro, p.62. E l'antico significato di
vento nella parola anima fu spesso usato da' latini. (Credo massime i
più antichi, o loro imitatori.) V. il Forcellini, e il Saggio sugli
Errori popol. degli antichi.
(15. Maggio 1821.)
[1055]Couper dee
venire da .
(16. Maggio 1821.)
Quanto sia vero che la scrittura Chinese si
possa quasi perfettamente intendere, senza saper punto la lingua, v. se vuoi,
Soave, Append. 2. al Capo 11. Lib.3. del Compendio di Locke, Venez. 3a
ediz. t.2. p.63. principio. (16. Maggio 1821.).
L'incredulità in qualunque genere
è spesso propria di chi poco sa, e poco ha pensato, per lo stesso motivo
per cui questi tali non conoscono o si trovano imbrogliati nel trovar la
cagione o il modo come possano esser vere tante cose che non possono negare.
Conoscendo poche cose conoscono un piccol numero di cagioni, un piccol numero
di possibilità, un piccol numero di maniere di essere, o di accadere ec.
un piccol numero di verisimiglianze. Chi oltre il sapere e il pensar poco, non
ragiona, facilmente crede, perchè non si cura di cercare come quella
cosa possa essere. Ma chi, quantunque sapendo e pensando poco, tuttavia
ragiona, o si picca di ragionare, non vedendo come una cosa possa essere, e
sapendo che quello che non può essere, non è, non la crede; e
questo non in sola apparenza, o per orgoglio, affettazione di spirito ec. ma
bene spesso in buona coscienza, e naturalmente.
(17. Maggio 1821.)
[1056]Alla p.1038. La lingua latina
prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente insigni, e come
scrittori di letteratura, e come scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel
loro genere furono così perfetti che la letteratura romana non ebbe poi
nessun altro da vincerli. Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente
i Gracchi (o C. Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni
comici elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora
ammiriamo, l'uno non mai superato in seguito da nessun latino nella forza
comica, l'altro parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta
e nativa eleganza. E certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al
suo stesso tempo, andò piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse
il grado di perfezione a cui era stata portata da' suoi antenati. E pure chi
mette la perfezione della lingua latina, o la sua formazione ec. piuttosto nel
secolo di Terenzio, che in quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un
secolo dopo Terenzio, si lagnava, com'è noto, della povertà della
lingua latina.
Quanto più dunque dovrà valere
il mio argomento per gli scrittori del 300. De' quali eccetto 3. soli, nessuno
appartiene alla letteratura.
Ma non ostante la vastissima letteratura del
500. non però la lingua italiana si potè ancora nè si
può dire perfetta. Non basta l'applicazione di una lingua [1057]alla
letteratura per perfezionarla, ed interamente formarla. Bisogna ancora che sia
applicata ad una letteratura perfetta, e perfetta non in questo o quel genere,
ma in tutti. Altrimenti ripeto che il secolo principale della lingua latina,
non sarà quello di Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo
più antico e primitivo, e meno influito da commercio straniero.
Ora lascerò stare che in quelle
medesime parti di letteratura che più soprastanno, e più furono
coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su tutti i
forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e
raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese
effettivamente a modelli, da' nostri scrittori: e per conseguenza propriamente
parlando, sono ancora imperfette. Ma la nostra eloquenza, e più la
nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio)
non sono solamente imperfette, ma neppure incominciate. Quanti altri generi di
letteratura, (prendendo questa parola nel più largo senso), e di poesia
come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi!
Lasciando gl'infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l'Italia,
a parere del Verri (Pref. al Senof. del Giacomelli), [1058]e della
universalità degl'italiani, è senza emola, eccetto il
Petrarca che spetta piuttosto all'elegia, chi può mostrare all'Europa
senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me)
mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.
Oltracciò supponendo che i generi
coltivati da noi nel 500. o anche nel 300. fossero tutti perfetti, chi non sa
che uno stesso genere cambiando forma ed abito, e quasi genio e natura, col
cambiamento inevitabile degli uomini e de' secoli, la perfezione antica non
basta ad una lingua nè ad una letteratura, s'ella non ha pure una perfezione
moderna in quello stesso genere? Se Lisia fu perfetto oratore al tempo de' 30.
tiranni, Demostene ed Eschine non meno perfetti oratori a' tempi di Filippo e
di Alessandro, appartengono ad una specie del genere oratorio sì diversa
da quella di Lisia, che si può dire opposta (, e il ); e certo
assolutamente parlando, lo vincono di molto in pregio ed in fama. E potremmo
recare infiniti esempi di tali rinnuovate e rimodernate
perfezioni di uno stesso genere, nelle medesime letterature antiche, e nella
stessa italiana dal 300 al 500, e forse anche dentro i limiti dello stesso 500.
Ora se la letteratura italiana non ha perfezione [1059]moderna in nessun
genere, anzi se l'Italia non ha letteratura che si possa chiamar moderna, se
ec. (ricapitolate il sopraddetto) come dunque la lingua italiana si
dovrà stimare perfetta, e così perfetta che non le si possa
niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza (cosa che non accade a
nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente perfetta); quando
è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non per mezzo della
letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende capitalmente dalla
letteratura?
(17. Maggio 1821.)
La scrittura chinese non è veramente
lingua scritta, giacchè quello che non ha che fare (si può dir
nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di segni; come non
è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i pensieri
del pittore. Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può
influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi
progressi.
(18. Maggio 1821.)
Non è egli un paradosso che la
Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell'ateismo, o
generalmente, della incredulità religiosa? Eppure io così la
penso. L'uomo naturalmente non è incredulo, perchè non ragiona
molto, e non cura gran fatto delle [1060]cagioni delle cose. (V. p.1055.
ed altro pensiero simile, in altro luogo.) L'uomo naturalmente per lo
più immagina, concepisce e crede una religione, cosa dimostrata dall'esperienza,
nello stesso modo che immagina, concepisce e crede tante illusioni, ed alcune
di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da'
diversi uomini naturali in diversissime forme. La metafisica che va dietro
alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre
immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore,
sono i fonti della incredulità. Ora queste cose furono massimamente
propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che insegnarono ed avvezzarono
gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar più
giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause
occulte, all'esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali,
delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. V. p.1065. capoverso 2. E sebben
tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le religioni
un poco formate si possono considerare come cause dell'irreligione, ossia del
loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell'uomo, il quale non
sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa
qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione
giudaica [1061]e Cristiana.
Ed è veramente curioso il considerare
in questa medesima Religione, ed in questo medesimo nostro tempo, le fasi, le
epoche, e le gradazioni dello spirito umano, tutte ancor sussistenti, ed
accumulate in un medesimo secolo; e quasi una serie di generazioni, delle quali
nessuna è peranche estinta, e tutte seguitano a vivere, senza lasciar di
produrne delle nuove, che vivono insieme colle primitive. Eccone quasi un
albero genealogico.
RELIGIONE MAOMETTANA |
RELIGIONE GIUDAICA conservantesi ancora presso gli Ebrei, che
rigettano la modificazione fattane da Gesù Cristo, e si attengono e conservano
appresso a poco la sua forma primitiva RELIGION CATTOLICA, che conserva la forma primitiva della
detta modificazione fatta da Gesù Cristo alla Religione Giudaica. |
RELIGIONI LUTERANA, CALVINISTA,
ed altre sussistenti, e chiamate ereticali, che
sono nuove modificazioni della detta modificazione, oltre le molte altre
già estinte nello spazio di tempo intermedio fra questa e quelle, e che
si sono rifuse, o perdute, parte nella primitiva Religion Cristiana, ossia
nella [1062]Cattolica, parte in qualcuna delle dette ereticali.
NUOVE MODIFICAZIONI, ALTERAZIONI, SUDDIVISIONI
ancora esistenti, del Luteranismo, del
Calvinismo, e d'altre simili sette.
INCREDULITÀ RELIGIOSA
che deriva primitivamente dalla Religione
Giudaica (e questa ancora esistente), ma via via per mezzo delle dette successive
modificazioni e quasi generazioni di essa Religione.
(18. Maggio 1821.). v. p.1065. capoverso 1.
Alla p.1034. Altro è che la
letteratura influisca sulla lingua del popolo, la modifichi, la formi, la
perfezioni, quando questa lingua è sostanzialmente la stessa che la
scritta; altro è che possa cambiare affatto la lingua del popolo, e
fargli parlare una lingua sostanzialmente o grandemente diversa da quella che
parlava; (quantunque ella possa alterare e corrompere la lingua popolare
introducendoci parole e frasi appoco appoco) e ciò in tempi ne' quali la
letteratura ed era debolissima, scarsissima e barbara per se stessa, e non aveva
quasi alcuna influenza sulla moltitudine, e i letterati, anzi pure gli
studiosi, e sopratutto gli scrittori erano rarissimi e pochissimi.
(18. Maggio 1821.)
Quanto giovi la riflessione alla vita;
quanto il sistema di profondità, di ragione, di esame, sia conforme alla
natura; quanto sia favorevole, anzi compatibile [1063]coll'azione vediamolo
anche da questo. Considerando un poco, troveremo che l'abito di franchezza, disinvoltura,
ec. che tanto si raccomanda nella società, che è indispensabile
pel maneggio degli affari d'ogni genere, e che costituisce una gran parte
dell'abilità degli individui a questo maneggio, non è altro che
l'abito di non riflettere. Abito che il giovane alterato dall'educazione, non
riesce a ricuperare se non appoco appoco, e spesso mai, specialmente s'egli ha
grande ingegno, e di genere profondo e riflessivo (come quello di Goethe, il
cui primo abordo dice Mad. di Staël, ch'è sempre un peu roide
finch'egli non si mette à son aise.)
Il fanciullo è sempre franco e
disinvolto, e perciò pronto ed attissimo all'azione, quanto portano le
forze naturali dell'età. Le quali egli adopera in tutta la loro estensione.
Se però non è alterato dall'educazione, il che può
succedere più presto o più tardi. E tutti notano che la
timidità, la diffidenza di se stesso, la vergogna, la difficoltà
insomma di operare, è segno di riflessione in un fanciullo. Ecco il
bello effetto della riflessione: impedir l'azione; la confidenza; l'uso di se
stesso, e delle sue forze; tanta parte di vita. Il giovanetto alterato [1064]dall'educazione
è timido, legato, irresoluto, diffidentissimo di se stesso. Bisogna che
col frequente e lungo uso del mondo, egli ricuperi quella stessa qualità
che aveva già di natura, ed ebbe da fanciullo, cioè l'abito di
non riflettere, senza il quale è impossibile la franchezza, e la
facoltà di usar di se stesso, secondo tutta la misura del suo valore. E
ciò si vede in tutti i casi della vita, e non già nelle sole
occasioni che abbisognano di coraggio, e che spettano a pericoli corporali. Ma
chi non ha ricuperato fino a un certo punto l'abito di non riflettere, non val
nulla nelle conversazioni, non può nulla colle donne, nulla negli
affari, e massime in quelle circostanze che portano, dirò così,
un certo pericolo, non fisico, ma morale, e che abbisognano di franchezza e
disinvoltura, e di una, dirò così, intrepidezza sociale.
Qualità impossibile a chi per abito riflette, e non può deporre
al bisogno la riflessione, e non può abbandonarsi, e lasciar fare a se
stesso, che sono le cose e più ricercate e pregiate, e più
necessarie a chi vive nella società, e generalmente in quasi ogni sorta
e parte di vita. E v. gli altri miei pensieri sulla impossibilità delle
stesse azioni fisiche senza l'abito di non riflettere, [1065]abito che
rispetto a queste azioni, avendolo tutti da natura, pochi lo perdono, ma perduto,
rende impossibili le operazioni più materiali, e giornaliere, e
naturali.
(19. Maggio 1821.)
Alla p.1062. La Religion Cristiana, quando
anche si voglia considerare come parto della ragione umana posta nelle circostanze
di quei tempi, di quei luoghi ec. è innegabile che ha vicendevolmente
influito assaissimo sopra la stessa ragione, rivoltala al profondo, all'astruso,
al metafisico; propagatala forse più di quello che abbia fatto qualunque
altro mezzo; e cagionato grandissima e principalissima parte de' suoi
progressi. Ora è manifesto che l'incredulità religiosa deriva dai
progressi della ragione, e che quando o l'uomo, o le nazioni non ragionavano,
credevano, ed erano religiose.
(19. Maggio 1821.)
Alla p.1060. Le religioni sono il principio,
e nel tempo stesso la parte principale e più rilevante della metafisica,
ed oltracciò la parte la più intensamente metafisica della
medesima metafisica; appartenendo alla natura, all'ordine, alle cagioni
più remote, più nascoste, e più generali delle cose.
(19. Maggio 1821.)
Dalle mie osservazioni sulla necessaria
varietà delle lingue, risulta che non solo le lingue furono naturalmente
molte e diverse anche da principio, per le [1066]impressioni che le
medesime cose fanno ne' diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o
le diverse maniere d'imitazione usate da' primi creatori e inventori della
favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi
ad imitare e ad esprimere da' diversi uomini colla parola significante quella
tal cosa; (v. Scelta di Opuscoli interessanti, Milano. Vol.4. p.56-57. e p.44.
nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè
un medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima
società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide
appoco appoco in differenti favelle.
(19. Maggio 1821.)
Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure
lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento derivano manifestamente dal greco ec. co'
suoi derivati ec. del quale, e de' quali non resta nel latino scritto altro
vestigio (ch'io sappia), fuorchè la voce lampas, gr. , ital. lampada,
lampade, lampana, co' suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias,
lampadarius. V. il Forcellini, e il Du Cange.
(20. Maggio 1821.)
Quanta sia la superiorità
degl'italiani nell'attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si
può argomentare proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta
in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione [1067]degli
scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo
chi è superiore nell'imitare, chi è superiore nel maneggiare e
adoperare, è necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e
quella prima superiorità, suppone questa seconda. Ora di questa superiorità
degl'italiani nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidì, v.
Andrès t.3. p.247-248. e quivi le note del Loschi, p.89-92. p.99-102.
t.4. p.16. e le Epist. del Vannetti al Giorgi.
(20. Maggio 1821.)
Le parole di qualunque genere, (cioè
particelle, come re, preposizioni, come ad ec., nomi ec.) che si
prepongono ai verbi nella composizione, li chiama Varrone, e dietro lui Gellio,
praeverbia. V. Forcellini.
(20. Maggio 1821.)
Le cause per cui la lingua greca formata
fu liberissima d'indole e di fatto, a differenza della latina, sono
1. Che la sua formazione accadde in tempi
antichissimi, o si vogliano considerare quelli di Omero, o quelli di Pindaro,
di Erodoto ec. o anche quelli di Platone ec. tempi che sebbene assai colti e
civili (dico questi ultimi) anzi il fiore della civiltà greca, nondimeno
conservavano ancora assai di natura. A differenza della lingua latina formata
in un tempo di piena [1068]adulta e matura, anzi corrotta
civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi di Roma, nella sua
decadenza morale, nel tempo ch'era già cominciata la servitù
degli animi romani; nell'ultima epoca dell'antichità.
2. Anche la lingua latina si andò
formando appoco appoco, ed ebbe buoni ed insigni scrittori prima del suo secolo
d'oro. Ma la lingua greca non ebbe propriamente secolo d'oro. I suoi scrittori
antichissimi non furono inferiori ai moderni, nè i moderni agli antichi.
Da Omero a Demostene non v'è differenza di autorità o di fama
rispetto alla letteratura greca in genere, ed alla lingua. Questo fece che
nessun secolo della Grecia (finch'ella fu qualche cosa) dipendesse da un altro
secolo passato in fatto di letteratura. Non vi fu secol d'oro, tutti i secoli
letterati e non corrotti della Grecia competerono fra loro, e nel fatto e
nell'opinione. Quindi la perpetua conservazione, la radicazione profonda della
libertà della loro letteratura, e della loro lingua. Dico della
libertà sì d'indole che di fatto. Non così è
accaduto alla lingua italiana, sebben libera per indole della sua
formazione. Ma ella ebbe i suoi secoli d'oro come la latina. Laddove la lingua
e letteratura greca, si andò [1069]via via perfezionando e
formando e crescendo insensibilmente, e quasi con egual misura in ciascun
tempo, così che nessun secolo potè vantarsi di averla formata,
come succede all'italiano, al francese ec. e come successe al latino. In
maniera che non si stimò mai che i suoi progressi dovessero esser
finiti, perchè non s'erano veduti tutti raccolti con soverchio splendore
e superiorità in una sola epoca.
3. È già noto che le regole
nascono quando manca chi faccia. Ma in Grecia non mancò fino agli ultimi
tempi della sua esistenza politica. E sebbene allora nacquero (o almeno si
propagarono e crebbero) anche fra' greci le regole, e le arti gramatiche, ec.
ec. nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà rispetto
alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così
accadde alla letteratura. Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio,
e col di lei secolo d'oro, e parimente l'italiana, lasciarono largo e libero
campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro. Giacchè sebbene
il 500. non mancava di regole (ne mancò però del tutto il 300.),
quelle non aveano che fare coll'esattezza e finezza ec. [1070]e
servilità delle posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di
lingua) a quelle che in fatto di rettorica o di poetica ec. ebbero anche i
greci ne' migliori tempi. Che se i latini n'ebbero di molte e precise, perchè
le riceverono dai greci già fatti gramatici e rettorici, questa è
pure una delle ragioni della poca libertà della loro lingua formata
ec. ec. e resta compresa nella soverchia civiltà di quel tempo, che ho
già addotta da principio, come cagione di detta poca libertà.
(20. Maggio 1821.). V. p.743-746. principio.
Quello che ho detto intorno alla
novità delle parole cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare
alla novità de' sensi e significati d'una parola già usitata, alla
novità delle metafore ec. V. Scelta di opuscoli interessanti. Milano.
vol.4. p.54.58-61. I quali nuovi e diversi significati d'una stessa parola, non
denno però esser tanti che dimostrino povertà, e producano
confusione, ed ambiguità, come nell'Ebraico.
(20. Maggio 1821.)
Alla p.807. marg. Dice Varrone che gli
uomini (in sermones non solum latinos, sed omnium hominum necessaria de causa) Imposita
nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent,
intendendo per nomi imposti, le parole radicali (Varro, De ling. lat. lib.7.)
(p.2. del I. libro de Analogia nella ediz. che ho del 400). [1071]
(21. Maggio 1821.)
Un antichissimo significato della parola inter
che ordinariamente è preposizione, e in questo caso sembra essere stata
usata avverbialmente, significato non osservato dai Gramatici nè da'
Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla v. Inter,
benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili. Del
qual significato resta un evidente vestigio nelle parole intermorior,
intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire, tamortito,
e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo antichissimo significato,
dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si
trova, ch'io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò
alla voce inter, nel latino volgare, sino a passar nella lingua
francese, che nello stessissimo senso l'adopra nella composizione di alcuni
verbi come entr'ouvrir, entrevoir ec. Ell'signifie aussi dans la
composition de quelques verbes une action diminutive, dice l'Alberti della
preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè
si creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente
in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già
così composti e formati, e colla detta significazione. [1072]Giacchè
1. i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel
latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso, che ha veramente
un altro significato da quello di voir imparfaitement ec. dell'entrevoir
(v. l'Alberti.). Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli
scrittori latini, si verrebbero a dimostrar derivati dall'uso latino volgare.
2. La parola entre nel detto senso si trova anche, nella composizione,
unita a parole non latine affatto, come in entre-baillé, mezzo chiuso, o
socchiuso. Laonde è manifesto che il detto significato
passò dall'antichissimo latino al francese, (certo non per altro mezzo
che del volgare latino) come propriamente aderente alla parola entre,
quantunque nella sola composizione. Si potrebbono anche riferir qua le nostre
parole traudire, e travedere, (co' derivati) che vagliono ingannarsi
nell'udire o nel vedere, cioè vedere a mezzo, vedere
imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo
da questo primo.
(21. Maggio 1821.). V. il Du Cange, se ha nulla al proposito.
Alla p.362. Immaginiamoci un pastore
primitivo o selvaggio, privo di favella, o di nomi numerali che volesse,
com'è naturale, rassegnare la sera il suo gregge. Non potrebbe assolutamente
farlo se non in maniera materialissima; come porre la mattina tutte le pecore
in [1073]fila, e misurato o segnato lo spazio che occupano, riordinarle
la sera nello stesso luogo, e così ragguagliarle. Ovvero, che è
più verisimile, raccorre, poniamo caso, tanti sassi quante sono le
pecore: il che fatto, non potrebbe mica ragguagliarle esattamente coi sassi
mediante veruna idea di quantità. Perchè non potendo contare
nè quelle nè questi, molto meno potrebbe formare nessun concetto
della relazione scambievole o del ragguaglio di due quantità numeriche
determinate: anzi non conoscerebbe quantità numerica determinata.
Converrebbe che si servisse di un'altra maniera materialissima, come porre da
parte prima una pecora ed un sasso, indi un'altra pecora e un altro sasso, e
così di mano sino all'ultima pecora, e sino all'ultimo sasso. V. p.2186.
principio.
Certo è che l'invenzione dei nomi
numerali fu delle più difficili, e l'una delle ultime invenzioni de'
primi trovatori del linguaggio. L'idea di quantità, non solo assoluta e
indeterminata (anzi questa è meno difficile, essendo materiale e sensibile
l'idea del più e del meno, e quindi della quantità
indeterminata), ma anche determinata, anche relativa a cose materialissime,
considerandola bene, è quasi totalmente astratta e metafisica. Quando
noi vediamo le cinque dita della mano, ne concepiamo subito il numero, [1074]perchè
l'idea del numero è collegata nella mente nostra mediante l'abito, e
l'uso della favella, coll'idea che ci suscita il vedere una quantità
d'individui facili a contare, o di cui già sappiamo il numero. E l'idea
di contare vien dietro alla detta vista, per la detta ragione. Non così
l'uomo privo de' nomi numerali. Egli vede quelle cinque dita come tante
unità, che non hanno fra loro alcuna relazione o attinenza numerica
(come in fatti non l'hanno per se stesse), componenti una quantità
indefinita (della quale non concepisce se non se un'idea confusa, com'è
naturale trattandosi d'indefinito) e non gli si affaccia neppure al pensiero
l'idea di poterla determinare, o di contare quelle dita. Meno metafisica
è l'idea dell'ordine. Giacchè (seguitando a servirci dell'esempio
della mano) che il pollice, ossia il primo dito, stia nel principio della
serie, che l'indice, cioè il secondo dito, venga dopo quello che
è nel principio della mano, cioè il pollice, e che il medio
cioè il terzo succeda a questo dito, e sia distante dal pollice un dito
d'intervallo; sono cose che cadono sotto i sensi, e che destano facilmente
l'idea di primo di secondo e di terzo e via discorrendo. Lo stesso potremmo
dire di un filare d'alberi ec.
Così che io non credo che le
denominazioni de' numeri ordinativi non abbiano preceduto nelle lingue
primitive quelle de' cardinali (contro ciò che pare a prima vista, e che
forse è seguito nelle lingue colte ec.); e che in dette lingue [1075]la
parola secondo si sia pronunziata prima che la parola due.
Perchè la parola secondo esprime un'idea materiale, e derivata
da' sensi, e naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che
è nel principio, laonde la forma di quest'idea sussiste fuori
dell'intelletto. Infatti nel latino, posterior vuol dire secundus
ordine, loco, tempore (Forcellini), e così propriamente il greco : .
Plutarco, Convival. Disputat. l.8. (Scapula) quantunque possa venir
dopo, o dietro, anche quello che non è secondo. Così pure nell'italiano
posteriore ec. Ma la parola due significa un'idea la cui forma
non sussiste se non che nel nostro intelletto, quando anche sussistano fuori di
esso le cose che compongono questa quantità, colla quale tuttavia non
hanno alcuna relazione sensibile, materiale, intrinseca o propria loro, ed
estrinseca alla concezione umana. V. l'Encyclopédie
méthodique. Métaphisique. art. nombres, preso, io credo, da
Locke.
Quella cosa che è nel principio, ha
una ragione propria per esser chiamata prima, e quella che gli sta dopo,
per esser chiamata seconda, cioè posteriore: così che questi
nomi ordinali sono relativi alle cose. Ma quella non ha ragione propria
perchè l'uomo nel contare la chiami uno, e quest'altra due;
e questi nomi cardinali non sono relativi alle cose reali, ma alla
quantità, che è solamente idea, ed è separata dalle cose,
nè sussiste fuori dell'intelletto.
(22. Maggio 1821.). V. p.1101. fine.
Quelli che non sogliono mai far nulla, e che
per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono ordinariamente
i più difficili a trovare il tempo per una [1076]occupazione,
ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di
una commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire. Al
contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e
più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l'abito
di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821.). E lo
stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i
diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o
inattività e negligenza.
Alla p.761. Anzi questa facoltà de'
composti di due o più voci, è proprissima anche oggidì del
linguaggio italiano familiare (e credo anzi del linguaggio familiare di tutte
le nazioni, massime popolare): e specialmente del toscano lo è stato
sempre, e lo è. Il qual dialetto vi ha molta e facilità e grazia;
e il discorso ne riceve una elegante e pura novità, ed una singolare
efficacia; come tagliacantoni, ammazzasette, pascibietola, (del
Passavanti) frustamattoni, perdigiorno, pappalardo e simili voci burlesche
o familiari antiche e moderne. Sicchè non si può dire che questa
medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacchè sarebbe ridicolo
l'impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra lingua
non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al
burlesco o familiare, giacchè il burlesco o familiare di questi composti
deriva non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che li
formano. Ma altre voci, purchè fosse fatto con giudizio, e senza eccesso
[1077]di lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero
benissimo comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità,
nè indurre nessuna apparenza di buffonesco o di plebeo. E così
fece giudiziosamente il Cesarotti nell'Iliade, e credo anche nell'Ossian. Omero,
Dante, e tutti i grandi formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i
Gramatici l'approvano: quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce
la cinquannaggine, che Gallo voleva, de' magistrati. Davanzati (Annali di Tacito
Lib.2. c.36. postilla 3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato
per rendere il latino quinquiplicare di Tacito. (23. Maggio 1821.). Era
però già stato usato da Dante.
Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il
secolo passato, fu veramente l'epoca della corruzione barbarica delle parti più
civili d'Europa, di quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente
alla civiltà, di quella che si vide ne' Persiani e ne' Romani, ne'
Sibariti, ne' Greci ec. E tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per
esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt'altro che barbara.
Quantunque il tempo [1078]presente, che si stima l'apice della
civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa considerare
come l'epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento incominciato in Europa
dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perchè
derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch'è
debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure
è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza
de' mezzi per l'una parte, e per l'altra la contrarietà ch'essi hanno colla
natura; tuttavia la rivoluzione francese (com'è stato spesso notato), ed
il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di
civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno
restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo
palpito, una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato
mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta,
insufficiente, debole, e passeggera per natura sua, perchè la mezza
filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire perfetta filosofia,
ch'è fonte di barbarie. Applicate a questa osservazione le barbare e
ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti,
pettinature d'uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in Italia, fino agli
ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla
rivoluzione (V. la lettera di Giordani a Monti §.4.) E vedrete che il secolo
presente è l'epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche
nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della
letteratura in Italia oggidì.
(23. Maggio 1821.). V. p.1084.
Altro esempio e conseguenza dell'odio
nazionale presso gli antichi. Ai tempi antichissimi, quando il mondo non era
sì popolato, che non si trovasse [1079]facilmente da cambiar
sede, le nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec.
ma anche quel suolo che calpestavano. E se non erano portate schiave; o tutte
intere, o quella parte che avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e
alla schiavitù, se n'andava in esilio. E ciò tanto per
volontà loro, non sopportando in nessun modo di obbedire al vincitore, e
volendo piuttosto mancar di tutto, e rinunziare ad ogni menoma proprietà
passata, che dipendere dallo straniero: parte per forza, giacchè il vincitore
occupava le terre e i paesi vinti non solo col governo e colle leggi, non solo
colla proprietà o de' campi o de' tributi ec. ma interamente e
pienamente col venirci ad abitare, colle colonie ec. col mutare insomma nome e
natura al paese conquistato, spiantandone affatto la nazione vinta, e trapiantandovi
parte della vincitrice. Così accadde alla Frigia, ad Enea ec. o se non
vogliamo credere quello che se ne racconta, questo però dimostra qual
fosse il costume di que' tempi.
(23. Maggio 1821.)
Alla p.366. In una macchina vastissima e
composta d'infinite parti, per quanto sia bene e studiosamente fabbricata e
congegnata, non possono non accadere dei disordini, massime in lungo spazio di
tempo; disordini [1080]che non si possono imputare all'artefice,
nè all'artifizio; e ch'egli non poteva nè prevedere distintamente
nè impedire. V. p.1087. fine. Di questo genere sono quelli che noi chiamiamo
inconvenienti accidentali nell'immenso e complicatissimo sistema della natura,
e nella sua lunghissima durata. Che sebben questi non ci paiano sempre minimi,
bisogna considerarli in proporzione della detta immensità, e
complicazione, e della gran durata del tempo.
Per iscusarne da una parte la natura, e
dall'altra parte, per conoscere se sieno veramente accidentali e contrari al
sistema e non derivati da esso, basta vedere se si oppongono all'andamento
prescritto e ordinato primitivamente dalla natura alle cose, e se ella vi ha opposti
tutti gli ostacoli compatibili, che spesso possono riuscire insufficienti come
nella macchina la meglio immaginata e lavorata. Quando noi dunque nella
infelicità dell'uomo troviamo una opposizione diretta col sistema
primitivo, e scopriamo che la natura vi aveva opposti infiniti e studiatissimi
ostacoli, e che ci è bisognato far somma forza alla natura, all'ordine
primitivo ec. e lunghissima serie di secoli per ridurci a questa
infelicità; allora essa infelicità per grande, e universale, e
durevole, ed anche irrimediabile ch'ella sia, non si può considerare [1081]come
inerente al sistema, nè come naturale. Nè dobbiamo lambiccarci il
cervello per metterla in concordia col sistema delle cose (il che è
impossibile), nè immaginare un sistema sopra questi inconvenienti, un
sistema fondato sopra gli accidenti, un sistema che abbia per base e forma le
alterazioni accidentalmente fatteci, un sistema diretto a considerare come
necessarie e primitive, delle cose accidentali e contrarie all'ordine
primordiale: ma dobbiamo riconoscere formalmente l'opposizione che ha la nostra
infelicità col sistema della natura; e la differenza che corre fra esso,
fra gli effetti suoi, e gli effetti della sua alterazione e depravazione
parziale e accidentale.
Lasciando che molti inconvenienti che son
tali per alcuni esseri, non lo sono per altri; e molti che lo sono per alcuni
sotto un aspetto, non lo sono per li medesimi sotto un altro aspetto ec. ec.
Dimostrando dunque i diversissimi e
gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro stato presente, io vengo
a dimostrare che questo (e l'infelicità dell'uomo che ne deriva)
è accidentale, e indipendente dal sistema della natura, e contrario
all'ordine delle cose, e non essenziale ec.
(23. Maggio 1821.). V. p.1082.
[1082]Se fosse veramente utile,
anzi necessario alla felicità e perfezione dell'uomo il liberarsi dai
pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli figli di una corrotta
ignoranza), perchè mai la natura gli avrebbe tanto radicati nella mente
dell'uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa necessaria
sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli;
resa anche impossibile l'estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini
più istruiti, e in quelli stessi che meglio li conoscono; e finalmente
ordinato in guisa che anche oggi (lasciando i popoli incolti) in una
grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi, dura
grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al
ben essere ed alla perfezione dell'uomo? Anzi perchè mai gli avrebbe solamente
posti nella mente dell'uomo da principio?
(24. Maggio 1821.).
Alla p.1081. fine. Per lo contrario,
dimostrando come le illusioni ec. ec. ec. sieno state direttamente favorite
dalla natura, come risultino dall'ordine delle cose ec. ec. vengo a dimostrare
ch'elle appartengono sostanzialmente al sistema naturale, e all'ordine delle
cose, e sono essenziali e necessarie alla felicità e perfezione dell'uomo.
(24. Maggio 1821.)
[1083]Alla considerazione della
grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de'
mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di
trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo
contrasto ec. che forma il piccante. E ancora dall'amor proprio messo in movimento,
e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti dispregia, perch'ella
ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E così
accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.
(24. Maggio 1821.)
Stante l'antico sistema di odio nazionale,
non esistevano, massime ne' tempi antichissimi, le virtù verso il
nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l'abuso della vittoria ec.
erano virtù, cioè forza di amor patrio. Da ciò si vede
quanto profondi filosofi e conoscitori della storia dell'uomo, sieno quelli che
riprendono Omero d'aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico
vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi, dove
il nemico della nazione era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il
Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime
e poetica, concepiva anche in que' suoi tempi antichissimi la bellezza della misericordia
verso il nemico, della generosità verso il vinto ec. considerava
però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che
Achille con grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a
Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore. Difficoltà
che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite l'autenticità [1084]di
quell'Episodio, tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a' suoi tempi pareva
nobile, naturale e necessaria. E notate in questo proposito la differenza fra
Omero e Virgilio.
(24. Maggio 1821.)
Alla p.1078. Riferite a questo (per altro
effimero e debole e falso) risorgimento della civiltà, la mitigazione
del dispotismo, e la intolleranza del medesimo più propagata: il
perfezionamento di quello che si chiama sentimentale, perfezionamento che data
dalla rivoluzione: il risorgimento di certe idee cavalleresche, che come tali
si mettevano in pieno ridicolo nel 700, e in parte del 600 (come nei romanzi di
Marivaux ec.); al qual proposito è noto che il Mariana attribuisce al
Don Chisciotte (che è quanto dire al ridicolo sparso sulle forti e
vivaci e dolci illusioni) l'indebolimento del valore (e quindi della vita
nazionale, e gli orribili progressi del dispotismo) fra gli spagnuoli. Ho detto
il Mariana, e così mi pare. Trovo però lo stesso pensiero nel P.
d'Orléans Rivoluz. di Spagna lib.9. Ma il Mariana mi par citato a questo
proposito dalla march. Lambert, Réflex. nouvelles sur les femmes. e così
di tante altre opinioni e pregiudizi sociali, ma nobili, dolci e felici ec. che
ora non si ardisce di porre in ridicolo, com'era moda in quei tempi: un certo
maggiore rispetto alla religione de' nostri avi ec. ec. Cose tutte che
dimostrano un certo ravvicinamento del mondo alla natura, ed alle opinioni e
sentimenti naturali, ed alcuni passi fatti indietro, sebbene languidamente, e
per miseri e non vitali, anzi mortiferi principii, cioè il progresso
della ragione, della filosofia, de' lumi.
(24. Maggio 1821.)
Una delle prove evidenti e giornaliere che
il bello non sia assoluto, ma relativo, è l'essere da tutti riconosciuto
che la bellezza non si può dimostrare [1085]a chi non la vede o
sente da se: e che nel giudicare della bellezza differiscono non solo i tempi
da' tempi, e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini,
gli stessi compagni differiscono sovente da' compagni, giudicando bello quello
che a' compagni par brutto, e viceversa. E convenendo tutti che non si
può convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a
convenire che nessuno de' due che discordano nell'opinione, può
pretendere di aver più ragione dell'altro, quando anche dall'una parte
stieno cento o mille, e dall'altra un solo. Tutto ciò avviene sì
nelle cose che cadono sotto i sensi, e queste o naturali, o, massimamente,
artificiali, sì nella letteratura ec. ec. V. a questo proposito il P.
Cesari, Discorso ai lettori premesso al libro De ratione regendae provinciae,
Epistola M. T. Cic. ad Q. Fratrem, cum adnott. et italica interpretat. Jacobi
Facciolati; accedit nupera eiusdem interpretatio A. C.. Verona, Ramanzini.
Ovvero lo Spettatore di Milano, Quaderno 75. p.177. dove è riportato il
passo di detto discorso che fa al mio proposito.
(25. Maggio 1821.)
Parecchi filosofi hanno acquistato l'abito [1086]di
guardare come dall'alto il mondo, e le cose altrui, ma pochissimi quello di
guardare effettivamente e perpetuamente dall'alto le cose proprie. Nel che si
può dire che sia riposta la sommità pratica, e l'ultimo frutto
della sapienza.
(25. Maggio 1821.)
Della difficilissima invenzione di una lingua
che avesse pure qualche forma sufficiente al discorso, e come questa debbe
essere stata opera quasi interamente del caso, v. le Osservazioni ec. del
Sulzer nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano. 1775. Vol.4. p.90-100.
(25. Maggio 1821.)
Siccome la perfezione gramaticale di una
lingua dipende dalla ragione e dal GENIO (la lingua francese è perfetta
dalla parte della ragione, ma non da quella del genio), così ella
può servire di scala per misurare il grado della ragione e del GENIO ne'
vari popoli. (Con questa scala il genio francese sarà trovato
così scarso e in così basso grado, come in alto grado la ragione
di quel popolo.) Se per esempio non avessimo altri monumenti che
attestassero il GENIO FELICE de' Greci, la loro lingua pur basterebbe. (Lo
stesso potremo dire degl'italiani avuto riguardo alla proporzione de' tempi
moderni, che [1087]non sono quelli del genio, coi tempi antichi.) Quando
una lingua, generalmente parlando, (cioè non di una o più
frasi, di questa o quella finezza in particolare, ma di tutte in grosso) è
insufficiente a rendere in una traduzione le finezze di un'altra lingua, egli
è una prova sicura che il popolo per cui si traduce ha lo spirito men
coltivato che l'altro. (Che diremo dunque dello spirito de' francesi dalla
parte del genio? La cui lingua è insufficiente a rendere le finezze non
di una sola, ma di tutte le altre lingue? Che la Francia non abbia avuto mai,
v. p.1091. nè sia disposta per sua natura ad avere geni veri ed
onnipotenti, e grandemente sovrastanti al resto degli uomini, non è cosa
dubbia per me, e lo viene a confessare implicitamente il Raynal. Dico geni sviluppati,
perchè nascerne potrà certo anche in Francia, ma svilupparsi
non già, stante le circostanze sociali di quella nazione.) Sulzer ec. l.
cit. qui dietro. p.97.
(25. Maggio 1821.)
Alla p.1080. marg. Lo stesso diremo delle
costituzioni, de' regolamenti, delle legislazioni, de' governi, degli statuti
(o pubblici o particolari di qualche corpo o società ec.); i quali per
ottimamente e minutamente formati che possano essere, e dagli uomini i
più esperti e previdenti, non può mai fare che nella pratica non
soggiacciano a più o meno inconvenienti; [1088]che non
s'incontrino dei casi dalle dette legislazioni ec. non preveduti, o non
provveduti, o non potuti prevedere o provvedere; e che anche supposto che il
tutto fosse provveduto, e preveduto tutto il possibile, la pratica non corrisponda
perfettamente all'intenzione, allo spirito e alla stessa disposizione dei detti
stabilimenti. Insomma non v'è ordine nè disposizione nè
sistema al mondo, così perfetto, che nella sua pratica non accadano
molti inconvenienti, e disordini, cioè contrarietà con esso
ordine. Ed uno degli errori più facili e comuni, e al tempo stesso
principali, è di credere che le cose, come vanno, così debbano
andare, e così sieno ordinate perchè così vanno; e dedurre
interamente l'idea di quel tal ordine o sistema, da quanto spetta ed apparisce
nel suo uso, andamento, esecuzione ec. Nella quale non possono mancare
moltissimi accidenti e sconvenienze, non per questo imputabili al sistema. Accidenti
e sconvenienze che sono molto maggiori, e più gravi e sostanziali, e
più numerose nei sistemi, ordini, macchine ec. che son opera dell'uomo
(per ottima che possa essere), artefice tanto inferiore alla natura e per arte
e per potenza. Maggiori però e più numerosi proporzionatamente,
cioè rispetto alla piccolezza e poca importanza, [1089]durata ec.
di detti sistemi umani, paragonati colla immensità ec. del sistema della
natura. Nel quale, assolutamente parlando, possono occorrere e occorrono
inconvenienti accidentali molto maggiori e numerosi che in qualunque sistema
umano, sebbene assai minori relativamente.
(26. Maggio 1821.)
A quello che ho detto altrove della
ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a chiunque pensi, e
consideri le cose; si può aggiungere, che infatti poi le cose hanno
certo un sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano. Sia
che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto
legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in
tanti particolari sistemi, indipendenti l'uno dall'altro, ma però ben
armonici e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo
è che l'idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di
corrispondenza, di relazioni, di rapporti, è idea reale, ed ha il suo
fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch'esiste.
Così che gli speculatori della natura, e delle cose, se vogliono
arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacchè le cose e la
natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente. Potranno errare, prendendo
per sistema reale e naturale, un sistema immaginario, o anche [1090]arbitrario,
ma non già nel cercare un sistema. Sarà falso quel tal sistema,
non però l'idea ch'esso include, che la natura e le cose sieno regolate
e ordinate in sistema. Chi sbandisce affatto l'idea del sistema, si oppone
all'evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il sistema
o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le cose
staccatamente (se pur v'ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma si
possa contenere in questo modo), sarà compatibile, ed anche lodevole. Ma
oltre ch'egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha
posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il
più rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che
farà vedere un altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla
ricerca del sistema naturale e vero delle cose.
(26. Maggio 1821.)
Non si conoscono mai perfettamente le
ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna
verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente
tutti i rapporti che ha essa verità colle altre. E siccome tutte le
verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più
strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa
credere [1091]e concepire il comune degli stessi filosofi; così
possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna
verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono
perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che
è come dire, che nessuna (ancorchè menoma, ancorchè evidentissima
e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai nè
sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta.
(26. Maggio 1821.)
Così, senza la condizione detta qui
sopra, non si conoscono mai, nè tutte le premesse che conducono a una
conseguenza, cioè alla cognizione di una tal verità, nè
tutta la relazione e connessione, o tutte le relazioni e connessioni che hanno
le premesse anche conosciute, colla detta conseguenza.
(26. Maggio 1821.)
Alla p.1087. Eccetto alcuni ben pochi, come
Descartes, Pascal ec. ed altri tali, nessuno de' quali appartiene propriamente
alla provincia del genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè
alle scienze, ed al vero, tanto più nemico del genio, quanto più
profondo e riposto, benchè non iscavato nè scoperto, se non dal genio.
(26. Maggio 1821.)
[1092]Alla p.894. marg. Riferite
pure agli stessi principii il danno, le stragi, la miseria, l'impotenza p.e.
dell'Italia ne' bassi tempi, di quell'Italia ch'era per altro animata di
sì vivo, sì attivo, e spesso sì eroico amor di patria. Ma
di patria oscura, debole, piccola, cioè le repubblichette, e le
città, e le terre nelle quali era divisa allora la nazione, formando
tante nazioni, tutte, com'è naturale, nemiche scambievoli. Dal che
nasceva l'oscurità, la debolezza, la piccolezza delle virtù
patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo esistente. Riferite agli
stessi principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla
conseguente moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e
l'estrema miseria del sistema feudale. Riferitevi parimente il danno
riconosciuto da tutti i savi oggidì nel soverchio amore delle patrie
private, cioè delle città, ovvero anche delle provincie natali.
Danno pur troppo ed evidente e gravissimo oggi in Italia, per naturale conseguenza
della sua divisione non solo statistica o territoriale, (come ogni regno ec.)
ma politica. Ed è osservabile che l'amor patrio (intendo delle patrie
private) regna oggi in Italia tanto più fortemente e radicatamente,
quanto è maggiore o l'ignoranza, o il poco commercio, o la piccolezza di
ciascuna città, o terra, o provincia (come la Toscana); insomma in
proporzione [1093]del rispettivo grado di civiltà e di coltura. E
in alcune delle più piccole città d'Italia l'amor patrio, e
l'odio de' forestieri è veramente accanito. E così
proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo rimaso indietro nella coltura
artificiale, non si sa come. E lo stesso dico degl'individui più ignoranti
ec.
(26. Maggio 1821.)
La letteratura di una nazione, la quale ne
forma la lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio,
corrompendosi, corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a
fianco e a seconda. E la corruzione della letteratura non è mai
scompagnata dalla corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche
questa sulla corruzione di quella, come senza fallo, anche lo spirito della
lingua contribuisce a determinare e formare lo spirito della letteratura.
Così è accaduto alla lingua latina, così all'italiana nel
400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel 600, e negli ultimi
tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della rispettiva
letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico, corrotta, anzi,
dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta [1094]più
secoli, e molto altro spazio poco alterata, come si può vedere in Libanio,
in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più
antichi o più moderni di questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non
corrotti o leggermente corrotti nella lingua. Tanta era per una parte la
libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità
della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi
stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le
sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura
guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo,
e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua
varietà, copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro. Simile in
ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di
pessimo gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come
ho detto altrove. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in
italiano, a differenza del francese, che avendo una sola lingua, ha
anche un solo stile, e chiunque scrive in francese, non
può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E però non
dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi più
o meno scrivono bene.
[1095]Tanta per l'altra parte (ritornando
al proposito) era l'alienazione della letteratura greca da ogni cosa straniera.
Giacchè anche la corruzione della lingua italiana che accadde nel 400. e
poi nel 500. siccom'era corruzione italiana, non mutò le forme
sostanziali, e il genio proprio della lingua; com'è accaduto per lo
contrario in questi ultimi tempi, dove la corruzione è derivata da
influsso straniero.
E se vogliamo vedere l'influenza straniera
sulla lingua greca, e come subito la corruppe, per incorruttibile che paia, come
abbiamo dimostrato; sebbene è difficile trovar cosa straniera in detta
letteratura, consideriamo l'unico (si può dir) libro straniero che
introdotto in Grecia (o ne' paesi greci) abbia influito sopra i suoi scrittori,
e che sia stato ai greci oggetto di studio. Lasciamo l'influenza del latino nel
greco dopo Costantino, influenza che tardò molto a propagarsi e a
guastare definitamente la lingua, perchè si esercitò piuttosto
sul parlato che sullo scritto, e dal parlato arrivò solo dentro lungo
spazio, alla letteratura. Io voglio parlare della Bibbia. Esaminiamo i padri
greci da' primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una
visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli
ebraismi, dall'uso dello stile profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta
e barbara [1096]e spesso continua imitazione della scrittura, dal misticismo
della Religion Cristiana. Corruttela che è comune anche agli scrittori
cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri paesi,
dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d'altro
dialetto propagato fra' giudei ec.; non erano giudei di stirpe, ec. ec. Ma
erano stranieri di setta, e quindi anche barbari di gusto. Lascio la traduzione
dei Settanta, e il Nuovo Testamento. Le stesse cause di corruzione influirono
pure sulla lingua e sullo stile de' padri latini. Ma da queste, com'è
naturale, si preservarono gli scrittori profani contemporanei, sì greci
che latini, e non pochi degli stessi scrittori cristiani, o trattando materie
profane, o anche più volte nelle stesse materie ecclesiastiche, secondo
la coltura, gli studi e l'eleganza degli scrittori.
(27. Maggio 1821.)
Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo
dello stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com'erano
soggette a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti
inevitabili nello stesso sistema magistrale della natura; quanto più
negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera umana! Ma il mio
argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità, o se
vogliamo, [1097]infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni,
nel bilancio e nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e
presso gli altri. Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti
della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia
anche stato sempre infelice. Ma l'opinione comune e quella della indefinita
perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice
o meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza,
che l'infelicità moderna sia minore dell'antica. Io dimostro che l'uomo
essendo perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più
cresce l'infelicità sua: dimostro che la perfettibilità dello stato
sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa
farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa
sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale
aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti
dalla natura, quanto è compatibile coll'essenza di stato sociale, e
coll'alterazione inevitabile che l'uomo ne riceve da quello ch'era
primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di
fatto, [1098]che l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo,
e da me perfetto, era meno infelice del moderno.
(27. Maggio 1821.)
Altra prova che il bello è sempre
relativo. Dice il Monti (Proposta ec. vol.1. par.2. p.8. fine) che l'orecchio
è unico e superbissimo giudice della bellezza esterna delle parole.
Ora per quest'orecchio, parlando di parole italiane, non possiamo intendere se
non l'orecchio italiano, e il giudizio di detta bellezza esterna, varia secondo
le nazioni, e le lingue.
(28. Maggio 1821.)
La formazione intera e principale della
lingua latina, accade in un tempo similissimo (serbata la proporzione de'
tempi) a quello della francese, cioè nel secolo più civile ed
artifiziato di Roma, e (dentro i limiti della civiltà) più corrotto:
dico nel secolo tra Cicerone e Ovidio. Ecco la cagione per cui la lingua
latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà,
ed ecco la cagione di tutti gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette
due lingue ec.
(28. Maggio 1821.)
Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche,
ancorchè chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime, [1099]utilissime,
riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa. Ma i
nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi
disusati, che oltre all'essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono
così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così
lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e in somma
così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale
non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma
deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove l'antichità
si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove quegli altri si
possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi
rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si conservano per
mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall'intonacatura vivide e
fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta. E sebbene
dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o
in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi,
per poi ripigliarli.
(28. Maggio 1821.)
[1100]L'uomo non si può
muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio,
modificato in diverse guise. Ma oggi quasi nessuna modificazione dell'amor
proprio può condurre alla virtù. E così l'uomo non
può esser virtuoso per natura. Ecco come l'egoismo universale, rendendo
per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all'individuo,
e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le mantengano, le
realizzino, producono inevitabilmente l'egoismo individuale, anche nell'uomo
per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso.
Perchè l'uomo non può assolutamente scegliere quello che si
oppone evidentemente e per ogni parte all'amor proprio suo. E
perciò gli resta solo l'egoismo, cioè la più brutta
modificazione dell'amor proprio, e la più esclusiva d'ogni genere di virtù.
(28. Maggio 1821.)
Chiamano moderne le massime liberali, e si
scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al
vero. Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e
dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo
e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in
gran parte in una certa moderazione che lo rende universale, [1101]intero,
e durevole. Dunque tutta l'antichità delle massime dispotiche,
cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non
individualmente parlando), non rimonta più in là della
metà del seicento. Ed ecco come quel tempo che corse da quest'epoca sino
alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell'Europa civile,
dalla restaurazione della civiltà in poi. Barbarie dove inevitabilmente
vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi aspetti, secondo la
natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la
natura de' tempi e delle nazioni. Per esempio la barbarie di Roma sottentrata
alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più
viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore,
alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può considerare come
epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà. E
così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro
universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. Anzi
elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse
l'unica parte in cui l'età presente somiglia all'antichità. Puoi
vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec.
vol.1. part.2. alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle
barbarie antiche rinnovate oggi.
(28. Maggio 1821.)
Alla p.1075. Da queste osservazioni risulta
che l'uomo senza favella è altresì incapace di concepire
definitamente e chiaramente una quantità misurata [1102]in questo
modo: p.e. una lunghezza di cento passi. Giacch'egli non può concepire
questo numero definito di cento passi. Così discorrete di tutte le altre
cose o idee (e sono infinite) che l'uomo concepisce chiaramente mediante l'idea
de' numeri. E da ciò solo potrete argomentare l'immensa necessità
ed influenza del linguaggio, e di un linguaggio distinto e preciso ne' segni,
sulle idee e le cognizioni dell'uomo.
(28. Maggio 1821.). V. p.1394. capoverso 1.
Dal pensiero precedente e dagli altri miei
sulla influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete
che una delle cause principalissime e generalissime, e contuttociò
puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all'uomo, e
della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi
necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque
genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad
esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e de' suoni.
Inclinazione materiale e innata nell'uomo, e che tuttavia fu la prima origine
del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l'uomo, ancorchè privo
di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec.
(28. Maggio 1821.)
[1103]La poca memoria de' bambini e
de' fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de'
primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente
e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza
di linguaggio ne' bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne'
fanciulli? Essendo certo che la memoria dell'uomo è impotentissima (come
il pensiero e l'intelletto) senza l'aiuto de' segni che fissino le sue idee, e
reminiscenze. (V. Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano 1775.
p.65. fine, e segg.) Ed osservate che questa poca memoria non può derivare
da debolezza di organi, mentre tutti sanno che l'uomo si ricorda perpetuamente,
e più vivamente che mai, delle impressioni della infanzia,
ancorchè abbia perduto la memoria per le cose vicinissime e presenti. E
le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli.
Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già
acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi
concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole.
Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva,
e sentiva nominare al tempo stesso.
(28. Maggio 1821.)
[1104]Il verbo spagnuolo traher
o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra
alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare,
e de' suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e
simili. Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi
noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre
o tirare (ch'è tutt'uno), nè del francese tirer. Traher
vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher.
Ora per dimenare appunto o in senso simile si adopra spesso il verbo tractare,
o l'italiano trattare, come in Dante ec. V. la Crusca in Trattare
e specialmente §.5. Ora io penso che questi significati gli avesse antichissimamente
il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e conservati
però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso
volgare. Ecco com'io la discorro.
Io dico che il verbo tractare al
quale sono effettivamente rimasti i detti significati, deriva da trahere,
e per conseguenza gli aveva da principio ancor questo verbo; e ne deriva
così. I latini dal participio in tus (o dal supino) di molti e
molti verbi, soleano, troncando la desinenza in us, e ponendo quella in are
(o in ari se deponente) formare un nuovo verbo, che avea forza di
esprimere una continuazione, una maggior durata di quell'azione ch'era espressa
dal verbo primitivo. E in questo modo io dico che tractare deriva da tractus,
participio di trahere, e significando fra le altre cose manu [1105]versare,
significa (almeno nell'uso suo primitivo) un'azione più continuata di
quella che significava, secondo me, il verbo trahere preso in questo
medesimo senso. Veniamo alle prove.
Prima di tutto, che tractare venga da
trahere è indubitato, perchè, massime ne' più
antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota di trahere,
cioè trarre, tirare, strascinare. Così anche quella di distrahere,
dilaniare. (V. il Forcellini.) Dunque derivando da trahere, ed
avendo le sue significazioni note, io dico che quelle altre che ha, e che non
paiono appartenere al verbo trahere, furono significazioni primitive, ed
oggi ignote, di questo verbo. Colla differenza che tractare propriamente
significa sempre un'azione più continuata di quelle significate da trahere,
come si può, volendo, osservare anche nei detti significati ch'esso ebbe
di tirare ec.
In secondo luogo che i latini avessero
questo costume di formare nuovi verbi dai participi in tus di altri
verbi primitivi, e questi nuovi verbi significassero la medesima azione che i
primitivi, ma più continuata e durevole, lo farò chiaro con esempi.
Da adspicere (verbo composto),
participio, [1106]adspectus, i latini fecero adspectare.
Ognuno può sentire la maggior durata dell'azione espressa da adspectare
rispetto a quella di adspicere.
Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes.
dice Virgilio (Aen. 5-614. seq.) delle donne
Troiane solitarie sul lido Siciliano. Non avrebbe già in questo senso
potuto dire adspiciebant. Così dal semplice di adspicere
(cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus,
fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur
quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli
spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur
(propriamente), ma spectantur (e notate che adspicere, e specere
o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri
ec. ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e
così respectare dal quale abbiamo rispettare che non
è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri composti
di spectare). V. p.2275. ed Aen. 6.186. adspectans, e osservane
la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens. Così dico
dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum,
come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare,
ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli
che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare.
(V. se vuoi la p.1388. fine.)
Da raptus participio di rapere
viene raptare cioè strascinare, azione come ognuno vede,
ben più continuata e lunga di rapere.
Così da captus participio di capere,
si fa [1107]captare, che non importa continuazione di capere
o prendere, perchè l'azione del prendere non si può
continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare,
accattare e simili; azione continuata. V. il Forcellini. E da acceptus
di accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può
vedere nel secondo e 3° esempio del Forcellini, che significano, non il
semplice ricevere, ma il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e
ben diverso dal frequente. V. p.1148. V. Exceptare in Virg. Georg.
3.274. e p.2348.
Da saltus antico participio di salire[9]
(o dal supino saltum ch'è tutt'uno) viene saltare. E qui
la forza (dirò così) continuativa di questa formazione di verbi,
è manifestissima. Perchè salire propriamente vale saltum
edere, e saltare, vale ballare ch'è una continuazione
del salire, una serie di salti.
Così da cantus antico
participio di canere, abbiamo cantare, verbo che significava
primitivamente un'azione ben più continuata che il canere.
Da adventus antico participio di advenire
procede adventare, che significa l'azione continuata di avvicinarsi, o
stare per arrivare, laddove advenire significa l'atto del giungere o del
sopravvenire.
[1108]Del verbo tentare dice
il Forcellini che deriva a sup. TENTUM verbi
TENEO. Est enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent quippiam
exploraturi. V. p.2344. e p.1992. principio.
Così rictare da rictus
di ringi, dictare da dictus participio del verbo dicere,
e ductare da ductus del verbo ducere, e nuptare da nuptus
di nubere, e flexare del vecchio Catone da flexus ec. adfectare
da adfectus participio di adficere, e adflictare da adflictus
di adfligere; e volutare da volutus di volvere; e consultare
da consultus di consulere; commentari e commentare
da commentus di comminisci e comminiscere; natare
dall'antico natus o natum di nare; e reptare (di
cui v. se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di repere;
e offensare da offensus di offendere; e argutare ed
argutari (v. Forcell.) da argutus di arguere; e occultare
da occultus di occulere; e pressare da pressus di premere
(gl'ital. i franc. ec. e il glossar. hanno anche oppressare da oppressus);
v. p.2052. 2349. e vectare da vectus di vehere. V. nel
Forcellini gli es. i quali dimostrano che subvectare e convectare
denotano propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.
Sectari che importa (chi ben
l'osserva) un'azione più continuata e durevole che il verbo sequi,
deriva senza fallo da secutus, participio di questo verbo, contratto in sectus.
O piuttosto da principio dissero secutari, e poi per contrazione sectari.
E acciò che questa sincope non si stimi un mio supposto (un ritrovato,
un'immaginazione), ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar,
vale a dire in latino executari, composto di secutari. Anzi io
credo che questa prima forma del verbo sectari abbia durato nel volgare
latino fino all'ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e
spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par che derivi
da altro che da secutari o sequutari, come seguire da sequi.
Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare,
come affettare da adfectare, [1109]e così altre infinite
parole. Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso
più continuato che seguire. V. p.2117. fine.
Sia poi che l'antico volgare latino, o che
quello de' tempi bassi, o quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in
uso; certo è che le nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi
formati dal participio di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi
verbi non si trovano nella buona latinità; come usare (Glossar.) abusare
ec. da usus di uti, ec., inventare da inventus
participio d'invenio, infettare da infectus participio d'inficio,
traslatare da translatus di transferre, benchè da
questo verbo gl'italiani abbiano anche trasferire; (translatare
è nel Glossario.) fissare e ficcare (fixer, fixar)
da fixus ec. (Glossar. fixare oculos.); disertare, déserter
ec.; despertar da experrectus di expergiscere; v. p.2194; votare
da votus di vovere; (Glossar.) da junctus di jungere
lo spagnuolo juntar, (non è nel Glossar. bensì Juncta
per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare
da invasus di invadere; (il Gloss. ha invasatus,
cioè obsessus a daemone) confessare (Glossar.) da confessus
di confiteri; e così mille altri. V. p.1527. e 2023. (I due primi
verbi non si trovano nel Du Fresne). V. p.1142. Parecchi de' quali stanno nelle
lingue nostre in cambio de' loro primitivi latini, usciti d'uso, e pare che nel
formarli non si avesse più riguardo alla natura de' verbi continuativi.
A questo proposito tornerà bene di
avvertire una svista del Monti (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al
Vocab. della Crusca. vol.1. par.2. Milano 1818. alla v. allettare. p.42.
seg.), il quale dice e sostiene che il nostro ALLETTARE (e per conseguenza il latino
adlectare ch'è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso
Monti p.43.) viene da LETTO, come da LATTE ALLATTARE, da ESCA
ADESCARE, da LENA ALLENARE ed altri a man piena; che significa Dar
letto, e Perchè poi il letto è riposo, e il riposarsi
è soavissima e giocondissima cosa, [1110]ne seguì
che ALLETTARE, ossia APPRESTARE IL LETTO, divenne subito per
metafora INVITAR CON LUSINGHE; e a poco a poco la prepotente forza dell'uso
fe' sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne
usurpò le funzioni. Questa etimologia, se per avventura non è
tortamente dedotta, potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche
l'altra di DILETTARE e DILETTO con tutti i lor derivati, per
conseguenza(dico io) del latino delectare, illectare, oblectare e
simili. E nega che questi verbi abbiano niente che fare con allicere al
quale dà tutt'altra etimologia. (p.44.)
Lascio stare che quel significato
metaforico, e la successiva metamorfosi del significato di allettare, se
a lui par naturale, a me pare del solito conio delle etimologie famosissime, e
che tutto il filo de' suoi ragionamenti si romperebbe e troncherebbe facilmente
per esser troppo sottile e debole in questo punto. Ma egli non ha veduto che adlectare
(e quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio
nello stessissimo modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che
si potrebbero mentovare. Ora allettare è azione continuata, e
così oblectare che significa trastullare ec. e così
dilettare ec. Laddove adlicere è propriamente l'atto del
tirare, prendere, [1111]indurre colle lusinghe. E il suo semplice lacio
che significa ingannare, indurre in fraude è parimente
significativo di azione non continuata. Laddove lactare formato da lacere
(diverso da quello formato da lac) significa propriamente un'azione
continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o allettare.
V. p.2078. Giacchè anche nell'etimologia del verbo adlicere
s'inganna il Monti (p.44.) facendolo derivare dal licium o liccio
degl'incantamenti amorosi. La sua etimologia, dic'egli, di cui non trovo
chi sappia darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa. Ma
avrebbe trovata la vera etimologia nel Forcellini v. allicio, e v. lacio.
Adlicio dunque (come inlicio ec. ec.) è composto di ad
e lacio (che deriva da lax, fraus) mutata per la composizione la a
in i, come in adficio da facio, in adjicio da jacio
ec. ec. Del resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per
porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un
verbo tanto differente dall'adlectare, sebbene uniforme nel suono,
quanto è differente nel significato e nell'origine, e uniforme nel
suono, letto participio di leggere, da letto nome
sostantivo. V. il passo di Cicerone addotto dal Monti, e provati di sostituirvi
adlicere ad adlectare, se il puoi. In luogo che adlectare
venga da lectus, (Festo) dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere.
Forcell. in Lectus i.
Non bisogna confondere questo genere di
verbi che io chiamo continuativi, e che significano continuazione o maggior
durata dell'azione espressa da' loro verbi originari, con quello de' verbi
frequentativi, [1112]che importano frequenza della medesima azione, e
hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva. Questi (lasciando i frequentativi
coll'infinito in essere che non possono esser confusi co' nostri
continuativi) si formano essi pure dal participio in us o dal supino in um,
di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la
semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d'itare,
o itari se il verbo da cui si formano è deponente (o passivo.)
Così da lectus participio di legere, lectitare;
così da victus o victum di vivere, victitare; da missus
di mittere, missitare; da scriptus di scribere, scriptitare;
da esus di edere, esitare; da sessus o sessum
di sedere, sessitare; da emptus di emere, emptitare; da factus
di facio, factitare; da territus di terreo, territare;
da ventus di venio, (o dal sup. ventum), ventitare;
da lusus di ludere, lusitare; da haesus o haesum di
haerere, haesitare; da sumptus di sumere, sumptitare; da risus
di ridere, risitare di Nevio. Eccetto però il caso che il
participio o supino di quel verbo dal quale si doveva formare il frequentativo,
cadesse in itus o itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo
la terminazione itare, o itari, fare ititare, o ititari.
In questo caso dunque troncata la desinenza us o um del
participioo del supino aggiungevano la semplice desinenza are o ari,
con che però il frequentativo veniva nè più nè meno
a cadere in itare o itari. Così da venditus di vendere
facevano venditare (non vendititare); da meritus di merere,
meritare; (il quale par continuativo e talora denotante costume), da pavitus
antico part. di pavere, pavitare; da solitus ec. solitare;
da latitus, antico participio, o da latitum antico sup. di latere,
fecero latitare; [1113]da monitus di monere, monitare;
da domitus di domare, domitare; da dormitus o dormitum
di dormire, dormitare; da licitus di liceri, licitari; da vomitus
di vomere, vomitare; da territus, territare; da itus o
itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri,
pollicitari; da exercitus part. di exercere, exercitare;
da citus part. di cieo, citare, e i suoi composti; da strepitus
o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus
o crepitum di crepare, strepitare e crepitare; da scitus
di sciscere o di scire scitari, sciscitare e sciscitari;
da noscitus o noscitum antico sup. o part. di noscere,
noscitare; da agitus antico particip. di agere, contratto
poscia in agtus, e finalmente mutato in actus, agitare. La quale
eccezione merita d'esser notata, giacchè in questi casi la formazione
de' frequentativi non differisce da quella de' continuativi, e si potrebbero
confonder tra loro. Ed anche qualche verbo terminato in itare o itari,
ma formato da un participio o sup. in itus o itum,
apparterrà o sempre o talvolta ai continuativi, (come p.e. agitare,
domitare ec. e v. Forcellini in tinnito) vale a dire non
cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal participio
o supino. V. p.1338. principio. Minitari e minitare formati da minatus
di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e
troncamento non solo dell'us ma dell'atus del participio, affine
di sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione dell'a del
participio in i, fatta allo stesso effetto. Similmente rogitare
da rogatus di rogare, coenitare da coenatus di coenare.
V. p.1154. V. p.1656. capoverso 1.
Mi sono allungato in questo discorso, ed ho
voluto spiegare distintamente tutte queste cose, perchè non mi paiono osservate
dai Gramatici nè da' vocabolaristi. Il Forcellini chiama
indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare o itari,
come quelli che io chiamo continuativi. E s'inganna, perchè [1114]la
differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la
differenza di queste due sorte di verbi. P.e. raptare, ch'egli chiama
frequentativo di rapere e che significa strascinare, ognun vede
che quest'azione non è frequente ma continuata. E se i latini avessero
voluto fare un frequentativo di rapere, dal participio raptus
avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione
effettivamente di tal verbo raptitare, 9.6. nel qual luogo puoi vedere
molti esempi di tali frequentativi in itare formati (com'egli pur nota)
da' participii de' verbi originarii. E i verbi augere, salire, jacere,
prehendere o prendere, currere, mergere, defendere, capere, dicere,
ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere e altri tali che hanno i
loro continuativi, auctare, saltare, iactare, prehensare o prensare,
cursare, mersare, defensare, captare, dictare, ductare (che i gramatici
chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), v. p.2340. factare,
vectare, ventare, pensare, gestare, formati tutti dal loro participio o supino,
secondo le leggi da noi osservate; hanno pure i frequentativi auctitare,
saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare, defensitare, captitare,
dictitare, ductitare, factitare, vectitare, ventitare, pensitare, gestitare,
distinti per forma e per significato proprio dai detti continuativi, e non derivati
(certo ordinariamente) da questi, (come va dicendo qua e là il
Forcellini) ma immediatamente da' verbi originarii. V. p.1201. Il verbo videre,
da cui nasce il verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare),
ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio [1115]visus
comune a videre col suo continuativo visere, e ciò per
anomalia. Legere e scribere, che hanno i loro frequentativi ec.
si crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare
de' quali v. il Forcellini v. Lecto, che non sono frequentativi,
nè lo stesso che lectitare e scriptitare, come dice esso
Forcellini ib. e v. Scripto. Così pure del verbo vivere che
ha il frequentativo victitare, credono alcuni di trovare in Plauto victare
(Captiv. 1.1.V.15.) Da prandere che ha il frequentativo pransitare,
noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso
agg. o partic. e sost. si trova nel Caro e in Dante. (Alberti) V. i Diz.
spagnuoli. V. p.2194. V. p.1140. e 2021. Da mansus di manere si
ha mantare (per mansare), e mansitare. V. p.2149. fine.
Anzi non solo i gramatici non distinguono
ch'io sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello
ch'io sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e
importante, e che io chiamo continuativo con voce nuova, perchè nuova
è l'osservazione.
Ben è tanto vero, quanto naturale e
inevitabile che le significazioni e proprietà primitive de' verbi
continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte confuse nell'uso,
non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi
buoni ed ottimi scrittori, massime da' non antichissimi. E si adoperò
p.e. il continuativo nel significato del suo primo verbo; o perduto il primo
verbo restò solo il continuativo, e s'adoprò in vece di quello
(come noi italiani, francesi ec. diciamo saltare ec. per quello che i
buoni latini dicevano salire, verbo oggi perduto in questa
significazione, e trasferito ad un'altra ec. ec. v. p.1162. e per lo latino saltare,
diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo talvolta prese
la forza del [1116]frequentativo, o qualche volta viceversa; o
finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato
o no. Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili a
conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime, anzi
severissime della proprietà, come la latina; e che dileguandosi appoco
appoco, danno luogo alla nascita de' sinonimi, de' quali v. p.1477. segg. E il
Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è spesso ed
anche sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò
veruno dubita o dell'esistenza di questo genere di verbi, o che quei tali non
sieno frequentativi propriamente e originariamente. I verbi formati nuovamente
da' participi nelle lingue figlie della latina, non hanno ordinariamente se non
la forza del positivo latino. V. p.2022.
Questa facoltà de' continuativi,
è una delle bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la
lingua latina diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le
adattava ad esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva
dal suo fondo tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite
inflessioni e modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva
delle sue radici per cavarne molte e diverse significazioni, distintissime,
chiare, certe, e senza confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca
spesa la sua ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà
manca alla lingua italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi
frequentativi e diminutivi, formandoli da' verbi originarii con modificazioni
di desinenza. Verbi derivati, che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto
spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare,
da punto o da pungere ec. ora la sola diminutiva, come tagliuzzare,
sminuzzolare, albeggiare [1117](formato però non da altro
verbo, ma da nome, come altri pure de' precedenti; che così pure usa
felicemente l'italiano),[10] arsicciare
(siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi
puramente diminutivi); ora l'una e l'altra insieme al modo de' verbi latini in itare,
come canticchiare, canterellare, formicolare ec. (v. il Monti a questa
voce, e alla v. frequentativo). E di altre tali formazioni di verbi e d'altre
voci; formazioni arditissime, utilissime a significare le differenze delle cose,
e moltiplicare l'uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda la
lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, e la
stessa greca. Ma de' continuativi manca affatto, se alle volte non dà
(come mi pare) questo o simile significato a qualche frequentativo, o vogliamo
spesseggiativo. V. p.1155. Manca pure, cred'io, la detta facoltà alla
lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e modificare le sue
radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi bisognerebbe
più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch'ebbe questa
bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in
dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di
tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal
formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero
pure de' continuativi già formati e introdotti. [1118]Giacchè
negli stessi antichi gramatici o filologi latini de' migliori secoli, non trovo
notizia nè osservazione positiva di questa proprietà della loro
lingua. V. p.1160.
Vo anche più avanti e dico che,
secondo me, quasi tutti i verbi latini terminati nell'infinito in tare o
tari (dico tare, non itare) non sono altro che
continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso
andato anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo
continuativo, adoperato quindi bene spesso in vece sua. E credo che l'infinito
di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo
positivo, o il supino, troncando la desinenza in are o ari, e ponendo
quella in us o in um. Come optare, secondo me, dinota un
participio optus di un verbo primitivo e sconosciuto, di cui optare
sia il continuativo. E mi conferma in questa opinione il vedere in alcuni di
questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato in visere, un
participio che non pare appartenente se non ad un altro verbo primitivo, e dal
qual participio medesimo io credo formato quel verbo che rimane. Per esempio il
verbo potare, che, oltre potatus, ha il participio potus.
Io credo che questo participio anomalo in detto [1119]verbo, non sia
contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio regolare
di un verbo che avesse il perfetto povi, come motus ha il
perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco,
di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus
ma notatus. E la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare,
sarebbe stata poo, chè appunto da verbo
greco antico e disusato in questa e nella più parte delle sue voci,
stimano i gramatici che derivi potare. (Forcellini.) Ed osservo che la
propria significazione di potare è infatti continuativa, e denota
azione più lunga che il verbo bibere, come può sentire
ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità. Saepe est largius
vino indulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso verbo.
Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria
ec. cioè un bere continuato, come si può vedere ne' due
primi esempi del Forcellini, che sono di Plauto e Cicerone laddove nel terzo
ch'è di Seneca, vale lo stesso che potio, cioè bevuta,
per la improprietà di quello scrittore più moderno, e meno
accurato. E vedete appunto che potio parola derivata da potus
participio del verbo perduto ch'io dico, significa azione poco continuata,
cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset, [1120]subito
illa in media potione exclamavit, (Cic.) cioè nell'atto di bere.
Laddove potatio formata da potatus di potare, significa beveria,
come ho detto, e non si potrebbe propriamente e convenientemente esprimere con
una voce formata dal verbo bibere. Osservazione, secondo me, assai
forte, e che serve a dimostrare e confermare sì l'esistenza del detto
verbo originario di potare, ed avente il participio potus,
sì tutta la mia teoria de' verbi continuativi.
Rechiamo un altro esempio di tali participi
anomali dinotanti l'esistenza di un verbo primitivo, di cui quel verbo che resta
ed ha detto participio, è, al mio credere, il continuativo. Auctare,
come vedemmo p.1114. è continuativo di augere dal suo participio auctus,
ed ha il participio auctatus. Mactare è lo stesso che magis auctare,
ma oltre mactatus, ha il participio mactus. E siccome mactatus
è magis auctatus, così mactus (e lo dice
espressamente Festo) è magis auctus. Ecco dunque evidente un
antico e disusato verbo magere o maugere cioè magis
augere, di cui mactus è il participio, e mactare il
continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli
attribuisce. V. p.1938. capoverso 1. e p.2136. e 2341.
Il verbo stare, secondo me,
indubitatamente è continuativo del verbo esse formato da un
antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum, [1121]piuttosto
da situs o situm, contratto in stus o stum. O forse
da prima si disse sitare, come secutari, e solutare da cui
soltar per solvere, come ho detto p.1527. e voltare per volutare
ec. L'analogia fra il verbo essere e stare si vede nel nostro
particolare stato di essere, e nel franc. été, sebbene i
francesi non hanno il verbo stare. Del qual participio situs abbiamo
un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch'è participio appunto
di ser essere. E forse sussiste ancora il detto participio nel situs
dei latini che significa collocato, ma che spesso è usurpato dagli
scrittori in significato somigliantissimo a quello di un participio del verbo essere,
e che il Vossio con pessima grazia fa derivare da sinere. È noto
che presso Plauto (Curcul. 1.1.89.) alcuni leggono site in significato
di este, dal che verrebbe situs, così naturalmente come auditus
da audite; e che l'antica congiugazione del presente indicativo di esse,
era, secondo Varrone, (de L. L. l.8. c.57.) esum, esis, esit; esumus,
esitis, esunt. Del rimanente lo stesso Forcellini avvertendo che il verbo stare
si trova adoperato più volte in luogo di esse, soggiunge, cum
aliqua significatione diuturnitatis (v. sto), (e ne reca gli
esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di esso
verbo che è continuativo di esse. Adsentari che il Forcell. dice
esser lo stesso che adsentiri, forse non è altro che un suo
continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari.
Nel Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p.487.) si trova: SENTITARE, in
animo sensim diiudicare. V. p.2200. V. p.1155. e p.2145. fine e p.2324.
fine.
A me par di poter asserire, 1. che tutti o
quasi tutti i verbi latini radicali (intendo non composti, non derivati, non
formati da nomi, come populo da [1122]populus, o da altre
voci), e regolari, cioè non soggetti ad anomalie, constano sempre di una
sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte di tre sole lettere
radicali (al modo appunto de' verbi ebraici); come parare, docere, legere,
facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti sono par, doc, leg,
fac, dic. Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una sola
sillaba, come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum
ec. e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o
viceversa ec. come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono
cinque: scrib, e la sillaba è nondimeno una sola. Talvolta di una
sillaba parimente, e di sole due lettere come amare le cui lettere
radicali sono am, e così anche ponere, cedere e simili,
dove le lettere perpetue sono solamente po e ce, facendo posui,
positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma questi tali anderebbero
piuttosto fra' verbi anomali. Potranno dire che il g di legere
non si conserva nel supino lectum e nel participio; che l'a di facere
si perde nel perfetto feci, e il c di dicere in dixi.
Ma dixi contiene evidentemente il c, essendo lo stesso che dicsi;
e il g di legere si muta nel supino e participio in c per
più dolcezza; non però si perde nè si trascura come l'o
di lego, e come le altre lettere e sillabe che servono alla sola inflessione
de' verbi. E così [1123]dite dell'a di facere, mutata nel
perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o per innovazioni
introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata e non omessa.
Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso che tegsi
e tegtum. V. p.1153.
2. Dico che tutti i suddetti verbi radicali
e regolari, avendo una sola sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella
prima persona presente singolare indicativa, due parimente nella terza persona,
(come i verbi ebraici nella terza persona del perfetto ch'è la loro
radice) e tre nell'infinito.
3. Dico che tutti, o almeno quasi tutti i
verbi latini regolari che hanno più di una sillaba radicale, più
di due sillabe nella prima e terza persona presente singolare indicativa,
più di tre sillabe nell'infinito; non sono radicali, ancorchè
paiano, ma derivati, ancorchè non si trovi da che fonte.
Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari
della quarta congiugazione che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi
in audire. Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola
sillaba radicale, non quanto a quella di due sole [1124]sillabe nella
prima e terza persona indicativa, e di tre sole nell'infinito. Nell'infinito, audire,
sentire ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe. Così nella
terza persona indicativa è chiaro che ne hanno due sole, audit,
sentit. Nella prima persona audio, sentio pare che n'abbiano tre. Ma
io non dubito che anticamente non si contassero queste e siffatte voci per
composte di due sole sillabe, considerando e pronunziando per esempio l'io
di audio, come dittongo. Al modo stesso che queste vocali così
congiunte sono effettivi dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante
nelle forme sì del discorso, sì delle parole, sì della
pronunzia, alla lingua latina antica, di quello che somigli all'aurea
latinità.
Così l'antica pronunzia de' dittonghi
greci che si pronunziavano sciolti, non impediva che si considerassero come formanti
una sola sillaba. De' quali dittonghi parlerò poco appresso. V. p.1151.
fine. e 2247.
Queste considerazioni indeboliscono assai
anche l'eccezione che abbiamo riconosciuta ne' verbi della 4. congiugazione e
provano che se questi pare che abbiano 2. sillabe radicali, ella è
piuttosto una differenza accidentale d'inflessione, che proprietà
essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce sul numero
intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne' luoghi specificati,
è lo stesso in questi che negli altri verbi.
Lo stesso dico de' verbi della seconda
congiugazione, dove doceo, secondo la prosodia latina conosciuta,
è trisillabo. Lo stesso di facio, e simili. Lo stesso de' verbi suadere,
suescere e simili, (verbi per altro anomali) i quali senza essere della
quarta congiugazione, hanno oggi due sillabe radicali, sua e sue,
che anticamente, secondo me, erano una sola sillaba.
Secondo la quale opinione, io penso che si
potrebbe anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la
prima e terza persona singolare [1125]presente indicativa del perfetto,
fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, al modo appunto
che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero. V. p.1231. capoverso
2. Dei verbi della terza congiugazione, questo è manifesto, come in legi
e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi
della seconda, non si può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch'io
credo certissima, (essendo naturale all'orecchio rozzo il considerare due
vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza
il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa opinione, docui
e docuit anticamente furono dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione,
dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi.
Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii
cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è
ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi regolari d'essa congiugazione, a
molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire che fa sensi.
Audii ed audiit (che troverete spessissimo scritti all'antica audi
ed audit, come altre tali i che ora si scrivono doppi) erano,
secondo quello che ho detto, dissillabi. La lettera v, io penso che
fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto, per
più dolcezza. E [1126]tanto sono lungi dal credere che la
desinenza in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che
anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima
congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi,
ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi conferma per una
parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in
questo proposito quello che ho detto p.1124. mezzo), (come anche udii),
e del francese che dice j'aimai; per l'altra parte, e molto più,
l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v,
consonne que l'ancien Orient n'a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction
à l'intelligence des divines Écritures. Lettre 6. à Paris 1751.
t.1. p.167.) V. p.2069. principio. E lasciando gli argomenti che si
adducono a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali
rispetto agli Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da
quelli, osserverò solamente che la detta lettera manca alla lingua
greca, colla quale la latina ha certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o
le sia, come credo, sorella. E di più dice Prisciano (l. I. p.554. ap.
Putsch.) (così lo cita il Forcell. init. litt. u nella mia ediz.
del 400. sta p.16. fine) che anticamente la lettera u multis italiae populis
in usu non erat. E che il v consonante fosse da principio appo i
latini una semplice [1127]aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo
me dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di
altre greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come ovis, vinum , video
, viscus
o viscum . (Talora
anche in luogo di spirito denso come , onde gli
Eoli ℲℲ, i latini
filius.) V. Encyclop. Grammaire. in H. pag.214. col.2. sul
principio, e in F. ec. E ch'elle sieno parole gemelle, è consenso
di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo
in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente),
come in che
presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. V.
p.2196. Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si
leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma. e vedilo), e
Prisciano (p.9. fine-11. e vedilo). Da' quali apparisce che il v
consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè
dagli eoli prese assai, com'è noto, la lingua lat.). Il qual digamma
presso gli Eoli era un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva
alle parole comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si
frapponeva alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai,
amplia Ⅎit termina
Ⅎitque ha
un'iscrizione presso il Grutero (V. Encyclop. Grammaire, art. F. Cellario,
Orthograph. Patav. Comin. 1739. p.11-15.). E v. il luogo di Servio nel
Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione. Dalle quali osservazioni
essendo chiaro che l'antico v latino fu (come oggi fra' tedeschi) lo stesso
che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la
f non fu da principio lettera, ma aspirazione, e lieve. E così
viceversa gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, fuso,
figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca,
fender, ora dicono hazer, herido, ahogar, huso, higo, huìr,
hierro, hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca, hender ec. V.
p.1139. e
Queste osservazioni ci porterebbero anche
più avanti non poco, ed avendo veduto che tutti i verbi radicali e
regolari latini hanno una sola sillaba radicale, verremmo a dedurne che la
lingua latina da principio fu tutta composta di monosillabi, come è
probabile e naturale che fossero tutte le lingue primitive (balbettanti come
fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non monosillabi;
(come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola, accorciando, e
contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e finalmente, ma
solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d'ogni misura, in forza per
altro della imitazione, e dell'esempio che hanno di chi le pronunzia, il che
non avevano i primi formatori delle lingue) e come è tuttavia la cinese,
meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a
causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo. Ecco come bisogna
discorrere.
Ho detto che intendeva per verbi radicali,
fra le altre cose, quelli non composti e non derivati da nomi. Ma voleva dire
da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i metafisici moderni
s'accordano, che tutte le lingue son cominciate e derivano da' nomi, e il vocabolario
primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice nomenclatura (Sulzer).
È dunque indubitato che anche quei verbi latini che paiono radicali,
derivano da nomi sconosciuti, giacchè le radici d'ogni lingua furono i nomi
soli, e volendo esprimere azioni, [1129]non s'inventarono certo nuove
radici, che non sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè
passare prima che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la
nomenclatura era già stabilita); ma si derivarono dalle radici
esistenti, cioè da' nomi. Ora vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali,
ossia che non hanno veruna derivazione nota, nè composizione ec. hanno
una sola sillaba radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo
furono nomi, tutte furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la
fonte di tutta la lingua latina, fu tutto monosillabo. Osserviamo per esempio i
verbi pacare, regere, vocare, ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti,
e perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba
e 3. sole lettere radicali, 3. sillabe all'infinito ec. E tuttavia non gli
possiamo chiamare radicali perchè resta notizia de' nomi da cui sono
formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate
che di questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state
fra le prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e
similmente rex, e dux nella prima società. Così l'antico
precare e lacere, che cadrebbono sotto la stessa categoria,
sappiamo che vengono da prex e lax monosillabi. Così sperare
da spes. Così arcere da arx che significa luogo
alto, cima, altezza (idea certo primitiva nelle lingue) e quindi rocca,
fortezza. V. p.1204. Così quiescere da quies, partire
e partiri da pars, tutte idee primitive. Lactare da lac.
V. p.2106. principio. [1130]Se così discorressimo intorno agli
altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non presi poi manifestamente dal
greco, o d'altronde) che hanno una sola sillaba radicale, e che non si vede da
qual nome sieno derivate, potremmo forse più volte ritrovare di questi
nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi. Legere lo fanno derivare
da ; e lex
Cicerone e Varrone a legendo. Ma la natura delle cose porta che il nome
sia prima del verbo. Oltre ch'è più facile, più conforme
al meccanico dell'etimologia, ed al solito progresso delle parole il derivare legere
da lex che viceversa. Io penso che lex sia la radice di legere
ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso da quello di legge,
ed atto a produr quelli di legere. Fax vale face, e deriva, come
pare, dal greco, ed è tutt'altra parola da quella ch'io voglio dire. Penso
cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax
di significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex,
pontifex, carnifex ed altri tali composti. La prima parola è
composta di ars e fax, la seconda di pons e fax, la
terza di caro e fax, cambiato in fex per forza della
composizione, come factus diviene fectus ne' composti, adfectus,
effectus, confectus ec. e facere [1131]nel perfetto ha feci,
e così iacere ha ieci, e jactus fa adiectus,
deiectus ec. Similmente che capere derivi da un antico monosillabo caps
si può dedurre dai composti particeps, anceps, auceps ec. Fra'
quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato
dall'antica preposizione amphi rispondente alla greca , e
troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti
convengono), e da caps appartenente a capere, di quello che a caput,
come piace ad altri, fra' quali il Forcellini. Giacchè mi pare che risponda
letteralmente al greco composto
appunto di e di capio,
piuttosto che ad , come lo
spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi adoperato in significazioni
più conformi a questa seconda voce. Ma io credo poi che questo caps
sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne' di cui composti
parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps). La qual parola
Varrone fa derivare da capere (ap. Lact. de Opif. Dei c.5.) ed io per lo contrario capere da caput,
o dalla stessa radice; dalla quale però io credo derivato prima caput,
e poi capere, o che essa radice, significasse da principio caput.
Giacchè, lasciando che questo è nome, e quello è verbo,
è ben più naturale, [1132]che prima sia stata nominata la
parte principale del corpo umano, e poi l'azione del prendere. E non so se
possa qui aver niente che fare il nostro cappare (volgarmente capare),
che significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere
capo per capo, cioè cosa per cosa, o scegliere un capo,
ossia una cosa, fra altri capi o cose. E così capere da
principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo
cioè una cosa, nominando la parte principale pel tutto, o
prendendo la metafora dall'essere il capo la parte principale dell'uomo: onde i
latini, (ed anche oggi gl'italiani testa, e i francesi tant par
tête, cioè tant par chaque personne. Alberti) dicevano caput
per uomo, o persona, o individuo umano. V. ancora il §.6.7
e 10. della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese e spagnuolo ec.
V. chef etc. e il lat. caput nelle significazioni di detti §§.
della Crusca, e così anche i Lessici greci. V. p.1691.
La radice monosillaba dell'antico specere
o spicere si troverebbe similmente ne' composti auspex, haruspex,
cioè spex o spax. Così di iungere in coniux
o coniunx, cioè iux o iunx ec. V. p.1166. fine.
2367. principio.
E così si scoprirebbe come da pochi
monosillabi radicali, o tutti nomi, o quasi tutti, che formavano da principio
tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e differenziandoli con
variazioni di significato, e con innumerabili inflessioni, composizioni,
modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a cavare infinite parole,
infinite significazioni, esprimerne le minime differenze delle cose che da
principio si confondevano e accumulavano [1133]in ciascuna delle dette poche
parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto alla
necessità quanto all'utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi
del discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi
nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e
perfette che sieno state. E così denno essersi formate tutte le lingue
colte del mondo ec. Così la Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa
il formare un albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte
ec. da uno di questi monosillabi, come p.e. dux, che somministrerebbe
un'infinita figliuolanza, senza contare le tante inflessioni particolari di
ciascuno de' verbi o nomi derivati o composti ec. ne' loro diversi casi, o
persone e numeri e tempi e modi, e voci (attiva e passiva); e si vedrebbe per
l'una parte quanto le vere radici sien poche nella latina come in tutte le
lingue, per la naturale difficoltà di porle in uso, e di far nascere la
convenzione che sola le può fare intendere e servire; per l'altra parte
quanta sia l'immensa fecondità di una sola radice, e le diversissime
cose, e differenze loro, ch'ella si adatta ad esprimere mediante i suoi figli
ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.
Raccogliendo il sin qui detto, io penso che
se tali osservazioni si facessero in maggior numero e con più diligenza
che non si è fatto finora, (della qual diligenza e profondità
gl'inglesi e i tedeschi ci hanno già dato l'esempio anche in questi particolari,
massime negli [1134]ultimi tempi, come Thiersch ec.) si semplificherebbe
infinitamente la classificazione derivativa delle parole, ossia delle famiglie
loro; l'analisi delle lingue si spingerebbe quasi sino agli ultimi loro
elementi; si giungerebbe forse a conoscere gran parte delle lingue primitive;
(v. Scelta di opusc. interess. Milano 1775. vol.4. p.61-64.) lo studio
dell'etimologie diverrebbe infinitamente più filosofico, utile ec. e
giungerebbe tanto più in là di quello che soglia arrestarsi;
facendosi una strada illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii
delle parole, e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole; si
conoscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vicende, le gradazioni,
i progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e
spesso la loro vera) natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime
bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili e filologiche, ma
fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue è poco
meno (per consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia della
mente umana; e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla
storia delle nazioni. V. p.1263. capoverso 2.
Osservo che la lingua latina è
più atta a queste speculazioni che la greca, contro quello che
può parere a prima giunta, per causa della sua minore antichità
vera o supposta.
2. Le diversissime relazioni ch'ebbero i
popoli greci con popoli stranieri d'ogni sorta, mediante il commercio, le
guerre, le colonie, le spedizioni d'ogni genere ec. ec. relazioni antichissime
ed anteriori a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca;
relazioni che hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le
sue ricchezze per l'una parte, per l'altra mandate molte sue proprie ed
antichissime radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (v. in questo
proposito il luogo di Senofon. della lingua Attica); recano altro gravissimo
impedimento al nostro fine. Trattandosi massimamente di relazioni con popoli le
cui lingue sono quali del tutto sconosciute, quali malissimo note. I latini
ebbero altrettante e forse maggiori relazioni con forse maggior numero di popoli,
ma in tempi più moderni. Il che 1° diminuisce la difficoltà delle
ricerche: 2° la lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di
essere la più colta del mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono
[1136]le grandi ed estese relazioni de' latini cogli stranieri) era meno
soggetta ad esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3°
conoscendo noi bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette
relazioni, le alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non
pregiudicano alle nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi
di quella lingua che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era fanciulla.
Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l'affinità del
sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata dall'origine
stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le loro
osservazioni, dicendo che la penisola d'Italia vorrà probabilmente
riputarsi più favorevole (della Grecia) alla pura trasmissione
della lingua originale, potendo essa essersi tenuta più lontana dalla
mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi diversi. (Edinburgh
Review. Annali di Scienze e lett. Milano 1811. Gennaio. n.13. p.38. fine.) E si
trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che
fra le stesse greche e sascrite, e pare che la lingua lat. ne abbia meglio
conservate le prime forme. L'H derivata dall'Heth dell'alfabeto fenicio, samaritano
ed Ebraico, il quale Heth era un'aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches
des caractères) simile all'j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel
latino la sua qualità di carattere aspirativo, laddove è passata
a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno
d'aspirazione o spirito. La f e il v mancanti all'alfabeto Fenicio
(Encyclop. l.c.) mancarono pure come vedemmo all'antico alfabeto latino V.
p.2004-2329. (e la p.2371. fine)
3. E questa che son per dire è la
ragione principale. Tutti sanno, e dalle cose ancora che abbiamo dette, si
può vedere, quanto le lingue si allontanino [1137]immensamente
dalla loro prima e rozza forma mediante la coltura. Una lingua non colta, e
parlata da un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi
lunghissimo tempo o qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo
facilmente vi si possa ripescare. La lingua latina fu veramente formata e
stabilita e perfezionata solo negli ultimi tempi dell'antichità.
Giacchè l'epoca del suo perfezionamento è quella di Cicerone. Ed
oltre parecchi monumenti rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale
a dire, totale trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora
molti scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della
Ciceroniana. Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se non
altro, assai vicino ai principii della lingua latina.
Ora per lo contrario la formazione e quasi
perfezione della lingua greca appartiene non solo alla più lontana epoca
dell'antichità che noi conosciamo distintamente, ma anzi ad un'epoca
ancora tenebrosa e favolosa. E il più antico monumento della scrittura
greca che ci rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la
più antica scrittura [1138]che si conosca: dico Omero. E questo
scrittore non solamente non è rozzo, ma tale che non ha pari di pregio
in veruno de' secoli susseguenti. Nè tale avrebbe potuto essere senza
una lingua o perfetta, o quasi. Bisogna dunque supporre (come tutti fanno)
avanti Omero, una lunga serie di tempi e di scrittori ne' quali la lingua di
rozza e impotente divenisse appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni,
i Plauti, i Lucrezi che precederono Omero, non ci restano, come quelli che
precederono Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nessuno di
loro. Anzi da Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca. V.
dunque la gran differenza degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca,
paragonati con quelli per la prima lingua latina. Possiamo dire che nella
lingua latina abbiamo la stessa antichità della greca, e contuttociò
un'antichità meno antica e più vicina a noi.
Io credo però che la ricerca di
questa, ci farà strada alla ricerca delle origini greche. Stante che la
lingua latina è sorella della greca, ed arrivando alla fonte di quella,
si giunge dunque alla fonte di questa. O se il latino è derivato dal
greco, certo n'è derivato in antichissima età, e così
verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest'antichissima età
della lingua greca. V. p.1295.
Se è vera l'opinione del Lanzi che la
lingua [1139]Etrusca non sia fuori che un misto dell'antichissimo latino
e dell'antichissimo greco, detta lingua, e il suo studio potrà molto
giovare a queste nostre ricerche. E vicendevolmente le osservazioni che abbiam
fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla intelligenza e rischiaramento
della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l'altra parte
altrettanto interessante.
(29. Maggio-5. Giugno 1821.)
Alla p.1127. E lo pronunziavano così
leggermente, che ora sebbene ne resta un vestigio nella scrittura, convertito
nel segno dell'aspirazione, è svanito però del tutto dalla
pronunzia, anche come semplice aspirazione. Similmente i francesi, per quello
che noi diciamo fuori o fuora e gli spagnuoli fuera dal
lat. foras o foris, dicono hors, aspirando però l'h.
In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il v. Il
greco, non è, come si
sa, che un aspirato,
come si vede anche nelle mutazioni gramaticali e sostituzioni dell'una di tali
lettere all'altra. Mancava, come si dice, al primitivo alfabeto greco detto
Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come dicono, da Palamede (Plin. 7.56.)
insieme col e col J che sono un ed un aspirati
(Servius ad Aen. 2. vers.81.) V. Fabric. B. G. I. 23. §.2. e il Lessico
dell'Hofmanno, v. Literae. È anche probabile che mancasse
all'Alfabeto ebraico e che il b non fosse
che un p. lettera che oggi manca a detto alfabeto. V. p.1168. L'alfabeto
chiamato Devanagari ossia quello della lingua sascrita, (dalla quale alcuni
dotti inglesi fanno derivar la latina) sebbene composto di 50 lettere manca,
della f, e invece la detta lingua adopera un b, o un p
aspirati. (Annali di Scienze e lettere. Milano 1811, n.13, p.43.) ec. ec. (5.
Giugno 1821.). Considera ancora il nome greco di Giapeto, da Jafet, ebreo o
fenicio ec.
[1140]Alla p.1115. E perchè
meglio si veda la differenza reale tra i frequentativi e i continuativi, ogni
volta che questi verbi erano usati dagli scrittori, secondo il loro valor
proprio, consideriamo quel passo di Virgilio (Aen. 2.458. seq.) dove dice Enea
che salì alla sommità della reggia di Priamo assediata da' Greci:
Evado ad summi fastigia culminis: unde
Tela manu miseri IACTABANT
irrita Teucri.
Per poco che s'abbia l'orecchio avvezzo al
latino, facilmente si vede come impropria e debole in questo luogo sarebbe la
parola iaciebant invece di iactabant. Ma quanto male vi starebbe
anche iactitabant, cioè il frequentativo di iacere, si vedrà
ponendo mente che detta parola avrebbe significato lanciare spesso, ed anche languidamente;
laddove iactabant, continuativo, significa lanciavano assiduamente, e
a distesa senza veruna intermissione. E così questo verbo riesce
proprissimo, ed ottimamente quadra al bisogno. E l'azione qui viene ad essere
continuativa, e non frequentativa, che è troppo poco ad una resistenza
ostinata quale Virgilio voleva esprimere. V. dunque la differenza fra il
continuativo e il frequentativo, e se iactare sia frequentativo come
dicono i gramatici. Nè mi si dica che Virgilio voleva esprimere una
resistenza debole e inutile, e però volle usare una parola che
esprimesse certo languore di azione. Debole e inutile, [1141]rispetto
alle forze superiori de' greci, non già debole rispetto alle forze degli
assediati, anzi tanta quanta più si poteva. E Virgilio vuol descrivere
una resistenza quanto più vana, tanto più disperata. E
così quel miseri e quell'irrita che esprimono
l'inutilità della resistenza fanno un bello e vivo contrapposto collo iactabant
che esprime lo sforzo, l'infaticabilità, l'affanno, l'ostinazione, la
ferocia, la fermezza, la pienezza della resistenza, e rende questo luogo
sommamente espressivo in virtù della proprietà delle parole, al
solito di Virgilio. La qual bellezza, e la piena forza e il vero senso di
questo verbo nel detto luogo e in altri simili, come ancora di altri tali verbi
in tali usi, e le bellezze d'altri siffatti luoghi, non credo che sieno state
mai sentite da nessun moderno, per non essersi mai posto mente alla vera
proprietà, alla propria forza, natura, indole di questo genere di verbi
che chiamo continuativi. Servio spiega, IACTABANT: Spargebant, quasi nihil
profutura, senso che non ha che far niente con quello che abbiamo osservato,
e che deriva dal credere iactare un verbo tra frequentativo e
diminutivo, come iactitare o presso a poco; e che tuttavia credo essere
il senso nel quale questo e mille altri luoghi simili ed analoghi sono stati e
sono intesi da tutti.
(6. Giugno 1821.). V. p.2343.
[1142]Alla p.1109. Fra' quali da depositus
di deponere il verbo depositare o dipositare italiano, e
lo spagnuolo depositar e il latinobarbaro depositare, verbo che
continua quanto si può l'azione del deporre, significando il deporre una
cosa che non si debba ripigliare così tosto, o il deporla
raccomandandola, e commettendola alla fede, o ponendo in cura e custodia
altrui, che ognun vede essere azione più lunga del deporre, e quanto il
deporre sia più semplice. Il Glossar. latino barbaro ha similmente assertare
ec. da assertus ec. usitare frequentativo ec. da usus ec.
conservato in italiano, come pure il suo participio in francese ec. V. il detto
Glossar.
Molti di così fatti verbi che si
stimano di origine o barbara o recente, e nati ne' tempi della bassa
latinità, o ne' principii delle lingue nostre, io credo che sieno
antichi continuativi latini o perduti o non ammessi nell'uso de' buoni scrittori,
e pervenuti alla lingue nostre mediante il latino volgare. Portiamone alcune
prove.
Versare è continuativo di vertere
dal suo participio versus. Il Forcellini lo chiama frequentativo. E io
domando se in questi esempi ch'egli adduce (v. gli esempi del primo §.) versare
importa frequenza o continuazione. E così quando Orazio disse
Vos exemplaria graeca
Nocturna versate manu, versate diurna
facilmente si vede che dicendo vertite
avrebbe detto assai meno, e significata l'assiduità molto
impropriamente. Così discorrete del passivo versari che [1143]significa
un'azione o passione della quale non so qual possa essere di sua natura
più continua. Così di conversari, adversari ec. Da versare
o da transversus, participio di transvertere, deriva transversare,
e da questo il traversare, l'attraversare, e l'intraversare italiano,
il francese traverser, e lo spagnuolo travessar e atravessar.
Ma il verbo transversare escluso dagli onori del Vocabolario sta
relegato ne' Glossari, come in quello del Du Cange che l'interpreta transire,
trajicere; e il Forcellini lo rigetta appiè del suo Vocabolario
nello spurgo delle voci trovate senza autorità competente ne vecchi
Dizionari latini, e lo spiega transverse ponere. Nè la recente
Appendice al Forcellini lo toglie di quel posto o lo ricorda in veruna guisa.
Ora ecco questa parola barbara in un gentilissimo poemetto o idillio del secolo
di Augusto o del susseguente, dico in quel poemetto che s'intitola Moretum,
(attribuito da alcuni a Virgilio, da altri ad un A. Settimio Sereno o Severo,
poeta Falisco del tempo de' Vespasiani) ad imitazione del quale, (cosa finora,
ch'io sappia, non osservata) il nostro Baldi scrisse il famoso Celeo, dove
quasi traduce i primi versi del poemetto latino. Dice dunque l'autore d'esso
poemetto
[1144]Contrahit admistos nunc
fontes atque farinas:
TRANSVERSAT
durata MANU, liquidoque coactos
Interdum grumos spargit sale.
(v.45. seqq.)
Cioè vi passa e ripassa sopra
colla mano, attraversa quella pasta già sodetta colla mano. Ecco
dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec. di origine antica,
e latina pura.
Potrebbe darsi che transversare
volesse dire a un dipresso versare, cioè rivolgere e dimenare fra
le mani. Nondimeno la spiegazione che danno il Gloss. e il Forcell. a transversare,
la prep. trans, e il significato della voce transversus ec. par
che confermino la mia interpretazione. C'è anche il verbo transvertere
di cui v. Forcell. e di cui transversare par che debba essere il
continuativo.
Tiriamo innanzi con altro esempio. Da arctus
o arcitus antico participio di arcere preso nel significato di coercere,
continere (del quale v. Festo e il Forcellini che ne dà buoni
esempi), viene il continuativo arctare che significa stringere constringere,
non già momentaneamente come quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere
continuatamente, ed in modo che l'azione dello stringere non sia un puro atto,
ma un'azione. O da arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare
che significa ne' buoni scrittori latini ristringere. Ma ne' Glossari
latino barbari questo verbo si trova in significato di costringere o forzare,
e in questo senso l'adoperò Paolo giureconsulto l'esempio del quale
è registrato negli stessi vocabolari latini: e in questo senso assai
più che in quello di ristringere (oggi, si può dire dimenticato)
s'adopera in Italia coartare e coartazione, quantunque la Crusca
non dia questo significato a coartare, [1145]e dandolo a coartazione,
s'inganni credendo che nell'unico esempio che riporta, questa parola sia presa
in detto senso, giacchè v'è presa nel senso di restrizione;
conforme ha dimostrato il Monti (Proposta ec. alla voce Coartazione.
vol.1. par.2. p.166.). Il quale condanna come barbare le parole coartare
e coartazione prese in forza di Costrignimento, Sforzamento. Ora
io credo che questo significato non sia nè barbaro in italiano,
nè moderno nel latino, ma antico ed usitato nel latino volgare, quantunque
non ammesso nelle buone scritture.
Primieramente osservo che coarctare
è continuativo di coercere, e coercere, come ognun sa, ha
ne' buoni latini un significato metaforico (più comune forse del proprio)
che somiglia molto a quello di forzare. Anzi alcuni gramatici gli danno
anche questo significato, sebbene sopra autorità incompetente,
cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti attribuito a
Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae cohabitare
COERCUIT, cioè costrinse. Il quale libretto sebbene dagli eruditi
è creduto apocrifo, e dell'età mezzana, tuttavia non è
forse d'autorità nè di tempo inferiore a molti e molti altri che
sono pur citati nel Vocabolario latino. Laonde, se coercere [1146]significava
forzare, o cosa somigliante, è naturalissimo che il suo
continuativo coarctare avesse, almeno nel volgare latino, lo stesso o
simile significato.
In secondo luogo osservo che la metafora
dallo stringere al forzare è così naturale che si
trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in tutte le lingue che ne derivano.
Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine exemplo monerem: deinde ut in
posterum ipse AD EANDEM TEMPERANTIAM ADSTRINGERER, cum me hac epistola
quasi pignore obligavissem, dice Plinio minore (l.7. ep.1.). Che altro vuol
dire se non costringersi, forzarsi, obbligarsi (com'egli poi spiega) alla
temperanza? Altri usi di adstringere (e parimente di obstringere,
constringere, e del semplice stringere latino) similissimi a quelli
di forzare sono noti ai gramatici. E cogere che in senso metaforico
(più comune ancora del proprio) significa forzare, ed è
contrazione di coagere, che altro significa propriamente se non se in
unum colligere, congregare, condensare, spissare, colligare, constringere?
Il suo continuativo coactare si adopra pure da Lucrezio nel significato
di forzare. Presso noi stringere, astringere, costringere, [1147]oltre
i significati propri hanno anche il metaforico di sforzare. Presso i
francesi astreindre e contraindre si sono talmente appropriato il
detto senso, che astreindre manca del primitivo significato di stringere,
e in contraindre si considera questa significazione propria, come
figurata. Il che avviene ancora al secondo e terzo dei detti verbi italiani.
Presso gli spagnuoli apretar che significa stringere, vale ancora
comunemente hacer fuerza, ossia sforzare; e constreñir
o costreñir (da estreñir che significa stringere)
non serba altro significato che di sforzare. Estrechar ha quello di stringere
per significato proprio e comune, e quello di costringere o sforzare
per metaforico. Il legare è una maniera di stringere. Ora, lasciando le
significazioni metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare[11]
in italiano, in francese, [1148]in ispagnuolo ognuno sa che obligare,
obliger, obligar si adopra continuamente nell'espresso significato di costringere.
Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di coercere),
oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella
bassa latinità, ma nell'antico volgare latino, il senso di forzare.
(6-8. Giu. 1821.). V. p.1155.
Alla p.1107. Quantunque il Forcellini chiama
acceptare frequentativo di accipere, sed, aggiunge, eiusdem
fere significationis. Ora la differenza della significazione la può
sentire ne' detti esempi ogni buon orecchio, sostituendovi il verbo accipere.
E quanto al frequentativo, osservi ciascuno che differenza passi dal ricevere
annualmente una tale o tale entrata, ch'è azione continua
rispettivamente alla natura del ricevere, al ricevere frequentemente; azione
che non importa ordine, nè regola, nè determina il come,
nè il quando nè con quali intervalli si riceva.
Ed a questo proposito porterò un
luogo di Plauto, dove Arpage venuto per pagare un debito [1149]del suo
padrone, dice a Seudolo servo del creditore Tibi ego dem? Risponde
Seudolo
Mihi hercle vero, qui res rationesque, heri
Ballionis curo, argentum adcepto, expenso,
et cui debet,
dato. (Pseud. 2.2. v.31. seq.)
Ecco tre continuativi, e nella loro piena
forza e proprietà: adceptare da adceptus di adcipere,
expensare da expensus di expendere, e datare da datus
di dare. Crediamo noi che Plauto abbia posti a caso questi tre verbi in
fila, tutti d'una forma, in cambio de' loro positivi? Ma qui stanno e debbono
stare i continuativi in luogo de' positivi, perchè questi esprimono una
semplice azione, laddove qui s'aveva a significare il costume di far quelle
tali azioni. Datare alcuni dicono ch'è lo stesso che dare.
(Indice a Plauto). Vedete come s'ingannino, e sbaglino la proprietà
dell'idioma latino. Il Forcellini lo chiama frequentativo di dare, e
portando un passo di Plinio maggiore, Themison (medico) binas non
amplius drachmas (di elelboro) datavit, spiega dare consuevit.
Ma il costume è cosa continua (quando anche l'azione non è continua)
e non già frequente, e la frequenza viceversa non importa costume. E
quando Plauto in altro luogo (Mostell. 3.1. v.73.) dice Tu solus, credo,
foenore argentum datas; [1150]e Sidonio (lib.5. ep.13.), ne tum
quidem domum laboriosos redire permittens, cum tributum annuum DATAVERE,
usano il continuativo in luogo del positivo, perchè hanno a significare
non il semplice atto di dare, ma il costume di dare, che è cosa
nè semplice nè frequente, ma continua.
Da sputus o sputum di spuere,
sputare. Iamdudum sputo sanguinem, dice Plauto, cioè soglio
sputar sangue, e non avrebbe potuto dire spuo. V. in tal proposit.
Virgil. (Georg. 1.336.) receptet. Ricettare e raccettare in
italiano non è azione venti volte più continua, o durevole ec. di
ricevere? V. anche resultat Georg. 4. 50. ed osserva il risultare
ital. franc. e spagn. Puoi vedere p.2349.
Da ostentus di ostendere,
participio, a quel che pare, più antico di ostensus, ebbero i
latini il continuativo ostentare.
Altera manu fert lapidem, panem
OSTENTAT altera
disse Plauto (Aulul. 2.2. v.18.), e non
avrebbe potuto dir propriamente ostendit, volendo significar uno che
quasi ti mette quel pane sotto gli occhi, perchè tu non solamente lo
veda, ma lo guardi. E Cicerone metaforicamente (Agrar. 2. c.28.): Agrum
Campanum quem vobis OSTENTANT, ipsi cuncupiverunt. Ponete ostendunt
invece di ostentant, e vedrete come l'azione diventa più breve, e
la sentenza snervata e inopportuna. Lo stesso dico delle altre metafore di ostentare
per iactare, gloriari, venditare e simili, tutti significati continuati.
(8-9. Giu. 1821.). V. p.2355. principio.
Alla p.1166. Quello che dico de' verbi in tare
si deve anche estendere ad altri verbi terminati in altro modo, massimamente in
sare per anomalia de' participi o supini da cui derivano; come pulsare
(che anticamente, e soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si
scrisse anche pultare) [1151]è continuativo di pellere dall'anomalo
participio pulsus, e così versare di vertere, ed
altri che abbiamo veduto. Voglio però notare che forse pultare
creduto lo stesso che pulsare, è contrazione di pulsitare,
e diverso originariamente da pulsare quanto è diverso il
frequentativo dal continuativo. E quanto a pulsare s'egli sia
propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in questo
luogo di Cicerone (De Nat. Deor. 1. c.41.) cum SINE ULLA INTERMISSIONE
PULSETUR. Così da responsus o responsum di respondere,
viene responsare continuativo.
Num ancillae aut servi tibi
Responsant? eloquere: impune non erit.
(Plaut.
Menaechm. 4.2. v.56. seq.)
Cioè ti sogliono rispondere
arrogantemente, non già ti rispondono semplicemente ovvero ti
rispondono spesso. E nel significato metaforico di resistere il verbo responsare
è parimente continuativo, e così quando significa eccheggiare,
che è cosa più continuata del rispondere, e per nulla frequente,
come ognun vede. (9. Giugno 1821.). Così da cessus di cedere
viene cessare, il quale chiamano frequentativo, sebbene io non sappia
veder cosa più continuata di quella ch'esprime questo verbo. V. p.2076.
Alla p.1124. marg. E chiunque porrà
mente ai versi de' comici, e altresì di Fedro, e degli altri Giambici
latini, o se n'abbiano opere intere (come Catullo, le tragedie di Seneca) o
frammenti, ci troverà molte altre licenze proprie di quelle sorte di
versi, e note agli eruditi; ma anche [1152]potrà di leggeri
avvertire che dovunque s'incontrano due o più vocali alla fila, o nel
principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali per lo più
e quasi regolarmente stanno per una sillaba sola, come formassero un dittongo,
quantunque non lo formino, secondo le leggi ordinarie della prosodia.
Fuorchè se dette vocali si trovano appiè de' versi, dove bene
spesso (come ne' versi italiani) stanno per due sillabe, ma spesso ancora per
una sola, come in questo verso di Fedro:
Repente vocem sancta misit Religio.
(lib.2. fab.11 al.10. vers.4.) Questo
è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la
penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la
sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo, sebbene in questo e
nelle leggi metriche, più diligente assai degli altri, (Carm.18. al.17.
vers.1.)
O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo
la penultima dovendo esser lunga, non
è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li,
s'è vera questa lezione di ligneo per longo come altri
leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici
sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La parola ligneo
è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo). E
quello che dico de' latini, dico anche dei greci. Nel primo verso della
Ricchezza di Aristofane
[1153]la parola è
trisillaba. E notate che scrivendo
ƒ
senza nessuna fatica questo verso riusciva
giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca. Dal che
si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza
del discorso, (Oratoris cap.55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte
vocali doppie ec. come dittonghi, e conseguentemente che l'uso quotidiano della
favella (tenace dell'antichità molto più che la scrittura) le
stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia
come nel Lazio. Puoi vedere la nota del Faber al 2. verso del prologo di
Fedro, lib.1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas, p.
LI. fine.
(10. Giugno, dì di Pentecoste. 1821.).V. p.2330.
Alla p.1123. Anzi, secondo me, da principio
si diceva legitus, tegitus, agitus, quindi per contrazione, legtus,
tegtus, agtus, e finalmente per più dolcezza, lectus, tectus,
actus. E chi se ne vuol persuadere, ponga mente al verbo agitare, il
quale, secondo quello che abbiamo osservato e dimostrato finora, è
formato dal participio (o dal sup.) di agere. [1154]E quindi
s'inferisce che l'antico e primo participio di agere non fu actus
ma agitius da cui venne agitare, come poi da actus actitare.
V. il Forcell. in Caveo, fine. e p.2368. Lo stesso dico di cogitare
o venga da agitare, o dall'antico coagitus di cogere. V.
p.2105. capoverso 1. E similmente come da lectus di legere
derivarono lectare e lectitare, così dall'antico legitus,
il verbo legitare mentovato da Prisciano.
(10. Giugno 1821.). V. p.1167.
Alla p.1113. marg. Se però rogitare
non deriva da un antico participio rogitus di rogare (come domitus
di domare, crepitus ovvero il sup. crepitum di crepare, e
tali altri) del che mi dà forte sospetto la nostra voce rogito
participio sostantivato da rogare, in vece di rogato. Da lactatus
allattato, lactitare ec. Restitare non saprei se da restatus,
o restitus, ambedue inusati, e se da resisto, o resto. V.
p.2359. La bassa latinità diceva parimente rogitus us nello
stesso significato, ed anche addiettivamente rogitus a um, e roitus
in luogo appunto di rogatus, del che v. il Du Cange. Del resto anche da paratus
di parare, da imperatus d'imperare, da volatus o volatum
di volare, da vocatus di vocare (v. Forcell. circa vocitare
che par verbo continuativo dinotante costume), e da mussatus di mussare
i latini fecero paritare, imperitare, volitare, vocitare, e mussitare; e
generalmente pare che questo fosse il costume nel formare o i frequentativi o i
continuativi da' participii in atus della prima congiugazione; di
cambiare cioè l'a del participio in i, per isfuggire il
cattivo suono p.e. di mussatare, o mussatitare. (Eccetto
però datare ec.) Così da mutuatus di mutuare
fecero mutitare sincopato da mutuitare se crediamo a quelli che
derivano questo verbo mutitare dal precedente mutuare. Altri lo
derivano da mutare, e fa parimente al caso nostro.
(11. Giugno 1821.). V. p.2079. e 2192. fine. e 2199. principio.
[1155]Alla p.1148. Lo spagnuolo pintar,
cioè dipingere derivato certo dal participio del verbo pingere,
sembra che se non altro dinoti un antico participio pinctus, in vece di pictus,
participio regolare e proprio di pingere, come tinctus di tingere,
cinctus di cingere, planctus o planctum di plangere
ec. (e v. p.1153. capoverso ult. donde raccoglierai che il primo e vero
participio passivo di tali verbi era pingitus, tingitus ec.) e
conservatosi, a quel che pare, nel volgare latino. (11. Giugno 1821.). Non
diciamo noi pinto, dipinto ec.? Pitto solamente in poesia come il
Rucellai nelle Api. I francesi peiNt ec.
Alla p.1121. Così dubitare
deriva da dubitus o dubitum o dubiatum (v. p.1154.) di un
antico dubiare mentovato da Festo, e conservato nell'antico italiano.
Questo però terminando in itare può anche, secondo il
detto alla p.1113. essere un verbo tra frequentativo e diminuitivo, sul gusto
di haesitare da haerere, che somiglia anche nel significato. V.
p.1166. fine.
(11 Giu. 1821.)
Alla p.1117. Nostri soli continuativi sono i
verbi venire e andare uniti a' gerundi de' verbi denotanti
l'azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo. I
quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità,
che non ne hanno propriamente i continuativi latini. E dimostrano una languida
continuazione della cosa, un'azione più languida, e meno continua, ed anche
interrotta; e di più un'azione meno perfetta. V. p.1212. capoverso 1. e
p.2328.
(11. Giugno 1821.)
Alla p.1128. Da queste osservazioni
apparisce che la desinenza italiana della prima persona attiva singolare del
perfetto indicativo, dico la desinenza in ai, è la vera e
primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli dopo
sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa, mediante il volgare latino;
e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli [1156]è
succeduta. Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra
sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli
(altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza
fallo derivata dall'antichissimo amai, mutato il dittongo ai
nella lettera e, forse a cagione del commercio scambievole ch'ebbero i
francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie loro ne' principii di queste e
di quelle: commercio notabilissimo, lungo, vivo, e frequente; e conosciuto
dagli eruditi, (Andrès t.2. p.281. fine, e segg.) e che in ordine alla
forma di molte parole e frasi è la sola cagione per cui la lingua
spagnuola somiglia alla latina meno della nostra, quantunque in genere somigli
e la lat. e la nostra assai più della francese. Così nel futuro amarè
ec. ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.
Quanto alla cagione per cui si trasmise col
tempo alle lettere a ed i il digamma eolico, e poi il v,
affine d'evitare, come dicono, l'iato, secondo il costume eolico, osserverò
alcune cose che gioveranno anche a tutta questa parte del nostro discorso, e
dalle quali potremo forse dedurre che il detto costume non venne veramente dal
popolo, come ho detto p.1128. il quale anzi pare che conservasse la pronunzia
antica fino a tramandarla ai nostri idiomi, [1157]ma venne piuttosto, o
nella massima parte, dagli scrittori, o dal ripulimento della rozza lingua
latina antica.
Il concorso delle vocali suol essere accetto
generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali d'occidente)
tanto più, quanto elle sono più vicine ai loro principii, ovvero
ancora quanto sono più antiche, e quanto più la loro formazione
si dovè a tempi vicini alla naturalezza de' costumi e de' gusti. Per lo
più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e col ripulimento, e
si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali che da principio
s'aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina che noi
conosciamo, cioè la lingua polita e formata e scritta non ama il
concorso delle vocali, perch'ella fu polita e formata e scritta in tempi
appunto politi e civili, e i più lontani forse dell'antichità
dalla prima naturalezza; nell'ultima epoca dell'antichità; presso una
nazione già molto civile ec. Per lo contrario la lingua greca stabilita
e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi antichissimi, gradì
nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come dolcezza e
dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo conoscere,
cioè la scritta, [1158]ama il concorso delle vocali, specialmente
quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e nel tempo
stesso più grandi, più classici, più puri, e più
veramente greci.
E siccome la prosodia greca era già
formata ai tempi d'Omero, (sia ch'egli la trovasse, o la formasse da se) la
latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia dell'una e
dell'altra lingua si osserva una notabile differenza in questo proposito, la
quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che nella poesia latina
se una parola finita per vocale è seguita da un'altra che incominci per
vocale, l'ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente,
si perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All'opposto nella poesia
greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta
per sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non
la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo. Così dico dei
dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti
nella greca.
Parimente la lingua italiana antica, quella
lingua de' trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun
altro secolo, non [1159]solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo
ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco
appoco, quanto più s'è allontanata dalla condizione primitiva; e
che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di
poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita
come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di
grazia. Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto
alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de' due ultimi secoli,
par ch'abbiano una somma paura che due o più vocali s'incontrino, e
storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.
E così stimo che accada a tutte le
lingue in ragione del tempo, dell'indole sua, e del ripulimento di esse lingue.
E accadde, io penso, anche alla lingua greca. Giacchè, lasciando quello che
si può notare negli scrittori greci più recenti, i dittonghi che
da principio, e lungo tempo nel seguito si pronunziavano sciolti, si cominciarono
a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il Visconti, risale
fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che
porta il suo nome, dove alle parole si fa che
l'eco risponda
(epig.30), la qual cosa dimostra che lo scrittore dell'epigramma pronunziava nechi
ed echi come i greci moderni, per naichi ed echei. E come
io non [1160]dubito che i latini anticamente non pronunziassero i loro
dittonghi sciolti siccome i greci, così mi persuado facilmente che a'
tempi di Cicerone e di Virgilio li pronunziassero chiusi come oggi si pronunziano.
(12. Giugno 1821.)
Alla p.1118. Perchè meglio s'intenda
questa teoria de' verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la
natura più intimamente ed accuratamente che non abbiamo fatto finora.
Atto ed azione propriamente, differiscono tra loro. L'atto, largamente
parlando, non ha parti, l'azione sì. L'atto non è continuato,
l'azione sì. Questi due verbali actus ed actio, sì
nel latino come nell'italiano, (ed anche nel francese ec.) e non solamente
questi, ma anche gli altri di simile formazione, a considerarli esattamente,
differiscono in questo, che il primo considera l'agente come nel punto, il
secondo come nello spazio, o nel tempo. Certo non si dà cosa veramente e
assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell'uomo o di
qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non
continuate, altre come divisibili e continuate. Quando per tanto il verbo
positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione. [1161]P.e.
vertere significa atto, versare azione. Il voltare non
può farsi veramente in un punto solo, ma la lingua necessariamente
considera l'atto del voltare come indivisibile e non continuato. Laddove
quello che in latino si chiama versare, come il voltare per un certo
tempo una ruota, si considera naturalmente come azione continuata, fatta non
già nell'istante, ma nello spazio, e composta di parti. Questa dunque
è azione, quello è atto, e quest'azione è composta di
molti di quegli atti. Spessissimo avviene che ciò che l'uomo o la lingua
considera come atto sia più durevole di un'azione dello stesso genere.
Come, per non dipartirci dall'esempio recato, l'azione del voltare una ruota
per lo spazio, poniamo, di una mezz'ora, è più breve dell'atto di
voltare sossopra una gran pietra, che non si possa rivolgere senza l'opera
d'una o più ore. E tuttavia quell'azione in latino si esprimerebbe col
verbo continuativo versare, quest'atto benchè più lungo
dell'azione, non potrebbe mai dirsi versare, ma si esprimerebbe col
positivo vertere. Perchè quest'atto, ancorchè lungo,
rappresentandocisi complessivamente al pensiero, ci desta un'idea unica, non [1162]continuata,
semplice: laddove quell'azione ci si presenta come moltiplice, composta, e
continuata. Similmente jacere significa atto, jactare, azione.
Quando poi il verbo positivo latino esprime
esso stesso non atto, ma azione, come sequi, ec. il continuativo
significa la stessa azione più lunga e durevole, o più continua o
costante, come sectari ec.
E finalmente spesse volte il continuativo
significa l'usanza, il costume di fare quella tale azione o atto significato
dal verbo positivo, come acceptare, datare, captare (v. il Forcellini),
secondo che abbiamo veduto, significano il costume di ricevere, dare,
prendere. (Forse captare nel senso p.e. di captare aves o pisces
appartiene piuttosto alla classe precedente de' continuativi dall'atto
all'azione.) Noi abbiamo appunto volgere, voltare (cioè volutare),
e voltolare, o rivolgere, rivoltare ec. positivo,
continuativo e frequentativo.
Queste osservazioni debbono sempre
più farci ammirare la sottigliezza, e la squisita perfezione della
lingua latina, che forse non ha l'uguale in simili prerogative e facoltà.
(12. Giugno 1821.). V. p.2033. fine.
Alla p.1115. marg. in fine. Che se il verbo salire
è stato usato dall'Ariosto, dall'Alamanni, dal Caro e da altri nel
significato dell'italiano saltare, come afferma il Monti (Proposta ec.
Esame di alcune voci, alla v. ascendere. vol.1. par.2. p.65.), e bene,
ciò non prova che quel verbo abbia tale significazione in nostra lingua,
ma solo presso gli scrittori, e detto verbo in tal senso non è veramente
italiano, ma latinismo, [1163]come tanti altri, e latinismo non lodevole,
a differenza di molti altri, e non meritevole di passare in uso o nel discorso
o nelle scritture. Il francese saillir ha conservato alcuni significati
figurati del latino salire, e lo spagnuolo salir per uscire
(nel qual senso anche l'italiano salire fu adoprato dall'Ariosto) si
avvicina pure al metaforico latino di salire per celeriter emergere.
E v. se lo spagnuolo salir ha altri significati.
(13. Giugno 1821.)
Il miglior uso ed effetto della ragione e
della riflessione, è distruggere o minorare nell'uomo la ragione e la
riflessione, e l'uso e gli effetti loro.
(13. Giugno 1821.)
Domandato il tale qual cosa al mondo fosse
più rara, rispose, quella ch'è di tutti, cioè il senso comune.
(13. Giugno 1821.)
Altra prova dell'antico odio nazionale.
Presso gli antichi latini o romani, forestiero e nemico si denotavano colla
stessa parola hostis. V. Giordani nella lettera al Monti, in fine,
(Proposta ec. vol.1. par.2. p.265. fine. alle voci Effemeride. Endica.
Epidemia.) il Forcellini, e il mio pensiero su questa voce, p.205. fin. dove si
porta anche l'esempio simile, della lingua Celtica.
(13. Giugno 1821.)
[1164]I Toscani che dicono bi ci
di, perchè dicono effe, emme, enne, erre, esse (v. la Crusca)
e non effi, emmi ec.? anzi iffi, immi ec.?
(13. Giugno 1821.)
A quello che ho notato altrove
dell'antichità della nostra frase gridare a testa, ec. aggiungi
delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête,
du haut de sa tête, delle quali v. l'Alberti v. Tête, e
v. pure i Diz. spagnuoli.
(13. Giugno 1821.)
L'invidia, passione naturalissima, e primo
vizio del primo figlio dell'uomo, secondo la S. Scrittura, è un effetto,
e un indizio manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella
società, quantunque imperfettissima, e piccolissima. Giacchè
s'invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s'invidia
ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che
ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e
finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere
non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto
dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se
stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza
non può derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor
proprio, ma derivante, se m'è lecito di [1165]così
spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo
procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è
stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non
esistesse.
(13. Giugno 1821.)
La convenienza al suo fine, e quindi
l'utilità ec. è quello in cui consiste la bellezza di tutte le
cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella.
(13. Giugno 1821.)
Tutti quanti i giovani, benchè qual
più qual meno, sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma
l'entusiasmo de' giovani oggidì, coll'uso del mondo e coll'esperienza
delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro
modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento:
anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo.
(13. Giugno 1821.)
Quante controversie sul significato di
quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca:
(Od.37. lib.1. v.23. seq.)
Nec latentes
Classe cita REPARAVIT oras!
[1166]V. il Forcellini e i
comentatori. E nessuno l'ha bene inteso. Acrone: NEC LATENTES CLASSE CITA
REPARAVIT ORAS: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex
intimis regni partibus. Porfirione altro antico Scoliaste: NEC LATENTES C.
C. R. ORAS: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones
ut vires inde repararet. Nè mai s'intenderà e
spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un
significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi
latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri
antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a
un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non
si ricoverò, non rifuggi alle recondite, alle riposte parti d'Egitto.
Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit
ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore.
(14. Giugno 1821.)
Alla p.1155. marg. Così nictare
e nictari derivano dall'antico participio nictus o supino nictum
dell'antico e inusitato nivere, o come altri vogliono, di niti.
V. p.1150. fine.
(14. Giugno 1821.)
Alla p.1132. Così nelle parole simplex,
duplex, [1167]triplex, multiplex e altre tali, si potrebbe
ritrovare la radice monosillaba del verbo plicare (i greci dicono ) del
quale io credo che sia continuativo anomalo il verbo plectere ne' significati
di piegare, intrecciare e simili.
(14. Giugno 1821.). V. p.2225. capoverso 1.
Alla p.1154. principio. E lo stesso dico de'
verbi d'altre forme. Come l'antico participio di noscere si deduce dal
verbo noscitare formato da noscitus, come notare da notus.
Così di pascere dal verbo pascitare formato da pascitus
in luogo di pastus. E non solo di altre forme, anche d'altre
congiugazioni. Come doctus che sia contrazione di docitus
facilmente rilevasi da nocitus e nociturus di nocere,
verbo che non differisce materialmente da docere se non che d'una
lettera: da placitus di placere, verbo regolarissimo della stessa
congiugazione seconda, e da molti altri simili participii. Se doctus
fosse il vero participio lo sarebbe plactus dirittamente in vece di placitus.
Da coerceo non coarctus o coerctus, ma coercitus,
sebben poi contratto in coarctare ec. Il supino paritum e il
participio paritus di parere cioè partorire, in
luogo de' quali sono più usitati partum e partus, deducesi
però necessariamente da pariturus. E parturus, ch'io
sappia, non si dice mai. V. p.2009. e 2200. capoverso 2.
Io stimo probabile che il verbo sollicitare
intorno all'origine del quale vanno a tastoni gli etimologisti che lo derivano
da citare, venga piuttosto [1168]da quel medesimo verbo da cui
vedemmo formato adlicere (cioè dal verbo lacere) che ora
fa nel participio adlectus, onde adlectare, e anticamente faceva,
secondo me, adlicitus. E così penso che sollicitare sia lo
stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere
(altro composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus
abbiamo effettivamente in Plauto il verbo sublectare. Di maniera che il
significato appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare
come traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio. Questa
però non intendo di darla se non come congettura.
(15. Giugno 1821.)
Alla p.1139. Del che si potrebbono addurre
molte prove che lascieremo agli eruditi, contentandoci di questa sola osservazione
la quale dimostrerà che al più il b ebraico
era un p, che talora si aspirava, e somigliante al de' greci ch'è un p aspirato,
come abbiam detto. L'alfabeto Fenicio dal quale derivò l'alfabeto greco,
e per conseguenza il latino, o derivato dal greco, o dalla medesima fonte del
greco, era lo stesso che il Samaritano, e l'alfabeto Samaritano era l'antico
alfabeto ebraico. Ora che l'alfabeto fenicio mancasse della lettera f, o
al [1169]più si servisse in sua vece di un p aspirato si dimostra,
fra le molte altre prove, ed oltre quello che abbiamo detto, che il mancava all'antico alfabeto greco detto Cadmeo
o Fenicio; da questo, che i latini chiamavano, com'è noto, i Cartaginesi
originari di Fenicia, Poeni, Poenici, Punici, cioè Fenici,
gr. ,
servendosi come vedete di un p semplice in luogo di un p aspirato
che usavano i greci in questo nome, e della f che vi usiamo noi. E
così pure chiamavano non solamente phoeniceum, ma anche poeniceum
e puniceum senza aspirazione, quel colore che i greci chiamavano e per
contrazione . Il che
anche può dimostrare che gli antichi latini (il cui alfabeto
derivò pure, come vedemmo, dal Fenicio) mancavano di un carattere
proprio ad esprimere la f, ed anche forse della pronunzia di questa
lettera. Ovvero che il f de' greci da' quali essi presero forse i detti
nomi (specialmente quelli del detto colore che derivano da palma),
si pronunziava anche come un p semplice. V. Forcellini in H.
Pontedera p.14. (leggi assolutamente le sue prime 2 lettere, necessarie a
questo mio discorso). I greci stessi scrivevano anticamente per V.
Encyclop. in H. p.215.
(15. Giugno 1821.)
L'ardore giovanile è la maggior
forza, l'apice, la perfezione, l' della
natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei
quali l'dell'uomo,
cioè l'ardore e la [1170]forza giovanile, non è punto considerata,
ed è messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero.
(15. Giugno 1821.)
Si consideri per l'una parte che cosa
sarebbe la civiltà senza l'uso della moneta. Oltre ch'ella non potrebbe
reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al
presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed
esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni,
quanto degl'individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei
progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se bisognassero
prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli
altri infiniti de' popoli selvaggi ec., l'esempio di Sparta che, avendo poco
uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile
del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo
spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o
corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci,
e le andò sempre molti passi indietro.
Per l'altra parte si consideri l'immensa [1171]difficoltà,
l'immenso spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare
a ridurre all'uso suo quotidiano, materie così nascoste dalla natura,
così difficili a trarsi in luce, così difficili, non dico a
lavorarsi, ma a dar sospetto che potessero mai esser lavorate, e solamente
modificate e cambiate alquanto di forma. Anzi prima di trovare i metalli. E
dopo tutto ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere in rappresentanti
di tutte le cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de' pezzi di materia per
se stessa (massime anticamente) o inutile, o poco utile, disadatta,
pesantissima, e (riguardo ai metalli che formarono le prime monete, cioè
rame o ferro ec.) bruttissime ancora a vedersi. E quanto spazio passasse
effettivamente prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere
che a' tempi d'Omero, o almeno a' tempi troiani (benchè certo non
incolti), o mancava, o era di poco e raro uso la moneta.
E qui torno a domandare se la natura poteva
ragionevolmente porre sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al
ritrovamento di un mezzo necessario e principale per ottener quella che noi
chiamiamo [1172]perfezione e felicità del genere umano,
cioè l'incivilimento; e dico al ritrovamento dell'uso della moneta.
Osservate poi, nella stessa moderna
perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie che son necessarie per
proccurar la moneta alla società. Cominciate dal lavoro delle miniere,
ed estrazion dei metalli, e discendete fino all'ultima opera del conio.
Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile infelicità,
a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita e violenta, o mercenaria) a
disastri, a miserie, a pene, a travagli d'ogni sorta, per proccurare agli altri
uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di felicità. Ditemi
quindi 1. se è credibile che la natura abbia posta da principio la
perfezione e felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al
prezzo dell'infelicità regolare di una metà degli uomini. (e dico
una metà, considerando non solo questo, ma anche gli altri rami della
pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo prezzo.) Ditemi 2. se
queste miserie de' nostri simili sono consentanee a quella medesima
civiltà, alla quale servono. È noto come la schiavitù sia [1173]difesa
da molti e molti politici ec. e conservata poi nel fatto anche contro le
teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla
civiltà della società. E quello che dico della moneta, dico pure
delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse o simili
miserie, schiavitù ec. come il zucchero, caffè ec. ec. e si hanno
per necessarie alla perfezione della società. V. p.1182.
E vedete da questo, come la civiltà
(secondo il costume di tutte le false teorie) contraddica a se stessa anche in
teorica, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che
ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta
la verità e la forza del termine. Sicchè la perfetta
civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la
perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione nello
stesso senso e genere in cui s'intende la detta perfezione); e tolta questa
imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della
società.
Torno a domandare se tali contraddizioni ed
assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente
dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben ESSERE della
principal creatura terrena, cioè l'uomo.
[1174]E notate che l'uso della
moneta quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello
stato sociale, tanto nuoce a quella perfezione ch'io vo predicando;
giacchè il detto uso è l'uno de' principalissimi ostacoli alla
conservazione dell'uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli stati liberi,
alla preponderanza del merito vero e della virtù ec. ec. e l'una delle
principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco costringono la
società all'oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla
gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed
intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni. (16.
Giugno 1821.). Quel che si è detto della moneta si può dire di
mille altri usi ec. necessari alla società o civiltà, e pur
d'invenzione ec. difficilissima, come la scrittura, la stampa ec.
Ho detto più volte che la letteratura
francese è precisamente letteratura moderna, ed è quanto dire che
non è letteratura. Perchè considerando bene vedremo che i tempi
moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma non hanno
propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere
antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno. L'immaginazione
ch'è la base della letteratura strettamente considerata, [1175]sì
poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni,
e se anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna,
perchè non solamente non deriva dalla natura de' tempi, ma questa
l'è sommamente contraria, anzi nemica e micidiale. E vedete infatti che
la letteratura francese, nata e formata in tempi moderni, è la meno
immaginosa non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E
per questo appunto è letteratura pienamente moderna, cioè
falsissima, perchè il predominio odierno della ragione quanto giova alle
scienze, e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto),
tanto nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui
fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa
bensì di un mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo
predominio che l'uccide, come pur troppo vediamo nei nostri costumi, e in tutta
la nostra vita d'oggidì.
(16. Giugno 1821.)
Quanto più cresce il mondo rispetto
all'individuo, tanto più l'individuo impiccolisce. I nostri antichi,
conoscendo pochissima parte di mondo, [1176]ed essendo in relazione con
molto più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano
grandissimi. Noi conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto
il mondo, siamo piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti
sotto i quali si verifica che essendo cresciuto il mondo, l'individuo
s'è impiccolito sì fisicamente che moralmente; e vedrete esser
vero in tutti i sensi che l'uomo e le sue facoltà impiccoliscono a
misura che il mondo cresce in riguardo loro.
(16. Giugno 1821.)
Ho detto altrove che il troppo, spesse volte
è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà
della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha
prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto a
cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione,
che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun frutto determinato.
1. Questi tali geni sommi hanno consumato
rapidamente il loro corpo e le stesse loro facoltà mentali, lo stesso
genio. La soverchia delicatezza de' loro organi li rende e più facili a
consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo inferiori di facoltà
agli organi i meno delicati, e i più imperfetti. Testimonio Pascal,
morto di 39 [1177]anni, ed era già soggetto a una specie di
pazzia. Testimonio Ermogene che forse fu uomo insigne e straordinario, sebbene
il suo secolo non gli permettesse di parer tale anche a noi, durante quel poco
di tempo che gli durò l'uso delle sue facoltà mentali. Testimonio
quel Genetlio di cui parla Esichio Milesio e Suida, il quale non era che un
portento di memoria; ma quello ch'io dico dell'intelletto o della fantasia, dico
pure della memoria, e si sono spesso veduti uomini che erano portenti di
memoria da giovani, divenir maraviglie di dimenticanza da vecchi, o ancor
prima. V. il Cancellieri, Degli uomini di gran memoria ec. S'io volessi qui
noverare gli uomini insigni che hanno sofferto dal lato del loro fisico, non
per altro che a cagione del loro troppo ingegno; e le morti immature che paiono
essere inevitabili agli uomini di genio straordinariamente prematuro, e
prematuramente sviluppato e coltivato, non finirei mai. V. in proposito del Chatterton
famoso poeta morto di 19 anni, lo Spettatore di Milano, Quaderno 68. p.276.
Parte straniera.
2. Questi geni straordinari, penetrano in
certi [1178]misteri, in certe parti della natura così riposte;
scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e profondità delle
loro concezioni, ne impedisce la chiarezza tanto riguardo a essi stessi, quanto
al comunicarle altrui; ne impedisce l'ordine, insomma vince le loro stesse
facoltà, e non è capace, a cagione dell'eccesso, di essere
determinata, circoscritta, e ridotta a frutto. La forza della loro mente
soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la
natura, e la copia delle verità esistenti è molto maggiore della
capacità e delle facoltà dell'uomo. E il troppo vedere, il troppo
concepire, rende questi tali ingegni, sterili e infruttuosi; e se scrivono, i
loro scritti o sono di poco conto, ed anche aridi espressamente e poveri (come
quelli di Ermogene); o certo minori assai del loro ingegno. Come quegli animali
inetti alla generazione per l'eccesso della forza generativa (i muli). E la
stupidità della vita è ordinariamente il carattere di tali persone,
o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come narrano che fosse detto a Pico
Mirandolano. Quello che dico dell'intelletto e della filosofia, dico pure della
immaginazione e delle arti che ne derivano. Esempio del Tasso, della sua
pazzia, dell'essere i suoi [1179]componimenti, quantunque bellissimi,
certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre
sommi italiani, a niuno de' quali egli fu realmente minore. E lo stesso dico
eziandio di qualunque altra facoltà e disciplina particolare.
(17. Giugno 1821.)
Non è verisimile che la lingua
chinese si sia conservata la stessa per sì lunga serie di secoli, a
differenza di tutte le altre lingue. Eppure i suoi più antichi scrittori
s'intendono mediante le stesse regole appresso a poco, che servono ad intendere
i moderni. Ma la cagione è che la loro scrittura è indipendente
quasi dalla lingua, come ho detto altrove, e (come pure ho detto) la lingua
chinese potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè
più nè meno. Così dunque io non dubito che la loro antica
lingua, malgrado l'immutabilità straordinaria di quel popolo, se non
è perita, sia certo alterata. Il che non si può conoscere,
mancando monumenti dell'antica lingua, benchè restino monumenti
dell'antica scrittura. La quale ha patito bensì anch'essa, e va
soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti dalla lingua
nel chinese) non essendo nelle mani e nell'uso del popolo, (massime nella
China, [1180]dove l'arte di leggere e scrivere è sì difficile)
conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro
significazione, di quello che facciano le parole che sono nell'uso quotidiano e
universale degl'idioti e de' colti, della gente d'ogni costume, d'ogni
opinione, d'ogni naturale, d'ogni mestiere, d'ogni vita, e accidenti di vita.
(A questo proposito ecco un passo di Voltaire portato dal Monti Proposta ec.
vol.2. par.1. p.159. Quasi tutti i vocaboli che frequentemente cadono nel
linguaggio della conversazione, ricevono molte digradazioni, lo svolgimento
delle quali è difficile: il che ne' vocaboli tecnici non accade,
perchè più preciso e meno arbitrario è il loro
significato.) E lo vediamo pur nel latino, perduta la lingua, e conservati
i caratteri, quanto alle forme essenziali, e al valore. Così nel greco
ec. Ora nella China, conservato l'uso, la forma, e il significato de' caratteri
antichi, è conservata la piena intelligenza delle antiche scritture,
quando anche oggi si leggessero con parole e in una lingua tutta diversa da
quella in cui gli Antichi Chinesi le leggevano.
(17. Giugno 1821.)
Dell'antico significato di fabula
onde favella, e di J v. le
note Variorum al 1. lib. di Fedro, prologo, verso ult.
(18. Giugno 1821.)
Noi diciamo fuso sostantivo mascolino
singolare, e fusa plurale femminino, secondo la proprietà della
lingua nostra di dare a parecchie voci nel plurale, la desinenza del neutro
plurale latino, del che vedi il Ciampi De usu linguae italicae saltem a
saeculo sexto, dove mostra come molti di questi nostri plurali femminini in
a derivino da un latino popolare [1181]ec. Queste tali desinenze
italiane pare che indichino de' neutri latini corrispondenti, e quel fusa
dell'italiano pare che indichi un neutro latino fusum, o almeno il suo
plurale fusa, come da brachia facciamo le braccia, da cornua,
le corna, da genicula, diminutivo di genua (Forcellini), le
ginocchia, da poma, le poma, da ossa, le ossa, da fila, le
fila, da membra, le membra, da fundamenta, le fondamenta, da castella,
le castella, da labia, le labbia, da labra, le labbra, da gesta,
le gesta, da ligna, vestigia, le legna, le vestigia, da ova, le
uova, da terga, le terga, da flagella, le flagella, le cervella,
ec. le vestimenta, le ornamenta (v. la Crusca in vestimento), ec.
le corna, le ciglia ec. da vasa, le vasa (Crusca, e Tansillo,
Podere, capit.3. terz.2.) ec. Notate che quando gesto significa gestus
us, non diciamo le gesta ma i gesti. E allora solo diciamo le
gesta, quando gesto si piglia in senso neutro, e vuol dire cosa
fatta, come in Corn. Nep. Obscuriora sunt eius gesta pleraque. (V.
il Gloss. in Gesta.) Così diciamo interiori aggettivamente,
ma le interiora (ed anche però gl'interiori) assolutamente
per entragni, cioè in senso neutro, come Vegezio, Torsiones vocant,
et interiorum incisiones. V. p.2340. fine. Ma nè fusum
nè fusa non si trovano ne' Vocabolari latini, ma solamente fusus
che fa nel plurale fusi. Or ecco ne' frammenti di Simmaco scoperti dal
Mai (Q. Aurelii Summachi V. C. Octo Orationum ineditarum partes. Orat.3. scil.
Laudes in Gratianum Augustum, cap.9. Mediol. 1815. p.35.): Et vere si fas
est praesagio futura conicere, iamdudum aureum saeculum currunt FUSA Parcarum.
Così ha il Codice Ambrosiano antichissimo, cioè di verso la metà
del sesto secolo almeno, vale a dire un secolo al più dopo la morte
dell'autore. E che non sia sbaglio di scrittura si conosce anche dal vedere che
scrivendo fusi guasterebbesi quel ritmo di cui Simmaco era tanto vago e
sollecito, e così perpetuo seguace, come può sapere ognuno che
l'abbia [1182]letto, e come si può notare a prima giunta anche
negli altri scrittori di quella età e delle circonvicine, e generalmente
di tutti gli scrittori latini e greci di corrotta e affettata eleganza e
rettorica. Questa voce fusa è stata notata dal Mai nell'Indice rerum
notabiliorum, e dal Furlanetto nell'Appendice al Forcellini. V. pure il
Forcell. e il Gloss. in saccus, sextarius, poichè noi diciamo le
sacca, le staia. Dal che si potrebbe dedurre che l'antico volgo latino
dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum, sostantivo, digitum,
anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel plurale, (oltre il
mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura, pugna, fructa, lecta,
digita, anella, risa, come noi diciamo le mura, le pugna, le frutta, le
letta, le dita, le anella, le risa, e simili, quantunque non resti notizia
precisa di queste voci latine, come fino a pochi anni addietro non si aveva
notizia della voce che abbiamo veduta e che restava pure nell'italiano. Fructa
e mura neutri plurali si ritrovano anche nel latino barbaro. (Du
Cange.) Lectum sostantivo neutro è usato da Ulpiano nel Digesto,
e v. Forcellini. (18. Giugno 1821.). Risus us dicono i buoni latini.
Eppure essi dicono jussus us e parimente jussum i; e così
altri tali verbali della quarta congiugazione (che risus è un
puro verbale) gli fanno talora neutri della seconda, come pur gustum i,
per gustus us, ec. su di che v. p.2146. e 2010. se vuoi.
Alla p.1173. Così dico pure delle
gemme, e di tanti altri oggetti o di uso o di lusso, difficilissimi a
procacciarsi, e non possibili senza infiniti travagli e disastri, ma che
d'altra parte si considerano appresso a poco come necessari alla vita civile, e
servono effettivamente, o sono anche necessari al commercio fra le nazioni,
(che senza molti di tali oggetti, e di tali bisogni, non sussisterebbe), fonte
principale della civiltà e quindi della pretesa felicità del
genere umano.
[1183]Il pensiero precedente
intorno all'effettiva necessità di tanti oggetti di lusso ec. per
mantenere e dar motivo al commercio, necessario alla civiltà, quando
anche i detti oggetti non sieno effettivamente e per se stessi nè bisognevoli
nè utili alla vita, merita di essere ampliato: perchè i detti
oggetti costando infiniti travagli all'umanità, si vede come sia
necessaria alla civiltà l'inciviltà, alla perfezione
l'imperfezione (nel senso in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla
umanità e delicatezza e raffinatezza ec. la barbarie della
società.
(18. Giugno 1821.)
Quello che ho detto altrove intorno alla
diversa impressione che fanno ne' fanciulli i nomi propri (e si può
aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee che loro applicano di
bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze accidentali di
quell'età, serve anche a dimostrare come sia vero che il bello è
puramente relativo, e come l'idea del bello determinato non derivi dalla
bellezza propria ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze
affatto estrinseche al genere e alla sfera del bello.
Ed ampliando questa osservazione, se noi
vorremo vedere come i fanciulli appoco appoco si formino [1184]l'idea
delle proporzioni e delle convenienze determinate e speciali; e come
senz'alcuna idea innata nè di proporzioni nè di convenienze
particolari e applicate, giungano pur brevemente a giudicar quella cosa bella e
quell'altra brutta, e quella buona, e quell'altra cattiva; e ad accordarsi
più o meno col giudizio universale intorno alla bruttezza o bellezza,
bontà o il suo contrario, senza però averne nell'intelletto o
nella immaginazione alcun tipo; consideriamo per modo di esempio il progresso
delle idee de' fanciulli circa le forme dell'uomo, e vediamo come appoco appoco
arrivino a giudicare e a sentire la bellezza e la bruttezza estrinseca
degl'individui umani.
Il fanciullo quando nasce non ha veruna idea
del quali sieno e debbano essere le forme dell'uomo: (eccetto per quello ch'ei
sente materialmente e può concepire delle sue proprie membra e parti,
mediante l'esperienza de' sensi.) (Ma se egli non ha l'idea di dette
forme, e questo è costante presso tutti gl'ideologi, come potrà
averla della loro bellezza? Come potrà aver l'idea della qualità,
non avendo quella del soggetto? E così discorrete di tutti gli altri
oggetti suscettibili di bellezza, di nessuno de' quali il fanciullo ha idea
innata. Come dunque potrà avere idea della bellezza, prima di aver la menoma
idea di quelle cose che ponno esser belle? Poniamo un essere non soltanto
possibile, ma reale, e che noi pur sappiamo ch'esista, senza però
conoscerlo in altro conto. Che idea abbiamo noi della sua bellezza o bruttezza?
Ma se è assolutamente ignoto quel bello e quel brutto che
appartiene a forme ignote ec., dunque il bello non è assoluto.)
L'acquista però ben presto col vedere, toccare ec. E vedendo p.e. in
tutte le persone che lo circondano, il naso o la bocca di quella tal misura che
noi chiamiamo proporzionata, si forma necessariamente e naturalmente l'idea che
quella tal parte dell'uomo sia e debba essere di quella tal misura. Ecco subito
l'idea di una proporzione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita,
non derivata [1185]dalla natura nè dall'essenza delle cose,
nè da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto,
nè da un ordine necessario, ma dall'assuefazione del senso della vista
circa quel tale oggetto, e dall'arbitrio della natura che ha fatto realmente la
maggior parte degli uomini in quel tal modo.
Acquistata così per solissima
assuefazione l'idea delle proporzioni o convenienze, il fanciullo si forma
facilmente quella delle sproporzioni e sconvenienze, che è sempre e
necessariamente posteriore a quella dei loro contrari, e perciò l'idea
del brutto e del cattivo è posteriore a quella del buono e del bello,
(il che non sarebbe se fosse assoluta e primitiva e ingenita nell'uomo, e
appartenente all'essenza e natura della sua mente e della sua facoltà
concettiva) e deriva non da un tipo, ma dalla detta idea in questo modo che son
per dire. Seguendo l'esempio che abbiamo scelto, se il fanciullo vede un naso
molto più lungo o più corto di quello ch'è assuefatto a
vedere, concepisce subito il senso della sproporzione e sconvenienza,
cioè di una mera contraddizione con la sua propria abitudine di
vedere, e forma il giudizio dello sproporzionato e sconveniente, ossia del
brutto. Ed eccolo ben presto d'accordo col giudizio universale degli uomini
circa la bellezza e la bruttezza determinata, [1186]senza averne portata
nè ricevuta dalla natura o dalla ragione verun'idea.
Ma ecco prove più trionfanti di
questa mia proposizione, cioè che l'idea d'ogni proporzione, d'ogni
convenienza, d'ogni bello, d'ogni buono determinato e specifico, e di tutti i
loro contrari, deriva dalla semplice assuefazione.
1. Se quel naso sarà poco più
lungo, o quella bocca poco più larga, quantunque lo sia tanto che basti
ad eccitare negli uomini il giudizio e il senso della bruttezza, il fanciullo
non concepirà questo giudizio nè questo senso in verun modo. Che
la cosa vada così, n'è testimonio l'esperienza di chiunque
è stato fanciullo, e vorrà sovvenirsi di ciò che gli accadeva
in quell'età. E qual è la ragione? La ragione è che il
fanciullo avendo acquistato solamente una scarsa e debole idea delle proporzioni,
perchè poco ha veduto, e poco ha confrontato, ha parimente una scarsa ed
inesatta e non sottile nè minuta idea delle sproporzioni, e non se
n'accorge nè le sente, se non quando quel tale oggetto si oppone
vivamente e fortemente alla sua abitudine. Solamente col molto vedere, egli arriva
a formarsi senza pensarvi, un giudizio, un discernimento, un senso fino per
distinguere il bello dal brutto. Alle volte per l'opposto pare al fanciullo
notabilissima una sproporzione o sconvenienza, che gli altri neppure osservano.
E ne deduce un senso di bruttezza che gli altri non provano. La ragione
è la poca assuefazione, l'aver poco veduto, il che gli fa trovare strano
quello che non è strano, e brutto quindi o assai brutto, quello che non
è brutto, o poco. Come ciò, se il brutto fosse assoluto? Un
fanciullo raccontava che una persona aveva due nasi, perchè aveva
osservata sul suo naso una piccola differenza di colore, in parte più
rosso, in parte meno. E di questa cosa nessun altro si avvedeva senz'apposita
osservazione. Che vuol dir [1187]questo? Se l'idea del bello e del
brutto determinato, fosse assoluta e naturale ed innata, avrebbe mestieri il
fanciullo di crescere, e di esercitare i suoi sensi, e di esperienza, per
acquistare un'idea, non dico perfetta, ma sufficiente, della bellezza o bruttezza
determinata? Il vedere che ne ha bisogno, non dimostra evidentemente che il
giudizio e il senso della bruttezza o bellezza deriva unicamente dall'assuefazione
e dal confronto, e che nessun oggetto al mondo sarebbe nè bello
nè brutto, nè buono nè cattivo, se non ci fosse con che
confrontarlo, massime nella sua specie? E ciò viene a dire che nessuna
cosa è bella nè buona assolutamente, e per se stessa; e quindi
non esiste un bello nè un buono assoluto.
Il perfezionamento del gusto in ogni
materia, sia nelle arti, sia riguardo alla bellezza umana, sia in letteratura
ec. ec. si considera come una prova del bello assoluto, ed è tutto
l'opposto. Come si raffina il gusto de' pittori, degli scultori, de' musici,
degli architetti, de' galanti, de' poeti, degli scrittori? Col molto vedere o
sentire di quei tali oggetti sui quali il detto gusto si deve esercitare;
coll'esperienza, col confronto, coll'assuefazione. Come dunque questo gusto
può dipendere da un tipo assoluto, universale, immutabile, necessario,
naturale, preesistente? Quello ch'io [1188]dico de' fanciulli, dico
anche de' villani, e di tutti quelli che si chiamano o di rozzo, o di cattivo,
o di non formato gusto in ogni qualsivoglia genere di cose: lo dico di chi non
è avvezzo a vedere opere di pittura, il quale ognuno sa e dice che non
può giudicare del bello pittorico; lo dico di chi non è accostumato
alla lettura de' buoni poeti, il quale non può mai giudicare del bello
poetico, del bello dello stile ec. ec. ec. Come il giudizio e il senso del
fanciullo intorno al bello, è da principio necessariamente
grossolanissimo, cosa che dimostra evidentemente come il detto giudizio dipenda
dall'assuefazione, così il giudizio e il senso della massima parte degli
uomini circa il bello, resta sempre imperfettissimo non per altro, se non
perchè la massima parte degli uomini non acquista mai una tal esperienza
da poter formare quel giudizio minuto, esatto e distinto, che si chiama gusto
fino. Cioè 1. non considera bene le minute parti degli oggetti, per
poterle confrontare, e formarsene quindi l'idea della proporzione determinata,
idea ch'egli non ha. 2. non ha l'abito di confrontare minutamente,
ch'è l'unico mezzo di giudicare minutamente della proporzione e
sproporzione, bellezza o bruttezza, buono o cattivo. Così andate
discorrendo, e applicate queste osservazioni a tutte le facoltà e
cognizioni umane. E dal vedere che il senso [1189]del bello è
suscettivo di raffinamento e accrescimento sì ne' fanciulli, e sì
negli uomini già formati, deducete ch'esso non è dunque innato
nè assoluto, giacchè quello che ha bisogno di essere acquistato e
formato non è ingenito; e quello che essendo suscettivo di accrescimento
è per conseguenza suscettivo di cangiamento, non è nè
può essere assoluto.
Dunque io non riconosco negli individui
veruna differenza di naturale disposizione ed ingegno a riconoscere e sentire
il bello ed il brutto ec.? Anzi la riconosco, ma non l'attribuisco a quello a
cui si suole attribuire: cioè ad un sognato magnetismo che trasporti
gl'ingegni privilegiati verso il bello, e glielo faccia sentire, e scoprire
senza veruna dipendenza dall'assuefazione, dall'esperienza, dal confronto; ad
una simpatia dell'ingegno con un bello esistente nella natura astratta; ad un
favore della natura che si riveli spontaneamente a questi geni privilegiati ec.
ec. Tutti sogni. Il genio del bello, come il genio della verità e della
filosofia, consiste unicamente nella delicatezza degli organi che rende l'uomo
d'ingegno 1. facile ed inclinato a riflettere, ad osservare, [1190]a
notare, a scoprire le minute cose, e le minime differenze:
2. Se un fanciullo ha dintorno a se persone
o di forme notabilmente diverse, o di forme tutte brutte, e che tutte convengano
in una certa specie di bruttezza, l'idea ch'egli si forma della bellezza, e
della proporzione, è incertissima nel primo caso, e sta solamente sui generali
(cioè su quelle sole proporzioni che sono comuni a tutte le persone che
lo circondano): e nel secondo caso, egli concepisce espressamente per bello,
quello [1192]ch'è brutto, e che poi col più e più
vedere altre persone, arriva finalmente a riconoscere per brutto. Qui chiamo in
testimonio l'esperienza di tutti gli uomini del mondo, acciò mi dicano
quanto l'idea loro circa la bellezza e la bruttezza si sia venuta cambiando secondo
l'età, cioè a misura dell'esperienza della loro vista: e come
quasi tutti abbiano da fanciulli giudicate belle delle fisonomie, delle persone
ec. che in altra età sono loro sembrate brutte, e tali sembravano anche
agli altri. Il che deriva 1. dalla ragione ora detta, 2. dalla poca pratica di
vedere che ristringeva la facoltà del loro giudizio, e l'idea che essi
avevano delle proporzioni, limitandola necessariamente e in ogni caso, alla
sola idea delle proporzioni generali e comuni a tutti gli uomini, 3. da circostanze
affatto estrinseche al bello: p.e. la nostra balia ci par sempre bella, e
così tutte quelle persone che ci accarezzano da fanciulli ec. ec. Allora
il giudizio della bellezza era effetto di queste tali impressioni (e non del
bello). E si giudicava poi bello appoco appoco, quello che somigliava a queste
tali fisonomie, sulle quali ci eravamo formata l'idea del bello umano,
ancorchè fossero bruttissime. E siccome le impressioni della
fanciullezza sono vivissime, così per effetto loro, [1193]e delle
così dette simpatie ed antipatie, che sono uno de' loro effetti, accade
che per lungo tempo e forse sempre, ci troviamo inclinati a giudicare
favorevolmente di persone bruttissime, ma somiglianti a quelle che da piccoli
ci parvero belle, e massime di queste medesime; le quali, ancorchè
brutte, non ci parranno mai più, brutte veramente; ma solo il nuovo
abito di vedere, e quindi il nuovo modo che abbiamo contratto di giudicare
della bellezza, ce le faranno giudicare, ma non parer brutte. E ci
bisognerà sempre una riflessione, ed un confronto espresso colle nostre
nuove idee del bello, per giudicar brutte quelle persone, che a prima vista, e
senza considerazione, non ci parranno mai tali. Massime se il nostro ingegno
è torpido e difficile a contrarre nuove abitudini: perchè nel
caso contrario più facilmente ci riesce di formare intorno
all'estrinseco di quelle persone un giudizio conforme alle nuove idee del bello
che abbiamo acquistato colla maggiore esperienza de' sensi. Prove più
certe che l'idea del bello non sia nè assoluta, nè innata,
nè naturale, nè immutabile, nè dipendente da un tipo (col
quale avremmo potuto paragonare quelle fisonomie), non credo che si possano
desiderare.
[1194]3. L'uomo, se ben
considereremo, non giudica mai della bellezza nè della bruttezza, se non
comparativamente, e l'idea del bello è sempre comparativa e quindi
relativa. Noi giudichiamo della bellezza estrinseca dell'uomo, sia reale, sia
imitata, molto più finamente che di qualunque altro bello fisico.
Perchè? Perchè naturalmente facciamo ed abbiamo fatto maggiore
attenzione alle forme de' nostri simili, che di qualunque altro oggetto, e ne
abbiamo notate le menome parti, le possiamo paragonare fra loro, e quelle di un
individuo con quelle di un altro, o della generalità; e in questo modo,
abbiamo distinta e minuta ed esatta l'idea acquisita delle proporzioni e
convenienze relative alla figura dell'uomo, e delle sproporzioni e
sconvenienze, che è quanto dire della bellezza e della bruttezza umana.
Ma poniamo un individuo umano che non abbia mai veduto alcuno de' suoi simili.
Egli non saprà giudicare della bruttezza o bellezza loro in nessun modo,
quando ne vegga qualcuno, massimamente se ne vede qualcuno isolato. Se
però egli non avrà posta molta attenzione alle sue proprie forme,
alla sua fisonomia, specchiandosi p.e. nelle fontane ec. Ed allora il giudizio
ch'egli porterà delle forme di quel tal uomo, sarà pur
comparativo, cioè comparativo alla sua propria [1195]forma, e
quindi non si accorderà col giudizio generale, o solamente a caso. E se
egli avrà avuta molta pratica di qualche altra specie di animali, come
cani o cavalli ec. egli sarà molto meglio a portata di giudicare della
bellezza di questi, che di quella dell'uomo. E nel detto giudizio sarà
meglio d'accordo col giudizio comune degli uomini. Dico degli uomini, e non
già di quegli stessi animali, i quali, come gli uomini, ponendo maggiore
attenzione alle forme de' loro simili, ne giudicano molto diversamente, e
più distintamente ed esattamente degli uomini: in proporzione
però della facoltà de' loro organi molto meno disposti o meno
esercitati ad osservare, a paragonare, a riflettere, di quelli dell'uomo, e
massime dell'uomo o del fanciullo incivilito più o meno. Bensì
è vero che quel tal uomo che abbiamo supposto, si sentirà forse
inclinato verso quel suo simile più di quello che fosse verso qualunque
altra specie d'animali, con cui fosse addomesticato; e massimamente se quel suo
simile è di diverso sesso. Ma questa è inclinazione materiale ed
innata della natura sua, del tutto indipendente dall'idea del bello, e dal
giudizio delle forme: è inclinazione e Jossia
passione, e non idea. E questo tal uomo, vedendo molti suoi simili tutti in un
tratto per la prima volta, non conoscerà fra loro, nelle loro forme e
fisonomie ec. quasi alcuna differenza, come è già noto che accade
p.e. all'Europeo che vede per la prima volta degli Etiopi, o de' Lapponi. Tutti
gli paiono appresso a poco della stessa forma e fisonomia, e nessuno più
bello nè più brutto [1196]degli altri. Questo appunto
accade al fanciullo, nel primo veder uomini che gli accade, e va poi appoco appoco
acquistando l'idea ed il senso della loro bellezza o bruttezza, per sola comparazione,
cominciando a notare le minute parti, e paragonandole, e scoprendo le minute
differenze negl'individui. Questo è ciò che ci accade negli
animali, i quali tutti ci paiono appresso a poco p.e. della stessa fisonomia
(dentro i limiti di una stessa specie); e quando anche facendoci l'occhio appoco
appoco, arriviamo a portare un giudizio comparativo circa la bellezza comparativa
delle loro forme, 1. questo ci accade solamente negli animali che
più si trattano e più si osservano, come cavalli, cani, buoi ec.
chè della bellezza p.e. del lione individuo, nessun uomo ch'io sappia,
nè si arroga, nè pensa pure di giudicare: 2. questo giudizio
è certo assai meno esatto di quello degli stessi animali di quella
specie, ed è credibile che bene spesso sia contrarissimo al giudizio
degli stessi animali, perchè noi giudichiamo delle loro forme colle idee
che abbiamo delle proporzioni (diverse dalle loro), e comparativamente
piuttosto ad altre specie, e ad altri oggetti, che alla propria specie loro,
del che dirò poco appresso. Un bambino e un animale confondono
facilmente un pupazzo, una statua, una pittura ec. cogli oggetti che rappresentano,
perchè sopra questi hanno fatta poca osservazione: meno facilmente
però, o meno durevolmente, se l'oggetto rappresentato è della
propria specie e forma, perchè nella forma della loro specie hanno posta
naturalmente più attenzione.
Quell'uomo che io ho supposto, se non avesse
[1197]bene osservato il suo proprio colore, e vedesse un Nero e un Bianco
allo stesso tempo, non saprebbe punto decidere qual de' due fosse più
bello, nè qual de' due colori meglio convenisse alla specie umana. E se
non avesse bene osservate le sue proprie forme, e vedesse al tempo stesso un
Lappone, un italiano, un Patagone, non saprebbe decidere quale di queste tre
forme fosse più bella, e non sentirebbe differenza di bellezza o
bruttezza in nessuno di loro. Il che dimostra ch'egli non ha veruna regola o
norma innata ed assoluta per giudicare del bello, neppure umano.
L'uomo non può mai formarsi l'idea di
una bellezza isolata, vale a dire che il bello assoluto non esiste, nè
altrove, nè nella idea, nella fantasia, nell'intelletto naturale e
primitivo dell'uomo. Figuratevi che ci sia mostrato un oggetto forestiero, e
che questo sia il primo e l'unico che noi vediamo nel suo genere. Noi o non giudichiamo
in nessun modo della sua bellezza o bruttezza, nè la sentiamo; ovvero ne
giudichiamo comparativamente ad altri generi di cose, e ad altre proporzioni, e
così per lo più andiamo errati, e probabilmente giudicheremo
brutto un oggetto che nel suo paese è giudicato bellissimo, e che lo
è nel suo genere effettivamente; o viceversa. Figuratevi [1198]di
vedere un uccello Americano di specie da voi non prima veduta. Questa è
specie e non genere, e voi per giudicarne potete paragonarla alle altre specie
di uccelli che conoscete. Tuttavia probabilmente sbaglierete il giudizio;
voglio dire, p.e. vi parranno sproporzioni quelle che agli Americani assuefatti
a vederne, parranno proporzioni, e bellezza: e viceversa agli Americani
parranno sproporzionati e brutti molti uccelli di specie e di forme assai
differenti dai loro, e ch'essi non sono accostumati a vedere. Così
discorrete d'ogni sorta di oggetti o naturali o artifiziali.
E passando da queste osservazioni, al buono
e al cattivo, vedrete come nessuna cosa possibile sia buona nè cattiva,
nè più o meno perfetta ec. isolatamente, ma solo
comparativamente; e che per conseguenza non esiste il buono nè il
cattivo assoluto, ma solo il relativo.
Voglio prevenire un'obbiezione. Diranno che
l'uomo naturalmente, e senza osservazione ed esame preferisce un altro uomo, o
una donna giovane a una vecchia, e che quindi l'idea della bellezza è
assoluta.
1. Potrei dire che al fanciullo non accade
così prima di avere acquistata coll'esperienza de' sensi, [1199]la
facoltà comparativa: ed aggiungerei che io mi ricordo di aver da
fanciullo giudicato belli alcuni vecchi, e più belli ancora di altre
persone ch'erano giovani. E ciò per le ragioni dette p.1191. fine-1193.
2. Ma la vera e piena risposta è che
questo non appartiene alla sfera della bellezza.
Il metafisico non deve lasciarsi imporre dai
nomi, ma distinguere le diverse cose che si denotano sotto uno stesso nome. V.
in tal proposito p.1234-36. e specialmente p.1237. Un colore isolato e vivo,
che piace, si chiama bello, e non è. Un suono isolato che diletta, senza
gradazioni nè armonia, non appartiene al bello. Bellezza non è
altro che armonia e convenienza. Bruttezza è sproporzione e
sconvenienza. Queste sono proposizioni non contrastate da nessun filosofo, per
poco che abbia osservato. Quali cose si convengano o disconvengano insieme, si
crede che la natura dell'uomo l'insegni, e che dipenda dall'ordine primordiale
e necessario delle cose, e questo io lo nego. La quistione è qui. Dove
non entra armonia nè convenienza, la quistione non entra. Una cosa che
piace senza armonia nè convenienza, appartiene alla sfera di altri
piaceri. Quel colore vivo, ci diletta, perchè i nostri organi son
così fatti, che quella sensazione li solletichi gradevolmente. [1200]Questa
è sensazione (dipendente dall'arbitrio della natura circa le quali cose
sieno piacevoli a questa o a quella specie di esseri) e non idea; e quindi il
detto piacere, benchè venga per la vista, non appartiene alla bellezza,
più di quello che vi appartenga il piacere che dà un cibo alle
papille del nostro palato, o il piacere venereo ec. (Lascio che anche questi
tali piaceri non sono assoluti neppure dentro i limiti di una sola specie, anzi
neppure di un solo individuo, e dipendono sommamente, almeno in gran parte, dall'assuefazione.)
L'uomo è più inclinato al suo simile giovane, che al suo simile
vecchio. Così anche gli altri animali. Questa non è idea, ma
inclinazione, tendenza, e passione; ed è fuori della teoria del bello,
perch'è fuori ancora della sfera dell'armonia. Le tendenze sono innate e
comuni a tutti gli uomini; le idee no. Ma nel detto caso la mente non giudica;
bensì il fisico dell'uomo si sente inclinato, e trasportato. Non tutti i
piaceri che vengono per la vista appartengono alla bellezza, sebbene gli
oggetti che producono i detti piaceri, si chiamano ordinariamente belli; ma
quelli soli che derivano dall'armonia e convenienza, sì delle parti fra
loro, sì del tutto col suo fine.
Io credo poi ancora che la stessa idea
dell'uomo che le cose debbano convenire fra loro, non sia innata ma
acquisita, e derivi dall'assuefazione in questo modo. Io sono avvezzo a vedere
p.e. negli uomini [1201]le tali e tali forme. Se ne vedo delle
differenti e contrarie, le chiamo sconvenienti, perchè elle mi producono
un effetto contrario alla mia assuefazione. Sviluppate quest'idea.
(20. Giugno 1821.)
Perchè la parzialità è
sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica
alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto,
nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in
nessun modo? Per l'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, inseparabile dall'amor
proprio. E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli
operai del Vangelo.
(21. Giugno, dì del Corpus Domini. 1821.). V. p.1205. fine.
Alla p.1114. verso il fine. Il Forcellini
ora fa derivare i continuativi da' frequentativi, (come ductare da ductitare)
ora questi da quelli. I continuativi da' frequentativi non derivano mai. Quanto
ai frequentativi da' continuativi, io non nego che talvolta non possano essere
derivati dai participi o supini di questi ultimi, cangiata l'a di detti
participii o supini, in i, secondo quello che abbiamo stabilito p.1154.
Nel qual caso i verbi continuativi venivano a diventar positivi relativamente
al frequentativo che se ne formava. P.e. saltitare può forse
anche venire da saltatus di saltare, cambiata l'a in i,
ed essere frequentativo o diminutivo non di salire, ma di saltare,
cioè ballare. Infatti esso non vale saltellare, ma ballonzare
o ballonzolare. Questo però, posto che talvolta avvenga, avviene
di rado, e la massima parte de' frequentativi derivano immediatamente da'
positivi, e sono affatto indipendenti da' continuativi degli stessi verbi, o
abbiano questi, o non abbiano continuativi. Ed è curioso che il Forcellini
bene spesso chiama p.e. cursare frequentativo di currere, e cursitare
che cosa? frequentativo di cursare. V. p.2011.
(21. Giugno 1821.)
[1202]Alla p.767. Le parole che per
se stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni
delle idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono
scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di
essa. Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società
alquanto formata, si è la scrittura. Le lingue che o mancano o scarseggiano
di questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente, ed
esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto impotenti, o
poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue
finchè non sono estesamente applicate alla scrittura. Come convenire scambievolmente
in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione
certa determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di
quella tal cosa o idea? Come arricchire la lingua, accrescere le significazioni
di una stessa parola, stabilire l'uso e l'intelligenza comune di una metafora o
traslato, dare alla lingua una tal facoltà di tale o tal formazione di
voci o di modi che significhi regolarmente tale o tal altro genere di cose o
idee? Come poi regolare ed uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta
la nazione la sintassi, le inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una
stessa parola, ec. ec.? Tutte queste cose sono impossibili [1203]senza
la scrittura, perchè manca il mezzo di una convenzione universale, senza
cui la lingua non è lingua ma suono. La viva voce di ciascheduno, poco
ed a pochi si estende. Le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e
durano anche dopo che quegli che le fece, non può più parlare.
Gl'individui di una nazione non possono convenir tutti fra loro di veruna cosa
a uno a uno. Ed un individuo, ancorchè di sommo ingegno, non può
mettere in uso una parola, una frase, una regola di lingua, un significato, e
renderne comune e stabilirne l'intelligenza colla sola sua voce, e favella (di
cui tanto pochi e solo istantaneamente possono partecipare), se non lentissimamente
e difficilissimamente. Ora le lingue le più estese sono sempre nate
dall'individuo, e vi fu sempre il primo che inventò e pronunziò
quella parola, quella frase, quel significato ec. In qualunque modo si sieno
formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano cominciato ad intendersi ed esprimersi
scambievolmente mediante gli organi della favella, certo è che questo
non è avvenuto se non a pochissimo per volta, sinchè una lingua
non è stata applicata alla scrittura; perchè la convenzione
individuale di ciascheduno, non può essere se non lentissima e
difficilissima. Di più è certo che l'uso di tutte le lingue nel
loro nascere fu ristretto [1204]a una piccolissima società, dove
la convenzione era meno difficile, perchè fra un piccolo numero d'individui.
Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare, ordinare, perfezionare, e
in qualunque modo migliorare una lingua già parlata da una nazione, dove
la convenzione che deriva dall'uso è lentissima, difficilissima, e per
lo più parziale e diversa, il principale e forse l'unico mezzo di
convenzione universale (senza cui la lingua comune non può ricevere
nè miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra
le scritture quella che 1. va per le mano di tutti, 2. è conforme ne'
suoi principii, e nelle sue regole, vale a dire la letteratura largamente
considerata. Perchè la scrittura non letterata, o non importante in
qualunque modo per se stessa, come lettere cioè epistole ec. ec.
è soggetta quasi agli stessi inconvenienti della viva voce, cioè
si comunica a pochi, (forse anche a meno di quelli a cui si comunica la voce di
un individuo) e non è uniforme nè costante nelle sue
qualità. Insomma si richiede un genere di scrittura che sia nazionale, e
possa produrre, stabilire, regolare e mantenere la convenzione universale circa
la lingua.
(22. Giugno 1821.)
Alla p.1129. Bisogna notare che i gramatici
e vocabolisti intorno a parecchi di questi e simili verbi e nomi portano opinione
contraria al parer nostro, cioè fanno derivare i nomi da' verbi, come
vedremo [1205]di lex da legere, e come rex da regere,
laddove noi regere da rex, conforme porta la sana filosofia, e
ideologia, e la considerazione del progresso naturale delle idee. Che certo
molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il
comando, che un altro da significar l'azione stessa del comandare. L'idea
dell'azione la più materiale, e per conseguenza l'idea espressa da'
verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata da'
nomi. V. in proposito la p.1388-91. Dico posteriore ad esser significata, non
sempre però posteriore nella concezione; ma benchè anteriore
nella concezione (come in questo esempio) l'uomo stabilì prima un segno
per esprimere colui che la faceva, e che era materiale e visibile, (come il re,
cioè quegli che comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare
con un segno l'idea metafisica di ciò che questi faceva. Perchè
questa idea benchè seconda nell'ordine, fu la prima idea ch'egli concepisse
chiaramente, in modo da poterla determinare e circoscrivere con un
segno. Così che ella è anteriore come idea chiara, benchè
posteriore come idea semplicemente. E quello che bisogna cercare in riguardo
alle lingue è l'ordine e la successione non delle idee assolutamente ma
delle idee chiare che l'uomo ha concepite, giacchè queste sole egli ha
potuto e può significare. V. Sulzer p.53. Ma bisogna perdonare ai gramatici
se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo
illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione in quelle cose
che ripugnano all'analisi e alla scienza dell'umano intelletto.
(22. Giugno 1821.)
Alla p.1201. Ho già detto altrove di
una donna sterile che bastonava una cavalla pregna dicendo, [1206]Tu
gravida, e io no? Io credo che un padre storpio difficilmente possa vedere
con compiacenza i suoi figli sani, e non provare un certo stimolo a odiarli, o
una difficoltà ad amarli, che facilmente si convertirà in odio, e
riceverà poi scioccamente il nome di antipatia, quasi fosse una passione
innata, e senza causa morale. Del che si potrebbero portare infinite prove di
fatto, come dell'odio delle madri brutte verso le figlie belle, e delle
persecuzioni che bene spesso fanno per tal cagione a giovani innocentissime,
senza che nè queste nè esse medesime vedano bene il
perchè. Così de' padri di poco ingegno o in qualunque modo
sfortunati, verso i figli di molto ingegno, o in qualunque modo avvantaggiati
su di loro. Così (e questa è cosa generalissima) de' vecchi verso
i giovani (siano anche loro figliuoli, (anzi massimamente in simili casi) e
femmine o maschi ec. ec.); ogni volta che i vecchi non hanno deposto i
desiderii giovanili, ed ogni volta che i giovani, ancorchè
innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi. Così tra fratelli
e sorelle ec. ec. Tanto naturalmente l'amor proprio inseparabile dai viventi,
produce e quasi si trasforma nell'odio degli altri oggetti, anche di quelli che
la natura ci ha maggiormente raccomandati (al nostro stesso amor proprio) e
resi più cari.
(22. Giugno 1821.)
[1207]Quante cose si potrebbero
dire circa l'infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini,
rispetto all'armonia delle parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi
giudizi dell'orecchio sulla bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime
lingue, climi, nazioni, assuefazioni; ed intorno alla dolcezza, alla grazia,
sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un luogo
parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella, e
graziosa un'altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle abitudini
di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso della grazia,
ora l'opposto ec. ec. V. p.1263. Lascio le differentissime armonie de' periodi
della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e
nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori d'una
stessa lingua e nazione, e d'un medesimo tempo. Osserverò solo alcune
cose relative all'armonia de' versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante,
sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all'orecchio, ma
non si accorge di verun'armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure
non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità
regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata
spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si
poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi
che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che
parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata
loro più facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed
anche [1208]il maggior numero di parole, considerando se non altro (per
non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l'infinita copia e
varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così
che avrebbero potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente,
cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il verso, l'armonia
della sua struttura, il ritmo, ec. E nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la
cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all'armonia de' loro versi, parrebbero
barbari e disgustosi ponendovi la rima.
Se esistesse un'assoluta armonia,
cioè a dire un'assoluta convenienza e relazione fra i suoni articolati,
e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia stimata la
più armonica del mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe
tanto il forestiero e il fanciullo ignorante della lingua, quanto l'italiano
adulto nè più nè meno. E se quest'assoluta armonia, e
questi versi assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di
diletto per se stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all'italiano
che allo straniero e al fanciullo.
Tutti coloro che non sanno il latino o il
greco, di qualunque nazione sieno, non sentono armonia veruna ne' versi latini
o greci, se pur non sono assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia
circostanza, [1209]ed allora notandone appoco [appoco] le minute parti,
e le minute corrispondenze, e relazioni, e regolarità, non si formano
l'orecchio a sentirne e gustarne l'armonia. Il qual processo è necessario
anche a chi meglio intenda il latino ed il greco.
Il nostro volgo trova una certa armonia
negl'inni ecclesiastici ec. e nessuna ne troverebbe in Virgilio. Perchè?
perchè gl'inni ecclesiastici somigliano sì per la struttura,
l'andamento e il metro, sì bene spesso per la rima, ai versi italiani
che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade. E poi,
perch'egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri
latini.
Un italiano assai colto, ma non avvezzo a
legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi
vergognandosi, che trovava privo d'armonia quel metro, e che il suo orecchio
non ne era punto dilettato. Il qual metro somiglia a quello delle odi greche
composte di strofe, di antistrofe, e d'epodo, ed ha un'armonia così
nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch'egli non sentiva il
diletto dell'armonia fuorchè nelle ottave, e in qualcuno de' nostri
metri che chiamiamo anacreontici. Notate ch'egli non aveva punto [1210]quell'orecchio
che si chiama cattivo.
Domandate a un francese, ancorchè
bene istruito dell'italiano o dell'inglese, s'egli sente verun'armonia ne'
versi sciolti più belli, o ne' versi bianchi degl'inglesi.
Ciascuna nazione ha avuto ed ha i suoi metri
particolari, tanto per la struttura di ciascun verso, quanto per la loro combinazione,
disposizione e distribuzione, ossia per le strofe ec. E questi in proporzione
della differenza maggiore o minore de' climi, opinioni, assuefazioni, tempi
(giacchè le stesse nazioni altri n'avevano anticamente, altri poi, altri
oggi) ec. ec. sono diversissimi, e spesso affatto o inarmonici, o disarmonici
per gli stranieri, secondo la misura dell'essere straniero, come noi
verso i francesi dall'una parte, dall'altra verso gli orientali ec. ec.
È impossibile allo straniero il sentirvi armonia nè diletto,
senza una di queste condizioni 1. lungo uso di quella lingua; ma non basta,
anzi è nullo quest'uso, se non vi si aggiunge il lungo uso di quella
poesia. 2. somiglianza o affinità di quei metri co' metri della propria
nazione; come fra quelli degl'italiani e degli spagnuoli. La difficoltà
del sentire l'armonia de' versi stranieri è maggiore o minore in
proporzione ch'ella è più o meno diversa dall'armonia de'
nostrali, o da quella o quelle a cui siamo avvezzi. 3. abito fatto ad altre
armonie forestiere affini a quella di cui si tratta. 4. orecchio esercitato a
tante e sì diverse armonie, che mediante una forza riflessiva,
osservativa, e comparativa straordinariamente accresciuta, sia in grado di
avvertire e conoscere o subito o ben presto la natura di quelle combinazioni
forestiere, gli elementi di quell'armonia, e il ritorno de' loro regolati rapporti
rispettivi; sia in grado di assuefar presto l'orecchio, ed abbia
una facilità di contrarre abitudine, ch'è propria degli animi e
degl'ingegni pieghevoli e adattabili, cioè in somma de' grandi ingegni;
ec. ec. e possa in poco tempo arrivare a [1211]scoprire e discernere in
detta armonia quello che i nazionali ci scuoprono.
È impossibile al nazionale avvezzo, e
formato l'orecchio all'armonia de' suoi metri, per quanto sia chiamata barbara,
dura, dissonante ec. dagli stranieri, il non sentirla meglio, e il non trovarla
più dilettevole di qualunque altra armonia forestiera, ancorchè
giudicata bellissima ec. Fuorchè formando (che è difficilissimo e
forse non accade mai) un'assuefazione nuova che vinca la passata.
Chi di noi sente l'armonia de' versi
orientali, o delle strofe loro? Non parlo de' versi tedeschi o inglesi, o della
prosa tedesca misurata ec. in ordine agl'italiani. I quali molto più
presto e facilmente riconoscono un'armonia ne' versi francesi, perchè
lingua ed armonia più affine alla loro.
Si pretende, ed è probabilissimo che
parecchi libri scritturali sieno metrici. Ma in quali metri sieno composti
nessuno l'ha trovato, benchè molti l'abbiano cercato. E non si
potrà mai trovare se non a caso, non essendoci regola che c'insegni qual
fosse quella che agli Ebrei pareva armonia rispetto alle parole. E ciò
per qual altra ragione, se non perchè non esiste armonia assoluta? Se
esistesse, la regola sarebbe trovata, massime esistendo tutte intere e ordinate
quelle parole, che si pretendono aver formato un'armonia. [1212]
(23. Giugno 1821.). V. p.1233. fine.
Alla p.1155. Alle volte, anzi bene spesso
dinotano l'appoco appoco, il corso il progresso dell'azione, per lo più
lento, anzi hanno forza bene spesso di esprimere appunto la lentezza
dell'azione, e non si usano ad altro fine. Ovvero esprimono formalmente la
debolezza dell'azione, ed hanno come una forza diminutiva uguale o simile a
quella de' verbi latini terminati in itare. Hanno simili modi anche gli
spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili significati.
(24. Giugno 1821.). V. p.1233. capoverso 2.
Non è ella cosa notissima,
comunissima, frequentissima, e certa per la esperienza quasi di ciascuno, che
certe persone che da principio, o vedendole a prima giunta, ci paion brutte,
appoco appoco, assuefacendoci a vederle, e scemandosi coll'assuefazione il
senso de' loro difetti esteriori, ci vengono parendo meno brutte, più
sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle, e bellissime?
E poi perdendo l'assuefazione di vederle, ci torneranno forse a parer brutte.
Così dico di ogni altro genere di oggetti sensibili o no. Molti de'
quali che per una primitiva assuefazione di vederli e trattarli ci parvero
belli da principio, cioè prima di esserci formata un'idea distinta e
fissa del bello; veduti poi dopo lungo intervallo, ci paiono brutti e
bruttissimi. Che vuol dir ciò? Se esistesse un bello assoluto, la sua
idea sarebbe continua, indelebile, inalterabile, uniforme in tutti gli uomini,
nè si potrebbe o perdere o acquistare, o indebolire o rinforzare, o
minorare o accrescere, [1213]o in qualunque modo cambiare (e cambiare in
idee contrarie, come abbiamo veduto) coll'assuefazione, dalla quale non
dipenderebbe.
(24. Giugno 1821.)
Da qualche tempo tutte le lingue colte di
Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia,
ed intendo anche quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazone,
fino nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno
artifiziato. Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta
l'Europa conviene. Ma una grandissima parte di quelle parole che esprimono cose
più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle
che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne'
passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma
più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la raffinatezza
delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell'uomo in questi ultimi
tempi; e in somma tutte o quasi tutte quelle parole ch'esprimono precisamente
un'idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima
parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte d'Europa,
eccetto piccole modificazioni particolari, per lo più nella desinenza.
Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un
vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente universale,
cioè non come è universale la lingua francese, ch'è lingua
secondaria [1214]di tutto il mondo civile. Ma questo vocabolario ch'io
dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e
serve all'uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di
tutta l'Europa colta. Ora la massima parte di questo Vocabolario universale
manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e
pura; e quello ch'è puro in tutta l'Europa, è impuro in Italia.
Questo è voler veramente e consigliatamente metter l'Italia fuori di
questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi
una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed
esprimenti le cose che appartengono all'intima natura universale, sieno comuni,
ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta
l'Europa adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in
altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese. E
siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della
letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per tutta l'Europa
ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le
più difformi, ed intesa da per tutto egualmente. Così sono oggi
uguali (per necessità e per natura del tempo) le cognizioni metafisiche,
filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema semplicizzato e
uniformato, è comune oggi [1215]più o meno a tutto il
mondo civile; naturale conseguenza dell'andamento del secolo. Quindi è
ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte
del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente,
tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono sempre il termometro
de' costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de' tempi, e seguono per natura
l'andamento di questi.
Diranno che buona parte del detto
vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma
influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne,
cagionata da quello che ho detto altrove. Ma venisse ancora dalla lingua
tartara, siccome l'uso decide della purità e bontà delle parole e
dei modi, io credo che quello ch'è buono e conveniente per tutte le
lingue d'Europa, debba esserlo (massime in un secolo della qualità che
ho detto) anche per l'Italia, che sta pure nel mezzo d'Europa, e non è
già la Nuova Olanda, nè la terra di Jesso. E se hanno accettate,
ed usano continuamente le dette voci, quelle lingue Europee che non hanno punto
che fare colla francese, quanto più dovrà farlo, e più facilmente,
e con più naturalezza e vantaggio la nostra lingua, ch'è sorella
carnale della francese? Le origini di dette parole, a noi [1216]riescono
familiari e domestiche, perchè in gran parte derivano dal latino,
benchè applicate ad altre significazioni che non avevano, nè
potevano aver nel latino, mancando i latini di quelle idee. Spessissimo vengono
dal greco, che a noi non è più, anzi meno alieno, di quello che
sia alle altre lingue colte moderne. Spesso sono interamente italiane
cioè stanno già materialmente nel nostro linguaggio,
benchè in significato diverso, e meno sottile, o meno preciso, perchè
i nostri antichi non poterono aver quelle idee, che oggi abbiamo noi, non
perciò meno italiani di loro, nè quelle idee sono meno italiane
perchè i nostri antichi non le arrivarono a concepire, o solo
confusamente, secondo la natura de' tempi, e lo stato dello spirito umano.
Si condannino (come e quanto ragion vuole) e
si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi,
che non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e
proprio per ragione appunto della civiltà, come l'uso di queste voci che
deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d'Europa.
Osservate p.e. le parole genio,
sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo,
originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il
mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non
può adoperare (o non può in quel significato), perchè?
perchè i puristi le scartano, e perchè i nostri antichi, non
potendo aver quelle idee, non poterono pronunziare nè scrivere quelle
parole in quei sensi. Ma così accade in ordine alle stesse parole, a
tutte le lingue del mondo che pur non hanno scrupolo di adoperarle. Piuttosto
avrebbero scrupolo e vergogna di non saper esprimere un'idea chiara per loro, e
chiara per tutto [1217]il mondo civile, mentre per la espressione delle
idee chiare son fatte e inventate e perfezionate le lingue. Come infatti noi,
non volendo usar queste parole, non possiamo esprimere le idee chiare che rappresentano,
o dobbiamo esprimere delle idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente
nostra), confusamente e indeterminatamente: e poi diciamo che l'italiano
è copiosissimo, e basta a tutto, ed avanza. Sicchè bisogna
tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l'italiana letteratura e
filosofia resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre. E come no, senza
la lingua?
Aggiungo che quando anche potessimo
ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa
lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male
ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli stranieri, nè
dagli stessi italiani, e quell'idea che desteremmo non sarebbe nè potrebbe
mai esser precisa; e non otterremmo l'effetto dovuto e preciso di tali parole,
che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni.
1. Fu tempo dove agli uomini ed agli
scrittori bastava di giovare, di farsi intendere, di rendersi famosi dentro i
limiti della propria nazione. Ma oggi, nello stato d'Europa che ho detto di
sopra, non acquista fama nè grande nè durevole quello scrittore
il cui nome e i cui scritti non passano i termini del [1218]proprio
paese. Nè in questa presente condizione di cose può molto e
immortalmente giovare alla sua patria chi non viene almeno indirettamente a
giovare più o meno anche al resto del mondo civile. Nel rimanente quella
gloria o quel nome che fu ristretto a una sola nazione fu sempre, ed anche
anticamente poco durevole, nella stessa nazione ancora. Fra mille esempi, basti
nominare i Bardi; molti de' quali si sa confusamente e genericamente che furono
famosissimi nelle loro nazioni, ed oggi p.e. nella Scozia appena resta il nome
e la memoria oscura di pochissimi degli stessi antichi Bardi Scozzesi. Quello
che dico degli scrittori, dico anche degli altri generi di persone famose ec.
ma degli scrittori in maggior grado, perchè i fatti degli uomini poco
durano, e poco si possono stendere ma le voci e i pensieri loro consegnati agli
scritti, sopravvivono lunghissimo tempo, e possono giovare a tutta
l'umanità; nè lo scrittore, massimamente in questo presente stato
del mondo, si deve contentare della utilità della sua sola patria,
potendo con quel medesimo che impiega per lei, proccurare il vantaggio di tutte
le altre nazioni.
2. Ho detto che difficilmente ci faremmo
intendere, e susciteremmo precisamente l'idea che vorremmo significare, e che
è precisamente espressa dalle parole [1219]corrispondenti
già usitate in Europa. La filosofia (con tutti quanti i diversissimi
suoi rami) è scienza. Tutte le scienze giunte ad un certo grado di
formazione e di stabilità hanno sempre avuto i loro termini, ossia la
loro propria nomenclatura, e così propria, che volendola cambiare, si sarebbe
cambiato faccia a quella tale scienza. Com'è avvenuto che la
rinnovazione della Chimica, ha portato la rinnovazione della sua nomenclatura,
e di tutta quella parte di nomenclatura fisica o d'altre scienze, che
apparteneva, o era influita dalle cognizioni chimiche vecchie o nuove. E la
nomenclatura di qualunque scienza è stata sempre così legata con
lei, che dovunque ell'è entrata, v'è anche entrata quella stessa
nomenclatura, comunque e dovunque formata, e comunque pur fosse inesatta
nell'etimologie ec. purchè fosse esatta nell'intendimento e nel senso
che le si attribuiva. La Chimica ha nuova nomenclatura, perch'è scienza
nuova e diversa dall'antica. E così accade alle altre scienze quando si
rinnuovano o in tutto o in parte. Perdono l'antica nomenclatura, e ne
acquistano altra, che diviene però universale come la prima. E quando
fra diverse e lontane nazioni poco note o strette fra loro, trovate differenza
di nomenclatura in una medesima scienza, certo è che quella scienza
è diversa notabilmente nelle rispettive nazioni e lingue. V. p.1229.
Quindi i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite sono
stati sempre universali, nè sarebbe mai possibile nel trattarle, l'adoperare
altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza
nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier via la precisione. La qual
precisione non deriva propriamente e principalmente da altro se non dalla
convenzione che applica a quella parola quel preciso significato, bene spesso
metaforico, ma passato in proprissimo. Mutando la parola, è tolta via la
forza della convenzione, e quindi, benchè la nuova parola equivalga
quanto alla sua origine, alla sua proprietà intrinseca ec. non equivale
quanto all'effetto, perchè il [1220]lettore o uditore non
concepisce più quell'idea precisa e netta che concepiva mediante la
parola usitata, la qual era aiutata dalla convenzione, o sia dall'assuefazione
di attribuirgli e d'intenderla in quel preciso significato. Converrebbe
rinnovare appoco appoco l'assuefazione, applicandola a queste nuove parole, il
che porterebbe necessariamente un lungo intervallo di oscurità e
confusione nella intelligenza degli scrittori, finchè la nuova nomenclatura
non arrivasse a prendere nella mente nostra in tutto e per tutto il posto
dell'usitata, e a farvi, per così dire, quel letto che questa vi aveva
già fatto. Nè questo sarebbe il solo danno, o difficoltà;
ma converrebbe che questa nuova nomenclatura diventasse universale, altrimenti
restringendosi a una sola nazione o lingua, ne seguirebbero i danni che ho
specificati all'articolo 1. e le nazioni non s'intenderebbero fra loro nelle
idee che denno essere da per tutto egualmente precise, e precisamente intese. E
se una sola fosse la nazione che in qualunque scienza avesse una nomenclatura
diversa dalle altre nazioni, quella nazione in ordine a quella scienza sarebbe
come fuori del mondo e del secolo, tanto per l'effetto de' suoi scrittori sugli
stranieri, quanto (ch'è peggio) per l'effetto degli scrittori stranieri
su di lei. [1221]Posto poi il caso ch'ella arrivasse a rendere quella
nomenclatura universale, ognun vede che siamo da capo colla quistione, e che la
universalità resterebbe, e solo avrebbe fatto passaggio inutilmente (e
con danno temporaneo) da una ad altra nomenclatura: ed allora io dico che
sarebbe pazzo quello scrittore o quel paese che non vi si volesse uniformare.
La filosofia dunque ha i suoi termini come
tutte le altre scienze. E siccome l'odierna filosofia è così 1.
raffinata, 2. dilatata nelle sue parti e influenze, così che si
può dire che tutta la vita umana oggi è filosofica, o almeno
è tutta soggetta alle speculazioni della filosofia; perciò accade
che i termini filosofici sieno moltissimi, e cadano spessissimo nel discorso
familiare, e regnino in grandissima parte delle cognizioni, delle discipline,
degli scritti presenti. E perchè questi termini, come ho detto, sono in
gran parte uniformi per tutta Europa, perciò oggi il linguaggio di tutta
Europa nelle espressioni delle idee sottili o sottilmente considerate, è
presso a poco uniforme, anche nella conversazione.
Ed è ben ragionevole che la filosofia
divenuta scienza così profonda, sottile, accurata, ed appresso a poco
uniforme e concorde da per tutto (a differenza delle antiche filosofie), e,
quel ch'è notabilissimo nel nostro proposito, sempre più chiara e
certa nelle sue nozioni, e determinata, abbia [1222]i suoi termini
stabili e universalmente uniformi, massime in tanta uniformità, e
stretto commercio d'Europa: quando anche le vecchie, informi ed oscure,
incerte, mal determinate, e sciocche filosofie che s'insegnavano nelle
scuole, ebbero la loro nomenclatura stabile e universale, fuor di cui non sarebbero
state intese in nessuna parte d'Europa, benchè tanto meno uniforme ed
unita fra se. Di questi termini dell'antica filosofia, di questi termini
scolastici universalmente adoperati ne' bassi tempi e fino agli ultimi secoli,
abbonda la lingua italiana. E perchè ebbero la fortuna d'essere usati
da' nostri vecchi, perciò questi termini, quantunque derivati da barbare
origini, e appartenenti a scienze che non erano scienze, si chiamano purissimi
in Italia; e i termini dell'odierna filosofia, derivati dalla massima
civiltà d'Europa, appartenenti alla prima delle scienze, e questa
condotta a sì alto grado, si chiamano impurissimi, perchè ignoti
agli antichi; quasi che a noi toccasse il venerare e il conservare, e non lo
scusare per l'una parte, per l'altra discacciare l'ignoranza antica. E che
l'ignoranza de' passati dovesse esser la misura e la norma del sapere dei presenti.
[1223]Se dunque l'odierna
filosofia, quella filosofia che abbraccia per così dire tutto questo
secolo, tutte le cose e tutte le cognizioni presenti, ha e deve avere i suoi
termini costanti, ed uniformi in qualunque luogo ella è trattata, noi dobbiamo
adottarli ed usarli, e conformarci a quelli che tutto il mondo usa. E non
è più tempo di cambiarli, e formarci una nomenclatura filosofica
italiana, cioè cavata tutta dalle fonti della nostra lingua. Questo
avrebbe potuto essere, se la massima parte dell'odierna filosofia fosse
derivata dall'Italia. Ed allora le altre nazioni, senza veruna ripugnanza avrebbero
usata nella filosofia, la nomenclatura fabbricata in Italia. Ma avendo lasciato
far tutto agli stranieri, ed arrivar questa scienza a sì alto grado
senza quasi nessuna opera nostra, o dobbiamo seguitare a non curarla,
ignorarla, e non trattarla; o volendo trattarla ci conviene adottare quella
nomenclatura che troviamo già stabilita e generalmente intesa, fuor
della quale non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da'
nostri medesimi, come apparisce dalle sopraddette ragioni. Alle quali aggiungo
come corollario, dimostrato dal fatto, che tutte quelle parole che [1224]hanno
espressa precisamente e sottilmente un'idea sottile e precisa, di qualunque
genere, e in qualunque ramo delle cognizioni, sono state o sempre o quasi
sempre universali, ed usate in qualsivoglia lingua da tutti quelli che hanno
concepita e voluta significare quella stessa idea strettamente. E quella tale
idea è passata dal primo individuo che la concepì chiaramente,
agli altri individui, e alle altre nazioni, non altrimenti che in compagnia di
quella tal parola. Appunto perchè questa fina precisione di significato,
non deriva nè può derivare se non da una stretta e appositissima
convenzione, difficilissima a rinnovare, e a moltiplicare secondo le lingue.
Per tutte queste ragioni, sarebbe opera
degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia,
un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti
precisamente un'idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla
maggior parte delle moderne lingue colte. E massimamente quelle parole che appartengono
a tutto quello che oggi s'intende sotto il nome di filosofia, ed a tutte le
cognizioni ch'ella abbraccia. Giacchè le scienze materiali, o le scienze
esatte non hanno tanto bisogno di questo servigio, essendo bastantemente
riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le idee che queste significano non
essendo così facili [1225]o a sfuggire, o ad oscurarsi e
confondersi e divenire incerte e indeterminate, come quelle della filosofia. Dovrebbe
chi prendesse questo assunto definire e circoscrivere colla possibile diligenza
il significato preciso di tali parole o termini, e recarne dalle diverse lingue
dov'elle sono in uso, esempi giudiziosamente scelti di scrittori veramente
accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov'è contenuta una
definizione filosofica dell'idea significata dalla parola; esempi che non
sarebbero difficili a trovarsi in tanta copia di scrittori profondissimi e
sottilissimi e acutissimi di questo e del passato secolo, e anche del
precedente. In maniera simile si contenne Samuele Johnson nel Dizionario della
lingua inglese, lingua che sa veramente esser filosofica, ed abbonda di
scrittori di tal genere. Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano, ci
renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de' migliori italiani che
hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane perfettamente
corrispondenti, sia nel Vocabolario nostro sia ne' nostri buoni scrittori qualunque,
sia nell'uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte ec. con che verrebbe
a fare un Vocabolario italiano filosofico, cosa veramente da sospirarsi, e per
conoscere e per mostrare e per usare le nostre ricchezze, se ne abbiamo.
Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a
tutta l'Europa, lo sarebbe massimamente all'Italia, la quale dovrebbe vedere
quanta copia di parole che tutta l'Europa pronunzia e scrive, e riconosce per
necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz'averne alcuna da surrogar loro. E
la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi
più di quello che si sieno corrotte coll'adottarle, [1226]tutte
le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal
vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l'italiano non fosse
Europeo, nè di questo secolo ec. E dovrebbe riconoscerle per voci
nobilissime, perchè inseparabilmente spettanti e legate alla più
nobile delle scienze umane ch'è la filosofia. V. p.1231. fine.
Con ciò non vengo mica a dire ch'ella
debba, anzi pur possa adoperare, e molto meno profondere siffatte voci nella
bella letteratura e massime nella poesia. Non v'è bontà dove non
è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla
bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo le parole
dai termini, e mostrata la differenza che è dalla proprietà delle
voci alla nudità e precisione. È proprio ufficio de' poeti e
degli scrittori ameni il coprire quanto si possa le nudità delle cose,
come è ufficio degli scienziati e de' filosofi il rivelarla. Quindi le
parole precise convengono a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a
dirittura l'uno a l'altro. Allo scienziato le parole più convenienti
sono le più precise, ed esprimenti un'idea più nuda. Al poeta e
al letterato per lo contrario le parole più vaghe, ed esprimenti idee
più incerte, o un maggior numero d'idee ec. Queste almeno gli denno
esser le più care, e quelle altre che sono l'estremo opposto, le
più odiose. V. p.1234. capoverso 1. e 1312. capoverso 2. Ho detto e ripeto
che i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e
bruttissimo effetto. Qui peccano assai gli stranieri, e non dobbiamo imitarli.
Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della letteratura e della
poesia) si corrompe per la profusione de' termini, ossia delle voci di nudo e
secco significato, perch'ella si compone oramai tutta quanta di termini, abbandonando
e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo mai nè [1227]dimenticare
nè perdere nè dismettere, perchè perderemmo la letteratura
e la poesia, riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le
dette voci ch'io raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non
sono ignobili, ma non sono eleganti. La bella letteratura alla quale è
debito quello che si chiama eleganza, non le deve adoperare, se non come voci
aliene, e come si adoprano talvolta le voci forestiere, notando ch'elle son
tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune voci in greco, così per
incidenza. I diversi stili domandano diverse parole, e come quello ch'è
nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così
quello ch'è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è
ignobilissimo per un altro. I latini ai quali in prosa non era punto ignobile
il dire p.e. tribunus militum o plebis, o centurio, o triumvir
ec. non l'avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d'un
significato troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli
convengano le parole proprie, e benchè l'idea rappresentata sia non solo
non ignobile, ma anche nobilissima. I termini della filosofia scolastica,
riconosciuti dalla nostra lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell'antica
nostra poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante, s'ella gli
avesse adoperati come parole sue proprie. [1228]E se Dante le profuse
nel suo poema, e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di
prosa letteraria in quei tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o
vogliamo dire alla civiltà bambina di quella letteratura e di que'
secoli, ch'erano però purissimi quanto alla lingua. Ma altro è la
purità, altro l'eleganza di una voce, e la sua convenienza, bellezza, e
nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo ai diversi stili:
giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile elegante,
e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè allora
la natura dello stile domanda più l'eleganza e bellezza che la
precisione, e questa va posposta. (Del resto in tal caso, la filosofia è
l'uno de' principali pregi della letteratura e poesia, sì antica che
moderna, atteso però quello che ho detto p.1313. la quale vedi.) Io dico
che l'Italia dee riconoscere i detti termini ec. per puri, cioè propri
della sua lingua, come delle altre, ma non già per eleganti. La bella
letteratura, e massime la poesia, non hanno che fare colla filosofia sottile,
severa ed accurata; avendo per oggetto in bello, ch'è quanto dire il
falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato dell'uomo) non
fu mai bello. Ora oggetto della filosofia qualunque, come di tutte le scienze,
è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è
vera poesia. La qual cosa [1229]molti famosi stranieri o non la vedono,
o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non volessero
vederla. E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle
scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più filosofica,
tanto meno è poesia.
(26. Giugno 1821.). V. p.1231.
Alla p.1219. marg. La filosofia e le scienze
greche passarono ai latini, passarono agli Arabi; e portarono nel latino e nell'Arabo
le loro voci greche. Gli Arabi vi ggiunsero alcune cose, e inventarono qualche
scienza, o parte di scienze; e i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e
invenzioni, sono diffusi universalmente in Europa. Così sempre è
accaduto negli antichi, ne' mezzani, ne' moderni tempi. La filosofia Chinese
p.e. ha nomenclatura diversa dalla nostra, ed ognun sa quanto ella ne
differisca: oltre ch'ella non può in nessun modo chiamarsi scienza
esatta nè simile all'esatte, come la moderna nostra. Così dico
delle altre scienze chinesi. Così della filosofia degli Ebrei, che
avendo altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un'idea di
originalità, massime in quelle parti dove i loro nomi differiscono da
quelli della filosofia latina, [1230](divenuti poi comuni in Europa ec.)
nella qual lingua conosciamo i libri Ebraici. Oltre che l'Ebraica filosofia
è pure inesatta come ho spiegato di sopra, e quindi tanto meno copiosa
ne' termini, e meno precisa ne' loro significati. ec. ec. ec.
(26. Giugno 1821.)
Da repere che anche il Forcellini
dice esser metatesi di , oltre l'inerpicare
del quale ho detto altrove, ed oltre il latinismo repere che nella
Crusca ha un esempio di Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi
anche ripire, voce italiana d'uso, e volgare in quei tempi, come sembra,
e adoprata anch'essa nel significato di inerpicarsi, , o di
salire, montar su, come puoi vedere ne' due esempi delle Storie Pistolesi nella
Crusca, e in questi della Storia della Guerra di Semifonte scritta da M.
Pace da Certaldo, Firenze 1753. il quale autore fu tra il 200 e il 300. Gli
Fiorentini appoggiate le scale di già RIPIVANO (p.37): e Videro...
alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di RIPIRE.
(p.46.) Esempi portati nella Lettera a V. Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta
di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della Crusca, vol.2. par.1.
Milano 1819. Appendice, p.284. Quindi ripido, cioè Erto,
Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto di ripido,
voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido,
dice la Crusca, che ne porta due [1231]esempi del trecento. Il Du Cange
non ha niente in proposito.
(27. Giugno 1821.)
Alla p.1229. E infatti gran parte, e forse
la maggiore delle poesie straniere, riescono e sono piuttosto trattati profondissimi
di psicologia, d'ideologia ec. che poesia. E quivi la filosofia nuoce e
distrugge la poesia, e la poesia guasta e pregiudica la filosofia. Tra questa e
quella esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale, che
non si può nè toglier di mezzo, e riconciliare, nè dissimulare.
E così dico proporzionatamente del resto della bella letteratura propriamente
e veramente considerata.
(27. Giugno 1821.)
Alla p.1125, marg. - ossia le radici de'
verbi ebraici chiamati perfetti, tutte composte di tre lettere nè
più nè meno, e di due sillabe, ed anche gl'imperfetti fuorchè
i Deficienti (come dicono) in Ghaiin, quando per contrazione perdono la
seconda radicale nella terza singolare del Preterito di Kal attivo
(cioè della prima coniugazione attiva); e i Quiescenti detti in Ghaiin
Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però una sola sillaba
nella radice. Questo genere di radici dissillabe e trilettere, io credo che sia
comune e regolare anche nell'Arabo, nel Siriaco e in altre lingue orientali.
(27. Giugno 1821.)
Alla p.1126. Dovrebbe, dico adottare, fra
queste voci, tutte quelle che non hanno, nè possono avere nell'italiano
un preciso equivalente, cioè preciso nella significazione, e preciso
nell'intelligenza e nell'effetto. [1232]Perchè se qualcuna di
tali voci ha già nell'uso o dello scrivere o del parlare italiano, una
voce corrispondente che produca lo stesso preciso effetto, quantunque diversa
materialmente; o se si può formare dalle nostre radici, o riporre in uso
qualche parola dismessa che indichi la stessa idea in modo da suscitarla con
piena e perfetta precisione, e senza oscurità nè veruna minima incertezza,
e senza niente di vago o di dissimile, nella mente del lettore, o uditore; non
nego, anzi affermo, che in tal caso (che quando si ponga ben mente a tutte e a
ciascuna delle dette condizioni sarà rarissimo) faremo bene a preferir
queste voci nostre, alle sopraddette, benchè universali, e benchè
in tal caso pure, non saremmo in diritto di riprenderle come impure, mentre son
pure, cioè comunemente usate, e precisamente intese in tutta l'Europa.
(27. Giugno 1821.)
La trattabilità e facilità
della lingua francese, ond'ella è così agevole a scriver bene e
spiegarsi bene sì per lo straniero che l'adopra o l'ascolta, sì
pel nazionale, non deriva dall'esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità
negatale espressamente dal Thomas) ec. ma dall'essere un piccolo strumento, e
quindi manuale, maneggiabile,
[1233]facile a rivoltarsi per tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa.
ec.
(27. Giugno 1821.)
Quello che ho detto de' termini filosofici
comuni oggi a tutta Europa, bisogna anche estenderlo ai nomi appartenenti al
commercio, alle arti, alle manifatture, agli oggetti di lusso ec. ec. che da
qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il nome, lo conservano in gran
parte per tutte le lingue e nazioni, e così è sempre accaduto.
Quanto però al Vocabolario ch'io propongo, il comprendervi questi nomi,
sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o
materiali.
(28. Giugno 1821.)
Alla p.1212. Talvolta anche adopriamo i
detti modi, a espresso fine di denotare azione interrotta, e il di quando in
quando, come p.e. dicendo il Tasso viene ornando i suoi versi di falsi
ornamenti, vogliamo dire, di quando in quando gli orna ec. e
vogliamo significare minor continuità che se dicessimo orna i suoi
versi ec. il che verrebbe a dire che lo facesse sempre o quasi sempre; o se
dicessimo suole ornare ec.
(28. Giugno 1821.)
Alla p.1212. principio. Se esistesse
un'armonia assoluta in ordine ai suoni articolati o alle parole, tutte le
versificazioni in qualunque lingua e tempo, avrebbero [1234]avuto ed
avrebbero le stesse armonie, e renderebbero le stesse consonanze, che in un
batter d'occhio si ravviserebbero dal forestiero, come dal nazionale, e dal
contemporaneo ec. Quando per lo contrario il forestiero non solo non vi trova
alcuna conformità coll'armonia della versificazione sua nazionale, ma bene
spesso non si accorge nè si può accorgere che quella tale sia
versificazione, se non se n'accorge per la materia, e per essere scritta in
linee distinte, o per la rima, che non ha punto che fare col ritmo, nè
colla misura.
(28. Giugno 1821.)
Alla p.1226. marg. fine. L'analisi delle
cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della
poesia. Così l'analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed
elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d'idee
concomitanti, le dette parti o elementi d'idee. Questo appunto è
ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch'è
tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima
parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti
o quasi tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che
mancassero assolutamente ai nostri antichi. Ma come è già
stabilito dagl'ideologi [1235]che il progresso delle cognizioni umane
consiste nel conoscere che un'idea ne contiene un'altra (così Locke,
Tracy ec.), e questa un'altra ec.; nell'avvicinarsi sempre più agli
elementi delle cose, e decomporre sempre più le nostre idee, per
iscoprire e determinare le sostanze (dirò così) semplici e universali
che le compongono (giacchè in qualsivoglia genere di cognizioni, di
operazioni meccaniche ancora ec. gli elementi conosciuti, in tanto non sono
universali, in quanto non sono perfettamente semplici e primi); (v. in questo
proposito la p.1287. fine) così la massima parte di dette voci, non fa
altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora
separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l'analisi che il
progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri,
risolvendole nelle loro parti, elementari o no (che il giungere agli elementi
delle idee è l'ultimo confine delle cognizioni); e distinguendo l'una
parte dall'altra, con dare a ciascuna parte distinta il suo nome, e formarne
un'idea separata, laddove gli antichi confondevano le dette parti, o idee
suddivise (che per noi sono oggi altrettante distinte idee) in un'idea sola.
Quindi la secchezza che risulta dall'uso de' termini, i quali ci destano
un'idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta;
laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi
d'idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e
nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle
parole proprie, ch'esprimono un'idea composta di molte parti, e legata [1236]con
molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co' termini
(sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture,
arti ec. ec.) i quali esprimono un'idea più semplice e nuda che si
possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e
proporzionatamente, colla bella letteratura.
P.e. genio nel senso francese,
esprime un'idea ch'era compresa nell'ingenium, o nell'ingegno
italiano, ma non era distinta dalle altre parti dell'idea espressa da ingenium.
E tuttavia quest'idea suddivisa, espressa da genio, non è di gran
lunga elementare, e contiene essa stessa molte idee, ed è composta di
molte parti, ma difficilissime a separarsi e distinguersi. Non è idea
semplice benchè non si possa facilmente dividere nè definire
dalle parti, o dal'intima natura. Lo spirito umano, e seco la lingua, va sin
dove può; e l'uno e l'altra andranno certo più avanti, e
scopriranno coll'analisi le parti dell'idea espressa da genio, ed
applicheranno a queste parti o idee nuovamente scoperte, cioè distinte,
nuove parole, o nuovi usi di parole. Così egoismo che non
è amor proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista
ch'è la qualità del secolo, e in italiano non si può
significare.
Così cuore in quel senso
metaforico che è sì comune a tutte le lingue moderne fin dai loro
principii, era voce sconosciuta in detto senso alle lingue antiche, e non
però era sconosciuta l'idea ec. ma non bene distinta da mente, animo
ec. ec. ec. ec. Così immaginazione o fantasia, per quella
facoltà sì notabile ed essenziale della mente umana, che noi
dinotiamo con questi nomi, ignoti in tal senso alla buona latinità e
grecità, benchè da esse derivino. Ed altri nomi non avevano per
dinotarla, sicchè anche queste parole (italianissime) e questo senso,
vengono da barbara origine.
(28. Giugno 1821.)
[1237]Nè solamente col
progresso dello spirito umano si sono distinte e denominate le diverse parti
componenti un'idea che gli antichi linguaggi denominavano con una voce
complessiva di tutte esse parti, o idee contenute; ma anche si sono distinte e
denominate con diverse voci non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti,
o analoghe ad altre idee, non si sapevano per l'addietro distinguer da queste,
e si denotavano con una stessa voce, benchè fossero essenzialmente
diverse e d'altra specie o genere. V. p.e. quello che ho detto p.1199-200.
circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è
però bello, nè appartiene alla sfera della bellezza,
benchè ne' linguaggi comuni, si chiami bello, e l'intelletto volgare non
lo distingua dal vero bello.
Da queste osservazioni e da quelle del
pensiero precedente, inferite 1. che quelli i quali scartano tali nuove parole
o termini, e vietano la novità nelle lingue, pretendono formalmente
d'impedire l'andamento, e rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre
il progresso dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente
progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte,
sottili, uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238]vicendevolmente
senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e non
d'altra, che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano,
il quale non può stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle
sue nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove significazioni
fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più,
uniformi, perchè se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano
sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella
lingua dove si sono formate le dette nuove parole; o a quelle sole nazioni che
le hanno bene intese e adottate.
2. Che tali parole o termini, sono affatto
incompatibili coll'essenza della poesia, e l'abuso loro, guasta affatto, e
perde e trasforma in filosofia, o discorso di scienze ec. la bella letteratura.
(29. Giugno, dì mio natalizio. 1821.)
Già non accade avvertire che tali
parole universali in Europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per
verun conto più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di
quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia non sieno riconosciute
per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne'
Vocabolari. E di questo è cagione
(29. Giugno, dì di S. Pietro. 1821.)
Spesso è utilissimo il cercar la prova
di una verità già certa, e riconosciuta, e non controversa. Una
verità isolata, come ho detto altrove, poco giova, massime al filosofo,
e al progresso dell'intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono i
rapporti, e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia): e si scoprono pure [1240]bene
spesso molte analoghe verità, o ignote, o poco note, o dei rapporti
loro, sconosciuti ec.: si rimonta insomma bene spesso dal noto all'ignoto, o
dal certo all'incerto, o dal chiaro all'oscuro, ch'è il processo del
vero filosofo nella ricerca della verità. E perciò i geometri non
si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la
dimostrazione. E Pitagora immolò un'Ecatombe per la trovata
dimostrazione del teorema dell'ipotenusa, della cui verità era
già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura. Però giova
il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da
altri, senza aver notizia della dimostrazione già fatta. Perchè i
diversi ingegni prendendo diverse vie, scoprono diverse verità e
rapporti, benchè partendo da uno stesso punto, o collimando a una stessa
meta o centro ec.
(29. Giugno 1821.)
Una delle principali, vere, ed insite
cagioni della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana,
è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette a larghissimo
frutto le sue radici. Osserviamo solamente le diverse formazioni che dalle sue
radici ella può fare de' verbi frequentativi o diminutivi. Colla
desinenza in eggiare come da schiaffo, [1241]da vezzo,
da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare,
vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare, (e così da vano
o vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec.
e da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare);
in icciare come da arso arsicciare; in icchiare, come da canto
canticchiare; in ellare come da salto saltellare; in erellare,
come pur da salto salterellare, e da canto canterellare; in olare,
come da spruzzo spruzzolare, da vòlto voltolare, da rotare,
rinfocare, rotolare, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire
o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare; in igginare, come
da piovere piovvigginare; in uzzare, come da taglio
tagliuzzare; in acchiare come da foro foracchiare; in ecchiare,
come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare; (e
così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare
come da scorrere scorrazzare, da volare svolazzare; in eare
come da ruota o rotare roteare (che la Crusca chiama V. A. non so
perchè) alla spagnuola rodear, blanquear cioè biancheggiare
e imbiancare ec.; in ucchiare, come da bacio baciucchiare;
in onzare come da ballo ballonzare; ed in altri modi ancora, che
neppur qui finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o
sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec. ovvero
diminutivi de' frequentativi o viceversa. E queste, e le altre formazioni sono
di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo
che vedendo una tal formazione, e conoscendo il significato della voce originaria,
s'intende subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell'idea
espressa dalla parola materna. La pazza idea per tanto (ch'è l'ultimo
eccesso della pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati,
è lo stesso che seccare una delle principali e più proprie ed
innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua. V. [1242]in questo
proposito p.1116-17. Io non dubito (e l'esempio portato lo conferma) che nella
immensità e varietà della facoltà certa stabile e definita
ch'ella ha dei derivati, e nell'uso che ne sa fare, e ne ha fatto, la lingua
nostra non vinca la latina, e la stessa greca. Alla quale però si rassomiglia
assai anche per questa moltiplicità di forme nelle derivazioni che hanno
un medesimo o simile significato, a differenza della latina, non già
povera, ma più regolata e con più certezza circoscritta in
ciò, come nel resto. V. la p.1134. fine. (29. Giugno 1821.). Queste sono
le vere cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua
resterà sempre superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi
vocaboli ec. particolari, ch'elle vanno tuttogiorno acquistando. V. p.1292.
capoverso 1.
Alla p.302. principio. In prova di quello
che ho detto della utilità che risulta ai governi dai partiti loro
contrarii, osservate cosa già nota, che non è luogo dove la religion
cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque altra) sia più
rilasciata nell'esterno ancora, e massime nell'interno, come in quel paese
dov'ella è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che di
più è la sua sede. (La Spagna, come finora non civile, e fuori
del mondo colto, non fa eccezione). E proporzionatamente scendendo sì
per le stesse province d'Italia più vicine o più commercianti ec.
con religioni diverse, sì per le diverse nazioni, come la Francia ec.
sino alla Germania e all'Inghilterra ec. si trova che dove la religion
cattolica o le altre cristiane, sono più avvilite, più vicine e
frammiste a religioni diverse e contrarie, sette ec. quivi appunto il loro
culto esterno ed interno è più che mai vivo, sodo, vero,
efficace, e fermo.
(29. Giugno 1821.)
[1243]Osserviamo il grand'effetto
prodotto nelle nostre sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella
statura degli uomini. Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la
statura delle donne, e come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore
statura che un uomo mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario. ec.
Osserviamo finalmente che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti
di qualunque genere, non sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti,
nè proporzionati a quelli delle stature umane. E quindi inferiamo quanto
la continua osservazione ci renda sottili conoscitori, ed affini le nostre
sensazioni circa le forme esteriori de' nostri simili: e come per conseguenza
l'idea delle proporzioni determinate non si acquisti se non a forza di
osservazione, e di abitudine; e quanto sia relativa, giacchè la menoma
differenza reale, ci par grandissima in questi oggetti, e menoma, qual
è, in tutti gli altri. (30. Giugno 1821.).
Altre cagioni di fatto della ricchezza e
varietà della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho
detto altrove sono
1. Il non aver noi mai rinunziato alle
nostre [1244]ricchezze di quantunque antico possesso, a differenza della
lingua francese, a cui non gioverebbe neppure l'avere avuta altrettanta copia
di scrittori e di secoli letterati, quanti noi. Neppure alla varietà, ed
anche a quella ricchezza che serve precisamente all'esatta espressione delle
cose, gioverebbe alla lingua francese l'avere avuto in questi due secoli dopo
la sua rigenerazione, tanti e più scrittori quanti noi in cinque secoli.
Non le gioverebbe dico, quanto giova alla nostra lingua la moltitudine dei
secoli, e quindi la maggior varietà degli scrittori, delle opinioni, de'
gusti, degli stili, delle materie da loro trattate; varietà che non si
può trovare nello stesso grado in due secoli soli, benchè fossero
più copiosi di scrittori, che questi 5. insieme: e varietà che
serve infinitamente alla ricchezza di una lingua, ed alla esattezza e minutezza
del suo poter esprimere, giacch'è stata applicata ad esprimere tanto
più diverse cose, da tanto più diversi ingegni, e più
diversamente disposti; e in tanto più diversi modi. Neppure la lingua
tedesca ha rinunziato alle sue antiche ricchezze e possedimenti, come si vede
nel Verter, abbondante di studiati e begli ed espressivi arcaismi.
[1245]2. La gran vivacità,
immaginosità, fecondità, e varietà degl'ingegni degli
scrittori nostri, qualità proprie della nazione adattabile a ogni sorta
di assunti, e di caratteri, e d'imprese, e di fini.
3. Il moltissimo che la nostra lingua
scritta, (giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo
parlare, e questa intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua
parlata e popolare. Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi
necessaria fonte della ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli
scrittori, e questi, letterati? Ecco il come.
Ho detto, ed è vero, che la
convenzione, sola cosa che può render parola una parola, cioè
segno effettivo di un'idea, non può mai esser molto estesa, nè uniforme
e regolata, nè nazionale, se non per mezzo della letteratura. Ma un popolo,
massimamente vivacissimo come l'italiano, e in particolare il toscano, e di
più, civilizzato assai (qual fu il toscano e l'italiano fra tutti i
popoli Europei, e prima di tutti), e posto in gran corrispondenza cogli altri
popoli (come appunto la Toscana, sì per la fama della sua coltura,
sì per le circostanze sue politiche, la sua libertà, e
specialmente il suo commercio)[12] [1246]inventa
naturalmente, o adotta, infinite parole, infinite locuzioni, e infiniti generi
e forme sì di queste che di quelle, l'uso però e l'intelligenza
delle quali, se non sono ricevute dalla letteratura, la quale le diffonde per
la nazione, ne stabilisce la forma, ne precisa il significato, ne assicura la
durata, poco si estendono, poca precisione acquistano, restano facilmente
incerte, ondeggianti, e arbitrarie, e presto si perdono, sottentrandone delle
nuove. V. p.1344. Ora la letteratura italiana ha fatto appunto quello che ho
specificato. Ha ricevute con particolare, e fra tutte le letterature singolar
cura, amorevolezza e piacere, le voci, i modi, le forme del popolo segnatamente
toscano: e da questo è venuto
1. Che le parole modi ec. che sarebbero
state proprie di una sola provincia, e bene spesso di una sola città ed
anche meno, ricevute e accarezzate e stabilite nell'uso letterario, prima dagli
scrittori di quella provincia ec. poi da quelli che vi andavano per imparar la
lingua, o a qualunque effetto, poi dalla totalità degli scrittori
italiani, son divenute italiane, di toscane o altro che erano. Ed è
avvenuto questo alle toscane più che alle altre, perchè i primi
buoni scrittori italiani sono stati di quel paese, e ne hanno diffuso e
stabilito nella letteratura italiana [1247]le parole ec. ed anche
perchè quel dialetto forse ancora per se stesso, era più
grazioso, ed anche meno irregolare, meno goffo e meno storpiato e barbaro degli
altri, e meno difforme a se stesso, nelle strutture, nelle forme delle parole e
modi ec.
2. Non essendo mai cessato negli scrittori
toscani e italiani lo studio e l'imitazione competente (gli abusi ora non si contano)
della favella popolare, massime toscana (a differenza di quello ch'è
accaduto in tutte le altre letterature un poco formate); n'è seguito che
la lingua italiana presente, mediante la sua letteratura, sia ricca delle
parole, modi ec. venuti in uso in uno de' suoi popoli più vivaci, immaginosi
e inventivi, dal principio della lingua fino al di d'oggi: parole e modi ec.
che non avrebbero avuto se non cortissima durata, e pochissima estensione, se
non fossero state adottate e stabilite dalla letteratura, che le ha fatte e
perpetue, e nazionali. E così la letteratura e non il popolo, anche
riguardo alle voci popolari, viene ad essere la vera e principale sorgente
della ricchezza e perfezione di nostra lingua.
3. Gridino a piacer loro i mezzi filosofi.
Ricchezza che importi varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza,
brio, grazia, facilità, mollezza, naturalezza, non l'avrà mai,
non l'ebbe e non l'ha veruna lingua, che non abbia moltissimo, [1248]e
non da principio soltanto, ma continuamente approfittato ed attinto al
linguaggio popolare, non già scrivendo come il popolo parla, ma
riducendo ciò ch'ella prende dal popolo, alle forme alle leggi
universali della sua letteratura, e della lingua nazionale. La precisione
filosofica non ha punto che fare con veruna delle dette qualità: e la
ricchezza filosofica e logica, cioè di parole precise ec. e di modi
geometrici ec. serve bensì al filosofo, è una ricchezza, ed
è necessaria, ma non importa veruna delle dette qualità, anzi
serve loro di ostacolo, e bene spesso, com'è avvenuto al francese, ne
spoglia quasi affatto quella lingua, che già le possedeva. Tutte le
dette qualità sono principalissimamente proprie dell'idioma popolare; e
se la lingua italiana scritta, si distingue in ordine ad esse qualità,
fra tutte le altre moderne; se è ricca fra tutte le moderne, ed anche le
antiche di quella ricchezza che produce e contiene le dette qualità;
ciò proviene dall'aver la lingua italiana scritta (forse perchè
poco ancora applicata alla filosofia, e generalmente poco moderna), attinto
più, e più durevolmente che qualunque altra, al linguaggio
popolare. Le ragioni per cui questo linguaggio, abbia sempre, e massime in un
popolo vivacissimo, sensibilissimo, e suscettibilissimo, le dette
qualità, più [1249]che qualunque altro linguaggio, sono
abbastanza manifeste da se. Quella ricchezza proprissima della lingua italiana,
e maggiore in lei che nella stessa greca e latina, della quale ho parlato
p.1240-42. non da altro deriva che dall'idioma popolare, giudiziosamente e
discretamente applicato dagli scrittori alla letteratura.
4. Con questi vantaggi vennero anche dalla
stessa fonte molti abusi. Li condanniamo altamente, e conveniamo in questo
cogli scrittori che oggidì alzano contro di essi la voce in Italia,
senza convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua, non debba
per necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l'idioma
popolare. Dico della bellezza, ec. la quale conviene alla vera poesia, ed alla
bella letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che
conviene alle scienze ec. Negando questo, io non so com'essi ammirino tanto
p.e. il Caro, la massima parte delle cui verissime finissime e carissime bellezze,
sì nelle prose, come ne' versi dell'Eneide, ognun può vedere a
prima giunta che derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del
linguaggio toscano volgare, (o anche degli altri volgari d'Italia, v. Monti,
Proposta, vol.1. par.1. p. XXXV.) e da una giudiziosissima applicazione di
questo ai diversi generi della letteratura, dai più bassi fino ai
più alti, dalle lettere familiari, fino all'Epopea. Del resto, ben
fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano più che agli
altri volgari d'Italia, e ciò [1250]per le ragioni che tutti
sanno, e che abbiam detto p.1246. fine-47. principio. Ma sciocca, assurda,
pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere
se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e
quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda
in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun
modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e fuori,
lo scrittore italiano non possa formar voce nè frase, che il volgo
toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino,
anzi pure di Mercato vecchio, non sia italiano. Quando, come abbiamo veduto,
non la letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente subordinato alla
letteratura, e quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non
già questa di quello. E la letteratura forma e dispone della favella che
prende dal volgo, e non viceversa. E le aggiunge quel che le piace, e se ne
serve, sin dove può, e dove la favella del volgo non le può
servire, l'abbandona, o in parte o in tutto. In somma abbiamo lodato la lingua
italiana scritta perchè ha saputo giovarsi del linguaggio popolare,
più e meglio forse [1251]di qualunque altra lingua moderna, e
perchè non l'ha mai licenziato da' suoi servigi, come hanno fatto si
può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tempo, e lo farebbe
anche l'italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già
facendo); non già perch'ella si sia sottomessa alla favella del volgo,
molto meno del volgo di una sola provincia o città, che nè essa
l'ha fatto o potuto fare, nè facendolo sarebbe stata superiore, ma
inferiore a tutte le altre, nè noi l'avremmo lodata ma sommamente
biasimata. Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana scritta,
può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca,
anzi la stessa attica); e che è pazzo il privilegio esclusivo che si
arrogano i toscani sulla lingua comune; se non in quanto non si possano torre
da questi volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune.
Parimente soggiungo. Molti scrittori toscani
e italiani hanno preso dal volgare toscano più di quello che ne
potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole ec. da per tutto, che
convenisse all'indole e alle forme della lingua italiana regolata e scritta,
che potesse comunicarsi [1252]alla nazione, e di toscano e provinciale
divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e adattato a una lingua
scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma formata. Han fatto
malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori vernacoli, certo
però non s'hanno da tenere per italiani ma per toscani o fiorentini o
sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero
anche, se così posso dire, oppidani.
Così discorro di tutti simili abusi,
e negli scrittori e nel Vocabolario ec.
Nessuno è meno filosofo di chi
vorrebbe tutto il mondo filosofo, e filosofica tutta la vita umana, che
è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo. E pur questo
è il desiderio ec. de' filosofastri, anzi della maggior parte de' filosofi
presenti e passati.
Così i nostri mezzi filosofi
italiani, sapendo bene che il volgo non può essere il legislatore della
favella scritta, nè la lingua volgare può mai bastare ai
progressi dello spirito umano, nè alla fissazione, determinazione,
distinzione e trasmissione delle cognizioni; perciò pretendono che
qualunque lingua scritta, e qualunque stile debba appartarsi affatto dal
volgare, ed escludono affatto il volgare dallo scritto, non avendo bastante
filosofia per distinguere il bello dal vero, e quindi la letteratura e la
poesia dalle scienze; e vedere che prima fonte del bello è la natura, la
quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente,
[1253]e frequentemente, e da nessuno è così bene, e
felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo. La
precisione toglietela dai filosofi. La proprietà, e quindi l'energia, la
concisione ben diversa dalla precisione, e tutte le qualità che
derivano dalla proprietà, non d'altronde le potrete maggiormente
attingere che dalla favella popolare. E il Lipsio (Epistolica Institutio,
cap.11.) consigliando lo studio di Cicerone sopra tutti per la eleganza, la soavità,
la copia, la facilità del latino, consiglia i comici Plauto e Terenzio,
come unici o principali mezzi d'imparare la proprietà d'esso
sermone. Puoi vedere p.1481-84.
Da quanto abbiamo detto sulla differenza
essenziale della lingua poetica e letterata dalla scientifica, risulta che la
lingua francese, che nei suoi modi quasi geometrici si accosta alla
qualità di quelle voci che noi chiamiamo termini, e di più,
massimamente oggi, abbonda quasi più di termini, o pressochè
termini, che di parole, è di sua natura incapace di vera poesia, e di
veramente bella letteratura: mancando del linguaggio di queste, che non
può non essere sostanzialmente segregato da quello delle scienze.
Termini o quasi termini, chiamo io anche le voci di conversazione, e d'altri
tali generi, di cui la lingua francese, è sì ricca, e che
esprimono in qualsivoglia materia, un'idea nuda, o quasi nuda, secca, precisa,
e precisamente.
(30. Giugno 1821.)
[1254]La facilità di
contrarre abitudine, qualità ed effetto essenziale de' grandi ingegni,
porta seco per naturale conseguenza ed effetto la facilità di disfare le
abitudini già contratte, mediante nuove abitudini opposte che facilmente
si contraggono; e quindi la potenza sì della durevolezza, come della
brevità delle abitudini.
Osservate quegli abiti o discipline che
hanno bisogno di un esercizio materiale, p.e. di mano, per essere imparate. Chi
vi ha gli organi meglio disposti, o generalmente più facili ad
assuefarsi, riesce ad acquistare quell'abilità in più breve tempo
degli altri. Ecco tutto l'ingegno. Organi facili ad assuefarsi, cioè
pieghevoli, e adattabili ec. o generalmente e per ogni verso, e questa è
la universalità di un ingegno; o solamente ovvero principalmente in un
certo modo, e questa è la disposizione dell'ingegno a una tal cosa, o la
sua capacità di riuscire principalmente in quella.
Ma siccome altri sono gli organi interiori,
altri gli esteriori, così un uomo di grande ingegno, sarà bene
spesso inettissimo ad acquistare abilità meccaniche, cioè assuefazioni
materiali; e viceversa.
Io nel povero ingegno mio, non ho
riconosciuto altra differenza dagl'ingegni volgari, che una facilità [1255]di
assuefarlo a quello ch'io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre
abitudine forte e radicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir facilmente
poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l'abito di pensare
nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.; una maniera
di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l'abitudine in poco d'ora ec.
ec. V. p.1312. Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore esprime,
senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi piuttosto propri che metaforici,
sebben tali nell'intenzione, chiama fra noi, (e s'usa dire familiarmente anche
fra i colti, ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè organi non
pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad
imparare. L'imparare non è altro che assuefarsi.
Io credo che la memoria non sia altro che
un'abitudine contratta o da contrarsi da organi ec. Il bambino che non
può aver contratto abitudine, non ha memoria, come non ha quasi
intelletto, nè ragione ec. E notate. Non solo non ha memoria, perchè
poche volte ha potuto ricevere questa o quella impressione, ed assuefarsi a
richiamarla colla mente. Ma manca formalmente della facoltà della
memoria, giacchè nessuno si ricorda delle cose dell'infanzia, quantunque
le impressioni d'allora sieno più vive che mai, e quantunque nell'infanzia
possa essere ritornata al bambino quella tale impressione, più volte
ancora di quello che bisogna all'uomo fatto perchè un'impressione o concezione
qualunque gli resti nella memoria. Questa idea, merita di essere largamente
sviluppata e distinta.
(1 Luglio 1821).
[1256]Se intorno alla bellezza
umana, molte cose si trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini
convengono, questo non è giudizio, ma senso, inclinazione ec. ec. e non
ha che fare col discorso astratto e metafisico della bellezza. Le donne che
Omero chiama J. (Il. . (18.) v.122. 339. . (24.) v.215. Hymn. in Vener. 4. v.258.
quivi delle ninfe montane.) parranno a tutto il mondo più belle delle
contrarie. La cagione è manifesta, e non accade dirla. Certo non
è questa nè il tipo della bellezza, nè un'idea innata,
nè un giudizio, una ragione ec. I fanciulli staranno molto tempo ad
avvedersi che quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far
distinzione di beltà fra una donna che l'abbia, e un'altra che ne sia
priva. Nè solo i fanciulli, ma anche i giovani mal pratici, e poco
istruiti di certe cose, quantunque assuefatti a vedere; i giovani modestamente
educati ec.; del che interrogo la testimonianza di molti. Le donne tarderanno
assai più ad avvedersi di questa cosa, e non concepiranno per lungo
tempo nè giudizio nè senso di bellezza differente, fra due donne
ec. V. p.1315.fine.
E tuttavia questa qualità ch'io dico,
passa [1257]ben tosto nel bello ideale, e il poeta, (come appunto
Omero), o il pittore che tira dalla sua mente (come dice Raffaello ch'egli
faceva) l'idea di una bellezza da rappresentare, non mancherà certo di
concepire l'idea di una donna o donzella J. E pur
l'origine di questa idea sarà tutt'altra che il tipo della bellezza, ed
un giudizio o forma innata, universale e impressa dalla natura nella mente
dell'uomo. Così facile è l'ingannarsi nel giudicare delle idee
che l'uomo ha circa il bello preteso assoluto. V. p.1339. Similmente discorro
di altre simili qualità esteriori dell'uomo o della donna.
Così della vivacità degli
occhi, o di qualunque espressione dell'anima che apparisca nel volto, il che
però quando anche tutti convengano che sia bellezza, non tutti
però convengono nel preferirlo alla languidezza, e anche alla melensaggine
ec. Non so neppure se quelle donne inglesi che si paragonano ai silfi, e si
giudicano da molti sì belle, e si antepongono ec. appartengano al numero
di quelle significate da Omero ne' citati luoghi.
Ed osservo, cosa manifesta per l'esperienza,
che la donna (ancor prima di essere suscettibile d'invidia per cagione della
bellezza) tarda molto più degli uomini a poter formare un giudizio fino
e distinto circa le forme esteriori del suo sesso, e non giunge mai a quella
perfezione di giudizio e di gusto, a cui gli uomini arrivano. Così viceversa
discorrete degli uomini rispetto al sesso loro. Intendo già in parità
di circostanze, e non di paragonare, per esempio, una donna molto riflessiva
ec. ec. a un uomo torpido, e poco o niente suscettibile ec. Giacchè in
tal caso, ognuno intende che quella tal [1258]donna ben facilmente
sarà miglior giudice delle forme del suo stesso sesso che questo tal
uomo.
(1. Luglio 1821.)
Osservate i differentissimi, e spesso
contrarissimi giudizi delle diverse nazioni, o province, e de' diversi tempi, e
di una stessa nazione o provincia in diverso tempo, circa la bellezza e grazia
del portamento delle diverse classi di persone, delle maniere di stare di andare
di sedere di gestire di presentarsi ec. e circa le stesse creanze, eccetto
quelle che sono determinate e prescritte dalla ragione, e dal senso comune.
Intorno alle quali cose possiamo dire che non c'è maniera giudicata
bellissima e graziosissima e convenientissima in un luogo o in un tempo, che in
altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non sia per esser giudicata
bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec. Certo è che intorno alla
bellezza del portamento dell'uomo, nessuno può stabilire veruna regola,
veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto. Non parlo delle mode del
vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto ad esso,
varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure secondo i territorii, e
i momenti, senza veruna dipendenza neppur dalla natura costante e [1259]universale.
(1 Luglio 1821.).V. p.1318. fine.
Spesso nel vedere una fabbrica, una chiesa,
un oggetto d'arte qualunque, siamo colpiti a prima giunta da una mancanza, da
una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un disordine o
irregolarità di simmetria ec. ed appena che abbiamo saputo o capito la
ragione di questo disordine, e com'esso è fatto a bella posta, o non a
caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità
ec. non solo non giudichiamo, ma non sentiamo più in quell'oggetto
veruna sproporzione, come la concepivamo e sentivamo e giudicavamo a primo
tratto. Non è dunque relativa e mutabile l'idea delle proporzioni e
sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e formavamo in quel primo
istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per l'assuefazione, la
quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar di una
cosa sopra un'altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso sopra
un altro, e quindi di una convenienza sopra un'altra. Dal che deriva l'errore
universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del
misurare tutti i nostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del
credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi
del crederci più perfetti d'ogni altro [1260]genere di esseri,
quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma solamente
fra gl'individui ec.
(1 Luglio 1821.)
Si può però ammettere una
perfezione comparativa fra i diversi generi di cose, dentro il sistema di
questa tal natura, o modo universale di esistere: ma una perfezione comparativa
assai larga, e molto meno stretta e precisa di quello che l'uomo e il vivente
qualunque si figuri naturalmente; e non mai assoluta, perchè assoluta
non potrebb'essere se non in ordine al sistema intiero ed universale di tutte
le possibilità. Questo pensiero ha bisogno di esser ponderato, svolto,
dilatato, e rischiarato.
(1 Luglio 1821.)
A quello che altrove ho detto circa
l'impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si
può aggiungere quello che dice l'Alfieri nella sua Vita della matta attenzione
ch'egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de' Classici:
e quello che ci avviene p.e. nello studio delle lingue. Nel quale osservate che
da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in
quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili.
Laddove bene spesso, se si dà il caso, che [1261]voi abbiate
intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l'abito
di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche
pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l'interrompimento
dell'esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima.
Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere
qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di
passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto,
più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere di aver
già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari,
ma disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse
difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno
gran caso, nè c'impediscono e trattengono più che tanto,
nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a
leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l'intenzione di
studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua
cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale, [1262]si trovano
sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla
stessa perizia, ma con diversa intenzione. Così non si trova piacere,
nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua,
quando si legge con troppo studio ec.
(1-2. Luglio 1821.)
A quello che ho detto altrove della
impossibilità di formarsi idea veruna al di là della materia, e
del nome materiale imposto allo stesso spirito e all'anima, aggiungete che noi
non possiamo concepire verun affetto dell'animo nostro se non sotto forme o
simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via di traslati
presi dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo il significato
proprio e primitivo per ritenere il metaforico), come infiammare, confortare,
muovere, toccare, inasprire, addolcire, intenerire, addolorare, innalzar l'animo
ec. ec. Nè solo gli affetti ma gli accidenti tutti o siano prodotti da
cose interiori, o dall'azione immediata degli oggetti esteriori, come costringere,
ed altri de' sopraddetti ec.
(2. Luglio 1821.). V. p.1388. princip.
Passano anni interi senza che noi proviamo
un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non
passa giorno che non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in
lui l'ignoranza. Vero è che così viceversa accade del dolore.
(2. Luglio 1821.)
[1263]Alla p.1207. marg. Queste
differenze s'incontrano a ogni passo dentro una medesima nazione, secondo i
dialetti ec. Ed osserviamo ancora come l'assuefazione e l'uso ci renda
naturale, bella ec. una parola che se è nuova, o da noi non mai intesa
ci parrà bruttissima deforme, sconveniente in se stessa e riguardo alla
lingua, mostruosa, durissima, asprissima e barbara. Per es. se io dicessi precisazione
moverei le risa: perchè? non già per la natura della parola, ma
perchè non siamo assuefatti ad udirla. E così le parole barbare
divengono buone coll'uso; e così le lingue si cambiano, e i presenti
italiani parlano in maniera che avrebbe stomacato i nostri antenati; e
così l'uso è riconosciuto per sovrano signore delle favelle ec.
(2. Luglio 1821.)
Alla p.1134. Lo studio dell'etimologie fatto
coi lumi profondi dell'archeologia, per l'una parte, e della filosofia per l'altra,
porta a credere che tutte o quasi tutte le antiche lingue del mondo, (e per
mezzo loro le moderne) sieno derivate antichissimamente e nella caligine, anzi
nel buio de' tempi immediatamente, o mediatamente da una sola, o da pochissime
lingue assolutamente primitive, madri di tante e sì diverse figlie.
Questa primissima lingua, a quello che pare, quando si diffuse per le diverse
parti del globo, mediante le trasmigrazioni degli uomini, era ancora
rozzissima, scarsissima, priva d'ogni sorta d'inflessioni, inesattissima, costretta
a significar cento cose con [1264]un segno solo, priva di regole, e d'ogni
barlume di gramatica ec. e verisimilissimamente non applicata ancora in nessun
modo alla scrittura. (Se mai fosse già stata in uso la così detta
scrittura geroglifica, o le antecedenti, queste non rappresentando la parola ma
la cosa, non hanno a far colla lingua, e sono un altro ordine di segni,
anteriore forse alla stessa favella; certo, secondo me, anteriore a qualunque
favella alquanto formata e maturata.) Nè dee far maraviglia che la
grand'opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo che vi pensa, e
molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di ciascuna
parola, chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i suoni umani
a un ristrettissimo numero di segni detto alfabeto, abbia fatto lentissimi
progressi, e non prima di lunghissima serie di secoli, abbia potuto giungere a
una certa maturità; non ostante che l'uomo fosse già da gran
tempo ridotto allo stato sociale. Quanto all'alfabeto o scrittura par certo
ch'egli fosse ben posteriore alla dispersione del genere umano, sapendosi che
molte nazioni già formate presero il loro alfabeto da altre straniere,
come i greci dai Fenici, i latini ec. Dunque non era noto prima ch'elle si
disperdessero, e dividessero, giacch'elle da principio non ebbero alcun
alfabeto. E i Fenici l'ebbero pel loro gran commercio ec. Dunque esistendo il
commercio, le nazioni erano, e da gran tempo, divise.
Diffondendosi dunque pel globo il genere
umano, e portando con se per ogni parte quelle scarsissime e debolissime
convenzioni di suono significante, che formavano allora la lingua; si venne
stabilendo nelle diverse parti, e la società cominciò lentissimamente
a crescere e camminare verso la perfezione. Primo e necessario mezzo per l'una
parte, e per l'altra effetto di questa, è la sufficienza e l'organizzazione
della favella. Venne dunque lentamente [1265]a paro della società,
crescendo e formandosi la favella, sempre sul fondamento o radice di quelle
prime convenzioni, cioè di quelle prime parole che la componevano.
Queste erano dappertutto uniformi, ma le favelle formate non poterono essere uniformi,
nè conservarsi l'unità della lingua fra gli uomini. Primieramente
dipendendo la formazione della favella in massima parte dall'arbitrio, o dal
caso, e da convenzione o arbitraria o accidentale, gli arbitri e gli accidenti,
non poterono essergli stessi nelle diversissime società stabilitesi
nelle diversissime parti del globo, quando anche esse avessero tutte conservato
gli stessi costumi, le stesse opinioni, le stesse qualità che aveva la
primitiva e ristrettissima società da cui derivavano; e quando anche
tutte le parti del globo avessero lo stesso clima e influissero per ogni conto
sopra i loro abitatori in un modo affatto uniforme.
Secondariamente il genere umano diviso, e
diffuso pel mondo, si diversificò nelle sue parti infinitamente, non
solo quanto a tutte le altre appartenenze della vita umana, e de' caratteri ec.
ma anche quanto alle pronunzie, alle qualità de' suoni articolati, e
degli alfabeti parlati, diversissimi secondo i climi ec. ec. come vediamo. Queste
infinite [1266]differenze sopravvenute al genere umano, già diviso
in nazioni, e distribuito nelle diverse parti della terra, fecero sì che
la formazione delle lingue presso le nazioni primitive, differisse sommamente,
quantunque tutte derivassero da una sola e stessa radice, e conservassero nel
loro seno i pochi e rozzi elementi della loro prima madre, diversamente alterati
collo scambio delle lettere, secondo le inclinazioni degli organi di ciascun
popolo, colle inflessioni, colle significazioni massimamente, colle
composizioni, e derivazioni, e metafore infinite e diversissime di cui l'uomo naturalmente
si serve a significare le cose nuove o non ancora denominate ec. ec.
Nel terzo luogo, la lingua primitiva,
dovette immancabilmente servirsi delle stesse parole per significare
diversissime cose, scarseggiando di radici, e mancando o scarseggiando
d'inflessioni, di derivati, di composti ec. La lingua ebraica, l'una delle
lingue scritte più rozze, e lingua antichissima, serve di prova di fatto
a questo ch'io dico, e che è chiaro abbastanza per la natura delle cose.
Ora i diversi popoli nella formazione progressiva delle lingue, trovando qual
per un verso, qual per un altro, il modo di significar le cose più
distintamente, conservarono alle loro prime parole radicali dove uno [1267]dove
un altro de' sensi che ebbero da principio, o fossero propri, o traslati.
Così che non è da far maraviglia se bene spesso in diversissime
lingue si trovano tali e tali radici uniformi o somiglianti nel suono, ma
disparatissime nel significato. Nè la disparità del significato
è ragion sufficiente per decidere che non hanno fra loro alcuna
affinità. Ci vuole il senno e la sottigliezza del filosofo, e la vasta
erudizione e perizia del filologo, dell'archeologo, del poliglotto, per
esaminare se e come quella tal radice potesse da principio riunire quei due o
più significati diversi. Chi non vede p.e. che wolf, voce che in
inglese e in tedesco significa lupo, è la stessa che volpes
o vulpes, che significa un altro quadrupede pur selvatico, e dannoso
agli uomini? Frattanto la detta osservazione dimostra la immensa differenza che
appoco appoco dovette nascere fra le varie lingue, e l'infinita oscurazione che
ne dovette seguire del linguaggio primitivo e comune una volta, ma già
non più intelligibile nè riconoscibile. (V. la p.2007. principio.)
Nel quarto luogo che dirò della scrittura?
1. O della sua mancanza (giacchè
è più che verisimile che quando gli uomini e le lingue si
divisero e sparsero, non si avesse ancora nessuna notizia della scrittura alfabetica,
nè di segno alcuno de' suoni, trattandosi che la lingua stessa allora
parlata, era così bambina come abbiamo probabilmente conghietturato
dagli effetti); mancanza che toglieva ogni [1268]stabilità, ogni
legge, ogni forma, ogni certezza, ogni esattezza, alle parole, ai modi, alle
significazioni; e lasciava la favella fluttuante sulle bocche del popolo, e ad
arbitrio del popolo, senza nè freno, nè guida, nè norma.
Dal che quante variazioni derivino, lo può vedere chiunque osservi i
dialetti ne' quali sempre o quasi sempre si divide una stessa lingua parlata,
quantunque già formata e applicata alla scrittura; e insomma le infinite
diversità che a seconda de' tempi e de' luoghi patisce quella lingua che
il popolo parla, ancorchè ella stessa sia pure scritta ec. Che se da
questo che noi vediamo, rimonteremo a quello che doveva essere in quei tempi,
dove l'ignoranza dell'uomo era somma, somma l'incertezza e l'ondeggiamento di
tutta la vita, ec. ec. potremo facilmente vedere, che cosa dovessero divenire,
e quante forme prendere o la lingua primitiva o le sottoprimitive, mancanti
dell'appoggio, e dell'asilo non pur della letteratura, ma della stessa scrittura
alfabetica.
2. Che dovrò dire dell'invenzione
della scrittura? Pensate voi stesso, nella prima imperfezione di quest'arte
prodigiosa e difficilissima; nella differenza degli alfabeti, o nella
inadattabilità dell'alfabeto scritto di un popolo, all'alfabeto parlato
di un altro; [1269]nella imperizia de' lettori, e degli scrittori, e de'
primi copisti ec. ec. pensate voi quali incalcolabili e inclassificabili
alterazioni dovessero ricevere le prime lingue, sì come scritte,
sì come parlate, cominciando a influir la scrittura sulla favella.
Notate cosa notabilissima. Tutte le lingue
antiche non ci possono essere pervenute se non per mezzo della scrittura,
giacchè quando anche non sieno interamente morte, il corso de' secoli
porta sì enormi variazioni alle lingue, che dal modo in cui ora si parli
una lingua antichissima, chi può sicuramente argomentare delle sue
antiche proprietà, ancor dopo formata? Ora egli è certo che le
lingue scritte differirono sommamente dalle parlate, stante la
difficoltà che nel principio si dovè provare per rappresentare
esattamente ciascun suono ec. Difficoltà che produsse infallibilmente
eccessive differenze fra le antiche parole scritte e le pronunziate. Differenze
che appoco appoco si stabilirono; e malgrado le cure che si posero per una
parte ad uniformare più esattamente i segni scritti ai suoni inventando
nuovi segni ec. ec.; malgrado l'influenza che acquistarono le scritture sulle
modificazioni del parlare ec. certo è che tali differenze dove
più dove meno dovettero perpetuarsi e sempre conservarsi.
[1270]Quindi considerate i pericoli
che si corrono nell'argomentare le proprietà di un'antica parola, e la
sua prima forma, dal modo in cui solamente ella ci può esser nota, dal
modo cioè nel quale è scritta. Come chi argomentasse della lingua
inglese o francese ec. dal modo in cui sono scritte. Non c'è regola per
sapere precisamente qual fosse il valore e la pronunzia di un tal carattere in
una lingua antica, e massime antichissima, e massime antichissimamente ec. ec.
Quindi è ben verisimile che moltissime parole d'antiche lingue, che
vedendole scritte ci paiono diversissime e disparate, ci dovessero parere del
tutto affini, se sapessimo qual vera e primitiva pronunzia si volle antichissimamente
rappresentare con quei tali segni che vediamo. V. p.1283.
Aggiungete un'osservazione che cresce forza
all'argomento. L'invenzione dell'alfabeto è sì maravigliosa e
difficile, che è ben verisimile, che quel primo alfabeto che fu
inventato passasse dalla nazione e dalla lingua che l'inventò, a tutte o
quasi tutte le altre; e quindi o tutti o quasi tutti gli alfabeti derivino da
un solo alfabeto primitivo. Quello ch'è certo e costante si è che
l'alfabeto Fenicio, il Samaritano, l'Ebraico, il Greco, l'arcadico, il pelasgo,
l'Etrusco, il latino, il Copto, senza [1271]parlare di non pochi altri
(come il Mesogotico, il Gotico, e il tedesco, l'Anglosassone, il russo)
dimostrano evidentemente l'unità della loro comune origine. Or quali
lingue più disparate che p.e. l'ebraica e la latina? (Pur ebbero, come vediamo,
lo stesso alfabeto in principio.) Tanto che Sir W. Jones, il quale fa derivare
da una stessa origine le lingue, e le religioni popolari della prima razza de'
Persiani e degli Indiani, dei Romani, dei Greci, dei Goti, degli antichi Egizi
o Etiopi, tiene per fermo che gli EBREI, gli Arabi, gli Assirii,
ossia la seconda razza Persiana, i popoli che adoperavano il Siriaco, ed una
numerosa tribù d'Abissinii, parlassero tutti un altro dialetto primitivo,
diverso affatto dall'idioma pocanzi menzionato, cioè di quegli altri
popoli. Così che, eccetto quella prima nazione, dove fu ritrovato
l'alfabeto, in qualunque modo ciò fosse, tutte le altre, o tutte quelle
che immediatamente o mediatamente lo ricevettero da lei, scrissero con alfabeto
forestiero. Ed essendo infinita in tante nazioni la varietà de' suoni
ec. ec. vedete che immense alterazioni dovè ricevere ciascuna lingua
nell'essere applicata a un solo alfabeto, per lei più o meno, e bene
spesso estremamente forestiero. V. p.2012. 2619.
A tutte le sopraddette cose aggiungete le
alterazioni molto maggiori che ricevettero le lingue sottoprimitive nel suddividersi,
e risuddividersi secondo le vicende infinite delle nazioni, e del genere umano;
aggiungete le alterazioni che ricevettero e quelle e queste lingue appoco
appoco, non solo col corso de' secoli e indipendentemente ancora da ogni altra
circostanza, ma coll'esser finalmente ridotte più o meno a lingue
gramaticali, col raddolcimento delle parole prodotto e dalla civiltà
crescente, e dai letterati, secondo i diversi geni degli orecchi nazionali ec.;
coll'essere applicate non più solamente alla scrittura, ma alla
letteratura, della cui estrema influenza sul modificare e formare le lingue,
che accade ora ripetere quello che s'è tante volte ripetuto?
Bensì osservo che le lingue antiche non ci sono pervenute se non per mezzo,
non già della semplice scrittura, ma della letteratura. Delle
alterazioni che le parole soffrono nel significato v. p.1505. fine. e 1501.-2.
[1272]E dopo tutto ciò non
vi farà maraviglia se tanto deve stentarsi, e se bene spesso è
impossibile a riconoscere nelle diversissime e quasi innumerevoli lingue del
mondo l'unità dell'origine; e se la lingua o le lingue assolutamente
primitive, o piuttosto quella o quelle prime poverissime e rozzissime
nomenclature, che furono la base delle lingue tutte, e che formano ancora le
radici delle loro parole; annegate nelle derivazioni, inflessioni, composizioni
diversissime secondo i casuali accidenti delle formazioni delle lingue, i
caratteri, i geni, i climi, le letterature che formarono esse lingue, le opinioni,
i costumi, le circostanze diversissime della vita che v'influirono, le
cognizioni, le disposizioni della terra, del cielo ec. ec. e modificate e
svisate secondo le differenze degli organi nelle diverse nazioni, secondo
l'ignoranza de' parlatori primitivi, la corruzione che inevitabilmente soffrono
le parole anche nelle lingue le più stabilite e perfette; non vi maraviglierete,
dico, se tali primitive radici benchè comuni a tutte le lingue, si
nascondono per la più parte agli occhi degli osservatori più
fini, fanno disperare l'etimologista, e considerare come un frivolo sogno
l'investigazione delle origini delle lingue, e lo studio delle etimologie, e
dell'analogia delle parole di tutte le favelle (intrapresa però a
svolgere da parecchi, ed ultimamente, secondo che odo, da non so qual
francese); insomma la primitiva unità di origine e analogia di tutte le
lingue. (Riferite tutte queste osservazioni a quello che altrove ho detto della
necessaria varietà delle lingue, e vicendevolmente riferite quei
pensieri a questi.)
[1273]Malgrado tutto ciò,
ella è cosa certissima che tali investigazioni (per quanto elle possono
avvicinarsi al vero) sono delle più utili che mai si possano concepire
sì alla storia come alla filosofia. Le origini delle nazioni (oltre ai
progressi dello spirito umano, e la storia de' popoli, cose tutte fedelmente
rappresentate nelle lingue), le remotissime epoche loro, le loro provenienze,
la diffusione del genere umano, e la sua distribuzione pel mondo, in somma la
storia de' primi ed oscurissimi incunaboli della società, e de' suoi
primi passi, non d'altronde si può maggiormente attingere che dalle
etimologie, le quali rimontando di lingua in lingua fino alle prime origini di
una parola, danno le maggiori idee che noi possiamo avere circa le prime
relazioni, i primi pensieri, cognizioni ec. degli uomini.
Certo è parimente che in lingue
disparatissime parlate antichissimamente da popoli lontanissimi fra loro, si
trovano bene spesso tali conformità nelle forme esteriori e nel
significato di certe voci, e queste voci sono in gran parte così necessarie
alla vita, esprimono cose così necessarie, e nel tempo stesso
così facili e prime e naturali ad esprimersi, che queste
conformità, non volendo attribuirle al caso, ch'è inverisimile,
non potendo attribuirle alla natura, giacchè si tratta di voci d'espressione
e di forma quasi al tutto arbitraria; [1274]e neppure potendo attribuirle
a relazioni posteriori di detti popoli fra loro, sì perchè
ciò s'oppone molte volte a tutte le storie conosciute, sì
perchè si tratta di parole necessarie e prime in tutte le lingue; resta
che si attribuisca ad una comune origine di tali lingue e di tali popoli,
ancorchè ora e sin da remotissimo tempo disparatissimi, e lontanissimi,
e ignoti gli uni agli altri.
A scoprir dunque tal comune origine delle
lingue e quindi delle nazioni (o sia una sola origine, o sieno alcune pochissime);
a ritrovare quanta maggior parte si possa della prima lingua degli uomini; a
soddisfare al filosofico desiderio di quel metafisico tedesco (v. p.1134.) ec.
ec. non v'è altro mezzo che lo studio etimologico. E questo non ha altra
via, se non che giovandosi de' lumi comparativi d'una estesa poliglottia, de'
lumi profondamente archeologici e filologici, fisiologici e psicologici ec.
prendere a considerar le parole delle lingue meglio conosciute fra le
più antiche (come più vicine alla comune origine delle lingue); e
denudandole d'ogni inflessione, composizione, derivazione gramaticale ec. ec. cavarne
la radice più semplice che si possa; e quindi coi detti lumi comparativi
ec. ridurre questa radice dalle diversissime alterazioni di forma, e di suoni
che può avere ricevute, (anche prima di divenire radice d'altra parola,
e nel suo semplice stato, ovvero dopo) alla sua forma primitiva. Quando questa
non si possa trovare e stabilire precisamente, l'Etimologo avrà fatto
abbastanza, e l'utilità sarà pur molta, se avrà dimostrato
che una tal parola dimostrata radicale, quantunque diversa nelle diverse
lingue, è però una sola in origine, e che fra quelle diverse
forme, significati ec. di essa radice, si trova la forma, il significato ec.
primitivo, quantunque non si possa definitamente stabilire se questo sia il
tale o il tale fra i detti sensi e forme che ha nelle differenti favelle. Come [1275]questo
si possa fare nella lingua latina che è una delle antichissime, delle
meglio conosciute, e delle meglio accomodate a tali ricerche, abbiamo cercato
di indicarlo colla scorta della filologia e dell'archeologia, mostrando come
dalle parole latine si possa trarre la radice monosillaba, e colla scorta della
filosofia la quale insegna che le prime lingue dovettero essere per la
più parte monosillabe, e composte quasi di soli nomi; mostrando molti
accidenti delle parole latine, considerati finora come qualità essenziali,
il che nuoce, come è chiaro, infinitamente alla invenzione delle estreme
radici, ed arresta il corso delle ricerche etimologiche lungi dalla sua meta, e
in un punto dove elle non debbono arrestarsi, come se già fossero giunte
alle ultime origini, ed agli ultimi elementi delle parole. Abbiamo insomma
cercato di ridurre l'analisi e la decomposizione delle parole latine, ad elementi
più semplici: cosa giovevolissima alla cognizione delle loro origini e
radici; come infiniti progressi ha fatto la chimica quando ha scoperto che quei
quattro che si credevano primi elementi, erano composti, ed è giunta a
trovar sostanze, se non del tutto elementari ed ultime esse stesse, certo molto
più semplici delle prima conosciute.
[1276]Voglio portare in conferma di
ciò un altro esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto
giovino i lumi archeologici alla ricerca delle antichissime radici. Silva è
radice in latino, cioè non nasce da verun'altra parola latina conosciuta.
Osservate però quanto ella sia mutata dalla sua vecchia e forse prima
forma. è
lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli etimologi. Or come
la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto
alla s vedi quello che ho notato altrove, vedi Iul. Pontedera Antiquitt.
Latinn. Graecarumq. Enarrationes atque
Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis Seminar. 1740. p.18. (le due
prime epistole meritano di esser lette in questi propositi archeologici della
lingua latina) ed ella è cosa già nota agli eruditi. Nelle stesse
antiche iscrizioni greche si trova sovente il sigma innanzi alle parole
comincianti per vocale, in luogo dell'aspirazione. Anzi questa scrittura
s'è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come nelle
latine): p.e.
pronunziavasi da principio o coll'aspirazione
aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero Ⅎ e i
latini ficus. V. l'Encyclop. in S. Quanto al v ecco com'io la discorro.
L'antico H greco derivato dall'Heth Fenicio,
Samaritano, ed Ebraico, col quale ha comune anche il nome (giacchè il greco
deriva dal thau degli Ebrei), oltre alla figura, ec., non fu da
principio altro segno che di un'aspirazione, (v. p.1136. marg.) come lo fu
sempre nel latino, e come lo era nell'alfabeto da cui venne il greco. (V.
Cellar. Orthograph. Patav. ap. Comin. 1739.
p.40. fine. e l'Encyclop. méthodique. Grammaire. art. H. specialmente p.215. e se
vuoi, il Forcellini in H.) Abbiamo veduto che l'antico v latino non era altro
che [1277]il digamma eolico, e questo non altro che un carattere che gli
Eoli ponevano in luogo dell'aspirazione, anzi un segno di aspirazione esso
stesso, e in somma fratello carnale dell'antico H greco. Antichissimamente
pertanto la parola , pronunziavasi
hulh con due aspirazioni l'una in capo, e l'altra da piè. (voglio
dire insomma che l' di non era da principio lettera
mobile, e puro carattere di desinenza, ma radicale, il che si deduce dal v
che i latini hanno per lettera radicale in questa parola, cioè in silva.)
Ovvero pronunziavasi hilh giacchè non si può bene
accertare qual fosse l'antichissima pronunzia dell' greco; se u simile al francese, come
lo pronunziavano i greci ai buoni tempi; ovvero i, come lo pronunziano i
greci moderni, come si pronunzia in moltissime voci latine o figlie o sorelle
di voci greche, e come pronunziano i tedeschi il loro u. Certo è
che gli antichi latini pronunziarono e scrissero le parole che in greco si
scrivevano per Y, ora per I, ora per u, e quindi corrottamente talvolta
anche per o, come da sumnus somnus ec. V. Pontedera loc. cit. nella
pagina precedente. Per y non mai, carattere greco, il quale graecorum caussa
nominum adscivimus dice Prisciano (lib.1 p.543. ap. Putsch.), ed è
carattere non antico, come dice Cicerone, e pronunziavasi alla greca, come una u
francese, secondo che apparisce da Marziano Capella. (V. Forcellini,
l'Encyclop. e Cellar. Orthograph. p.6 fine-7 principio). Quindi nel nostro
caso, gli antichi marmi e manoscritti, e gli eruditi, rigettano la scrittura di
sylva sylvestris ec. per silva; scrittura [1278]corrotta e
più moderna, introdottasi presso gli scrittori latino-barbari, come si
può vedere nel Ducange. Il che per altro serve anch'esso a mostrare la
derivazione o cognazione del latino silva col greco , non essendoci altra ragione
perchè l'uso di tempi ignorantissimi, e che non pensavano o sapevano
nulla d'etimologie nè di greco, dovesse introdurre questa lettera greca y
in una parola che gli antichi latini scrivevano per i; uso conservatosi
fino a' nostri tempi presso molti che scrivono ancora sylva e
così ne' derivati. E forse a quel tempo in cui, secondo che dice
Cicerone, si cominciò a scrivere e pronunziare (cioè per u gallico)
Pyrrhus e Pryhges ec. in luogo di Purrus e Phruges
che gli antichi scrivevano (v. Forcellini in Y); si cominciò anche a
scrivere e pronunziare sylva: o certo in qualunque tempo questo
accadesse, ebbe origine e causa dal vizio di volere in tutto conformare la
scrittura e la pronunzia agli stranieri, nelle parole venute da loro, vizio che
Cicerone riprende nello stesso luogo. (osservazione molto applicabile ai
francesi.) E ciò mostra che dunque silva si considerò per
tutt'una parola con ,
quantunque la scrittura sylva sia viziosa. Presso gli stessi greci de'
buoni tempi le parole che hanno la , quando subiscono
le solite affezioni delle parole greche, cambiano spesso l' in , come da si fa , e ne' composti (come , , , ec.)
sempre .
Tornando al proposito, ed oggi, e da lungo
tempo, questa medesima lettera greca y, non per altro introdotta
nell'alfabeto latino che per rappresentare l' greco, ed
esprimere il suono della u francese, [1279]non si pronunzia in
esso alfabeto nè in essa lingua, se non come i semplice.
Così pure nello spagnuolo e nel francese, quando non è
trasformato in i anche nella scrittura, come sempre lo è nella
nostra lingua. E notate che in dette due lingue l'y si pronunzia i
anche in parole e nomi propri ec. non derivati dal latino, o che in latino non
avevano detta lettera, o anche avevano l'i in sua vece. E l'y e
l'i si scambiano a ogni tratto nella scrittura spagnuola e francese,
massime in quelle non affatto moderne, giacchè oggi l'ortografia
è più determinata. (I francesi scrivono Sylvain
pronunziando Silvain. V. anche il Diz. Spagnuolo in Syl.) Notate
ancora che i francesi conservano l'u gallico, e pure pronunziano l'y
per i. Dal che apparisce che questa lettera grecolatina, perdè
affatto e universalmente il suo primo suono, e cangiossi in i, come l' presso i greci. Ed è naturale
l'affinità scambievole dell'i e dell'u, le più
esili delle nostre vocali. V. p.2152. fine. Infatti il suono della u
francese o Lombarda (il Forcellini la chiama Bergamasca) partecipa della i
come della u. E quegli stessi greci che pronunziavano il loro come i francesi la u, lo
consideravano come una i piuttosto che come una u; voglio dire
come una specie o inflessione ec. della i. Giacchè nel loro
alfabeto lo chiamavano (come noi
diciamo pure alla greca ipsilon) cioè tenue. Ora questo aggiunto di tenue
non gli è dato ad altro oggetto che di distinzione, come l' si chiama parimente per distinguerlo
dall'. Ma i
greci non hanno nel loro alfabeto altra u da cui bisognasse distinguere
questo ;
bensì hanno un'altra i cioè l'.
Da hulh dunque pronunziato alla
francese, e doppiamente aspirato, ovvero da hilh, fecesi hulf o hilf
all'eolica, il che in latino (e in molte altre lingue per la somiglianza
delle labiali f e v) pronunziossi, come abbiamo veduto, o da principio
[1280]o col tempo hilv. Anzi il digamma eolico non doveva esser
altro che una cosa di mezzo tra f e v, ed un'aspirazione che
tenea della consonante, e tale divenne pienamente nel seguito. (Aspirazioni
considerate per consonanti formali, ne ha pure lo spagnuolo ec.) Da hilv
i latini, secondo il loro costume, fecero silv. E finalmente come presso
i greci l'aspirazione H perdendosi affatto, passò ad esser lettera, e
desinenza di e
cessò di esser carattere radicale; così presso i latini la parola
silv, raddolcendosi e formandosi la lingua, venne a ricevere la sua
vocale terminativa a.
Ecco quanti cangiamenti dovè subire
la radice hulh o hilh (seppur questa fu la primissima parola)
secondo le differenze de' popoli e de' tempi, prima ancora di passare dal suo
semplice stato di radice a parola derivativa o composta, anzi prima pur di
subire alcuna inflessione, giacchè e silva
essendo nominativi non hanno inflessione veruna. Ed aggiungete ancora, prima di
divenir selva in italiano, giacchè la radice di questa parola
italiana è parimente quell'hulh, e così tutte le
più moderne parole che giornalmente oggi si parlano, hanno la loro
antichissima, e per lo più irreconoscibilissima radice nelle lingue
primitive.
Queste non sono etimologie stiracchiate,
nè sogni, benchè etimologie lontanissime. E non volendoci prestar
fede, perciò solo che sono lontane, e che a prima vista non si scorge
somiglianza fra hulh e silva, non si creda di mostrarsi spirito
forte, ma ignorante d'archeologia, di filologia, e della storia naturale degli
organi umani, de' climi ec. come pur della storia certa e chiara di tante altre
parole e lingue, similissima a questa; [1281]come di quelle stesse
parole italiane che si sa di certo esser derivate dall'Arabo, dal greco, e dallo
stesso latino, e che pur tanto hanno perduto della loro prima fisonomia, (in
tanto minor tempo e varietà di casi) ed appena si possono ridurre alla
loro origine. Giacchè ci sono due generi d'incredulità, l'uno che
viene dalla scienza, e l'altro (ben più comune) dall'ignoranza, e dal
non saper vedere come possa essere quello che è, conoscer pochi
possibili ec. poche verità e quindi poche verisimiglianze ec. non saper
quanto si stenda la possibilità. (V. p.1391. fine.)
Se dunque non m'inganno, abbiamo trovato una
radice primitiva, o prossima alla forma primitiva, dico hulh o hilh.
Sarebbe tanto curioso quanto utile il ricercare questa parola, se esistesse, o
altra che le somigliasse, nelle lingue straniere, principalmente orientali, da
cui pare che derivassero antichissimamente le lingue occidentali, come pure le
nazioni, le opinioni, i costumi, e che in somma l'oriente fosse abitato prima
dell'occidente. Gli studi e le scoperte che i moderni negli ultimi tempi hanno
fatte, e vanno facendo anche oggi nelle antichità orientali, pare che
sempre più confermino questa proposizione (già conforme al
Cristianesimo, e alle antiche tradizioni pagane) della maggiore
antichità dell'oriente rispetto all'occidente, o almeno della
società e civiltà orientale, generalmente parlando. Converrebbe
consultare specialmente le lingue indiane.
Le lingue selvagge sarebbero anche adattate
a queste ricerche, essendo verisimilmente le meno lontane dallo stato primitivo,
come lo sono quelli che le parlano.
Ma prima d'istituire tali ricerche bisogna
fare un'ultima osservazione in questo proposito. Finora non abbiamo considerato
che le variazioni nella forma esteriore di detta radice. Bisogna osservare
anche quelle del significato. non
significa solamente [1282]selva, ma anche materia, materiale
sostantivo ec. v. i Lessici. Anzi questo si pone per significato proprio d'essa
parola. Quindi ylgnh, hiuli presso i
Rabbini significa materia o materia prima, termine filosofico. V.
Johannis Buxtorfii Lex;. Chaldaicum Talmudicum et Rabbinicum alla radice
(fittizia) ]yh, Basileae 1640.
col.605 fine-606. Dove è notabile il modo nel quale è imitato il
suono dell' greco, o u
francese; cioè con due i ed una u; dal che 1. si conferma
quello che ho detto p.1279. che i greci consideravano detta lettera più
come una i che come una u, 2. apparisce che l'antica pronunzia
dell' greco durava ancor dopo
trasformata quella dell'e lunga , in i;
giacchè l' di è espresso in questa
parola rabbinica per la i lunga. Del resto la radice ]yh è mal formata dal Lessicografo,
giacchè manca del lamed, lettera radicalissima nella voce
surriferita. Si vede pure che conservavasi ancora l'aspirazione nella voce , giacchè la He
non ad altro oggetto che di rappresentar l'aspirazione, fu posta dai rabbini in
detta voce. significa
anche particolarmente legna o legname, o legno in genere.
Così pure silva (v. Forcellini), altra prova dell'affinità
di questo vocabolo col vocabolo greco. Non saprei dire, nè monta per ora
assai, il ricercare quale dei detti significati fosse il primitivo, se quello
di selva, o di legna, o di materia o materiale ec.
Anche negli Scrittori latino-barbari si trova Silva per Lignum, Materia.
V. il Glossar. del Ducange. Vedilo anche in Hyle, e quivi pure il Forc.
Bensì è curioso l'osservare
che presso gli spagnuoli madera, lo stesso che materia, che i
nostri antichi italiani dissero anche matera, non significa oggi altro
che legno generalmente o legname. E presso i francesi è
noto che bois significa tanto bosco o selva quanto legno
in genere. V. i Diz. francesi, e la Crusca in selva, bosco, foresta, materia
ec. se ha nulla in proposito. Anche fra noi poeticamente si direbbe molto bene selva
ec. per legna ec. come presso a' poeti latini.
Si potrebbe dunque e dovrebbe ricercare
nelle lingue orientali ec. la radice hulh o hilh, non solo in [1283]senso
di selva, ma anche di materia, di legno, o legname
ec. e in qualsivoglia di questi si ritrovasse, servirebbe ugualmente di conferma
al nostro ragionamento.
(2-5. Luglio 1821.). V. p.2306.
Alla p.1270. Anche dopo fatta la
meravigliosa analisi de' suoni articolati pronunziabili in una intera favella,
e concepito il portentoso disegno di esprimergli ad uno ad uno e
rappresentargli nella scrittura; e in somma trovato l'alfabeto; si dovè
provare tanta difficoltà nell'applicazione, quanta se ne prova sempre
passando dalla teorica alla pratica. Anzi si può dire in genere che lo
scrivere una lingua non mai stata scritta era lo stesso che applicar la teorica
alla pratica. Difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti dovettero
comparire nelle prime scritture. Gli alfabeti, come tutte le cose umane, e massime
così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti.
Cioè l'analisi dei suoni non fu potuta fare perfettamente, se non dopo
lunghe serie di esperienze e riflessioni. Non potè detta analisi arrivar
subito ai suoni intieramente elementari. Quindi segni inutili e soprabbondanti
per una parte, mancanze di segni necessarii per l'altra. Quindi sistema peccante
di poca semplicità e di troppa semplicità. Gli archeologi possono
facilmente vedere e notare, e notano i progressi dell'alfabeto sì presso
una medesima nazione, sì passando ad altre nazioni, come fece. Certo
è però che i primissimi alfabeto dovettero essere molto
più imperfetti di quegli stessi imperfettissimi e primi che conosciamo,
e che essi dovettero lungo tempo durare in quella o simile imperfezione, e
quindi tanto più contribuire ad alterare la lingua scritta, la lingua
comunicata alle altre nazioni e tempi ec. Quante parole che si distinguevano
ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella scrittura. O si
cercò allora di distinguerle in modi arbitrarii, o lasciandole
così indistinte, le proprietà, i significati, le origini delle
parole si [1284]vennero a poco a poco a confondere. Nell'uno e
nell'altro caso vedete quanto la necessaria imperfezione delle prime scritture
(e per prime intendo quelle di parecchi secoli) debba aver nociuto alla perfetta
conservazione delle primitive radici, averle svisate di forma, confusine i significati
ec. ec. Così discorrete degli altri inconvenienti che derivarono dalle imperfezioni
degli alfabeti, e degli effetti che questi inconvenienti dovettero produrre sulle
parole.
Ma anche senza considerare nei primitivi
alfabeti, o alfabeto, veruna imperfezione, ripeto che l'applicare le parole pronunziate
ai segni allora inventati, dovè necessariamente patire le stesse
difficoltà, che si patiscono nel discendere dalla teorica alla pratica.
Osserviamo i fanciulli che incominciano a scrivere, ancorchè sappiano
ben leggere; ovvero gl'ignoranti che sanno però ben formare tutte le
lettere, e scrivono sotto la dettatura. Quanti spropositi derivati dalla poca
pratica che hanno di applicare quel tal segno a quel tal suono, e di analizzare
la parola che odono, risolvendola ne' suoni elementari, per applicare a ciascun
suono elementare il suo segno. (Notate ch'essi adoprano un alfabeto proprio
fatto della lingua in cui scrivono, ed i segni propri e distinti di quei suoni
precisi che debbono rappresentare). Appena riescono essi a copiar bene,
cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a segno. Così i
fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto dettatura, o
scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che pensano.
Così anche gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a
scrivere o leggere, ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere,
fanno la loro parola scritta così diversa dalla parlata, ch'essi stessi
si vergognerebbero di pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace.
Ma essi credono che corrisponda alla pronunzia. V. p.1659. Lo scrittore che
scrive [1285]traslatando nella carta le parole che la mente gli
suggerisce, scrive sotto la sua propria dettatura. Quanto dunque dovè
tardare prima di perfezionarsi nel rappresentare con segni ciascun suono che
concepiva! E gl'infiniti errori prodotti dalla necessaria imperizia de' primi
scrittori, dovettero perpetuarsi in gran parte nelle scritture, e confondere e
guastare non poche parole, le loro forme, i loro significati, ec. (E ricordiamoci
che le lingue antiche ci sono pervenute per mezzo della sola scrittura.) Lascio
il noto costume antico di scrivere tutte le parole a distesa senza nè
intervalli nè distinzioni, punteggiature (di cui l'Ebraico manca quasi
affatto) ec. il che ognun vede quante confusioni e sbagli dovesse produrre.
Così dite degli altri inconvenienti della paleografia, gli effetti de'
quali nelle lingue colte ec. furono maggiori che non si pensa. Lo vediamo anche
nei Codici scritti in tempi dove l'arte della scrittura era già di gran
lunga completa. Vediamo dico quanti errori, quante sviste perpetuate in
un'opera ec. dove suda la critica, e molte volte non arriva a correggerle, e
molte altre neppur se n'accorge ec. ec. V. p.1318. Da tutte le quali cose
apparisce che le lingue primitive dalla sola applicazione alla semplice
scrittura, senza ancor punto di letteratura, dovettero inevitabilmente ricevere
una somma alterazione e sfigurazione, e travisamento.
Incorporiamo queste osservazioni coi fatti.
Pare che le lingue orientali fossero le prime del mondo. Certo è che gli
alfabeti occidentali vennero dall'oriente, e quindi orientali furono i primi
alfabeti, e orientale dovette essere il primo inventore dell'alfabeto. Ora gli
alfabeti orientali mancano originariamente de' segni delle vocali. Questo pare
strano. Nell'analisi de' suoni articolati pare a noi che le vocali, come
elementi in realtà principali, debbano essere i primi e più facili
a trovarsi. Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali ne'
primitivi alfabeti d'Oriente. Ma consideriamo la cosa da filosofi, e vediamo
quanto il giudizio nostro [1286]che siamo sì avvezzi e pratici
dell'analisi de' suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo,
differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e
soccorso concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.
Benchè le vocali sieno i primi suoni
che l'uomo pronunzia, (anzi pure la bestia) e il fondamento di tutta e di tutte
le favelle, certo è peraltro, chi le considera acutamente, ch'elle sono
suoni più sottili; dirò così, più spirituali,
più difficili a separarsi dal resto de' suoni, di quello che sieno le
consonanti. Noi chiamiamo così queste ultime, perch'elle non si reggono
da se, ed hanno bisogno delle vocali, ed i greci le chiamavano similmente quasi convocali.
Questo ci par che dovesse menare per mano al ritrovamento immediato de' suoni
vocali, nella ricerca de' suoni elementari; e questo per lo contrario fu quello
che impedì e dovette naturalmente impedire la prima analisi della favella,
di arrivare sino a questo punto. Le vocali furono considerate come suoni
inseparabili dagli altri suoni articolati; come suoni quasi inarticolati; come
parti inesprimibili della favella, parti sfuggevoli, e incapaci d'esser fissate
nella scrittura, e rappresentate separatamente col loro segno individuale. Insomma
l'analisi degli elementi delle parole, la decomposizione della voce umana
articolata non arrivò fino a questi sottili elementi, cioè fino
alle vocali, e non si conobbe che i suoni vocali fossero elementari, e [1287]divisibili
dagli altri; e si considerarono come sostanze semplici le consonanti il cui
stesso nome presso noi dimostra ch'elle sono sostanze composte, o bisognose
della composizione, e più composte insomma o meno semplici che le vocali.
V. p.2404.
Le prime scritture pertanto mancando delle
vocali, somigliarono appunto a quelle che si fanno in parecchi metodi di
stenografia: e l'oriente continuò per lunga serie di secoli, a scriver
così, quasi stenograficamente. (E così credo che ancora continui
in più lingue.)
Notate che i primi alfabeti abbondarono de'
segni delle aspirazioni (frequentissime, e di suono marcatissimo nelle lingue
orientali come nello spagnuolo) i quali segni passarono poi ad esser vocali
negli alfabeti d'occidente, presi dallo stesso oriente. E ciò per la naturale
analogia delle aspirazioni colle vocali, che pronunziate da se, non sono quasi
altro che aspirazioni. Abbondarono pure de' segni delle consonanti aspirate,
distinti da' segni delle non aspirate: abbondanza non necessaria quando v'erano
i segni delle aspirazioni che potevano congiungersi a quelli delle consonanti
non aspirate dette tenui, e così denotare le consonanti aspirate, come
poi fecero i latini, ed anticamente i greci che scrivevano , o ec. Ma
questo è il naturale andamento dello spirito umano, tutto il cui
progresso tanto in genere come in ispecie, vale a dire in qualsivoglia scienza
o arte, consiste nell'avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose e
delle idee, e nel conoscere che una cosa o un'idea fin allora dell'ultima
semplicità conosciuta, ne contiene un'altra più semplice. V. in
questo proposito la p.1235. principio.
[1288]Osserviamo ora le conseguenze
di questa scrittura quasi stenografica, cioè senza vocali, scrittura per
sì lungo tempo comune all'oriente, anche dopo l'intero perfezionamento
della loro arte di scrivere; e scrittura primitiva fra gli uomini. Osserviamo,
dico, le conseguenze che appartengono al nostro proposito, cioè alle
alterazioni portate dalla scrittura alle prime radici, ed alla perdita che ci
ha cagionata della perfetta cognizione di molte di loro ec.
Tutti gli eruditi sanno che delle vocali non
bisogna far molto calcolo nelle lingue e parole orientali, sia nello studiarle,
sia nel confrontarle con altre lingue e parole, nel cercarne le radici, le
origini, le proprietà, le regole ec. E che le vocali in dette lingue
sono per lo più variabilissime incertissime, e bisogna impazzire per
ridurre sotto regole (suddivise in infinito) quello che loro appartiene. Or come
ciò? Questo è pur contrario alla natura universale della favella umana,
la cui anima, la cui parte principale e sostanziale sono le vocali. E ben
dovrebbero queste naturalmente esser meno variabili, e più regolate che
le consonanti. Ciò non si deve attribuire se non a quella imperfetta
maniera di scrivere che abbiamo accennata; (imperfezione derivata dall'esser
quella scrittura la prima del mondo ec.) e serve anche a dimostrare contro l'opinione
di alcuni critici, che i più antichi e primitivi alfabeti orientali
mancarono effettivamente de' segni delle vocali. Non è già che le
vocali [1289]non formassero e non formino la sostanza delle lingue
orientali, come di tutte le altre più o meno. Formano la sostanza di
quelle lingue, ma non della loro gramatica, e ciò per la detta ragione.
Anzi molte lingue orientali, p.e. l'ebraica (e credo generalmente quasi tutte)
abbondano di vocali più che le nostre. La lingua ebraica ha 14. differenze
di vocali, nessuna delle quali è dittongo. Questa è la prima
conseguenza ed effetto della imperfezione di detta scrittura, sulla favella, e
sull'indole delle lingue che adoperavano detta scrittura.
Altro notabile e inevitabile effetto, si
è la confusione de' significati, delle origini, delle proprietà
ec. delle voci, scritte senza le vocali, nel qual proposito v. quello che ho
detto p.1283. fine-84. principio. A tutti è noto quante parole della
Scrittura ebraica di diversissimo significato, e secondo che si stima, di
diversissima origine e radice, o che sono esse medesime, radici
differentissime, scritte senza vocali, sono perfettamente uguali fra loro,
nè si possono distinguere se non dal senso. Immaginate voi quanta
confusione ciò debba aver prodotto e produrre, quanti equivoci, quanti
dubbi; quante parole che si credono bene spiegate, e ben distinte coi punti
vocali introdotti posteriormente, debbano in realtà aver significato tutt'altra
cosa, ed avere avuto nella pronunzia tutt'altre vocali. Onde nel [1290]testo
Ebraico l'Ermeneutica trova bivi e trivi e quadrivi a ogni passo; e nella
semplice interpretazione letterale gli stessi odierni Giudei, gli stessi
antichi Dottori della nazione andarono e vanno le mille miglia lontani l'uno
dall'altro. Vedete quanti danni recati alla conservazione dell'antica lingua, e
alla cognizione delle forme del senso ec. delle antiche parole, dalla maniera
di scrivere che abbiam detto.
Ciò non basta. Avendo gli Orientali
scritto per sì lungo tempo senza vocali, ne deve seguire che la vera
antichissima pronunzia delle loro voci e lingue, in ordine ai suoni vocali,
cioè alla parte primaria e sostanziale della pronunzia, sia in grandissima
parte perduta. La qual naturale opinione si conferma dal vedere che molte, anzi
quasi tutte le voci o i nomi propri Ebraici passati anticamente ad altre
lingue, si pronunziarono e si pronunziano in ordine alle vocali,
tutt'altrimenti da quello che si leggono nella Scrittura Ebrea Masoretica,
cioè fornita de' punti vocali, inventati (secondo i migliori Critici) in
bassissima età, come gli accenti e gli spiriti che furono aggiunti in
bassi secoli alla scrittura greca. (Morery conchiude sulla fede del Calmet, del
Prideaux, del Vossio, e degli altri più dotti, che detta invenzione fu
verso il nono secolo, e che per l'avanti nella scrittura Ebrea non v'era segno
alcuno di vocali.) E notate primieramente, ch'io dico in ordine alle
vocali, giacchè [1291]quanto alle consonanti la scrittura e la
pronunzia delle parole e nomi Ebraici in altre lingue, concorda generalmente
con quella della Bibbia masoretica: il che serve di prova al mio discorso,
mostrando che detta diversità di pronunzia nelle vocali, non deriva da
corruzione sofferta da dette parole o nomi nel passare ad altre lingue, ma dal
differire effettivamente la pronunzia masoretica cioè la moderna
pronunzia ebraica, dalla pronunzia antica rispetto alle vocali. E che tal
differenza si deve attribuire alla imperfezione dell'antica scrittura ebraica
senza vocali ec. Secondariamente notate che trattasi per lo più di nomi
propri, i quali nel passare ad altre lingue, sogliono naturalmente conservare
la loro forma e pronunzia nazionale, meglio che qualunque altro genere di voci.
(7. Luglio 1821.)
L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o
commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da
qualche piacere ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo
alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per
atto o [1292]per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente
disposto, e non danneggiate punto, nè soverchiate ec. da quella
prosperità. Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più
stretti ec. E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli,
o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti la sua
presenza, e la sua conversazione riuscirà sempre odiosa e grave, anche a
quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna
di dolersene. Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni
di se, e ben creati. Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci
porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui? Certo
è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è
mestieri un certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte
alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio nè
danno, o solamente per non gravarsene.
(8. Luglio 1821.)
Alla p.1242. Non è dunque da
maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia tenuta la più
ricca. (Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte della ricchezza delle
lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei derivati e de' composti,
e come questa sia la principal fonte della ricchezza di qualsivoglia lingua, e
quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai ricca. La lingua
italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de' composti
(colpa più nostra che sua), abbiamo veduto [1293]e si potrebe dimostrare
con mille considerazioni, che nella facoltà dei derivati, e nell'uso che
finora ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince dette lingue, di
quello che ne sia vinta. Sarà dunque vero che la lingua italiana sia la
più ricca delle moderne, e questa superiorità sua, che una volta
fu effettiva (e per le dette ragioni), non passerà come parecchie altre,
se noi non la spoglieremo di quelle facoltà che la producono, e sole la
possono principalmente produrre; e che per l'altra parte sono proprie della sua
indole. Cioè se non la spoglieremo della facoltà di crear nuovi
composti e derivati, disfacendo quello che fecero i nostri antichi.
Giacchè l'impedire alla lingua (e ciò per legge costante) che non
segua ad esercitare le facoltà generative datele da quelli che la
formarono, è lo stesso che spogliarnela, e quindi si chiama disfare e
non conservare l'opera dei nostri maggiori.
Dilatate quest'ultimo pensiero, dimostrando
come il voler togliere alla lingua l'esercizio delle sue facoltà
creatrici, proprie della sua indole, sia appunto l'opposto di quello che si
crede, cioè allontanarla dalla sua indole, e dalla sua condizione
primitiva in luogo di mantenercela. La condizione primitiva della lingua era di
esser viva: ora il ridurla allo stato [1294]assoluto di morta, si
chiamerà conservarla qual ella era, e quale ce la trasmisero i suoi
formatori? Dunque conservare una parola, una forma, un significato, un suono
antico, ec. e sbandire una voce o modo barbaro, una cattiva ortografia, un
significato male applicato ec. tutte cose particolari ed accidentali, e quel
ch'è più mutabili, tutto questo si chiamerà conservare la
lingua. E lo spogliarla delle sue facoltà generali, ed essenziali, e immutabili,
non si chiamerà guastarla o alterarla, ma anzi conservarla? Dico immutabili,
fin tanto ch'ella non muti affatto qualità, e di viva diventi morta. Il
solo immutabile nella lingua sono le facoltà che costituiscono il suo
carattere, parimente immutabile. Le parole, i modi, i significati, le
ortografie, le inflessioni ec. niente di questo è immutabile, ma tutto
soggetto all'uso per propria natura. Così che i nostri bravi puristi
vogliono eternare nella lingua la parte mortale, e distruggere l'immortale, o
quella che tale dev'essere, se non si vuol mutare la lingua. E l'uso di tali
facoltà creatrici, ch'io dico immortali, deve essere perpetuo
finchè una lingua vive, appunto perchè la novità delle cose
e delle idee (alle quali serve la lingua) [1295]è perpetua. Che
se non fosse perpetua, la lingua potrebbe allora perdere dette facoltà,
e vivere nello stato delle lingue morte. Ma essendo la novità delle cose
perpetua, ripeto che non si può conservare la lingua senza mantenerle
intieramente le sue primitive facoltà creatrici, e che lo spogliarla di
queste è lo stesso che ridurla necessariamente alla barbarie;
giacch'ella barbara o no, finch'è parlata e scritta non può
morire; e non potendo vivere nella sua prima condizione, cioè durando la
novità delle cose senza ch'ella possa più esprimerle del suo
proprio prodotto, vivrà nella barbarie.
(8. Luglio 1821.)
Alla p.1138. fine, aggiungi - 4. La lingua
latina ha prodotto tre figlie, che ancor vivono, che noi stessi parliamo, e le
di cui antichità, origini, progressi ec. dal principio loro fino al
dì d'oggi, si conoscono o si possono ottimamente o sempre meglio
conoscere. Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor vive. E
la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può portare
e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina
antichissima, che non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli
scrittori latini; e ciò stante l'infinita tenacità del [1296]volgo
che mediante il parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua
latina fino al dì d'oggi, e conserva tuttavia nell'uso quotidiano (e le
ha pure introdotte nelle scritture) molte antichissime particolarità
della lingua latina; come dimostrerò discorrendo dell'antico latino
volgare. Sicchè lo studio comparativo delle tre lingue latino-moderne,
fatto con maggior cura, di quello che finora sia stato, e con maggiore intenzione
all'effetto di scoprire le antichità della favella materna, ci
può condurre a conoscer cose latine antichissime, e primitive, o quasi
primitive. La quale facoltà di uno studio comparativo sulla lingua greca
parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che vive
la latina. Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere
così bene il greco moderno, e le sue origini, e progressi, e
generalmente la storia della lingua greca da un certo tempo in qua; come si
hanno di conoscere quello che noi possiamo chiamare il latino moderno, e la
storia della lingua latina dalla sua formazione e letteratura fino al dì
d'oggi, come dirò poi.
Da queste considerazioni segue in primo
luogo che la lingua latina, non ci è solamente nota [1297]per via
della scrittura e letteratura, cose che sfigurano sommamente le origini di
qualunque lingua, come ho detto poche pagine dietro, discorrendo delle cause di
alterazione nelle lingue; ma eziandio per mezzo della viva favella, la quale
è sempre influita dall'uso degli antichi parlatori, assai più che
degli antichi scrittori; e di una favella che si parla tuttodì nel mezzo
d'Europa, e in gran parte d'Europa, ed è conosciuta per tutto, e massime
a noi stessi che la parliamo e scriviamo. Cosa che non si può dire di
nessun'altra lingua antica.
In secondo luogo segue dalle dette
considerazioni che noi possiamo conoscere quasi perfettamente (massime rispetto
a qualunque altra lingua) le vicende della lingua latina e delle sue parole, e
condurre una storia della lingua e delle voci latine, (generalmente parlando)
quasi perfetta, quasi completa, e senz'alcuna laguna, dai primi principii della
sua letteratura fino al dì d'oggi, cioè per venti secoli interi.
(Plauto morì nel 184. av. G. C.) Il che non si può dire di
verun'altra lingua occidentale, fuor della greca, la cui notizia e storia
è soggetta però alle difficoltà dette p.1296. E molto
più, ed a molto maggiori difficoltà sono soggette quelle delle
lingue orientali, ancorchè possano rimontare ad epoca [1298]più
remota. L'antica lingua teutonica ha veramente prodotto più lingue che
la latina; inglese, tedesca, olandese, danese, svedese, svizzera ec. (Staël):
ma essa medesima è quasi ignota. Così l'antica illirica, madre
della russa, della Polacca, e di altre. La lingua Celtica è poco nota
essa, e non vive in nessuna moderna.
In somma la lingua latina è di tutte
le lingue antiche quella la cui storia si può meglio e per più
lungo spazio conoscere, e le cui primitive proprietà per conseguenza si
ponno meglio indagare. Giacchè spetta all'archeologo il rimontare dalla
storia ch'egli può conoscere ec. de' venti secoli sopraddetti, a quella
de' secoli antecedenti; nè gli mancano copiose notizie di fatto, le
quali basterebbero già per se stesse a potere spingere la detta storia
molto più in là di detta epoca, sebbene meno perfettamente e
completamente sino ad essa epoca, cioè al secondo secolo av. Cristo,
ch'è il secolo di Plauto.
Aggiungete quella lingua Valacca, derivata
pure dalla latina, e che per essersi mantenuta sempre rozza, è
proprissima a darci grandi notizie dell'antico volgare latino, il qual volgare,
come tutti gli altri, è [1299]il precipuo conservatore delle
antichità di una lingua. Aggiungete i dialetti vernacoli derivati dal
latino, come i vari dialetti ne' quali è divisa la lingua italiana. I
quali ancor essi si sono mantenuti qual più qual meno rozzi,
com'è naturale ad una lingua non applicata alla letteratura, o non sufficientemente;
e com'è naturale a una lingua popolarissima: e quindi tanto più
son vicini al loro stato primitivo. E trovasi effettivamente di molte loro
parole, frasi ec. che derivano da antichissime origini. Quello che s'è
perduto p.e. nella lingua italiana comune, o in questo o quel vernacolo
italiano, o s'è alterato ec., s'è conservato in quell'altro
vernacolo ec. E il loro esame comparativo deve infinitamente servire all'esame
delle lingue latino-moderne, diretto a scoprire le ignote e primitive
proprietà del latino antico. Aggiungete ancora la lingua Portoghese,
dialetto considerabilissimo della spagnuola.
5. La lingua latina colta è
incontrastabilmente meno varia, più regolare, più ordinata,
più perfetta della greca pur colta. Facilmente si può vedere
quanto ciò giovi e favorisca la ricerca della lingua latina incolta.
Più facilmente si vede, si trova, si cammina nell'ordine, che nel
disordine. Aperta che vi siate nella lingua latina una strada, questa sola vi
mena, e dirittamente, alla scoperta d'infinite sue voci antiche. Le formazioni
delle parole nella lingua latina; la fabbrica dei derivati e dei composti,
è per lo più regolatissima, ordinatissima, e uniforme [1300]dentro
ai limiti di ciascun genere. Trovato che abbiate e ben conosciuto un genere di
derivati nel latino, tutti o quasi tutti in quel genere sono formati nello
stesso preciso modo, e secondo la stessa regola; da tutti si può
rimontare egualmente alle radici. Vedete quello che abbiamo osservato dei
continuativi e frequentativi; due generi di voci derivate, regolarissimamente
ed uniformemente formate, da ciascuna delle quali si può egualmente
salire alla voce originaria. Bene stabilito che sia il preciso modo di quella
tal formazione, come abbiamo fatto, questa sola strada ci mena senza fatica, a
un larghissimo e ubertosissimo campo; anzi è quasi una porta che vi
c'introduce immediatamente.
Non così accade per lo più
nella lingua greca, tanto più varia, difforme da se stessa nelle sue formazioni,
ed in ogni altro genere di cose, e senza pregiudizio (anzi con vantaggio) della
bellezza, tanto meno regolare e corrispondente. Giacchè sì la
moltiplicità, come la scarsezza delle regole, non sono altro che irregolarità.
L'una e l'altra dimostrano la copia e soprabbondanza delle eccezioni, le quali
chi vuol ridurre a regola, moltiplica necessariamente le regole fuor di misura;
chi non vuol dare in questo intoppo, è necessario che stabilisca [1301]poche
e larghe regole, acciò possano lasciar luogo a molte differenze, e
comprenderle: e in somma conviene che si tenga sugli universali, perchè
i particolari discordano troppo frequentemente. E così accade nella
gramatica greca, dove altri soprabbondano di regole, e la fanno parere complicatissima,
altri scarseggiano, e la fanno parere semplicissima. La lingua latina è
proprio nel mezzo di questi due estremi, riguardo alle regole d'ogni genere.
(Intendo già fra le lingue del genere antico, e non del moderno, tanto
più filosoficamente costituito, com'è naturale.) Vale a dire per
tanto ch'ella è la più facile a sviscerare, e considerare parte
per parte. Ma nella lingua greca bisogna aprirsi ad ogni tratto una nuova
strada, e quella regola e maniera di formazioni ec. che avrete scoperta, non vi
servirà se non per poche voci ec. ec.
(8 9. Luglio 1821.)
Alla p.936-8. Osservate ancora qualunque
persona, rozza, o non assuefatta al bel parlare, ed alla lingua della polita conversazione,
o poco pratica e ricca di lingua, o poco esercitata e felice nel trovar le parole
favellando, (cioè la massima parte degli uomini), ovvero anche quelli
che parlano bene, quando si trovano in circostanza dove non abbiano bisogno di
star molto sopra se stessi nel parlare, o quando parlano rozzamente a bella
posta o in qualunque modo, o talvolta anche fuori di dette circostanze, e nella
stessa polita conversazione; o finalmente quelli che hanno una certa forza, e
vivacità, e prontezza ec. o insubordinazione di fantasia; e facilmente
potrete notare [1302]che tutti o quasi tutti gli uomini, qual più
qual meno secondo le suddette differenze, hanno delle parole affatto proprie
loro, e particolari, (non già derivate nè composte, ma nuove di
pianta) che sogliono abitualmente usare quando hanno ad esprimere certe
determinate cose, e che non s'intendono se non dal senso del discorso, e son
prese per lo più da una somiglianza ed una imitazione della cosa che
vogliono significare. Così che si può dire che il linguaggio di
ciascun uomo differisce in qualche parte da quello degli altri. Anzi il linguaggio
di un medesimo uomo differisce bene spesso da se medesimo, non essendoci uomo
che talvolta non usi qualche parola della sopraddetta qualità, non
abitualmente, ma per quella volta sola, (qualunque motivo ce lo porti, che
possono esser diversissimi) quantunque abbiano nella stessa lingua che
conoscono ed usano, la parola equivalente da potere adoperare.
(9. Luglio 1821.)
Un ritratto, ancorchè
somigliantissimo, (anzi specialmente in tal caso) non solo ci suol fare
più effetto della persona rappresentata (il che viene dalla sorpresa che
deriva dall'imitazione, e dal piacere che viene dalla sorpresa), ma, per
così dire, quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che [1303]reale,
e la troviamo più bella se è bella, o al contrario. ec. Non per
altro se non perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera
ordinaria, e vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria,
il che incredibilmente accresce l'acutezza de' nostri organi nell'osservare e
nel riflettere, e l'attenzione e la forza della nostra mente e facoltà,
e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni. ec. (Osservate
in tal proposizione ciò che dice uno stenografo francese, del maggior
gusto ch'egli provava leggendo i classici da lui scritti in istenografia.)
Così osserva il Gravina intorno al diletto partorito dall'imitazione
poetica.
(9. Luglio 1821.)
Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto
ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario
se la conosciamo. Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti
d'imitazione pel poeta e l'artefice, condannando i romantici e il più
de' poeti stranieri che scelgono di preferenza oggetti forestieri ed ignoti per
esercitare la forza della loro imitazione.
(9. Luglio 1821.)
Altra prova che noi siamo più
inclinati al timore che alla speranza, è il vedere che noi per lo
più crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello che
desideriamo, anche molto più verisimile. E poste due persone delle quali
una tema, e l'altra desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no. E
se noi passiamo dal temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più
credere quello che prima non sapevamo non credere, [1304]come mi
è accaduto più volte. E poste due cose, o contrarie o disparate,
l'una desiderata, e l'altra temuta, e che abbiano lo stesso fondamento per
esser credute, la nostra credenza si determina per questa e fugge da quella.
Nell'esaminare i fondamenti di alcune proposizioni ch'io da principio temeva
che fossero vere, e poi lo desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e
quindi insufficientissimi.
(10. Luglio 1821.)
A quello che ho detto del linguaggio
popolare, pochi pensieri addietro, soggiungi. Il linguaggio popolare è
ricca e gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla
lingua scritta, ma propriamente allo scrittore. Vale a dire, bisogna che questo
nell'attingerci, nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera
che non dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l'arte ha introdotto
nello scrivere, ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere
artifizioso ed elegante. Non già le deve trasferir di peso dalla bocca
del popolo alla scrittura, se già non fossero interamente adattate per
se medesime, o se la scrittura non è di un genere triviale o scherzoso o
molto familiare ec. Così che io [1305]dico che il linguaggio
popolare è una gran fonte di novità ec. allo scrittore, nello
stesso modo in cui lo sono le lingue madri ec. le quali somministrano gran
materia, ma tocca allo scrittore il formarla, il lavorarla, e l'adattarla al bisogno,
non già solamente trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.
(10. Luglio 1821.)
L'uomo isolato crederebbe per natura, almeno
confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo. E intanto crede che sia
fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a
lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni
comuni gli porgono. Ma non potendo ugualmente vivere nella società di
tutti gli altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che
non possono esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è
fatto per tutti gli esseri che lo compongono. Ho veduto uomini vissuti gran
tempo nel mondo, poi fatti solitarii, e stati sempre egoisti, credere in buona
fede che il mondo appresso a poco fosse tutto per loro, la qual credenza appariva
da' loro fatti d'ogni genere, ed anche dai detti implicitamente. E non [1306]potevano
non solo patire o mancar di nulla, ma appena concepire come gli uomini e le
cose non si prestassero sempre e interamente ai loro comodi, e ne manifestavano
la loro maraviglia e la loro indignazione in maniere singolarissime, e talvolta
incredibili in persone avvezze alle maniere civili, ed ai sacrifizi della società,
nelle quali cose conservavano pur molta pretensione. Ma non si accorgevano,
così facendo, di mancare a nessun debito loro verso gli altri, nè
di esigger più di quello che loro convenisse ec.
(10. Luglio 1821.)
Dovunque ha luogo l'utilità quivi noi
non consideriamo e concepiamo e sentiamo la proporzione e convenienza, se non
in ragione dell'utile. Poniamo una spada con una grande impugnatura a comodo e
difesa della mano. Che proporzione ha quella grossa testa con un corpo sottile?
E pure a noi pare convenientissima e proporzionatissima. Perchè? primo
per l'assuefazione principal causa e norma del sentimento delle proporzioni,
convenienze, bellezza, bruttezza. Secondo perchè ne conosciamo il fine e
l'utilità, e questa cognizione determina la nostra idea circa la
proporzione ec. dell'oggetto che vediamo. Chi non avesse mai veduto una spada,
e non conoscesse l'uffizio [1307]suo, o dell'elsa ec. potrebbe giudicarla
sproporzionatissima, e concepire un senso di bruttezza, relativo agli altri
oggetti che conosce, e alle altre proporzioni che ha in mente. Così dite
delle forme umane ec. Non è dunque vero che la proporzione è
relativa? Qual tipo, qual forma universale può aver quell'idea,
ch'è determinata individualmente dalla cognizione di quel tale oggetto
delle sue parti, de' loro fini ec.? che è determinata dall'assuefazione
di vederlo ec.? che varia non solo secondo le infinite differenze degli
oggetti, ma secondo le differenze di dette cognizioni, assuefazioni ec.? E
quell'idea che deriva da cognizione speciale di ciascheduna cosa e parte, e da
speciale assuefazione, come può essere innata, avere una norma comune,
stabile, determinata primordialmente e astrattamente dalla natura assoluta del
tutto?
(10. Luglio 1821.)
Mi si permetta un'osservazione intorno ad
una minuzia, la cui specificazione potrà parere ridicola, e poco degna
della scrittura. Alcune minute parti del corpo umano che l'uomo osserva
difficilmente, e assai di rado, e per solo caso negli altri, le suole osservare
solamente in se stesso. In se stesso, e da ciò che elle sono in lui,
egli concepisce l'idea del [1308]quali debbano essere, e della
convenienza delle loro forme, e proporzione ec. e di tutti i loro accidenti.
Così le unghie della mano. Le quali ben di rado si possono osservare
negli altri, bensì sovente in se stesso. Or che ne segue? Ne segue che
tutti noi ci formiamo l'idea della bellezza di questa parte del nostro corpo,
dalla forma ch'ella ha in ciascheduno di noi; e perchè quest'idea
è formata sopra un solo individuo della specie, e l'assuefazione
è del tutto individuale nel suo soggetto, perciò se talvolta ci
accade di osservare o di porre qualche passeggera attenzione a quella medesima
parte in altrui, rare volte sarà ch'ella non ci paia di forma strana, e
non ci produca un certo senso di deformità o informità ec. di
bruttezza, e anche di ribrezzo, perchè contrasta coll'assuefazione che
noi abbiamo contratta su di noi. E se accadrà che noi osserviamo quella
parte nella persona più ben fatta del mondo, ma che in questa differisca
notabilmente da noi, quella parte in detta persona ci parrà notabilmente
difettosa, quando anche ad altri o generalmente paia l'opposto per differente
circostanza. Ed insomma il giudizio che noi formiamo della bellezza o bruttezza
di quella parte in altrui, è sempre in proporzione della maggiore o
minore conformità ch'ella ha non col generale che non conosciamo, ma
colla nostra particolare.
Aggiungete che le altre idee della bellezza
umana, siccome sono formate sulla cognizione, ed assuefazione, ed osservazione da
noi fatta sopra [1309]molti individui, così non sono mai uniche,
e ci parrà bello questi, e bello quegli, benchè molto diversi.
(Questa moltiplicità medesima delle idee della bellezza umana, va in
proporzione del vedere e dell'osservare che si è fatto ec. ec. ec.) Ma
nel nostro caso, perchè l'idea è formata sopra un soggetto solo,
ed un'assuefazione ed osservazione individuale, perciò è unica, e
ci par brutto o men bello proporzionatamente, non solo ciò che non
è simile, ma ciò pure che non è uniforme al detto
soggetto. V. p.1311. capoverso 2.
Bisogna modificare queste osservazioni
secondo i casi e circostanze che ciascuno può facilmente pensare. P.e.
se una malattia o altro accidente vi ha deformato le unghie, voi sentite quella
deformità, perchè contrasta colla vostra assuefazione precedente,
ed allora (almeno fintanto che non arriviate ad assuefarvi a quella nuova
forma) non misurerete gli altri da quello che voi siete, ma piuttosto da quello
ch'eravate precedentemente. Se un'unghia vostra è deforme, anche sin
dalla nascita ec. voi facilmente ve ne accorgerete paragonandola colle altre
pur vostre. Se in questa parte del corpo umano voi siete sempre stato
assolutamente deforme, cioè grandemente diverso dagli [1310]altri,
allora quel poco che voi potrete accidentalmente osservare delle forme comuni,
benchè in grosso e non minutamente, potrà bastare a farvi
accorgere della vostra deformità, perchè la differenza essendo
grande, sarà facilmente notabile, e vi daranno anche nell'occhio quelle
parti in altrui, più di quello che farebbero in altro caso, e
così l'assuefazione che formerete, contrasterà con quello che
vedete in voi stesso. Vi accorgerete però di essa deformità molto
più difficilmente, e la sentirete assai meno di quello che fareste in un
altro. Così accade di molto maggiori deformità o nostre proprie,
o di persone con cui conviviamo ec. e v. la p.1212. capoverso 2.
Queste osservazioni sono menome. Ma non
altrimenti il filosofo arriva alle grandi verità che sviluppando,
indagando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le
stesse cose grandi nelle loro menome parti. Ed io da un lato non credo che
forse si possa addurre prova più certa di queste osservazioni, per dimostrare
come il giudizio, il senso, l'idea della bellezza o bruttezza delle forme degli
stessi nostri simili (giudizio, e senso influito dalla natura universale
più che qualunque altro) dipende dall'assuefazione ed osservazione, ed
eccetto in certe inclinazioni naturali, non ha assolutamente altra ragione,
altra regola, altro esemplare. [1311]Dall'altro lato non vedo qual altra
più vera e incontrastabile proposizione possa venir dimostrata in
maniera più palpabile di questa.
Discorrete allo stesso modo delle altre
parti del corpo umano, o egualmente minute, o egualmente poco facili ad osservarsi
o vedersi negli altri, o in più che tanti.
(10. Luglio 1821.). V. qui sotto.
Alla p.1309. Tanto più che
l'osservazione che noi abbiam fatta in noi stessi delle dette parti è
minutissima, e quindi l'idea che abbiamo della loro conveniente figura ec.
è bene esatta e determinata, forse più di qualunque altra simile
idea. E questo pure perch'ella è formata sopra noi stessi, vale a dire
sopra un esemplare che da noi è naturalmente meglio conosciuto,
più precisamente osservato, e più frequentemente anzi
continuamente veduto che qualunque altro oggetto materiale.
(10. Luglio 1821.)
Al pensiero superiore. Non voglio spingere
il discorso all'indecente, e forse di necessità e contro voglia, l'ho
portato già troppo innanzi. Dirò brevemente. Di quelle parti
umane che taluno non conosce, o in quel tempo in cui nessuno le conosce, non
solo non ne ha veruna idea di bello o di brutto, e volendola formare, verisimilissimamente
s'inganna, ma [1312]volendo congetturare le loro proprietà, forme
e proporzioni universali, non indovina, se non forse a caso. E il fanciullo
distingue già il bello e il brutto fra gli uomini, e ancora non conosce
intieramente la bellezza non solo, ma neppure la forma umana, e quello che ne
conosce non gli dà veruna idea sufficiente, nè delle
proprietà nè delle proporzioni e convenienze di quello che non
conosce. E v. in questo proposito p.1184. marg.
(12. Luglio 1821.)
Alla p.1255. marg. - e divenir maturo,
pratico ec. p.e. in uno stile, con una sola lettura, cioè con pochissimo
esercizio ec. La qual facilità di assuefazione, segno ed effetto del
talento io la notava in me anche nelle minuzie, come nell'assuefarmi ai diversi
metodi di vita, e nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova assuefazione
ec. ec. In somma io mi dava presto per esercitato in qualunque cosa a me
più nuova.
(12. Luglio 1821.)
Alla p.1226. marg. fine. Se attentamente
riguarderemo in che soglia consistere l'eleganza delle parole, dei modi, delle
forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista
nell'indeterminato, (v. in tal proposito quello che altrove ho detto circa un
passo di Orazio) v. p.1337. principio o in qualcosa d'irregolare, cioè
nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello
scrivere didascalico o dottrinale. Non nego io già che questo non sia
pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l'eleganza non fa
danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E di
questa associazione [1313]della precisione coll'eleganza, è
splendido esempio lo stile di Celso, e fra' nostri, di Galileo. Soprattutto poi
conviene allo scrivere didascalico la semplicità (che si ammira massimamente
nel primo di detti autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è
sempre eleganza, perch'è naturalezza. Bensì dico che piuttosto la
filosofia e le scienze, che sono opera umana, si possono piegare e accomodare
alla bella letteratura ed alla poesia, che sono opera della natura, di quello
che viceversa. E perciò ho detto che dove regna la filosofia,
quivi non è poesia. La poesia, dovunque ella è, conviene che
regni, e non si adatta, perchè la natura ch'è sua fonte non varia
secondo i tempi, nè secondo i costumi o le cognizioni degli uomini, come
varia il regno della ragione.
(13. Luglio 1821.)
Chi vuol persuadersi dell'immensa
moltiplicità di stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua
italiana, consideri le opere di Daniello Bartoli, meglio del quale niuno
conobbe i più riposti segreti della nostra lingua. (Monti, Proposta,
vol.1 par.1. p. XIII.) [1314]Un uomo consumato negli studi della nostra
favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo scrittore, resta
attonito e spaventato, e laddove stimava d'essere alla fine del cammino negli
studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala pena al mezzo. Ed io
posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo
bastevole notizia degli scrittori italiani d'ogni sorta e d'ogni stile, fa
disperare di conoscer mai pienamente la forza, e la infinita varietà
delle forme e sembianze che la lingua italiana può assumere. Vi trovate
in una lingua nuova: locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai
sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime:
efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso
Dante, e vince non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o
moderno, di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze
della favella. E tutta questa novità non è già
novità che non s'intenda, che questo non sarebbe pregio ma vizio sommo,
e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore. Tutto s'intende benissimo,
e tutto è nuovo, e diverso dal consueto: [1315]ella è lingua
e stile italianissimo, e pure è tutt'altra lingua e stile: e il lettore
si maraviglia d'intender bene, e perfettamente gustare una lingua che non ha
mai sentita, ovvero di parlare una lingua, che si esprime in quel modo a lui
sconosciuto, e però ben inteso. Tale è l'immensità e la
varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e
pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua;
facoltà che gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere
pienamente, e quindi confessare.
(13. Luglio 1821.)
Il successivo cambiamento delle disposizioni
dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante
immagine del cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli. (E
così viceversa). Eccetto che è sproporzionatamente rapido,
massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non
serba più somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna
qualità, opinione, disposizione, inclinazione antica, come
l'immaginazione, la virtù ec. ec. ec.
(13. Luglio 1821.)
Alla p.1256. fine. E tanto è vero che
l'idea di questa tal bellezza non venga da tipo ec. ma da inclinazione
naturale, e da senso affatto indipendente dalla sfera del bello e del
conveniente; [1316]che la inclinazione chiamata da Aristofane (v. assolutamente
il Menagio, ad Laert. Polemon., 4. 19.), fa parer bella e desiderare ai
libidinosi una J eccessiva
e maggiore assai delle proporzioni generali, e seguite comunemente dalla
natura, e quindi non bella. Applicate questa osservazione a tutte le altre idee
che ha della bellezza femminile il . (Crate
Tebano, Cinico, ap. Laert. in Crat. Theb. 6.85. v. quivi il Menag.) Idee
diverse da quelle più stabilite e comuni, e non per tanto radicatissime
e sensibilissime in loro, che altrove non riconoscono e non sentono la bellezza
femminile.
(13. Luglio 1821.)
La nostra lingua ha, si può dire,
esempi di tutti gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a
tutti i generi di scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e
preciso. Perchè vogliamo noi ch'ella manchi e debba mancare di questo,
contro la sua natura, ch'è di essere adattata anche a questo,
perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero, quantunque l'esito
sia certo, non s'è fatta mai la prova di applicare la buona lingua
italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici [1317]negli
scritti del Galilei del Redi, e pochi altri; ed alla politica, negli scritti
del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto alla
lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le cognizioni
d'allora. Ma a quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico,
e che abbraccia la morale, l'ideologia, la psicologia (scienza de' sentimenti,
delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile,
ec. non è stata mai applicata la buona lingua italiana. Ora questo
genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della
vita d'oggidì.
(13. Luglio 1821.)
I termini della filosofia scolastica possono
in gran parte servire assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato
(quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe danno alla
precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un
poco senz'alcun danno della chiarezza ec. E questi termini si confarebbero
benissimo all'indole della lingua italiana, la quale ne ha già tanti, e
i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta filosofia,
ed introdottala nelle scritture più colte ec. oltre che derivano tutti o
quasi tutti dal latino, [1318]o dal greco mediante il latino ec. Anche
per questa parte ci può essere utilissimo lo studio del latino-barbaro,
ed io so per istudio postoci, quanti di detti termini, andati in disuso,
rispondano precisamente ad altri termini della filosofia moderna, che a noi
suonano forestieri e barbari; e possano essere precisamente intesi da tutti nel
senso de' detti termini recenti: e così quanti altri ve ne sarebbero
adattatissimi, e utilissimi, ancorchè non abbiano oggi gli equivalenti
ec. ec. anzi tanto più. Aggiungete che benchè andati in disuso
negli scrittori filosofi moderni, gran parte di detti termini è ancora
in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per questa e per altre ragioni, sono
di universale e precisa e chiara intelligenza.
(13. Luglio 1821.). V. p.1402.
Alla p.1285. Osserviamo inoltre quanti
vocaboli derivati da soli antichi errori di scrittura, si scoprano mediante la
critica, essersi introdotti e ne' Vocabolari, e nell'uso stesso degli scrittori
antichi o moderni, che sogliono formarsi sopra i più antichi, ed
attingerne la lingua ec.
(14. Luglio 1821.)
Alla p.1259. principio. Nel che, intorno al
giudizio del bello, non opera tanto l'assuefazione, quanto l'opinione.
Giacchè di momento in momento varia il giudizio, e se noi [1319]vediamo
una foggia di vestire novissima, e diversissima dall'usitata, noi subito o
quasi subito la giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della bellezza,
se sappiamo che quella foggia è d'ultima moda, e se al contrario, il
contrario ci accade, perchè quella nuova foggia contrasta sì
all'assuefazione nostra, come all'opinione. Aggiungete che noi giudichiamo
bella quella nuova foggia di moda, quando pure contrasti a tutte le forme
ricevute del bello, eccetto che allora, bastando un solo momento per formare il
giudizio del bello, vi vorrà però proporzionatamente qualche poco
di tempo per concepirne il senso istantaneo, vale a dire, acquistarne l'assuefazione,
la quale conserva pur sempre i suoi dritti; e disfare l'assuefazione passata.
Del resto quanto la pura opinione
indipendente dall'assuefazione stessa e da ogni altra cosa, influisca sul
giudizio e senso del bello, si potrebbe mostrare con mille prove le più
quotidiane, quantunque perciò appunto meno avvertite. Chi non sa che una
bellezza mediocre, ci par grande, s'ella ha gran fama? E che ci sentiamo
più inclinati, e proviamo il senso della bellezza molto più vivo
nel mirare una donna famosa per la [1320]beltà, che nel mirarne
una più bella, ma ignota, o meno famosa? Così pure se una donna
non è bella, ma ha nome di esserlo o è celebre per avventure
galanti, o è stata contrastata ec. ec. ec. Così dico degli uomini
rispetto alle donne ec. ec. Così negli scrittori: il senso del bello
è molto maggiore, più intimo, più frequente, più
minuto, quando leggiamo p.e. un poeta già famoso, e di merito già
riconosciuto, che quando ne leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare,
sia pur egli più bello di molti altri che sommamente ci dilettano. Il
formare il gusto, in grandissima parte non è altro che il contrarre
un'opinione. Se il tal gusto, il tal genere ec. è disprezzato, o se tu
in particolare lo disprezzi, quell'opera di quel tal gusto o genere ec. non
piace. Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco che quella stessa opera
ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur sospettavi.
Questo caso è frequentissimo in ogni genere di cose. Pochissimi
trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano, durante l'ultima
metà del secolo passato, e i primi anni di questo. Oggi moltissimi; e
quei medesimi che non vi trovavano alcun diletto, anzi noia ec., oggi se ne
pascono con gran piacere, perchè l'opinione in Italia è cambiata.
Fra questi così cambiati, sono ancor io.
[1321]Potrei condurre questo
discorso a cento altri particolari. Lo stile dei trecentisti ci piace
sommamente perchè sappiamo ch'era proprio di quell'età. Se lo
vediamo fedelissimamente ritratto in uno scrittore moderno, ancorchè non
differisca punto dall'antico, non ci piace, anzi ci disgusta, e ci pare
affettatissimo, perchè sappiamo che non è naturale allo
scrittore, sebben ciò dallo scritto non apparisca per nulla. Questa
è dunque sola opinione; ragionevole bensì, ma dunque il bello non
è assoluto, perchè la stessissima cosa, in diversa circostanza,
ci par bella e brutta, e se noi non sapessimo p.e. la circostanza che quel tale
scrittore sia moderno, quel suo scritto ci piacerebbe moltissimo. Così
dite delle imitazioni le più fedeli nel genere letterario, o nelle arti
ec. ragguagliate cogli originali, ancorchè non ne differiscano d'un
capello, del che ho detto in altro pensiero. Così dite della simmetria
ec. del che v. la p.1259. Così dite degli arcaismi i quali non ci offendono
punto, nè ci producono verun senso di mostruosità in uno
scrittore antico, perchè sappiamo che allora si usavano; e ci fanno
nausea in un moderno, ancorchè di stile tanto simile all'antico, che
quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino dal rimanente nulla più
che negli antichi scrittori.
(14. Luglio 1821.)
[1322]Ho detto altrove che la
grazia deriva bene spesso (e forse sempre) dallo straordinario nel bello, e da
uno straordinario che non distrugga il bello. Ora aggiungo la cagione di questo
effetto. Ed è, non solamente che lo straordinario ci suol dare sorpresa,
e quindi piacere, il che non appartiene al discorso della grazia; ma che ci
dà maggior sorpresa e piacere il veder che quello straordinario non
nuoce al bello, non distrugge il conveniente e il regolare, nel mentre che
è pure straordinario, e per se stesso irregolare; nel mentre che per
essere irregolare e straordinario, dà risalto a quella bellezza e
convenienza: e insomma il vedere una bellezza e una convenienza non ordinaria,
e di cose che non paiono poter convenire; una bellezza e convenienza diversa
dalle altre e comuni. Esempio. Un naso affatto mostruoso, è tanto irregolare,
che distrugge la regola, e quindi la convenienza e la bellezza. Un naso come
quello della Roxolane di Marmontel, è irregolare, e tuttavia non
distrugge il bello nè il conveniente, benchè per se stesso sia
sconveniente; ed ecco la grazia, e gli effetti mirabili di questa grazia, descritti
festivamente da [1323]Marmontel, e soverchianti quelli d'ogni bellezza
perfetta. V. p.1327. fine. Se osserveremo bene in che cosa consista l'eleganza
delle scritture, l'eleganza di una parola, di un modo ec., vedremo ch'ella
sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo straordinario o
nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente dello stile o della
lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso; e ci sorprende che
risaltando, ed essendo non ordinario, o fuor della regola, non disconvenga; e
questa sorpresa cagiona il piacere e il senso dell'eleganza e della grazia
delle scritture. (Qui discorrete degl'idiotismi ec. ec.) Il pellegrino delle
voci o dei modi, se è eccessivamente pellegrino, o eccessivo per
frequenza ec. distrugge l'ordine, la regola, la convenienza, ed è fonte
di bruttezza. Nel caso contrario è fonte di eleganza in modo che se
osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti
secoli, vedrete che l'eleganza loro principalissimamente e generalmente consiste
nel pellegrino dei modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso,
luogo, significazione, nel pellegrino delle metafore ec. Cominciando [1324]dal
primo verso sino all'ultimo potrete far sempre la stessa osservazione.
E ciò è tanto vero, che se
quella cosa pellegrina, p.e. quella voce, frase, metafora, diventa usuale e
comune, non è più elegante. Quanti esempi di fatto si potrebbero
addurre in questo particolare, mediante l'attenta considerazione delle lingue.
Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l'uso di voci o modi
latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non
però eccessivi nè come pellegrini, cioè per la forma
troppo strana ec. ec. nè come troppo frequenti latinismi. Ora infinite
parole latine e modi, de' quali gli antichi scrittori arricchirono la nostra
lingua, introducendo il pellegrino ne' loro scritti, essendo divenuti usuali, e
propri della lingua, o scritta o parlata, non producono più verun senso
di eleganza, benchè sieno della stessa origine, forma, natura di quelle
voci ec. che lo producono oggi. Quanti latinismi di Dante, da che divennero
italianismi, (e lo divennero da gran tempo, e in grandissimo numero) sono buoni
e puri, ma non hanno che far più niente coll'eleganza e grazia.
[1325]Se quella cosa straordinaria
o irregolare nel bello, e dentro i limiti del bello, diventa ordinaria e
regolare, non produce più il senso della grazia. Perduto il senso dello
straordinario si perde quello del grazioso. Una stessa cosa è graziosa
in un tempo o in un luogo, non graziosa in un altro. E ciò può
essere per due cagioni. 1. Se quella tal cosa per alcuni riesce straordinaria
per altri no. Il parlar toscano riesce più grazioso a noi che a'
Toscani. Così le Fiorentinerie giudiziosamente introdotte nelle
scritture ec. Così l'eleganza e la grazia de' Trecentisti la sentiamo
noi molto più che quel tempo che li produceva; molto più di
quegli stessi scrittori, i quali forse non vollero nè cercarono d'esser
graziosi, ma pensarono solo a scrivere come veniva, e a dir quello che
dovevano; nè s'accorsero della loro grazia: e lo stesso dico de'
parlatori di quel tempo. Lo stesso delle pronunzie o dialetti forestieri ec. i
quali riescono graziosi fuor della patria, non già in patria. 2. Se quel
tale straordinario o irregolare ec. ad altri riesce compatibile col conveniente,
col bello ec. ad altri incompatibile, eccessivo, e distruttivo della regola,
del conveniente, del bello ec. Una stessa pronunzia ec. [1326]forestiera,
riesce graziosa in un luogo dove la differenza è leggiera ec. e
sgraziatissima in un altro, dove ella contrasta troppo vivamente e bruscamente
colla pronunzia, coll'assuefazione indigena ec. ec. Così dico
dell'eccesso delle Toscanerie popolari nelle scritture, che a noi riesce
affettato, ec. ec.
Ma anche questo giudizio è soggetto a
variare, e quella stessa pronunzia o dialetto ec. che riusciva insopportabile a
quella tal persona, coll'assuefarvisi ec. arriverà a parergli anche
graziosa. Così dico d'ogni altro genere, e l'esperienza n'è frequente.
Da tutto ciò si deduce ancora che
siccome il senso e l'idea della convenienza, regola, e bellezza è
relativa, così quella della grazia che risulta dall'idea di ciò
ch'è straordinario, irregolare ec. nel conveniente e nel bello ec.,
è interamente relativa. Sicchè il grazioso è relativo
nè più nè meno, come il bello, dalla cui idea dipende ec.
Del resto quello straordinario o irregolare
ec. che non appartiene, ed è al tutto fuori d'ogni sistema d'ordine, di
regola, d'armonia di convenienza, cioè che non è nel bello, non
è punto grazioso, nè spetta al discorso della grazia; come p.e.
un animale straordinario, un fenomeno ec. ec.
(14. Luglio 1821.)
Molte cose si trovano, molte
particolarità nelle forme umane (così dico del resto), che sono
sul confine della grazia e della deformità, o del difettoso, [1327]e
ad altri paiono graziose, ad altri paiono difetti, ad altri piacciono, ad altri
formalmente dispiacciono, o anche arrivano a piacere e dispiacere alla stessa
persona in diverse circostanze. La qualcosa conferma come il grazioso derivi dallo
straordinario, cioè da quello ch'è fuor dell'ordine sino a un
certo punto. Certo è che l'uomo o la donna può fare in modo, che,
s'ella ha difetti anche notabili, anche gravi, quegli stessi le servano a farsi
maggiormente amare, a rendersi piacevole e desiderata, e più delle
altre, appunto nel mentre che si conosce la sua imperfezione. (Questo dico
sì dei difetti fisici come morali ec.) E ciò per mezzo di
giudiziosi contrapposti nella convenienza, garbo, brio del portamento ec. ec.
ec. in maniera che quel difetto venga piuttosto a dare risalto al bello e al conveniente,
che a distruggerlo, ancorchè sia gravissimo. Di ciò son frequenti
gli esempi, e spesso ridicoli ec.
(15. Luglio 1821.)
Alla p.1323. principio. Questo accade ancora
perchè quella tale particolarità di forma descritta da Marmontel,
è bensì fuor dell'uso comune, ma è tuttavia frequente a
vedersi, il che produce l'assuefazione; e questa fa che quella tal forma non si
giudichi difettosa più che tanto, nè sembri irregolare e
sconveniente in modo che distrugga la convenienza, la regola, l'armonia ed il
bello delle [1328]altre parti. Se quello stesso
difettuzzo, senza esser niente maggiore in se stesso, fosse unico o straordinarissimo,
non sarebbe mai cagione di grazia. Dallo straordinario sibbene; ma dall'unico o
straordinarissimo, non nasce mai grazia, ma deformità; perchè lo
straordinario è allora eccessivo, non in quanto alla sua propria natura
e forma, ma in quanto straordinario, cioè fuori dell'assuefazione
affatto ec. ec. il che fa che contrastando eccessivamente coll'assuefazione, distrugga
l'idea della convenienza, idea che dipende dall'assuefazione ec. Se quella tale
particolarità riuscirà nuovissima ed unica ad una persona,
ancorch'ella sia frequente, questa persona concepirà il senso della
deformità (v. p.1186. marg.), mentre gli altri potranno concepir quello
della grazia. E lo concepirà poi anche questa persona, assuefacendosi a
quel soggetto, o a quella stessa particolarità in altri soggetti. E
ciò gli potrà accadere ancora quando quel difetto sia realmente
grave.
(15. Luglio 1821.)
L'azione viva e straordinaria, è
sempre, o bene spesso, cagione d'allegria, purchè non abbatta il corpo.
(15. Luglio 1821.)
[1329]Perocchè l'arte
militare fu coltivata in Italia prima che altrove, o più che altrove nel
principio (come quasi tutte le discipline), perciò quest'arte conserva
presso i forestieri e nelle lingue loro, molte parole o termini italiani,
cioè venuti dall'italiano, e applicati a quell'arte o scienza in Italia,
e da' nostri scrittori. V. la lettera del Lancetti al Monti nella Proposta ec.
vol.2. par.1. nell'appendice.
(15. Luglio 1821.)
Si suol dire; se il tale incomodo ec. ec.
fosse durevole, non sarebbe sopportabile. Anzi si sopporterebbe molto meglio,
mediante l'assuefazione e il tempo. All'opposto diciamo frequentemente; il tal
piacere ec. sarebbe stato grandissimo, se avesse durato. Anzi durando, non
sarebbe stato più piacere.
(15 Luglio 1821.)
Non è mai sgraziato un fanciullino
che si vergogna, e parlando arrossisce, e non sa stare nè operare
nè discorrere in presenza altrui. Bensì un giovane poco pratico
del buon tratto, e desideroso di esserlo, o di comparirlo. Non è mai
sgraziata una pastorella che non sa levar gli occhi, trovandosi fra persone
nuove, nè ha la maniera di contenersi, [1330]di portarsi ec. Bensì
una donna, egualmente o anche meno timida, e più istruita, ma che
volendo figurare, o essere come le altre in una conversazione, non sappia
esserlo o non abbia ancora imparato. Così lo sgraziato non deriva mai
dalla natura (anzi le dette qualità naturali, sono graziose sempre ec.
ec.), ma bensì frequentemente dall'arte, e questa non è mai fonte
di grazia nè di convenienza, se non quando ha ricondotto l'uomo alla
natura, o all'imitazione di essa, cioè alla disinvoltura,
all'inaffettato, alla naturalezza ec. E l'andamento necessario dell'arte,
è quasi sempre questo. Farci disimparare quello che già sapevamo
senza fatica, e toglierci quelle qualità che possedevamo naturalmente.
Poi con grande stento, esercizio, tempo, tornarci a insegnare le stesse cose, e
restituirci le stesse qualità, o poco differenti. Giacchè quella
modestia, quella timidezza, quella vergogna naturale ec. si trova bene spesso
in molti, non più naturale, chè l'hanno perduta, ma artifiziale,
chè mediante l'arte appoco appoco e stentatamente l'hanno ricuperata.
(15. Luglio 1821.)
Ho detto altrove che nell'antico sistema
delle nazioni la vitalità era molto maggiore e la mortalità
minore che nel moderno. Non intendo con [1331]ciò di fondarmi
principalmente sopra la maggior durata possibile della vita umana in quei tempi
che adesso. Le storie provano che fra la più lunga vita degli antichi e
la più lunga de' moderni (almeno fin da quei tempi de' quali si hanno
notizie precise) non v'è divario, o poco; e smentiscono in questo i
sogni di alcuni. Ed è ben simile al vero che la natura abbia stabilito
appresso a poco i confini possibili della vita umana, oltre a' quali non si
possa per nessuna cagione passare, come gli ha stabiliti agli altri animali,
nella cui longevità presente non credo che si trovi differenza coi tempi
antichi. Almeno ciò si può dire in ordine a quel sistema terrestre,
a quell'epoca del globo terraqueo che ci è nota; potendo però il
detto sistema avere avuto altre epoche e grandi rivoluzioni. Ed anche ci
può essere (o esserci stata) qualche razza umana più longeva o
meno, come vediamo differenze notabili di longevità nelle razze p.e. de'
cavalli.
Ma io suppongo, e bisogna generalmente
supporre, che l'antichità nota a noi non potesse viver più
di quello che si possa vivere oggidì. La maggior vitalità del tempo
antico, non è quanto alla potenza, ma quanto all'effetto, vale a dire,
la realizzazione della potenza. [1332]Vale a dire che, non potendo gli
antichi vivere più lungamente di quello che possano i moderni, vivevano
però, generalmente parlando, più di quello che i moderni vivano,
cioè si accostavano più di loro ai confini stabiliti dalla
natura, secondo le differenze proporzionate delle complessioni, delle
circostanze ec.; le morti naturali immature erano più rare, o meno
immature (e le non naturali se anche erano più frequenti
d'oggidì, non bastavano in nessun modo a pareggiar le partite);
conservavano il vigore, la sanità, ec. ec. in età dove oggi non
si conservano; in ciascheduna età erano proporzionatamente più
gagliardi, più sani, insomma più pieni di vitalità che i
moderni, e meglio adattati alle funzioni del corpo, e più potenti
fisicamente; le malattie erano meno numerose, sì ne' loro generi, come individualmente;
meno violente ec. o più curabili per rispetto al malato ec. ec. ec.
Sicchè la somma della vita era maggiore nel tempo antico, quantunque
nessuno in particolare potesse vivere più lungamente di quello che possa
viversi oggidì, e che taluni vivano.
(16. Luglio 1821.)
Altra gran fonte della ricchezza e
varietà [1333]della lingua italiana, si è quella sua
immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme,
costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante detta
variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano
affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che
serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata.
Non considero qui l'immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi
essenziale della lingua italiana (di cui non la potremmo spogliare senz'affatto
travisarla), e naturale a spiriti così vivaci ed immaginosi come i nostri
nazionali. Parlo solamente del potere usare p.e. uno stesso verbo in senso
attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo
coll'articolo o senza; con uno o più nomi alla volta, e anche con
diversi casi in uno stesso luogo; con uno o più infiniti di altri verbi,
governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, o
liberi da ogni preposizione o segnacaso; co' gerundi; con questo o
quell'avverbio, o particella (che, se, quanto ec.); e così discorrendo.
Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza
che nasce dalla novità ec. e dall'inusitato, e in somma alla bellezza
del discorso, [1334]ma anche sommamente all'utilità,
moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a
distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la significazione,
e modificarla; potendo l'italiano esprimere facilissimamente e chiaramente,
mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate
secondo il preciso gusto della lingua ec. Questa facoltà l'hanno e
l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria,
ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse e senza forse nè
alla greca nè alla latina, e vince tutte le moderne. E l'è tanto
propria una decisa singolarità e preminenza in questa facoltà,
che forma uno de' principali ed essenziali caratteri della lingua italiana
formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo spogliarla di questo
suo carattere proprissimo, e dell'utilità che ne risulta? Come vorremo
negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a servirsene? Se
essa fu data alla lingua da' suoi fondatori e formatori ec. E se del tal uso
della tal parola non si troverà esempio nel Vocabolario, dovrà
condannarsi, quantunque si abbiano mille esempi perfettamente simili e della
stessa natura in altre parole, e quantunque il detto uso sia perfettamente d'accordo
colla detta facoltà della lingua, e colla sua indole? Perchè una
lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole in lei [1335]sono
proprietà vive e feconde, e conservare solamente il materiale delle
parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà sterili,
e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta
pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non
coll'orecchio nè coll'indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a
dire non coll'orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del
caso. Giacchè gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no
tale o tal voce in tale o tal modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o
no registrata e avvertita da' Vocabolaristi. Ma non è caso ch'essi
abbiano data o non data alla lingua la facoltà di usarla ec. e che
quella voce, forma ec. convenga o non convenga colle proprietà della
lingua da loro formata, e col suo costume. ec. E questo non si può
giudicare col Vocabolario, ma coll'orecchio formato dalla lunga ed assidua
lettura e studio non del Vocabolario ma de' Classici, e pieno e pratico, e
fedele interprete e testimonio dell'indole della lingua, sola solissima norma
per giudicare di una voce o modo dal lato della purità e del poterlo
usare ec. E questa fu l'unica guida di tutti quanti i Classici scrittori [1336]sì
di tutte le lingue, come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che
effetto sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e
quanto egli abbia giovato alla conservazione della purità della favella,
a cui pare che dovesse principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol.
della Proposta.
Io qui non intendo solamente difendere i
nuovi usi delle parole (nel rispetto soprannotato) che si fa per sola
utilità, ma quello pure che si fa per mera eleganza, senza
necessità veruna, ma serve colla sua novità, a dare alla
locuzione ec. ec. quell'aria di pellegrino, e quel non so che di temperatamente
inusitato, e diviso dall'ordinario costume, da cui deriva l'eleganza ec.
(17. Luglio 1821.)
In proposito e in prova di quanto ho detto
p.1322.-28. che la grazia deriva dallo straordinario medesimo, che quando
è troppo, per un verso o per un altro, cagiona l'effetto opposto;
osservate che l'inusitato nelle scritture nella lingua, nello stile, è
fonte principalissima di affettazione di sconvenienza, di barbarie, d'ineleganza,
e di bruttezza; e l'inusitato è pur l'unica fonte dell'eleganza.
V. il Monti Proposta ec. vol.1. par.1. Append. p.215. sotto il mezzo [1337]-
seg. e la p.1312. capoverso ult.
(17. Luglio 1821.)
Alla p.1312. marg. Per l'indeterminato
può servir di esempio Virg. En. 1.465. Sunt lacrimae rerum: et mentem
mortalia tangunt. Quanto all'irregolare, abbiamo veduto p.1322-28. e nel
pensiero superiore, che l'eleganza propriamente detta deriva sempre dal pellegrino
e diviso dal comun favellare, il che per un verso o per un altro è
sempre qualcosa d'irregolare, sia perchè quella parola è
forestiera, e quindi è, non dirò contro le regole, ma irregolare,
o fuor delle regole l'usarla; sia perchè quel modo è nuovamente
fabbricato comunque si voglia ec. Ed osservate che, escluso sempre l'eccesso,
il quale produce il contrario dell'eleganza, dentro i limiti di quella
irregolarità che può essere elegante, la eleganza maggiore o
minore, è bene spesso e si sente, in proporzione della maggiore o minore
irregolarità. Ciò non solo quanto alla lingua, ma allo stile ec.
Nell'ordine non v'è mai eleganza propriamente detta. Vi sarà
armonia, simmetria ec. ma l'eleganza nel puro e rigoroso ordine non può
stare. Nè vi può star la natura, ma la ragione, che l'ordine
è sempre segno di ragione in qualunque cosa.
(17. Luglio 1821.)
[1338]Alla p.1113. mezzo. Habitare
che nel suo significato metaforico, (divenuto da gran tempo proprio) di abitare
(notate che si usa spesso attivamente coll'accusativo e passivamente) è
manifestamente continuativo e non frequentativo, viene da habitus di habere.
V. il Forcellini.
(17. Luglio 1821.)
Perchè la medicina ha fatto da
Ippocrate in qua meno progressi, e sofferto meno cangiamenti essenziali che,
possiamo dire, qualunque altra scienza, in pari spazio di tempo; e quindi
conservasi forse più vicina di ogni altra alla condizione e misura ec.
in cui venne dalla Grecia; perciò quella parte della sua nomenclatura
che si compone di vocaboli greci, è forse maggiore che in qualsivoglia
altra scienza o disciplina, ragguagliatamente e proporzionatamente parlando.
Non dico niente della Rettorica ec.
(17. Luglio 1821.). V. p.1403.
Gli Ebrei pongono o suppongono uno sceva
semplice (cioè una e muta che non fa sillaba) espresso o
sottinteso sotto, cioè dopo, tutte le consonanti che non hanno altra
vocale, sia nel principio, nel mezzo o nel fine delle voci. Ragionevolmente
perchè i nostri organi cadono naturalmente in una leggerissima e,
non solo pronunziando una consonante isolata, o una parola terminata per
consonante, e non seguita [1339]subito da parola cominciante per vocale,
ec. ma anche nel pronunziare due o più consonanti di seguito in una
stessa parola, come TRAvaglio ec. quella o quelle consonanti che non
hanno altra vocale, s'appoggiano insensibilmente in una e tenuissima; e
non possono mai nudamente e puramente addossarsi alla consonante che segue.
Eccetto quando quelle due o più consonanti fanno un tal suono che
benchè rappresentato con più caratteri, è però
effettivamente uno solo, ed equivale ad una sola lettera; (lettera non
rappresentata nell'alfabeto distintamente; e ve ne sono parecchie; del che v.
gli altri pensieri sulla ricchezza dell'alfabeto naturale pronunziato) come le
consonanti doppie (tuTTo), come nella suddetta voce travaglio, le
consonanti g ed l ec. Non così nell'x benchè
rappresentato con un solo carattere. ec.
(17. Luglio 1821.)
Alla p.1257. Insomma questa idea
benchè entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune
di tutte le idee, cioè dell'esperienza che deriva dalle nostre sensazioni,
e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e impressaci
dalla natura nella mente avanti l'esperienza, il che non è più
bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca provare si è, che
queste sensazioni, sole nostre maestre, c'insegnano che le cose stanno
così, perchè così stanno, e [1340]non perchè
così debbano assolutamente stare, cioè perch'esista un bello e un
buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo
deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della
quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò
che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perchè tutto ci
è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo
di essere ec. e perchè nessuna cognizione o idea ci deriva da un
principio anteriore all'esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione
delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza,
perfezione assoluta, e de' loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec. la
quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei
soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria,
primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro. Or
dov'esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo
noi conoscere o sapere, se ogn'idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli
oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle
idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte,
giacchè tolte queste, non v'è altra possibile [1341]ragione
per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere
così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da
ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in
realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente
relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto,
falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro
è relativa, se così posso dire, assolutamente.
(17. Luglio 1821.)
In somma il principio delle cose, e di Dio
stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente
necessaria, cioè non v'è ragione assoluta perch'ella non possa
non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili,
cioè non v'è ragione assoluta perchè una cosa qualunque,
non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v'è divario
alcuno assoluto fra tutte le possibilità, nè differenza assoluta
fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale
principio delle cose, o non esiste, nè mai fu, o se esiste o
esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè
potendo avere il menomo [1342]dato per giudicare delle cose avanti le
cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il
naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo
principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo
perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel
tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste
perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale
a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di
esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono
perfezioni assolutamente, ma relativamente: nè sono perfezioni in se
stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a' quali appartengono, e relativamente
alla loro natura, fine ec. nè sono perfezioni maggiori o minori di
qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l'idea di un ente assolutamente
perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono
anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la
necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente
da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo
è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è
distrutto Iddio.
(18. Luglio 1821.)
Il nostro gli, il nostro gn, e
simili suoni, sono distinti da tutti gli altri, e volendo esattamente
rappresentarli converrebbe farlo con caratteri particolari e distinti. Giacchè
il gli, benchè partecipi del suono di g e di l ne
partecipa come [1343]suono affine, alla maniera di tanti altri, che pur
si distinguono da' loro affini, con caratteri propri; ma in realtà non
è nè g, nè l, e non contiene precisamente
nessuno dei due, ed è una consonante distinta, ed unica, quando anche si
voglia chiamare composta, come la z. La quale sarebbe male espressa con ts
o ds ec. Così la f è differente dal p,
quantunque sia composta di questo suono, e di un'aspirazione o soffio, e i
greci anticamente l'esprimessero col carattere del p, e con quello
dell'aspirazione cioè H. Quel suono che contiene veramente il g e
la l, è quello della nostra parola Inglese, o del francese
aigle, anzi generalmente del francese gl, ben diverso dal nostro gli.
Tuttavia si può lodare, l'avere (per maggior semplicità
dell'alfabeto) rappresentato questo suono, co' due caratteri, del suono de'
quali partecipa; il che dimostra la sottigliezza con cui s'è analizzata
la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni che non equivalgono precisamente
a verun altro. Questa lode però spetta particolarmente alla lingua
italiana, giacchè i francesi esprimono il detto suono con due ll,
e così gli spagnuoli. Carattere insufficiente, e male appropriato, e che
dimostra minor sottigliezza di analisi. V. p.1345. capoverso 2. Nel qual
proposito mi piace di riferire quello che dice M. Beauzée (Encycl. méthod. in
H.), parlando di un altro carattere, cioè dell'h. Il semble qu'il auroit été plus raisonnable de supprimer
de [1344]notre orthographe tout caractere muet: et celle des Italiens doit
par-là meme arriver plutôt que la nôtre à son point de
perfection, parce qu 'ils ont la liberté de supprimer les H muetes. La mia osservazione ancora può molto
servire a mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il suo sistema sia
più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse
qualunque altro. Puoi vedere la p.1339. (17. Luglio 1821.). Il gl, il gn
ec. hanno parte di g e parte di l, ec. ma non contengono queste
due lettere intere, e non sono nè l'una nè l'altra. Sono dunque
vere lettere proprie, e non doppie, perchè non è doppio quello
che ha due metà. Così dico della z. Non così l'x,
che contiene due lettere intere, e non è che una cifra, ossia un carattere
(e non lettera) doppio.
Alla p.1246. marg. Ho detto altrove che la
lingua francese è universale, anche perchè lo scritto differisce
poco dal parlato, a differenza dell'italiano. Questo non si oppone alle
presenti osservazioni: 1. perchè ciò s'intende, ed è vero,
massimamente nel gusto, nella costruzione nella forma, e nel corpo intero della
lingua e dello stile francese scritto, che pochissimo varia dal parlato: ma non
s'intende delle particolari parole e locuzioni e costruzioni volgari. 2.
perchè la lingua francese polita differisce dalla popolare assai meno
dell'italiana. E ciò, primo, per le circostanze politiche e sociali ec.
diverse assai nell'una nazione rispetto all'altra: secondo, [1345]perchè
la lingua italiana essendo divisa in tanti dialetti popolari, ha un dialetto comune
e polito necessariamente diviso assai da tutte le favelle popolari; dico un
dialetto comune, non solo scritto, ma parlato da tutte le colte persone
d'Italia, in ogni circostanza conveniente ec. Ora la singolarità della
lingua italiana scritta consiste appunto nell'aver preso più di
qualunque altra, dalla favella popolare sì divisa dalla colta, e massime
da un particolare dialetto vernacolo, ch'è il toscano; e nell'aver
saputo servirsene, e nobilitare, e accomodare alla letteratura quanto n'ha
preso. Ma la lingua francese scritta, poco si differenzia da quella della
conversazione ec.: dove però questa si differenzia da quella del volgo,
quella del volgo non influisce e non somministra nulla alla lingua letterata
francese. 3. Ho già detto che da principio, cioè quando la lingua
italiana scritta seguiva principalmente questo costume di attingere dalla
favella popolare, costume che ora ha quasi, e malamente, abbandonato, allora
anch'ella era effettivamente assai simile alla parlata. ec. Anche ora ella si
accosta al [1346]parlar polito, e vi si accosta più di quello che
mai facesse il latino scritto ec. ma non si accosta al parlar popolare, che
tanto fra noi differisce dal polito.
(19. Luglio 1821.)
Molte qualità che ad altri riescono
dispettose e sguaiate, ad altri riescono graziose. Come il parlar flemmatico
degli uomini, piace spesso alle donne, a noi pare accidioso. Viceversa
accadrà circa il parlar delle donne. Così certe pronunzie o
dialetti languidi, cascanti, strascinati, delicati, smorfiosi, come fra noi il
maceratese ec.
(19. Luglio 1821.)
Alla p.1343. marg. Anche questo però
serve a dimostrare che il detto suono, non è quello di g ed l:
il quale è rappresentato appunto da' francesi ec. con gl, ed
anche da noi, come ho detto. Del resto il suono del nostro gli e dell'ill
francese, ed ll spagnuolo, mancava alla lingua latina ed alla greca, le
quali però aveano il suono del gl come in Aegle (Virg.
Ecl. 6. 20-21.), ec.
(19. Luglio 1821.)
Dalle lettere consonanti che cadono
necessariamente in e, bisogna eccettuare il nostro c e g
chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali [1347]lettere non si
possono pronunziare se non cogli organi, vale a dire la lingua, il palato, e i
denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo della parola e in
qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e
ciò perchè l'i è la vocale più esile e
stretta. Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e
(quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i suoni loro analoghi si
pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o insomma senz'altro appoggio di
vocale. Così accade anche ai suoni che partecipano dei sopraddetti, come
gli (che noi non iscriviamo mai senza l'i, o lo pronunziamo in
altro modo) e gn. V. p.1363. Del resto il nostro c e g
chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e, quantunque questa insieme
coll'i sia la sola vocale a cui la preponiamo. Ciò per altro
nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un i anche al c
ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche nella
scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha escluso
l'i.
(19. Luglio 1821.)
Io non avendo mai letto scrittori
metafisici, e occupandomi di tutt'altri studi, e null'avendo imparato di queste
materie alle scuole (che non ho mai vedute), aveva già ritrovata la
falsità delle idee innate, indovinato l'Ottimismo [1348]del Leibnizio,
e scoperto il principio, che tutto il progresso delle cognizioni consiste in concepire
che un'idea ne contiene un'altra; il quale è la somma della tutta nuova
scienza ideologica. Or come ho potuto io povero ingegno, senza verun soccorso,
e con poche riflessioni, trovar da me solo queste profondissime, e quasi ultime
verità, che ignorate per 60 secoli, hanno poi mutato faccia alla
metafisica, e quasi al sapere umano? Com'è possibile che di tanti sommi
geni, in tutto il detto tempo, nessuno abbia saputo veder quello, ch'io piccolo
spirito, ho veduto da me, ed anche con minori cognizioni in queste materie, di
quelle che molti di essi avranno avuto?
Non è dunque vero in se stesso, che
lo spirito umano progredisce, graduatamente, e giovandosi principalmente dei
lumi proccuratigli dal tempo, e delle verità già scoperte da
altri, e deducendone nuove conseguenze, e seguitando la fabbrica già
cominciata, e adoprando i materiali già preparati.
Se noi potessimo interrogare i sommi
scopritori delle più sublimi, profonde ed estese [1349]verità,
sapremmo quante poche di queste scoperte si debbano ai lumi somministrati dalle
età precedenti; quanti di detti geni, per l'ordinario intolleranti degli
studi, abbiano ignorate le verità già scoperte ec.; quanti
abbiano ritrovate le grandi verità che hanno manifestate al mondo, non
prevalendosi delle cognizioni altrui, ma da loro stessi, e in seguito de' soli
loro pensieri; e piuttosto dopo ritrovate, si siano accorti ch'elle erano conseguenze
delle già conosciute, di quello che ne le abbiano dedotte, e se ne sieno
serviti, quantunque dopo trovate, ne abbiano considerati e mostrati i rapporti
ec. ec. ec. Esempio di Pascal ec. Bacone aveva già scoperto tante
verità che fanno stupire i moderni più profondi e illuminati. Ora
egli scriveva nel tempo del rinascimento della filosofia, anzi era quasi il
primo filosofo moderno: e quindi il primo vide assai più che non saprebbero
vedere infiniti suoi successori, con tutti i lumi in seguito acquistati.
Qual è dunque la ragione per cui lo
spirito umano, ha trovate ne' due ultimi secoli, tante verità
profondissime, tanto ignote a tutti i passati? Dico la ragione principale,
giacchè quella che ho detta, benchè certo sia una ragione, non
è però principale, o certo non è universale. Ora
trattandosi che fra tanti sommi spiriti antichi nessuno si è pure
accostato alle verità, che molti e certo parecchi moderni hanno
scoperto, o del tutto o massimamente da [1350]loro, bisogna trovarne
delle ragioni universali, cioè intere, e necessarie, e che spieghino
tutto l'effetto. Io penso che sieno queste.
1. La differenza delle lingue, e la maggiore
o minor copia de' termini, maggiore o minor precisione e
universalità loro, e certezza di significato e stabilità. V. Sulzer,
negli Opuscoli interessanti di Milano, vol.4. p.65-70. 79-80. La maggiore o
minor copia di parole esprimenti idee chiare ec. v. ib. p.53-54. Una delle
grandi ragioni per cui i greci negli studi astratti e profondi (sì
filosofici che gramatici ec. ec. ec.) come in ogni altro genere di cognizioni
andarono avanti a tutti gli antichi, ai latini ec. io credo certo che sia la
gran facilità che aveva la loro lingua ad esprimere, ed esprimere
precisamente le nuove cose, le nuove e particolari idee di ciascuno.
Facilità che si sperimenta anche oggi nell'attingere da quella lingua a
preferenza di ogni altra i nomi delle nuove o più precise e sottili cose
ed idee, e le intere nomenclature ec.
Per questa parte il tempo ha giovato certo
alla scoperta delle nuove verità, perchè le cognizioni
influiscono sulla lingua, come questa su [1351]quella. Ma ha giovato
mediatamente, e io vengo a dire, che i moderni inventori non si sono tanto
giovati immediatamente delle cognizioni già preparate, quanto di quella
lingua che avevano, la quale a differenza delle antiche, era sufficiente a
fissare e determinare nella loro mente le idee nuove che concepivano, a
dichiararle, cioè renderle chiare, costanti e non isfuggevoli ad essi
stessi ec. ec.
2. Le nuove nazioni che si son date al
pensiero. L'antica coltura fu tutta meridionale. Il settentrione anticamente
non sapeva ancora pensare, o non aveva tempo nè comodo, o se pensava,
non iscriveva nè comunicava, nè stabiliva e determinava i pensieri
colla scrittura. Il settentrione, l'Inghilterra, la Germania, patria del
pensiero (Staël), è nuovo e moderno in quella filosofia ch'è
pur fatta per lui. Nuovo e moderno perchè quella stessa natura che lo
rende sì proprio alle nozioni astratte, lo rende più difficile e
tardo alla civiltà. E per se stessa l'allontana tanto dalla filosofia,
quanto poi ve lo conduce coll'ajuto della coltura. [1352]Ma appena si
diede alla filosofia, vi fece tali progressi, quali il mezzogiorno in tanta
maggior luce di civiltà e di letteratura, non sognava ancora di fare.
Bacone detto di sopra era inglese. Leibnizio tedesco. Newton, Locke ec. La
Germania elevata assai dopo l'Inghilterra, cioè dopo Federico II ad una
universale e stabile letteratura, è divenuta in un momento la sede della
filosofia astratta, ec.
3. E questa è la ragione principale.
Differenza naturale d'ingegno fra gli antichi e i moderni è assurdo il
supporlo. Ma ben è certissimo che le circostanze modificano gl'ingegni
in maniera che li fanno sembrare di diversa natura. Or quanto le moderne
circostanze degli uomini, sì fisiche, che morali, politiche ec.
favoriscano la riflessione e la ragione, e quanto le antiche circostanze
giovando sommamente e promovendo l'immaginazione, sfavorissero la profonda
riflessione, l'ho già spiegato molte volte. Laonde io dico che un uomo
di genio il quale venti o più secoli fa si fosse trovato nelle circostanze
in cui si trova oggi il particolare, non ostante la differenza dei lumi, e il
minor numero delle cognizioni, avrebbe [1353]potuto arrivare da se
stesso appresso a poco a quel punto a cui sono arrivati i moderni filosofi e
metafisici sommi, o se non altro accostarsi moltissimo a quelle verità
che gli antichi o non hanno pur travedute, o per difetto della lingua ec. non
hanno potuto determinare, nè comunicare altrui, nè fissare nella
stessa lor mente. Ma un tal uomo in tali circostanze, si sarebbe probabilmente
formata anche una lingua sufficiente. ec. Questo è confermato dal vedere
1. che tra gli antichi, in piccole differenze di tempi e di lumi, si trovano
grandissime differenze di pensare e di filosofia, secondo le diverse circostanze.
Quanto è distante Tacito da Livio? Appena un secolo. Morì Livio
l'anno 17. nacque Tacito secondo il Lipsio (Vit. Taciti) verso il 54. di Cristo,
cioè 37 anni dopo. Quanto progresso potevano aver fatto le cognizioni universali
ec. e lo spirito umano generalmente, in sì poco tempo? Eppure qual
differenza di profondità. Anzi si può dire che Livio è il
tipo del genere storico antico, Tacito del moderno. 2. che tra i moderni si
trovano pure le stesse differenze in un medesimo tempo ec. per diverse circostanze
di vita. Chi non sa che l'uomo, e l'ingegno, e i parti e i frutti dell'ingegno,
tutto è opera delle circostanze?
[1354]Da queste osservazioni deducete
che siccome le circostanze presenti sì favorevoli alla riflessione, e
alla investigazione degli astratti, non sono naturali, così la natura
aveva ben provveduto anche allo stato sociale dell'uomo, anche a quelle
verità che dovevano giovare a questo stato, e servirgli di base;
verità ben note agli antichi, tanto meno profondi di noi. Che giovano
finalmente le verità astratte, quando anche in un eccesso di metafisica,
la mente umana non si smarrisse? Quanto erano più utili quelle
verità che io stabiliva circa la politica ec. di queste più
metafisiche, alle quali ora mi porta l'avanzamento, e il naturale andamento e
assottigliamento successivo del mio intelletto! Così che si può
dire che la filosofia (intendendo la morale ch'è la più, e forse
la sola utile) era, quanto all'utilità, già perfetta al tempo di
Socrate che fu il primo filosofo delle nazioni ben conosciute; o vogliamo dire
al tempo di Salomone. Ed ora benchè tanto avanzata, non è
più perfetta, anzi meno, perchè soverchia, e quindi corrotta anch'essa,
corrotta anche la ragione, come la civiltà e la natura. [1355]Corrotta,
dico, per eccesso, come queste ec. Giacchè la perfezione o imperfezione
e corruzione, si deve misurare dal fine di ciascheduna cosa, e non già
assolutamente.
(20. Luglio 1821.)
Una cosa è tanto più perfetta
quanto le sue qualità sono meglio ordinate al suo fine. Questa
perfezione evidentemente relativa, si può misurare, e paragonare anche
con perfezioni d'altri generi. Ma la maggiore o minor perfezione dei diversi
fini come si può misurare? come si possono comparare i diversi fini? Che
ragione assoluta, che norma comparativa esiste indipendentemente da
checchessia, per giudicare questo fine più perfetto o migliore di
quello, fuori di un medesimo sistema di fini? (Giacchè dentro un
medesimo sistema, i fini subalterni si possono paragonare: non sono però
veramente fini, ma mezzi, e parti, e qualità anch'essi del sistema.)
Come dunque si può assolutamente giudicare della maggiore o minor
perfezione astratta delle cose? E come può sussistere un bene o un male
assoluto, una bontà o bellezza assoluta, o i loro contrari?
(20. Luglio 1821.)
[1356]Un viso bellissimo, il quale
abbia qualche somiglianza con una fisonomia di nostro controgenio, o che abbia
l'idea, l'aria di un'altra fisonomia brutta ec. ec. non ci par bello.
(20. Luglio 1821.)
È cosa già nota che la
letteratura e poesia vanno a ritroso delle scienze. Quelle ridotte ad arte
isteriliscono, queste prosperano; quelle giunte a un certo segno, decadono,
queste più s'avanzano, più crescono; quelle sono sempre
più grandi più belle più maravigliose presso gli antichi,
queste presso i moderni; quelle più s'allontanano dai loro principii,
più deteriorano, finchè si corrompono, queste più son
vicine ai loro principii più sono imperfette, deboli, povere, e spesso
stolte. La cagione è che il principal fondamento di quelle è la
natura, la quale non si perfeziona (fuorchè ad un certo punto) ma si
corrompe; di queste la ragione la quale ha bisogno del tempo per crescere, ed
avanza in proporzione de' secoli, e dell'esperienza. La qual esperienza
è maestra della ragione, nutrice, educatrice della ragione, e omicida
della natura. Così dunque accade rispetto alle lingue. [1357]Quelle
qualità loro che giovano per l'una parte alla ragione, e per l'altra da
lei dipendono, si accrescono e perfezionano col tempo; quelle che dipendono
dalla natura, decadono, si corrompono, e si perdono. Quindi le lingue guadagnano
in precisione, allontanandosi dal primitivo, guadagnano in chiarezza, ordine,
regola ec. Ma in efficacia, varietà ec. e in tutto ciò
ch'è bellezza, perdono sempre quanto più s'allontanano, da quello
stato che costituisce la loro primitiva forma. La combinazione della ragione colla
natura accade quando elle sono applicate alla letteratura. Allora l'arte
corregge la rozzezza della natura, e la natura la secchezza dell'arte. Allora
le lingue sono in uno stato di perfezione relativa. Ma qui non si fermano. La ragione
avanza, e avanzando la ragione, la natura retrocede. L'arte non è
più contrabbilanciata. La precisione predomina, la bellezza soccombe.
Ecco la lingua che avendo perduto il suo primitivo stato di natura, e l'altro
più perfetto di natura regolata, o vogliamo dire formata, cade [1358]nello
stato geometrico, nello stato di secchezza, e di bruttezza. (La lingua francese
nella sua formazione, si accostò fin d'allora, per le circostanze del
tempo, a quest'ultimo stato, perchè prevalse in essa la ragione, e l'equilibrio
fra l'arte e la natura, nella lingua francese non vi fu mai, o non mai perfetto.)
I filosofi chiamano questo stato, stato di perfezione, i letterati, stato di
corruzione.
Nessuno ha torto. Quelli che hanno a cuore
la bellezza di una lingua, hanno ragione di essere malcontenti del suo stato
moderno, e saviamente la richiamano a' suoi principii; voglio dire al tempo
della sua formazione, e non più là, che questo pazzamente si
pretende, e volendo rigenerare la lingua, anche quanto alla bellezza, si fa
l'opposto, perchè si caccia da un estremo ad un altro: e negli estremi
la bellezza non può stare, bensì nel mezzo, e in quel punto in
cui ella è formata e perfezionata. Quelli a' quali preme che la lingua
serva agl'incrementi della ragione, raccomandano la precisione, promuovono la
ricchezza de' termini, fuggono e scartano le voci e frasi ec. che sono
belle ed eleganti con danno della sicurezza [1359]e chiarezza e
facilità ec. della espressione; ed odiano l'antica forma, insufficiente
e dannosa allo stabilimento e comunicazione delle profonde e sottili
verità.
Come dunque faremo? L'andamento delle cose
umane, è questo; questo l'andamento delle lingue. La perfezione filosofica
di una lingua può sempre crescere; la perfezione letterata, dopo il
punto che ho detto, non può crescere (eccetto ne' particolari) anzi non
può se non guastarsi e perdersi. Tutti due hanno ragione, e grandissima.
Converrebbe accordarli insieme. La cosa è difficile, ma non impossibile.
Una lingua, massime come la nostra (non così la francese), può conservare
o ripigliare le antiche qualità, ed assumere le moderne. Se gli
scrittori saranno savi, ed avranno vero giudizio, il mezzo di concordia
è questo.
Dividersi perpetuamente i letterati e i
poeti, da' filosofi. L'odierna filosofia che riduce la metafisica, la morale
ec. a forma e condizione quasi matematica, non è più compatibile
con la letteratura e la poesia, com'era compatibile quella de' tempi ne' quali
fu formata la lingua nostra, la latina, la greca. (Ho già detto che la
francese non ha vera letteratura nè poesia, eccetto quella letteratura
epigrammatica e di conversazione, ch'è loro propria, e dove riescono
assai bene; che il resto è piuttosto filosofia che letteratura.) La
filosofia di Socrate poteva e potrà sempre [1360]non solo
comparire, ma infinitamente servire alla letteratura e poesia, e gioverà
pur sempre agli uomini più dell'odierna (v. p.1354.), dalla quale non
negherò che non possa ricevere qualche miglioramento, quasi accessorio,
o quasi rifiorimento. Ma la filosofia di Locke, di Leibnizio ec. non
potrà mai stare colla letteratura nè colla vera poesia. La filosofia
di Socrate partecipava assai della natura, ma questa nulla ne partecipa, ed
è tutta ragione. Perciò nè essa nè la sua lingua
è compatibile colla letteratura, a differenza della filosofia di Socrate,
e della di lei lingua. La qual filosofia è tale che tutti gli uomini un
poco savi ne hanno sempre partecipato più o meno in tutti i tempi e
nazioni, anche avanti Socrate. È una filosofia poco lontana da quello
che la natura stessa insegna all'uomo sociale. Si dividano dunque le lingue, e
la nostra che tante ne contiene, e così diverse anche dentro uno stesso
genere, potrà ben contenere allo stesso tempo una lingua bella, e una
lingua filosofica. Ed allora avrà una filosofia, e seguirà ad
avere quella poesia, e quella letteratura nella quale ha sempre superato tutte
le moderne.
Conosco bene che l'età del vero non
è quella del bello: e che un secolo o un terreno fecondo di grandi
intelletti, difficilmente sarà fecondo di grandi immaginazioni e
sensibilità, perchè gl'ingegni degli uomini si modificano secondo
le circostanze. In tal caso sarà sempre costante che siccome questa
è l'età del vero, bisogna che la lingua nostra assuma le
qualità che servono al vero, e ch'ella non ebbe mai. Quando però
l'Italia, terra del bello e del grande, possa pur continuare [1361]a
produrre ingegni atti alla letteratura e alla poesia, l'unico mezzo di fare che
anche questi abbiano o seguano ad avere una lingua, e non pregiudicata dalla
natura del secolo, è quello che ho detto.
(20. Luglio 1821.)
Tutto ciò si deve applicare non solo
alle lingue, ma alle letterature ancora, la cui perfezione parimente consiste
in quel punto che ho detto delle lingue, ec. ed alle quali parimente conviene
separarsi dalla moderna filosofia, ed ai letterati non esser filosofi alla
moderna, non solo nelle scritture, ma, se è possibile, neppur nell'animo
ec.
(21.
Luglio 1821.)
, rien du tout, pas (che val propriamente nulla)
du tout.
(21 Luglio 1821.)
Chi vuol vedere la differenza fra l'amor
patrio antico e moderno, e fra lo stato antico e moderno delle nazioni, e fra
l'idea che s'aveva anticamente, e che si ha presentemente del proprio paese ec.
consideri la pena dell'esilio, usitatissima e somma presso gli antichi, ed
ultima pena de' cittadini romani; ed oggi quasi disusata, e sempre minima, e [1362]spesso
ridicola. Nè vale addurre la piccolezza degli stati. Presso gli antichi
l'essere esiliato da una sola città, fosse pur piccola, povera, infelice
quanto si voglia, era formidabile, se quella era patria dell'esiliato.
Così forse anche oggi nelle parti meno civili; o più naturali,
come la Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio è ben noto ec.
Oggi l'esilio non si suol dare veramente per pena, ma come misura di
convenienza, di utilità ec. per liberarsi della presenza di una persona,
per impedirla da quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine
principale dell'esiliare, era il gastigo dell'esiliato. ec. ec. (21. Luglio
1821.). La gravità della pena d'esilio consisteva nel trovarsi
l'esiliato privo de' diritti e vantaggi di cittadino (giacchè altrove
non poteva essere cittadino), i quali anticamente erano qualche cosa.
Tutte le battaglie, le guerre ec. degli
antichi, stante il sistema dell'odio nazionale, che altrove ho largamente
esposto, erano disperate, e con quella risoluzione di vincere o morire,
e con quella certezza di nulla guadagnare o salvare cedendo, che oggi non si
trovano più.
(21. Luglio 1821.)
Mess. ad uno che gli esponeva la sua
passione per una donna, Ma ella, disse, è tua rivale. Soleva dire che
tutte le donne sono ardentissime rivali de' loro amanti.
(21. Luglio 1821.)
[1363]Alla p.1347. marg.
Così anche cadono necessariamente nell'i il ch, il ge
e gi, e lo j francesi. Così pure il nostro e latino sci
o sce, che sono suoni distinti, e ben diversi da quello della s e
del c schiacciato, qual è p.e. il suono di s e c in
excitare; e molto più da quello della s e del c
duro. Il ge e gi de' francesi, e il loro j sono pure nello
stesso modo ben differenti dal suono di s e g qual è p.e.
in disgiunto. Il detto suono francese a noi manca, mancava ai latini, ai
greci, manca agli spagnuoli ec. Manca pure (ch'io sappia) agli spagnuoli il
nostro sci o sce, francese ch, inglese sh. Del
resto il c e g schiacciato, e tutti gli altri suoni affini a
questi, mancarono e mancano ai greci. Mancano pure detti suoni ai francesi, che
però hanno gli altri suoni affini che abbiamo veduto. Manca quello del gi
o ge italiano e latino agli spagnuoli. Tedeschi, inglesi ec.
(21. Luglio 1821.)
I greci ponevano nella stessa Roma iscrizioni
greche, quali sono le famose Triopee fatte porre da Erode Attico, benchè
trattino di oggetti, si [1364]può dir, tutti e del tutto romani.
(21.Luglio 1821.)
Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar
piccole, o compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le privazioni ec. perchè
conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il
poco peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi,
i quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da
credere che i morti e gl'immortali se ne interessassero sopra qualunque altro
affare.
(21. Luglio 1821.)
Sopravvenendo un mal minore a un maggiore, o
viceversa, sogliamo dire, Se potessi liberarmi, ovvero, se non mi travagliasse
questo male così grave, terrei per un nulla questo leggero. E accadrebbe
in verità l'opposto: che ci parrebbe assai maggiore che or non ci pare.
(21. Luglio 1821.)
La facoltà imitativa è una
delle principali parti dell'ingegno umano. L'imparare in gran parte non
è che imitare. Ora la facoltà d'imitare non è che una
facoltà di attenzione esatta e [1365]minuta all'oggetto e sue
parti, e una facilità di assuefarsi. Chi facilmente si assuefa,
facilmente e presto riesce ad imitar bene. Esempio mio, che con una sola
lettura, riusciva a prendere uno stile, avvezzandomicisi subito
l'immaginazione, e a rifarlo ec. Così leggendo un libro in una lingua
forestiera, m'assuefacevo subito dentro quella giornata a parlare, anche meco
stesso e senza avvedermene, in quella lingua. Or questo non è altro che
facoltà d'imitazione, derivante da facilità di assuefazione. Il
più ingegnoso degli animali, e più simile all'uomo, la scimia,
è insigne per la sua facoltà e tendenza imitativa. Questa
principalmente caratterizza e distingue il suo ingegno da quello delle altre bestie.
Ampliate questo pensiero, e mostrate la gradazione delle facoltà organiche
interiori, nelle diverse specie di animali fino all'uomo; e come tutta
consista in una maggiore o minor facoltà di attendere, e di assuefarsi,
la qual seconda facoltà, deriva in gran parte, ed è molto giovata
dalla prima, e sotto qualche aspetto è tutt'uno.
(21. Luglio 1821.). V. p.1383. capoverso 2.
La grazia bene spesso non è altro che
[1366]un genere di bellezza diverso dagli ordinari, e che però
non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e grazioso (che la grazia
è sempre nel bello). A quelli a' quali quel genere non riesca straordinario,
parrà bello ma non grazioso, e quindi farà meno effetto. Tale
è p.e. quella grazia che deriva dal semplice, dal naturale ec. che a noi
in tanto par grazioso, in quanto, atteso i nostri costumi e assuefazione ec.,
ci riesce straordinario, come osserva appunto Montesquieu. Diversa è
l'impressione che a noi produce la semplicità degli scrittori greci, v.
g. Omero, da quella che produceva ne' contemporanei. A noi par graziosa, (v.
Foscolo nell'articolo sull'Odissea del Pindemonte; dove parla della sua propria
traduzione del I. Iliade) perchè divisa da' nostri costumi, e naturale.
Ai greci contemporanei, appunto perchè naturale, pareva bella,
cioè conveniente, perchè conforme alle loro assuefazioni, ma non
graziosa, o certo meno che a noi. Quante cose in questo genere paiono ai
francesi graziose, che a noi paiono soltanto belle, o non ci fanno caso in
verun conto! A molte cose può estendersi questo pensiero.
(21. Luglio 1821.)
Non basta che Dante, Petrarca Boccaccio
siano stati tre sommi scrittori. Nè la letteratura nè la lingua
è perfetta e perfettamente formata in essi, nè quando pur [1367]fosse
ciò basterebbe a porre nel 300 il secol d'oro della lingua. Qual poeta,
anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero ebbe mai, non dirò
la Grecia, ancorchè sì feconda per sì gran tempo, ma il
mondo? E tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol
d'oro della lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: (v. se
vuoi, la lettera al Monti sulla Grecità del Frullone, in fine. Proposta
ec. vol.2. par.1. appendice.) quantunque la lingua greca sia molto più
formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè
Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo
scrittore nè il primo poeta greco. E la lingua greca architettata
(siccome lingua veramente antica) sopra un piano assai più naturale ec.
del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua propria in molto meno
tempo dell'italiana, ch'è pur lingua moderna, e spetta (necessariamente)
al genere moderno.
(22. Luglio 1821.). V. p.1384. fine.
Quanti diversi gusti e giudizi negli stessi
uomini circa la stessa bellezza delle donne! Lasciando da parte la passione di
qualsivoglia sorta, fra gli uomini più indifferenti, questi dirà,
la tale è bellissima, quegli, è bella, quest'altro [1368]è
passabile, quell'altro, non mi piace, quell'altro, è brutta. Non si
troverà una donna sola della cui bellezza o bruttezza tutti gli uomini
convengono, se non altro sul più e sul meno. Quanto più discorda
il giudizio delle donne! Così dico della bellezza degli uomini ec.
Dov'è dunque il bello assoluto? Se neppur si può trovare dove par
che la natura stessa l'insegni più che in qualunque altro caso ec.
(22. Luglio 1821.)
Che cosa è il polito e il sozzo, il
mondo e l'immondo? Che opposizione anzi che differenza assoluta possiamo
trovare fra queste qualità contrarie? Sozzo è quello che
dà noia ec. polito l'opposto. Bene, ma a quella specie, a quell'individuo
dà noia una cosa, a questo un'altra. Oggi la tal cosa mi dà noia,
domani no. In questa circostanza no, in questa sì. Nulla è dunque
per se medesimo ed assolutamente nè mondo nè immondo. Ma noi
secondo la solita opinione dell'assoluto, pigliamo per esemplare d'immondizia
il porco, il quale è tanto mondo quanto qualunque altro animale,
perchè quelle materie dove ama di ravvolgersi e che a noi fanno noia, a
lui nè a suoi simili non danno noia; e quindi per la [1369]sua specie
non sono sozze. Bensì le daranno noia, e saranno sozze per lei, molte
cose per noi pulitissime. (22. Luglio 1821.). Di cento altre qualità
dite lo stesso che del mondo e immondo.
Qual è stato naturale? quello
dell'ignorante, o quello dell'artista? Ora l'ignorante non conosce nè
sente quasi nulla del bello d'arte, poco ancora del bello naturale, e d'ogni
bello ec. Un uomo affatto rozzo, appena sarà tocco dalla musica
più popolare. Anche alla musica si acquista gusto coll'assuefazione
sì diretta come indiretta. E pur la musica sembra quasi la più
universale delle bellezze ec. Ora dico io. Il bello non è bello se non
in quanto dà piacere ec. Una verità sconosciuta è pur
verità, perchè il vero non è vero in quanto è
conosciuto. La natura non insegna il vero, ma se ha da esistere il bello
assoluto, non lo possiamo riconoscere fuorchè in un insegnamento della
natura. Or come sarà assoluto quel bello che, se l'uomo non è in
condizione non naturale, non può produrre l'effetto suo proprio,
indipendentemente dal quale nessuno può pur concepire che cosa sia
nè possa [1370]essere il bello?
(22. Luglio 1821.)
Non solamente tutte le facoltà
dell'uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la stessa facoltà di
assuefarsi dipende dall'assuefazione. A forza di assuefazioni si piglia la
facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose, ma in
ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni, e
perciò è difficile ad assuefarsi, e ad imparare. Chi ha molto
imparato più facilmente impara, sempre proporzionatamente alle
facoltà o disposizioni de' suoi organi, che variano secondo gl'ingegni,
le circostanze fisiche passeggere o stabili, le altre circostanze esteriori o
interiori, l'età massimamente ec. ec. Dico, più facilmente
impara, o in quello stesso genere di cose, cioè in un tal genere al
quale i suoi organi siano più disposti, e quindi più facili ad
assuefarsi; ovvero in altri generi, o in qualunque altro genere, perchè
ogni assuefazione influisce sulla facilità generale di assuefarsi, e
quindi d'imparare, di conoscere, di abilitarsi interiormente o esteriormente
ec. L'apprendere, quanto alla memoria, non è che assuefarsi, ma
esercitando [1371]la memoria, si acquista la facilità di questa
assuefazione, cioè d'imparare a memoria. I fanciulli mancando ancora di
esercizio, poco sanno imparare a memoria, ma cominciando da poche righe,
arriveranno ben presto ad imparare libri intieri, perchè i loro organi
sono meglio disposti all'assuefazione che quelli d'ogni altra età, e per
isviluppare questa facoltà non hanno bisogno che di esercitarla,
cioè di assuefarla essa stessa. Tutto in somma nell'uomo è
assuefazione. E seppure esistono differenze d'ingegni, cioè organi
più o meno disposti ad attendere ed assuefarsi, ad assuefarsi a questa o
quella cosa, a più o meno cose, o a tutte; la qual differenza anch'io
stimo ch'esista; ella è però tale che le diverse assuefazioni
possono affatto cancellarla, e rivolgerla anche al contrario, cioè render
l'uomo di piccolo ingegno, assai più penetrante ec. ec. e in somma di
maggiore ingegno, che l'uomo del più grande ingegno naturale. E
ciò non solo nelle cose ed assuefazioni materiali, o negli studi esatti
ec. ma anche nelle discipline più sottili, anche nelle cose spettanti
alla immaginazione e al genio. [1372]L'uomo insomma principalmente, e
dopo l'uomo gli altri viventi, i loro ingegni, cognizioni, abilità,
facoltà, opinioni, pensieri, detti, fatti, le loro qualità, non
in quanto ingenite, ma in quanto sviluppate (ch'è come dire, non in potenza,
ma in atto, perchè le qualità non isviluppate son come non
esistessero, oltre le infinite modificazioni, onde sono suscettibili di parere
diversissime ed anche opposte qualità) sono figli nati
dell'assuefazione.
(22. Luglio 1821.)
È verissimo che la chiarezza
dell'espressione principalmente deriva dalla chiarezza con cui lo scrittore o
il parlatore concepisce ed ha in mente quella tale idea. Quel metafisico il
quale non veda ben chiaro in quel tal punto, quello storico il quale non
conosca bene quel fatto ec. ec. riusciranno oscurissimi al lettore, come a se
stessi. Ma ciò specialmente accade quando lo scrittore non vuole
nè confessare, nè dare a vedere che quella cosa non l'intende
chiaramente, perchè anche le cose che noi vediamo oscuramente possiamo
fare che il lettore le veda nello stesso modo, e ci esprimeremo sempre con
chiarezza, se faremo vedere al lettore qualunque idea tal quale noi la
concepiamo, e tal quale sta e giace nella nostra mente. Perchè l'effetto
della chiarezza non è propriamente far concepire al lettore un'idea
chiara di una cosa in se stessa, ma un'idea chiara dello stato preciso della
nostra mente, o ch'ella veda chiaro, o veda scuro, giacchè [1373]questo
è fuor del caso, e indifferente alla chiarezza della scrittura o dell'espressione
propriamente considerata, e in se stessa.
Ora io dico, che tolta la detta mala fede, e
tolta l'ignoranza e incapacità di esprimersi, la quale influisce tanto
sulle idee chiare di chi scrive o parla, quanto sulle oscure; il veder chiaro
(se non altro, assai spesso) pregiudica alla chiarezza dell'espressione, in
luogo di giovarle. Chi non vede chiarissimo, p. e. un filosofo il quale non sia
ancora pienamente assuefatto alla sottigliezza delle idee, purchè non
abbia la detta mala fede, e possieda l'arte dell'espressione, si studia in
tutti i modi di rischiarar la materia, non solo al lettore, ma anche a se
stesso, e se non ha parlato chiarissimamente, se non ha per ogni parte espresso
lo stato delle sue concezioni, non è contento, perch'egli stesso non s'intende,
e quindi sente bene che non sarà inteso, il che nessuno scrittore
precisamente vuole, se non in caso di mala fede, o in qualche straordinaria
circostanza.
[1374]Ma quando il filosofo (per
seguire collo stesso esempio) è pienamente entrato nel campo delle
speculazioni, quando s'è avvezzato a veder la materia da capo a fondo,
n'è divenuto padrone, e vi si spazia coll'intelletto a piacer suo, o
almeno vi passeggia per entro con franchezza, trova chiarezza in ogni cosa,
s'è abituato alla lettura degli scritti più sottili, a penetrarli
intimamente a quel gergo filosofico ec.: allora ha bisogno di una particolare e
continua avvertenza per riuscir chiaro, e gli si rende più difficile e
più lontana dall'uso la chiarezza, perchè intendendosi egli
subito, crede che subito sarà inteso, misura l'altrui mente dalla sua,
ed essendo sicuro delle sue idee, non ha più bisogno di fissarle e dichiararle
in certo modo anche a se stesso; preterisce quelle proposizioni, quelle premesse,
quelle circostanze, quelle legature de' ragionamenti, quelle prove o confermazioni
o dilucidazioni, quelle minuzie, che perchè a lui son ovvie, crede che
da tutti saranno sottintese; abusa di quel gergo (necessario però in se
stesso ec. ec.). Questo può accadere, e spesso accade, anzi tutto
giorno, in una particolar materia, dove lo scrittore o parlatore abbia un'assoluta
chiarezza, padronanza, abito di concezione. ec.
E di quanto dico si può vedere
quotidianamente l'esempio ne' discorsi delle persone colte, illuminate, e ben
capaci di esprimersi. Ponete due persone di questo genere, e vedrete
ordinariamente che quella la quale possiede quella materia alquanto meno,
spiega perfettamente le sue idee, e le rischiara molto negli altri; quella che
l'ha [1375]tutta sulle dita, lascia molto più a desiderare,
benchè non volendo, e benchè capacissimo di chiarezza nelle altre
cose. E quindi è giornaliero il lagnarsi della oscurità con cui
ragionano delle loro discipline ec. quelli che le professano. Il che si
può considerare anche sotto questo aspetto.
Coloro che non fanno professione, o non sono
pienamente pratici e versati in qualche facoltà, credono obbligo loro, e
si propongono nel trattarla, di parlare o scrivere a tutti. Ma quelli che le
professano, intendono (anche senza determinata volontà) di parlarne o
scriverne ai professori. Il che se può comportarsi in altre scienze o
discipline, non deve aver luogo nella filosofia morale o metafisica ec. e in
tutte quelle cognizioni che benchè astratte o sottili ec. devono
però esser trattate non per una particolar classe di persone, ma per
tutti, anzi più per quelli che le ignorano, o poco le conoscono, che per
li periti.
È anche cosa osservabile che dei
maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso
sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purchè
[1376]abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare,
e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono
in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli
scolari partiranno dalla scuola dell'uomo il più dotto, senz'aver nulla
partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch'egli abbia quella
forza d'immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo
proprio stato, per mettersi ne' piedi de' suoi discepoli, il che si chiama
comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un
buon maestro e la più utile, non è l'eccellenza in quella tal dottrina,
ma l'eccellenza nel saperla comunicare.
E quello che ho detto accade perchè
pochi fra gli stessi più dotti, sono capaci di rintracciare minutamente,
ed avere esattamente presenti le origini, i progressi, il modo dello sviluppo,
insomma la storia delle loro proprie cognizioni e pensieri, del loro sapere,
del loro intelletto. Questo è proprio solamente de' sommi spiriti, i cui
progressi benchè derivati necessariamente dalle assuefazioni, dalle
circostanze, e dal caso, pur furono [1377]meno materiali e casuali che
quelli degli altri anche insigni. E l'immaginazione necessaria alla
comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche
metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli
scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.
(23. Luglio 1821.)
Il sommo grado della ragione consiste in
conoscere che quanto ella ci ha insegnato al di là della natura, tutto
è inutile e dannoso, e quanto ci ha insegnato di buono, tutto già
lo sapevamo dalla natura; e l'avercelo essa fatto disimparare, e poi tornare a
impararlo e a crederlo, ci ha sommamente nociuto, non solo per quel frattempo,
ma irreparabilmente per tutta la vita, perchè gl'insegnamenti ricevuti
dalla ragione, quantunque conformi ai naturali, non hanno più di gran
lunga la forza nè l'utilità di quelli ricevuti dalla natura, e
vengono da cattiva fonte e velenosa alla vita, anzi vengono dalla morte, invece
di venir dalla vita ec.
(23. Luglio 1821.)
[1378]L'animale assalito o in se
stesso, o nelle cose sue care massimamente, non fa i conti s'egli possa o non
possa resistere, se la resistenza gioverà o no, se gli torni meglio il
cedere, se il pericolo sia grande o piccolo, se le forze competano, se il
resistere gli possa portare un male maggiore ec. ma resiste immediatamente e combatte
con tutte le sue forze, ancorchè piccolissime contro grandissime. Disturbate
i pulcinelli ad una gallina, ed ella vi verrà sopra col becco e cogli
artigli, e vi farà tutto il male che saprà. Così facevano
le antiche nazioni ancorchè piccolissime contro grandissime, come ho
detto altrove. Similmente dico dei privati rispetto ai più forti o
potenti ec. V. il Gelli, Circe, nel Dial. dove parla della fortezza
delle bestie, e il Segneri Incredulo dove parla delle loro guerre.
È vergognoso che il calcolo ci renda meno magnanimi, meno coraggiosi
delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la grand'arte del computare,
sì propria de' nostri tempi, giovi e promuova la grandezza delle cose,
delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi, dell'uomo.
(23. Luglio 1821.)
La facilità, anzi quasi la
facoltà di attendere che tanto è necessaria all'assuefazione,
o la facilita, l'abbrevia, e la produce, anch'essa però si accresce e
perfeziona, e quasi nasce mediante l'assuefazione.
(23. Luglio 1821.)
[1379]Siccome la parte dell'uomo
alla quale più si attende, è il viso, però il fanciullo
non ha quasi mai un'idea formata della bellezza o bruttezza delle persone, se
non quanto al viso, e questa è la prima idea della bruttezza umana,
ch'egli concepisce: su questa idea si giudica per lungo tempo della bellezza o
bruttezza delle persone. Anzi è osservabile che finchè l'uomo non
ha cominciato a sentire distintamente la sensualità, non concepisce mai
un'idea esatta de' pregi o difetti de' personali; che in quel tempo cominciando
ad osservarli, comincia a formarsi un'idea del bello su questo punto, ma non
arriva a compierla se non dopo un certo spazio; che le persone eccessivamente
continenti sono ordinariamente di giudizio così poco sicuro intorno alla
detta bellezza, come quelle eccessivamente incontinenti, secondo ho detto in
altro pensiero; che generalmente le donne siccome pel loro stato sociale sono
necessitate a maggior castità degli uomini, ed hanno un abito esteriore
ed interiore di maggior ritenutezza, e meno rilassatezza ec. perciò sono
prese dalla bellezza del viso degli uomini, rispetto al personale, più
di quello che lo sieno proporzionatamente gli uomini [1380]dal viso delle
donne in comparazione del personale (e similmente dico della bruttezza).
È pure osservabile che dall'assuefazione naturale di osservare il viso
più delle altre parti, deriva in parte
(23.Luglio 1821.)
[1382]Il soddisfare a un bisogno,
il liberarsi da un incomodo è molto maggior piacere che il non provarlo.
Anzi questo non è piacere, quello sì, e lo è bene spesso
semplicemente in quanto alla sola soddisfazione del bisogno ec. quantunque
nell'azione che vi soddisfa, la natura non abbia posto alcun piacere particolare
distinto e indipendente, come l'ha posto p.e. nel cibarsi. E va per lo
più in ragione della maggiore o minore intensità del bisogno ec.
(24. Luglio 1821.)
Alla mia teoria del piacere aggiungi che
quanto più gli organi del vivente sono suscettibili, sensibili, mobili,
vivi, insomma quanto è maggiore la vita naturale del vivente, tanto
più sensibile e vivo è l'amor proprio (ch'è quasi tutt'uno
colla vita) e quindi il desiderio della felicità ch'è impossibile,
e quindi l'infelicità. Così accade dunque agli uomini rispetto
alle bestie, così a queste pure gradatamente, così agl'individui
umani ec. più sensibili, immaginosi ec. rispetto agli altri individui
della stessa specie. E l'uomo anche in natura, è quindi ben
conseguentemente, il più infelice degli animali (come vediamo),
perciò stesso che ha più vita, più forza e sentimento
vitale che gli altri viventi.
(24. Luglio 1821.)
[1383]Malgrado quanto ho detto
dell'insociabilità dell'odierna filosofia colla poesia, gli spiriti
veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni,
e quasi dell'impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere
qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma
questa cosa, come vicina all'impossibile, non sarà che rarissima e
singolare.
(24. Luglio 1821.)
Alla p.1365. fine. La memoria non è
quasi altro che virtù imitativa, giacchè ciascuna reminiscenza
è quasi un'imitazione che la memoria, cioè gli organi suoi
propri, fanno delle sensazioni passate, (ripetendole, rifacendole, e quasi
contraffacendole); e acquistano l'abilità di farla, mediante un'apposita
e particolare assuefazione, diversa dalla generale, o esercizio
della memoria, di cui v. p.1370. seg. Così dico delle altre imitazioni,
e assuefazioni, che sono quasi imitazioni ec. Tanto più che quasi ogni
assuefazione e quindi ogni attitudine abituale acquisita della mente, dipende
in gran parte dalla memoria ec.
(24. Luglio 1821.)
Dal sopraddetto si vede che la
proprietà della memoria non è propriamente di richiamare, il che
è impossibile, trattandosi di cose poste fuori [1384]di lei e
della sua forza, ma di contraffare, rappresentare, imitare, il che non dipende
dalle cose, ma dall'assuefazione alle cose e impressioni loro, cioè alle
sensazioni, ed è proprio anche degli altri organi nel loro genere. E le
ricordanze non sono richiami, ma imitazioni, o ripetizioni delle sensazioni,
mediante l'assuefazione. Similmente (e notate) si può discorrere delle idee.
Questa osservazione rischiara assai la natura della memoria, che molti impossibilmente
hanno fatto consistere in una forza di dipingere, o ricevere le impressioni stabili
di ciascuna sensazione o immagine ec. laddove l'impressione non è
stabile, nè può. E v. in tal proposito quello che altrove ho
detto delle immagini visibili delle cose, che senza volontà nè
studio della memoria, ci si presentano la sera, chiudendo gli occhi ec. Effetto
puro dell'assuefazione degli organi a quelle sensazioni e non già di una
continuazione di esse.
(24. Luglio 1821.)
Alla p.1367. fine. Chi vuol vedere che la
lingua italiana nel 300 non fu formata malgrado i 3 sommi sopraddetti, osservi
che il Boccaccio, l'ultimo de' tre quanto al tempo, s'ingannò
grossamente, e fece un infelice tentativo nella [1385]prosa italiana,
togliendole il diretto e naturale andamento della sintassi, e con intricate
e penose trasposizioni infelicemente tentando di darle (alla detta
sintassi) il processo della latina. (Monti, Proposta t.1. p.231.). Il
che dimostra che dunque se in questi tre sommi si volesse anche riporre il
perfezionamento ec. della lingua italiana poetica, (che è falsissimo)
non si può nel trecento riporre, a cagione de' 3. sommi, quello della
lingua italiana prosaica. Ora una lingua senza prosa, come può dirsi
formata? La prosa è la parte più naturale, usuale, e quindi
principale di una lingua, e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente
nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed unico che applicasse nel 300 la prosa
italiana alla letteratura, senza la quale applicazione la lingua non si forma,
non può servir di modello alla prosa. E notate ancora che dunque il
Boccaccio ch'era pure sì grande ingegno, scrivendo dopo i 2 grandi
maestri sopraddetti, e dopo tanti altri prosatorelli italiani, s'ingannò
di grosso intorno alla stessa indole della lingua [1386]italiana,
intorno alla forma che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire
insomma alla sua forma conveniente, o le ne diede una ch'ella ha poi del tutto
abbandonata, e che le divenne subito affatto sconveniente. Dunque la lingua
italiana, almeno quanto alla prosa, ch'è il principale, non era ancora
formata; il Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran lunga.
Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre? come fu formata nel
300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e l'unico che appartenga
alla letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può
servire di modello a veruna prosa?
(25. Luglio 1821.)
Quanto la civilizzazione per sua natura
tenda a conformare gli uomini e le cose umane, come questo sia l'uno de' principali
suoi fini, ovvero de' mezzi principali per conseguire i suoi fini, si
può vedere anche nella lingua, nell'ortografia, nello stile largamente
considerato, nella letteratura ec. Tutte cose tanto [1387]più uniformi
in una nazione, quanto ella è più civile, o si va civilizzando di
mano in mano, e tanto più varie quanto ella è più lontana
dalla civiltà perfetta, o più vicina a' suoi i principj ec. E ne'
principii tutte queste cose furono sommamente varie, incerte, discordi,
arbitrarie ec. presso qualunque nazione delle più colte oggidì.
Lo stabilire e il formare o l'essere stabilita e formata una lingua
un'ortografia ec. non è quasi altro che uniformarla. Giacchè sia
pur ella regolarissima in questo o quello scrittore o parlatore, ella non
è stabilita nè formata nè buona se non è uniforme
nella nazione; e sia pure irregolarissima (come la greca ec.) ella è stabilita
ec. quando in quel tale stato ella è riconosciuta, intesa e adoperata
stabilmente e regolarmente dalla nazione. Allora l'irregolarità
è regola, e nel caso contrario la regolarità è irregolare.
(25. Luglio 1821.). V. se vuoi, p.1516 17.
Grazia che deriva dallo staordinario o dal
contrasto. Voce alquanto virile nelle donne. È un gran ragoût,
purchè non sia eccessivo. ec. ec.
(25. Luglio 1821.)
I giovani massime alquanto istruiti prima di
entrare nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che
sentono o leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto
dell'esperienza è persuadere a' giovani, quanto alla vita umana, che il
generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi tutti i particolari, e
in ciascuno di essi.
(25. Luglio 1821.)
[1388]Alla p.1262. al capoverso 1.
Chiunque potesse attentamente osservare e scoprire le origini ultime delle
parole in qualsivoglia lingua, vedrebbe che non v'è azione o idea umana,
o cosa veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi, che sia stata
espressa con parola originariamente applicata a lei stessa, e ideata per lei.
Tutte simili cose, oltre che non sono state denominate se non tardi, quantunque
fossero comunissime, usualissime e necessarie alla lingua, e alla vita ec.; non
hanno ricevuto il nome se non mediante metafore, similitudini ec. prese dalle
cose affatto sensibili, i cui nomi hanno servito in qualunque modo, e con qualsivoglia
modificazione di significato o di forma, ad esprimere le cose non sensibili; e
spesso sono restati in proprietà a queste ultime, perdendo il valor
primitivo. Osservate p.e. l'azione di aspettare. Ell'è affatto
esteriore, e materiale, ma siccome non cade precisamente sotto i sensi,
perciò non è stata espressa nelle nostre lingue se non per via di
una metafora presa dal guardare, ch'è azione tutta sensibile. V. la
p.1106. Bensì questa metafora [1389]è poi divenuta parola
propria, perdendo il senso primitivo.
Tale è la natura e l'andamento dello
spirito umano. Egli non ha mai potuto formarsi un'idea totalmente chiara di una
cosa non affatto sensibile, se non ravvicinandola, paragonandola,
rassomigliandola alle sensibili, e così, per certo modo, incorporandola.
Quindi egli non ha mai potuto esprimere immediatamente nessuna di tali idee con
una parola affatto sua propria, e il fondamento e il tipo del cui significato
non fosse in una cosa sensibile. Espresse poi, e stabilite e determinate queste
simili idee mediante parole di tal natura, l'uomo gradatamente ha potuto
elevarsi fino a concepire prima confusamente, poi chiaramente, poi esprimere e fissare
con parole, altre idee prima un poco più lontane dal puro senso, poi alquanto
più, e finalmente affatto metafisiche, e astratte. Ma tutte queste idee
non le ha espresse se non che nel sopraddetto modo, cioè o con metafore
ec. prese immediatamente dal sensibile, o con nuove modificazioni e
applicazioni di quelle parole applicate già, come ho detto, a cose meno [1390]soggette
ai sensi, facendosi scala da quelle applicazioni già fatte, ricevute e
ben intese, ad altre più sottili, ed immateriali ec. Di maniera che i
nomi anche modernissimi delle più sottili e rimote astrazioni, derivano
originariamente da quelli delle cose affatto sensibili, e da nomi che nelle
primitive lingue significavano tali cose. E la sorgente e radice universale di
tutte le voci in qualsivoglia lingua, sono i puri nomi delle cose che cadono al
tutto sotto i sensi.
È curioso l'osservare che il verbo
sostantivo essere, sì necessario che senza esso non si può
fare un discorso formato, ed esprimente un'idea sì universale, e appartenente
a tutte le cose e le idee, nondimeno perch'ella è un'idea delle
più astratte ed ultime (appunto a cagione della sua universalità,
la quale dimostra ch'ella è idea elementare ec.) è imperfetto e
irregolare, cred'io, per lo meno, in quasi tutte le lingue. Nella greca
è anche sommamente difettivo, e non è supplito da voci prese
d'altre radici, come lo è in latino, in sascrito, in persiano.
Nell'ebraico il verbo hyh esse,
existere, oltre ch'è quiescente, vale a dire imperfetto, ha miras
anomalias, dice il Zanolini. La cagione di ciò (che non si
può creder caso) può essere che questo verbo sia stato uno de'
primi inventati, a causa della sua necessità; e quindi confuso ed irregolare
sì a causa della sua antichità, [1391]e delle poche regole
a cui gli antichissimi lo potevano assoggettare, sì dell'astrazione sottigliezza,
immaterialità, difficoltà insomma dell'idea che esprime, e che
nessuno degli antichissimi parlatori potè concepir chiaramente. Simili
osservazioni si ponno fare intorno ad altri verbi che sogliono essere anomali
nelle lingue, quantunque diversissime, ed è notabile che questi sono
ordinariamente i più usuali e necessari al discorso, come avere,
potere ec. Ed appunto perciò sono anomali, perchè non sono
così necessari, se non perchè esprimono idee universali, e le
idee non sono universali se non perchè sono elementari ed astratte; ora
le idee elementari ed astratte sono naturalmente le più difficili, anzi
le ultime a raggiungersi, e a concepirsi chiaramente, e quindi ad essere formalmente
e regolarmente espresse. (26. Luglio 1821.). Puoi vedere p.1205.
Ho detto in un pensiero a parte come
l'incredulità spesso derivi da piccolezza di spirito. Aggiungo ora
com'ella viene assai spesso da ostinazione, non solo di volontà, ma
anche di spirito, il che è segno della sua piccolezza, la quale influisce
poi anche sulla volontà e sulle determinazioni. È assai comune il
vedere [1392]una persona ostinarsi immobilmente a negare una
verità di fatto, o affermare una falsità di fatto, senza mai
lasciarsi entrar nella mente un solo sospetto di potersi essere ingannato nel
vedere ec. ec. Insomma l'incredulità bene spesso, anzi il più
d'ordinario, non deriva se non da somma e stoltissima credulità. Per la
credulità il piccolo spirito si persuade siffattamente della verità
e certezza de' suoi principii, del suo modo di vedere e giudicare, delle
impossibilità ch'egli concepisce ec. che tutto quello che vi ripugna,
gli sembra assolutamente falso, qualunque prova v'abbia in contrario;
perchè la credulità che immobilmente lo attacca alle precedenti
sue idee, lo stacca dalle nuove, e lo fa incredulissimo. E così
l'eccesso di credulità causa l'eccesso d'incredulità, e impedisce
i progressi dello spirito ec. Gli uomini più persuasi d'una cosa, sono i
più difficili a persuadersi, se non si tratta di persuasioni affatto
consentanee alle sue prime ec. V. se vuoi, la p.1281. principio.
(26. Luglio 1821.)
Piccolissimo è quello spirito che non
è capace o è difficile al dubbio. Le ragioni le ho dette nel
pensiero precedente, e in quello al quale esso serve di giunta.
(27. Luglio 1821.)
[1393]A volere che il ridicolo
primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente,
cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di
serio, e d'importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra,
dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e
presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto
più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche
per il contrasto ec. Ne' miei dialoghi io cercherò di portar la commedia
a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi
dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria
umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale,
e alla filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle
cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le
rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma
dell'uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime
in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza,
potranno giovare più di quelle della passione, dell'affetto,
dell'immaginazione dell'eloquenza; e anche più di quelle del
ragionamento, [1394]benchè oggi assai forti. Così a
scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato
le armi dell'affetto e dell'entusiasmo e dell'eloquenza e dell'immaginazione
nella lirica, e in quelle prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi
della ragione, della logica, della filosofia, ne' Trattati filosofici ch'io
dispongo; e le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando.
Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in occasu vestro, nec tela, nec
ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem, meruisse manu (Virg.
Aen. 2.431.seqq.).
(27. luglio 1821.)
Alla p.1102. È stata anche utilissima
e necessarissima invenzione e pensamento quello di dividere le quantità
non per unità, ma per parti di quantità contenenti un numero di
quantità determinato, e perpetuamente conforme; vale a dire per diecine,
ossia quantità contenenti sempre dieci unità; per centinaia
contenenti sempre dieci diecine; per migliaia ec. Senza questo ritrovato ottimo
ed ammirabile, noi quanto ai numeri saremmo ancora appresso a poco, nel caso
degli [1395]uomini privi di favella. Cioè non potremmo concepir
chiaramente l'idea di veruna quantità numerica determinata (e quindi di
nessun'altra non numerica, perchè se è determinata, ha sempre
relazione ai numeri), se non piccolissima.
L'idea che l'uomo concepisce della
quantità numerica è idea compostissima. L'uomo è
capacissimo d'idee composte, ma bisogna che la composizione non sia tanta, che
la mente umana abbia bisogno per concepir quell'idea di correre tutto a un
tratto per una troppo grande quantità di parti. Se noi non dicessimo
undici, cioè dieci e uno, ec. ec. ma seguissimo sempre a nominare
ciascuna quantità o numero, con un nome affatto progressivo, e indipendente
dagli altri nomi e numeri, e non si fosse data ai numeri una scambievole
relazione, tanto arbitraria e dipendente dall'intelletto umano, quanto
necessaria, e difficile; noi perderemmo ben presto l'idea chiara di una
quantità determinata alquanto grossa, perchè le sue parti,
essendo pure unità, sarebbero troppe per poter esser comprese in un
tratto, e [1396]abbracciate dalla nostra concezione. Se il centinaio non
fosse nella nostra mente una diecina di diecine (il che, chi ben l'osserva,
viene a formare un'idea non decupla, ma quasi unica e semplice, (o al
più doppia) a causa del rapporto scambievole delle unità colla diecina,
e della diecina semplice colla diecina di diecine); ma fosse un centinaio di
pure, slegate, indipendenti, indivise unità, ci sarebbe impossibile il
correre in un tratto per cento unità così disposte, e quindi non
potremmo concepire idea, se non confusissima e insufficiente, di detta
quantità. Per lo contrario la nostra mente abituata alla facilità
di concepir chiaramente la quantità contenuta nella diecina semplice, si
abitua ancora facilmente alla stessa concezione nella diecina di diecine, ec.
ec. e con un solo atto di concezione, apprende chiaramente il numero delle
unità contenute in una quantità, la cui idea se le presenta
così ben distribuita nelle sue parti, così relative fra loro.
Questo è infatti il progresso delle idee de' fanciulli, i quali da
principio, quantunque bastantemente istruiti circa i numeri e le materiali
quantità loro ec. non si [1397]formano però mai l'idea chiara
delle unità contenute in una quantità più che tanto
grossa, nè intendono mai chiaramente che quantità sia p.e. il
centinaio, finchè la loro mente non si è abituata nel modo che ho
detto, ascendendo gradatamente dall'idea simultanea e perfetta di una diecina,
a quella di due, di tre, della diecina di diecine ec.
Molte idee, ancorchè compostissime,
le concepisce l'uomo chiaramente e facilmente in un tratto, perchè il
soggetto loro non è composto in maniera che l'idea non ne possa
risultare se non dalla concezione particolare e immediata di ciascuna sua
parte. P.e. l'idea dell'uomo è composta, ma la mente senza andare per le
parti, le concepisce tutte in un solo subbietto in un solo corpo, e quindi in
un solo momento, e dal subbietto discende poi, se vuole, alle parti.
Così accade in tutte le cose materiali ec. Ma l'idea di un numero non
risulta se non dalla concezione delle unità, cioè parti che lo
compongono, e da queste bisogna che la mente ascenda alla concezione del
composto, cioè del tal numero, [1398]perchè un numero non
è sostanzialmente altro che una quantità di parti, nè si
può definire se non da queste, nè ha veruna menoma qualità
o forma, o modo di essere ec. indipendente da queste. L'assuefazione aiutata
dalla bellissima invenzione che ho detto, fa che la mente umana appoco appoco
si abiliti a concepire una quantità determinata, quasi prima delle sue
parti, e indipendentemente da loro, e discenda poi da quella a queste, se vuol
meglio distinguere la sua idea ec. il che non si può mai se non nello
spazio di tempo e non già nell'istante.
Il detto ritrovamento, o piuttosto
arbitrario stabilimento di una scambievole relazione fra tutte le unità,
e le masse di unità ec. cioè in somma della ragione che fra noi,
e in tutti i popoli civili antichi e moderni è decupla; non solo fu
aiutata dalla favella, ma non sarebbesi potuto stabilirla senza la favella.
Osservo che uno de' principali vantaggi,
anzi forse il solo, ma grande vantaggio del sistema di cifre numeriche dette arabiche,
sopra quello delle cifre greche, ebraiche ec. ancor esso molto semplice e bello
e bene immaginato, si è questo. Nelle cifre 10, 200, 3000 ec. le figure
1, 2, 3 esprimono ed indicano immediatamente la quantità delle diecine [1399]o
centinaia o migliaia espresse da dette cifre, e contenute nella quantità
che significano. Ma non così le lettere greche i,
cioè 10, e s, cioè 200, ovvero le ebraiche w e d, che significano le stesse cose.
Bensì le cifre greche ,a, ,b, ,g, e le ebraiche ä, äk, äg,
cioè 1000, 2000, 3000, significano e danno subito e per se stesse
a vedere o l'unità o la quantità delle migliaia. Il greco
però in questo punto è più semplice dell'ebreo.
Per la ragione per cui troviamo poca
varietà nella fisonomia delle bestie d'una medesima specie ec. come ho
detto altrove, accade che in una città forestiera, tutto al primo
momento ci paia appresso a poco uniforme, e troviamo sempre proporzionatamente
assai più vario il paese a cui siamo avvezzi (ancorchè uniformissimo)
che qualunque altro; almeno ne' primi giorni. Onde non sappiamo distinguere le
contrade ec. Massime se v'ha realmente qualche uniformità in quel nuovo
paese, sebben però più vario del nostro; ovvero s'egli è
di una forma e di un gusto ec. assai differente dal nostrale, nel qual caso non
ci troveremo mai bastante varietà, prima della lunga attenzione ed assuefazione.
[1400]Così ci accade nel leggere gli scritti assai forestieri per
noi, come degli orientali, di Ossian, ec. o de' loro imitatori nostrali.
Così in cento generi di cose.
(28. Luglio 1821.)
Il pentimento il quale in altri pensieri ho
detto che aggrava il male quasi della metà, quando non possiamo
dissimularci che ci è avvenuto per nostra colpa, aggrava pure nella
stessa proporzione il dispiacere della perdita o mancanza di un bene, anzi
molte volte cagiona del tutto esso solo questo dispiacere, che non proveremmo
in verun modo, se mancassimo di quel bene senza nostra colpa, se non avessimo
avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual sentimento umano che si fa sentire o
prevedere, nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a profittarne,
quasi anche contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella Telesilla.
Molte volte un'occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci
addolora sommamente della mancanza di un bene, che per l'addietro nulla ci
pesava. Ed allora la nostra consolazione, e l'ordinaria operazione della nostra
mente, è cercare di persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella
perdita di quella occasione, e che essa non poteva servirci, e doveva
necessariamente esserci inutile, [1401]e quasi non fosse stata ec.
(28. Luglio 1821.)
Mi dicono che io da fanciullino di tre o
quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perchè mi
raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età,
era innamorato dei racconti, e del maraviglioso che si percepisce coll'udito, o
colla lettura (giacchè seppi leggere, ed amai di leggere, assai presto).
Questi, secondo me, sono indizi notabili d'ingegno non ordinario e prematuro.
Il bambino quando nasce, non è disposto ad altri piaceri che di succhiare
il latte, dormire, e simili. Appoco appoco, mediante la sola assuefazione, si
rende capace di altri piaceri sensibili, e finalmente va per gradi
avvezzandosi, fino a provar piaceri meno dipendenti dai sensi. Il piacere dei racconti,
sebbene questi vertano sopra cose sensibili e materiali, è però
tutto intellettuale, o appartenente alla immaginazione, e per nulla corporale
nè spettante ai sensi. L'esser divenuto capace di questi piaceri assai
di buon'ora, indica manifestamente una felicissima disposizione, pieghevolezza
ec. degli organi intellettuali, o mentali, [1402]una gran facoltà
e vivezza d'immaginazione, una gran facilità di assuefazione, e pronto
sviluppo delle facoltà dell'ingegno ec.
(28. Luglio 1821.)
Alla p.1318. capoverso 1. Si può
osservare che la lingua italiana ha coltivata l'antica filosofia, ed abbonda di
scrittori (anche classici) che la trattino o exprofesso o incidentemente e per
solo uso, più di qualunque altra lingua moderna. Le cagioni son queste.
La detta filosofia col progresso delle scienze si spense. Non vale dunque che
altre lingue moderne possano avere avuti più filosofi e più
scrittori ancora dell'italiana. Bisogna vedere in qual tempo. Ora tutte le
lingue moderne sono state applicate alla letteratura ec. assai più tardi
dell'italiana. Quindi pochissimo hanno potuto dar opera all'antica filosofia.
Laddove l'italiana dal 300 al 600, da Dante a Galileo, vale a dire dal risorgimento
degli studi, alla rinnovazione della filosofia, coltivò sempre la filosofia
antica, si arricchì delle sue voci ec. ec. Oltrechè avendo posto
gl'italiani in detto spazio di tempo assai più amore ec. in ogni genere
di studi che qualunque altra nazione, seguita che la filosofia [1403]antica
che dopo quei tempi si spense, fiorisse in Italia più che altrove, dopo
il risorgimento degli studi, coincidendo coll'epoca d'oro della letteratura
italiana. Quindi anche i letterati puri n'erano studiosissimi, e ne solevano
far grand'uso, mossi fors'anche dall'esempio di Dante, loro comune maestro, e
dall'indole di tutti i tempi colti, che hanno sempre dato gran peso alla filosofia
ec. Aggiungete che quelli stessi che nelle altre nazioni trattarono l'antica
filosofia, non la trattarono nelle lingue volgari ma in latino, perchè
le altre lingue volgari, eccetto l'italiana, non si stimavano e non erano
allora capaci delle cose gravi e serie ec. Onde anche la storia fu scritta dal
francese de-Thou in latino, nè si ha, cred'io, storia francese, almeno
passabile prima di Luigi 14.
(28. Luglio 1821.)
Alla p.1338. Notate in questo proposito, per
dimostrare l'influenza della lingua o dei nomi sulle cognizioni, che una sufficiente
notizia della lingua e delle proprietà delle voci greche, non solo giova
sommamente allo studioso di medicina per ben conoscere l'indole ec. delle
malattie ec. ec. non solo abbrevia d'assai il detto studio ec. e lo facilita
ec., ma forse senza detta notizia, molte volte, non [1404]dico lo
studioso, ma lo stesso medico non arriverà ad avere di qualche cosa
denominata in medicina con termine greco, un'idea così chiara e precisa,
come la concepisce subito il grecista, ancorchè ignorante di medicina,
appena ode quel tal nome. Avendo questa bellissima proprietà gran parte
delle parole greche applicate alle scienze ec. ch'elle son quasi perfette
definizioni delle cose che significano; e questo a causa della precisione che
riceve quella lingua dai composti ec. qualità che nello stesso grado non
si può, generalmente parlando, trovare in verun'altra lingua.
(29. Luglio 1821.)
Le Cinesi si storpiano per farsi il piede
piccolo riputando bellezza, quello ch'è contro natura. Che accade il
noverare le tante barbare cioè snaturate usanze e opinioni intorno alla
bellezza umana? Certo è però che tutti questi barbari, e i cinesi
ec. trovano più bella una persona snaturatasi e rovinatasi in quei tali
modi, che una persona bellissima e foggiata secondo natura. Anzi [1405]questa
parrà loro anche deforme in quelle tali parti ec. Dunque essi provano il
senso del bello, come noi nelle cose contrarie; dunque chi ha ragione de' due?
perchè dunque si chiamano barbari simili gusti?
Non perchè ripugnino assolutamente al
bello, ch'essi vi sentono, come noi vi sentiamo il brutto; ma perchè
ripugnano al naturale. Il bello è convenienza, il brutto sconvenienza.
Ora è conveniente che le cose sieno quali son fatte, ed abbiano le
qualità che loro son proprie: e se la tua natura è questa, tu
devi esser così e non altrimenti. Quello dunque che ripugna alla natura,
è sconveniente. Convenienza e sconvenienza, come ognun vede, relativa al
modo di essere di ciascuna cosa.
Ma il bello non risulta solo dalla
convenienza stabilita dalla natura, anzi può non risultarne (ed ecco i
gusti detti cattivi). Risulta perpetuamente e necessariamente ed unicamente
dall'opinione dell'uomo prodotta dall'assuefazione, dall'inclinazione ec.
Risulta, dico, [1406]dalla convenienza in quanto è giudicata tale
dall'uomo (o dal vivente); e quindi bello non è, se non ciò che
all'uomo par conveniente cioè bello. Così è. Fuori della
opinione dell'uomo o del vivente non esiste nè bello, nè brutto,
e tolto il vivente, sono tolte affatto dal mondo, non solo le idee, ma
le qualità stesse di bello e brutto, (potendo però restare il
buono e cattivo in quanto giovi o noccia agli altri esseri ec.).
Siccome però l'unica cosa durevole e
universale, è la natura sì delle cose che di ciascuna cosa,
perciò opinione durevole e universale intorno alla convenienza ed al
bello, non può essere se non quella che è conforme a detta
natura, cioè che giudica conveniente quello che la natura ha fatto e
disposto che appartenga agli esseri. (il che ha fatto e disposto non già
necessariamente e assolutamente ma per solo arbitrio e relativamente.) Quindi
è che i gusti non naturali sia circa la forma degli uomini, sia circa le
arti imitatrici della natura, sia in qualunque altro genere che appartenga alla
natura in qualunque modo ec. tali gusti, dico, si chiamano cattivi, e lo sono;
in [1407]quanto ripugnando alla natura reale (benchè relativa)
delle cose, non ponno durare, nè essere universali. Al contrario il buon
gusto, è buono in quanto convenendo colla natura qual ella è
effettivamente, è il solo che possa durare, e in cui tutti appresso a
poco possano convenire.
Quindi accade che presto o tardi si ride di
uno stile, di una pittura, di un portamento affettato ec. ec. di una persona sfigurata
ec. e queste cose si chiamano barbarie, come si chiamano barbarie tutte quelle
cose fuori affatto della sfera del bello, che ripugnano alla natura,
cioè al modo in cui le cose realmente sono, e perciò denno
essere. E qui vedete che la barbarie consiste sempre nell'allontanarsi dalla
natura, e però i popoli civili hanno ordinariamente buon gusto,
perchè la civiltà ravvicina gli uomini alla natura ec.
Sono dunque barbari e cattivi i gusti non naturali,
in quanto ripugnano alla natura, non già in quanto ripugnano al bello.
Nessun gusto ripugna al bello. Bello è ciò che tale si stima:
bello era nel seicento lo stile de' concetti e delle metafore ec. e dava [1408]ai
seicentisti quel piacere che dà a noi il buono stile; e il buono stile
non glielo dava.
Eccetto che, siccome i dettami, la forza, il
senso, l'influenza della natura, ponno ben essere offuscate e debilitate, ma
non estinte in verun secolo, e da verun costume, opinione ec. però
è ben verisimile che i seicentisti, sebben trovassero più bello
quello stile barbaro che il buono, pur non ne provassero quel piacere che
proviamo noi del buono, cioè naturale; se ne saziassero facilmente ec.
Questa era conseguenza non del falso bello, che nessun bello è falso, ma
della falsata natura delle cose, che anche in que' tempi era la stessa.
Ma quante ripugnanze colla natura, ci fa
passare per belle anche oggidì l'assuefazione ch'è una seconda
natura! Quanto differiscono nel gusto anche i secoli, che nel grosso e
complessivamente son di buon gusto! Quante diverse opinioni intorno a questa o
quella bellezza, o parte di lei, produce la stessa civiltà, che 1.
è diversa e varia ne' vari luoghi e tempi ec. 2. varia bene spesso dalla
natura [1409]medesima, e non poco! Le quali cagioni non solo ci producono
l'opinione, ma il conseguente senso e gusto del bello, in cose non naturali, in
cose anche ripugnanti alla natura. Quanti abbigliamenti non naturali, quante
foggiature snaturate della persona stessa, quante mosse, portamenti ec. o
diversissimi dalla natura o a lei contrarissimi, ci paiono per l'assuefazione e
l'opinione bellissimi, e bruttissimi i loro contrari, e i naturali! Cani colle
orecchie tagliate; cavalli a coda tagliata ec. ec. Da mille altri generi di cose
potrei cavare esempi di questo.
Non basta. La natura benchè uniforme
nel principale ed essenziale, varia in moltissime cose accidentali (ma considerabilissime)
secondo le razze, i climi, i tempi, le circostanze. L'Etiope differisce dal
Bianco. Il gusto della scrittura orientale differisce dall'Europeo. Quello de'
Bardi da quello de' greci. Quello de' settentrionali moderni da quello de' meridionali;
quello degl'italiani ec. da quello de' francesi. E ciascuno di questi, essendo
conforme alla natura rispettiva, è buono per ciascuno dei detti popoli
ec. [1410]cattivo per gli altri; e produce in ciascuno di essi
quell'effetto, che produrrà in un altro popolo un gusto (almeno in molte
parti) contrario, il quale viceversa parrebbe e pare cattivo a quell'altro popolo,
tempo ec. Chi ha ragione? Quale di questi gusti, anzi di queste nature, merita
la preferenza? In ogni caso potrà piuttosto darsi la preferenza a questa
o quella natura, che a questo o quel gusto, il quale da che è naturale,
non solo è buono, ma se fosse conforme a un'altra natura, sarebbe
cattivo, e non durevole presso quel popolo; come non ha durato nella poesia ec.
inglese, il gusto francese. E il Catone di Addisson si stima e non piace in Inghilterra;
e quello che per lungo tempo non piace (e forse non ha mai piaciuto) ad
un'intera nazione, non è bello, relativamente a lei; ed in quanto
è fatto per lei, è dunque brutto; benchè piaccia ad altre
nazioni.
Come dunque altrove abbiamo distinto il
bello da ciò che reca diletto alla vista, così bisogna formalmente
distinguere il bello dal naturale. [1411]Non già che ciò
che diletta la vista non possa esser bello, o che il bello non possa recar
diletto alla vista (anzi il bello esteriore e sensibile glielo reca
essenzialmente); ma queste due qualità sono diverse, ed altro è
il dilettar la vista, altro l'esser bello. Così altro è l'esser
naturale, altro l'esser bello; e può una cosa non esser naturale, e pur
bella, o viceversa: ed esser naturale e bella per colui, e naturale ma non
bella per costui ec.
(29. Luglio 1821.)
La semplicità è quasi sempre
bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli abiti ec.
ec. ec. Il buon gusto ama sempre il semplice. Dunque la semplicità
è assolutamente e astrattamente bella e buona? Così si conclude.
Ma non è vero. Perchè dunque suol esser bella?
Ho detto che il naturale è
conveniente, e quindi per lo più bello, cioè giudicato
tale. Or dunque la semplicità suol essere, cioè parer bella, 1.
perchè suol esser propria della natura, la quale, (potendo ben fare
altrimenti) si è per lo più diportata semplicemente, coi
mezzi semplici ec. ec. (il che massimamente apparisce dalla [1412]mia
teoria della natura) almeno quanto all'apparenza delle cose. La quale solo
bisogna considerare circa il bello: giacchè la natura forzatamente e
contro natura scoperta e svelata, non è più natura, qual ella
è; e quindi non è più fonte di bellezza ec. ec.
2. La semplicità è bella,
perchè spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si
chiama semplice una cosa, non perch'ella sia astrattamente e per se medesima
semplice, ma solo perchè è naturale, non affettata, non
artifiziata, semplice in quanto agli uomini, non a se stessa, e alla natura ec.
Per queste, e non per altre ragioni, la
semplicità forma parte essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene
gli uomini se ne possono allontanare, certo però vi tornano, cioè
tornano alla natura, la quale nelle cose essenziali è immutabile.
Perciò le poesie o scritture greche saranno sempre belle, non riguardo
al bello in se stesso, ma riguardo alla semplicità e naturalezza loro.
ec. E quei tempi e quei paesi e quegli uomini che non le hanno apprezzate, o le
hanno disprezzate, si chiamano e furono di cattivo gusto, [1413]non
perchè non conoscessero ec. le leggi eterne e necessarie del bello (come
si dice), le quali non esistono, ma perchè, a forza di assuefazioni ec.
corrotte, cioè non naturali, e quindi non proprie, non convenienti
all'uomo, si erano ridotti a non conoscere o misconoscere, e non sentir la
natura, che è veramente o può dirsi eterna. E però
ripugnavano al gusto che solo può durare, ed essere universale negli
uomini, perchè solo ha il suo fondamento nella realtà
delle cose quali sono; e il loro gusto, non potendo nè piacere a tutti,
nè per lungo tempo, era falso in quanto a questo, non in quanto a se.
Così dico delle pitture, statue, architetture greche. Così della
letteratura italiana, la quale intanto è universalmente preferita,
malgrado le diversità de' gusti ec. in quanto, non il bello, ma la
natura è universale, e la letteratura italiana è la più
conforme alla natura. E perciò, e non riguardo al bello indipendente, si
considerano e sono modelli di buon gusto le letterature ec. antiche, siccome
più [1414]prossime, anche materialmente alla natura, e quindi
più semplici. ec. Quell'inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i
sentimenti, le passioni ec. e far grandissimo effetto quasi non volendo,
è bellezza eterna, perch'è naturale, ed è il solo vero
modo d'imitar la natura, giacchè si può male imitar la natura,
anche imitandola vivissimamente, e l'imitazione la più esatta può
essere anzi è per lo più la meno naturale, e quindi meno
imitazione. V. il mio Discorso sui romantici dove si parla di Ovidio. ec.
Le vantate, immutabili, ed universali leggi
del bello, sono dunque giuste (complessivamente e quanto all'essenziale); ma
non perchè il bello in se stesso sia immutabile e universale e assoluto,
ma perchè tale è la natura, che essendo natura, è quindi
la principale e più solida fonte delle convenienze in ciò ch'ella
contiene, e però del bello. Quindi la teoria delle belle arti (eccetto
alcuni particolari) resta salda, quanto ai precetti ec. benchè
speculativamente s'inganni nei principii fondamentali. Ma l'astrazione
generalmente non nuoce nel nostro caso al concreto: perchè solamente si
tratta di chiamar leggi di natura, necessarie quanto a noi, ma libere quanto a
lei, quelle che la detta teoria suol chiamare leggi assolutamente necessarie
del bello. Quindi restano le regole della rettorica, della poetica ec. restano
gl'indizi per distinguere e fuggire i falsi gusti ec. solamente che si chiamino
falsi non in se stessi nè in quanto al bello, ma in quanto ripugnanti al
modo di essere effettivo delle cose. Ond'è che il principio delle [1415]belle
arti ec. ec. si deve riconoscere nella natura, e non già nel bello,
quasi indipendente dalla natura, come si è fatto finora.
Veniamo adesso ad alcune considerazioni le
quali dimostreranno come la semplicità che si tiene per qualità
assolutamente bella, vari nel giudizio degli uomini e nella stessa natura.
I tempi, costumi, opinioni, climi, razze ec.
ec. diversificano il giudizio e il gusto degli uomini intorno alla
semplicità niente meno che intorno al bello e al grazioso ec. Ho detto
che la letteratura italiana, la più semplice delle moderne, è
universalmente preferita. 1 Nondimeno è certo che i francesi, come
eccessivamente civilizzati, differiscono sommariamente dalle altre nazioni nel
giudizio di che cosa sia semplice, ed essendo semplice sia naturale, ed essendo
naturale sia bella; quantunque si accordino con tutte le nazioni di buon gusto
nel giudicare che il semplice e naturale è bello, cioè
conveniente. Ai francesi producono l'effetto di somma semplicità, naïveté,
(e [1416]quindi o grazia o bellezza) mille cose che a noi italiani (se
conserviamo il gusto italiano, o l'antico) e anche agli altri,
paiono o affettate o certo ricercate, artifiziate, studiate; o finalmente assai
meno vicine alla natura di quello che paiono ai francesi, e quindi vi sentiamo
assai meno grazia e bellezza, o nessuna, o anche bruttezza; ovvero le riponiamo
nel numero delle bellezze d'artifizio ec. Esempi, La Fontaine, modello di
semplicità per li francesi, Fénélon di grazia, Bossuet di sublimità
ec. Ma i francesi tanto lontani dalla natura sono colpiti da quello che
n'è più vicino, benchè riguardo al nostro stato ne sia per
anche troppo lontano. Viceversa quello che a noi italiani par semplice,
naturale, bello, grazioso, ai francesi pare così eccessivamente semplice,
che non par loro naturale, (giudicando, come sempre accade, della natura, dalla
condizione in cui essi si trovano) nè vi sentono grazia o bellezza, ma
viltà, bassezza e deformità. Ed è cosa ordinarissima e
frequentissima che la grazia, la semplicità, la naturalezza [1417]francese,
sia affettazione, artifizio, ricercatezza per noi, e la semplicità ec.
italiana, sia rozzezza per li francesi, intollerabile e ridicola. E pur tutti
conveniamo nel giudicar bello e grazioso il semplice e naturale, come tutti ci
accordiamo nel giudicar bello il conveniente, senza accordarci nel giudicare
della convenienza.
Le altre nazioni non differiscono meno tra
loro, e per gl'inglesi non sarà bastantemente naturale nè
semplice quello che lo è per gl'italiani, e viceversa sarà sconcio
e rozzo per gl'italiani quello ch'è naturale, semplice, naïf per
gl'inglesi ec. ec.
I tempi differiscono assai di più.
Lasciamo stare la letteratura classica greca paragonata colla classica
latina, che pur si formò su di quella. I trecentisti ci piacciono assai
anche oggi, ma oggi chi scrivesse precisamente come loro, in questa lingua,
ch'è pur la stessa, sarebbe giudicato barbaro, e quella
semplicità ec. ec. parrebbe eccessiva, cioè sconveniente,
inverisimile, e non più naturale oggidì, quantunque [1418]la
natura in quanto all'essenziale non si muti. I francesi gustano i latini e i
greci, ma si guarderebbero bene dall'imitarne molte cose, che in quelli non li
disgustano, anzi paiono loro bellezze, perchè le giudicano convenienze
relativamente alle circostanze della loro natura, de' tempi ec. Del resto non
mancano francesi che anche quanto al bello, antepongano la loro letteratura
alle antiche, segno di falso gusto, cioè allontanato dalla natura,
più gradi, che non ne sono allontanati gli altri gusti. I francesi di
buon gusto cioè più naturale, gusteranno anche gl'italiani
classici, sebbene tanto opposti alla loro maniera. Li gusteranno però
meno di quello che facciano (ed effettivamente lo fanno) le altre nazioni, e
saranno offesi di molte che a noi e agli altri paiono naturalezze. Non dico
niente delle letterature e gusti orientali, o selvaggi ec. ec.
Ho discorso delle sole letterature.
Altrettanto va detto delle belle arti, modi di conversare ec. ec. e di tutto
ciò dov'entra il semplice e il naturale.
Ho notato altrove certe naïvetés
francesi che mi paiono affettatissime, non relativamente, [1419]cioè
perch'elle non sieno naïvetés per noi, ma (dirò così)
assolutamente, perch'essendo naïvetés anche per noi, e vere naïvetés,
risaltano e contrastano sopramodo colla maniera e lo stile ec. di quella
nazione, e producono il senso della sconvenienza, almeno in noi che in questo
punto, e nel giudizio della naturalezza (che è tutto ciò che si
chiama finezza di gusto, e che si venera e si consulta negli antichi maestri
ec.), siamo più delicati. Ed ecco come la stessa assoluta
semplicità o naturalezza, che si considera per assolutamente bella,
possa molte volte esser brutta, perchè sconveniente, secondo le
circostanze, le assuefazioni, le opinioni ec. Il che si avvera in milioni di
casi, come ho dimostrato. Insomma tante sono le naturalezze quante le
assuefazioni, e quindi lo stesso buon gusto si divide in tanti gusti, quante
sono le assuefazioni ec. de' tempi e luoghi ec. e quanto ai particolari non
c'è regola generale intorno al bello di letteratura, arti ec.
Prima di lasciare il discorso della
semplicità, voglio notare che siccome il piacer che si riceve dal bello,
dal grazioso ec. è bene spesso [1420]in ragione dello straordinario
dentro certi limiti, così noi proviamo della semplicità de' greci
de' trecentisti ec. maggior piacere assai che i loro contemporanei, e quindi
l'ammiriamo di più, e la troviamo assai spesso più bella ec.
Così pure accade secondo le diverse nazioni. Vale a dire che la
differenza delle nazioni e de' tempi, ossia delle assuefazioni ec. come
può diminuire il pregio della semplicità e naturalezza ec.
secondo che ho dato a vedere, così lo può anche aumentare, e
variare intorno ad essa il giudizio e il senso degli uomini anche in questa
parte. V. p.1424. Tanto è vero che tutte le sensazioni umane sono
modificate e dipendono quasi esclusivamente dall'assuefazione e dalle
circostanze ec. V. ed applica alla semplicità quanto ho detto della
grazia. p.1322-28.
(30. Luglio 1821.)
Siccome gl'inglesi hanno una patria,
però sono accusati come i francesi di non trovar bello nè buono
se non ciò ch'è inglese, e di un gusto esclusivo per le cose loro.
(30. Luglio 1821.)
La forza anche passeggera del corpo, oltre
gli effetti altrove notati, rende anche più coraggiosi del solito, e
meno suscettibili al timore, anche [1421]de' pericoli straordinari ec.
Quindi i giovani sono più coraggiosi de' vecchi, e disprezzatori della
vita, benchè abbiano tanto più da perdere ec. contro quella
osservazione ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol essere l'aver
poco a perdere ec.
(31. Luglio 1821.)
Alla p.512. marg. Ancor noi oltre ove
ch'è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma
è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli
per ubi dicono donde (e adonde) che è quasi de
unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde,
che per altro vale, non ubi, ma unde.
(31. Luglio 1821.)
L'attendere e il riflettere non è
altro che il fissare la mente o il pensiero, il fermarlo ec. Abito che
produce la scienza, l'invenzione, l'uomo riflessivo ec. Abito puro, come
facilmente può considerare ciascun uomo riflessivo in se stesso, e notare
ch'egli esercita quest'abito anche senz'avvedersene, e nelle cose che meno
gl'importano, e giornalmente. Abito però poco comune, e però poco
frequenti sono i pensatori, e i riflessivi ec.
(31. Luglio 1821.). V. p.1434. princip.
[1422]Il sistema di odio nazionale
si vede anche oggidì, sì nelle nazioni che meglio conservano la
nazionalità (come tra i francesi e gl'inglesi ec.), sì massimamente
ne' selvaggi, i quali, come gli antichissimi, combattono per la vita e le sostanze,
non danno quartiere ai vinti, o menano schiave le tribù intiere, sono in
perpetua nemicizia fra loro, abbruciano, scorticano, fanno morire fra i
più terribili tormenti i nemici della loro tribù ec. ne mangiano
le viscere ec. ec. ec.
(31. Luglio 1821.)
Figuriamoci la parola commercio in
quel senso preciso, e al tempo stesso vastissimo, nel quale tutto il mondo
l'adopra oggidì, nel quale tanto se ne scrive, nel quale tutti i
filosofi considerano e trattano questo soggetto. La Crusca non porta esempio di
questa parola in questo senso, e veramente ella in tal senso non è
classica. Noi abbiamo la voce classica, mercatura che secondo
l'etimologia ec. vale a presso a poco lo stesso. Or dunque sarebb'egli ben
detto, le forze, gli effetti, la scienza della mercatura, in vece del
commercio? Produrremmo noi quell'idea precisa ec. che produce questa seconda
voce? l'idea di quella cosa che (si può dire) nel [1423]passato
secolo, si è ridotta a scienza, e fa tanta parte delle considerazioni
del filosofo, e ha tanta influenza sullo stato delle nazioni, e del genere
umano? Signor no: e s'io dirò, Principalissima sorgente di
civiltà si è la mercatura, in cambio di dire il commercio,
non solamente non sarò bene inteso nè dagli stranieri nè
dagl'italiani, ma sarò deriso dagli uni e dagli altri, e massime da
questi. E se le sue Lezioni di commercio il nostro Genovesi le avesse
intitolate Lezioni di mercatura, avremmo noi medesimi potuto ben
rilevare dal titolo il soggetto dell'opera? Così dico del Saggio
sopra il Commercio dell'Algarotti. Ecco quanto importi l'attenersi
precisamente alle parole ricevute, e dalla convenzione precisamente applicate,
massime in fatto di scienze ec. quando anche s'abbiano parole più
eleganti, più classiche, e che in altri casi si possano benissimo adoperare
in luogo delle più comuni, come accade di mercatura, che si
può bene adoperare in molti casi, come si adopera traffico ec. ma
non dove il soggetto domanda quella precisione di significato ch'è
propria della voce Europea, commercio.
(31. Luglio 1821.) [1424]. V. p.1427.
Ogni scienza. e ogni arte ha li suoi
termini, e vocaboli, dice il Davanzati nella Notizia de'
Cambj, (Bassano 1782. p.92.) il quale però chiama Mercatura quello
che noi Commercio. Molto più saranno importanti e da rispettarsi
quei vocaboli che servono di nome alla scienza o all'arte, come qui.
(31. Luglio 1821.)
Anche le scienze fisiche vanno innanzi a
forza di decomporre la natura, ec. e ordinariamente una nuova forza scoperta
nella natura, non è altro che una parte ignota di una forza di un agente
già noto, o una forza che si credeva tutt'uno con questo, e non era ec.
(31. Luglio 1821.)
Alla p.1420. marg. Del resto la durevolezza
del gusto che si trova in questa semplicità p.e. di Omero ec.
l'universalità di questo gusto (almeno fra le nazioni di un medesimo
genere ec.), il risorgere ch'egli fa negli uomini, ancorchè spento talora
dalle circostanze; il perpetuarsi; il crescere in luogo di scemare, siccome ho
detto; tutto ciò non è [1425]proprio nè possibile
se non a quella vera semplicità, o a quelle qualità d'ogni genere
(sia in letteratura o altrove) che sono realmente conformi alla natura
immutabile, e universale; almeno alla natura qual ella è in quelle tali
nazioni. Da questo dunque e non da altro
può derivare ciò che dice Voltaire: pourquoi des scènes
entières du PASTOR FIDO sont-elles sçues par coeur aujourd'hui
à Stocolm et à Pétersbourg? et pourquoi aucune piece de Shakespeare
n'a-t-elle pu passer la mer? C'est que le bon est recherché de toutes les
nations. Un falso pregio, cioè non naturale, in fatto di
bellezza, non può dunque nè lungamente nè comunemente
essere stimato, e la mia teoria che distrugge il bello assoluto, lascia salda
questa massima, e quella che il giudizio conforme delle nazioni e de' secoli
circa il bello d'ogni genere, non erra mai; e lascia interi e inviolati i
diritti che i grandi scrittori, poeti, artisti, hanno alla immortalità,
ed alla universalità della fama.
(31. Luglio 1821.)
[1426]Il Cristianesimo è un
misto di favorevole e di contrario alla civiltà, di civiltà e di
barbarie; effetto dell'incivilimento, e nemico de' suoi progressi 1. come lo
sono tutte quelle opinioni ec. ec. che fissano lo spirito umano, e gl'impediscono
di progredire, conforme hanno sempre fatto i sistemi ec. ancorchè
derivati da somma dottrina, e coltura ec. 2. com'è naturale ad un
ritrovato, a un frutto della mezza anzi corrotta civiltà. Il
Cristianesimo nella sua perfezione (e la natura, la proprietà, gli effetti
delle cose, vanno considerati nella perfezione di esse, e non in uno stato
imperfetto, cioè quali non debbono essere), è incompatibile non
solo coi progressi della civiltà, ma colla sussistenza del mondo e della
vita umana. Com'è possibile che duri quello che tien se stesso per un
nulla ec. ec. e che anela al suo proprio discioglimento? L'uomo non doveva
intendere dalla ragione che le cose non valessero a nulla, e fossero
infelicissime. Egli era pur fatto per esse. Così dunque non doveva impararlo
dalla Religione. L'averlo imparato distruggerebbe la vita, se l'uomo seguisse
fedelmente e precisamente i dettami e lo spirito della Religione. [1427]Consideriamo
il Cristianesimo nel suo primo fervore, quando tutti anelavano alla verginità,
quando 3 quarti dell'anno si passavano in orazione, ne' tempj, in vigilie, in
macerazioni eccessive, ec. e domandiamo: se il Cristianesimo non si fosse
corrotto o illanguidito, quanto avrebbe fisicamente potuto durare? Ma quella
era pur la sua perfezione, e il suo puro e primitivo stato. Il mondo non
può sussistere s'egli non ha se stesso per fine. Tutte le cose sono
così disposte, che in quanto a se, non mirino ad altro che a se stesse.
L'uomo solamente dovrebbe mirare non solo a tutt'altri che a se in questo
mondo, ma ad un tutt'altro mondo, e considerarsi come fuori di questo.
Come dunque potrebbe durare la specie e la vita umana, contro gl'insegnamenti e
l'essenza della natura, e l'ordine generale e particolare di tutti gli altri
esseri?
(31. Luglio 1821.)
Alla p.1424. Molte volte non basta che una
nazione sia stata la prima inventrice di una disciplina, datole il nome, e una
certa nomenclatura. Bisogna vedere dov'ella ha ricevuto il suo principale [1428]incremento
e formazione. E se ciò è stato presso un altro popolo, e se
ciò ha cangiato il suo primo nome e la sua prima nomenclatura, allora
quello stesso popolo che inventò quella disciplina, e la comunicò
agli stranieri, ricevendola scambievolmente dagli stranieri come nuova, non
dovrà adoprar mica que' suoi primi nomi, ch'egli non ne ha più il
dritto, non sarebbe inteso neppur da' suoi, e guasterebbe ogni cosa; ma gli
sarà forza adottare que' nuovi termini, e il nuovo nome della stessa
disciplina. Così (v. p.1422-1424.) quando anche l'Italia fosse stata la
prima a ridurre a scienza il commercio sotto nome di mercatura, s'ella poteva
dargli questo nome al tempo del Davanzati (nel qual tempo, oltracciò
l'Europa non era in tale stato che potesse avere vocaboli universali, o ne
abbisognasse ec. nè la precisione della convenzione era sì
stabilita ec.), non può darglielo oggi che questa scienza per opera
principalmente degli stranieri, mutando faccia da quello ch'era nel
(1. Agosto 1821.)
L'antico è un principalissimo
ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva,
una veduta romantica ec. ec. o solamente spirituali ed interiori. Perchè
ciò? per la tendenza dell'uomo all'infinito. L'antico non è eterno,
e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l'anima uno spazio di
molti secoli, produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo
indeterminato, dove l'anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li
discerne, e non sa quali sieno. Non così nelle cose moderne, perch'ella
non vi si può perdere, e vede chiaramente tutta la stesa del tempo, e
giunge subito all'epoca, al termine ec. Anzi è notabile che l'anima in
una delle [1430]dette estasi, vedendo p.e. una torre moderna, ma che non
sappia quando fabbricata, e un'altra antica della quale sappia l'epoca precisa,
tuttavia è molto più commossa da questa che da quella.
Perchè l'indefinito di quella è troppo piccolo, e lo spazio,
benchè i confini non si discernano, è tanto angusto, che l'anima
arriva a comprenderlo tutto. Ma nell'altro caso, sebbene i confini si vedano, e
quanto ad essi non vi sia indefinito, v'è però in questo, che lo
spazio è così ampio che l'anima non l'abbraccia, e vi si perde; e
sebbene distingue gli estremi, non distingue però se non se confusamente
lo spazio che corre tra loro. Come allorchè vediamo una vasta campagna,
di cui pur da tutte le parti si scuopra l'orizzonte.
(1. Agosto 1821.)
Circa le sensazioni che piacciono pel solo
indefinito puoi vedere il mio idillio sull'infinito, e richiamar l'idea
di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza
non arrivi alla valle; e quella di un filare d'alberi, la cui fine si perda di
vista, o [1431]per la lunghezza del filare, o perch'esso pure sia posto
in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia
innalzarsi sola sopra l'orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto
efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l'indefinito ec. ec. ec.
(1. Agosto 1821.)
Non c'è miglior modo di far colpo e
fortuna con una giovane superba e sprezzante, che disprezzandola. Or chi
crederebbe che l'amor proprio (giacchè dal solo amor proprio deriva
l'amore altrui) potesse produrre questo effetto, che quando egli è
punto, si provasse inclinazione per chi lo punge? Chi non crederebbe al contrario
che una donna altera e innamorata di se stessa, dovesse vincersi, interessarsi,
allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi, ec.? Eppur così è. Non
solo l'ossequio e l'omaggio ti farà sempre più disprezzar da costei,
ma se disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una inclinazione
per te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di aver fatto abbastanza,
ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e le dai qualche
piccolo segno di sommissione, [1432]di amore che si dimostri per vero
ec. tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente si disgusta di te, e ti
disprezza. Conviene che tu segua imperturbabile a mostrarle noncuranza fino alla
fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di quel centiforme amor proprio,
che produce gli effetti i più svariati e contrari. Tanto che, mentre
quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, (sebbene alcune volte, e in
certe circostanze, se ne offendono) quelle però massimamente dove l'amor
proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe
ed egoiste ec. V. in questo proposito
les Mémoires secrets de Duclos à Lausanne 1791. t.1. p.95. e p.271-273. V. in
questo proposito altro pensiero dove ho notato questo effetto, discorrendo
della grazia. Certo è però che questa modificazione dell'amor proprio,
non è delle più naturali, benchè non molto lontana dalla
natura; e ricerca un carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo.
(1 Agos. 1821.)
Si ha una perfetta immagine degli organi
dell'ingegno, e de' loro progressi ec. negli organi esteriori dell'uomo, e
nelle abilità di cui sono capaci, e nella maniera ed ordine con cui le
acquistano. P.e. gli organi della voce rispetto al canto. Non si acquistano [1433]tali
abilità che coll'esercizio e assuefazione ma questi vi ha gli organi
più disposti, quegli meno; questi ha bisogno di meno esercizio, quegli
di più; questi può riuscire perfettamente, quegli non mai; questi
è ben disposto alla tale abilità, quegli alla tal altra: tutti da
fanciulli hanno gli organi più suscettibili di contrarre qualsivoglia
abilità possibile all'uomo, perchè gli organi allora sono meglio
arrendevoli: e non c'è quasi abilità possibile di cui qualunque
fanciullo non sia capace, con più o meno esercizio; e capace anche di
riuscirvi in tutta la perfezione possibile. Ma passata la fanciullezza le
disposizioni degli organi variano di più, secondo la maggiore o minor
facoltà generale che l'individuo ha contratto, mediante maggiori
o minori esercizi, che producono essi stessi una maggiore o minor capacità
di contrarre abitudini ec. e d'imparare. Tali nè più nè
meno sono gli organi del cervello, e le differenze loro sono della stessissima
natura, e vengono dalle stesse cagioni.
(1. Agos. 1821.)
[1434]Alla p.1421. fine.
Quest'abito è la principal fonte della miseria sì del mondo, per
le verità ch'esso scuopre, sì dell'individuo. Ma la natura, la
quale ha dato a tutti più o meno la possibilità di contrarlo,
mediante uno sviluppo e modificazione non naturale, delle facoltà e
qualità naturali, ha pur dato a tutti i mezzi più che sufficienti
per non contrarlo: mezzi però che oggi son veramente inutili e
insufficienti per molti.
(1. Agos. 1821.)
In uno stesso tempo e nazione, quegli prova
un vivo senso di eleganza, in tale o tal parola, o metafora, o frase, o stile,
perocchè non v'è assuefatto; questi nessuno, per la contraria
ragione. Una stessa persona, oggi prova gran gusto di eleganza in uno
scrittore, che alquanto dopo, quand'egli s'è avvezzato ad altri scritti
più eleganti, non gli pare elegante per nulla, anzi forse inelegante.
Così è accaduto a me, circa l'eleganza degli scrittori italiani.
Così coll'assuefazione (e non altro) si forma il gusto, il quale come ci
tende capaci di molti piaceri, che per l'addietro malgrado la presenza degli [1435]stessi
oggetti ec. non provavamo, così anche ci spoglia di molti altri che
provavamo, e generalmente, o almeno bene spesso, e sotto molti aspetti, ci
rende più difficili al piacere.
(1. Agosto 1821.)
Il piacere che si prova della purità
della lingua in uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se
non dopo le regole, e quando è più difficile il conservare detta
purità, ed essa meno spontanea e naturale. I trecentisti ne se doutoient
point di questo piacere ne' loro scrittori, che sono il nostro modello a
quello riguardo. E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo
pregio, nè che questo fosse un pregio ec. come si può vedere
dalle molte parole provenzali, Lombarde, genovesi, arabe, greche storpiate,
latine ec. che adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl'inglesi
la cui lingua non è stata mai soggettata a più che tanta regola,
ed ha mancato e manca di un Vocabolario autorizzato, forse non sanno che
cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal confronto,
e finchè non vi sono [1436]scrittori o parlatori impuri
(riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità della
lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca,
benchè senza cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove che i
toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana,
e infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, e che la
purità dipende da esse, e fin da quando esse nacquero; perch'essi non le
sanno, non le curano, e fin d'allora, generalmente parlando, non le curarono.
(Varchi, e Speroni. V. Monti Proposta ec. alla v. Becco, nel Dialogo del
Capro.) Tutto ciò accade presso a poco anche in ordine alla
purità dello stile ec. ec.
(2. Agos. 1821.)
Mirabile disposizione della natura! Il
giovane non crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè
non crede che debbano avverarsi ne' particolari della sua vita, degli uomini
ch'egli conosce, e tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare
il mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione.
E crede pienamente a' poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi,
cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel [1437]modo,
e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che dovrebbero fare
per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti filosofici
ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione,
nè piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della
natura. E solo quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato
dalla condizione naturale, l'esperienza lo costringe a credere quello che la
natura gli nascondeva, perchè neppur nel fatto era conforme alle di lei
disposizioni. Segno che il mondo è tutto il rovescio di quello che
dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra regola di giudizio, se non
la natura, e quindi è giudice competentissimo, giudica sempre ed inevitabilmente
vero il falso, e falso il vero.
(2. Agosto 1821.)
Intorno alle supposte proporzioni assolute,
o in quanto stabilite dalla natura, o in quanto anteriori alla stessa natura, e
necessarie, merita di esser notato quello che affermano gli ottici, che i
diversi individui veggono [1438]gli stessi oggetti diversamente grandi,
secondo le differenze degli organi visivi; e così, credo, anche una medesima
persona secondo le differenze dell'età, e le alterazioni de' suoi propri
organi ec. ancorchè non sensibili, perchè fatte appoco appoco.
Similmente forse si può dire di tutti gli altri sensi fisici differentissimi
ne' diversi individui; e senza fallo e molto più de' sensi morali d'ogni
genere, benchè questi sieno più soggetti ad uniformarsi mediante
lo sviluppo e le modificazioni che ricevono dalla società.
(2. Agosto 1821.)
Bellissima istituzione è quella del Cristianesimo
di consacrare ciascun giorno alla memoria di qualcuno de' suoi Eroi, o di
qualcuno de' suoi fasti, celebrando con solennità, o universalmente quei
giorni che appartengono alla memoria de' fasti più importanti alla
Chiesa universale, o particolarmente quei giorni che spettano ad un Eroe la cui
memoria interessa questo o quel luogo in particolare ec. ec. Dal che risultano
le uniche feste popolari che questo tempo conservi. E l'influenza delle feste
popolari sulle nazioni è somma, degnissima di calcolo per li politici,
utilissima quando risveglia gli animi alla gloria, colla rimembranza, e la
pubblica e solenne celebrazione e quasi proposizione de' grandi esempi ec.
Non è però da credere che [1439]questa
sì degna istituzione debba la sua origine al Cristianesimo. Nè
l'epoca del Cristianesimo, epoca nella quale il mondo incominciava, si
può dire, per la prima volta a sentire la mancanza della vita, la noia,
il nulla, e la morte, era capace di produrre una istituzione tutta di vita, una
istituzione energica, fonte di grandezza, sprone all'attività ec.
Bensì è doloroso che di questa istituzione anteriore assai al
Cristianesimo, che la imitò e la ricevè dal mondo antico, non
resti oggi altro che le feste religiose, essendo del tutto abolite e perdute le
nazionali.
Giacchè le feste che si chiamano
onomastiche de' principi ec. o quelle d'incoronazioni, o anniversarie di dette
incoronazioni ec. ec. non sono nè popolari, nè nazionali,
nè utili a nulla. Non sono materialmente popolari, perchè per lo
più non si stendono fuor delle corti, o almeno fuor delle capitali, si
limitano a cerimonie di etichetta, non hanno niente di vivo, di entusiastico
ec. Non sono spiritualmente popolari, cioè nazionali, perchè la
festa di un principe vivo, non è festa della nazione, la quale o [1440]non
si cura di lui, o probabilmente l'odia o l'invidia, o lo biasima in cento mila
cose; o per lo meno è del tutto indifferente sul conto suo, e quasi
estranea al suo principe, o a' suoi subalterni. E quando anche il principe fosse
(che oramai non è possibile) il padre e il benefattore del suo popolo,
quando anche fosse amato dalla nazione com'era Enrico 4 fra' principi sovrani,
o Sully fra' ministri ec.; la festa di un uomo vivo e potente, non essendo
nè potendo mai essere scema d'invidia, non è festa nazionale,
perchè questa richiede che tutta la nazione sia pienamente d'accordo sul
soggetto della festa, e le passioni individuali siano tutte morte intorno ad
esso, e il giudizio sia puro, libero, e conforme spontaneamente in tutta
la nazione. E quando pur ciò si avverasse (ch'è impossibile)
intorno ad un principe vivente, non è mai festa nazionale quella
ch'è, se non altro, sospetta di adulazione a quegli stessi che la
celebrano. Questo solo sospetto, inseparabile dagli onori resi a un potente
vivo, spegne qualunque sentimento magnanimo, è incompatibile
coll'entusiasmo, e con [1441]quel senso di libertà che forma la
più necessaria parte di una festa nazionale, la quale deve racchiudere
l'idea di premio conceduto alla virtù, al merito, ai beneficj, ma
conceduto spontaneamente e gratuitamente, cioè per pura gratitudine, ammirazione,
amore, senza sperar nulla da colui al quale si concede. Non sono utili,
sì per le dette ragioni, le quali affogano, anzi vietano affatto
l'entusiasmo, e tutta la vita che da tali istituzioni si raccoglie; sì
perchè l'esempio de' regnanti o de' potenti, non è imitabile, e
quindi inutile alla moltitudine. E la disuguaglianza e la distanza delle
condizioni fra l'onorato, e chi l'onora, toglie ancora quell'affezione, quell'inclinazione,
quella specie di amicizia, che nelle antiche feste nazionali legava il popolo
co' suoi passati Eroi, ed era capace di eccitare generosamente gli animi.
Le feste del popolo Ebreo furono tutte
religiose. Ma presso tutti i popoli antichi, massimamente però presso
gli Ebrei, la religione era strettissimamente legata colla storia [1442]della
nazione. Le opinioni che gli Ebrei avevano circa la loro origine ec. il loro
governo sempre partecipante di teocrazia, i loro costumi tanto e continuamente influiti
dalla religione (come si vede anche oggi) ec. confondevano forse più che
presso qualunque altro popolo (a causa forse della loro maggiore
antichità) le origini e i progressi della nazione colle origini e i
progressi del culto, le glorie della religione, con quelle della nazione ec.
ec. Tutte le feste del Pentateuco richiamano e consacrano e perpetuano la memoria
di qualche grande avvenimento degli antenati, di qualche antico benefizio di
Dio verso la nazione, ec. e son tutte feste nazionali e patriotiche,
appartenendo o ai fatti de' loro Eroi considerati non meno come nazionali che
come santi, o alle opere di Dio, considerato da loro quasi capo della nazione,
e quasi principe de' loro Eroi, guida, condottiere, maestro de' loro antenati,
ed origine immediata della loro stessa razza.
Non così le nostre feste religiose [1443]che
sono ben popolari, ma nulla hanno di nazionale, non avendo nulla di comune, e
di strettamente legato i fasti delle moderne nazioni, e le opere de' nostri
antichi o moderni Eroi nazionali, coi fasti della religione, e colle opere
degli Eroi Cristiani: i quali oltracciò non sono sempre nostri
compatrioti, com'erano tutti quelli di cui gli Ebrei, o le altre nazioni celebravano
la memoria. Anzi non appartengono bene spesso in verun modo alla nostra patria.
E lascio poi la spiritualità del culto che si rende nelle feste cristiane,
spiritualità ben diversa da quella degli Ebrei ed altri antichi, e del
tutto incompatibile coll'entusiasmo, colle grandi illusioni, coll'infervoramento
della vita, coll'attività ec. La festa della dedicazione del tempio di
Salomone, aveva un soggetto più materiale delle nostre, ma però
più delle altre feste Ebraiche diviso dal nazionale: effetto de' tempi,
e del sistema monarchico sotto il quale fu istituita. Teneva però ancora
non poco di nazionalità, stante la gran parte ch'ebbe la nazione [1444]a
quella fabbrica, la solennità e nazionalità di quella dedicazione
fatta da Salomone, il visitar che la nazione faceva ogni anno quel tempio, l'attaccamento
generale alla religione, e l'influenza sua sulla vita e il regime del popolo; i
monumenti dell'antica storia ec. che quel tempio conteneva, e l'esser tutta la
Religione Giudaica quasi rinchiusa e immedesimata con quel tempio; l'affezione
che il popolo gli portava, come poi si vide nella riedificazione fattane da
Esdra e Neemia, quando i vecchi piangevano per la ricordanza del tempio antico
ec. ec. Questo nuovo tempio era forse ancor più nazionale, per la
circostanza d'essere stato fabbricato dalle stesse mani della nazione, e sotto
la tutela delle armi nazionali contro i Samaritani ec. Così che la festa
del tempio sì antico che nuovo, era, si può dir, la memoria di
un'impresa nazionale.
Delle feste religiose presso gli altri
popoli antichi, come fossero legate col nazionale, p.e. quella di Minerva in
Atene ec. si può facilmente vedere negli storici e negli eruditi ec.
Giacchè anche le altre nazioni si attribuivano origini e fasti mitologici
ec. ec. ec.
[1445]Delle feste nazionali e
patriotiche de' greci e de' romani, e della loro somma influenza sull'eroismo
della nazione, v. Thomas Essai sur les Éloges, ch.6. p.65-66. ch.12. p.149.
ch.10. p.117. il Meursio e gli altri che hanno scritto De Festis Graecorum o
Romanorum.
I trionfi presso i Romani erano vere feste
nazionali, benchè non anniversarie. Nè faceva alcun danno che
forse la principal parte dell'onore di quella festa fosse renduto a un uomo
vivo. 1. Non era egli che se lo decretava, nè una truppa di servi e di
adulatori che glielo concedeva, ma il senato ec. uguale a lui ec. 2. Per quanto
egli fosse potente, non era mai più potente del popolo, che celebrava la
festa; anzi era in istato di tornare un giorno o l'altro come qualunque
privato.
Simili considerazioni si possono fare
intorno ai giuochi atletici dei greci, e agli onori che si rendevano ai
vincitori, ancorchè [1447]viventi ec.
Di tali feste nazionali o patriotiche, il
mondo civile non ne vede più veruna, di nessunissimo genere, se non
talvolta qualche Te Deum ed altre cerimonie per una vittoria del
principe: sorta di feste che essendo parimente del principe, e poco stendendosi
al popolo ec. non meritano di chiamarsi nazionali, quando anche quella vittoria
sia veramente utile alla nazione; e non producono quindi mai veruna emulazione,
e verun buono effetto, fuorchè una vana allegrezza, giacchè il
popolo non vi prende parte (quando pur ve la prenda) se non come invitato;
cioè la stessa parte ch'egli ebbe nell'impresa, e che potrà avere
nel frutto di questa, se al principe piacerà.
Restano dunque per sole feste popolari, le
feste religiose, affatto divise fra noi dal nazionale, ed oltracciò poco
oramai popolari, perchè, eccetto alcune, le più si restringono ai
soli tempj, massime nelle grandi città, dove i passatempi sono
quotidiani e sufficienti per se soli ad occupare.
Pur questa delle feste religiose [1448]è
una bellissima istituzione, come ho detto, ma derivata da' costumi antichi, e
da usanze, come ho dimostrato, ben anteriori al Cristianesimo, fra le quali
bisogna notare, come più strettamente analoga alle nostre feste,
l'usanza de' settari de' diversi filosofi di celebrare ogni anno con conviti
ec. la festa genetliaca dell'xxx della loro setta. V. Porfirio, Vita Plotini,
c.15. e quivi le mie note. Si sa che i Cristiani antichi nelle feste de' loro
eroi ec. si univano pure a banchettare. ec. Del resto, le feste genetliache
sì de' privati ancor viventi, sì, credo, degl'imperatori ec. o
morti o vivi ec. erano assai comuni presso gli antichi, e lo sono anche oggi,
ma son fuori del nostro soggetto.
(3. Agosto 1821.). V. p.1605. capoverso 2.
È vero che la poesia propria de'
nostri tempi è la sentimentale. Pure un uomo di genio, giunto a una
certa età, quando ha il cuor disseccato dall'esperienza e dal sapere,
può più facilmente scriver belle poesie d'immaginazione che di
sentimento, perchè quella si può in qualche modo comandare,
questo no, o molto meno. E se il poeta scrivendo non [1449]è riscaldato
dall'immaginazione, può felicemente fingerlo, aiutandosi della
rimembranza di quando lo era, e richiamando, raccogliendo, e dipingendo le sue
fantasie passate. Non così facilmente quanto alla passione. E
generalmente io credo che il poeta vecchio sia meglio adattato alla poesia
d'immaginazione, che a quella di sentimento proprio, cioè ben
diverso dalla filosofia, dal pensiero ec. E di ciò si potrebbero forse
recare molti esempi di fatto, antichi e moderni, contro quello che pare a prima
vista, perchè l'immaginazione è propria de' fanciulli, e il
sentimento degli adulti.
(3. Agosto 1821.). V. p.1548.
Non solo i contemporanei p.e. di Omero, sentivano
e gustavano la di lui semplicità ben meno di noi, come ho detto altrove,
ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice, non credè non
cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe pienamente
il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè
della sua propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed
altri ornamenti ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli [1450]quando
cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio dell'opera tutto il
contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati ec.
Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva insaputamente
la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla
stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo
facilmente evitare cercando la semplicità, la quale però non ha
mai più potuto conseguire. Così dico dell'Ariosto ec. de' cui
difetti ho parlato ne' miei primi pensieri, ed altrove. Così dei trecentisti
manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose, benchè,
per indole naturale, semplicissimi ec.
(4. Agosto 1821.)
Da quanto ho detto altrove che l'ingegno
è facilità di assuefarsi, e che questa facilità include
quella di mutare assuefazioni, di contrarne delle nuove in pregiudizio delle
passate ec. risulta che i grandi ingegni denno ordinariamente esser mutabilissimi
(di opinioni, di gusti, di stili, di modi, ec. ec.) non già per [1451]quella
volubilità che nasce da leggerezza, e questa da poca forza d'ingegno e
di concezioni e sensazioni ec. ma per la facilità di assuefarsi, e
quindi di far progressi. Però la mutabilità, quando conduca
sempre più avanti, ancorchè produca nell'uomo delle condizioni
tutte contrarie alle passate, è sempre indizio di grande ingegno, anzi
sua necessaria qualità. Ed infatti grandissima differenza si suol
trovare p.e. tra le prime e le ultime opere di un grande scrittore (sia nel
genere, sia nello stile, sia nelle opinioni, sia ne' pregi particolari o
qualità ec. sia in tutte queste cose insieme), e nessuna o pochissima in
quelle de' mediocri, o degl'infimi. Paragonate il Rinaldo del Tasso, o la prima
Tragedia del Metastasio o dell'Alfieri colle ultime ec. Così pure nelle
inclinazioni della vita o degli studi, ne' gusti letterarii ec. Così
dico anche rispetto alle sue assuefazioni e abilità materiali ec.
(4. Agos. 1821.)
Non c'è sommo ingegno che nel suo [1452]primissimo
periodo non si trovi appresso a poco a livello cogl'infimi ingegni, posti in
quello stesso periodo. Dal che si vede che il grande ingegno non si forma se
non mediante l'uso dell'esercizio e delle assuefazioni, il qual uso gli
facilita poi l'abito di assuefarsi, che è quanto dire, gli produce il
talento ec. ec.
(4. Agos. 1821.)
Ciascun uomo è come una pasta molle,
suscettiva d'ogni possibile figura, impronta ec. S'indurisce col tempo, e da
prima è difficile, finalmente impossibile il darle nuova figura ec. Tale
è ciascun uomo, e tale diviene col progresso dell'età. Questa
è la differenza caratteristica che distingue l'uomo dagli altri viventi.
La maggiore o minore conformabilità primitiva, è la
principal differenza di natura fra le diverse specie di animali, e fra i
diversi individui di una stessa specie. La maggiore o minore conformabilità
acquisita (mediante l'uso generale delle assuefazioni, che produce la
facilità delle assuefazioni particolari) e le diverse forme ricevute [1453]da
ciascun individuo di ciascuna specie, è tutta la differenza di accidente
che si trova fra detti individui. Quindi considerate quanto sia ragionevole
l'opinione delle cose assolute, anche dentro i limiti, e l'ordine effettivo
della natura qual ella è, e dilatate questo pensiero.
Da tali osservazioni segue che la natura ha
lasciato più da fare per la loro vita, a quegli esseri ai quali ha dato
maggiore conformabilità, cioè qualità e facoltà
più modificabili, diversificabili, e variamente sviluppabili, e capaci
di produrre più diversi e moltiplici effetti, quantunque lasciate quali
sono naturalmente, non li producano. Tale è soprattutti l'uomo. Quello
che la natura gli possa aver lasciato a fare, l'ho detto in altro pensiero.
(4. Agosto 1821.). V. p.1538. capoverso 1.
Malamente si distingue la memoria
dall'intelletto, quasi avesse una regione a parte nel nostro cervello. La
memoria non è altro che una facoltà che l'intelletto ha di assuefarsi
alle concezioni, diversa dalla facoltà di concepire o d'intendere. ec.
Ed è tanto necessaria all'intelletto, ch'egli senza di essa, non
è capace di verun'azione, (l'azione dell'intelletto è
diversa dalla semplice concezione ec.) perchè ogni [1454]azione
dell'intelletto è composta, (cioè di premesse e conseguenza)
nè può tirarsi la conseguenza senza la memoria delle premesse.
Bensì questa facoltà, che quantunque inerentissima all'intelletto,
e spesso appena distinguibile dalla facoltà di concepire e di ragionare,
è però diversa, può sommamente illanguidirsi ec. senza che
quella di concepire ec. s'illanguidisca nè si perda ec. e può
essere anche originariamente debole, in un intelletto ben provvisto delle altre
facoltà. Osservate però (contro quello che si suol dire che
l'ingegno è indipendente ec. dalla memoria) che non v'è quasi
grande ingegno che non abbia grande memoria, almeno originariamente. E
ciò 1. perchè la facilità di assuefarsi ec. che forma i
grandi ingegni, cagiona naturalmente ed include anche la facoltà della
memoria ec. 2. perchè un ingegno senza memoria, ancorchè sia
grande, non si conosce per tale, non potendo produrre notabili effetti ec.
Del resto la facoltà di assuefazione
in che consiste la memoria è indipendente in molte parti dalla
volontà, come altre assuefazioni [1455]materiali e fuor della
mente ec. Il che si vede sì per mille altre cose, sì
perchè spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama
alla memoria un'altra provata per l'addietro, senza che la volontà contribuisca,
o abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci
richiama p.e. quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto
ec. Così l'Alfieri nel principio della sua Vita, osserva una sua
rimembranza che fa al proposito ec.
(4. Agosto 1821.)
La forza dell'assuefazione nell'uomo, e come
lo sviluppo di tutte le sue facoltà dipenda da essa, si può
vedere ne' suoi organi esteriori, paragonando quelli de' fanciulli (e
più, de' bambini) a quelli degli adulti, non relativamente alle
abilità particolari, ma all'uso quotidiano che fa ciascun uomo di detti
organi, p.e. delle mani. Le quali troveremo inettissime ne' fanciulli a quelle
medesime cose che noi più facilmente operiamo. E ciò non
già per la sola debolezza ec. degli organi, inerente a quella
età, ma anche del tutto indipendentemente da questa, per la mancanza
sì delle assuefazioni [1456]particolari a questa o quella
operazione, sì dell'esercizio generale che abilita l'organo ad eseguir
senza il menomo stento una operazione del tutto nuova ec. delle quali, rispetto
p.e. alle mani, ce ne capita tuttogiorno. Così che osservando gli organi
esteriori de' fanciulli, appena si crederebbe ch'essi fossero gli stessi che i
nostri, e che avessero in potenza le stesse facoltà ec. Meno bisognosi
di assuefazione sono gli organi degli animali, secondo quello che ho detto
p.1452-53. Che cosa è l'uomo? Un animale più assuefabile degli
altri.
(5. Agosto 1821.)
Frissonner ec. o ec.
(5. Agosto 1821.)
Osserviamo nuovamente la forza dell'opinione
sul bello. Ho detto altrove che l'eleganza consiste in qualcosa d'irregolare.
Quindi è che mentre cento eleganze si gustano e piacciono negli
scrittori accreditati, infinite altre che meriterebbero lo stesso nome, e sono
della stessa natura, non paiono eleganze e non piacciono, perchè la loro
irregolarità si trova in autori non abbastanza accreditati,
ancorchè sieno di vero merito, p.e. se sono moderni, onde non possono
avere [1457]l'autorità de' secoli in loro favore. Anzi quelle
stesse locuzioni, metafore, ec. ec. che trovate in un autore accreditato ci
daranno sapor di eleganza, trovate in autore non accreditato ci daranno sapor
di rozzezza, d'ignoranza, di ardire irragionevole, di sproposito, di
temerità ec. se non ci ricorderemo che quelle hanno per se
l'autorità di uno scrittore stimato. E ricordandocene in quel momento, o
anche dopo pronunziato il giudizio della mente, lo muteremo subito, e troveremo
effettivo gusto in quello che ci aveva dato effettivo disgusto. Il qual effetto
è frequentissimo negli studi di letteratura, e può stendersi a
considerazioni di molti generi, intorno al piacere che deriva dall'imitazione
del buono e classico, e bene spesso dalla sua contraffazione. Piacere non
naturale nè assoluto, ma secondario e fattizio, e pur vero piacere: anzi
tanto vero che la lettura dei classici, secondo me, non ha potuto mai dare agli
antichi quel piacere che dà a noi, e parimente i classici [1458]contemporanei
non ci daranno mai nè tanto gusto quanto gli antichi (cosa certissima),
nè quanto ne daranno ai posteri.
(6. Agos. 1821.)
Che in natura occorrano molti accidenti
contrari al di lei sistema, senza guastarlo ec. è vero. Ma l'amor
proprio non è accidente, anzi primissimo ed essenziale principio e perno
di tutta quanta la macchina naturale. Ora è certissimo che l'amor
proprio impedisce all'uomo sì nello stato naturale, sì molto
più in qualunque altro, di poter mai essere perfettamente buono,
cioè di pensieri e di opere perfettamente e perpetuamente consentaneo
alla legge che chiamano naturale. E l'impedisce non in cose leggere, ma
principalissime, non di rado, ma tutto giorno. Non dico niente delle passioni
naturalissime ec. ec. ec. Come dunque la natura ha fatto l'uomo ripugnante a se
stessa, cioè a se stesso? E che cos'è questa legge naturale, che
gli altri animali (perfetti sudditi della natura) non seguono, nè ponno
seguire, impediti dallo stesso amor proprio, nè conoscono [1459]in
verun modo? Non hanno ragione. Hanno però istinto, secondo voi altri, e
la legge naturale, secondo voi altri, e la forza stessa del termine, è
istinto innato ec. indipendente dalla riflessione, e quindi dalla ragione.
Dunque la legge naturale sarebbe tanto più conveniente agli animali che
non hanno ragione da supplirvi; siccome sarebbe quasi una qualità
animalesca nell'uomo libero e ragionevole. Secondo me hanno anche il principio
di raziocinio, hanno libertà intera, e se la legge naturale è
utile anzi necessaria all'uomo, perchè non dunque agli animali, o
liberi, o no che sieno? Ora essi, che pur non sono corrotti, e non hanno
spento, come voi dite di noi, l'impulso, la voce interna ec. agiscono
quotidianamente, e in ogni loro bisogno, in senso contrario a detta legge.
(6. Agos. 1821.)
Quanto gli uomini sono meno inciviliti (come
sono i selvaggi, com'erano gli Americani ec.) tanto maggiori e più frequenti
varietà di lingue o dialetti si trovano in più piccolo spazio di
paese, e minor quantità di gente. Cosa provata dalla storia, da' viaggi
ec. e proporzionatamente dalla stessa osservazione de' popoli più o meno
inciviliti, letterati ec. V. la p.1386. fine. Dal che si vede quanto la natura
contrasti all'uniformità de' linguaggi ec. come ho detto altrove.
(6. Agos. 1821.)
[1460]L'impero che il Cristianesimo
ha per tanti secoli esercitato (e prima e dopo il risorgimento della
civiltà) tanto sugli animi, le opinioni, i costumi privati e pubblici,
quanto sul temporale degli stati, e sulla politica universale del mondo Cristiano,
e generalmente insomma sulla vita umana, è stato quasi un impero della
filosofia, uno stabilimento di potenza filosofica, un'influenza, una
superiorità generale acquistata nel mondo dalla ragione sulla natura, le
naturali illusioni ec. e dallo spirito sopra il corpo. Stabilimento originato
da quell'epoca metafisica che produsse il Cristianesimo, e durato per le
circostanze dei lumi e degl'intelletti, e per la forza dell'abito ec. Allora il
mondo era quasi una repubblica filosofica, o piuttosto uno stato soggetto ad un
intollerante, universale, stretto, potente dispotismo della filosofia,
riconosciuto da tutti per giusto, o per invincibile, benchè tutta la sua
forza (al solito delle tirannie, e quasi d'ogni genere di governi) stesse
nell'opinione. Il Papa rispettato e temuto da tutti i privati e da tutti i
principi Cristiani, un inerme, un povero, da armati e da ricchi, era il vero
capo di una repubblica filosofica. Basta considerare quella cerimonia [1461]della
sua coronazione, quando se gli abbrucia innanzi agli occhi della stoppa,
dicendo: Beatissime pater, sic transit gloria mundi. Massima piena di
serissime e profondissime riflessioni filosofiche: gloria che veramente era
grande, anzi somma, un secolo e mezzo addietro: nè certo il Papa la
disprezzava, nè soleva ricordarsi molto spesso di quell'ammonizione.
Oggi questo smisurato colosso d'impero filosofico, è stato distrutto da
quello di un'altra filosofia; nuovo impero conveniente al secolo che l'ha
stabilito e prodotto. E sarà più facile assai che anche questo
cada, di quello che il primo risorga.
(7. Agosto 1821.)
Noi stessi nelle nostre riflessioni
giornaliere le meno profonde, conosciamo e sentiamo che la virtù (p.e.)
è un fantasma, e che non c'è ragione per cui la tal cosa sia
virtù, se non giova, nè vizio se non nuoce; e siccome una cosa
ora giova, ora nuoce; a questo giova, a quello no; ad un genere di esseri
sì, ad un altro no, ec. ec. così veniamo a confessare che la virtù,
il vizio, il cattivo, il buono è relativo. Noi [1462]non troviamo
nell'ordine di questo mondo alcuna ragione perchè una cosa che giova a
me (anche grandemente) e nuoce ad altri (anche leggermente), non si possa fare,
e sia colpa; perchè un atto segreto che non giova nè a me
nè ad altri, e non nuoce a veruno, e non ha spettatori, possa essere
virtuoso o vizioso; perchè p.e. una bugia che non nuoce ad alcuno, e
neppur dà mal esempio, perchè non è conosciuta, una bugia
che giovi sommamente ad altri o a me stesso, senza nuocere ad alcuno, sia male
e colpa. Le ragioni di tutto ciò noi siamo costretti a riporle in un
Essere dove personifichiamo il bene, la virtù, la verità, la
giustizia ec. facendolo assolutamente, e per assoluta necessità, buono:
che se così non facessimo, neppure in lui avremmo trovato il confine
delle cose, e la ragione per cui questo o quello sia assolutamente buono o
cattivo. Noi consideriamo dunque detto Essere come un tipo, a norma del quale
convenga giudicare della bontà o bellezza ec. della bruttezza o
malvagità delle cose (ed ecco le di Platone). Quello che [1463]somiglia
o piace a lui, è dunque assolutamente, primordialmente, universalmente e
necessariamente buono, e viceversa. Benissimo: altra ragione infatti che questa
non vi può essere del buono ec. assoluto; e, come ho detto altrove,
tolte le idee di Platone, l'assoluto si perde. Ma qual ragione ha questo tipo
di esser tale quale noi ce lo figuriamo, e non diverso? Come sappiamo noi che
gli appartengono quelle qualità che noi gli ascriviamo? - Elle son
buone, e la necessità è la ragione per cui gli appartengono, e
per cui egli esiste in quel tal modo e non altrimenti. - Ma son elle buone
necessariamente? son elle buone assolutamente? primordialmente? universalmente?
Che ragione abbiamo per crederlo, quando, come vengo dal dire, non ne troviamo
nessuna in questo mondo, vale a dire in quanto possiamo conoscere; anzi quando
la osservazione depone in contrario quaggiù stesso, benchè dentro
un medesimo ordine di cose? - La ragione che abbiamo è Dio. - Dunque noi
proviamo l'idea dell'assoluto coll'idea di Dio, e l'idea di Dio coll'idea
dell'assoluto. Iddio è l'unica prova delle nostre idee, e le nostre idee
l'unica prova di Dio. [1464]Da tutto ciò si conferma ciò
che ho detto altrove che il primo principio delle cose è il nulla.
(7. Agos. 1821.)
L'animo umano è così fatto
ch'egli prova molto maggior soddisfazione di un piacer piccolo, di un'idea di
una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di
cui veda o senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è un piacere
assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato (perchè
se non è ancora provato, sta sempre nella categoria della speranza.) La
scienza distrugge i principali piaceri dell'animo nostro perchè
determina le cose, e ce ne mostra i confini, benchè in moltissime cose,
abbia materialmente ingrandito d'assaissimo le nostre idee. Dico materialmente,
e non già spiritualmente, giacchè p.e. la distanza dal sole alla
terra, era assai maggiore nella mente umana, quando si credeva di poche miglia,
nè si sapeva quante, di quello che ora che si sa essere di tante precise
migliaia di miglia. Così la scienza è nemica della grandezza
delle idee, benchè abbia smisuratamente [1465]ingrandito le
opinioni naturali. Le ha ingrandite come idee chiare, ma una piccolissima idea
confusa, è sempre maggiore di una grandissima, affatto chiara.
L'incertezza se una cosa sia o non sia del tutto, è pur fonte di una
grandezza, che vien distrutta dalla certezza che la cosa realmente è.
Quanto maggiore era l'idea degli Antipodi, quando il Petrarca diceva forse
esistono, di quello che appena fu saputo ch'esistevano. Ciò che dico
della scienza, dico dell'esperienza ec. ec. La maggiore anzi la sola grandezza
di cui l'uomo possa confusamente appagarsi, è l'indeterminata, come
risulta pure dalla mia teoria del piacere. (7. Agos. 1821.). Quindi l'ignoranza
la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte
principale delle idee ec. indefinite. Quindi è la maggior sorgente di
felicità, e perciò la fanciullezza è l'età
più felice dell'uomo, la più paga di se stessa, meno soggetta
alla noia. L'esperienza mostra necessariamente i confini di molte cose anche all'uomo
naturale e insocievole.
Le pazze filosofie degli antichi, la stessa
scolastica, lasciando tutto il resto, hanno sommamente, e forse principalmente
giovato al progresso dello spirito umano, in che? riguardo ai nomi. Le profonde
meditazioni, le acutissime sofisticherie, il lambiccarsi il cervello, circa le
astrazioni, le qualità occulte, ed altri sogni, ci hanno dato la
denominazione e quindi la fissazione d'idee prime, elementari, secretissime,
difficilissime [1466]a concepire, a definire, ad esprimere, ma tanto necessarie,
usuali ec. che senza tali nomi la filosofia non sarebbe ancor nulla. Astratto
e concreto, essenza, sostanza e accidente, e tali altri
termini d'ontologia, logica ec. Che sarebbe il pensiero dell'uomo s'egli non
avesse idea chiara di tali ripostissime, ma universalissime cose? e come
l'avrebbe senza i nomi? i quali dopo sì piene rivoluzioni della filosofia
ec. sono e saranno pur sempre in bocca de' filosofi. Ma certo la
difficoltà d'inventarli è stata somma, e tale che la filosofia
moderna forse non ne sarebbe stata capace. E mentre le idee più
difficili a concepirsi chiaramente, definirsi col pensiero, e nominarsi, sono
le più elementari, certo è che la filosofia qualunque, non
potrà mai concepire nè significare idee più elementari di
queste. Utilissima per questo lato, è stata la stessa teologia, che ha
maggiormente diffuse e popolarizzate tali parole, ed altre ne ha
trovate, assuefacendo, ed affezionando, ed eccitando lo spirito umano alle
astrazioni, con tali stimoli, [1467]che nessun'altra disciplina avrebbe
potuto altrettanto, nè verun'altra circostanza come quella delle dispute
teologiche, dove prendevano parte i principi e le nazioni, e degli studi
teologici che interessarono per sì lungo tempo tutta la vita umana, e
tutto lo stato del mondo civile. E quanto ho detto altrove circa
l'utilità che si può cavare dal linguaggio scolastico de'
filosofi ec. intendo pur dirlo del teologico, d'ogni specie, dommatico, morale,
scolastico, ec.
(7. Agos. 1821.)
Anzi stante le dette considerazioni,
io credo che tali studi (notate) non solo gioverebbero la nostra o altra
lingua, ma il progresso dello spirito umano.
(7. Agos. 1821.)
Dico, applicando tali studi alla moda
filosica. La scienza fa un progresso considerabile quando arriva a render
chiara, fissa, e distinta dall'altre un'idea elementare ec. mediante un
proprio nome, che è l'unico mezzo. E questa è la cosa più
difficile, ma l'ultimo scopo della filosofia. Ora forse non poche idee [1468]astratte
ec. che rimangono oscure nella filosofia moderna per mancanza di nome particolare,
o abbastanza esatto ec. hanno forse la loro perfetta denominazione e quindi son
chiare nell'antica moltiplice filosofia, o nella scolastica, o nella teologia
ec.
(7. Agos. 1821.)
La detta applicazione non credo che sia
stata mai fatta, almeno sufficientemente. Quando il Cartesio imprese la riforma
della vecchia filosofia, dovette, secondo la qualità di que' tempi (e
pur troppo di tutti i tempi) entrare in guerra aperta colle scuole d'allora: e
il mondo avrebbe stimato ch'egli prevaricasse, o desse indizio di povertà
o fiacchezza, se avesse voluto servirsi più che tanto del linguaggio de'
suoi nemici. Così appoco appoco, prevalendo la nuova dottrina, non
più a causa della ragione, che della novità, e dismessa la
vecchia filosofia, nessuno ebbe cura bastante di cernere il buono dal cattivo,
e gittando questo, conservare o richiamar quello, massime circa il linguaggio.
In ordine alla teologia molto peggio. La teologia s'è abbandonata da
chiunque ora influisce cogli studi sullo spirito d'Europa ec. non per migliorarla
o rinnovarla, ma del tutto, come scienza vecchia, e [1469]quasi come
l'alchimia. Ora quanto sia il numero degli scrittori e pensatori teologici
diversissimi di tempo, di paese, di lingua, di opinioni ancora e di sistemi e
di sette, e conseguentemente quanta debba esser la ricchezza del linguaggio di
questa scienza, linguaggio tutto astratto perchè la scienza è
tale, linguaggio che s'è tutto abbandonato e dimenticato insieme con
lei, facilmente si comprende.
(8. Agos. 1821.)
Il formare il nostro Dio degli attributi che
a noi paiono buoni, benchè non lo sieno che relativamente, è
un'opinione meno assurda, ma della stessa natura, andamento, origine, di quella
che attribuiva agli Dei figura e qualità e natura quasi del tutto umana;
di quella che, come dice Senofane presso Clemente Alessandrino, se il cavallo o
il bue sapesse dipingere, gli farebbe dipingere e immaginare i suoi Dei in
forma e natura di cavalli o di buoi. V. il mio Discorso sui romantici dove si
cita questo passo con altre osservazioni. Anzi la nostra opinione è un
raffinamento, un perfezionamento, di questa quanto assurda, tanto naturale (v.
il cit. discorso) opinione [1470]antica; raffinamento prodotto da quello
spirito metafisico che produsse il Cristianesimo, o da quello che presso gli
antichi Orientali (la cui storia rimonta tanto più indietro delle
nostre) produsse il sistema di un solo Dio, seguito dagli Ebrei, e da questi
comunicato ai Gentili d'epoca e civiltà più moderna, quando il
secolo fu adattato a fare che tal dottrina fosse ricevuta, e divenisse universalmente
popolare. Ho detto che questa è meno assurda, ma intendo, quanto al
nostro modo di ragionare, e all'ordinario sistema delle nostre concezioni, perchè
assolutamente parlando, ella è altrettanto assurda, o piuttosto falsa,
giacchè l'assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di
ragionare. Del resto la nostra opinione intorno a un Dio composto degli
attributi che l'uomo giudica buoni, è una vera continuazione dell'antico
sistema che lo componeva degli attributi umani. ec. L'antica e la moderna
Divinità è parimente formata sulle idee puramente umane,
benchè diverse secondo i tempi. Il suo modello è sempre l'uomo.
ec.
(8. Agos. 1821.)
Una delle principali e universali e
caratteristiche inseparabili proprietà dello stile degli [1471]antichi
non corrotti, cioè o classici, o anteriori alla perfezione della letteratura,
si è la forza e l'efficacia. Quest'è la prima, anzi l'unica
qualità ch'io ho sentito notare da uomini poco avvezzi a letture
classiche, ogni volta che venivano dal leggere qualche libro de' buoni antichi,
o qualche libro moderno su quel gusto di stile. Ed era l'unica perchè
forse essi non erano capaci di discernere a prima vista, nè gustare le
altre. Ma questa dà subito nell'occhio, e si distingue e si separa
facilmente dalle altre. Quindi osservate quanto sia vero che la natura è
sorgente di forza, e che questa è sua qualità caratteristica,
come la debolezza lo è della ragione. Perciocchè 1. gli antichi
scrittori, massime quelli anteriori al perfezionamento della letteratura, i
quali sono ordinariamente più energici degli altri, non cercavano gran
fatto l'energia, nè se ne pregiavano, nè volevano esser famosi
per questo ec. come ho detto altrove della semplicità, dell'eleganza, della
purità di lingua ec. Tali sono i [1472]trecentisti ec. Eppure
senza cercarlo, riuscivano robustissimi e nervosissimi per la sola forza della
natura che in loro parlava e regnava, e quindi per la loro propria forza. 2.
Quando anche la cercassero, già la cercavano assai meno di noi che tanto
meno la troviamo, poi se la cercavano in proporzione della riuscita, vuol dire
che la cercavano sopra tutto, e che quindi nel tempo che la natura regnava,
l'efficacia e l'energia si stimava la principal dote dello stile. E così
accadeva in tutto: e così la prima e perenne sorgente di forza, sia
nello stile, sia nella lingua, sia ne' concetti, sia nelle azioni, sarà
sempre l'esempio degli antichi, cioè la natura. E i tempi moderni con
tutti i loro lumi non possono mai supplire a questa fonte.
La detta efficacia è pure un genere
di bellezza eterna e universale, che però non appartiene al bello, ma alla
inclinazione generale dell'uomo verso la forza, verso le sensazioni vive, verso
ciò che lo eccita, e rompe la monotonia dell'esistenza ec. e alla natura
ec.
(8. Agos. 1821.)
Non hanno torto i padri e le madri che amano
la vita metodica, senza varietà, senza [1473]commozioni, senza
troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni
possono ben difendersi, e v'è tanto da dire per la morte come per la
vita, dice la Staël. Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai
giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la
vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza
di gusti di desiderii ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra
l'età de' loro allievi, e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne
affatto prescindere; di credere che la gioventù de' loro allievi debba o
possa riuscire essenzialmente, e quasi spontaneamente diversa dalla propria
loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di volere che gli ammaestramenti,
i comandi, e la forza della necessità suppliscano all'esperienza ec.
(9. Agos. 1821.)
Quel giovane che fu d'animo eroico nella
virtù (come sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte
immaginazione e sentimento), se per forza dell'esperienza, delle [1474]sventure,
degli esempi, disingannato della virtù, arriva a lasciarla, diviene
eroico nel vizio, e capace di molto maggiori errori, che non sono gli altri ec.
Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un
eccesso di freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli
diviene un eroe di freddezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato,
quanto era stato più fervido. Come quei vapori che si convertono in
grandine, i quali non si stringerebbero nel più duro, denso, e sodo
ghiaccio che possa formarsi nell'aria, se straordinario calore non gli avesse
innalzati a straordinaria sublimità. In tutte le cose gli eccessi si
toccano assai più fra loro, che col loro mezzo, e l'uomo eccessivo in
qualunque cosa, è molto più inclinato e proclive all'eccesso
contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente,
e naturale per la forza e la qualità di un'indole eccessiva,
il saltare dall'uno all'opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo
ec. ec.
(9. Agos. 1821.)
[1475]Confrontando le lingue
spagnuola francese e italiana, si trovano molte proprietà
principalissime ed essenziali, che sono comuni a tutte tre. Or queste essendosi
formate massime quanto al principale e fondamentale, l'una indipendentemente
dall'altra, è necessario il dire che le dette proprietà derivino
da un'origine comune, e questa non può esser che il latino, e s'elle non
si trovano nel latino scritto, dunque vengono dal volgare. Nè si
può dir che derivino dal latino corrotto de' bassi tempi, perchè,
come ho detto, egli si corruppe diversamente e indipendentemente secondo i
luoghi ec. e le lingue che nacquero dal latino nacquero separatamente, e quasi
in diverse parti. Quindi l'uso degli articoli e de' segnacasi, uniformi
appresso a poco anche materialmente nelle tre lingue; l'uso de' verbi ausiliari
pure uniformi, cioè essere e avere (eccetto che lo
spagnolo non adopra essere), si debbono considerare come propri del
volgare latino. Così l'uso del verbo finito colla particella che (franc.
e spagn. que) in vece dell'infinito ec. del qual costume [1476]si
hanno indizi anche nel buon latino (cioè del quod ec.) e molto
più frequenti nel barbaro. I greci ebbero pur sempre lo stesso uso ().
Quelle proprietà poi, o parole ec.
ec. che non appartengono se non a questa o quella delle tre lingue, e che non
si ponno riferire ad alcuna origine conosciuta, ponno esser vestigi delle
antiche lingue nazionali estinte poi dalla latina. Ma ciò più
difficilmente potrà supporsi in quanto appartiene alla lingua italiana
ec. E in ogni modo queste tali proprietà, parole ec. se anche derivano
dall'antiche lingue anteriori all'uso della latina ne' diversi paesi ec., non
ponno essersi conservate se non passando pel volgare latino, il quale ebbe pur
certo i suoi idiotismi provinciali, com'è noto, e come ho detto altrove
parlando dei dialetti latini.
(9. Agos. 1821.)
La maggior parte degli uomini in ultima
analisi non ama e non brama di vivere se non per vivere. L'oggetto reale della
vita è la vita, e lo strascinare con gran fatica su e giù per una
medesima strada un carro pesantissimo e vôto.
(10. Agos. 1821.)
[1477]Non v'è
infelicità umana la quale non possa crescere. Bensì trovasi un
termine a quello medesimo che si chiama felicità. Può trovarsi un
uomo perfettamente fortunato, che nulla possa desiderare di più, la cui
felicità non possa più stendersi. Augusto era in questo caso. Ma
un uomo tanto infelice, che non possa immaginarsi maggiore infelicità,
infelicità non solamente fantastica, non solamente possibile, ma
realizzata bene spesso in questo o quell'individuo, per quella o per questa
parte; un tal uomo non si dà. La fortuna può dire a molti, io non
ho maggior potere di beneficarti, ma nessuno può mai vantarsi, e dire
alla fortuna, tu non hai forza di nuocermi davantaggio e di aumentare i miei
dolori. Può mancar che sperare, ma nessuno mancherà mai di che
temere. La disperazione stessa non basta ad assicurar l'uomo. (10. Agos. 1821).
Nessuno può vantarsi o sdegnarsi con verità dicendo: io non posso
essere più infelice di quel che sono.
(Molte cose e da molti sono state dette in
proposito delle voci sinonime, altri negando che ve n'abbia effettivamente, altri
affermando; e questo e quello chi d'una chi d'altra lingua, e chi di tutte in
genere.).
Molto s'è disputato circa i sinonimi.
Ecco la mia opinione. Le lingue primitive piuttosto dovevano significar molte
cose con una sola parola, che aver molte parole ec. da significare una stessa
cosa. Formandosi appoco [1478]appoco le lingue, e modificandosi in mille
guise le prime scarsissime radici, per adattarle stabilmente e distintamente
alle diverse significazioni, le lingue vennero a crescere, le parole (non
radicali, ma derivate o composte) a moltiplicarsi infinitamente, si
acquistò la facoltà di esprimere colla favella e colla scrittura,
sino alle menome differenze, varietà, specie, accidenti ec. delle cose,
ma i sinonimi (se non forse qualcuno per caso, o per commercio con altre
lingue) ancora non esistevano. Ciascuna parola che si formava modificando le
prime radici, o le altre parole già formate; ciascun genere costante di
modificazioni, derivazioni, inflessioni, composizioni, formazioni che s'introduceva
(come quello de' verbi frequentativi o diminutivi presso i latini ec.) aveva
per oggetto di arricchir la lingua ed accrescerne la potenza, non colla
meschina facoltà di poter dire una stessissima cosa in più modi,
ma con quella importantissima di poter distintamente significare le menome
differenze delle cose, differenze o già note fin da principio, ma non sapute
esprimere, ovvero osservate solamente col tempo: o anche idee nuove ec. [1479]Quindi
nasceva una grandissima varietà nelle lingue, ben più sostanziale
di quella che deriva dall'uso dei sinonimi. Giacchè se per mezzo di
questo, noi possiamo ad ora ad ora, capitandoci la stessa cosa da dire, variare
il modo di esprimerla; agli antichi capitava assai di rado la stessa cosa, e
quindi la necessità della stessa parola, perchè ogni menoma
differenza che la cosa da esprimersi avesse con la cosa già detta, bastava
per mutarne il segno, e la lingua somministrava puntualmente una diversa e
propria espressione di quella benchè leggerissima differenza.
Ma siccome queste tali differenze, e quindi
le differenze ne' significati delle parole che le esprimevano, erano sottilissime,
e spesso quasi metafisiche (che gli antichi, e massime i latini furono
ammirabilmente esatti e minuti nell'assegnare e precisare i significati delle
loro voci e modi, e vedi p.1115-16. 1162. capoverso 3.); così naturalissimamente
il popolo, incapace di troppe sottigliezze, e quando anche le concepisse,
incapace di por troppo squisita cura nella scelta delle parole,
cominciò, arricchite, ingrandite, [1480]e fecondate che furono le
lingue, a confondere quella parola o quel modo con un altro di poco diversa
significazione, a servirsi indifferentemente di voci destinate ad usi simili ma
distinti, a trascurare la minuta esattezza, e a poco a poco a dimenticare
l'esatto e primo valore di una parola o radicale o derivativa, ad usurpare quel
genere di formazioni destinato a quel genere di significati, in significati
d'altro vicino genere, e finalmente a dimenticare il proprio e preciso valore
delle parole e dei modi; e col tempo e colla forza prepotente dell'uso (che
sotto molti aspetti nelle lingue non è che abuso) confondendo i
significati, moltiplicarli di nuovo in ciascuna parola, e moltiplicar le parole
significanti una stessa cosa, benchè da principio differissero. In tal
modo le lingue perderono la facoltà che avevano al loro buon tempo di
esprimere distintamente le menome differenze delle idee, e queste differenze
poco conosciute o notate dai parlatori, fecero che svanissero le piccole ma
reali differenze de' significati delle parole. Ed ecco i sinonimi.
[1481]Nè solo il popolo, ma
anche i civili parlatori (per la difficoltà di essere esatto nel parlare
ch'è improvvisare), ed anche i negligenti o meno diligenti scrittori contribuirono
proporzionatamente a questo effetto. Lascio le diffusioni di una lingua, e le
infinite cagioni le quali perdono o confondono i primitivi e propri significati
e la proprietà delle parole e di tutto ciò che spetta alla
favella.
I cattivi parlatori e i trascurati
scrittori, sono dunque secondo me, le prime e principali origini dei sinonimi
in qualunque lingua. Possiamo anche dire, il tempo, il quale non permette che
le cose umane conservino una stessa condizione. Anche gli scrittori eleganti, e
massime i poeti furono in causa di questo effetto: perchè l'eleganza
consiste nel pellegrino e diviso dal volgo; e quindi gli usi metaforici, quindi
gli ardiri, le inversioni di significato ec. ec. che messe in uso dagli
scrittori eleganti, passarono poi col tempo a prender luogo di
proprietà, scacciando le proprietà primitive, e confondendo il
significato delle parole proprie, con quello delle parole usate metaforicamente
o in qualunque altro modo, nello [1482]stesso senso. Anche i parlatori
eleganti o affettati sono da considerarsi in questo proposito.
Queste osservazioni spiegano il
perchè sia sempre maravigliosa, e caratteristica negli antichi scrittori
la proprietà della favella. Ciò non avviene di gran lunga
perch'essi fossero più diligenti. Chi può pur paragonare la
diligenza de' nostri tempi in qualunque genere, con quella degli antichi?
L'esattezza e la minutezza non era propria de' tempi antichi, bensì
precisamente de' moderni, per le stesse ragioni per cui non è propria di
questi la grandezza, ch'era propria di quelli. Anche in ogni cosa appartenente
a lingua o stile, i diligenti scrittori moderni, ed anche i mediocri la vincono
in esattezza sopra i più diligenti scrittori antichi. Basta conoscerli
bene per avvedersene. V. la mia lett. sull'Eusebio del Mai, nell'osservazione
segnata XVI. 23. 71. 23. Recherò fra i moltissimi esempi che si potrebbero,
una nota che fa un Traduttore francese alla Catilinaria di Sallustio, solamente
per dar meglio ad intendere il mio pensiero. (Dureau-Delamalle, Oeuvres de Salluste. Traduction nouvelle. Note 45. sur
la Conjurat. de Catilina à Paris 1808. t.1. p.213.) Les bons écrivains
de l'antiquité [1483]n'avaient pas, il s'en faut, nos petits
scrupules minutieux sur ces répétitions des mêmes mots, surtout lorsque
la différence de cas en mettait dans la terminaison, comme dans ce passage-ci,
ou l'on voit MAGNAE COPIAE après MAGNAS COPIAS. Parla di
quel luogo (Sall. Bell. Catilinar. c.59. al.56.) Sperabat propediem magnas
copias se habiturum, si Romae socii incepta patravissent: interea servitia
repudiabat, cuius initio ad eum magnae copiae concurrebant.
Non la maggior diligenza dunque, ma l'esser
gli scrittori antichi più vicini alle prime determinazioni de'
significati e formazioni delle parole, e il formarne essi stessi, non per
lusso, che gli antichi non conoscevano, ma per bisogno, o per utile, fanno
ch'essi si riguardino e siano veri modelli della proprietà delle voci e
dei modi. E infatti la diligenza che vien dall'arte come pur la produce,
è in ragione inversa dell'antichità. Ora la proprietà
degli scrittori è in ragion diretta; e Plauto e Terenzio e gli altri antichi
latini i più rozzi, sono [1484]tanto più propri quanto
meno eleganti di Cicerone. Così i trecentisti ignorantissimi, rispetto
ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec. V. la
p.1253.
Posto dunque che una parola non è mai
o quasi mai sinonima di un'altra della stessa lingua primitivamente, e che le parole
non divengono sinonime se non col tempo, e a causa principalmente sì
degli scrittori eleganti e de' poeti, sì molto più de' cattivi
scrittori e parlatori; ne segue che siccome tutte le lingue, eccetto le primitive,
derivano da corruzione di altre lingue, e sono loro posteriori nel tempo ec.
così le lingue figlie generalmente parlando denno abbondare di veri ed
effettivi sinonimi più delle rispettive madri.
Così appunto è avvenuto
all'italiana rispetto alla latina, sua madre. I sinonimi esistono realmente
nella lingua italiana, vi esistono fin da principio (benchè da principio
non tanti): la lingua italiana ha, non deve negarsi, verissimi sinonimi, e ne
ha in grandissima copia, forse più che altra lingua colta; e ne ha
più assai [1485]che non n'ebbe la buona latina. Tutte le lingue
moderne colte, generalmente parlando, hanno assai più sinonimi veri e
perfetti che le lingue antiche. Effetto del tempo che distrugge a poco a poco
le piccole e sfuggevoli differenze fra i significati di parole, che tuttavia
non furono inventate per lusso, ma per vera utilità. Nessuna o quasi nessuna
nuova parola che si venga oggi formando e introducendo nelle diverse lingue,
è sinonima di altre che già vi si trovino. (Parlo di quelle lingue
dove non si vanno introducendo per pura affettazione, ignoranza, barbarie,
delle parole straniere affatto inutili, e in pregiudizio delle nazionali. Si
ponno anche eccettuare alcune di quelle parole che formano talora i poeti, che
non sempre nè spesso, ma pur talvolta potranno esser sinonime di altre
già usate, ed esser preferite e formate per sola eleganza, e per una
certa peregrinità, o dedotte dal latino ec.) Ciò mostra che i
sinonimi non sono mai tali da principio, e che la sinonimia non è
primitiva. Ma le parole che già da gran tempo appartengono a ciascuna
lingua, o appartenessero alle loro madri, o no, son divenute, e divengono di
mano in mano sinonime, e tali diverranno anche molte recentissimamente formate:
e ciò massimamente per la trascuranza del favellare e scrivere, e per
l'abuso, che siamo forzati di chiamar uso, e riconoscerlo per padrone
legittimo. E questo è sì certo che si può con un poco di
attenzione, cominciando dai più [1486]antichi scrittori di una
lingua e venendo sino agli ultimi, osservare come due o più parole oggi
sinonime, e che da prima non erano, si siano venute gradatamente avvicinando
nel significato, e scambiandosi vicendevolmente in questo o quell'uso, fino a
confondersi del tutto insieme in qualsivoglia uso ec. Alcune parole son
divenute sinonime in quest'ultimo grado, altre in qualcuno de' gradi antecedenti,
e si possono usare promiscuamente in tali casi sì, in altri no: ma
tuttogiorno, stante la negligenza e ignoranza degli scrittori e parlatori,
vanno acquistando maggior somiglianza, finchè arriveranno alla medesimezza.
Consideriamo ora le conseguenze di questo
effetto. Si riguardano i sinonimi come ricchezza di una lingua. Ma ella
è ricchezza secondaria, e la principal ricchezza e varietà
è quella che ho detto p.1479. Ora la ricchezza dei sinonimi nuoce sommamente
a questa. La lingua italiana ha più sinonimi assai che la latina.
È ella perciò più ricca di lei? Figuriamoci che 30.m voci
latine, tutte [1487]distinte di significato, sieno passate nella lingua
italiana, ma in modo che in vece di 30.m cose, ne significhino solo 10,000: tre
parole per significato. Che giova all'italiano il poter dire quelle 10,000 cose
ciascuna in tre modi, se quelle altre ventimila che i latini significavano
distintamente, egli non le può significare, o solo confusamente? Questa
è povertà, non ricchezza. Non è ricco quegli il cui podere
abbonda di vigna e di frutta, e manca di grano; nè quegli che abbonda
del superfluo e manca del necessario.
Quindi potremo spiegare un fenomeno intorno
alla ricchezza delle lingue antiche, che non mi pare nè abbastanza osservato,
nè dilucidato. Le lingue si accrescono col progresso delle cognizioni e
dello spirito umano. Il numero delle parole di senso certo, dicono i filosofi,
determina il numero delle idee chiare di una nazione (Sulzer.) Viceversa dunque
potremmo dire delle idee chiare, le quali non sono quasi mai tali se non hanno
la parola corrispondente. Ora [1488]chi dubita che il numero delle
nostre idee chiare non vinca d'assai quello delle antiche? che il nostro
spirito non solo abbracci molto maggior estensione di cose, ma veda sempre
più sottile e minuto, ed abbia acquistato un abito di precisione ed
esattezza, senza paragone maggiore che gli antichi? E pure consideriamo le antiche
lingue colte, e non ci troveremo, com'è naturale, la facoltà di
esprimere le cose o gli accidenti ch'essi non conoscevano, e le idee moderne
ch'essi non avevano; o quelle parti delle loro stesse idee, ch'essi non
discernevano, almeno chiaramente, ma quanto a tutto ciò che gli antichi
potevano aver da significare, o voler significare, quanto a tutte le idee che
potevano cadere nel loro discorso, troveremo generalmente parlando nelle lingue
antiche colte, una facoltà di esprimersi tanto maggiore che nelle moderne,
una onnipotenza, un'aggiustatezza, una capacità di variar l'espressione
secondo le minime varietà delle cose da esprimersi, e delle congiunture
e circostanze del discorso, che forse e senza forse non ha pari in veruna delle
più colte lingue moderne: ed è perciò che le lingue
antiche sono generalmente riconosciute superiori in ricchezza alle moderne.
Ora qual è la cagione? Vero è
che il tempo abolisce molte parole, ma infinite pur ne introduce. [1489]La
causa, secondo me, o una delle cause di questo, che veramente è fenomeno,
sta in ciò, che le parole destinate talora a simili, talora anche a
diversissimi significati, divengono col tempo sinonime, e laddove da prima, e
nelle antiche lingue ch'erano più vicine all'origine delle parole,
esprimevano più e più cose, o accidenti e modificazioni di cose,
oggi esprimono una cosa sola. E così la proprietà della lingua
latina veramente ammirabile non si può trovare nella italiana sua
figlia, e nelle altre, che hanno tanto confuso i distintissimi significati
delle parole che hanno ereditato da lei. E questo male va sempre e inevitabilmente
crescendo, ed è cosa dannosissima alla precisa espression delle idee, e
quindi alla precisione e chiarezza delle idee stesse. Colpa non tanto degli
uomini, quanto della natura, e del tempo al quale siamo venuti.
Veniamo ai rimedi. Voler richiamare le
parole ai loro antichi precisi significati, e tornarli a distinguere, e usarle
nel senso antico ec. tuttociò è tanto impossibile e pedantesco,
quanto il rimettere in uso le parole e modi antiquati, e parlare come parlavano
i latini, o i nostri primi italiani ec. Quelli che hanno preso cura, scrivendo
partitamente dei sinonimi, di precisare [1490]il valore di ciascun
vocabolo partecipante al significato di altri vocaboli, hanno piuttosto servito
e servono alla filosofia, alla storia delle lingue, e a molte altre cose
utilissime; di quello che all'uso, e alla conservazione de' significati, ed
alla osservanza dell'etimologie ec. insomma ad impedire la confusione de'
significati, e l'abolizione successiva delle loro piccole differenze, che
l'abuso e il tempo non può non cagionare, e non cagionerà niente
meno. Forze di questa fatta, non ponno esser vinte da un'opera, o da un
Dizionario ec.
Il rimedio dunque agl'inconvenienti del
tempo che nuoce alle lingue, e necessita la novità delle parole, non
meno coll'abolirne assai, che col sopprimerne le differenze de' significati, e
restringere il numero di essi, è l'adottar nuove parole che esprimano
quelle cose o patti o differenze di cose, ch'erano espresse da voci divenute
sinonime e conformi di valore ad altre primitivamente diverse. E se, come ho
detto di 30.m. parole latine passate nell'italiano, [1491]non restano
che 10.m. significati, a voler che la lingua italiana adegui veramente la
ricchezza della madre, in ordine a questa medesima parte di essa, bisogna
ch'ella trovi altre 20 mila parole che abbiano i i detti significati perduti. 1
Ed allora ella vincendo la latina nella copia de' sinonimi, e nella
varietà, nell'eleganza ec. che risulta da essi, l'agguaglierà pure
nella vera ricchezza e varietà, e la sinonimia non pregiudicherà
alla proprietà ec. del discorso.
Diranno che questo la lingua italiana l'ha
già fatto ec. Negolo risolutamente. Convengo che la lingua italiana,
servendosi sì delle fonti latine, coll'attingerne più di quello
che il linguaggio popolare ne avesse attinto; sì della vivacità
della immaginazione italiana, con bellissima e somma facoltà di metafore
ec. ec. sì di molti altri mezzi, non sia giunta a proccurarsi una
proprietà, una copia, una ricchezza, una facoltà insomma di
esprimersi maggiore forse che qualunque altra moderna; eccetto però
nelle materie filosofiche, [1492]e in tutto ciò che ha bisogno di
precisione (diversa dalla proprietà), e generalmente nelle cose moderne,
e posteriori a' suoi buoni tempi. Non nego neppure che la lingua italiana non
abbia conservato della sostanza materna assai più delle altre, e meglio,
secondo che ho spiegato p.1503. Ma ch'ella sia, non ostante la sua gran copia
di sinonimi, anzi a causa in gran parte di questa, inferiore ancora non poco
alla proprietà, ed alla ricchezza della sua madre, chi ne dubita? E si
può veder chiaramente nelle traduzioni. Pigliate una carta, non dico di
Tacito o di Sallustio, ma di Livio o di Cicerone, e senza curarvi dell'eleganza,
vedete se v'è possibile di rendere così esattamente ogni parola e
ogni frase, che la vostra traduzione dica precisamente quanto il testo,
e nè più nè meno. Vedrete quanto manchi ancora alla lingua
italiana per riuscirci, quante parole e modi latini non abbiano affatto l'equivalente
in italiano, e quanti sensi, minuti sì ma distintissimi, non si possano
assolutamente significare nella nostra lingua, ch'è pur nelle traduzioni
ec. la più potente delle tre sorelle. E dovrete convenire che lo
scrivere [1493]italiano è ancora generalmente e complessivamente
inferiore visibilmente al latino, nella proprietà, e nella varietà
dell'espressione adattate alle minute varietà delle cose: e questo anche
indipendentemente da quelle sottilissime ma effettive differenze che hanno tra
loro i significati delle parole e frasi le più omonime nelle diverse
lingue, anche le più affini.
Così dalla considerazione della
teoria de' sinonimi, i quali io dico non esser primitivi, ma veri, e frequenti
nelle lingue moderne, si deduce una nuova fortissima prova della
necessità della novità nelle lingue. E si conferma particolarmente,
in ordine alla lingua italiana, la convenienza di seguitare ad attingere dalle
fonti latine, quelle parole e frasi, che non essendo ancora introdotte nella
nostra lingua, non ponno aver perduta la differenza di significato, con le
altre già derivate dalla stessa fonte, nè esser divenute sinonime
ec. Mezzo spedito ed ottimo per accrescere la proprietà, e [1494]la
sostanziale ricchezza della nostra lingua, e adeguarla, s'è possibile, alle
antiche. Giacchè la lingua latina è forse la più propria
di queste, e quindi gran proprietà ed esattezza dee derivare
dall'arricchirsi nuovamente alle sue fonti non ancor tocche ec.
(10-13. Agosto 1821.)
Qual lingua è più varia della
latina? (se non forse la greca). E quale è più propria? neppur
forse la greca. E dalla proprietà deriva naturalmente la varietà,
come ho detto p.1479. Ella era strettamente propria per legge, e non avrebbe
scritto latino ma barbaro, chi non avesse scritto con proprietà: laddove
la greca potendo essere altrettanto e più propria, era più
libera, ed ho già osservato altrove come ciascuno scrittor greco, abbia
un vocabolarietto particolare, cioè faccia uso continuo delle stesse
voci, e si restringa ad una sola parte della sua lingua, con che la
proprietà non può esser perfetta. Ai latini bisognava una
perfetta cognizione ed uso della loro lingua, non solo in grosso ma in particolare,
e quindi il vocabolario che si può formare a ciascun buono scrittore
latino è [1495]generalmente molto più ampio che a
qualunque greco classico. E pur la lingua greca era più ricca della
latina. Ma la lingua di ciascun latino era più ricca che di ciascuno
scrittor greco. Eccetto gli scrittori greci più bassi, come Luciano,
Longino ec. i quali sono ricchissimi, e tanto più quanto il loro stile
è meno antico, perchè i contemporanei, come Arriano, Dionigi
Alicarnasseo, sono più antichi di stile, e meno ricchi di lingua. La
stessa immensa ricchezza della lingua greca impoveriva gli scrittori,
finch'ella non fu studiata con un'arte perfetta ch'è sempre propria de'
tempi imperfetti e scaduti.
Ora tornando al proposito, qual lingua,
malgrado tutte le dette qualità, era più scarsa di vera sinonimia
che la latina, non pur nelle voci, se così posso dire, nelle locuzioni?
E pur ella era così varia ec. Anzi la mancanza appunto di sinonimia
produceva quella ricchezza individuale di ciascheduno scrittore, ch'era
obbligato a mutare espressione ad ogni piccola varietà del discorso. La
sinonimia è maggiore assai negli antichi e ottimi greci, [1496]cioè
finchè la lingua greca non fu pienamente posseduta per arte e studio.
Quando lo fu, la sinonimia fu minore assai, e la varietà e la
proprietà molto maggiore. E Luciano è assai più proprio
d'Isocrate tanto studioso della sua lingua. Così che la squisita
proprietà è realmente aliena dall'ottima lingua greca, e muta il
di lei carattere negli scrittori più recenti, e gli accosta al carattere
del latino. I latini venuti a tempi signoreggiati dall'arte, possederono sempre
pienamente e interamente la loro lingua.
Consideriamo però le lingue antiche,
consideriamo i primi scrittori di ciascuna lingua moderna, e vedremo che la sinonimia
è assolutamente scarsissima rispetto alle lingue e alle scritture
moderne. Dal che si conferma ch'ella non è primitiva, ma prodotta e
continuamente accresciuta dal tempo, con danno grande della proprietà,
della forza ec. e della vera ricchezza. Danno irreparabile per se stesso, e al
quale poco sufficiente ostacolo può porre la determinazione [1497]del
valor preciso delle parole, i vocabolari, i dizionari de' sinonimi ec. Danno
pertanto che obbliga assolutamente alla novità delle parole, solo mezzo
di riparare all'impoverimento che il tempo arreca alle lingue per questo verso,
e che è tanto inimpedibile quanto quello che arreca loro colla
soppressione delle parole; e maggiore, secondo me, non poco.
Dovunque prevale la sinonimia quivi la
proprietà soffre assai. Gli scrittori italiani possono rassomigliarsi ai
greci nel riguardo che ho detto, sì come ho notato altre volte.
Nè solo gli scrittori ma la lingua eziandio. La latina può rassomigliarsi
per questo lato, come ho pur detto altrove, alla francese. Quella fra le
antiche, questa fra le moderne, sono forse le più scarse di vera
sinonimia. Quindi anche allo scrittor francese è necessario il posseder
bene e interamente la sua lingua, cosa non necessaria agl'italiani, non dico
per iscriver bene, ma per poter pur scrivere in italiano.
Sebbene però e la lingua francese e
la latina scarseggiano di vera sinonimia, e sono [1498]similissime in
questo che ambedue dipendono sommamente dall'arte, e da un'esatta
determinazione ec. nondimeno le differenze fra loro, anche sotto l'aspetto che
noi consideriamo, sono grandissime. La lingua francese scarseggia di sinonimia,
non tanto per esattezza, nè per una perfetta conservazione del valor
primitivo delle parole (come la latina) quanto per povertà. Una lingua
povera sarà sempre esatta, purchè la povertà non giunga
all'altro estremo, nel quale si trova p.e. la lingua ebraica. La differenza de'
tempi e delle cagioni produce la differenza degli effetti. L'arte antica rese
propria e sostanzialmente ricca la lingua latina fra tutte le altre.
L'arte moderna e matematica, volendo rendere esatta la lingua francese, l'ha
resa poverissima. Quindi dalla sua esattezza, e dalla scarsezza de' suoi
sinonimi, non nasce nè proprietà, nè forza, nè
varietà, nè ricchezza. L'esattezza dello scriver latino, li
portava a variar espressione secondo le minime varietà del discorso. Non
così ponno fare i francesi. La parola o la frase che adoprano è
certamente quella che offre la loro [1499]lingua, quella che conviene, e
che non potrebbe scambiarsi con un'altra. Ma ella torna bene spesso, perch'ella
conviene a molte cose, ella perciò non produce nè
proprietà nè forza, poichè bene spesso non conviene a
quella tal cosa, se non perchè la lingua è povera e non ha altro
modo da esprimerla, nè da differenziarla da altre cose, o parti, o
accidenti ec. ec. ec. Dico ciò generalmente parlando, ed eccettuando
quelle materie nelle quali la lingua francese abbonda di parole precise. Ma la
precisione (in cui la lingua francese regna) come non abbia a far colla
proprietà, e come da lei non derivi nè bellezza nè
varietà nè forza (la quale è sempre relativa all'immaginazione
mentre la precisione parla alla ragione), l'ho detto altrove. Ora io qui non
parlo che della proprietà, e considero le lingue e la ricchezza loro,
piuttosto intorno al bello, che all'esatto ec.
Del resto gli scrittori antichissimi e primitivi,
non meno italiani e greci, che latini e francesi, sono sempre sommamente
propri, e scarseggiano di sinonimia. Ciò accade, perch'essi,
ancorchè senza studio, pur possedevano assai bene e pienamente la
lingua, ancorchè vastissima, ch'essi stessi creavano o formavano, tanto
in ordine al generale e all'indole, quanto in ordine ai particolari, e alle
parole e modi, e alla determinazione dei loro significati ec. e v. la
pag.1482-84. la quale, stante questa riflessione, non contraddice alla
pag.1494-96.
(13-14. Agosto. 1821.)
Dalla teoria che abbiamo dato dei sinonimi
si deducono alcune osservazioni intorno alla [1500]diramazione e
diversità delle lingue nate da una stessa madre, massime da una madre
già formata, colta, ricca, letterata ec. Nata appoco appoco la sinonimia
nella lingua madre, e quindi diffusa questa in diverse parti, non tutti i
sinonimi passano a ciascuna lingua figlia, ma solamente alcuni a questa, altri
a quella. E questa è pur una delle cagioni della maggior ricchezza e
proprietà delle lingue antiche. Le lingue figlie di una madre già
formata, per lo più sono meno ricche di lei. Il tempo dopo aver
soppresso le differenze de' significati (sia prima della diffusione, e presso
la nazione originariamente partecipe di quella lingua, sia molto più
dopo, e presso le nazioni che sempre corrottamente la ricevono e sempre
mancante e povera, per la ignoranza e la difficoltà d'imparare una
lingua nuova, e l'impossibilità di ricevere e praticar tutta intera una
tal lingua ricca ec. ec.), il tempo, dico, sopprime quindi naturalmente una
buona parte de' sinonimi, conservandone solo uno o due per significato, che
prevalendo appoco appoco nell'uso, fanno dimenticar gli altri ec. Così
le lingue perdono [1501]appoco appoco necessariamente di ricchezza e di proprietà,
a causa della sinonimia. Oltre che le lingue figlie, nascendo da corruzione, e
dagli stessi danni che il tempo reca alla sostanza materna, non la possono mai
di gran lunga ereditar tutta intera. E così il fondo delle lingue si va
sempre scemando se per altra parte non si accresce, e le lingue che nascono
sono sempre più povere di quelle che le producono, almeno nei
principii.
Questa è pur, come ho detto, una gran
ragione della differenza delle lingue figlie di una stessa madre. In questa
nazione prevale il tal sinonimo, e gli altri si dimenticano, o non
s'introducono mai. In quella il tal altro. Questa ne riceve o ne conserva un
solo nel tale o tal significato, quella due, quell'altra più ec.
Così è accaduto alla lingua latina diramata nelle Spagne, nella
Francia, in Italia. E troveremo spessissimo che la differenza con cui si
esprimono le dette tre lingue in questo o quel caso, nasce dalla differenza del
sinonimo latino che hanno conservato, o da principio adottato. Gl'italiani e i
francesi per significare il bello usano una parola derivata dalla latina bellus;
gli spagnuoli una derivata dalla latina formosus. Gli spagnuoli e
gl'italiani [1502]dicono moglie dal latino mulier, i
francesi femme da femina. Similmente differiscono nel numero.
Altra ha conservato o adottato più sinonimi latini, altra meno. Relativamente
a questo la lingua francese tiene la estremità del meno, la spagnuola il
mezzo, l'italiana il più, tanto per la sua circostanza nazionale, quanto
pel moltissimo ch'ella ha seguito ad attingere dalle fonti latine, appena
divenuta letterata. E troveremo spessissimo che, poniamo caso, di 5 o 6 parole
latine divenute sinonime col tempo, l'italiana le avrà conservate, e le
userà anche volgarmente o tutte o quasi tutte, gli spagnuoli, e massime i
francesi appena una. Certo è raro che si possano trovar nella lingua
francese due parole latine perfettamente sinonime o fino ab antico, o almeno
nel loro presente uso. Piuttosto avranno parecchie parole prese d'altronde, che
sieno sinonime di altre latine da loro pur conservate.
Queste considerazioni ci menano alla
conseguenza del quanto ragionevole e giusto sia per la nostra lingua il seguire
ad arricchirsi alle fonti latine. Le lingue madri non denno mai stimarsi chiuse
alle figlie; noi abbiamo [1503]delle lingue sorelle che possono pure attingere
a una stessa fonte con noi, ma la nostra lingua assai più delle altre
due. La nostra lingua, com'è naturale a quella ch'è parlata dalla
stessa nazion latina, e che fu poi modellata da' suoi formatori sulla di lei
madre, tiene assai più che le altre sorelle, sì dell'indole e
delle forme, sì del suono stesso e della figura esterna delle parole
latine, del significato, della pronunzia stessa del latino ec. sì
dell'andamento ec. della madre. Ed oltracciò, come ho detto, e come
anche per cento altri lati si può vedere, ella ha ereditato della
sostanza materna, o se n'è poscia rivendicata assai maggior porzione che
le sorelle. Tutte queste cose fanno che l'indole dell'italiano essendo
più latina, che non è lo spagnuolo e il francese, ella si adatti
benissimo alle nuove parole latine, frasi, forme ec. e queste sieno tanto meno
forestiere in casa sua, quanto maggior copia ella già ve ne alloggia. E
che la lingua italiana quanto più ha preso, ed è abituata
a prendere dal latino, tanto più, e sempre proporzionatamente di
più ne possa prendere. Giacchè così va la bisogna rispetto
alle [1504]lingue. E già in tutte le cose la convenienza si
misura dall'indole e dal costume, e la novità è tanto più
facile a introdurre ec. quanto è più simile al vecchio ec. Le
lingue spagnuola e francese (e massime questa) appunto perchè meno hanno
preso dal latino, e perchè è stata proprietà loro la
parsimonia in questo particolare, e perchè non sono tanto conformi allo
spirito del latino (anzi la francese in nessun modo), ec. ec., perciò
volendo conservare il loro carattere, non possono neppur oggi attingerne
più che tanto. Viceversa l'italiana, la quale conserverà il suo
carattere primitivo, seguendo ad attingerne come primitivamente ha fatto, e
s'è accostumata a fare.
(14-15. Agos. 1821.)
Ogni volta che si troverà citato in
questi fogli il Du Cange, Glossario latino-barbaro, si avverta che nella mia
edizione, non è tutto del Du Cange. Vi sono parecchie giunte e
correzioni de' Monaci Maurini editori, contrassegnate nei modi che si
specificano nella loro prefazione p.8. dopo il mezzo.
(15 Agosto, dì dell'Assunzione di Maria Santissima. 1821.).
L'influenza della sinonimia sui linguaggi
è tanta, e sì potentemente contribuisce alla corruzione, alterazione,
sovversione, ed anche al totale cambiamento delle lingue, che ad essa in [1505]gran
parte si possono riferire tutti i detti effetti, la difficoltà di
ritrovar l'etimologie, le diversissime facce delle lingue madri rispetto alle
lingue figlie, che spesso appena si ravvisano per parenti, e le graduate, ma
infinite diversificazioni di significato che subirono le parole passando di una
in altra lingua, con che arrivarono a non esser più intese in altra
nazione che da principio parlava la stessa favella, a compor lingue
differentissime, che non si tengono più per parenti, benchè
composte in buona parte di parole che originariamente erano le stesse; e
derivate da una stessa fonte, che a causa di queste infinite alterazioni
più non si trova. La sinonimia, dico, si dee riconoscere per causa
immediata di gran parte di tutto ciò, riconoscendo per cause prime o
mediate ec. altre cose più materiali, come la diffusione ec. ec. Or come
la sinonimia? Eccolo. Non solo i significati simili o poco differenti delle diverse
parole, ma anche i più distinti e lontani sono confusi dal tempo, dalla
negligenza, dall'ignoranza di coloro a' quali trasmigra una nuova lingua ec.
dallo stesso uso di parlare o scrivere elegante e metaforico ec.: così
che delle parole disparatissime divengono sinonime. P.e. [1506]presso
gli spagnuoli il verbo quaerere (querer) è passato a
significar velle, volvere (bolver) redire, circa (cerca)
prope; presso i medesimi e gl'italiani il verbo clamare (llamar,
chiamare) al senso di vocare; presso i francesi donare (donner)
al senso di dare. Questo per forza di sinonimia che appoco appoco
rendendo proprio di quelle voci quel senso disparatissimo, ha spento quelle che
l'aveano realmente in proprietà ec. ec. L'etimologia di queste voci, e
il modo in cui sono arrivate a questo significato ec. facilmente si trova, riguardo
alla lingua latina ch'è la madre immediata di dette tre lingue. Ma
facciamo conto che dallo spagnuolo o dal francese nascesse una nuova lingua,
come certo nascerà col tempo, giacchè esse medesime son
già molto diverse da' loro principii; certo che gli etimologisti si
troverebbero imbrogliatissimi, ancorchè seguitassero ancora a conoscer
bene l'antico latino, come già si trovano molto confusi intorno a molte
parole derivate pure immediatamente dal latino, ma tanto svisate di significato
che più non si raffigurano. Così le lingue si alterano e si
mutano giornalmente, e le parole, quanto al significato, [1507]si
sovvertono mirabilmente, e l'etimologie si perdono, e le lingue primitive si
nascondono (come son già nascoste) a causa della sinonimia, non meno che
per le altre cause.
(16. Agos. 1821.)
Paragonando le occupazioni di un mercante
che travaglia a' suoi complicatissimi negozi, e di un giovane che scherza con
una donna, quella ci par serissima, e questa frivolissima. E pure qual è
lo scopo del mercante? il far danari. E perchè? per godere. E come si gode
quaggiù? collo spassarsi; e uno de' maggiori spassi e piaceri è
quello che si piglia colle donne. Dunque lo scopo del mercante in ultima
analisi è di potersi a suo agio, e con molti mezzi occupare in quello
stesso in che si occupa il giovanastro, o in cose tali. Se dunque il fine
è frivolo, quanto più il mezzo. Tutto dunque è frivolo a
questo mondo, e l'utile è molto più frivolo del semplicissimo
dilettevole. Così dico degli studi, e delle carriere ec.
(16. Agos. 1821.)
La brevità non piace per altro, se
non perchè nulla piace. Anche i maggiori piaceri [1508]si
bramano, e denno esser brevi, e lasciar desiderio, altrimenti lasciano sazietà.
Ma non v'è mezzo fra questi due estremi? non possono lasciar paghi? No.
Se l'uomo potesse appagarsi di un piacere nè la brevità nè
la varietà (che deriva dalla brevità, e l'include ed importa, ed
è quasi tutt'uno con lei) non sarebbero piacevoli per se stesse,
nè amate dall'uomo. Ora siccome l'uomo non può restar pago, e la
sua peggior condizione è la sazietà, perciò una
principalissima qualità de' piaceri e delle sensazioni interiori o
esteriori che servono alla felicità, si è che lascino desiderio,
si è la brevità, e varietà loro, e la varietà della
vita.
(17. Agos. 1821.)
Senza notabile facoltà di memoria
nessun ingegno può acquistare, svilupparsi, assuefarsi, imparare,
cioè nessun ingegno può nè divenire nè meno esser
grande; perchè quelle sensazioni, concezioni, idee, che non sono se non
momentanee, e si perdono, non possono produrne e prepararne delle altre, e non
possono quindi servire alla grandezza di un ingegno, tutte le cui cognizioni
sono acquisite, e le cui facoltà sono quasi nulle, e conformi a quelle
de' menomi [1509]ingegni senza la coltura dell'esperienza, la qual
esperienza è vana senza la memoria. La memoria si può
generalmente considerare come la facoltà di assuefazione che ha
l'intelletto. La qual facoltà è il tutto nell'uomo.
(17. Agos. 1821.)
Un viso, come ho detto altrove, ci par molte
volte bruttissimo per la somiglianza che vi troviamo con un altro brutto, o di
contraggenio per noi, o tenuto per brutto. E si può di leggeri osservare
che tolta l'idea di questa somiglianza, egli non ci parrebbe così
brutto; e forse tal volta quella somiglianza sarà tale che non impedisca
a quella fisonomia di essere regolarissima, malgrado l'irregolarità di
quella cui somiglia. E nondimeno la detta idea ci produce una sensazione dispiacevole
nel vederla, e non la chiameremo mai bella, benchè altri privi di detta
idea la tengano anche universalmente per tale. Così una persona che da
fanciulla ci è parsa brutta, e che siamo avvezzi a considerar come tale,
benchè [1510]divenga poi bella, non mai, o non senza
difficoltà potrà piacerci (quando non vi siano altre cause
particolari); e forse massimamente se l'abbiamo sempre veduta crescere e
formarsi. Tanto può l'opinione sull'idea del bello ec.
(17. Agos. 1821.). V. p.1521.
Il bambino non ha idea veruna di quello che
significhino le fisonomie degli uomini, ma cominciando a impararlo coll'esperienza,
comincia a giudicar bella quella fisonomia che indica un carattere o un costume
piacevole ec. e viceversa. E bene spesso s'inganna giudicando bella e
bellissima una fisonomia d'espressione piacevole, ma per se bruttissima, e dura
in questo inganno lunghissimo tempo, e forse sempre (a causa della prima
impressione); e non s'inganna per altro se non perchè ancora non ha
punto l'idea distinta ed esatta del bello, e del regolare, cioè di
quello ch'è universale, il che egli ancora non può conoscere.
Frattanto questa significazione delle fisonomie, ch'è del tutto diversa
dalla bellezza assoluta, e non è altro che un rapporto messo [1511]dalla
natura fra l'interno e l'esterno, fra le abitudini ec. e la figura; questa significazione
dico, è una parte principalissima della bellezza, una delle capitali
ragioni per cui questa fisonomia ci produce la sensazione del bello, e quella
il contrario. Non è mai bella fisonomia veruna, che non significhi
qualche cosa di piacevole (non dico di buono nè di cattivo, e il piacevole
può bene spesso, secondo i gusti, e le diverse modificazioni dello
spirito, del giudizio, e delle inclinazioni umane esser anche cattivo): ed
è sempre brutta quella fisonomia che indica cose dispiacevoli, fosse
anche regolarissima. Si conosce ch'ella è regolare, cioè conforme
alle proporzioni universali ed a cui siamo avvezzi, e nondimeno si sente che
non è bella. Ma ordinariamente, com'è naturale, la
regolarità perfetta della fisonomia indica qualità piacevoli, a
causa della corrispondenza che la natura ha posto fra la regolarità interna
e l'esterna. Ed è quasi certo che una tal fisonomia appartiene sempre a
persona di carattere naturalmente perfetto ec. Ma siccome [1512]l'interno
degli uomini perde il suo stato naturale, e l'esterno più o meno lo
conserva, perciò la significazione del viso è per lo più
falsa; e noi sapendo ben questo allorchè vediamo un bel viso, e nondimeno
sentendocene egualmente dilettati (e forse talvolta egualmente commossi),
crediamo che questo effetto sia del tutto indipendente dalla significazione di
quel viso, e derivi da una causa del tutto segregata ed astratta, che chiamiamo
bellezza. E c'inganniamo interamente perchè l'effetto particolare della
bellezza umana sull'uomo (parlo specialmente del viso che n'è la parte
principale, e v. ciò che ho detto altrove in tal proposito) deriva
sempre essenzialmente dalla significazione ch'ella contiene, e ch'è del
tutto indipendente dalla sfera del bello, e per niente astratta nè
assoluta: perchè se le qualità piacevoli fossero naturalmente
dinotate da tutt'altra ed anche contraria forma di fisonomia, questa ci
parrebbe bella, e brutta quella che ora ci pare l'opposto. Ciò è
tanto vero che, siccome l'interno dell'uomo, come ho detto, si cambia, e la
fisonomia non corrisponde alle sue qualità (per la maggior parte
acquisite), perciò accade che quella tal fisonomia irregolare [1513]in
se, ma che ha acquistata o per arte, o per altro, una significazione piacevole,
ci piace, e ci par più bella di un'altra regolarissima che per contrarie
circostanze abbia acquistata una significazione non piacevole; nel qual caso
ella può anche arrivarci a dispiacere e parer brutta. E se una fisonomia
è fortemente irregolare, ma o per natura (che talvolta ha eccezioni e
fenomeni, come accade in un sì vasto sistema), o per arte, o per la
effettiva piacevolezza della persona che influisce pur sempre sull'aria del
viso, ha una significazione notabilmente piacevole; noi potremo accorgerci
della sproporzione e sconvenienza colle forme universali, ma non potremo mai
chiamar brutta quella fisonomia, e talvolta non ci accorgeremo neppure della
irregolarità, e se non la consideriamo attentamente, la chiameremo
bella.
(17. Agos. 1821.). V. p.1529. capoverso 2.
I costumi delle nazioni cambiano bene spesso
d'indole, massime coll'influenza del commercio, de' gusti, delle usanze ec.
straniere. E siccome l'indole della favella è sempre il fedelissimo
ritratto dell'indole della nazione, [1514]e questa è determinata
principalmente dal costume, ch'è la seconda natura, e la forma della
natura; perciò mutata l'indole de' costumi, inevitabilmente si muta, non
solo le parole e modi particolari che servono ad esprimerli individualmente, ma
l'indole, il carattere, il genio della favella. Pur troppo è certissimo
che l'indole de' costumi italiani essendo affatto cambiata, massime dalla
rivoluzione in poi, ed essendo al tutto francese, è perduta quasi
effettivamente la stessa indole della lingua italiana. Si ha un bel dire. Una
conversazione del gusto, dell'atteggiamento, della maniera, della raffinatezza,
della leggerezza, dell'eleganza francese, non si può assolutamente fare
in lingua italiana. Dico italiana di carattere; e piuttosto la si potrebbe tenere
con parole purissime italiane, che conservando il carattere essenziale di
questa favella. Così dico dell'indole dello scrivere che oggi piace universalmente.
E troppo vero che non si può maneggiare in lingua italiana, e meno
quanto all'indole che quanto alle parole. È troppo vero che l'influenza
generale del [1515]costume francese in Europa, deve ed ha realmente
mutata l'indole di tutte le lingue colte, e le ha tutte francesizzate, ancor
più nel carattere, che nelle voci. E in tutta Europa si travaglia a
richiamar le lingue e letterature alla loro proprietà nazionale. Ma
invano. Nelle parole ch'è il meno importante si potrà forse
riuscire: ma nell'indole, ch'è il tutto, è impossibile, se
ciascheduna nazione non ripiglia il suo proprio costume e carattere; e se noi
italiani massimamente (che siamo più soggetti all'influenza, e a pigliar
l'impronta straniera, perchè non siamo nazione, e non possiamo
più dar forma altrui) non torniamo italiani. Il che dovremmo pur fare: e
coloro che ci gridano, parlate italiano, ci gridano in somma siate
italiani, che se tali non saremo, parleremo sempre forestiero e barbaro. Ma
non essendo nazione, e perdendo il carattere nazionale, quali svantaggi derivino
alla società tutta intera, l'ho spiegato diffusamente altre volte.
Questa influenza del costume e del carattere
di una nazione sopra le altre civili, [1516]nessuna, dopo il
risorgimento della civiltà, l'ebbe più stabilmente della francese.
L'ebbero però anche altre, come l'Italia e la Spagna (e l'Inghilterra ultimamente),
ma per cagioni meno efficaci o salde, e però fu meno durevole. Ma in
proporzione della sua forza, fu sempre ugualmente compagna dell'influenza sulle
lingue. Ne' passati secoli però queste due influenze non potevano esser
grandissime 1. pel minor grado e strettezza di relazioni scambievoli in cui
erano le nazioni: 2. per la minor suscettibilità che queste avevano a
perdere più che tanto del loro carattere, e ricevere l'impronta
straniera, e conservarla più che tanto tempo ec. E ne avevan poca,
perchè appunto non vi erano avvezze; e come è necessaria
l'assuefazione particolare a far che tal nazione pigli tal carattere straniero;
così è necessarissima l'assuefazione e disposizione generale, a
far ch'ella possa ricevere profondamente e conservare radicatamente un nuovo carattere.
Giacchè tutto è assuefazione sì nei popoli, come
negl'individui. Ma in que' tempi la civiltà non era ancora in grado sufficiente
a vincere [1517]le diverse nature de' popoli, e le particolari
abitudini, e le tenacità ordinarie ec. nè a condurre il mondo
all'uniformità. V. se vuoi, p.1386. Ora la civiltà tira sempre,
come altrove ho detto ad uniformare; e l'uniformità fra gl'individui di
una nazione, e fra le nazioni è sempre in ragione dei progressi generali
o particolari della civiltà. Ed ella tira quindi sempre a confondere,
risolvere, perdere ed agguagliare i caratteri nazionali, e quindi quelli delle
lingue. Il qual effetto visibilissimo oggidì sì in questi che in
quelli, derivando da un grandissimo e stabilissimo incremento della civiltà,
non è maraviglia che sia notabilissimo e durevolissimo, e che l'universalità
e l'influenza della lingua francese non si perda malgrado i cangiamenti
politici, mentre non si perde nè facilmente si perderà
l'universalità e l'influenza che sopra questo secolo di civiltà
esercitano i costumi del popolo più civile del mondo.
I costumi de' greci anticamente, ebbero, in
proporzione de' tempi, grande influenza [1518]sulle diverse nazioni.
(Così forse anche altre nazioni più anticamente.) Quindi
l'universalità della loro lingua. Siccome le scienze e discipline portano
da per tutto e conservano le nomenclature che ricevettero dalla nazione che
inventolle e formolle, così anche i costumi. Ma le scienze si estendono
a pochi, poco terreno abbracciano, e poco influiscono sul carattere delle
lingue a cui passano. Laddove i costumi si estendono all'intere nazioni, ed
abbracciano tutta la di lei vita, e quindi tutta la lingua che n'è la
copia, e l'immagine.
(18. Agos. 1821.)
Da queste osservazioni si deduce che dopo che
i costumi greci furono radicati in Roma; dopo che i romani andavano ad imparar
le maniere del bel vivere in Grecia, come si va ora a Parigi; dopo che la moda,
la bizzarria, l'ozio derivato dalla monarchia, l'influenza della letteratura
greca ec. ebbe grecizzati i costumi e la conversazione di Roma; dopo che le
case de' nobili eran piene di filosofi, di medici, di precettori, di domestici
e uffiziali greci d'ogni sorta; [1519]dopo che la letteratura romana fu
definitivamente modellata sulla greca, come la russa, la svedese, la inglese
del secolo d'Anna sulla francese; dopo tutto ciò la lingua romana doveva
necessariamente (quando anche non si sapesse di fatto) imbarbarire a forza di
grecismo, sì quanto ai particolari, sì quanto all'indole. E
bisogna attentamente osservare che il grecismo di que' tempi, non era
già quello d'Erodoto o di Senofonte, e perciò la lingua e stile romano
non fu mai semplice nè inartifiziato; ma quello di Luciano, di Polibio
ec. cioè contorto, lavorato, elegante artifiziosamente, e similissimo
all'andamento del latino. (V. p.1494-6.) Il quale andamento molto si
sbaglierebbe chi lo credesse passato dal latino nel greco. Fu tutto l'opposto,
e derivò dall'influenza del greco di allora, il quale nè allora
nè mai fu soggetto all'influenza del latino. E se la lingua e lo stile
latino classico fu sommamente più artifiziato per indole, che il greco
classico, ciò si deve attribuire all'indole della grecità
contemporanea al classico latino.
(18. Agos. 1821.)
[1520]Tutte le nazioni hanno
naturalmente il loro particolar modo di vivere, di pensare, di concepire (come
lo hanno gl'individui) di vedere e idear le cose ec. Quindi tutte le lingue
hanno i loro propri e distinti caratteri, a' quali corrisponde quello delle
parole lor proprie. Non si troveranno in 2 diverse lingue, 2 parole sinonime
che minutamente considerate esprimano un'idea precisamente ed interamente
identica. Alcune parole perfettamente considerate bastano talvolta a dipingere
il carattere della vita, del pensiero, dell'intelletto, dell'immaginazione,
delle opinioni ec. del popolo che le adopera. Quindi mutato costume e
carattere, si muta indispensabilmente l'indole della lingua.
(18. Agos. 1821.)
E quindi ancora si conferma quello che
altrove ho sostenuto, che trattandosi di parole il cui pregio consiste nella
precisione del significato, e che denno suscitare universalmente quella tal
precisa idea (come in fatto di parole filosofiche, scientifiche ec.); è
perniciosissimo il mutarle, e sostituir loro una parola che in altra lingua paia
sinonima ad essa [1521]quanto si voglia. Non lo sarà mai
perfettamente, e la precisione e l'universalità di quell'idea si
perderà, se vorrassi staccarla dalla parola, che le appropriò la
nazione che ritrovò o determinò e rese chiara la detta idea.
(18. Agos. 1821.)
Alla p.1510. Quante cose ci paiono
giornalmente brutte o belle, senza che n'abbiano alcuna ragione in se stesse,
ma per le somiglianze, relazioni che hanno, idee che richiamano, o in tutti, ed
allora le chiamiamo brutte o belle assolutamente, o in noi soli, ed allora, se
pur vi badiamo (che non accade quasi mai) siamo forzati a chiamarle brutte o
belle relativamente. Ho veduta una soffitta dipinta a ritondi, o girellette
disposte attorno attorno in cerchio. Che cosa ha di brutto o di vile questa
invenzione in se? Pur tutti la condannavano perchè richiama l'idea di
una tavola ritonda apparecchiata co' suoi piatti in giro.
(18. Agos. 1821.)
Il passato, a ricordarsene, è
più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. [1522]Perchè?
Perchè il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana;
è la sola immagine del vero: e tutto il vero è brutto.
(18. Agos. 1821.)
Ho discorso spesso del bello che proviene
dalla debolezza. Egli è un bello proveniente da pura inclinazione, e
quindi non ha che far col bello ideale, anzi è fuori della teoria del
bello. Infatti egli è del tutto relativo. Lasciando le infinite altre
cose dove la debolezza sconviene e dispiace, osservate che agli uomini piace nelle
donne la debolezza, perchè loro è naturale; alle donne negli
uomini la forza e l'aspetto di essa. Ed è brutta la forza nelle donne,
come la debolezza negli uomini. Se non che talvolta giova al contrasto, e
dà grazia (ma perchè appunto è straordinario, cioè
non conveniente) un non so che di maschile nelle donne, e di femminile negli
uomini.
(18. Agos. 1821.)
Gli argomenti ch'io tiro dalla
considerazione della grazia, in ordine al bello, sono giusti, e giustamente
dedotti; e si può argomentare dalla [1523]grazia al bello o viceversa,
e le teorie dell'uno e dell'altra comunicano e dipendono scambievolmente, hanno
principii comuni, ed elementi comuni, e son quasi due rami di uno stesso
tronco; e ciò in questo senso. Il bello è convenienza, la grazia
un contrasto, cioè una certa sconvenienza, o almeno un certo straordinario
nelle convenienze. Se dunque la sconvenienza è relativa, lo è anche
la convenienza; se dunque la grazia è mutabile, se ciò
ch'è grazia per l'uno, non lo è per l'altro ec. ec. ec. tutto
ciò si dovrà pur dire del bello. Così anche viceversa. E
se la tal cosa ad altri pare straordinaria nelle convenienze, ad altri no, ec.
ec. ec. dunque l'idea della convenienza è relativa. Io posso pertanto
cavare indifferentemente le mie ragioni sì dall'esame della grazia, come
da quello del bello, per mostare, che quella o questo non è assoluto, e
per qualunque altro scopo di simil natura ec. Dalla grazia si può dunque
argomentare alla bellezza, per una ragione e in un modo simile a quello in cui
dal brutto si argomenta al bello, e dalla teoria dell'uno risulta quella
dell'altro; e così accade in tutti i contrarii.
(18. Agos. 1821.)
La facoltà di assuefarsi, in che
consiste la memoria, e l'assuefazione ad assuefarsi in che consiste quasi
interamente [1524]la detta facoltà, fanno che la memoria possa anche
assuefarsi (come tutto giorno accade) a ritenere un'impressione ricevuta una
sola volta, supplendo l'assuefazione generale all'assuefazione particolare, e venendo
anche questo ad essere un effetto dell'assuefazione di richiamare. I bambini
che non hanno ancora quest'assuefazione, o insufficiente, non ritengono
impressione che non abbiano ricevuta più volte, e alla quale non si
siano individualmente assuefatti. E le stesse più buone memorie non
riterranno a lungo un'impressione non più ripetuta, s'essi medesimi di
tratto in tratto non se la ripetono, mediante l'immaginazione che la richiama,
vale a dire mediante successive reminiscenze, che formano l'assuefazione
particolare a quella tale impressione. E ciò che dico della memoria,
dico delle altre abitudini, ed abilità ec. (dipendenti pur da lei) che
talvolta si possono acquistare in un batter d'occhio, come imparare
un'operazione di mano tanto da poterla rifare, dopo averla veduta fare una sola
volta. ec. Dove concorre la facoltà e facilità di assuefazione della
memoria, [1525]con quella degli organi esteriori. Ma queste pure si
perdono ordinariamente se non si ripetono, e se l'assuefazione istantaneamente
contratta, non si coltiva, mediante il rinnuovamento non dell'impressione
stessa, ma del suo effetto ec. Ancor qui però vi sono delle differenze
secondo la maggiore o minor facoltà di assuefazione e di ritentiva,
naturale e acquisita, che hanno i diversi individui.
(19. Agos. 1821.)
Degli stessi tre soli scrittori letterati
del trecento, un solo, cioè Dante, ebbe intenzione scrivendo, di
applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì
dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di
gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della
filosia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e
insomma dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta
nel Volgare Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato
sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua
italiana. [1526]Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per
passatempo, e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura,
che anzi non iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè
le credevano indegne della lingua letterata, cioè latina, in cui
scrivevano tutto ciò con cui miravano a farsi nome di letterati, e ad
accrescer la letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo Dante, ed espressamente
contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petrarca) che la lingua
italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura.
Sicchè non pur non vollero applicarvela, ma non credettero di potere,
nè che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò fin dopo la
metà del Cinquecento circa il poema eroico, del quale pochi anni dopo la
morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si credeva in
Italia che la lingua italiana non fosse capace: onde il Caro prese a tradurre l'Eneide
ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è notissima
l'opinione che portava il Petrarca del suo canzoniere: ed egli lo scrisse [1527]in
italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento
delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li
cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura.
ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in
latino, e storie ec.
(19. Agos. 1821.)
Alla p.1109. marg. fine. Fra' quali lo
spagnuolo soltar sciogliere, in vece di solutar, da solutus
di solvere. E si ha nel Glossar. solta cioè solutio,
ed hanno pure i francesi soute, cioè solte, invece di solute.
Così sectari sta per secutari. E il primitivo solvere
s'è perduto nello spagnuolo. (v. però il Diz.) E noi pure non
diciamo assolto per assoluto? sciolto ec.? e voltare
appunto, da volutare come soltar da solutare, che
differisce per una sola lettera?
(19. Agos. 1821.). V. p.1562. fine.
La stessa ragione che inclina gli uomini e i
viventi a credere assoluto il relativo, li porta a credere effetto ed opera
della natura, quello ch'è puro effetto ed opera dell'assuefazione, e a
creder facoltà o qualità congenite quelle che sono meramente
acquisite. Ma egli è ben vero che questa considerazione estingue il
bello e il grande: e quel sommo ingegno, o quella somma virtù
considerata come figlia delle circostanze e delle abitudini, non della natura;
perde tutto [1528]il nobile, tutto il mirabile, tutto il sublime della
nostra immaginazione. Le qualità più eroiche e più
poetiche, lo stesso sentimento, entusiasmo, genio, la stessa immaginazione
diventa impoetica, s'ella non si considera come dono della natura; e lo scrittor
di gusto, e massime il poeta deve ben guardarsi dal considerarla altrimenti, o
dal presentarla sotto altro aspetto. Virgilio diverrebbe nella nostra immaginazione
poco diverso da Mevio (qual egli era infatti naturalmente), Achille da Tersite;
Newton si riconoscerebbe superiore per solo caso al più povero fisico peripatetico.
(20. Agos. 1821.)
Come la grazia sia relativa si riconosce
anche in ciò. Un aspetto femminile negli uomini è veramente
sconveniente perch'è fuor dell'ordinario. Pur questa sconvenienza alle
donne bene spesso par grazia, agli uomini bruttezza; ed io ho veduto de' visi e
delle forme femminili che agli uomini facevano nausea, far gran fortuna e colpo
nelle donne al solo primo aspetto, ed esser da loro generalmente riputate
bellissime. Così viceversa può dirsi del [1529]maschile
nelle donne. (V. la p.1522.) E tali altre infinite differenze si trovano ne'
due sessi, circa al senso e al giudizio della grazia, come del bello.
(20. Agos. 1821.)
E notate che, stante il gusto naturale che
hanno le donne per la forza negli uomini, e gli uomini per la debolezza nelle
donne, parrebbe che il fatto dovesse andare all'opposto di ciò che ho
detto qui sopra. Ma oltre che i gusti naturali si alterano sommamente, infinite
sono le modificazioni, le facce, le differenze di un medesimo gusto, e degli
effetti suoi. ec.
(20. Agos. 1821.)
Alla p.1513. fine. Questo ch'io dico, che la
bellezza umana, massime della fisonomia, è inseparabile e deriva
principalmente dalla significazione, che niente ha che fare col bello, si
può vedere ancora ne' diversi atteggiamenti di una persona o di un
volto, più o meno animati ed espressivi, e significatori di cose
più o meno piacevoli, o viceversa; secondo le quali differenze, una
stessa persona, par bella e brutta, più e meno bella o brutta. [1530]Del
resto un volto bello e regolare significa sempre per se qualche cosa di
piacevole, quantunque falsamente. Quindi ogni volto regolare piace. Ma piace
pochissimo, ed alle volte appena si sente che sia bello, s'egli o per mancanza
di anima, o di coltura, o di arte nella persona, manca affatto d'ogni
significazione estranea alla sua significazione naturale, e se questa si
riconosce evidentemente per falsa. Onde par molto più bello un viso
molto meno regolare, ma espressivo, animato ec. che quello che ho detto. ec.
ec. ec.
(20. Agos. 1821.)
A quello che ho detto altrove per iscusar
gl'inconvenienti accidentali che occorrono nel sistema della natura,
aggiungete, che talvolta, anzi spessissimo, essi non sono inconvenienti se non
relativi, e la natura gli ha ben preveduti, ma lungi dal prevenirgli, li ha per
lo contrario inclusi nel suo grand'ordine, e disposti a' suoi fini. La natura
è madre benignissima del tutto, ed anche de' particolari generi e specie
che in esso si contengono, ma non degl'individui. Questi servono sovente a loro
[1531]spese al bene del genere, della specie, o del tutto, al quale
serve pure talvolta con proprio danno la specie e il genere stesso. È
già notato che la morte serve alla vita, e che l'ordine naturale,
è un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangiamenti regolari e
costanti quanto al tutto, ma non quanto alle parti, le quali accidentalmente
servono agli stessi fini ora in un modo ora in un altro. Quella quantità
di uccelli che muore nella campagna coperta di neve, per mancanza di alimenti,
la natura non l'ignora, ma ha i suoi fini in questa medesima distruzione,
sebben ella non serva immediatamente a nessuno. Per lo contrario la distruzione
degli animali che fanno gli uomini o altri animali alla caccia, serve
immediatamente ai cacciatori, ed è un inconveniente accidentale, e una disgrazia
per quei poveri animali; ma inconveniente relativo, e voluto dalla natura, che
gli ha destinati per cibo ec. ad altri viventi più forti.
(20. Agos. 1821.)
Facciamo conto che la scienza politica da
Machiavello in poi abbia fatto 20 passi, [1532]10 passi per opera di
Machiavello, e gli altri 10 distributivamente per opera degli altri successivi
scrittori. Chi fu uomo più grande? Machiavello o i suoi successori? E
pur l'ultimo di questi è molto più gran politico di Machiavello,
e la politica nelle sue opere ha una doppia estensione. Nessuno dunque
preferisce Machiavello a quest'ultimo, e le sue opere non si leggono oramai che
per profondità di studio; e se la scienza dopo lui avesse mutato faccia,
come spesso accade, in virtù per altro dell'impulso da lui datole,
più che di qualunque altra cagione; le opere di Machiavello non si
leggerebbero più. Figuriamoci lo stesso della fisica in ordine a
Galileo. Ma siccome la fisica ha realmente mutato faccia, però gli
scritti di Galileo forse il più gran fisico e matematico del mondo, si
lasciano agli eruditi. Tanto è vana e caduca quella gloria per cui gli
uomini si affaticano, che non solo ella dipende dalla fortuna, non solo si
stende a pochissimi studiosi e consapevoli delle cose antiche, non solo basta
un piccolissimo caso ad impedirla o a sopprimerla, non solo tocca bene spesso agl'immeritevoli
ec. ec. ec. ec. ec. [1533]ma lo stesso cercarla, lo stesso ottenerla,
è cagione del perderla. Quegli uomini straordinarii e sommi che danno colle
loro opere un impulso allo spirito umano, e cagionano un suo notabile
progresso, restano dopo poco spazio inferiori nell'opinione e nella
realtà, a degl'ingegni molto minori, che profittando de' suoi lumi,
conducono lo spirito umano molto più avanti di quello a cui egli non lo
potè portare. Così quelle stesse opere che gli procacciarono
gloria, cagionano la di lui dimenticanza; e il gran filosofo con quel medesimo
con cui cerca ed ottien rinomanza, travaglia a distruggerla. Le glorie letterarie
per questa parte, sono alquanto meno soggette a questo inconveniente. Dico per
questa parte, perchè le alterazioni dei gusti, e la somma
istabilità del bello, che non ha forma indipendente dall'opinione e dal
costume ec. come il vero, producono bene spesso il medesimo effetto.
(20. Agos. 1821.)
Chi non crederebbe che il significato
francese della parola genio non fosse al tutto [1534]moderno?
Eppure nel seg. passo di Sidonio (Panegyr. ad Anthem. v.190. seqq.) io non so
in qual altro senso, che in questo o simile, si possa intendere.
Qua Crispus brevitate placet, quo pondere
Varro,
Quo genio Plautus, quo fulmine[13]
Quintilianus,
Qua pompa Tacitus numquam sine laude
loquendus.
Se pur non volesse dire piacevolezza,
e una cosa simile a quella che esprime talvolta l'italiano genio, e in
questo senso pure non si troverebbe presso gli antichi scrittori. V.
però il Forcell. e il Ducange.
(20. Agos. 1821.)
Le parole irrevocabile, irremeabile e
altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole (se l'uomo non vi si avvezza
troppo), perchè destano un'idea senza limiti, e non possibile a
concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste
tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta.
(20. Agos. 1821.)
Principi insigni e famosi per la [1535]bontà,
e per l'amore scambievole di lui verso i popoli, e de' popoli verso lui, non
furono e non saranno mai fuorchè in un sistema di tranquillo, sicuro, ma
assoluto dispotismo. Nè un Giuseppe II. nè un Enrico IV.
nè un Marco Aurelio, nè altri tali non sarebbero stati in un
regno come quello di Falaride, e come altri antichi, quando il popolo cozzava
colla tirannide che soffriva; nè in una monarchia costituzionale, alla
moderna, quando il principe cozza col popolo che non può vincere. Le
ragioni le vedrai facilmente, e consistono nell'egoismo, che è la cagione
tanto della clemenza, quanto della crudeltà e della tirannide de' principi,
e determina i loro caratteri a questa o a quella, secondo la diversità
delle circostanze. Augusto sarebbe forse stato un buono ed amato principe, se
la sua tirannide fosse stata tranquilla, e se il tempo e le circostanze le
avessero permesso di esserlo. ec. ec. ec.
(20. Agos. 1821.)
A quello che ho in molti luoghi detto e
spiegato della inclinazione irresistibile che l'uomo sociale contrae al
partecipare altrui [1536]le proprie sensazioni ec. gradevoli o no,
massime se straordinarie, bisogna riferire la gran difficoltà che giornalmente
si prova a conservare il segreto, massime quanto meno l'uomo è lontano
dallo stato naturale, o quanto meno è assuefatto a comprimere i suoi
desiderii. Onde le donne e i fanciulli sono le persone meno capaci del segreto.
Ma anche l'uomo fatto, e d'animo colto e formato ec. prova spessissimo gran
difficoltà ad esser perfettamente segreto, sicchè nessun indizio
gli scappi dalla bocca di ciò che sa, e massime se la cosa è
curiosa ec. quantunque mai possa importare la segretezza. E se ciascheduno
esaminerà bene la sua vita, vedrà quante volte la lingua gli
abbia nociuto, o nelle piccole o nelle grandi cose, e bene spesso, malgrado
ch'egli prevedesse il danno. Uomo perfettamente segreto, non penso che si
trovi, non solo per le minime circostanze che non si avvertono, e che
tradiscono il segreto; ma per la inclinazione ch'egli ha a manifestarlo,
inclinazione a cui egli, se non sempre, certo assai spesso fa qualche maggiore
o minor sacrifizio. E forse la maggior parte delle circostanze che ho detto,
derivano in [1537]ultima analisi da questa inclinazione.
(21. Agosto 1821.)
Gli odori sono quasi un'immagine de' piaceri
umani. Un odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che
qualunqu'altra sensazione. Voglio dire che l'odorato non resta mai soddisfatto
neppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per
appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono
anche un'immagine delle speranze. Quelle cose molto odorifere che son buone
anche a mangiare, per lo più vincono coll'odore il sapore, e questo non
corrisponde mai all'aspettativa di quel gusto, che dall'odore se n'era
conceputa. E se voi osserverete vedrete che odorando queste tali cose, vi viene
quel desiderio che tante volte ci avviene nella vita, d'immedesimarci in certo
modo con quel piacere, il che ci spinge a porcelo in bocca: e fattolo restiamo
mal paghi. Nè solo nelle cose buone a mangiare, ma anche negli altri
odori ci sopravviene lo stesso desiderio; e [1538]fiutando p.e. con gran
diletto un'acqua odorifera, e non potendoci mai appagare di quella sensazione,
ci vien voglia di berla.
(21. Agos. 1821.)
Alla p.1453. Che la natura infatti abbia
lasciato da fare all'uomo più che agli altri animali, e ch'egli anche
naturalmente sia più sviluppabile, e più destinato a crescere
moralmente, si fa chiaro in certo modo anche per l'incremento fisico del suo
corpo: giacchè pochi altri animali crescono proporzionatamente tanto
quanto cresce l'uomo da quel ch'egli è quando nasce; vale a dire, pochi
altri animali nascendo, sono proporzionatamente tanto più piccoli, di
quando sono adulti, quanto è l'uomo.
(21. Agos. 1821.)
Bellezza e bruttezza relativa. Siccome la
bellezza è rara, perciò andando in un nuovo paese, tu ritrovi
persone la più parte brutte. Or queste ti paiono assai più brutte
di quelle del tuo paese (benchè sia confinante), e a prima vista ti pare
che in [1539]quel paese regni una gran deformità. La ragione
è che il giudizio del bello e del brutto dipende dall'assuefazione; e i
brutti del tuo paese, non ti fanno gran senso, nè ti paiono molto
brutti, perchè sei avvezzo a vederli. Così pure ci accade
riguardo a questo o quell'individuo in particolare. Ma quello che accade a te
in quel nuovo paese, accadrà pure a que' paesani venendo nel tuo.
Viaggiando però molto, si arriva presto a perdere queste tali
sensazioni, per effetto parimente dell'assuefazione.
(21. Agos. 1821.)
Ho detto qui sopra che il bello è
raro, e il brutto ordinario. Come dunque l'idea del bello deriva
dall'assuefazione, e dall'idea che l'uomo si forma dell'ordinario, il quale
giudica conveniente? Deriva, perchè quello che gli uomini o le cose
hanno d'irregolare, non è comune. Tutti questi son brutti, ma quegli in
un modo, questi in un altro. L'irregolarità ha mille forme. La
regolarità una sola, o poche. E gli stessi brutti hanno sempre qualcosa
di regolare, anzi quasi [1540]tutto, bastando una sola e piccola
irregolarità a produr la bruttezza. Così dunque l'uomo si forma
naturalmente l'idea del bello, quando anche non avesse mai veduto altro che
brutti, distinguendo senza pure avvertirlo ciò che le loro forme hanno
di comune, da ciò che hanno di straordinario e quindi irregolare. E
posto il caso che il tale non avesse veduto alcuna persona senza un tale
identico difetto, o che l'avesse veduto nella maggior parte delle persone a lui
note, quel difetto sarebbe per lui virtù, ed entrerebbe nel suo bello
ideale. Così accadrebbe nel paese de' monocoli. E forse può qui
aver luogo il caso di una giovane da me conosciuta, che sino a 25 anni,
credè sempre costantemente che nessuno vedesse dall'occhio sinistro,
perch'ella non ci vedeva, e niuno se n'era accorto. L'immagine pertanto ch'ella
si formava della bellezza umana, era di un uomo cieco da un occhio, ed avrebbe
stimato difetto il contrario.
(21. Agos. 1821.)
Come tutto sia assuefazione ne' viventi, si
può anche vedere negli effetti della [1541]lettura. Un uomo
diviene eloquente a forza di legger libri eloquenti; inventivo, originale,
pensatore, matematico, ragionatore, poeta, a forza ec. Sviluppate questo
pensiero, applicandovi l'esempio mio, e distinguendolo secondo i gradi di
adattabilità, e formabilità naturale o acquisita degl'individui.
Quei romanzieri la cui fecondità ec. d'invenzione ci fa stupire, hanno
per lo più letto gran quantità di romanzi, racconti ec. e quindi
la loro immaginazione ha acquistata una facoltà che qualunque ingegno,
in parità di circostanze esteriori e indipendenti dalla sua natura,
sarebbe capace di acquistare, in grado per lo meno somigliante.
(21. Agos. 1821.)
Lo stesso dico degli altri studi
indipendenti dalla lettura. Ed è tanto vero che le dette facoltà
vengono dall'assuefazione, ch'elle si acquistano, e si perdono coll'interruzione
dell'esercizio, e tale che poco fa era dispostissimo a ragionare, oggi non lo
è più. E s'egli da' ragionatori, passa agli scrittori
d'immaginazione, la sua mente, mutato abito, [1542]acquista una
facoltà d'immaginare ec. ec. ec. Così m'è accaduto mille
volte. Bensì, com'è naturale, questi abiti si possono (mediante
sempre l'assuefazione) confermare in modo che anche interrotto l'esercizio, non
si perdano, benchè s'indeboliscano; o si possano presto ripigliare ec.
ec. ec. Questo effetto è generale in tutte le assuefazioni.
(21. Agos. 1821.)
Un altr'abito bisogna ancora contrarre e
massimamente nella fanciullezza. Quello cioè di applicare le dette
assuefazioni alla pratica, quello di metterle a frutto, e di farle servire
all'esecuzione di cose proprie. P.e. molti vi sono, che hanno squisito
giudizio, moltissima lettura, cognizione ec. Non manca loro altro che il detto
abito per essere insigni scrittori: ma stante questa mancanza, metteteli a
scrivere, essi non sanno far nulla. Essi non hanno l'abito, e quindi la
facoltà dell'applicazione, e dell'esecuzione propria ec. Perciò
un uomo il quale (volendo seguitare l'esempio di sopra) abbia letto molti
romanzi, e sia d'ottimo giudizio ec. ec. può benissimo non saperne
nè scrivere nè concepire, perchè non ha l'abito [1543]dell'applicazione,
e del fissare la mente a tirar profitto coll'opera propria da quelle
assuefazioni; non ha l'esercizio dello scrivere, nè del pensare a questo
fine, nè del mirare a ciò nell'assuefarsi ec. ec. ec. non ha
l'abito dell'attendere e del riflettere alle minuzie, ch'è necessario
per assuefarsi a porre in opera le altre assuefazioni; non ha l'abito della
fatica ec. E perciò molti ancora, anzi i più, leggono anche
moltissimo, non solo senza contrarne abilità d'eseguire (ch'è insomma
abilità d'imitazione), ma neppur di pensare, e senza guadagnar nulla,
nè contrarre quasi verun'abitudine, cioè attitudine. V. p.1558.
(22. Agos. 1821.)
Tutti più o meno (massimamente le
persone che hanno coltivato il loro intelletto, e sviluppatene le
qualità, e quelle che sono ammaestrate da molta esperienza ec.)
concepiscono in vita loro delle idee, delle riflessioni, delle immagini ec. o
nuove, o sotto un nuovo aspetto, o tali insomma che bene e convenientemente
espresse nella scrittura, potrebbero esser utili o piacevoli, e separar quello
scrittore, se non altro, dal numero de' copisti. Ma perchè gl'ingegni
(massime in Italia) non hanno l'abito di fissar fra se stessi, circoscrivere, e
chiarificare le loro idee, perciò queste restano per lo più nella
loro mente in uno stato incapace di esser consegnate e adoperate nella
scrittura; e i più, quando si mettono a scrivere, non trovando niente
del loro che faccia al caso, si contentano di copiare, o compilare, o
travestire l'altrui; e neppur si ricordano, nè credono, nè [1544]s'immaginano,
nè pensano in verun modo a quelle idee proprie che pur hanno, e di cui
potrebbero far sì buon uso. Mancano pure dell'abito di saper
convenientemente esprimere idee nuove, o in nuova maniera, cioè di
applicare per la prima volta la parola e l'espressione conveniente ad un'idea,
di fabbricarle una veste adattata alla scrittura; e perciò, quando anche
le concepiscano chiaramente, le lasciano da banda, non sapendo darle giorno, e
disperando, anzi neppur desiderando di potere, e si rivolgono alle idee altrui
che hanno già le loro vesti belle e fatte. Che se essi talvolta si
lasciano portare a volere esprimere le dette idee proprie, per la mancanza di
abilità acquistata coll'esercizio, lo fanno miserabilmente. Questo esercizio
è tanto necessario, che io per l'una parte loderò moltissimo, per
l'altra piglierò sempre buonissima speranza di un fanciullo o di un giovane,
il quale ponendosi a scrivere e comporre, vada sempre dietro alle idee proprie,
e voglia a ogni costo esprimerle, siano pur frivole com'è naturale nei
principii della riflessione, e malamente espresse, com'è naturale ne'
principii dello scrivere e dell'applicare [1545]i segni ai pensieri. A
me pare ch'io fossi uno di questi.
(22 Agos. 1821.)
L'uomo senza la speranza non può
assolutamente vivere, come senza amor proprio. La disperazione medesima
contiene la speranza, non solo perchè resta sempre nel fondo dell'anima
una speranza, un'opinione direttamente o quasi direttamente, ovvero obbliquamente
contraria a quella ch'è l'oggetto della disperazione; ma perchè
questa medesima nasce ed è mantenuta dalla speranza o di soffrir meno
col non isperare nè desiderare più nulla; e forse anche con
questo mezzo, di goder qualche cosa; o di esser più libero e sciolto e
padrone di se, e disposto ad agire a suo talento, non avendo più nulla
da perdere, più sicuro, anzi totalmente (se è possibile e v. la
p.1477.) sicuro in mezzo a qualunque futuro caso della vita ec.; o di qualche
altro vantaggio simile; o finalmente, se la disperazione è estrema ed intera
cioè su tutta la vita, di vendicarsi della fortuna e di se stesso, di
goder della stessa disperazione, della stessa agitazione, vita interiore, sentimenti
gagliardi ch'ella suscita ec. Il piacere della disperazione è ben conosciuto,
e quando si rinunzi alla speranza e al desiderio di tutti gli altri, non si lascia
mai di sperare [1546]e desiderar questo. Insomma la disperazione medesima
non sussisterebbe senza la speranza, e l'uomo non dispererebbe se non isperasse.
Infatti la disperazione più debole e meno energica è quella
dell'uomo vecchio, lungamente disgraziato, sperimentato ec. che spera veramente
meno. La più forte, intera, sensibile, e formidabile, è quella
del giovane ardente e inesperto, ch'è pieno di speranze, e che gode
perciò sommamente benchè barbaramente della stessa disperazione
ec.
(22. Agos. 1821.)
Quelli che meno sperano, meno godono della
loro disperazione, e meno anche disperano, e conservano più facilmente
una speranza benchè languida, pur distinta e visibile in mezzo alla
disperazione. Tale è il caso degli uomini lungamente sventurati, e
soliti ed assuefatti a soffrire e a disperare. Viceversa dico degli altri. La
disperazione poi dell'uomo ordinariamente felice, è spaventevole.
(22. Agos. 1821.)
Siccome non v'è infelicità che
non possa crescere (p.1477.), così non v'è uomo tanto
perfettamente disperato che sopraggiungendolo [1547]una nuova, impreveduta
e grande sciaura non provi nuovo dolore. Anzi bene spesso quando anche sia
preveduta, quando anche sia quella medesima per cui si disperava. Dunque la
speranza gli restava ancora. E nessuno è mai tanto disperato che, se
bene si dia a credere di non esser più suscettibile di maggior dolore, e
di star sicuro nella sua piena disperazione, non sia realmente soggetto a
sentire l'accrescimento del male. Non v'è infermo così ragionevole
e capace di conoscer da se di avere necessariamente a morir del suo male (come
sarebbe un medico ec.), che al ricever l'avviso di dover morire non si turbi
fuor di modo. Dunque sperava ancora di non morire. Questa osservazione è
del Buffon. E come non v'è tanto gran male che non possa esser maggiore,
così non v'è disperazione umana che non possa crescere.
Dunqu'ella non è mai perfetta per grande ch'ella sia, dunque non esclude
mai pienamente la speranza.
(22. Agos. 1821)
Osservate quell'uomo disperatissimo di tutta
quanta la vita, disingannatissimo d'ogni illusione, e sul punto di uccidersi.
Che cosa credete voi ch'egli pensi? pensa che la sua morte sarà o
compianta, o ammirata, o desterà spavento, o farà conoscere il
suo coraggio, a' parenti, agli amici, a' conoscenti, a' cittadini; che si discorrerà
di lui, se non altro per qualche istante con un sentimento straordinario; che
le menti si esalteranno almeno di un grado sul di lui [1548]conto; che
la sua morte farà detestare i suoi nemici, l'amante infedele ec. o li
deluderà ec. ec. Credete voi ch'egli non tema? egli teme, (sia pur
leggerissimamente) che queste speranze non abbiano effetto. Io son certissimo
che nessun uomo è morto in mezzo a qualche società senza queste
speranze e questi timori, più o meno sensibili; e dico morto, non solo
volontariamente, ma in qualche modo. E s'egli è mai vissuto nella
società ec. morendo anche nel deserto, e quivi anche di sua mano, spera
(sia pur lontanissimamente) che la sua morte quando che sia verrà
conosciuta ec. V. p.1551. Tanto è lungi dal vero che la speranza o il
desiderio possano mai abbandonare un essere che non esiste se non per amarsi, e
proccurare il suo bene, e se non quanto si ama.
(22. Agos. 1821.)
Alla p.1449. Vero è per altro che
nè l'immaginazione de' vecchi sarà mai così feconda
nè forte ec. come quella de' giovani, nè quella de' moderni, come
quella degli antichi, nè la comandata come la spontanea. E quindi la
poesia de' moderni cederà sempre all'antica quanto all'immaginazione. E
si può ben comandare a questa, e renderla a viva forza anche più
feconda e più gagliarda dell'antica, ma non si riuscirà mai in
questo modo a dare a' suoi parti quella bellezza, quella grazia, quella vita
che [1549]non ponno avere se non le sue produzioni spontanee. Saranno
anche più energici, e non per tanto meno vivi, e men belli, anzi
tanto meno quanto più energici, derivando quest'energia dalla forzatura,
e dalla tortura a cui si mette la fantasia, per cavarne cose che facciano
grand'effetto, e spirino originalità ec. Tali sono ordinariamente i
parti delle fantasie settentrionali, parti la cui straordinaria forza non
è vitale, ma come quella che si acquista coll'acqua vite, e
benchè più forti assai delle invenzioni greche, sono ben lungi dall'averla
vita, e la sana complessione di queste.
Bisogna però convenire che l'uomo
moderno, così tosto com'è pienamente disingannato, non solo
può meglio comandare all'immaginazione che al sentimento, il che avviene
in ogni caso, ma anche è meglio atto a immaginare che a sentire. Quando
gli uomini sono ben conosciuti, non è più possibile sentir niente
per loro; ogni moto del cuore è languido, e oltracciò s'estingue
appena nato. L'affetto è incompatibile colla conoscenza della
malvagità dell'uomo, e della nullità [1550]delle cose
umane. L'uomo disingannato non ha più cuore, perchè i sentimenti
ancorchè destati da tutt'altro, hanno sempre relazione o vicina o
lontana co' nostri simili. E come può l'uomo riscaldarsi per cose di cui
conosce o la perversità o la total vanità? Sparito dagli occhi
umani quel mondo umano, dove solo si poteva esercitare il suo cuore; sparita l'idea
della virtù, dell'eroismo ec. ec. ec. il sentimento è distrutto.
L'odio o la noia non sono affetti fecondi; poca eloquenza somministrano, e poco
o niente poetica. Ma la natura, e le cose inanimate sono sempre le stesse. Non
parlano all'uomo come prima: la scienza e l'esperienza coprono la loro voce: ma
pur nella solitudine, in mezzo alle delizie della campagna, l'uomo stanco del
mondo, dopo un certo tempo, può tornare in relazione con loro
benchè assai meno stretta e costante e sicura; può tornare in
qualche modo fanciullo, e rientrare in amicizia con esseri che non l'hanno
offeso, che non hanno altra colpa se non di essere stati esaminati, e
sviscerati troppo minutamente, e che anche secondo la scienza, hanno pur delle
intenzioni e de' fini benefici verso lui. Ecco un certo [1551]risorgimento
dell'immaginazione, che nasce dal dimenticare che l'uomo fa le piccolezze della
natura, conosciute da lui colla scienza; laddove le piccolezze, e le malvagità
degli uomini, cioè de' suoi simili, non è quasi possibile che le
dimentichi. Egli stesso assai mutato da quel di prima, e conosciuto da lui
assai più intimamente di prima, egli stesso da cui non si può
nè allontanare nè separare, servirebbe a richiamargli l'idea
della miseria, della vanità, della tristizia umana. In questo stato
l'uomo moderno è più atto ad imitare Omero che Virgilio.
(23. Agos. 1821.). V. p.1556. fine.
Alla p.1548. marg. Quindi la cura che i
suicidi soglion prendere di lasciar qualche notizia, qualche cenno della loro
morte, e del modo di essa; com'ella fu veramente volontaria, non derivò
da pazzia, nè da malattia, nè da violenza altrui. Molti si
stendono anche a descriverne tutte le cagioni, e le circostanze e spendono
molto tempo a trattenersi, ad informare, a cattivarsi insomma quel mondo, che
nel medesimo punto sono per lasciare, abbominandolo, disprezzandolo, e disperando
di nulla ottenerne. [1552]Che se altri tralasciano tutto ciò, non
lo fanno che per riscuotere maggiore ammirazione o dagli altri, o certo da se
stessi.
(23. Agosto 1821.)
Certe voci false negli uomini piacciono
moltissimo alle donne. Così forse anche viceversa, sebbene noi siamo
meglio informati e avvertiti intorno a ciò che accade alle donne
rispetto a noi, che a noi rispetto alle donne. Del resto il detto effetto
appartiene alla grazia derivante dallo straordinario e dallo stesso difettoso.
(23. Agos. 1821.)
Montesquieu Essai sur le goût
ha alcuni pensieri sulla grazia, analoghi a quelli ne' quali ho spiegato
com'ella derivi dall'irregolare che benchè sconveniente, non arriva a
distruggere la convenienza.
(23. Agosto. 1828.)
L'indebolimento della memoria, non è
scancellamento d'immagini o d'impressioni ec. ma inabilitamento degli organi,
ad eseguire le solite operazioni a cui sono assuefatti, tanto generali che
particolari, e a contrarre [1553]nuove assuefazioni particolari,
cioè nuove reminiscenze.
(23. Agos. 1821.)
Si vedono persone di montagna venute nelle
grandi città, contrarre brevemente le maniere civili e graziose, ed
altre nate in paesi assai meno rozzi, viver lungamente nelle grandi
città, e tornare in patria colle stesse maniere di prima. Ecco le differenze
de' talenti; maggiore o minor facilità d'assuefarsi e dissuefarsi. Io
spererò sempre bene di quel fanciullo, che dimostri nelle minime cose
questa facilità, che sia singolarmente portato all'imitazione, che
facilmente e presto contragga le maniere, la pronunzia ec. ec. e gli stessi
difetti di coloro con cui vive, e presto se ne divezzi, e le perda secondo la
novità delle circostanze ec. ec. che trasportato in un nuovo paese o in
un nuovo circolo, ne pigli subito le virtù o i vizi. Dico finattanto che
nel fanciullo non si può pretendere il discernimento: il quale deriva da
una lunga e varia serie di assuefazioni.
(23. Agosto. 1821.)
Tutti dicono che l'uomo è un animale
imitativo, ch'egli è singolarmente portato [1554]all'imitazione,
influito dall'esempio ec. Che altro è questo se non dire ch'egli dipende
in tutto dall'assuefazione; che non apprende se non perchè si avvezza, e
non ha fra tutti gli animali somma facoltà di apprendere, se non
perchè ha fra tutti somma facoltà di avvezzarsi, come somma
inclinazione e disposizione a imitare; che quasi tutte le sue facoltà e
qualità sono acquisite ec. ec.?
(23. Agos. 1821.)
Non solo, come ho spiegato altrove si fa
male quello che si fa con troppa cura, ma se la cura è veramente
estrema, non si può assolutamente fare, e per giungere a fare bisogna
rimettere alquanto della cura, e della intenzione di farlo.
(24. Agos. 1821.)
In questo presente stato di cose, non
abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un
male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende penosa tutta quanta la
vita, laddove i mali parziali, ne affliggono solamente una parte. L'amor
proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità, perpetuo ed
essenzial compagno della vita [1555]umana, se non è calmato da
verun piacere vivo, affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche non
v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia
ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non
è lo stato dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e
quindi alla sua felicità. V. la mia teoria del piacere, applicandola a
queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo antico sul
moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca
o giovanile sulla matura.
(24. Agos. 1821.)
Consideriamo la natura. Qual è
quell'età che la natura ha ordinato nell'uomo alla maggior
felicità di cui egli è capace? Forse la vecchiezza? cioè
quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando egli si
appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione, che la
felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi
nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la
gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà
dell'uomo sono in pieno vigore ec. ec. [1556]Quella è l'epoca
della perfezione e quindi della possibile felicità sì dell'uomo
che delle altre cose. Ora la gioventù è l'evidente immagine del
tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il giovane e l'antico presentano
grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni vive, attività, entusiasmo,
follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se dunque la gioventù
è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l' della
vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il nostro intimo senso
ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser giovane, e nessun
giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del sistema e delle armonie
della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque l'antico tempo era
più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si
può stendere a larghissime conseguenze.
(24. Agos. 1821.)
Alla p.1551. Tanto la facoltà
d'immaginare quanto di sentire sono abiti. Or quell'abito si racquista meglio
di questo.
[1557]L'immaginazione, eccetto ne'
fanciulli, non ha, e non abbisogna di fondamento nella persuasione. Omero non
credeva certo a quello ch'egli immaginava. La scienza può dunque
sommamente indebolire l'immaginazione; pur non è incompatibile seco lei.
Per l'opposto, il sentimento se non è fondato sulla persuasione è
nullo. Quell'uomo che non crede più alla virtù; che sa com'ella
è dannosa, e del resto non si trova in nessuno; che ha perduto l'idea
della grandezza degli animi e delle cose e delle azioni, vedendo come tutte
queste e tutti quelli son piccoli; che ha conosciuto come l'entusiasmo,
l'eroismo, l'amore non hanno verun soggetto reale; che gli uomini e le cose
sono indegnissime di destare in lui questi affetti ec. ec. un tal uomo come
può far uso del suo cuore, come può provar più verun
sentimento forte e durevole; egli che sotto le più belle apparenze,
discopre sempre chiaramente o fortemente sospetta, l'inganno, l'astuzia, la malvagità,
i secondi fini, la vanità, la viltà, la nullità, la
freddezza?
(24. Agos. 1821.)
[1558]Alla p.1543. marg. La quale
attitudine è sì dipendente dall'abito e dall'esercizio ec. che
intermettendolo, i più grandi ingegni illanguidiscono, o perdono
talvolta affatto la detta attitudine, sia particolarmente, cioè riguardo
a un dato genere di scrittura o di lavoro, sia generalmente, cioè
riguardo a tutti i generi. Benchè sia loro meno difficile il ricuperarlo,
che altrui l'acquistarlo, com'è naturale, per effetto dell'abito
passato.
(24. Agos. 1821.)
Discorre il Monti (Proposta ec. vol.1.
p.227.) della separazione da farsi della natura bruta dalla coltivata.
Vedilo. Egli antepone, come si può ben credere, questa a quella.
È verissimo. L'arte emenda, abbellisce, ec. ec. non poche volte la
natura. La natura non tocca dall'arte, spessissimo è intollerabile,
dannosa, schifosa (come dice il Monti). Ma come tutto ciò? forse
assolutamente? non già; ma relativamente all'uomo. Or tutto ciò
che vuol dire? che la natura ha errato? ch'ell'è imperfetta nelle sue
opere? Così la pensano coloro a' quali par molto più assurdo che
l'uomo non faccia tutto bene, di quello che la natura abbia [1559]fatto
ogni cosa male, e sbagliato a ogni tratto, e vada sempre mendicando l'opera e
il soccorso delle sue proprie creature. Ma io dico. Quelle cose che senza
un'infinita arte dell'uomo, non gli giovano, non gli piacciono, o gli nocciono,
o fanno nausea ec. non erano e non son fatte per l'uomo. Il mondo non è
tutto fatto per l'uomo. Quelle cose che eran fatte per lui, o dovevano aver
relazione con lui, ed avercela in quel tal modo, la natura le ha ordinate con
tutta la possibile perfezione al suo bene. Così ha fatto per tutte le altre
cose, il cui bene non sempre si accorda con quello dell'uomo.
Ma poichè l'uomo, mediante ciò
che si chiama perfezionamento, e io chiamo corruzione, s'è posto in
relazione con tutto il mondo, s'è proccurata un'infinità di bisogni
ec. ec. ha dovuto con infinite difficoltà ridurre tutte le cose a uno
stato idoneo al suo servizio; e le stesse cose che la natura avea destinate al
suo uso, non essendo più buone a servirlo nel suo nuovo stato, ha
dovuto, parte abbandonarle, parte ridurle a una condizione diversissima ed
anche opposta alla naturale. [1560]Che vuol dir questo? non che la
natura è imperfetta, ma che l'uomo non è qual doveva. Se l'arte
è necessaria alla natura rispetto all'uomo, e non un'arte, dirò
così, naturale, come n'adoprano proporzionatamente anche i bruti, ma
un'arte difficilissima, infinita, complicatissima, lontanissima dalla natura;
ciò non vuol dire che la natura per se stessa abbisogna dell'arte, ma
che l'uomo è ridotto in tale stato che non gli basta più la
natura di gran lunga; e ciò prova che questo stato non gli conviene.
L'uomo alterandosi, ha trovato la natura imperfetta per lui. Ciò vuol
dire ch'egli non s'è dunque perfezionato, ma corrotto; ciò vuol
dire che egli non corrisponde più al sistema delle cose, e per
conseguenza ch'egli è in uno stato vizioso. L'imperfezione dell'uomo,
che non ha niente d'assurdo, perchè vien da lui, noi l'ascriviamo alla natura,
il che è assurdissimo in sì perfetta maestra, e poi in quella che
è la sola norma e ragione del perchè una cosa sia perfetta o no;
giacchè fuor di lei, e della sua libera disposizione, non esiste altra
ragione di perfezione o [1561]imperfezione. Dopo che l'uomo s'è
cambiato, ha dovuto cambiar la natura. Ciò prova ch'egli non doveva cambiarsi.
Se la sua nuova condizione fosse stata voluta e ordinata dalla natura, ella
avrebbe disposte e ordinate le altre cose in modo che corrispondessero e
servissero perfettamente a questa nuova condizione. E non dopo il cambiamento,
ma prima di esso, l'uomo si sarebbe trovato in opposizione colla natura, (come
oggi si trova tutto giorno) se il cambiamento fosse stato primordialmente ed
essenzialmente ordinato dalla natura, cioè dalla ragion delle cose.
Tutti gli esseri nel loro stato relativo di perfezione, trovano la natura
perfettamente corrispondente ai loro fini, al loro bene, ec. e si trovano in
perfetta armonia con tutte le cose che hanno relazione naturale ed essenziale
(non accidentale) con loro. Solamente l'uomo in quello stato ch'egli chiama di
perfezione, trova la natura renitente, ripugnante, mal disposta a' suoi
vantaggi, a' suoi piaceri, a' suoi desiderii, a' suoi fini, e gli conviene
rifabbricarla. Quanto più egli s'avanza [1562]verso la sognata
perfezione del suo essere tanto meno si trova in armonia colle cose quali elle
sono, e gli conviene, raddoppiando proporzionatamente l'arte, e vincendo sempre
maggiori difficoltà, cambiar le cose, e farle essere diversamente.
Quanto più l'uomo è perfetto, cioè in armonia col sistema
delle cose esistenti, e di se stesso, tanto più gli è difficile e
faticoso il vivere, e l'esser felice. Che strana assurdità sarebbe
questa nella natura? che strana contraddizione con tutte le altre anche menome
parti del suo sistema?
Se dunque l'arte è necessaria oggi
all'uomo, e se la natura bruta gli è incompatibile, ciò vuol dire
ch'egli non è qual dovrebbe, e che il suo vero stato di perfezione
è il primitivo, come quello di tutte le altre cose. Lungi pertanto
dall'esser questo un argomento contro il mio sistema, combatte fortemente per
lui.
(25. Agosto, dì di S. Bartolomeo, 1821.). V. p.1699.
capoverso 2.
Alla p.1527. Similmente gli spagnuoli hanno
perduto il latino furari, ma hanno un suo continuativo ignoto nella
buona latinità, cioè hurtar (che anticamente dicevasi furtar)
[1563]contratto da furatare, o furitare. Furtare si
trova in alcune scritture latine-barbare Portoghesi presso il Du-Cange.
(25. Agos. 1821.). V. p.2244. fine.
La virtù, l'eroismo, la grandezza
d'animo non può trovarsi in grado eminente, splendido e capace di
giovare al pubblico, se non che in uno stato popolare, o dove la nazione
è partecipe del potere. Ecco com'io la discorro. Tutto al mondo è
amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova
per se medesima a colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo
può desiderare e ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè
quelli che hanno in mano il bene e il male, le sostanze, gli onori, e tutto
ciò che spetta alla nazione. Quindi il piacere, il cattivarsi in
qualunque modo, o da vicino o da lontano, i potenti, è lo scopo
più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente parlando. Ed
è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette. [1564]Perchè
dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità ec. siano praticate generalmente
e in grado considerabile da una nazione, bisognando che questo le sia utile, e
l'utilità non derivando principalmente che dal potere, bisogna che tutto
ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il potere, e sia quindi un
mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far fortuna nel
mondo.
Ora l'individuo, massime l'individuo
potente, non è mai virtuoso. Parlo sì del principe, come de' suoi
ministri, i quali in un governo dispotico, necessariamente son despoti,
gravitano sopra i loro subalterni, e questi sopra i loro ec. essendo questa una
conseguenza universale e immancabile del governo dispotico di un solo;
cioè che il governo sia composto di tanti despoti, non potendo il
dispotismo essere esercitato dal solo monarca; e che l'autorità di
ciascuno de' suoi ministri, mediati o immediati, sia temuta con una specie di
spavento, adorata ec. da' subalterni ec. (come si può vedere nel governo
passato di Spagna) ed influisca quindi [1565]sommamente sulla nazione, e
determini il suo carattere, essendo dispotica (benchè dipendente)
padrona del suo bene e del suo male.
L'individuo, dico, o gl'individui potenti,
(siccome gli altri) non sono nè possono essere virtuosi, se non a caso,
cioè o quando la virtù giovi loro, (cosa rara, perchè a
chi ha in mano le cose altrui giova il servirsene, e non l'astenersene ec. ec.
ec.) o quando una straordinaria qualità di carattere, di educazione ec.
ve li porti, del che vedete quanto sieno frequenti gli esempi nelle storie,
massimamente moderne.
L'individuo non è virtuoso, la
moltitudine sì, e sempre, per le ragioni e nel senso che ho sviluppato
altrove. Quindi in uno stato dove il potere o parte di esso sta in mano della
nazione, la virtù ec. giova, perchè la nazione (che tiene il potere)
l'ama; e perchè giova, perciò è praticata più o
meno, secondo le circostanze, ma sempre assai più e più
generalmente che nello stato dispotico. La virtù è utile al
pubblico necessariamente. Dunque il pubblico è necessariamente virtuoso
o inclinato alla virtù, perchè necessariamente ama se stesso e
quindi la propria utilità. Ma la virtù non è sempre utile
all'individuo. Dunque l'individuo non è sempre virtuoso, nè
necessariamente. Oltre ch'è ben più facile e ordinario ingannarsi
un individuo sulle sue vere utilità, che non la moltitudine. Ma in ogni
modo l'individuo cerca il suo proprio bene, il pubblico cerca il suo (vero o
falso, con mezzi acconci o sconci): questa è virtù sempre e in
qualunque caso, quello egoismo e vizio. Parlo principalmente delle virtù
pubbliche, cioè di quelle virtù grandi, [1566]i cui
effetti, o i cui esempi si stendono largamente, in qualunque modo avvenga. Ma
non intendo di escludere neppure le virtù private e domestiche, alle
quali quanto sia favorevole (massime alle virtù forti e generose) lo
stato popolare, e sfavorevole il dispotico, lo dicano per me le storie antiche
e moderne; lo dica fra le altre la storia della Francia monarchica, e della
Francia repubblicana, lo dica l'Inghilterra ec.
Quando l'utile non è se non
ciò che piace agl'individui, e questi non sono, e quasi non possono
esser virtuosi, o lo sono momentaneamente, o questo sì e quello no, e
cento altri no; quando l'utilità insomma delle virtù dipende dal
carattere, dalle inclinazioni, dalle voglie, dai disegni degl'individui, e per
conseguenza la virtù, quando anche giovi talvolta, non giova
costantemente ed essenzialmente, ma per circostanze accidentali, non è
possibile che quella tal nazione sia abitualmente e generalmente virtuosa, e
che gl'individui di lei si allevino in quella virtù che da un momento
all'altro può divenir loro non solo inutile, ma anche dannosissima. La
virtù allora [1567]non sussistendo che nelle apparenze, quando
queste bisognino, non è virtù, ma calcolo, finzione, e quindi
vizio. E bisogna ch'ella sia sempre finta nei sudditi, perch'essi, quando anche
giovi oggi, non possono sapere se gioverà domani, dipendendo la sua utilità
non dalla sua natura, nè da circostanze essenziali, e stabilmente
fondate nella loro ragione, ma dall'essere amata o non amata da individui, che
per lo più non l'amano, e che se non altro, oggi possono amarla e domani
no, amarla questo, e odiarla quello, o il suo successore. ec. ec.
Oltracciò quelle qualità che
si esercitano per piacere ad una società molto estesa, come dire alla
nazione, sono quasi inseparabili (quando anche fossero finte, nel qual caso non
giovano costantemente) da una certa grandezza d'animo; e contribuisce questa circostanza
a render gli uomini virtuosi ec. e veramente virtuosi. Anche lo stesso far
corte a una nazione per ottenerne il favore, ingrandisce l'animo, ed è
compatibile colla virtù. Il soggettarsi alla nazione è piuttosto
grandezza che bassezza. Dove che il far corte all'individuo per cattivarsene la
grazia, il soggettarsi ad un uomo uguale a voi, e nel quale non vedete
nessuna buona e sublime ragione di predominio, nessuna [1568]bella
illusione che nobiliti il vostro abbassamento (come accade riguardo alla
nazione, la cui moltitudine pone quasi lo spettatore in una certa distanza, e
la distanza dà pregio alle cose; alla nazione dove sempre si suppongono
grandi e buone qualità in massa); tutto questo, dico, impiccolisce,
avvilisce, abbassa, umilia l'animo, e gli fa ben sentire il suo degradamento,
laonde è incompatibile colla virtù; perchè chi ha forza di
far questo, ha perduto la stima di se stesso, fonte, guardia, e nutrice della
virtù; e chi ha perduto la stima di se, e consentito a perderla, e non
se ne pente, nè cerca ricuperarla ec. o chi non l'ha mai posseduta
nè curata, non può assolutamente essere virtuoso.
(26. Agosto 1821.)
Quello che ho detto altrove del sozzo e del
polito, si può parimente dire dello schifoso ec. ec. E si può
aggiungere che non solo nelle diverse specie d'animali, ma in una stessa
specie, in uno stesso individuo, massimamente umano, l'idea del sozzo o del
netto varia in maniera, secondo le assuefazioni ec. che non si può ridurre
a veruna forma concreta universale.
(27. Agosto 1821.)
La massima conformabilità dell'uomo
rispetto a tutte le altre creature note, fa che si [1569]trovino assai
maggiori e più numerose differenze fra gl'individui umani, e fra le
successive condizioni di uno stesso individuo, che in qualunque altra specie di
esseri.
(27. Agosto 1821.)
Le maravigliose facoltà che
acquistano i sordi, i ciechi ec. o nati o divenuti, sono un'altra gran prova
del quanto le nostre facoltà e quelle de' viventi derivino dalle circostanze
e dall'assuefazione; e del quanto sia sviluppabile, modificabile, duttile,
pieghevole, conformabile la natura umana.
(27. Agosto 1821)
Ma ben altro è la
conformabilità, che la perfettibilità. Cosa generalmente non intesa
dai filosofi, i quali credono di aver provato che l'uomo è perfettibile,
quando hanno provato ch'è conformabile. Il che anzi dimostrerebbe l'opposto,
cioè che le varie qualità e facoltà non primitive che si
sviluppano nell'uomo mediante la coltura, ec. ec. non sono ordinate dalla
natura, ma accidentali, e figlie delle circostanze, come le malattie che
modificano viziosamente i nostri organi ec. ec.
(27. Agosto 1821.)
[1570]La nostra civiltà, che
noi chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta all'uomo, è
manifestamente accidentale, sì nel modo con cui s'è conseguita,
sì nella sua qualità. Quanto al modo, l'ho già mostrato
altrove. Quanto alla qualità, essendo l'uomo diversissimamente
conformabile, e potendo modificarsi in milioni di guise dopo che s'è
allontanato dalla condizione primitiva, egli non è tale qual è
oggi, se non a caso, e in diverso caso, poteva esser diversissimo. E questo
genere di pretesa perfezione a cui siam giunti o vicini, è una delle
diecimila diversissime condizioni a cui potevamo ridurci, e che avremmo pur
chiamate perfezioni. Consideriamo le storie, e le fonti del nostro stato
presente, e vediamo quale infinita combinazione di cause e circostanze
differentissime ci abbia voluto a divenir quali siamo. La mancanza delle quali
cause o combinazioni ec. in altre parti del globo, fa che gli uomini o restino
senza civiltà, e poco lontani dallo stato primitivo, o siano civili
(cioè perfetti) in diversissimo modo, come i Chinesi. Dunque è
manifesto che la nostra civiltà, che si crede essenzialmente
appartenerci, non è stata [1571]opera della natura, non conseguenza
necessaria e primordialmente preveduta delle disposizioni da lei prese circa la
specie umana (e tale dovrebb'essere, s'ella fosse perfezione), ma del caso. In
maniera che, per così dire, neppur la natura formando l'uomo, poteva
indovinare, non dico ciò che fosse per divenire, ma come potesse e
dovesse divenir perfetto, e in che cosa consistesse la sua perfezione,
ch'è pur lo scopo e l'integrità di quell'esistenza ch'ella stessa
gli dava e formava. Non sapeva dunque che cosa ella si formasse, giacchè
gli esseri e le cose tutte non vanno considerate, nè si può
giudicar di loro, e della loro qualità ec. se non se nello stato di
perfezione. Or com'è possibile che la natura la quale ha fatto ogni cosa
perfetta, (nè poteva altrimenti) non abbia nè assegnato verun genere
di perfezione alla sua principal creatura, nè disposto le cose in modo
che l'uomo dovesse necessariamente conseguire questa perfezione, cioè la
pienezza e il vero modo del suo essere? e che gli abbia detto; la perfezione,
cioè l'esistenza intera, l'esistenza che ti conviene, il modo in cui
devi essere, la forma e la natura tua propria, te la darà [1572]il
caso, come, e quando, e se vorrà, e quanto vorrà, cioè in
quel grado e in quei luoghi che vorrà, e quale vorrà?
(27 Agos. 1821.)
Che immensa opera è la
civilizzazione! quanto difficile; quanto ne sono lontani da che mondo è
mondo la maggior parte degli uomini! che risultato d'infinite combinazioni
accidentali! La perfezione essenziale alle cose, doveva essere assegnata dalla
natura in questo modo alla principal cosa del nostro sistema, cioè
all'uomo?
(27. Agos. 1821.)
Chi maneggia d'intorno a se un rasoio, o
altro ferro o cosa che possa offendere, e teme di offendersi, è in
pericolo grande di farlo: perchè? perchè pone troppa cura e
intenzion d'animo ad evitarlo; e ciò glielo rende difficile.
(27. Agosto. 1821.)
Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato
a misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le
più pratiche del mondo. Le quali se, p.e. sono fortemente morali, per
quanto conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che
la moralità non esista più, e [1573]sia del tutto esclusa
dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo
sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma
come si crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà
mai nel fondo dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente
virtuosi, non si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia
nemmeno rara.) Così viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre.
(27. Agosto. 1821.)
Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi
ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'Isocrate, de Permutatione)
che gli uomini di gusto nell'eloquenza non si appagano mai pienamente nè
delle loro opere nè delle altrui, e che la mente loro semper divinum
aliquid atque infinitum desiderat, a cui le forze dell'eloquenza non
arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica,
al gusto.
Ma ora lo considero in quanto ha relazione a
quel perpetuo desiderio e scontentezza che lasciano, siccome tutti i piaceri, [1574]così
quelli che derivano dalla lettura, e da qualunque genere di studio; ed in
quanto si può riferire a quella inclinazione e spasimo dell'uomo verso
l'infinito, che gli antichi, anche filosofi, poche volte e confusamente
esprimono, perchè le loro sensazioni essendo tanto più vaste e
più forti, le loro idee tanto meno limitate e definite dalla scienza, la
loro vita tanto più vitale ed attiva, e quindi tanto maggiori le
distrazioni de' desiderii, che la detta inclinazione e desiderio non potevano
sentirlo in un modo così chiaro e definito come noi lo sentiamo.
Osservo però che non solo gli studi soddisfanno
più di qualunque altro piacere, e ne dura più il gusto, e l'appetito
ec. ma che fra tutte le letture, quella che meno lascia l'animo desideroso del
piacere, è la lettura della vera poesia. La quale destando mozioni
vivissime, e riempiendo l'animo d'idee vaghe e indefinite e vastissime e
sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più si possa a questo
mondo. Così che Cicerone [1575]non avrebbe forse potuto dire
della poesia ciò che disse dell'eloquenza. Ben è vero che questa
è proprietà del genere, e non del poeta individualmente, e non
deriva dall'arte sua, ma dalla materia che tratta. Certo è che un poeta
con assai meno arte ed abilità di un eloquente, può lasciare un
assai minor vôto nell'animo, di quello che possa il più grande oratore;
e produr ne' lettori quel sentimento che Cicerone esprime, in assai minor
grado.
(27. Agos. 1821.)
L'ingenuità p.e. di un fanciullo
riuscirebbe graziosa anche all'uomo naturale, perch'essa gli riuscirebbe non
ordinaria, essendo sempre alquanto diversa dal suo proprio costume e degli
altri suoi coetanei, co' quali più che con gli altri si convive, e da'
quali più che dagli altri l'uomo piglia e forma l'idea dell'uomo.
(27. Agosto. 1821.)
Tanto è vero esser la grazia del
tutto relativa, che gli uomini svogliati e blasés dal lungo uso de'
piaceri ec. hanno bisogno di un forte straordinario per provare il senso della
grazia, tanto che quello straordinario che ad essi par grazioso, ad altri par
difettoso, e produce il senso e il giudizio della [1576]sconvenienza.
Come quei palati che hanno bisogno dei ragoûts e delle salse ad
esser solleticati. Questo effetto è comunissimo oggidì, stante la
natura della nostra civiltà, massime riguardo alle donne negli uomini, e
viceversa. Quel naso retroussé che fa miracoli presso Marmontel, gli fa
in Solimano, annoiato, com'è naturale a un Sultano, dall'eccesso de'
piaceri ec. E forse la massima parte delle cose che oggi si hanno per graziose,
e lo sono, non debbono questa qualità che alla svogliatura di questo secolo,
o di questa o quella nazione. Il numero di queste grazie derivanti da sola svogliatura
è infinito, e comunissimo nella nostra vita. E si può prevedere
che crescerà di mano in mano, e che oltracciò diverranno grazie
molte qualità delle cose, che ora si hanno per difetti, anche gravi, e
che producono un vivo senso e giudizio di sconvenienza.
(27. Agosto 1821.)
Quanto sia vero che la bellezza delle
fisonomie dipende dalla loro significazione, osservate. L'occhio è la
parte più espressiva del volto e della persona; l'animo si dipinge
sempre nell'occhio; una persona d'animo grande ec. ec. [1577]non
può mai avere occhi insignificanti; quando anche gli occhi non
esprimessero nulla, o fossero poco vivi in qualche persona, se l'animo di
costei si coltiva, acquista una certa vita, divien furbo e attivo, ec. ec.
l'occhio parimente acquista significazione, e viceversa accade nelle persone
d'occhio naturalmente espressivo, ma d'animo torpido ec. per difetto di coltura
ec. ec.; nei diversi momenti della vita, secondo le passioni ec. che ci
commuovono, l'occhio assume diverse forme, si fa più o men bello ec. ec.
Ora l'occhio ch'è la parte più significativa della forma umana,
è anche la parte principale della bellezza. (Questo si può
dimostrare con molte considerazioni.) Un paio d'occhi vivi ed esprimenti
penetrano fino all'anima, e destano un sentimento che non si può
esprimere. Questo si chiama effetto della bellezza, e questa si crede dunque
assoluta; ma non v'ha niente che fare; egli è effetto della significazione,
cosa indipendente dalla sfera del bello, e la bellezza principale dell'occhio,
non appartenendo alla convenienza, non entra in quello che il filosofo considera
come bello.
[1578]Dipingete un viso senz'occhi,
voi non sapete ancora s'egli è bello o brutto, e non vi formate un'idea
sufficiente di quella fisonomia (fosse anche un ritratto somigliantissimo).
Aggiungeteveli, e quella fisonomia vi par tutt'altra da quella di prima ec. ec.
Quest'osservazione si può molto amplificare e distinguere in molte
parti.
Un viso irregolare con un bell'occhio par
bello, con occhio insignificante, si troverà regolare ma non bello.
Dunque quello che noi chiamiamo bello nell'umana fisonomia, ch'è
singolarmente proprio della bellezza di essa, quell'effetto particolare ch'essa
produce, e che non è prodotto da verun'altra regolarità,
quell'effetto che si potrebbe considerare come assoluto, non appartiene al
bello (oltre che anch'esso varia secondo gl'individui ec.), ma alla
significazione, e deriva da una cagione simile a quella per cui si giudicano
universalmente belle le donne J
Parecchie fisonomie di animali somigliano
all'umana. Osservate e vedrete che questa somiglianza siede principalmente
nell'occhio. E generalmente parlando l'occhio di ciascun animale [1579]determina
la sua fisonomia, e l'impressione ch'ella ci fa. Un animale senz'occhi, o i cui
occhi non si vedano, o sien fatti diversamente dai nostri (come quelli delle
lumache), tali animali non hanno fisonomia per noi; talora neppur ci paiono
appartenenti al nostro genere, cioè al regno animale. E lo ci parrebbero
se avessero occhi simili ai nostri, quando anche tutto il resto della loro
forma differisse affatto dalle forme generalmente comuni agli animali. L'occhio
insomma sembra essere il costituente di ciò che si chiama fisonomia, e
quasi anche (almeno nella nostra idea) di tutto l'aspetto dell'animale.
L'altezza della fronte è indizio di
talento, d'anima nobile, suscettibile, capace ec. V. Lavater. E l'altezza della
fronte è bellezza e piace; e viceversa la bassezza.
Il volto è la parte più
significativa dell'uomo. E il volto è la parte principale della bellezza
umana, come ho sviluppato altrove.
(28. Agos. 1821.)
Per un esempio e in conferma di quanto ho
detto altrove, che l'eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la
semplicità de' concetti e de' modi, la purità ec. della lingua,
sono o in tutto o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall'assuefazione e
dall'opinione, relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono
più che agli stessi antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano
oggidì tali piaceri ec. ec. si può addurre il Petrarca, [1580]e
il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti volgari, apprezzando i latini
che più non si curano. Egli certo non sentiva in quella lingua
illetterata e spregiata ch'egli maneggiava, in quello stile ch'egli formava, la
bellezza, il pregio e il piacere di quell'eleganza, di quella grazia, naturalezza,
semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi sentiamo a
prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura e
barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè
nobile, nè elegante ec. ec. L'opinione, l'assuefazione ec. o piuttosto
la mancanza di esse glielo impedivano.
(28. Agos. 1821)
Dalla mia teoria del piacere si conosce per
qual ragione si provi diletto in questa vita, quando senza aspettarne nè
desiderarne vivamente nessuno, l'animo riposato e indifferente, si getta, per
così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli avvenimenti, e agli
stessi divertimenti ec. Questo stato non curante de' piaceri nè de'
dolori, è forse uno de' maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma
per se stesso.
[1581]Parecchie volte un vigore
straordinario e passeggero, cagiona al corpo e a' nervi un certo torpore, per
cui l'animo s'abbandona in seno di una negligenza circa le cose e se stesso, in
maniera che o vede tutto dall'alto, e come non gli appartenesse se non debolissimamente;
o non pensa quasi a nulla, e desidera e teme il meno che sia possibile. Questo
stato è per se stesso un piacere.
Il languore del corpo alle volte è
tale, che senza dargli affanno e fastidio, affievolando le facoltà
dell'animo, affievola ogni cura e ogni desiderio. L'uomo prova allora un
piacere effettivo, massime se viene da uno stato affannoso ec. e lo prova
senz'alcun'altra cagione esterna, ma per quella semplice dimenticanza
de' mali, e trascuranza de' beni, desideri e speranze, e per quella specie
d'insensibilità cagionatagli da quel languore.
(28. Agos. 1821.)
La letteratura italiana fu per alcun tempo
universale in modo che per cagione di essa si studiava e sapeva la nostra lingua
nelle altre nazioni civili, anche dalle donne, come oggi il [1582]francese.
E nondimeno la lingua italiana ha bensì lasciato alle altre parecchie
voci spettanti alla nomenclatura di quelle scienze o arti che l'Italia ha
comunicato agli stranieri, ma poche o quasi nessuna appartenente alla
letteratura. Questo accade perchè la lingua italiana non è stata
mai universale se non a causa della letteratura, e in quanto letterata. Ed
è una nuova prova che la letteratura è debolissima fonte di
universalità. Le altre lingue letterate, state universali non per questa
sola, ma per altre cagioni insieme, hanno introdotto e introducono, hanno
perpetuato ec. nelle altre lingue non poche voci e modi spettanti alla
letteratura. Forse anche il detto effetto deriva dal poco tempo che durò
l'influenza della letteratura italiana, dalla poca coltura delle nazioni che la
risentirono, dal poco stretto commercio delle nazioni in que' tempi, dallo
scarso numero de' letterati che v'avevano allora tra' forestieri, e quindi di
coloro che coltivarono la nostra lingua ec. sebbene ho detto ch'ell'era
coltivata anche dalle donne, e ciò fino al tempo di Luigi 14. I costumi
sono la principal [1583]fonte della universalità di una lingua.
La letteratura può servire a introdurre i costumi e le opinioni ec.
Senza ciò, la lingua per mezzo suo poco si propaga. E piuttosto rimangono
alle altre lingue qualche voce spettante a qualche costume ec. ec. venuto di
qua più o meno anticamente, che alla nostra letteratura.
(28. Agos. 1821.)
Nessuno vede più degli altri, ma
qualcuno osserva e combina più degli altri. Quello che accade nelle
scienze fisiche, accade nelle metafisiche e morali. In quelle e in queste, una
scoperta fatta si comunica e partecipa a chicchessia. Un ragionamento ben
espresso e sviluppato il quale conduca alle verità le più remote
dall'opinione e dalla cognizione comune, può subito essere inteso dallo
stesso volgo. Ognuno può vedere da che uno ha veduto. ec. ec.
(29. Agos. 1821.). V. p.1767.
Moltissimi piaceri non son quasi piaceri, se
non a causa della speranza e intenzione che si ha di raccontarli. Tolta questa
vi troveremmo un gran vuoto. Questa rende piacevoli le cose che non lo sono,
anche le dispiacevoli ec. ec. Questi effetti però ponno riferirsi all'ambizione,
al desiderio di parere interessante, ec. non a quello di comunicare e dividere
le proprie sensazioni. [1584]
(29. Agos. 1821.)
Le persone stesse che sono sensibili,
suscettive d'entusiasmo ec. non lo sono sempre, o quando più quando
meno, secondo le circostanze, e anche secondo certi tempi alle volte periodici.
Ora il sintoma del ritorno della sensibilità ec. o della maggior forza e
frequenza abituale de' suoi effetti, è, si può dir, sempre, una
scontentezza, una malinconia viva ed energica, un desiderio non si sa di che,
una specie di disperazione che piace, una propensione ad una vita più
vitale, a sensazioni più sensibili. Anzi la sensibilità e
l'entusiasmo in tali ritorni non compariscono bene spesso che sotto queste
forme. Ecco come la sensibilità, e l'energia delle facoltà
dell'anima sia compagna della scontentezza e del desiderio, e quindi dell'infelicità,
specialmente quando nulla corrisponde all'attività interna, come risulta
dalla mia teoria del piacere, e dagli altri pensieri che la riguardano.
(29.
Agos. 1821.)
On peut
plaider pour la vie, et il y a cependant assez de bien à dire de la
mort, ou de ce qui lui ressemble. (Corinne, t. [1585]2. p.335.) Dalla
mia teoria del piacere (v. anche il pensiero precedente, e la p.1580-81.)
risulta che infatti, stante l'amor proprio, non conviene alla felicità
possibile dell'uomo se non che uno stato o di piena vita, o di piena morte. O
conviene ch'egli e le sue facoltà dell'animo sieno occupate da un
torpore da una noncuranza attuale o abituale, che sopisca e quasi estingua ogni
desiderio, ogni speranza, ogni timore; o che le dette facoltà e le dette
passioni sieno distratte, esaltate, rese capaci di vivissimamente e quasi
pienamente occupare, dall'attività, dall'energia della vita, dall'entusiasmo,
da illusioni forti, e da cose esterne che in qualche modo le realizzino. Uno
stato di mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo,
cioè il desiderio vivo, l'amor proprio ardente, senza
nessun'attività, nessun pascolo alla vita e all'entusiasmo. Questo
però è lo stato più comune degli uomini. Il vecchio
potrà talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane
vorrebbe sempre trovarsi nel secondo, e oggidì si trova quasi sempre nel
terzo. Così dico proporzionatamente dell'uomo di mezza età. Dal
che segue [1586]1. che il giovane senz'attività, il giovane domo
e prostrato e incatenato dalle sventure ec. è nello stato precisamente
il più infelice possibile: 2. che l'amor proprio non potendo mai veramente
estinguersi, e i desiderii pertanto esistendo sempre con maggiore o minor
forza, sì nel giovane che nel maturo e nel vecchio; lo stato al quale la
generalità degli uomini, e la natura immutabile inclina è sempre
più o meno il secondo: e quindi la migliore repubblica è quella
che favorisce questo secondo stato, come l'unico conducente generalmente alla
maggior possibile felicità dell'uomo, l'unico voluto e prescritto dalla
natura, tanto per se stessa e primitivamente (come ho spiegato nella teoria del
piacere); quanto anche oggidì, malgrado le infinite alterazioni della razza
umana.
(29. Agos. 1821.)
La scienza non supplisce mai all'esperienza,
cosa generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar
gli ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa
nè comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai
scritto, non sa scrivere; il filosofo che non [1587]ha veduto il mondo
da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini,
perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo
sotto una forma ch'egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni
ec. de' cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri
uomini se non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le
relazioni ch'egli ha con gli uomini, sono l'unico mezzo ch'egli ha di
acquistarne esperienza. Dunque egli non può mai conoscer la vera natura
di coloro a' quali comanda, e de' quali deve regolar la vita. Io ho molto
conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a comandare,
non aveva la menoma idea di quest'arte, nutriva in questo proposito mille opinioni
assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la carta del navigare.
Ell'era frattanto di molto spirito e talento, sufficientemente istruita, e
studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini affatto diversi da quel che
sono: [1588]il principe che ne vede e tratta assai più,
benchè li veda assai più diversi da quelli che sono, tuttavia
potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando,
e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una
nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe
sappia tanto regnare, quanto quella dama comandare a' figli e a' domestici.
Sotto questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile
all'ereditario. Vero è però che niuno conosce gli uomini
interamente, come bisognerebbe per ben governarli. Connaître un autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière;
qu'est-ce donc qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se
peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. (Corinne. l.10. ch.1. t.2.
p.114.).
(30. Agos.
1821.)
La
manière de vivre des Chartreux suppose, dans les hommes qui sont
capables de la mener, ou un esprit extrêmement borné, ou la plus noble et
la plus continuelle exaltation des sentiments religieux. (Corinne, lieu cité
ci-dessus. p.113.) Così è: l'inattività e la monotonia
non conviene che agli spiriti menomi [1589]o sommi. Gli uni e gli altri
per diversissima ragione cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire i
desiderii che li tormentano, gli altri perchè non ne hanno. Gli uni
perchè la vita non basta loro, si rifuggono alla morte, gli altri
perchè il loro animo non vive. Gli uni ancora perchè non hanno
bisogno di vita esterna, vivendo assai internamente, gli altri perchè
non abbisognano d'alcuna vita. Gli spiriti mediocri, cioè la massima
parte degli uomini, sono incompatibili con questo stato, e infelicissimi in
esso, o in altro che lo somigli. V. la p.1584. fine.
(30. Agos. 1821.)
Chi ha perduto la speranza d'esser felice,
non può pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo
non può cercarla che per rispetto alla propria. Non può dunque neppure
interessarsi dell'altrui infelicità.
(30. Agos. 1821.)
Vuoi tu vedere l'influenza dell'opinione e
dell'assuefazione sul giudizio e sul sentimento, per così dire, fisico
delle proporzioni; anzi come questo nasca totalmente dalle dette cause, e ne
sia interamente determinato? [1590]Osserva una donna alta e grossa
vicina ad un uomo di giusta corporatura. Assolutamente tu giudichi e ti par di
vedere che le dimensioni di quella donna sieno maggiori di quelle dell'uomo
strettamente parlando. Ragguaglia le misure e le troverai spessissimo uguali, o
maggiori quelle dell'uomo. Osserva una donna di giusta corporatura vicino ad un
uomo piccolo. Ti avverrà lo stesso effetto e lo stesso inganno. Similmente
in altri tali casi. Questi sono dunque inganni dell'occhio: e da che prodotti?
che cosa inganna lo stesso senso? l'opinione e l'assuefazione. (30. Agos.
1821.). Alla Commedia in Bologna vidi una donna vestita da uomo: pareva un
bambolo. In un altro atto ella uscì fuori da donna, facendo un altro
personaggio: mi parve, com'era, un gran pezzo di persona.
Non si sa che i costumi de' romani
passassero ai greci neppur dopo Costantino. Dico, non questo o quel costume, ma
la specie e la forma generale de' costumi, come quella che da' greci
passò realmente a' romani, e da' francesi agl'italiani principalmente, e
agli altri popoli civili proporzionatamente. Da che i costumi de' greci furono
formati, essi li comunicarono agli altri, ma non li ricevettero mai più
da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro
lingua, e la [1591]sua durata fino al presente. La tenacità che i
greci ebbero sempre per le cose loro, e l'amore esclusivo che portarono e
portano alla loro nazione, e a' loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito
di alcune colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i
coloni parlano ancora il greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta
società se non fra loro, benchè abitino in mezzo a un paese di nazione
diversa, e sieno soggetti a un governo forestiero. Le relazioni de' viaggiatori
intorno alla Grecia, ed agli altri paesi abitati da greci, confermano questa
invincibile tenacità. Dove si trovano greci cattolici e scismatici,
insieme con altri cattolici, i greci cattolici, malgrado il divieto della loro
religione, de' loro vescovi (per lo più forestieri), e l'impero che
queste cose hanno sulla loro opinione, vogliono piuttosto congiungersi in
matrimonio ec. co' loro nazionali scismatici che co' cattolici forestieri,
fanno stretta alleanza fra loro, e spesso declinano dall'una all'altra
religione. Si potrebbe riferire a questa osservazione il cattivo esito de'
tanti negoziati fatti al tempo del Concilio di Firenze, per sottomettere la
Chiesa greca alla latina, e indurla a riconoscere un'autorità [1592]forestiera.
È noto che mentre il rito latino si stabiliva in quasi tutto il resto
del Cristianesimo, il rito greco, e in esso la lingua greca conservavasi e
conservasi in tutta la Chiesa greca comunicante, in qualunque paese ella sia. E
son pur noti i privilegi della Chiesa greca Cattolica, e la specie
d'indipendenza che gli è accordata, e la renitenza ch'ella suole opporre
a quella stessa parte di dominio che la Chiesa latina conserva su di lei.
E non è maraviglioso lo stato
presente dei greci? Non si distinguono più le razze gote, longobarde ec.
dalle italiane, nè le franche dalle celtiche o romane, nè le moresche
dalle spagnuole. Le lingue sono pur confuse in questi paesi ec. Non si
discernono mai gli Arabi da' Persiani nella Persia, la religione Araba
v'è stabilita universalmente, la lingua Persiana tutta mista d'arabesco.
Le razze e le costumanze tartare si vengono di mano in mano confondendo nella
China colle razze e costumanze cinesi. Ma i greci non sono divenuti mai turchi,
nè i turchi greci. Due religioni, due lingue, due maniere di costumi e
di usanze, d'inclinazioni e di carattere ec. due nazioni insomma totalmente
difformi convivono in un paese dove l'una è tuttavia forestiera
benchè signora, [1593]l'altra ancora indigena benchè
schiava. E se i costumi greci, e quindi la lingua sono cambiati da quelli di
prima, questo cambiamento deriva piuttosto dal tempo, e da altre circostanze
inevitabilmente alteranti, che dal commercio giornaliero con una nazione
straniera. La presente modificazione de' costumi e dell'indole greca, è
quasi affatto indipendente da' costumi e dall'indole turca: e il tempo le ha
piuttosto levato che aggiunto nulla. L'odierna rivoluzione della Grecia, alla
quale prendono parte i greci di quasi tutti i paesi i più segregati; la
quale ha riunito una nazione schiava in maniera da renderla formidabile ec. ec.
dimostra qual sia lo spirito nazionale dei greci, la ricordanza e la
tenacità delle cose loro, l'unione singolarissima fra gl'individui di un
popolo schiavo, l'odio che portano a quello straniero con cui e sotto cui vivono
da sì gran tempo, l'odio nazionale insomma inseparabile dall'amor nazionale,
e fonte di vita ec. (v. p.1606. capoverso 1.) L'affare di Parga ec. fa pure al
proposito.
(30. Agos. 1821.)
Gli Ottentotti hanno generalmente un tumore
adiposo sotto il coccige. Le parti sessuali delle loro donne sono singolarmente
costruite. Crediamo noi che queste singolarità siano bruttezze per loro?
anzi che non sarebbe brutto per loro chi non le avesse?
(31. Agos. 1821.)
[1594]La forza dell'opinione,
dell'assuefazione ec. e come tutto sia relativo, si può anche vedere
nelle parole, ne' modi, ne' concetti, nelle immagini della poesia e della prosa
comparativamente. Paragone il quale si può facilmente istituire,
mostrando come una parola, una sentenza non insolita, che non fa verun effetto
nella prosa perchè vi siamo assuefatti, lo faccia nel verso ec. ec. ec.
e puoi vedere la p.1127.
(31. Agos. 1821.)
La bellezza è naturalmente compagna
della virtù. L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere
che un bel viso possa coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè
la natura ha posto un'effettiva corrispondenza tra le forme esteriori e le
interiori, e se queste non corrispondono, sono per lo più alterate da
quelle ch'erano naturalmente. Pure è certo che i belli sono per lo
più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi naturali o acquisiti.
Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e
di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli uomini
senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son
ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce
del vantaggio che si accorge [1595]di avere sugli altri, e cerca di
tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più
forte, fa uso della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la
strada che più giova e piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non
abbisogna di questo. Ecco l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo,
posta la società. Così dico de' potenti ec. i quali non ponno
essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si trovi vera affabilità,
vera e costante amabilità e facilità di costumi, interesse per
gli altri ec. se non che nei brutti, in chi ha qualche svantaggio, è
nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo, ancorchè poi ne sia
uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
Ora domando io. Sono vantaggi o non sono, la
bellezza, l'ingegno ec. ec.? La virtù ec. un certo buon ordine ec. ec.
sono o non sono voluti dalla natura? (Questo è certo, perchè il
fanciullo e il giovane v'è sempre inclinato). Che strana contraddizione
è dunque questa che nello stato di società i vantaggi naturali e
acquisiti sieno quasi assolutamente incompatibili colla bontà de'
costumi? che per trovar questa, bisogni [1596]desiderare che il tale o
tal altro sia brutto, sciocco ec. ec.? anzi che la maggior parte degli uomini,
e tutti, se fosse possibile, fossero tali pel bene del mondo? (I devoti sogliono
infatti chiamar favori e benefizii di Dio, questi e altri tali svantaggi). Che
vuol dir tutto ciò? che lo stato sociale è contraddittorio colla
natura, e con se stesso. Giacchè esso stesso non può sussistere
senza la virtù e la morale, unico legame degli uomini, e sola
sufficiente garanzia dell'ordine e della società ec. e queste non
possono stare con un'altra cosa che è parimente necessaria al bene della
società, vale a dire i vantaggi e i beni individuali. Quello che dico degl'individui
dico anche delle nazioni. È noto come la giustizia ec. ec. sogliano
essere osservate dalle nazioni e principi deboli o infelici ec. e trascurate
affatto dalle altre, e da esse stesse appena arrivano alla felicità e
forza, come accadde a Roma.
(31. Agosto 1821.)
Il sopraddetto si può se non altro, e
con molto maggior forza applicare a dimostrare le ingenite ed essenziali
contraddizioni che rinchiude uno stato di civiltà come il
presente.
(31. Agos. 1821.)
[1597]Tutto nella natura è
armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione. Non è
possibile che, massime in un medesimo individuo, in un medesimo genere di
esseri, e degli esseri più elevati nell'ordine naturale, siccom'è
l'uomo, la perfezione di una parte principale e importantissima di esso, voluta
e ordinata dalla natura, noccia a quella di un'altra parte similmente principalissima.
Ora se quella che noi chiamiamo perfezione del nostro spirito, se la
civiltà presente fosse stata voluta e ordinata dalla natura, e se ella
fosse insomma veramente la nostra perfezione, allora la contraddizione assurda
che ho detto, si verificherebbe; giacchè è incontrastabile che
questa pretesa perfezione dell'animo nuoce al corpo.
Primieramente ricordatevi di ciò che
ho spiegato altrove, che la debolezza corporale giova, e il vigore nuoce
all'esercizio e allo sviluppo delle facoltà mentali massime appartenenti
alla ragione. E viceversa l'esercizio e lo sviluppo di queste facoltà
nuoce estremamente al vigore e al ben essere del corpo. Onde Celso fa derivare
l'indebolimento degli [1598]uomini e le malattie dagli studi, e ciascun
pensatore o studioso ne fa l'esperienza in se, quanto al deterioramento
individuale del suo corpo. Nè solamente per le fatiche, ma in centomila
altri modi lo sviluppo della ragione nuoce al corpo, colle pene che cagiona,
coi mali che ci scuopre, e che ignoti non sarebbero stati mali,
coll'inattività corporale a cui ci spinge anche per massima, e coi tanti
begli effetti che costituiscono la natura della civiltà, e dello stato
presente del mondo, derivato quasi tutto dallo sviluppo della ragione. Se
dunque l'infinito sviluppo della ragione costituisce la perfezione propria
dell'uomo, la natura, torno a dire, è in contraddizione, perchè
la perfezione di una parte nuoce a quella dell'altra, e fino arriva a
distruggere questa parte, tanto a poco a poco, quanto in un punto mediante il
suicidio. Anzi non solo la perfezione di una parte nuoce a quella dell'altra,
ma una perfezione di una stessa parte o del tutto nuoce ad un'altra perfezione
manifestamente voluta dalla natura.
Lo sviluppo della ragione e la
civiltà che ne deriva a noi sembra perfezione propria non solo
dell'animo umano, ma anche [1599]del corpo, cioè insomma di tutto
l'uomo. Ora domando io: le malattie, la debolezza, l'impotenza, la
fragilità e suscettibilità somma, sono elleno perfezioni del
corpo umano e dell'uomo? Non è egli evidente che la natura ha voluto che
noi fossimo ben sani e robusti? Tutto potrà mettersi in dubbio fuori che
la natura abbia sempre mirato al ben essere materiale delle sue creature.
Quest'è una verità che si sente senza bisogno di provarla. La
natura ha posto mille ostacoli allo sviluppo della ragione ec. ma ha per tutti
i versi favorito il pieno sviluppo delle facoltà corporali, e il vigore
del corpo ec. ec. Gli uomini hanno avuto bisogno di moltissimi secoli per
arrivare a questo sviluppo della ragione: ma lo sviluppo del corpo umano
è stato perfetto da principio, ed è andato anzi deteriorando col
progresso del tempo e della civiltà. La natura o per disposizioni
ingenite, o per disposizioni accidentali ma inevitabili e ordinarie, ha
negato alla maggior parte degl'intelletti la possibilità o di svilupparsi,
o di giungere in qualunque modo alla pretesa perfezione; ma a nessuno, se non
per inconvenienti casuali e imprevedibili, ha negato la facoltà di [1600]conseguire
il ben essere del corpo; anzi questo, tolti i detti inconvenienti casuali e
fuor d'ordine, si porta naturalmente con se nascendo. Egli è dunque evidente
che la natura ha stabilita al corpo umano la perfezione del vigore ec. ec.; che
il pieno ben essere e floridezza del corpo, è perfezione, non mica
accidentale, ma essenziale e propria dell'uomo, e ordinata dalla natura, come
in ordine a tutti gli altri esseri. Egli è anzi evidente che il corpo fu
considerato dalla natura nell'uomo siccome negli altri viventi, più che
l'animo, e per conseguenza che la sua perfezione è assolutamente voluta
dalla natura, e per conseguenza non può essere perfezione dell'uomo
quella che si oppone alla sopraddetta, giacchè contrasta colla sua
propria e naturale essenza, e ripugna a una qualità non accidentale, ma
ordinata dalla natura. Del resto chi può negare che gl'incomodi
corporali e sensibili, una certa impotenza che ben si sente non esser naturale,
opporsi ed essere sproporzionata alle nostre inclinazioni, ed alle forze
stesse di quell'animo che noi abbiamo coltivato, e coltiviamo, la
debolezza, le malattie abituali o attuali, e la facilità somma che
abbiamo di cadervi ec. ec. non sieno imperfezioni nell'uomo? [1601]Ora
che la civiltà abbia realmente e grandemente pregiudicato, e
continuamente pregiudichi al corpo umano, e ne attenui il valore, ve ne hanno
mille altre prove, ma considereremo solamente questa. Non può negarsi
quello che tanti antichi degnissimi di fede, e anche testimoni oculari
raccontano delle straordinarie corporature de' Galli e de' Germani prima che
fossero civilizzati. Ora mediante la civiltà essi son ridotti alla forma
ordinaria, e si può ben credere che così sia avvenuto agli altri
popoli la cui civilizzazione è più antica. Lascio gli atleti
greci e romani, delle cui forze v. Celso. Delle forze ordinarie de' soldati
romani v. Montesquieu, Grandeur ec. ch.2. p.15. nota, p.16. segg. Che la nosologia
degli antichi fosse più scarsa di quella de' moderni, è visibile.
Ma essi eran già molto civilizzati, massime a' tempi p.e. di Celso. La
nosologia de' popoli selvaggi è di ben poche pagine, e il loro stato
ordinario di salute e di robustezza, è cosa manifesta a chiunque li visita,
e ciò anche ne' più difficili climi. Insomma egli è
più che evidente che la nosologia cresce di volume, [1602]e la
salute umana decresce, in proporzione della civiltà. Questo si vede
anche nelle razze de' cavalli, de' tori ec. che passati dalle selve alle nostre
stalle, e ad una vita meno incivile, indeboliscono e degenerano appoco appoco.
Lo stesso dico delle piante coltivate con cura ec. Esse acquisteranno in
delicatezza ec. ec. ma perderanno sempre in forza, e se per quella delicatezza
saranno meglio adattate a' nostri usi (massime nel nostro stato presente,
sì diverso dal naturale), ciò non prova che non sieno degenerate.
Effettivamente la principal qualità naturale, la principal perfezione
materiale voluta e ordinata dalla natura in tutto che vive o vegeta, non
è la delicatezza ec. ma il vigore relativo a ciascun genere di esseri.
Il vigore è salute, v. p.1624. il vigore è potenza, è
facoltà di eseguire completamente tutte le convenienti operazioni ec.
ec. è facilità di vivere; il vigore insomma è tutto in
natura: e la natura non è principalmente e caratteristicamente delicata,
ma forte rispettivamente e proporzionatamente alla capacità ec. di
ciascuna sua parte.
(31.
Agos.-1. Sett. 1821.). V. p.1606. fine.
[1603]Dalle sopraddette
osservazioni risulta un'altra gran prova del come l'idea del bello sia relativa
e mutabile, e dipendente non da modello alcuno invariabile, ma dalle
assuefazioni che cambiano secondo le circostanze. Oggi l'idea del bello,
racchiude quasi essenzialmente un'idea di delicatezza. Un robusto villano o
villana, non paiono certamente belli alle persone di città. Il bello
nelle nostre idee, esclude affatto il grossolano. Dovunque esso si trova, (se
ciò non è in una certa misura che mediante lo straordinario e lo
stesso sconveniente, produca la grazia) non si trova il bello per noi, almeno
il bello perfetto. Ora egli è certo che gli uomini primitivi la pensavano
ben altrimenti, perchè tutti gli uomini primitivi eran grossolani. Non
esisteva allora una di quelle forme che noi chiamiamo belle, (ciò si
può vedere fra' selvaggi i quali non sentono la bellezza meno di noi,
benchè non sentano la nostra): e se avesse esistito, sarebbe stata e
chiamata brutta. La delicatezza dunque non entra nell'idea che l'uomo naturale
concepisce del bello. Quindi la [1604]presente idea del bello non
è punto naturale, anzi l'opposto. E pur ci pare naturalissima, confondendo
il naturale collo spontaneo: giacch'ella è spontanea, perchè
derivata senza influenza della volontà dalle assuefazioni ec.
È probabile che laddove oggi il
fondamento o la condizione universale del bello è la delicatezza, per li
primitivi lo fosse ciò che noi chiamiamo grossezza; perchè il nostro
stato, e quindi le nostre assuefazioni e idee sono giusto in questo punto
diametralmente opposte alle primitive e naturali (e selvagge). Ma se anche la delicatezza
entrava, o come straordinaria e quindi graziosa, o in qualunque altro modo
nell'idea primitiva del bello, ella era una delicatezza diversissima da quella
che oggi si stima indispensabile alla bellezza. Ella era una delicatezza assai
minore, e tale che a noi parrebbe poco lungi dal grossolano e anche grossezza.
Siccome per lo contrario la delicatezza presente ai primitivi sarebbe paruta
eccessiva, sconveniente, e brutta. L'idea insomma della delicatezza
poteva forse entrare nel bello primitivamente concepito, (specialmente
nell'uomo rispetto alla donna, della quale è propria per natura, e
quindi conveniente, una delicatezza, ma solo rispettiva, e proporzionata, e
riguardo alla differente natura dell'uomo ec.) ma solo nel detto modo. E
così ogni bellezza è relativa. E proporzionate differenze [1605]si
trovano fra il bello antico e il moderno, fra il bello di una nazione e
quello di un'altra; di un clima, di un secolo, e quello di un altro; fra il
bello degl'italiani e quello de' francesi ec. ec.
(1 Sett. 1821.). V. p.1698.
È vero che l'uomo felice non suol esser
molto compassionevole, ma l'uomo notabilmente infelice, ancorchè nato
sensibilissimo non è quasi affatto capace di compassione spontanea e
sensibile. Sviluppa questa verità nelle sue parti, e nelle sue cagioni.
(1 Sett. 1821.)
Alla p.1448. Le odierne feste Cristiane son
veramente popolari, ma inutili oramai al sentimento, all'entusiasmo, ec. e
quindi inutilmente popolari. Il popolo non vi prende parte, se non come la
prende agli spettacoli, a' divertimenti ec. anzi alquanto meno, perchè
p.e. gli spettacoli teatrali lo possono animare, commuovere, e lasciargli
qualche impressione nello spirito; ma dopo le feste Cristiane egli se ne torna
a casa col cuore posato, equilibrato, freddo, immoto come prima. Elle non sono
dunque più feste nazionali, nè di setta, nè di partito ec.
[1606]E di ciò n'è causa tanto il raffreddamento
particolare de' sentimenti religiosi, opera sì del tempo in genere, come
di questo tempo irreligioso; quanto l'estinzione generale di tutte le
facoltà vive negli animi delle nazioni, e l'incapacità odierna
de' popoli ad esser commossi e sollevati nello spirito, se non da cose affatto
straordinarie. Tra noi specialmente n'è causa ancora il nessun contrasto
che incontrano le nostre opinioni religiose, e la nostra religione
generalmente, a differenza p.e. dell'Inghilterra, e anche della Francia.
(1. Sett. 1821.)
L'anima de' partiti è l'odio.
Religione, partiti politici, scolastici, letterarii, patriotismo, ordini, tutto
cade, tutto langue, manca di attività, e di amore e cura di se stesso,
tutto alla fine si scioglie e distrugge, o non sopravvive se non di nome,
quando non è animato dall'odio, o quando questo per qualunque ragione
l'abbandona. La mancanza di nemici distrugge i partiti, e per partiti intendo
pur le nazioni ec. ec.
(2. Sett. 1821.)
Alla p.1602. fine. Nè solo il vigor
del [1607]corpo, ma anche quello dello spirito è singolarmente
ordinato dalla natura. Almeno i primi progressi dello spirito umano sono sempre
compagni di una forza (in tutta l'estensione e le classificazioni del termine)
che va di mano in mano scemando e perdendosi coi successivi progressi della
civiltà. Parlino le storie. V. il pensiero precedente che appartiene pure
a questo, perchè l'odio è una delle più vigorose passioni
dell'anima; ed è oggi o estinto o travisato in maniera che è
fonte di tutt'altro che di forza. V. pure il pensiero seguente.
(2. Sett. 1821.)
I moti e gli atti degli uomini (e de'
viventi in proporzione delle rispettive qualità) sono naturalmente
vivissimi, specialmente nella passione. La civiltà gli raddolcisce, gli
modera, e va tanto innanzi che oramai gran parte del bel trattare consiste nel
non muoversi, siccome nel parlare a voce bassa ec. e l'uomo appassionato quasi
non si distingue dall'indifferente per verun segno esterno. L'individuo civilizzato
copia in se stesso lo stato a cui la società è ridotta dall'incivilimento
come una camera oscura ricopia in piccolissimo una vasta prospettiva. Non
più moto nè in questa nè in [1608]quello. Questa
corrispondenza non è nè casuale nè frivola. E ben
importante l'osservare come i menomi effetti derivino dalle grandi cagioni,
come armonizzino insieme le cose grandi e le piccole, come la natura del secolo
influisca sulle menome parti de' costumi, come dalle piccolissime e giornaliere
osservazioni si possa rimontare alle grandissime e generali. L'animo e il corpo
dell'uomo civile si rende appoco appoco immobile in ragione de' progressi della
civiltà: e si va quasi distruggendo (gran perfezionamento dell'uomo!) la
principal distinzione che la natura ha posto fra le cose animate e inanimate,
fra la vita e la morte, cioè la facoltà del movimento.
(2 Sett. 1821.)
L'ideologia comprende i principii di tutte
le scienze e cognizioni, e segnatamente della scienza della lingua. Ma vicendevolmente
si può dire che la scienza della lingua comprende tutta l'ideologia.
(2. Sett. 1821.)
Tanta è la facoltà produttrice
della lingua greca, e tale la sua mirabile disposizione, e capacità di
qualsivoglia novità, [1609]che in essa, può dirsi che
concepita appena un'idea per nuova ch'ella sia, è già fatta la
nuova parola che l'esprima. Tanto costava l'arricchir quella lingua quanto il
concepire un'idea, o menoma parte o modificazione d'idea in qualunque modo
nuova. Laddove nelle altre lingue, concepita un'idea nuova, ci vuole bene
spesso del bello e del buono per esprimerla. E questo nuoce e ritarda
sommamente la chiarezza e determinatezza della stessa concezione, perchè
si può dire che un'idea non si concepisce mai chiaramente, nè
è mai ben determinata e ferma nell'intelletto del suo stesso ritrovatore,
finch'egli non ha trovato una parola o modo perfettamente corrispondente, e non
l'ha saputa ben esprimere e fissare con questo mezzo a se stesso, e quasi rinchiuderla
e incassarla in detta parola. Questo è ciò che i greci faceano
immediatamente, e quindi si conferma quello che altrove ho detto, cioè
che la loro superiorità nella filosofia ec. fra gli antichi, possa
venire in gran parte [1610]dalla natura di loro lingua.
(2 Sett. 1821.)
Si suol dire, ed è vero, che i gobbi hanno
molto spirito. La ragione è chiara. Altra prova del come lo sviluppo
delle facoltà mentali dipenda dalle circostanze, assuefazioni ec. Lo
stesso può dirsi de' vetturini, e altra gente avvezza a molto trattare
con ogni sorta di persone ec. che divengono sempre furbi, animati, spiritosi: i
loro occhi pigliano espressione e vivacità ec.
(2. Sett. 1821.)
L'uomo il più dotto, erudito,
letterato, del gusto e giudizio il più fino, dell'ingegno il più
fecondo ec. ec. ma poco avvezzo a trattare, saprà egregiamente e fecondissimamente
scrivere, e non saprà parlare neppur di cose appartenenti a' suoi studi.
E ciò non già per sola soggezione, ma effettivamente gli
mancheranno le parole e i concetti. Tutto è esercizio nell'uomo. Ed
è ordinario il veder uomini studiosi non saper parlare, appunto
perchè avvezzi allo studio, non sono abituati a parlare ma a tacere;
oltre ch'essi contraggono sovente e [1611]per questa e per altre ragioni
un carattere di taciturnità, parimente acquisito. Del resto s'ingannano
assai coloro che dal vedere che il tale non sa parlare, concludono ch'egli non
sa pensare, non è coltivato ec. Si può parlare come uno
scimunito, con freddezza e frivolezza estrema ec. ed essere il primo
scienziato, pensatore, scrittore del mondo.
(2. Sett. 1821.)
Nessun genere di animali o di cose, per
essere qual deve, ebbe o ha bisogno che sorga un suo individuo fornito di singolari
prerogative naturali o acquisite, che accada la tale scoperta importante, che
si dieno le tali e tali infinite combinazioni ec. ec. La natura quando lo
formò, fu ben certa ch'esso sarebbe qual doveva essere, e qual ella
voleva. Ma il genere umano ha avuto ed ha bisogno di tutto ciò, per
arrivare ad essere (così dicono) qual deve. Or dico io: perchè la
perfezione cioè il vero modo di essere del solo genere umano fu
abbandonato dalla natura al caso? È questo un privilegio, o un immenso
svantaggio? [1612]Egli è certo che le facoltà del
più privilegiato individuo umano, non bastano di gran lunga a condurlo a
quella che si chiama perfezione. Dunque la natura non ha provveduto alla
perfezione cioè al ben essere dell'uomo. - Ma egli è fatto per la
società. - Neppur basta ch'egli si metta in questa società.
Bisogna che questa duri una lunghissima serie di generazioni, e che si stenda
fino a divenir quasi universale. Allora solo l'uomo, e l'individuo potrà
avvicinarsi a quella perfezione alla quale ancora non siamo arrivati. È
egli possibile che tutto ciò sia necessario al ben essere dell'uomo? E
che la sua perfezione fosse posta dalla natura au bout di sì
lunga e difficile carriera, che dopo seimila anni ancora non è compiuta?
Oltre ch'ella, come risulta, dal sopraddetto, non poteva esser sicura che
l'uomo vi arrivasse mai, essendo stata opera di circostanze non mai essenziali,
tutti i pretesi progressi che si son fatti.
(2. Sett. 1821.)
Di più: qual sarà poi questa [1613]perfezione
dell'uomo? quando e come saremo noi perfetti, cioè veri uomini?
in che punto, in che cosa consisterà la perfezione umana? qual
sarà la sua essenza? Ogni altro genere di viventi lo sa bene. Ma la
nostra civiltà o farà sempre nuovi progressi, o tornerà
indietro. Un limite, una meta (secondo i filosofi) non si può vedere, e
non v'è. Molto meno un punto di mezzo. Dunque non sapremo mai in eterno
che cosa e quale propriamente debba esser l'uomo, nè se noi siamo
perfetti o no ec. ec. Tutto è incerto e manca di norma e di modello,
dacchè ci allontaniamo da quello della natura, unica forma e ragione del
modo di essere.
(2. Sett. 1821.)
Le cose non sono quali sono, se non perch'elle
son tali. Ragione preesistente, o dell'esistenza o del suo modo, ragione
anteriore e indipendente dall'essere e dal modo di essere delle cose, questa
ragione non v'è, nè si può immaginare. Quindi nessuna
necessità nè di veruna esistenza, nè di tale o tale, e
così o così fatta esistenza. Come dunque immaginiamo noi un
Essere necessario? Che ragione v'è fuori di lui e prima di lui
perch'egli esista, ed esista in quel modo, ed esista ab eterno? - La ragione [1614]è
in Lui stesso, cioè l'infinita sua perfezione.
Che ragione assoluta vi è
perchè quel modo di essere che gli ascriviamo, sia perfezione?
perchè sia più perfetto degli altri possibili? più
perfetto delle stesse altre cose esistenti e degli altri modi di essere? Questa
ragione dev'essere assoluta e indipendente dal modo in cui le cose sono,
altrimenti il detto Ente non sarà assolutamente necessario. Or nessuna
se ne può trovare. - Il suo modo di essere è perfezione
perch'egli esiste così. - La stessa ragione milita per tutte le altre
cose e modi di essere. Tutte saran dunque egualmente perfette, e tutte
assolutamente necessarie. Quest'è un giuoco di parole. Bisogna trovare
una ragione perchè il suo modo di essere sia astrattamente e
indipendentemente da qualunque cosa di fatto, più perfetto di tutti gli
altri possibili o esistenti: perchè non sia possibile una maggior
perfezione; ovvero un tutt'altro ordine di cose, dove quel modo di essere non
sia neppur buono. Bisogna insomma porsi al di fuori dell'ordine esistente e di
tutti gli ordini possibili, e così trovare una [1615]ragione per
cui le qualità che ascriviamo a quell'Essere sieno assolutamente e
necessariamente perfette, non possano esser diverse, nè più perfette,
non possano esser tali e non esser ottime, e sieno migliori di tutte le altre possibili.
L'aseità insomma è un
sogno o compete a tutte le cose esistenti e possibili. Tutte hanno o non hanno
egualmente in se stesse la ragione di essere e di essere in quel tal modo, e
tutte sono egualmente perfette.
Ma lo spirito è più perfetto
della materia - 1. Che cosa è lo spirito? Come sapete ch'esiste, non
sapendo che cosa sia? non potendo concepire al di là della materia una
menoma forma di essere? 2. perchè è più perfetto della
materia? - Perchè non si può distruggere, e perchè non ha
parti ec. - Il non aver parti chi vi ha detto che sia maggior perfezione dell'averne?
Chi vi ha detto che lo spirito non ha parti? che avendone o no, non si possa
distruggere ec. ec.? Come potete affermare o negar nulla intorno alle
qualità di ciò che neppur concepite, e quasi non sapete se sia
possibile? Tutto è dunque un romanzo arbitrario della vostra fantasia,
che può figurarsi un essere come vuole. V. un altro mio pensiero in tal
proposito.
(2. Sett. 1821.)
[1616]Niente preesiste alle cose.
Nè forme, o idee, nè necessità nè ragione di
essere, e di essere così o così ec. ec. Tutto è
posteriore all'esistenza.
(3. Sett. 1821.)
Intorno a quello che ho detto altrove, che
tolte le idee innate, è tolto Iddio, tolta ogni verità ogni buono
ogni cattivo assoluto, tolta ogni disuguaglianza di perfezione ec. tra gli
Esseri, e necessario il sistema ch'io chiamo dell'Ottimismo, v. un bel passo di
S. Agostino che ammettendo le idee innate, riconosce questa verità ch'io
dico, presso Dutens, Par.1. cap.2. §.30.
(3. Sett. 1821.)
Infatti noi non abbiamo altra ragione di
credere assolutamente vero quello ch'è tale per noi, e che a noi par
tale, di credere assolutamente buono o cattivo quello ch'è tale per noi,
ed in quest'ordine di cose; se non il credere che le nostre idee abbiano una
ragione, un fondamento, un tipo, fuori dello stesso ordine di cose, universale,
eterno, immutabile, indipendente da ogni cosa di fatto; che sieno impresse
nella mente nostra per essenza tanto loro, quanto di essa mente, e della natura
intera delle cose; che sieno soprannaturali, cioè [1617]indipendenti
da questa tal natura qual ella è, e dal modo in cui le cose sono, e che
per conseguenza le dette idee e le nozioni della ragione non potessero
esser diverse in qualsivoglia altra natura di cose, purchè l'intelletto
fosse stato ugualmente in grado di concepirle. Fuori di questo, e tolto questo,
non resta alcun'altra ragione per credere assolutamente buona, cattiva, insomma
vera qualsivoglia cosa. Ma veduto che le nostre idee non dipendono da altro che
dal modo in cui le cose realmente sono, che non hanno alcuna ragione indipendente
nè fuori di esso, e quindi potevano esser tutt'altre, e contrarie;
ch'elle derivano in tutto e per tutto dalle nostre sensazioni, dalle
assuefazioni ec.; che i nostri giudizi non hanno quindi verun fondamento
universale ed eterno e immutabile ec. per essenza; è forza che,
riconoscendo tutto per relativo, e relativamente vero, rinunziamo a
quell'immenso numero di opinioni che si fondano sulla falsa, benchè
naturale, idea dell'assoluto, la quale, come ho detto, non ha più
ragione [1618]alcuna possibile, da che non è innata, nè indipendente
dalle cose quali elle sono, e dall'esistenza.
(3. Sett. 1821.)
La distruzione delle idee innate distrugge
altresì l'idea della perfettibilità dell'uomo. Pare tutto
l'opposto, perchè se tutte le sue idee sono acquisite, dunque egli
è meno debitore e dipendente della natura, e quindi si può e deve
perfezionar da se. Ma anche le idee degli animali sono acquisite, nè
essi sono perfettibili. Distrutta colle idee innate l'idea della perfezione
assoluta, e sostituitale la relativa, cioè quello stato ch'è
perfettamente conforme alla natura di ciascun genere di esseri, si viene a rinunziare
alle pazze idee d'incremento di perfezione, di acquisto di nuove buone
qualità (che non sono più buone per se stesse come si credevano),
di perfezionamento modellato sopra le false idee del bene e del male assoluto
ed assolutamente maggiore o minore; e si conclude che l'uomo è perfetto
qual egli è in natura, appena le sue facoltà hanno conseguito
quel tanto sviluppo che la natura gli ha primitivamente e decretato, e
indicato. E [1619]non può se non essere imperfetto in altro
stato. Nè la perfezione sua, o quella di verun altro genere, può
mai crescere: bensì quella dell'individuo ec.
(3. Sett. 1821.)
Io non credo che le mie osservazioni circa
la falsità d'ogni assoluto, debbano distruggere l'idea di Dio. Da che le
cose sono, par ch'elle debbano avere una ragion sufficiente di essere, e di
essere in questo lor modo; appunto perch'elle potevano non essere o esser tutt'altre,
e non sono punto necessarie. Ego sum qui sum, cioè ho in me la
ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l'idea di Dio in
questo modo. Può esservi una cagione universale di tutte le cose che
sono o ponno essere, e del loro modo di essere. - Ma la cagione di questa
cagione qual sarà? poich'egli non può esser necessario, come voi
avete dimostrato. - È vero che niente preesiste alle cose. Non preesiste
dunque la necessità. Ma pur preesiste la possibilità. Noi non
possiamo concepir nulla al di là della materia. Noi non possiamo dunque
negare l'aseità, benchè neghiamo la necessità di
essere. Dentro i limiti della materia, e nell'ordine di cose che ci è
noto, [1620]pare a noi che nulla possa accadere senza ragion
sufficiente; e che però quell'essere che non ha in se stesso veruna
ragione e quindi veruna necessità assoluta di essere, debba averla fuor
di se stesso. E quindi neghiamo che il mondo possa essere, ed esser qual
è, senza una cagione posta fuori di lui. Sin qui nella materia. Usciti
della materia ogni facoltà dell'intelletto si spegne. Noi vediamo
solamente che nulla è assoluto nè quindi necessario. Ma appunto
perchè nulla è assoluto, chi ci ha detto che le cose fuor della
materia non possano esser senza ragion sufficiente? Che quindi un Essere
onnipotente non possa sussister da se ab eterno, ed aver fatto tutte le cose,
bench'egli assolutamente parlando non sia necessario? Appunto perchè
nulla è vero nè falso assolutamente, non è egli tutto
possibile, come abbiamo provato altrove?
Io considero dunque Iddio, non come il
migliore di tutti gli esseri possibili, giacchè non si dà
migliore nè peggiore assoluto, ma come racchiudente in se stesso tutte
le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. Questo [1621]è
possibile. I suoi rapporti verso gli uomini e verso le creature note, sono
perfettamente convenienti ad essi; sono dunque perfettamente buoni, e
migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma
perchè i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti.
Così resta in piedi tutta la Religione, e l'infinita perfezion di Dio,
che si nega come assoluta, si afferma come relativa, e come perfezione
nell'ordine di cose che noi conosciamo, dove le qualità che Dio ha verso
il mondo, sono relativamente a questo, buone e perfette. E lo sono, tanto verso
il nostro ordine di cose universale, quanto verso i particolari ordini che in
esso si contengono, e secondo le loro differenze subalterne di natura. La
quistione allora viene ad esser di parole.
Verso un altro ordine di cose Iddio
può aver de' rapporti affatto diversi, e anche contrari, ma
perfettamente buoni in relazione a detti ordini, perocch'egli esiste in tutti i
modi possibili, e quindi perfettamente conviene con tutte l'esistenze, e quindi
è sostanzialmente e perfettamente buono in tutti gli ordini di
bontà, quantunque contrari fra loro, perchè può esser
buono in una maniera di essere, quel che è cattivo in un altro.
[1622]Questo non solo non guasta
nè muta l'idea che noi abbiamo di Dio, ma anzi ella, se la
considerassimo bene, comprende questa nozione necessariamente. Come può
egli essere infinito se non racchiude tutte le possibilità? Come
può egli essere infinitamente perfetto anzi pure perfetto, s'egli non lo
è se non in quel modo che per noi è perfezione? Sono o no
possibili altri ordini infiniti di cose, e altri modi di esistere? Dunque
s'egli è infinito, esiste in tutti i modi possibili. Dipendeva o no
dalla sua volontà il farci affatto diversi? e l'averci fatto quali
siamo? Dunque egli ha potuto e può fare altri ordini diversissimi di
cose, e aver con loro que' rapporti di quella natura che vuole. Altrimenti egli
non sarà l'autor della natura, e torneremo per forza al sogno di
Platone, che suppone le idee e gli archetipi delle cose, fuori di Dio, e
indipendenti da esso. S'elle esistono in Dio, come dice S. Agostino, (v.
p.1616.) e se Dio le ha fatte, non abbraccia egli dunque quelle sole forme
secondo cui ha fatto le cose che noi conosciamo, ma tutte le forme possibili, e
racchiude tutta la possibilità, e può far cose [1623]di qualunque
natura gli piaccia, ed aver con loro qualunque rapporto gli
piaccia, anche nessuno ec.
L'infinita possibilità che
costituisce l'essenza di Dio, è necessità. Da che le cose esistono,
elle sono necessariamente possibili. (Una sola e menoma cosa che oggi esistesse
basterebbe a dimostrare che la possibilità è necessaria ed eterna.)
Se nessuna affermazione o negazione è assolutamente vera, dunque tutte
le cose e le affermazioni ec. sono assolutamente possibili. Dunque l'infinita
possibilità è l'unica cosa assoluta. Ell'è necessaria, e
preesiste alle cose. Quest'esistenza non l'ha che in Dio. Quest'ultimo pensiero
merita sviluppo. V. p.1645. capoverso 1.
(3. Sett. 1821.)
Circa le differenti qualità che i
diversi organi percepiscono negli oggetti, come altrove dissi, v. Dutens.
par.1. cap.3. §.40. e tutto quel capo.
(3. Sett. 1821.)
Si sfuggono le buone opere comandate dal
dovere, e si fanno di buona voglia quelle che si fanno per propria
volontà. I contadini contrastano al padrone ciò che possono,
danno però volentieri agli amici, e spesso rubano a quello per donare a
questi, senza nessun profitto proprio.
(4. Sett. 1821.)
Si danno certe combinazioni di naturale [1624]o
di circostanze, che distinguono notabilmente un carattere dall'ordinario, senza
molto o punto innalzarlo o abbassarlo al disopra, o al disotto degli altri.
(4. Sett. 1821.)
La legge naturale varia secondo le nature.
Un cavallo che non è carnivoro, giudicherà forse ingiusto un lupo
che assalga e uccida una pecora, l'odierà come sanguinario, e
proverà un senso di ribrezzo, e d'indignazione abbattendosi a vedere
qualche sua carnificina. Non così un lione. Il bene e il male morale non
ha dunque nulla di assoluto. Non v'è altra azione malvagia, se non
quelle che ripugnano alle inclinazioni di ciascun genere di esseri operanti:
nè sono malvage quelle che nocciono ad altri esseri, mentre non
ripugnino alla natura di chi le eseguisce.
(4. Sett. 1821.)
Alla p.1602. Gli antichi intendevano molto bene questa
verità che dovrebb'essere il fondamento della scienza medica. I greci
quasi autori della medicina dicevano J, cioè debolezza
ogni genere d'infermità, ed J l'esser malato. Ed anche oggi i
medici chiamano con termine greco stenia (sarebbe J) che suona, come J, vigore, [1625]forza,
robustezza, il buono stato di salute.
E=, inf. ¢=ÇJ prospera utor valetudine, non significa propriamente altro
se non esser forte, da =Å confirmor, corroboror.
Così sanitas, bona valetudo,
e i contrari, =Û, adversa valetudo, morbus,
= aegrotus, =¡ aegroto, =Å aegrotatio, aegritudo,
morbus. Così dico delle parole latine valere, valetudo, bene
o male valere, infirmus, imbecillitas ec. ec. V. i Diz. Tutto ciò
che ci cagiona il senso della forza, ci cagiona il senso del piacere e della
sanità. L'uomo veramente forte è sano. Quanto la civiltà
favorisca per sua natura la forza in genere e in ispecie, facilmente si vede
alla bella prima.
(4. Sett. 1821.)
Non attribuiamo a Dio se non un solo modo di
esistere, e una sola perfezione. Ma se niuna perfezione è assoluta, egli
non sarà dunque perfetto, avendo questa sola. L'unica perfezione
assoluta, è di esistere in tutti i possibili modi, ed in tutti esser
perfetto, cioè perfettamente conveniente, dentro la natura [1626]e
la proprietà di quel modo di essere. La perfezione assoluta abbraccia
tutte le possibili qualità, anche contrarie, perchè non
v'è contrarietà assoluta, ma relativa: e se è possibile un
modo di essere contrario a quello che noi concepiamo in Dio e nelle cose a noi
note (che certo è possibile, non essendovi ragione assoluta e indipendente
che lo neghi), Iddio non sarebbe nè infinito nè perfetto, anzi
imperfettissimo, s'egli non esistesse anche in quel modo, e non fosse in
perfetta relazione e convenienza con quel modo di essere. Noi dunque non
conosciamo se non una sola parte dell'essenza di Dio, fra le infinite, o vogliamo
dire una sola delle infinite sue essenze. Egli ha precisamente le perfezioni
che noi gli diamo: egli esiste verso noi in quel modo che la religione insegna;
i suoi rapporti verso noi, sono perfettamente quali denno essere verso noi, e
quali richiede la natura del mondo a noi noto. Ma egli esiste in infiniti altri
modi, ed ha infinite altre parti, che non possiamo in veruna maniera concepire,
se non immaginandoci questo medesimo. La Religione Cristiana è dunque
interamente vera, e i miei non si oppongono, anzi favoriscono i suoi dogmi. [1627]
(4. Sett. 1821.)
La Religion Cristiana rivela infatti molti
attributi di Dio che passano affatto e si oppongono all'idea che noi abbiamo
dell'estensione del possibile. Iddio ce gli ha voluti rivelare per assoggettar
la nostra ragione ec. e ci ha rivelati questi soli fra gl'infiniti. Essi (come
il mistero della Trinità, dell'Eucaristia) si oppongono fino al
principio detto di contraddizione, che par l'ultimo principio del raziocinio.
La distinzione fra superiore e contrario alla ragione è frivola. I detti
misteri si oppongono dirittamente al nostro modo di concepire e ragionare.
Ciò però non prova che sieno falsi, ma che il nostro detto modo,
non è vero se non relativamente, cioè dentro questo particolare
ordine di cose.
(4. Sett. 1821.)
La mente umana è di una
capacità immensa. Ella s'innalza fino a Dio, arriva in certo modo a
conoscerlo, benchè non possa determinarlo. Il senso ch'ella prova in questa
contemplazione e considerazione, non è propriamente il disperar di conoscere.
Solamente ella conosce di non esser Dio, e ravvisa la diversità [1628]dell'essenza
ed esistenza fra Lui e se, come fra se e le altre creature. Anzi ella si sente
più simile, più capace d'immaginare e penetrare nel modo in cui
Dio esiste, che in quello delle altre creature. Queste espressioni non son
temerarie. La Religione insegna che l'uomo è uno specchio della
Divinità, quasi unus ex nobis.
(4. Sett. 1821.)
La disperazione, in quanto è
mancanza, o piuttosto languore e insensibilità di speranza, è un
piacere per se, e perchè l'uomo non sentendo la speranza, appena sente
la vita, e la sua anima è abbandonata a una specie di torpore,
benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in tal
circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere.
(4. Sett. 1821.)
Forza dell'assuefazione generale. Le
impressioni de' sensi sono sempre vivissime ne' fanciulli. L'uomo ci si
avvezza, ed elle perdono in forza e durata. Ma non si avvezza solamente ad una
per una. Un'impressione tanto nuova per un uomo quanto la più nuova che
possa provare un fanciullo, fa meno effetto in quello che in questo: perchè
quegli è avvezzo alle [1629]impressioni. Quanto più l'uomo
(in proporzione delle circostanze individuali) è avvezzo alle
novità, tanto l'impressione delle novità è per lui meno
forte e durevole: e finalmente gli farà maggiore impressione la
monotonia ec. che la novità. E pur nessuno può essere avvezzo a
una nuova impressione in particolare; ma l'uomo si avvezza alle nuove impressioni
in generale. ec. ec.
(4. Sett. 1821.)
Ho detto che dilatandosi le nazioni, le
lingue si dividono. Ciò principalmente accade nel volgo, perchè
il volgo di un luogo, poco o nessun commercio conserva con quello di un altro,
benchè nazionale. Le altre classi ve lo conservano o immediato o
mediato, per la civiltà che gli unisce, le scritture ec. ec. 1. quanto
più una nazione è nazione, e per ispirito e per istato politico,
2. quanto più il volgo è in commercio colle altre classi della
stessa popolazione, 3. colle altre popolazioni nazionali, 4. quanto più
una nazione, ed in essa il volgo, è civile, 5. quanto più i
costumi, i caratteri ec. sono per conseguenza conformi, sì nel volgo che
nelle altre classi; tanto i dialetti vernacoli sono minori di numero, e meno
distinti di forma, ec. Applicate queste osservazioni all'Italia, alla Francia,
Inghilterra, Germania ec.
Così può ragionarsi anche
delle nazioni [1630]tutte intere, rispetto alle altre nazioni.
(4. Sett. 1821.)
Gli ammaestramenti che si danno
ordinariamente agli animali che ci servono, e ch'essi apprendono benissimo, con
maggiore o minor prontezza, secondo i generi, gl'individui e le circostanze
(come cavalli, cani ec.) e con sufficientissimo raziocinio, (come il cane che
s'arresta nel bivio, aspettando che il padrone scelga la sua strada); e quelli
che si danno ad altri animali per solo piacere, come ad orsi, scimie, gatti,
cani, topi, e fino alle pulci, come s'è veduto ultimamente; dimostrano
che la suscettibilità ed assuefabilità a cose non naturali,
non è propria esclusivamente dell'uomo, ma solo in maggior grado,
generalmente parlando: perchè vi sarà qualche uomo meno
assuefabile, ed ammaestrabile di una scimia.
(5. Sett. 1821.)
Quanto la specie umana oggidì sia
vicina a quella stessa perfezione relativa alla ragione, di cui si mena
sì gran vanto, vedi il capo 11. di Wieland, Storia del saggio Danischmend
e dei tre Calender, o l'Egoista [1631]ed il Filosofo. Milano.
Scelta Raccolta di Romanzi. Batelli e Fanfani. vol.25.
(5. Sett. 1821.)
La memoria dipendendo dalle assuefazioni
particolari, e dalla generale, e quasi non esistendo (come si vede ne' fanciulli)
senza queste, può considerarsi come facoltà presso a poco
acquisita.
(5. Sett. 1821.)
Chi vuol vedere l'effetto della
civiltà sul vigore del corpo, paragoni gli uomini civili ai contadini o
ai selvaggi, i contadini d'oggi a ciò che noi sappiamo del vigore
antico. ec. (Omero, com'è noto, assai spesso chiama l'età sua
degenerata dalle forze de' tempi troiani.) Osservi di quanto è capace il
corpo umano, vedendo l'impotenza nostra assoluta di far ciò che fa il
meno robusto de' villani; i pericoli a cui noi ci esporremmo volendo esporci a
qualcuno de' loro patimenti; le vergognose usanze quotidiane di fuggir l'aria
il sole ec. di maravigliarsi come il tale o tale abbia potuto affrontarlo per
questa o quella circostanza; le malattie o incomodi che tutto giorno si
pigliano per un [1632]menomo strapazzo del corpo, o fatica di mente ec.
e poi dica se la civiltà rafforza l'uomo; accresce la sua
capacità e potenza; se gli antichi si maraviglierebbero o no della
impotenza nostra; se la natura stessa se ne debba o no vergognare; e se noi
medesimi non lo dobbiamo, vedendo sotto gli occhi per l'una parte di quanto sia
capace il corpo umano, senza veruno sforzo straordinario, e per l'altra di
quanto poco sia capace il nostro.
(5. Sett. 1821.)
Si suol dire che tutte le cose, tutte le
verità hanno due facce diverse o contrarie, anzi infinite. Non
c'è verità che prendendo l'argomento più o meno da lungi,
e camminando per una strada più o meno nuova, non si possa dimostrar
falsa con evidenza ec. ec. ec. Quest'osservazione (che puoi molto specificare
ed estendere) non prova ella che nessuna verità nè falsità
è assoluta, neppure in ordine al nostro modo di vedere e di ragionare,
neppur dentro i limiti della concezione e ragione umana?
(5. Sett. 1821.). V. p.1655. fine.
Non c'è uomo così mal disposto
e disadatto ad apprendere, o ad apprendere una tal cosa, il quale lunghissimamente
[1633]esercitato in qualsivoglia disciplina ed attitudine o di mente o
di mano ec. non la possieda o meglio, o almeno altrettanto quanto il più
grande ingegno ec. che incominci o da poco tempo abbia cominciato ad
esercitarvisi. Ecco la differenza degl'ingegni. Ad altri bisogna più
esercizio ad altri meno, ma tutti alla fine son capaci delle stesse cose: e il
più sciocco ingegno con ostinata fatica può divenire uno de'
primi matematici ec. del mondo.
(5. Sett. 1821.)
Una perfetta immagine degl'ingegni possono
essere le complessioni. Chi nasce più robusto e meglio disposto, chi
meno. L'esercizio del corpo agguaglia il meno robusto, al più robusto
inesercitato. In parità d'esercizio, chi è nato debole non potrà
mai agguagliarsi a chi è nato robusto. Ma se a costui manca affatto
l'esercizio, egli, ancorchè nato il più robusto degli uomini,
sarà non solo uguale, ma inferiore al più debole degli uomini che
abbia fatto notabile esercizio. (Esempio dei Galli rispetto ai Romani. V. il
Dionigi del Mai lib.14. c.17-19. ed altri). [1634]Dal che segue che
l'esercizio assolutamente parlando è superiore alla natura, e principale
cagione della forza corporale. (La natura però avea dato all'uomo essenzialmente
l'occasione e la necessità di esercitare il suo corpo. Quindi l'esercizio
essendo figlio della natura, lo è anche il vigore e il ben essere che ne
deriva. Lasciando che le generazioni de' forti sono pure naturalmente forti,
siccome viceversa, benchè ancor qui si possa notare il gran potere
dell'esercizio.) Applicate queste considerazioni a qualsivoglia facoltà
mentale. Similmente ponno applicarsi alle altre facoltà corporali (o
sieno radicalmente naturali, o del tutto acquisite, ma bisognose di una
disposizione naturale) diverse dalla forza.
(5. Sett. 1821.)
Si potrebbe quasi dire che nell'uomo la sola
fisonomia è propriamente bella o brutta. Certo è ch'ella contiene
quasi tutto l'ideale della bellezza umana, e quasi tutta la differenza
essenziale che la nostra mente ritrova e sente fra la bellezza umana in quanto
bellezza, e tutti gli altri generi di bellezza. Un uomo o donna di viso decisamente
brutto non può mai parer bello, se non per libidine e stimoli sensuali.
Eccetto il caso molto frequente, che coll'assuefazione e col tempo ec. quel
viso che v'era parso brutto, vi paia bello o passabile. Viceversa una persona
di brutte forme e bel viso, potrà parer bella, forse anche non [1635]potrà
mai con pieno sentimento esser chiamata brutta.
Osserva che generalmente quando tu domandi:
la tal persona è bella o brutta? e quando tu o rispondendo, o spontaneamente
neghi o affermi ec. intendi sempre del viso, se altro non soggiungi, o
distingui.
(5. Sett. 1821.)
Un corpo, essendo composto, dimostra
l'esistenza di altre cose che lo compongano. Ma siccome tutte le parti o
sostanze materiali componenti la materia, sono altresì composti,
però bisogna necessariamente salire ad esseri che non sieno materia.
Così discorrono i Leibniziani per arrivare alle loro Monadi o Esseri
semplici e incorporei, (de' quali compongono i corpi) e quindi
all'Unità, ed al principio di tutte le cose. Or dico io. Arrivate fino
alla menoma parte o sostanza materiale, e ditemi se potete, le parti o sostanze
di cui questa si compone, non sono più materia, ma spirito. Arrivate
anche se potete, agli atomi o particelle indivisibili e senza parti. Saranno
sempre materia. Al di là non troverete mica lo spirito ma il nulla.
Affinate quanto volete l'idea della materia, non oltrepasserete mai la [1636]materia.
Componete quanto vi piace l'idea dello spirito, non ne farete mai nè
estensione, nè lunghezza ec. non ne farete mai della materia. Come si
può compor la materia di ciò che non è materia? Il corpo
non si può comporre di non corpi, come ciò che è di
ciò che non è: nè da questo si può progredire a
quello, o viceversa. - Ma finchè la materia è materia,
ell'è divisibile e composta. - Trovatemi dunque quel punto in cui ella
si compone di cose che non sono composte, cioè non sono materia. Non
v'è scala, gradazione, nè progressione che dal materiale porti
all'immateriale (come non v'è dall'esistenza al nulla). Fra questo e
quello v'è uno spazio immenso, ed a varcarlo v'abbisogna il salto (che
da' Leibniziani giustamente si nega in natura). Queste due nature sono affatto
separate e dissimili come il nulla da ciò che è; non hanno alcuna
relazione fra loro; il materiale non può comporsi dell'immateriale
più di quello che l'immateriale del materiale; e dall'esistenza della
materia (contro ciò che pensa Leibnizio) non si può argomentare
quella dello spirito più di quello che dall'esistenza dello spirito si potesse
argomentare quella della materia. V. Dutens, par.2. tutto il capo 1.
(5. Sett. 1821.)
[1637]Dal detto in altri pensieri
risulta che Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell'aspetto
che giudicava più conveniente. Non manifestarsi, come ai Gentili;
manifestarsi meno, e in forma alquanto diversa, come agli Ebrei; più,
come a' Cristiani: dal che non bisogna concludere ch'egli ci si è
manifestato tutto intero, come noi crediamo. Errore non insegnato dalla
Religione, ma da' pregiudizi che ci fanno credere assoluto ogni vero relativo.
La rivelazione poteva esserci e non esserci. Ella non è necessaria primordialmente,
ma stante le convenienze relative, originate dal semplice voler di Dio. Egli si
nascose a' Gentili, rivelossi alquanto agli Ebrei, manifestò al mondo
una maggior parte di se, nella pienezza de' tempi, cioè quando gli
uomini furono in istato di meglio comprenderlo. Egli si è rivelato
perchè ha voluto e l'ha stimato conveniente, e quanto e come e sotto la
forma che ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature:
forma sempre vera, perch'egli esiste in tutti i modi possibili.
Da ciò che si è detto della
legge pretesa naturale, risulta che non vi è bene nè [1638]male
assoluto di azioni; che queste non son buone o cattive fuorchè secondo
le convenienze, le quali sono stabilite, cioè determinate dal solo Dio,
ossia, come diciamo, dalla natura; che variando le circostanze, e quindi le
convenienze, varia ancor la morale, nè v'è legge alcuna scolpita
primordialmente ne' nostri cuori; che molto meno v'è una morale eterna e
preesistente alla natura delle cose, ma ch'ella dipende e consiste del tutto
nella volontà e nell'arbitrio di Dio padrone sì di stabilire
quelle determinate convenienze che voleva, sì di ordinare o proibire
espressamente agli esseri pensanti quello che gli piaccia, secondo gli ordini e
le convenienze da lui solo create; che Dio non ha quindi nè può
avere alcuna morale, il che non potrebb'essere, se non ammettendo le idee di
Platone indipendenti da Dio, e i modelli eterni e necessari delle cose; che la
morale per tanto è creata da lui, come tutto il resto, e ch'egli era
padrone di mutarla a tenore delle diverse circostanze del genere umano, siccome
è padrone di darne una tutta diversa, e anche contraria, o anche non darne
alcuna, a un diverso genere di esseri, sì dentro gli ordini noti delle
cose (come agli abitanti d'altri [1639]pianeti), sì in altri
sconosciuti, ed ugualmente possibili e verisimili. Da tutto ciò resta
spiegata la differenza fra la legge che corse prima di Mosè, quella di Mosè,
e quella di Cristo. Tutti dicono che il Cristianesimo ha perfezionata la
Morale. (Ciò stesso vuol dire ch'ella non è dunque innata.)
Mutiamo i termini. Non l'ha perfezionata, ma rinnovata, cioè
perfezionata solo relativamente allo stato in cui la società umana era
ridotta, e da cui (quanto al sostanziale) non poteva più tornare indietro,
come non ha fatto. Allora divenne conveniente la nuova morale, ossia la
legge di Cristo, legge che doveva essere perpetua per la detta ragione; legge
che ha fatto illecito realmente ciò che prima era lecito, e viceversa,
come agevolmente si può vedere confrontando i costumi naturali di
qualsivoglia o uomo isolato, o società, e degli Ebrei prima di
Mosè, con la legge contenuta nel Pentateuco, e questa e quelli con la
legge del Vangelo. Giacchè queste due leggi non si restringono di gran
lunga al Decalogo, il quale intanto è rimasto immutabile, in quanto contenendo
i primissimi [1640]elementi della morale, è perciò appunto
applicabile e conveniente a tutti i possibili stati della società umana,
che non può sussistere, senza una morale, e questa non può aver
fondamento vero se non in Dio. Però il Decalogo combina appresso a poco
colla sostanza e collo spirito delle leggi scritte di tutti i savi legislatori
antichissimi e modernissimi, e colle leggi praticate anche da' più rozzi
popoli, che pur compongano una società. L'uomo poteva esser fatto
diversamente, ma è fatto realmente in modo, che formando società
co' suoi simili, gli divien subito necessaria una legge il cui spirito sia
quello del Decalogo. Vale a dire che il Decalogo contiene i principii generali
delle convenienze delle azioni in una società umana, pel bene di essa.
Il generale contiene tutti i particolari: ma questi sono infiniti e
diversissimi. Le convenienze loro rispetto alle azioni, variano secondo gli
stati delle società, e della società in genere. L'antica legge
Ebraica permetteva il concubinato, fuorchè colle donne forestiere ec. L'odio
del nemico costituiva lo spirito delle antiche nazioni. Ecco le leggi di
Mosè tutte patriottiche, ecco santificate [1641]le invasioni, le
guerre contro i forestieri, proibite le nozze con loro, permesso anche l'odio
del nemico privato. E Gesù comandando l'amor del nemico, dice
formalmente che dà un precetto nuovo. Come ciò, se la morale
è eterna e necessaria? Come è male oggi, quel ch'era forse bene
ieri? Ma la morale non è altro che convenienza, e i tempi avevano
portato nuove convenienze. Questo discorso potrebbe infinitamente estendersi generalizzando
sullo stato del mondo antico e moderno, e sulla differente morale adattata a
questi diversi stati. L'uomo isolato non aveva bisogno di morale, e nessuna ne
ebbe infatti, essendo un sogno la legge naturale. Egli ebbe solo dei doveri
d'inclinazione verso se stesso, i soli doveri utili e convenienti nel suo
stato. Stretta la società, la morale fu convenienza, e Dio la diede
all'uomo appoco appoco, o piuttosto ora una ora un'altra, secondo i successivi
stati della società: e ciascuna di queste morali era ugualmente
perfetta, perchè conveniente; e perfetto è l'uomo isolato, senza
morale. La morale cristiana sarebbe stata imperfetta perchè sconveniente
per Abramo, [1642]e per Mosè. ec. Ciò che dicono i Teologi
delle azioni fatte lecite da un particolare impulso dello Spirito Santo, non
dimostra egli chiaro che la morale dipende da Dio (siccome la convenienza), e
che Dio non dipende punto dalla morale?
A me pare che il mio sistema appoggi il
Cristianesimo in luogo di scuoterlo; anzi che egli n'abbia bisogno, e in certo
modo lo supponga. Nè fuori del mio sistema si ponno facilmente accordare
le parti in apparenza discordantissime e contraddittorie della religione
Cristiana non solo quanto ai misteri, ma alla legge, alla storia successiva
della religione, ai dogmi d'ogni genere ec.
La fede nostra fa guerra alla ragione. Io
dimostro l'impotenza assoluta ed essenziale della ragione, non solo in
ordine alla felicità umana, al conservare ec. la società, allo
stabilire e mantenere una morale, ma alla stessa facoltà di ragionare e
concepire.
La pluralità de' mondi, quasi
fisicamente dimostrata, come si può accordare col Cristianesimo fuori
del mio sistema, il quale dimostra che le creature possono esser d'infinite specie,
e che Dio esistendo verso noi come la religione insegna, [1643]esiste
ancora in tutti i possibili modi, e può avere avuto ed avere con diversissime
creature, diversissimi e contrari rapporti, e non averne alcuno? Quante verità
fisiche, metafisiche ec. ripugnano alla religione, fuori del mio sistema che
nega ogni verità e falsità assoluta, ammettendo le relative, e in
queste la religione?
Il mio sistema abbracciando e ammettendo
quasi tutto il sistema dell'ateismo, negando tutti i sistemi ec. e pur facendone
risultare l'idea costante di Dio, religione, morale ec. mi par l'ultima e
decisiva prova della religione; o se non altro che non può per ragioni
esser dimostrata falsa quella rivelazione, che d'altronde avendo prove di
fatto, si deve tenere per vera, perchè il fatto nel mio sistema decide,
e la ragione non se gli può mai opporre.
Ma, se Dio è superiore alla morale,
se il buono o cattivo non esiste assolutamente ec. Dio non può egli
ingannarci in ciò che ci ha rivelato, promesso, minacciato ec.? - No,
perch'egli ci vieta d'ingannare. La legge ch'egli ci ha data, quel modo del suo
essere ch'egli ci ha [1644]manifestato, la maniera in cui l'ha fatto, i
rapporti che ha preso con noi, i doveri che ci ha prescritti verso lui, verso i
nostri simili, verso noi stessi, ciò che ci ha proibito, gl'insegnamenti
che ci ha dato, la verità che ci ha fatto amare, la natura in cui ci ha
formati, l'ordine di cose che ha stabilito, ec. decidono del modo in cui egli
deve portarsi verso noi, cioè ha voluto e vorrà portarsi, si
è portato e porterà. Altrimenti non sarebbero buoni i suoi rapporti
verso noi, e quindi egli non sarebbe buono o perfetto cioè conveniente
ed in intera armonia rispetto a noi, ed a quest'ordine di cose, che egli poteva
bene tutt'altrimenti costituire, ma ha costituito in questo tal modo in cui
l'ingannare è male. Il nostro modo, la nostra facoltà di
ragionare è giusta e capace del vero, quando si restringe all'ordine di
cose che noi conosciamo o possiamo conoscere, e che in qualche maniera ci appartiene,
ed alle cose che vi hanno rapporto, in quanto ve lo hanno. Io non distruggo
verun principio della ragione umana (nè in quanto alla morale, nè
a tutto il resto): [1645]solamente li converto di assoluti in relativi
al nostro ordine di cose ec. La Religion Cristiana, come ho già detto,
resta tutta quanta in piedi (restano quindi i suoi effetti, le sue promesse
ec.), non come assolutamente vera, e necessaria indipendentemente dalle cose
quali sono, e dal modo in cui sono ec. ma relativamente, e dipendentemente in
origine dall'arbitrio di chi potendo stabilire e ordinar la natura ben
altrimenti, o non istabilirla ec. la stabilì però, ed in questa
tal guisa ec. Sicchè quanto a noi, quanto agli effetti ec. la cosa
è tutt'una.
(5-7. Sett. 1821.)
Da che le cose sono, la possibilità
è primordialmente necessaria, e indipendente da checchè si
voglia. Da che nessuna verità o falsità, negazione o affermazione
è assoluta, com'io dimostro, tutte le cose son dunque possibili, ed
è quindi necessaria e preesistente al tutto l'infinita
possibilità. Ma questa non può esistere senza un potere il quale
possa fare che le cose sieno, e sieno in qualsivoglia modo possibile. Se esiste
l'infinita possibilità esiste l'infinita onnipotenza, perchè se
questa non esiste, quella non [1646]è vera. Viceversa non
può stare l'infinita onnipotenza senza l'infinita possibilità.
L'una e l'altra sono, possiamo dire, la stessa cosa. Se dunque è
necessaria l'infinita possibilità, preesistente al tutto, indipendente
da ogni cosa, da ogni idea ec. (ed infatti se non v'è ragione possibile
perchè una cosa sia impossibile, ed impossibile in un tal modo ec., la
infinita possibilità è assolutamente necessaria); lo è
dunque ancora l'onnipotenza. Ecco Dio: e la sua necessità dedotta
dall'esistenza, e la sua essenza riposta nell'infinita possibilità, e
quindi formata di tutte le possibili nature. ec. Questa idea non è che
abbozzata. V. la p.1623.
(5-7. Sett. 1821.)
Poniamo che la classe possidente o
benestante sia complessivamente alla classe povera o laboriosa ec. come
(7. Sett. 1821.)
[1648]Pare assurdo, ma è
vero che l'uomo forse il più soggetto a cadere nell'indifferenza e
nell'insensibilità (e quindi nella malvagità che deriva dalla
freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile, pieno di entusiasmo e
di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della sua
sensibilità ec.[14]
Massime s'egli è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore
non corrisponde, non porge alimento nè soggetto veruno all'interiore,
dove la virtù e l'eroismo sono spenti, e dove l'uomo di sentimento e
d'immaginazione e di entusiasmo è subito disingannato. La vita esteriore
degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi spiriti nel suo vortice arrivava
piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi esaurire. Oggi un uomo quale ho detto,
appunto per la sua straordinaria sensibilità, esaurisce la vita in un
momento. Fatto ciò, egli resta vuoto, disingannato profondamente e
stabilmente, perchè ha tutto profondamente e vivamente provato: non si
è fermato alla superficie, non si va affondando a poco a poco; è
andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come effettivamente
indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere, [1649]a sperimentare, a
sperare. Quindi è che si vedono gli spiriti mediocri, ed alcuni
sensibili e vivi sino a un certo segno, durar lungo tempo ed anche sempre,
nella loro sensibilità, suscettibili di affetto, capaci di cure e di
sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di esserlo, facili ad
aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa ec. (Essi
non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in
un'indifferenza, languore, freddezza, insensibilità mortale, e
irrimediabile: che produce un egoismo noncurante, una somma incapacità
di amare ec. La sensibilità e l'ardore dell'animo è così
fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti, consuma se stesso,
e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto al disotto della
magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra. Laddove la
mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco
alimento. Quindi è che le virtù grandi non sono pe' nostri
tempi. [1650]
(7. Sett. 1821.). Puoi vedere p.1653. fine.
Quanto l'immaginazione contribuisca alla
filosofia (ch'è pur sua nemica), e quanto sia vero che il gran poeta in
diverse circostanze avria potuto essere un gran filosofo, promotore di quella
ragione ch'è micidiale al genere da lui professato, e viceversa il
filosofo, gran poeta, osserviamo. Proprietà del vero poeta è la
facoltà e la vena delle similitudini. (Omero
n'è il più grande e fecondo modello). L'animo in entusiasmo, nel
caldo della passione qualunque ec. ec. discopre vivissime somiglianze fra le
cose. Un vigore anche passeggero del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa
vedere dei rapporti fra cose disparatissime, trovare dei paragoni, delle similitudini
astrusissime e ingegnosissime (o nel serio o nello scherzoso), gli mostra delle
relazioni a cui egli non aveva mai pensato, gli dà insomma una
facilità mirabile di ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle
specie le più distinte, come l'ideale col più puro materiale,
d'incorporare vivissimamente il pensiero il più astratto, di ridur tutto
ad immagine, e crearne delle più nuove e vive che si possa credere.
Nè ciò solo mediante espresse similitudini o paragoni, ma col
mezzo di epiteti nuovissimi, di metafore arditissime, di parole contenenti esse
sole una similitudine ec. Tutte facoltà del gran poeta, e tutte
contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle cose,
anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno
analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo: facoltà di scoprire e
conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare. (7
Sett. 1821.). V. [1651]p.1654. principio.
Qual cosa è più potente
nell'uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa
giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda, nè vive con se
stesso (se anche vivesse cogli altri) da vero filosofo; nè il religioso
da vero e perfetto religioso. Non v'è uomo così certo della
malizia delle donne ec. che non senta un'impressione dilettevole, e una vana speranza
all'aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza. (Meno
impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo avvezzo,
e questo sarà principalmente il caso dell'uomo di mondo, la cui anima
allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior
filosofo, non già per forza di ragione, ma di natura che ha dato
all'assuefazione la proprietà d'illanguidire e anche distruggere le
sensazioni. Massime se il filosofo non vi sarà assuefatto. Tanto
più egli sarà soggetto a peccare o coll'opera o col pensiero
contro i principii suoi.) Egli è sempre più o meno soggetto a ricadere
in tutte le stravagantissime illusioni dell'amore, ch'egli ha conosciuto
e sperimentato impossibile, immaginario, vano. Non v'è uomo così
profondamente persuaso della nullità delle [1652]cose, della certa
e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra all'allegrezza anche la
più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle speranze
le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna gli
sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una gioia della
quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla per far
credere immediatamente al più profondo e sperimentato filosofo, che il
mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno sguardo, un gesto di buona grazia
o di complimento che una persona anche di poca importanza faccia all'uomo il
più immerso nella disperazione della felicità, e nella
considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori. Non
parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e sparisce
la più radicata e invecchiata filosofia. Lascio ancora le passioni, che
se non altro, ne' loro accessi si ridono del più lungo e profondo abito
filosofico. Un menomo bene inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga,
ancorchè piccolissimo, basta a persuadere il filosofo che la vita umana
non è un niente. V. Corinne t.2. liv.14. ch.1. pag. ult. cioè
341. Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non ostante che
la religione, tenendo dell'illusione e quindi della natura, abbia tanta
più forza effettiva nell'uomo.
(8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)
[1653]Il fanciullo non può
contenere i suoi desideri, o difficilmente, secondo ch'egli è più
o meno assuefatto a soddisfarli. L'uomo difficilmente concepisce un desiderio
così vivo come il menomo de' fanciulli, e di tutti facilmente è padrone,
benchè certo non abbia cambiato natura, e la vita umana si componga
tutta di desiderii, e l'uomo (o l'animale) non possa vivere senza desiderare,
perchè non può vivere senz'amarsi, e questo amore essendo
infinito, non può esser mai pago. Tutto dunque è assuefazione
nell'uomo. Questa osservazione si può estendere a tutte le passioni e a
tutte le parti esteriori ed interiori dell'uomo, e della sua vita.
(8. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che il troppo produce il
nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, il pericolo presente
e inevitabile che dà una forza e tranquillità d'animo anche al
più vile, una disgrazia sicura e che non può fuggirsi ec. che non
producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la stupidità,
una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto dell'uomo
in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente: ed
un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante
ec. eccetto per un'aria di meditazione stupida, ed una fissazione di occhi in
qualsivoglia parte. Aggiungo [1654]ora che ciò non si deve
solamente restringere all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione
alla fortuna, insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità
e disperazione abituale ec. e puoi vedere la p.1648.
(8. Sett. 1821.)
Alla p.1650. fine. Io non veggo in questi
pretesi progressi, (dello spirito umano) da' quali tiriamo tanta
vanità, che una immensa catena, di cui alcuni indicarono il metallo;
altri, forse senza disegno, ne formarono gli anelli; I PIÙ ACCORTI
PERVENNERO FELICEMENTE A CONGIUNGERLI. La gloria, a dir vero, sembra esser
dovuta a questi: ma i primi ne hanno tutto il merito, o dovrebbero averlo, se
noi fossimo giusti. Dissertazione sopra i progressi delle arti del Sig.
Palissot de Montenoij (così trovo): pubblicata, credo, in Parigi, il
1756. Sta appiè del 1. tomo Dutens, aggiuntaci dal traduttor
francese: e nella traduzione italiana Venez. 1789. Tommaso Bettinelli. t.1.
p.209. Origine delle scoperte attribuite a' moderni del Sig. Lodovico
Dutens.
(8. Sett. 1821.)
[1655]L'uomo si addomestica alla
continua novità come alla uniformità, e allora l'oggetto nuovo
gli è tanto familiare, quanto un oggetto vecchio, e la novità in
genere gli è più familiare e ordinaria, che la uniformità.
ec.
(8. Sett. 1821.)
Il mio sistema introduce non solo uno
Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la
ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai
spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che
la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando;
ch'ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non
solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec.
v. Dutens, par.1. c.2. §.10.), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e
chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere.
(8. Sett. 1821.)
Alla pagina 1632. fine. Quanti, anche
profondissimi filosofi, furono o sono o saranno intimamente persuasi di proposizioni
affatto contrarie a quelle di cui altri tali filosofi ec. [1656]sono o
saranno o furono parimente persuasi fino alla supposta evidenza! E ciò
non solo nelle cose fisiche che dipendono dall'esperienza, ma nelle astratte
ec. ec. (8. Sett. 1821). Puoi vedere Corinne t.2. liv.14. c.1. p.335. V.
p.1690. fine.
Alla p.1113. verso il fine. Si può
notare che i verbi continuativi composti, cioè con preposizione o
comunque (come subvectare ec. ec.) ora sono continuativi di altri verbi
parimente composti (come di subvehere), ora sono immediatamente composti
dal continuativo semplice del verbo semplice.[15] E
quindi ora hanno il significato analogo al continuativo del semplice, e
modificato dalla preposizione ec. ora sono continuativi del significato del
verbo composto che serve loro di positivo. Talvolta, anzi bene spesso hanno
l'uno e l'altro significato. P.e. subjectare, ora vale gittar di
sotto in su come composto di sub e jactare; ed ora sottoporre,
metter sotto, come formato da subiectus di subiicere. V.
Forcellini. (Quindi il nostro suggettare, soggettare, assoggettare ec.
franc. assujettir, spagn. sujetar, i quali però hanno un
senso ignoto alla buona latinità, e [1657]stanno propriamente per
subiicere, perduto nelle nostre lingue, come gettare, jeter
ec. cioè jactare, per iacere, e così molti altri
continuativi.) Si trova anche in Corippo subjactare, millantare, che non
ha altro senso se non di sub e iactare, di cui è composto.
Del resto i detti continuativi composti possono 1. non avere nessun composto
che serva loro di positivo, o possa servire, 2. non avere nessun continuativo
del semplice, da cui possano derivare, come adlectare da adlicere,
non ha nessun continuativo del semplice lacere, da cui possa esser
composto ec. ec. ec. (8. Sett. 1821.). Quanto ho detto de' continuativi composti
si applichi pure ai frequentativi composti.
Tutto è materiale nella nostra mente
e facoltà. L'intelletto non potrebbe niente senza la favella,
perchè la parola è quasi il corpo dell'idea la più
astratta. Ella è infatti cosa materiale, e l'idea legata e immedesimata
nella parola, è quasi materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre
facoltà mentali, non possono, non ritengono, non concepiscono
esattamente nulla, se non riducendo ogni cosa a materia, in qualunque modo, ed
attaccandosi sempre alla materia quanto è possibile; e legando l'ideale
col sensibile; e notandone i rapporti più o meno lontani, e servendosi
di questi [1658]alla meglio.
(9. Sett. 1821.). V. p.1689. capoverso 2.
Piace nelle donne una certa virilità
non solo di corpo, anche d'animo, e parimente a causa dello straordinario.
Piace in esse anche la magnanimità, e questa piace pure, tanto alle
donne quanto agli uomini, negli uomini ancora; perchè anche in essi
è straordinaria, proporzionatamente parlando ec. Le sventure, le passioni,
la malinconia, i sacrifizi generosi, e più o meno eroici, ec. piacciono
pure in ambo i sessi e danno grazia ec. in parte per la compassione, ma in
parte anche per lo straordinario. Così le grandi virtù, o i
grandi vizi ec.
(9. Sett. 1821.)
L'assioma de' Leibniziani (se non erro) nihil
in natura fieri per saltum, quella gradazione continua con cui la natura assuefa
le cose a diversissimi stati, e nasconde il passaggio dall'inverno all'estate,
ec. ec. ec. del che parla Senofonte, tutto ciò non dimostra egli che
tutta la natura è un sistema di assuefazione? La gradazione importa
l'assuefazione, e viceversa.
(9. Sett. 1821.)
[1659]Alla p.1284. marg. - fine. Da
simili ragioni, nacque senza fallo la gran differenza che si scorge fra la
scrittura e la pronunzia delle lingue francese, inglese ec. Differenza chiamo
io, quando le lettere scritte si pronunziano tutto giorno diversamente dal
valore che è loro assegnato nel rispettivo alfabeto di ciascuna lingua,
(Empire, si pronunzia ampire. La e nell'alfabeto francese
è a o e? Perchè dunque scrivete e dovendo
pronunziare a?) quando si scrivono lettere che non si pronunziano (come
in Wieland); quando altre si omettono che si denno pronunziare. Questa
differenza è imperfezione somma nella scrittura di tali lingue.
L'italiana e la spagnuola sono in ciò le più perfette fra le
moderne, forse perchè furono coltivate prima delle altre, e passarono in
mano delle persone istruite, quando erano ancor molli, e prima che il modo di
scriverle fosse già determinato dall'uso quotidiano degl'ignoranti e
negligenti. L'ortografia italiana era molto imperfetta, com'è naturale,
ne' trecentisti, e nello stesso Dante, Petrarca ec. V. Perticari. Del resto era
ben naturale che le lingue moderne nate dalla corruzione e dall'ignoranza, e in
tempi d'ignoranza, non si sapessero scrivere; non si trovassero nè
sapessero applicare i segni; [1660]si confondessero i suoni e i segni
antichi co' moderni; si seguitasse il costume di scrivere le parole in quel tal
modo come si scrivevano anticamente, benchè la pronunzia fosse cambiata,
e la forma di esse ec.; si pigliasse in prestanza l'ortografia degli antichi
ne' luoghi e ne' casi alquanto dubbi ec. (come notano infatti degl'italiani che
non essendo ben formata l'ortografia nostra massime nel 400. e ne' principii
del 500, si serviano della latina, e scrivevano p.e. et pronunziando e,
vulgare, letitia ec. ec. così mi pare che osservi il
Salviati) e tutto ciò producesse le imperfezioni che si trovano nelle
ortografie straniere.
(9. Sett. 1821.). V. p.1945. e 2458.
Quanto l'uomo sia solito a giudicar di tutto
assolutamente, e quanto perciò s'inganni, vediamolo in cose ordinarie.
Il giovane deride, accusa, non concepisce, condanna i gusti, i pareri, i
costumi, i desiderii ec. del vecchio, e viceversa. Tutti due s'ingannano, e nel
fatto loro hanno piena ragione. Così dico di chi è appassionato,
e di chi non lo è; di chi si trova in un tal caso, e di chi non vi si
trova. S'io fossi ne' suoi panni farei certo o non farei così: non
comprendo come [1661]egli possa portarsi altrimenti. Se foste
ne' suoi panni, lo comprendereste. Tutto giorno ci par facilissimo, verissimo
ec. quel ch'è impossibile, falsissimo ec. per chi si trova nel caso. A
chi consiglia non duole il capo (Crusca) dice il proverbio, e fa molto al
proposito.
(9. Sett. 1821.)
Il talento non è altro che
facoltà d'imparare, cioè di attendere, e di assuefarsi. Per
imparare intendo anche le facoltà d'inventare, di pensare, di sentire,
di giudicare ec. Nessuno impara le sue proprie invenzioni, pensieri,
sentimenti, o i giudizi particolari ch'egli porta, ma impara a farlo, e non lo
può fare se non l'ha imparato, e se non ha acquistato con maggiore o
minore esercizio e copia di sensazioni, cioè di esperienze, queste tali
facoltà, che paiono affatto innate, e sono realmente acquisite
più o meno facilmente. La nostra mente in origine non ha altro che
maggiore [1662]o minor delicatezza e suscettibilità di organi,
cioè facilità di essere in diversi modi affetta, capacità,
e adattabilità, o a tutti o a qualche determinato genere di apprensioni,
di assuefazioni, concezioni, attenzioni. Questa non è propriamente
facoltà, ma semplice disposizione. Nella mente nostra non esiste originariamente
nessuna facoltà, neppur quella di ricordarsi. Bensì ell'è
disposta in maniera che le acquista, alcune più presto, alcune
più tardi, mediante l'esercizio; ed in alcuni ne acquista (gli
altri dicono sviluppa) più, in altri meno, in alcuni meglio, in
altri imperfettamente, in alcuni più, in altri meno facilmente, in
alcuni così, in altri così modificate, secondo le circostanze,
che diversificano quasi i generi di una stessa facoltà. Come una persona
di corporatura sveltissima ed agilissima, è dispostissima al ballo. Non
però ha la facoltà del ballo, se non l'impara, ma solo una
disposizione a poterlo facilmente e perfettamente imparare ed eseguire.
Così dico di tutte le altre facoltà ed abilità materiali.
Nelle quali ancora, oltre la disposizione [1663]felice del corpo, giova
ancora quella della mente, e la facoltà acquisita di attendere, di
assuefarsi e d'imparare. Senza cui, gli organi esteriori i meglio disposti alla
tale o tale abilità, stentano bene spesso non poco ad apprenderla, e conservarla.
(10. Sett. 1821.)
Una leggera stonazione in una musica non
è capita dal volgo, come il fanciullo non capisce i piccoli difetti
della forma umana, e talora nemmeno i gravi. In una musica alquanto astrusa,
cioè per poco che gli accordi sieno inusitati, egli non capisce neppure
le grandi stonazioni, e così proporzionatamente accade alle persone
polite, e talvolta anche alle intendenti.
(10. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che bisogna distinguere
nella musica l'effetto dell'armonia, da quelli del suono che non hanno a fare
col bello, come non vi ha che fare il colore per se stesso, non trattandosi di
convenienza. Ho detto che quello che ha di singolare l'effetto della musica
sull'animo, appartiene in massima [1664]parte al puro suono. Infatti
qual differenza fra l'effetto di un suono, di uno strumento dolce, penetrante,
ec. ed un altro ruvido, non penetrante ec. Analizzate bene l'effetto della
musica sul vostro cuore, e vedrete che l'effetto suo singolare deriva
precisamente dalla natura del suono e varia secondo le di lui differenze. L'armonia,
la melodia la più melodiosa, o armonica, eseguita su d'uno strumento
vile, ec. in suoni rozzi ec. non vi tocca non vi muove, non v'innalza punto. Ho
conosciuto una persona che passava e si teneva essa stessa per inarmonica, non
essendo nè commossa nè dilettata da quasi veruna musica.
Frattanto egli notava che una stessa armonia eseguita in certi tali strumenti
lo toccava vivamente, in altri niente affatto. Egli amava molto, e provava
tutti gli effetti della musica, quando udiva suoni forti, di gran voce,
strumenti arditi, orchestre numerose, e strepitose. Quest'era dunque una
particolare disposizione de' suoi organi, inclinati a que' tali suoni, che lo
dilettavano: ovvero una rozzezza o poca delicatezza, bisognosa di suoni forti
per essere scossa. Questo diletto era dunque [1665]nella sostanza dipendente
dal suono, e indipendente dall'accordo, dall'armonia, e quindi dal bello. Il
suono dà piacere all'uomo, perchè la natura gli ha dato, o ha
dato a noi (e ad altri animali) questa proprietà. Così i cibi
dolci, i colori vivi ec. Tutto ciò non appartiene al bello, non essendo
convenienza. V. p.1721. capoverso 2.
Una notabile sorgente di piacere nella
musica è pur l'espressione, la significazione, l'imitazione. Questo
neppure spetta al bello, come ho detto in proposito della fisonomia umana. Or
questo è di tanto rilievo, che una musica non significante non diletta
se non gl'intendenti, i quali si fanno mediante l'assuefazione, de' particolari
generi e fonti di piacere. E se l'uomo udendo una musica espressiva o no, non
l'applica seco stesso a qualche significazione, o se l'applica ad una significazione
che non le conviene, egli ne proverà o nessun diletto, o minore proporzionatamente.
Questo è costante e universale. E però gli animi non [1666]sensibili
poco son dilettati dalla musica. Tanto è vero che il di lei singolare
effetto non deriva dall'armonia in quanto armonia, ma da cagioni estranee alla
essenza dell'armonia, e quindi alla teoria della convenienza, e del bello.
(10. Sett. 1821.)
Si dice tutto giorno, aria di viso,
fisonomia ec. e la tal aria è bella, la tale no, e aria truce,
dolce, rozza, gentile ec. ec. In maniera che bene spesso non trovando difetto
in nessuno de' lineamenti, o non trovandovi pregio, si trovano però difetti
o pregi, bellezza o bruttezza nell'aria del viso. Non è questa
una prova che il bello o brutto della fisonomia, non dipende nella principal
parte dalla convenienza, ma dalla significazione, e quindi non è
propriamente bellezza nè bruttezza? Notate anche il nome di aria
che si è dato a questa significazione generale di una fisonomia,
appunto perch'ella consistendo in sottilissimi rapporti colle qualità
non materiali dell'uomo, è una cosa impossibile a determinarsi, e quasi
aerea. [1667]Ond'è che i giudizi differiscono intorno alla
bellezza umana forse più che a qualunque altra, quando parrebbe che
dovesse accadere l'opposto. Aria ec. si applica anche alle fisonomie
non umane.
(10. Sett. 1821.)
Vedi tu un uomo o una donna? A qual parte
corri subito? al viso, massime s'è di diverso sesso. T'è nascosto
il viso, e il personale o altro, ti par bello, o ti muove a curiosità di
conoscerla? tu non sei contento se non la miri in viso. Vedutolo, ti par
brutto? tu cangi subito il giudizio, e il senso, e mentr'ella ti parve bella,
ora ti par brutta. Ti parve brutta, e il viso ti par bello? nel tuo giudizio
ell'è divenuta bella. Tu non dici nè pensi di conoscere di veduta
una persona se tu non l'hai veduta in viso. Non così ti accade rispetto
agli animali. Tu non provi nessuno dei detti effetti. Tu non osservi che il corpo,
perchè nelle diverse fisonomie di una stessa specie, non trovi differenze.
Tu dici di conoscere un cavallo, se anche non l'hai [1668]veduto o
almeno osservato nel muso. Se n'hai visto il solo muso, non dici nè
pensi di conoscerlo, laddove tu pensi di conoscere una persona di cui non hai
visto o almeno osservato che il viso, come spesso accade. Un animale dipinto in
maniera che il muso non si veda, ti pare intero. Non così una persona.
Tanto è vero che per l'uomo la parte principale della forma umana
è la fisonomia.
(10. Sett. 1821.)
I contadini, e tutte le nazioni meno
civilizzate, massime le meridionali, amano e sono dilettate soprattutto da'
colori vivi. Al contrario le nazioni civili, perchè la civiltà
che tutto indebolisce, mette in uso e in pregio i colori smorti ec. Questo si
chiama buon gusto. Perchè? come dunque si suppone che il buon gusto
abbia norme e modelli costanti, e invariabili? s'egli ci allontana dalla
natura, in che altra cosa stabile faremo noi consistere questo tipo, questa norma?
Non è questa oltracciò una prova che tutto è relativo, e
dipende dall'assuefazione, e circostanze, [1669]anche i piaceri, i gusti
ec. che paiono i più naturali, e spontanei? giacchè l'uomo
polito, senza bisogno di alcuna riflessione, si ride di un villano che stima
far gran figura col suo gilet di scarlatto, e degli altri villani o
villane che l'ammirano. E pure che ragione naturale v'è di riderne? Le
stesse nostre classi colte pochi anni sono, quando erano meno o civilizzate o
corrotte, avevano lo stesso gusto de' nostri villani, ma in assai maggior
grado. Ora i colori amaranto, barbacosacco, napoleone, ed altri simili mezzi
colori sono di moda, e questo effetto si attribuisce a piccole cagioni, ma in
vero egli tiene alla natura generale dell'incivilimento.
(10. Sett. 1821.)
La detta osservazione è anche una
prova dell'indebolimento che è sempre e in tutti i sensi compagno ed
effetto della civiltà.
(10. Sett. 1821.)
Il vedere che altri prova in nostra presenza
un gusto vivo, ci è sempre grave, e ci rende odiosa quella persona. E
perciò è prudenza e creanza il non dimostrare in presenza [1670]altrui
di provare un piacere, o il portarsi con una disinvoltura che mostri di non
curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E v. un mio pensiero sul far
carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume degl'inglesi che ho notato
in questo proposito. Cosa spiacevolissima anche tra noi, e che m'è
avvenuto di sentir condannare come insopportabile in due sposi che si facevano
grandi carezze in presenza d'altri. Tanto è vero che l'uomo odia
naturalmente l'uomo. Eccetto se quel gusto che ho detto è stato procacciato
a quella persona da noi stessi volontariamente, nel qual caso egli
ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec. insomma ne
partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co' superiori
(meno cogl'inferiori, co' fanciulli ec.); ma cogli eguali soprattutto, e cogli
amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con questi si esercita
principalmente l'invidia, e si sente al vivo l'inferiorità nostra ec. in
qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più
generale, che si stende su tutta la loro persona, [1671]condizione ec. e
discende meno, o è meno sensibile alle cose particolari, tanto
più che non si può entrare con essi in competenza di desiderii
ec. Parimente riguardo agl'inferiori, bisogna che i loro vantaggi o piaceri
siano d'un alto grado (nel qual caso l'odio è maggiore verso loro che
verso qualunque altro) perchè arrivino a pungere il nostro amor proprio,
e la nostra gelosia ec. Nondimeno è vero che sempre se ne prova qualche
disgusto.
(11. Sett. 1821.)
Le teorie delle quali i romantici han fatto
tanto romore a' nostri giorni, avrebbero dovuto restringersi a provare che non
c'è bello assoluto, nè quindi buon gusto stabile, e norma
universale di esso per tutti i tempi e popoli; ch'esso varia secondo gli uni e
gli altri, e che però il buon gusto, e quindi la poesia, le arti,
l'eloquenza ec. de' tempi nostri, non denno esser quelle stesse degli antichi,
nè quelle della Germania, le stesse che le francesi; che le regole
assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti,
hanno ricusato o male interpretato [1672]il giudizio e il modello della
stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la smania di
essere originali (qualità che bisogna bene avere ma non cercare) gli ha
precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in filosofia,
ne' principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche della natura
generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di qualsivoglia
genere. - Il primo poema regolare venuto in luce in Europa dopo il
risorgimento, dice il Sismondi, è la Lusiade (pubblicata un anno avanti
la Gerusalemme). Questo è detto abusivamente: per regolare, non si
può intendere se non simile a' poemi d'Omero e di Virgilio. Regolare non
è assolutamente nessun poema. Tanto è regolare il Furioso, quanto
il Goffredo. L'uno potrà dirsi esclusivamente epico, l'altro romanzesco.
Ma in quanto poemi tutti due sono ugualmente regolari; e lo sono e lo sarebbero
parimente altri poemi di forme affatto diverse, purchè si contenessero
ne' confini della natura. I generi ponno essere infiniti, e ciascun genere, [1673]da
che è genere, è regolare, fosse anche composto di un solo
individuo. Un individuo non può essere irregolare se non rispetto
al suo genere o specie. Quando egli forma genere, non si dà
irregolarità per lui. Anche dentro uno stesso genere (come l'epico) si
danno mille specie, ed anche mille differenze di forme individuali. Qual
divario dall'Iliade all'Odissea, dall'una e l'altra all'Eneide. Pur tutti
questi si chiamano poemi epici, e potrebbero anche non chiamarsi. Anzi si
potrebbe dire che se l'Iliade è poema epico, l'Eneide non lo è, o
viceversa. Tutto è quistione di nomi, e le regole non dipendono se non
dal modo in cui la cosa è: non esistono prima della cosa, ma nascono con
lei, o da lei.
(11. Sett. 1821.)
L'uomo inesperto del mondo, come il giovane
ec. sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, dov'egli non
abbia alcuna colpa, non pensa neppure che ciò debba essere agli altri,
oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo, [1674]di odiarlo,
di schernirlo. Anzi se egli concepisce verun pensiero intorno agli altri,
relativamente alla sua disgrazia, non se ne promette altro che compassione, ed
anche premura, o almen desiderio di giovarlo; insomma non li considera se non
come oggetti di consolazione e di speranza per lui; tanto che talvolta arriva
per questa parte a godere in certo modo della sua sventura. Tale è il
dettame della natura. Quanto è diverso il fatto! Anche le persone le
più sperimentate, ne' primi momenti di una disgrazia, sono soggette a
cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e lontana. Non
par possibile all'uomo che una sventura non meritata gli debba nuocere presso i
suoi simili, nell'opinione, nell'affetto, ec. ma egli tien per fermissimo tutto
l'opposto; e s'egli è inesperto non si guarda di nascondere agli altri
(potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla: laddove la
principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar mai di
esser [1675]disgraziato, o di avere alcuno svantaggio rispetto agli
altri ec.
Parimente l'uomo inesperto (ed anche lo
sperimentato, nella ebbrezza della gioia) sopravvenuto da qualche fortuna, ed
acquistato qualche vantaggio, crede fermamente che tutti, e massime gli amici e
i conoscenti debbano rallegrarsene di tutto cuore, e neppur sospetta che ne
l'abbiano a odiare, ch'egli sia per perderne l'amicizia di questo o di quello,
che gli stessi amici più cari, debbano o tentar mille vie di spogliarlo
del suo nuovo vantaggio, screditarlo ec. o almeno desiderar di farlo, proccurar
di scemare presso lui, presso loro stessi, e presso gli altri l'idea e il
pregio della sua nuova fortuna ec. Tutto ciò, accadendo, come inevitabilmente
accade, gli riesce maraviglioso.
(11. Sett. 1821.)
Scire nostrum est reminisci dicono i
Platonici. Male nel loro intendimento, cioè che l'anima non faccia che
ricordarsi di [1676]ciò che seppe innanzi di unirsi al corpo.
Benissimo però può applicarsi al nostro sistema, e di Locke. Perchè
infatti l'uomo, (e l'animale) niente sapendo per natura ec. tanto sa, quanto si
ricorda, cioè quanto ha imparato mediante le esperienze de' sensi. Si
può dire che la memoria sia l'unica fonte del sapere, ch'ella sia
legata, e quasi costituisca tutte le nostre cognizioni ed abilità
materiali o mentali, e che senza memoria l'uomo non saprebbe nulla, e non
saprebbe far nulla. E siccome ho detto che la memoria non è altro che
assuefazione, nasce (benchè prestissimo) da lei, ed è contenuta
in lei, così vicendevolmente può dirsi ch'ella contiene tutte le
assuefazioni, ed è il fondamento di tutte, vale a dire d'ogni nostra
scienza e attitudine. Anche le materiali sono legate in gran parte colla memoria.
Insomma siccome la memoria è essenzialmente assuefazione dell'intelletto,
così può dirsi che tutte le assuefazioni dell'animale sieno quasi
memorie proprie de' respettivi organi che si assuefanno.
(11. Sett. 1821.). V. p.1697. principio.
[1677]I dolori negli uomini
naturali sono vivissimi, come si vede dagli atti e dalle azioni ch'essi
ispirano, e ispiravano agli antichi. Nondimeno si vede e si ammira negli uomini
di campagna una somma difficoltà (non solo di conservare lungo tempo il
dolore, che questa è propria naturalmente delle passioni veementissime)
ma anche di concepirlo, e sentirlo vivamente, e togliersi dal loro stato di
abituale insensibilità. Preparano i funerali delle loro mogli o figli,
gli accompagnano alla chiesa, assistono alla loro sepoltura, ridono un momento
dopo, ne parlano con indifferenza, di rado spargono qualche lacrima,
benchè se il dolore talvolta li coglie, esso sia tale qual dev'essere in
persone poco lontane dalla natura. Nè solo gli uomini di campagna, ma
tutti coloro che appartengono alle classi indigenti o laboriose ec. dimostrano
gli stessi effetti. Ciò manifesta la misericordia della natura, e
dimostra che ella ha sibbene dato agli uomini naturali, vivissimi e frequentissimi
e facilissimi piaceri, ma contuttochè gli abbia resi conseguentemente soggetti
alla veemenza straordinaria [1678]del dolore, non però, come
parrebbe che dovesse essere, gli ha assoggettati alla frequenza, nemmeno di un
dolor moderato, e quale si prova sì spesso dagli uomini civili. Parte la
rozzezza del loro cuore, e il nessuno sviluppo (o piuttosto analoga
modificazione) delle facoltà produttrici del dolore, della
sensibilità ec.; parte la continua e viva distrazione prodotta nell'uomo
naturale da' bisogni, dalle fatiche, ec. ec. l'assuefazione a certe sofferenze
ec. li preserva dalla facilità di addolorarsi, gli addomestica alle
disgrazie della vita, li rende più disposti a godere che a soffrire,
facili a dimenticare il male, incapaci di sentirlo profondamente, se non di
rado ec. Anche gli uomini civili, abitualmente, o straordinariamente
occupatissimi, sono nello stesso caso. Così pure gli uomini avvezzi alle
disgrazie ec. ec.
(11. Sett. 1821.)
È noto che anticamente il dittongo ae
de' latini scrivevasi e pronunziavasi alla greca ai (v. i gramatici.) Or
questa pronunzia e scrittura antichissima l'italiano la conserva [1679]anche
oggi nel latino vae, greco , ch'egli
scrive e pronunzia guai, mutato il v in gu, come in guado,
guastare, da vadum vastare. ec. I nostri contadini in alcune parti
d'Italia dicono golpe, (v. Monti, Proposta ec. in Golpe, dove
senza bisogno lo deriva dal francese) golo, sguelto, guerro per volpe,
volo, svelto, verro (porco non castrato, verres) ec. ec. E viceversa
vardare, valchiera per guardare, gualchiera ec. Noi diciamo vizzo
e guizzo. (Crusca.) I nostri antichi diceano vivore per vigore.
(Crusca.) Il déguiser franc. è corruzione di déviser (v.
la Crusca in Divisato: svisare è pur lo stesso, in rigore
d'etimologia.) Non parlo della pronunzia del w inglese ec. ec. ec.
(12. Sett. 1821.)
L'italiano il francese lo spagnuolo i quali
parlano (massime l'italiano) poco differentemente da quello che parlavano i
latini, non perciò scrivono come i latini scrivevano. Vale a dire che
delle due lingue Romane distinte da Cicerone, la rustica è sopravvissuta
alla colta, l'una vive alterata, l'altra è morta del tutto. Tanta
è la tenacità del popolo, tanta la difficoltà di
conservare e [1680]perpetuare quello a cui la moltitudine non partecipa.
Questo però per le mutazioni de' tempi per la barbarie, per la
dimenticanza del buono scrivere ec. quello, non solo si conservò per la
tenacissima natura del popolo, malgrado le tante vicende delle nazioni, influenze
e inondazioni di forestieri ec. ma s'introdusse anche, e resta in luogo del
latino scritto. E il ridurre a letteratura la lingua italiana ec. fu in certo
modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta l'altra
letteratura del latino colto. E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e 500. per
ravvivare questa seconda, (e ciò tanto in Italia che altrove) ella
s'è perduta, e l'altra s'è propagata, accresciuta, e vive.
(12. Sett. 1821.)
La stessa nostra ragione è una
facoltà acquisita. Il bambino che nasce non è ragionevole: il
selvaggio lo è meno dell'incivilito, l'ignorante meno dell'istruito:
cioè ha effettivamente minor facoltà di ragionare, tira
più difficilmente la conseguenza, e più difficilmente e
oscuramente vede il rapporto fra le parti del sillogismo il più chiaro.
Vale a [1681]dire che non solo un'ignoranza particolare gl'impedisce di
vedere o capire questo o quello, ma egli ha una minor forza generale di raziocinio,
meno abitudine e quindi meno facilità e capacità di ragionare, e
quindi meno ragione. Giacchè non solo egli non comprende questa o quella
parte di un sillogismo, ma anche comprendendole a perfezione tutte tre, (o le
due premesse) separatamente, non ne vede il rapporto, e non conosce come la
conseguenza ne dipenda, ancorchè il sillogismo gli venga formalmente
fatto. La qual cosa non si può insegnare. Or questa è reale inferiorità
ed incapacità di ragione. V. p.1752. principio. Di questo genere sono
quelle teste che si chiamano dure e storte, e da queste cause viene la rarità
di quel senso che si chiama comune. Notate ch'io dico facoltà e non
disposizione. Distinsi altrove l'una dall'altra. La mente umana ha una
disposizione (ma per se stessa infruttuosa) a ragionare: essa per se non
è ragione, come ho spiegato in altro proposito con esempi; e questa
disposizione originariamente e riguardo al puro intelletto è tale che
anche quanto ad essa l'uomo primitivo affatto inesperto è poco o
nulla superiore all'animale. Gli organi suoi esteriori ec. che gli producono in
pochi momenti un numero di esperienze decuplo di quello che gli altri animali
si possano proccurare, lo mettono ben presto al di sopra degli altri viventi.
L'esperienze [1682]riunite di tutta una vita, poi quelle di molti
uomini, e poi di molti tempi unite insieme, onde nasce la favella, e quindi
gl'insegnamenti ec. ec. hanno messo il genere umano in lunghissimo tempo, e
mettono giornalmente il fanciullo in brevissimo tempo assai di sopra a tutti
gli animali, e gli danno la facoltà della ragione. L'uomo
primitivo in età di sett'anni non era già ragionevole, come oggi
il fanciullo. Ne sa più il bambino che balbetta; ragiona meglio,
è più ragionevole, di quello che fosse l'uomo primitivo in
età di vent'anni ec. ec. ec. Questo si può confermare coll'esempio
de' selvaggi, i quali hanno pur tuttavia molta e già vecchia
società.
(12. Sett. 1821.)
La stessa adattabilità e
conformabilità che ho detto esser singolare nell'uomo, non è
propriamente innata ma acquisita. Essa è il frutto dell'assuefazione
generale, che lo rende appoco appoco più o meno adattabile ed
assuefabile. Di lei non esiste originariamente nell'uomo, che una disposizione,
la quale non è già lei. L'uomo stenta moltissimo da principio ad
assuefarsi, a prender [1683]questa o quella forma, poi mediante
l'assuefazione di farlo, appoco appoco se lo facilita. Ciò si può
vedere ne' caratteri sociali. L'uomo che poco o nulla ha trattato, o da gran
tempo non suol trattare, stenta moltissimo, anzi non sa punto accomodarsi al
carattere, al temperamento, al gusto, al costume diverso delle persone, de' luoghi,
de' tempi, delle occasioni. Egli non è dunque punto socievole. Viceversa
accade all'uomo solito a praticare cogli uomini. Egli si adatta subito al
carattere il più nuovo ec. L'assuefazione deriva dall'assuefazione. La
facoltà di assuefarsi, dall'essersi assuefatto.
(12. Sett. 1821.)
Perciò appunto che la lingua francese
non ammette se non il suo proprio (unico) stile, esso è ammissibile (non
però senza guastarlo, quando si faccia senza giudizio), o certo
più universalmente facile ad essere ammesso in tutte le lingue, che
qualunque altro. Perch'ella è incapace di traduzioni, ella è
più facilmente di qualunque altra, traducibile in tutte le lingue colte.
Viceversa per le contrarie ragioni [1684]accade proporzionatamente alle
altre lingue, e sopra tutte le moderne all'italiana, perch'ella sovrasta a
tutte nella moltiplicità degli stili, e capacità di traduzioni.
Le altre lingue contengono in certo modo lo stile francese, come un genere, il
qual genere nella lingua francese è tutto. Vero è che in questo
tal genere ella primeggia di gran lunga su tutte le antiche e moderne.
Sviluppate e dichiarate questo pensiero: ed osservate che infatti le bellezze
le più minute della lingua francese si ponno facilmente rendere; e com'ella
abbia corrotto facilmente quasi tutte le lingue d'Europa, ed insinuatavisi;
laddove ella (quale ora e ridotta) non sarebbe stata certo corrompibile da
niun'altra, nemmeno in qualsivoglia circostanza si possa immaginare.
(12. Sett. 1821.)
Piace naturalmente ed universalmente (anche
a' vecchi) la vivacità della fisonomia, moti, espressioni, stile,
costumi, maniere ec. ec. Che vuol dir ciò? Viene in parte dallo
straordinario, ma nella parte principale questo piacere è indipendente
dal bello: egli viene in ultima analisi da una inclinazione (innata) della
natura [1685]alla vita, ed odio della morte, e quindi della noia,
dell'inattività, e di ciò che l'esprime, come la melensaggine.
Inclinazione ed odio che si manifesta in mille altre parti della vita umana,
anzi in tutto l'uomo, anzi in tutta la natura. Bensì ella pur varia
nelle proporzioni, secondo i temperamenti, le circostanze, ec. e sarà
piacevole, e (come dicono) bella per costui una vivacità che sarà
brutta per colui, bella oggi, brutta domani, bella per una nazione, brutta per
un'altra ec. ec. ec.
(12. Sett. 1821.)
La perfezione del Cristianesimo mette in
pregio la solitudine e il tenersi lontano dagli affari del mondo per fuggire le
tentazioni. - Vale a dire per non far male a' suoi simili. - Bel mezzo di non
far male, quello di non fare alcun bene. Che utile può seguire da
ciò? - Ma non si tratta solo di evitare il danno de' suoi simili. Il Cristiano
fugge il mondo per non peccare in se stesso o contro se stesso, cioè
contro Dio. - Ecco quello ch'io dico, che il Cristianesimo surrogando un altro
mondo al presente, [1686]ed ai nostri simili, ed a noi stessi un terzo
ente, cioè Dio, viene nella sua perfezione, cioè nel suo vero
spirito a distruggere il mondo, la vita stessa individuale, (giacchè
neppur l'individuo è lo scopo di se stesso) e soprattutto la
società, di cui a prima vista egli sembra il maggior legame e garante.
Che vantaggio può venire alla società, e come può ella
sussistere, se l'individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per
non peccare? impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe
il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa, come una
cosa dannosa, di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo la necessità
di usarne, e desiderando esserne presto sgravato. Non è questa una
specie di egoismo? simile a quello di quei filosofi (e son molti) che disperando
di poter far bene al mondo, si contentano del ritiro, e di praticare la
virtù verso se stessi. Da che la perfezione del Cristiano è
relativa a se stesso, (e tale ella è nel vero ed intero spirito del
Cristianesimo), da che l'esser perfetto include la [1687]fuga delle
tentazioni, vale a dire del mondo, da che per conseguenza il ritiro è il
più perfetto stato dell'uomo, il Cristianesimo è distruttivo
della società. Non può infatti essere relativa al bene della
società la perfezion di una religione, che loda il celibato, il che dimostra
ch'ella ripone la perfezion dell'uomo in una cosa affatto indipendente dalla
società (anche de' più cari), e fuori al tutto di essa; in un
tipo astratto che non ha niente affare col diriggere le mire dell'individuo al
vantaggio comune. Una tal religione doveva anche necessariamente lodare la
solitudine, e l'uomo secondo essa, doveva (com'è infatti) esser tanto
più perfetto quanto meno partecipasse delle cose umane e colle opere e
co' pensieri: giacchè il perfetto Cristiano non è perfetto che in
se stesso. Si vede da ciò, che il Cristianesimo non ha trovato altro
mezzo di corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar come un nulla
anzi un male, e indirizzando la mira dell'uomo perfetto, fuori di essa, ad un
tipo di perfezione indipendente da lei, a cose [1688]di natura affatto
diversa da quella delle cose nostre e dell'uomo.
(13. Sett. 1821.)
Le immaginazioni calde (come son quelle de'
fanciulli più o meno) in forza della somma tendenza dell'animale a' suoi
simili, trovano da per tutto delle forme simili alle umane. Ma notate che
sebbene si troverebbe facilmente maggiore analogia fra le altre parti dell'uomo
e i diversi oggetti materiali, che fra questi e la fisonomia umana, nondimeno
l'immaginazione trova sempre in essi oggetti, maggiore analogia col volto
dell'uomo che colle altre parti, anzi a queste neppur pensa. V. il mio discorso
sui romantici. Tanto è vero che la principal parte dell'uomo riguardo
all'uomo è il volto.
(13. Sett. 1821.)
Si parla tuttogiorno di convenienze. E si
crede ch'elle sieno fisse, universali, invariabili, e su di loro si fonda tutto
il buon gusto. Or quante cose che sono convenienti, e quindi belle, e quindi di
buon gusto in Italia, non lo sono in Francia, ne' costumi, nel tratto, nello
scrivere, nel teatro, nell'eloquenza, nella poesia ec. Dante non è egli
un [1689]mostro per li francesi nelle sue più belle parti; un Dio
per noi? Così discorrete, e su questo esempio ragionate di tutte le
possibili convenienze in ordine al confronto delle idee che noi o altre nazioni
ne hanno, con quelle che ne hanno i francesi.
(13. Sett. 1821.)
A ciò che ho detto altrove che la
semplicità è relativa, aggiungete che oggi per esempio sarebbe
bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de' nostri trecentisti,
ancorchè inaffettato, e composto di voci e frasi niente anticate. La
semplicità d'oggi è diversissima da quella d'allora, e di un
grado molto minore. Cosa che non s'intende da coloro che raccomandano
l'imitazione degli antichi.
(13. Sett. 1821.)
Alla p.1658. principio. A questa
osservazione si può riferire l'utilità de' versi per ritenere le
cose a memoria ec. Osservate ancora. I suoni son cose materiali, ma poco
materiali in quanto suoni, e tengono quasi dello spirito, perchè non cadono
sotto altro senso che dell'udito, impercettibili alla vista e al tatto, che sono
i sensi più materiali dell'uomo. Se per tanto ad uno che non sappia [1690]di
musica, o non ne sappia abbastanza, tu vorrai dare ad intendere il meccanismo
di un'aria, l'analisi, le differenze, le gradazioni de' suoi tuoni mediante il
solo udito, difficilmente riuscirai. Ma facendogliela quasi vedere sul
piano-forte (o scritta ec.) e materializzandogli in questo modo i tuoni, le
loro distinzioni, e posizioni, egli concepirà facilmente ogni
cosa, e potrà anche (benchè non s'intenda di musica) eseguir quell'aria
a voce dopo averla veduta, con più sicurezza ec. che dopo averla
solamente udita. E generalmente parlando si può dire che la chiarezza dell'espressione
di qualsivoglia idea, o insegnamento, consiste nel materializzarlo alla meglio,
o ravvicinarlo alla materia, con similitudini, con metafore, o comunque.
(13. Sett. 1821.)
Alla p.1656. principio. La malinconia per
es. fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto
diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa vedere l'allegria.
V'è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo,
cioè la noia. E l'allegro e il malinconico ec. (sieno pur due pensatori
e filosofi, o uno stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono
persuasissimi di [1691]vedere il vero, ed hanno le loro convincenti
ragioni per crederlo. Vero è pur troppo che astrattamente parlando, l'amica
della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare
è la malinconia e soprattutto la noia; ed il vero filosofo nello stato
di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello
o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e
consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che
veramente non l'hanno.
(13. Sett. 1821.). V. p.1694. fine.
Alla p.1132. Del resto che un antichissimo caps
o altro simile monosillabo sia la radice di caput, si conferma dal
vedere che in fatti la parte radicale e primitiva di questa voce, non è
se non cap, sola che risponda alla voce greca ,
cioè alla sua prima parte (Il era anticamente un p come altrove ho
già detto. O piuttosto non esisteva il , ma solo
il che si adoperava in suo
luogo, e poi aspirandosi si scriveva e quindi .).
(13. Sett. 1821.)
Voi altri riformatori dello spirito umano, e
dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco
a [1692]fare un romanzo, un poema ec. il cui protagonista si finga
perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e dipendenti dall'uomo,
e imperfetto o men che perfetto nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se
verun merito. Di che si parla in questo secolo sì spirituale massime in
letteratura che oramai par che sdegni tutto ciò che sa di corporeo, di
che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi, nelle opere tutte d'immaginazione e
sentimento, fuorchè di bellezza del corpo? Questa è la prima
condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
La perfettibilità dell'uomo, come
altrove ho detto, non ha che fare col corpo. E contuttociò la perfezione
del corpo, che non dipende dagli uomini nè è opera della ragione,
si è la principal condizione che si ricerca in un eroe di poema ec. (o
si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione corporale suppostagli
guasterebbe ogni effetto) e la più efficace, supponendolo ancora
perfetto nello spirito. Questa circostanza non si può tacere; quando
anche si taccia, la supplirà il lettore; ma fare espressamente un
protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a qualsivoglia effetto.
(V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della compassione). Mad. di
Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza avrà
prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli, profondissimi,
sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava
sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon [1693]gusto (v.
Allemagne tome 1. ch. dernier): ella, come tutti i grandi, dipingeva ne' suoi
romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di donne per li
principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men che belli i
suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire, tutta
l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger
fin qua. Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà
e la ricchezza: dono del caso? È egli punto meno pregevole un uomo
sensibile e grande, perchè non è bello? Quale inferiorità
di vero merito si trova nel più brutto degli uomini verso il più
bello? Eppure non solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal
fingerlo brutto, ma deve anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla sua
bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il
Petrarca) o del suo eroe, l'autore dicesse ch'egli era sfortunato nel tale
amore perchè le sue forme, o anche il suo tratto e maniere esteriori
(cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata, o perch'egli era men bello di
un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo fuorchè [1694]NATURA?
Ho detto che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni e
concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla
fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le
qualità dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite,
le più immensamente lontane in apparenza dalla materia, non si amano,
non fanno effetto veruno se non come materia, e in quanto materiali. Divideteli
dalla bellezza, o dalle maniere esteriori, non si sente più nulla in
essi. Il cuore può bene immaginarsi di amare lo spirito, o di sentir
qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente s'inganna.
Così accade in certo modo riguardo
allo stile e alle parole, che sono, come ben dice Pindemonte, non la veste, ma
il corpo de' pensieri. E quanto prevalga l'effetto dello stile a quello de'
pensieri, (benchè spessissimo il lettore non se ne accorga, nè
sappia distinguere le cose dalle parole, ed attribuisca a' soli pensieri l'effetto
che prova, nel che in gran parte consiste l'arte dello stile) interrogatene la
storia d'ogni letteratura.
(13. Sett. 1821.)
Alla p.1691. Non parlo della eloquenza, e
della sua forza di persuader l'uomo di ciò che vuole. Ma quante volte,
leggendo p.e. un [1695]filosofo, siamo al tutto del suo avviso, e poi
leggendone uno contrario, mutiamo parere, e tornando a leggere il primo, o
altro dello stesso sentimento, ripigliamo la prima opinione ec. Questa è
cosa che accade tutto giorno, o nel leggere o nel discorrere, o si tratti di
sentimenti contrarii, o discordi, o non consentanei in tutto o in parte; ed
accade anche all'uomo riflessivo ed attento e profondo e libero nel pensare,
cioè non facile a esser mosso nè solito dar peso
all'autorità, ed al parere altrui, di quelli ch'ei legge, ode ec.
(14. Sett. 1821.)
Forza dell'assuefazione sull'idea della
convenienza. L'uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non
è della sostanza nè della poesia, nè del suo linguaggio, e
modo di esprimer le cose. Vero è che questo linguaggio e modo, e le cose
che il poeta dice, essendo al tutto divise dalle ordinarie, è molto
conveniente, e giova moltissimo all'effetto, ch'egli impieghi un ritmo ec.
diviso dal volgare e comune, con cui si esprimono le cose alla maniera ch'elle
sono, e che si sogliono considerare nella vita. Lascio poi l'utilità
dell'armonia ec. Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata
al [1696]verso. E pure fuor del verso, gli ardimenti, le metafore, le
immagini, i concetti, tutto bisogna che prenda un carattere più piano,
se si vuole sfuggire il disgusto dell'affettazione, e il senso della sconvenienza
di ciò che si chiama troppo poetico per la prosa, benchè il
poetico, in tutta l'estensione del termine, non includa punto l'idea nè
la necessità del verso, nè di veruna melodia. L'uomo potrebb'esser
poeta caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa,
che sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente
il linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta. Ma
l'assuefazione contraria ed antichissima (originata forse da ciò che i
poeti si animavano a comporre colla musica, e componevano secondo essa, a
misura, e cantando, e quindi verseggiando, cosa molto naturale) c'impedisce di
trovar conveniente una cosa che nè in se stessa nè nella natura
del linguaggio umano, o dello spirito poetico, o dell'uomo, o delle cose, rinchiude
niuna discordanza. [1697]
(14. Sett. 1821.)
Alla p.1676. fine. Parimente si può
dire che tutte le assuefazioni, e quindi tutte le cognizioni, e tutte le
facoltà umane, non sono altro che imitazione. La memoria non è
che un'imitazione della sensazione passata, e le ricordanze successive, imitazioni
delle ricordanze passate. La memoria (cioè insomma l'intelletto)
è quasi imitatrice di se stessa. Come s'impara se non imitando? Colui
che insegna (sia cose materiali, sia cose immateriali) non insegna che ad imitare
più in grande o più in piccolo, più strettamente o
più largamente. Qualunque abilità materiale che si acquista per
insegnamento, si acquista per sola imitazione. Quelle che si acquistano da se,
si acquistano mediante successive esperienze a cui l'uomo va attendendo, e poi
imitandole, e nell'imitarle, acquistando pratica, e imitandole meglio
finch'egli vi si perfeziona. Così dico delle facoltà
intellettuali. La stessa facoltà del pensiero, la stessa facoltà
inventiva o perfezionativa in qualunque genere materiale o spirituale, non
è che una facoltà d'imitazione, non particolare ma generale.
L'uomo imita [1698]anche inventando, ma in maniera più larga,
cioè imita le invenzioni con altre invenzioni, e non acquista la
facoltà inventiva (che par tutto l'opposto della imitativa) se non a
forza d'imitazioni, ed imita nel tempo stesso che esercita detta facoltà
inventiva, ed essa stessa è veramente imitativa. V. la p.1540. fine, e
segg.
(14. Sett. 1821.)
Alla p.1605. principio. Da tutto ciò
risulta che l'uomo tal quale è in natura non piacerebbe all'uomo
d'oggidì nè gli parrebbe bello; che l'idee naturali (cioè
derivanti dalla natura) circa il bello umano (ch'è pure il meno soggetto
a dispareri) discordano sommamente dalle nostre: che massimamente poi la donna
tal qual ell'era bella in natura, e la più bella che si possa
immaginare, non piacerebbe punto all'uomo moderno. Perocchè il
fondamento della bellezza umana è il vigore, il quale nella natura
peccherebbe e dispiacerebbe alle donne moderne per il troppo, ma non per il
poco. Ma il fondamento della bellezza femminile essendo la delicatezza, questa
in natura peccherebbe [1699]per noi di troppo poco. Ed essendo propria
sì dell'uomo che della donna naturale la così detta rozzezza,
questa sconverrebbe meno (secondo le nostre opinioni) all'uomo che alla donna,
perchè in questa più, in quello meno lontana dalle qualità
fondamentali della loro bellezza. ec. ec. ec.
Del resto che cosa è dunque il buon
gusto? Qual tipo ha egli? La natura? Anzi ella ci ha fatti diversissimi da quel
che siamo, e quindi datoci diversissimi gusti. E ciò non solo nelle
forme umane, ma in ordine a tutti gli oggetti del buon gusto. ec. ec. ec.
(14. Sett. 1821.)
Alla p.1562. fine. Non si dà salvatichezza
in natura. Bensì per noi. Ciò vuol dire che non siamo quali
dovevamo. Quello che per noi è salvatico, o non doveva servirci, e non
era destinato all'uomo, o non è salvatico se non perchè noi siamo
civili, e incapaci quindi di servircene come avremmo dovuto, e come la natura
avea destinato. Non si nega che la coltura, i nesti ec. non migliorino le
piante le frutta, e le razze loro, molte delle quali [1700]nel loro
stato di salvatichezza, non ci potrebbero servire affatto, o ci
servirebbero, o diletterebbero assai meno. ec. Così dico degli animali.
ec. Ma questo miglioramento è relativo al nostro stato presente, non
mica alla natura di quelle razze ec. pretese migliorate, nè alla natura
propria nostra. Infatti quelle razze ec. coi miglioramenti che ricevono dalle
nostre arti, acquistano qualunque altra qualità fuorchè il
vigore, la robustezza, la sanità, la forza di resistere alle intemperie
alle fatiche ec. di operare ec. di crescere proporzionatamente ec. Anzi quanto
guadagnano in altre qualità (non proprie nè primitive loro) altrettanto
perdono in questa, ch'è il vero carattere della natura in tutte le sue
opere, e senza la cui rispettiva dose proporzionata alla natura di ciascun
genere, l'individuo è insomma in istato di malattia abituale. V. la
Veterinaria di Vegezio, prologo al lib.2. nel passo riportato dal Cioni, Lettera
a G. Capponi sopra Pelagonio, not.19. Il vigore rispettivo è la
prima e più necessaria di tutte le facoltà, perchè insomma
non è altro che la facoltà di pienamente esercitare tutte le
proprie facoltà, e tutte le qualità rispettive della propria natura,
e tutta la perfezion fisica della propria esistenza. Senza la qual perfezione [1701]fisica
(che la natura ha dato immediatamente a tutti i generi, ed all'umano come agli
altri, a differenza della pretesa perfezione dell'animo), nè l'animo
(che dipende in tutto dal fisico) nè l'intero animale può mai
essere se non imperfetto.
(14. Sett. 1821.)
Le idee concomitanti che ho detto esser
destate dalle parole anche le più proprie, a differenza dei termini,
sono 1. le infinite idee ricordanze ec. annesse a dette parole, derivanti dal
loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro particolare natura, ma
legate all'assuefazione, e alle diversissime circostanze in cui quella parola
si è udita o usata. S'io nomino una pianta o un animale col nome
Linneano, invece del nome usuale, io non desto nessuna di queste idee,
benchè dia chiaramente a conoscer la cosa. Queste idee sono spessissimo
legate alla parola (che nella mente umana è inseparabile dalla cosa,
è la sua immagine, il suo corpo, ancorchè la cosa sia materiale,
anzi è un tutto con lei, e si può dir che la lingua riguardo alla
mente di chi l'adopra, contenga non solo i segni delle cose, ma quasi le cose
stesse) [1702]sono dico legate alla parola più che alla cosa, o
legate a tutte due in modo che divisa la cosa dalla parola (giacchè la
parola non si può staccar dalla cosa), la cosa non produce più le
stesse idee. Divisa dalla parola, o dalle parole usuali ec. essa divien quasi
straniera alla nostra vita. Una cosa espressa con un vocabolo tecnico non ha
alcuna domestichezza con noi, non ci desta alcuna delle infinite ricordanze
della vita, ec. ec. nel modo che le cose ci riescono quasi nuove, e nude quando
le vediamo espresse in una lingua straniera e nuova per noi: nè si
arriva a gustare perfettamente una tal lingua, finchè non si penetra in
tutte le minuzie e le piccole parti e idee contenute nelle parole del senso il
più semplice. 2. Le idee contenute nelle metafore. La massima parte di
qualunque linguaggio umano è composto di metafore, perchè le
radici sono pochissime, e il linguaggio si dilatò massimamente a forza
di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte di queste metafore, perduto
il primitivo senso, son divenute così proprie, che la cosa ch'esprimono
non può esprimersi, o meglio esprimersi diversamente. Infinite ancora di
queste metafore non ebbero mai altro senso che il presente, eppur sono metafore,
cioè con una piccola modificazione, si fece che una parola significante
una cosa, modificata così ne significasse un'altra di qualche rapporto
colla prima. Questo è il principal modo in cui son cresciute tutte le
lingue. Ora sin tanto che l'etimologie di queste originariamente metafore, ma
oggi, o anche da principio, parole effettivamente proprie, si ravvisano e sentono,
il [1703][che] accade almeno nella maggior parte delle parole proprie
di una lingua, l'idea ch'elle destano, è quasi doppia, benchè la
parola sia proprissima, e di più esse producono nella mente, non la sola
concezione ma l'immagine della cosa, ancorchè la più astratta,
essendo anche queste in qualsivoglia lingua, sempre in ultima analisi espresse
con metafore prese dal materiale e sensibile (più o men vivo, ed
esprimente e adattato, secondo i caratteri delle lingue e delle nazioni ec.).
Per esempio il nostro costringere che significa sforzare, serba
ancora ben chiara la sua etimologia, e quindi l'immagine materiale da cui
questa che in origine è metafora, derivò. ec. ec. Il complesso di
tali immagini nella scrittura o nel parlare, massime nella poesia, dove
più si attende all'intero valore di ciascuna parola, e con maggior
disposizione a concepire e notare le immagini ch'elle contengono, ec. questo complesso,
dico, forma la bellezza di una lingua, e la differente forza ec. sì
delle lingue rispettivamente a loro, sì dei diversi stili ec. in una
stessa lingua. Ma se p.e. la cosa espressa da costringere,
l'esprimessimo [1704]con una parola presa da lingua straniera, e la cui
origine ed etimologia non si sapesse generalmente, o certo non si sentisse,
ella, quando fosse ben intesa, desterebbe bensì l'idea della cosa, ma
nessuna immagine, neppur quasi della stessa cosa, benchè materiale.
Così accade in tutte le parole derivate dal greco, delle quali abbondano
le nostre lingue, e massime le nostre nomenclature. Esse, quando siano usuali,
e quotidiane, come filosofo ec. possono appartenere alla classe che ho
notata nel primo luogo, ma non mai a questa seconda. Esse e le altre simili
prese da qualsivoglia lingua, e non proprie della nostra rispettiva, saranno
sempre, come altrove ho detto, parole tecniche, e di significato nudo ec.
Similmente le parole moderne, che o si derivano da parole già stanziate
nella nostra lingua, ma d'etimologia pellegrina, o si derivano da parole anche
proprie della lingua; essendo per lo più, stante la natura del tempo,
assai più lontane dal materiale e sensibile che non sono le antiche, e
di un carattere più spirituale, sono quindi ordinariamente termini e non
parole, non destando verun'[1705]immagine concomitante, nè avendo
nulla di vivo. ec. Tali sono i termini de' quali altrove ho detto che abbonda
la lingua francese, massime la moderna, e ciò non solo per natura del
tempo, ma anche per la natura di essa lingua, e del suo carattere e forma.
Certo e notabilissimo si è che tutte
le parole di qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da
fanciulli, ci destano sempre una folla d'idee concomitanti, derivate dalla
vivacità delle impressioni che accompagnavano quelle parole in quella
età, e dalla fecondità dell'immaginazione fanciullesca; i cui effetti,
e le cui concezioni si legano a dette parole in modo che durano più o
meno vive e numerose, ma per tutta la vita. Quindi è certo che le dette
idee concomitanti intorno ad una stessa parola, ed alle menome parti del suo
stesso significato, variano secondo gl'individui: e quindi non c'è forse
un uomo a cui una parola medesima (dico fra le sopraddette) produca una
concezione precisamente [1706]identica a quella di un altro: come non
c'è nazione le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non
abbiano qualche menoma diversità di significato da quelle delle altre
nazioni. Il detto effetto delle prime concezioni fanciullesche intorno alle
parole a cui sono abituati i fanciulli, si stende anche ai diversi e nuovi usi
delle stesse parole, che ne fanno gli scrittori o i poeti, alle parole analoghe
in qualsivoglia modo (o per derivazione, o per semplice somiglianza ec.) a
quelle a cui da fanciulli ci abituammo, ec. ec. e quindi influisce su quasi
tutta la propria lingua, anche la più ricca, e la meno capace di
esser ben conosciuta da' fanciulli.
(15. Sett. 1821.)
Dalle superiori osservazioni (p.1705-1706.)
che si possono molto, e filosoficamente estendere, deducete che forse nessun
individuo (come nessuna nazione rispetto alle altre) ha precisamente le idee di
un altro, circa la più identica cosa. E siccome la ragione dipende ed
è interamente determinata e modificata dal modo in cui le cose si
concepiscono, [1707]quindi 1. spiegherete i differentissimi modi in cui gli
uomini ragionano, le diversissime opinioni e conseguenze che tirano dalle cose,
ed anche le diversità stesse dei gusti, dei costumi, ec. ec. ec. 2.
osserverete quanto dobbiamo noi fidarci della ragione, e credere al vero
assoluto: quando di questo vero che noi crediamo universalmente riconosciuto,
si può dir quello che si dice degli oggetti materiali. Le diverse viste
vedono uno stesso oggetto in diversissime misure, (v. due miei pensieri in
proposito) ma siccome anche nel veder la misura esse provano la stessa differenza,
così il senso della differenza sparisce, ed ella è impossibile a
ravvisarsi e determinarsi. Così gli uomini concepiscono diversissime
idee di una stessa cosa, ma esprimendo questa con una medesima parola, e
variando anche nell'intender la parola, questa seconda differenza nasconde la
prima: essi credono di esser d'accordo, e non lo sono. ec. ec. ec. Pensiero
importantissimo, giacchè si deve riferire non alle sole idee materiali,
ma molto più [1708]alle astratte (che tutte in fine derivano
dalla materia) e agli stessi fondamenti della nostra ragione. Molto più
poi alle idee del bello del grazioso ec.
(15. Sett. 1821.)
Da ciò che altrove ho detto di
Machiavello Galileo ec. che travagliarono a distruggere la propria fama, si
può confermare e amplificare la sentenza di Cicerone circa la gloria,
nel Sogno di Scipione.
E dalla distinzione che quivi ho fatta tra
la fama dei letterati e degli scienziati, si può dedurre questa
osservazione. Il vero è immutabile, e i gusti mutabilissimi. Parrebbe
che lo stato delle scienze dovesse esser più costante che della letteratura,
e la fama degli scienziati più durevole dei letterati. Pure accade tutto
l'opposto. Le scienze, (come dicono) si perfezionano col tempo, e la
letteratura si guasta. Un secolo distrugge la scienza del secolo passato: la
letteratura resta immobile, o se si muta, si riconosce ben tosto per corrotta,
e si torna indietro. Che cosa dunque è più stabile, la natura o
la ragione? E che cosa è la nostra pretensione di conoscere il vero? gli
antichi s'immaginavano di conoscerlo al pari di noi. Che cosa è lo
stesso vero? Quali sono le verità assolute? quando non siamo punto
sicuri [1709]che il venturo secolo non dubiti di ciò che noi
teniamo per certo: anzi mirando all'esempio di tutti i secoli passati, e del
nostro, siamo sicuri del contrario.
(15. Sett. 1821.)
Dice il Rocca che gli spagnuoli nell'ultima
guerra, non si facevano scrupolo, anzi dovere di mancar pubblicamente o
privatamente di parola a' francesi, tradirli comunque, pagare i lor benefizi
individuali con cercar di uccidere il benefattore. ec. ec. Così tutti i
popoli naturali. Ed egli lo racconta specialmente dei contadini. Quindi deducete
1. che cosa sia la pretesa legge naturale, doveri universali dell'uomo verso i
suoi simili, diritti delle genti ancor che nemiche (e notate che l'uomo
naturale è nemico di ciascun uomo). 2. qual sia la natura e il sistema
dell'odio nazionale proprio di tutti i popoli non raffinati, e quindi degli
antichi. Osservate ancora la somma religione degli spagnuoli, la quale pur non
bastava a storcere le loro inclinazioni naturali, e i dettami di colei che si
considera come autrice ec. della morale; quantunque la religion cristiana sia
una specie di civilizzazione, com'è figlia di lei.
(15. Sett. 1821.)
[1710]L'amore universale, anche
degl'inimici, che noi stimiamo legge naturale (ed è infatti la base
della nostra morale, siccome della legge evangelica in quanto spetta a' doveri
dell'uomo verso l'uomo, ch'è quanto dire a' doveri di questo mondo) non
solo non era noto agli antichi, ma contrario alle loro opinioni, come pure di
tutti i popoli non inciviliti, o mezzo inciviliti. Ma noi avvezzi a
considerarlo come dovere sin da fanciulli, a causa della civilizzazione e della
religione che ci alleva in questo parere sin dalla prima infanzia, e prima
ancora dell'uso di ragione, lo consideriamo come innato. Così quello che
deriva dall'assuefazione e dall'insegnamento, ci sembra congenito, spontaneo,
ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche legislazioni, di
nessun'altra legislazione moderna, se non fra' popoli inciviliti. Gesù
Cristo diceva agli stessi Ebrei, che dava loro un precetto nuovo ec. Lo spirito
della legge Giudaica non solo non conteneva l'amore, ma l'odio verso chiunque
non era Giudeo. Il Gentile, [1711]cioè lo straniero, era nemico
di quella nazione; essa non aveva neppure nè l'obbligo nè il
consiglio di tirar gli stranieri alla propria religione, d'illuminarli ec. ec.
Il solo obbligo, era di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur
bene spesso, di non aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum
tuum sicut te ipsum, s'intendeva non già i tuoi simili, ma i
tuoi connazionali. Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano
nella loro nazione.
Or domando io; se quella morale che Dio ci
ha dato mediante il suo Verbo, era, come noi diciamo, la vera, e se Dio non
solo n'è il tipo, e la ragione, ma ragione necessaria; dunque quando
egli stesso dava una morale diversissima, e quasi contraria a questa, in punti
essenzialissimi, egli operava contro la sua essenza. Non v'è taglio. Un
solo menomo articolo della nostra morale, supposto ch'ella sia eterna, e
indipendente dalle circostanze, non poteva mai per nessuna ragione essere
ommesso, o variato in nessuna legge che Dio desse a [1712]qualunque uomo
isolato o in società. E viceversa nessun articolo di questa legge,
poteva per nessuna circostanza omettersi ec. nella nostra. Molto meno lo
spirito stesso della legge e della morale Divina poteva mai variare dal
principio del mondo fino ad ora, come pure ha evidentemente variato.
Checchè dicano i teologi per ispiegare, per concordare, tutto insomma si
riduce a questi termini: ed è forza convenire che Dio non solo è
il tipo e la ragione, ma l'autore, la fonte, il padrone, l'arbitro della
morale, e che questa, e tutti i suoi principii più astratti, nascono
assolutamente, non dall'essenza, ma dalla volontà di Dio, che determina
le convenienze, e secondo quelle che ha determinate, e create, secondo che le
mantiene o le cangia o le modifica, detta, mantiene, cangia o altera le sue
leggi. Egli è il creatore della morale, del buono e del cattivo, e della
loro astratta idea, come di tutto il resto.
(16. Sett. 1821.)
Il sistema di Platone delle idee
preesistenti alle cose, esistenti per se, eterne, necessarie, indipendenti e
dalle cose e da Dio: [1713]non solo non è chimerico, bizzarro,
capriccioso, arbitrario, fantastico, ma tale che fa meraviglia come un antico
sia potuto giungere all'ultimo fondo dell'astrazione, e vedere sin dove necessariamente
conduceva la nostra opinione intorno all'essenza delle cose e nostra, alla
natura astratta del bello e brutto, buono e cattivo, vero e falso. Platone
scoprì, quello ch'è infatti, che la nostra opinione intorno alle
cose, che le tiene indubitabilmente per assolute, che riguarda come assolute le
affermazioni, e negazioni, non poteva nè potrà mai salvarsi se
non supponendo delle immagini e delle ragioni di tutto ciò ch'esiste,
eterne necessarie ec. e indipendenti dallo stesso Dio, perchè altrimenti
1. si dovrà cercare la ragione di Dio, il quale se il bello il buono il
vero ec. non è assoluto nè necessario, non avrà nessuna
ragione di essere, nè di esser tale o tale, 2. posto pur che l'avesse,
tutto ciò che noi crediamo assoluto e necessario non avrebbe altra
ragione che il voler di Dio; [1714]e quindi il bello il buono il vero, a
cui l'uomo suppone un'essenza astratta, assoluta, indipendente, non sarebbe
tale, se non perchè Dio volesse, potendo volere altrimenti, e al
contrario. Ora, trovate false e insussistenti le idee di Platone, è
certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta, rovina interamente
da se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto
dubitar di queste.
(16. Sett. 1821.)
Quando l'uomo è in un certo abito di
pensare e riflettere, il che avviene perch'egli ha pensato e riflettuto, per
qualunque ragione, ogni menomo accidente e sensazione della giornata, anche
disparatissime, lo muovono a riflettere. Cessato quest'abito, dirò
così, attuale, anche senza notabile cagione, come spesso accade, (e
basta il sonno della notte a distorne l'uomo pel dì seguente) e massime,
se per qualunque motivo, s'è contratto un leggero ed effimero abito di
distrazione, le più gravi circostanze della vita, e le più
straordinarie sensazioni, non bastano bene spesso a promuovere la riflessione.
Molto [1715]più notabile è questo effetto e differenza,
ne' differenti, ma più radicati abiti di distrazione o di riflessione,
che una stessa persona contrae vicendevolmente e perde; e anche più nelle
diverse persone, benchè d'ingegno ugualissimamente capace.
(16. Sett. 1821.)
Le illusioni non possono esser condannate,
spregiate, perseguitate se non dagl'illusi, e da coloro che credono che questo
mondo sia o possa essere veramente qualcosa, e qualcosa di bello. Illusione
capitalissima: e quindi il mezzo filosofo combatte le illusioni perchè
appunto è illuso, il vero filosofo le ama e predica, perchè non
è illuso: e il combattere le illusioni in genere è il più
certo segno d'imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile
illusione.
(16. Sett. 1821.)
L'individuo, ordinariamente, è tanto
grande o piccolo quanto la società, il corpo ec. la patria, a cui egli
specialmente appartiene, o s'immagina, prefigge, cerca di appartenere. In una
piccola patria, gli uomini son piccoli, se istituzioni e opinioni
straordinariamente felici, non lo ingrandiscono, come nelle città
greche, ciascuna [1716]delle quali era patria. Ma il principal mezzo
è di allargare al possibile, se non altro, l'idea della propria
società, come ciascuna città greca e loro individui riguardavano
(anche col fatto) per loro patria tutta la Grecia e sue appartenenze, e per
compatriota chiunque non era . Senza
ciò la Grecia non sarebbe stata quello che fu, neppure in quei tempi tutti
propri della grandezza.
(16. Sett. 1821.)
La memoria la più indebolita
dimentica l'istante passato, e ricorda le cose della fanciullezza. Ciò
vuol dire che la memoria perde la facoltà di assuefarsi (in cui ella
consiste), e conserva le rimembranze passate, perchè vi è
assuefatta da lungo tempo; perde la facoltà dell'assuefazione, ma non le
assuefazioni contratte, se elle sono ben radicate ec. ec. ec. (16. Sett. 1821.).
Lo svelto non è che vivacità.
Ella piace (e il perchè, v. p.1684. fine); dunque anche la sveltezza.
Così che il piacere che l'uomo prova ordinariamente alla vista degli
uccelli (esempi di sveltezza e vispezza), massime se li contempla da vicino,
tiene alle più intime inclinazioni [1717]e qualità della
natura umana, cioè l'inclinazione alla vita.
(16. Sett. 1821.). V. p.1725.
Tutto
è esercizio. Apoftegma principale di Periandro, l'uno de' sette,
sì esso che questa sentenza.
(16. Sett. 1821.)
Chi non è avvezzo ad attendere
e imparare, non impara mai. I contadini stentano gli anni a mettersi in mente
una mezza pagina della Dottrina Cristiana, il Credo ec. Certo fra
i contadini si troverà pure qualche buona memoria, e moltissimi hanno
volontà d'imparare. Ma nessuna facoltà senz'assuefazione: e la
memoria la più felice per tutto il resto, non ha la facoltà delle
operazioni in cui non è esercitata. Lo stesso dico dell'intelletto.
Oltre che i villani non hanno una bastante assuefazione generale della
memoria che renda lor facile di applicarla ai diversi generi di assuefazioni
particolari; nè dell'intelletto che renda lor facile l'attendere,
senza la qual facoltà (che è pure acquisita) non v'è
memoria.
(16. Sett. 1821.)
[1718]Il fanciullino non riconosce
le persone che ha veduto una sola o poche volte, s'elle non hanno qualche
straordinario distintivo che colpisca la fantasia del fanciullo. Egli confonde
facilmente una persona a lui poco nota o ignota con altra o altre a lui note,
una contrada del suo paese da lui non ben conosciuta con la contrada in cui
abita, un'altra casa colla sua, un altro paese col suo ec. ec. ec. Eppure
l'uomo il più distratto, il meno avvezzo ad attendere, il più
smemorato ec. riconosce a prima vista la persona veduta anche una sola volta,
distingue a prima vista le persone nuove da quelle che conosce ec. ec. ec. (I
detti effetti si debbono distinguere in proporzione della diversa assuefabilità
degli organi de' fanciulli, della diversa loro forza immaginativa, che rende più
o meno vive le sensazioni ec. ec.) Applicate questa osservazione a provare che
la facoltà di attendere, e quindi quella di ricordarsi, nascono
precisamente dall'assuefazione generale: applicatela anche alla mia
teoria del bello, del quale io dico che il fanciullo ha debolissima idea, non
lo distingue da principio dal brutto, non conosce nè discerne i pregi o
difetti in questo particolare, se non saltano agli occhi ec. ec. ec.
(17. Settembre 1821.)
[1719]Quanto il corpo influisca
sull'anima. Un abito di attività o di energia che abbia contratto il
corpo per qualunque cagione, dà dell'attività, dell'energia, della
prontezza ec. anche allo spirito, sia pure il meno esercitato in se stesso. E
siccome il detto abito può essere effimero e passeggero, così anche
il detto effetto è molte volte giornaliero, ed anche di sole ore. Questa
osservazione si può molto stendere tanto in se stessa, quanto
applicandola ad altri generi di assuefazioni ed abiti corporali costanti o
passeggeri, che parimente producono una simile assuefazione o abito o
facoltà nello spirito, ancorchè esso non entri punto e non prenda
veruna parte in quella del corpo: come se io, senza alcuna riflessione o azione
del pensiero, mi trovo oggi in circostanza di agire assai e far molto esercizio
corporalmente e materialmente. Molti esempi di ciò si potrebbero
addurre, tanto individuali, quanto anche nazionali, ed applicabili a spiegare
molti diversi caratteri di diversi popoli.
(17. Sett. 1821.)
[1720]Le verità contenute
nel mio sistema non saranno certo ricevute generalmente, perchè gli
uomini sono avvezzi a pensare altrimenti, e al contrario, nè si trovano
molti che seguano il precetto di Cartesio: l'amico della verità debbe
una volta in sua vita dubitar di tutto. Precetto fondamentale per li progressi
dello spirito umano. Ma se le verità ch'io stabilisco avranno la fortuna
di essere ripetute, e gli animi vi si avvezzeranno, esse saranno credute, non
tanto perchè sian vere, quanto per l'assuefazione. Così è
sempre accaduto. Nessuna opinione vera o falsa, ma contraria all'opinione dominante
e generale, si è mai stabilita nel mondo istantaneamente, e in forza di
una dimostrazione lucida e palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di
assuefazione. Da principio fischiate, oggi regnano, o hanno regnato lungo
tempo. Bene spesso vinte dagli ostacoli opposti loro dall'opinione dominante, e
abbandonate in dimenticanza, sono poi state o copiate, o di nuovo inventate da
altri più fortunati, a cui la diversità delle circostanze ha proccurato
[1721]che le loro opinioni venissero ripetute in maniera che
assuefattivi gli orecchi e gli animi, cominciativi ad allevare i fanciulli,
esse si sono stabilite, e stabilite in modo da far considerare come sogni le
opinioni contrarie, o antiche e passate, o nuove ed ardite ec. Tutto ciò
non è che una prova del mio stesso sistema, il quale fa consistere le
facoltà, le opinioni, le inclinazioni, la ragione umana ec.
nell'assuefazione.
(17. Sett. 1821.). V. p.1729.
Non si vive al mondo che di prepotenza. Se
tu non vuoi o sai adoperarla, gli altri l'adopreranno su di te. Siate dunque
prepotenti. Così dico dell'impostura.
(17. Sett. 1821.)
Alla p.1665. Gli effetti che la detta
persona provava riguardo ai suoni, li provava ancora riguardo al canto. Egli
non era mosso ordinariamente che dalle vocione stentoree e di gran petto, o
talvolta da alcune voci particolari che gli si confacevano all'orecchio. La stessa
distinzione che ho fatto tra gli effetti dell'armonia, e quelli del suono [1722]in
quanto suono, bisogna pur farla in quanto al canto, giacchè la semplice
voce di chi canta è ben diversa da quella di chi parla. E la natura ha
dato al canto umano (parlo indipendentemente dall'armonia e modulazione) una
maravigliosa forza sull'animo dell'uomo, e maggiore di quella del suono.
(Così l'avrà data al canto degli uccelli 1. sugli uccelli della
stessa specie, poi proporzionatamente sugli altri uccelli, ed altre specie
analoghe, ed anche su di noi. E viceversa il canto umano fa assai meno effetto
sulle bestie che il suono. Tutto ciò è indipendente dall'armonia
e convenienza.) Infatti la più bella melodia non commuove eseguita da
una vociaccia, per ottimamente eseguita che sia; e viceversa ti sentirai tocco
straordinariamente al primo aprir bocca di un cantante di bella voce, soave ec.
che eseguisca la melodia più frivola, la meno espressiva, o la
più astrusa ec. e l'eseguisca anche male, e stuonando. E l'effetto
stesso delle voci che si chiaman belle, è relativo e varia secondo i
diversi rapporti delle diverse qualità di voci, cogli organi [1723]de'
diversi ascoltanti. Tutto ciò serva di prova che il bello è
relativo in ogni cosa, non solo astrattamente, ma anche dopo nata questa tal
natura; e che moltissime cose credute e chiamate belle, non appartengono al
bello, ma alla inclinazione generale, o individuale, o speciale, alla disposizione
degli organi ec. al piacere in quanto piacere, arbitrariamente o conseguentemente
alle altre sue disposizioni ordinato dalla natura ec. ec.
(17. Sett. 1821.). V. p.1758. principio.
Chi ha disperato di se stesso, o per
qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i
suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia per questa
parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno
può amare. Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi
di amor patrio sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla
necessità di render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare
i suoi simili a cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che
l'uomo deve amar se stesso e i suoi prossimi in Dio, e [1724]per l'amore
di Dio.
(17. Sett. 1821.)
L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta
principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone
di una medesima professione ec. fra le quali, sebben la perfetta amicizia
astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura
umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima,
incostantissima ec. Schiller uomo di gran sentimento era nemico di Goëthe
(giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è
minore amicizia, ma v'è più odio che fra le persone poste in
altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne godono del mal delle donne, anche loro
amicissime. I giovani del male de' giovani ec. ec. V. Corinne t. [3] p.[365.
sgg.] liv. [20.] ch.[4.] Non solo in una stessa professione, ma anche in una
stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è
maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia
de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non
si trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo,
e un giovane, che tra giovane e giovane; tra [1725]due vecchi che tra
due giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi
più la virtù ne' giovani, i vecchi sono più a portata di
amarsi meno, di essere stanchi dell'egoismo perchè disingannati del
mondo, e quindi di amare gli altri.
Perciò è vero che la
virtù, come predica Cicerone de amicitia, è il fondamento
dell'amicizia, nè può essere amicizia senza virtù,
perchè la virtù non è altro che il contrario dell'egoismo,
principale ostacolo all'amicizia ec. ec. ec.
(17. Sett. 1821.)
Alla p.1717. principio. Così dico
della prontezza sì del corpo, che dello spirito, de' discorsi ec. della
mobilità, e di altre tali qualità umane o qualunque, che sono piacevoli
per se, per natura delle cose; piacevoli dico, e non belle, anzi talvolta
contrarie al bello fino a un certo punto, e pur piacciono. ec. Quello che ho
detto degli uccelli, dico pure de' fanciulli in genere, il piacere ch'essi
ordinariamente cagionano, derivando in gran parte da simili fonti. E parimente
discorro d'altri simili oggetti piacevoli.
(17. Sett. 1821.)
[1726]L'assuefazione ed
esercitazione del corpo, indipendente dallo spirito, va come quella o del puro
spirito, o in certo modo composta, e dipendente in parte da lui. Anch'essa si
divide in generale e particolare. L'esercitazione generale del corpo, rende
capaci o meglio disposti alle facoltà particolari. Il corpo si rende
capace di agire, di soffrire ec. a forza di fare, di agire, di soffrire. Prima
di ciò egli non ne ha che la disposizione. Una nuova sofferenza
riesce più o meno facile, secondo che il corpo è generalmente
abituato a soffrire. Così un nuovo genere di azione. Vi sono poi le
assuefazioni particolari a questa o quella sofferenza, azione, ec. che nel mentre
che contribuiscono all'assuefazione generale, ed a facilitare le altre
sofferenze ed azioni, rendono però particolarmente facile quella tale
ch'è il loro soggetto. Per acquistare simili assuefazioni e
facoltà corporee, la forza ec. sì generali che particolari, altri
hanno bisogno di più, altri di meno esercizio, secondo la diversa disposizione
naturale o accidentale degl'individui; altri possono arrivare più, altri
meno avanti, altri acquistare più, altri meno facoltà, ed altri
queste, altri quelle ec. ec. [1727]Chi ha aquistate più
assuefazioni o facoltà, o chi ha acquistata questa o quella in maggior
grado, chi ha insomma più o meglio assuefatto ed esercitato il suo
corpo, acquista più facilmente e con meno esercizio le altre
assuefazioni e facoltà, anche quelle che prima sembravano affatto aliene
o difficilissime alla sua natura. ec. ec. ec.
(17. Sett. 1821.)
L'insegnare non è quasi altro che
assuefare.
(18. Sett. 1821.)
L'uomo il più certo della malizia
degli uomini, si riconcilia col genere umano, e ne pensa alquanto meglio, se
anche momentaneamente ne riceve qualche buon trattamento, sia pur di pochissimo
rilievo. L'individuo da te più conosciuto per malvagio, se ti usa distinzioni
e cortesie che lusinghino il tuo amor proprio, divien subito qualche cosa di
meno male nella tua fantasia. Molto più la donna coll'uomo, o l'uomo
(anche il più brutto, anche quello di cui s'ha peggiore idea, anzi pure
avversione particolare) colla donna: e però è massima,
specialmente degli uomini, che [1728]per qualunque ripulsa, idea,
opinione, ostacolo, costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una
donna. Si potrebbe parimente dire in genere, che l'uomo non dee mai disperare
di venire a capo di qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della
ragione nell'uomo!
(18. Sett. 1821.)
Come l'individuo, così le nazioni non
faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di amor proprio,
ambizione, opinione di se, confidenza in se stesse.
(18.
Sett. 1821.)
Il me
semble que nous avons tous besoin les uns des autres; la littérature de chaque
pays découvre, à qui sait la connaître, une nouvelle sphère
d'idées. C'est Charles-Quint lui-même qui a dit qu'un homme qui sait quatre
langues vaut quatre hommes. Si ce grand génie politique en jugeait ainsi
pour les affaires, combien cela n'est-il pas plus vrai pour les lettres? Les
étrangers savent tous le français, ainsi leur point de vue est plus étendu que
celui des Français qui ne savent pas les langues étrangères. Pourquoi [1729]ne
se donnent-ils pas plus souvent la peine de les apprendre? Ils conserveraient
ce qui les distingue, et découvriraient ainsi quelquefois ce qui peut leur
manquer. Corinne liv.7. ch. 1. dernières lignes.
(18. Sett. 1821.)
Alla p. 1721. Lo spirito umano fa sempre
progressi, ma lenti e per gradi. Quando egli arriva a scoprire qualche gran verità
che dimostri la falsità di opinioni generali e costanti, e che farebbe
fare un salto a' suoi avanzamenti, il più degli uomini ricusa di
ammetterla, segue placidamente il suo viaggio, finchè arriva a quella
tal verità, la quale come tutte le altre di tal natura, non diventa mai
comune, se non lungo tempo dopo ch'ella fu (ancorchè geometricamente)
dimostrata.
Si suol dire che lo spirito umano deve
assaissimo, anzi soprattutto, ai geni straordinari e discopritori che
s'innalzano di tanto in tanto. Io credo ch'egli debba loro assai poco, e che i
progressi dello spirito umano siano opera principalmente degl'ingegni mediocri.
Uno spirito raro, [1730]ricevuti che ha da' suoi contemporanei i lumi propri
dell'età sua, si spinge innanzi e fa dieci passi nella carriera. Il
mondo ride, lo perseguita a un bisogno, e lo scomunica, nè si muove dal
suo posto, o vogliamo dire, non accelera la sua marcia. Intanto gli spiriti
mediocri, parte aiutati dalle scoperte di quel grande, ma più di tutto
pel naturale andamento delle cose, e per forza delle proprie meditazioni, fanno
un mezzo passo. Altri ripetono le verità da loro insegnate, siccome poco
discordi dalle già ricevute, e facilmente ammissibili. Il mondo
sì per questa ragione, sì per forza dell'esempio di molti, li
segue. I loro successori fanno un altro mezzo passo con eguale fortuna.
Così di mano in mano, finchè si arriva a compiere il decimo
passo, e a trovarsi nel punto dove quel grande spirito si trovò tanto
tempo prima. Ma egli o è già dimenticato, o l'opinione prevalsa
intorno a lui dura ancora, o finalmente il mondo non gli rende alcuna
giustizia, perch'egli si trova già sapere tutto ciò che quegli
seppe, ne fu istruito per altro mezzo, e non crede [1731]di dovergli
nulla, come poco infatti gli deve. Così la sua gloria si ridurrà
ad una sterile ammirazione, e ad un passeggero elogio che ne farà
qualche altro spirito profondo, che consideri com'egli fosse andato innanzi
allo spirito umano nella sua carriera. Elogi e considerazioni di poco effetto,
perchè il mondo si trova già uguale a lui, ben presto se gli
troverà superiore, e lo è forse anche presentemente,
perchè il tempo ha ben avuto luogo di meglio sviluppare e confermare le
sue dottrine. Or quale ammirazione verso gli uguali o gl'inferiori?
Un'età non vuol mai trovarsi in
contraddizione colle sue opinioni passate, e concepite nella fanciullezza. Ella
non è capace se non di progredire appoco appoco sviluppando le sue
cognizioni, e mettendo l'età future in grado di arrivare a credere il
contrario di ciò che essa credette. Così lo spirito umano si
avanza senza mai credere di mutare opinione. Non è se non paragonando
remoti e divisi secoli fra loro, che qualche pensatore si accorge come oggi il
mondo [1732]creda in mille cose il contrario di ciò che credette.
Ma il mondo vi arrivò senz'avvedersene, non l'avrebbe mai fatto avvedendosene;
e perciò è follia lo sperare di mutar l'opinione de' propri contemporanei
(massime sulle cose non corporee), sia pur mediante la più matematica
evidenza. Bisogna contentarsi di farle fare un piccolo grado.
Certo è però e naturale, che
la celerità de' progressi dello spirito umano si accresce in proporzione
degli stessi progressi, come il moto de' gravi, il quale benchè sempre
gradato, sempre proporzionatamente si accelera. Effetto dell'assuefazione generale
al rinnovare alquanto le proprie opinioni, il che dà appoco appoco la
facoltà di rinnovarle facilmente un poco più, quindi un po'
più, e finalmente, ma pur sempre per gradi proporzionali, il mondo
potrà forse anche arrivare a mutare affatto opinione dentro una stessa
età, e riconoscere senza molta fatica una verità contraria alle
opinioni ricevute.
(18. Sett. 1821.)
[1733]Quanto possa l'assuefazione e
l'opinione anche sul gusto de' sapori, ch'è pure un senso naturale e
innato, e ciò non ostante, varia spessissimo fino in un medesimo
individuo, secondo la differenza e delle assuefazioni e delle opinioni intorno
al buono o cattivo de' sapori, è manifesto per l'esperienza giornaliera
e comparativa sì de' gusti successivi di un individuo, sì de'
gusti e giudizi de' diversi individui.
(18. Sett. 1821.)
Non v'è memoria senz'attenzione.
Ponete due persone dotate della stessa disposizione naturale, e facoltà
acquisita di ricordarsi, alle quali sia avvenuto un accidente comune in un
medesimo tempo, ma in modo che l'una v'abbia posto attenzione speciale, l'altra
no. Dopo un certo tempo, (anche breve) interrogate l'una e l'altra. Quella se
ne ricorderà come fosse presente, questa come se non fosse occorso.
Quest'osservazione si può fare tutto giorno.
Ma vi sono due specie di attenzioni. Una
volontaria, ed una involontaria; o piuttosto una spirituale, un'altra
materiale. [1734]Della prima non si diventa capaci se non
coll'assuefazione (e quindi facoltà) di attendere. E perciò gli
uomini riflessivi e generalmente gl'ingegni o grandi, o applicati, hanno
ordinariamente buona memoria, e si distinguono assai dal comune degli uomini
nella facoltà di ricordarsi anche delle minuzie, perchè sono
assuefatti ad attendere. Della seconda specie sono quelle attenzioni che
derivano da forza e vivacità delle sensazioni, le quali colla loro
impressione costringono l'anima ad un'attenzione in certo modo materiale.
Perciò gli spiriti suscettibili, e immaginosi, ancorchè non abbiano
grande ingegno, o almeno non abbiano l'assuefazione di molto attendere, cosa
naturale in questi tali, sono sempre d'ottima memoria, perchè tutto fa in
loro proporzionatamente maggiore impressione che negli altri. (E questo
è forse il più ordinariamente tutto ciò che si considera
per dono NATURALE di buona e squisita memoria. Vedete com'ella sia nulla per se
stessa, e dipendente, anzi quasi [1735]tutt'uno colle altre
facoltà mentali.) E così il dono della memoria pare ad essi
ed agli altri naturale, ed innato precisamente, in loro, perchè senza
l'assuefazione di attendere, essi attendono spontaneamente a causa della forza
in certo modo materiale delle impressioni. Quindi in gran parte deriva la
durevolezza delle ricordanze di ciò che appartiene alla fanciullezza,
dove tutte le impressioni, siccome straordinarie, sono vivissime, e
quindi l'attenzione è grande benchè il fanciullo non ne abbia
l'abito. E detta durata, siccome detta attenzione è proporzionata alla
diversa immaginativa, suscettibilità, assuefabilità, delicatezza
insomma e conformabilità degli organi de' diversi fanciulli. Così
la memoria degl'ignoranti, o poco avvezzi a sensazioni variate ec., memoria
nulla dovunque è necessario l'abito di attendere (v. p.1717.), suol
essere tenacissima di tutte le sensazioni straordinarie, le quali per essi sono
frequenti, perchè poco conoscono ec. ec. e la meraviglia opera in loro
più spesso, e la novità non è rara per loro ec. e quindi
li troviamo assai spesso di prontissima memoria, in cose di cui noi punto non
ci ricordiamo ec. e vedendo che per essere ignoranti, non hanno esercizio [1736]nè
d'attenzione nè di memoria, crediamo che questa in loro sia una precisa
facoltà di cui la natura gli abbia squisitamente dotati.
La monotonia della vita contribuisce pure
alla memoria, perch'ella giova all'attendere, escludendo l'abito delle distrazioni,
(come anche la troppa moltitudine e varietà delle rimembranze che si
pregiudicano l'una l'altra, sebbene anche queste si facilitano a proporzione
dell'assuefazione) e giova alla memoria tanto delle cose giornaliere, quanto e
molto più, delle straordinarie, perchè ogni piccolo straordinario
è raro, e quindi fa notabile impressione in chi è avvezzo all'uniformità.
Non è ella cosa giornalmente
osservata, che generalmente parlando ci ricordiamo di ciò che ci preme,
e scordiamo di ciò che non c'importa? Questo viene che a quello si
attende, a questo no.
Tutto ciò non ha punto che fare con
una facoltà speciale e distinta di ricordarsi che l'uomo porti dalla
natura.
E da queste osservazioni si conferma quanto
la fabbrica intellettuale dell'uomo sia semplice in natura, cioè
composta di pochissimi elementi, che diversamente modificati e combinati, [1737]producono
infiniti e svariatissimi effetti. Ai quali l'uomo superficialmente badando,
moltiplica i principii, le cagioni, le forze, le facoltà, che realmente
sono pochissime e semplicissime. E infatti abbiamo veduto che la facoltà
della memoria distintamente considerata, come si suole, facendone una delle tre
principali potenze dell'anima, è un sogno, e ch'ella non è altro
che una modificazione o un effetto dell'intelletto e della immaginazione.
L'attenzione che ho chiamata materiale, si
può applicare a tutte le altre assuefazioni umane indipendenti o poco
dipendenti dallo spirito, e dalla stessa memoria. Giacchè non la sola
assuefazione che chiamiamo memoria, ma tutte hanno bisogno dell'attenzione per
esser contratte; bensì questa può essere, volontaria o involontaria,
avvertita o no, spirituale insomma o materiale, come quella che cagionano
(secondo che ho detto) le forti sensazioni.
(19. Sett. 1821.)
Da che nacque l'invenzione del [1738]canocchiale
che ha tanto influito sulla navigazione, sulla stessa filosofia metafisica, e
quindi sulla civilizzazione? Dal caso. E l'invenzione della polvere che ha
mutato faccia alla guerra, ed alle nazioni, e tanto contribuito a geometrizzare
lo spirito del tempo, e distruggere le antiche illusioni, insieme col valore
individuale ec. ec.? Dal caso. Chi sa che l'aereonautica non debba un giorno
sommamente influire sullo stato degli uomini? E da che cosa ella deriva? Dal
caso. E quelle scoperte infinite di numero, sorprendenti di qualità, che
furono necessarie per ridurre l'uomo in quel medesimo imperfetto stato,
in cui ce lo presenta la più remota memoria che ci sia giunta delle nazioni;
scoperte che hanno avuto bisogno di lunghissimi secoli e per essere condotte a
quella condizione ch'era necessaria per una società alquanto formata, e
per essere poi perfezionate come lo sono oggidì; scoperte che oggi
medesimo, dopo ch'elle son fatte da tanto tempo, dopo ch'elle sono
perfezionate, dopo che la nostra mente vi s'è tanto abituata, [1739]lo
spirito umano si smarrisce cercando come abbiano potuto mai esser concepite; le
lingue, gli alfabeti, l'escavazione e fonditura de' metalli, la fabbrica de'
mattoni, de' drappi d'ogni sorta, la nautica e quindi il commercio de' popoli,
la coltura de' formenti, e delle viti, e la fabbrica del pane e vino,
invenzioni che gli antichi attribuivano agli dei, che la scrittura pone dopo il
diluvio, e che certo furono tardissime, la stessa cocitura delle carni,
dell'erbe, ec. ec. ec. tutte queste maravigliose e quasi spaventose invenzioni,
da che cosa crediamo che abbiano avuto origine? Dal caso. Consideriamo tutte le
difficili scoperte moderne, fatte pure in tempo dove la mente umana aveva
tanti, ed immensi aiuti di più per inventare; e vedendo che tutte in un
modo o nell'altro si debbono al caso, e nessuna o pochissime derivano da
spontanea e deliberata applicazione della mente umana, nè dal calcolo
delle conseguenze, e dal preciso progresso dei lumi; pochissime ancora da
tentativi diretti, e sperienze appositamente istituite, benchè a tastoni
e all'azzardo (come furono per necessità, si può dir, tutte
quelle pochissime che fruttarono qualche insigne scoperta); molto più
dovremo creder lo stesso di tutte le scoperte antiche le più necessarie
all'esistenza di una società formale. Se dunque porremo attenzione all'andamento
delle cose, e alla storia dell'uomo, dovremo convenire che tutta quanta la sua
civilizzazione è pura opera [1740]del caso. Il quale variando ne'
diversi remoti paesi, o mancando, ha prodotto quindi diversi generi di
civilizzazione (cioè perfezione), o l'assoluta mancanza di essa. La
perfezione del primo essere vivente doveva dunque essere dalla natura
incaricata all'azzardo?
(19. Sett. 1821.)
Considerate indipendentemente e in se
stessa, la lode di se medesimo. Anche dopo formata una società
(giacchè prima non esisteva l'amor di lode), qual cosa più conforme
alla natura, più dolce a chi la pronunzia, qual cosa a cui lo spirito
sia più spontaneamente e potentemente inclinato, qual cosa meno dannosa
a' nostri simili, qual piacere insomma più innocente, e qual premio
più conveniente alla virtù, o all'opinione di lei? Eppur
l'assuefazione ce la fa riguardare come un vizio da cui l'animo ben fatto
naturalmente rifugga, come un desiderio di cui bisogni arrossire (e qual cosa
ha ella in se stessa e per natura, che sia vergognosa?), come contrario al
dovere della modestia, che si suppone innato, e non lo è punto
(consideriamo i fanciulli, i quali tuttavia non appena cominciano a desiderar
la lode, che già sono avvertiti a non darsela da se stessi), [1741]come
ripugnante insomma a un dettame interno, e proibita dalla legge naturale.
Dal che dedurremo 1. una nuova conferma di
questa innegabile legge naturale, 2. un'altra prova dell'odio naturale
dell'uomo verso l'uomo, il quale fa che la cosa più innocente e meno
dannosa agli altri in se stessa, divenga subito cattiva in una società
un poco formata, perchè il bene e il vantaggio di un individuo, dispiace
per se solo agli altri individui, ancorchè non pregiudichi loro, anzi
pur giovi.
(19. Sett. 1821.)
Le circostanze mi avevan dato allo studio
delle lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio gusto:
io disprezzava quindi la poesia. Certo non mancava d'immaginazione, ma non
credetti d'esser poeta, se non dopo letti parecchi poeti greci. (Il mio
passaggio però dall'erudizione al bello non fu subitaneo, ma gradato,
cioè cominciando a notar negli antichi e negli studi miei qualche cosa
più di prima ec. Così il passaggio dalla poesia alla prosa, dalle
lettere alla filosofia. Sempre assuefazione.) Io non mancava nè d'entusiasmo,
nè di fecondità, nè di forza d'animo, nè di
passione; ma non credetti d'essere eloquente, se non dopo letto Cicerone. [1742]Dedito
tutto e con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la
filosofia. I pensieri di cui il nostro tempo è così vago,
mi annoiavano. Secondo i soliti pregiudizi, io credeva di esser nato per le
lettere, l'immaginazione, il sentimento, e che mi fosse al tutto impossibile
l'applicarmi alla facoltà tutta contraria a queste, cioè alla
ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni, e il riuscirvi. Io
non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di paragonare,
di ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di
esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Mad. di Staël.
Grandissime e importantissime osservazioni
si possono fare intorno alle facoltà le più energiche, attive, e
feconde, che paiono affatto innate, e in effetto non son prodotte (gli
altri dicono sviluppate) se non dalle letture, e dagli studi, e dalle
circostanze diverse, anche contro l'espettazione, e la stessa decisa
inclinazione che l'uomo aveva contratta, e supponeva innata in se stesso.
[1743]Certo è che siccome il
maggiore o minor talento, non è che maggiore o minore
assuefabilità e adattabilità di organi, così il gran
talento, in qualunque genere splenda, è suscettivo di splendere in tutti
i generi. Se non lo fa, ciò deriva dalle pure circostanze, che
determinano la sua applicazione, e il suo gusto. E siccome tutti gli uomini
sommi in qualsivoglia genere di coltura spirituale, furono e sono dotati di gran
talento, cioè gran capacità mentale, però è
certo che p.e. il gran poeta, può essere anche gran matematico, e viceversa.
V. p.1753. Se non lo è, se il suo spirito si determinò ad un solo
genere (che non sempre accade), ciò è puro effetto delle circostanze.
È però vero, quanto al poeta,
che certe qualità o disposizioni necessarie per la poesia, possono in
qualche modo considerarsi come proprie di lei, e non del tutto adattate alle
altre facoltà. Ma pure io sostengo che il poeta non ha dette
qualità (sia pure in sommo grado) se non in virtù delle
circostanze, e in circostanze diverse, avrebbe qualità diverse e
contrarie; giacchè [1744]quello che si tiene per isviluppo,
io lo tengo per produzione.
(19. Sett. 1821.)
Da quella parte della mia teoria del piacere
dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi
impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perchè
piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e
non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da
essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne
derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella divenga incerta e impedita,
e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li
balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo oggetto ec. dov'ella
non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche
altro luogo od oggetto ec. dov'ella venga a battere; in un andito veduto al di
dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si
confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e
pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell'ombra,
in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce p.e. un vetro
colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto
vetro; tutti quegli oggetti in somma che per diverse [1745]materiali e
menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo
incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell'ordinario ec. Per lo
contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica, e in
un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione.
Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di sopra, la vista di un
cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna
produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari. ec. È
piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città,
dov'ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti
luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui
tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell'astro luminoso ec.
ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l'incertezza, il non veder
tutto, e il potersi perciò spaziare coll'immaginazione, riguardo a
ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono
gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, [1746]i pagliai,
le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e
tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità,
nè ostacolo; dove l'occhio si perda ec. è pure piacevolissima,
per l'idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un
cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della
varietà e dell'incertezza prevale a quello dell'apparente infinità,
e dell'immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di
nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro; e la
vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle
campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria
di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.) Infatti, ponetevi supino in
modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete
una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o
considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed
unitamente ad essa in un medesimo punto di vista.
È piacevolissima ancora, per le
sopraddette [1747]cagioni la vista di una moltitudine innumerabile, come
delle stelle, o di persone ec. un moto moltiplice, incerto, confuso,
irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec. che l'animo non possa
determinare, nè concepire definitamente e distintamente ec. come quello
di una folla, o di un gran numero di formiche, o del mare agitato ec. Similmente
una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l'uno
dall'altro ec. ec. ec.
(20. Sett. 1821.)
Quelli che immaginarono una musica di
colori, e uno strumento che dilettasse l'occhio colla loro armonia istantanea e
successiva, coll'armonica loro combinazione, e variazione, ec. non osservarono
che la grande influenza dell'armonia musicale sull'anima, non è propria
dell'armonia in modo, ch'essenzialmente non derivi dal suono o dal canto
isolatamente considerato; anzi considerando la pura natura di essa influenza,
essa spetta più, o più necessariamente al suono e al canto che
all'armonia o melodia: giacchè il suono o il canto produce
(benchè per breve tempo) sull'animo qualch'effetto proprio della musica,
ancorchè separato dall'armonia; non così questa, divisa [1748]da
quello, o applicata a suoni o voci che per natura non abbiano alcuna relazione
ed influenza musicale sull'udito umano; come il suono di una tavola, o di
più tavole, il quale ancorchè fosse modulato e distinto
perfettamente ne' tuoni, ed applicato alla più bella melodia, non
sarebbe mai musica per nessuno.
Non è dunque propriamente neppure il
suono o la voce, cioè la sensazione dell'orecchio, che la natura ha
fatto capace d'influire piacevolmente sull'udito umano: ma solo certi
particolari suoni, ed oscillazioni di corpi sonori: siccome non tutto
ciò che afficit le papille del palato, ma solo quelle cose che le
afficiunt in certi tali modi, sono stati dotati dalla natura della
capacità di piacere a quell'organo. Così dico dell'odorato. La
teoria de' suoni e voci, e della musica, ha grandissima relazione con quella
de' sapori e degli odori (e anche de' colori per se stessi), e ne può
ricever gran lume. Ora queste tali teorie appartengono certo al piacevole o
dispiacevole, [1749]ma non mica al bello nè al brutto.
(20. Sett. 1821.)
Forza dell'assuefazione e dell'opinione sul
bello ec. Ho detto altrove che l'assuefazione ci fa parer passabile ed anche
bello, ciò che da principio ci parve brutto, o ci sarebbe paruto, se non
vi fossimo stati sempre assuefatti (v. il pensiero seguente). Or figuratevi di
vedere per un momento una tal persona, verso cui vi troviate in detta
circostanza, e di vederla senza riconoscerla. Ella vi parrà subito
brutta, e un momento dopo vi tornerà (riconoscendola) a parer passabile
o bella. Questa osservazione si dee riferire non solo alle forme, ma anche ai
moti, alle maniere, al contegno, al tratto ec. di coloro a cui siamo
assuefatti. Non riconoscendoli vi parranno brutti, e riconoscendoli
ritratterete in un punto il vostro giudizio. Viceversa dico di chi o per
antipatia, o per altre diversissime circostanze, che in vari luoghi ho
annoverate, ci soglia essere [1750]in concetto di brutto o spiacevole, e
che sia veduto da noi senza riconoscerlo. Spesso ti sarà accaduto di vedere
una persona che passi per bella, o che a te stesso sia paruta o paia tale, e
vederla senza conoscerla, o senza riconoscerla, e non parerti bella; e riconoscendola
o conoscendola, mutare immediatamente il giudizio. Viceversa dico di una
persona che passi per brutta, o tale tu l'abbi giudicata, o giudichi ec. Tutto
ciò si deve applicare ad ogni altro genere di bello o brutto
indipendente dalle forme o maniere e costumi umani, ed indole umana ec., ed
appartenente p.e. alla letteratura, alle arti ec.
(20. Sett. 1821.)
Dicevami taluno com'egli avea molto
conosciuto e trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già
matura, delle più brutte che si possano vedere, ma di maniere, di
tratto, d'indole, sì verso lui, che verso tutti gli altri, amabilissime,
politissime, franche, disinvolte, d'ottimo garbo. E che sentendo una volta
(mentr'egli era ancora fanciullo, ma grandicello) notare da un forestiero [1751]l'estrema
bruttezza di quella persona, s'era grandemente maravigliato, non vedendo com'ella
potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l'opposto. Questa medesima
persona era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi
parve bella quanto può essere un vecchio (giacchè il fanciullo
distingue pur facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi
ch'ella fosse bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch'ella fu
morta. E l'idea ch'io ne conservo, è ancora di persona piuttosto bella
benchè vecchia. (C. Galamini.) Così m'è accaduto intorno
ad altre persone parimente bruttissime. (V. Ferri.) Della bruttezza di altre
non mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole coll'occhio
più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e più
assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi.) V. il principio del
pensiero antecedente. Tale è l'idea del bello e del brutto ne'
fanciulli. Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune.
Probabilmente mi saranno anche parse bruttissime [1752]delle persone che
poi crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state belle (20.
Sett. 1821.). e anche bellissime.
Alla p.1681. marg. Tali persone, da premesse
evidentemente concepite, deducono in buona fede bene spesso delle conseguenze
diversissime, o anche al tutto contrarie a quelle che ne tira il comune degli
uomini (intendo di quegli uomini ai quali appartiene ciò che si chiama
senso comune, e che sono poi l'infinitesima parte del genere umano). Ovvero da
una premessa evidente e infallibile, fanno dipendere una minore, che secondo il
comune degli uomini o non vi ha niente che fare, o contraddice alla maggiore, o
a quella minore, che, secondo il comun senso, inevitabilmente risulta dalla
maggiore, ed è anche l'unica che ne risulti. (Così dico della
maggiore rispetto alla minore, o alla conseguenza). Così pure dalla
conseguenza risaliranno a una maggiore, o una minore affatto contraria, o disparata,
o ad ambedue le premesse di tal natura. Questo è ciò che forma le
teste storte (quante sono [1753]le dritte?) che non si persuadono co'
più palpabili raziocinii; che sono quasi affatto esenti dalla forza
della ragione e del senso comune, e indipendenti dagli stessi fondamentali
principii del ragionamento; che all'improvviso ti scappano d'un fianco con una
conclusione tutta contraria alle premesse, non già per ostinazione, ma
per intima persuasione, e per dettame del loro raziocinio, e perchè il
loro senso, la loro facoltà di ragione è fatta così.
(20. Sett. 1821.)
Alla p.1743. marg. Infatti è cosa
giornalmente osservabile e osservata, che l'uomo di vero talento, applicato a
cose per lui nuovissime, aliene ancora dalle sue inclinazioni, occupazioni
ordinarie, assuefazioni ec. riesce sempre meglio degli altri; capisce i
discorsi appartenenti alle professioni, discipline, cognizioni, ec. le
più lontane dalla sua; entra in tutti i raziocinii ben fatti; si
capacita senza molta fatica di qualunque affermazione o negazione vera,
sufficientemente spiegata, di qualunque probabilità, o parere opportuno;
discuopre facilmente le convenienze, [1754]i rapporti ec. o i loro contrarii,
nelle cose a lui meno familiari ec. ec. Insomma il carattere di un vero
talento, in qualunque genere esso si distingua, (o quantunque non si distingua
in nessun genere) è sempre quello di una capacità generale di
mente. Siccome quegli organi esteriori o materiali (come la mano ec.) che
posseggono in grado eminente qualche abilità, sono per lo più capacissimi
di facilmente contrarne delle altre, ancorchè diversissime. Così
la persona svelta ec. ec.
(20. Sett. 1821.). V. p.1778. fine.
Una persona niente avvezza alla buona lingua
italiana, chiama e giudica affettato tutto ciò che ha qualche sapore
d'italiano, ancorchè disinvoltissimamente scritto, e lontanissimo
dall'anticato. E gli antichi scrittori italiani, se non può chiamarli affettati,
li giudica però stranissimi, e di pessimo gusto in fatto di lingua; e
così forse accade a tutti noi italiani moderni, finchè non ci
avvezziamo a quella lingua, e appoco appoco la troviamo meno strana, [1755]e
finalmente bellissima. Qual è dunque il tipo dell'affettato e
inaffettato, e del buon gusto in letteratura ec. ec.? La sola assuefazione
ch'è tanto varia quanto gl'individui, e mutabile in ciascun individuo.
(21. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che quasi ciascun individuo
ha una lingua propria. Aggiungo che queste lingue individuali non solo si
distinguono in certe parole o frasi abituali affatto proprie di questo o quel
parlatore, ma anche nell'uso abituale di certe voci o frasi fra le molte o vere
o false sinonime che ha una lingua (massime se ricca, come l'italiana) per
esprimere una stessa cosa. La quale ogni volta che capita, eccoti il tal
parlatore con quella tal parola o frase, e quell'altro con quell'altra
diversissima, ciascuno secondo il suo costume. Così che il vocabolario
di ciascun parlatore, è distinto dagli altri, come ho detto di quello
degli scrittori greci e italiani individuali. Questi vocabolari composti [1756]sì
di queste voci o frasi scelte invariabilmente fra le sinonime, sì di
quelle che ho detto essere assolutamente proprie di questo o quell'individuo,
si perpetuano nelle famiglie, perchè il figlio impara a parlare dal
padre e dalla madre, e come ne imita i costumi e le maniere, molto più
la lingua. Il qual effetto massimamente ha luogo nelle famiglie degli
artigiani, de' poveri, ec. e molto più in quelle di campagna, come
più separate dalla società non domestica. Ha luogo pur
grandemente nelle famiglie delle classi elevate, che si tengono in un piede
assai casalino, o dove i figli si educano in casa, dove poco si studia e si legge,
e quindi poco s'ingrandisce la lingua abituale (la quale anche è poco
soggetta all'influenza dello studio), dove poco si tratta ec. E se bene
osserverete troverete sempre in queste tali famiglie un vocabolarietto proprio,
composto ne' modi che ho detto. E potrete anche osservare in molte di queste, [1757]parecchie
parole antichissime, e uscite dell'uso corrente, ma conservate e trasmesse di
generazione in generazione in dette famiglie. Cosa che a me è successo
più volte di osservare, e quelle parole o frasi non le ho mai sentite
fuori o di quella tal famiglia, o di quella tal parentela. Negli altri generi
di famiglie il detto effetto sarà minore, ma pur sempre avrà
luogo proporzionatamente. Così le lingue si van dividendo appoco appoco
nel seno di una stessa società, di uno stesso paese; il costume del
padre si comunica al figlio, e si perpetua; il figlio pure inventa qualche
parola ec. ec. e parimente la partecipa; le figlie le portano nelle famiglie in
cui entrano; e la lingua umana si va tuttogiorno diversificando e cangiando
faccia; e ciascuna famiglia viene a differire alquanto dalle altre nella
significazione de' suoi pensieri. (o parlata o anche scritta).
(21. Sett. 1821.)
[1758]Alla p.1723. Il caso della
persona che ho detto, era poi similissimo a quello insomma di tutte le persone
non assuefatte alla musica, e massime delle persone rozze, e del volgo. E
derivava non solo da poca delicatezza naturale di orecchio o di organi
interiori, ma da poca assuefazione dei medesimi, e dal non essersi conformati
mediante l'esercizio, in modo che quello che naturalmente non è
piacevole, o poco, lo divenisse in virtù della disposizione acquisita.
Quella persona e il volgo, non amano che i suoni forti ec. come tutte le
persone e popoli rozzi ec. non amano che i colori vivi, e non trovano alcun
piacere nei delicati e dolci, che ad essi paiono smorfiosi e svenevoli e da riderne.
V. la p.1668. capoverso 1. I piaceri in grandissima parte non sono piaceri, se
non in quanto noi ci siamo fatti delle ragioni e delle abitudini, perchè
lo sieno.
(21. Sett. 1821.)
Applicate il sopraddetto ai piaceri [1759]che
recano le altre arti belle, e i vari generi di letteratura ec. piaceri de'
quali il volgo non è suscettibile, se non nel più grosso ec. Ed
alle forme umane delicate che non piacciono al volgo, e ad altri tali generi e
fonti e ragioni di bellezze perfettamente ignote alla moltitudine.
(21. Sett. 1821.)
La più grande scienza musicale
è inutile per dilettare col canto senza una buona voce. Questa
può supplire al difetto o scarsezza di quella, ma non già
viceversa. Qual è dunque la principale sorgente del piacer musicale? Si
suol dire che i bravi compositori di musica non sanno cantare, perchè
non sovente si combina la disposizione naturale e acquisita degli organi
intellettuali con quella degli organi materiali della voce. E così il
più perfetto conoscitore e fabbricatore di armonia e di melodia pel canto,
saprebbe bene eseguire l'armonia e la melodia, ma non perciò recare
alcun diletto musicale.
Sogliono molto lodarsi le voci che [1760]si
accostano, e questo è uno de' principali anzi necessari pregi di un
vero buon cantore. Or questa proprietà che non si sa nemmeno esprimere,
nè in che cosa consista, è tutta propria della sola voce, e
indipendente affatto dall'armonia, le cui qualità si sanno bene e
matematicamente definire ed esprimere e distinguere. Essa non appartiene dunque
al bello, non più di un color dolce che si confa e piace all'occhio per
se stesso; o di un sapore, o di un odore ec. Alle volte detta proprietà
consiste nell'affettuoso, nel tenero, nell'espressivo ec. Cosa pure indipendente
dal bello, e appartenente all'imitazione, ec. ovvero alla passione, all'affetto
al sentimento che è piacevole senza essere perciò bello.
(21. Sett. 1821.)
Quanto più io gli dava di sprone (dice il
Rocca di un mulo spagnuolo ch'egli fu obbligato a cavalcare una volta in Ispagna),
tanto più raddoppiava i calci; io lo batteva, lo ingiuriava, ma le
mie minacce in francese non facevano che irritarlo. Io non sapeva il suo nome,
ed ignorava ancora in quel tempo che ogni mulo in Ispagna [1761]avesse
un nome particolare, e che per farlo andare fosse necessario dirgli nella
propria lingua: VIA, MULO, VIA SU, CAPITANO, VIA, ARAGONESE, ec. Memorie
intorno alla Guerra de' Francesi in Ispagna del Sig. di Rocca. Parte 1. Milano.
Pirotta. presso A. F. Stella. 1816. p.55. V. ancora alcune importanti notizie
sui costumi e la società dei cavalli selvaggi ec. p.134-37. Parte II.
Dunque, (e queste osservazioni si potrebbero
moltiplicare e variare in infinito) anche fra gli animali i diversi individui
di una medesima specie sono suscettibili di diversissime assuefazioni, come lo
sono gli stessi individui di variare assuefazione, il tutto secondo le
circostanze. Qual è dunque la nostra superiorità sugli animali
fuorchè un maggior grado di assuefabilità e
conformabilità, come fra le diverse specie di animali altre hanno queste
qualità in maggiore altre in minor grado; alcune, come le scimie, poco
meno dell'uomo? Dimostrato che tutte le [1762]facoltà umane ec.
ec. ec. non sono altro che assuefazione, è dimostrato che la natura
dell'animo umano, come quella del corpo, è la stessa che quella
dell'animo dei bruti. Solamente varia nella specie, ovvero nel grado delle
qualità, come pur variano in questo i diversi animi delle diverse specie
di bruti. Il bruto è più tenace e servo dell'assuefazione.
Ciò viene appunto da minore assuefabilità della nostra,
perchè questa, quanto è maggiore per natura, e resa maggiore per
esercizio, tanto più rende facile il cangiare, deporre, variare,
modificare assuefazione, come ho spiegato altrove. Gli animali sono tanto
più servi dell'assuefazione quanto meno sono assuefabili
proporzionatamente alla natura diversa delle specie e degl'individui; vale a dire
quanto minor talento hanno, cioè disposizione ad assuefarsi. V. p.1770.
capoverso 2. Quindi il mulo difficilissimo ad assuefarsi, è tenacissimo
dell'assuefazione e suo schiavo. Egli è un animale stupido. Gli animali
stupidi sono servi dell'assuefazione più de' vivaci ec. ec. Paragonate
su queste teorie l'asino al cavallo, la pecora [1763]al cane ec. ec. gli
animali indocili (cioè poco assuefabili, e però tenacissimi
dell'assuefazione o contratta da loro, o comunicata loro) ai docili ec. ec.
(21. Sett. 1821.)
Qualunque assuefazione o abito, non è
altro che un'imitazione, in questo modo, che l'atto presente, imita l'atto o
gli atti passati. Ciò tanto nell'uomo, quanto negli animali: tanto nelle
assuefazioni che si contraggono da se e spontaneamente, e senza volontà
determinata, attenzione ec. quanto in quelle che ci vengono comunicate, insegnate,
ec. ec. o per forza, o per amore, o per istudio, e con attenzione e
volontà di assuefarsi ec. ec. ec. Il cavallo che accelera il passo o si
mette in moto ad una certa voce, imita quello che fece altre volte, e quello
che l'uomo da principio lo costrinse a fare, nel mentre che gli fece udir
quella voce. Così e non altrimenti, l'uomo apprende, impara, ed acquista
sì le facoltà e discipline intellettuali, che le abilità,
e le facoltà materiali o miste. Qui pure, la natura dell'animo umano
è quella stessa del bruto.
(21. Sett. 1821.)
[1764]Il cavallo, il cane avvezzo a
ubbidire a una certa voce, a riconoscere il padrone a un certo fiuto ec. si
svezza tuttogiorno e brevemente da questo, si avvezza a nuove voci, nuovi
fiuti, nuove maniere di comandarlo, ec. in un nuovo padrone. Si avvezza ed
impara una nuova casa ec. ec. Altre specie, o individui meno assuefabili sia
per natura, sia per esercizio, si svezzano più difficilmente, come e
perchè più difficilmente si avvezzano. Non accade lo stesso
nell'uomo proporzionatamente e negl'individui umani?
(21. Sett. 1821.)
La memoria per potersi ricordare ha bisogno
che l'oggetto della ricordanza sia in qualche maniera determinato. Dell'indeterminato
ella non si ricorda se non difficilissimamente e per poco, o solo se ne ricorda
rispetto a quella parte ch'esso può avere di determinato. Chi vuol
ricordarsi di qualunque cosa bisogna che ne determini in qualche modo l'idea
nella sua mente; e questo è ciò che facciamo tutto giorno senza
pensarvi. Le parole determinano, i versi determinano. Or questa è
appunto la [1765]proprietà della materia: l'avere i suoi confini
certi e conosciuti, e il non mancar mai di termini per ogni verso, e di
circoscrizione. Tutto il secreto per aiutar la memoria, si riduce a materializzare
le cose o le idee quanto più si possa: e quanto più vi si riesce,
tanto meglio la memoria si ricorda. Bensì il progresso dell'assuefazione
cioè della facoltà della memoria fa ch'ella possa sempre
più facilmente ricordarsi di cose sempre meno materiali di quelle delle
quali le era possibile il ricordarsi da bambino e da fanciullo.
(22. Sett. 1821.)
Io ho per fermo che il bambino appena nato,
o certo nel primo tempo che succede al pieno sviluppo de' suoi organi nell'utero
della madre, non si ricordi dell'istante precedente. Quest'è un'opinione
che mi par dimostrata dal vedere come la facoltà della memoria vada
sempre crescendo a forza di assuefazione, onde il fanciullo si ricorda
più del bambino, il giovane più del fanciullo (del quale spesso
ci maravigliamo se mostra [1766]memoria di qualche cosa alquanto
lontana, di cui però ci sovveniamo senza pena, e consideriamo come uno
sforzo e una felicità di memoria in loro, quello che ci pare
ordinarissimo in un grande e in noi stessi) e così di mano in mano
finch'ella viene a declinare colla declinazione della macchina umana. Io dunque
penso che nel bambino perfettamente organizzato, non esista assolutamente
memoria, prima dell'assuefazione de' sensi, e dell'esperienze ec.
(22. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che anche il filosofo
può essere originale come il poeta, e distinguersi dagli altri nel
diverso modo di trattare le stessissime verità. Aggiungo ora che non
solo a' diversi individui, ma ad un medesimo individuo che soglia pensare, le
stessissime verità si presentano in vari tempi sotto sì diversi
aspetti (dico le stesse verità, e non le stesse cose, dalle quali
diversamente vedute si tirano diverse e contrarie proposizioni) che egli stesso
se non ha più che buona memoria e penetrazione e attenzione, [1767]appena
le riconosce per quelle verità che ha già vedute (o anche
scoperte) e considerate ec. Così che il filosofo (siccome il poeta)
può in una stessa verità diversificarsi ed essere originale, non
che rispetto agli altri, anche a se stesso.
(22. Sett. 1821.)
La forza e la facilità e
varietà dell'assuefazione sì nell'individuo, che nel genere
umano, cresce sempre in proporzione ch'ella è cresciuta, appunto come il
moto de' gravi. Ecco tutto il progresso e dell'individuo e dello spirito umano.
Questo pensiero è importantissimo, e in matematica o fisica non si
può trovare più giusta immagine di detti progressi, che il moto
accelerato.
(22. Sett. 1821.)
Alla p.1583. Ho detto: tutti vedono, ma
pochi osservano. Aggiungo, che basta talvolta annunziare una verità
anche novissima, perchè tutti quelli che hanno intendimento (escludo i
pregiudizi ec. ec. ec.) la riconoscano o certo la possano riconoscere subito,
prima della dimostrazione. Questo ci accade le mille volte leggendo o ascoltando.
Appena quella verità [1768]è trovata, tutti la conoscono,
e pur nessuno la conosceva. Ed accade allo spirito umano, o all'individuo ordinariamente,
che al primo accennarglisi una cosa ch'egli avea sotto gli occhi, ei la vede, e
pur prima non la vedeva, cioè la vedeva, ma non l'osservava, ed era come
non la vedesse. Questo è l'ordinario progresso de' nostri lumi in tutto
ciò che non appartiene alle scienze materiali, e bene spesso anche in
queste.
(22. Sett. 1821.)
Ho lodato l'Italia appetto alla Francia
perchè non ha rinunziato alla sua lingua antica, ed ha voluto ch'ella
fosse composta di cinque secoli, in vece di un solo. Ma la biasimerei
sommamente se per conservare l'antica intendesse di rinunziare alla moderna,
mentre se l'antica è utile, questa è necessaria; e molto
più se in luogo di compor la sua lingua di 5 secoli, la componesse come
i francesi di un solo, ma non di quello che parla (il che alla fine è
comportabile), bensì di quello che [1769]parlò quattro
secoli fa: ovvero anche se la volesse comporre de' soli secoli passati,
escludendo questo, il quale finalmente è l'unico che per essenza delle
cose non si possa escludere. Certo è lodevole che non si sradichi la
pianta, conservando i germogli, e trapiantandoli, ma perchè s'ha da
conservare il solo tronco spogliandolo de' germogli, delle foglie, de' rami;
anzi la sola radice tagliando il tronco, e guardando bene che non torni a crescere,
e che le radici se ne stieno senza produr nulla? E sarebbe ben ridicolo che
conservando sulla nostra favella l'autorità agli antichi che più
non parlano, la si volesse levare a noi che parliamo: e sarebbe questa la prima
volta che le cose de' vivi fossero proprietà intera de' morti. Sarebbe
veramente assurdo che mentre una parola o frase superflua nuovamente trovata in
uno scrittore antico, si può sempre incontrastabilmente usare quanto
alla purità, una parola o frase utile o necessaria, e che del resto
abbia tutti i numeri, nuovamente introdotta da un moderno, non si possa usare
senza impurità. Anzi quanto più la nostra lingua è
diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria
conseguenza, dev'essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al
pazzo avaro che per amor del danaio non mette a frutto il danajo, ma [1770]si
contenta di non perderlo, e guardarlo senza pericoli.
(22. Sett. 1821.)
Ho detto altrove dei moti vivi ec. ec. delle
persone naturali. Aggiungete il tuono di voce, aggiungete la inclinazione a'
colori, a' suoni forti ec. ec. delle quali cose ho parlato separatamente in
altri pensieri.
(22. Sett. 1821.)
Alla p.1762. marg. È notabile che la
fisonomia di questi tali animali poco e difficilmente assuefabili, presenta
visibili indizi di stupidità, ed un'aria simile alla fisonomia delle
persone di poco talento o poco esercitato. Egli è certo che v'ha somma
corrispondenza fra l'esterno e l'interno, fra la fisonomia e l'ingegno e le qualità
naturali o abituali. Quindi è certo che tali animali hanno in effetto,
se così posso dire, poco talento, e perciò poca assuefabilità
(la quale si vede), ch'è tutt'uno col talento.
Alcuni di essi (o sieno individui o specie)
possono anche avere tutta quella [1771]vivacità, mobilità
ec. che anche negli uomini (e molto più nelle diverse specie di animali,
le cui qualità possono ben diversamente combinarsi che non fanno
nell'uomo) non hanno a fare col talento, e neppure con notabile immaginazione,
anzi talvolta (come ne' fanciulli) sono effetto e segno (o forse anche cagione)
della mancanza di queste doti.
(22. Sett. 1821.)
Gli antichi da proposizioni e premesse che
conoscevano nè più nè meno quanto noi, deducevano
conseguenze contrarissime a quelle che noi ne tiriamo. Ciò mostra
ch'essi non conoscevano i rapporti delle proposizioni, altrimenti non potressimo
negare le loro conseguenze. Ma chi ci ha detto che noi li conosciamo meglio?
Come lo sappiamo noi se non a forza di sillogismi? Giacchè qualunque
affermazione o negazione ha bisogno di sillogismo: e ciascun sillogismo contiene
tanti sillogismi quanti sono i rapporti delle sue proposizioni fra loro.
Cioè bisogna che l'uomo si persuada sempre con un sillogismo
(benchè tacito) che [1772]se la tal cosa è, anche la tal
altra dev'essere. Senza questi sillogismi intermedj, nessun sillogismo vale, e
siccome questi ordinariamente si ommettono, o non son giusti, però
infiniti sillogismi son falsi, perchè non è vero il rapporto che
noi, o non sillogizando punto, o falsamente sillogizzando, supponiamo fra la maggiore
e la minore, fra queste e la conseguenza.
Qui potrei dimostrare che ogni sillogismo,
cioè ogni atto ed ogni nozione della nostra ragione, avendo bisogno di
più altri sillogismi, e questi di più altri in infinito, si arriva
al non poter trovare verun principio nè fondamento assoluto alla nostra
ragione, non potendo arrivare a un primo sillogismo che non abbia bisogno di
più altri. Così è infatti, e questa è la sostanza,
la ragione, la spiegazione, e il risultato del mio sistema, e qui
(benchè non sembri) consiste il metodo ch'io tengo per dimostrarlo. Nel
modo appunto che per negare una proposizione particolare che non abbia le
premesse [1773]false, non si può nè si fa mai altro che
distruggere i sillogismi intermedi del sillogismo su cui ella si fonda.
Ma io mi contenterò di dire. Se il
sillogismo inganna, e la nostra ragione non è altro affatto che
sillogismo, che cosa è ella dunque? Che il sillogismo inganni, stante il
rapporto delle proposizioni falsamente supposto, si vede nel citato esempio
degli antichi, nella differenza delle opinioni moderne, e delle conseguenze contrarie
che si tirano da verità identiche, ed ugualmente conosciute; e generalmente
da tutti quanti gli errori degli uomini da Adamo in qua; giacchè tutti
gli errori son conseguenze dedotte da altrettanti sillogismi, e quando anche le
premesse stesse di quel tale sillogismo sieno false, esse sono dedotte da altri
sillogismi, e così si rimonta a proposizioni delle quali tutti gli
uomini e tutta la ragione umana naturalmente conviene; e le quali non han
prodotto i detti errori se non a forza di rapporti falsamente supposti. [1774]Ma
fra tutti gl'immaginabili errori di qualsivoglia popolo, tempo, individuo,
è grandissimo il numero di quelli che si fondano immediatamente su di un
sillogismo dove non c'è altro di falso che la conseguenza, e quindi il
supposto rapporto delle tre proposizioni fra loro, o delle due premesse, o
dell'una di loro colla conseguenza. Tali sono specialmente gli errori
primitivi, semplici, fanciulleschi, e più vicini ai primi e puri ed principii
del ragionamento. E fra tanto essi sono de' più ridicoli e grandi, per
la somma e chiara falsità de' rapporti.
(22. Sett. 1821.)
Grazia dallo straordinario. I militari
sogliono piacere singolarmente alle donne, ancorchè talvolta resi
imperfetti da qualche disgrazia della guerra: anzi allora forse più che
mai. Ho udito di un Generale tedesco vivente, al quale manca deformemente un
occhio, onde porta la testa fasciata, il quale ha una straordinaria fortuna
colle donne.
(23. Sett. 1821.)
È molto facile lo scherzare sulle
cose straordinarie, sui difetti del corpo ec. La difficoltà consiste nel
saper muovere a riso sulle cose ordinarie. Il perchè lo troverai presto
se ci penserai, e potrai riferirlo agli altri tuoi pensieri analoghi.
(23. Sett. 1821.)
[1775]Consideriamo la gran
quantità delle persone imperfette o nella forma o nelle facoltà
del corpo, sia dalla nascita sia per infermità naturali sofferte nell'infanzia
o nella fanciullezza, prima insomma del perfetto ed intero sviluppo della
macchina, e della maturità del corpo. Paragoniamo questo numero di
persone imperfette nella loro maturità naturale, a quello degl'individui
imperfetti in qualsivoglia specie di animali, avuta ragione della rispettiva numerosità
di ciascuna specie, e lo troveremo strabocchevolmente maggiore. Che vuol dir
ciò, se non che l'uomo è corrotto, e che il suo stato presente
non è quello che gli conviene? Così per certo giudicheremmo e
giudichiamo ogni qual volta ci vien fatta qualche simile osservazione intorno a
qualunque specie o genere di enti naturali appartenente a qualsivoglia de' tre
regni. Solamente a riguardo dell'uomo siamo ben lungi dal pronunziare un tale o
simile giudizio; perchè l'uomo [1776]secondo noi, non ha che far
colla natura, e le sue imperfezioni derivano non già dall'essersi egli
allontanato, ma dal non essersi abbastanza ancora allontanato dalla natura.
Aggiungo che la sproporzione fra
gl'imperfetti della razza umana e delle razze animali, si troverà molto
maggiore se si considereranno le razze selvatiche ec. piuttosto che le
domestiche. Sebbene ella si troverà grande anche rispetto a queste,
perchè queste, malgrado le nostre benefiche cure, sono e saranno assai meno
lontane di noi dalla natura. Somma sproporzione si troverà pure fra il
numero degl'imperfetti nelle razze umane civili, e quello de' medesimi nelle
razze selvagge, montanare, campestri, laboriose ec. e così scendendo di
mano [in mano] in proporzione della maggiore o minor civiltà o
corruzione delle diverse classi e popoli.
(23. Sett. 1821.). V. p.1805. fine.
Ho detto altrove: non si può fare,
quello che troppo si vuol fare. Perciò giornalmente si osserva che una
cosa sfugge alla memoria nel punto ch'ella si vuol ricordare, [1777]e se
le offre spontaneamente quando non ce ne curiamo. Infatti ogni volta che con
soverchia contenzione di mente ci mettiamo per richiamarci una ricordanza la
più presente, e che ci sovverrà forse poco dopo, possiamo esser
sicuri di non ritrovarla, finchè non abbiamo cessato di cercarla. Nel
qual punto medesimo bene spesso ella ci sovviene. Così noi ci ricordiamo
sempre di quel che ci siamo prefisso o che abbiamo desiderato di dimenticare, e
ce ne ricordiamo nel tempo che appunto non volevamo.
Queste osservazioni provano ancora l'altro
mio pensiero che il troppo è padre del nulla.
(23. Sett. 1821.)
Quello che ci desta una folla di rimembranze
dove il pensiero si confonda, è sempre piacevole. Ciò fanno le
immagini de' poeti, le parole dette poetiche ec. fra le quali cose, è
notabile che le immagini della vita domestica nella poesia, ne' romanzi,
pitture ec. ec. ec. riescono sempre piacevolissime, gratissime amenissime
elegantissime e danno qualche bellezza, e ci riconciliano talvolta alle
più sciocche composizioni, ed agli scrittori i più incapaci di
ben presentarle. Così quelle della vita rustica [1778]ec. il cui
grand'effetto deriva in gran parte dalla folla delle rimembranze o delle idee
che producono, perocch'elle son cose comuni, a tutti note, ed appartenenti.
Quindi si veda con quanto giudizio i bravi
tedeschi, inglesi, romantici (ed anche francesi moderni) scelgano di preferenza
le similitudini, gli argomenti, i costumi ec. dell'Oriente, dell'America ec.
ec. per le immagini ec. della loro poesia. Il che esclude affatto la rimembranza.
E quindi si veda quanto importi al poeta il trattare argomenti nazionali, e il
servirsi di quella natura e di quell'esistenza che circonda i suoi uditori, in
tutti gli usi della poesia, del romanzo ec.
(23. Sett. 1821.)
Alla p.1754. L'uomo di gran talento si
riconosce sempre e subito in qualunque occasione, da chiunque è capace
di riconoscere. È impossibile ch'egli sia mai trovato assolutamente
incapace e inetto in nessuna cosa. Per nuova ch'ella gli sia egli sarà
sempre proporzionatamente superiore [1779]alle persone di piccolo
talento, che però vi sono avvezze. ec. (23. Sett. 1821.). Il gran
talento s'impratichisce anche ben presto di qualunque cosa,
purchè sia esercitato, ed avvezzo.
Un certo torpore dell'animo e del corpo che
è cagionato talvolta dall'avvicinamento del sonno, è
piacevolissimo. Il sonno stesso non è piacevole se non in quanto
è torpore, dimenticanza, riposo dai desiderii, dai timori, dalle speranze,
e dalle passioni d'ogni sorta. Le lodi che dà Orazio all'ubbriachezza
versano per lo più sulla dimenticanza, e quindi sul torpore ch'ella
cagiona. Per causa della dimenticanza è pur piacevole un'allegria viva,
dove l'anima rinunzia come a se stessa, e intorpidisce affatto per una parte,
mentre si ravviva per l'altra. La dimenticanza insomma e la quiete totale delle
passioni è sempre piacevole, da qualunque cagione prodotta, siccome per
lo contrario è piacevole la vita delle passioni.
(24. Sett. 1821.)
Noi diciamo agevole ec. i francesi aisé,
la qual parola è manifestamente corrotta, e deriva da un'altra a cui la
nostra s'avvicina molto più; cioè agibilis, quod agi [1780]potest,
siccome facilis, quod fieri potest, onde viene a dir quasi lo stesso,
come infatti agevole è sinonimo di facile. Si vede dunque
che questa parola agibilis in senso di facile apparteneva al
volgare latino, dal quale rimase in due diverse lingue che ne derivarono.
Giacchè il latino barbaro de' bassi tempi era diversissimo non solo
nelle diverse nazioni, ma quasi in ciascuna provincia, scrittore ec. Ed aisé
deriva da agibilis o agevole, come poi da aise ec.
derivò il nostro agio agiato agiatamente adagio ec. Tutte
corruzioni moderne della radice ago. V. Forcellini e Ducange.
(24. Sett. 1821.)
Una sorgente di piacere nella musica
indipendente dall'armonia per se stessa, dall'espressione, dal suono ancora o
dalla natura del canto in quanto voce, ec. ec. sono gli ornamenti, la
speditezza, la volubilità, la sveltezza, la rapida successione,
gradazione, e variazione dei suoni, o de' tuoni della voce, cose le quali
piacciono per la difficoltà, per la prontezza, (ho detto altrove,
cioè p.1725. capoverso 2. perchè [1781]questa sia
piacevole) per lo straordinario ec. tutto indipendente dal bello. Senza la
vivace mobilità e varietà de' suoni sia in ordine alla
armonia, sia alla melodia, la musica produrrebbe e produce un effetto ben diverso.
Un'armonia o melodia semplicissima, per bella ch'ella fosse annoierebbe ben
tosto, e non produrrebbe quella svariata moltiplice, rapida, e rapidamente mutabile
sensazione, che la musica produce, e che l'animo non arriva ad abbracciare. ec.
Viceversa queste difficoltà, questi ornamenti, queste agilità, se
mancano di espressione ec. ec. non sono piacevoli che agl'intendenti. La musica
degli antichi era certo assai semplice, e non è dubbio ch'ella non
producesse ben diverso effetto dalla nostra. Osserviamo bene, quando ascoltiamo
una musica che ci colpisce, e vedremo quanta parte del suo effetto provenga
dall'agilità ec. de' tuoni, de' passaggi, ec. indipendentemente dall'armonia
o melodia in quanto armonia o melodia.
[1782]La musica anche la meno
espressiva, anche la più semplice ec. produce a prima giunta nell'animo
un ricreamento, l'innalza, o l'intenerisce ec. secondo le disposizioni relative
o dell'animo o della musica, immerge l'ascoltante in un abisso confuso di
innumerabili e indefinite sensazioni, lo spinge a piangere quando anche il compositore
abbia voluto farlo ridere, gli desta idee e sentimenti affatto arbitrarii e
indipendenti dalla qualità di quella tal musica e dall'intenzione del
compositore o dell'esecutore. Guardiamoci bene dal confondere il piacevole col
bello. Tutto ciò non è che piacere. E questo deriva sì
dalla moltiplicità delle dette sensazioni indefinite ec. sì
dall'inclinazione, dal legame che la natura arbitrariamente ha posto fra le
sensazioni del suono o canto e l'immaginazione, dalla facoltà che ha
dato loro di afficere piacevolmente l'orecchio, (come a' sapori il palato)
ovvero l'animo, [1783]e di eccitare in chi più, in chi meno, in
chi nulla, quando più, quando meno, quando nulla, l'immaginazione, ec.
come l'ha data, sebbene in minor grado, agli odori, che nessuno chiama belli,
ma piacevoli.
Quelli che (come si dice) non hanno
orecchio, non sono persone incapaci di distinguere l'armonico dal disarmonico
ec. (questo farebbe contro voi altri), ma persone a quali l'orecchio è
poco suscettibile, e quindi l'animo poco disposto ad esser mosso o affetto da'
suoni e voci del canto, siccome coloro che hanno poco odorato, poco gusto ec.
Il loro giudizio non pecca sul piacevole o non piacevole di un odore o di un
cibo, e quindi non è falso, ma bensì il loro organo pecca d'insuscettibilità.
Questa osservazione dimostra come l'essenziale piacere della musica derivi dal
suono e canto propriamente considerato, e indipendente dall'armonia, la quale
mediante l'assuefazione (o secondo voi, [1784]mediante un senso universale
ed innato) tutti sono capaci presto o tardi di distinguere esattamente da
quella che si considera da' suoi compagni come disarmonia. Ed è certo
che l'uomo di peggiore orecchio, arriva benissimo a questo effetto, mediante lo
studio, e può anche divenir sommo compositore o esecutore, nè
perciò migliora l'orecchio suo; segno che il senso e l'effetto della
musica si divide in due, l'uno derivante dall'armonia, l'altro dal puro suono.
Ma perchè questo è il principale, però l'uomo il
più intendente dell'armonia sì musicale che qualunque, se ha
cattivo, cioè non suscettibile, orecchio, non può essere se non
mediocremente dilettato dalla musica.
Di questi due effetti della musica, l'uno
cioè quello dell'armonia è ordinario per se stesso, cioè
qual è quello di tutte le altre convenienze. L'altro, cioè
del suono o canto per se stesso, è straordinario, deriva da particolare
e innata disposizione della macchina umana, ma non [1785]appartiene al
bello. Questa stessissima distinzione si dee fare nell'effetto che produce
sull'uomo la beltà umana o femminina ec. e la teoria di questa
beltà può dare e ricevere vivissimo lume dalla teoria della
musica. L'armonia nella musica, come la convenienza nelle forme umane, produce
realmente un vivissimo e straordinario e naturalissimo effetto, ma solo in
virtù del mezzo per cui essa giunge a' nostri sensi (cioè suono o
canto, e forma umana), o vogliamo dire del soggetto in cui essa armonia e
convenienza si percepisce. Tolto questo soggetto, l'armonia e convenienza
isolata, o applicata a qualunque altro soggetto, non fa più di gran
lunga la stessa impressione. Bensì ella è necessaria
perchè quel soggetto faccia un'impressione assolutamente, pienamente, e
durevolmente piacevole. Così si dimostra che quanto vi ha d'innato,
naturale, e universale nell'effetto della bellezza musicale ed umana, non
appartiene alla bellezza, ma [1786]al puro piacere, o all'inclinazione e
natura dell'uomo che produce questo, come cento altri maggiori o minori
piaceri, generali o individuali, che nessuno confonde col bello.
Io credo ancora che molti uomini o per
infermità, o per natura ec. ec. non solo non sieno dilettati, ma
decisamente disgustati o da tutti o da alcuni de' suoni o voci piacevoli al
comune degli uomini. Ciò accade appunto in molte specie di animali
organizzate altrimenti che la nostra, sebbene altre specie organizzate analogamente
alla nostra, gradiscano detti suoni ec.
Molto più credo, anzi son quasi certo
di questo, rispetto alle diverse armonie, ed al deciso disgusto ed effetto
disarmonico ch'elle producono in certi uomini e in certe specie di animali.
(24. Sett. 1821.)
Più l'uomo è avvezzo a
imparare (cioè assuefarsi), più facilmente impara. Or lo stesso
accade ne' bruti. Un animale domestico ec. ec. contrae più facilmente e
presto di un salvatico della stessa specie, un'assuefazione egualmente nuova
per ambedue. [1787]
(24. Sett. 1821.)
Taluno mi raccontava che essendo solito a
recar da mangiare ad alcuni pulcini, questi gli si affollavano intorno appena
lo scoprivano. Ma un giorno avendo solamente fatto segno di volerne prendere uno,
dopo quella sola volta, tutti lo fuggivano appena comparso. Egli
se ne maravigliava, ma questo effetto mi par giornaliero, e son certo che que'
pulcini incominciarono a venirgli attorno fin dalla 2da volta ch'egli
portò loro a mangiare. Assuefazione e dissuefazione negli animali.
(24. Sett. 1821.). V. p.1806. capoverso 1.
Egli notava ancora che quell'uno in
quell'atto non era stato veduto dagli altri. Linguaggio di società fra
gli animali.
(24. Sett. 1821.)
Chi vuole o dee fare un mestiere al mondo,
se vuol trarne alcun frutto, non può scegliere se non quello
dell'impostore, in qualunque genere. La letteratura è stato sempre il
più sterile di tutti i mestieri. Il [1788]vero letterato (se non
mescola alla verità l'impostura) non guadagna mai nulla. Eppur
l'impostore arriva a render fecondo anche questo campo infruttifero, e uno de'
maggior miracoli dell'impostura si è di render fruttuosa la letteratura.
L'impostura è una condizione necessaria per tutti i mestieri o veri o
falsi. Se le lettere e la dottrina frutta mai nulla, ciò è
all'impostore, e in virtù non della verità (quando anche vi sia
mescolata), ma dell'impostura.
(25. Sett. 1821.)
Gl'illetterati che leggono qualche celebrato
autore, non ne provano diletto, non solo perchè mancano delle
qualità necessarie a gustar quel piacere ch'essi possono dare, ma anche
perchè si aspettano un piacere impossibile, una bellezza, un'altezza di
perfezione di cui le cose umane sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano
l'autore, si ridono della sua fama, e lo considerano come un uomo ordinario,
persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così
accadeva a me nella prima giovanezza [1789]leggendo Virgilio, Omero ec.
(25. Sett. 1821.)
Le parole lontano, antico, e simili
sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste, e indefinite,
e non determinabili e confuse. Così in quella divina stanza dell'Ariosto
(I. 65.)
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch'è passato il fulmine, si leva
Di là dove l'altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l'aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva;
Tal si levò il Pagano a piè
rimaso,
Angelica presente al duro caso.
Dove l'effetto delle parole di lontano
si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto
per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed
idee; l'effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l'una delle due.
(25. Sett. 1821.)
Sugl'inconvenienti accidentali nel sistema della natura v. Dutens
par.4. c.5. §.325-26. [1790]Questa materia si può insomma
riportare alla famosa quistione dell'origine o principio del male.
(25. Sett. 1821.)
Nel tentativo di una transazione tra gli
antichi e i moderni aggiunto per terzo tomo dal traduttore Napoletano
all'opera del Dutens, Origine delle scoperte attrib. a' moderni, cap.
ult. §.2. v. due bei passi di S. Tommaso ne' quali viene ad affermare la
perfezione di tutto ciò che è, non rispetto ad alcuna ragione antecedente,
ma perciò solo che è così fatto; e la possibilità
di altri ordini di cose, diversissimi di perfezione, e infiniti di numero.
(25. Sett. 1821.)
Niente più sciocco che il considerare
l'idea dello spirito come essenzialmente inseparabile da quella di ente
semplice, e il confondere l'idea astratta della composizione con quella della
materia. Quasi che le sostanze componenti non potessero esser che materiali, e
non ci potesse essere una sostanza composta ma immateriale, perchè
composta di sostanze immateriali. Il che è tanto [1791]possibile
e facile nè più nè meno quanto che esistano sostanze
materiali composte. Se possono esistere sostanze immateriali, possono anche esistere
sostanze composte di sostanze immateriali, e benchè composte non saranno
mai altro che immateriali. Quindi trovata l'idea dello spirito, non si è
fatto altro che trovare una cosa di cui nulla possiamo negare o affermare, non
già l'idea astratta dell'ente semplice. Lo spirito potrà
dividersi all'infinito come la materia, e dopo giunti allo spirito, dovremo
tanto penare per raggiungere l'ente semplice o la sua idea, quanto dopo la
cognizione della materia.
Così dico dell'idea delle parti.
(25. Sett. 1821.)
Si può dire (ma è quistione di
nomi) che il mio sistema non distrugge l'assoluto, ma lo moltiplica;
cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto
ciò che si chiama relativo. Distrugge l'idea astratta ed antecedente del
bene e del male, del vero e del falso, del perfetto [1792]e imperfetto
indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri
possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la
ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch'essi esistono
così, e sono così fatti; perfezione indipendente da qualunque
ragione o necessità estrinseca, e da qualunque preesistenza. Così
tutte le perfezioni relative diventano assolute, e gli assoluti in luogo di
svanire, si moltiplicano, e in modo ch'essi ponno essere e diversi e contrari
fra loro; laddove finora si è supposta impossibile la contrarietà
in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava
assolutamente e indipendentemente buono o cattivo; restringendo la
contrarietà, e la possibilità sua, a' soli relativi, e loro idee.
(25. Sett. 1821.)
La filosofia sarebbe capace di dare
all'animo quel torpore e quella possibile noncuranza che ho detto esser
piacevole. Ma come questa benchè assopisca la speranza, nondimeno in
fondo la contiene, anzi talvolta l'accresce, mediante lo stesso non curarsi di
nulla, e la stessa disperazione, [1793]così la filosofia che per
se stessa spegne del tutto la speranza, non può cagionare all'animo uno
stato piacevole, se non essendo una mezza filosofia, ed imperfetta, (qual ella
è ordinariamente), o quando anche sia perfetta nell'intelletto, non avendo
influenza sull'ultimo fondo dell'animo, o rinunziandoci avvedutamente essa
stessa.
(26. Sett. 1821.)
Quello che ho detto altrove della bellezza o
bruttezza il cui giudizio bene spesso si muta, vedendo una persona conosciuta e
non riconoscendola, si può estendere non solo ad altri generi di bello e
brutto, ma eziandio ad altre qualità degli oggetti, (umani o no) e fino
alla statura (quantunque l'idea di questa paia immutabile) della quale ancora,
nelle persone conosciute, ci formiamo una certa idea abituale, le cui
proporzioni comparative bene spesso si mutano, e crescono o scemano, se per
caso vediamo quelle stesse persone senza riconoscerle, ancorchè le
vediamo isolate, [1794]e fuori della comparazione d'altre stature, la
quale cambia assai spesso l'idea delle proporzioni ec.
(26. Sett. 1821.). V. p.1801
Æ, (io
però) ÷ J , J J . Parole
di Agesilao (modello di virtù, secondo Senofonte, dovunque egli ne
parla) a Coti re de' Paflagoni, messegli in bocca da Senofonte, l'uno de' primi
maestri di morale a' suoi tempi. ( , , §. .) Oggi chi volesse dire una sentenza
notabile, direbbe tutto il rovescio. Così cambia la morale.
(26. Sett. 1821.)
Non solo il fanciullo non ha nessun'idea del
bello umano, e ha bisogno dell'assuefazione per acquistarla, ma per perfezionarla,
e gustare tutti i piaceri che può dar la sua vista, è bisogno
un'assuefazione lunga, variata, particolare, e conviene anche per essa divenire
intendenti, come per gustare il bello delle arti, o delle scritture. [1795]Anche
per essa, vi bisogna attenzione particolare, e facoltà generale di
attendere, contratta coll'assuefazione. Il giovane tenuto in stretta custodia,
le persone ritirate, le monache ec. ec. distinguono certo il bello dal brutto,
ma il più bello dal più brutto, se la cosa non è
più che notabile, non lo distinguono, non lo sentono, non hanno
nè un giudizio nè un senso fino intorno alla bellezza, insomma
non se [ne] intendono. Questo accade anche alle persone di gran talento, di
gran sentimento, ed entusiasmo, se, e finchè si trovano in dette e simili
circostanze, nelle quali quasi tutti si trovano per qualche tempo. Questo
accade alle persone nutrite nella devozione, scrupolose ec. I loro giudizi in
questi particolari sono stranissimi, e forse più strani rispetto al
sesso diverso, che al proprio, appunto per la minore attenzione che v'hanno
messo ec. a causa dello scrupolo. Questo accade agl'ignoranti, rozzi, ec. o
sieno villani, o anche delle classi elevate ec. perchè non hanno l'abito
nè quindi la facoltà di attendere ec. ec. In somma [1796]non
si acquista l'idea della bellezza o bruttezza umana o qualunque, se non
considerando ben bene come gli uomini (o qualunque oggetto fisico o morale) son
fatti. E quindi la bellezza o bruttezza non dipende che dal puro modo di essere
di quel tal genere di cose; il qual modo non si conosce per idea innata, ma per
la sola esperienza, e non si conosce bene, se non vi si unisce l'attenzione o
volontaria, o spontanea ed abituale.
(26. Sett. 1821.)
Sul proposito che una lingua nuova non
s'impara se non per mezzo della propria, osservate che noi siamo soliti a misurare
la regolarità o irregolarità di una lingua, tanto in genere,
quanto in ordine a ciascuna costruzione, frase ec. dalla conformità
ch'essa lingua ha colla lingua nostra e sue frasi ec. Onde ci sembra regolare,
non ciò che lo è per natura, e ragione analitica, ma ciò
che corrisponde esattamente alla maniera della nostra lingua, [1797]ed a
quell'ordine di espressioni e d'idee e di segni, al quale siamo abituati. E
così proporzionatamente fino all'irregolarità, la quale
benchè sia regolarissima, ci pare generalmente irregolare quando
discorda dall'ordine abituale della nostra loquela. Applicate queste osservazioni
1. al proposito dei francesi incapaci di ben conoscere un'altra lingua, e
giudicarla; e degl'italiani, capacissimi, perchè la loro lingua si
presta quanto è possibile fra le moderne, ad ogni maniera di favellare,
2. alla debolezza e moltiplicità della ragione umana, alla mancanza di
tipo universale per lei, all'influenza che su di essa esercita l'assuefazione.
Quindi è che p.e. agl'italiani dee
parer la lingua più regolare del mondo, la spagnuola: ai moderni, e
massime ai francesi, dee parere irregolarissima e figuratissima ogni lingua
antica, e massime la latina. Agli antichi (e proporzionatamente agl'italiani)
non pareva certo così. ec. ec. ec. [1798]
(26. Sett. 1821.)
Delle differenze del carattere di una stessa
specie di animali, secondo i climi, v. Rocca, Guerra di Spagna, Milano 1816.
Parte 2. p.202.
(26. Sett. 1821.)
Dell'effetto che fa negli animali il color
vivo (siccome pur ve lo fa il suono analogamente a quello che fa nell'uomo), v.
ib. p.203. fine e 204. fine. Anch'esso effetto sarà certo differente
secondo i climi, e maggiore ne' meridionali. (Così pure potrà
dirsi de' vari suoni). Sarà però sempre maggiore negli animali
che nell'uomo, perchè più naturali.
(26. Sett. 1821.)
Le parole notte notturno ec. le
descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte
confondendo gli oggetti, l'animo non ne concepisce che un'immagine vaga,
indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene.
Così oscurità, profondo. ec. ec.
(28. Sett. 1821.)
Tanto è vero che l'effetto delle
immagini campestri dipende in massima parte [1799]dalla copia delle
rimembranze, che se tu descrivi p.e. un campo o raccolta ec. di legumi, non
farai punto un effetto nè così vivo, nè così
grande, nè piacevole, come descrivendo un campo di spighe, la messe, la
vendemmia, ec. Perocchè quelle cose sono poco, o certo meno note,
osservate, e familiari a coloro che leggono poesie ec.
Ond'è che il fanciullo il quale per
necessità ha poche rimembranze (ha però somma immaginazione) deve
trovar poco dilettevoli e belle molte bellissime parti delle più grandi
poesie. Così dico delle diverse professioni, abitudini ec. le quali
diversificando le rimembranze secondo gl'individui, diversificano ancora
l'effetto delle diverse poesie ec. e delle loro parti, e quindi anche il
giudizio che gl'individui ne pronunziano. Forse un uomo di poca memoria non
è molto atto a gustar poesie. Così un uomo non avvezzo ad
attendere. Così un uomo non sensibile nè suscettibile ec.
(28. Sett. 1821.). V. p.1804.
[1800]La lingua tedesca si è
veramente formata più recentemente che la francese. Ma perch'ella non
è stata formata da nessun Accademia e da nessun Dizionario, perch'ella
non ha quindi perduta la libertà che è primitivamente propria di
tutte le lingue, perciò ella acquistando il moderno (come ha fatto il
francese, e potrebbe far l'italiano), non ha perduto l'antico (come ha fatto il
francese); è divenuta propria alla filosofia, ed è restata
propria all'immaginazione; non si è impoverita nè intimidita
nè fatta monotona, (come la francese, e la barbara italiana de' nostri
tempi); e includendo nelle sue facoltà il secolo presente non ha escluso
i passati come la francese, nè includendo i passati ha escluso il
presente, come l'italiana. Grand'esempio per noi, e conferma della
possibilità di ciò ch'io propongo.
(28. Sett. 1821.)
Il vigore o costante o effimero, produce
nell'uomo un gran sentimento di se [1801]stesso, lo rende nella sua
immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo fa
sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le ingiustizie
ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l'uomo vigoroso si sente, si
giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo.
(28. Sett. 1821.)
Alla p.1794. principio. Così dico
delle prevenzioni. Bene spesso accade che tu vedendo p.e. un Signore, non lo
giudichi di bel tratto, ma alla fine sapendo ch'egli è un Signore, il
suo portamento ti par signorile. Se lo vedrai senza riconoscerlo, le sue
maniere ti parranno affatto plebee.
(28. Sett. 1821.)
Una fisonomia di donna che somigli a quella
di un uomo che tu conosci (senza però aver nulla di virile), a quella di
un vecchio (o vecchia) che tu conosci, (senza però aver nulla di senile)
ti parrà dispiacevole per ciò solo, senza verun difetto in se
stessa. E per [1802]quanto proccurerai di astrarre dall'idea di quella
somiglianza, non potrai mai (senza qualche circostanza particolare)
spogliartene in modo che quella persona ti paia tale quale pare ad altri o meno
attenti ed immaginosi, o ignari affatto di quella somiglianza. Così
dirò di un uomo rispetto alle donne ec.
(28. Sett. 1821.)
Anche gli organi esteriori, perduta
l'assuefazione generale, divengono generalmente inabili, quando anche
una volta fossero stati abilissimi. Io aveva da fanciullo una sufficiente
abilità generale di mano, a causa dell'esercizio, lasciato il quale dopo
alcuni anni, non so più far nulla con quest'organo, se non le cose ordinarie;
ed ho quindi affatto perduta la sua abilità, tanto per quello ch'io
già sapeva fare, quanto per qualunque nuova operazione che allora mi
sarebbe riuscito facile di apprendere. Ecco un'immagine della natura del
talento.
(28. Sett. 1821.)
Non si sviluppa propriamente nell'uomo o
nell'animale veruna facoltà. Bensì si sviluppano gli organi
dell'uomo e dell'animale, e cogli organi, naturalmente, le loro [1803]naturali
disposizioni o qualità, che li rendono (secondo ch'elle sono in maggiore
o minor grado, che hanno questa o quella proprietà, che sono in maggiore
o minor numero, che sono più o meno sviluppate, a seconda
dell'età, e degli accidenti corporali dell'individuo) capaci di
acquistare coll'assuefazione questa o quella facoltà, in maggiore o
minor grado, numero ec. Ma l'assuefazione ha tanta forza di modificare gli
organi (specialmente umani, più conformabili degli altri) che una sola
qualità o disposizione di essi è suscettibile d'infinite e
diversissime facoltà, e in diversissimi gradi; il tale individuo
avrà una facoltà, che un altro della specie stessa è
così lontano dal possedere, che appena gli parrà compatibile
coll'assoluta natura della sua specie ec. ec. ec.
(28. Sett. 1821.)
Una prova dell'indebolimento delle
generazioni (v. il N. Ricoglitore, quaderno 31, p.481.) si è il vedere come
oggi gli uomini generalmente e segnatamente le femmine sieno (non per sola
smorfia, ma in effetto) [1804]incapaci dell'uso degli odori, che nuoce
assolutamente ai loro nervi (e quanto il sistema nervoso influisca e modifichi
tutta la macchina e la vita umana, ciascuno lo sperimenta), massime gli odori
vivi, de' quali era sì gradito e continuo l'uso non solo fra i greci e
romani, com'è noto, ma fra' nostri antenati, come si vede nel grande e
costantissimo odore che esala da' vecchi armadi, scaffali, drappi d'ogni sorta
ec. ec. Oggi, massime la donna (che per l'addietro era familiarissima agli
odori), non può comportare se non gli odori deboli (e neppur questi a
lungo, nè troppo spesso), siccome la civiltà rende odiosi i colori
forti, introduce il gusto de' sapori languidi e dilicati. ec. ec.
(29. Sett. dì di S. Michele. 1821.)
Alla p.1799. Le rimembranze che cagionano la
bellezza di moltissime imagini ec. nella poesia ec. non solo spettano agli
oggetti reali, ma derivano bene spesso anche da altre poesie, vale a dire che
molte volte un'immagine ec. [1805]riesce piacevole in una poesia, per la
copia delle ricordanze della stessa o simile imagine veduta in altre poesie. Le
imagini campestri sono in questo caso, per esser soliti i poeti a trattarle.
Quindi si veda 1. quanto l'effetto delle più belle ed universalmente
stimate poesie, ec. sia relativo, vario, maggiore o minore secondo gl'individui.
2. quante bellezze che si ammirano, si stimano tutte proprie di quel tal poeta,
e derivanti dal suo ingegno, e dalla natura assoluta della sua poesia ec. non
derivino che da circostanze affatto estranee, accidentali e variabili, con poco
merito del poeta, s'egli stesso non ha mirato a prevalersi appostatamente di
tali circostanze ec. ec. ec.
(29. Sett. 1821.)
Alla p.1776. fine. Queste osservazioni si
denno estendere ancora a tutti i generi di malattie, abituali o no,
accidentali, o costituzionali, di qualsivoglia età ec. paragonando il
numero de' malati e delle malattie, le loro qualità ec. nel genere umano,
[1806]cogli altri generi animali. Sto per dire che quello si
troverà contenere più malati e malattie, ed imperfezioni
corporali d'ogni genere (salendo comparativamente d'età in
età), che non ne contengono tutti questi insieme.
(29. Sett. 1821.)
Alla p.1787. Infatti è cosa molto
ordinaria che l'animale scampato una volta da un'insidia, da un pericolo ec.
non v'incappi più; e si suol dire che il cane scottato dall'acqua calda
ha paura della fredda. Questo pur varia in proporzione dell'assuefabilità
(cioè talento) delle diverse specie.
(29. Sett. dì di S. Michele. 1821.)
Alla p.1127. marg. Gli spagnuoli moderni
sostituiscono l'h anche al v, onde dicono hueco
(vòto), che anticamente dovette dirsi vueco da vacuus.
(29. Sett. 1821.)
Una parola o frase difficilmente è
elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare. Intendo che
difficilmente le converrà l'attributo di elegante, non già
ch'ella debba perciò essere inelegante, e che una [1807]scrittura
elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo. Le parole
antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote
dall'uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e
peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla
disinvoltura, e convenienza loro colle parole e frasi moderne.
Quindi è che infinite parole e frasi
che oggi sono eleganti, non lo furono anticamente, perchè non ancora
rimosse o diradate nell'uso; giacchè tutto ciò ch'è antico
fu moderno, e tutte le parole o frasi proprie di una lingua, furono un tempo
volgari e quotidiane.
Quindi si argomenti quanto sia giovevole
all'eleganza dello scrivere italiano (del quale è veramente e
assolutamente propria l'eleganza più che di qualunque altra lingua
moderna) il non aver la nostra lingua rinunziato mai al suo antico fondo, in
quanto le può ancora convenire.
[1808]Da queste ragioni deriva in
parte un effetto che si osserva in tutti i primitivi scrittori di qualsivoglia
lingua. Essi non sono mai eleganti, bensì ordinariamente familiari. La
familiarità essendo anch'essa bellissima, si confonde molte volte coll'eleganza,
e può considerarsi come una delle sue specie (massime quando la stessa
familiarità cagiona il pellegrino nella scrittura, per non esser solita
a venirvi applicata). Ma io qui non intendo parlare di quella eleganza di cui
il Caro in verso e in prosa può essere un modello, bensì di
quella di cui saranno eterni modelli a tutte le nazioni e le lingue, Virgilio e
Cicerone.
Or in luogo di questa che non è mai
propria di nessuna lingua ne' suoi principii, e ne' cominciamenti della sua
letteratura, si trova ne' primitivi scrittori di ciascuna lingua molta
familiarità. Noi non abbiamo i primitivi scrittori greci. I latini
Ennio, (ne' suoi frammenti) Lucrezio, ec. possono dimostrare questa
verità, massime confrontandoli co' seguenti.
[1809]Ma se noi non sentiamo
perfettamente in essi il familiare, qualità delle lingue la più
difficile a ben sentirsi in una lingua forestiera, e più in una lingua
morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti,
escluso il Boccaccio, che introdusse nell'italiano tante voci, frasi, e forme
latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del
Petrarca), eccetto dov'egli pure si accosta ed imita (come fa, e felicemente,
assai spesso) l'andamento latino. Questi e tutti gli scrittori primitivi di
ciascuna lingua, doverono necessariamente dare un andamento, un insieme di
familiarità al loro stile ed alla maniera di esprimere i loro pensieri,
sì per altre ragioni, sì perchè mancavano di uno de'
principali fonti dell'eleganza, cioè le parole, frasi forme rimosse
dall'uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma
quasi maturità. (Infatti è notabile che la vera imitazione degli
antichi quanto alla lingua, dà subito un'aria di familiarità allo
stile). E siccome altrove osservammo che gli scrittori primitivi sono sempre i
più propri, così e per le stesse ragioni, essi debbono [1810]cedere
ai susseguenti nell'eleganza (intendendo quella che ho dichiarato).
Da ciò segue 1. Che noi bene spesso
sentendo negli antichi nostri, come nel Petrarca o nel Boccaccio questa
medesima eleganza, vi sentiamo quello che non vi sentivano nè gli stessi
autori nè i loro contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono oggi
divenuti eleganti col rimoversi, stante l'andar del tempo, dall'uso quotidiano,
ma allora non lo erano.
2. Che le lingue nel nascere delle loro
letterature non sono capaci più che tanto di eleganza, e i lettori di
allora neppur ve la cercano, non considerandola appena come un pregio, ovvero
sentendo ch'ella è in molte parti impossibile.
3. Che anche e notabilmente per questa
ragione, le lingue nuove stentano moltissimo ad essere apprezzate in punto di
letteratura, da coloro stessi che le parlano e scrivono, e ad esser considerate
come capaci del bello e squisito stile ec.
[1811]4. Che però i
primitivi scrittori sono obbligati volendo dare a' loro scritti quell'eleganza
che deriva dal pellegrino ec. di accostare spessissimo la loro lingua alla sua
madre, siccome fecero i nostri, e siccome si fa ancora, non bastando l'antico
fondo della nostra lingua (in buona parte anticato e brutto e rozzo) a quella
peregrinità di voci, frasi, e forme che si ricerca all'eleganza. Ottimo
partito è questo di avvicinarla ad una lingua, già formatissima,
le cui ricchezze essendo la fonte delle nostre, tutto ciò che se ne
attinge con giudizio, è come un'antica appartenenza della nostra lingua,
che ha tanto di peregrino quanto può trovarsi nel mezzo fra l'elegante e
il brutto che è cagionato parimente dallo straordinario, quando questo
passa certi termini; e però il pellegrino che deriva dalle parole forestiere
è ordinariamente brutto, o per lo manco non elegante. Nondimeno i primi
scrittori furono talvolta forzati di attingere anche dalle lingue forestiere,
come fecero i nostri, ma [1812]poco felicemente, dal provenzale, e come
con eguale e maggiore infelicità hanno fatto e fanno altri scrittori
primitivi in quasi tutte le lingue; i russi dal francese; gli svedesi prima dal
latino (che oltre l'esser morto, è anche forestiere per loro), e poi,
come oggi, dal francese ec. ec.
5 Che la lingua italiana, sebbene
mirabilmente ricca, dovette essa pure soggiacere primitivamente a questi
bisogni, giacchè la ricchezza vera e contante di una lingua non
è mai anteriore alla sua piena formazione, cioè completa
applicazione alla letteratura. E la nostra lingua ancora fu per lungo tempo,
cioè sino a tutto il 500. almeno, considerata prima da tutti, poi da
molti come incapace dell'eleganza, della perfetta nobiltà ec. e quindi
posposta lunghissimamente al latino nell'uso dello scrivere più
importante, ancorchè già formata, e stupendamente arricchita ed
ornata ec. V. i diversi miei pensieri in tal proposito.
Tutto ciò dimostra che la lingua
francese, la quale ha dalla sua prima formazione rinunziato alle sue ricchezze
antiche, [1813]e a tutto ciò che fosse rimoto dall'uso volgare, e
segue a rinunziarvi tutto giorno, onde oggi non possiede neppur quello che
possedevano gli scrittori del primo tempo dell'Accademia, e del secolo di Luigi
14. deve necessariamente esser poco suscettibile di eleganza, e soprattutto
priva di lingua poetica, non avendo quasi parola, frase, forma che non sia necessaria
all'uso quotidiano del discorso, o della scrittura in prosa, o che non abbia
luogo frequentemente in detto uso; e quindi non potendo assolutamente elevarsi
al disopra del parlar comune. Quindi lo stile della poesia francese non si
diversifica (eccetto alcune poche, uniformi, rare, e timide inversioni, e l'uso
della misura (ben plebea e pedestre) e delle rime) dal discorso giornaliero e
dalla prosa; e talvolta è propriamente ridicolo a vedere imagini e
sentenze e affetti sublimi, e rimoti o dall'opinione o dall'uso volgare, e
superiori al comune modo ec. di pensare, espressi ne' versi francesi al modo
che si esprimerebbe una dimostrazione geometrica, o si direbbe una facezia in
conversazione; giacchè in ambedue queste occasioni, [1814]come in
tutte le altre, la lingua francese è appresso a poco la stessa.
Parrebbe da ciò che nella scrittura
francese dovesse molto e sempre sentirsi il familiare. Non nego che non vi si
senta, ma se non vi si sente, quanto parrebbe che dovesse, ciò deriva da
questo, che detta lingua essendo povera, non è propria, non essendo
propria, non può aver molto sapore di familiarità, al contrario
delle lingue primitive, della nostra, e della francese stessa ne' suoi
principii, dove il familiare sempre si sente, perchè è somma in
quei tempi la proprietà della favella, come ho detto p.1809. fine. Dal
che segue che il discorso e la scrittura francese si confondano nel loro
spirito in modo, che la stessa uniformità distrugge il senso della
familiarità. Giacchè se leggendo un libro francese ti par di
sentire uno che parli, sentendo uno che parli, ti par di leggere, e così
tu non sai bene da qual parte stia la familiarità. Così necessariamente
deve accadere in una lingua unica, come la francese, e così [1815]pure
accade rispetto a' suoi stili. Oltrechè l'eccessivo spirito sociale de'
francesi, raffinando sempre più il linguaggio quotidiano (anche quello
del volgo proporzionatamente), l'avvicina sempre più allo scritto, e
quindi sempre più gli toglie del familiare; e l'eccessiva inclinazione
della letteratura francese ad esser volgare, a imitare, trattare, nutrirsi,
formarsi quasi esclusivamente di ciò che spetta alla conversazione de'
suoi nazionali, l'avvicina sempre più al parlato, e proccurandole
l'eleganza dell'epigramma, sempre più le toglie quella della poesia,
dell'eloquenza ec. divisa dal volgo. Questa inclinazione reciproca dello
scritto verso il parlato, e viceversa, è quello che ha reso la lingua
francese qual ella è, geometrica, unica, assolutamente moderna, ed
universale quasi per natura.
(30. Sett. 1821.)
La noia è la più sterile delle
passioni umane. Com'ella è figlia della nullità, così
è madre del nulla: giacchè non solo è sterile per se, ma
rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec.
(30. Sett. 1821.)
[1816]Il nostro gl non si
pronunzia schiacciato se non seguito dall'i, onde si pronunzia sciolto
in Anglante, Egle, globo, glutine. Nella parola Anglico, o Anglicano
si pronunzia sciolto sebbene seguito dall'i.
(1. Ott. 1821.)
Forza della natura, e debolezza della
ragione. Ho detto altrove che l'opinione per influire vivamente sull'uomo, deve
aver l'aspetto di passione. Finchè l'uomo conserva qualcosa di naturale,
egli è più appassionato dell'opinione che delle passioni sue.
Infiniti esempi e considerazioni se ne potrebbero addurre in prova. Ma siccome
tutte quelle opinioni che non sono o non hanno l'aspetto di pregiudizi, non
sono sostenute che dalla pura ragione, perciò elle sono ordinariamente
impotentissime nell'uomo. I religiosi (anche oggi, e forse oggi più che
mai, a causa della contrarietà che incontrano) sono più
appassionati della loro religione che delle altre passioni loro (di cui la
religione è nemica), odiano sinceramente gl'irreligiosi, (benchè
se lo nascondano) e per veder trionfare il loro sistema farebbero qualunque [1817]sacrifizio
(come ne fanno realmente sacrificando le inclinazioni naturali e contrarie), mentre
provano verissima rabbia nel vederlo depresso e contrastato. Ma gl'irreligiosi,
quando l'irreligione deriva in essi da sola fredda persuasione o dubbio, non odiano
i religiosi, non farebbero nessun sacrifizio per l'irreligione ec. ec. Quindi
è che gli odi per motivo d'opinione non sono mai reciprochi, se non
quando in ambedue le parti l'opinione è un pregiudizio, o ne ha l'aspetto.
Non v'è dunque guerra tra il pregiudizio e la ragione, ma solo tra pregiudizi
e pregiudizi, ovvero il pregiudizio solo è capace di combattere, non
già la ragione. Le guerre, le nemicizie, gli odi di opinione sì
frequenti negli antichi tempi, anzi fino agli ultimi giorni, guerre sì
pubbliche che private, fra partiti, sette, scuole, ordini, nazioni, individui;
guerre per le quali l'antico era naturalmente deciso nemico di colui che aveva
opinione diversa; non avevan luogo se non [1818]perchè in quelle
opinioni non entrava mai la pura ragione, ma tutte erano pregiudizi, o ne avevano
la forma, e quindi erano passioni. Povera dunque la filosofia, della quale si
fa tanto romore, e in cui tanto si spera oggidì. Ella può esser
certa che nessuno combatterà per lei, benchè i suoi nemici la
combatteranno sempre più vivamente; e tanto meno ella influirà
nel mondo, e nel fatto, quanto maggiori saranno i suoi progressi, cioè
quanto più si depurerà, ed allontanerà dalla natura del
pregiudizio e della passione. Non isperate dunque mai nulla dalla filosofia
nè dalla ragionevolezza di questo secolo.
(1. Ott. 1821.)
Se gl'italiani i francesi e gli spagnuoli
concordano nell'usare il verbo mittere nel senso di ponere (mettere,
mettre, meter); se è certo che quest'uso antichissimamente proprio
di tutte tre queste lingue, non è derivato da scambievoli comunicazioni
del linguaggio latino corrotto in quella o in questa delle tre nazioni; se finalmente
quest'uniformità [1819]di uso in tre lingue sorelle bensì,
ma nate indipendentemente l'una dall'altra, benchè da una stessa madre,
non si vuole attribuire al puro caso; sarà forza derivarlo da un'origine
comune, e questa non può essere che il volgare latino da cui tutte tre
derivarono; giacchè quest'uso non si trova nel latino scritto. V.
Forcellini, e i Glossari.
(1. Ott. 1821.)
Che sotto un governo dispotico non esista
mai un gran talento; che le circostanze pubbliche li facciano nascere, e che
una rivoluzione, un principe benefico e illuminato ec. sia padrone di produrli,
come si è sperimentato in mille occasioni, immediatamente e in gran
copia; che i grandi talenti sorgano ordinariamente e fioriscano tutti in un
tempo; che un secolo si trovi decisamente non solo più fecondo di
qualunque altro di grandi talenti in un tal genere, ma in modo che passato quel
tal giro di anni, non si trovi più in quel genere un talento degno di memoria,
o di essere paragonato ai sopraddetti, (v. il Saggio di Algarotti, e la fine [1820]del
primo lib. di Velleio); che nelle repubbliche abbondino gli eloquenti, e fuori
di esse non si trovi un uomo magniloquente, ec. ec. ec. tutto ciò da che
deriva, e che cosa dimostra, se non che il talento è l'opera in tutto
delle circostanze; sì il talento in genere, che il talento tale o tale?
- Le circostanze lo sviluppano, ma esso già esisteva indipendentemente
da queste. - Che cosa vuol dire sviluppare una facoltà già
esistente ed intera? Forse applicarla, e renderla
cioè operativa? Signor no, perchè questo non si può fare,
se prima non si sono abilitati gli animi ad operare, e in quel tal modo. Che
gli organi, e con essi le disposizioni, cioè le qualità che li
compongono, si sviluppino, lo intendo. Ma che una facoltà, che senza le
circostanze corrispondenti, senza l'assuefazione e l'esercizio, è
affatto nulla e impercettibile a qualunque senso umano, si debba dire e credere
sviluppata, e non prodotta dalle circostanze, [1821]questo non l'intendo.
Che cosa è una facoltà? in che consiste la sua esistenza? come
è ella innata in chi non l'ha se l'assuefazione e le circostanze non
gliela proccurano? ec. Le disposizioni sono innate, ovvero si acquistano
mediante lo sviluppo, cioè il rispettivo perfezionamento, di quegli
organi che le contengono come loro qualità, e come la carta contiene la
disposizione ad essere scritta, a prender questa o quella forma. Ma si
può egli perciò dire che la carta abbia per se stessa la
facoltà di parlare alla mente di chi legge, e che quegli che vi scrive sopra,
sviluppi in lei questa facoltà, e non gliela dia? Ben ci può
essere una carta che sia suscettibile di questa o quella forma, inchiostro ec.
e di un altro no. E così negl'individui di una stessa specie variano, sono
maggiori o minori, mancano ancora affatto delle disposizioni o qualità
che in altri individui si trovano. Questa è tutta la differenza innata o
sviluppata de' talenti umani, [1822]sì rispetto a se stessi, che
rispetto alle altre specie di animali. ec. Differenza di disposizioni, non mica
di facoltà. Differenza, mancanza, scarsezza, inferiorità, o
superiorità che nessun principe e nessuna circostanza (se non fisica)
può toglier di mezzo; laddove il contrario accade in ordine alle
facoltà. Queste nascono dalle circostanze, queste dipendono affatto da'
principi, dall'educazione ec. laddove le disposizioni non ne dipendono.
(1. Ott. 1821.)
Quanto una lingua è più ricca
e vasta, tanto ha bisogno di
meno parole per esprimersi, e viceversa
quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare
in parole per comporre un'espressione perfetta. Non si dà proprietà
di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà
brevità di espressione senza proprietà. Quindi la lingua francese
che certo non può gloriarsi di vastità (altrimenti non sarebbe universale),
si gloria indarno di brevità; quasi che la brevità de' periodi
fosse lo stesso che la brevità dell'espressione, o che slegatura [1823]e
brevità fossero una cosa. V. il Sallustio di Dureau Delamalle. t.1. p.
CXIV.
(1. Ott. 1821.)
L'uomo tende sempre a' suoi simili
(così ogni animale), e non può interessarsi che per essi, per la
stessa ragione per cui tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque
de' suoi simili. Non vi vuole che un intero snaturamento prodotto dalla
filosofia, per far che l'uomo inclini agli animali, alle piante ec. e
perchè i poeti (massime stranieri) de' nostri giorni pretendano
d'interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un ente ideale, un'allegoria.
È ben curioso che la filosofia, rendendoci indifferenti verso noi
medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a cuore, voglia
interessarci per quello a cui l'irresistibile natura ci ha fatti indifferenti.
Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale d'indifferenza
derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra' simili e
dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se non
perchè l'abbiamo [1824]perduto o illanguidito per noi e per gli
uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri esseri vengono
a partecipare non del nostro interesse ma della nostra indifferenza. Lo stesso
accade riguardo a' nostri simili, nella sostituzione dell'amore universale all'amor
di patria. ec.
(1. Ott. 1821.). V. p.1830. e 1846.
La forza dell'assuefazione generale rende
sempre gradatamente più facile il dissuefarsi, e il passare da una
assuefazione ad altra diversa o contraria. Ciò sì negl'individui,
sì nelle nazioni, sì nel genere umano.
(1. Ott. 1821.)
Dalle osservazioni fatte sul Cristianesimo
in altri pensieri, risulta ch'esso nella sua perfezione, ricade, include,
consiste in un vero e totale egoismo, sebbene esso gli professi massime
dirittamente contrarie, e ne sembri il più forte, intero, e irreconciliabil
nemico; sino a pretendere di spegnere affatto l'amor proprio, non solo cogl'infiniti
sacrifizi che ordina o consiglia, ma col volere e porre per indispensabile
condizione, che questi [1825]ed ogni altra azione dell'uomo in ultima e
perfetta analisi non abbiano per fine se stesso, ma assolutamente e puramente
Iddio. Il che allora sarà fisicamente moralmente, matematicamente
possibile, quando la natura del vivente e della vita sarà cambiata ne'
suoi principii costitutivi.
(1. Ott. 1821.). V. p.1882.
L'uomo, e l'animale proporzionatamente, sono
ragionevoli per natura. Io dunque non condanno la ragione in quanto è
qualità naturale, ed essenziale nel vivente, ma in quanto (per sola
forza d'indebite e non naturali assuefazioni) cresce e si modifica in modo che
diviene il principale ostacolo alla nostra felicità, strumento
dell'infelicità, nemico delle altre qualità ec. naturali
dell'uomo e della vita umana.
(1. Ott. 1821.)
Le parole che indicano moltitudine, copia,
grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec. ec. sia in
estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e
così le immagini corrispondenti. Come nel Petrarca
[1826]Te solo aspetto, e quel che tanto
AMASTI,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.
E in Ippolito Pindemonte
Fermossi alfine il cor che BALZÒ tanto.
Dove notate che il tanto essendo
indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe molto, moltissimo
eccessivamente, sommamente. Così pure le parole e le idee ultimo,
mai più, l'ultima volta ec. ec. sono di grand'effetto poetico, per
l'infinità. ecc.
(3. Ott. 1821.)
Finora s'è applicata alla politica
piuttosto la cognizione degli uomini che quella dell'uomo, piuttosto la scienza
delle nazioni che degl'individui di cui le nazioni si compongono, e che sono
altrettante fedeli immagini delle nazioni.
(3. Ott. 1821.)
Come un filare d'alberi dove la vista si
perda, così per la stessa ragione è piacevole una fuga di camere,
o di case, cioè una strada lunghissima e drittissima, e composta anche
di case uguali, perchè allora il piacere è prodotto dall'ampiezza
della sensazione; laddove se le case sono di diversa forma, altezza ec. il
piacere della [1827]varietà sminuzzando la sensazione, e
trattenendola sui particolari, ne distrugge la vastità. Quantunque anche
della moltiplice varietà si può fare una sensazione vasta e
indefinita, quand'ella fa che l'animo non possa abbracciar tutta la sensazione
delle grandi e numerose diversità che vede, sente, ec. in un medesimo
tempo.
(3. Ott. 1821.)
Dove non è odio nazionale, quivi non
è virtù.
(3. Ott. 1821.)
A quello che altrove ho detto dell'effetto
che fa nell'uomo la vista del cielo, si può aggiungere e paragonare
quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d'ogni sorta d'immagine presa
dalla navigazione ec. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per
questo motivo, ma non durevolmente, perchè mancano di due
qualità, la varietà, e l'esser proprie e vicine alla nostra vita
quotidiana, agli oggetti che ci circondano, alle nostre assuefazioni
rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio ec. di professione) ed anche
alle nostre cognizioni pratiche; giacchè la cognizione pratica, [1828]almeno
in grosso, l'uso, l'esperienza, una tal quale familiarità con ciò
che il poeta ha per le mani, è necessaria all'effetto delle immagini e sentimenti
poetici ec.; ed è per questo che piace soprattutto nella poesia
ciò che spetta al cuore umano (che è la cosa della quale abbiamo
più cognizione pratica), siccome nella pittura, scultura, ec. l'imitazione
dell'uomo, delle sue passioni ec.
(3. Ott. 1821.)
La stessa assuefabilità deriva in
gran parte dall'assuefazione (intendo la generale), e ne riceve consistenza,
aumento, gradazione ec.
(3. Ott. 1821.)
L'assuefabilità non è che
disposizione. Tuttavia se vogliamo chiamarla facoltà, questa è
l'unica facoltà naturale, essenziale, primitiva ed ingenita, che abbia
qualunque vivente.
(3. Ott. 1821.)
Quanto le disposizioni naturali siano
influite dalle circostanze accidentali, assuefazioni ec. si può anche
rilevare osservando le fisonomie. Le quali benchè senza dubbio dinotano [1829]certe
e determinate disposizioni e qualità dell'animo, e i gradi loro; e
nondimeno vediamo quanto di rado corrispondano al carattere effettivo degl'individui.
Che se ciò è meno raro ancora di quel che dovrebbe, viene da questo
che l'influenza delle assuefazioni sull'uomo è tanta, che stante la
naturale corrispondenza fra l'interno e l'esterno, le assuefazioni che
determinano il carattere dell'uomo, arrivano bene spesso a modificare la
fisonomia quanto è possibile, e darle talvolta un'aria e significazione
tutta diversa o contraria a quella che aveva naturalmente. Del resto quante
persone le cui fisonomie indicano deciso talento, vivacità,
bontà, ec. ec. sono sciocche, melense, scellerate, e viceversa! V. in
Cicerone il fatto di Socrate con Zopiro fisionomista.
Nuova prova del sopraddetto. Rivedete dopo
lungo tempo una persona che non avevate veduta se non da fanciulla. [1830]In
questi riconoscimenti, rarissimo è che si trovino corrispondenti, non
solo la fisonomia, ma l'indole ec. di tali persone, con l'idea che se ne aveva,
formata sulle qualità che vi si osservavano nell'infanzia. Spesso anche
il fatto si trova contrario all'opinione. Tanto è piccola cosa nell'uomo
quel che si chiama il naturale; e tanto è piccola la parte che hanno le
qualità naturali nella formazione del carattere ec. di un individuo.
(3. Ott. 1821.)
Alla p.1824. Non nego che questi effetti non
possano anche derivare dal contrario dell'indifferenza, cioè da una
soprabbondanza di vita, di passione, di attività nell'animo umano, quale
si trova ne' meridionali, e massime negli orientali. In oriente in fatti sono
assai comuni le poesie, le favole, le invenzioni, dove i protagonisti, o quelli
per cui si pretende d'interessare, sono animali, piante, nuvole, monti,
divinità o enti favolosi e ideali, uomini in gran parte diversi da
quelli che sono ec. ec. E dall'oriente vennero col Cristianesimo le prime
tracce, anzi quasi l'intero sistema dell'amore universale. Presso noi
però, e [1831]a' nostri tempi è certo che i detti effetti
non nascono se non dall'indifferenza: e il contrario di questa faceva che la
mitologia greca trasmutasse in uomini tutti gli oggetti della natura; e che gli
antichi amassero sommamente la loro patria, e odiassero gli stranieri. V.
p.1841.
È notabile come cagioni dirittamente
contrarie producano gli stessi effetti, e come la soprabbondanza di vita negli
orientali, ravvicini la loro poesia, i loro pensieri, la loro filosofia, e
buona parte della loro indole a quella de' settentrionali. Ond'è che la
poesia orientale disprezzata nel mezzogiorno d'Europa fa fortuna nel Nord, e le
fantasie del gelato e buio settentrione, rassomigliano assai più a
quelle del più fervido e brillante mezzogiorno, che de' climi temperati.
(3. Ott. 1821.). Vedi la p.1859. fine.
Tutte le città fuor di mano hanno
qualche particolarità di costumi, dialetto, accento, indole ec. che le
distingue sì dal generale della nazione sì l'una dall'altra. E si
trova, proporzionatamente parlando, maggior varietà di costume scorrendo
un piccolo circondario [1832]posto fuor di mano, che non si trova
scorrendo da capo a piedi un intero regno, ed anche più regni e nazioni,
per le vie postali. Tanto la natura è varia, e l'arte monotona; e tanto
è vero che la civilizzazione tende essenzialmente ad uniformare.
(3. Ott. 1821.)
La forza dell'assuefazione della
prevenzione, dell'opinione nel giudizio del bello ec. si può vedere
anche negli effetti che tu provi vedendo una pittura, udendo una musica,
leggendo un libro ec. se tu ne conosci l'autore, s'egli t'è familiare
ec. La qual cosa ora accresce le bellezze, ora le scema, ora finge quelle che
non ci sono, o scuopre le più difficili a vedere, e le più fine,
e rende sensibilissimi ad ogni menoma cosa ec. ora nasconde quelle che ci sono,
anche le più notabili, rende incapaci di sentir nulla ec. Intendo di
escludere dalla conoscenza ogni sorta di passione relativa, e considero solamente
l'applicare che fa il lettore tutto quello che legge, all'autore ch'egli ben
conosce. Il che spontaneamente e inevitabilmente, quanto [1833]inavvedutamente,
modifica il giudizio e il senso, in mille guise indipendenti dalla propria natura
di ciò che si legge o vede o sente ec.
(3. Ott. 1821.)
V. il 17. avvertimento di F. Guicciardini,
intorno a quel mio pensiero che nessuno si vuol guadagnare la benevolenza di
uno a costo di tirarsi addosso l'odio di un altro.
(3. Ott. 1821.)
Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione,
sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d'illusioni vive e
grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l'immenso sistema del bello,
chi non legge o non sente, o non ha mai letto o sentito i poeti, non può
assolutamente essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà
mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d'occhio assai
debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente, e sottile, e dialettico
e matematico ch'ei possa essere; non conoscerà mai il vero, si
persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime ec.
ec. Non già perchè [1834]il cuore e la fantasia dicano
sovente più vero della fredda ragione, come si afferma, nel che non
entro a discorrere, ma perchè la stessa freddissima ragione ha bisogno
di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e
svilupparlo. L'analisi delle idee, dell'uomo, del sistema universale degli esseri,
deve necessariamente cadere in grandissima e principalissima parte, sulla immaginazione
sulle illusioni naturali, sul bello, sulle passioni, su tutto ciò che
v'ha di poetico nell'intero sistema della natura. Questa parte della natura,
non solo è utile, ma necessaria per conoscer l'altra, anzi l'una
dall'altra non si può staccare nelle meditazioni filosofiche, perchè
la natura è fatta così. La detta analisi in ordine alla
filosofia, dev'esser fatta non già dall'immaginazione o dal cuore,
bensì dalla fredda ragione che entri ne' più riposti segreti dell'uno
e dell'altra. Ma come può far tale analisi colui che non conosce
perfettamente tutte le dette cose [1835]per propria esperienza, o non le
conosce quasi punto? La più fredda ragione benchè mortal nemica
della natura, non ha altro fondamento nè principio, altro soggetto di
meditazione speculazione ed esercizio che la natura. Chi non conosce la natura,
non sa nulla, e non può ragionare, per ragionevole ch'egli sia. Ora
colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandissima parte della
natura, anzi non conosce assolutamente la natura, perchè non conosce il
suo modo di essere.
Tale è stata ed è una
grandissima parte de' più acclamati filosofi dal
La scienza della natura non è che
scienza di rapporti. Tutti i progressi del nostro spirito consistono nello
scoprire i rapporti. Ora, oltre che l'immaginazione è la più feconda
e maravigliosa ritrovatrice de' rapporti e delle armonie le più nascoste,
come ho detto altrove; è manifesto che colui che ignora una parte, o
piuttosto una qualità una faccia della natura, legata con qualsivoglia
cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora un'infinità di
rapporti, e quindi non può non ragionar male, non veder falso, non
iscuoprire imperfettamente, non lasciar di vedere [1837]le cose le
più importanti, le più necessarie, ed anche le più evidenti.
Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran parte delle sue
ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più; quindi ricomponete la
macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi,
i suoi effetti: tutti i vostri ragionamenti saranno falsi, la macchina non
è più quella, gli effetti non sono quelli che dovrebbero, i mezzi
sono cambiati, indeboliti, o fatti inutili; voi andate arzigogolando sopra
questo composto, vi sforzate di spiegare gli effetti della macchina dimezzata,
come s'ella fosse intera; speculate minutamente tutte le ruote che ancora lo
compongono, ed attribuite a questa o quella un effetto che la macchina non
produce più, e che le avevate veduto produrre in virtù delle
ruote che le avete tolte ec. ec. Così accade nel sistema della natura,
quando l'è stato tolto e staccato di netto il meccanismo del bello,
ch'era congegnato e immedesimato [1838]con tutte le altre parti del
sistema, e con ciascuna di esse.
Ho detto altrove che non si conosce
perfettamente una verità se non si conoscono perfettamente tutti i suoi
rapporti con tutte le altre verità, e con tutto il sistema delle cose.
Qual verità conosceranno dunque bene quei filosofi che astraggono
assolutamente e perpetuamente da una parte essenzialissima della natura?
La ragione e l'uomo non impara se non per
l'esperienza. Se la ragione vuol pensare e operare da se, e quindi scoprire, e
far progressi, le conviene conoscere per sua propria esperienza; altrimenti
l'esperienza altrui nelle parti essenziali della natura, non potrà
servirle che a ripetere le operazioni fatte da altri.
Quindi si veda quanto sia difficile a
trovare un vero e perfetto filosofo. Si può dire che questa
qualità è la più rara e strana che si possa concepire, e
che appena ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n'è mai sorto.
(Qui riflettete quanto [1839]il sistema delle cose favorisca il preteso
perfezionamento dell'uomo mediante la perfezione della ragione e della
filosofia.) È del tutto indispensabile che un tal uomo sia sommo e
perfetto poeta; ma non già per ragionar da poeta; anzi per esaminare da
freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo
poeta può conoscere. Il filosofo non è perfetto, s'egli
non è che filosofo, e se impiega la sua vita e se stesso al solo
perfezionamento della sua filosofia, della sua ragione, al puro ritrovamento
del vero, che è pur l'unico e puro fine del perfetto filosofo. La
ragione ha bisogno dell'immaginazione e delle illusioni ch'ella distrugge; il
vero del falso; il sostanziale dell'apparente; l'insensibilità la
più perfetta della sensibilità la più viva; il ghiaccio
del fuoco; la pazienza dell'impazienza; l'impotenza della somma potenza; il
piccolissimo del grandissimo; la geometria e l'algebra, della poesia. ec.
Tutto ciò conferma quello che altrove
[1840]ho detto della necessità dell'immaginazione al gran
filosofo.
(4. Ott. 1821.). V. p.1848. fine. e 1841.
Non sarebbe fischiato oggidì, non
dico in Francia, ma in qualunque parte del mondo civile, un poeta, un
romanziere ec. che togliesse per argomento la pederastia, o l'introducesse in
qualunque modo; anzi chiunque in una scrittura alquanto nobile s'ardisse di pur
nominarla senza perifrasi? Ora la più polita nazione del mondo, la Grecia,
l'introduceva nella sua mitologia (Ganimede), scriveva elegantissime poesie su
questo soggetto, donna a donna (Saffo), uomo a giovane (Anacreonte) ec. ec. ne
faceva argomento di dispute o trattati rettorici o filosofici (I. ep. greca di
Frontone), ne parlava nelle più nobili storie colla stessissima disinvoltura,
con cui si parla degli amori tra uomo e donna ec. Anzi si può dir che
tutta la poesia, la filosofia e la filologia erotica greca versasse
principalmente sulla pederastia, essendo presso i greci troppo volgare e
creduto troppo sensuale, basso, triviale, indegno della poesia ec. l'amor delle
donne, appunto perchè naturale. V. il Fedro, il Convito di Platone gli
Amori di Luciano ec. Il vantato amor platonico (sì sublimemente espresso
nel Fedro) non è che pederastia. Tutti i sentimenti nobili che l'amore
inspirava ai greci, tutto il sentimentale loro in amore, sia nel fatto sia
negli scritti, non appartiene ad altro che alla pederastia, e negli scritti di
donne (come nella famosa ode o frammento di Saffo ec.)
all'amor di donna verso donna. Basta conoscere un sol tantino la letteratura
greca da Anacreonte ai romanzieri, per non dubitar di questo, come alcuni hanno
fatto. (epist. di Filostrato, Aristeneto ec.) E Virgilio il più
circospetto non solo degli antichi poeti, ma di tutti i poeti, e forse
scrittori; certo il più polito ed elegante di quanti mai scrissero;
intendente, gelosissimo, e [1841]modello di finezza, e d'ogni squisitezza
di coltura, in un tempo ec. ec. ridusse ed applicò all'infame pederastia
il sentimento, e ne fece il soggetto di una storietta sentimentale nel suo Niso
ed Eurialo.
(4. Ott. 1821.)
Alla p.1831. principio. V. il pensiero
precedente, e nota che forse all'esuberanza di vita si può attribuire la
grande universalità della pederastia nella Grecia, e in oriente (dove
credo che questo vizio ancor domini), mentre fra noi bisogna convenire che
questo è un vizio antinaturale, un'inclinazione che il solo eccesso di libidine
snaturante i gusti e l'inclinazioni degli uomini, può produrre.
Così discorrete degli antichi (certo esuberanti di vita) rispetto ai
moderni.
(4. Ott. 1821.)
Alla p.1840. La ragione senza notizia del
sistema del bello, delle illusioni, entusiasmo ec. e di ciò che spetta
all'immaginazione e al cuore, è essa medesima un'illusione, e
un'artefice di mitologia, come lo sono le dette cose. Bensì di una
bruttissima, [1842]e acerbissima mitologia. La stessa essenziale
inimicizia della ragione colla natura, la pone in necessità di
perfettamente conoscerla, il che non si può senza sentirla. Come
può ella combattere un nemico che non conosca punto? Ora la natura in
quanto natura è tutta quanta essenzialmente poetica. Da che natura e
ragione sono nemiche per essenza, l'una dipende o è legata essenzialmente
coll'altra, come lo sono tutti i contrari; e non si può considerar l'una
isolatamente dall'altra. O piuttosto non si può considerar la ragione
staccatamente dalla natura (bensì al contrario) perchè la ragione
sebbene nemica, è posteriore alla natura, e da lei dipendente, ed ha in
lei sola il fondamento e il soggetto della sua esistenza, e del suo modo di essere.
(4. Ott. 1821.)
Oggi la gara di onore è più
fra coloro che compongono una stessa armata che fra le armate nemiche;
anticamente per lo contrario: oggi per conseguenza il soldato invidia e quindi
odia il suo compagno più [1843]che il nemico; anticamente per lo
contrario: oggi egli si duol più di un vantaggio riportato da un suo
emulo sopra il nemico, che de' vantaggi del nemico; anticamente per lo
contrario: oggi insomma anche nelle armate dove regna quella utilissima e
grande illusione che si chiama punto di onore, tutto è egoismo individuale;
anticamente tutto era egoismo nazionale. Signori filosofi, giacchè non
si può fare a meno dell'uno o dell'altro, quale vi sembra il migliore?
Anticamente erano emule le nazioni, oggi gl'individui, e più quelli di
una stessa che di diverse nazioni; e così quando anche si cerca la
gloria, cosa ben rara, e quando ella si cerca operando per la nazione e contro
i di lei nemici, ella non è cercata e non ha per fine che l'individuo in
luogo della nazione a cui esso appartiene.
(5. Ott. 1821.)
Tutta l'Europa e tutte le colte lingue hanno
riconosciuto la lingua greca per fonte comune alla quale attingere le parole
necessarie per significare esattamente le nuove cose, per istabilire, formare, [1844]ed
uniformare le nuove nomenclature d'ogni genere, o perfezionarle e completarle
ec. Sola l'Italia ricusa di conformarsi a questo costume; dico l'Italia che non
si sa in che consista, perchè i suoi figli vi si uniformano come gli
altri; ma ciò ch'essi fanno in questo particolare, non si vuol
riconoscere dall'universalità della nazione (o da' pedanti) come bene e
convenientemente fatto in punto di lingua, all'opposto di ciò che accade
nelle altre nazioni. Convengo che quando in luogo di una parola greca
ch'è sempre straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o
nuova o nuovamente applicata, che perfettamente esprima la nuova cosa, questa
si debba preferire a quella; (purchè la greca o altra qualunque non sia
universalmente prevalsa in modo che sia immedesimata coll'idea, e non si possa
toglier quella senza distruggere o confondere o alterar questa; giacchè
in tal caso una diversa parola, per nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa
ch'ella fosse, non esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso
ec. e fratanto non saremmo intesi.) Ma fuori di [1845]questo caso che di
rarissimo si verifica, perchè l'Italia sola vorrà rinunziare,
primo al costume generale di questo e d'altri secoli e dell'Europa, che avrebbe
diritto di farsi adottare quando anche non fosse necessario nè buono;
secondo al benefizio universale di quella maravigliosa lingua, che
benchè morta da tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a
denominare e significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto
ciò che nasce o si scuopre o nuovamente si osserva nel mondo?
(5. Ott. 1821.)
Moltissime parole si trovano, comuni a
più lingue, o perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate
con lei, o perchè venute da origine comune, le quali parole in una
lingua sono eleganti, in un'altra no; in una affatto nobili anzi sublimi, in
un'altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione
è la differenza dell'uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo
facilmente osservare [1846]nella lingua spagnuola, la più affine
alla nostra che esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza
non si trova forse fra due altre lingue colte, non poche parole e frasi o
significazioni, o metafore ec. proprie della sola poesia, che nella nostra son
proprie della sola prosa, e viceversa: parte derivate dalla comune madre di
ambe le lingue, parte dall'italiana alla spagnuola, parte viceversa.
Così pure possiamo osservar noi, e possono pur gli spagnuoli, non poche
altre notabilissime differenze di nobiltà di eleganza di gusto ec. in
parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella medesima significazione.
Similmente discorrete dell'inglese e del tedesco, del francese rispetto alle
tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due sue sorelle ec. del
greco ancora rispetto al latino ec.
(5. Ott. 1821.)
Alla p.1824. Del resto queste tali poesie
che ho detto, orientali o settentrionali, non producono effettivamente in noi
che l'indifferenza, dico quanto all'interesse, sebben possano stordire,
colpire, e dilettar poco [1847]a lungo colla novità, la
maraviglia, l'eccesso della varietà ec. E dico in noi, lasciando gli
orientali ne' quali potrebbe darsi che producessero altro effetto stante le
osservazioni della p.1830. Quanto a' settentrionali credo che sieno nel caso
nostro, ed anche più di noi.
(5. Ott. 1821.)
Come l'uomo non s'interessa che per l'uomo
(perch'egli s'interessa più per se che per gli altri uomini);
com'è vuota d'effetto quella pittura che non rappresenta niente di
animato, e più quella che rappresenta pietre ec. che quella che rappresenta
piante ec.; come il principale effetto della pittura è prodotto
dall'imitazione dell'uomo più che degli animali, e molto più che
degli altri oggetti; come la poesia non diletta nè molto nè
durevolmente se verte 1. sopra cose inorganizzate, 2. sopra cose organizzate ma
non vive, 3. sopra enti vivi ma non uomini, 4. sopra uomini ma non sopra
ciò che meglio spetta all'uomo ed a ciascun lettore, cioè le
passioni, i sentimenti, insomma l'animo umano; (notate queste gradazioni che sono
applicabili ad ogni genere di cose e idee piacevoli, ed alla mia teoria del piacere)
così [1848]la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture
ec. ec. non possono durevolmente nè molto dilettare se versano sopra
uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa
dalla nostra, come i personaggi favoriti delle care poesie ec. del Nord, sia
per differenza nazionale, sia per eccessiva differenza e stranezza di carattere,
come i protagonisti di Lord Byron, ed anche per eccessivo eroismo, onde
Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe.
(Quindi è che se forse da principio interessano per la novità, a
poco andare annoiano le storie ec. de' popoli lontani, de' viaggi ec. e interessano
sempre più proporzionatamente quelle de' più vicini, e fra gli
antichi de' latini Greci, ed Ebrei, a causa che questi sono in relazione con
tutto il mondo colto per la rimembranza ec. della nostra gioventù, studi,
religione letteratura ec. Anche questo però secondo le circostanze degli
individui.) Da per tutto l'uomo cerca il suo simile, perchè non cerca e
non ha mai altro scopo che se stesso; e il sistema del bello, come tutto il
sistema della vita, si aggira sopra il perno, ed è posto in movimento
dalla gran molla dell'egoismo, e quindi della similitudine e relazione a se
stesso, cioè a colui che deve godere del bello di qualunque genere.
(5. Ott. 1821.)
Alla p.1840. principio. Eccovi infatti,
contro quello che a prima vista parrebbe, che le nazioni le più distinte
nell'immaginazione, i popoli meridionali insomma, dalle [1849]prime
tracce che abbiamo della storia umana fino a' dì nostri, si trovano aver
sempre primeggiato nella filosofia, e massime nelle grandi scoperte che le appartengono.
Grecia, Egitto, India, poi Arabi, poi Italiani nel risorgimento. La profonda
filosofia di Salomone e del figlio di Sirac, non era ella meridionale?
L'Oriente non ha primeggiato in tutta l'antichità in ordine al pensiero,
alla profondità, alle cognizioni le più metafisiche, alla morale
ec.? Confucio non fu meridionale? Donde venne la filosofia tra' latini? dalla
Grecia. Chi si distinse in essa fra tutti gli scrittori latini per ciò
che spetta alla profondità? gli spagnuoli Seneca, Lucano, possiamo anche
dir Quintiliano, ec. E nella teologia? gli Affricani Tertulliano, S. Agostino,
ec. nella teologia e filosofia insieme? Arnobio Affricano, e Lattanzio (credo)
parimente. Fra i greci quante sottigliezze, quante astrazioni, quante sette,
quante dispute, quanti scritti acutissimi in materie teologiche dal principio
della Chiesa fino agli ultimi secoli della [1850]Grecia. Si può
dir che la teologia Cristiana sia tutta greca. E quell'opera profondissima del
Cristianesimo donde venne? dalla Palestina. Mostratemi della filosofia antica
in qualsivoglia parte settentrionale o antartica dell'Asia, dell'Affrica,
dell'Europa. Quanto alle due prime mostratemi ancora, se potete, della
filosofia moderna, ch'io ve ne mostrerò non poca nelle loro parti
meridionali. Quello che dico della filosofia dico pur della teologia
(inseparabile dalla metafisica), a qualunque credenza ella appartenga.
Fra' moderni, i tedeschi, certo abilissimi
nelle materie astratte, sembrano fare eccezione al mio sistema, e son tutto il
fondamento del sistema contrario; giacchè gl'inglesi per indole spettano
piuttosto al mezzodì, come altrove ho detto. Ma questi tedeschi ne'
quali l'immaginazione e il sentimento (parlando in genere) è tanto
più falso, e forzato, e innaturale e debole per se stesso, quanto
apparisce più vivo ed estremo (giacchè questa estremità
deriva in essi manifestamente da cagione [1851]contraria che negli
orientali, il cui clima è l'estremo opposto del loro); questi tedeschi
il cui spirito come dice la Staël, (De l'Allem. tom.1. 1. part. ch.9. 3me
édit. p.79.) est presque nul à la superficie, a besoin d'approfondir
pour comprendre, ne saisit rien au vol; questi tedeschi sempre bisognosi di
analisi, di discussione, di esattezza; questi tedeschi sì generalmente e
sì profondamente applicati da circa due secoli alle meditazioni astratte,
e queste quasi esclusivamente, hanno certo sviluppato delle verità non
poche, scoperte da altri; hanno recato chiarezza a molte cose oscure; hanno
trovato non piccole e non poche verità secondarie; hanno insomma giovato
sommamente ai progressi della metafisica, e delle scienze esatte materiali o
no; ma qual grande scoperta, specialmente in metafisica, è finora uscita
dalle tante scuole tedesche ec. ec.? Quando ha mai un tedesco gettato sul gran
sistema delle cose un'occhiata onnipotente che gli abbia rivelato un grande e
veramente [1852]fecondo segreto della natura, o un grande ed universale
errore? (giacchè la scoperta delle verità non è ordinariamente
altro che la riconoscenza degli errori.) Il colpo d'occhio de' tedeschi nelle
stesse materie astratte non è mai sicuro, benchè sia liberissimo,
(e tale infatti non può essere senza gran forza d'immaginare, di sentire,
e senza una naturale padronanza della natura, che non hanno se non le
grand'anime.) La minuta e squisita analisi, non è un colpo d'occhio:
essa non iscuopre mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema;
la chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina. Quindi è
che i tedeschi son ottimi per mettere in tutto il loro giorno, estendere,
ripulire, perfezionare, applicare ec. le verità già scoperte (ed
è questa una gran parte dell'opera del filosofo); ma poco valgono a ritrovar
da loro nuove e grandi verità. Essi errano anche bene spesso, malgrado
il più fino ragionamento, come chi analizza senza intimamente sentire,
nè quindi perfettamente conoscere, giacchè grandissima [1853]e
principalissima parte della natura non si può conoscere senza sentirla,
anzi conoscerla non è che sentirla. Oltrechè a chi manca il colpo
d'occhio non può veder molti nè grandi rapporti, e chi non vede
molti e grandi rapporti, erra per necessità bene spesso, con tutta la
possibile esattezza. L'immaginazione de' tedeschi (parlo in genere) essendo
poco naturale, poco propria loro, ed in certo modo artefatta e fattizia, e
quindi falsa benchè vivissima, non ha quella spontanea corrispondenza ed
armonia colla natura che è propria delle immaginazioni derivanti e
fabbricate dalla stessa natura. (Altrettanto dico del sentimento). Perciò
essa li fa travedere e sognare. E quando un tedesco vuole speculare e parlare
in grande, architettare da se stesso un gran sistema, fare una grande innovazione
in filosofia, o in qualche parte speciale di essa, ardisco dire ch'egli
ordinariamente delira. L'esattezza è buona per le parti, ma non per il
tutto. Ella costituisce lo spirito [1854]de' tedeschi; or ella o non
è buona o non basta alle grandi scoperte. Quando delle parti le
più minutamente ma separatamente considerate si vuol comporre un gran tutto,
si trovano mille difficoltà, contraddizioni, ripugnanze,
assurdità, dissonanze e disarmonie; segno certo ed effetto necessario
della mancanza del colpo d'occhio che scuopre in un tratto le cose contenute in
un vasto campo, e i loro scambievoli rapporti. È cosa ordinarissima anche
negli oggetti materiali e in mille accidenti della vita, che quello che si
verifica o pare assolutamente vero e dimostrato nelle piccole parti, non si verifica
nel tutto; e bene spesso si compone un sistema falsissimo di parti verissime, o
che tali col più squisito ragionamento si dimostrano, considerandole
segregatamente. Questo effetto deriva dall'ignoranza de' rapporti, parte
principale della filosofia, ma che non si ponno ben conoscere senza una
padronanza sulla natura, una padronanza ch'essa stessa vi dia, sollevandovi
sopra di se, una forza di colpo d'occhio, tutte le [1855]quali cose non
possono stare e non derivano, se non dall'immaginazione e da ciò che si
chiama genio in tutta l'estensione del termine. I tedeschi si strisciano sempre
intorno e appiedi alla verità; di rado l'afferrano con mano robusta: la
seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della
natura, mentre l'uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di
genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge
d'un'occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se
gli può nascondere. Dopo ch'egli ha comunicato i suoi lumi e le sue
notizie a de' filosofi come i tedeschi, questi l'aiutano potentemente a
descrivere e perfezionare il disegno del laberinto, considerandolo ben bene
palmo per palmo. Quante grandissime verità si presentano sotto l'aspetto
delle illusioni, e in forza di grandi illusioni; e l'uomo non le riceve se non
in grazia di queste, e come riceverebbe una grande illusione! Quante grandi
illusioni concepite in un momento [1856]o di entusiasmo, o di
disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e
sublimi verità, o precursore di queste, e rivelano all'uomo come per un
lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi
della natura, i rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate
e remote, le astrazioni le più sublimi; dietro alle quali cose il filosofo
esatto, paziente, geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi
e di sintesi. Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e
manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l'uomo infiammato del più
pazzo fuoco, l'uomo la cui anima è in totale disordine, l'uomo posto in
uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi
indispensabilmente corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può
essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati
veramente che di rado avviene, all'impeto di una viva fantasia e sentimento. V.
p.1961. capoverso ult.
Ho detto che nessuna veramente strepitosa
scoperta nelle materie astratte, e in [1857]qualsivoglia dottrina
immateriale è uscita dalle scuole ec. tedesche. Quali sono in queste
materie le grandi scoperte di Leibnizio, forse il più gran metafisico
della Germania, e certo profondissimo speculatore della natura, gran matematico
ec.? Monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni. Quali
quelle di Kant, caposcuola ec. ec.? Credo che niuno le sappia, nemmeno i suoi
discepoli. Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i
tedeschi ci hanno dato ultimamente il romanzo del romanticismo, sistema
falsissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in
dialettica, come si mostra in parecchi di questi pensieri. Ma Cartesio,
Galileo, Newton, Locke ec. hanno veramente mutato faccia alla filosofia. (Vero
è che ora e dopo che la letteratura è divenuta generale nella
nazion tedesca, e ha preso forma ed indole propria, queste grandi, strepitose e
generali mutazioni vanno gradatamente divenendo più difficili, per
natura de' tempi, de' costumi, e de' progressi dello spirito, per la soppressione
delle scuole, o delle fazioni scolastiche, le quali non esistono omai che [1858]in
Germania, dove tali mutazioni forse ancora accadono.) Macchiavelli fu il
fondatore della politica moderna e profonda. In somma lo spirito inventivo
è così proprio del mezzogiorno, riguardo all'astratto ec. come riguardo
al bello e all'immaginario.
Il sistema detto di Copernico, potrebbe
riguardarsi come una grande scoperta e innovazione, anche in ordine alla metafisica;
ma è noto che quel tedesco non fece altro che colle sue meditazioni
lunghe e profonde, coltivare e stabilire ec. una verità già
saputa o immaginata da' Pittagora da Aristarco di Samo, dal Card. di Cusa ec.
Questo è ciò che sanno fare i tedeschi.
Da tutto ciò deducete
2. Una nuova prova del come gli stessi
effetti nascano da cagioni contrarie. Il fervor dell'immaginazione e la
freddezza o mancanza di essa, producono la sottigliezza dello spirito. Sottili
i tedeschi, sottilissimi anzi sofistici i greci, gli arabi, gli orientali. V.
p.1831. [1860]ed applicala a questo luogo, ed osserva come sì in
quello che nel nostro caso, trionfi però sempre ciò che deriva da
copia di vita, su ciò che nasce da scarsezza.
(5-6. Ott. 1821.)
Ho detto che l'immaginazione può
risorgere o durare anche ne' vecchi e disingannati. Aggiungo che
l'immaginazione e il piacere che ne deriva, consistendo in gran parte nelle
rimembranze, lo stesso aver perduto l'abito della continua immaginativa,
contribuisce ad accrescere il piacere delle rimembranze, giacch'elle, se fossero
presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o sarebbero meno rimembranze, 2. non
sarebbero così dilettevoli, perchè il presente non illude mai,
bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non
è dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano
più dilettevoli a noi per cui sono rimembranze lontanissime, che agli
stessi antichi per cui erano o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto
la rimembranza quanto più è lontana, e meno abituale, tanto
più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta [1861]l'anima,
e fa più viva, energica, profonda, sensibile, e fruttuosa
impressione, perch'essendo più lontana, è più sottoposta
all'illusione; e non essendo abituale nè essa individualmente, nè
nel suo genere, va esente dall'influenza dell'assuefazione che indebolisce ogni
sensazione. Ciò che dico dell'immaginativa, si può applicare alla
sensibilità. Certo è però che tali lontane rimembranze,
quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere contrario
a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della poesia ec. non ponno
ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di
ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali
immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano
sempre proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si
consideravano come cose perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia
dovea esser lieta, come quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da [1862]loro
ancor possedute, e senza timore.
(7. Ott. 1821.)
Ho detto che i greci furono i più
filosofi e profondi tra gli antichi, perchè la loro lingua si presentava
mirabilmente (sì come si presta ancora forse meglio di ogni altra) alla
filosofia ed alla precisione, come ad ogni altra cosa e qualità. Bisogna
osservare che questo pregio non l'ebbe ella dalla filosofia, così che
questo si debba attribuire alla filosofia de' greci, piuttosto che questa al
detto pregio. Poichè la lingua greca fu formata, e resa onnipotente
assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora che si fosse
intrapresa l'analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle quali cose i
greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua loro. Ma la lingua
greca era tal quale noi la vediamo, e l'ammiriamo, assai prima della gramatica,
inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne' tempi in cui la loro
lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse anche in forza
delle regole ritrovate o osservate) il suo nativo [1863]colore ec. Anzi
la lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole, dopo le
circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de' gramatici, divenne forse meno atta
alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perchè meno libera, e meno
capace (secondo il parere e il desiderio de' pedanti) di novità.
Altrettanto nè più nè meno si può dire della lingua
italiana. La libertà è la prima condizione di una lingua
sì filosofica, che qualunque. I francesi l'hanno quanto alle parole. Ma
ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua libertà e fecondità.
Allora ella varia quanto alle forme che riceve, secondo che alla sua formazione
presiede la ragione o la natura ec. Primitivamente l'indole di tutte le lingue
è appresso a poco la stessa, almeno dentro una stessa categoria di climi
e caratteri nazionali.
(7. Ott. 1821.)
Si può dir che l'effetto della
filosofia non è il distruggere le illusioni (la natura è
invincibile) ma il trasmutarle di generali in individuali. Vale a dire che
ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè crede [1864]che
quelle tali speranze ec. siano vane generalmente, ma spera sempre per se, o in
quel tal caso di cui si tratta, un'eccezione favorevole. Le illusioni
così non sono meno generali, comuni, ed uguali in tutti, benchè
ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder belle e buone le cose umane,
sottentra quello di credere o sperar tali le proprie, e quelle che in qualunque
modo vi appartengono (come di creder buone le persone che vi circondano ec.
ec.). L'effetto presso a poco è lo stesso. Tanto è sperare o
credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder sempre la stessa cosa come
straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è il caso inevitabile
di tutti i giovani i meglio istruiti.
Vero è che la distruzione delle
illusioni generali influisce sempre sulle individuali. Queste non potranno mai
estirparsi del tutto, altrimenti l'uomo non esisterebbe più. Nondimeno
s'indeboliscono, si rendono inattive ec. quando non sono fondate sopra una
felice persuasione generale, e di principii, che contraddica e resista anche al
fatto e all'esperienza. Tolta questa persuasione, l'individuo maturo cede
presto all'esperienza buona parte delle [1865]sue illusioni individuali,
e tutta la forza e la costanza delle altre, che già non sono più
un'opinione, ma una specie di disperata speranza. Questo effetto diviene appoco
appoco generale, ed oramai la filosofia si trova nel felice caso di aver distrutto
quanto è mai possibile delle stesse illusioni individuali, e di avere
ridotta e ristretta la vita umana ai minimi termini possibili, fuor de' quali
la vita e il genere umano non può assolutamente durare, come privo della
sua atmosfera, e del suo elemento vitale. La vita senza amor proprio non
può stare in nessun genere di esseri, e in nessuno parimente può
stare l'amor proprio senza un menomo grado d'illusione individuale. La vita
dunque e l'assoluta mancanza d'illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie.
(7. Ott. 1821.). V. p.1866.
Perchè si giudica brutta in un
paesano tale o tal parlata, mossa, costume forestiero che in un forestiero
parrà graziosa? Perchè paion bruttissime le donne vestite da
uomini, o viceversa, quando paion belle e graziose [1866]tante snaturatezze
ne' vestiari, anzi s'elle sono alla moda ci par brutto ciò che ne
differisce, e bruttissimo ciò che gli è contrario, cioè il
più naturale? Assuefazione opinione, prevenzione.
(7. Ott. 1821.)
Possiamo dire che ogni qualunque sensazione
affatto nuova, se non è precisamente di dolore, è piacevole per
ciò solo ch'è nuova, quantunque non solo non abbia in se nessun
genere di piacevole, ma abbia anche del dispiacevole.
(8. Ott. 1821.)
Alla p.1865. Si può dire che la
cognizione del mondo, la furberia, la filosofia, ed anche generalmente lo
stesso talento, consiste in gran parte nella facoltà ed abito di non
eccettuare. Il giovane si trova tradito, deriso dietro alle spalle ec. ec.
ingannato, perseguitato ec. da questo e da quell'uomo da cui meno se l'aspettava,
da un amico ec. ec. S'egli ha talento, dopo due o tre esperienze, ed anche alla
prima, conchiude che non bisogna fidarsi degli uomini, che tutti appresso a poco
sono malvagi, ne deduce de' risultati generali sulla natura del mondo e della
società, qualunque [1867]persona ancorchè novissima,
qualunque favore fattogli ec. ec. gli riesce sospetto, ed in breve egli si
forma un sistema vero intorno agli uomini, di cui nessuna circostanza, nessuna
apparenza per grande ch'ella sia, lo può far dimenticare. Ma s'egli
è di corto talento, 10, 20 esperienze non basteranno a condurlo a questi
risultati, egli considererà quello che gli è accaduto, e sempre
gli accade, come tante eccezioni, e per conoscer gli uomini avrà sempre
bisogno di esperienze individuali su ciascuno, così che al fine della
sua carriera non sarà meglio istruito che nel principio, le esperienze
non gli serviranno mai nulla, il suo giudizio sarà sempre falso, le
apparenze e le illusioni lo inganneranno sempre allo stesso modo. E così
si verifica che la facoltà di generalizzare è quella che
costituisce gran parte del talento.
Similmente il giovane istruito da' suoi
studi, dall'educazione ec. sulla natura degli uomini, e sulla diffidenza che
bisogna sempre [1868]averne, sarà veramente impossibile, che
quantunque persuaso di ciò, prima dell'esperienza, applichi queste
teorie alle persone che lo circondano, ch'egli ha da gran tempo conosciute,
ch'è avvezzo a riguardar come buone, di cui non ha fatto alcuna prova
sfavorevole, e di cui non sa nulla in contrario. Sarà anche impossibile
che le prime persone a cui si avverrà nell'entrare in carriera, e colle
quali avrà che fare, egli le sottoponga nella sua opinione, al rigore della
teoria degli uomini che gli è stata insegnata. Insomma sarà
impossibile che prima dell'esperienza, egli non faccia sempre decisa eccezione
dalla teoria generale in favore delle persone che gli appartengono, lo
circondano, o con cui per prime s'incontra. Ma dopo due o tre esperienze,
s'egli ha talento, termina di eccettuare, si persuade che il generale si avvera
ne' particolari, divien pratico degli uomini, le sue teorie applicate alla pratica
gli servono effettivamente al saper vivere; ed egli non è più
capace d'illusioni individuali intorno agli uomini, siccome già da
principio non era [1869]capace d'illusioni generali. Ma il giovane di
poco talento, sebbene allo stesso modo istruito e persuaso, non lascerà
mai dopo le più chiare e replicate esperienze di eccettuare ciascun caso
particolare, e ciascun individuo che abbia apparenza contraria alle sue teorie,
dalla regola generale; non conoscerà mai i rapporti della teoria colla
pratica, di ciò ch'egli sa con ciò ch'egli esperimenta, o deve
sperimentare; non saprà mai applicare la scienza alla pratica, e
credendo fermamente di non doversi fidar di nessuno, non troverà mai
nessuno del quale non giudichi conveniente e giusto il fidarsi. Puoi vedere in
tali propositi l'avvertimento 23. (al.26.) del Guicciardini, e la prima delle
Considerazioni civili di Remigio Fiorentino sopra le Historie di F.
Guicciardini.
Così si verifica quello che ho detto,
che la cognizione del mondo, la filosofia, lo stesso talento consiste in gran
parte nell'abito e facoltà di non eccettuare, perchè appunto esso
consiste nella facoltà di generalizzare, e in quella di applicare, o di
conoscere i rapporti, che viene a coincidere con quella di generalizzare.
[1870]E secondo queste osservazioni
si conosce come il filosofo non sia filosofo nella vita e nelle azioni, s'egli
non guarda se stesso e i fatti suoi come quelli degli altri, s'egli non gli
osserva dall'alto, come quelli degli altri, se insomma non si spoglia
dell'abitudine naturale di escluder se stesso e i fatti suoi dalla dottrina generale
degli uomini e de' fatti del mondo. Se il filosofo non è filosofo nella
pratica, e se i suoi principii non corrispondono alle sue azioni, il che accade
tutto giorno; ovvero ogni volta ch'egli non è filosofo in questa o
quell'azione, o caso della vita, il che accade inevitabilmente spessissimo a'
più stoici e cinici (cioè pratici) filosofi del mondo; egli non
pecca per altro, se non perchè in tali casi egli fa eccezione del
particolare dal generale, e non applica la dottrina e la teoria al caso
pratico.
Queste osservazioni si possono applicare ad
ogni genere di talenti, di abilità di discipline ec. ec. ec. ad ogni
genere di cose che s'imparano ec. ec. Quello scolare di rettorica [1871]perfettamente
istruito, e che scrivendo cade in mille difetti, non vi cade se non perch'egli
eccettua. L'abito di eccettuare è quello che massimamente nuoce ad ogni
sorta di discipline, di ammaestramenti, di cognizioni ec.; quello che bisogna
sopra tutto vincere; quello che rende necessario l'esercizio e l'esperienza in
tutto ciò che deesi applicare alla pratica, ed eseguire; la qual esperienza
non fa quasi altro che persuadervi palpabilmente che bisogna applicare il
generale al particolare, e non fare eccezioni.
(8. Ott. 1821.)
Come quel diletto, e quel bello della
musica, che non si può ridurre nè alla significazione, nè
a' puri effetti del suono isolato dall'armonia e melodia, nè alle altre
cagioni che altrove ho specificate, derivi unicamente dall'abitudine nostra generale
intorno alle armonie, la quale ci fa considerare come convenienti fra loro quei
tali suoni o tuoni, quelle tali gradazioni, quei tali passaggi, [1872]quelle
tali cadenze ec. e come sconvenienti le diverse o contrarie ec. osservate. Le
nuove armonie o melodie (che già si tengono per rarissime)
ordinariamente, anzi sempre, s'elle sono affatto, cioè veramente nuove,
a prima vista paiono discordanze, quantunque sieno secondo le regole del contrappunto,
per lo che ben tosto appresso ne conosciamo e sentiamo la convenienza,
cioè non per altro se non perch'elle sono, e ben presto le ritroviamo
conformi alla nostra assuefazione generale intorno all'armonia e
melodia, cioè alle convenienze de' tuoni, quantunque elle non sieno
conformi alle nostre assuefazioni particolari. E quanto più la
detta assuefazione generale è meno estesa, o meno radicata e sensibile e
immedesimata coll'uditore, tanto più vivo è il sentimento di
discordanza e disarmonia che questi prova a prima giunta; e tanto eziandio
più durevole, di maniera ch'egli le giudicherebbe discordanze definitivamente,
se l'opinione e la prevenzione che quelle sieno [1873]poi veramente
armonie o melodie, non glielo impedisse. Tale è il caso del volgo, della
gente rozza o non assuefatta a udir musiche, e proporzionatamente, degli uomini
non intendenti di quest'arte. I quali tutti in udir tali nuove armonie sono
dilettati da' soli suoni e dalle altre cause di diletto che altrove ho
spiegato, ma non già dall'armonia o melodia in quanto armonia e melodia,
perocch'essi non la ravvisano. E però piacciono soprattutto, o più
universalmente, le melodie chiamate popolari, cioè conformi
particolarmente o generalmente alle assuefazioni particolari o all'assuefazione
generale del comune degli uditori in fatto di melodie ec. Le armonie o melodie
affatto nuove ordinariamente non piacciono che agl'intendenti, i quali sentono
la difficoltà, e le raffrontano colle regole ch'essi conoscono ec. E
questi medesimi provano a primissima giunta un senso di discordanza, che
però presto svanisce, e ch'essi immediatamente ravvisano per illusorio:
ma si può dir che ogni assoluta novità in fatto di musica
contiene e quasi consiste in un'apparenza [1874]di stuonazione. Altre
armonie e melodie che non inchiudono quest'apparenza, o non molto viva, e
contuttociò si considerano come nuove, non sono nuove, se non in quanto
ad una non usitata combinazione delle diverse parti di quelle convenienze
musicali che l'assuefazione generale o particolare ci fa riguardar come
convenienze. E queste combinazioni quanto meno si accostano a quello che di
sopra ho spiegato per popolare, tanto più piacciono agl'intendenti, e
meno al popolo, e tanto meno hanno di significazione, parlando però in
genere. Di questa natura è una grandissima parte delle giornaliere
novità in fatto di musica, e delle nuove composizioni musicali.
Similmente osservate che se tu ascolti, come
spessissimo accade, un pezzo p.e. di un'aria che tu già conosci, ed il
seguito di questo pezzo è diverso da quello che tu pur conosci, tu provi
subito un senso di discordanza, perchè questa diversità si oppone
alla tua assuefazion particolare; ma sospendi il tuo giudizio, e ben tosto lo
determini [1875]favorevolmente, e provi il senso dell'armonia e melodia
cioè convenienza, perchè detta diversità è poi
conforme alla tua assuefazione generale in fatto di convenienze musicali, la
quale assuefazione e non altro, è la base, la ragione, la materia ec.
del contrapunto. E quest'assuefazione generale comprende molte diversità
di combinazioni delle stesse parti, o di alcune di esse con altre ec. Il detto
effetto è comunissimo, perchè è comunissima e spesso
inevitabile la detta circostanza che lo produce, e posta questa, il detto
effetto ne segue immancabilmente anche ne' più intelligenti, ed avvezzi
alla più gran varietà delle combinazioni musicali.
Queste osservazioni possono rendere molto
bella ragione del perchè la vera novità sia generalmente
considerata come rarissima e difficilissima in fatto di musica, cioè di
armonia e soprattutto di melodia, a differenza della pittura, della scultura,
della poesia, dell'eloquenza ec. Infatti un'assoluta novità in musica
non può esser altro che disarmonia, perchè sarebbe sconvenienza
dalle assuefazioni generali. Anche nella poesia e nella prosa, ciò che
spetta puramente all'armonia e melodia, non è quasi punto capace di
novità. Cioè le nuove combinazioni in [1876]questo genere
sarebbero facilissime e infinite, ma non sarebbero più armonie nè
melodie perchè non converrebbero coll'assuefazione della propria nazione
e lingua; mentre che l'assuefazione è il solo fondamento, ragione, elemento,
principio costitutivo dell'armonia e melodia. Nelle diverse nazioni e lingue diversissime
sono le armonie e melodie della prosa e del verso, (come pure di ciascuna
parola isolata, vale a dir la melodia delle sillabe e lettere, della quale e
non d'altro si compone quella di ciascun verso o periodo) perchè diverse
le assuefazioni, ma in ciascuna lingua rispettivamente, la novità
è quasi impossibile in questo genere; e ciò che in un'altra
lingua è melodioso, per quanto, assolutamente parlando, e prima della
diversa o contraria assuefazione, fosse adattabilissimo alla lingua in cui tu
scrivi, non lo è più, perchè sconverrebbe
coll'assuefazione, e quindi sarebbe sconvenienza e disarmonia. V. p.1879.
Laddove quel bello che dipende dall'imitazione dalla significazione,
dall'espression degli affetti ec. dal seguir la natura ec. ec. è
infinitamente variabile e suscettivo di novità. E siccome questo bello
costituisce la parte principale del bello pittorico, scultorico, poetico ec. [1877]e
non dipende cotanto nè consiste nell'assuefazione, (la quale non
può esser che limitatissima, massime generalmente e nel volgo ec.)
però le dette arti belle sono suscettibilissime di novità e
varietà. L'architettura, il cui bello costitutivo dipende anch'esso e
consiste per la più parte nell'assuefazione, varia bensì nelle
nazioni affatto diverse, come varia la musica, e come la melodia della prosa o
del verso, ma in nessuna nazione è suscettibile di più che tanta
novità. Ed è questo un nuovo genere di somiglianza fra queste due
belle arti, architettura e musica, oltre gli altri da me notati altrove.
E qui osservate come la pittura, scultura,
poesia, eloquenza, quelle arti belle in somma, che ho detto esser più
suscettive di novità, quelle appunto, generalmente parlando, e
considerandole in un certo grado di perfezione, non possono nelle loro
principali qualità esser più che tanto differenti nelle
differenti nazioni. E viceversa la musica e l'architettura, arti incapaci di
molta [1878]novità e varietà dentro una stessa sfera di
costumi, differiscono sommamente nelle diverse sfere di costumi, anche quanto
alle qualità principali, ed elementari. Ciò avviene perchè
quelle hanno un soggetto e un modello universale, cioè la natura, queste
particolare affatto, cioè le assuefazioni nazionali. Nuova prova del
quanto sia relativo quel bello che consiste nelle sole convenienze, cioè
quel solo che è veramente bello, e spetta all'astratta considerazione di
esso.
Ond'è che le arti quanto più
son suscettive di novità e varietà in ciascuna nazione, e per se
stesse, tanto meno ponno variare da nazione a nazione, e viceversa. E la varietà
nazionale di cui un'arte bella è capace sta in ragione inversa della varietà
universale e costitutiva e specifica.
(9. Ott. 1821.)
A quello che altrove ho detto circa la
differenza della melodia poetica nelle diverse lingue, aggiungivi la melodia prosaica,
e generalmente qualunque melodia può derivare dalla combinazione delle
parole, o anche delle sillabe [1879]o lettere, e v. la p.1876. e seg.
(9. Ott. 1821.)
Alla p.1876. Applicate a questo luogo
l'inadattabilità riconosciuta della melodia poetica latina o greca alla
lingua italiana, de' metri, cioè diversi generi di verso, e diversa
combinazione di versi ec. E pur la italiana è figlia della lingua
latina; così la spagnola la francese ec. ec. ec. ec.
(9. Ott. 1821.)
Presso qualunque popolo naturale o poco
civilizzato, il governo militare non fu mai distinto dal civile, e i
governatori delle provincie o di ciascuna provincia, non erano se non se i
capitani degli eserciti o di ciascun esercito. Così presso i greci
omerici, così presso tutti i popoli chiamati selvaggi, così
presso i Germani, poi i Goti, Franchi, Longobardi ec. così anche presso
i romani, dove il console, il proconsole, il pretore, era al tempo stesso il
capo politico della repubblica o delle province, e il capitano dell'esercito, o
degli eserciti provinciali. In tutti i popoli poco civilizzati, accadendo una
conquista, quegli medesimo rendeva la giustizia a' conquistati, e amministrava
le cose loro, quegli medesimo, dico, che li aveva domati o li domava colle
armi. Così anche [1880]oggi. Ciò vuol dire che in natura
non si è mai creduto che vi fosse altra legge, o altro diritto dell'uomo
sull'uomo, che quello della forza.
(9. Ott. 1821.). V. p.1911. fine.
Ho detto che la stessa malvagità
è grazia, e fa effetto nelle donne. Aggiungo che anche nelle buone,
anche nelle scrupolose, anzi più che nelle altre, perchè per esse
è più nuova e straordinaria la malvagità. Il malvagio le
tira a se collo stesso orrore e scuotimento che in loro produce sì esso
che il suo carattere. Lo stesso diremo delle donne rispetto agli uomini. Lo
stesso particolarmente di questo o quel vizio di chi dev'essere amato,
dirittamente contrario alla natura o al costume di quella persona che deve
amare.
È stato infatti osservato che l'amore
tende ai contrarii. Questa generale osservazione merita di essere applicata
alla mia teoria della grazia.
(9. Ott. 1821.). V. p.1903. capoverso 2.
E subito potremo osservare che p.e. gli
uomini dissipati ed ardenti, sono sovente allettatissimi da una donna di
carattere pacifico, d'inclinazioni tutte domestiche, dall'aspetto della sua
vita metodica, e casalina ec.
(9. Ottobre 1821.)
Ho detto che il piccolo (già
s'intende che anche il piccolo è relativo) suol esser grazioso. [1881]Ciò
si può vedere anche nelle parti. Le Cinesi si restringono i piedi.
Nè uomini nè donne non cercano co' loro vestiarii d'ingrossarsi
la vita, e la persona, ma d'impiccolirla; anche oltre il naturale, e spesso
eccessivamente. Il grosso (relativo) non piace mai (almeno fra le nazioni e gli
individui, e ne' tempi detti di buon gusto) nè nelle forme umane,
nè in qualunque genere di bello. Il delicato, lo svelto delle forme ec.
in che cosa consistono fuorchè in una rispettiva e proporzionata e
corrispondente piccolezza?
(9. Ott. 1821.)
Ho detto che l'amor libidinoso considera
più le altre forme che quelle del viso. Pur è certo che la più
sfrenata, invecchiata, ed abituale libidine, è molto eccitata dalla
significazione vivacità ec. ec. degli occhi e del viso, e respinta da
un'assoluta bruttezza, insignificazione ec. di fisonomia. Anzi forse tali
eccitamenti son più necessarii all'eccessiva ed invecchiata libidine che
alla mediocre.
[1882]Del resto l'amore veramente
sentimentale, quello di un giovane o una giovane inesperta e principiante, non
considera, non si riferisce, non trova indispensabile ec. che la bellezza
(benchè relativa) del volto. Una persona di volto definitamente non
bello, o che tale non paia loro, non sarà mai oggetto di amore alle
dette persone, per bella ch'ella sia nel resto: almeno senza circostanze
particolari, e lunghe relazioni ec. ec.
(9. Ott. 1821.)
Alla p.1825. L'amor di Dio nello stato che
il Cristianesimo chiama di assoluta perfezione non è nè
può essere che un amor di se stesso applicato al solo ben proprio, e non
a quello de' suoi simili. Or questo appunto è ciò che si chiama egoismo.
(9. Ott. 1821.)
Qual differenza fra il vestiario de' nostri
contadini, e il cittadinesco. Eppure perchè siamo avvezzi a vederlo,
questa differenza non ci fa nessun senso, e non ci produce alcuna impressione
di deformità o di ridicolo, come però fa una anche minor
differenza di vestire che si veda in uno straniero [1883]ec. Similmente
possiamo dire de' vestiari ridicolissimi de' nostri frati, preti, monache ec.
(10. Ott. 1821.)
Quanto giova a sentir le bellezze p.e. di
una poesia, o di una pittura ec. il saper ch'ella è famosa e pregiata,
ovvero è di autor già famoso e pregiato! Io sostengo che l'uomo
del miglior gusto possibile, leggendo p.e. una poesia classica, senza saper
nulla della sua fama, (il che può spesso accadere in ordine a cose moderne,
o non ancor famose, o non ancor conosciute da tutti per tali), e leggendola
ancora con attenzione, non vi scoprirebbe, non vi sentirebbe nè riconoscerebbe
una terza parte delle bellezze, non vi proverebbe una terza parte del diletto
che vi prova chi la legge come opera classica, e che potrà poi provarvi
egli stesso rileggendola con tale opinione. Io sostengo che oggi non saremmo
così come siamo dilettati p.e. dall'Ariosto, se l'Orlando furioso fosse
opera scritta e uscita in luce quest'anno. Dal che segue che il diletto di
un'opera di poesia, [1884]di belle arti, eloquenza, ed altre cose
spettanti al bello, cresce in proporzione del tempo e della fama; ed è
sempre (se altre circostanze non ostano) minore in chi ne gode per primo, o fra
i primi, cioè ne' contemporanei, ec. che in chi ne gode dopo un certo
tempo. Sebben la fama universale e durevole, è fondata necessariamente
sopra il merito, nondimeno dopo ch'ella per fortunate circostanze è nata
dal merito, serve ad accrescerlo, e il vantaggio e il diletto di un'opera
deriva forse nella massima parte, non più dal merito, ma dalla fama, e
dall'opinione. Noi abbiamo bisogno di farci delle ragioni di piacere, per
provarlo. Il bello in grandissima parte non è tale, se non perchè
tale si stima. Quindi osservate quanta parte abbia la fortuna nell'esito delle
opere umane, e nella fama o nell'oscurità degli uomini. Essendo
certissimo che se oggi uscisse alla luce un'opera poetica di merito
assolutamente uguale o superiore a quello dell'Iliade, lasciando da parte [1885]l'invidia,
le cabale, le superstizioni, le pedanterie; la sola differenza di prevenzione,
differenza inevitabile perchè Omero è stato tanti secoli prima di
noi, farebbe che il lettore il più di buon gusto e imparziale, provasse
assolutamente e senza confronto maggior diletto, e sentimento di bellezza, leggendo
l'Iliade, che leggendo la nuova poesia. Tanto piccola parte del bello consiste
in cose e qualità intrinseche ed inerenti al soggetto, e indipendenti
dalle circostanze, e invariabili; e tanto piccola parte del diletto che reca il
bello, deriva da ragioni costanti, essenziali al soggetto, e comuni a tutti i
soggetti della stessa natura, e a tutti gl'individui e tempi che ne possono
godere.
(10. Ott. 1821.)
Un uomo famoso per dissipazioni e
sfrenatezze e fortune galanti, e infedeltà in amore, fa grand'effetto
nelle donne con questa sola fama, ma forse nelle donne modeste e timide, e
avvezze ad esser fedeli, più che nelle altre. La franchezza, il brio, [1886]la
sfrontatezza ec. fa sempre fortuna in amore, ed è quasi indifferentemente
necessaria e felice con ogni sorta di donne, perch'è quasi l'unico mezzo
di ottenere. Ma considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far effetto
sulle prime, è certo ch'egli è più potente, sulle donne
modeste, ritirate, paurose, poco solite agl'intrighi ec. che nelle loro
contrarie.
Viceversa l'uomo serio, e sostenuto, oppur
modesto, e affabile, senza pretensioni, e senza ardimenti, l'uomo che non si
getta punto alla donna, o perchè non sappia nè ardisca, o
perchè non voglia, l'uomo ritirato ec. fa molto maggior effetto nelle
donne dissipate, franche, avvezze alle galanterie, solite ad esser corteggiate
ec. che in quelle di carattere simile al suo. Anzi a queste egli dispiace a
prima vista, o viene a noia fra poco, a quelle viceversa. Anche gli uomini
legati, timidi ec. insomma difettosi nel trattare e nel conversare per mancanza
di disinvoltura, esperienza ec. anche una cert'aria d'inesperienza, di
semplicità, d'innocenza, (il contrario della furberia) di naturalezza
ec. son capaci come di dispiacere interamente alle donne loro pari,
così di fermare il gusto di una donna eccessivamente disinvolta, [1887]sperimentata,
furba, e libera nel trattare, nell'operare, e in ogni assuefazione e costume; e
di parerle graziosi ec.
(10. Ott. 1821.)
Ho detto che la lingua italiana non ha mai
rinunziato alle sue ricchezze antiche. Ecco come ciò si deve intendere.
Tutte le nazioni, tutte le lingue del mondo antiche e moderne, formate ed
informi, letterate e illetterate, civili e barbare, hanno sempre di mano in
mano rinunziato, e di mano in mano incessantemente rinunziano alle parole e
frasi antiche, come, e perciò, ed in proporzione che rinunziano ai
costumi antichi, opinioni ec. Quelle ricchezze alle quali io dico che la lingua
italiana non ha mai rinunziato, sono le ricchezze sue più o meno
disusate, che sono infinite e bellissime, e ponno esserle ancora d'infinito
uso; ma non propriamente le voci e locuzioni antiche, cioè quelle che
oggi o non si ponno facilmente e comunemente intendere, o comunque intese non
ponno aver faccia di naturali, e spontanee, e non pescate nelle Biblioteche de'
classici. A queste l'Italia come tutte le altre nazioni nè più
nè meno, intende di avere rinunziato; e i soli pedanti [1888]lo
negano, o non riconoscono per buona questa rinunzia, e le protestano contro, e
non vi si conformano, nè l'ammettono.
Come poi la lingua italiana abbia e possa
avere, a differenza della francese, infinite ricchezze, che se ben disusate, ed
antiche di fatto, non sono antiche di valore, di forma, di conio, lo
verrò spiegando.
Primieramente la lingua italiana non ha mai
sofferto, come la francese, una riforma, venuta da un solo fonte ed
autorità, cioè da un'Accademia, e riconosciuta dalla nazione, la
quale la ristringesse alle sole parole comunemente usitate al tempo della
riforma, o che poi fossero per venire in uso, togliendole affatto la libertà
di adoperare quanto di buono d'intelligibile ed inaffettato si potesse trovare
nel capitale della lingua non più solito ad usarsi, ma usato dagli
antichi. Della quale specie moltissimo avrebbe allora avuto la lingua francese
da poter salvare. Non si è mai tolta fra noi ogni autorità agli
antichi, serbandola solamente ai moderni, o ristringendola [1889]e
terminandola in un solo corpo, e nell'epoca di esso.
Questa riforma era naturalissima nella
Francia a differenza di tutte le altre nazioni. Lo spirito di società
che costituisce tutto il carattere, tutta la vita de' francesi; come forma
l'indole de' loro costumi, così necessariamente quello della loro lingua
in ciascun tempo. Ora essendo effetto naturale di detto spirito, l'uniformare
gli uomini, ed uniformando i costumi, uniformare inseparabilmente la lingua,
è naturale ancora che questa uniformità s'intenda ristretta agli
uomini che di mano in mano sono, e non a quelli che furono. Ond'è che il
francese vuole e dee vivere e parlare come vivono e parlano i suoi nazionali
moderni e presenti, non come i suoi nazionali antichi, nel qual caso, egli
differirebbe dai presenti, peccato mortale per un francese, e qualità
incompatibile collo spirito di società, in quanto egli è tale, in
qualsivoglia nazione. Così che la riforma della lingua francese, dovendo
introdurre l'uniformità, non [1890]poteva non iscartare tutto l'antico,
(siccome difforme dal moderno) tutto ciò che non fosse in presente e
corrente uso, ancorchè buonissimo e bellissimo, tutta l'autorità
di qualunque scrittore che non fosse moderno; giacchè non poteva
uniformare quanto alla lingua se non i presenti coi presenti, e non i presenti
cogli antichi, ch'era impossibile sì per se stesso, sì
perchè una lingua non ritorna antica, se ogni sorta di costumi e di
opinioni ec. non ritorna antico, e precisamente tal qual era.
Da questo spirito di società de'
francesi, seguita che la loro lingua (per dirlo qui di passaggio) benchè
paia la meno soggetta a variare o corrompersi, stante le infinite
circoscrizioni che la legano, e determinano, è per lo contrario la
più soggetta che mai, non solo quanto alle parole e modi, ma pur quanto
all'indole. Al detto spirito non può bastare di uniformare i moderni a'
moderni; la sua perfezione necessariamente tende ad uniformare senza posa i
presenti co' presenti. E siccome i costumi e le opinioni non istanno mai ferme,
[1891]nè pertanto la lingua, così ogni novità che
s'introduca sì in questa che in quelli, divenendo subito universale tra'
francesi, e passando in regola, la lingua de' francesi e scritta e parlata deve
cambiar sensibilmente e di capitale e d'indole, non dico ad ogni secolo, ma ad
ogni dieci o 20 anni. Se poi v'aggiungerete la somma coartazione, unità,
ed intera definizione della lingua francese, la quale per necessità
ripugna ad ogni novità, massime appartenente allo spirito della lingua,
vedrete che da questa ripugnanza di qualità, ne deve seguire una pronta
e notabilissima e inevitabile corruzione universale, anzi tante corruzioni
quanti sono i piccoli spazi di tempo, in cui la loro lingua piglia co' nuovi
costumi, nuove forme. Massimamente che la rapidità con cui si alterano i
costumi e l'opinioni in Francia è molto maggiore che tutt'altrove,
perchè la marcia dello spirito umano, nazionalmente parlando, è
più rapida in quella nazione dove la società è più
stretta viva ed estesa. Ond'è che la lingua francese deve [1892]ben
presto cambiar faccia in modo da non riconoscersi più per quella della
riforma, e così successivamente la lingua di uno o due secoli dopo non
riconoscersi per quella di uno o due secoli prima. Nè tarderà
molto che i classici del secolo di Luigi 14. saranno meno intesi
dall'universale de' francesi, di quello che Dante dagli odierni italiani. La
lingua francese insomma, appunto perchè lo spirito e l'andamento della
nazione è sempre quello stesso che suggerì la riforma, ha bisogno
ad ogni tratto di un'altra tale riforma, che renda classica ed autorizzi una
nuova lingua, dismettendo la passata rispettiva. E sempre ne avrà
bisogno più spesso, perchè la marcia è sempre più
rapida. Il fatto lo dimostra confrontando e le parole e lo spirito dell'odierna
lingua francese con quella del tempo di Luigi 14. sì poco distante.
Tornando al proposito, la nostra lingua non
ha mai sofferto simili riforme, siccome nessun'altra che la francese, stante la
diversità delle circostanze nazionali. Che se volessimo pur considerare
come riforma le operazioni dell'Accademia della Crusca, questa riforma sarebbe
stata al rovescio della francese, perchè avrebbe ristretto la nostra
lingua all'antico, ed all'autorità degli antichi, escludendo il moderno,
e l'autorità de' moderni; cosa che siccome ripugna alla natura di lingua
viva, così non merita alcun discorso. [1893]Bensì scemato
coll'andar del tempo e colla mutazion degli studi e dello spirito in Italia, lo
studio della lingua, e de' classici, infinite parole e modi sono andate, e
vanno tutto giorno in disuso, le quali però tuttavia son fresche e
vegete, ancorchè di fatto antichissime: e siccome si possono usare senza
scrupolo, così di tratto in tratto, qua e là, questa o quella si
vien pure adoperando da qualcuno in modo che tutti le intendono, e nessuno nega
o può negare di riconoscerle e sentirle per italiane. E finattanto che
la lingua nostra conserverà il suo spirito ed indole propria, (la quale
in verità non conserva oggi se non presso pochissimi, ma ch'ella non
può pertanto legittimamente perdere, cioè senza corrompersi, come
qualunque altra lingua) il capitale di tali ricchezze le durerà sempre.
Imperocchè la lingua italiana essendo
stata applicata alla letteratura, cioè formata, innanzi a tutte le colte
moderne; la sua formazione, e quindi la sua indole viene ad essere [1894]propriamente
parlando di natura antica. Quindi ella, a differenza della francese, non
può rinunziare alle sue ricchezze antiche, senza rinunziare alla sua
indole, e a se stessa. Potrà ben rinunziare a questa o quella voce o
modo, potrà anche coll'andar del tempo antiquarsi la maggior parte delle
sue voci e modi primitivi, ma sempre la forma delle sue voci e modi o nuovi o
vecchi dovrà corrispondere a questi, per corrispondere alla sua indole,
altrimenti non potrà fare ch'ella non si componga di elementi e ragioni
e spiriti discordanti, e non si corrompa: giacchè in questo finalmente
consiste la corruzione di tutte le lingue, e di questo genere è la
presente corruzione della lingua italiana.
Il simile proporzionatamente dico della
lingua spagnuola, il cui secolo d'oro e la cui letteratura è la seconda
in Europa, in riga di tempo.
La lingua inglese in gran parte può
porsi a paro della francese. La letteratura e formazione [1895]della
lingua tedesca è l'ultima di tempo in Europa (giacchè non credo
che si possano ancora considerare come formate, e fornite di letteratura
propria, la Russa, la Svedese ec.). Contuttociò ella non ha punto
rinunziato alle sue ricchezze antiche, diversissima essendo la circostanza
della Germania da quella della Francia. Dubito però che l'antico possa
star così bene nella lingua tedesca, formata e ridotta a letteratura
ierlaltro, come nell'italiana formata 6. secoli fa. Ed ella potrà
benissimo perdere, e perderà le sue ricchezze antiche, (che già
non ponno esser molte, nè di grand'uso, essendo anteriori alla
formazione della lingua) senza corrompersi, nè sformarsi, nè
perdere la sua indole; al contrario dell'italiana.
Da queste osservazioni seguirebbe che la
corruzione della lingua italiana, e proporzionatamente della spagnuola, fosse
oggi tanto più facile e quasi inevitabile, quanto la sua perfezione
è più antica, e d'indole diversa da quella de' tempi moderni. Ora
io [1896]convengo che sia facilissimo perch'è facilissimo il non
attenderci, il non istudiar la lingua, e il non possederla, come si fa; e che
sia più difficile oggidì lo scriver bene la nostra lingua che
qualunque altra. Dico però ch'ella nella natura della sua stessa
perfezione antica, contiene i principii essenziali di conservazione; che la sua
vera indole porta con se gli elementi della sua durata; ed in modo che laddove
le altre lingue si corromperanno prestissimo, la nostra (quando vi si ponga
l'osservazione che bisogna) potrà sempre conservarsi qual era, o
piuttosto ritornar tale.
Il moderno diviene antico, e tuttociò
che oggi è antico, fu moderno. Così che l'esser moderna la
formazione del francese o del tedesco, non proverà altro se non che la
loro corruzione sia più lontana, non già ch'elle non sieno soggette
a corruzione. Di più, il moderno diviene antico tanto più presto,
quanto più il mondo si avanza, perchè la sua marcia si accelera
in proporzione del suo avanzamento.
Quello che bisogna osservare si è gli
elementi e la natura di ciò che forma [1897]la perfezione e
l'indole di una lingua. Ora la lingua francese formata ne' tempi che per noi
sono moderni, contiene in se stessa i principii di corruzione ed alterazione
che ho notati di sopra; perocch'ella, secondo la natura di tali tempi, è
sottoposta nella sua forma alla servitù della ragione. Laddove la lingua
italiana formata in tempi che per noi sono antichi, e secondo l'indole di detti
tempi, dotata essenzialmente della libertà della natura, capace d'indeterminata
moltiplicità di forme, di stili, e quasi di lingue, non può mai
corrompersi, purchè s'abbia l'occhio a conservarle appunto queste
qualità, senza le quali non può stare la sua vera indole
primitiva; onde sebbene d'indole antica, ella, anzi perciò appunto
ch'è d'indole antica, è e sarà sempre capace di tutto
ciò che è o sarà per esser moderno; temperando sempre i
suoi diversissimi stili secondo la natura degli argomenti. [1898]Ond'ella
è e potrà sempre essere adattata così all'antico come al
moderno, cioè al bello come al vero, e alla natura come alla ragione,
perocchè questa è compresa nella natura, ma non già viceversa.
E potrà anche unire insieme le due qualità del bello e del vero,
in un medesimo stile. Come appunto la lingua greca, vera figlia della natura e
del bello, fu tanto atta alla filosofia, quanto forse nessuna delle moderne, le
quali a lei tuttora ricorrono ne' loro bisogni filosofici ec.; la lingua greca
si conservò per tanti secoli e tante vicissitudini di cose incorrotta;
la lingua greca si può con certezza presumere che se oggi vivesse, oggi
conservando il suo stesso primitivo carattere, sarebbe capacissima e forse
più d'ogni altra anche moderna, di tutte le cose moderne, siccome ne
può far fede il vedere quante di queste non si sappiano denominare se
non ricorrendo a essa lingua; la lingua greca si adatterebbe [1899]all'analisi,
a ogni sottigliezza della nostra moderna ragione, senza però perder
nulla della sua bellezza, della sua antica indole, e della sua
adattabilità alla antica natura, perocchè la natura può considerarsi
come antica.
Ben è verissimo che quanto la lingua
italiana è incorruttibile nella teoria, tanto nelle presenti circostanze
è più d'ogni altra corruttibile nella pratica. I riformatori del
moderno stile corrotto, in luogo di conservarle la libertà essenziale
alla sua indole, gliela tolgono, ed oltre ch'essi stessi con ciò solo la
corrompono, assicurano poi la sua corruzione riguardo agli altri, mentre la
libertà è il principale e indispensabile preservativo di questo
male. Gli altri non istudiano la lingua, non la conoscono, si prevalgono della
sola sua libertà, senza considerare come vada applicata ed usata, non
sanno le forze della lingua, ed in vece di queste, adoprano delle forze straniere
ec. L'indole antica della [1900]lingua italiana pare a prima vista
incompatibile con quella delle cose moderne. Senza cercare dunque nè scoprire
come queste indoli si possano accordare (il che non può conoscere chi
non conosce la lingua), si sacrifica quella a questa, o questa a quella, o si
uniscono mostruosamente con danno di tutt'e due. Laddove la lingua italiana
deve e può conservare la sua indole antica adattandosi alle cose
moderne, esser bella trattando il vero; parere anche antica qual è,
senza però mancare a nessuno de' moderni usi, e adattarvisi senza alcuno
sforzo.
Insomma la lingua italiana è
facilmente corruttibile, perchè può far moltissimo; laddove p.e.
la lingua francese, pochissimo. Ora il poco s'impara più facilmente del
molto.
(10-12 Ott. 1821.)
Non solo l'eleganza, ma la nobiltà la
grandezza, tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio
poetico esso stesso, consiste, se ben l'osservi, in un modo di parlare
indefinito, o non ben definito, o sempre [1901]meno definito del parlar
prosaico o volgare. Questo è l'effetto dell'esser diviso dal volgo, e
questo è anche il mezzo e il modo di esserlo. Tutto ciò
ch'è precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel
linguaggio poetico, giacchè non bisogna considerar la sua natura che
nell'insieme, ma certo propriamente parlando, e per se stesso, non è
poetico. Lo stesso effetto e la stessa natura si osserva in una prosa che senza
esser poetica, sia però sublime, elevata, magnifica, grandiloquente. La
vera nobiltà dello stile prosaico, consiste essa pure costantemente in
non so che d'indefinito. Tale suol essere la prosa degli antichi, greci e
latini. E v'è non pertanto assai notabile diversità fra
l'indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec.
Quindi si veda come sia per sua natura
incapace di poesia la lingua francese, la quale è incapacissima
d'indefinito, e dove anche ne' più sublimi stili, non [1902]trovi
mai altro che perpetua, ed intera definitezza.
Anche il non aver la lingua francese un
linguaggio diviso dal volgo, la rende incapace d'indefinito, e quindi di linguaggio
poetico, e poichè la lingua è quasi tutt'uno colle cose, incapace
anche di vera poesia.
Nè solo di linguaggio poetico, ma
anche di quel nobile e maestoso linguaggio prosaico, ch'è proprio degli
antichi, e fra tutti i moderni degl'italiani (degli spagnuoli ancora, e de'
francesi prima della riforma), e che ho specificato qui dietro.
(12. Ott. 1821.)
Queste ed altre tali osservazioni dimostrano
che i francesi, i quali ho detto essere incapaci di ben sentire e gustare le lingue
forestiere, massime le antiche, e l'italiana, lo sono soprattutto in ordine ai
linguaggi della poesia, per la stessa ragione per cui le lingue antiche e
l'italiana [1903]sono meno di ogni altra alla loro portata.
(12. Ott. 1821.)
Il giovane o dirittamente e precisamente, o
almeno confusamente, e nel fondo del suo cuore; e non solo il giovane ma la
massima parte degli uomini, e possiamo dir tutti, almeno in qualche
circostanza, credono straordinario nel mondo quello appunto ch'è
ordinario, e viceversa; straordinari i casi delle storie, e ordinari i casi de'
romanzi.
(12. Ott. 1821.)
Alla p.1880. L'uomo, per molto che sia
dissipato, convive sempre più con se stesso che cogli altri, o con verun
altro, e quindi è più abituato alle qualità proprie, che alle
altrui, o a quelle di chiunqu'altro. Perciò non v'è
qualità umana così straordinaria per l'uomo, come quelle che sono
contrarie alle proprie. Ben è vero che questo effetto va in proporzione
della maggiore o minore abitudine che l'uomo ha o con se stesso, o con la
società. Del resto è noto che l'uomo giudica [1904]sempre
più o meno gli altri da se stesso; che per quanto sia filosofo e pratico
del mondo, e quasi anche dimentico di se stesso, sempre ricade lì; che
il vizioso non crede alla virtù, nè il virtuoso al vizio; che
secondo le mutazioni a cui soggiace il carattere di ciascun individuo, si
diversifica il giudizio e il concetto abituale ch'egli forma degli altri ec.
Come ho detto che la malvagità fa
effetto nel virtuoso in ordine alla grazia, così pur si può e dee
dire della virtù rispetto al malvagio o vizioso ec. ec. ec.
(12. Ott. 1821.)
Quanta parte dell'effetto singolare che
produce la bellezza umana sull'uomo, massime quella della fisonomia, dipenda e
nasca dalla sua significazione, si può vedere ne' fanciulli, i quali
quantunque bellissimi non producono grand'effetto nello spettatore, nè
gli destano odio o avversione più che superficiale, quantunque
bruttissimi. Ciò sebbene [1905]possa avere anche altre cagioni,
deriva pur notabilmente da questa, che la fisonomia de' fanciulli ha sempre
poca significazione per chi l'osserva, 1. perchè la significazione della
fisonomia nasce in gran parte dalle assuefazioni, cioè dal carattere,
dalle passioni ec. ec. che l'individuo acquista appoco appoco, e che mettono in
azione, e danno rappresentanza alla fisonomia. Il carattere de' fanciulli
essendo ancora formabile, la significazione della loro fisonomia, è
anch'essa da formarsi, e la corrispondenza fra l'interno e l'esterno è
minore, o meno determinata, in quanto l'uno e l'altro aspettano la forma che
riceveranno dalle circostanze, e sono ancora quasi pasta molle e da lavoro. 2.
Perchè quando anche le fisonomie de' fanciulli sieno quanto all'apparente
conformazione, significantissime; lo spettatore non applica a questo segno,
veruna [1906]notabile significazione, sapendo che il carattere del
fanciullo non è ancora formato, non si può conoscere, non si
può bastantemente congetturare dai detti segni, e dalla fisonomia, e
ciò che ora ne apparisce è passeggero, oltre che alla fine
è di poco conto, e nel genere delle bagattelle. Onde un occhio vivacissimo,
e una fisonomia amabilissima in un fanciullo, non ci produce che una leggera
sensazione di amore; ed una fisonomia fiera, e d'apparenza malvagia, non ci produce
che un leggero senso di avversione. Sicchè la fisonomia del fanciullo
lascia l'uomo quasi indifferente, com'è indifferente (almeno per allora)
e di poco conto, ciò ch'ella può significare, e com'è
leggera la corrispondenza fra il significante e il significato. Giacchè
anche questa non solo è determinata dalle assuefazioni, ma anche in gran
parte ne deriva, e perciò non può loro essere anteriore. V.
p.1911.
Non così credo che si possa
discorrere [1907]quanto all'effetto della fisonomia de' fanciulli negli
stessi fanciulli, secondo ch'essi sono più o meno avvezzi e capaci di attendere,
e quindi di combinare, e di conoscere i rapporti.
(12. Ott. 1821.)
Ne' versi rimati, per quanto la rima paia
spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di
chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e
talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto della sola rima.
Ma ben pochi son quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque
non paiano stentati, anzi nati dalla cosa.
(13. Ott. 1821.)
Non v'è cosa più sciocca e
ingiuriosa alla natura del dire e ripetere continuamente che la perfezione non
è propria delle cose create, che niente al mondo è perfetto, che
le cose umane sono imperfette, che non vi può esser uomo perfetto ec.
ec. Che cosa mancava a quella insigne maestra ch'è la natura per far le
sue opere perfette? forse l'intelligenza? forse il potere? Certo che nulla
è nè può esser perfetto secondo la frivola idea che noi ci
formiamo di una perfezione assoluta, [1908]che non esiste, di una
perfezione indipendente da qualunque genere di cose, ed anteriore ad essi,
quando in essi soli è rinchiusa ogni perfezione, da essi deriva, e in
essi e nel loro modo di essere, ha l'unica ragione dell'esser suo, e dell'esser
perfezione. Certo che nulla è perfetto in un modo che non è, in
un modo in cui le cose non sono; e la natura delle cose che sono, non
può corrispondere a quello ch'è fuor di loro, e non è
riposto in nessun luogo. Noi sognando andiamo a cercare la perfezione di
ciò che vediamo, fuori dell'esistenza, mentr'ella esiste qui con noi, e
coesiste a ciascun genere di cose che conosciamo, e non sarebbe perfezione in
verun altro caso possibile. Non è maraviglia dunque se tutto ci pare
imperfetto, quando per perfetto intendiamo l'esistere in un modo in cui le cose
non son fatte, laddove la perfezione non consiste e non ha altra ragione di
esser tale, che nel modo in cui le cose son fatte, ciascuna nel suo genere.
[1909]Certo è ancora che le
cose propriamente umane ci debbono parer tutte imperfette, perchè in
verità son tali. Noi fantastichiamo la perfettibilità dell'uomo,
e dopo così immensi (pretesi) avanzamenti del nostro spirito, non siamo
più vicini di prima alla nostra supposta perfezione; e quando anche ci
si dassero in mano le facoltà e la scienza di un Dio, per comporre un
uomo perfetto secondo le nostre idee, non lo sapremmo fare, perchè da
che noi immaginiamo una perfezione assoluta, ed unica, non possiamo in eterno sapere
in che cosa possa consistere la perfezione dell'uomo, nè di qualunque
altro essere possibile, o genere di esseri. Giacchè immaginando un solo
ed assoluto tipo di perfezione, indipendente ed antecedente ad ogni sorta di
esistenza, tutti gli esseri per esser perfetti debbono essere interamente conformi
a questo tipo; dunque tutti perfettamente uguali e identici di natura; dunque
da che esistono generi, esiste necessariamente un'immensa imperfezione [1910]nella
stessa essenza di tutte le cose, la quale non si può toglier via, se non
confondendo tutte le cose insieme, estirpando tutte le possibili nature,
esistenti o non esistenti, e tutti i possibili modi di essere, e riducendo
un'altra volta il tutto, e l'intera esistenza a quel tipo di perfezione
ch'è anteriore all'esistenza, e quindi non esiste. Che cosa dunque
intendiamo noi per perfezione dell'uomo? a che cosa pretendiamo noi di andare
incontro? qual è la meta dei pretesi perfezionamenti del nostro spirito?
qual è la debita, anzi pur la possibile perfezione dell'uomo, anche
ridotto allo stato di eterna Beatitudine, e in Paradiso?
Non è maraviglia dunque se ogni cosa
umana ci desta sempre l'idea dell'imperfezione, e ci lascia scontenti, e se si
grida che l'uomo è imperfetto. Tale è veramente oggidì, e
tale non lascerà mai di essere, da che egli è sortito da quella
perfezione che portava con se, consistente [1911]nello stato naturale
della sua specie, e nell'uso naturale delle sue naturali disposizioni; e
perdendo di vista il tipo che avea sotto gli occhi, e che era egli stesso, o
sia la sua stessa specie, è andato dietro a un'immaginaria perfezione
assoluta ed universale, che non ha nè può avere nessun tipo,
giacchè questo non potrebb'essere se non anteriore all'esistenza, e
quindi per sua stessa natura non esistente, e vano; giacchè la
perfezione assoluta, (o il tipo di essa) e l'esistenza, sono termini
contraddittorii.
(13. Ott. 1821.)
Alla p.1906. fine. Infatti siccome le
qualità che l'uomo porta dalla natura, non sono altro che disposizioni,
così la corrispondenza che deve rappresentar nell'esterno queste
qualità interne, non può esser più che una disposizione dell'esterno
a rappresentarle.
(13. Ott. 1821.)
Alla p.1880. I re da principio erano anche
più che altro i condottieri degli eserciti. La persona del Generale si
è divisa da quella del principe, e i re hanno lasciato [1912]di
esser guerrieri, e non si sono vergognati di non saper comandare alle proprie
armate, nè diriggere e adoperar la forza del proprio regno, non tutto ad
un tratto, ma appoco appoco, e in proporzione che il mondo e le cose umane
hanno perduto il loro vigore, ed energia naturale, e che l'apparenza ha preso
il luogo della sostanza: nello stesso modo, e per la ragione appunto, per cui
seguitando e crescendo il detto andamento delle cose, i principi non si sono
neppur vergognati di non sapere o non voler governare, e di farsi servire anche
in questo, dai sudditi che per questo solo lo mantengono a loro spese. Onde i
re non hanno conservato altro uffizio che di prestare il nome al governo o alla
tirannide, rappresentate il principato, com'essi stessi sono rappresentati
talvolta e venerati ne' loro ritratti, e servire alla Cronologia, come i
consoli eponimi de' tempi imperiali, a' fasti di Roma. I principi non sono
più quasi altro che ritratti della monarchia, dell'autorità. Essi
sono i rappresentanti de' loro ministri, e non viceversa. Così oggi il
mondo non sa più a chi s'en prendre del bene o del male che
riceve dal suo governo, e ubbidisce nel temporale [1913]all'astratto
dell'autorità, vale a dire a un essere, una forza invisibile, come nello
spirituale ubbidisce a Dio, e come il Tibet ubbidisce al reale ma invisibile Gran
Lama. Beata spiritualizzazione del genere umano!
(13. Ott. 1821.)
Oggi chi conoscendo ed avendo sperimentato
il mondo, non è divenuto egoista, se ha niente niente di senso e
d'ingegno, non può esser divenuto che misantropo.
(14. Ott. 1821.)
Ciascuno è in grado di giudicar
brevissimamente da se stesso, se il bello o il brutto possa mai essere
assoluto. Consideriamo astrattamente la bruttezza di un uomo il più
brutto del mondo. Che ragione ha ella in se per esser bruttezza? Se tutti o la
maggior parte degli uomini fossero così fatti, non sarebb'ella bellezza?
Così discorro d'ogni altro genere di bello o di brutto. Come quello
ch'è schifoso per noi, non è schifoso per se stesso, e ad altro
genere di esseri, o di animali, può riuscire e riesce [1914]tutto
il contrario; come nessun sapore nè odore ec. è spiacevole o
piacevole per se e per essenza, ma accidentalmente; così nessuna
bellezza o bruttezza è tale per se, ma rispetto a noi, ed accidentale, e
non inerente in alcun modo all'essenza del subbietto.
(14. Ott. 1821.)
Le persone che nella fanciullezza ci hanno
trattati bene, sono state solite a prestarci dei servigi, ci hanno fatto buona
cera, ci hanno divertiti, ci hanno cagionato dei piaceri colla loro presenza,
ci hanno regalati ec. non ci sono parse mai brutte mentre eravamo in quell'età,
per bruttissime che fossero; anzi tutto l'opposto. E coll'andar del tempo se
abbiamo rettificata quest'idea, non l'abbiamo quasi mai fatto interamente,
massime in ordine al tempo della nostra fanciullezza. Effetto ordinarissimo,
che ciascheduno può notare in se, e raccontare, e sentirselo raccontare,
come ho sentito io le mille volte, con un certo stupore di chi lo raccontava.
(14. Ott. 1821.)
[1915]Una cagione del piacere che
produce la semplicità nelle opere d'arte, o di scrittura, o in tutto
ciò che spetta al bello; cagione universale, e indipendente dall'assuefazione
quanto al totale dell'effetto, ed inerente alla natura del bello semplice; si
è il contrasto fra l'artefatto e l'inartefatto, o la perfetta apparenza
dell'inartefatto. Contrasto il quale può essere 1. tra le altre bellezze
e qualità dell'opera, che stante la loro perfezione, non paiono poter
essere inartefatte, e la semplicità o naturalezza che tutte le veste e
le comprende, la quale è, o pare del tutto inartefatta: 2. fra la stessa
natura della semplicità e naturalezza che per se stessa par che includa
lo spontaneo e non artefatto, e il sapere o accorgersi bene (com'è
naturale) ch'essa, malgrado questa perfetta apparenza, è non per tanto
artefatta, e deriva dallo studio. Contrasto il quale produce la meraviglia che
sempre deriva dallo straordinario, [1916]e dall'unione di cose o
qualità che paiono incompatibili ec. Siccom'è il ricercato colla
sembianza del non ricercato. Sottilissime, minutissime, sfuggevolissime sono le
cause e la natura de' più grandi piaceri umani. E la maggior parte di
essi si trova in ultima analisi derivare da quello che non è ordinario,
e da ciò appunto, ch'esso non è ordinario. ec. (14. Ott. 1821.).
La maraviglia principal fonte di piacere nelle arti belle, poesia, ec. da che
cosa deriva, ed a qual teoria spetta, se non a quella dello straordinario?
Molte parole che in una lingua sono triviali
e volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono
ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e
nobilissime ec. trasportandole in un'altra lingua, a causa del pellegrino.
Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell'italiano,
voci o frasi latine. Sarebbe ben poco accorto chi trovandole volgari e
dozzinali in latino, le credesse per ciò tali in italiano. Se in latino
sono comuni e plebee, in italiano possono essere del tutto divise dal volgo e
nobilissime. Elegantemente il Petrarca nel Proemio:
[1917]Ma ben veggi'or sì come
al popol tutto
Favola fui gran tempo.
E pur questa frase potè ben essere
molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare,
e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare,
giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella,
e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra
lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa;
ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di
più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto
diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula,
per favella o ciancia.
Parimente discorro in ordine ad altre
lingue, alle parole e frasi italiane, o usi diversi delle medesime, passate
nello spagnuolo, e viceversa. ec. ec.
(14. Ott. 1821.)
Moltissime volte o l'eleganza o la
nobiltà (quanto alla lingua) deriva [1918]dall'uso metaforico
delle parole o frasi, quando anche, come spessissimo e necessariamente accade,
il metaforico appena o punto si ravvisi. Moltissime volte per lo contrario
deriva dalla proprietà delle stesse parole o frasi, quando elle non sono
usitate nel senso proprio, o quando non sono comunemente usitate in nessun
modo, o essendo usitate nella prosa non lo sono nella poesia, o viceversa, o in
un genere di scrittura sì, in altra no, ec. (La precisione sola non
può mai produrre nè eleganza nè nobiltà, nè
altro che precisione e angolosità di stile.). V. p.1925. fine.
Quindi è che parlando generalmente e
di un intiero stile (giacchè l'effetto generale, deriva e si conforma
agli effetti particolari), in un secolo e in una nazione dove le parole e frasi
sieno poco usitate nel senso proprio scrivendo, dove sia molto in uso lo stile
metaforico (dentro i limiti però dell'eleganza), uno stile proprio, e
composto anche, purchè con certa arte, di parole e frasi pedestri,
familiari, e spettanti ai particolari, riuscirà [1919]elegantissimo.
E viceversa supponendo il caso contrario. Quindi possiamo osservare, congetturare,
specificare, distinguere i diversi effetti che hanno prodotto ne' diversi
secoli e le diverse opinioni in cui (dentro i limiti del bello) sono stati
avuti gli scrittori italiani di diverso stile, nella stessa Italia: come i
trecentisti, paragonati co' cinquecentisti, ec. ec. Quindi possiamo anche
notare la istabilità delle riputazioni e degli effetti di un'opera di
belle arti, o di scrittura, sulle quali si stima che il giudizio spassionato
del pubblico, sia come giusto, così invariabile. Giusto concedo,
invariabile nego; massime in lungo corso di secoli, e in qualche
diversità di nazioni, e di costumi ec.
Queste teorie dalla lingua, si possono
trasportare ai concetti, alle maniere, e a tutto ciò che nello stile
non appartiene alla lingua. Si troveranno gli stessi effetti e le stesse cagioni,
dappertutto l'eleganza o la nobiltà, derivante dal pellegrino [1920]o
sia tale come proprio, o sia come traslato; e tanta maggiore uniformità
si dovrà trovare in detti effetti e cagioni, quanto che le parti dello
stile spettanti alla lingua sono così legate con quelle che non le
appartengono, che appena se ne possono mai sceverare.
(14. Ott. 1821.)
Siccome il piccolo è grazioso,
così il grande per se stesso, sotto ogni aspetto, (anche il grande
però è relativo) è contrario alla grazia. E mal sarebbe accolto
quel poeta che personificando p.e. un monte gli attribuisse qualità o
sensi dilicati ec. o che attribuisse della grandezza a qualunque soggetto da
lui descritto o trattato come grazioso o delicato; o che introducesse la
grandezza qualunque, in un genere o argomento grazioso ec. se ciò non
fosse per un contrasto. Eppure astrattamente parlando non c'è ragione
perchè il grande non possa esser grazioso, e quello ch'è grande
per noi, è o può esser piccolo per altri ec. ec. [1921]
(14. Ott. 1821.)
Si può dire che il dilicato in ordine
alle forme ec. non consiste in altro che in una proporzionata e rispettiva
piccolezza del tutto o delle parti. E viceversa il grossolano, o ciò
ch'è di mezzo fra il grossolano e il dilicato. La qual proporzione, la
qual piccolezza è determinata dall'assuefazione. La piccolezza del piede
delle Chinesi a noi parrebbe sproporzionata. La natura non entra qui (come non
entra altrove) o non basta a tali determinazioni. La più lunga vita
della donna più grande nei nostri vestiarii d'oggidì è
più corta della più corta vita dell'uomo il più piccolo, o
almeno il più mediocre ec. ec.
Applicate queste osservazioni al dilicato
immateriale ec.
Quello che noi chiamiamo sveltezza di forme,
non è altro che dilicatezza cioè piccolezza rispettiva, come di
una proporzione rispetto ad un'altra, della larghezza rispetto alla lunghezza
ec. Il tutto determinato dall'assuefazione [1922]e soggetto a variare
seco lei.
(15. Ott. 1821.)
Non può nessuno vantarsi di essere
perfetto in veruna umana disciplina, s'egli non è altresì
perfetto in tutte le possibili discipline e cognizioni umane. Tanta è la
forza e l'importanza de' rapporti che esistono fra le cose le più disparate,
non conoscendo i quali, nessuna cosa si conosce perfettamente. Or siccome
ciò che ho detto è impossibile all'individuo, perciò lo
spirito umano non fa quegl'immensi progressi che potrebbe fare. E però
certo che se non perfettamente, almeno quanto è possibile, è realmente
necessario di esser uomo enciclopedico, non per darsi a tutte le discipline e
non perfezionarsi o distinguersi in nessuna, ma per esser quanto è
possibile perfetto in una sola. In ciò l'opinione del tempo è ragionevole.
Chi almeno nella superficie non è uomo enciclopedico, non può
veramente considerarsi (ed oggi non si considera) come gran letterato, o
insigne in veruna disciplina intellettuale. Massimamente poi bisogna [1923]essere
enciclopedico dentro il circolo di quelle cognizioni ec. che sebben separate e
distinte, hanno maggiore, e più certo ed evidente rapporto e affinità
colla disciplina da voi professata.
(15. Ott. 1821.)
Notate. L'uomo in assoluto stato di natura,
il bambino, non differisce dagli animali (massime da quelli che nella catena
del genere animale sono più vicini alla specie umana), se non per un menomo
grado ch'egli ha di maggior disposizione ad assuefarsi. La differenza è
dunque veramente menoma, e perfettamente gradata, fra l'uomo in natura, e
l'animale il più intelligente, come fra questo e l'altro un po' meno
intelligente ec. Ma di menoma, diventa somma, coll'esser coltivata, cioè
col porre in atto e in esercizio quella alquanto maggiore disposizione che
l'uomo ha ad assuefarsi. Un'assuefazioncella ch'egli può acquistare, e
l'animale no, perchè alquanto meno disposto, ne facilita un'altra. Due
assuefazioni (se così posso esprimermi) già acquistate, mediante [1924]quel
piccolissimo mezzo di più, che la natura ha dato all'uomo, gliene
facilitano altre sei o otto, ed accrescono nella stessa proporzione la
facilità di acquistarle. Ecco che l'uomo viene acquistando mediante le
sole assuefazioni la facoltà di assuefarsi. La quale da una piccolissima
disposizione naturale, quasi dal grano di senapa, cresce sempre gradatamente,
ma con proporzioni sempre crescenti, in modo che a forza di assuefazioni
acquistate, e della facoltà di assuefarsi, l'uomo arriva a
differenziarsi infinitamente da qualunque animale e dall'intera natura. E
similmente col progresso delle generazioni arriva colla stessa proporzione
crescente, a sempre più differenziarsi dal suo stato naturale, dagli
uomini primitivi, dagli antichi ec. ec. L'andamento, o il così detto
perfezionamento dello spirito umano rassomiglia interamente alla progressione
geometrica che dal menomo termine, con proporzione crescente arriva
all'infinito. Siccome [1925]appunto l'uomo da una menoma differenza o
superiorità di naturale disposizione arriva ad una interminabile differenza
dagli altri animali. E non è dubbio che quella che si chiama perfettibilità
dell'uomo è suscettibile di aumento in infinito come la progression
geometrica, e di aumento sempre proporzionalmente maggiore.
(15. Ott. 1821.)
La lingua del bambino chi dirà che
abbia la facoltà di favellare? Non ne ha che la disposizione. Così
quella del muto.Così quella di chi per circostanze non fisiche non ha
mai acquistato la pronunzia di tale o tal lettera. Se ciò è avvenuto
per circostanze fisiche, allora con ragione diremo ch'egli non aveva la
disposizione necessaria ad acquistar la facoltà di quella pronunzia.
(15. Ott. 1821.)
Alla p.1918. I rettorici sanno bene che
tanto dà nobiltà, eleganza, grandezza al discorso il nominar la
parte in luogo del [1926]tutto, quanto il tutto in luogo della parte.
(Così dico d'altre simili figure. La specie per il genere, l'individuo o
pochi individui per il genere o la specie o la moltitudine ec. il poco per il
molto ec.) La parte è inferiore al tutto, e il nominarla par che debba
impiccolire l'idea. Pure avviene il contrario, perchè la locuzione
diventa non ordinaria, e divisa dal volgo. E il buon effetto di tali figure che
mentre impiccoliscono in fatto, ingrandiscono nell'idea, può anche
derivare dal contrasto ec.
(15. Ott. 1821.)
La lingua italiana è certo più
atta alle traduzioni che non sarebbe stata la sua madre latina. Fra le lingue
ch'io conosco non v'è che la greca alla quale io non ardisca di
anteporre la nostra in questo particolare, nel quale però poca esperienza
fecero i greci della lor lingua.
(16. Ott. 1821.)
È cosa tuttogiorno osservabile come
sieno difficili ad estirpare le opinioni e i costumi popolari, (anche i
più falsi, dannosi, vergognosi, derivanti da' più sciocchi
pregiudizii ec.) come lunghissimi secoli dopo che n'è mancata, per
così dire, o la ragione, o l'utilità ec. esse tuttavia durino, o
se ne trovino notabili vestigi ec. Eppur la moda cambia le usanze del vestire,
e di tutto ciò a [1927]cui essa appartiene, ancorchè
ottime, utilissime, convenientissime al tempo ec. e le cambia in un punto, e
universalmente, e in modo che brevemente si perde ogni vestigio della usanza
passata. Questo principalmente fra i popoli colti, i quali però non sono
quasi meno restii degli altri nel disfarsi di tutto ciò che non è
soggetto all'imperio della moda, per cattivo, falso, inutile, dannoso, brutto
che possa essere.
(16. Ott. 1821.)
Molti leggono o vedono le buone e classiche
opere di poesia, di letteratura, d'arti belle ec. che giornalmente vengono alla
luce, ma nessuno le studia, finchè non sono divenute antiche; e
studiandole, non vi proverebbe quel piacere che prova nelle antiche, non vi troverebbe
in nessun modo quelle bellezze ec. Che cosa è questa se non opinione e
prevenzione sul bello?
(16. Ott. 1821.)
Quello che altrove ho detto sugli effetti
della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all'idea dell'infinito, si
deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che [1928]spetta
all'udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non
per un'idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole)
udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco
allontanando, e divenendo insensibile; o anche viceversa (ma meno), o che sia
così lontano, in apparenza o in verità, che l'orecchio e l'idea
quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso,
massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che
non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una
stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori
che nella campagna s'ode suonare per le valli, senza però vederli, e
così il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o
suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi
effetti, perchè nè l'udito nè gli altri sensi non arrivano
a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze.
È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente
si diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l'oggetto da
cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e
dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime
quand'è più sordo, quando è udito [1929]in aperta
campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente
in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito
da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec.
Perocchè oltre la vastità, e l'incertezza e confusione del suono,
non si vede l'oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si
vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta
il calpestio de' piedi, o la voce ec. Perocchè l'eco non si vede ec. E
tanto più quanto il luogo e l'eco è più vasto, quanto
più l'eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto
più ancora se vi si aggiunge l'oscurità del luogo che non lasci
determinare la vastità del suono, nè i punti da cui esso parte
ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto
più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto,
senza mostrar [1930]l'intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando
d'ignorare l'effetto e le immagini che son per produrre, e di non toccarli se
non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e indole dell'argomento ec. V. in
questo proposito Virg. Eneide 7. v.8. seqq. La notte,
o l'immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a
cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l'ha adoperata.
(16. Ott. 1821.)
Posteri, posterità, (e
questo più perchè più generale) futuro, passato,
eterno, lungo in fatto di tempo, morte, mortale, immortale, e cento
simili, son parole di senso o di significazione quanto indefinita, tanto
poetica e nobile, e perciò cagione di nobiltà, di bellezza ec. a
tutti gli stili.
(16. Ott. 1821.)
L'effetto della significazione della
fisonomia umana, riconosce anch'esso per sua prima cagione ed origine
l'esperienza e l'assuefazione Il bambino non sa nulla che cosa significhi [1931]la
più viva e marcata fisonomia, e quindi in ordine alla di lei
significazione, non può provarne verun effetto nè piacevole
nè dispiacevole. Col tempo, e tanto più presto quanto egli
è più disposto naturalmente ad assuefarsi, e disposto o
assuefatto ad attendere, e quindi a confrontare, e a legare i rapporti, egli conosce
che l'uomo dabbene, o l'uomo che gli fa carezze ec. ha, o piglia la tale o tal aria
di fisonomia ec. e appoco appoco si forma le idee delle varie corrispondenze
che sono tra il di fuori e il di dentro degli uomini. Ma vi s'inganna assai
più degli uomini, quantunque, anzi perciò appunto ch'egli
è più suscettibile d'impressione nelle cose sensibili ec. ec. ec.
La significazione stessa che la natura ha
data alla fisonomia umana non si deve intendere se non a minori,
cioè ch'ella non esisterebbe, se ciascun uomo non osservasse l'effetto
generale, e gli effetti particolari, [1932]momentanei ec. che per natura
produce l'interno sul viso (come appunto la natura ha dato agli affetti
interiori una piena e variata influenza e corrispondenza coi moti del corpo,
colle voci naturali, co' tuoni della voce e sue modulazioni, colle azioni, con
tutto l'abito esterno, colla lentezza o prestezza, vivezza o freddezza degli
atti ec. l'imitazione delle quali qualità fa la espressione della musica
dell'armonia imitativa de' versi o delle parole ec. ec.), effetti che la natura
ha per altro disposti a suo pieno arbitrio, e senza considerazione del bello.
Chi non osserva, o chi meno osserva, per lui la fisonomia non significa molto,
o nulla, ed egli non sente molto quel bello umano che deriva dalla
significazione della fisonomia, come neppure quel bello delle arti o poesia ec.
(16. Ott. 1821.)
Un cieco (uomo o animale) è quasi
senza espressione (cioè senza nessuna significazione viva) di fisonomia,
nè costante nè momentanea.
(16. Ott. 1821.)
La lode di se stesso la quale ho detto non
esser altro che naturalissima all'uomo, e in tanto solo condannata nella
società, e divenuta oggetto di una certa ripugnanza all'individuo (che
par naturale e non è) in quanto l'uomo odia l'altro uomo; è
sempre tanto più o meno in uso ec. quanto la società è
più o meno stretta, e la civiltà più [1933]o meno
avanzata. Presso gli antichi ella non fu mai così deforme, nè
soggetta al ridicolo come oggi. Esempio di Cicerone. Oggi la modestia è
tanto più minuziosa e scrupolosa nelle sue leggi quanto la nazione
è più civile e socievole. Quindi in Francia queste leggi sono
nell'apice del rigore, e in Francia riescono intollerabili gli antichi quando
si lodano da se come Cicerone e Orazio (v. l'apologia che fa Thomas di Cicerone
in tal proposito, nell'Essai sur les Éloges), ed è proibito sotto
pena del più gran ridicolo, a chi scrive e a chi parla il mostrare di
far conto di se o delle cose sue, il parlar di se senza grand'arte, il non
affettar disprezzo di se e delle proprie cose. ec. Questi effetti nelle altre nazioni
sono proporzionati al più o meno di francese che si trova ne' loro
costumi, o in quelli de' loro individui. (La Francia non ha differenza
d'individui, essendo tutta un individuo). I tedeschi [1934]che certo non
sono incivili, pur si vede ne' loro scrittori, che parlano volentieri di se, e
danno a se stessi, alle loro azioni, famiglie, casi, scritti ec. un certo peso,
e in un certo modo che riuscirebbe ridicolo in Francia ec. (17. Ott. 1821.).
Similmente possiamo discorrere degl'italiani.
Dico che l'effetto della musica spetta principalmente
al suono. Voglio intender questo. Il suono (o canto) senz'armonia e melodia non
ha forza bastante nè durevole anzi non altro che momentanea sull'animo
umano. Ma viceversa l'armonia o melodia senza il suono o canto, e senza quel
tal suono che possa esser musicale, non fa nessun effetto. La musica dunque
consta inseparabilmente di suoni e di armonia, e l'uno senza l'altro non
è musica. Il suono in tanto è musicale in quanto armonico, l'armonia,
in quanto applicata al suono. Sin qui le partite sarebbero uguali. Ma io
attribuisco l'effetto principale al suono perch'esso è propriamente
quella [1935]sensazione a cui la natura ha dato quella miracolosa forza
sull'animo umano (come l'ha data agli odori, alla luce, ai colori); e sebbene
egli ha bisogno dell'armonia, nondimeno al primo istante, il puro suono basta
ad aprire e scuotere l'animo umano. Non così la più bella armonia
scompagnata dal suono. Di più se il suono non è gradevole,
cioè non è di quelli a cui la natura diede la detta forza, unito
ancora colla più bella armonia, non fa nessun effetto; laddove uno dei
detti suoni gradevoli ec. unito ad un'armonia di poco conto, fa effetti notabilissimi.
Del resto accade nella musica come negli
oggetti visibili. La luce e il suono ricreano e dilettano per natura. Ma il
diletto dell'una e dell'altro non è nè grande nè durevole,
se non sono applicati, questo all'armonia, quella, non solo ai colori (che i
colori son come i tuoni, e di poco durevole diletto, sebben più durevole
di quello della luce semplice o del bianco), ma agli oggetti [1936]visibili
o naturali o artefatti, come nella pittura, che applica, distribuisce ed ordina
al miglior effetto i tuoni della luce, come l'armonia quelli del suono. I
colori non hanno che fare coll'armonia, ma hanno un altro modo di dilettare. I
tuoni del suono non hanno se non l'armonia, a cui possano essere
dilettevolmente applicati.
(17. Ott. 1821.)
Tutto può degenerare e degenera,
fuorchè le parole e le lingue astrattamente considerate. Quella parola
mutata di significazione e di forma in modo che appena o non più si
ravvisi la sua origine e la sua qualità primitiva, non è men
buona (in tutta l'estensione del termine) di quella ch'era nel suo primissimo
nascere. Così una lingua. Non v'è dunque propriamente nè
degenerazione nè corruzione per le parole o per le lingue. E ciò
che s'intende per corruzione di esse non è altro che allontanamento dal
loro stato e forma primitiva, o da quello che presero quando furono [1937]stabilite
e formate. Altrimenti le lingue e le voci non si corromperebbero mai.
Purità di lingua non può dunque essere, e non è altro che uniformità
colla sua indole primitiva.
(17. Ott. 1821.). V. p.1984.
Quando si comincia a gustare una nuova
lingua, le cose che più ci piacciono e ci rendono sapor di eleganza,
sono quelle proprietà, quelle facoltà, modi, forme, metafore, usi
di parole o di locuzioni, che si allontanano dal costume e dalla natura della
nostra lingua, senza però esserle contrarie, e senza discostarsene di
troppo. (Così anche nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua
straniera, ci piacciono più di tutto quei suoni che non sono propri
della nostra, o del nostro costume, nel qual proposito v. la .1965. fine.)
(Ecco appunto la natura della grazia: lo straordinario fino a un certo segno, e
in modo ch'egli faccia colpo senza choquer le nostre assuefazioni ec.)
Questo ci accade nel leggere, nel parlare nello scrivere uella tal lingua. (In
tutti tre i casi però può aver luogo un'altra sorgente di
piacere, cioè l'ambizione o la compiacenza di sapere intendere o
adoperare quelle tali frasi, di parer forestiere a se stesso, di aver fatto
progressi, vinto le difficoltà ec.) E ciò accade quando anche in
quella lingua o in quel caso, quelle tali forme non sieno per verità
eleganti. E dove noi vediamo una decisa e per noi eccessiva conformità
colla nostra lingua, quivi noi proviamo un senso [1938]di
trivialità ed ineleganza, quando anche ella sia tutto l'opposto: come
alla prima giunta ci accade nell'elegantissimo Celso, il quale ha molti modi ed
si similissimi all'indole italiana: e così spesso ci accade egli
scrittori latini antichi, o moderni massimamente (perchè questi non
hanno in favor loro la prevenzione, e la certezza che dicono bene.).
(17. Ott. 1821.). V. p.1965.
Alla p.1120. La parola vastus si
considera come aggettivo, e il suo senso proprio si crede quello di latus,
amplus ec. (v. Forcell.), e quando esso significa vastatus, questo
si piglia per una metafora derivata da questo che quae vacua sunt loca vasta
et maiora videntur (Forcell.) Io penso che vastus non sia che un
participio di un verbo perduto di cui vastare (guastare) sia il
continuativo; che il suo senso proprio fosse quello dell'italiano guasto
(ch'è la stessa parola), analogo a quello di vastatus; che la
metafora sia venuta (nel modo detto dal Forcellini) dal guasto all'ampio,
il che mi par molto più naturale che viceversa; [1939]ed osservo
che il più antico es. di vastus fra i molti portati dal Forcell.
è nel senso di vastatus, e che il nostro guasto cioè
vastus, è appunto uno de' participj di guastare,
cioè vastare. Vastus di participio dovette appoco appoco divenire
aggettivo (prima nel senso di vastatus, e poi di latus) come desertus,
anch'esso participio, passato poi in una specie d'aggettivo, di significato
simile al primitivo di vastus, con cui gli scrittori talvolta lo congiungono.
(17. Ott. 1821.)
Come il giovane non si persuade mai del vero
prima dell'esperienza, così i genitori e quelli che hanno cura della
gioventù (malgrado la prova che n'hanno in se stessi) non si persuadono
mai che l'insegnamento non possa ne' giovani supplire all'esperienza. Non si
persuadono dico se non dopo aver fatto essi pure esperienza di ciò; e
pur troppo (siccome le persone d'ingegno e di talento facilmente assuefabile e
persuadibile, son rare) non basta loro una o due o più esperienze, ma
hanno sempre bisogno di un'esperienza individuale intorno a quel tal giovane
che loro è commesso. Del resto come il giovane fa sempre eccezione di se
stesso e de' casi suoi, dalle regole e dall'ordine generale ch'egli spesso
conosce assai bene; così gli educatori fanno eccezione di [1940]ciascun
giovane dall'ordine generale, e dalla natura de' suoi coetanei.
(18. Ott. 1821.)
Quanto influisca l'opinione, la prevenzione,
la ricordanza, l'assuefazione ec. sul gusto o disgusto che producono negl'individui
i sapori, o considerati come semplici, o in composizione, è cosa
giornalmente osservabile e osservata.
(18. Ott. 1821.)
Ho detto che un color piacevole, malamente
si chiama bello, come non si ponno chiamar belli i sapori che piacciono.
Osservo ed aggiungo che la categoria del bello spetta più a' sapori che
ai colori. I sapori hanno armonia, cioè convenienza, la quale se non si
chiama bellezza, ciò non deriva che dal costume. Un sapore ch'è
buono o cattivo isolato, diviene il contrario in tale o tal composizione. I
sapori sono per lo più composti, e non piacciono nè disgustano se
non per l'armonia o disarmonia che hanno tra loro, in ciascuna composizione.
Della quale armonia o disarmonia giudica l'assuefazione, e tutte quelle
qualità [1941]umane che giudicano e sentono il bello, e ne
diversificano infinitamente il giudizio, come appunto accade nei sapori, de'
quali si suol dire più appropriatamente de gustibus non est
disputandum. Quanto ai sapori elementari, come il dolce, l'amaro ec.
gl'individui sono meno discordi nel giudicarne, perch'essi son fuori dell'armonia
la quale dipende dalla sola assuefazione. Non però in modo che anche nel
giudizio di essi non influiscano le assuefazioni e le circostanze individuali,
nazionali ec. Osservando che l'armonia o disarmonia de' sapori è
determinata nella massima parte dall'assuefazione, non ci maraviglieremo che le
cucine e i gusti delle diverse nazioni, differiscano tanto più quanto esse
nazioni sono più lontane e diverse; onde molti cibi e bevande predilette
presso una nazione, sono disgustosissime a' forestieri; e così pur
sappiamo di molti cibi o bevande presso noi detestabili, e di cui gli antichi i
più gastronomi e lussuriosi e di buon gusti erano ghiottissimi. E di ciò,
stante le dette [1942]considerazioni non ci maraviglieremo, nè
faremo difficoltà di crederlo, massime vedendo tante decise
contrarietà di gusti fra le nazioni moderne le più polite e le
più vicine, come fra i francesi e gl'inglesi. Il gusto o disgusto dei
sapori elementari, e il più o meno piacevole o dispiacevole dei
medesimi, è determinato in gran parte dalla natura, ed è esso
medesimo elementare, come quello dei colori, dei suoni, degli odori. (Intendo
per sapori e odori elementari i naturali, o le qualità specifiche del
sapore, come la dolcezza nel zucchero, benchè il zucchero non sia
sostanza semplice.) Ma nella loro armonia che è determinata il
più dall'assuefazione, variano i gusti de' luoghi, de' tempi,
degl'individui, come in tutte le altre armonie: i popoli naturali amano dei
cibi o bevande disgustosissime per noi, e viceversa ec.
Ora mentre i sapori in quanto sapori sono
suscettibili di armonia e disarmonia, e quindi di piacere e dispiacere, come i
suoni o tuoni; i colori in quanto colori non ne sono suscettibili, e
però in quanto [1943]colori non entrano nella sfera del bello.
Certo è che considerando i colori isolatamente e senza applicarli ai
diversi oggetti colorati, naturali o artefatti, (i quali sono piacevoli o
dispiacevoli per altri generi d'armonie) poco o nulla di armonia o disarmonia,
di gusto o disgusto, sente l'uomo nelle diverse combinazioni e gradazioni di
colori, quando essi non esprimono nulla. Laddove le diverse combinazioni e
disposizioni e gradazioni de' sapori e de' suoni non possono essere
senz'armonia o disarmonia, gusto o disgusto del palato o dell'udito, e questo
maggiore o minore.
La causa di questa differenza, non è
altra che la mancanza di assuefazioni determinanti e creanti l'armonia o
disarmonia de' colori puri. E la causa di questa (se non totale, quasi totale)
mancanza (che rende ridicolo il tentativo fatto di una musica a colori), non
può esser altra, secondo me, che la stessa immensità delle
assuefazioni, [1944]sensazioni, esercizi, occupazioni variatissime della
vista, applicandola sempre agli oggetti, la distrae dal considerare le loro
qualità visibili indipendentemente da essi, in modo bastante a formarsi
di esse sole assuefazioni bastanti a rendere armonica o disarmonica la loro
pura composizione. La vista è il più materiale di tutti i sensi,
e il meno atto a tutto ciò che sa di astratto. Perciò la vista e
i suoi piaceri sono le predilette sensazioni dell'uomo naturale. ec. ec. ec. V.
Costa, Dell'Elocuzione.
Per lo contrario dovremo dire dell'odorato,
il quale essendo il meno esercitato de' sensi umani, non si è creato
neppur esso veruna sufficientemente determinata armonia o disarmonia nelle sue
sensazioni cioè negli odori. Si danno odori composti, come sapori, ma
l'odorato non è quasi capace di distinguere in essi l'armonia o disarmonia
degli elementi, e quell'elemento che armonizza, e quello che disarmonizza, come
pur fa il palato ne' sapori. E questo [1945]e quello però secondo
le diverse assuefazioni e le diverse abitudini di attendere, che hanno
acquistate i diversi individui in questi due sensi. Giacchè è
noto quanto il senso dell'odorato sia suscettibile di raffinamenti, di attenzioni
ec. V. Magalotti Lettere scientifiche. Ed arrivo a dire che l'uomo è
più capace di crearsi un'armonia di odori che di colori, e che esiste
effettivamente fra gli uomini una maggior determinazione di quella che di
questa armonia. ec. ec. ec.
(18. Ott. 1821.)
Da tutto ciò si rilevi come l'armonia
cioè il bello sia pura opera e creatura dell'assuefazione tanto
che se questa non esiste non esiste neppur l'idea dell'armonia, neanche
dov'ella parrebbe più naturale.
(18. Ott. 1821.)
Alla p.1660. Siccome le pronunzie variano
secondo i climi e i popoli, così è verisimile che il latino
passato p.e. nelle Gallie, o quando lo riceverono da' Galli i Franchi,
cominciasse subito a pronunziarsi in modo simile a quello che si pronunzia il
francese, [1946]scrivendolo però nel modo che l'avevano ricevuto,
cioè come facevano i latini. Quindi la differenza tra la scrittura e la
pronunzia, e i difetti della rappresentazione de' suoni. Infatti anche oggi i
francesi gl'inglesi i tedeschi ec. leggono il latino come la loro lingua. Nel
che è tanto verisimile che si accostino alla pronunzia latina, quanto
è vero che i latini fossero inglesi ec. Laddove essi erano italiani, e
questo clima e questo popolo che fu latino, è naturale che abbia
conservata la massima parte della vera pronunzia delle scritture latine, non
avendo nessun motivo di cangiarla.
(18. Ott. 1821.). V. p.1967.
Ho detto che la lingua italiana è
suscettibile di tutti gli stili, e ho detto che la conversazione francese non
si può mantenere in italiano. Questa non è contraddizione.
L'indole della nostra lingua è capace di leggerezza, spirito, brio, rapidità
ec. come di gravità ec. è capace di esprimere tutte le nuances
della vita sociale, ec. ma non è capace, come nessuna lingua lo fu, di [1947]un'indole
forestiera. Così riguardo alle traduzioni. Ell'è capace di tutti
i più disparati stili, ma conservando la sua indole, non già
mutandola; altrimenti la nostra lingua converrebbe che mancasse d'indole
propria, il che non sarebbe pregio ma difetto sommo. L'originalità della
nostra lingua (ch'è marcatissima) non deve soffrire, applicandola a
qualsivoglia stile o materia. Questo appunto è ciò di cui ella
è capace, e non di perderla ed alterare il suo carattere per prenderne
un altro forestiero, del che non fu e non è capace nessuna lingua senza
corrompersi. E il pregio della lingua italiana consiste in ciò che la
sua indole, senza perdersi, si può adattare a ogni sorta di stili. Il
qual pregio non ha il tedesco, che ha la stessa adattabilità e forse
maggiore, non però conservando il suo proprio carattere. Or questo
è ciò che potrebbero fare tutte le lingue le più restie,
perchè rinunziando alla propria indole, e in somma corrompendosi, facilmente
possono adattarsi a questo o quello stile forestiero. [1948]L'art de traduire est
poussé plus loin en allemand que dans aucun autre dialecte européen. Voss a
transporté dans sa langue les poëtes grecs et latins avec une étonnante exactitude;
et W. Schlegel les poëtes anglais, italiens et espagnols, avec une vérité de
coloris dont il n'y avoit point d'exemple avant lui. Lorsque l'allemand se
prête à la traduction de l'anglais, il ne perd pas son caractère
naturel, puisque ces langues sont toutes deux d'origine germanique; mais
quelque mérite qu'il y ait dans la traduction d'Homère par Voss, elle
fait de l'Iliade et de l'Odyssée, des poëmes dont le style est grec, bien que
les mots soient allemands. La connoissance de l'antiquité y gagne;
l'originalité propre à l'idiome de chaque nation y perd nécessairement.
Il semble que c'est une contradiction d'accuser la langue allemande tout
à la fois de trop de flexibilité et de trop de rudesse; mais ce qui [1949]se
concilie dans les caractères peut aussi se concilier dans les langues;
et souvent dans la même personne les inconveniens de la rudesse
n'empêchent pas ceux de la flexibilité. M.me la Baronne de
Staël-Holstein, De l'Allemagne t.1. 2de part. ch.9. p.248. 3me édit.
Paris 1815.
Questo dunque non si chiama esser buona alle
traduzioni. Ciò vuol dir solo che una tal lingua può senza
incomodo e pregiudizio delle sue regole gramaticali adattarsi alle costruzioni
e all'andamento di qualsivoglia altra lingua con somma esattezza. Ma
l'esattezza non importa la fedeltà ec. ed un'altra lingua perde il suo
carattere e muore nella vostra, quando la vostra nel riceverla, perde il carattere
suo proprio, benchè non violi le sue regole gramaticali. Omero dunque
non è Omero in tedesco, come non è Omero in una traduzione latina
letterale, giacchè anche il latino così poco adattabile, pur si [1950]adatta
benissimo alle costruzioni ec. massimamente greche, senza sgrammaticature, ma
non senza perdere il suo carattere, nè senza uccidere e se stesso, e il
carattere dell'autore così tradotto. Ed ecco come si può unire in
una stessa lingua il carattere flexible e rude, o restio.
V. p.1953. fine. Laddove la lingua italiana, che in ciò chiamo unica tra
le vive, può nel tradurre, conservare il carattere di ciascun autore in
modo ch'egli sia tutto insieme forestiero e italiano. Nel che consiste la
perfezione ideale di una traduzione e dell'arte di tradurre. Ma ciò non
lo consegue con la minuta esattezza del tedesco, benchè sia capace di
molta esattezza essa pure (come si può veder nell'Iliade del Monti);
bensì coll'infinita pieghevolezza e versatilità della sua indole,
e che costituisce la sua indole. V. p.1988.
Tornando al proposito, i costumi forestieri
introducono in una nazione e nella sua lingua l'indole forestiera. Quindi
è che la lingua italiana non è adattabile, come nessun'altra, (e
la tedesca meno di ogni [1951]altra) Staël passim, alla conversazione
precisamente francese, qual è quella che i costumi francesi introducono,
bensì a tradurla, e pareggiarla. Questa facoltà però
finora non è in atto ma in potenza. Se gl'italiani avessero più
società, del che sono capacissimi, (come lo furono nel 500.) e se
conversassero non in francese ma in italiano, essi ben presto riuscirebbero a
dare alla loro lingua le parole e qualità equivalenti a quelle della
francese in questo genere, e non per tanto parlerebbero e scriverebbero in italiano:
riuscirebbero a creare un linguaggio sociale italiano tanto polito,
raffinato, pieghevole e ricco e gaio ec. quanto il francese, non però
francese, ma proprio e nazionale. E in questo si potrebbe ben tradurre allora
il linguaggio francese o scritto o parlato, che oggi non traduciamo, ma
trascriviamo, come fanno i traduttori tedeschi. Questa capacità è
dell'indole dell'italiano, e quindi inseparabile da esso, non però
può ridursi ad atto, senza le necessarie circostanze, come solo in
questi ultimi tempi la lingua o la poesia italiana, è stata, non resa
capace, ma effettivamente applicata allo splendore ec. dello stile virgiliano.
(19. Ott. 1821.)
Ho detto che i fanciulli non ancora avvezzi
ad attendere e ricordarsi, facilmente misconoscono e confondono le persone che
non [1952]hanno viste da qualche tempo ec. Similmente una notabile
mutazione di vestito ec. impedisce loro di riconoscere una persona già
nota, e ritarda anche la conoscenza delle notissime e familiari. Tutti cotali
effetti accadono pure negli animali, meno abituati dell'uomo all'attenzione, e
quindi alla ricordanza.
(19. Ott. 1821.)
Il toccar con mano che nessuno stato sociale
fu nè sarà nè può esser perfetto, cioè
perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue forze costitutive, e nella sua
ordinazione al ben essere dei popoli e degl'individui (tutti i savi lo confessano);
e che quando anche potesse esser tale da principio, (come una monarchia, una
repubblica) la stessa assoluta essenza della società porta in se i germi
della corruzione, e distrugge immancabilmente e prestissimo questa perfezione,
quest'armonia ec. ne' suoi principii costitutivi; non è ella una prova
bastante che l'uomo non è fatto per la società, o almeno per una
società stretta, e [1953]d'uomini inciviliti, e che questa
è incompatibile con la natura umana, e contraddittoria ne' suoi
principii? Una tal società da un lato abbisogna, dall'altro produce
immancabilmente la civiltà; e la civiltà distrugge la perfezione
e l'armonia di qualunque siffatta società. Essa non può trovarsi
in natura, e frattanto, come altrove ho mostrato, ella non può essere
perfetta e perfettamente ordinata al suo fine, che in natura e fra uomini
naturali.
(19. Ott. 1821.)
Tutte le sensazioni di vigore (se questo non
è eccessivo rispettivamente alla specie e all'individuo) sono piacevoli.
Consultate i medici. Dal che apparisce che il vigore essendo piacevole per se
stesso, egli è destinato precisamente dalla natura agli animali, e forma
parte essenziale del loro ben essere, e questo non può star senza quello.
(20. Ott. 1821.)
Alla p.1950. marg. Quest'adattabilità
della lingua tedesca, questa flessibilità riconosciuta per nociva, non
proviene insomma se non dal non essere quella lingua abbastanza [1954]per
anche formata e regolata. La libertà, il più bello ed util pregio
di una lingua deriva nella lingua tedesca, e proporzionatamente ancora
nell'inglese, dall'imperfezione: laddove nell'italiana, unica fra le moderne,
deriva o sta colla perfezione: unica lingua moderna ch'essendo perfetta, ed
avendo un deciso e completissimo carattere proprio, e questo per ogni parte
formato, sia liberissima. La libertà del tedesco è nociva o di
poco buon frutto, come quella che si gode nell'anarchia, o quella che tutti i
popoli godono prima che la società abbia presa fra loro una forma
pienamente regolare e stabile. La libertà dell'italiano è come
quella, assai più rara e difficile, che si gode e deriva dalle savie,
complete, mature istituzioni. Essa è stabilita nella sua indole, la
costituisce, e n'è vicendevolmente contenuta: laddove la libertà
del tedesco non fa che escludere da quella lingua un'indole propria, o renderla
incerta e indeterminata; e intanto sussiste [1955]in quanto non sussiste
in quella lingua un carattere originale perfettamente formato, definito, e
maturato. Originalità e libertà stanno insieme nell'italiano, e
sarebbero incompatibili nel tedesco. E nell'italiano e ne' savi reggimenti, la
perfetta legislazione e la libertà non solo si compatiscono, ma scambievolmente
si favoriscono. Nel tedesco la libertà sarebbe incompatibile colla
legge, e non sussiste che in virtù della non esistenza o imperfezion
della legge.
Così accade infatti. Le lingue
perfettamente formate e di carattere decisamente proprio, non sogliono esser
libere, e par che queste due qualità ripugnino. La lingua francese
infatti, sola fra le moderne (esclusa l'italiana e la spagnola) che si possa
dire perfettamente formata, ha perduto colla sua formazione la libertà
ed è divenuta inflessibile, e inadattabile a tutto ciò che non
l'è assolutamente proprio. La lingua inglese ha conservata la sua
libertà [1956]col sacrifizio di una originalità decisa.
Essa si modellò prima sulla francese, e divenne quasi francese. Oggi
talora è francese, talora non si sa che, ma perfettamente inglese mai, e
gli stessi scrittori inglesi riconoscono il danno della loro libertà di
lingua, e com'essa non sussiste che per mancanza o insufficienza di
legislazione, e quindi di deciso carattere e gusto, e genio proprio, e sapor
nazionale ec. Così accade nel tedesco. La lingua italiana è
l'unica fra l'europee, dopo la greca, che abbia conservata la sua
libertà nella sua indole, dopo essersi perfettamente formata questa indole,
e perfettamente propria; e deve questo vantaggio all'antichità della sua
formazione.
Che la lingua tedesca sia oggi liberissima
non deve dunque far maraviglia. Tutte le lingue son tali ne' loro principii. La
lingua latina che fu poi sottomessa ad una severissima legislazione, e divenne
la meno libera fra le antiche, e per antica, [1957]fu liberissima
da principio, come si può vedere nelle scritture o frammenti de' suoi
primitivi autori. In que' tempi essa sarebbe stata così adattabile alle
traduzioni com'è oggi la tedesca; laddove in seguito, cioè
quand'ella fu perfetta, ne divenne incapacissima, cioè capace di
trasportar le parole, ma non lo spirito e la vita delle scritture forestiere,
tal qual ella era.
Volendo dunque dirittamente discorrere,
paragoneremo fra loro i diversi gradi di libertà che godono o godettero
le lingue perfette; non ammireremo la libertà infinita delle
imperfette, che son libere com'è libera la nazione degli Otaiti, o degli
Ottentotti.
(20. Ott. 1821.)
La natura è infinitamente e
diversissimamente conformabile tutta quanta. Essa ha però disposto le
cose in modo che quegli agenti e quelle forze animali o no, che la debbono
conformare, la conformino in quella tal maniera ch'essa intendeva, [1958]e
che risponde al suo sistema, al suo disegno, al suo primo piano, all'ordine da
lei voluto. Se dunque l'uomo facendo evidentissimamente violenza alla natura, e
vincendo infiniti ostacoli naturali, è giunto a conformare e se stesso,
e quella parte di natura che da lui dipendeva naturalmente, e quella molto maggiore
che n'è venuta a dipendere in sola virtù della di lui
alterazione; è giunto dico a conformar tutto ciò in modo
diversissimo da quel piano, da quell'ordine, che col savio ragionamento si
sopre destinato, inteso, avuto in mira, voluto, disposto dalla natura; questa
non può essere una prova nè contro la natura, nè che la natura
non abbia voluto effettivamente quel tal ordine primitivo; nè che la perfezion
delle cose, quanto all'uomo, non si sia perduta; nè che l'andamento
della nostra specie, e di quanto ne dipende o le appartiene, sia naturale;
nè che la natura non avesse effettivamente [1959]di mira, non
avesse concepito, e con tutte le forze proccurato un ordine di cose quanto
semplice ne' suoi principii costitutivi, ne' suoi elementi, nelle sue forze produttrici,
nelle sue qualità analizzate e decomposte; tanto certo, determinato,
costante, e al tempo stesso armonico, fecondo e variatissimo ne' suoi effetti,
suscettibile d'infinite modificazioni, e soggetto anche a molte accidentali
disarmonie, sebben forse non per altro che per maggiore armonia.
(20. Ott. 1821.)
A noi soli incombe il toglier via dal
sistema della natura quegl'inconvenienti accidentali che derivano dalla nostra
propria accidentale corruzione, cioè opposizione colle altre parti del
detto sistema, e coll'ordine voluto dalla natura riguardo a noi.
(20. Ott. 1821.)
Quest'ordine in tutte le parti del sistema
della natura qual altro può essere che il primitivo? cioè quel
solo ch'effettivamente si trova esistere in natura, e prima [1960]dell'influenza
delle altre volontà, e degli altri agenti pensanti.
(20. Ott. 1821.)
Non crediamo già che le bestie non
sieno capaci anch'esse di corruzione. Non tanto quanto l'uomo perchè
meno conformabili; non tanto generale, perchè essendo meno conformabili
sono meno sociali; non tanto estensibile agli oggetti estranei alla loro
specie, perchè quella stessa natura che le fa tanto meno conformabili
dell'uomo, dà loro tanto minore influenza sulle cose, influenza il cui
sommo grado deriva nell'uomo dalla di lui somma conformabilità che nel
sistema della natura, tutta conformabile, costituisce la superiorità dell'uomo
fra tutti gli esseri. Ma pur sono capacissime di corruzione individuale, ed
estensibile anche fino a un certo segno alle loro particolari società.
Sono capacissimi di misfatti, e quella bestia, che per pigrizia o altro uccide
il proprio figlio, pecca contro natura e contro coscienza. Noi conosciamo poco
la natura degli animali, e crediamo che tutti [1961]e in tutto
ciò che fanno ec. ec. sieno precisamente conformi alle leggi e
all'ordine della loro natura. Ma così pur giudicheranno essi dell'uomo,
e quella specie di quell'altra ec.
(20. Ott. 1821.)
Da ciò che una qualità
essenziale della natura, è la somma conformabilità, e
modificabilità delle sue qualità costituenti e primitive, e de'
suoi principii elementari, e del suo intero composto, risulta quanto poche
verità, anche dentro questo tal sistema, e dopo di esso, possano
essere assolute.
(20. Ott. 1821.)
Intorno al differentissimo ritmo ec. della
poesia delle diverse nazioni, v. quello della poesia Scalda nell'Andrès,
Storia ec. Par.2. l.1. dove parla del Gusto della poesia degli Scaldi,
t.4. p.147. segg.
(20. Ott. 1821.)
Alla p.1856. Quell'anima che non è
aperta se non al vero puro, è capace di poche verità, poco
può scoprir di vero, poche verità può conoscere e sentire
nel loro vero aspetto, [1962]pochi veri e grandi rapporti delle
medesime, poco bene può applicare i risultati delle sue osservazioni e
ragionamenti. Lo dimostra anche l'esperienza usuale, nelle stesse nostre parti
meridionali e immaginose, e gl'immensi spropositi o di opinione o di condotta
ec. che tutto giorno si leggono o ascoltano o vedono, ne' freddi ragionatori,
inaccessibili ad ogni illusione. Cercando il puro vero, non si trova. La
ricerca delle verità, massime delle più grandi, e sopra tutto di
quelle che spettano alla scienza dell'uomo ha bisogno della mescolanza, ed equilibrato
temperamento di qualità contrarissime, immaginazione, sentimento, e ragione,
calore e freddezza, vita e morte, carattere vivo e morto, gagliardo e languido
ec. ec.
(21. Ott.
1821.)
Un des
grands avantages des dialectes germaniques en poésie, c'est la variété
et la beauté de leurs épithètes. L'allemand sous ce rapport aussi, peut
se comparer au grec; l'on sent dans un seul [1963]mot
plusieurs images, comme, dans la note fondamentale d'un accord, on entend
les autres sons dont il est composé, ou comme de certains couleurs réveillent
en nous la sensation de celles qui en dépendent. L'on ne dit en français que
ce qu'on veut dire, et l'on ne voit point errer autour des paroles ces
nuages à mille formes, qui entourent la poésie des langues du nord, et
réveillent une foule de souvenirs. A la liberté de former une seule
épithète de deux ou trois, se joint celle d'animer le langage en
faisant avec les verbes des noms: (proprietà egualmente del greco,
dell'italiano, e dello spagnuolo) le vivre, le vouloir, le sentir, sont des
expressions moins abstraites que la vie, la volonté, le sentiment; et tout ce
qui tend à changer la pensée en action donne toujour plus de mouvement
au style. La facilité de renverser à son gré la construction [1964]de
la phrase (ho detto altrove che come le parole, così le frasi e costruzioni
ec. possono esser termini, e che quella lingua che più abbonda di
termini, in pregiudizio delle parole, suole per analogia esser matematica
nella frase ec., e che la francese è tutta un gran termine) est
aussi très favorable à la poésie, et permet d'exciter, par les
moyens variés de la versification, des impressions analogues à celles
de la peinture et de la musique (impressioni vaghe.) Enfin l'esprit général
des dialectes teutoniques, c'est l'indépendance: les écrivains cherchent avant
tout à transmettre ce qu'il sentent; ils diroient volontiers
à la poésie comme Héloïse à son amant: S'il y a un mot
plus vrai, plus tendre, plus profond encore pour exprimer ce que j'eprouve,
c'est celui-là que je veux choisir. Le souvenir des convenances de
société poursuit en France le talent [1965]jusque dans ses émotions les
plus intimes; et la crainte du ridicule est l'épée de Damoclès,
qu'aucune fête de l'imagination ne peut faire oublier. De l'Allemagne,
tome 1. 2de part. ch.9. vers la fin.
(21. Ott. 1821.)
E qui sopra ed altrove assai spesso la Staël
nomina i dialetti tedeschi in luogo della lingua tedesca. L'idioma degl'irlandesi
diverso in molte qualità essenziali da quello d'Inghilterra ec. è
nominato da Lady Morgan, France t.2. liv.5. ou 6. article Langage.
(21. Ott. 1821.)
Alla p.1938. En apprenant la prosodie d'une langue, on entre plus intimément dans
l'esprit de la nation qui la parle que par quelque gente d'étude que ce puisse
être. De là vient qu'il est amusant de prononcer des mots
étrangers: on s'écoute comme si c'étoit un autre qui parlât: mais il [1966]n'y
a rien de si délicat, de si difficile à saisir que l'accent: on apprend
mille fois plus aisément les airs de musique le plus compliqués, que la
prononciation d'une seule syllabe. Une longue suite d'années, ou les
premières impressions de l'enfance, peuvent seules rendre capable
d'imiter cette prononciation, qui appartient à ce qu'il y a de plus
subtil et de plus indéfinissable dans l'imagination et dans le caractère
national. (Vedete qui 1. la gran varietà di tutto
ciò ch'è opera ed effetto della natura, e non ha che far colla
ragione,
Il detto amusement ha un gruppo di
cagioni, tutte insieme e concordemente efficienti, benchè diversissime e
anche contrarie. Quanti effetti, quanti piaceri ec. derivano
individualmente e in un medesimo caso e punto da cagioni contrarie! E non
sarebbero quali sono in mancanza di una di tali cagioni, o della loro contrarietà!
(21. Ott. 1821.)
Alla p.1946. I francesi ignoranti, o poco
avvezzi a scrivere, o fanciulli, o principianti, gli stampatori ec. cadono
frequentemente in errore scrivendo o stampando come pronunziano, cioè in
luogo della lettera o sillaba che la loro ortografia prescrive, ponendo quella
che nell'alfabeto francese risponde alla pronunzia di quella medesima lettera o
sillaba, p.e. in luogo di en scrivendo o stampando an, in luogo
di au, o ec. e parimente lasciando quelle lettere o sillabe che
benchè secondo la loro ortografia si debbano scrivere, non si
pronunziano, o viceversa ec. Ciò, che [1968]non accade certo agl'italiani
se non quando pronunziano male ec., che altro dimostra se non l'imperfezione
della scrittura francese ec., e ch'essa scrittura non corrispondendo al loro
alfabeto, non corrisponde effettivamente alla pronunzia, e non è naturale?
ec.
Del resto quando i francesi gl'inglesi ec.
pronunziando il latino come la loro lingua, lo pronunziano in modo diverso da
quello in cui pronunziano gli stessi segni nell'alfabeto latino, come vorranno
persuaderci che la loro pronunzia latina, possa esser tanto vera o verisimile
quanto la nostra? Chi vorrà credere che la scrittura latina avesse questo
immenso difetto di corrispondenza colla pronunzia, ch'è solamente
proprio delle dette lingue moderne, per le circostanze che altrove ho
accennate, e che è naturalmente ignoto ad ogni scrittura ben ordinata?
Quanto alla vera ed antica pronunzia dei
segni isolati nell'alfabeto latino ce n'istruiscono espressamente qua e
là gli scrittori latini, e ci dimostrano ch'essa non era certo inglese
nè tedesca ec. Gli stessi dittonghi [1969]latini, la cui pronunzia
non risponde oggi al valor di quei segni nell'alfabeto latino, si pronunziavano
anticamente com'erano scritti, cioè ae si pronunziava, come
insegna la santacroce, a ed e non e, e non come au o ai
si pronunziano in francese o ed e, in luogo che il loro alfabeto
vorrebbe a ed u, a ed i.
(22. Ott. 1821.)
La lingua ebraica non è solamente
povera riguardo a noi, per la scarsezza di scritture che abbiamo in quella
lingua, ma è povera quanto a se stessa, povera nelle stesse scritture
che abbiamo, e in proporzione della stessa loro scarsezza, nella qual proporzione
potrebb'essere assai più ricca, anzi potrebb'essere in quella
proporzione tanto ricca quanto le più ricche del mondo. Male pertanto si
riferisce la sua povertà alla detta cagione, facendone una
povertà relativa a noi soli. Le vere cagioni le dico altrove.
Bensì è vero che l'essere stata poco scritta ne' suoi buoni
tempi, n'è la principale, ma non relativa, cagione.
(22. Ott. 1821.)
[1970]La minuziosità della
punteggiatura usata da' francesi, corrisponde, ed è analoga, conseguente
e conveniente all'indole delle loro parole, costruzioni ec. e di tutta la loro
lingua, e scrittura.
(22. Ott. 1821.)
Gli spiriti mediocri sono sempre facilmente
persuadibili a credere o a fare, e in qualunque modo riducibili all'uomo di
talento, o al furbo, o a chi per qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su
di loro un certo ascendente. L'ostinazione è propria degli spiriti
piccoli e dei grandi, o degli spiriti più o meno inferiori o superiori
alla mediocrità, ma di quelli più che di questi. Lo stesso dico
in ordine alla suscettibilità di esser consolati. Se non che gli spiriti
grandi ne sono meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch'essi
ben intendono, non è mai consolante, e perchè il consolatore non
li può facilmente ingannare, ch'è l'unico modo di consolare.
(22. Ott. 1821.)
In tutte le congiugazioni, anzi in tutti i
verbi di tutte tre le lingue figlie della latina, la caratteristica
inseparabile dal futuro indicativo si è la r. Al contrario nelle
congiugazioni latine che noi conosciamo, nel cui futuro indicativo la r
non è mai caratteristica, e non entra [1971]mai nella desinenza.
Or questa qualità delle dette tre lingue, non può attribuirsi
alla corruzione particolare che ricevette la lingua latina in Francia, Spagna,
Italia, indipendentemente l'una dall'altra; ma essendo comune, e costantissima
in tutte tre, manifesta chiaramente un'origine comune. Or questa non essendo la
lingua latina scritta, non può essere altro che l'antica volgare ugualmente
diffusa e comunicata alle tre nazioni. Mi par dunque evidente che nel latino
volgare la caratteristica di tutti i futuri indicativi fosse la r.
Questa proprietà del volgare latino, mi par che s'abbia da tenere per
dimostrata. Credo verisimile che esso volgare in luogo del futuro indicativo,
usasse il futuro congiuntivo, la cui caratteristica è sempre la r
nel latino che noi conosciamo. Così p.e. il futuro congiuntivo legero,
corrisponde appuntino all'italiano leggerò, e ne viene ad esser
la fonte. [1972]Ed infatti osservo che sebbene regolarmente la r
sia del tutto esclusa dalla desinenza del futuro indicativo nel latino scritto,
nondimeno ella è caratteristica come presso noi in parecchi verbi latini
anomali o difettivi ec. il cui futuro indicativo ha appunto la desinenza, che
ha il futuro soggiuntivo negli altri verbi. Per esempio, ero, potero ec.
ec. odero, meminero ec. odierò, potrò ec. Ora i
verbi (o nomi) anomali o difettivi ec. sogliono essere i più antichi in
ciascuna lingua, e certo indizio dell'antico costume, e delle proprietà
di essa, siccome d'altronde il volgare di ciascuna lingua è il maggior
conservatore delle sue antiche proprietà.
Intendo sempre parlare delle congiugazioni
attive, non delle passive che le nostre lingue non hanno. Sicchè se la r
è caratteristica del passivo futuro indicativo latino, ciò non fa
punto al caso nostro, oltre ch'ella occupa quivi un altro luogo, cioè
chiude la desinenza della prima persona, laddove ne' nostri futuri precede [1973]l'ultima
vocale nella stessa persona.
(22. Ott. 1821.)
Io credo possibile il tradurre le opere
moderne o filosofiche o di qualunque argomento, in buon greco (massime le italiane
o spagnuole o simili), come son certo che non si potrebbero mai tradurre in
buon latino. Se le circostanze avessero portato che la lingua greca avesse nei
nostri paesi prevaluto alla latina, e che quella in luogo di questa avesse
servito ai dotti nel risorgimento degli studi, l'uso di una lingua morta,
avrebbe forse potuto durare più lungo tempo, o almeno esser più
felice (nè solo negli studi, ma in tutti gli altri usi in cui
s'adoprò la lingua latina fino alla sufficiente formazione delle moderne
europee); i nostri eleganti scrittori latini del 500. ec. avrebbero potuto
esser quasi moderni, se avessero scritto in greco, laddove scrivendo in latino
si assicurarono di non poter esser lodati se non dagli antichi, e di servire ai
passati [1974]in luogo de' posteri, e di potersi piuttosto ricordare che
sperare; e se la lingua che oggi si studia tuttavia da' fanciulli, e quella che
molti, massime in Italia, si ostinano a voler ancora adoperare in questa o
quella occasione, fosse piuttosto la greca che la latina, essa servirebbe molto
più alla vita moderna, faciliterebbe molto più il pensiero, e
l'immaginazione ec. e sarebbe alquanto più possibile il farne un
qualche uso pratico ec.
(23. Ott. 1821.). V. p.2007.
Se mancassero altre prove che il vero
è tutto infelice, non basterebbe il vedere che gli uomini sensibili, di
carattere e d'immaginazione profonda, incapaci di pigliar le cose per la
superficie, ed avvezzi a ruminare sopra ogni accidente della vita loro, sono
irresistibilmente e sempre strascinati verso la infelicità? Onde ad un
giovane sensibile, per quanto le sue circostanze paiano prospere, si può
senz'altro dubbio predire che sarà [1975]presto o tardi infelice,
o indovinare ch'egli è tale.
(23. Ott. 1821.)
Un uomo di forte e viva immaginazione,
avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero
vigore corporale, di entusiasmo, di disperazione, di vivissimo dolore o
passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubbriachezza, e furore,
ec. scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda
e geometrica ragione per iscoprire; e che annunziate da lui non sono ascoltate,
ma considerate come sogni, perchè lo spirito umano manca tuttavia delle
condizioni necessarie per sentirle, e comprenderle come verità, e
perch'esso non può universalmente fare in un punto tutta la strada che
ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua marcia, e il suo
progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello stato vede tali
rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente, ne
comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento [1976]tanti
sillogismi, e così ben legati e ordinati, e così chiaramente
concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse esso
stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea
concepite e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con
egual chiarezza, i rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro
concatenazioni che l'avevano portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine
è sempre in istato di freddo, e le verità scoperte nel calore,
per grandi che siano non mettono radici nella mente umana, finchè non
sono sanzionate dal placido progresso della fredda ragione, arrivata che sia
dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità scoprivano certamente gli
antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti facevano nel cammino della
ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti mezzi che abbisognano al
puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi altrettanto, grandi spazi occupati
poi da' loro posteri, preoccupavano essi e [1977]conquistavano in un
baleno, ma questi progressi restavano necessariamente individuali,
perchè molto tempo abbisognava a renderli generali; queste conquiste non
si conservavano, anzi erano piuttosto viaggi che conquiste, perchè
l'individuo penetrava solamente in quei nuovi paesi, e li riconosceva, senza
esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse il suo dominio; i progressi
de' grandi individui non giovavano gli uni agli altri, perchè mancanti
di una disposizione generale e comune nel mondo, che li rendesse intelligibili
gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a stabilire, dar corpo, determinare
e render a tutti egualmente chiaro quello che ciascun individuo scopriva.
Così che gli antichi grandi spiriti penetravano nelle terre della
verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro, e quando
anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo [1978]punto,
e quivi casualmente si riunissero, non si riconoscevano; e tornati dalla loro
corsa, e narrandola altrui, non s'accorgevano di dir le stesse cose, nè
il pubblico se n'avvedeva, perchè non le dicevano allo stesso modo,
mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre che le stesse ragioni che
impedivano all'universale di riconoscere quelle proposizioni per pienamente
vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità che esisteva
tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo. E
così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non
producevano frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e
di aiutare e legare una verità coll'altra mediante il commercio de'
pensieri, e della società pensante.
(23. Ott. 1821.)
Il suicidio è contro natura. Ma
viviamo noi secondo natura? Non l'abbiamo al tutto abbandonata per seguir la
ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè diversissimi dai naturali?
La ragione non ci mostra ad [1979]evidenza l'utilità di morire?
Desidereremmo noi di ucciderci, se non conoscessimo altro movente, altro maestro
della vita che la natura, e se fossimo ancora, come già fummo, nello
stato naturale? Perchè dunque dovendo vivere contro natura, non possiamo
morire contro natura? perchè se quello è ragionevole, questo non
lo è? perchè se la ragione ci ha da esser maestra della vita,
l'ha da determinare, regolare, predominare, non l'ha da essere, non può
far altrettanto della morte? Misuriamo noi il bene o il male delle nostre azioni
dalla natura? no ma dalla ragione. Perchè tutte le altre dalla ragione,
e questa dalla natura?
Non c'è che dire. La presente
condizione dell'uomo obbligandolo a vivere e pensare ed operare secondo
ragione, e vietandogli di uccidersi, è contraddittoria. O il suicidio
non è contro la morale sebben contro natura, o la nostra vita, essendo
contro natura, è contro la morale. Questo no, dunque neppur quello.
[1980]Accade del suicidio come
della medicina. Essa non è naturale. Il tirar sangue, tanti farmachi velenosi,
tante operazioni dolorose ec. sono ignote a' popoli naturali, e sono contro
natura. Ma lo stato fisico dell'uomo essendo oggi e sempre più divenendo
lontanissimo dal naturale, è conveniente e necessaria un'arte e dei
mezzi non naturali per rimediare agl'incomodi di un tale stato. (V. Celso
sull'orig. della medicina).
Ovvero: il tirar sangue è contro
natura. Ma l'inconveniente che lo esige essendo un accidente di cui l'ordine
naturale non è colpevole nè responsabile, il rimedio è conveniente
ancorchè non naturale, ma è conveniente per accidente.
Or nello stesso modo, questo grande
accidente che contro l'ordine naturale, ha mutato la condizione dell'uomo;
quell'accidente, di cui la natura non è colpevole, o che non potea esser
preveduto nè provveduto, ma che contro l'ordine naturale, ci fa
desiderar la morte, rende conveniente il suicidio per contrario [1981]che
sia alla natura.
Non v'è dunque che la religione che
possa condannare il suicidio. L'esser contrario alla natura, nel presente stato
dell'uomo, non è prova nessuna ch'egli non sia lecito.
Che bello e felice stato dev'esser dunque
quello, il quale quanto a se rende lecita, e domanda la cosa la più
contraria all'essenza di qualunque cosa, la più contraddittoria
coll'esistenza e co' suoi principii, quella che ridotta ad atto distruggerebbe
tutto ciò che vive, e sovvertirebbe l'ordine di tutto ciò che ne
dipende o vi ha relazione!
Da tutto ciò si vede che il progresso
della ragione tende essenzialmente, non solo a rendere infelice, ma a
distruggere la specie umana, i viventi, o esseri capaci di pensiero, e l'ordine
naturale. Non v'è che la Religione (assai più favorita e provata
dalla natura che dalla ragione) la quale puntelli il misero e crollante
edifizio della presente vita umana, ed entri di mezzo [1982]per metter
d'accordo alla meglio questi due incompatibili ed irreconciliabili elementi dell'umano
sistema, ragione e natura, esistenza e nullità, vita e morte.
(23. Ott. 1821.)
Grazia dallo straordinario. Il color bruno,
o tendente al brunetto, è grazioso, e piccante, quasi contrastando e
rilevando il pregio delle fattezze. Ma se il contrasto è eccessivo, e se
il bruno è nero, o se il colorito è insomma troppo diverso da
quello che dovrebbe, esso non è mai grazia, ma bruttezza. L'eccesso
però, siccome il non eccesso è diversamente giudicato dai diversi
gusti, assuefazioni, circostanze parziali e individuali ec.
(24. Ott. 1821.)
Quello che ho detto altrove degli effetti
della luce, del suono, e d'altre tali sensazioni circa l'idea dell'infinito, si
deve intendere non solo di tali sensazioni nel naturale, ma nelle loro
imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica, dalla poesia, [1983]ec.
Il bello delle quali arti, in grandissima parte, e più di quello che si
crede o si osserva, consiste nella scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite
da imitare.
E questo è un bello che non entra
punto nella teoria di quel bello o brutto che nasce dalla convenienza o
sconvenienza, e ch'io nego essere assoluto; sebbene neppur questo è
assoluto, ma parte dipendente dalla natura dell'uomo in quanto ella è
tale, e per le ragioni dette nella teoria del piacere; parte soggetto anch'esso
all'assuefazione, alle circostanze ec.
(24. Ott. 1821.)
A quanto ho detto del nostro guai
venuto dal lat. vae, aggiungi che in parecchi luoghi d'Italia si suol
dire ghel o ghelo per ve lo (ghel dissi, ghelo dico),
o gh' per v' (gh'ho messo, per v'ho messo,
cioè ho messo quivi) ec. Così mi par che usino
massimamente i Veneziani.
[1984]Alla p.1937. Non rideremmo
noi di un povero scolare di gramatica che nel suo latinuccio si lasciasse
fuggir dalla penna non volo per nolo? E pur questo nolo
è una pretta corruzione e storpiatura di non volo, fatta non da
altri che dal popolaccio che suol troncare le parole, e conglutinarne a dritto
e rovescio i pezzi ec. Viceversa io sento tuttogiorno dire dalla nostra plebe noglio
o n'oglio per non voglio: e chi s'ardirebbe di scrivere in
italiano noglio per non voglio, e di introdurre il verbo nolere
nella nostra lingua? Sicchè il buono e il cattivo, il puro e l'impuro di
una lingua non è altro che ciò ch'è usato o non usato, e
che ha fatto o non ha fatto fortuna presso i buoni scrittori, e nel tempo della
sua formazione. Ma quanto al degenerare, tutte le parole, tutti i modi, tutte
le lingue che noi conosciamo, non sono altro che un ammasso di degenerazioni e
corruzioni. [1985]
(24. Ott. 1821.)
La lingua francese è propriamente,
sotto ogni rapporto, per ogni verso, la lingua della mediocrità. Ella
non è nè sarà mai la lingua della grandezza in nessun genere,
nè della originalità. (Qual è la lingua tali sono sempre i
sentimenti, e gli scrittori.) E non per altra cagione, ella è oggi
universale; non per altra si adatta all'intelligenza, ed all'uso pratico de' forestieri
d'ogni genere; non per altra si adatta così bene all'uso de' meno colti
nazionali, ed è ben parlata e scritta da quasi tutti i francesi; non per
altra l'andamento, il tour di essa lingua è preferito dalla gente
comune, in tutte le lingue d'Europa, a quello della propria lingua; non per
altra una donna, un cavaliere italiano mezzanamente colto, che s'imbarazza e
cade in dieci spropositi, non dico contro la purità, ma contro la
gramatica, se nello scrivere o nel parlare s'impegna in un periodo
all'italiana, riesce facilmente e scampa da ogni pericolo, usando il periodo
francese ec. ec. Vero [1986]periodo, andamento, genio, indole, spirito
della mediocrità. Ed a che altra categoria che alla mediocrità
poteva appartenere la lingua della ragione e della società? Nè la
lingua francese sarebbe divenuta universale e sarebbe stata così
celebrata ed esaltata sopra tutte, se non nel secolo della mediocrità
cioè della ragione, qual è il nostro; nè un tal secolo
potrebbe preferire alcuna lingua alla francese, o alcun genio ed indole di
favella a quello della francese, anche nelle proprie rispettive lingue.
Non accade qui passar dalla lingua alla
nazione (come suole pur fare il filosofo), e dire che quella che parla la
lingua della mediocrità, non può esser la nazione dell'originalità
nè della grandezza. Ma già quale originalità qual grandezza
può derivare dal colmo, dall'eccesso, dall'assoluto predominio della
società? [1987]
(24. Ott. 1821.)
Per la copia e la vivezza ec. delle
rimembranze sono piacevolissime e poeticissime tutte le imagini che tengono del
fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie,
pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli
antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che
quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza,
anche le ricordanze d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano
dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella
vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia
passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l'accresca, come nella morte
de' nostri [1988]cari, il ricordarsi del passato ec.
(25. Ott. 1821.)
Qualunque stile moderno ha proprietà,
forza, semplicità, nobiltà, ha sempre sapore di antico, e non par
moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace.
Viceversa qualunque stile antico ha ec., tiene del moderno. Che vuol dir
questo? Qual è dunque la natura de' moderni? quale degli antichi?
(25. Ott. 1821.)
Alla p.1950. La piena e perfetta imitazione
è ciò che costituisce l'essenza della perfetta traduzione, come
altrove ho detto. Or questo è ciò che sa fare la nostra lingua, e
che non può la tedesca, essendo altro il contraffare, altro l'imitare.
(25. Ott. 1821.).
L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua
mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non
distrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo
prova nel non far nulla. L'assuefazione [1989]intanto può
influire sull'inazione, in quanto può trasportare l'azione dall'esterno
all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non operare
al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di operare al di dentro, di farsi
compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare, di trattenersi insomma
vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i fanciulli, come si avvezzano
a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo
nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o estingue o
sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una
totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni
momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni di
assuefazione, quanto la prima volta. La nullità, il non fare, il non
vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e [1990]alla
quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero che l'uomo, il vivente, e tutto
ciò che esiste, è nato per fare, e per fare tanto vivamente,
quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per l'azione
esterna ch'è assai più viva dell'interna. Tanto più che
l'interna nuoce al fisico quanto ell'è maggiore e più assidua, e
l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna dell'immaginazione, essa sprona
e domanda impazientemente l'esterna, e riduce l'uomo a stato violento, se
questa gli è impedita. E quella infatti agognano i giovani, i primitivi,
gli antichi, e non si può loro impedire senza metter la loro natura in
istato violento. Ciò non per altro se non perchè l'uomo e il
vivente tende sempre naturalmente alla vita, e a quel più di vita che
gli conviene.
(26. Ott. 1821.)
Ho detto che la grazia ec. deriva dai
contrasti, e perciò spesso l'uomo, e l'amore inclina al suo contrario.
Osserviamo infatti che alla donna debole per natura, piace la fortezza
dell'uomo, e all'uomo viceversa. Il che sebbene deriva immediatamente dalla
naturale inclinazione d'ambo i sessi, contuttociò viene in parte dalla [1991]forza
del contrasto, giacchè si vede che ad una donna straordinariamente forte
piace talvolta un uomo piuttosto debole più che a qualunque altra, e forse
più che qualunque altro; e viceversa all'uomo debole una donna forte.
ec. Così dico della delicatezza opposta alla nervosità, e delle
altre rispettivamente contrarie qualità de' due sessi. In tutto questo
però influisce l'abitudine de' diversi individui.
(26. Ott. 1821.)
Colui che imita la maniera di parlare, di
gestire, ec. ec. usata da una persona ignota a colei a cui egli l'imita e la
descrive, quando anche l'imitazione sia vivissima, ingegnosissima ec. non
produce quasi nessun effetto nè piacere; laddove un'imitazione assai men
viva della stessa cosa, fatta a chi ne conosca bene il soggetto,
riuscirà piacevolissima. Questo serva di regola ai poeti, ai pittori, ai
comici, ec. ec. che esauriscono [1992]la loro vena imitativa (sia pur felicissima)
nell'imitar cose ignote o poco note o niente familiari a' lettori agli
spettatori, o al più de' medesimi.
(26. Ott. 1821.)
Alla p.1108. principio. Da quietus di
quiescere abbiamo quietare e quietari non nell'uso degli
antichi, ma nella testimonianza di Prisciano, il quale (l.8. p.799. Putsch.)
gli annovera tra quei verbi che suonano lo stesso nella voce attiva e nella
passiva. Ne fa pur testimonianza il Quietator di due medaglie di
Diocleziano, il qual nome non può venire che da quietatus part.
pass. come tutti gli altri dello stesso genere. Or questi verbi il Forcellini
gli spiega quietum facere pacare tranquillare. E veramente questa
è la significanza del nostro quietare, quetare, chetare, acquetare,
acquietare, acchetare. Nondimeno lo spagnuolo quedar che è
tutt'uno con quietare, come quedo [1993]aggettivo non
è se non quietus, e che da quietarsi, posarsi, fermarsi,
passò finalmente a significare, come oggi significa, restare,
dimostra che il latino quietare o quietari fu, se non presso gli
scrittori, certo presso il volgo, un puro e manifesto continuativo di quiescere,
non solo nella forma, ma anche nella significazione. Gli spagnuoli hanno anche quietar
nel nostro significato di quietare. Verbo certamente non antico
nè primitivo nella loro lingua (bensì sossegar), ma dagli
scrittori introdotto poi, prendendolo dall'italiano o dal latino. Infatti
contro il costume spagnuolo, esso ha il dittongo ie nell'infinito ec. il
che lo dimostra per forestiero. Col dittongo l'ho trovato non solo nel
Vocabolario ma ne' buoni scrittori. V. il Glossar.
(26. Ott. 1821.)
Dell'antico volgare latino v. Perticari, de'
trecentisti ec. l.1. c.5. p.22. segg. c.6.7.8.
(26. Ott. 1821.)
La lingua francese ricevette una certa
forma, e venne in onore prima dell'italiana, e forse anche della spagnuola,
mercè de' poeti provenzali che la scrivevano ec. Onde sulla fine stessa
del ducento, e principio di quel trecento che innalzò la lingua italiana
su tutte le vive d'allora, si stimava in Italia la parlatura francesca
esser la più dilettevole comuna di tutti gli altri linguaggi
parlati; [1994]si scriveva in quella piuttosto che nella nostra
stimandola più bella e migliore ec. v. Perticari, del 300.
p.14-15. Ma la buona fortuna dell'Italia volle che nel 300, cioè prima
assai che in nessun'altra nazione, sorgessero in essa tre grandi scrittori,
giudicati grandi anche poscia, indipendentemente dall'età in cui
vissero, i quali applicarono la nostra lingua alla letteratura, togliendola
dalle bocche della plebe, le diedero stabilità, regole, andamento,
indole, tutte le modificazioni necessarie per farne una lingua non del tutto
formata, ch'era impossibile a tre soli, ma pur tale che già bastasse ad
esser grande scrittore adoperandola; la modellarono sulla già esistente
letteratura latina ec. Questa circostanza, indipendente affatto dalla natura
della lingua italiana, ha fatto e dovuto far sì che l'epoca di essa lingua
si pigli necessariamente [1995]d'allora in poi, cioè da quando
ell'ebbe tre sommi scrittori, che l'applicarono decisamente alla letteratura,
all'altissima poesia, alle grandi e nobili cose, alla filosofia, alla teologia
(ch'era allora il non plus ultra, e perciò Dante col suo magnanimo
ardire, pigliando quella linguaccia greggia ed informe dalle bocche plebee, e
volendo innalzarla fin dove si può mai giungere, si compiacque, anche in
onta della convenienza e buon gusto poetico, di applicarla a ciò che
allora si stimava la più sublime materia, cioè la teologia).
Questa circostanza ha fatto che la lingua italiana contando oggi, a differenza
di tutte le altre, cinque interi secoli di letteratura, sia la
più ricca di tutte; questa che la sua formazione e la sua indole sia decisamente
antica, cioè bellissima e liberissima, con gli altri infiniti vantaggi
delle lingue antiche (giacchè i cinquecentisti che poi decisamente la
formarono, oltre [1996]che sono antichi essi stessi, e che si
modellarono sugli antichi classici latini e greci seguirono ed in ciò, e
in ogni altra cosa il disegno e le parti di quella tal forma che la nostra
lingua ricevette nel 300. e ch'essi solamente perfezionarono, compirono, e per
ogni parte regolarono, uniformarono, ed armonizzarono); questa circostanza ha
fatto che la nostra lingua non abbia mai rinunziato alle parole, modi, forme
antiche, ed all'autorità degli antichi dal
E per questa parte non è pedantesco
il rigettare in lingua italiana l'autorità degli scrittori moderni, o
farne poco caso, perchè l'Italia non ha letteratura propria moderna,
nè filosofia moderna. (Laddove nelle scienze dov'ella è moderna come
le altre nazioni è veramente pedantesco il rigettare l'autorità
moderna anche in punto di lingua.) Se l'avesse, come le altre nazioni, tanto
varrebbe l'autorità moderna quanto l'antica. Ma gli scrittori italiani
moderni, o non [1998]hanno curato punto la lingua, nè hanno
servito ad una letteratura nazionale, ma forestiera, e quindi non sono
propriamente italiani come scrittori; o curando la lingua, non hanno servito ad
una letteratura moderna, ma antica, non hanno scritto a' contemporanei, non
hanno fatto che imitare gli antichi, e quindi come scrittori non sono
propriamente moderni; o badando o non badando alla lingua non hanno detto nulla
o pochissimo di pensato, di proprio, di notabile, di nuovo, e quindi come scrittori
non sono nè moderni nè antichi. Buono scrittore italiano moderno
non si trova, o quei pochi non sono bastati e non bastano a formare una
letteratura italiana moderna, che ne determini la lingua, o piuttosto a
continuare senza interruzione la letteratura italiana cominciata nel 300 e
sempre diversamente modificata secondo i tempi, finch'ella è durata.
(26. Ott. 1821.)
L'uomo riflessivo ha spessissimo bisogno di
esser determinato da un uomo irriflessivo o per natura o per abito, o da circostanze
imperiose, ec. Egli ha più bisogno di consiglio che qualunque altro, non
perchè non veda abbastanza da se, ma perchè troppo vede, [1999]dal
che segue un'irresoluzione abituale e penosissima.
(27. Ott. 1821.)
La velocità p. es. de' cavalli o
veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (v. in tal
proposito l'Alfieri nella sua Vita, sui principii) è piacevolissima per
se sola, cioè per la vivacità, l'energia, la forza, la vita di
tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell'infinito, sublima
l'anima, la fortifica, la mette in una indeterminata azione, o stato di
attività più o meno passeggero. E tutto ciò tanto
più quanto la velocità è maggiore. In questi effetti
avrà parte anche lo straordinario.
(27. Ott. 1821.)
Lo spirito, il costume della nazione
francese è, fu, e sarà precisamente moderno rispetto a ciaschedun
tempo successivamente, e la nazione francese sarà (come oggi vediamo che
è) sempre considerata come il tipo, l'esemplare, [2000]lo
specchio, il giudice, il termometro di tutto ciò ch'è moderno. La
ragione si è che la nazione francese è la più socievole di
tutte, la sede della società, e non vive quasi che di società.
Ora, lasciando stare che lo spirito umano non fa progressi generali o nazionali
se non per mezzo della società, e che dove la società è maggiore
per ogni verso, quivi sono maggiori i progressi del nostro spirito; e quella
tal nazione si trova sempre, almeno qualche passo, più innanzi delle
altre, e quindi in istato più moderno; lasciando questo, osservo che la
società e la civiltà tende essenzialmente e sempre ad uniformare.
Questa tendenza non si può esercitare se non su di ciò che
esiste, e l'uniformità che deriva sempre dalla civiltà, non
può trovarsi nè considerarsi che in quello che successivamente
esiste in ciaschedun tempo. Quindi è che la nazione francese essendo
sempre più [2001]d'ogni altra uniformata nelle sue parti, in
virtù della eccessiva società, e quindi civiltà di cui
gode, ella non può esser mai in istato antico, perchè altrimenti
non sarebbe uniforme a se stessa. Cioè que' francesi che in ciascun
tempo esistono sono sempre uniformi tra loro, e non agli antichi, altrimenti
non sarebbero uniformi agli altri francesi contemporanei. E così ogni
novità di costumanze o di opinioni, ogni progresso dello spirito umano
divien subito comune ed universale in Francia, mercè della
società che in un attimo equilibra fra loro, e diffonde, e uniforma, e
generalizza e pareggia il tutto.
Ecco la ragione per cui la Francia dovette
necessariamente rinunziare alla sua lingua e parole antiche; per cui la sua lingua
ebbe bisogno di una totale riforma ed innovazione; per cui essa è
precisamente e sotto ogni rapporto lingua moderna. [2002]Giacchè
la lingua non può non esser quello che è la nazione che la parla.
Dalle dette ragioni però seguita che
lo stato, i costumi, lo spirito della nazione francese, deve rapidissimamente e
senza interruzione e universalmente venirsi cambiando, ed esser soggetto a
molto maggiori e più spessi (anzi continui) cambiamenti, che non sono le
altre nazioni. E tanto più quanto più s'avanzerà, e quanto
più corre il tempo, giacchè la velocità dello spirito
umano, menoma ne' suoi principii, e poco diversa dallo stato di quiete, si
accresce in proporzione degli spazi e de' suoi stessi progressi ec. come la gravità
accelerata.
Lo stesso dunque deve infallibilmente
accadere alla lingua francese. Essa dovrà essere istabilissima, cambiare
spessissimo non solo nelle parti, ma nell'indole, perchè ciò che
oggi è moderno diverrà presto antico per la nazione francese, siccome
già per lei [2003]non è più moderno ciò che
fu al tempo di Luigi 14. quando la sua presente lingua fu stabilita. La sua
lingua avrà sempre bisogno di nuove riforme somiglianti a quella
d'allora. Essa è dunque fra tutte le moderne e antiche, la più
suscettibile, anzi soggetta inevitabilmente alla corruzione, e alla più
pronta corruzione, perchè lo spirito e i costumi e le opinioni di coloro
che la parlano, sono le più soggette a mutazioni, ed alle mutazioni e
rinnovazioni le più frequenti. Nè avranno i francesi come porre
argine alla corruzione della lingua loro, ricorrendo allo studio degli antichi,
perchè non potranno mai scrivere come gli antichi, ma solo ed appunto
come i moderni; e non potranno imitare in nessuna cosa i passati, essi che per
esser sempre uniformi tra loro, come l'estrema società gli sforza, non [2004]potranno
imitar mai, e non imitano se non i presenti; consistendo il sommo e necessario
pregio di un francese nell'essere perfettamente simile a questi in ogni cosa.
Le stesse ragioni pertanto che gli
allontanarono dagli antichi al tempo della riforma, gli allontaneranno (massime
nella lingua) da' loro classici, quando saranno abbastanza antichi, siccome
già ne gli allontanano visibilmente.
(27. Ott. 1821.)
Alla p.1136. fine. Tutte queste ragioni
fanno che le radici della lingua greca paiano infinite (siccome per simili
ragioni accade nella lingua italiana che ha gran rapporti in ciò, come
in ogni altra cosa, colla greca); laddove elle sono pochissime, come
necessariamente in tutte le lingue. E si considerano come radicalmente diverse
delle parole che vengono dalla stessa origine, [2005]o che sono esse
medesime una sola radice: vale a dire si crede che la tal radice sia diversa da
un'altra, ed è la stessa (benchè non si possa più
nè provare nè meno scoprire); si crede che il tal derivato non
abbia radice nota, e l'ha, che sia radice e non è, che venga da una
radice diversa da quella del tal altro derivato, e viene da essa medesima ec.
(27. Ott. 1821.)
L'ebraico manca si può dire affatto
di composti, e scarseggia assaissimo di derivati in proporzione delle sue
radici e dell'immenso numero di derivati che nello stesso ragguaglio di radici,
hanno le altre lingue. Ciò vuol dire, ed è effetto e segno che la
lingua ebraica è se non altro l'una delle più antiche. L'uso dei
composti (de' quali mancano pure, cred'io, tutte le lingue orientali affini
all'Ebraica, l'arabica ec.) non è infatti de' più naturali [2006]nè
facili ad inventarsi, e non sembra che sia stato proprio delle lingue primitive,
nè l'uno di quei mezzi, co' quali esse da principio si accrebbero. Infatti
lo spirito umano trova per ultimi i mezzi più semplici, qual è questo
di comporre con pochi elementi un vasto vocabolario, diversissimamente
combinandoli. Siccome appunto accadde nella scrittura, dove da principio
parvero necessari tanti diversi segni quante sono le cose o le idee.
Così dunque nelle radici ec. Bensì naturalissimo e primitivo, e
l'uno de' primi mezzi d'incremento che adoperò il linguaggio umano,
è l'uso della metafora, o applicazione di una stessa parola a molte
significazioni, cioè di cose in qualche modo somiglianti, o fra cui
l'uomo trovasse qualche analogia più o meno vicina o lontana. E di
metafore infatti abbonda il vocabolario ebraico, e gli altri orientali, cioè
quasi ciascuna parola ha una selva di significati, e sovente [2007]disparatissimi
e lontanissimi, fra' quali è ben difficile il discernere il senso
proprio e primitivo della parola. Così portava la vivezza dell'immaginazione
orientale, che ravvicinava cose lontanissime, e trovava rapporti astrusissimi,
e vedeva somiglianze e analogie fra le cose più disparate. Del resto
senza quest'abbondanza di significazioni traslate, e questo cumulo di sensi per
ciascuna parola, la lingua Ebraica e le sue affini, non avrebbero abbastanza da
esprimersi, e da fare un discorso ec.
(28. Ott. 1821.)
Alla p.1974. La lingua latina è fra
tutte quante la meno adattabile alle cose moderne, perch'essendo di carattere
antico, e proprissimo, e marcatissimo, è priva di libertà,
al contrario delle altre antiche, e quindi incapace d'altro che dell'antico, e
inadattabile al moderno, a differenza della greca. Quindi venne e ch'ella [2008]si
corrompesse prestissimo a differenza pur della greca, e ch'ella dovesse cessare
di esser lingua universale, per intendersi scambievolmente, come oggi col
francese, e molto più di servire agli usi civili e diplomatici ec. ed
essere adoperata dai letterati e dai dotti in luogo delle parlate; dovesse dico
cessare appena i tempi presero uno spirito determinato e proprio, al quale il
latino era inadattabile. Ciò forse non sarebbe accaduto alla lingua
greca, e s'ella ne' bassi tempi fosse stata universale in Europa, come lo fu la
latina, e com'essa l'era stata anticamente, e massime in oriente, forse ella
non avrebbe perduto ancora questa qualità, e noi ci serviremmo ancora
tra nazione e nazione di una lingua antica, e in questa scriveremmo ec. Nel che
saremmo in verità felicissimi per la infinita capacità, potenza,
e adattabilità di quella lingua, [2009]unite alla bellezza ec.
che la fanno egualmente propria e bastante e all'immaginazione e alla ragione
di tutti i tempi. Così sarebbe accaduto se l'armi greche avessero prevaluto
in Europa alle latine. Ed infatti la lingua tedesca che è similissima
alla greca, ec. - V. appresso un mio pensiero su questo particolare.
(28. Ott. 1821.)
Alla p.1167. fine. Fluitare denota un
participio fluitus di fluere (del qual verbo lo riconoscono
derivato, chiamandolo suo frequentativo) in luogo di fluxus, da cui si sarebbe
fatto fluxare. Fluxus è infatti un participio irregolare.
Regolare par che sarebbe flutus, come da induere, indutus, e
dall'inusitato nuere, l'inusitato nutus, o il supino nutum,
da cui abbiamo e di cui fa fede il continuativo nutare, e il verbale nutus
sostantivo, (come jussus us, effectus us, sumptus us, ductus us ec. ec. nisus
us, visus us, ec., risus [us] ec., situs us, positus us, ec. sortitus
us ec. victus us ec. ec.) e così adnutare da adnuere,
abnutare da abnuere ec. Ed io [2010]credo effettivamente che
il vero benchè disusato participio (o supino) di fluere fosse flutus
onde flutare che si trova infatti in Lucrezio, detto più modernamente
fluitare. Onde si può confermare la lezione Lucreziana che alcuni
volgono in dubbio, e cangiano in fluctat e fluctuat. V. poi un
altro esempio di flutare o flutari nel Forcell. voc. fluta,
che non sembra essere altro che un participio femminile sostantivato come il
greco da inusitato.
Forse anche fluctuare si disse originariamente fluctare, e non fu
che un continuativo di fluere da un altro suo participio fluctus,
giacchè fluctus us, non credo essere altro che un verbale di fluere,
come nutus us di nuere, jussus us di jubere ec. i quali
nel nominativo singolare non hanno altra forma che quella del participio in us
de' verbi da cui derivano. Ovvero fluctare verrà da fluctum
supino ec. Anticamente si disse fluctus i, come jussus i, ec. In
verità fluctuare viene da fluctus us, come effettuare
da effectus us, e non è continuativo. V. p.2019.
Funditare dinota parimente l'antico [2011]funditus
di fundere, in luogo di fusus.
(28. Ott. 1821.). V. p.2020.
Alla p.1201 marg. Ed è veramente
curioso ch'egli cada spessissimo in questo errore di chiamare i verbi in
itare frequentativi di quelli ch'io chiamo continuativi, come mersitare
di mersare, nel tempo stesso che anche questi li chiama frequentativi,
come appunto chiama mersare. Dunque i verbi in itare saranno
frequentativi de' frequentativi. E che cosa vorranno dire? Si vede bene ch'egli
non aveva posto mente a quello ch'io ho notato, cioè che non meno i frequentativi
che i continuativi derivano unicamente dai participi in us de' loro
positivi.
Del resto potrà, come ho detto,
essersi talora formato il verbo in itare dal continuativo in are,
quando questo col lungo uso, come spessissimo accadde, aveva preso faccia e
significato proprio, e di verbo positivo, sinonimo di quello da cui
derivò, o non sinonimo, ma affatto indipendente da esso.
(29. Ott. 1821.)
[2012]Alla p.1271. mezzo. In prova
di questo ch'io dico, cioè che le nazioni si comunicarono gli alfabeti
scambievolmente, e che quando questa o quella nazione cominciava ad istruirsi,
pigliava l'alfabeto di quella da cui le venivano i primi lumi, perocchè
essa in realtà non l'aveva, nè sapeva scrivere; e che ciò
dovette portare somme alterazioni nelle lingue; e che ciò durò
non solo ne' tempi antichissimi, ma fino a' più moderni, e durerebbe
anche oggi, dandosi un simil caso ec. v. Samuelis Aniensis Chronica,
(coll'Eusebio del Mai) an. Christi 418.423. e la nota del Mai all'an.399.
cioè p.44. not.4. e la pref. del Mai al Filone, p. LIX. e quivi not.4. V. anche Malte par un Voyageur françois (Rome)
1791. 2de partie. - Langue. - p.61-63.
(29. Ott. 1821.)
Non bisogna confondere la purità
della lingua la quale è di debito in tutte le scritture di qualunque
nazione, coll'eleganza, la quale non è di debito se non in alcune [2013]scritture,
ed in altre non solo non necessaria ma impossibile; nè perchè la
lingua italiana è capacissima di eleganza, e perchè ne sentiamo
un grandissimo sapore nella più parte de' nostri buoni scrittori,
credere che gli scritti didascalici ec. se e dove non ci riescono eleganti, non
sieno italiani. Torno a dire che la precisione moderna ch'è
estrema, e che in tali scritti e generi è di prima necessità, e
che oggi si ricerca sopra tutte le qualità ec. è assolutamente di
sua natura incompatibile colla eleganza: ed infatti il nostro secolo che
è quello della precisione, non è certo quello della eleganza in
nessun genere. Bensì ell'è compatibilissima colla purità,
come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e
matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano. Perocchè
la nostra lingua, come qualunque altra è incapace di uno stile [2014]che
abbia due qualità ripugnanti e contrarie essenzialmente, ma è
capacissima dello stile preciso, non meno che dell'elegante, a somiglianza
della greca, e al contrario della francese, ch'essendo capacissima di
precisione è incapace di eleganza (quella che noi, i latini i greci
intendevano per eleganza), e della latina, capacissima di eleganza e incapace
di precisione, e però corrotta appena fu applicata alle sottigliezze teologiche,
scolastiche ec. (fra le quali fu allevata per lo contrario la nostra, e crebbe
la greca) ed anche a quelle della filosofia greca, dopo Cicerone; e quindi affatto
inadattabile alle cose moderne, ed alle traduzioni di cose moderne.
(30. Ott. 1821.)
La mancanza di libertà alla lingua
latina, venne certo o dall'esser ella stata perfettamente applicata ne' suoi
buoni tempi a pochi generi di scrittura, ad altri imperfettamente e poco e da
pochi, ad altri punto; [2015]o dall'esser ella, come lingua formata, la
più moderna delle antiche, ed essere stata la sua formazione contemporanea
ai maggiori incrementi dell'arte che si vedessero tra gli antichi ec. ec.; o
dall'aver ella avuto in Cicerone uno scrittore e un formatore troppo
vasto per se, troppo poco per lei, troppo eminente sopra gli altri, alla cui
lingua chi si restrinse, perdette la libertà della lingua, chi
ricusollo, perdette la purità, ed avendo riconquistata la libertà
colla violenza, degenerolla in anarchia. Perocchè la libertà e
ne' popoli e nelle lingue è buona quando ella è goduta
pacificamente e senza contrasto relativo ad essa, e come legittimamente e per
diritto, ma quando ella è conquistata colla violenza, è piuttosto
mancanza di leggi, che libertà. Essendo proprio delle cose umane
dapoi che son giunte [2016]ad una estremità, saltare alla
contraria, poi risaltare alla prima, e non sapersi mai più fermare nel
mezzo, dove la natura sola nel primitivo loro andamento le aveva condotte, e
sola potrebbe ricondurle. Un simile pericolo corse la lingua italiana nel
500. quando alcuni volevano restringerla, non al 300. come oggi i pedanti, ma
alla sola lingua e stile di Dante, Petrarca e Boccaccio per la eminenza di
questi scrittori, anzi la prosa alla sola lingua e stile del Boccaccio, la
lirica a quello del solo Petrarca ec. contro i quali combatte il Caro
nell'Apologia.
Del resto la lingua latina era infatti
liberissima, e simile alla greca in questo e nel rimanente, prima del secolo di
Cicerone e della forma che in esso ricevette, e ne' suoi primi (ed anche
ottimi) scrittori, che potremmo assomigliare ai trecentisti.
(30. Ott. 1821.)
[2017]La differenza tra il diletto
che ci reca il canto, e quello del suono, e la superiorità di quello su
questo, è pure affatto indipendente dall'armonia.
(30. Ott. 1821.)
Il talento non essendo nella massima parte
che opera dell'assuefazione, è certo che coloro che ammirano in altrui
questo o quel talento, abilità, opera ec. ammirano e si stupiscono di
quello, di cui essi medesimi in diverse circostanze, sarebbero stati appresso a
poco capacissimi.
(30. Ott. 1821.)
Il fare un atto di vigore, o il servirsi del
vigore passivamente o attivamente, (come fare un veloce cammino, o de' movimenti
forti ed energici ec.) quando e finchè ciò non superi le forze
dell'individuo, è piacevole per ciò solo, quando anche sia per se
stesso incomodo, (come l'esporsi a un gran freddo ec.) quando anche sia senza
spettatori, e prescindendo pure dall'ambizione e dall'interna soddisfazione e [2018]compiacenza
di se stesso, che vi si prova. Nè solo il fare tali atti, ma anche il
vederli, l'essere spettatore di cose attive, energiche, rapide, movimenti ec.
vivaci, forti, difficili ec. ec. azioni ec. piace, perchè mette l'anima
in una certa azione, e le comunica una certa attività interiore, la rompe
ec. l'esercita da lontano ec. e par ch'ella ne ritorni più forte, ed
esercitata ec.
Ho detto che ogni sensazione di vigore
corporale è piacevole. Così anche nell'anima (e però
è piacevole ogni sollevazione dello spirito, cagionata dalla lettura,
dagli spettacoli, dall'orazione, dalla meditazione, dalle sensazioni esterne
d'ogni genere ec.); così anche ogni atto di vigore spirituale, come
risoluzioni virtuose, o energiche, sacrifizi, rassegnazioni ec. ec.
In somma, il vivente tende essenzialmente
alla vita. La vita è per lui piacevole, e quindi tutto ciò
ch'è vivo, venga pur sotto l'aspetto della morte. La felicità dell'uomo
consiste nella vivacità delle sensazioni e della vita, perciocch'egli
ama la vita. E questa vivacità non è mai tanto grande come quando
ell'è corporale. Lo stato naturale provvedeva ottimamente a questa
inclinazione elementare e generalissima dell'uomo.
(30. Ott. 1821.)
[2019]Alla p.2010. marg. Questi due
verbi però, fluctuare, ed effettuare (effectuer,
efectuar) mi denotano un altro genere di formazione di verbi, fatti da'
verbali in us (cioè consonanti co' participii in us de'
verbi positivi) troncando la s e aggiungendo l'are, genere
analogo ai continuativi, ma assai meno copioso; il quale essendo stato
adoperato ne' tempi della buona antichità, seguì pure ad esserlo,
con nuove formazioni ne' bassi tempi, dove trovi usuare, usufructuare
ec. ec. Abbiamo pur noi situare, ec. graduare ec. abituare
ec. ed in uere si trova statuere da status us. V. p.2226.
2338. Abbiamo volgarmente questuare da quaestus us azione
evidentemente più lunga, abituale ec. di cercare. Quêter in
francese puro continuativo di quaerere, ha pure simil forza ec. Derivano
insomma questi verbi in uare da' nomi della 4. declinazioni per lo
più verbali, e presi da' participii in us. Così arcuare,
tumultuare, o ari. Così sinuare, insinuare, aestuare,
exdorsuare. V. p.2323.
(30. Ott. 1821.)
I fanciulli con la vivacità della
loro immaginazione, e col semplice dettame della natura, scuoprono e vedono
evidentemente delle somiglianze e affinità fra cose disparatissime,
trovano rapporti astrusissimi, dei quali converrebbe che il filosofo [2020]facesse
gran caso, e non si sdegnasse di tornare in qualche parte fanciullo, e ingegnarsi
di veder le cose come essi le vedono. Giacchè è certo che chi scopre
grandi e lontani rapporti, scopre grandi e riposte verità e cagioni: e
forse perciò il fanciullo sa talvolta assai più del filosofo, e
vede chiaramente delle verità e delle cagioni, che il filosofo non vede
se non confusamente, o non vede punto, perocch'egli è abituato a pensare
diversamente, e a seguire nelle sue meditazioni tutt'altre vie che quelle che
seguì naturalmente da fanciullo.
(31. Ott. 1821.)
Alla p.2011. principio. Circa il verbo vexare,
che sembra essere un continuativo di vehere dall'inusato participio vexus
per vectus, di cui può far fede convexus convexitas ec.
(v. il Forcell. a queste voci, e nota che si dice anche convexare,
siccome [2021]convehere, e convectare) osserva il luogo di
Gellio nel Forcellini, nota com'egli si aggiri non conoscendo la
proprietà della formazione de' continuativi, che ha virtù di
accrescere l'azione significata da' positivi; e nota ancora che vehere
dall'usato vectus ha pur l'altro non controvertibile continuativo vectare.
(31. Ott. 1821.)
Alla p.1115. principio. Insomma è
manifesto che la formazione dei verbi ch'io chiamo continuativi è
distintissima da quella dei verbi in itare che io chiamo cogli altri,
frequentativi; e l'uso lo è parimente, se non quanto potè poi degenerare
o confondersi, come dirò appresso.
E parimente è manifestissimo che la
formazione e l'uso de' verbi continuativi, è distintissimo da quello de'
positivi, e quei continuativi che conservarono presso gli scrittori latini de'
buoni tempi la loro [2022]primitiva proprietà, sono anche oggi
tali che chiunque abbia gusto e tatto di latinità, conosce e sente a
prima vista che non si potrebbero in nessun modo usare in luogo de' positivi,
nè questi in luogo di quelli, senza mancare assolutamente alla
proprietà latina, e senza totalmente barbarizzare, come versare
per vertere, o vertere per versare. Il che dimostra che
quegli altri continuativi i quali oggi non sono in questo caso, non vi sono per
le ragioni che dirò in seguito, non già per la loro natura e
forma, la quale originariamente e propriamente è la stessa che quella
dei continuativi manifesti anche oggi, e durati sempre nell'uso de' buoni
latini come continuativi.
(31. Ott. 1821.). V. p.2118. fine e 2187.
fine.
Alla p.1116. marg. fine. Del resto o che
quei verbi ch'io chiamo continuativi si chiamino così, o si chiamino
frequentativi come gli altri fanno, bisognerà sempre [2023]allo
stesso modo rendere ragione del perchè si trovino adoperati in luogo de'
positivi, così che questo non fa maggiormente contro di me, di quello
che faccia contro tutti quei gramatici che li chiamano frequentativi. Anzi
è più duro e più lontano il passaggio dal significato
frequentativo al positivo, che dal continuativo al medesimo positivo,
poichè la differenza fra i due primi significati è chiara, notabile,
facile a sentire e comprendere, e marcata; laddove quella fra il significato
continuativo e il positivo, è spesso, anzi quasi sempre sottilissima e
sfuggevolissima e metafisica, come altrove ho notato, e perciò facile a
esser trascurata; siccome impossibile a esser sentita da chi non ha lungo uso e
perfetto gusto di latinità.
(31. Ott. 1821.)
Alla p.1109. Di questi tali verbi di forma
continuativa, propri delle lingue moderne, [2024]quelli che non hanno
oggi alcun significato distintamente continuativo, o che s'usano
indifferentemente come i positivi da cui derivano, o restano in luogo di questi
già estinti, potranno credersi introdotti nelle nostre lingue ne' bassi
tempi, o ne' bassi tempi trasportati dal significato continuativo al positivo o
a qualunque altro, o sostituiti interamente ai positivi loro. Quelli
però (e son parecchi) che hanno nelle stesse nostre lingue un evidente
significato continuativo (esistano ancora in esse o non esistano i loro
positivi), e tuttavia non si trovano negli scrittori della buona
latinità, difficilmente m'indurrò a credere, che sieno di bassa
epoca, e che non ci siano dirittamente pervenuti mediante l'antico volgare
latino, padre delle nostre lingue, e conservatore ostinato delle antiche
proprietà della favella. Giacchè non è verisimile [2025]che
ne' bassi e corrotti tempi, si coniassero espressamente questi verbi, secondo
tutta la proprietà dell'antichissimo latino, secondo tutte le regole
della formazione e della significazione continuativa; quando queste regole, e
questa tal proprietà, da sì lungo tempo, e nell'istesso fiore
della latinità era stata dimenticata, o mal distinta, e confusamente
sentita, o del tutto ignorata e violata dagli stessi scrittori latini e da'
migliori gramatici, e conoscitori della regolata favella, e formatori di nuove
parole.
(31. Ott. 1821.)
Gli antichi poeti e proporzionatamente gli
scrittori in prosa, non parlavano mai delle cose umane e della natura, se non
per esaltarle, ingrandirle, quando anche parlassero delle miserie e di
argomenti, e in istile malinconico ec. Così che la grandezza costituiva
il loro modo di veder le cose, e lo spirito della loro poesia. Tutto al
contrario accade ne' poeti, e negli [2026]scrittori moderni, i quali non
parlano nè possono parlare delle cose umane e del mondo, che per
deprimerne, impiccolirne, avvilirne l'idea. Quindi è che i linguaggi
antichi sempre innalzano e ingrandiscono, massime quelli de' poeti, i moderni
sempre impiccoliscono e abbassano e annullano anche quando sono poetici. Anzi appunto
in ciò consiste lo spirito poetico d'oggidì (che ha sempre, e
massime oggi, grandi rapporti col filosofico di ciascun tempo). Gli antichi si
distinguevano dal volgo coll'inalzare le cose al di sopra dell'opinione comune;
i moderni poeti col deprimerle al di sotto di essa. In ciò pure
v'è grandezza, ma del contrario genere. Onde avviene che gli scritti
moderni tradotti p.e. in latino, o le cose moderne trattate in latino, suonano
tutt'altro da quello che intendono, e ne segue un effetto discordante tra la
grandezza e l'altezza del linguaggio, e la strettezza e bassezza delle idee,
ancorchè fra noi poeticissime. (Come accaderebbe trasportando le nostre
letterature in Oriente). E viceversa traducendo gli antichi negl'idiomi
moderni, o trattando in questi le cose antiche.
Da ciò segue che la lingua latina [2027]come
quella ch'essendo d'indole tutta e distintissimamente antica, non ne ha punto
la libertà, è del tutto inettissima alle cose moderne, alle
traduzioni degli scritti moderni ec. (e lo spirito umano avrebbe incontrato un
grandissimo ostacolo, e camminato con somma lentezza, se più a lungo,
dopo il risorgimento della civiltà, fosse durato negli scrittori, negli
affari ec. l'uso e il bisogno di adoperar la lingua latina, per la insufficienza
delle volgari.) Le altre lingue antiche vi sono più o meno adattabili,
secondo che hanno maggiore o minor libertà, fra le quali tiene il primo
luogo la greca. (dico fra le lingue antiche ben colte e formate, giacchè
le altre sono adattabili a tutto, non per virtù, ma per difetto,
e così può forse dirsi della tedesca.) Viceversa le moderne sono
più o meno adattabili alle cose antiche, ed alle traduzioni degli antichi,
secondo che hanno maggiore o minor libertà, e che tengono più o
meno d'indole antica, [2028]o somigliante o affine all'antica: fra le
quali ha il primissimo luogo l'italiana, (intendo sempre fra le colte) e
l'ultimissimo possibile la francese, o piuttosto ella è fuori affatto di
questo numero.
(1. Nov. dì d'Ognissanti. 1821.)
L'uomo si assuefa ad assuefarsi, ed impara
ad imparare, e ne ha bisogno. Ve. Staël De
l'Allemagne t.1. 1re part. ch.18. p.155. fine-
(1. Nov. 1821.)
Ho detto altrove che la natura par che abbia
confidato a ciascun individuo la conservazione e la cura dell'ordine, della
ragione, [2029]della giustizia, dell'esistenza ec. per ciò che
spetta agli altri individui, o alle altre cose esistenti; insomma la
conservazione di tutta la natura, e di tutte le sue leggi, anche dove o quando
punto non ci appartengono par che sia incaricata a ciascun individuo. Da questo
nasce l'ira che noi proviamo nell'udire un misfatto, per es. un omicidio, di persona
a noi affatto ignota, e posta fuori d'ogni nostra minima relazione, partito ec.
e quando anche l'omicida si trovi nello stesso caso. Noi, e tanto più
quanto la nostra immaginazione è più viva, e il nostro sentimento
più caldo, e quanto meno siamo corrotti e snaturati dalla fredda
ragione, proviamo subito un vivo senso di odio verso il delinquente, un desiderio
di vendetta, quasi che l'offesa fosse fatta a noi, un vivo piacere se
intendiamo che è caduto nelle mani della [2030]giustizia, e dispiacere
s'egli è fuggito. Massime quando il racconto del misfatto, per qualunque
circostanza ci riesca vivo ec. e molto più se il misfatto accade in
nostra presenza ec. Un eccesso di energia pone anche l'uomo in desiderio di
vendicare il misfatto da se, quando anche non gli appartenga nè
l'interessi in nessunissima parte. Da ciò nasce che il popolo,
spargendosi la fama di qualche notabile delitto, è sempre decisamente
contento della cattura del reo, la desidera, l'applaude, e stando egli sotto
processo, discorre della sua condanna come di una soddisfazione e un piacere
ch'egli aspetti e desideri, accusa la lentezza dei giudici, e se il reo
è assoluto, se ne duole, come di un torto fatto a se stesso. Se è
condannato ne gode, finchè all'ira verso la colpa non succede la
compassione verso la pena.
Del resto in questi effetti non entra [2031]come
cagione essenziale, la compassione verso la vittima del misfatto, anzi ella
è bene spesso, per varie circostanze, o leggera o nulla, e fuor di
proporzione cogli altri effetti sopraccennati; e vi sono anche de' misfatti che
non hanno nessuna vittima particolare, ed offendono egualmente il pubblico.
Tutto ciò per altro, e tutti questi
sentimenti, benchè paiano puramente naturali, innati ed elementari, non
derivano poi veramente che dalle assuefazioni. Almeno fino a un certo segno, giacchè,
come ho detto altrove, io credo che l'animale non sanguinario, odii naturalmente
l'animale carnivoro, vedendolo afferrare, uccidere, e divorare la sua preda,
quantunque egli in verità non pecchi contro alcuna legge della sua
natura, ma ben contro quelle che la natura ha prescritte agli animali non carnivori.
Così il giudizio e il senso del bene e del male, giusto e ingiusto, non
è che relativo, e senz'alcun tipo o ragione antecedente. ec. ec.
ec.
(1. Nov. 1821.)
[2032]L'uomo inesperto delle cose,
è sempre di spirito e d'indole più o meno poetica. Ella diventa
prosaica coll'esperienza. Ma bene spesso colui che da giovane fu per
assuefazione o per natura più notabilmente poetico, tanto più
presto (anche nella stessa gioventù) e più gagliardamente diviene
prosaico coll'esperienza. Un eccesso tira l'altro, perchè gli eccessi,
contro quello che a prima vista apparisce sono più affini, amici e
vicini fra loro, che con quello che è fra loro di mezzo. Colui che per
avere uno spirito gagliardamente poetico, sente fortemente, fortemente e presto
deve sentire la nullità e la malvagità degli uomini e delle cose.
Egli diviene fortemente disingannato, perchè fu capace di essere fortemente
ingannato, e lo fu infatti. Prima della cognizione egli prova gagliarde illusioni,
dopo la cognizione, gagliardi, e pronti, e costanti ed interi disinganni. La
stessa forza della sua natura [2033]o delle sue facoltà acquisite,
che dava risalto ed energia alle sue illusioni, ne rende altrettanta a' suoi
disinganni. E perciò la vecchiezza del poeta, è forse (almeno
spessissimo) assai più prosaica in tutti i sensi, che quella dell'uomo
d'indole primitivamente fredda, e tanto più quanto la sua giovanezza,
prima della sufficiente esperienza, fu più vivamente e veramente poetica
in qualunque senso. Giacchè per poetica intendo anche inclinata alla
virtù, all'eroismo, magnanimità ec. ancorchè non applicata
punto alla poesia, ma solamente ai fatti, ai desiderii, alle passioni ec.
(2. Nov. 1821.). V. p.2039.
Alla p.1162. dopo il mezzo. Vediamo ora la
ragione gramaticale di questa formazione de' verbi continuativi. Il formare un
verbo dal participio passato di un altro verbo, significa che l'azione denotata
da questo verbo originario, dopo che già in tutto [2034]o in
parte è stata fatta, seguita ancora a farsi. Per esempio adflictare
formato dal participio passato adflictus di adfligere, è
come dire adflictum facere, anzi afflictum affligere, il che
importa assai più che adfligere, e viene a dire che colui che adflixit,
dopo che il paziente è già in tutto o in parte adflictus,
non lascia però ancora di adfligere. Così datare
che significa costume di dare, viene gramaticalmente ad esprimere che colui che
ha già dato, pur segue tuttavia a dare. Viene in somma il
verbo così formato a significare più azioni o più parti
successive di azioni, cioè atti o azioni secondarie, in una volta, e in
una sola voce. Quindi adflictare significa azione o più
continuata, o più perfetta che adfligere. E dico più
perfetta perchè mi par che talvolta i verbi continuativi abbiano forza
di esprimere un'azione più terminata, più intera, più
compiuta di quella significata da' positivi, e [2035]quindi più
continua non quanto a se, ma quanto a' suoi effetti. E che perciò
vengano a dire quasi penitus... re. V. il luogo di Gellio nel Forcell.
in Vexo. La qual significazione conviene pure benissimo con la loro formazione
da' participii passati de' verbi positivi, giacchè il dire che uno p.e. fa
distrutta una cosa, significa azione più perfetta e terminata che il
dire ch'egli la distrugge. Quello includendo nel presente il passato,
dimostra che il presente, ossia l'azione ch'esso denota, è tanto
perfetta, ch'ella è già quasi fosse passata. Questo non ha altra
forza che l'ordinaria del presente. ec. Al qual proposito si può in qualche
modo riferire il verbo francese complèter, formato anch'esso alla
maniera de' continuativi latini, da completus di complere, il
quale viene a dire completum facere, o far compiuto, (rendre
complet. Alberti) e significa assai più che il nostro compiere.
V. p.2039.
Del resto tutto ciò che in questo
pensiero e in quello a cui questo si riferisce, ho detto dell'azione o
dell'atto, dico parimente [2036]della passione, e di ciò
ch'è di mezzo fra l'azione e la passione; come il cadere, l'essere, lo
stare, e tutto ciò ch'è il soggetto de' verbi neutri.
La ragione gramaticale che ho resa della
formazione de' verbi continuativi, è applicabile ancora, per la loro
parte, ai frequentativi. L'uno e l'altro genere di verbi io amo dunque per le
dette ragioni, chiamarli piuttosto formati da' participii passati de' verbi
positivi, che da' loro supini, come sogliono fare ordinariamente (non
però sempre) i gramatici. E quanto ai participii in us dei verbi
neutri ne ho parlato altrove.
Queste osservazioni ancora ci possono accrescer
l'idea della grande sagacità e sottigliezza della lingua latina, che
è pur delle più antiche. E notate che tutte queste sottigliezze
in proposito dei continuativi, frequentativi ec. non si debbono mica allo
studio e all'arte profonda di coloro che applicando essa lingua alla letteratura
ec. le diedero forma intera, stabile e perfetta; ma anzi oltre che precedettero
di molto quest'epoca, elle sono assai più notabili, e più visibili,
e più fedelmente osservate dagli scrittori latini più antichi,
come ho detto in molti luoghi; e quanto più antichi saranno i monumenti [2037]scritti
latini che vorremo osservare, tanto meglio, e più costantemente,
regolarmente e distintamente vi scopriremo quelle proprietà del loro
linguaggio, che io ho dilucidate e spiegate. E pure il Lazio era de' più
rozzi paesi della terra. E pur le osservazioni che abbiamo fatte vertono sopra
qualità che ricercano un acume, una sottigliezza, una metafisica
singolare nel linguaggio e ne' suoi primitivi formatori.
Questi pensieri ci possono condurre a grandi
risultati intorno all'acutezza naturale de' primi parlatori, alla vivezza e disparatezza
de' rapporti ch'essi scoprivano, alla loro penetrazione, metafisica ec. Infatti
quante volte il fanciullo è più metafisico ed anche sofistico, che
l'uomo maturo il più versato in tali materie ec. Puoi vedere la p.2019.
fine, seg.
(2. Nov. dì de' morti. 1821.)
La semplicità bene spesso non
è altro [2038]che quella cosa, quella qualità, quella
forma, quella maniera alla quale noi siamo assuefatti, sia naturale o no. Altra
cosa, forma, ec. benchè assai più semplice in se, o più
naturale ec. se non ci par semplice, perchè ripugna, o è lontana
dalle nostre assuefazioni.
Quindi è che le stesse cose,
qualità, maniere ec. naturali, o l'imitazione o l'espressione ec. di
esse naturalissimamente fatta, sovente non ci par semplice, perchè non
vi siamo assuefatti, o ce ne siamo dissuefatti; e per la stessa ragione per cui
non par naturale. Ciò accade sopra tutto ai francesi. L'idea e il senso
della semplicità e naturalezza varia del tutto secondo le assuefazioni
(anche in uno stesso individuo, tutto giorno): e il semplice e il naturale de'
francesi è tutt'altro da quello de' primitivi, degli antichi, delle
altre nazioni ec. e ciò in tutti i generi.
Il semplice in gran parte non è che
l'ordinario: e lo straordinario difficilmente par semplice. Ora qual cosa
più relativa dell'ordinario [2039]e straordinario?
(2. Nov. 1821.)
Alla p.2035. fine. In somma è
proprietà de' continuativi (proprietà ben motivata dal modo e
natura che ho sviluppata della loro formazione) di accrescere sempre il significato
e la forza de' positivi, in un modo e senso, o nell'altro ec. e i continuativi
dicono sempre più de' positivi per qualche verso, se non interamente.
(2. Nov. 1821.)
Facoltà umana è sinonimo di
abitudine. - Uomo o ingegno colto o grande: Uomo o ingegno assuefatto o
esercitato. - Facoltà di generalizzare: Abitudine di generalizzare, ec.
(3. Nov. 1821.)
Alla p.2033. Una gran forza naturale di
sentimento di immaginazione ec. non suol essere senza un gran talento (e
perciò ella è sempre compagna della facoltà di ragionare e
pensare), cioè una gran disposizione e facilità di assuefarsi. La
facoltà di sentire profondamente ec. e d'immaginare, si acquista [2040]mediante
la detta disposizione, come tutte le altre; e quando essa facoltà
è ben grande, egli è segno che anch'essa disposizione è
grande, e però capace anche di altre diversissime facoltà. Ora la
disposizione ad assuefarsi include, come ho bene spiegato altrove, quella di
dissuefarsi, cioè di contrarre facilmente e prontamente nuove e
contrarie abitudini. Quindi è che l'uomo di gran sentimento è in
maggior pericolo di perderlo, di divenir quasi insensibile, di contrarre un
abito gagliardo di freddezza d'indifferenza, di alienarsi fortemente dalla
virtù ec. ec. che non colui il quale non possiede che un sentimento mediocre,
e non è virtuoso che per una mediocre forza, ec. Le disposizioni di
costoro si vede infatti che sono durevolissime, anzi le sole durevoli e
costanti, perch'essi non contraggono facilmente nuove assuefazioni, non si
persuadono di contrarii principii, e le circostanze hanno poca influenza [2041]su
di loro. Ma l'uomo gagliardamente suscettivo, perciò appunto è
capace e suscettivo di divenire insuscettivo, duro, freddo, egoista, quando le
circostanze lo portano a queste assuefazioni; e necessariamente ve lo porta l'esperienza
del mondo. La quale per convincerlo, ed assuefarlo a nuovi e contrarii
principii, non ha bisogno di molto tempo, perchè appunto un tal uomo
presto e facilmente e fortemente conosce, sente, e si assuefa.
(3. Nov. 1821.)
La rapidità e la concisione dello
stile, piace perchè presenta all'anima una folla d'idee simultanee, o
così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar
l'anima in una tale abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni
spirituali, ch'ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente
ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. [2042]La
forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt'uno colla
rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non
consiste in altro. L'eccitamento d'idee simultanee, può derivare e da
ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione, e
dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi ec.
Perchè è debole lo stile di Ovidio, e però non molto
piacevole, quantunque egli sia un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un
ostinatissimo e acutissimo cacciatore d'immagini? Perchè queste immagini
risultano in lui da una copia di parole e di versi, che non destano l'immagine
senza lungo circuito, e così poco o nulla v'ha di simultaneo,
giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli oggetti appoco
appoco per le loro parti. Perchè lo stile di Dante è il
più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più
bello e dilettevole possibile? Perchè ogni [2043]parola presso
lui è un'immagine ec. ec. V. il mio discorso sui romantici. Qua si
possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia
descrittiva, (assurda in [se] stessa) e quell'antico precetto che il poeta (o
lo scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello
stile di Orazio (rapidissimo, e pieno d'immagini per ciascuna parola, o costruzione,
o inversione, o traslazione di significato ec.), v. p.2049. e quanto al
pensiero, quella dello stile di Tacito. ec.
(3. Nov. 1821.). V. p.2239.
L'inclinazione dell'uomo al suo simile,
è tanto maggiore quanto l'uomo (e così ogni vivente) è vicino
allo stato naturale, e tanto più vivi e più numerosi sono gli
svariatissimi effetti (da me in diversi luoghi osservati) di questa essenzialissima
inclinazione, figlia immediata dell'amor proprio, anch'esso tanto più
vivo ed energico, almeno ne' suoi effetti, e nell'aspetto che piglia, quanto il
[2044]vivente è più naturale. Tutti p.e. amano
l'imitazione dell'uomo e delle cose umane nelle arti, nella poesia, ec.
più che quella di qualunque altro oggetto. Ma questa preferenza è
più notabile nel fanciullo, il quale tra' suoi pupazzi si compiace soprattutto
di quelli che rappresentano uomini, e nelle favole o novelle che legge, di
quelle che trattano d'uomini. ec. ec. ec. Quando anche abbia p.e. delle figure
d'animali assai più ben fatte, che quelle d'uomini ec. ec.
A questa inclinazione, e quindi all'amor
proprio da cui essa deriva, e non ad altro, si deve riferire la propensione di
preferenza che l'uomo ha per li coetanei, per gli uguali ec. Anch'essa tanto
maggiore, quanto l'uomo è più naturale. Il fanciullo tra' pupazzi
o favole d'uomini, soprattutto si diletta di quelli che rappresentano, e di
quelle che trattano cose fanciullesche.
[2045]Si suol dire che l'amicizia
è tra gli uguali. L'amore per certo, naturalmente tende all'uguale in
quanto all'ordinario. Che se è notato com'egli tende pure ai contrari,
questa propensione non so primieramente quanto sia naturale, in secondo luogo
ella nasce, come ho detto altrove, da un'altra disposizione della natura che
c'inclina verso lo straordinario, perciò appunto che è, ed in
quanto è straordinario. Come, sebbene noi siamo inclinati alla bellezza,
ch'è perfetta convenienza, siamo però anche inclinati alla
grazia, ch'è una certa sconvenienza, o non perfetta convenienza; anzi a
questa più che a quella, almeno nel nostro stato presente. La natura ha
parecchie qualità e principii armonici a un tempo e contrarii, anzi
armonizzanti e sostenentisi scambievolmente in virtù della loro contrarietà:
e l'uno de' contrarii non solo non distrugge la teoria [2046]dell'altro,
ma anzi la dimostra.
(3. Nov. 1821.)
Chi vuol vedere come le facoltà umane
sieno tutte acquisite, e la differenza che passa fra l'acquisito e il naturale
o innato, osservi che tutte le facoltà di cui l'uomo è capace,
sono maggiori assai nell'uomo maturo (e civile ec.) che nel fanciullo, se pur
questi non ne manca affatto, e crescono insieme coll'uomo: laddove le
inclinazioni che sono ingenite, e ben diverse dalle facoltà,
generalmente parlando, come qua e là ho mostrato di questa o di quella,
e come si può dire di tutte (purchè sieno naturali e non
acquisite anch'esse), sono tanto maggiori, più vive, notabili, numerose
ec. quanto l'uomo è più vicino allo stato di natura, cioè
o fanciullo, o primitivo, o selvaggio, o ignorante ec. E quantunque le facoltà
umane crescano coll'età e dell'individuo, e de' popoli o del mondo,
nondimeno, essendovi due generi di disposizioni ad [2047]esse
facoltà, altre acquisite, altre naturali ed ingenite o in tutti o in
qualcuno, quelle crescono allo stesso modo delle facoltà, queste, perchè
sono qualità naturali, sono assai maggiori nell'uomo naturale, e massime
nel fanciullo, che nell'uomo civilizzato o nell'adulto, come tuttogiorno si
osserva che i fanciulli son capaci di avvezzarsi, di imparare ec. cose che gli
uomini fatti non possono, se da fanciulli non hanno incominciato. Insomma tutto
quello ch'è naturale, è tanto più forte e notabile, quanto
il soggetto è meno coltivato ec. e tutto ciò che coltivato
è più forte ec. non è naturale ec. ec.
(4. Nov. 1821.)
La memoria è la generale
conservatrice delle abitudini. O piuttosto (giacchè vediamo che, perduto
quello che si chiama memoria, pur si conservano le abitudini) siccome la
memoria, [2048]in quanto facoltà, è una pura abitudine,
così ciascun'altra abitudine è una memoria. Di memoria son
provveduti tutti i sensi, tutti gli organi, tutte le parti fisiche o morali
dell'uomo, che son capaci di avvezzarsi, e di abilitarsi, e di acquistare
qualunque facoltà. La memoria è da principio una disposizione,
poi una facoltà di assuefarsi che ha l'intelletto umano;
l'assuefabilità, e le assuefazioni delle altre parti dell'uomo, sono
disposizioni e facoltà di ricordarsi, di ritenere, che hanno esse parti.
La memoria è un abito, gli abiti altrettante memorie, attribuite dalla
natura a ciascuna parte assuefabile del vivente, in quanto disposizioni, ed
acquistate in quanto facoltà ed assuefazioni. Questo pensiero si
può molto stendere, e cavarne delle belle conseguenze, intorno alla natura
della memoria, ed alla sua analogia colle altre [2049]disposizioni e
facoltà dell'uomo. Siccome la memoria per diverse circostanze
s'indebolisce o come disposizione, o come facoltà, o nell'uno e nell'altro
modo, così pure per diverse circostanze fisiche, morali ec. accade
all'assuefabilità ed alle assuefazioni delle altre parti ed organi degli
animali. E come coll'esercizio l'altre assuefazioni ed assuefabilità, o
si acquistano, o si accrescono ec. così la memoria ch'è assuefabilità,
e le reminiscenze che sono assuefazioni ec.
(4. Nov. 1821.)
Alla p.2043. margine. La bellezza e il
diletto dello stile d'Orazio, e d'altri tali stili energici e rapidi, massime
poetici, giacchè alla poesia spettano le qualità che son per
dire, e soprattutto lirici, deriva anche sommamente da questo, ch'esso tiene
l'anima in continuo e vivissimo moto ed azione, col trasportarla a ogni tratto,
e spesso bruscamente, da un pensiero, da un'immagine, da un'idea, da una cosa
ad un'altra, e talora assai lontana, e diversissima: onde il pensiero ha da far
molto a [2050]raggiungerle tutte, è sbalzato qua e là di
continuo, prova quella sensazione di vigore (v. p.2017. capoverso ult.) che si
prova nel fare un rapido cammino, o nell'esser trasportato da veloci cavalli, o
nel trovarsi in una energica azione, ed in un punto di attività (v.
p.1999.); è sopraffatto dalla moltiplicità, e dalla differenza
delle cose, (v. la mia teoria del piacere) ec. ec. ec. E quando anche queste
cose non sieno niente nè belle, nè grandi, nè vaste,
nè nuove ec. nondimeno questa sola qualità dello stile, basta a
dar piacere all'animo, il quale ha bisogno di azione, perchè ama
soprattutto la vita, e perciò gradisce anche e nella vita, e nelle
scritture una certa non eccessiva difficoltà, che l'obbliga ad agire
vivamente. E tale è il caso d'Orazio, il quale alla fine non è
poeta lirico che per lo stile. Ecco come lo stile anche separato dalle cose,
possa pur essere una cosa, e grande; tanto che uno può esser poeta, non
avendo [2051]altro di poetico che lo stile: e poeta vero, e universale,
e per ragioni intime, e qualità profondissime, ed elementari, e
però universali dello spirito umano.
Questi effetti che ho specificati li produce
Orazio a ogni tratto, coll'arditezza della frase, onde dentro il giro di un
solo inciso vi trasporta e vi sbalza più volte di salto da una ad altra
idea lontanissima e diversissima. (Come pure coll'ordine figuratissimo delle
parole, e colla difficoltà, e quindi attività ch'esso produce in
chi legge.) Metafore coraggiose, epiteti singolari e presi da lungi,
inversioni, collocazioni, soppressioni, tutto dentro i limiti del non eccessivo
(eccessivo potrebb'essere pei tedeschi, troppo poco per gli orientali)
ec. ec. producono questi effetti in qualsivoglia luogo delle sue poesie.
Pone me pigris ubi nulla campis
Arbor aestiva recreatur aura,
Quod latus mundi nebulae, malusque
Iuppiter urget.
Eccovi prima la pigrizia, poi questa
applicata ai campi, e immediatamente gli alberi, e l'aria
d'estate, poi un fianco del mondo, poi [2052]le nebbie,
e poi Giove in vece del cielo, e malvagio in vece di contrario,
che urtano o spingono o perseguitano quella parte di
mondo.
La vivezza e il pregio di tutto
ciò (come di tante simili bellezze in altri stili) non consiste in altro
che nella frequenza, e nella lunghezza dei salti da un luogo, da
un'idea all'altra. Le quali cose derivano dall'arditezza dell'elocuzione
materiale.
Della quale arditezza essendo incapace la
lingua francese, è incapace di stile poetico, e le mille miglia separata
dal lirico.
(4. Nov. 1821.). V. p.2054. e 2358. fine.
Alla p.1108. Amplexare e amplexari
da amplexus di amplectere e amplecti; (si disse anche amplectari
forse da un participio amplectus) e complexare da complexus
di complectere; (4. Nov. 1821.). V. p.2071. principio. e 2076. e 2199. fine.
e 2284. princip.
[2053]La sola vastità desta
nell'anima un senso di piacere, da qualunque sensazione fisica o morale, ella
provenga, e per mezzo di qualunque de' cinque sensi. Un salone ampio e disteso,
alle cui estremità appena giunge la vista, piace sempre, e massime se se
ne nota bene la vastità, per non essere interrotta da colonne, p.e. o altri
oggetti, che sminuzzino la sensazione. Piace la vastità, in quanto
vastità, anche nelle sensazioni assolutamente dispiacevoli, sebbene il
dispiacere essendo vasto, paia che debba essere, e sia per una parte maggiore.
Bisogna distinguere il vasto dal vago o
indefinito. L'uno e l'altro piace all'anima per le stesse ragioni, o per
ragioni della stessa specie. Ma ci può ben essere un vasto che non sia
vago, e un vago che non sia vasto. Nondimeno queste qualità si ravvicinano
sempre quanto all'effetto che fanno sull'anima, e ciò perchè le
sensazioni [2054]vaghe, ancorchè derivino (come spesso) da
oggetti materialmente piccolissimi, e compresi bastantemente dall'anima per
piccoli, sono sempre vaste, in quanto essendo indefinite non hanno termini; e
le sensazioni vaste, ancorchè gli oggetti che le producono abbiano
manifesti termini, sono sempre indefinite, in quanto l'anima non arriva ad
abbracciarle tutte intere, almeno in un sol punto, e però non può
contenerle, nè giungere a sentire pienamente i loro termini.
Tutto ciò può applicarsi alle
sensazioni prodotte dalla poesia, o dagli scrittori, ec. al lontano,
all'antico, al futuro, ec. ec.
(5. Nov. 1821.)
Alla p.2052. Dalla natura di tali stili
(propri di tutti i grandi e veri poeti, più o meno, e massime di quelli
che si distinguono anche nello stile) deve risultare, che molte delle dette
immagini (talvolta comprese in una brevissima frase, in una sola parola ec.)
debbano essere solamente accennate; e così [2055]pure solamente
accennate le connessioni e relazioni loro col soggetto, o colle altre immagini,
idee, sentenze, ec. a cui son vicine, a cui spettano, a cui si riferiscono ec.
E questo ancora piace, perchè obbliga l'anima ad una continua azione,
per supplire a ciò che il poeta non dice, per terminare ciò
ch'egli solamente comincia, colorire ciò ch'egli accenna, scoprire
quelle lontane relazioni, che il poeta appena indica ec.
et aridus altis
Montibus audiri fragor.
(Virg. Georg. 1. 357. seg.)
Che ha che fare il fragore coll'arido?
Bisogna che il pensiero conosca ch'egli v'ha che fare in quanto strepita fra i
seccumi d'una selva. Ecco come la mente deve supplire alla connessione delle
idee (solamente accennata, anzi quasi trascurata dal poeta) dentro una
stessa brevissima frase. E deve poi compiere l'immagine che è solamente
accennata, con quell'aridus fragor. (Questa interpretazione [2056]ch'io
do al detto passo, non so se sia vera. V. i comment. A me basta che
quest'esempio spieghi a me stesso il mio pensiero.) Ecco come la soppressione
stessa di parole, di frasi, di concetti, riesca bellezza, perchè obbliga
l'anima piacevolmente all'azione, e non la lascia in ozio. ec. ec. Tali
qualità nello stile possono facilmente essere eccessive come nel
seicento. Allora l'anima non vi prova gusto, almeno non in tutti i tempi, e
nazioni ec. ec. giacchè l'eccesso, come il difetto, in questo e in
tutt'altro, è relativo.
Tali stili, che ho detto bastare alle volte
senz'altro a fare un poeta, sono poi così difficili a distinguersi dalle
cose, che non facilmente potrete dire, se il tal pezzo scritto in simile stile,
sia poetico pel solo stile, o per le cose ancora. Del resto è evidente
che detti stili domandano vivacità d'immaginazione ec. ec. nel poeta (e
nel lettore ancora), e quindi disposizioni poetiche: e se vorremo sottilmente
guardare, poche pochissime parti troveremo nelle più poetiche poesie,
che detratte queste e simili qualità dello stile in [2057]cui
sono scritte, restino ancora poetiche. L'immaginazione in gran parte non si
diversifica dalla ragione, che pel solo stile, o modo, dicendo le stesse cose.
Ma queste cose la ragione non le saprebbe nè potrebbe mai dir
così; e solo il poeta vero le esprime in tal modo.
(5. Nov. 1821.)
La poca libertà e la somma
determinazione e precisazione del carattere e della forma della lingua latina
che può parere strana
La lingua latina, riconosciuta per buona,
legittima, e propria della letteratura, non fu mai, sinch'ella si mantenne
nella sua primitiva forma, e quando ella fu applicata alla [2058]letteratura,
altro che la romana, cioè quella di una sola città. Or quando
l'arbitra della lingua è una sola città, per vasta, popolosa, e
abitata o frequentata ch'ella sia da diversissime qualità di popolo, e
di nazioni, la lingua prende sempre una indole determinata, circoscritta,
ristretta a limiti più o meno estesi, ma che sempre son limiti certi e
riconosciuti; la lingua si uniforma, si equilibra, per tutti i versi, e perde
necessariamente quel carattere di notabile e decisa libertà ch'è
proprio delle lingue antiche formate o no, e di tutte le lingue non ancora o
non bene formate. La formazione di una lingua e di una letteratura, in tal circostanza,
introduce sempre in esse una grande uniformità; siccome accade in
Francia, dove Parigi, ch'è pur il centro di tutta la vasta nazione, e
sì frequentata da forestieri d'ogni parte d'Europa, essendo però
l'arbitra siccome de' costumi, così della lingua e della letteratura nazionale,
le dà quella uniformità [2059]medesima, quella
circoscrizione, quella limitazione, quella servitù che dà allo spirito,
e a tutte le altre parti della società, e che nè queste nè
quelle sicuramente avrebbero mai avute, senza la somma influenza di una vasta capitale
sull'intera nazione. V. p.2120.
In Roma il frequente e giornaliero uso
pubblico, e perciò colto, della lingua latina o romana, nel senato,
nelle concioni, nelle cose forensi, e la infinita e vivissima e strettissima
società ch'esisteva in quella città, massime pubblica, ma, specialmente
negli ultimi tempi della repubblica, anche privata, doveva necessariamente
esercitare, ed esercitava un'estrema e decisissima influenza sulla lingua, e
sulla letteratura. Ora dovunque la società e la lingua parlata esercita
una forte e irresistibile influenza sulla lingua scritta, e sulla letteratura,
(come accade in Francia) quivi l'una e l'altra indispensabilmente acquistano un
carattere di stretta uniformità, [2060]e quindi di coartazione,
di necessità, di poca libertà, un carattere intollerante di
novità individuali, e di decisa originalità.
La lingua greca a' suoi buoni tempi fu
anch'ella molto usata nel foro, nelle concioni, ne' consigli degli ottimati, ma
oltrechè le circostanze de' tempi, e lo spirito, era ben diverso da
quello de' tempi moderni, e di quei medesimi in cui fu formata la latina, e
perciò le stesse cagioni non producevano allora gli stessi effetti; la
lingua greca dovea necessariamente anche rispetto a questi usi esser tanto varia,
quanto moltiplici erano le repubbliche in cui la Grecia era divisa, e
moltiplici le patrie degli oratori. La Grecia era composta come di moltissimi
reggimenti, (giacchè ogni città era una repubblica) così
di moltissime lingue, e l'uso pubblico di queste non poteva nuocere alla
varietà nè introdurre l'uniformità e la schiavitù,
essendo esso stesso necessariamente vario, e non potendo essere uniforme. La
Grecia non aveva una capitale. Non aveva neppure [2061]molto stretto uso
di società, se non in Atene. E in Atene infatti per quel tal uso che
v'era di polita società, per innalzarsi quella città sopra le
altre in materia di gusto, di coltura, di arti, ec. la lingua greca fu
più formata, più stabilita, meno libera che altrove, nonostante
la diversità de' forestieri che accorrevano a quella città, la
sua situazione marittima, il suo commercio, la sua J. E quando
i gramatici cominciarono a ridurre ad arte la lingua greca, e quando nella
lingua greca si cominciò a sentire il non si può, e gli
scrupoli ec. tutto questo fu in relazione alla lingua attica. Ma i diversi
dialetti greci, tutti riconosciuti per legittimi, dopo essere stati adoperati o
interamente o in parte da grandi scrittori; lo stesso costume della lingua
attica notata da Senofonte; il carattere sostanziale finalmente [2062]della
lingua greca, già da tanto tempo formata ed anteriore assai alla
superiorità di Atene, preservarono la lingua greca dalla servitù.
Ed in quanto la lingua attica prevalse, in quanto i filologi incominciarono a
notare e a condannare negli scritti contemporanei quello che non era attico, in
tanto la lingua greca perdette senza fallo della sua libertà. Ma
ciò fu fatto assai lassamente, e mancò ben assai perchè i
più caldi fautori dell'atticismo, o gli stessi ateniesi (che si
servivano volentierissimo delle parole ec. forestiere, quando avevano bisogno,
e anche senza ciò) arrivassero alla superstizione, o alla minuta
tirannia de' nostri fautori del toscanismo. (Bisogna notare che il purismo
era appunto allora nascente nel mondo per la prima volta).
Le
discussioni parlamentarie, se hanno bastato in Inghilterra a dare alla lingua quelque
chose d'expressif (les débats parlementaires et l'énergie naturelle
à la nation ont donné à l'anglais quelque chose d'expressif qui
supplée à la prosodie de la langue. Staël, Allemagne. t.1. 2de
part. ch.9. p.246.) [2063]non hanno potuto bastare a
toglier la libertà alla lingua e letteratura di un popolo libero per
genio naturale, e che non ha punto di società, anzi non par fatto per
lei, nè per parlare, ma per tacere; e dove la società non ha
veruna influenza sulla letteratura, e poca sullo spirito pubblico, costumi ec.
V. p.2106.
La circostanza dell'Italia e della Germania
è appunto quella della Grecia in questo particolare (eccetto solamente
che i nostri vernacoli non sono stati parzialmente adoperati da buoni
scrittori, come quelli delle provincie o città greche). La Germania ne
profitta per la libertà della sua lingua. Noi non potremo, se prevarranno
coloro che ci vogliono ristringere al toscano, anzi al fiorentino. Cosa ridicola
che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città,
nessuna provincia sovrasta all'altra, si voglia introdurre questa tirannia [2064]nella
lingua, la quale essenzialmente non può sussistere senza una simile
uniformità di costumi ec. nella nazione, e senza la tirannia della
società, di cui l'Italia manca affatto. E che Firenze che non è
stata mai il centro dell'Italia (e che ora è inferiore a molte altre
città negli studi, scrittori ec. e fino nella cognizione della colta
favella) debba esserlo della lingua, e della letteratura. E che si voglia imporre
ad un paese privo non solo di vasta capitale, non solo di capitale qualunque, e
quindi di società una e conforme, e d'ogni norma e modello di essa, ma
privo affatto di società, una soggezione (in fatto di lingua ch'è
l'immagine d'ogni cosa umana) più scrupolosa di quella stessa che una
vastissima capitale, un deciso centro ed immagine e modello e tipo di tutta la
nazione, ed una strettissima e uniformissima società, impone alla lingua
e letteratura francese. (6. Nov. 1821.). Certo se v'è nazione in Europa [2065]colla
cui costituzione politica e morale e sociale convenga meno una tal soggezione
in fatto di lingua (e la lingua dipende in tutto dalle condizioni sociali ec.),
ell'è appunto l'Italia, che pur troppo, a differenza della Germania, non
è neppure una nazione, nè una patria.
(7. Nov. 1821.)
Le dette circostanze della lingua latina,
rendendola poco libera, siccome necessariamente accade a tutte le lingue
scritte, e letterature che sono strettamente influite dalla società, il
che le rende strette suddite dell'uso, come in Francia, dovevano render la
lingua latina scritta, e la letteratura, come la francese, facilissima a corrompersi,
ossia a degenerare, o perdere l'indole sua primitiva, o quella della sua
formazione; perocchè l'uso cambia continuamente, massime cambiandosi le
circostanze dei popoli, come accadde in Roma; e la lingua scritta, e letteratura
latina, dipendendo [2066]in tutto da quest'uso, doveva per
necessità cambiar presto di faccia, come ho predetto alla francese, e
l'evento della lingua e letteratura latina, conferma la mia predizione. E le
circostanze avendo portato che gli scrittori che succedettero al secolo di
Cicerone e di Augusto non fossero gran cosa, perciò noi (come quelli che
in quei tempi furono di buon gusto) chiamiamo questo cambiamento (per altro
inevitabile) della lingua e letteratura latina, corruzione, e molto più
quello, parimente inevitabile, che accadde, e venne continuamente accadendo ne'
successivi tempi. In somma la lingua latina scritta doveva per
necessità, cambiar di forma di secolo in secolo continuamente, e
così fece, ma siccome i secoli seguenti furono corrotti, e poveri o
scevri di buoni scrittori e letterati, (dico buoni per se stessi, come un
Cicerone o un Virgilio) perciò i cambiamenti ch'ella inevitabilmente
dovea soffrire e soffrì, si chiamano [2067]e furono corruzioni.
(7. Nov. 1821.)
Come la lingua così la letteratura
francese è schiava, e la più schiava di quante sono o furono
(qualità naturale in una letteratura d'indole moderna) e nemica o poco
adattabile all'originalità, e quindi alla vera poesia, e quindi anche
ella appena può dirsi letteratura, essendo serva dell'uso e della
società, non della sola immaginazione ec. come dovrebbe. Nè
poteva accadere che la lingua fosse schiava e la letteratura no, siccome non
poteva e non può in nessun luogo o tempo accadere viceversa. Dico la
letteratura, la quale sola, insieme coi costumi (parimente schiavi della
società, e dell'uniformità in Francia, e nemici di
originalità) segue o accompagna l'andamento della lingua, e ne ha tutte
le qualità; non la filosofia, la quale non è in questo caso in
Francia, nè per se stessa in verun luogo, poich'ella ha un [2068]tipo
e una ragione indipendente da ogni circostanza, cioè la verità,
incapace d'essere influita, e sempre libera ec. Così dico delle scienze
ec.
(7. Nov. 1821.)
Del resto le sopraddette considerazioni
provano che mentre la lingua francese, (come fu la latina) la letteratura, e i
costumi francesi, sono nemici della novità per natura, giacchè
escludono l'originalità, ed esigono l'uniformità, nondimeno, e
per ciò stesso, detta lingua (come la latina) letteratura e costumi,
sono più soggetti di qualunque altro alla novità, e mutabili fino
all'ultimo grado, come abbiam veduto nel fatto quanto alla lingua latina, e
come vediamo parimente in tutto ciò che spetta alla nazione francese, la
più mutabile delle esistenti, (nel carattere generale come
nell'individuale, e in questi come in tutto il resto) e continua maestra e
fonte di novità alle altre nazioni colte. Così che v'ha una
contraddizione essenziale nella natura di essa nazione, lingua, letteratura ec.
ossia un principio elementare che necessariamente produce due [2069]contrarii
effetti. Fonte inevitabile d'inconvenienti, di corruzione, d'istabilità
ec.
(7. Nov. 1821.)
Alla p.1126. marg. Quanto sia vero che il v
è stato sempre, per natura della pronunzia umana, almeno ne' nostri
climi, o considerato o confuso con una aspirazione, e questa lieve, si
può vedere nella lingua italiana che spesso lo ha tolto via affatto o
dalle parole derivate dal latino, o da altre. E in quelle stesse dove lo ha
conservato, la pronunzia volgare spessissimo lo sopprime, e spesso anche la
scrittura, come nella parola nativo dal latino nativus, che noi
scriviamo indifferentemente natìo, ed in molte altre simili,
latine o no, che o si scrivono indifferentemente in ambo i modi, o sempre senza
il v che prima avevano, come restìo, che certo da prima si
disse restivo, o restivus Giulio per giulivo, Poliz. l.1.
Stanza 6. v.4. Bevo, beo, bee ec. Devo deve, deo dee ec. V. le
gramatiche, e fra gli altri il Corticelli. Paone, pavone ec. Viceversa
il popolo molte volte in queste o altre [2070]voci, inserisce o aggiunge
comunque, quasi per vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due
vocali, per evitare l'iato, al modo appunto del digamma eolico ch'io
dico esser lo stesso che l'antico v latino. Del resto come i latini
dicevano audivi e audii ec. ec. così è solenne
proprietà della nostra lingua il poter togliere il v
agl'imperfetti della 2. 3. e 4. congiugazione e dire tanto udia, leggea,
vedea quanto udiva, leggeva, vedeva (cioè videbat ec.
essendo il b latino un v presso noi in tali casi, come lo era
spesso fra' latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli queste due lettere, e
ne' detti tempi e sempre si confondono.) Particolarità analoghe a queste
che ho notate nella lingua italiana, si possono anche notare nella francese e
più nella spagnola. Siccome l'analogia fra la f e il v si
può notare nel francese vedendo dal masc. vif farsi il fem. vive
ec. ec.
(7. Nov. 1821.)
[2071]Alla p.2052. fine. Dissertare,
exsertare, insertare, da dissertus, exsertus, insertus, di disserere,
exserere, inserere. Il nostro concertare, concerto ec. e il francese
e lo spagnolo non sembrano essere altro che un continuativo di conserere
(v. Forcell. in questa voce), detto da prima consertare. V. la Crusca in
consertare, conserto ec. ec. e i Diz. franc. e spagn. Giacchè non
pare che abbiano a far niente col latino puro concertare, da certare.
Il Gloss. non ha nulla nè di consertare, consertus ec. nè
di concertare, concertus ec. e non accade consultarlo. Il nostro disertare
ec. viene come altrove ho detto da desertus ec. Sembra anche che
esistesse un continuativo del semplice serere, cioè sertare.
Sertatus regali majestate ha Marziano Capella, e lo porta il Forcellini in sertatus,
che spiega coronatus, serto circumdatus; e sertare nel Gloss. si
spiega sertum imponere, coronare, quasi volessero dire che questo verbo
è formato dal sustantivo [2072]sertum, ovvero serta
orum, oppure da serta ae (de' quali v. il Forcell. l'Append. e il
Gloss.). Ma trovandosi questo verbo tanto nell'esempio portato dal Forc. quanto
in altro del Gloss. accompagnato con ablativo di cosa, non par che sia formato
da un sustantivo, ma ben da sertus participio di serere (sero,
is, ui, ertum.), e perciò sertatus sia d'altra natura che radiatus,
paludatus, togatus i quali propriamente non s'accompagnano ad ablativi di
cosa, ma stanno da se. Del resto sebbene non si trova che il participio sertatus,
e il Forcellini non porta che questo (il Gloss. però pone sertare),
io credo però che questo sertatus per le dette ragioni, indichi
un verbo, e sia cioè un participio. Sertare in senso di chiudere
è della bassa latinità, e lo porta pure il Gloss. ma non ha che
fare col nostro sertatus nè viene da serere, ma è
uno storpiato continuativo di serare il qual serare è
riconosciuto da Prisciano. (Forcell. in sero, is. fine).
(8. Nov. 1821.)
[2073]Escludere affatto la materia
dall'essenza di Dio, non è altro che togliergli una maniera di essere, e
quindi una perfezione dell'esistenza, vale a dire togliergli un'esistenza
completa, cioè in tutti i modi possibili, e crederlo incapace di esistere
materialmente, quasi ciò per se stesso fosse un'imperfezione; o che
quegli che esiste materialmente, non potesse anche esistere immaterialmente, e
dovesse per necessità esser limitato. Anzi sarebbe limitato quell'essere
che non esistesse nè potesse esistere materialmente, e quindi imperfetto,
cioè incompleto nella sua essenza, secondo l'unica idea che noi possiamo
formarci di una perfezione assoluta, la quale non può essere se non
un'essenza che abbracci tutti i possibili modi di essere. Ora la materia
è un modo di essere non solo possibile, ma reale, e tanto ch'è
l'unico modo reale che noi possiamo effettivamente conoscere, e distintamente
immaginare; nè solo noi, ma tutte le creature che noi distintamente [2074]ed
effettivamente possiamo conoscere, o conosciamo, non possono immaginare o
sentire altro modo di essere. Nè perchè Dio esistesse
materialmente, sarebbe materiale, ma abbraccierebbe anche la materia nella sua
essenza; il che è certo e convenuto anche fra' teologi, che riconoscono
in Dio il tipo, e l'idea, o la forma e la ragione antecedente di tutte le cose
possibili, e maniere di essere. Or come potrebbe l'essenza di Dio perfettamente
abbracciare e contenere la forma e il modo di essere della materia (unica forma
e modo che appartenga a tutto quel creato ed esistente che noi conosciamo) o di
qualunque altra natura possibile, s'egli non esistesse materialmente e in
qualunque altro modo possibile?
Le contraddizioni che noi vediamo fra questi
modi, le vediamo noi, ma, come spesso ho mostrato, non sono assolute ma
relative, e niente può impedire a Dio di esistere tutt'insieme in due o
più modi che a noi paiono contrarii ec. ec. ec. [2075]
(8. Nov. 1821.)
Molte volte riescono eleganti delle parole
corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre incorrotte
o meno corrotte, e meno popolari. Per es. commessi in vece di commisi,
potrà riuscire più elegante in una scrittura, benchè sia
una pura corruzione di commisi che viene direttamente dal commisi
latino. Ma questa corruzione sebben popolare, essendo antica, ed avendo cessato
oggi di essere in uso frequente, o presso il popolo, o presso gli scrittori, e
trovandosi ne' buoni scrittori antichi, essa riesce, in una scrittura, elegante
perchè fuori dell'ordinario, e più elegante di commisi
(ch'è incorrotto) perciò appunto che questo è in uso commune,
e che nell'uso la parola più antica, e non corrotta ha prevaluto alla
corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere
più antica e meno ordinaria della stessa antica. E quante volte le
eleganze non derivano e non sono altro [2076]che pure corruzioni di
voci, frasi ec. ec. ec. E chi perciò le condannasse, o stimasse
più eleganti le corrispondenti voci o frasi incorrotte, e più
regolari, più corrispondenti all'etimologia ec. non saprebbe che cosa
sia eleganza per sua natura. ec.
(9. Nov. 1821.)
Alla p.2052. fine. Da sponsus di spondere,
sponsare, e da desponsus di despondere, desponsare, (de'
quali v. Forcell. ed osserva la forza continuativa che hanno, e puoi anche ben
riferirli alla p.2033. fine, segg.).
(9. Nov. 1821.)
Alla p.1151. fine. Quassare di cui dice
Gellio, QUASSARE quam QUATERE, gravius violentiusque est, non
è altro che un continuativo di quatere dal suo participio quassus.
Il quale si trova bene spessissimo negli autori latini, ma da' gramatici
è riconosciuto piuttosto per nome aggettivo che per participio di quatere.
(Forse anche [2077]ameranno di chiamarlo contrazione di quassatus).
Non nego che infatti non si trovi usato in forma per lo più di
aggettivo, ma ciò accade nè più nè meno a innumerabili
altri evidentissimi participii passivi d'altri verbi. Ora che quassus in
origine sia puro participio di quatere, si farà chiaro dal verbo quassare
considerato secondo le osservazioni che noi abbiamo fatte circa la formazione
di tali verbi continuativi dal participio in us de' positivi; e si conferma
ancora dall'autorità di Festo il quale dice che concutere
è composto di con e quatere. Ora egli ha il suo participio
passato e questo fa concussus, (così excussus, incussus
ec.) e se concutere, è quanto dire conquatere, concussus
sarà come conquassus. (V. Forcell. in quatere principio, concutere
ecc.). Conquassare altro derivato compositivo di quatere, viene
dunque ad essere un continuativo di concutere ec. niente meno di quello
che succussare (onde succussator, succussatura ec. Ve. anche il
Du Cange) lo sia di succutere. Forcell. lo chiama frequentativo di succutere.
È verbo antico, co' suoi derivati; pur di questi se n'ha nel Gloss. e
noi pure volgarmente diciamo talvolta succussare.
(9. Nov. 1821.)
[2078]Alla p.1111. Il formare di
netto un verbo da una preposizione (o più d'una) ed un nome, è
proprio della lingua italiana (augnare, arrischiare, inceppare e mille
altri) simile anche in ciò alla greca (alla quale soprattutto è
familiare) proprio anche della spagnuola ec. ma non della latina nella quale
difficilmente troverete un verbo composto con preposizione o particella o
avverbio, il quale non derivi da un altro verbo semplice e spoglio di
preposizione, particella ec. Che se questo semplice talvolta non si trova,
esistè però anticamente, perchè tale è l'indole
della lingua latina, di formare i verbi composti, non da' nomi a dirittura, ma
da' verbi semplici, i quali bensì furono formati da nomi. Massimamente
poi sarà difficile che in latino (dico nel buon latino) troviate un
verbo composto e formato primitivamente di una preposizione o particella
ec. e di un nome sustantivo. Pernoctare che sarebbe di questo rarissimo
genere, indica, se non fallo, un antico noctare simile al greco . V.
p.2779. fine. Indigitare sarebbe altresì di questo genere, e così
irretire, ec. Difficilmente ancora formavano i latini un verbo composto [2079]di
uno o più nomi e di un verbo (come labefactare ec.) che fuori di
tal composizione e senza alcuna composizione, non esistesse ec. ec. ec.
(9. Nov. 1821.). V. p.2277.
Alla p.1154. marg. I nostri antichi hanno
anche un fremitare verbo italiano, formato però alla maniera
latina da fremitus o fremitum di fremere, (che noi anticamente
dicemmo pure fremire), e che si può molto verisimilmente credere
di più antica origine, benchè non si trovi negli autori latini
nè nel Glossario.
(12. Nov.
1821.)
Les
écrivains français ont besoin d'animer et de colorer leur style par toutes les
hardiesses qu'un sentiment naturel peut leur inspirer, tandis que les
Allemands, au contraire, gagnent à se restreindre. La réserve ne
sauroit détruire en eux l'originalité; ils ne courent risque de la perdre
que par l'excès même de l'abondance (De l'Allemagne. t.1. 2.
part. ch.9. p.244.) [2080]Ciò non vuol dir altro
se non che la lingua tedesca non è ancora abbastanza formata; e
perciò solo le sue ricchezze e facoltà non hanno limiti: tutto
ciò ch'è possibile in fatto di lingua, è possibile a lei,
e tutto ciò ch'è possibile a tutte le lingue insieme, ed a
ciascuna separatamente; ell'è come una pasta molle suscettibile d'ogni
figura, d'ogni impronta, e di cangiarla a piacere di chi la maneggia; simile
appunto al fanciullo prima dell'educazione, il quale è suscettibile
d'ogni sorta di caratteri e di facoltà, e non si può ancor dire
qual sia precisamente la sua indole, a quali facoltà la natura l'abbia
disposto, perciocchè la natura include in ciascun individuo delle disposizioni
maggiori o minori bensì, ma per qualunque indole e facoltà
possibile.
A queste considerazioni appartiene
ciò che l'autrice ha detto immediatamente prima. Les dialectes germaniques ont pour origine une langue mère, dans laquelle
ils puisent tous. Cette source commune renouvelle et multiplie [2081]les
expressions d'une facon toujours conforme au génie des peuples. Les nations
d'origine latine ne s'enrichissent pour ainsi dire que par l'extérieur; elles
doivent avoir recours aux langues mortes, aux richesses pétrifiées pur étendre
leur empire. Il est donc naturel que les innovations en fait de mots leur
plaisent moins qu' aux nations qui font sortir les rejetons d'une tige toujours
vivante. - La lingua madre delle teutoniche moderne, non è più
viva della latina. Ma la differenza è che la latina fu formata e
determinata, l'antica teutonica no. Quella visse ed è morta, questa non
è morta, perchè non è, si può dire, vissuta. La
forma certa della lingua latina influisce sempre più o meno sulle sue
figlie. Quando queste nacquero, benchè nuove, e non formate, contenevano
in se stesse un non so che di vecchio e di formato, e questo vecchio e questo formato
era morto. Quindi sempre un non so che di gêne nelle nostre
lingue, se si paragonano all'infinita libertà e potenza della tedesca e
della greca. La madre [2082]delle moderne teutoniche non essendo mai
stata formata, si può dire che appena sia madre; si può dire che
le sue figlie non sieno figlie, ma una continuazione di lei, una formazione e
determinazione di essa, che non avea mai ricevuto forma ec. Ella dunque ancor
vive; e le lingue moderne teutoniche derivano dall'antico senza interruzione,
senza una intermedia rinnovazione totale di forme, che pone quasi un muro di
separazione fra le lingue meridionali e le loro antiche sorgenti. La lingua
antica teutonica si presta dunque al moderno come si vuole; e la radice delle
sue figlie ancor vive, perch'ella non ebbe mai una tal forma che la
determinasse e circoscrivesse e attaccasse inseparabilmente al tempo suo, ad un
carattere di una tal età, all'indole antica ec. e la diversificasse
dalla lingua di un altro tempo, per derivata ch'ella fosse da lei, e simile a
lei, e debitrice a lei ec. L'ebbe bensì la latina, ed ella è
morta col carattere e le circostanze di quei tempi a' quali fu attaccata, ne'
quali ricevè piena forma, e determinazione. [2083]Non
l'ebbe la greca, ed ella perciò si rassomiglia sommamente alla tedesca,
ma solo per queste circostanze e qualità esteriori, non già per
le qualità intrinseche, le quali sono tanto diverse, quanto il carattere
meridionale dal settentrionale. E perciò sarebbe sciocco il credere che
il carattere della lingua tedesca somigliasse a quello della greca
sostanzialmente. Bisognerebbe veder tutte due queste lingue ben formate, e
allora la discrepanza dell'indole, sarebbe somma. Bensì, stante la detta
conformità esteriore, la lingua tedesca è adattabile a tutte le
qualità intrinseche e proprie della lingua greca; ma non senza perdere
la sua natura, il suo spirito e gusto nativo, la sua originalità. Lo
sarebbe nè più nè meno anche la greca rispetto alla
tedesca.
L'antico teutonico dunque non si può
diversificare dal moderno tedesco, nè considerar questo e quello come
due individui, ma come un solo, anticamente fanciullo, oggi adulto. Dove che
l'italiano p.e. e il latino sono due individui parimente maturi, e diversi
l'uno dall'altro. Tutto ciò non prova l'adattabilità e conformabilità
particolare della lingua tedesca, ma la conformabilità comune a tutte le
[2084]lingue non mai state formate, e la fecondità comune a tutte
le lingue la cui origine non si può fissare a cinque o sei secoli addietro,
come dell'italiana, ma si perde nella caligine dei tempi. Perciò la
lingua tedesca ha ancora e potrà avere, finchè non
riceverà perfetta forma, indole tanto moderna quanto antica, o piuttosto
nè l'una nè l'altra; a differenza dell'inglese che è pur
sua sorella carnale, ma che per diverse circostanze, ha ricevuto maggior forma
e determinazione, e proprietà. La lingua ebraica se oggi si continuasse
a scrivere, sarebbe nel caso della tedesca, e ci fu veramente negli scritti de'
rabbini, i quali sono veramente ebraici, sebbene tanto abbiano affare coll'antico
ebraico, quanto il tedesco coll'antico teutonico, il quale appena si conosce.
Laddove nè gli scritti latini de' bassi tempi, nè gl'italiani,
sono o furono latini perchè il latino ricevè una forma certa e
determinata, [2085]fuor della quale non v'è latinità. Ma
v'è sempre teutonicità ed ebraicità fuor dell'antico
teutonico ed ebraico, che non furono mai formati nè circoscritti, in
modo che si potesse dire, questa frase ec. non è teutonica. Così
proporzionatamente discorrete del greco, la cui libertà a differenza del
latino, nacque indubitatamente dalla differenza delle circostanze sociali e
politiche, e dalla molta maggior quantità di tempo in cui la lingua
greca fiorì per iscrittori ottimi e sommi, non come linguisti, ma come
scrittori.
(13. Nov.
1821.)
Il lui
reste encore (à l'Allemand) une sorte de roideur qui vient
peut-être de ce qu'on ne s'en est guère servi ni dans la société
ni en public. l. c. p.246.
(13.
Nov. 1821.)
L'Allemand
est en lui-même une langue aussi primitive et d'une construction presque
aussi savante que le grec. [2086]Ceux qui ont fait des recherches sur
les grandes familles des peuples, ont cru trouver les raisons historiques de
cette ressemblance: toujours est-il vrai qu'on remarque dans l'allemand un
rapport grammatical avec le grec; il en a la difficulté sans en avoir le
charme; car la multitude des consonnes dont les mots sont composés les rendent
plus bruyants que sonores. On diroit que ces mots sont par eux-mêmes plus
forts que ce qu'ils expriment, et cela donne souvent une monotonie d'énergie au
style... J. J. Rousseau a dit que les langues du Midi étoient filles de
la joie, et les langues du Nord, du besoin... L'allemand est plus philosophique
de beaucoup que l'italien, plus poétique par sa hardiesse que le français, plus
favorable au rhythme des vers que l'anglais: mais il lui reste encore ec. V. la
pag. qui dietro.
[2087]La simplicité
grammaticale est un des grands avantages des langues modernes: cette
simplicité, fondée sur des principes de logique communs à toutes les nations,
rend très facile de s'entendre; une étude très-légère
suffit pour apprendre l'italien et l'anglais; mais c'est une science que
l'allemand. La période allemande entoure la pensée comme des serres qui ouvrent
et se referment pour la saisir. Une construction de phrases à peu
près telle qu'elle existe chez les anciens s'y est introduite
plus facilement que dans aucun autre dialecte européen; mais les inversions ne
conviennent guère aux langues modernes ec. e segue riprendendo il troppo
uso delle inversioni nel tedesco. l. c. p.2457.
Una lingua somigliante per indole alle
antiche, e somigliante in particolare alla greca, siccome è la tedesca,
è pure éminemment [2088](come dice la Staël in altro
luogo) propria alla filosofia. La lingua tedesca non ha indole antica, se non
perch'ella non è ancora abbastanza formata, per aver presa un'indole
decisamente propria del tempo in cui ella è scritta; e perciò
solo ella ha quel vago, e quel libero, e quel vario ch'è proprio delle
lingue antiche. Per acquistare indole moderna, una lingua ancorchè
moderna, ha bisogno di molto maggior coltura, uso, arte, cospirazione di
scrittori e di mezzi, che non ne avevano le lingue antiche per acquistare una
forma propria del tempo loro, o le lingue moderne per acquistare una forma
antica. Giacchè la forma antica era molto più vaga e
indeterminata della moderna, e poco bastava a proccurarla e stabilirla.
Ma prescindendo da ciò, quest'esempio
di fatto prova e conferma quello che in diversi luoghi ho detto: 1. che [2089]le
lingue d'indole antica sono capacissime della più sottile filosofia, e
di esprimere ogni più riposta ed elementare idea umana; 2. che la lingua
greca (simile alla tedesca) lo fu, e lo sarebbe anche oggi se vivesse, ed avrebbe
potuto servire ai nostri tempi molto meglio della latina se ec. ec. ec. 3. che
la lingua italiana essendo fra le lingue moderne formate la più antica
di fatto e d'indole, la più libera ec. (tanto ch'ella vince in queste
qualità la stessa latina sua madre) è sommamente capace di filosofia,
per astrusa che possa essere, quando coloro che l'adoprano, sappiano conoscere
e impiegare le sue qualità, e le immense sue forze, e le forme di cui
è suscettibile per sua natura, e volerla applicare alle cose moderne ec.
(14. Nov.
1821.)
Il est
très-facile d'écrire dans [2090]cette langue (tedesca) avec la
simplicité de la grammaire française, tandis qu'il est impossible en français
d'adopter la période allemande, et qu'ainsi donc il faut la considérer comme un
moyen de plus. l. c. p.247.
Ciò non accade se non perchè
il tedesco non è ben formato, non ha indole nè costruzione ec.
decisa, e decisamente propria. (E come altrimenti se en
Allemagne, il n'y a de goût fixe sur rien, tout est indépendant, tout est
individuel. L'on juge d'un ouvrage par l'impression qu'on en reçoit, et jamais
par les règles, puisqu'il n'y en a point de généralement admises: chaque
auteur est libre de se créer une sphère nouvelle. 2de
part. ch.1. p.186. Qual è la nazione e la letteratura, tale la
lingua, e viceversa. Non formata quella, non formata, non ben regolata, non determinata,
non [2091]circoscritta questa.) Il greco infatti sarebbe stato capacissimo
del periodo latino, e d'ogni qualità latina (come si vide cogli effetti,
secondo che dico altrove): non così viceversa, perchè il latino
era pienamente formato, e così la letteratura latina, stante le
circostanze sociali e politiche della nazione. L'italiano è così
facilmente e pienamente adattabile al periodo ec. francese, come pur troppo
vediamo, ma non senza perdere la sua originalità, e il gusto proprio e naturale
della nazione che lo parla. E questo appunto è il caso del tedesco,
quando si adatta al francese, (e se non lo è, ciò appunto vuol
dire che il tedesco non è ancora formato) questo il caso del greco
quando in certo modo si adattò al latino, ec. Quest'adattabilità
insomma non è diversa dalla corruttibilità, e l'atto di essa, non
è diverso dalla corruzione. (Ma la corruzione vien dopo il perfezionamento,
e se un tal atto non par corruzione nel tedesco, ciò vuol dire ch'egli
non è ancora perfetto, nè in grado di manifestare una corruzione
ec.)
La lingua francese inadattabile affatto al
periodo o a qualunque altra proprietà italiana, siccome di qualunque
altra [2092]lingua, pare che non sia soggetta a corruzione veruna che
venga da gusto ec. ec. straniero. (E tal è pure il caso della loro
letteratura, costumi ec.) Così è infatti per una parte, ma per
l'altra 1. ogni volta che per qualche possibilissima circostanza politica o
qualunque, ella fosse forzata ad adattarsi o transigere con qualche cosa o
qualità straniera, contraddicendo ciò dirittamente alla sua
natura, tutto l'intero edifizio della lingua francese rovinerebbe, ed essa
lingua non sarebbe più francese. 2. ho mostrato altrove com'ella sia
soggetta ad una corruzione inevitabile che nascerà, anzi si va senza
interruzione formando nello stesso seno di lei, e della sua nazione;
perchè questa come tutte le cose umane, ma essa soprattutto, è
variabilissima, laddove la lingua francese è invariabile. Ed è
certo che la lingua francese più che dallo straniero, dee temer la
corruzione dal nazionale, qual fu quella dell'italiano [2093]nel 600. e
possiamo anche dire nel 400.
(14.
Nov. 1821.)
En
examinant les ouvrages dont se compose la littérature allemande, on y retrouve,
suivant le génie de l'auteur, les traces de ces différentes cultures, comme on
voit dans les montagnes les couches des minéraux divers que les révolutions de
la terre y ont apportés. Le style change presque entièrement de nature
suivant l'écrivain, et les étrangers ont besoin de faire une nouvelle étude
à chaque livre nouveau qu'ils veulent comprendre. l. c. 2de
part. ch.3. p.201. fine.
(14. Nov. 1821.)
Che la lingua tedesca abbia più che
qualunque altra moderna conservato lo spirito, l'andamento ec. della teutonica,
cioè si rassomigli alla sua madre più di ogni altra lingua colta
europea, non deriva da altro se non da questo che nè la madre fu mai
nè la figlia è peranche interamente formata. [2094]Questo
fa che la lingua tedesca, essendo moderna, possa ancora decisamente
rassomigliarsi ad una lingua antica, e servendo alle cose moderne possa avere
ed abbia un'indole antica, qualità antiche, proprietà non proprie
di que' tempi ne' quali è adoperata. E questo pur fa vicendevolmente che
la lingua teutonica essendo antica possa pur contenere tanta disposizione che
basti alle cose moderne, perciocch'ella non fu mai circoscritta nè
determinata da nessuna forma completa datale da un uso stretto o di
società o di letteratura ch'ella non ebbe mai. (Bensì si
può credere che la lingua tedesca, quando sarà finita di formare
conserverà tanto della sua indole antica che la rassomigli alla greca, e
all'italiana in queste qualità esteriori, e ciò per la
conformità delle circostanze sociali e politiche ch'ella ha con queste
due lingue, e la differenza [2095]ch'ella ha con la latina e colla
francese rispetto alle dette circostanze ec.)
Molto tempo ci vuole perchè una
lingua riceva una forma completa, ed un'indole al tempo stesso decisamente
propria, e decisamente definita. La lingua tedesca non ha ancora compito questo
tempo, e le sue circostanze sociali e politiche e letterarie rallentano indicibilmente
i suoi progressi verso questo fine. Che uniformità trovare in una
lingua, dove ogni scrittore forma da se una scuola letteraria, dove (v. p.2090.
mezzo) dove non v'è centro nessuno 1. letterario, 2. sociale, 3. politico,
4. di opinione, 5. di gusti, 6. di costumi ec. ec.?
Molto tempo ci vuole perchè una
lingua riceva una forma decisamente propria del tempo in cui ella è
adoperata ec. La lingua francese avea già prodotto un Amyot e un
Montagne, nè peranche l'aveva, e non la ricevè propriamente che
sui principii del passato [2096]secolo. Quanti scrittori che ancora si
ammirano, o si ricordano o vedono ricordati con ammirazione avea prodotti la
lingua latina, che tuttavia non ebbe forma completa e propria del tempo ec. se
non da Cicerone?
Prima di questa forma, tutte le lingue sono
liberissime, onnipotenti, (anche quelle di nazioni o schiave, o riunite ad un
sol centro, e dipendenti da una stretta società ec. come lo era la
lingua francese prima di Luigi 14. la latina prima di Cicerone eppure ambedue
erano liberissime ec.) adattabili a quello che si voglia; tutte sono d'indole
antica, cioè d'indole indeterminata, e naturale, e insubordinata, che
questo è insomma il carattere antico nelle lingue, e in tutt'altro.
Tutte formandosi, perdono gran parte di queste qualità, le perdono
necessariamente, perchè altrimenti non sarebbero formate nè
uniformate, e ricevono un'impronta propria e speciale del tempo in cui
ottengono [2097]questa forma. Da quel punto in poi, e non da ciò
che tale o tal lingua era prima di quel punto, bisogna considerare le
proprietà di essa lingua, e giudicare del più o meno della sua
libertà, potenza, ardire, varietà, ricchezza,
adattabilità, pieghevolezza ec.
L'italiana ha già passato da lungo
tempo questo punto. La francese da qualche tempo meno. Ma ambedue l'hanno passato,
e qual sia il grado in cui bisogna considerarle isolatamente e rispettivamente,
quanto alle dette qualità, s'è detto molte volte. La tedesca non
l'ha ancora passato. Non c'è giudizio non c'è paragone da fare su
di lei in proposito di tali qualità, o di verun'altra, ma di queste
massimamente.
Io son certo che se la lingua russa e
polacca continuando ad esser coltivate, usciranno dal grado in cui sono, di
pure immagini [2098]della lingua e letteratura francese, (grado in cui
si trovò parimente la tedesca ne' principii del secolo passato, sin
verso la metà) e se cominceranno ad acquistare un'indole, e una forma
propria della nazione, e del tempo, e originale; son certo, dico,
che in questi principii di formazione, si dirà di esse lingue e
letterature, quello che oggi si dice della tedesca, che si trova appunto in
quest'epoca di formazione incominciata, e non compita, e difficile a compiere
per le sue circostanze nazionali. Così anche la lingua e letteratura Inglese
al tempo di Anna, sebben ella aveva già da molto tempo uno Shakespeare,
scrittore veramente nazionale. Si dirà cioè che la lingua russa e
polacca sono d'indole antica, rassomigliano moltissimo alle loro madri, sono
liberissime, pieghevolissime, varie, ricche, capaci d'ogni cosa, arditissime,
spesso oscurissime e irregolari, e non per tanto eleganti ec. Così delle
letterature.
Quando poi la loro formazione sarà [2099]compiuta,
stabilita, perfezionata, allora solo si potrà veramente giudicare delle
loro qualità; allora non so che cosa se ne dirà, ma posso
congetturarlo. Cioè, stante le circostanze politiche de' russi e
polacchi diversissime da quelle de' tedeschi, si può prevedere che
incominciata che sarà una effettiva formazione delle loro lingue e
letterature, questa (massime in Russia) progredirà più
rapidamente assai che non ha fatto in Germania, acquisterà più presto
una struttura e un'indole uniforme e determinata, e il carattere loro, quando
sarà finito di formare, riuscirà molto meno prossimo all'antico,
molto più moderno e contemporaneo, molto meno libero, potente,
pieghevole, molto più stretto da regole e circoscrizioni, molto
più debole, e non per tanto più grazioso forse, e meno ruvido ec.
ec. del tedesco; si accosterà insomma di nuovo al francese, più
assai che al tedesco; [2100]quanto comporterà la differenza che
passa tra il settentrionale e il meridionale; si accosterà soprattutto
all'inglese, quanto comporterà la differenza che passa tra un popolo
libero, e un governo assoluto.
Anche la lingua italiana quando si stava
formando, (sebbene anche poscia ha sortito un'indole liberissima) nondimeno
manifestava allora quell'eccessiva libertà, adattabilità,
onnipotenza ch'è propria di tutte le lingue in tal epoca. E parimente
andava soggetta a quei difetti che nascono da tali qualità; onde nello
stesso cinquecento, quando si stava perfezionando la lingua italiana, essa
rassomigliava nel Guicciardini al tedesco quanto all'oscurità e
confusione che deriva dall'abuso della potenza che avea la nostra lingua di
abbracciare con un solo periodo un'infinità di sentenze, [2101]di
concatenare insieme mille pensieri; di chiudere un ragionamento, un discorso
intero, un intero sistema o circuito d'idee, in un solo periodo.
(qualità che la Staël nota più volte e rimprovera nel tedesco).
Parimente si rassomigliava esteriormente al tedesco nell'abuso delle
inversioni, delle figure, di tutte le facoltà non logiche che può
possedere una lingua, e che la nostra infatti possedeva.
In tale stato, se avessimo discorso come i
tedeschi, avremmo forse creduto che la lingua nostra fosse attissima alle traduzioni.
Tutto l'opposto si credè nel 500. e si crede di quel tempo anche ora,
che si vedono le traduzioni allora fatte, ottime talvolta come opere, ma come
traduzioni non mai. Terminata di perfezionare la nostra lingua, e perdè
quei difetti, e divenne più atta alle traduzioni che mai fosse altra
lingua perfetta.
(15. Nov. 1821.)
[2102]Espressione degli occhi.
Perchè si ha cura fino ab antico di chiuder gli occhi ai morti?
Perchè con gli occhi aperti farebbero un certo orrore. E questo orrore
da che verrebbe? Non da altro che da un contrasto fra l'apparenza della vita, e
l'apparenza e la sostanza della morte. Dunque la significazione degli occhi
è tanta, ch'essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbero a dare
una sembianza di vita agli estinti. Egli è certo che la sede dell'anima
quanto all'esteriore, son gli occhi, e quell'animale o quell'uomo estinto, a
cui non si vedono gli occhi, facilmente si crede che non viva; ma finattanto
che gli occhi se gli vedono, si ha pena a credere che l'anima non alberghi in
essi, (quasi fossero inseparabili da lei), e il contrasto fra quest'apparenza,
questa specie di opinione, e la certezza del contrario, cagiona un raccapriccio,
massime trattandosi de' nostri simili, perchè ogni sensazione è
viva, ogni contrasto è notabile in tali soggetti (cioè morte del
nostro simile); eccetto [2103]il caso di abitudine formata a tali
sensazioni, ec.
(15 Nov. 1821.)
Le stesse circostanze sociali e politiche e
cronologiche che renderono la lingua latina tanto più determinata, e
meno libera della greca, e tanto più legata rispetto a questa, quanto
più perfetta rispetto alla medesima, resero ancora la letteratura latina
assai più determinata, perfetta, formata e raffinata della greca, e
forse di qualunque altra siasi mai vista, anche (senza dubbio) fra le moderne.
Ma queste medesime circostanze, e queste medesime perfezioni la resero (siccome
la lingua) assai meno originale e varia della greca. I latini scrittori furono
grandi per arte, i greci per natura, parlando di ambedue generalmente. I latini
ebbero un gusto certo, formato, ragionato, i greci più naturale che
acquisito, e però vario, e originale ec. Qual è la lingua tale
è sempre insomma la letteratura, e viceversa.
Sebbene il maggior numero de' grandi
scrittori greci, massimamente ne' migliori tempi della greca letteratura, fu Ateniese
(come da molti si è osservato, e in [2104]particolare da Velleio
sulla fine del primo), sebbene il secol d'oro detto di Pericle non appartenesse
che agli Ateniesi, ec. ec. nondimeno nè la lingua nè la letteratura
greca non fu mai ristretta a quei termini di unità, che definiscono, uniformano,
assoggettano, regolano una letteratura, o lingua e la rendono meno varia, libera,
originale ec. E questo perchè non v'ebbe in Atene, neppure in quei
tempi, tanto spirito di società giornaliera come in Roma, e
perchè gli stessi scrittori Ateniesi, e in quel secolo e poi, non si
restrinsero mai per nessun modo al solo dialetto Ateniese, o al solo gusto
Ateniese; anzi per lo contrario ec. E di più ciascuno scrittore
pensò e scrisse da se, e si formò da se una scuola, una lingua, uno
stile, una letteratura. ec. (V. la p.2090.) Senofonte detto l'ape attica,
e tipo di atticismo, fu esiliato come , visse
quasi sempre fuori d'Atene, viaggiò molto in [2105]Grecia in Asia
ec. (così anche Platone in Egitto, in Sicilia ec. così altri
grandi di que' tempi) e fuori d'Atene scrisse o tutte o quasi tutte le sue
opere.
(16. Nov. 1821.)
Alla p.1154. principio. Di questo cogitare
e della sua origine e significato frequentativo o continuativo (che secondo la
sua formazione può aver l'uno e l'altro valore) v. il Forcellini in Cogito
nel principio. Ed osserva ch'egli crede e dice traslato il senso di detto verbo
in questo luogo di Virg. 1. Georg. 461. seqq.
Denique,
quid vesper serus vehat, unde serenas
Ventus
agat nubes, quid cogitet humidus Auster,
Sol tibi
signa dabit.
(Forcell.
Cogito. in fine.) Ora io per lo contrario lo credo proprio e
primitivo, almeno in quanto cogitare viene da cogere nel
significato di raunare ec. L'interpretazione di Servio favorisce il
Forcellini, [2106]quella dell'Ascensio la mia.
(16. Nov. 1821.)
Alla p.1129. marg. fine. Se, come altrove ho
sospettato, il verbo pernoctare è formato da un semplice noctare,
questo pur viene da un monosillabo nox. Ed osservate che questa idea di notte
è altutto primitiva, siccome quella di dies che è pur
monosillabo secondo le osservazioni da me fatte. Così anche sol, vis
(onde virere, se vires non è che il plurale di vis
ec. ec.).
(16. Nov. 1821.)
Alla p.2063. Nondimeno sì l'uso
pubblico della lingua inglese parlata, sì l'unità della nazione,
hanno assai più determinata e uniformata la detta lingua, ed anche la
letteratura, di quello che sia la lingua e la letteratura tedesca. (Aggiungete
che la lingua inglese è parlata nel parlamento in modo in cui possa
essere scritta, dovendosi pubblicare le orazioni de' membri ec.) E intanto [2107]queste
circostanze non hanno bastato a togliere alla lingua e letteratura inglese uno
spirito di libertà di varietà ec. in quanto l'Inghilterra manca
di società privata; il carattere e l'abitudine e i costumi della nazione
son liberi; essendo il popolo inglese de' più liberi d'Europa, e l'individuo
godendo di somma indipendenza, essa nazione non è nè può
essere così strettamente una, come la francese ec.; e finalmente sebbene
l'Inghilterra ha una capitale anche più vasta della Francia, nondimeno
l'Inghilterra non è contenuta in Londra, come la Francia in Parigi, e
come già l'impero romano, e la nazion latina in Roma.
(16. Nov. 1821.)
Ho detto che l'uomo di gran sentimento
è soggetto a divenire insensibile più presto e più
fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di mediocre sensibilità.
Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte quelle parti,
generi ec. ne' quali il sentimento [2108]si divide e si esercita, come
la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che l'uomo di sentimento
è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade ch'egli
nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e che
tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca, e
un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo
dolore e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece
della vita. Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque
massima infelicità non è più capace di agitarlo fortemente,
e dall'eccessiva suscettibilità di essere eccessivamente turbato, passa
rapidamente alla qualità contraria, cioè ad un abito di quiete e
di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si
può [2109]dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in cui la
più gran disposizione naturale all'immaginazione alla
sensibilità, divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta,
o il più dotato di eloquenza che si possa immaginare, perde quasi
affatto e irrecuperabilmente queste qualità, e si rende incapace a poterle
più sperimentare o mettere in opera per qualunque circostanza. Il sentimento
è sempre vivo fino a questo tempo, anche in mezzo alla maggior
disperazione, e al più forte senso della nullità delle cose. Ma
dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo sensibile, ch'egli non
ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento e
l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta
è durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano
più o meno suscettibili [2110]d'infelicità viva per tutta
la vita, e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani,
come si vede negli uomini ordinarii tuttogiorno.
(17. Nov. 1821.)
Qualunque sensazione a cui l'animo umano non
attenda punto, non può assolutamente essere ricordata neppure il
momento dopo. La memoria non istà mai senza l'attenzione. Giornalmente
noi proviamo di tali sensazioni alle quali punto non attendiamo, e di queste
non possiamo mai ricordarci, sebbene la sensazione, quantunque non attesa,
l'abbiamo però realmente provata. Per es. quel romore che fa il pendolo
dell'oriuolo, senza che noi v'attendiamo punto, a causa dell'assuefazione. E
cento altre tali. Se l'attenzione è menoma, menoma è la memoria
in tutti i sensi. Per es. un discorso al quale non abbiamo badato quasi nulla,
sebben tutto l'abbiamo udito e compreso, volendo poi richiamarlo alla [2111]memoria,
stenteremo assai anche un sol momento dopo, (laddove un discorso assai
più lungo e complicato, al quale abbiamo ben atteso, o volontariamente,
o per forte impressione ch'esso ci abbia fatto, lo ricorderemo agevolmente
molto tempo dopo.) Se poi saremo riusciti a richiamarlo, in tutto o in parte,
ce ne ricorderemo di quindi innanzi agevolmente, per l'attenzione che avremo
posta nel richiamarlo. Insomma non si dà memoria senz'attenzione
(volontaria o involontaria che sia, come altrove ho distinto):
perciocchè la memoria è l'assuefazione dell'intelletto, e
l'intelletto non si assuefa senz'attendere, perchè senz'attendere
(più o meno) non opera. L'attenzione raddoppia o triplica la sensazione,
in modo che quella sensazione alla quale non abbiamo atteso, l'abbiamo provata
una sola volta, e perciò non vi ci siamo potuti assuefare, cioè
porla nella memoria; ma quella a cui abbiamo atteso, l'abbiamo provata e ripetuta
rapidamente e senz'avvedercene, nel nostro pensiero come due, tre, quattro
volte, secondo che l'attenzione è stata maggiore [2112]o minore,
(l'attenzione, dico, o l'impressione che sia) e quindi vi ci siamo assuefatti
più o meno, vi abbiamo più o meno accostumato l'animo,
cioè ce la siamo posta nella memoria (volendo o non volendo, cercatamente
o no) più o meno fortemente e durevolmente.
(17. Nov. 1821.)
Come anche le costruzioni, l'andamento, la
struttura ch'io chiamo naturale in una lingua, distinguendola dalla ragionevole,
logica, geometrica, abbia una proprietà universale, e sia da tutti
più o meno facilmente appresa (almeno dentro una stessa categoria di
nazioni e di tempi), e come per conseguenza la semplicissima e naturalissima
(sebbene perciò appunto figuratissima) struttura della lingua greca,
dovesse facilitare la di lei universalità; si può vedere in
questo, che le scritture le più facili in qualunque lingua per noi nuova
o poco nota, sono quasi sempre e generalmente [2113]le più
antiche e primitive, e quelle al cui tempo, la lingua o si veniva formando, e
non era ancor pienamente formata, o non peranche era incominciata a formare.
Così accade nello spagnuolo, così ne' trecentisti italiani (i
più facili scrittori nostri), così nella stessa oscurissima
lingua tedesca, i cui antichi romanzi (come di un certo romanzo del 13zo
sec. intitolato Nibelung, dice espressamente la Staël) sono anche oggi
assai più facili e chiari ad intendersi, che i libri moderni. Accade insomma
il contrario di quello che a prima vista parrebbe, cioè che una lingua
non formata, o non ben formata e regolata, e poco logica, sia più
facile della perfettamente formata, e logica. (Eccetto le minuzie degli
arcaismi, che abbisognano di Dizionario per intenderli ec. difficoltà
che per lo straniero apprentif è nulla, e non è sensibile
se non al nazionale ec. ec. Eccetto ancora certi ardiri propri della natura, e
diversi secondo l'indole delle nazioni delle lingue, e degl'individui in que'
tempi, i quali ardiri piuttosto affaticano, di quello che impediscano di
capire. V. p.2153.) Parimente infatti [2114]i più antichi
scrittori greci sono i più facili e chiari, perchè i più
semplici, e di costrutti e frasi le più naturali, e lo studioso che
intende benissimo Senofonte, Demostene, Isocrate ec. si maraviglia di non
intendere i sofisti, e Luciano, e Dion Cassio, e i padri greci, e altri tali; e
molto sbaglierebbe quel maestro che facesse incominciare i suoi scolari dagli
scrittori greci più moderni, credendo, come può parere a prima
giunta, che i più antichi, e più perfettamente greci, debbano
esser più difficili. Così pure accade nel latino, che i
più antichi sono i più facili, e di dizione più
somigliante di gran lunga alla greca, che tale fu infatti la letteratura latina
ne' suoi principii, e la lingua latina, anche prima della letteratura, e l'una
e l'altra indipendentemente ancora dall'imitazione e dallo studio degli
esemplari e letteratura greca. Son più facili gli antichi poeti latini,
che i prosatori del secol d'oro.
(18. Nov. 1821.)
Gli antichi pensatori Cristiani, S. Paolo, [2115]i
padri, e prima anche del Cristianesimo, i filosofi gentili, s'erano ben accorti
di una contraddizione fra le qualità dell'animo umano, di una lotta e
nemicizia evidente fra la ragione e la natura, di un impedimento essenziale ed
ingenito nell'uomo (qual era divenuto) alla felicità, e per conseguenza
di una degenerazione e corruzione dell'uomo, conosciuta e predicata anche nelle
antichissime mitologie.
Tutte queste autorità favoriscono dunque
il mio sistema, colla differenza che laddove coloro credevano corrotta e corruttrice
la natura, io credo la ragione; laddove essi l'uomo, io gli uomini; laddove
essi credevano sostanzialmente imperfetta cioè composta di elementi
contraddittorii l'opera di Dio, io credo tale l'opera dell'uomo, e a causa
della sola opera dell'uomo, credo non sostanzialmente, ma solo accidentalmente
imperfetta l'opera di Dio, e composta non di elementi contraddittorii, ma di
qualità acquisite ripugnanti [2116]alle naturali, o di
qualità naturali corrotte, ripugnanti fra loro, solo in quanto corrotte.
Insomma laddove essi vedevano un'immensa imperfezione nel sistema e nell'ordine
primitivo dell'uomo, io la vedo in questo sistema, in quanto e perchè
s'è allontanato dal primitivo; e laddove essi venivano a porre l'uomo
quasi fuori della natura, dove tutto è sì perfetto nel suo
genere; io ve lo ripongo, e dico ch'egli n'è fuori solamente
perchè ha abbandonato il suo essere primitivo. ec. ec.
Ognun vede come quella opinione sia assurda,
e questa verissima e necessaria, mentre però tutte due derivano da una
medesima osservazione di fatto, posta la quale, a me pare impossibile il
dedurne conseguenze diverse dalle mie, e molto più il dedurne delle
contrarie.
Del resto gli antichi e la massima parte de'
moderni (com'era naturalissimo) non hanno mai ben distinto quello ch'è ragione
da quello ch'è natura, quello ch'è primitivo dal puramente
acquisito, quelle qualità o disposizioni [2117]che sono in istato
naturale, da quelle che più non vi sono; hanno creduto mille volte, e
credono tuttogiorno, la ragione natura, gli effetti di quella, effetti di
questa, essenza l'accidente, necessario il casuale, naturale ciò che la
natura con mille ostacoli aveva impedito ec. ec. ec. Quindi non è maraviglia
se caddero e cadono in quell'assurdissimo scambio che ho detto, e se non
possono conciliare le qualità naturali dell'uomo con se stesse, (mentre
fra queste pongono le artifiziali, e le affatto contrarie alla natura, e ne
scartano le naturalissime) nè possono combinare le parti del sistema
umano, nè conciliare la natura umana, col sistema generale della natura,
e colle altre singole parti di esso.
(18. Nov. 1821.)
Alla p.1109. marg. principio. Da secutus
noi dovevamo far seguitare, e non secutare, perchè in seguire
che viene indubitatamente da sequi, noi facciamo nel participio non secuto,
ma seguito che altrettanto indubitatamente [2118]viene da secutus,
o seguutus, e quindi seguitare da seguito, e per
conseguenza da secutus.
(18. Nov. 1821.)
Piace l'essere spettatore di cose vigorose
ec. ec. non solo relative agli uomini ma comunque. Il tuono, la tempesta, la
grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni
sensazione viva porta seco nell'uomo una vena di piacere, quantunque ella sia
per se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva
un contadino, al quale un fiume vicino soleva recare grandi danni, dire che
nondimeno era un piacere la vista della piena, quando s'avanzava e
correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo strepito, e menandosi
davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini, benchè
brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella pittura,
nell'eloquenza ec.
(18. Nov. 1821.)
Alla p.2022. fine. L'errore de' Gramatici
ec. [2119]in ordine ai verbi formati dal participio in us di
altri verbi, col troncamento dell'us e la semplice aggiunta dell'are
nell'infinito, verbi ch'io chiamo continuativi, si è di non avere osservato
che questa tal formazione (ch'essi non potevano non conoscere, sebbene non so
se l'abbiano mai avvertita e specificata distintamente, e secondo le sue regole
e qualità) avesse una forza, e un fine, e un valore proprio, distinto,
speciale, assegnato, determinato, particolare. E l'aver creduto, ora che
fossero frequentativi come quelli in itare, senza veruna differenza,
quasi la diversità della formazione fra questi e quelli, fosse o
casuale, o arbitraria, o insomma di nessun conto; ora che fossero contratti, o
in qualunque modo derivati dai verbi in itare, e stessero insomma in
vece loro (onde tanto fosse ductare quanto ductitare, e
così di tutti gli altri verbi in solo are, che hanno per compagni
[2120]altri verbi analoghi in itare, e che questi e quelli si
usassero indifferentemente); ora che non ci fosse alcuna diversità
primitiva di valore e di qualità fra i verbi originarii, e quelli
formati colla sola giunta dell'are, dai loro participi in us
troncando l'us.
(18. Nov. 1821.)
Alla p.2059. Viceversa, dacchè le
circostanze politiche e sociali dell'imperio romano erano quali ho detto, da
che la capitale era così immensa, dacchè Roma il vero centro, la
vera immagine e tipo della nazione e dell'impero, e da che questo e quella
erano realmente contenuti in Roma, come la Francia in Parigi, non poteva accadere
se non come accadde, cioè che l'unica lingua latina, o dialetto riconosciuto,
letterato ec. fosse il Romano, come in Francia il Parigino, e che la lingua,
letteratura, costume, spirito, gusto della capitale, determinasse quello dell'impero,
e massime dell'Italia, come fa Parigi [2121]in Francia. Gli scrittori
latini per forestieri che fossero, in Roma si allevavano, e conversavano lungo
tempo, e quivi insomma imparavano a scriver latino. Quelli che non vivevano in
Roma, o che poco vi dimorarono, si allontanarono spessissimo dalla
proprietà latina, che non era se non Romana, scrissero in dialetto
più o meno diverso dal Romano, e oggi si chiamano barbari. Ciò
non fu, si può dire, se non se nei bassi tempi, cioè specialmente
dopo Costantino, quando Roma scemata di potenza e d'autorità ec. non fu
più il centro o l'immagine dell'impero. La degenerazione della lingua
latina che allora accadde si attribuisce ai tempi, ma si deve anche attribuire
ai luoghi, cioè alle circostanze che tolsero alla lingua latina
l'unità, togliendole il suo centro e modello ch'era Roma, e dividendola
in dialetti, e di romana facendola latina, e introducendo nella letteratura
latina, [2122]voci, forme, linguaggi non Romani.
(18. Nov. 1821.). V. qui sotto immediatamente.
L'Italia non ha capitale. Quindi il centro
della lingua italiana si considera Firenze, come già si considerò
la Sicilia. In tutte le monarchie la buona e vera lingua nazionale risiede
nella Capitale, (Parigi, Madrid, o Castiglia, Londra ec.) più o meno
notabilmente secondo la grandezza, l'influenza, la società di essa
capitale, e lo spirito e gli ordini politici e sociali della nazione.
Quando il centro della lingua non è
la capitale, il che non può essere se non quando capitale non
v'è, esso non può nè pretendere nè esercitare di
fatto una più che tanta nfluenza (quando anche le capitali n'esercitano
poca, se oca influenza hanno politica e sociale). Così accadde in recia.
Atene non esercitò nè pretese più che tanto impero sulla
lingua. In Germania nessun paese l'esercita o lo pretende.
[2123]Di più tale influenza,
qualunque sia o sia stata, non può essere che temporanea, dipendente
dalle circostanze, e soggetta a scemare, crescere, svanire, mutar di posto
nsieme con esse. Tale influenza non derivando dall'essere i capitale, nè
dall'influenza politica, non può derivare se on da quella influenza
sociale che è data da una maggioranza di coltura e letteratura, e che si
esercita mediante queste. Firenze e la Toscana ebbero infatti questa
maggioranza dal 300 al 500 (sebbene nel 500. non tanta, e però la loro
influenza sulla lingua fu allora effettivamente minore.) Oggi tanto è
lungi che l'abbiano, che, lasciando la lingua dove i toscani sono più
ignoranti che qualunque altro italiano (come furono in parte anche nel 500.),
secondo che apparisce da tuttociò che si stampa in quel paese (intendo
la lingua scritta), Firenze in letteratura sottostà a tutte le altre
metropoli e città [2124]colte d'Italia, eccetto forse Roma, e la
Toscana se non a tutte le provincie italiane, certo cede al Piemonte,
Lombardia, Veneziano, e non supera punto nè le Marche, nè il Napoletano.
La corruzione della barbarie straniera
è maggiore in Toscana tanto nelle scritture, quanto nella civil
conversazione che nel resto d'Italia anzi quivi è nel suo colmo, e la
riforma non v'ha quasi messo piede. Come dunque dovrà ella esser la
Capitana di questa riforma? Del resto non si può considerare se non la
superiorità o inferiorità nella lingua scritta e civile, sola che
spetti alla letteratura, sola che possa esser nazionale.
La preminenza dunque della letteratura, sola
causa che potesse dare a Firenze il primato sulla lingua, e che glielo desse in
effetto, è cessata, anzi convertita in inferiorità. (Appunto la
letteratura è in meschinissimo stato in Toscana, e indipendentemente
dalla lingua, lo stile, il gusto, le metafore, ogni qualità generale e
particolare dello stile è così barbaro negli stessi Accademici
della Crusca, che fa maraviglia, e non credo che abbia cosa simile in nessuna
più incolta parte d'Italia.) Tolta la causa, deve dunque cessare
l'effetto, come cessò per la Sicilia, che da prima si trovò nel
caso della Toscana, e per la Provenza, che da prima fu nel medesimo caso
rispetto alla Francia.
Il dire che Firenze o la Toscana debba anche
oggi considerarsi per centro ed arbitro della lingua italiana perciocchè
più secoli addietro fu preminente in letteratura, e che la sua
letteratura antica, le debba dare influenza sulla lingua nazionale moderna,
è lo stesso che dire che gl'italiani debbono scrivere in lingua antica [2125]e
morta, (giacchè la letteratura toscana è morta) e quelli che
seguono a considerar Firenze per arbitra della lingua italiana, e questa chiamano
ancora ostinatamente toscana, sono, e non possono essere che quegli stessi i
quali considerano e vogliono che la lingua italiana si consideri e s'adoperi
come morta.
La letteratura antica per grande ch'ella
sia, non basta alla lingua moderna. La lingua (massime dove non è
società) è sempre formata e determinata dalla letteratura: dico
sempre, cioè successivamente e in ciascun tempo: onde la lingua presente
essendo moderna dev'essere determinata non dalla letteratura antica,
cioè da quella che la determinò, ma da una che attualmente
la determini, cioè da una letteratura moderna. E quindi le
province e città d'Italia che oggi più delle altre fioriscono in
letteratura, hanno assai più diritto [2126]a determinar la lingua
italiana moderna, che la Toscana e Firenze. Giacchè questo diritto, ed
anche questa influenza di fatto, non la può dare in Italia (e nelle
nazioni senza capitale e senza società ec.) se non un'assoluta
preponderanza attuale in fatto di letteratura, unica determinatrice della
lingua, perchè unica cosa nazionale e generale in un paese senza
società, senza unità politica, nè d'altro genere. (19.
Nov. 1821.). Posto eziandio che il toscano fosse più bello e migliore
che l'italiano (come l'attico del greco comune), nondimeno gli scrittori
dovrebbero assolutamente appigliarsi a questo men bello, e lasciar quello,
giacchè non sono obbligati al più bello, ma al comune e
nazionale.
La gran libertà, varietà,
ricchezza della lingua greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca)
qualità proprie del loro carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove,
riconosce come una delle principali cause la circostanza contraria a quella che
produsse le qualità contrarie nella lingua latina e francese;
cioè la mancanza di capitale, di società nazionale, di
unità politica, e di un centro di costumi, opinioni, [2127]spirito,
letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero espressa
professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o
provincia d'Italia, e per lingua cortigiana l'Alighieri, dichiarandosi di
adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche
e governi d'Italia in que' tempi. Simile fu il caso d'Omero e della Grecia a'
suoi tempi e poi. Simile è quello dell'Italia anche oggi, e simile
è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev'essere assolutamente la
massima fondamentale d'ogni vero filosofo linguista italiano, come lo è
fra' tedeschi.
(19. Nov. 1821.)
Vien pure accagionato il Sig. Botta di
alcuni termini familiari, che parvero non comportabili dalla dignità
storica... Si mise in campo a sua discolpa l'osservazione, esser pregio
particolare della lingua italiana, l'adattarsi a tutti i tuoni, anche ne'
più [2128]gravi argomenti. Di fatti, chi ben guardi addentro la
materia, non è forse vero, che questo idioma non si formò
già nelle corti, bensì in una repubblica tempestosa, nella quale
esprimere l'energia de' sentimenti popolari, non già fornire occorreva
locuzioni temperate a gente placida, o simulata. Da questa impronta originaria
ricevette la lingua mentovata il privilegio d'essere per l'appunto in modo singolare
sì acconcia a descrivere rivoluzioni politiche. Pref. del Sig. L. di
Sevelinges alla sua traduzione della Storia ec. di C. Botta, in francese,
volgarizzata dal Cav. L. Rossi. Milano, Botta Storia ec. 1819. 3za
ediz. t.1. p. LXI-II.
La ragione qui accennata può servire
in parte a spiegare il perchè la lingua italiana scritta (dico la buona
e vera ed antica lingua) si sia poco divisa dalla parlata, a differenza della
latina, e a somiglianza della greca (p.e. in Demostene). Oltre le altre cagioni
da me notate sparsamente [2129]altrove, cioè la natura de' tempi
(natura antica) ne' quali la nostra lingua e letteratura fu formata; la poca
società civile, o conversazione d'Italia, il che dovea render la sua
lingua scritta similissima alla volgare, perchè questa sola esisteva
prima della scritta, questa sola le potè servire di origine e di
modello, questa sola coesiste anche oggi alla lingua scritta, a differenza di
ciò che accade in Francia, e a somiglianza di ciò che accadde in
Grecia (lo stile di una lingua ha tanto più del familiare e del popolare
quanto più la nazione scarseggia di società, ed esso stile
è quindi nella stessa proporzione più energico, vero, vario,
potente, ricco, bello); le ragioni che altrove ho addotte per provare che i
primitivi scrittori di una lingua qualunque hanno sempre del familiare nella
lingua, e per conseguenza nello stile ec.
(20. Nov. 1821.)
[2130]Solo che si esamini a fondo
la cosa, si scopre nelle scritture di quegli antichi che Italia a tanta gloria
levarono, una favella unica nella sua natura, ricca di facoltà
tutte sue proprie, favella osservabile per frasi, che han l'aria del clima
nativo, e non s'incontrano altrove; favella, per dirlo in breve, la quale
agevole per se ad una singolare varietà di suoni, meravigliosamente
s'acconcia ad ogni maniera d'argomento, dallo stile alto dell'epopea a quello
scendendo della narrazione più familiare. Inoltre eleganze, diremmo,
di getto; un fior di lingua del quale s'è fatto conserva in preziose raccolte,
e, dentro certi confini, nel vocabolario della Crusca. l. c. p. XLVI.
(20. Nov. 1821.)
Pare sproposito, e pure è certo che
una lingua è tanto più atta alla più squisita eleganza e
nobiltà del parlare il più elevato, e dello stile più
sublime, quanto la sua indole è più popolare, quanto ella
è più modellata sulla favella domestica e familiare [2131]e
volgare. Lo prova l'esempio della lingua greca e italiana e il contrario
esempio della Francese. La ragione è, che sola una tal lingua è
suscettibile di eleganza, la quale non deriva se non dall'uso peregrino e
ardito e figurato e non logico, delle parole e locuzioni. Ora quest'uso
è tutto proprio della favella popolare, proprio per natura, proprio in
tutti i climi e tempi, ma soprattutto ne' tempi antichi, o in quelle nazioni
che più tengono dell'antico, e ne' climi meridionali. Quindi è
che lo stesso esser popolare per indole, dà ad una lingua la facoltà
e la facilità di dividersi totalmente dal volgo e dalla favella parlata,
e di non esser popolare, e di variar tuono a piacer suo, e di essere energica,
nobile, sublime, ricca, bella, tenera ogni volta che le piace. Insomma l'indole
popolare di una lingua rinchiude tutte le qualità delle quali una lingua
umana possa esser capace (siccome la natura rinchiude tutte le qualità e
facoltà di cui l'uomo [2132]o il vivente è suscettibile,
ossia le disposizioni a tutte le facoltà possibili); rinchiude il
poetico come il logico e il matematico ec. (siccome la natura rinchiude la
ragione): laddove una lingua d'indole modellata sulla conversazione civile, o sopra
qualunque gusto, andamento ec. linguaggio ec. di convenzione, non rinchiude se
non quel tale linguaggio e non più (siccome la ragione non rinchiude la
natura, nè vi dispone l'uomo, anzi la esclude precisamente), secondo che
vediamo infatti nella lingua latina, e molto più nella francese,
proporzionatamente alle circostanze che asservissent e legano quest'ultima
al suo modello ec. molto più che la latina ec.
(20. Nov. 1821.)
La facoltà inventiva è una
delle ordinarie, e principali, e caratteristiche qualità e parti
dell'immaginazione. Or questa facoltà appunto è quella che fa i
grandi filosofi, e i grandi scopritori delle grandi verità. E si
può dire che da una stessa sorgente, [2133]da una stessa
qualità dell'animo, diversamente applicata, e diversamente modificata e
determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di Omero e di
Dante, e i Principii matematici della filosofia naturale di Newton.
Semplicissimo è il sistema e l'ordine della macchina umana in natura,
pochissime le molle, e gli ordigni di essa, e i principii che la compongono, ma
noi discorrendo dagli effetti che sono infiniti e infinitamente variabili
secondo le circostanze, le assuefazioni, e gli accidenti, moltiplichiamo
gli elementi, le parti, le forze del nostro sistema, e dividiamo, e
distinguiamo, e suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono
realmente unici e indivisibili, benchè producano e possano sempre
produrre non solo nuovi, non solo diversi, ma dirittamente contrarii effetti.
L'immaginazione per tanto è la sorgente della ragione, come del sentimento,
delle [2134]passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo
essere un principio, una qualità distinta e determinata dell'animo
umano, o non esiste, o non è che una cosa stessa, una stessa disposizione
con cento altre che noi ne distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che
si chiama riflessione o facoltà di riflettere, con quella che si chiama
intelletto ec. Immaginazione e intelletto è tutt'uno. L'intelletto
acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le
circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello stesso modo,
ciò che si chiama riflessione ec. ec.
(20. Nov. 1821.)
La perfezion della traduzione consiste in
questo, che l'autore tradotto, non sia p.e. greco in italiano, greco o francese
in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in
francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in [2135]tutte
le lingue è possibile. In francese è impossibile, tanto il
tradurre in modo che p.e. un autore italiano resti italiano in francese, quanto
in modo che Egli sia tale in francese qual è in italiano. In tedesco
è facile il tradurre in modo che l'autore sia greco, latino italiano
francese in tedesco, ma non in modo ch'egli sia tale in tedesco qual è
nella sua lingua. Egli non può esser mai tale nella lingua della
traduzione, s'egli resta greco, francese ec. Ed allora la traduzione per esatta
che sia, non è traduzione, perchè l'autore non è quello,
cioè non pare p.e. ai tedeschi quale nè più nè meno
parve ai greci, o pare ai francesi, e non produce di gran lunga nei lettori
tedeschi quel medesimo effetto che produce l'originale nei lettori francesi ec.
Questa è la facoltà appunto
della lingua italiana, e lo sarebbe stata della greca. Per questo io preferisco
l'italiana a tutte [2136]le viventi in fatto di traduzioni.
Quello che dico degli autori dico degli
stili, dei modi, dei linguaggi, dei costumi, della conversazione. La
conversazione francese si dee tradurre nell'italiano parlato o scritto, in modo
che ella non sia francese in italiano, ma tale in italiano qual è in
francese; tale il linguaggio della conversazione in italiano, qual è in
francese, e non però francese.
(21. Nov. 1821.)
Alla p.1120. fine. Il verbo aptare
onde il nostro attare, adattare, e il francese ec. da che cosa deriva?
da aptus. E questo che cosa crediamo noi che sia? un participio del
verbo antichissimo apere. E quale il significato primitivo di aptare?
quello appunto del verbo apere, cioè legare. È cosa
veramente maravigliosa che questo significato ignoto a tutta la latinità
scritta che noi conosciamo, questo significato, dico, del verbo aptare,
cioè legare, significato ch'egli ha preso da un verbo [2137]originario
apere, del quale non si trova più fatto uso in nessuno scrittore
latino per antichissimo che sia; questo significato, dico, così
decisamente, e singolarmente antico e primitivo, comparisca in uno scrittore di
bassa latinità qual è Ammiano, (v. il Forcell. in Aptatus
fine), e si veda poi tuttora vivo, fiorente, preciso, e assolutamente proprio
in una lingua nata dalla corruzione della latina, cioè la spagnuola, nel
verbo atar (da aptare, come escritura da scriptura
ec.) cioè legare, e desatar cioè sciogliere.
Significato appunto proprio del greco . V. il
Forcell. in Aptus, in Apte, in Apo, in Apex, ed
anche nell'ult. esempio di Adaptatus. Ho cercato l'Append. e il Gloss.
in tutti questi luoghi, e in Atare, Attare ec. ma non hanno nulla. V.
anche il Forcell. in Coapt-, dove nulla il Gloss. nè l'Appendice.
Chi avesse qualche dubbio intorno a quelle testimonianze de' gramatici su cui
si fonda [2138]la cognizione che abbiamo dell'antichissimo apere,
e del significato legare di aptare, deve deporre ogni dubbio, a
vista dello spagnuolo atar, osservazione trionfante, e veramente
preziosa anche per la ricerca dell'antico volgare latino e delle sue vicende.
Da ciò possiamo dedurre, 1. che molti
verbi, specialmente in tare, i quali si credono formati da nomi
adiettivi, derivano in realtà da participii, cioè essi nomi non
sono che participii d'antichissimi verbi ignoti. Così forse sarà
di quel putus, da cui secondo Varrone ec. viene putare, ed
è una differente pronunzia di purus. Così di laxus
(onde laxare) di cui dice Forc. De notatione (etymologia) nihil
certi habemus. Così abbiamo veduto di convexus ec.
discorrendo di vexare. Così diremo di spissus onde spissare.
Così vedemmo di arctus in arctare. Così forse
sarà di humectus onde humectare. V. Forc. V. p.2291. e
2341. capoverso 2. V. Forc. Cautus, principio. Di arctus v.
p.1144. di quietus 1992.
2. Noi troviamo apere, ed aptus
come si vede in una infinità di es. nel Forcell. è un evidente
participio di un verbo significante alligare connectere ec. Questo medesimo
participio non è primitivo, ma contratto (forse da apitus) come
ho mostrato altrove. Da questo [2139]particicipio ridotto ad aptus,
è venuto il verbo aptare, secondo gl'infiniti esempi che ho
addotti, e nella maniera e andamento che ho dimostrato circa la formazione de'
verbi in are da' participi in us di altri verbi.
Ora i greci nello stesso primitivo
significato di apere e di aptare, dicono ,
cioè insomma aptare col solo divario della desinenza. Il Vossio
nell'Etimologico deriva apo da . (E
Servio aptus da J).
Concederei se i greci dicessero . Ma dicono
e questo
verbo per la forma (come pel significato primitivo) è tutt'uno, non con apo
ma con apto. Ora se questo apto deriva evidentemente, e non senza
andirivieni da apo, sembra che quindi debba pur derivare il greco (e non apto
dal greco), e per conseguenza che il verbo greco derivi dal latino apto,
ed abbia un'origine comune col latino, cioè apo, e che questa
origine sia latina, non [2140]greca. Giacchè non possiamo
supporre un greco, donde
sia derivato il greco , e il
latino apo, perchè oltre che di questo non si ha vestigio alcuno,
non ne sarebbe derivato , non
avendo i greci nè participio in us, nè formazione di verbi
da questi participii, come l'hanno i latini, che perciò da aptus
participio di apo fecero apto. Se dunque il latino apo
è anteriore al latino apto (e anteriore di molto, giacchè
il suo vecchio participio apitus, dovè prima, come abbiamo
veduto, convertirsi in aptus, e poi generare il verbo aptare); e
se il greco è
manifestamente tutt'uno con apto, per senso e per materiali elementi,
sembra necessario che apo sia parimente anteriore al greco , e che
questo, come apto, derivi da apo, il quale essendo latino, viene
esso verbo greco ad avere un'origine latina. Aggiungete che ha lo
spirito denso, di cui nel lat. apto non è verun vestigio, contro
ciò che suole accadere nelle voci venute dalla Grecia al Lazio, onde si
può credere che quello spirito non sia qui che una giunta fattaci da'
greci, una grazia di pronunzia data da essi a questa voce forestiera, secondo
l'indole de' loro organi e costumi ec.
Questa osservazione mi pare [2141]interessantissima
e conducente a grandi risultati, (e in gran parte nuovi e contrari alle comuni
opinioni) circa la storia delle origini latine e greche, delle lingue e delle
nazioni greca e latina. Quest'osservazione può confermare la sentenza
che la lingua latina non sia figlia ma sorella della greca, sentenza già
d'altronde troppo più probabile: può dimostrare un antichissimo
commercio tra la Grecia e l'Italia, anteriore alle notizie che si hanno di
questi due paesi, e loro scambievoli relazioni; giacchè questo in detto
senso è antichissimo verbo greco, e massime ne' suoi derivati (come vinculum, nell'Iliade)
e composti, si trova nel detto senso, o ne' sensi analoghi, usato da Omero, da
Erodoto, e da' più antichi scrittori e monumenti greci. V. p.2277.
Nè questa osservazione sarebbe
l'unica che facesse al proposito, ma si potrebbero addurre molti altri esempi,
e osservazioni, dimostranti [2142]l'origine latina (o italica) di parole
frasi ec. antichissime, che per esser comuni al greco e al latino, si sono
credute finora d'origine greca; quasi tanto fosse il trovare nel greco una
parola ec. corrispondente a un'altra latina, e il trovare l'origine e
l'etimologia d'essa voce latina. Le mie teorie circa la formazione de' verbi continuativi,
formazione tutta propria del latino, e fino ab antichissimo, e di quindi in poi
sino all'ultimo tempo, e niente propria del greco, possono somministrare molte
occasioni di rettificare questi scambi, e trasferire l'origine di molte parole
dalla Grecia al Lazio, viceversa di ciò che si crede.
Io ho per es. fatto vedere che il verbo lat.
stare, è verisimilissimamente un puro continuativo di esse,
formato nè più nè meno colle solite regole di tali formazioni.
Ora l'antichissima Grecia ebbe indubitatamente il verbo o ch'è il tema del
verbo , e
moltissime voci del quale si conservano in quest'ultimo. Nè pare ch'esso
abbia che fare col verbo sostantivo nè
questo [2143]ha altri participii che ed ,
nè quando pure ne avesse, o ne avesse avuto alcuno analogo al suono del
verbo , questo
sarebbe derivato da esso participio, non avendo i greci tal uso di formazioni,
come lo hanno i latini. Quindi si può congetturare che il greco sia
derivato dallo sto latino (il quale viene, come io dico, da uno stus
o situs di esse), e non questo da quello, come dicono tutti. Il
latino sisto è parimente lo stesso che , o (che pur
si dice, in vece d', ed
è il medesimo verbo) ed ha tutti due i significati di questo verbo
cioè il neutro corrispondente a stare, e l'attivo corrispondente
a statuere, o a retinere ec. I quali due significati pare che
fossero egualmente propri di , che noi
deriviamo qui dal latino sto. Del resto sisto ha la s in
luogo dello spirito denso di ; qual [2144]però
de' due sia anteriore all'altro, se il greco o il lat. questo non si può
decidere, giacchè tutti due sono assolutamente una sola cosa, tanto essendo
la s in latino (antico) quanto lo spirito denso in greco (che
anticamente usava esso stesso il in luogo
d'esso spirito.). Onde i greci antichissimi avranno anch'essi scritto o detto . E quando
anche si voglia derivare sisto da ,
ciò non prova che il suo tema non venga
dal latino, giacchè i greci (come tutti fanno, ma essi soprattutti, per
le loro circostanze, colonie, diffusione, varietà di dialetti ec.)
variarono in mille guise i temi ricevuti antichissimamente da qualunque parte
si fosse; li variarono in se stessi, e ne' loro derivati e composti, (come
anche dissero con una
lettera più di sto, sebbene per contrazione l'usarono più
comunemente nella forma analoga a ); e
poterono facilissimamente restituire all'Italia, sotto forma alquanto diversa
un tema preso da essa, cioè il verbo sisto fatto da derivato [2145]o
alterato da , preso
dallo sto latino. Ciò potè accadere nelle più
recenti, o meno antiche ed oscure relazioni, che in tempi per altro essi stessi
antichissimi ebbe la Grecia coll'Italia (come sappiamo) e la lingua greca
già, se non altro, adulta, colla latina per anche rozza, o decaduta
da qualche antichissima perfezione, com'è più verisimile.
Dico da una perfezione e forma diversa da quella che poi ricevè a' tempi
romani; da una perfezione derivante o comune colla lingua madre di lei e della
greca, o sia colla lingua di quel popolo che diramò i suoi coloni in
Grecia e in Italia. (22. Nov. 1821.).
Or quanto è egli ordinario nell'uso e
di natura elementare nel discorso, e di significazione naturalmente occorrente
il verbo stare, e l' o , ed e il
verbo sistere ec.! Per conseguenza fa duopo ch'egli sia (come già
vediamo) antichissimamente proprio di ambedue le lingue, o antichissimamente
passato dall'una nell'altra ec.
Alla p.1121. fine. Ho detto poco sopra
p.2138. che forse molti verbi, massime in tare creduti derivati da nomi
aggettivi in us, verranno da participii di verbi ignoti. Similmente io
credo che molti di quei verbi, massime in tare, che si stimano derivati
da [2146]nomi sustantivi verbali in us us, o in us i, non
derivino in realtà che da participii in us d'altri verbi ignoti,
da' quali parimente io credo derivati essi verbali. (V. la p.2009 10. e 2019.).
Osservo in primo luogo che tali verbali non
sono infatti altro che participii in us (de' verbi a' quali per
significato ec. appartengono) sostantivati, e ridotti talvolta alla quarta
congiugazione, talvolta lasciati anche nella seconda, come jussum i
sostantivo. Ictus us non è che il participio Ictus di icere
sostantivato e ridotto alla 4. conjugazione. Potus us lo crederemmo
radice di potare se non si fosse conservato il participio potus,
ch'io credo essere l'origine dell'uno e dell'altro. ec. C'è anche potatus
us come gustatus us. Della differenza tra questi 2 generi di verbali
v. ciò che ho detto di potatio, compotatio ec. Così effectus
us, nutus us ec. ec. Delictum i con cento altri spettano alla
categoria di jussum. Quando pertanto si trovano di tali verbali senza un
participio nè un verbo corrispondente, pare si debba credere che l'uno e
l'altro esistessero anticamente.
P. es. gustus us, e gustum i
non hanno verbo nè participio corrispondente. Crederemo [2147]che
gustare derivi da questo sustantivo ma io penso che venga da un participio
gustus da cui sia derivato lo stesso gustus sustantivo. E mi confermo
in questa opinione 1. per quello che ho detto p.2078. il che si può e si
deve estendere anche ai verbi non composti, almeno quanto all'inclinazione
naturale della lingua latina proporzionatamente però, e riguardo
soprattutto ai sustantivi giacchè molti verbi si trovano fatti dai nomi
aggettivi come durare ec. ec. Sulcare viene da un sustantivo; 2. per
quello che ho detto p.2010. 2019. dal che si vede che i verbi formati veramente
dai verbali in us us, o da altri nomi della 4ta, finiscono in
uare, come da fluctus us, fluctuare, onde se gustare
venisse da gustus, farebbe gustuare; 3 dall'osservare il greco , radice
di gusto as, o venuto da una radice comune. Nel qual verbo non
v'è segno di st, lettere radicali di gusto. Ciò mi
porta a pensare di un antico guo, participio gustus, continuativo
gustare (dove lo st dinota molto visibilmente [2148]un
participio originario in tus), verbale gustus us e um i.
(Infatti da , i latini
ebbero l'antico nuo, dal quale poi nutare. Le sole radicali
dunque in gustare, considerando il gr. si
trovano essere gu. Dico radicali primitive. Le altre denno esser venute
da qualche accidente della radice: e qual sia questo accidente, lo dichiarano
le mie osservazioni) Il qual verbale che non derivi punto da gustare si
vede per la regola sovraccennata circa la loro formazione da' participii in us.
Di gustare il participio è gustatus, il verbale non gustus,
ma gustatus us, che infatti si trova e non ha che fare con gustus.
Se dunque gustatus us ha il suo participio e verbo originario in gustatus
e gustare; il verbale gustus deve altresì aver avuta la
sua origine in un part. gustus di un verbo guo o simile, padre
d'esso verbale, e di gustare.
(22. Nov. 1821.)
Contrastare, contraster, contester,
contrester, francese contrastar spagnolo sono verbi, o anzi
un verbo ignoto alla buona latinità, ma comune ab antico e fin dall'origine
loro alle tre figlie della lingua latina; e formato 1. alla latina affatto, 2.
di due parole latinissime [2149]contra e stare, delle
quali l'una non esiste più nel francese ec. Questo che cosa denota se
non un'origine comune di esso verbo, anteriore alla diramazione delle tre
sorelle, cioè alla corruzione del latino, fatta ne' bassi tempi, la
quale non fu che parziale e diversa e indipendente nelle tre nazioni; (siccome
esse nazioni furono allora indipendenti ec. l'una dall'altra, e separate
politicamente ec.) e un'origine latina? Or questa che altro può essere
se non il volgare antico latino? V. il Ducange in Contrastare. E di
questo genere, e nelle medesime circostanze sono infinite parole, proprie ab
antico e primitivamente di tutte tre le nostre lingue sorelle.
(22. Nov. 1821.)
Alla p.1115. marg. O piuttosto il verbo mantare
indica chiaramente un antico participio mantus di manere,
contratto di manitus, il quale è tanto regolare participio di manere,
come monitus di monere. (docitus di docere ec.).
Ovvero mantare è contratto esso medesimo da manitare.
(23. Nov. 1821.)
[2150]Lo stile, e la lingua di
Cicerone non è mai tanto semplice quanto nel Timeo, perocch'egli
è tradotto dal greco di Platone. E pure Platone fra i greci del secol d'oro
è (se non vogliamo escludere Isocrate) senza controversia il più
elegante e lavorato di stile e di lingua, e il Timeo è delle sue opere
più astruse, e forse anche più lavorate, perch'esso principalmente
contiene il suo sistema filosofico. Platone il principe della raffinatezza
nella lingua e stile greco prosaico, riesce maravigliosamente semplice in
latino, e nelle mani di Cicerone, a fronte della lingua e stile originale degli
altri latini, e di esso Cicerone principe della raffinatezza nella prosa
latina. La maggiore raffinatezza ed eleganza dell'aureo tempo della letteratura
greca, riesce semplicità trasportata non già ne' tempi corrotti
ma nell'aureo della letteratura latina, e per opera del suo maggiore scrittore.
(23. Nov. 1821.)
A quello che ho detto altrove circa il modo
da tenersi nel consolare, aggiungete che in ultima analisi l'unica consolazione
dei mali, massimamente grandi, è il persuadersi o almeno il credere
confusamente, ch'essi o non sieno reali, o meno gravi che non parevano, [2151]o
che abbiano rimedio, o compenso ec. Le forti afflizioni non si consolano
finalmente se non in questo modo: e il tempo consolatore, adopra anch'esso in
gran parte questo metodo.
(23. Nov. 1821.)
Osservate le incredibili abilità che
acquistano i ciechi nella musica, e in altro, i sordi nell'intendere per segni
ec. e la tanto maggiore facilità e prontezza, con cui essi, sebbene
sieno d'intelletto tardissimo, arrivano a quello a cui con molto maggior fatica
e tempo arrivano, o anche non arrivano i sani, sebbene di grande ingegno. E poi
ditemi in che cosa consista il talento, s'esso dipenda o no dalle circostanze,
se esso sia altro che una conformabilità, ed assuefabilità, maggiore
o minore, ma comune a tutti, e determinata ne' suoi effetti, o nell'uso ed
applicazione di essa, dalle pure circostanze accidentali; se l'uomo in se
stesso sia capace o no di cose incredibili, e quasi illimitate; se questa
capacità [2152]sia o non sia una mera disposizione naturale,
comune a tutta la specie, ma secondo le assuefazioni e le circostanze, posta
più o meno a frutto.
(23. Nov. 1821.)
Di molte facoltà umane che si
considerano come naturali, o poco meno, o volute dalla natura ec., considerandole
bene si vedrà, che la natura non ne avea posto nell'uomo neppure (per
dir così) la disposizione, una disposizione cioè determinata,
diretta, vicina, ma così lontana, ch'essa non è quasi altro che possibilità.
Così è. Infinite sono e comunissime e giornaliere quelle
facoltà umane, delle quali l'uomo non deve alla natura, altro che la
purissima possibilità di acquistarle, e contrarle.
(23. Nov. 1821.)
Alla p.1279. marg. Come la pronunzia di
queste due vocali si confondesse, si scambiasse ec. nel latino, e anche nel latino
scritto, si può argomentare dall'antico costume [2153]di scrivere
maxumus, sanctissumus, optumus, decumus, ec. V. il Forcell. in I
ed U, e l'Encyclopéd. Grammaire, in I ed U, se hanno nulla
in proposito. V. anche il Cellar. Orthograph. lat. specialm. p.12. Vedi
anche il Forc. in Clypeus principio e fine.
(23. Nov. 1821.)
Alla p.2113. marg. - e intanto non si
capiscono determinatamente e precisamente, in quanto neppur lo scrittore ha
dato o voluto dare a quell'espressioni un senso più che tanto preciso, o
ha voluto esprimere un'idea più che tanto determinata.
(23. Nov. 1821.)
Non solo l'egoismo o l'amor proprio si trova
in qualunque azione, affetto ec. possibile all'uomo, ancorchè paia il
più lontano, e il più contrario all'amor di se stesso, ma in
questi medesimi atti, affetti ec. l'amor proprio, v'ha tanta parte, vi si trova
in misura e grado e forza tale, l'uomo [2154]o il vivente vi mira tanto
a se stesso, quanto nell'azione o nell'affetto che deriva dal più
sublimato, dal più schietto, infame, manifesto egoismo.
Questo è notabile. Non solo l'uomo o
il vivente non può perder l'amor proprio, ma neanche perderne una menoma
parte in sua vita (per quanto i diversissimi aspetti che prende questa passione
possano far credere in contrario). L'amor proprio non può, non solo
svanire, ma scemar mai di un menomissimo grado; e si può dire di lui
ciò che della materia, che tanta nè più nè meno ve
n'ha oggi, e ve n'avrà, quanto al principio del mondo, e che la sua
quantità, non è mai nè cresciuta nè scemata di un
nulla. Giacchè anche l'amor proprio come non può scemare,
così non può mai crescere in verun individuo, dal principio della
vita alla fine. (Altra prova, ed osservazione analoga a mostrare, [2155]che
e come l'amor proprio sia infinito.).
E per conseguenza egli è tanto in
ciascun momento della vita, quanto in ciascun altro; tanto nell'uomo che
tradisce i doveri e i principii suoi più sacri per proccurarsi un menomo
piacere, quanto in colui che attualmente eseguisce il più eroico e
terribile sacrifizio per l'osservanza di un menomo dovere, o in colui che si
uccide da se.
La massa dell'amor proprio è
altresì precisamente la stessa in ciascun vivente di qualsivoglia
specie, perocch'essa è infinita, e quindi non può essere
maggiore nè minore in nessun individuo, non solo rispetto a se, ma anche
comparativamente a qualunque altro individuo possibile. (23. Nov. 1821.).
Il che appunto viceversa dimostra ch'ella
è infinita assolutamente, e per se stessa.
(23. Nov. 1821.)
Le donne, i grandi, e il pubblico
(letterario, civile, politico ec.) si guadagnano, si maneggiano, si muovono, si
persuadono, [2156]si predominano, si vincono ec. colle stesse arti,
mezzi, furfanterie, soverchierie ec. Le rivalità letterarie p.e. si
esercitano nello stesso modo delle galanti. Nella repubblica letteraria ec.
come presso le donne, e come nelle conversazioni, bisogna innalzarsi sopra il
corpo degli altri, bisogna farsi largo, calunniare i rivali, motteggiarli,
farsi dintorno una gran piazza vota, cacciandone chi la occupa, cogli artifizi
e le malvagità che si esercitano co' rivali in amore ec.
(24. Nov. 1821.)
Tutto è animato dal contrasto, e
langue senza di esso. Ho detto altrove della religione, de' partiti politici,
dell'amor nazionale ec. tutti affetti inattivi e deboli, se non vi sono nemici.
Ma la virtù, o l'entusiasmo della virtù (e che cosa è la
virtù senza entusiasmo? e come può essere virtuoso chi non
è capace di entusiasmo?) esisterebbe egli, se non esistesse il vizio?
Egli è certissimo che [2157]il giovane del miglior naturale, e il
meglio educato, il quale ne' principii dell'età alquanto sensibile e
pensante, e prima di conoscere il mondo per esperienza, suol essere entusiasta
della virtù, non proverebbe quell'amor vivo de' suoi doveri, quella
forte risoluzione di sacrificar tutto ai medesimi, quell'affezione sensibile
alle buone, nobili, generose inclinazioni ed azioni, se non sapesse che vi sono
molti che pensano e adoprano diversamente, e che il mondo è pieno di
vizi e di viltà, sebbene egli non lo creda così pieno com'egli
è, e come poi lo sperimenta.
(24. Nov. dì di S. Flaviano. 1821.)
Ho paragonato altrove le occupazioni di un
mercadante con quelle di un giovanastro che si spassa colle donne, e trovatele
della stessissima importanza, anzi queste più importanti di quelle. La
stessa comparazione col medesimo risultato, si può fare [2158]delle
operazioni e intenzioni e desiderii e fatiche di un soldato, di un letterato,
di un uomo in carriera ec. Quel filosofo che per puro amore dell'umanità,
suda dietro ad un'opera di morale o di politica, o d'altro soggetto della
più grande utilità, o si affatica nella speculazione della
natura, del cuore umano ec.; quel ministro zelante e integerrimo del maggior
monarca immaginabile, che travaglia giorno e notte unicamente per il bene della
maggior nazione e della maggior possibile quantità di uomini (se pur si
trovano tali filosofi, e tali cortigiani); questi tali che cosa cercano essi?
La felicità degli uomini. E la felicità che cos'è? il
piacere. E qual piacere maggiore che i giovanili? Dunque le occupazioni di
costoro non sono più importanti di quelle del giovanastro che mette a
profitto i vantaggi dell'età più favorita dalla natura, [2159]e
destinata a godere. Anzi sono meno importanti, perchè non fanno altro
che proccurare agli uomini, alla lontanissima quello stesso piacere, (o altri
piaceri che certo saranno sempre minori) che il giovanastro immediatamente ed
attualmente si gode. In ultima analisi è manifesto che le occupazioni di
coloro hanno appresso a poco per fine quello medesimo che il giovanastro
già conseguisce, sebbene questo fine sia molto lontano. Il fine, come
dunque non sarà più importante del mezzo? e di un mezzo
lontanissimo? e difficilissimo? e spesso immaginario, falso, inutilissimo?
spesso ancora conducente ad esito contrario?
(24. Nov. dì di S. Flaviano. 1821.)
Lo stato di disperazione rassegnata,
ch'è l'ultimo passo dell'uomo sensibile, e il finale sepolcro della sua
sensibilità, de' suoi piaceri, e delle sue pene, è tanto mortale
alla sensibilità, ed alla poesia [2160](in tutti i sensi, ed
estensione di questo termine), che sebbene la sventura, e il sentimento attuale
di lei, pare ed è (escluso il detto stato) la più micidial cosa
possibile alla poesia (nè solo la sventura attuale, ma anche l'abituale,
che deprime miseramente l'immaginazione, il sentimento, l'animo);
contuttociò se può succedere che nel detto stato, una nuova e
forte sventura, cagioni all'uomo qualche senso, quel punto, per una tal
persona, è il più adattato ch'egli possa mai sperare, alla forza
dei concetti, al poetico, all'eloquente dei pensieri, ai parti
dell'immaginazione e del cuore, già fatti infecondi. Il nuovo dolore in
tal caso è come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso,
qualche tratto di vita ai corpi istupiditi. Il cuore dà qualche segno di
vita, torna per un momento a sentir se medesimo, giacchè la
proprietà e l'impoetico della disperazione rassegnata consiste appunto,
nel non esser più [2161]visitato nè risentito neppur dal
dolore.
Ma questi effetti miseramente poetici,
miseramente (e anche languidamente) vivi, sono passeggeri, anzi momentanei,
perchè un tal uomo, malgrado la grandezza della sventura nuova, ricade
assai presto nel letargico stato di rassegnazione. E però gli è
necessario il poetare nell'atto stesso della sventura, ovvero egli non è
e non si sente poeta, ed eloquente, se non in quell'atto (contro ciò che
accade in ogni altro caso); temperandosi il senso attuale della sventura, colla
sua radicata abitudine di soffrire, di tollerare, e di affogare, addormentare,
scuotere il dolore, in modo che di queste due qualità o affezioni, o
disposizioni, si viene a fare uno stato bastantemente adattato alle emozioni sentimentali,
ed alla poesia ec.
Una insolita cagione d'allegrezza,
produrrebbe anch'essa, e molto meglio, simili [2162]effetti, e
più veramente poetici, più eloquenti ec.
(24. Nov. 1821.)
Si vedono e si osservano tuttogiorno,
uomini di goffissimo e tardissimo ingegno, incapaci non solo di eseguire ec. ma
d'intendere ogni altra cosa, essere sottilissimi, penetrantissimi, prontissimi
ad intendere, abilissimi nelle cose di loro professione e mestiere, e in queste
vincere i più grandi talenti, anche quelli che nelle medesime cose sono
abbastanza esercitati, e periti. Che vuol dir ciò? quel misero ingegno,
pare assolutamente un altro nelle cose del suo mestiere, quantunque non
comprenda nulla, non solo del resto, ma neanche di cose appartenenti alla
stessa sfera della sua professione, nelle quali egli non sia esercitato. Ma
dove egli è abituato, intende alla prima perfettamente, ed eseguisce ec.
tutto l'occorrente, ancorchè si tratti [2163]di qualche
novità, dentro il piccolo spazio delle sue cognizioni. Vuol dire che
l'ingegno umano, non è che abitudine, le facoltà umane pure
abitudini, acquistabili tutte da tutti, benchè più o meno facilmente,
con più lunga o più corta assuefazione. Vuol dire che quel tale
si è fin da fanciullo, o lungamente esercitato ed abituato in quel
genere di cognizioni, e di abilità, e deve quest'abilità alle
pure circostanze che gli hanno proccurato quell'assuefazione. Giacchè
suppongo che non si vorrà stimare innata e naturale in un falegname la
facoltà di maneggiare perfettamente il suo mestiere, ad esclusione di
ogni altra facoltà. E sarà necessario supporre in lui nient'altro
che una disposizione naturale, capace d'ogni altra facoltà mediante
l'assuefazione, ma dalle circostanze determinata a questa facoltà sola.
Giacchè che vuol dire che tutti coloro [2164]che si esercitano da
fanciulli e assiduamente in qualunque facoltà, nel mestiero del padre,
ec. vi riescono abilissimi, e più di qualunque altro, benchè di
gran talento, ed essi di pochissimo? Come si combinano sempre le facoltà
pretese innate, con quelle professioni che il caso della nascita o della vita,
ci porta a coltivare decisamente e studiosamente? Come si combina che un uomo
privo d'ogni altra facoltà innata (quali si suppongono quelli di poco
talento) abbia sempre, e porti seco nel nascere, appunto quella facoltà
o quella disposizione naturale e antecedente, che serve a quella professione
che il mero caso, e l'imprevedibile concorso delle circostanze gli destinano?
(24. Nov. 1821.)
Non è dunque vero ciò che
dicono coloro, i quali riconoscendo la forza delle circostanze e delle
assuefazioni sui talenti, [2165]e acconsentendo a chiamar la natura
piuttosto dispositrice, che conformatrice, spingono però all'eccesso
quella sentenza, che l'individuo nasca con disposizioni particolarmente ed
esclusivamente determinate a queste o quelle facoltà o abitudini, ed
all'acquisto delle medesime, e a distinguersi in esse, e sovrastare agli altri
individui, secondo loro, diversamente disposti per natura.
(24. Nov. 1821.)
Alla p.988. Fino i titoli delle loro opere i
latini gli scrivevano bene spesso, non solo con parole, ma con elementi greci
ancora, come l' di
Seneca, parecchi libri logistici o satirici di Varrone (v. Fabric. B. lat. t.1.
p.88. e 428. not. d.) cioè nello stesso secolo aureo della
latinità; lasciando i titoli interamente greci per origine, per
terminazione ancora ec. come Metamorphoseon, Epodon di Orazio, Georg.
e Bucol. ed Eclog. di Virgilio, Ephemeris di Ausonio, ed
altri veramente infiniti in tutti [2166]i secoli della latinità.
I latini aveano pur forse delle parole proprie o già usate o nuove da
sostituire a queste scritte in greco, o prese dal greco. Di più esse non
erano in uso nel linguaggio latino in quelle materie (come georgica per
agricultura ec.), e neppur credo che esistesse poema greco con tal titolo, ec.
almeno famoso. Le quali cose non ardiremmo noi (nè forse i tedeschi, i
russi ec.) di far col francese, malgrado l'inondazione del francesismo, la
sommersione che questo ha prodotta delle lingue native ec. (al che certo non
arrivò la greca rispetto alla latina); l'esser la lingua e le parole
francesi, almen tanto generalmente intese in ciascuna nazione civile, ed in
tutte insieme, quanto la greca a quei tempi nella nazion latina, e nelle altre
(anzi nelle altre assai meno che il francese oggidì): e malgrado che gli
elementi francesi non differiscano dagl'italiani ec. come differivano i greci
da' latini, il che doveva rendere assai più strano e discordante e
barbaro un titolo forestiero ad un'opera nazionale, un titolo greco a un'opera
latina.
(25. Nov. 1821.)
Può far meraviglia molto ragionevole
che Marcaurelio scrivesse i suoi libri [2167], delle
considerazioni di se stesso come li chiama il Menagio, piuttosto in greco
che in latino, essendo romano, non allevato in Grecia (nè credo che mai
ci fosse), ed avendo posto molto e felice studio nelle lettere e nella lingua
nativa, come apparisce sì da altre notizie che danno di lui gli Storici,
sì massimamente da ciò ch'egli scrive a Frontone e Frontone a
lui. Non poteva aver egli di mira, cred'io, la maggior diffusione del suo
lavoro, scrivendolo in una lingua più divulgata. Ma io credo certissimo
che egli non fosse indotto a preferir la lingua greca alla latina se non per la
maggiore libertà di quella. Della quale libertà egli aveva
bisogno in un'opera profondamente ed intimamente filosofica, e attenente alla
scienza della vita e del cuore umano, ed alle sottili speculazioni psicologiche.
Non dubito ch'egli non disperasse di potere riuscire [2168]a trattare un
tale argomento in latino, a parlare a se stesso, e di se stesso, cioè
del cuor suo ec. (non delle sue cose pubbliche come fa Cicerone) in latino.
Questa lingua aveva già avuto un Cicerone e un Seneca, e un Tacito,
eppure ancor non bastava a una certa filosofia veramente intima. La lingua
greca aveva avuto scrittori filosofici profondi, ma senza ciò, la sua pieghevolissima
e liberissima indole, si prestava a qualsivoglia genere di argomento, grado di
filosofia, ec. ancorchè nuovo. La lingua latina per lo contrario: ed
oltracciò quello era un tempo, dove, come accade dopo una decisa corruzione
e licenza, che richiamandosi gl'istituti umani alla buona strada, essi cadono
nell'eccesso contrario; la lingua latina e il gusto di quel tempo (come oggi in
Italia) peccava di servilità, timidità (in vitium ducit culpae
fuga), come si può vedere nelle opere di Frontone, e come dicevano i maestri
di devozione, [2169]che le anime recentemente convertite, sogliono
patire di scrupoli, e sarebbe anzi mal segno se non ne patissero. Questo
durò poco, perchè la lingua e letteratura colle cose latine
tornò a precipitare indietro ben presto. Ma in quel tempo lo stile di
Seneca, e altri tali stili filosofici si condannavano altamente dai letteratori
latini, come oggi dagli italiani quello di Cesarotti ec. e ciò serviva
d'impaccio e di spauracchio a chi volesse scrivere filosoficamente in latino,
come oggi volendo scriver buon italiano, nessuno s'impaccia più di
pensare. Marcaurelio pertanto dovè sentire questo pericolo, disperare di
poter essere profondo filosofo nella lingua nativa voluta dal suo tempo, e
senza violare il gusto corrente, e dar nel naso ai critici, i quali già
lo riprendevano di cattiva e negligente lingua, e di licenza dopo ch'egli s'era
dato alla filosofia, e dallo studio delle parole a quello delle cose, [2170]come
apertamente lo riprende Frontone de Orationibus. Trovossi adunque obbligato
per esprimere i suoi più intimi sentimenti, a sceglier la lingua greca,
a creder più facile di esprimere le cose sue più proprie, in una
lingua forestiera ed altrui, che nella propria e nativa. (Il qual bisogno pur
troppo si farebbe molte volte sentire agl'italiani rispetto al francese, se
gl'italiani pensassero, ed avessero cose proprie da dire.)
Il quale splendido esempio, e fatto
notabilissimo per le sue circostanze, conferma quello ch'io dico della maggior
filosoficità della lingua greca, maggior libertà, e indipendenza,
maggior capacità delle idee sottili, maggiore adattabilità alle
cose moderne; e com'ella avrebbe potuto assai più della latina servire
alla rinata letteratura, e giovare anche oggi la sua intima cognizione (se
non all'uso, ch'è impossibile) almeno al perfezionamento dell'intelletto
[2171]filosofico moderno, delle idee di ciascuno, e della
facoltà di pensare e delle stesse più colte lingue moderne.
(26. Nov. 1821.)
Non solo alla lingua francese, (come osserva
la Staël) ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa sarebbe
più confacente del verso alla poesia moderna. Ho mostrato altrove in che
cosa debba questa essenzialmente consistere, e quanto ella sia più
prosaica che poetica. Infatti laddove leggendo le prose antiche, talvolta desideriamo
quasi il numero e la misura, per la poeticità delle idce che contengono
(non ostante che e per numero e per ogni altra qualità, la prosa antica
tenga tanto della versificazione); per lo contrario leggendo i versi moderni,
anche gli ottimi, e molto più quando ci proviamo a mettere noi stessi in
verso de' pensieri poetici, veramente propri e moderni, desideriamo la
libertà, la scioltezza, l'abbandono, la scorrevolezza, la
facilità, la chiarezza, la placidezza, la semplicità, il
disadorno, l'assennato, il serio e sodo, la posatezza, il piano della prosa, [2172]come
meglio armonizzante con quelle idee che non hanno quasi niente di versificabile
ec.
(26. Nov. 1821.)
Sono tanto più ardite poetiche le
lingue e gli stili antichi, che i moderni, che (per quanto qualunque di esse
antiche sia affine a qualunque delle moderne, per quanto questa sia fra le
moderne arditissima, poeticissima liberissima e ciò per clima, carattere
nazionale ec.) anche nella lingua italiana la più poetica e ardita delle
perfettamente formate fra le moderne, e figlia germana della latina, un ardire
della prosa latina non riesce comportabile se non in verso, un ardire proprio
dell'epica latina, non si può tollerare se non nella nostra lirica. Anzi
la più ardita delle nostre poesie (o per genere, o per istile
particolare dell'autore ec.) quando va più avanti in ardire, non va
più là di quello che andassero i greci o i latini nella loro
poesia più rimessa; anzi spessissimo una frase, metafora ec. prosaica ed
usitata (forse anche familiare) in latino o in greco, non può esser che
lirica in italiano.
Ciò deve servir di norma
nell'imitazione [2173]degli antichi, nel trasportare le bellezze o le
qualità degli stili e lingue antiche alle moderne ec.
Colla stessa proporzione si può discorrere
dell'orientale o settentrionale, rispetto all'occidentale o meridionale.
La lingua latina si trova, rispetto
all'italiana, nel detto caso, anche più della greca, bench'ella è
madre. L'ardire poetico (anche nella prosa) è maggiore nella lingua latina
che nella greca, e pure essa è meno libera. Accordate queste due qualità
che sembrano contraddittorie.
(26. Nov. 1821.)
Lo spirito della lingua e dello stile latino
è più ardito e poetico che quello della greca (non solo in verso
ma anche in prosa), e nondimeno egli è meno libero assai. Queste due
qualità si accordano benissimo. La lingua greca aveva la facoltà
di non essere ardita, la lingua latina non l'aveva. La lingua greca poteva non
solo essere ardita [2174]e poetica quanto la latina (come lo fu bene
spesso), non solo più della latina (come pur lo fu), ma in tutti i
possibili modi, laddove la latina non poteva esserlo se non dentro un
determinato modo, genere, gusto, indole di ardiri. La libertà di una
lingua si misura dalla sua maggiore o minore adattabilità a' diversi
stili, dalla maggiore o minore quasi quantità di caratteri ch'essa
contiene in se stessa, o a' quali dà luogo. ec. Ma ch'ella sia di un tal
carattere ardito, ch'ella [abbia] per proprietà un certo tal genere di
ardire, ciò non prova ch'ella sia libera. Ci può dunque essere
una lingua serva ed ardita, come una lingua timida e serva, (tale è la
francese) una lingua libera e non ardita, come una lingua ardita e libera.
Bensì da che una lingua è libera, non dipende che dallo scrittore
ec. il renderla ardita. L'ardire dello spirito proprio della lingua latina
formata e letterata, venne dalla [2175]natura poetica dei popoli
meridionali, da quella degli scrittori che la formarono, dall'energia e
vivacità degl'istituti politici e dei costumi e dei tempi romani. La poca
libertà della medesima lingua venne dall'uso sociale che la strinse,
l'uniformò, le prescrisse e determinò quella tale strada, quel
tal carattere e non altro. La lingua greca sebbene in mano di popoli vivacissimi
per clima, carattere, politica, costumi, opinioni ec. nondimeno inclinò
più a far uso dello stile semplice che dell'ardito, e ciò per la
natura dei tempi candidi ne' quali essa principalmente fiorì, e fu
applicata alla letteratura. Ma dai soli scrittori dipendeva il farla ardita
più della latina, e in qualunque genere, come fecero infatti ogni volta
che vollero. Laddove non dipendeva dagli scrittori latini dopo che la lingua fu
formata, il ridurla al semplice, al candido, al piano, al riposato della [2176]lingua
greca, se non fino a un certo segno. Onde accade alle frasi latine trasportate
in greco, o viceversa, quello appresso appoco che ho detto p.2172. ma
più nel caso di trasportare le frasi greche in latino, le quali vi riescono
troppo semplici, di quello che nel caso contrario, perchè la lingua
greca si presta a tutto.
In tutte le suddette qualità la
lingua italiana somiglia alla greca assai più che alla latina, siccome
all'una e all'altra somigliava assai più la primitiva latina scritta,
che quella dell'aureo secolo.
(27. Nov. 1821.)
La somiglianza del tedesco col greco,
attribuita, come abbiamo veduto, a cagioni storiche, apparisce dalle mie osservazioni,
che non ha bisogno d'altre ragioni se non delle naturali e universali, per cui
qualunque lingua meno affine alla greca, in circostanze ed epoche simili a
quelle della tedesca, si rassomiglierebbe egualmente [2177]alla greca,
come fa l'italiana le cui circostanze politiche, le cui epoche ec. somigliano a
quelle della tedesca. E queste circostanze hanno avuto tanta forza che sebbene
la lingua italiana è figlia di una lingua perfettamente formata (a
differenza della teutonica), e fu da' suoi primi scrittori (che non sapevano
sillaba di greco, o non lo credevano applicabile) cercata di modellare sulla
sola lingua e letteratura madre, soli modelli ch'essi avessero in vista,
nondimeno ella nelle stesse mani di questi scrittori è divenuta assai
più simile alla greca, che alla propria madre.
(27. Nov. 1821.)
Del resto la libertà e indipendenza e
la niuna unità letteraria, di cui gode la Germania, supplisce alla
libertà, disunione ec. politica, in mezzo a cui fu formata la lingua
italiana, e rende antica per carattere l'epoca della [2178]lingua e
letteratura tedesca benchè moderna di tempo, siccome quella
dell'italiana, fu antica e di tempo e di carattere.
(27. Nov. 1821.)
A quello che ho detto dell'essenza di Dio.
Lasciando in piedi tutto ciò che la fede insegna su questo punto, io non
fo che spaziarmi in ciò ch'è permesso al filosofo, cioè
nelle speculazioni sull'arcana essenza di Dio, speculazioni non men lecite al
filosofo che al teologo, giacchè anche questi dopo che ha lasciato
intatta la rivelazione, e che scorre col pensiero a quelle cose a cui la
rivelazione non giunge, senza però escluderle nè contraddirle,
allora, dico, il teologo si confonde col filosofo. Di più le mie
osservazioni combinano cogli insegnamenti cristiani, non solo affermando, ma
rendendo quasi palpabile, e sminuzzando, e quasi materializzando quella
verità, che l'essenza di Dio non può esser concepita dall'uomo.
Anzi dimostrando ancora che l'uomo s'inganna [2179]in quelle medesime
confuse immagini ch'egli se ne forma, e rintuzzando in ciò le
pretensioni dell'umano intelletto. Del resto la religione affermando dell'essenza
di Dio quel ch'ella sa, e insegnando ch'ella non può esser conosciuta,
lascia con ciò stesso libero il campo a quelle speculazioni razionali e
metafisiche su questo punto, che possono arrivare più o meno avanti
nell'infinito spazio di questo arcano, spazio ch'essendo infinito, nessun
avanzamento di speculazione correrà mai pericolo di toccarne il termine.
Ed è per ciò, e consentaneamente a ciò, che molti Padri, e
Dottori, si sono ingegnati di spiegare o dilucidare quale in un modo, quale in
un altro, il mistero della trinità, dell'incarnazione ec. non già
coi lumi rivelati, e già noti a tutti, ma col discorso umano e
ragionato; ed hanno pertanto (senza biasimo) applicato il discorso umano alla
speculazione dell'essenza di Dio, al di là [2180]o fuori de'
termini della rivelazione senza lederli, e perciò senza essere ripresi.
(27. Nov. 1821.)
Della pedanteria e scrupoli intorno alla
purità della lingua, novità delle parole ec. introdottisi nella
letteratura latina fino nell'aureo secolo, anzi regnanti appresso a poco come
oggi in Italia, scrupoli ignoti alla Grecia ne' buoni tempi della sua lingua,
la quale perciò dovette esser necessariamente tanto più libera
rispetto alla latina anche aurea, vedi soprattutto l'Arte Poet. di Orazio.
(28. Nov. 1821.)
Anche dopo introdotto in Grecia lo studio
dell'atticismo ec. l'essere o non essere ateniese di nascita o allevato in
Atene, non fu mai prevenzione per giudicare favorevolmente o sfavorevolmente di
uno scrittore neppur quanto alla purità della lingua; almeno non lo fu
tanto quanto rispetto alla toscaneria o fiorentineria nel 500 (e anche oggi), e
nell'opinione degli [2181]Accademici della Crusca circa il giudicar
classici o non classici di lingua gli scrittori altronde esimi e famosi (anche
in genere di stile); siccome neppure fu stimato vizio lo scrivere espressamente
in altro dialetto (non solo il mescolare all'atticismo parole o modi ec.
forestieri, o il ridurre l'atticismo a nient'altro che dialetto comune, e
formato di tutto ciò ch'era proprio de' diversi paesi greci), come fece
Arriano nell'Indica, e forse anche in altre opere, v. p.2231. Ecateo Milesio
(ma molto prima) ec. Anzi Atene dopo prevaluto nella Grecia l'atticismo, ebbe
appresso a poco la sorte di Firenze, cioè non produsse nulla di buono,
nel che v. un passo di Cicerone in una nota al Dial. del Capro, nella Proposta
del Monti, voce Becco. - ec. ec.
(28. Nov. 1821.)
La lingua greca rassomiglia certo alla
latina (generalmente però e complessivamente parlando) più che
all'italiana, com'è naturale di due sorelle. Ma sebbene [2182]di
queste due sorelle la sola latina ci è madre, nondimeno l'italiana e la
spagnola somigliano più alla greca che alla latina. Siccome la lingua
francese benchè figlia della latina e sorella delle due sopraddette,
somiglia più all'inglese, che a queste altre ec. ec.
(28. Nov. 1821.)
È cosa osservata che non solo le
stesse morti provenienti da mali dolorosissimi, sogliono esser precedute da una
diminuzione di dolore, anzi quasi totale insensibilità, ma che questi
sono segni certi, e quasi immancabili (io credo certo immancabili) di morte
vicina. Laonde tanto è lungi che la morte sia un punto di straordinaria
pena o dolore o incomodo qualunque corporale, che anzi gli stessi travagli
corporali che la cagionano, per veementi che sieno (e quanto più sono
veementi) cessano affatto all'avvicinarsi di lei; e il momento della morte, e
quelli che immediatamente la precedono [2183]sono assolutamente momenti
di riposo e di ristoro, tanto più pieno e profondo quanto maggiori sono
le pene che conducono a quel passo. Ciò che dico del travaglio
corporale, si deve pur necessariamente estendere allo spirituale, perchè
quando l'insensibilità del paziente è giunta a segno che lo rende
insuscettibile di qualunque dolore corporale, per grandi che sieno le cagioni
che dovrebbero produrlo, il che immancabilmente accade in punto di morte,
è manifesto che l'anima essendo quasi fuori de' sensi, è fuori di
se stessa, fuori de' sensi spirituali, che non operano se non per mezzi
corporali, e quindi incapace di pene e di travagli di pensiero. Ed infatti il
punto della morte, è sempre preceduto dalla perdita della parola, e da
una totale insensibilità ed incapacità di attendere e di concepire,
come si argomenta dai segni esterni, e come accade a chi sviene, o a chi dorme.
ec. E questo letargo precursore [2184]immancabilissimo della morte,
è forse, almeno in molti casi, più lungo nelle malattie violente
ed acute, che nelle lente, compassionando così la natura alle pene de'
mortali, e togliendo loro maturamente la forza di sentire, quando ella non
sarebbe più se non forza di patire.
(28. Nov. 1821.)
Non solo l'uomo è opera delle
circostanze, in quanto queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec.
ma anche in quanto al genere, al modo, al gusto di quella tal professione a cui
l'assuefazion sola e le circostanze l'hanno determinato. P.e. io finchè
non lessi se non autori francesi, l'assuefazione parendo natura, mi pareva che
il mio stile naturale fosse quello solo, e che là mi conducesse l'inclinazione.
Me ne disingannai, passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in
mese, variando il gusto degli autori ch'io leggeva, variava l'opinione ch'io mi
formava circa la mia propria [2185]inclinazione naturale. E questo anche
in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o
al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto fra i lirici il solo
Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse
portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del Petrarca. Tali
infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I
secondi meno simili, perchè da qualche tempo non leggeva più il Petrarca.
I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta,
a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera
o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità
quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata?
Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire
[2186]originale. Che cosa è dunque l'originalità?
facoltà acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di
acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.).
(28. Nov. 1821.)
Alla p.1073. Le cinque, anzi le dieci dita
delle mani, all'uomo privo di favella non potevano servire (stante le osservazioni
fatte di sopra) se non per contare al più sino a 25. (e con molta
difficoltà) cioè sino a cinque volte cinque, contando le
unità coll'una mano, e coll'altra le cinquine. Senza il che la memoria
non l'avrebbe condotto neppure al 15. o al venti. Del resto i popoli scarsi di
favella e privi di sufficienti nomi numerali, si vede che infatti non sanno
contare neppur sino al 20. (se nel Romanzo di Robinson Crusoe si è avuto
qualche riguardo alla verità, o al verisimile). V. l'Enciclopedia, Logique ec. art. Nombres ec. [2187]I
fanciulli sinchè non hanno bene e radicatamente appresi i nomi numerali,
e legate ad essi strettamente le rispettive idee, non sono capaci di concepire
appena confusamente nessuna quantità determinata (o di numero o di
misura ec.) se non piccolissima, cioè tanta per lo più quanto si
stende la loro cognizione de' nomi numerali; e non arrivano se non dopo lungo
tempo a contar sino a venti, o più là del dieci ec. Anzi arrivano
prima a contar questi numeri, che a concepire le corrispondenti
quantità, non avendo ancora abbastanza strettamente legate e
immedesimate e incastrate le idee rispettive dei numeri, nelle parole che li
rappresentano.
(28. Nov. 1821.)
Alla p.2022. Concedo, come altrove ho detto,
che i verbi continuativi, talvolta, ed anche spesso (ma di rado però ne'
più antichi e primitivi monumenti) siano stati adoperati, [2188]in
senso, almeno confusamente frequentativo, e simile a quello de' verbi in itare.
Ma io ho dimostrato splendidamente il significato proprio continuativo di tanti
verbi così come ho detto formati, ho distinto così evidentemente
il significato continuativo l'azione continuata ec. dalla frequente, che
già non si può mettere in dubbio l'esistenza di verbi (e non
pochi) tenuti fin qui per frequentativi ec. i quali sono di senso
manifestamente continuativo, secondo le distinzioni da me notate, e diversissimo
dal frequente, ec. Resterebbe che riconoscendo questo, si negasse ai verbi
così come io dico formati, la proprietà essenziale di tali significazioni;
queste si volessero supporre accidentali, e tenere per non avvertite modificazioni
o parti ec. del senso frequentativo; negare che gli antichi latini avessero una
forma di verbi apposta per li significati continuativi, e per continuare ec. il
significato de' loro verbi originarii, [2189]e modificarlo in questo dal
preciso modo ch'io dico; si presumesse che queste minute e sfuggevoli
differenze non fossero cadute in mente degli antichi latini, o non fossero
state considerate nel loro linguaggio; e in somma si persistesse a credere che
il valore de' verbi in are ec. e in itare fosse tutt'uno,
distinguendosi questi verbi per la sola forma, e non pel significato proprio,
stimando casuali e non precisamente volute da' latini e da' formatori di quei
verbi, le differenze di significazione che tra essi s'incontrano: o al
più si concedesse che la forza diminutiva non appartenga se non ai verbi
in itare, volendo però che la frequentativa sia loro comune coi verbi
in are ec. e che questi sieno parimente frequentativi, includendosi nel
valore frequentativo tutte le altre significazioni loro ch'io ho fatte osservare.
Or questo appunto è quello che non potremo concludere, se osserveremo [2190]che
laddove quelli ch'io chiamo continuativi sono usati talvolta nel senso
frequentativo (e la ragione vedila p.2023.) i verbi per altro in itare
che son veri frequentativi o diminutivi, non si troveranno mai o
difficilissimamente usati ne' vari sensi continuativi da me specificati (v.
p.1116. sulla fine 1117.), il che dimostra una precisa, voluta, e non accidentale
differenza tra il valor proprio de' verbi in itare, e di quelli in
semplice are. E in che consista tal differenza di valor proprio, questo
è ciò che essendo stato finora inosservato, ho notato io, facendo
conoscere i verbi in are ec. per propriamente continuativi, non
frequentativi nè diminutivi, e i verbi in itare per frequentativi
o diminutivi non continuativi. E in ciò è riposta la mia
scoperta. Siccome poi il significato continuativo è di natura più
sottile che il frequentativo, perciò accadde che quei verbi de' quali
era proprio il primo significato, fossero coll'andar del [2191]tempo
facilmente tirati al senso frequentativo e altri loro non propri, siccome essendo
essi di proprietà sfuggevole e facilmente disconoscibile, e confondibile;
ma viceversa i verbi propriamente frequentativi o diminutivi, essendo di
proprietà e significato meno sfuggevole, e metafisico e sottile, e che
dava meglio negli occhi, facilmente lo conservassero, e non venissero tirati ad
altro senso, neppure al continuativo sebbene per se minutissimo e
confondibilissimo.
E qui bisogna notare che negando io che i
verbi in itare si trovino usati in alcun senso continuativo, intendo di
escludere quelli la cui formazione coincide con quella de' continuativi, come habitare,
domitare ec. i quali bene spesso si trovano in senso decisamente
continuativo, ed in essi massimamente e più che in qualunque altro verbo
si trova confuso il senso continuativo col frequentativo e dimininutivo Il che
grandemente conferma il mio discorso, perchè [2192]vedendo che
gli altri verbi in itare non hanno mai senso continuativo, e questi
sì, perciocchè coincidono colla forma ch'io dico continuativa, si
conclude che dunque questa forma è veramente continuativa. E vedendo che
il senso continuativo e il frequentativo o diminutivo si confonde in questi
verbi più che in ogni altro, per un'accidentale e materiale combinazione
di forma, si conchiude che dunque queste due forme per se stesse sono
evidentemente distinte di significato, e che quella in itare è
frequentatativa o diminutiva, quella in semplice are, continuativa,
giacchè quei verbi che casualmente rinchiudono queste due forme,
rinchiudono pure questi due significati, e gli altri verbi no.
(29. Nov. giorno della morte di mia Nonna. 1821.).V. p.2285.
Alla p.1154. marg. Sonitare sono
incerto se venga da sonatus, o da sonitus di sonare.
Perocchè che il verbo sonare avesse [2193]da prima
effettivamente questo participio (o supino) sonitus, benchè
ignoto a' buoni autori (anzi a tutti), lo mostra evidentemente, primo il
verbale sonitus us, o i, secondo ciò che ho detto p.2146.
segg. (in spagn. sonido); secondo il pret. sonui, (raro SONAVI
dice il Forcell.) e il vedere che il verbo sono fu anticamente della
terza e forse anche della 4. congiugazione V. il Forc. Sono, in fine. Le
quali ragioni mi persuadono che sonitare venga certo da sonitus e
appartenga a quei verbi de' quali p.1112. dopo il mezzo-1113. Queste
osservazioni si ponno parimente applicare forse anche a domitus, crepitus,
(crepitus us si trova similmente), rogitus, e a' verbi domitare
ec. de' quali p.1154. E chi sa che non si possano estendere a tutti cotali
verbi che paiono formati da un participio in atus, cangiato nella
formazione in itus? (29. Nov. 1821.). Restitare o vien da restatus
o da restitus (partt. o supp. ambedue obsoleti) o forse è una
metatesi di resistere, ma non credo ec. Del rimanente sto ha statum
e status us, persto perstatum ec. consto atum.
[2194]Alla p.1109. marg. 2da
linea-contratto, come in italiano da porrectus, porto partic. di porgere
contratto pure da porrigere, il qual porto è in luogo
di porretto. Così dunque in ispagn. despertar in vece di desperrectar
da un desperto in vece di desperrecto ec. Infatti trovate nello
spagnuolo appunto il participio da cui despertar è derivato,
cioè despierto (sveglio, vigile), che è lo stesso
ch'experrectus.
(29. Nov. 1821.)
Alla p.1115. Così da usus di uti,
onde hanno i buoni latini usitari, usitatus, usitate, verbo, nome,
avverbio frequentativi, s'è conservato nelle lingue moderne (non solo il
freq. usitar spagn. e il nostro usitato ec. e il franc. usité)
ma anche il continuativo usare, user ec. vero continuativo non solo per
forma, ma per significato eziandio, e che perciò come ho detto altrove,
si può creder proprio dell'antico latino almeno volgare. V. il Gloss. in
Usare. Così abbiamo abusare ec. Uti è meno
continuo di usare, o usari. Si disse anche uto is. Forcell.
utor in fine.
(29. Nov. 1821.)
[2195]Alla p.1127. prima del mezzo.
Altri esempi di ciò gli ho notati altrove, altri se ne ponno vedere
nell'Encycl. Grammaire, non mi ricordo a quale articolo, ma credo all'H.
presi da Prisciano, altri p.1276. e quivi in marg. A' quali tutti aggiungi sulcus
fatto da (tractus),
che però dovette da prima dirsi solcus, come volgus, volpes,
come solpur per sulphur pretende il Pontedera, come forse per lo
contrario supnus o sumnus ec. Questa etimologia di sulcus
da è
riconosciuta dal Forcell. Vedilo in principio di Sulcus. V. anche sisto
p.2143. fine-seg.
Osservo che questi nomi greci che passando
in latino hanno mutato lo spirito in s, (siccome quelli che l'hanno
mutato in h, e di questi è naturale perchè più recentemente
fatti latini) conservano in latino le proprietà, e quasi la forma intera
che hanno nel greco p.e. il genere maschile neutro ec. Non così quelli
che hanno mutato lo spirito in v [2196]i quali hanno mutato il
genere, la forma ec. in modo che appena o certo più difficilmente si
ravvisano. Ho detto nomi, e intendo parole d'ogni sorta. Ciò fa credere
o 1. che tal pronunzia di v o f in luogo dello spirito sia
più antica, che quella in s, e perciò quelle parole
più anticamente fatte proprie del latino 2. o ch'elle venendo forse
dall'Eolico, avessero in esso dialetto forma diversa dalla greca comune. 3. o
che in verità sieno passate dal latino al greco, o piuttosto (ed
è verisimilissimo) siano di quelle parole primitivamente comuni ad ambe
le lingue, e derivate da comune madre, il che conferma l'opinione della
fratellanza del greco e latino. Bisogna però notare che quello che si
cambia nel latino in s (o in h) è lo spirito denso, e
quello che in v (o forse talvolta in f) il lene. Onde si potrebbe
anche concludere che l'uso dello spirito denso, sebbene antichissimo, sia
però nelle voci greche più recente, che quello del lene. Che
l'uso greco [2197](e quindi anche il latino) del per lo spirito, sia più recente di
quello dell'H, mutato nel latino in v, o del digamma Ƒ ec. Che forse quelle parole
greche scritte oggi collo spirito denso, che nel latino hanno il v,
anticamente si scrissero o pronunziarono col lene (come ec.), o
che così passarono agli Eoli ec.
V. anche (circa lo spirito denso mutato in s)
il Forc. in Sollus, Sollicitare principio, Solitaurilia
princ. Solidus princ.
(30. Nov.
1821.)
Solitas è voce latina antica
dice il Forc. e significa solitudine. Or eccola ancora vivissima nello
spagn. soledad collo stesso significato. V. il Gloss. se ha nulla.
(30. Nov. 1821.)
Quello che altrove ho detto della lingua del
Bartoli, dimostra quanto la nostra lingua si presti all'originalità
dello stile e degli stili individuali, in tutti i generi, e in tutta
l'estensione del termine. Originalità [2198]strettamente vietata
dalla lingua francese allo stile ec. dell'individuo, se non pochissima, che a'
francesi pare gran cosa, come la lingua di Bossuet. Perocchè è
molto una piccola differenza, in una nazione, in una letteratura, in una
lingua, avvezza, e necessariamente conducente all'uniformità, che non
può essere alterata se non se menomamente, senza dar bruttamente negli
occhi, e uscir de' limiti del lecito. Laddove nella lingua italiana lo
scrittore individuo può essere uniforme agli altri, e difforme se vuole,
anzi tutt'altro, e nuovissimo, e originalissimo, senza lasciar di essere e di
parere italiano, e ottimo italiano, e insigne nella lingua. Ciascuno colla
lingua italiana si può aprire una strada novissima, propria, ignota, e
far maravigliare i nazionali di parlare una lingua che si possa esprimere in
modo sì differente dal loro, e da loro non mai pensato, [2199]benchè
benissimo l'intendano, per nuovo che sia.
(30. Nov. 1821.)
Alla p.1154. marg. Quanto però a mussitare
io non credo che venga da mussatus ma da mussus, o quando anche
venga da mussare, io non credo che questo sia verbo originario ma
continuativo da mussus. Il quale io stimo antico participio di mutire
o muttire verbo usato dagli scrittori antichi (come da concutio
ec. concussus da sentire sensus, e non sentitus, concutitus
ec. ec.) Quantunque in Terenzio se ne trovi (non è però senza
controversia) il partic. mutitus. Il Forc. stesso, deriva mussare
da mutire. Vedilo in Musso, Mutio, Mutitus. Mussitare però
al solito lo dice frequentativo di mussare, ma io lo credo immediato
frequentativo di mutire. Potrebb'essere però anche il contrario,
trattandosi che mutire è verbo quasi disusato fra' latini del
buon secolo, secondo ciò che ho detto p.1201. dopo il mezzo.
(30. Nov. 1821.)
Alla p.2052. lapsare da lapsus
di [2200]labi; (certo è azione più continua per se
medesima lo sdrucciolare che il cadere, e sebbene anche labi,
ha specialmente in molti casi un significato analogo a sdrucciolare,
nondimeno lapsare significa di più in questo senso, ec.).
(30. Nov. 1821.)
Alla p.1112 marg. fine. Forse sentire
ebbe un antico part. sentitus, (regolarissimo) in vece di sensus (anomalo).
Questo infatti viene da sensi (anomalo); perchè non dunque quello
da sentii (regolare come audii)? Forc. però non riconosce
punto il pret. sentii.
(30. Nov. 1821.)
Alla p.1167. fine. Potrà far
maraviglia il verbo quaeritare, (e il composto requiritare) e
indurre a credere che questa sia almeno un'eccezione alla mia regola che i
continuativi, e i frequentativi in itare non si formano se non dai part.
in us dei verbi originarii. Niente di tutto ciò. Questo esempio
invece di distruggere o indebolire la regola, col mezzo della regola [2201]si
rettificherà e porrà in chiaro, e si spoglierà eziandio
dell'apparenza di anomalia.
Dico che quaeritare viene da un
antico quaeritus di quaerere. 1. Questo è regolare come tritus
di terere, che è contrazione di teritus, ec. laddove quaesitus
è irregolare. Siccome quaesivi, o quaesii in vece di quaerivi,
o quaerii, o quaeri.
2. Nello spagnuolo querer che sebbene
con diverso significato (per la lontananza de' tempi, e la varietà de'
dialetti in che si divise il latino nel propagarsi) è però il
puro e pretto quaerere, voi trovate appunto il partic. querido,
cioè quaeritus. Notate che vi troverete ancora da quisè
(cioè quaesivi, o quaesii) il part. anomalo quisto
(quisto bien o mal) cioè quaestus, cioè quaesitus,
giacchè sebbene non si trova quaestus part., si trova però
quaestus us verbale, (e v. p.2146.) e quaestor, e quaestura
ec. tutte pure contrazioni [2202]di quaesitus us, quaesitor,
quaesitura ec. voci che parimente si dicono. Hanno anche gli spagnuoli da quisto,
malquisto (come da querido, malquerido) cioè malvoluto,
e quindi malquistar (male quaesitare) cioè rendere
odioso, (Solìs) significato figurato e metaforico, o almeno non
primitivo.
3. Avvertite che quaeritare è
verbo antico. Il Forc. non ne ha esempi che da Plauto e Terenzio. Quindi forse
anche egli non era se non del popolo, eterno conservatore
dell'antichità, il quale perciò da quaero non avrà
fatto quaesito, ma quaerito dal vecchio quaeritus, che
forse conservò parimente come oggi si conserva in ispagnuolo.
4. Sebbene il Forcellini di quaero e quaeso.
faccia due verbi, ed al primo dia il perf. sivi, e sii, col sup. situm,
al secondo dia gli stessi perfetti, ma neghi il supino, nondimeno è
chiaro che tanto i detti perfetti, quanto il supino e participio non sono in
verità di quaero, ma di quaeso. Questo quaeso, dice
il Forc. è idem quod quaero: quemadmodum dicebant ARBOREM,
CASMEN, VALESII, ASA, etc. pro ARBOREM, CARMEN, VALERII, [2203]ARA,
etc. Dunque se quaeso è corruzione di quaero, quaesitus
non è che corruzione di quaeritus; quello dunque è particolare
di quaeso (cioè di un verbo corrotto da quaero), e questo
cioè quaeritus è il proprio part. di quaero; dunque
quaeritare è lo stesso che se si dicesse quaesitare, e non
osta niente di più alla mia regola; ed è formato nè
più nè meno secondo essa, come qualunque altro continuativo o
frequentativo (ch'egli può per la sua forma esser l'uno e l'altro); ed
è regolare come venditare da vendere; dunque in luogo
ch'egli dimostri magagna o eccezione nella mia regola, questa anzi aiuta a
conoscere e determinare la vera natura, la vera origine e formazione di questo
antico verbo (e forse popolare), e l'antico e proprio participio di quaerere
cioè quaeritus, il quale è dimostrato appunto da quaeritare,
secondo la mia regola.
Così discorro di queritari da queror,
[2204]il cui solo partic. noto questus non è che una
sincope dell'ignoto quesitus, il quae non fu se non corruzione del parimente
inusitato queritus.
(1. Dic. 1821.)
È degno di esser letto l'ultimo capo
del di
Senofonte, dove inveisce contro i sofisti, dimostra l'utilità e
necessità delle assuefazioni ed esercizi corporei vigorosi, dice
particolarmente che bisogna seguir prima di tutto la natura, (§..) ec. V.
ancora il capo precedente che contiene un bell'elogio della caccia, occupazione
naturalissima e primitiva, degna veramente dell'uomo, e conducente alla
felicità naturale.
(1. Dic. 1821.)
Come l'amor proprio, così l'odio
verso altrui che n'è indivisibile conseguenza, o fratello, si può
bensì nascondere, o travisare sotto infiniti aspetti, ma non perdere
nè scemare mai in verun individuo della razza animale, nè esser
maggiore o minore [2205]in questo individuo che in quello. Se non quanto
può esser maggiore o minore l'amor proprio, non così che
l'individuo non si ami sempre quanto più può, ma riguardo
all'intensità, ed a quella forza maggiore o minore di passione e di
sentimento, che la natura ha dato ai diversi individui e specie di animali, e
che l'assuefazione ha conservato, o cresciuto o scemato. Sotto questo aspetto
l'amor proprio, il grado, la forza, la massa di esso può esser maggiore
o minore secondo gl'individui e specie, e quindi anche l'odio verso altrui.
Può anche esser maggiore o minore nello stesso individuo secondo le
diverse età, assuefazioni successive, circostanze accidentali,
giornaliere, momentanee, tanto fisiche che morali. Può parimente esser
maggiore o minore in una medesima specie generalmente, nelle diverse sue epoche
fisiche e morali, circostanze, ec. [2206]P.e. verso i suoi simili l'odio
naturale può talvolta esser maggiore talvolta minore che verso gli altri
animali ec.
(1. Dic. 1821.)
Il timore, passione immediatamente figlia
dell'amor proprio e della propria conservazione, e quindi inseparabile dall'uomo,
ma soprattutto manifesta e propria nell'uomo primitivo, nel fanciullo, in
coloro che più conservano dello stato naturale; passione strettissimamente
comune all'uomo con ogni specie di animali, e carattere generale de' viventi;
una tal passione, è la più egoistica del mondo. Nel timore l'uomo
si isola perfettamente, si stacca da' suoi più cari, e pena pochissimo
(anzi quasi da necessità naturale è portato) a sacrificarli ec.
per salvarsi. Nè solo dalle persone, o da tutto ciò ch'è
in qualche modo altrui, ma dalle cose stesse più proprie sue, più
preziose, più necessarie, l'uomo [2207]si stacca quando teme,
come il navigante che getta in mare il frutto de' suoi più lunghi
travagli, e anche di tutta la sua vita, i suoi mezzi di sussistenza. Onde si
può dire che il timore è la perfezione e la più pura
quintessenza dell'egoismo, perchè riduce l'uomo non solo a curar
puramente le cose sue, ma a staccarsi anche da queste per non curar che il puro
e nudo se stesso, ossia la nudissima esistenza del suo proprio individuo separata
da qualunque altra possibile esistenza. Fino le parti di se medesimo sacrifica
l'uomo nel timore per salvarsi la vita, alla quale, e a quel solo che
l'è assolutamente necessario in qualunque istante, si riduce e si
rannicchia la cura e la passione dell'uomo nel timore. Si può dir che il
se stesso diviene allora più piccolo e ristretto che può, affine
di conservarsi, e consente a gettare tutte le proprie parti non necessarie, per
salvare quel tanto ch'è [2208]inseparabile dal suo essere, che lo
forma, e in cui esso necessariamente e sostanzialmente consiste.
L'egoismo del timore spingeva gli Americani
(ed altri antichi, massime ne' grandi disastri ec. o altri popoli barbari) ad
immolar vittime umane ai loro Dei, fatti veramente dal timore (primos in
orbe deos fecit timor), e non per altra cagione rappresentati e adorati da
essi sotto le forme più mostruose e spaventose. Laonde il loro timore
essendo abituale, il detto effetto dell'estremo egoismo di questa passione,
doveva fra essi e tra coloro che si trovarono o si trovano in simili circostanze,
essere un costume.
(1. Dic. 1821.)
Ho detto che l'uomo di gran sentimento
più presto degli altri è soggetto a divenire indifferente
sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol dire
ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto) [2209]più
facilmente e prontamente degli altri. E per due cagioni. 1. Perchè
più soffre essendo più sensibile, onde le cause dell'assuefazione
che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni, essendo in lui maggiori
che negli altri, più presto la cagionano. Oltre ch'egli più
vivamente le sente ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per
grado di forza ec. 2. Perch'egli è anche per se stesso e
indipendentemente dalle circostanze, più assuefabile degli altri.
(Massime a questi generi di cose.) Ond'egli impara la sventura più
presto degli altri, come gli uomini di talento (che per lo più sono
anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui sono inclinati
ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono,
concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli
uomini di poco o mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo
un numero o una massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad
assuefare e [2210]rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento, non
vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore, sempre
sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli ch'era
assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene
spesso tali per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza,
quanto appresso a poco nella prima giovanezza. Anzi di più,
perchè meno distratti nelle loro sensazioni, e meno aiutati dalla forza
naturale. Laddove all'uomo di sentimento lo stesso esser poco capace di
distrazione, lo stesso attender vivamente alle sensazioni, facilita
l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e incapacità di
più attendervi.
(1. Dic. 1821.)
Se la lingua greca nel risorgimento delle
lettere avesse prevaluto alla latina, quanto all'uso de' dotti, alle cose
diplomatiche ec. ella sarebbe [2211]stata (oltre gli altri vantaggi)
più facile a trattare e a scrivere anche elegantemente, e con quella
perfezione con che in Italia fu scritto il latino, e ciò non solo per la
sua adattabilità alle cose moderne, ma per la maggior facilità
assoluta della sua costituzione e proprietà, che resulta dalla sua
naturalezza, semplicità di frase di andamento ec. E la minore anzi niuna
somiglianza che avrebbe avuta col materiale delle lingue moderne e viventi,
sarebbe stato uno scoglio di meno alla sua purità, ed eleganza, alla
conservazione della sua vera indole, e in vece del latino barbaro, si sarebbe
scritto un greco puro, e la barbarie non avrebbe dovuto esser cagione di abbandonarla,
come la latina, barbara anche oggi negli scrittori tedeschi ec. che la usano.
Oltre il gran vantaggio, scioltezza ec. che
avrebbe recato agl'intelletti, alla concezione e all'espressione delle
idee, alla chiarezza e facilità dell'una e dell'altra, la
familiarità la pratica e l'uso di quella onnipotente [2212]lingua.
(2. Dic. 1821.)
Non si pensa se non parlando. Quindi
è certissimo che quanto la lingua di cui ci serviamo pensando, è
più lenta, più bisognosa di parole e di circuito per esprimersi,
ed esprimersi chiaramente, tanto (in proporzione però della rispettiva facoltà
ed abitudine degl'intelletti individuali) è più lenta la nostra
concezione, il nostro pensiero, ragionamento e discorso interiore, il nostro
modo di concepire e d'intendere, di sentire e concludere una verità,
conoscerla, il processo della nostra mente nel sillogizzare, e giungere alle
conseguenze. Nella maniera appunto che una testa poco avvezza a ragionare,
più lentamente tira da premesse evidenti e ben concepite, e legate ec.
una conseguenza parimente manifesta (il che accade tuttodì negli uomini
volgari, ed è cagione della loro poca ragionevolezza, della loro
piccolezza, tardità nell'intendere le cose più ovvie, piccolezza,
volgarità, oscurità di [2213]mente ec.); e nella maniera
che la scienza e la pratica delle matematiche, del loro modo di procedere, e di
giungere alle conseguenze, del loro linguaggio ec. aiuta infinitamente la
facoltà intellettiva e ragionatrice dell'uomo, compendia le operazioni
del suo intelletto, lo rende più pronto a concepire, più veloce e
spedito nell'arrivare alla conclusione de' suoi pensieri, e dell'interno suo
discorso; insomma per una parte assuefa, per l'altra facilita all'uomo l'uso
della ragione ec. Quindi deducete quanto giovi la cognizione di molte lingue,
giacchè ciascuna ha qualche proprietà e pregio particolare,
questa è più spedita per un verso, quella per un altro, questa
è più potente nella tal cosa, quella in tal altra, questa
può facilmente esprimere la tale precisa idea, quella non può, o
difficilmente. Egli è indubitato: la nuda cognizione di molte lingue [2214]accresce
anche per se sola il numero delle idee, e ne feconda poi la mente, e ne
facilita il più copioso e più pronto acquisto. Quello che ho
detto della lentezza o speditezza delle lingue si deve estendere a tutte le
altre loro proprietà; povertà o ricchezza, ec. ec. anche a quelle
che spettano all'immaginazione, giacchè da queste è influita la
fantasia, e la facoltà delle concezioni fantastiche (e ragionamenti fantastici)
e la qualità di esse, come da quelle è influito l'intelletto e la
facoltà del discorso. Vedete dunque s'io ho ragione nel dire che la
pratica della lingua greca avrebbe giovato agl'intelletti più che non
fece quella della latina (lingua non solo non filosofica nè logica, come
non lo è neppur la greca, ma non adattabile, senza guastarla, alla
filosofia sottile, ed all'esattezza precisa delle espressioni e delle idee, a
differenza della greca.). V. la p.2211. fine. E quello che dico della lingua
greca, dico di ciascun'altra [2215]per la sua parte, massime di quelle
ad essa più analoghe; lo dico dell'italiana, massime in ordine alla facoltà
immaginativa, e concettiva del bello, del nobile, del grazioso ec. la qual
facoltà da nessuna moderna lingua può tanto essere aiutata come
dall'italiana, avendola ben conosciuta e familiare, o materna o no ch'ella ci
sia.
(3. Dic. dì di S. Franc. Saverio. 1821.)
Virtù presso i
latini era sinonimo di valore, fortezza d'animo, e anche s'applicava in
senso di forza alle cose non umane, o inanimate, come virtus Bacchi,
cioè del vino, virtus virium, ferri, herbarum. V. onninamente il
Forcellini. Anche noi diciamo virtù per potenza, virtù
del fuoco, dell'acqua, de' medicamenti ec. V. la Crusca. Virtù
insomma presso i latini non era propriamente altro che fortitudo,
applicata particolarmente all'uomo, da vir. E anche dopo il grand'uso [2216]di
questa parola presso i latini, tardò ella molto a poter essere applicata
alle virtù non forti non vive per gli effetti e la natura loro, alla
pazienza (quella che oggi costuma), alla mansuetudine, alla compassione ec.
Qualità che gli scrittori latini cristiani chiamarono virtutes,
non si potrebbero nemmeno oggi chiamar così volendo scrivere in buon
latino, benchè virtù elle si chiamino nelle sue lingue
figlie, e con nomi equivalenti nelle altre moderne. Di (da ) v. i Lessici,
e gli etimografi: sebbene la sua etimologia, perchè parola più
antica, o più anticamente frequentata dagli scrittori, sia più
scura. E così credo che in tutte le lingue la parola significativa di virtù,
non abbia mai originariamente significato altro che forza, vigore, (o
d'anima o di corpo, o d'ambedue, o confusamente dell'una e dell'altro, ma certo
prima e più di [2217]questo che di quella.). Tanto è vero
che l'uomo primitivo, e l'antichità, non riconosce e non riconobbe altra
virtù, altra perfezione nell'uomo e nelle cose, fuorchè il vigore
e la forza, o certo non ne riconobbe nessuna che fosse scompagnata da queste
qualità, e che non avesse in elle la sua essenza, e carattere
principale, e forma di essere, e la ragione di esser virtù e perfezioni.
(3. Dic. 1821.)
Didone, Aen. 4.659. seg.
Moriemur inultae,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras.
Virgilio volle qui esprimere (fino e
profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle
passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel
considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e
pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso, [2218]se
può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi,
ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente,
ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè
impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza
alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire
vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e
quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni
adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo
resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano
negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto,
(dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che
può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo
male ec.
[2219]L'uomo in tali pensieri
ammira, anzi stupisce di se stesso, riguardandosi (o proccurando di
riguardarsi, con fare anche forza alla sua ragione, e imponendole espressamente
silenzio (nella sua) coll'immaginazione) come per assolutamente straordinario,
straordinario o come costante in sì gran calamità, o
semplicemente come capace di tanta sventura, di tanto dolore, e tanto
straordinariamente oppresso dal destino; o come abbastanza forte da potere pur
vedere chiaramente pienamente vivamente e sentire profondamente tutta quanta la
sua disgrazia.
E questo è ciò che ci proccura
il detto piacere, il quale non è in somma che una pura straordinaria
soddisfazione dell'amor proprio. E questa soddisfazione dove la prova egli
l'amor proprio? nell'estrema e piena disperazione. E donde gli viene, in che si
fonda, che soggetto ha? l'eccesso, l'irremediabilità del proprio male.
La disperazione è molto ma molto
più piacevole della noia. La natura ha [2220]provveduto, ha
medicato tutti i nostri mali possibili, anche i più crudeli ed estremi,
anche la morte (di cui v. i miei pensieri relativi), a tutti ha misto del bene,
anzi ne l'ha fatto risultare, l'ha congiunto all'essenza loro; a tutti i mali,
dico, fuorchè alla noia. Perchè questa è la passione la
più contraria e lontana alla natura, quella a cui non aveva non solo
destinato l'uomo, ma neppur sospettato nè preveduto che vi potesse
cadere, e destinatolo e incamminatolo dirittamente a tutt'altro possibile che a
questa. Tutti i nostri mali infatti possono forse trovare i loro analoghi negli
animali: fuorchè la noia. Tanto ell'è stata proscritta dalla natura,
ed ignota a lei. Come no infatti? la morte nella vita? la morte sensibile, il
nulla nell'esistenza? e il sentimento di esso, e della nullità di
ciò che è, e di quegli stesso che la concepisce e sente, e
in cui sussiste? e morte e nulla vero, perchè le morti e
distruzioni corporali, non sono altro che trasformazioni di sostanze e di
qualità, e il fine di esse non è la morte, [2221]ma la
vita perpetua della gran macchina naturale, e perciò esse furono volute
e ordinate dalla natura.
Osserviamo le bestie. Fanno bene spesso
pochissimo o stanno ne' loro covili ec. ec. ec. senza far nulla. Quanto di
più fa l'uomo. L'attività dell'uomo il più inerte, vince
quella della bestia più attiva (sia attività interna o esterna).
Eppur le bestie non sanno che sia noia, nè desiderano attività
maggiore ec. L'uomo si annoia, e sente il suo nulla ogni momento. Ma questo fa
e pensa cose non volute dalla natura. Quelle viceversa.
(3. Dic. 1821.)
Non potui abreptum etc.?
Verum anceps pugnae FUERAT fortuna.
FUISSET:
Quem metui moritura?
Didone, Aen. 4.600.603. seg. Fuerat
qui significa espressamente sarebbe stata. Puoi vedere p.2321. Fuera direbbero
appunto gli spagnuoli. Quest'uso dell'indicativo preterito [2222]piucchè
perfetto in luogo e in senso del piucchè perfetto dell'ottativo o
soggiuntivo, è frequentissimo presso i latini massime allora quando esso
va congiunto con altro più che perfetto del soggiuntivo, onde sarebbe
stato bisogno il duplicar questo, come nel cit. luogo, dove se in vece di fuerat
poneste fuisset, raddoppiereste quel fuisset (fosse stata)
che viene subito dopo. V. anche Georg. 2. 132.133. dove però si usa
l'imperfetto indicativo (v. p.2348.) V. pure Georg. 3.563. seqq. e Oraz. l.4.
od.6. v.16-24. falleret per fefellisset. Così in
quell'altro di Virg. Aen. 2. [54]
Et si fata deum, si mens non laeva FUISSET,
IMPULERAT ec.
V. anche Oraz. od.17. l.2. v.28. seqq. e
l.3. 16.3. seqq. Così in quel famoso perieram nisi periissem.
Cioè sarei perito, se non fossi perito. Or da tali
osservazioni io deduco due cose.
1. Che l'imperfetto ottativo o soggiuntivo
spagnuolo terminato nella prima e terza persona in ara o in era,
amara, leyera, oyera, non derivi dall'imperfetto latino dello stesso modo, amarem,
legerem, audirem, ma dal piucchè perfetto dimostrativo, amaveram,
[2223]legeram, audieram E me lo persuade 1. la desinenza e la
forma materiale, che in non pochi verbi è similissima, anzi tutt'una coi
detti tempi latini, come fueram fuera, quaesieram quisiera (che ha che
far quisiera con quaererem?), dixeram dixera (e questo che
ha da far con dicerem?) ec. 2. Il veder che il detto tempo spagnolo si forma
nè più nè meno, sempre dal passato dimostrativo, sì
come appunto il più che perfetto dimostrativo latino, non così il
latino imperfetto del congiuntivo.
2. Che questa proprietà della lingua
spagnuola, lingua derivata dal volgare latino, debba dare ad intendere che in
esso volgare si costumasse di adoperare regolarmente e ordinariamente il
piucchè perfetto del dimostrativo in luogo di quello del congiuntivo,
come effettivamente troviamo fatto qua e là dagli stessi scrittori
latini. Ma essi lo fanno, quasi per figura o eleganza. Il volgare latino lo
doveva fare per costume e proprietà, se osserviamo le dette ragioni, e
come quest'uso sia comune e regolare (anzi inviolabile e proprio e necessario)
in una lingua moderna e popolare, derivata da quel volgare; e che certo non
accaso combina in ciò con l'uso che abbiamo osservato in parecchi passi [2225]degli
antichi scrittori.
(4. Dic. 1821.)
Alla p.1167. Similmente abbiamo già
notato p.114. fine, il continuativo anomalo visere di videre da visus
participio pure o anomalo, o non di primitiva forma ec. E che questo sia
veramente continuativo e in se, e ne' suoi composti vedilo in Virgilio sul
principio delle Georg. Tuque adeo quem mox quae sint habitura deorum
Concilia incertum est, urbisne INVISERE, ( presiedere)
Caesar, Terrarumque velis curam, et te maximus orbis Auctorem frugum, tempestatumque
potentem Accipiat ec. Non può esser più decisamente
continuativo. Ponete invece, videre, o visitare, e sentirete
subito la differenza del positivo e del frequentativo dal continuativo. V.
p.2273. fine. e Virg. Georg. 4.390. revisit, consideralo bene, e provati
di metterci il positivo, o di pigliare revisit per frequentativo. Puoi
anche vedere ib. 547. 553. e tal uso di questo verbo è ordinario negli scrittori.
Lo stesso dico di questo luogo di Orazio (Od.31. l.1., v.13. seqq.) Dis
carus ipsis: (parla del mercante) quippe ter et quater Anno REVISENS
(cioè solito di rivedere [2226]ogni anno; che ha
che far questo col frequente? o col positivo? ec.) aequor Atlanticum Impune.
Ponete revidens se potete. Come potrebbe reggersi in tal luogo questo
participio presente, se fosse o positivo o frequentativo? e se non volesse dire
solito di ec. ed esprimere consuetudine, la quale è presente in
ciascun momento su cui possa cadere la parola o la frase?
Del resto come plectere chi sa che
non sieno continuativi anche flectere, nectere, pectere (da ) e tali altri. Ma esamina
meglio la cosa e vedi il Forcellini. V. anche texere.
(5. Dic. 1821.)
Alla p.2019. marg. fine. Abbiamo pure pattuire
(corrottamente pattovire, come continovo ec.) il qual verbo
non è già da pactum i, sostant. nè da pactus participio
dai quali avremmo fatto pattare, (abbiamo anche questo infatti, ed impattare,
v. i Diz. spagn.) ma dal sust. pactus us, di cui v. nel Dufresne pactibus
da Plauto [2227]nella Cistellaria (sebbene il Forcell. nè
l'Appendice non ne hanno nulla) e Pactus (non so se i, o us)
di bassa latinità. E nota pertanto in questo moderno pattuire un
chiaro vestigio, anzi un derivato dell'antico pactus us, manifesto nel
luogo di Plauto (però vedilo), e obbliato poi dagli scrittori, e dagli
stessi Vocabolaristi. Giacchè il Forc. non la mette neppure fra quelle
de' Lessici antichi da lui scartate. (5. Dic. 1821.). Il nostro eccettuare
(v. nel Gloss. Exceptuare) io credo che venga da un ignoto exceptus
us sostant. come captus us dal semplice capio, da cui viene excipio,
onde exceptare (Gloss.) excepter franc. ed exceptuare. V. i Diz. spagn. Così conceptus us,
deceptus us, receptus us, inceptus us, ec.
Coloro che tengono la lingua italiana come
morta, vietandogli l'uso attuale, e continuato, e inalienabile delle sue facoltà
fanno cosa più assurda de' nostri libertini, e più dannosa. Gli
uni e gli altri tengono la vera lingua italiana per morta; ma questi con buona
conseguenza ne deducono che dobbiamo servirci di un'altra viva, cioè di
quella barbara che ci pongono avanti, e che adoprano; quelli (cosa stolta) [2228]vogliono
che noi vivi scriviamo e parliamo, e trattiamo le cose vive in una lingua morta.
(5. Dic. 1821.)
È cosa facilmente osservabile che nel
comporre ec. giova moltissimo, e facilita ec. il leggere abitualmente in quel
tempo degli autori di stile, di materia ec. analoga a quella che abbiamo per le
mani ec. Da che cosa crediamo noi che ciò derivi? forse dal ricevere
quelle tali letture, quegli autori ec. come modelli, come esempi di ciò
che dobbiamo fare, dall'averli più in pronto, per mirare in essi, e
regolarci nell'imitarli? ec. non già, ma dall'abitudine materiale che la
mente acquista a quel tale stile ec. la quale abitudine le rende molto
più facile l'eseguir ciò che ha da fare. Tali letture in tal tempo
non sono studi, ma esercizi, come la lunga abitudine del comporre facilita la
composizione. Ora tali letture fanno appunto allora l'uffizio di
quest'abitudine, la facilitano, esercitano insomma la mente in quell'operazione
[2229]ch'ella ha da fare. E giovano massimamente quando ella v'è
già dentro, e la sua disposizione è sul train di eseguire,
di applicare al fatto ec. Così leggendo un ragionatore, per quei giorni
si prova una straordinaria tendenza, facilità, frequenza ec. di ragionare
sopra qualunque cosa occorrente, anche menoma. Così un pensatore,
così uno scrittore d'immaginazione, di sentimento (esso ci avvezza per
allora a sentire anche da noi stessi), originale, inventivo ec. E questi
effetti li producono essi non in forza di modelli (giacchè li producono
quando anche il lettore li disprezzi, o li consideri come tutt'altro che modelli),
ma come mezzi di assuefazione. E però, massime nell'atto di comporre,
bisogna fuggir le cattive letture, sia in ordine allo stile, o a qualunque
altra cosa; perchè la mente senz'avvedersene si abitua a quelle maniere,
per quanto le condanni, e per quanto sia abituata già a maniere diverse,
abbia formato una maniera [2230]propria, ben radicata nella di lui
assuefazione ec.
(6. Dic. 1821.)
Quanto sia vero che la scienza ed ogni
facoltà umana non deriva che da pure assuefazioni, e queste quando son
relative in qualunque modo all'intelletto, hanno bisogno dell'attenzione.
L'uomo di gran talento, e avvezzo soprammodo ad attendere, ed assuefarsi, si
trova bene spesso inespertissimo e ignorante di cose che i meno attenti, e
più divagati animi conoscono ottimamente. Ciò viene perch'egli in
tali cose non suol porre attenzione. Ho detto altrove ch'egli suol essere
ignorantissimo di tutte le arti ec. della buona compagnia. Osservatelo ancora
nel senso materiale del gusto. Gl'ignoranti l'avranno finissimo, e capacissimo
di discernere le menome differenze, pregi, difetti de' sapori e de' cibi. Egli
al contrario, e se talvolta vi attende, si maraviglia di non capir nulla di
ciò che gli altri conoscono benissimo, e gli dimostrano. Eppur questo
è un senso materiale. Ma non esercitato da lui con l'attenzione, [2231]benchè
materialmente esercitato da lui come dagli altri. Che vuol dir ciò?
tutte le facoltà umane le più materiali, e apparentemente
naturali, abbisognano di assuefazione ec.
(6. Dic. 1821.)
Alla p.2181. Di quelli che scrivevano in dialetto ionico per pura
eleganza e bellezza, dopo già prevaluto universalmente l'attico, con
tutte le regole e pedanterie dell'atticismo, v. Luciano
(6. Dic. 1821.)
Di quante parole o frasi forestiere antiche
o moderne, diciamo giornalmente fra noi stessi, o interrogati del loro valore, questa
non si può esprimere in nostra lingua, il significato non ve lo posso precisamente
spiegare. Che cosa sono esse? idee, o parti, o qualità e
modificazioni d'idee, che quelle lingue e quelle nazioni hanno, e che la nostra
non ha, benchè ne sia capacissima, perchè imparando quelle
lingue, le comprende benissimo, e chiaramente.
(6. Dic. 1821.)
[2232]La legge Cristiana essenzialmente
e capitalmente e in modo che senza ciò ella non sussiste, prescrive di
amar Dio sopra tutte le cose, i prossimi come se stesso per amor suo, e se
stesso non per se stesso, ma per amor di Dio; ond'è ch'ella comanda
ancora l'odio di se stesso ec. Ora torcete la cosa quanto volete, siccome per
una parte non potrete mai negare che la legge Cristiana non obblighi
assolutamente l'uomo a porre un altro Essere al di sopra di se stesso nel suo
amore per ogni verso; così nell'ultima e più sicura ed
infallibile analisi della natura (non solo umana, ma vivente, anzi di quella
natura che sente in qualunque modo la sua propria esistenza) troverete che
questo è dirittamente e precisamente impossibile, e contraddittorio al
modo reale di essere delle cose.
(7. Dic. 1821.)
Non esiste nè può esistere
nè sommo bene, nè sommo male; tanto come sommo, quanto come bene
o male, nessuna cosa essendo per se o buona o cattiva. Bensì il sommo
bene o male [2233]può esistere dentro i limiti di una stessa
natura, dipendentemente, e posteriormente all'ordine e all'essenza di lei,
relativamente ad essa, agli esseri ch'ella comprende, alle qualità che
dentro il suo sistema, e dopo il suo sistema, e a cagione e in virtù del
suo sistema, sono buone o cattive, più o meno buone o cattive.
(7. Dic. 1821.)
Ho detto altrove che nel giudizio che il
lettore pronunzia sulle poesie (così proporzionatamente si può
dire d'ogni altro genere di scrittura), dipende ed è influito moltissimo
dall'attuale disposizione del suo animo, e soggetto perciò ad esser falsissimo
(sì nel favorevole come nello sfavorevole), per molto che il lettore sia
giudizioso, ingegnoso, sensibile, capace di entusiasmo, insomma giudice al
tutto competente. Osservate infatti. In una disposizion d'animo fredda e indifferente,
ovvero [2234]distratta, o gravata d'altre cure, o scoraggiata, o
disingannata ec. sia ella tale attualmente per qualunque cagione, o
abitualmente, acquisita o naturale ec. le più belle scene della natura
ec. ec. non producono, neppure all'uomo il più sensibile del mondo, il
menomo effetto, e quindi nessun piacere; e non però elle sono men belle.
Così viceversa. Similmente dunque deve accadere, e similmente si deve
discorrere del giudizio che gli uomini, anche i più capaci, pronunziano
e concepiscono delle poesie, cose di eloquenza, di sentimento d'immaginazione
ec. Giudizio diversissimo e nelle diverse persone, e in una stessa in diversi
tempi, e momenti anche della giornata, e molto più in diverse nazioni
ec. Aggiungete la sazietà, la scontentezza, il vôto dell'animo, la noia;
aggiungete le circostanze degli studi, il trovarsene sazio o annoiato in quel [2235]tal
momento, il venire da uno studio o lettura che ti ha stancato o annoiato ec. il
che può rendere il giudizio tanto più favorevole del giusto,
quanto anche (assai spesso) più sfavorevole.
Ed è cosa generalmente notabile che
gli uomini disingannati, e disseccati sono necessariamente cattivi giudici
della poesia, eloquenza ec. Or tale è ben presto il caso degli uomini
più sensibili e immaginosi, come ho detto altrove. Anzi lo è
quasi sempre in quel tempo in cui essi son giunti a formarsi un gusto e un
tatto fino e squisito in materie letterarie e in ogni altra cosa, il che non
può essere se non dopo lungo studio, esperienza, tempo. Quindi è
che oggidì i più competenti giudici delle opere d'immaginazione e
sentimento, anzi i soli competenti, vengono pur troppo ad essere incompetenti,
per la quasi [2236]inevitabile abitudine di freddezza e noncuranza
ch'essi contraggono più presto, più costantemente e durevolmente
e continuamente, e più radicalmente, profondamente, e vivamente degli
spiriti mediocri. Fra' quali per conseguenza non isbaglierebbe forse, chi pretendesse
di ritrovare i giudici migliori possibili in tali materie, se non altro come
mezzi e subbietti d'esperimento.
(8. Dic. dì della Concezione di Maria SS. 1821.)
Spessissimo anzi quasi sempre, dalle voci
latine comincianti per ex noi abbiamo tolto la e, e il c,
e cominciatele per s, specialmente, anzi propriamente allora quando la ex
era seguita da consonante, sicchè la nostra s viene ad essere impura.
Nel qual caso che cosa soglian fare gli spagnuoli e i francesi, l'ho detto altrove
parlando della s iniziale impura. Parrà che costoro, solendo
conservare la e, si accostino [2237]più di noi al latino,
e nondimeno chi vuol vedere che l'antico volgare latino, ed anche gli scrittori
più antichi, usavano di far nè più nè meno quel che
facciamo noi, osservi il Forc. in Stinguo (e forse anche in molti altri
luoghi), verbo che anche noi anticamente dicemmo per estinguo, e
così stremo per estremo, sperimento, esperimento; sperto,
esperto; spremere da exprimere da cui pure abbiamo esprimere;
sclamare da exclamare, onde pure esclamare; e così
altre tali voci che hanno pur conservata la e, la perdono o a piacer
dello scrittore, o nei nostri antichi, o nella bocca del popolo ec. E forse
l'avere gli spagnoli e i francesi la e in tali parole, non è
tanto conservazione, quanto maggiore e doppia corruzione; vale a dire che, secondo
me, essi volgarmente da principio dissero come noi, cioè colla s
impura iniziale, e poi per proprietà ed inclinazione de' loro organi,
che mal la soffrivano, o a cui riusciva poco dolce ec. v'aggiunsero, non [2238]prendendola
dal latino ma del loro, la e iniziale. Infatti essa si trova sempre o
quasi sempre nelle parole che anche nel latino scritto, e dell'aureo secolo, e
per loro natura ed etimologia ec. cominciano colla s impura, siccome pur
fanno sempre in italiano. V. p.2297.
Del resto non sarebbe maraviglia che posti
per estremi da una parte il volgar latino, e lo scritto, dall'altra i volgari
italiano spagnolo francese, si trovasse che questi due ultimi si accostano
più (nel materiale intendo, e nell'estrinseco, e particolare) allo
scritto che al volgare latino, e l'italiano al contrario. Perocchè in
Italia il volgare latino era lingua naturale, e come naturale e indigeno venne
a noi sotto la nuova spoglia di lingua italiana. In Francia e Spagna esso era
forestiero, e quindi imparato, e quindi ec. ec.
(8. Dic. 1821.)
[2239]Alla p.2043. A quello che
altrove dico delle cause per cui piace la rapidità ec. dello stile,
massime poetico, ec. aggiungi che da quella forma di scrivere, nasce
necessariamente a ogni tratto l'inaspettato, il quale deriva dalla collocazione
e ordine delle parole, dai sensi metaforici, i quali ti obbligano, seguendo innanzi
colla lettura a dare alle parole già lette un senso bene spesso diverso
da quello che avevi creduto; dalla stessa novità dei traslati, e dalla
naturale lontananza delle idee, ravvicinate dall'autore ec. Tutte cose, che oltre
il piacere della sorpresa, dilettano perchè lo stesso trovar sempre cose
inaspettate tien l'animo in continuo esercizio ed attività; e di
più lo pasce colla novità, colla materiale e parziale maraviglia
derivante da questa o quella parola, frase, ardire ec.
(9. Dic. 1821.)
Osservando bene, potrete vedere che la prosa
(ed anche la poesia) latina, nelle metafore, [2240]eleganze, ardimenti
abituali e solenni, giro della frase, costruzione ec. è molto più
poetica della greca, la quale (parlo della classica ed antica) ha un andamento
assai più rimesso, posato, piano, semplice, meno ardito, anzi non soffrirebbe
in nessun caso quelle metafore ardite e poetiche che a' prosatori latini sono familiari,
e poco meno che volgari. E se non le soffrirebbe, ciò non è
perch'ella ne abbia ed usi delle altre equivalenti, ma intendo dire ch'ella non
soffrirebbe un'egual misura e grado di ardimento ne' traslati e in tutta l'elocuzione
della prosa la più alta, come è quella di Demostene, a petto a
cui Cicerone è un poeta per lo stile e la lingua, laddove egli è
quasi un prosatore ne' concetti, passioni ec. rispetto a Demostene poeta, o
certo più poeta di Cicerone. Quindi una frase prosaica latina sarebbe poetica
in greco, una frase epica [2241]o elegiaca in latino sarebbe lirica in
greco ec. Quasi gl'istessi rispetti ha la lingua latina coll'italiana,
similissima in queste parti alla greca, e però non è maraviglia
se il latinismo dello stile diede qualche durezza ai cinquecentisti, e
sforzò e snaturò alquanto il loro scrivere.
(10. Dic. dì della Venuta della S. Casa. 1821.)
Se la natura è oggi fatta impotente a
felicitarci, perchè ha perduto il suo regno su di noi, perchè
dev'ella essere ancora potente ad interdirci l'uscita da quella infelicità
che non viene da lei, non dipende da lei, non ubbidisce a lei, non può
rimediarsi se non colla morte? S'ella non è più l'arbitro
nè la regola della nostra vita, perchè dev'esserlo della nostra
morte? Se il suo fine è la felicità degli esseri, e questo
è perduto per noi vivendo, non ubbidisce meglio alla natura, non [2242]proccura
meglio il di lei scopo chi si libera colla morte dall'infelicità altrimenti
inevitabile, di chi s'astiene di farlo, osservando il divieto naturale, che non
vivendo noi più naturalmente, nè potendo più godere della
felicità prescrittaci dalla natura, manca ora affatto del suo
fondamento?
(10. Dic. 1821.)
Alla p.1128. sotto il principio. Volete
ancora vedere la fratellanza e il facile scambio tra la f e il v?
Osservate il nostro schifare e schivare che son lo stesso, e non
si sa qual de' due sia il vero, se non che schifare può
sostenersi col sostantivo schifo che forse è sua radice (Crus. Schifo
add. §.3.), e che non si dice schivo; così schifezza ec.
(10. Dic. 1821.)
Ogni uomo sensibile prova un sentimento di
dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in
una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo,
e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta [2243]a finire, come
la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed
anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un
metodo di vita. ec. Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non
è appunto un dolore, una sventura ec. o una fatica, o se l'esser finita,
non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta
dove per suo fine mirava ec. Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo abituati,
proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita.
La cagione di questi sentimenti, è
quell'infinito che contiene in se stesso l'idea di una cosa terminata,
cioè al di là di cui non v'è più nulla; di
una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai
più.
(10. Dic. 1821.). V. p.2251.
In proposito di ciò che ho detto
circa la famosa scrofa apparsa ad Enea, v. la Vita di Virgilio attribuita a
Donato, sul principio, dove racconta il miracolo di una verga accaduto alla
madre ec. Il che ha rapporto col caso nostro, perchè dimostra le
superstizioni popolari fondate [2244]sulla similitudine dei nomi, e come
esse solessero credere rappresentato o simboleggiato (relativamente ai presagi,
augurii ec.) il tal uomo, la tal cosa, dalla tal altra che le rassomigliava nel
puro nome, come la troia a Troia, e come parecchi altri esempi si
troverebbero negli antichi di augurii ec. tratti da pure combinazioni di nomi.
Giacchè quella Vita di Virgilio di chiunque sia, e per quanto poca fede
meriti, meriterà almeno fede in quanto all'avere semplicemente raccolte
le tradizioni popolari e sciocche e mal fondate che correvano, e in quanto al
render testimonianza del modo di pensare di que' tempi, sì in questo
soggetto, come ne' soggetti analoghi.
(11. Dic. 1821.)
Alla p.1563. principio. Il nostro urtare,
franc. heurter (v. gli spagn. Il Gloss. non ha nulla), viene
evidentemente da urgere alla maniera de' continuativi, cioè da urtus,
suo participio ignoto per se stesso, ma fatto manifesto da [2245]questo
verbo comune a due lingue figlie della latina, e dalla voce urto, franc.
heurt, che non è altro che un verbale formato dal participio in us
di urgere, alla maniera di tanti altri verbali latini, come dirò
altrove.
(11. Dic. 1821.)
La sola virtù che sia e costante ed
attiva, è quella ch'è amata e professata per natura e per
illusioni, non quella che lo è per sola filosofia, quando anche la filosofia
porti alla virtù, il che non può fare se non mentre ell'è
imperfetta. Del resto osservate i romani. La virtù fondata sulla
filosofia non esistè in Roma fino a' tempi de' Gracchi. Virtuosi per
filosofia non furono mai tanti in Roma, quanti a' tempi de' Tiberi, Caligola,
Neroni, Domiziani. Troverete nell'antica Roma dei Fabrizi (nemicissima della
filosofia, come si sa dal fatto di Cinea) dei Curii ec. ma dei Catoni, dei
Bruti stoici non li troverete. [2246]Or bene che giovò a Roma la
diffusione l'introduzione della virtù filosofica, e per principii? La
distruzione della virtù operativa ed efficace, e quindi della grandezza
di Roma.
(11. Dic. 1821.)
Alla p.1148. fine. I latini dicevano obligari
votis, ed anche obligari semplicemente nello stesso senso,
sottintendendo votis o voto, come nell'addotto passo di Ovidio, e
come in questo che segue di Orazio, obligata significa vota,
cioè promessa con voto, votis o voto obligata.
Ergo obligatam redde Jovi dapem. (l.2.
od.7. v.17.)
Nel passo di Ovidio pertanto quell'ut
non vuol dire in italiano a, cioè ad tangendum, ma
affinchè ec. secondo il solito.
(12. Dic. 1821.)
Involare che presso noi vale
solamente rubare ebbe in fatti questa significazione non presso i latini
del secolo di Augusto, ma presso gli anteriori e i posteriori. (V. Forcell.)
Fra' quali l'autor della Vita di Virgilio, innanzi [2247]alla metà,
cioè cap.11. V. il Gloss. se ha nulla. Voler dicono i francesi,
ed è notabile perchè viene ad essere la radice d'involare
in questo senso. V. il Gloss. anche in Volare se ha nulla. V. i Diz.
spagn.
Nocchiero voce nostra usuale viene da mutato l'au
in o e il cl in chi, come appunto da clericus chierico,
da clamare chiamare ec. Nauclerus si trova negli scrittori latini
ma rara, non usuale; e parrebbe ch'ella fosse stata per loro un grecismo: pure
indubitatamente ella fu presso i latini volgarissima, sebben poco usata dagli
scrittori, giacchè volgarissima è in italiano fino ab antico. V.
il Forcell. e (se ha nulla) l'Append. e il Gloss.
(12. Dic. 1821.)
Alla p.1124. marg. Tutto quello che ho detto
della monosillabìa di tali vocali successive, quantunque non connumerate
fra' dittonghi, cresce di forza, se queste vocali doppie, triple ec. sieno le
stesse, cioè due e, due i ec. e massimamente se sono due i
(l'esilissima lettera dell'alfabeto). Giacchè non solo i poeti giambici,
comici ec. ma gli epici, i lirici ec. consideravano spessissimo il [2248]doppio
i come una sola sillaba, secondochè si può vedere in Dii
Diis; anzi più spesso, cred'io, per una sola sillaba che per due.
Anzi lo scrivevano ancora con una sola lettera, e questo fu proprio degli antichi,
e seguitato poi da' poeti. (V. il Forcell. il Cellar.
l'Encyclop. Grammaire, in I, o J.) Ora appunto il caso
nostro ne' preteriti della 4ta. è di un doppio i, il
quale pure cred'io che spesso troveremo e nelle antiche scritture latine e ne'
poeti, e scritto e computato per vocale semplice, ovvero per sillaba unica; e
forse più spesso così che altrimenti, cioè più
spesso audi che audii ec. Osservate che anche i nostri antichi
solevano scrivere udì, partì per udii partii ec. I
latini facevano similmente ed anche scrivevano semplice il doppio i di ii,
iidem, iisdem, ec. V. fra gli altri infiniti, Virg. En. 2.654. 3.158. E
quante volte troverete ne' poeti o negli antichi prosatori audisse audissem
ec. ec. Ovvero p.e. petiisse trisillabo ec. Forse più spesso che
quadrisillabo.
Osservate ancora che au, il quale non
è uno de' dittonghi latini, e si pronunzia sciolto (almeno così
fanno gl'italiani, e insegnano gli antichi gramatici, o lo mostrano quando [2249]non
lo contano fra' dittonghi chiusi), tuttavia forma sempre una sola sillaba. V.
p.2350. fine. Suadeo, suesco ec. credo che li troveremo talvolta ne' poeti,
massime ne' più antichi, in modo che sua sue siano computate per
una sillaba ciascuna. Così è infatti assai spesso. V. il marg. della
pagina seguente Suadeo ha la seconda lunga. Però in Virg. Ecl. 1.
v.55. En. 2. v.9. ec. suadebit, suadentque sono trisillabi. V. la Regia
Parnasi in Suadeo, Suesco ec. ec. e gli esempi de' poeti nel Forcell. adeo
in teneris consuescere multum est. Virg. Georg. 2.272. ec. Abiete in
Virg. Aen. 2. principio e 5.663. ec. è trisillabo. Ariete
parimente ib. l.2. v.492. V. la Regia Parnasi, e il Forcell. anche in Arieto
as. E che cos'è l'esser l'i così spesso consonante, se
non esser egli computato per formante una sola sillaba colla vocale o vocali
seguenti? Giacchè i consonante per se stesso non si dà, ma
egli è sempre un suono vocale (a differenza del v, il quale per
natura si distingue dal suono dell'u.) Tutti gli j consonanti
latini (che anticamente si scrissero sempre i) non sono dunque altro che
formanti tanti dittonghi, secondo quello ch'io dico delle vocali doppie. Dejicere
quadrisillabo, ha effettivamente cinque vocali. Così Jacere ec.
ec. ec.
[2250]Non liquidi gregibus fontes,
non gramina DEERUNT (dissillabo). Virg. Georg. 2.200. E di tali
esempi ne troverete infiniti presso i più colti e rigorosi versificatori
latini. Il che prova che la pronunzia di tali parole li favoriva. (13. Dic. 1821.). Corticibusque cavis vitiosaeque
ilicis alvEO. Quid ec. Georg. 2.453. V. p.2266. e 2316. fine. MiscUEruntque
herbas et non innoxia verba. Georg. 2.129. 3.283. Vir gregis ipse caper
DEErraverat: atque ego Daphnim. Virg. Ecl. 7. v.7. Tum celerare fugam,
patriaque excedere SUAdet. En. 1.357. Atria:
dependent lychni laquearibus aurEIS. En. 1.726. V. En. 3.373.450.486.541. 5 269.773.
6.201.678.[7]33. (e vedi quivi le varianti). 5.532.
Sponte sua quae se tollunt in luminis auras,
Infoecunda quidem, sed laeta et fortia surgunt. Quippe
solo natura subest. Georg. 2.47. seqq. Parla delle piante che nascono dove che
sia, naturalmente, e crescono per loro stesse senza coltura.
(13. Dic. 1821.)
Quell'antica e si famosa opinione del secol
d'oro, della perduta felicità di quel tempo, dove i costumi erano
semplicissimi e rozzissimi, e non pertanto gli uomini fortunatissimi, di quel
tempo, dove i soli cibi erano quelli che dava la natura, le ghiande le quai
fuggendo tutto 'l mondo onora, ec. ec. quest'opinione sì celebre
presso gli antichi e i moderni poeti, ed anche fuor della poesia, non
può ella molto bene servire a conferma [2251]del mio sistema, a
dimostrare l'antichissima tradizione di una degenerazione dell'uomo, di una
felicità perduta dal genere umano, e felicità non consistente in
altro che in uno stato di natura, e simile a quello delle bestie, e non goduta
in altro tempo che nel primitivo, e in quello che precedette i cominciamenti
della civilizzazione, anzi le prime alterazioni della natura umana derivate
dalla società? (13. Dic. 1821.). Puoi vedere in tal proposito la Vita
antica di Virgil. dove parla delle sue Bucoliche, c.21. e il principio del 22.
Alla p.2243. Tutto ciò che è
finito, tutto ciò che è ultimo, desta sempre naturalmente
nell'uomo un sentimento di dolore, e di malinconia. Nel tempo stesso eccita un
sentimento piacevole, e piacevole nel medesimo dolore, e ciò a causa dell'infinità
dell'idea che si contiene in queste parole finito, ultimo ec. (le quali
però sono di lor natura, e saranno sempre poeticissime, per usuali e
volgari che sieno, in qualunque lingua e stile. E tali son pure [2252]in
qualsivoglia lingua ec. quelle altre parole e idee, che ho notate in vari
luoghi, come poetiche per se, e per l'infinità che essenzialmente contengono.)
(13. Dic. 1821.). V. p.2451.
Che il privato verso il privato straniero, e
massimamente nemico, sia tenuto nè più nè meno a quei
medesimi doveri sociali, morali, di commercio ec. a' quali è tenuto
verso il compatriota o concittadino, e verso quelli che sono sottoposti ad una
legislazione comune con lui; che esista insomma una legge, un corpo di diritto
universale che abbracci tutte le nazioni, ed obblighi l'individuo nè
più nè meno verso lo straniero che verso il nazionale; questa
è un'opinione che non ha mai esistito prima del Cristianesimo; ignota ai
filosofi antichi i più filantropi, ignota non solo, ma evidentemente e
positivamente esclusa da tutti gli antichi legislatori i più severi, e
pii, e religiosi, da tutti i più puri moralisti (come Platone) da tutte
le più sante religioni e legislazioni, [2253]compresa quella
degli Ebrei. Se in qualche nazione antica, o moderna selvaggia, la legge o l'uso
vieta il rubare, ciò s'intende a' proprii compatrioti, (secondo quanto
si estende questa qualità; perciocchè ora si stringe a una sola
città, ora ad una nazione benchè divisa, come in Grecia ec.) e
non mica al forestiere che capita, o se vi trovate in paese forestiere. V. il
Feith, Antiquitates homericae, nel Gronovio, sopra la pirateria ec. , usata dagli
antichissimi legalmente e onoratamente cogli stranieri. Così dico
dell'ingannare, mentire ec. ec. Infatti osservate che fra popoli selvaggi,
ordinariamente virtuosissimi al loro modo, e pieni de' principii di onore e di
coscienza verso i loro paesani ec. i viaggiatori hanno sempre o assai spesso
trovato molta inclinazione a derubarli, ingannarli ec. eppure i loro costumi
non erano certamente corrotti. V. le storie della conquista del Messico circa
l'usanza menzognera di quei popoli i meno civilizzati. Parimente trovandosi gli
antichi o i selvaggi in terra forestiera, non [2254]hanno mai creduto di
mancare alla legge, danneggiando gli abitatori in qualunque modo.
Che se l'ospitalità, e il diritto
degli ospiti fu garantito ordinariamente dalle leggi antiche, in quanto non si
permetteva di violare colui (forestiero o nazionale, ma per lo più
nazionale) che si ammetteva in sua casa, ec. ec. questa legge, questa
opinione, che faceva considerar l'ospizio come sacro, e raccomandava i diritti
degli ospiti agli Dei Signori e legislatori universali del mondo, non
era effetto di natura, nè innata, ma opera del puro ragionamento, il
quale dimostrava, che avendo l'uomo in società, spesse volte bisogno di
portarsi o trovarsi fra forestieri, e sotto legislazioni diverse dalla sua,
egli sarebbe stato sempre in pericolo, se viceversa ai forestieri che capitavano
in sua patria, non avesse renduto i doveri dell'ospitalità ec. E queste
considerazioni non innate, non derivate da una legge [2255]naturale, da
una morale ingenita, ma dal puro raziocinio e calcolo dell'utile e del
necessario, dietro le circostanze esistenti nella società, queste considerazioni,
dico, sono tutto il fondamento delle pretese leggi eterne ed universali costituenti
il diritto (preteso assoluto) delle genti, dell'uomo, della guerra e della pace
ec.
(15. Dic. 1821.)
Circa il costume antico di celebrare il
dì natalizio o genetliaco delle persone insigni per letteratura ec.
anche dopo la loro morte (oltre quello dei viventi, degli amici ec. del che
puoi vedere parecchie odi d'Orazio, e gli antiquarii ec. ec. nè solo
circa il genetliaco, ma circa molte altre ricorrenze anniversarie, o pubbliche
o private, celebrate pubblicamente o privatamente come festive); v. l'Heyne, Vita
Virgilii per annos digesta, anno Virgilii I. e gli autori ch'ei cita, e le
note ai medici (15. Dic. 1821.). V. in particolare Oraz. od. II. lib.4. v.13-
20. e quivi i comentatori, ed osserva il costume di celebrare, e aver per sacro
e festivo anche il dì proprio natalizio o anniversario.
[2256]Ciò che dice Virg.
Georg. 2. 420-30. paragonato a ciò che precedentemente scrive della
difficilissima e laboriosissima cultura delle vigne, e loro inevitabile decadenza,
può applicarsi a dimostrare quali cibi e bevande, e qual vita la natura
avesse destinato all'uomo; e quanto i suoi presenti (acquisiti e fattizi) bisogni,
sieno contrarii alla natura, e per soddisfarli convenga far forza alla natura;
e quanto per conseguenza si debba credere che la nostra presente vita corrisponda
all'ordine destinatoci da chi ci formò.
(15. Dic. 1821.)
Ante etiam sceptrum Dictaei regis, et ante
Impia quam caesis gens est epulata juvencis, Aureus hanc vitam in terris Saturnus
agebat. Nec dum etiam audierant inflari classica, nec dum Impositos duris crepitare
incudibus enses. Sed nos immensum spatiis confecimus aequor. (nota
questo verso detto però da Virgilio in altro senso.) Georg. 2. fine.
(15. Dic. 1821.)
[2257]Dico altrove (p.1970.) del
futuro congiuntivo adoperato probabilmente dal volgo latino in vece del
dimostrativo. V. Virg. Georg. 2. 49-52. dove exuerint non vale se non se
si spoglieranno, o cosa tanto simile, che ben si rende probabile lo
scambio di questi due futuri nel dialetto volgare romano. (16. Dic. 1821.). V.
pure Oraz. Epod. 15. 23-4. moerebis-risero, e p.2340. e Virg. En. 6.92.
L'altezza di un edifizio o di una fabbrica
qualunque sì di fuori che di dentro, di un monte ec. è piacevole
sempre a vedere, tanto che si perdona in favor suo anche la sproporzione. Come
in una guglia altissima e sottilissima. Anzi quella stessa sproporzione piace,
perchè dà risalto all'altezza, e ne accresce l'apparenza e
l'impressione e la percezione e il sentimento e il concetto. Ad uno il quale
udiva che l'altezza straordinaria di un certo tempio era ripresa come
sproporzionata alla grandezza ec. sentii dire che se questo era un difetto, era
bel difetto, ed appagava e ricreava [2258]l'animo dello spettatore. La
causa naturale ed intrinseca e metafisica di questi effetti l'intendi
già bene.
(16. Dic. 1821.)
Altra somiglianza fra il mondo e le donne.
Quanto più sinceramente queste e quello si amano, quanto più si
ha vera e forte intenzione di giovar loro, e sacrificarsi per loro, tanto
più bisogna esser certi di non riuscire a nulla presso di essi. Odiarli,
disprezzarli, trattarli al solo fine de' proprii vantaggi e piaceri, questo
è l'unico e indispensabil mezzo di far qualche cosa nella galanteria,
come in qualunque carriera mondana, con qualunque persona, o società, in
qualunque parte della vita, in qualunque scopo ec. ec.
(18. Dic. 1821.)
Puoi vedere il Forcell. in cilium ed
osservare come anche presso gli antichi autori latini si trovi vestigio
evidente e di questa voce, e del significato che essa ha nella nostra lingua.
Voce e significato venuto dal volgare latino indubitatamente. E la voce buona
latina supercilium dimostra l'esistenza del semplice [2259]cilium
significante qualcosa che appartenesse all'occhio. V. pure il Gloss. e i
Diz. franc. e spagn.
(18. Dic. 1821.)
Per qual cagione le donne sono
ordinariamente maliziose, furbe, raggiratrici, ingannatrici, astute, impostore,
e nella galanteria, e nella devozione, e in tutto ciò che imprendono, e
in qualunque carriera si mettono? Perchè acquistano così presto e
l'inclinazione e l'arte d'ingannare, dissimulare, fingere, cogliere le
occasioni ec. ec.? Perchè l'astuzia di una donna di mediocre talento e
pratica di mondo, vince bene spesso l'arte e la furberia dell'uomo il
più capace per natura e per esercizio? Crediamo noi che l'ingegno delle
donne sia naturalmente e meccanicamente disposto ad amare, e facilmente
acquistare queste qualità, a differenza dello spirito degli uomini?
Crediamo noi che queste facoltà (poichè sono pur facoltà)
sieno ingenerate nelle femmine più che ne' maschi, e proprie della [2260]natura
donnesca? Non già. Lo spirito naturale e primitivo delle donne, non ha
nè vestigio alcuno di tali facoltà, nè disposizione ad
acquistarle, maggiore per nessun grado di quella che ne abbiano gli uomini. Ma
la facilità e la perfezione con cui esse le acquistano, non viene da
altra cagione che dalla loro natural debolezza, e inferiorità di forze a
quelle degli uomini, e dal non poter esse sperare se non dall'arte e
dall'astuzia essendo inferiori nella forza, ed inferiori ancora ne' diritti che
la legge e il costume comparte fra gli uomini e le donne. Questo è tutto
ciò che v'ha di naturale e d'innato nel carattere malizioso delle
femmine: vale a dire che nè questo carattere, nè alcuna
particolar disposizione ad acquistarlo esiste nella natura donnesca, ma solo
una qualità, una circostanza che la proccura, affatto estranea al talento,
all'indole dello spirito, al meccanismo dell'ingegno e dell'animo. Infatti
ponete le donne in altre circostanze; [2261]vale a dire fate o ch'esse
non sieno mai entrate a dirittura in verun genere di società, massimamente
cogli uomini, o che le leggi e i costumi non sottopongano la loro condizione a
quella de' maschi (come accadeva primitivamente, e come accade forse anche oggi
in qualche paese barbaro), o che dette leggi e costumi le favoriscano alquanto
più, o le mettano anche al di sopra degli uomini (come so di un paese dov'elle
son tenute per esseri sacri), o che esse generalmente per qualche circostanza
(come si raccontava del paese delle amazzoni ec.), o individualmente sieno o
uguali o superiori agli uomini con cui trattano, per forze o corporali, o intellettuali,
naturali o acquisite, per ricchezze, per rango, per nascita ec. ec. e troverete
la loro arte ed astuzia o nulla, o poca, o non superiore o inferiore ancora a
quella degli uomini, almeno di quelli con cui hanno a fare; o certo proporzionatamente,
e secondo la qualità di dette circostanze, minore di quella delle altre
donne, [2262]poste nelle circostanze contrarie, ancorchè meno ingegnose,
e meno cattive ec. L'esperienza quotidiana lo dimostra. Nè solo nelle
donne, ma anche negli uomini, o deboli, o poveri, o brutti, o difettosi, o non
colti, o inferiori per qualunque verso agli altri con cui trattano, come sono i
cortigiani avvezzi a trattare con superiori, e però sempre furbi, e
ingannatori, e simulatori ec. Nè solo degli uomini, ma delle nazioni
intere (come quelle soggette al dispotismo), delle città o provincie,
delle famiglie, ec. lo dimostra la storia, i viaggi ec. ec. E cambiate le
circostanze e i tempi quella stessa nazione o città o individuo maschio
o femmina, perde, minora, acquista, accresce l'astuzia e la doppiezza, che si
credono proprie del loro carattere, quando si osservano superficialmente. I selvaggi
ordinariamente son doppi, impostori, finti verso gli stranieri più forti
di loro fisicamente o moralmente. Ed osservate che la furberia è propria
dell'ingegno. Ora ell'è spessissimo maggiore appunto in chi ha
svantaggio [2263]dagli altri per ingegno o coltura ed esercizio di esso.
(Così nelle donne in genere, meno colte degli uomini, negl'individui
maschi o femmine, plebei, mal educati ec. ne' selvaggi rispetto ai civilizzati
ec.). Qual prova maggiore e più chiara che l'ingegno complessivamente
preso, e ciascuna sua facoltà, non sono opera se non delle circostanze,
quando si vede che la stessa circostanza dell'aver poco ingegno, proccura ad
esso ingegno una facoltà (tutta propria di esso), che maggiori ingegni
non hanno, o in minor grado?
(19. Dic. 1821.)
Antichi, antico, antichità; posteri,
posterità sono parole poeticissime ec. perchè contengono
un'idea 1. vasta, 2. indefinita ed incerta, massime posterità
della quale non sappiamo nulla, ed antichità similmente è
cosa oscurissima per noi. Del resto tutte le parole che esprimono
generalità, o una cosa in generale, appartengono a queste
considerazioni.
(20. Dic. 1821.)
Soglion dire i teologi, i Padri, e
gl'interpreti in proposito di molte parti dell'antica divina legislazione
ebraica, che il legislatore [2264]si adattava alla rozzezza, materialità,
incapacità, e spesso (così pur dicono) alla durezza,
indocilità, sensualità, tendenza, ostinazione, caparbietà
ec. del popolo ebraico. Or questo medesimo non dimostra dunque evidentemente la
non esistenza di una morale eterna, assoluta, antecedente (il cui
dettato non avrebbe il divino legislatore potuto mai preterire d'un apice); e
che essa, come ha bisogno di adattarsi alle diverse circostanze e delle nazioni
e de' tempi (e delle specie, se diverse specie di esseri avessero morale, e
legislazione), così per conseguenza da esse dipende, e da esse sole
deriva?
(20. Dic. 1821.)
Suole la lingua italiana de' nomi sostantivi
retti dalla preposizione con servirsi in modo di avverbi, come con
verità per veramente, con gentilezza per gentilmente, con
effetto per effettivamente, con facilità per facilmente
(Casa, let.43. di esortazione). Molto più questa facoltà è
adoperata dalla lingua spagnuola (dalla quale, almeno in parte, ell'è
forse derivata nell'italiana). Tale usanza [2265]è poco o niente
familiare ai latini, anzi si può giudicar quasi barbara in quella lingua.
E nondimeno io son persuaso ch'ella fosse solenne al volgare latino. Eccovi
Orazio, 3.29. carm. V. 33. seqq.
cetera fluminis
Ritu feruntur, nunc medio alveo
CUM PACE (cioè pacificamente) delabentis
Etruscum
In mare: nunc lapides adesos ec.
Il qual esempio non portato dal Forcell.
credo che difficilmente troverà il simile negli scrittori latini Nel
Forcell. non trovo alla voce Cum cosa che faccia al proposito, se non
forse il §. Aliquando redundare videtur. Vedilo, e l'Append. se ha
nulla, e il Glossar. e i comentatori di Orazio. Solamente trovo nel Forcell. in
Pax alquanto sopra la fine, un esempio di Livio citato, e un altro
accennato, dove si legge cum bona pace, e potrebbe riferirsi al mio proposito,
ma propriamente non vale pacificamente, ma senza far guerra, senza
molestare, in pace in somma come noi diciamo. Osservo ancora che questo
costume proprio dell'italiano e dello spagnolo è anche proprio del
greco, certo assai più di questo che del latino scritto. E siccome
è certo che le dette lingue moderne non possono averlo derivato dal
greco, così è ben verisimile [2266]che l'abbiano dal
volgare latino, tanto più simile al greco che non è il latino
scritto (per la qual cosa anche l'indole dello spagnolo e dell'italiano
somiglia più al greco che al latino scritto). E più simile per
due cagioni 1. che egli è più antico, serba meglio i caratteri
della sua origine, di quel tempo cioè in cui esso insieme col greco
derivò da una stessa fonte, 2. che il greco scritto, cioè quel
solo che noi ben conosciamo, fu senza paragone più simile al greco
parlato, di quello che il latino parlato allo scritto.
(21. Dic. 1821.)
Alla p.2250. marg. E il qu non
formava sempre una sillaba sola, qualunque vocale egli precedesse? aequus,
aequa, aequi, aequos, aeque ec. Non accade dire che il qu si
considerava come consonante semplice. (V. il Forcell. in U, e in Q.)
Nella pronunzia esso era (ed è anche oggi in italiano) non una semplice
consonante, ma una vera sillaba, come cu, e lo sarà sempre per
natura della [2267]favella umana; e quindi aequus, era
naturalmente parlando, assolutamente trisillabo. E nondimeno i latini lo
facevano sempre dissillabo.
La considerazione dei dittonghi (fra' quali
il qua que ec. non fu mai contato) mostra essa sola che i latini avevano
realmente nella natura della loro pronunzia, massime anticamente, la
proprietà di esprimere il suono delle vocali doppie in un solo tempo,
cioè come una sola sillaba. Giacchè senza dubbio ai
(antico) ae oe ec. si pronunziarono da principio sciolti, ma come una
sola sillaba, dal che poi nacque, che si cominciassero a pronunziar legati,
come accadde in Grecia. Che l'antico dittongo ai si pronunziasse
sciolto, e per conseguenza i dittonghi latini si pronunziassero così, ma
che al tempo di Virgilio già si pronunziassero chiusi, osserva En.
3.354. dove Virgilio avendo bisogno di una voce trisillaba, dice Aulai
per aulae: e v. pure En. 6.747. e p.2367. (L'italiano ha molti dittonghi
e tutti si pronunziano sciolti: ma il volgo bene spesso li riduce ad una sola
vocale, come in latino, dicendo p.e. celo per cielo, sono per suono.
Questo è anche costume de' poeti, e di altri ancora fra gli antichi. V.
la pagina seguente ec. ec.). Sottoposta poi a regola la quantità delle
sillabe, quelle vocali doppie che nell'uso eran divenute una sola (cioè ae
ec.), si [2268]considerarono come formanti una sola sillaba, quelle che
benchè in un sol tempo, tuttavia si pronunziavano tutte due (o fossero
più di due) distintamente (come accade anche nell'italiano dove neppure
il volgo, se non forse in qualche parte, dice pensero ec. e pure pensiero
è per tutti trisillabo: gli antichi poeti, cinquecentisti ec. scrivevano
anche volentieri pensero ec. v. le rime del Casa e il Petrarca di
Marsand), si considerarono come altrettante sillabe quante vocali erano ec.
(21. Dic. 1821.). V. la Regia Parnassi in Aaron, e il Forcell. ibid.
Per mostrare come le facoltà umane e
animali derivino tutte dall'assuefazione e di che cosa sia ella capace, e come
lo spirito, e gli organi esteriori e interiori dell'uomo sieno
maravigliosamente modificabili secondo le circostanze variabilissime e
indipendenti affatto dall'ordine primitivo, voluto, e generale della natura, ho
citato le facoltà dei ciechi, sordi, ec. Aggiungo. Non è egli
evidente che la natura ha destinato le mani ad operare, e [2269]i piedi
non ad altro che a camminare ec.? Chi dirà ch'ella abbia dato ai piedi
la facoltà delle stesse cose che può farla mano? Eppure i piedi
l'acquistano; e risiede in essi o altrettanta o poco minore disposizione che
nelle mani, a tutte le facoltà e funzioni di questa. Io ho veduto un
fanciullo nato senza braccia, far coi piedi le operazioni tutte delle mani,
anche le più difficili, e che non s'imparano senza studio. Ho inteso da
un testimonio di vista, di una donzella benestante che ricamava coi piedi. Che
vuol dir ciò? Tanta facoltà naturale risiede nelle mani quanta
nei piedi, cioè nessuna in nessuno dei due. L'assuefazione sola e le
circostanze la proccurano alle une, e la possono proccurare agli altri.
Similmente dite delle facoltà della
mano e parte destra rispetto alla sinistra.
(21. Dic. dì di S. Tommaso. 1821.)
[2270]Come dunque sarebbe assurdo
il dire che la natura abbia dato al piede le facoltà della mano, e
nondimeno vediamo che esso le acquista; così parimente è stolto
il dire che la natura abbia dato alla mano alcuna facoltà, ma solamente
la disposizione e la capacità di acquistarne; disposizione ch'ella ha
pur dato al piede, bench'ella resti non solo inutile, ma sconosciuta e neppur
sospettata in quasi tutti gli uomini; disposizione che non è quasi altro
che possibilità; disposizione maggiore certo nella mano, che la
natura aveva espressamente destinata ad acquistare le sue facoltà ec.
(altro è però destinarla, altro porvi essa stessa veruna
facoltà ingenita); e però l'aveva provveduta di maggior numero di
articolazioni, e postala in parte più adattata ad operare ec. Discorrete
allo stesso modo di tutte le facoltà umane, e di tutti gli organi intellettuali,
esteriori, interiori ec. L'argomento va in regola, e dalle cose più materiali
chiare e visibili, si può e si deve [2271]inferire e spiegare la
natura ec. delle meno chiare e facili, e meno materiali in apparenza.
(22. Dic. 1821.)
Il partire, il restare contenti di una
persona, non vuol dire, e non è altro in sostanza che il restar contenti
di se medesimi. Noi amiamo la conversazione, usciamo soddisfatti dal colloquio
ec. di coloro che ci fanno restar contenti di noi medesimi, in qualunque modo,
o perchè essi lo proccurino, o perchè non sappiano altrimenti, ci
diano campo di figurare. ec. Quindi è che quando tu resti contento di un
altro, ciò vuol dire in ultima analisi che tu ne riporti l'idea di te
stesso superiore all'idea di colui. Così che se questo può
giovare all'amore verso quella tal persona, ordinariamente però non
giova nè alla stima, nè al timore, nè al peso, nè
al conto, nè all'alta opinione ec. cose che gli uomini in società
desiderano di riscuotere dagli altri uomini assai più che l'amore. [2272](E
con ragione, perchè l'amore verso gli altri è inoperoso, non
così il timore, l'opinione, il buon conto ec.) E però volendo
farsi largo nel mondo, solamente i giovanetti e i principianti cercano sempre
di lasciar la gente soddisfatta di se. Chi ben pensa, proccura tutto il contrario,
e sebben pare a prima vista che quegli il quale parte malcontento di voi porti
con se de' sentimenti a voi sfavorevoli, nondimeno il fatto è che egli
suo malgrado, e senza punto avvedersene, anzi e desiderando e cercando e
credendo il contrario, porta de' sentimenti a voi favorevolissimi secondo il
mondo, giacchè l'esser malcontento di voi, non è per lui altro
che esser malcontento di se stesso rispetto a voi, e quindi in un modo o
nell'altro tu nella sua idea resti superiore a lui stesso (che è quello
appunto che gli dà pena); e gl'impedisci di ecclissar la opinione di te,
con l'opinione e l'estimazione di se. Ne seguirà l'odio, ma non mai il
disprezzo [2273](neppur quando tu l'abbia fatto scontento con maniere
biasimevoli, ed anche villane); e il disprezzo, o la poca opinione, è
quello che in società importa soprattutto di evitare; e il solo che si
possa evitare, perchè l'odio non è schivabile; essendo innato
nell'uomo e nel vivente l'odiare gli altri viventi, e massime i compagni; non
è schivabile per quanta cura si voglia mai porre nel soddisfare a tutti
colle opere, colle parole, colle maniere, e nel ménager, e cattivare, e
studiare, e secondare l'amor proprio di tutti. Laddove il disprezzo verso gli
altri non è punto innato nell'uomo: bensì egli desidera di
concepirlo, e lo desidera in virtù dell'odio che porta loro; ma
dipendendo esso dall'intelletto, e da' fatti, e non dalla volontà, si
può benissimo impedire. Tutti questi effetti sono maggiori oggidì
di quello che mai fossero nella società, a causa del sistema di assoluto
e universale e accanito e sempre crescente egoismo, che forma il carattere del
secolo.
(22. Dic. 1821.)
Alla p.2225. marg. Oraz. l.4. od.13. v.22-
sino al fine dell'ode:
[2274]Sed
Cynarae breves
Annos fata dederunt,
Servatura diu parem
Cornicis vetulae temporibus Lycen:
Possent ut iuvenes visere fervidi,
Multo non sine risu
Dilapsam in cineres facem.
(22. Dic. 1821.)
Se tu prendi a leggere un libro qualunque,
il più facile ancora, o ad ascoltare un discorso il più chiaro
del mondo, con un'attenzione eccessiva, e con una smodata contenzione di mente;
non solo ti si rende difficile il facile, non solo ti maravigli tu stesso e ti
sorprendi e ti duoli di una difficoltà non aspettata, non solo tu stenti
assai più ad intendere, di quello che avresti fatto con minore
attenzione, non solo tu capisci meno, ma se l'attenzione e il timore di non intendere
o di lasciarsi sfuggire qualche cosa, è propriamente estremo, tu non
intendi assolutamente nulla, come se tu non leggessi, e non ascoltassi, e come
se la tua mente fosse del tutto intesa ad un altro affare: perocchè dal
troppo viene il nulla, e il troppo attendere ad una cosa equivale
effettivamente al non [2275]attenderci, e all'avere un'altra occupazione
tutta diversa, cioè la stessa attenzione. Nè tu potrai ottenere
il tuo fine se non rilascerai, ed allenterai la tua mente, ponendola in uno
stato naturale e rimetterai, ed appianerai la tua cura d'intendere, la
quale solo in tal caso sarà utile. (22. Dic. 1821.). V. p.2296.
Alla p.1106. marg. Oraz. Epod. 2.13. Aut
in reducta valle mugientium PROSPECTAT errantes greges, il rustico,
o il campagnuolo, colui insomma che abita in campagna. Che ne dite? vi par
questo un frequentativo? Spectare dicevano i latini quello stesso che
noi diciamo guardare, riguardare, riuscire, rispondere, mettere ec. in
un luogo, da una parte, come guardare a ponente, cioè esser
situato a ponente, mettere sul, o nel giardino, rispondere (una
finestra) alla strada. ec. Che vi pare? questo pure sarà un frequentativo?
Altri significati continuativissimi di Spectare v. nel Forcell. [2276]E
domando se un muro, una casa la quale spectat orientem, o ad orientem
faccia cosa frequente o continua. Se si è mai trovato alcun verbo in itare
adoperato ad esprimere azioni di questo genere. Qui si deve riferire anche
l'uso di spectare per appartenere, che noi pure (oltre spettare)
diciamo riguardare, ragguardare, risguardare nello stesso senso. E quell'adspectabant
di Virgilio è frequentativo o continuativo? Alcun verbo in itare
è stato mai adoperato, o può mai adoperarsi in tal significato?
Che ve ne dice l'orecchio per nulla che intendiate di latinità?
Così dite di cento altri esempi di verbi continuativi da me addotti.
(23. Dic. 1821.)
V. nel Forcell. in Non, principio,
nell'esempio di Quintiliano una frase uguale al non plus ec. de'
francesi. Vedilo anche in magis e in plus se ha nulla. [2277]V.
anche il Gloss. (23. Dic. 1821.).
Alla p.1107. fine - e v. Offensus,
massime nel principio e nel fine, sul qual proposito vedi gl'interpreti di
Oraz. Epod. 15. v.15. V. p.2291. e 2299. fine.
Alla p.2141. fine. Il greco è
tutt'un verbo col lat. apto. Questo deriva manifestamente da un apo.
E questo apo non è greco ma latino. E quando anche si volesse
supporre o si potesse trovare un apo nell'antico greco, il greco non
avrebbe potuto esserne formato per le ragioni dette di sopra. Dunque l'apto
latino non può derivar dal greco, e l' greco
essendo evidentemente lo stesso verbo non par che possa essere stato preso
altronde che dal Lazio.
(23 Dic. 1821.)
Alla p.2079. principio. I verbi latini
semplici derivarono certo, almeno per la massima parte, dai nomi: antichissimamente
[2278]però, ed in modo che grandissima parte delle loro radici
nominative è ignota, e passano essi per radici. In altri verbi si trova
la radice nominativa, ed alcuni, anzi non pochi di questi si veggono formati
dai latini di mano in mano, anche in tempi recenti, cioè a' secoli di
Cicerone, degli Antonini, ec. Ma da poi che la lingua formandosi e ordinandosi,
adottò il costume de' verbi composti, essa inclinò sempre a
formarli da' verbi semplici, unendoli alle opportune preposizioni avverbi,
particelle, nomi, ec. Pochissimo si compiacque di trar fuori di netto un verbo
nuovo, composto di preposizioni ec. e di un nome nuovamente e appostatamente
ridotto a conjugazione (Bella facoltà del greco italiano spagnolo) Se ne
trovano alcuni di questi, ma pochissimi (massime fatti da nomi sustantivi) in
confronto specialmente della immensa quantità degli altri verbi composti
da verbi semplici. Dealbare (per altro la radice è aggettiva)
è fra questi [2279]pochi.
(23. Dic. 1821.)
Si trova in lat. obsidium per assedio,
obsidiare per insidiare. (V. e consulta il Forcell.) Parrebbe pur
tuttavia ch'egli dovesse valere assediare. Fatto sta che questo verbo e
quel nome sono composti. Dunque è naturale che una volta avessero i loro
semplici. E quali? sidium, o sedium, e sidiare ec. Ora io
credo che questi in realtà vivessero nel volgare latino benchè
morti nelle scritture, e lo deduco dallo spagn. sitio, e sitiar (assedio,
assediare) mutato il d in t, scambio consueto. Osservate
anche il franc. siège, il Glossar. in Sedius il med. in Assedium,
e Assediare, parole italiane e francesi formate dalla stessa radice di obsidium,
obsidiari, ma con diversa preposizione.
(23. Dic. 1821.)
Alla p.2078. fine. V. il pensiero precedente
il quale dimostra che p.e. obsidiari, che sembra formato da nome (sia obsidium,
o sedes ec.), fu [2280]composto da un verbo semplice, sidiari,
o sidiare.
(23. Dic. 1821.)
L'ital. mescolare, il francese mêler,
anticamente mesler, lo spagn. mezclar derivano evidentemente da
un latino misculare o misculari, il quale è tanto ben formato
da miscere (da cui abbiamo pur mescere) quanto joculari da
jocari, speculari da specere, gratulari da gratari, ed
altri molti. E questo misculari trovandosi in tre diverse lingue figlie
della latina, dovè per necessità trovarsi in quella fonte da cui
tutte tre (ciascuna indipendentemente dall'altra) derivarono, cioè nel
volgare latino. Massimamente che le dette voci sono proprissime ciascuna della
sua lingua, fino da' principii di questa. V. il Forcell. il Glossar. ec. che
non ho consultati. Aggiungete che il francese e lo spagnolo non hanno altro
verbo che risponda a miscere, onde si vede che misculare prevalse
nell'uso volgare latino come infatti prevale [2281]nel med. uso volgare,
il mescolare italiano al mescere. Similmente prevale (e questo
è veramente il più volgare), prevale dico il mischiare, e
questo è in anima e in corpo il misculare, o misculari
latino, cambiato per proprietà di nostra pronunzia il cul, in chi,
del che v. p.980. marg. Diciamo anche meschiare, ma è meno
usuale, e l'adoprarlo non è senza qualche affettazione o d'eleganza o
d'altro. V. il Gloss. se ha nulla, e p.2385.
Era costume del volgare latino, costume
conservato nelle tre figlie di usare i diminutivi in luogo e significato de'
positivi. Molto di ciò si potrebbe dire. Gli scrittori usavano il
positivo, ma moltissime sono quelle parole diminutive che anche nell'uso
dell'ottima latinità scritta sono sottentrate ai positivi, o disusati
affatto, o anche ignorati, o poco usati. Oculus è diminutivo di
un occus, di cui per miracolo resta notizia. Annulus, paxillus, axilla, maxilla (contraz. palus, mala, ala ec. V. il Forc. in X. e a'
rispettivi luoghi) capella, e cento altri nomi e verbi positivi nell'uso
latino da noi conosciuto, non sono in origine che diminutivi di altri positivi
antichi o ignoti, o poco noti. Nei volgari moderni poi, non trovi auris,
ma auricula (orecchia, oreja, oreille); non ovis, ma ovicula
o ovecula [2282](oveja); non agnus, ma agnulus
o agnellus (agnello, agneau ec.); non avis fuorchè
nello spagn. ma avicula, o aviculus, o avicellus, (augello,
ausciello ec. v. il Vocabolar. Veronese, uccello, oiseau); v. il
Forc. in Aucella, e Gloss. non apis, ma apicula o apecula
(pecchia, abeille ec.); non genu, ma genuculum ec. v. il
Gloss. e il Forc. (ginocchio, genouille) ec. ec. Ranocchia,
ranocchio, grenouille (diciamo noi pure volgarmente granocchio) ec.
non sono che ranacula o ranucula, o ranocula ec. V. il
Gloss. i Diz. spagn. ec. e il Forcell. se hanno nulla. V. p.2358. Cento e mille
altri esempi si potrebbero addurre dei positivi latini abbandonati nelle lingue
moderne per abbracciare i loro diminutivi; cosa che credo già notata da
altri, ma che non si deve creder tanto moderna, quanto derivata dall'antico uso
latino volgare, giacchè troviamo effettivamente quest'uso e questa
inclinazione nel latino antico, anche scritto e purissimo. Nè questi
tali diminutivi si sono formati a parte a parte nelle lingue figlie, ma nello
stesso grembo del volgar latino comune alle tre nazioni; come apparisce dai
citati esempi, dove i [2283]positivi moderni si trovano esser manifeste
corruzioni di diminutivi latini, anteriori per conseguenza a tali moderni
positivi; e si trovano essere stati diversamente corrotti nelle tre lingue,
secondo il particolar costume di ciascheduna, e per conseguenza si riconoscono
per derivati da un'origine comune, cioè dal volgare latino. Abbiamo
anche pascolare (diminutivo di pascere, che pure abbiamo, ma
equivalente nel significato) del quale vedi Forcell., Glossar. ec. ec.
(24. Dic. Vigilia del Natale 1821.)
Antica pronunzia e scrittura del verbo che
poi ordinariamente si disse claudere, fu cludere, conservata
sempre ne' composti, recludere, includere, concludere, excludere, e in
tutti o quasi tutti gli altri. Vedi il Forcell. e Frontone sulla fine dei Principia
Orationum (quem iubes CLUDI) il qual Frontone era studiosissimo dell'antica
ortografia, e il codice che lo contiene è antichissimo. Or questa antica
maniera, e ad esclusione della più moderna, si è conservata nell'ital.
chiudere, mutato il cl in chi al nostro solito. Dunque il
volgo latino [2284]continuò sempre (certo in Italia) nell'antica
pronunzia di quella voce. V. il Gloss. se ha nulla.
(24. Dic. 1821.)
Alla p.2052. fine - conflictare da conflictus
o um, di confligere.
(24. Dic. 1821.)
Qual autor greco più facile di
Senofonte? anzi qual autor latino? e forse anche qual autore in qualunque
lingua, massime antica, può essere, o avrebbe potuto esser più
facile, figurandoci anche una lingua a nostro talento? E pure egli è pienissimo
di locuzioni, modi, forme figuratissime, irregolarissime. Ma esse sono naturali,
e ciascuno le comprende, e qualunque principiante di greco, proverà gran
facilità ad intender Senofonte (forse sopra qualunque altro autore,
massime della stessa antichità), di qualunque nazione egli sia, e
quantunque quelle frequentissime e stranissime figure di Senofonte, non sieno
meno contrarie alle regole della sintassi greca, che all'ordine [2285]logico
universale del discorso. Tanto è vero che la natura non è meno
universale della ragione, e che adoperando naturalmente le facoltà proprie
di una lingua, per molto ch'elle si allontanino dalla logica, non si corre
rischio di oscurità, e che una lingua di andamento naturale, se non
è così facile come quella di andamento logico, certo non è
oscura, e fra le antiche poteva (e può) esser giudicata facilissima, e
servire anche alla universalità.
(25. Dic. dì di Natale. 1821.)
Alla p.2192. fine. Se alcuno volesse dire
che i verbi ch'io chiamo continuativi, quando presso gli scrittori, si trovano,
come non di rado avviene, in significato frequentativo o diminutivo, fossero
contrazioni de' verbi in itare, (come prensare di prensitare)
noti o ignoti, stieno in somma in vece di essi, e così vengano ad esser [2286]derivati
dai frequentativi anzi veri frequentativi non solo per significazione ma anche
per formazione ed origine gramaticale; non lo contrasterei più che
tanto: benchè mi paia naturalissima e più verisimile quell'altra
ragione ch'io adduco di tale uso de' continuativi, cioè le solite
metamorfosi che nelle parole, frasi, forme, formazioni, significati ec. produce
inevitabilmente il tempo e il vario uso de' vari generi di scrittori, e
parlatori. Chi può dubitare che le desinenze in ulus, e altre
tali non fossero espressamente diminutive, e che i nomi o verbi ec. così
formati, originariamente e propriamente non significassero diminuzione di
quella cosa o azione, ch'era significata dal verbo o nome positivo? E nondimeno
v. la p.2281. dove ho dimostrato come questi diminutivi sì nell'antico
ottimo latino scritto, sì nel volgare, sì nelle lingue sue
figlie, sieno passati spessissimo a significazione positiva, divenuta [2287]loro
così propria, che oltre che non significano più alcuna diminuzione,
volendoli ridurre a diminuire, bisogna, come spesso si fa, soprattaccargli un'altra
desinenza diminutiva. E ho mostrato ancora che perduti affatto i loro positivi,
restano essi in luogo di questi, e con lo stesso preciso valore dei medesimi
ec.
Del resto ho fatto vedere in più
luoghi, e notato anche espressamente, che i verbi continuativi, in un modo o
nell'altro indicano o sempre o quasi sempre accrescimento di quell'azione
ch'è significata dai positivi, o sarebbe significata se essi tuttora
esistessero. L'indicano, dico, per loro natura, e l'indicano o riguardo al tempo
e alla durata, o a qualunque altra di quelle cose che ho notate. Or come dunque
si vorrà confondere la proprietà e la natura, e la forma stessa
di quei verbi (come fa il Forc.) con quelle de' verbi in itare, forma
che porta con [2288]se una forza diminutiva, che a prima giunta è
manifesta e sensibile a qualunque orecchio men che mediocremente assuefatto al
latino?
(26. Dic. 1821.)
La lingua latina così esatta,
così regolata, e definita, ha nondimeno moltissime frasi ec. che per la
stessa natura loro, e del linguaggio latino, sono di significato così
vago, che a determinarlo, e renderlo preciso non basta qualsivoglia scienza di
latino, e non avrebbe bastato l'esser nato latino, perocch'elle son vaghe per
se medesime, e quella tal frase e la vaghezza della significazione sono per
essenza loro inseparabili, nè quella può sussistere senza questa.
Come Georg. 1.44.
et Zephyro putris se gleba resolvit.
Quest'è una frase regolarissima, e
nondimeno regolarmente e gramaticalmente indefinita di significazione,
perocchè nessuno potrà dire se quel Zephyro significhi al
zefiro, per lo zefiro, [2289]col zefiro ec. Così
quell'altra: Sunt lacrimae rerum ec. della quale altrove ho parlato. E
cento mila di questa e simili nature, regolarissime, latinissime, conformissime
alla gramatica, e alla costruzione latina, prive o affatto, o quasi affatto
d'ogni figura di dizione, e tuttavolta vaghissime e indefinibili di significato,
non solo a noi, ma agli stessi latini. Di tali frasi abbonda assai più
la lingua greca. Vedete come dovevano esser poetiche le lingue antiche: anche
le più colte, raffinate, adoperate, regolate. Qual è la lingua
moderna, che abbia o possa ricevere non dico molte, ma qualche frasi ec. di
significato indefinibile, e per la sua propria natura vago, senz'alcuna offesa
ec. della gramatica? La italiana forse alcun poco, ma molto al di sotto della
latina. La tedesca credo che in questa facoltà vinca la nostra, e tutte
le altre moderne. Ma ciò solo perch'ella non [2290]è ancora
bastantemente o pienamente formata; perch'ella stessa non è definita,
è capace di locuzioni indefinite, anzi, volendo, non potrebbe mancarne.
Così accade in qualunque lingua, nè solo nelle locuzioni, ma
nelle parole. La vaghezza di queste va in ragion diretta della poca formazione,
uniformità, unità ec. della lingua, e questa, della letteratura e
conversazione, e queste, della nazione. Ho notato altrove come la letteratura
tedesca non avendo alcuna unità, non abbia forma, giacchè per
confessione dei conoscitori, il di lei carattere è appunto il non aver
carattere. Non si può dunque dir nulla circa le facoltà del
tedesco, che non può esser formato nè definito, non essendo tale
la letteratura, (per vastissima ch'ella sia, e fosse anche il decuplo di quel
che è) e mancando affatto la conversazione. Quindi anche le loro parole
e frasi denno per necessità avere (come hanno) moltissimo d'indefinito. [2291]
(26. Dic. 1821.)
Alla p.2138. marg. Odoratus che
significa odoroso, ed è aggettivo nell'uso, che altro è in
origine fuorchè un participio? E beatus? V. ciò che ho
detto di vastus. Fare de' participii in us tanti aggettivi,
è così frequente nel latino, quant'altra cosa mai. Gli usavano
ancora comparativamente e superlativamente come beatior, beatissimus,
cumulatior, cumulatissimus; cosa propria degli aggettivi: nondimeno
l'usavano di fare anche a veri participii, anche a quelli del presente attivo,
come amantior, amantissimus; i quali però in tal forma pigliavano
la natura di aggettivi. (26. Dic. 1821.). Similmente densus onde densare
non fu forse che un participio, come prehensus, mensus, intensus per intentus
(così forse densus per dentus; v. il Forcell.) ec.
Alla p.2277. sul principio. V. il pensiero
precedente sulla voce odoratus, vero participio (in origine) di odorare,
cioè spargere odore, o di odore (v. Forcell.); participio
usato attivamente, perciocchè significa quello che sparge odore,
cioè odorifero.
(26. Dic. 1821.)
[2292]Chi deve governare gli
uomini, dovrebbe conoscerli più che alcun altro mai. I principi per lo
contrario, cresciuti fra l'adulazione, e vedendo gli uomini sempre diversi da
quello che sono, (per le infinite simulazioni della corte) e da giovani avendo
poca voglia, più tardi poco tempo di attendere agli studi, non possono
conoscer gli uomini nè come li conoscono i filosofi, nè come li
conosce chi ha praticato e sperimentato il mondo qual egli è. Quindi
nella cognizione degli uomini, dote in essi di prima necessità per il
bene de' sudditi, i principi non solo non sono superiori, ma necessariamente
inferiori ai più meschini e ignoranti che vivono nel mondo. A questo
gran difetto rimedierebbero gli studi: e infatti quanti principi sono stati
studiosi o in gioventù o in seguito, quanti principi sono stati filosofi,
tanti sono stati buoni principi, avendo appreso dai libri a conoscer quel mondo
e [2293]quelle cose che avevano a governare. Marcaurelio, Augusto,
Giuliano ec. Parrebbe questo un grandissimo pregio e un vero trionfo della
filosofia, e dimostrazione della sua utilità. Ma io dico che la
filosofia non ha fatto nè farà mai questo buon effetto di darci
dei buoni principi, se non fino ch'ella fu, o quando ella è imperfetta:
allo stesso modo che solo in questo caso ella può darci de' buoni
privati, e ce ne diede e ce ne dà. Vengo a dire che la filosofia moderna
(la quale può dirsi che nella sua natura, cioè in quanto filosofia,
o scienza della ragione e del vero, sia perfetta) non farà de' buoni
principi, come non farà mai de' buoni privati; anzi ne farà dei
pessimi, perchè la perfezione della filosofia, non è insomma
altro che l'egoismo; e però la filosofia moderna non farà de'
principi (come [2294]vediamo de' privati) se non de' puri e perfetti
egoisti. Tanto peggiori de' principi ignoranti, quanto che in questi l'egoismo
ha una base meno salda; la natura che lo cagiona, v'aggiunge molti lenitivi e
modificativi; le illusioni della virtù della grandezza d'animo, della
compassione, della gloria non sono irrevocabilmente chiuse per loro, come per
un principe filosofo moderno: e se non altro in quelli la coscienza e
l'opinione ripugna al costume, e al vizio; in questi li rassoda, li protegge
(essendo un filosofo moderno, necessariamente egoista, e quindi malvagio, per
principii), anzi li comanda, e condannerebbe il principe se non fosse egoista
dopo aver conosciute le cose e gli uomini. Così che anche un principe
inclinatissimo alla virtù, divenendo filosofo alla moderna, diverrebbe
quasi per forza e suo malgrado vizioso, [2295]come accade ne' privati.
Volete una prova di fatto? Volete conoscere che cosa sia un principe filosofo
moderno? Osservate Federico II. e paragonatelo con M. Aurelio. Di maniera che
è da desiderarsi sommamente oggidì che un principe non sia filosofo,
il che tanto sarebbe, quanto freddo e feroce e inesorabile egoista, ed un
egoista che ha in mano, e può disporre a' suoi vantaggi una nazione,
è quanto dire un tiranno. Ecco il bel frutto e pregio della filosofia
moderna, la quale finisce d'impossibilitare i principi ad esser virtuosi
(siccome fa ne' privati), e a conoscer gli uomini, senza il che non possono
esser buoni principi. Ma siccome questo effetto della filosofia moderna, non
è in quanto moderna, ma in quanto vera e perfezionata filosofia
(giacchè niente di falso le possiamo imputare), e siccome le cose si
denno considerare e giudicare nella [2296]loro perfezione cioè
nella pienezza del loro essere, e delle loro qualità e proprietà,
così giudicate che cosa sia per essenza la filosofia, la sapienza, la
ragione, la cognizione del vero, tanto riguardo al regolare le nazioni,
cioè riguardo a' principi, quanto assolutamente parlando.
(27. Dic. 1821.)
Alla p.2275. Chi di noi volendosi mettere
per una stanza a camminare dentro due linee in uno spazio di un palmo e mezzo,
ed anche meno, non è capace di farlo, senza neppur pensare di
squilibrarsi? (Eccetto il caso che vi pensino, per qualche circostanza che li
metta o nel puntiglio, o nella necessità ec. di non isquilibrarsi; perocchè
allora correranno parimente rischio di patirlo.) Or ponete che questo medesimo
spazio sia un trave, o una tavola posta a modo di ponte sopra un altissimo precipizio,
o sopra un fiume, senza ripari nè appoggi da veruna parte. Quanti sono
coloro che non si fiderebbero di passarvi, o passandovi perderebbero
l'equilibrio, o correrebbero più volte vicinissimo rischio di perderlo!
E pure a questi medesimi non manca nè la facoltà nè [2297]l'abito
giornaliero, di far tutto quello che bisogna perchè quel passaggio non
faccia loro alcun male; cioè l'abito di camminare allo stessissimo modo
tuttogiorno senza punto squilibrarsi, quando lo squilibrarsi non è
pericoloso.
(27. Dic. 1821.)
Alla p.2238. I preliminari di questo
pensiero si applichino a quello che segue ora, perocchè quanto a stinguo
esso non è aferesi di exstinguo, ma la radice del medesimo, e di restinguo
ec.; altrimenti si direbbe extinguo, e allora stinguo sarebbe per
aferesi. -
Quindi si può congetturare che quelli
fra tali composti i quali da' buoni latini si scrivevano non colla ex ma
colla semplice e come enervare, e che in italiano (così se
in franc. o spagn.) cominciano colla s impura, come snervare, si
pronunziassero volgarmente colla ex, cioè exnervare ec. [2298]I
latini scrittori a' buoni tempi, solevano in tali composti servirsi della
preposizione e (tralasciando l'x) avanti il b, il d, la f,
il g, la l, la m, la n, la r, il v.
Io credo che il volgo latino avanti a queste medesime lettere dicesse ex,
p.e. exbibo, exfodio, exgregius, exmoveo, exnervo (come ho detto), exrogare,
exveho, in vece di ebibo, effodio, egregius, emoveo, enervo, erogo,
eveho. Infatti di queste e di altre simili voci così scritte si
trovano esempi in Plauto o in altri de' più antichi, o viceversa ne'
più moderni, come Apuleio ec. V. poi il Glossar. circa i latinobarbari.
E me ne persuade il vedere in tali o simili voci conservate in italiano, la s
impura, (o se in ispagnuolo, la es, se in francese la es antica,
e la é moderna) come svellere da evellere, svolgere
da evolvere, smuovere da emovere, che appunto scritto exmovere
si trova in Plauto Trucul. 1.1. 59. sfuggire da effugere.
Sempre fedelmente [2299]troverete gli antichi scrittori latini
più conformi all'italiano che quelli del secol d'oro, segno evidente
d'essersi perpetuato l'antico costume, ed esser passato fino a noi, le quali
cose non ponno essere state per altro mezzo che del linguaggio volgare latino,
tenacissimo, al solito, dell'antichità. Sempre troverete il volgare
italiano (così proporzionatamente il francese e lo spagnolo) più
conforme al volgare latino in tutto ciò che se ne può scoprire
(qual è il linguaggio de' comici latini in qualche parte), di quello che
agli scrittori: segno chiaro che da esso volgare e non dal latino scritto o
civile sono nate le tre moderne sorelle.
(28. Dic. 1821.)
Alla p.2277. V. il Forc. in Exululatus.
E nota che non si dice nè Exululor, nè Ululor ec.
deponente. (28. Dic. 1821.). V. pure in Virg. En. 2. 218-9. circum-dati (vero
partic. passato, in significazione attiva, come amplexi nel verso stesso),
444. Protecti per protegentes; lib.4.659. impressa, per cum
impressisset, e consulta il Forcell. circa questi esempi, intorno ai quali
però io non mi acquieto alla sua spiegazione e degl'interpreti. Ma
soprattutto v. En. 4.589-90. percussa, ed abscissa, e 1.320. (e
gl'interpreti), 481.
Lamia era una voce (dal greco, o
comune al greco) e significava un'idea [2300]del tutto popolare nella
Grecia e nel Lazio, anzi popolare per sua natura, in qualunque popolo, e
propriamente una di quelle voci e idee che non essendo adoperate mai dagli
scrittori se non per ischerzo, o per filosofica riprensione, sono nondimeno
tutto giorno in uso nella comune favella, e in questa sordamente si conservano
e si perpetuano, come fanno i pregiudizi e le sciocchissime opinioni, e i
più puerili errori della più minuta plebaglia, e delle ultime
femminucce; pregiudizi ec. de' quali in particolare non s'ha notizia fuori di
quella tal nazione perchè difficilmente vengono in taglio d'esser
mentovati nella scrittura, o nella società, per poco civile che sia. E
massimamente se ne perde la notizia, s'essi sono antichi (come appunto delle
voci oscene delle quali avranno abbondato le lingue antiche, ne abbondano le
moderne, nè però si conoscono da' forestieri.). [2301]Frattanto
essi si conservano tradizionalmente di padre in figlio, e si perpetuano
più che qualunque altra cosa volgare, e con essi le parole che loro appartengono
specificatamente. Di tal natura è l'antichissima e volgarissima voce Lamia,
, e l'idea
ch'essa significa. V. il Forcell. i Diz. Greci, il Glossar. e il mio Saggio
sugli errori popolari degli antichi.
Or questa voce passò in realtà
nel volgare italiano, e vi passò non per mezzo degli scrittori, ma per
mezzo del volgare latino il che si dimostra in due modi.
1. Quei pochissimi scrittori latini che
usarono questa voce, non poterono esser noti più che tanto a
quegl'ignorantissimi che nel 300 adoperarono scrivendo in italiano la voce Lammia.
Si vede chiaro ch'ella era in quel secolo volgare in Italia, poichè si
trova in iscrittori di questa natura: laddove oggi ella non si trova che negli
scritti dei dotti, perchè il volgo [2302]ha finalmente cessato di
adoperarla e di conoscerla, avendo non perduto, nè cambiato affatto
quella stolta idea che quella parola significava, ma pur tanto cambiatala,
ch'ella si esprime ora con altre parole.
2. Gli scrittori latini adoperarono Lamia
in senso di strega, o fata ec. e negli scrittori del trecento
ella si trova, credo sempre, in senso di ninfa, tanto che i volgarizzatori di
quel tempo, dove i testi latini dicono nympha, traducono regolarmente Lammia.
Questa voce non la poterono dunque avere dagli scrittori latini, che l'adoprano
in altro senso, ma dal volgare, il quale, come il volgo fu divenuto cristiano,
e considerò le ninfe, e le altre deità del paganesimo come demonj,
e mali spiriti, cominciò e costumossi a chiamar Lammie le ninfe
de' Gentili. (Del che molti analoghi esempi cristiani si potrebbero addurre.).
Ovvero intendendo per Lammie le fate delle quali a que' tempi si
discorreva, e la cui idea somiglia a quella delle streghe ec. e le fate essendo
una specie di ninfe, e viceversa, prevalse questo costume di confonder le ninfe
[2303]colle Lammie, tutte cose che dimostrano un uso volgare, e
una perpetua conservazione della voce Lamia e dell'idea che significava,
o di un'idea analoga alla medesima, nel volgare latino fino ai primordi
dell'italiano; altrimenti come sarebbero andati quegl'ignorantissimi
trecentisti a pescare questa voce e quest'idea ne' pochissimi (e allora in gran
parte ignoti, e tutti malnoti) scrittori latini che l'adoperarono, per poi scambiarla
nel volgare italiano con quello che gli scrittori latini chiamavano ninfa?
Massimamente se considerate ciò che ho detto di sopra, che questa antica
voce Lamia, e questa idea, o altra a lei analoga (com'è naturale
che il tempo cambi pur qualche cosa nelle opinioni del volgo, come nella
favella, specialmente essendo mutata la Religione), dovea per sua natura
conservarsi sordamente e tradizionalmente, ma lunghissimamente nella bocca e
nella testa dell'infima plebe (la quale ora finalmente l'ha perduta; e questa
voce non è che dei dotti nel senso di strega, de' pedanti [2304]nel
senso di ninfa.) E chi sa che gli stessi antichi latini (e greci) volgarmente
non dicessero Lamia per ninfa? Considerando cioè la ninfa come un
ente misterioso, e di misterioso potere, qual è appunto la Lamia.
Facilissime e naturalissime sono queste confusioni d'idee e di parole, in
quelle tra esse che appartengono alla classe abbandonata ai pregiudizi
dell'infimo volgo. V. il Forcell. in che senso si prendesse la voce nympha.
V. pure il Monti, Proposta, voce Lammia. Io per me credo probabilissima
e naturalissima quest'ultima opinione, la quale parimente dimostrerebbe come Lammia
derivasse nell'antico italiano (e questo, volgare) dal solo volgare latino.
(29. Dic. 1821.). A questo proposito osserva ancora intorno alla nostra voce Fata,
ed all'idea ch'essa significa, il Forcell. in Fata ae, e una mia nota al
Frontone de Nep. amisso. Troverai che la voce e l'idea prende origine
dall'antico latino, e dev'esser passata a noi per mezzo del volgare, essendo
essa voce pochissimo o niente usata dagli scrittori latini ec. V. pure il
Forcell. Fatum in fine, e sotto il principio, dove cita Apuleio. V.
p.2392.
I diminutivi sogliono esser sempre graziosi,
e recar grazia e leggiadria ed eleganza al discorso, alla frase ec. Riferite
quest'osservazione alla grazia che nasce dalla piccolezza.
(29. Dic. 1821.)
[2305]Gl'italiani, i francesi gli
spagnoli usano il verbo sapio (sapere, saber, savoir) nel senso
di scio. Che vuol dir ciò, se non che così adoperava quel
volgare da cui e non d'altronde, tutte tre queste lingue son derivate? Vedi il
Forc. e il Glossar. e Sapiens, Sapientia ec.
(29. Dic. 1821.)
Ho detto altrove che gli antichi (e
ciò per natura) consideravano il forestiero come naturalmente ed
essenzialmente diverso dal paesano, e come ente d'altra natura. Quindi è
ch'essi si difendevano da' forestieri o gli assaltavano, come facevano colle
bestie, cogli animali o colle cose d'altra specie, se non quanto ponevano
maggior gloria nel vincer gli uomini, come vittoria più difficile. Ma la
guerra nell'antica e primitiva idea non differiva o punto o quasi punto dalla
caccia, (come non differisce presso i selvaggi). Quindi non quartiere, non
pietà, non magnanimità (che allora non si credeva aver luogo col
nemico), non perdono col vinto; quindi [2306]ostinazione, risolutezza di
non cedere, (e come avrebbero voluto sottostare al governo di animali, di fiere
ec.? come dunque a quello di uomini creduti d'altra specie?) disperazione di
esser vinto, schiavitù, depredamenti, incendi, distruzioni degli
alberghi e dei paesi, delle sostanze e delle persone dei vinti; quindi tutti
gli altri effetti dell'antico odio nazionale, che altrove ho specificati, e che
sono parimente moderni nei selvaggi, barbari ec.
(29. Dic. 1821.)
Alla p.1283. principio. Io sospetto di aver
trovato effettivamente questa radice hil nell'antichissimo latino.
Osservate. Nihilum, è quasi ne hilum, dice il Forc. e seco
gli etimologi. V. anche il Forcell. in Per hilum. E non v'è
questione perocchè Lucrezio dice neque hilo ec. rompendo il
composto, in vece di nihiloque, come solevano gli antichi latini, massime
i poeti, (come Plauto disque trahere per et distrahere) e questi
anche a' buoni secoli: e così i greci. Nè solo Lucrezio ma altri
che v. nel [2307]Forc. in Hilum. Della particella privativa ne
(cambiata nella composizione in ni) vedi il Forcell. in ne, e
in nego. Potrebbe anche essere un nec, come necopinans ec.
significa non opinante ec. e il nec non è che particella
privativa come l' dei
greci. V. anche lo Scapula in ,
particella parimente privativa nell'antichissimo greco, del che v. pure Helladii
Besantinoi Chrestomathia, colle note del Meursio.
(Nel qual proposito osservo di passaggio. La
n è radicale e caratteristica della negativa in latino, e
così pure per conseguenza in italiano. Quindi non, ne, nec, neque,
(v. il Forcell.) nihil, nil, nemo, nullus cioè non ullus,
come pure si dice, nego, nefas, nequam, nepus cioè non purus, nolo,
nequeo, nequicquam, nedum, nequaquam ec. de' quali v. il Forcell. ed
osserva la forza e l'uso della particella ne in composizione. Non
così nel linguaggio greco dei buoni secoli. Giacchè , , , , ec. non
hanno n. [2308]Eppure nell'antichissimo greco è chiaro per
le sullodate testimonianze, e per l'uso di Omero ec. che la avea forza di negazione, privazione, ec.
Ecco un'altra prova e della fraternità antichissima delle dette due
lingue, e dell'esser forse qualche cosa passata piuttosto dal latino nel greco,
che viceversa; o certo dell'avere la lingua latina conservate assai più
della greca le sue antichissime ed originarie proprietà. E notate che
trattandosi della caratteristica negativa, si tratta di cosa primitiva affatto,
e di primissima necessità in qualunque lingua.)
Nihilum pertanto è ne
hilum, come nemo, ne homo, e v. il luogo di Varrone nel Forcell. in Nequam.
Che cosa significasse questo hilum,
antichissima voce latina, non sanno affermarlo i gramatici. Putant esse,
dice Festo, quod [2309]grano fabae adhaeret. Dunque egli
non sa propriamente che significhi, nè si sapeva al suo tempo. Ed
è cosa ben naturale quando tante parole di Dante e d'altri trecentisti o
duecentisti (meno lontani da noi, che le origini della lingua latina da Festo)
sono o di oscurissima e incertissima, o di perduta significazione.
Io credo che esso non significhi altro che materia,
o cosa esistente (che per li primitivi uomini non poteva essere immaginata
se non dentro la materia, ed estendi questo pensiero.). E penso che sia
nè più nè meno l'dei greci,
ossia quell'antichissimo hilh o hulh che abbiamo detto.
Vogliono che nihil, sia troncamento
di nihilum. Al contrario a me pare che nihilum sia parola
così ridotta da nihil, perchè divenisse capace di
declinazione. Che troncamento barbaro sarebbe stato questo, e quanto contrario
al costume latino, se da nihilum primitivo, avessero fatto nihil!
e non piuttosto viceversa, [2310]che è naturalissimo. Addolcendosi
la favella (massime quelle del gusto meridionale, del gusto della latina) non
si troncano, anzi si aggiungono appunto allora le terminazioni, e si proccura
inoltre di render declinabili, cioè modificabili secondo le diverse
occorrenze del discorso, le voci che già esistono; e non per lo
contrario. Indubitatamente per tanto non nihil da nihilum, ma
questo viene da quello. Si dice parimente nil contrazione di nihil,
(fatto più volte monosillabo da Lucrezio) ma nilum per nil
si trova in Lucrezio appena una volta, e chi sa s'è vero, e che non sia
errore in vece di nihilum dissillabo. In ogni modo è costante
presso il più sciocco etimologo che le terminazioni non vanno calcolate,
ed è chiaro che le sole radicali di nihilum, i, o, ec. sono nihil;
di hilum, hil. E di questo secondo, la cosa è tanto
più manifesta, quanto che abbiamo appunto da esso, nihil, e nil,
senza la terminazione declinabile.
Eccoci dunque con questo hil nudo e
manifesto nelle mani, e se attenderete alle [2311]cose dette di sopra, e
se avrete niente di spirito filosofico, vedrete quanto sia naturale e probabile
che siccome ne homo cioè nemo, vuol dire nessuna persona,
così ne hil cioè nihil volesse dire primitivamente nessuna
materia, cioè nessuna cosa (v. p.2309. mezzo, e i miei vari
pensieri sulla necessaria e somma materialità di tutte le primitive
lingue, e di tutte le primitive idee umane, anzi non pur delle primitive, ma di
tutte le idee madri ed elementari); ovvero non materia, non cosa,
cioè, insomma, e formalmente ed espressamente, nulla.
(Così i greci neque
unum ec. non quidquam oëtim®ti ec.)
Non vi par ella naturalissima questa
etimologia? Non vi par dunque probabilissimo che l'antico e quasi ignoto hilum
volesse dir materia, e fosse tutt'una radice con e silva adoprata pur
essa in senso di materia? Non è chiaro che l'um in hilum
non è radicale, ma declinabile ec. e per conseguenza la radice è
solamente hil, massime che da hilum abbiamo nihil e nil,
parole inverisimili, [2312]e strane e mostruose se fossero un'apocope
ec.? Non abbiamo dunque probabilmente trovato in realtà nell'antichissimo
latino la semplicissima radice di silva? di , ec.?
Osservate che in questo caso si renderebbe
verisimile che il primitivo e proprio senso di silva
ec. fra quelli ch'essi realmente hanno, fosse quello di materia.
Non so se possa fare al caso l'osservare che
noi diciamo filo per nulla, il che potrebbe derivare non da filum
da hilum, mutato l'h in f, come viceversa gli spagnuoli,
onde appunto per filum dicono hilo. E ricordati di quanto ho
detto circa l'antica proprietà della f, cioè di essere
aspirazione. Del resto v. la Crusca, il Glossar. i Diz. franc. e spagn. ec. e
il Forc. in filum, se avesse nulla.
(30. Dic. 1821.)
I greci conoscevano la letteratura latina
appresso a poco come i francesi conoscono oggidì le letterature
straniere (specialmente l'italiana), e com'essi le hanno conosciute da poi che
la lingua letteratura e costumi loro sono stati [2313]pienamente
formati. Eccetto quella differenza che è prodotta dalla diversità
de' tempi e del commercio fra le nazioni, per cui la Francia conosce certo
più le letterature forestiere, di quel che la Grecia conoscesse la
latina. Ma parlo proporzionatamente. E non è questa la sola somiglianza
(estrinseca però) che passa fra lo spirito, il costume, la letteratura
francese, e la greca.
(31 Dic. 1821.)
Il grande intreccio in un'azione drammatica,
la complicazione dei nodi ec. distoglie affatto l'animo dell'uditore o lettore
dalla considerazione della naturalezza, verità, forza della imitazione,
del dialogo, delle passioni ec. e di tutte quelle bellezze di dettaglio nelle
quali principalmente consiste il pregio d'ogni genere di poesia. Anzi per
l'ordinario dispensa l'autore da queste bellezze, lo dispensa dall'osservanza,
e dall'efficace e viva dei
caratteri ec. In questo modo l'unico [2314]o certo il principale effetto
ed affetto ed interesse che i drammi di grande intreccio producono, si è
la curiosità; e questa sola spinge l'uditore a interessarsi e fare
attenzione a ciò che si rappresenta, questa sola trova pascolo, e questa
sola è soddisfatta nello scioglimento. Nessun'altra passione o interesse
è prodotta in lui da tali drammi, per caldi e passionati che l'autore
abbia inteso di farli. Or questo è del tutto alieno dall'essenza della
drammatica: esso appartiene all'essenza del racconto: la drammatica essendo una
rappresentazion viva e quasi vera delle cose umane, deve destar ben altro
interesse che quello della curiosità, come può fare la storia: in
questo caso, l'azione drammatica viene ad esser come quella di una novella, il
dramma produce lo stesso effetto di una novella, ed è indifferente per
l'uditore o lettore che quell'azione accada sotto gli occhi suoi, o gli venga
fatta sapere per mezzo di parlate, ovvero che se gli racconti semplicemente il
caso come in un romanzo, o in una storia curiosa e complicata. [2315]Quindi
la necessità e il pregio degl'intrecci semplici in ogni genere di
drammi, ma proporzionatamente più in quelli dove l'interesse della
passione, e la commozione dell'uditore dev'esser più viva, come nella
tragedia: a cui la semplicità dell'azione è più necessaria
che alla commedia. A questa poi ancora è proporzionatamente necessaria
per il pieno sviluppo, e la perfetta pittura dei caratteri, e lo spicco dei
medesimi, i quali si perdono affatto (per vivi e ben imitati che sieno) quando
la curiosità dell'intreccio assorbe tutto l'interesse e l'attenzione dell'uditore.
In somma l'uditore non deve tanto interessarsi del successo, e anelare allo
scioglimento del nodo, ch'egli perda l'interesse e la commozione ec. successiva,
e continua, ed applicata individualmente a ciascuna parte del dramma, e a tutto
il processo dell'azione ugualmente.
(31. Dic. 1821.). V. p.2326.
L'animo umano è sempre ingannato
nelle sue speranze, e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza
medesima, e sempre capace [2316]di esserlo: aperto non solo, ma
posseduto dalla speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto
stesso del suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente
deriva. L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale,
abbandonarlo mai finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza.
(31. Dic. 1821.)
Circa quello che ho detto altrove del vir
frugi de' latini, che significava uomo di garbo, e propriamente non
voleva dir altro che utile, vedi il Forcellini in Nequam, che
significa cattivo, e propriamente non vale che inutile. Così in Nequitia
ec.
(31. Dic. 1821.)
Alla p.2250. marg. Nihil, vehemens
ec. sono adoperati più volte da' poeti, quello come monosillabo, questo
come dissillabo ec. V. il Forcellini. Così Nihilum dove appunto
devi vedere il Forcell. in fine della voce. E quel fare di nihil nil, di
vehemens vemens (v. il Forc. Vehemens fine), di prehendo
prendo ec. cose usitate nelle buone scritture latine anche in prosa, che
altro significa se [2317]non che quelle vocali successive, benchè
secondo le regole della prosodia si considerassero per altrettante sillabe,
nondimeno nella pronunzia quotidiana equivalevano o sempre o bene spesso a una
sola? Altrimenti queste tali contrazioni sarebbero state sconvenientissime: e
come poi sarebbero elle venute in uso generale, anche presso chi non ne aveva
bisogno (quali erano i prosatori), come nil detto indifferentemente per nihil?
Ed osservate che qui v'è anche di mezzo l'aspirazione ch'è quasi
una consonante, ed oggi la pronunziano per tale. E nondimeno le dette vocali si
tenevano per componenti una sola sillaba, e così si pronunziavano. (Come
appunto ne' nostri antichi poeti, anche, se non erro, nel Petrarca, noja,
gioia ec. monosillabi, Pistoia dissillabo ec. e così mostra
che si pronunziassero.) Mihi parimente si contraeva nelle scritture, e
massime ne' poeti, in mi. E non è apocope, come dice il Forcell.
ma contrazione, come nil ec. Che dirò di eburnus per eburneus
e di tante altre simili contrazioni di più vocali; mediante le quali
contrazioni [2318](autorizzate dall'uso) il considerar quelle vocali
come formanti una sola sillaba diveniva alla fine affatto regolare (in ogni
genere di scrittori) e conforme alle stesse regole della prosodia? Non dimostra
ciò quello ch'io dico? Queis monosillabo, o così scritto o
contratto in quis, non è posto fra i dittonghi latini. V. il
Forcell. e la Regia Parn. Lascio stare i nomi greci, dove quelli che in greco
sono dittonghi, a talento del poeta latino ora diventano dissillabi ec. ora
monosillabi come Theseus, Orphea, Orphei dativo, ec. Nè solo i
nomi, ma ogni sorta di parole. L'i terminativo dei nominat. plur. 2.
declinazione ch'è sempre lungo dovette esser da prima un dittongo, come
l' greco nei
corrispondenti nominativi plurali della 3za.
Lascio ancora che l'ablativo della prima
declinazione singolare, da principio, e forse sempre a' buoni tempi, si
pronunziò (cred'io, e v. i gramatici) coll'a doppia, (musaa,
o musâ) e pur fu sempre considerata quell'a come monosillaba. E
che si pronunziasse coll'a doppia me ne fa fede il veder che se
ciò non fosse, molte volte ne' poeti si troverebbe una brutta cacofonia
e consonanza, quando tali ablativi concorrono con altre parole terminate in a,
ch'è frequentissimo. Lascio l'antica scrittura di heic per hic,
sapienteis, sermoneis ec. ec. dove l'ei fu pur [2319]sempre
avuto per monosillabo. Lascierò ancora che tutte o quasi tutte le
contrazioni usitate in latino, o per licenza o per regola, dimostrano il
costume di pronunziar più vocali in una sola sillaba. P. es. Deum,
virum per deorum, virorum, venne dal costume di elidere la r,
onde deoum, viroum, dissillabi, e quindi deum, virum, genitivi
contratti, forma usitatissima specialmente presso gli antichi, più
conformi al volgare. V. p.2359. fine.
Ma il vedere che i latini poeti per
costumanza regolare, tanto che il contrario sarebbe stato irregolare (come in
quel di Virgilio foemineo ululatu) elidevano costantemente l'ultime
vocali delle parole seguite da altre parole comincianti per vocale, e
ciò anche da un verso all'altro spesse volte (come in Orazio animumque
moresqUE Aureos educit in astra, nigroqUE Invidet Orco ec. e in Virg.
Georg. 2.69. Inseritur vero et foetu nucis arbutus horridA: Et steriles platani
ec. ec.); e non solo le vocali, ma anche le sillabe am, em, im, um; e
sì le vocali che queste sillabe le elidevano anche seguendo una parola
cominciante per vocale aspirata (come Virg. Georg. 3.9. TollerE Humo: v.
p.2316-17.); e non solo elidevano una vocale, ma anche più d'una ec.
tutto ciò non dimostra evidentemente che l'indole della pronunzia latina
formava in fatti una sola sillaba delle vocali concorrenti? Giacchè
questo solo vuol dire eliderle: non già ch'esse [2320]nella
pronunzia si tacessero (ciò forse avveniva alla sola m in simili
casi); altrimenti non le avrebbero scritte, ma posto in luogo loro l'apostrofo,
come facevano i greci quando le elidevano in verso o in prosa, che quando non
ponevano l'apostrofo in luogo loro, non le elidevano mai; e come gli stessi
latini ponevano l'apostrofo in luogo di quelle vocali o consonanti che non s'avevano
effettivamente da pronunziare, come ain', Sisyphu', confectu' ec. o non
ponendo l'apostrofo, tralasciavano di scrivere quelle lettere che non s'avevano
da pronunziare, come appunto la s in ain' per ais ne, ec.
ec.
Altra prova e dell'usanza latina di
pronunziar più vocali in modo di una sola sillaba, e dell'essere stato
originariamente il v latino una semplice aspirazione, e questa essere
stata leggera (come l'h), e della dissillabìa della 1. e 3. persona
sing. perfetta indicativa delle congiugazioni 1. e 4. ec. ch'è appunto
quello che s'ha a dimostrare, e della somiglianza tra l'antichissimo latino
conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt,
amaverat ec. si diceva spessissimo [2321]amarunt, amarat ec.
Donde venne questa contrazione usualissima? Le contrazioni non nascono
già, e molto meno diventano comunissime (più spesso troverete amarunt
che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse amaerunt,
amaerat trisillabe, senza però che l'ae si pronunziasse e,
ma sciolto. Poi coll'aspirazione eufonica, per fuggire l'iato si disse ec. Indi
ama Ƒerunt. Ma il
volgo continuò a considerarli come trissillabi; e perciò saltando
facilmente una lettera, e conservando la parola trisillaba, disse amarunt,
amarat ec. E non fece caso dell'aspirazione (ossia del v) non
più di quello che in nil per nihil ec. V. disopra. Che il
volgo solesse pronunziare così contratto piuttosto che sciolto lo
dimostra il nostro amarono, amaron, aimèrent. (E quanto ad amarat
vedi la p.2221. fine-segg.) Quest'uso essendo comune a tutte tre le lingue
figlie, dimostra un'origine comune cioè il volgare latino. E viceversa
le dette considerazioni provano che detto uso moderno, è di antichissima
origine, e proprio (forse esclusivamente dell'altro) del volgare latino,
com'era pur [2322]proprio della scrittura, e lo fu, sino ab antico, per
sempre.
Gli stessi motivi mi fanno credere che p.
es. trovando noi nelle tre lingue figlie amammo, amamos, aimâmes, si
debba concludere che il volgo latino diceva parimente amamus contratto
per amavimus, come abbiamo veduto ch'egli diceva amai (che gli
spagn. e i franc. dicono aimai, emè mutato l'ai in e);
e come pur diceva amasti, amastis per amavisti ec. (del che
discorrete come sopra), onde amasti amaste, amaste amastes, aimas aimâtes
(anticamente aimastes.).
(1. Gen. 1822.)
Gli antichi non solo celebravano i giorni
natalizi, ma anche gli anniversarii delle morti. V. il quinto dell'Eneide, e
segnatamente vers.46-54. Celebravano pure gli anniversarii di vittorie
riportate ec. come di quella d'Azio, per cui s'istituirono i giuochi Aziaci. V.
Heyne P. Virg. Maron. Vita per annos digesta, anno U. C.723. Così
in Atene la festa di Pallade nell'anniversario (se non erro) della battaglia di
Maratona o di Salamina. Celebravano annualmente in diversi tempi, diverse [2323]regolari
festività in onore di questo o quel Dio, aggiunteci bene spesso delle
ricordanze di cose patrie. ec. Le Cereali ec. in Atene. I Lupercali a Roma. ec.
Le feste secolari in onore di Apollo e Diana (v. Carmina saecularia di Orazio.).
Le feste in onore di Bacco ec. ec.
(2. Gen. 1822.)
Alla p.2019. marg. fine. Il quale exdorsuare
(antico verbo) mi pare indizio di un perduto dorsus us in vece di dorsus
i, o dorsum i, dal quale si sarebbe fatto non exdorsuare ma exdorsare,
come infatti abbiamo noi sdossare (ch'è lo stesso: v. p.2236.
segg. 2297. segg. giacchè dosso è lo stesso che dorso,
ed è maniera italiana, francese ec. di pronunziar questa parola, ma
derivata da antichissima origine, perchè gli antichi latini dicevano
infatti dossum i, cambiando al solito la r in s. V. il Forcell.
in Dossuarius.), indossare, addossare ec. V. il Gloss. il
Forcell. i Diz. franc. e spagn. in queste e simili voci. in detto antico dorsus
us è anche dimostrato, al parer mio, dai [2324]derivati dorsualis
(da dorsum o dossum verrebbe dorsalis o dossali.
Vedilo infatti con altre simili voci nel Gloss.), dossuarius, dorsuosus. Dorsuosus
è da dorsus us come luctuosus da luctus us, fructuosus
da fructus us, flexuosus da flexus us, sinuosus da sinus
us, aestuosus da aestus us ec. ec., actuosus da actus
us ec., portuosus da portus us ec., tortuosus da tortus
us ec. (V. il Forcell. in monstruosus che forse viene
esso stesso da un monstrus us.) adfectuosus da adfectus us
ec. Ossuosus par che venga da os, o da ossum i, e pure a'
bassi tempi, o volgarmente si disse ossuum, ossua. V. Forcell. e Gloss. impetuosus, tumultuosus, sumptuosus, untuoso. V. la
p.2226. e 2386.
(2. Gen. 1822.)
Assalire, ital. assaillir
franc. assaitar spagn. (semplice continuativo di assalire, e
derivato dal suo particicipio al modo di cento mila altri verbi; del resto,
proprio anche dell'italiano), non dimostrano essi un'origine comune cioè
un assalire latino, che non trovandosi negli scrittori, non può
essere stato che volgare? V. il Forcell. e il Glossar. se hanno nulla. Nello
spurgo di voci senza buona autorità, il Forcell. porta infatti Adsalio,
adorior, aggredior. Adsalitura, et Adsaltura, aggressio.
(2. Gen. 1822.)
Alla p.1121. fine. Il verbo periclitari
che cosa crediamo noi che sia con quella sua desinenza in tari?
Null'altro che un continuativo o frequentativo di un periculari, part. periculatus
contratto in periclatus, (come periculum spessissimo in periclum,
e qui con più ragione per non dire [2325]duramente periculitari)
donde periclitari nè più nè meno come da minatus
di minari, minitari. Che è? questo periculor è un
sogno? 1. Perchè dunque da periculum o periclum s'ha da
far di prima mano periclitor, e non periclor o periculor,
secondo tutte le regole? 2. Eccovi periculor presso Festo in Catone, che
disse Periculatus sum. (Forcell. in Periculatus). Ed eccovi
appunto questo antichissimo verbo dimenticato nella letteratura latina, vivo e
verde ne' volgari dal volgar latino derivati. Pericolare diciamo noi (e
non periclitare, come potevamo ben dire, ma non può esser oggi
parola se non poetica, e forse forse): peligrar gli spagnuoli, ed
è lo stesso, perchè in ispagnuolo periculum s'è
fatto peligro. Sempre, , i nostri
volgari si trovano più simili all'antichissimo che all'aureo latino. V.
il Dufresne in Periculare. (4. Gen. 1822.). Abbiamo però anche periclitare.
V. la Crusca.
Volgus, volpes dicevano
gli antichi latini ec. ec. e cento mila altre voci similmente, adoperando l'o
in cambio dell'u. (V. il Forc. [2326]in O, U ec. ec.) Uso
proprio del volgo, proprio dell'antichità, e perciò amato anche
recentemente da quelli che affettavano antichità di lingua, come
Frontone ec. Or quest'uso appunto eccovelo nell'italiano, solito a scambiare in
o l'u latino dei buoni tempi, e restituir queste voci nella
primitiva loro forma ch'ebbero fra gli antichi latini, e nelle vecchie
scritture. È noto che tal costume è più proprio
dell'italiano che dello spagnuolo, e più assai che del francese. ec. ec.
(4. Gen. 1822.)
Alla p.2315. È proprio, appunto per
queste ragioni, de' mediocri o infimi drammatici, il sopraccaricare d'intreccio
le loro opere, l'abbondare di episodi ec. Il contrario è proprio de'
sommi. E la ragione è che questi trovano sempre come tener vivo
l'interesse dello spettatore (anche in una azione di poca importanza) colla
naturalezza dei discorsi, la vivezza, l'energia, collo sviluppo continuo delle
passioni, o col ridicolo ec. Quelli non sono mai contenti neppur dopo che hanno
trovato o immaginato un caso complicatissimo, [2327]stranissimo,
curiosissimo. Esauriscono in un batter d'occhio tutto ciò che il
soggetto offre loro. Cioè non sapendone cavare il partito che possono e
devono, il soggetto non basta loro se non per poche scene. Fatte o disposte
queste; dopo di esse, o nelle scene di mezzo si trovano colle mani vote (per
ridondante di passione, di ridicolo ec. che il soggetto possa essere), e non
trovano altra via di tener vivo l'interesse e la curiosità, che quella
di andare a cercar nuovi episodi, nuove fila, nuovi soggetti insomma, per
esaurirli poi essi pure in un momento. Non possono insomma trovarsi un solo istante
senza qualche cosa da raccontare, qualche filo da aggiungere alla tela, qualche
soggetto ancor fresco, altrimenti non hanno nulla da dire. E quanti autori sono
di questo genere? quanti drammi? 999. per mille.
(4. Gen. 1822.)
Alla p.1128. principio. Da cheF (come
da cabo acaBar in ispagnuolo e noi pure diciamo condurre ec. a capo,
venire a capo ec.) si fa in francese acheVer, mutata la f in v.
Scambio (come altrove [2328]ho detto, cioè p.2070. fine,) frequentissimo
anche in francese, e frequentissimo per regola come nel caso addotto, e non
già per arbitrio, come schifare che si può dire ugualmente
schivare. (4. Gen.1822.). Da clavis clef, da cervus cerf,
da nervus nerf, ec. ec. ec. Cioè tolta la desinenza al solito, in
vece di pronunziare nerv, pronunziarono nerf ec.
Alla p.155. poco sopra il fine. È
anche maniera continuativa fra noi star facendo dicendo, ec. V. la
Crusca. Anzi il verbo stare, e per sua natura in tutte le lingue
(giacchè egli è propriamente ed essenzialmente un continuativo di
essere), e per proprietà della nostra, è il più adattato,
o piuttosto è precisamente quello ch'esprime la continuità o
durata di qualsivoglia azione (sebbene non molto elegantemente). P.e. s'io
vorrò esprimere la forza di un continuativo latino, non avrò che
ad usare in italiano il verbo stare col gerundio esprimente
quell'azione, e per lectare dirò star leggendo, massime se
l'azione non è affatto di moto, o materiale o ideale, e metaforico ec.
Ma volgarmente diciamo tutto giorno anche star passeggiando, o camminando,
o viaggiando e simili, e propriamente e perpetuamente adoperiamo in questa
forma il verbo stare in luogo di universale continuativo.
(4. Gen.
1822.). V. p.2374.
[2329]Alla p.1136. fine. Fra le
molte prove che si potrebbero addurre di ciò, cavate dalla veramente
profonda e non superficiale investigazione della più remota antichità,
v'è anche questa. Noi diciamo che lo spirito denso dei greci fu bene
spesso trasformato dai latini in una s. Ma il fatto sta che gli
antichissimi monumenti greci hanno essi medesimi il sigma, dove poi si
costumò di porre lo spirito denso, e forse anche in luogo del lene. V. Iscriz.
antiche illustrate dall'Ab. Gaetano Marini, p.184. e soprattutto il Lanzi,
della lingua Etrusca. Questo che cosa dimostra? dimostra secondo me, che
l'antichissima forma di quelle tali parole comuni ab antichissimo al greco e al
latino, era infatti colla s in principio, e non collo spirito; che
questo per indole di loro pronunzia fu coll'andar del tempo sostituito dai
greci parlatori, e poi dagli scrittori, al sigma, e non viceversa la s
allo spirito dai latini; che per conseguenza la forma latina è
più antica della greca, la pronunzia cioè e la scrittura latina
di tali parole; e che quindi in esse i latini hanno conservato
l'antichità e il primitivo più dei [2330]greci. V. p.2143.
segg. 2307-8. ed altri miei passi su questo punto di antichità. E quante
altre simili osservazioni si potrebbono fare sulle antichissime parole,
proprietà, ortografie ec. delle due lingue: osservazioni le quali
mostrerebbero che quello che comunemente crediamo venuto dalla Grecia nel
Lazio, o è tutto al rovescio, o vien da origine comune; e che quelle
differenze che in tali cose s'incontrano fra il greco e il latino e che
da noi sono attribuite a corruzione sofferta da quelle parole ec. passando nel
Lazio, si debbono invece attribuire a corruzione sofferta in Grecia; e nel
Lazio conservano la loro forma antichissima, e non differiscono dalla greca, se
non perchè questa s'è allontanata essa stessa dal primitivo assai
più della latina.
(5. Gen. 1822.). V. p.2351. fine. e 2384.
Alla p.1153. Tali versi de' comici,
giambici, ec. erano quasi ritmici, cioè regolati e misurati piuttosto
sul numero delle sillabe, e la disposizione degli accenti, (poco anche
osservata) che sul valore e quantità di ciascuna sillaba. Dunque vuol
dire che secondo il ritmo, tali vocali doppie si dovevano pronunziare piuttosto
come monosillabe che dissillabe [2331]ec. Dunque pel volgo, anzi nella
pronunzia quotidiana esse erano monosillabe, e non altrimenti, fino agli ultimi
tempi della lingua latina (giacchè questo med. costume si può
molto più notare ne' versi espressamente ritmici de' bassi tempi) ec.
ec.
(5. Gen. 1822.)
Alla p.928. L'Asia fu la prima a brillare
nel mondo per la potenza: essa ebbe le prime nazioni le prime patrie,
e perciò ella regnò o colle colonie, o colle leggi medesime e col
governo le altre parti del mondo che da lei furono popolate. Dopo l'Asia, o
contemporaneamente, l'Egitto divenne nazione e patria, e l'Egitto divenne conquistatore
e quasi centro del mondo sotto Sesostri ec. La Grecia chiamata bambina presso
Platone, perchè recentissima rispetto alle dette nazioni; la Grecia,
quel piccol tratto d'Europa, divenne à son tour il centro del mondo, e
la più potente parte di esso, perchè? Perch'ella in quel tempo
era divenuta nazione e patria, mentre l'Asia e l'Egitto aveano cessato di
esserlo, e conservava il costume naturale, perduto dagli Asiatici ec. E dopo [2332]che
la Grecia a causa di questa preponderanza, essendosi resa formidabile ai
più grandi regni, pervenne poi anche a conquistarli, distrusse l'immenso
impero Persiano, compreso l'Egitto, e mediante le conquiste di Alessandro,
l'Asia l'Affrica, l'Europa divennero effettivamente greche, e provincie greche,
dopo tutto ciò per qual motivo quell'Italia fin allora sconosciuta nel
mondo, ignota nel numero delle nazioni e delle potenze, crescendo a poco [a
poco], ingoiò la Grecia e il suo impero, e stabilì il propro regno
sulle ruine di quello di Semiramide, di Ciro, di Alessandro ec. ec.?
Perchè l'Italia più tardi delle altre parti del mondo era
divenuta nazione: la natura già fuggita anche dalla Grecia, restava in
questo fondo d'Europa: vi sorgeva la mediocre civiltà (più vicina
all'eccesso della barbarie, che all'eccesso della civilizzazione a cui dopo gli
Assiri, gli Egizi, i Persiani, erano arrivati anche i greci); e questa li fece
padroni del mondo: e sempre che la mezzana civiltà troverassi in mezzo o
a popoli non tocchi affatto da incivilimento, o a popoli [2333]pienamente
inciviliti (quale fu poi il caso de' settentrionali sull'impero romano, e lo
è oggi di nuovo, massime riguardo alla Russia, sul resto d'Europa);
sempre che una nazione una patria esisterà in mezzo a popoli che non
abbiano mai avuta, o per l'estremo incivilimento abbiano perduta la nazione e
la patria; la mezzana civiltà trionferà di tutto il mondo, e
quella nazione che resta, o che nasce, per piccola che sia, diverrà
conquistatrice, e segnerà il suo nome nel catalogo delle nazioni che
hanno dominato universalmente; finchè questo medesimo dominio non la
ridurrà allo stato delle potenze da lei vinte, e distruggerà il
suo potere. Il che oggi, stante la marcia accelerata delle cose umane,
avverrà più presto che non soleva anticamente.
In questo catalogo delle nazioni dominanti
ne' diversi tempi, dove io ho detto l'Asia, tu devi dividere e porre successivamente
le diverse nazioni dell'Asia ch'ebbero impero: gl'indiani forse, e prima di
tutti; gli Assiri, i Medi, i Persiani, forse [2334]anche i Fenici, e i
loro coloni Cartaginesi ec. E l'impero francese (nato, vissuto e morto in
vent'anni, il che serve di prova di fatto a ciò che dico sulla fine
della pagina precedente) merita anch'esso un posto fra questo genere d'imperi.
Perocchè sebbene la nazion francese è la più civile del
mondo, pure ella non conseguì questo impero, se non in forza di una rivoluzione,
che mettendo sul campo ogni sorta di passioni, e ravvivando ogni sorta d'illusioni,
ravvicinò la Francia alla natura, spinse indietro l'incivilimento (del
che si lagnano infatti i bravi filosofi monarchici), ritornò la Francia
allo stato di nazione e di patria (che aveva perduto sotto i re), rese,
benchè momentaneamente, più severi i loro dissolutissimi costumi,
aprì la strada al merito, sviluppò il desiderio, l'onore, la
forza della virtù e dei sentimenti naturali; accese gli odi e ogni sorta
di passioni vive, e in somma se non ricondusse la mezzana civiltà degli
antichi, certo fece poco meno (quanto comportavano i tempi), e non ad altro si
debbono attribuire quelle azioni dette barbare, di cui fu sì feconda [2335]allora
la Francia. Nata dalla corruttela, la rivoluzione la stagnò per un
momento, siccome fa la barbarie nata dall'eccessiva civiltà, che per vie
stortissime, pure riconduce gli uomini più da presso alla natura.
(6. Gen. dì dell'Epifania. 1822.)
La metafisica senza l'ideologia, è
quasi appunto quello ch'era l'Astronomia prima che fosse applicata alla
matematica. Scienza incertissima, frivola, inesatta, volgarissima, o piena di
sogni e di congetture senz'appoggio. E molto più la metafisica che
l'astronomia. Nè molto minor certezza ed esattezza riceve la metafisica
dall'ideologia che l'astronomia dalla matematica, dal calcolo ec.
(7. Gen. 1822.)
Da ciò che altrove ho detto sul
Buonarroti che scrisse apposta per dar vocaboli alla Crusca, sul Salvini che
non fu niente parco di nuovissimi vocaboli, o tirati da lingue forestiere, o
antiche, o da radici italiane, in tutte le sue scritture, e che scrisse
contemporaneamente alla compilazione del vocabolario, anzi finchè visse
non permise d'esser citato ec. apparisce che i nostri pedanti vogliono espressamente
che in quell'atto medesimo che si pubblica il vocabolario [2336]di una
lingua, restino per virtù di essa pubblicazione, rivocate in perpetuo
tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute
intorno alla favella, e chiuse in quel momento per sempre le fonti della
lingua, fino allora sempre e incontrastatamente aperte.
(8. Gen. 1822.)
Ho parlato altrove del perchè la sveltezza
debba piacere, e com'ell'abbia che fare colla velocità, colla prontezza
ec. Ho notato che questa sveltezza piacevole, non è solo nella
figura o delle persone, o degli oggetti visibili, nè nei movimenti ec.
ma in ogni altro genere di cose, e qualità di esse. P.e. ho fatto
osservare come la sveltezza, la pieghevolezza, la rapidità della voce,
de' passaggi ec. sia una delle principali sorgenti di piacere nella musica,
massimamente moderna. Or aggiungo. Piace la sveltezza e la rapidità
anche nel discorso, nella pronunzia, ec. Le donne Veneziane piacciono molto a
sentirle parlare anche per la rapidità materiale del loro discorso, per
la copia inesauribile che hanno di parole, perchè la rapidità non
le conduce a verun intoppo ec., cioè non ostante la velocità
della pronunzia e del discorso, non intoppano ec. Anche [2337]a
rapidità, la concisione ec. dello stile, e il piacere che ne ridonda,
possono e debbono in parte ridursi sotto queste considerazioni.
(8. Gen. 1822.)
La sveltezza o veduta o concepita, per mezzo
di qualunque senso, o comunque, (v. il pensiero precedente) comunica all'anima
un'attività, una mobilità, la trasporta qua e là,
l'agita, l'esercita ec. Ed ecco ch'ella per necessità dev'esser piacevole,
perchè l'animo nostro trova sempre qualche piacere (maggiore o minore,
ma sempre qualche piacere) nell'azione, sinch'ella non è o non
diviene fatica, e non produce stanchezza.
(8. Gen. 1822.)
Volete veder come sia naturale lo stato
presente dell'uomo? Anche quello dell'agricoltore che pur conserva, tanto
più che gli altri, della natura? L'uomo presente, e già da gran
tempo, vuol latte vuol biade per cibarsi, vino per dissetarsi, lana per
vestirsi, vuole uova ec. ec. Ecco seminagioni, vigne, pecore, capre, galline,
buoi per arare ec. vacche per partorirli, e per latte ec. Ma il capro nuoce
anzi distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni
albero da frutto se vi si lasciano appressare; le greggi, e gli armenti, e il [2338]pollame
ec. sterminerebbero i seminati se non si avesse infinita cura d'impedirlo; il
pollame nuoce alle stalle delle greggi, e degli armenti; i danni del porco sarebbero
infiniti ai campi e al bestiame, se non vi si avesse l'occhio ec. ec. Insomma i
bisogni che l'uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali,
ed universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si
contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell'uomo non dev'esser
solo di procacciare il necessario a questi bisogni con infiniti ostacoli, ma
nel provvedere all'uno guardare assai, perchè quella provvisione nuoce
ad un altro bisogno ec. E pure è certo che più facilmente potremo
annoverar le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in
qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria,
o destinata all'uso si dell'uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec.
(8. Gen.
1822.). V. p.2389.
Alla p.2019. marg. Così da metus
us, metuere. Actuar (da actus us) per ridurre ad atto o mettere in
atto dicono gli spagnuoli. V. attuare nella Crusca, [2339]actuare
nel Ducange.
La cagione poi per cui dalle voci della
quarta congiugazione si facevano i verbi in uare (o uere ec.) e
non in are semplicemente come da quelli della seconda, io credo che
fosse questa, che le dette voci anticamente e propriamente terminassero in uus,
giacchè anche oggi, almeno nel genitivo singolare, o ne' nominativi e
accusativi plurali, si suole scrivere metûs, fluctûs,
actûs ec. col circonflesso. V. i gramatici, e gli eruditi. Infatti
contro il costume della lettera u, nella prosodia latina, essa lettera
è lunga nella desinenza del genitivo e ablativo singolare, nominativo e
accusativo plurale della quarta declinazione. Dove appunto io credo che l'u
anticamente fosse doppio, e quindi poi lungo, come l'a dell'ablativo
singolare 1. declinazione per la stessa causa. V. la p.2360. 2365. (Ed osserva
che questa è un'altra prova dell'essersi dagli antichi pronunziate le
vocali doppie come sillabe semplici, giacchè metus ec. presso
tutti i poeti è dissillabo, e metum seguito da vocale, resta
monosillabo ec.) Laonde togliendo ad esse voci la terminazione in us come
nè più nè meno a quelle della seconda, restava un altro u,
ed aggiungendo la desinenza in are, conveniva dire fluctu-are, e
non fluct-are ec. Come appunto da continuus, ch'essendo della
seconda, pur finisce in uus, si fa (togliendo la desinenza in us)
continu-are, da perpetuus pertu-are, da cernuus cernu-are,
ec. da vacu-us evacu-are, da Febru-us o da Febru-a, orum, februare
ec. da obliquus obliquare ec. da viduus viduare ec. (9. Gen.
1822.), da Fatua fatuari, da fatuus infatuare.
[2340]Alla p.2357. Faxo
usato assai dagli scrittori, massime antichi, giacchè è parola al
tutto antica, per faciam fut. indicat. non è gramaticalmente
altro che un'antica forma del fut. congiunt. fecero, come levasso di
levavero, presso Cic. nel principio de Senectute. V. il Forcell. in
Faxim.
(9. Gen. 1822.)
Alla p.1107. fine. Ausus participio
del neutro o attivo audere, participio di significazione neutra o attiva
alla forma dei deponenti (participio che anche si coniuga, dicendo ausus
sum, es, ec. in luogo di che gli antichi dissero ausi, onde poi comunemente
ausim per ausus sim o fuerim), può servire
anch'esso molto bene a dimostrare questo antico uso di dare ai verbi attivi o
neutri il participio passato di significazione non solamente passiva, ma anche
attiva o neutra, come ne' deponenti. Ausus è anche passivo. (9.
Gen. 1822.). V. pure il Forcell. in osus, exosus, perosus participii
attivi. Cautus incautus sono qui cavit o non cavit,
participii verissimi di caveo verbo neutro, e significanti non passione,
ma azione neutra. S'usano anche passivamente come appunto amatus. V. il
Forcell. e p.2363.
Alla p.1114. marg. Da motus di movere
si ha siccome motitare, così anche motare della cui
significazione continuativa, e di costume, ec. puoi vedere il Forcell. in moto,
in motatio ec. e segnatamente in motator.
(9. Gen. 1822.)
Alla p.1181. marg. fine. Abbiamo pure le [2341]carra
dal neutro carrum che i buoni latini dicono piuttosto carrus, ma
che per testimonianza di Nonio, si soleva dire carrum. Ma egli, dice il
Forc. de suo tempore loquitur, ed io credo ch'egli voglia intendere che
così volgarmente si diceva, benchè i buoni scrittori usassero il
mascolino. V. il Forcell. e il Glossar.
(9. Gen. 1822.)
Alla p.1120. fine. Vedi il Forcellini in certo
as, il quale egli chiama frequentativo, ed io credo piuttosto continuativo
da cerno, quasi cernito, derivando da certus originariamente
participio di cerno, e lo stesso che cretus. V., dico, il
Forcell. tanto in certo, quanto in certus, in cerno ec.
(9. Gen.
1822.). V. p.2345.
Alla p.2138. marg. fine. Così appunto
di certus abbiamo detto nel pensiero qui sopra, il quale vedi, e di certare
che ne deriva. Il qual certus non è originariamente addiettivo ma
participio, e certare viene così da un participio, e non come
pare, da un addiettivo. (9. Gen. 1822.). Di tutus onde tutari o tutare
vero continuativo di tueor, o tuor, o tueo ec. v. il
Forcell. in tutti questi luoghi. Sebbene tutus sia divenuto semplice
addiettivo esso non è che un participio.
[2342]Il mondo deride chi
fedelmente e sinceramente osserva i suoi doveri, o prova effettivamente e segue
i sentimenti dettati dalla natura e dalla morale; e si scandolezza e biasima
chi trascura pubblicamente i medesimi doveri, chi mostra di disprezzarli, chi
pienamente non gli adempie in faccia al pubblico, quando anche egli abbia i
suoi giustissimi motivi per non farlo, e non seguire il costume in
questa parte. Una donna è derisa s'ella piange sinceramente il suo
marito recentemente morto, se a chi la tratta, dà segno di sentir vivo e
vero dolore della sua perdita; ma s'ella, anche per circostanze imperiose,
trascura il menomo dei doveri che il costume impone in questi casi, s'ella un
giorno più presto del tempo prescritto dall'uso si fa vedere in
pubblico, s'ella, anche a solo fine di portar qualche alleggerimento al suo vero
dolore, si permette prima del detto tempo, qualche menomo spasso o distrazione,
il mondo severissimamente la giudica, e inesorabilmente la condanna, senz'aver
riguardo a ragioni nè circostanze, per reali che possano essere, e non lascia
di mordere [2343]e di riprendere la più piccola violazione dei
doveri apparenti, mentre è prontissimo a schernire chi gli osservi di
buona fede ec.
(10. Gen. 1822.)
Alla p.1141. fine. Rechiamo un altro esempio
del quanto giovi la mia teoria a conoscere e sentire il vero proprio ed intimo
significato di moltissimi passi degli ottimi scrittori latini, ignorato finora,
o male, o imperfettamente e indistintamente sentito, e interpretato.
Cogite oves, pueri: si lac praeceperit aestus,
Ut nuper, frustra pressabimus ubera palmis.
Virg. Ecl. 3. v.98.99. Quel pressabimus
che cos'è? Lo stesso che prememus? Non vedete quanto dice di
più? Quanto accresce la durata dell'azione di premere? Perocchè
vuol dire, se il latte sarà consumato dal caldo, invano STAREMO LUNGAMENTE
PREMENDO colle mani le mammelle delle pecore. Infatti quando il latte non
viene, tu non ti contenti di premere, ma stai un pezzo premendo, per vedere di
farlo venire, e proccurando di farlo venire. D'altra parte è questa
forse un'azione frequente? È frequentativo il pressabimus?
è diminutivo? Come mai può aver qui loco o la frequentazione [2344]o
la diminuzione? Questa sarebbe tutta contraria al proposito: quella niente
espressiva. Che cosa è egli dunque il pressabimus? Vero
continuativo, esprimente la maggior durata dell'azione significata da premere,
e come tale espressivissimo, e proprissimo in questo loco, ed efficacissimo.
Efficacia e proprietà che non ha potuto finora esser ben intesa da
alcuno che abbia considerato pressare o come sinonimo o come
frequentativo di premere, e che non l'abbia tenuto per capace di
accrescere la durata dell'azione, cioè per continuativo. V.
gl'interpreti. (10. Gen. 1822.). Pressare continuativo di costume, v. in
Virg. En. 3.642.
Alla p.1108. sul principio. Da tentus
parimente, ma non di tenere, bensì di tendere, viene distentare,
ed extentare, de' quali v. il Forcell. Il primo si trova a quel ch'io
sappia in un solo luogo ed è di Virgilio, cit. dal Forcell.; dove l'Heyne
dietro il Vossio stampò distentant, presente ottativo, l'Heinsio distendant,
il Forcell. e bene, secondo me, distentent. Non so qual verbo possa
dinotare un distentant presente ottativo. Forse e l'Heyne, e il Vossio,
e l'Heinsio furono tratti in errore dal [2345]non conoscere la teoria
de' continuativi, della loro formazione e del loro significato. Distentare
qui par che sia un continuativo significante costume. Distentent,
sempre riempiano ec. Il verbo extentare da extentus di extendere,
di cui v. il Forc. può servir di prova alla verità di questa
lezione distentent, cioè del verbo distentare. E parimente
il verbo ostentare (di cui v. p.1150.) da ostentus di ostendere.
Distentare è senza dubbio continuativo indicante costume, come responsare
ne' luoghi addotti p.1151. Ed ostentare lo è forse parimente nel
luogo di Cic. p.1150. V. anche Praetento nel Forcell. in fine. V. pure Intentus
e intentare verissimo continuativo di intendere. Abbiamo pure, e
così gli spagnuoli intentare da tentare. V. Forc. intentatus,
e il Glossario. Retentus per retensus, Forc. V. gl'interpreti e
comentatori ec. di Virgilio. Viceversa il nostro contentare (contenter,
contentar) vengono da contentus di continere, come tentare
da tenere. Contentare latino è del Glossario. (10. Gen.
1822.). Retentare vedilo nel Forc. ed En. 5.278.
Alla p.2341. capoverso 1. Certare
continua l'azione di cernere, come captare di capere.
Nè il prendere nè il decidere possono essere azioni
continue ma ben continue possono essere quelle azioni che conducono o
son necessarie a prendere e a decidere, e che producono questo e quello. O
piuttosto cernere, e capere sono atti, certare e captare
azioni. Ed osserva che disceptare formato da captare significa
appunto un'azione continua simile a quella di certare. Del resto certare
sta per cernitare (come [2346]dice il Forcell.) solamente in
quanto l'antico e regolare participio di cernere dovette essere non cretus
nè certus ma cernitus. Non già che se cernitare
si trovasse, e se certare n'è sincope, esso venga da altro che
dal participio passato di cernere. E da che il detto participio fu
ridotto a certus (vero participio di cernere, e più antico
di cretus ch'è una pura metatesi di certus siccome questo
originariamente è sincope di cernitus, come lectus di legitus
ec.) regolarissimo suo derivativo è certare, continuativo vero di
cernere e per forma e per significato.
(11. Gen. 1822.)
Dell'uso invalso fra i latini fino da
antichissimi tempi di contrarre i participii passati di moltissimi verbi, tanto
che questi participii nella buona latinità non si trovano più se
non contratti, come lectus, e non mai legitus ec., e non solo
nella buona, ma in qualunque o anteriore o posteriore latinità, non si
trovano più i veri e regolari participii, ma solo i loro vestigii ne
scopre l'erudito; v. p.1153. capoverso ult. ec.
[2347]Se dunque assai volte si
trovano nella lingua italiana, o spagnuola o francese altri tali participii
contratti, che nella buona latinità, non si trovano se non distesi, non
perciò si debbono credere recentemente corrotti, ma così venuti
dal volgare latino, vedendo che tale fu l'antichissimo costume di quella
lingua, prevaluto anche negli ottimi scrittori in riguardo a molti altri
participii dello stesso genere. E molti infatti di questi participii che l'uso
italiano ec. contrae, e che gli scrittori latini non solevano contrarre, si
trovano nondimeno contratti allo stesso modo de' moderni, in altri scrittori
latini, ne' poeti, e soprattutto ne' più antichi, nova prova di
ciò ch'io dico. P.e. posto dicono gl'italiani, e puesto
gli spagnuoli, per quello che i latini sogliono scrivere positus. Ma voi
troverete postus ne' frammenti di Ennio, in Lucrezio, in Silio. (Forcell.
positus, a, um, in fine.) Troverete repostus (riposto)
in Orazio ec. Compostus (composto, compuesto) in Virgilio
Eneide. 1. 249. ed altri de' quali v. il Forcell. Anzi questa forma pare [2348]più
antica dell'altra, e propria degli antichi latini, ed ha sapore antico, e
nondimeno si trova, come vedi, anche in Virgilio ec. e nondimeno vive nelle
lingue moderne; segno ch'ella fu propria continuamente del conservatore
dell'antichità, dico il volgare. E credo che la troverai anche assai
spesso nelle iscrizioni di qualunque tempo, che erano o composte o incise da
uomini volgari, nelle medaglie, ne' latino-barbari ec. de' quali v. il Glossar.
(12. Gen. 1822.)
Alla p.1107. principio. In quel luogo
però di Virg. Ecl. 1. v.52.-53. Fortunate senex! hic inter flumina
nota, Et fontes sacros frigus captabis opacum, il verbo captare è
vero continuativo nel senso stesso di prendere, e vuol dire STARAI
PRENDENDO il fresco. Nè ha già che far nulla col
frequentativo.
(13. Gen. 1822.)
Alla p.2222. marg. Quest'uso di dire p.e. erat
invece di esset o fuisset, è un'enallage molto frequente
ne' latini (anche ottimi) scrittori; frequente ed elegante in italiano ancora,
(e principalmente nei nostri più antichi ed eleganti scrittori) precedendola,
o accompagnandola, o seguendola ec. la particella condizionale, (siccome pure
in latino) a questo modo: [2349]se non fosse stato aiutato, egli
moriva, ovvero egli moriva, se non era aiutato ec. cioè moriebatur
in luogo di sarebbe morto, mortuus esset, periisset ec.;
analogo finalmente assai, benchè non precisamente conforme, a quello
degli spagnuoli di cui ora si discorre ec.
(13 Gen.
1822.). V. p.2350.
Alla p.1108. Nelle aggiunte appartenenti a
questa teoria de' continuativi mi pare di aver già parlato de' verbi cursare
da cursus di currere (v. infatti la p.1114.), e forse anche di occursare,
concursare, e altri tali composti. De' quali tutti bisogna, occorrendo,
vedere il Forcell. Intanto ecco un esempio di Virgilio dove il verbo recursare
è preciso continuativo significante consuetudine (non già
frequenza). Parla di Venere. En. 1. 662. Urit
atrox Iuno, et sub noctem cura recursat. Cioè recurrere
solet. E notate che Virgilio poteva egualmente dire recurrit, e non
senza ragione e proprietà di lingua ha preferito recursat. Questo
esempio si può anche riferire alla p.1148. segg.
(13. Gen. 1822.)
[2350]Alto, altezza
e simili sono parole e idee poetiche ec. per le ragioni accennate altrove,
(p.2257.) e così le immagini che spettano a questa qualità.
(14. Gen.
1822.)
Alla
p.2349. Virg. En. 2. 599.600. et, ni mea
cura resistat, Jam flammae TULERINT, inimicus et HAUSERIT ensis. In vece di
tulissent o ferrent. Locuzione comunissima nell'elegante
latinità, ed analoga anch'essa al proposito nostro. Così En.
3.187. crederet, e moveret per credidisset, e movisset,
avrebbe creduto, o mosso. Locuzione pure frequentissima. Traherent per traxissent
En. 6.537. Admoneat e irruat per admoneret irrueret,
ib. 293.-4. e diverberet parimente; modo pure elegante e ordinarissimo.
Generalmente si può osservare una gran varietà, ed un grand'uso
di figure di dizione presso gli scrittori latini circa i tempi del congiuntivo,
ora scambiati fra loro, come qui che il perfetto sta in vece del piucchè
perfetto, ora scambiati con quelli dell'indicativo ec. E la stessa
varietà si trova intorno ai medesimi tempi nelle 3. lingue figlie,
varietà o relativa alla lingua latina, o ad esse stesse fra loro, o a
ciascuna di esse in se stessa. Varietà derivata certo dal volgare
latino, come si vede per gli addotti esempi.
(14. Gen. 1822.)
Alla p.2249. principio. Qua, que
o quae, [2351]qui, quo, quu, sono sempre monosillabi
in latino, (seppur talvolta, ma per licenza, non per regola, non dividono il quü),
eppure essi sono bivocali, e non contati fra' dittonghi. Gua gue
ec. ora sono dissillabi come in ambiguus a um, irriguus,
exiguus ec. ora monosillabi, come in anguis, sanguis ec.
Che ragion v'è perchè ora dissillabi, ora no? Per natura dunque
essi non sono nè l'uno nè l'altro, ma la sola pronunzia decide.
Dicono che l'u spesso si considera come consonante. V. il Forcell. in U.
Che si consideri va bene, ma non lo è in natura, e gua ec. e
altri simili bivocali, hanno effettivamente due suoni vocali, e tuttavia si
pronunziano monosillabi, nè sono contati fra' dittonghi. Qua ec. gua
ec. è sempre monosillabo in italiano, e neppur la licenza poetica li
può dividere in 2. sillabe. Così in ispagnuolo.
(14. Gen. 1822.). V. p.2359. fine.
Alla p.2330. Nella lingua sascrita (di
immensa antichità) troviamo parole, forme, declinazioni, coniugazioni
ec. o similissime, o al tutto uguali alle corrispondenti latine, massime se si
abbia riguardo, come [2352]va fatto, alle sole lettere radicali. E
notate che gran parte di questi nomi o verbi sono di prima necessità
(come il verbo essere, la parola uomo, padre, madre ec.),
o rappresentano idee affatto primitive nelle lingue. E parecchie di tali voci
sascrite si trovano anche corrispondere alle analoghe greche, ma effettivamente
meno che alle latine, e forse in minor numero. Che segno è questo
dunque, se non che la lingua latina conserva assolutamente più numerosi
e più chiari della greca i vestigi della remotissima antichità,
della sua remotissima condizione, e forse della sua sorgente? Giacchè le
relazioni avute dal Lazio coll'India sono tanto antiche che si perdono nella
caligine, e sono ignote alla storia. Aggiungete che tali parole ec. essendo di
prima necessità ed uso, dimostrano non una semplice, nè recente relazione
avuta con quelle parti, ma un'antichissima derivazione o comunione
di origine con quei popoli e quelle lingue. E le dette parole sono
assolutamente proprie e primitive della lingua latina non già forestiere
nè recenti nè ascitizie ec. E nessuno le può credere o
derivate dall'India [2353]mediante il più recente commercio avuto
da' romani con essa, quando la lingua latina era già formata, e quelle
parole in uso continuo negli scrittori, monumenti ec. che ancora rimangono, ed
analoghe poi anche alle greche; o viceversa derivate in quel tempo dal Lazio
nell'India, essendo esse di uso sì quotidiano e necessario, essendo la
lingua indiana antichissima, (che certo non aspettò sì bassi
tempi a provvedersi di parole necessarie, quando essa era già da gran
tempo più perfetta della latina) essendo ancora quelle coniugazioni, forme,
parole ec. tanto proprie e inerenti al capitale, e all'indole e sostanza del
sascrito, quanto del latino; e finalmente potendosi, cred'io, trovare, e
trovandosi che l'uso loro nel sascrito è anteriore non poco ad ogni
menoma relazione del Lazio coll'India, che sia conosciuta dalla storia.
Nè si può credere che tali parole venissero anticamente nel Lazio
per mezzo della lingua greca, mentre esse sono più simili al sascrito di
quello sieno le corrispondenti greche, laddove al contrario avrebbe dovuto
essere. E sono più simili alle [2354]sascrite che alle greche. Il
che in ogni modo è segno di ciò che vogliamo dimostrare,
cioè che la lingua latina derivata da una stessa, o da simil fonte colla
greca, o quando anche fosse figlia della greca, conserva i vestigi
dell'antichità (e sua e greca) più della stessa lingua greca, in
quanto e nel modo che l'una e l'altra ci sono note.
(20. Gen. 1822.)
Virg. En. 6. v.567.-69. dice che Radamanto,
il giudice criminale delle anime, condanna coloro che non hanno fatto ammenda
delle loro colpe. Castigatque auditque dolos; subigitque fateri Quae quis
apud superos, furto laetatus inani, (cioè vanamente rallegrandosi di
aver negata agli Dei la soddisfazione dovuta loro per li suoi falli) Distulit
IN SERAM commissa piacula MORTEM. Parole notabilissime perchè
danno a conoscere come anche i gentili avessero chiara idea ed opinione della
possibilità e necessità della penitenza, e dell'empietà e
stoltezza di chi indugia a pentirsi e placar gli Dei sino alla morte. E notate
qui in Virgilio un'espressione quasi Cristiana. Della possibilità e
necessità d'impetrare dagli Dei il perdono delle proprie colpe, v.
Senofonte, Memorab. l.2. c.2. p.14.
(22. Gen. 1822.)
[2355]Alla pagina 1150. fine. Ostentare
assoluto continuativo di ostendere in senso di semplicemente mostrare,
ovvero far mostra ec. e continuativo di durata, eccolo in Virg. En.
3.701.-4. Adparet Camerina procul, campique Geloi, Immanisque Gela fluvii cognomine
dicta. Arduus inde Acragas OSTENTAT maxima longe Moenia, magnanimum
quondam generator equorum. Cioè, non tanto fa pompa, quanto
semplicemente dimostra, ma siccome quest'azione di dimostrare qui
è continuatissima, però Virgilio potendo pur dire ostendit,
che sarebbe stato improprissimo, benchè egualmente adattato al verso,
disse giustissimamente ostentat.
(22. Gen. 1822.)
Noi diciamo leccare, i francesi lécher,
(gli spagnuoli vedilo), i greci , i latini
nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco ,
cioè lecho, o licho è tuttuno col nostro lecco,
che anche, volgarmente, si dice licco. E notate pure che il francese non
dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il greco. Queste parole sono antichissimamente
e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono volgarissime, anzi plebee;
nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per dinotare la stessa
azione. [2356]Antichissima e proprissima della lingua greca è la
voce . Come
dunque questa conformità fra l'antichissimo greco, e il modernissimo,
vivente, ed usualissimo italiano, francese ec.? Non è egli evidente che leccare,
lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual altra fonte che da un
volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e propria del
nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino
può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla
comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma
come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi
poi sino all'ultimo, un antichissimo verbo greco? Certo il volgo latino non
istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili che la plebe.
È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella
primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due
quando nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle
polite scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre, [2357](e
come accade appunto nell'italiano che parecchie voci volgari benchè
derivate dalla purissima latinità, cioè dalla nostra madre, si
escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto fatte troppo
familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono altre d'origine
o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel popolare. Ed
appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella
parentesi, poichè lingo (v. il Forcell.) non è che
corruzione di , o lecho,
o licho; pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso,
benchè certo esistesse nella lingua latina, come abbiamo veduto. V. il
Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi in un
esempio, come al suo luogo.
(23. Gen. 1822.)
Ho detto altrove che lo spagnuolo sitiar
per assediare forse viene da un sidiari, o sidiare semplice
di obsidiari ec. Aggiungo, se quivi non l'ho già detto, che parimente
sitio per assedio non sembra esser altro che sidio sidionis,
cioè obsidio tolta la preposizione ob la quale infatti non
è che aggiunta ad una parola semplice, che non può essere se non [2358]sidio.
E siccome il semplice è più antico del composto, così
veniamo ad avere nello spagnuolo (certo non per altro mezzo che del volgare latino)
una parola più antica di obsidio, ignota alle scritture latine,
che non riconoscono se non quest'ultima, e per conseguenza non potuta conservarsi
se non nel volgare fino ab antichissimo. (24. Gen. 1822.). V. il Gloss. se ha
nulla.
Alla p.2282. marg. Non trovi ne' moderni
volgari mas, ma sibbene masculus (maschio, mâle, v.
lo spagnuolo). Oculus è mero diminutivo di un antico occus
perduto nelle scritture latine, restandovi in vece il solo diminutivo, (perduto
anche nel volgare latino seppur da occus non deriva l'oco dei
russi), onde occhio, oeil (come da auricula oreille,
secondo l'uso della pronunzia francese), e ojo, che non viene già
da occus, ma da oculus, come oreJA da auriCULA ec.
E v. in proposito di ciò e di tali diminutivi la p.980. seg.
(24. Gen. 1822.)
Alla p.2052. La moderata difficoltà
anche d'intendere le scritture, gli stili, ec. da qualunque cosa derivi, o dal
pensiero, o dall'elocuzione, e nominatamente se deriva dalla concisione,
rapidità, strettezza dello stile ec. piace perchè pone l'animo in
esercizio, e par che gli dia una certa forza, e tutte le [2359]sensazioni
di forza sono piacevoli, sì nell'animo che nel corpo, siccome appunto
è piacevole un moderato esercizio del corpo, che gli dà un
conveniente senso di vigore ec.
(24. Gen. 1822.)
Alla p.1154. marg. A questo luogo appartiene
anche il verbo irritare, in quanto significa irritum facere (forse
anche sempre), significazione però poco latina, dice il Forc. Irrito,
in fine. Giacchè irritus viene da ratus, participio di reor
ec. V. il Forcell. in tutti questi luoghi, e il Gloss. se ha nulla. Del resto
appunto il vedere che da ratus in composizione si fa irritus, e
cento altri esempii di diversissimo genere, dimostrano quanto la mutazione
dell'a in i sia familiare ai latini, quando le loro radici o
parole comunque, subiscono qualche passione, qual è quella di formare
p.e. da imperatus un frequentativo, cioè imperitare.
(24. Gen. 1822.)
Alla p.2351. fine. Così dico di cui,
huic, ec. monosillabi. V. il Forcell. in Qui ec. e la Regia
Parnasi.
(25. Gen. 1822.)
Alla p.2319. marg. Circa le contrazioni,
indizio [2360]certo di ciò ch'io voglio dimostrare, v.
particolarmente il Forcell. in Semianimis all'ultimo §. dove osserva che
queste tali sillabe formate presso i poeti di più vocali, sono
già notate dagli eruditi, e chiamate figure (cioè in
realtà dittonghi de' quali nella prosodia non si discorre), e queste
denominate co' loro proprii nomi, cioè sinizesi, sinecfonesi, ec. V. p.e. in Virg. En. 4.686. Semianimis
quadrisillabo; ib. 3.578.5.697. semiustus trisillabo ec. Osserva pure
che la sillaba mia di semianimis è breve, benchè doppia
di vocali, il che dà forza alla mia opinione. E di tutte cotali voci v.
la Regia Parnasi. Ho detto p.2339. (e vedila) che i nominativi specialmente
plurali, i genitivi singolari ec. della quarta conjugazione sono tutte
contrazioni perocchè da principio si diceva manuus ec. con doppio
u. Or vedi a questo proposito, manum, gen. plur. in Virg. En.
3.486. cit. da me p.2250. marg. Ed anche altre volte troverai così
contratti i genitivi plurali della quarta, e mi ricordo di averne trovato altro
esempio nello stesso Virgilio. (En. 6.653.) Contratti dico, o nella scrittura,
o nella ragion del metro. Credo anche che hoc ablativo si dicesse anticamente,
e forse si scrivesse hooc, o insomma sia contrazione di 2 vocali ec.
(25.
Gen. 1822.). V. p.2365.
Extremus, formaque ante omnes pulcher Julus,
Sidonio EST INVECTUS equo:
quem candida Dido
[2361]Esse sui dederat
monumentum et pignus amoris.
En.
5.570.-2. Assolutamente per invehitur, locuzione simile al
nostro volgare: è posto, è assiso; è
portato da un cavallo Sidonio ec. Perocchè il nostro presente passivo
è formato del verbo essere e del participio passato. Non così in
latino. E tuttavia in questo luogo est invectus, non è preterito,
ma presente. Ed in uno scrittore così elegante come Virgilio. V. i
Comentatori. Del resto v. il contesto di Virgilio, e troverai che non
può essere se non presente, quali sono, prima e dopo, gli altri verbi da
lui adoperati; portat, ducit, fertur, ec.
(26. Gen. 1822.)
Che vuol dire che l'uomo ama tanto
l'imitazione e l'espressione ec. delle passioni? e più delle più
vive? e più l'imitazione la più viva ed efficace? Laonde o
pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella, efficace, elegante, e pienissimamente
imitativa ch'ella sia, se non esprime passione, se non ha per soggetto veruna
passione, (o solamente qualcuna troppo poco viva) è sempre posposta a
quelle che l'esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto.
E le arti che non possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute
le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son
tenute fra le prime per la ragione [2362]contraria. Che vuol dir
ciò? non è dunque la sola verità dell'imitazione,
nè la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l'uomo desidera, ma
la forza, l'energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire
gagliardamente. L'uomo odia l'inattività, e di questa vuol esser
liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl'idilli ec. ec.
saranno sempre d'assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelle,
di scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico della
scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica.
(26. Gen. 1822.)
Gl'italiani, i francesi gli spagnuoli usano
il verbo adcolligere, (accogliere, accueillir, acoger)
in senso di excipere. V. i rispettivi vocabolari, il Gloss. e il Forcell.
(27. Gen.
1822.)
Aurum rustici orum dicebant, ut auriculas oriculas. Festo in Orata, presso il Forc. auricula.
Ed oggi pure italiani francesi e spagnuoli dicono come quegli antichi rustici,
nè solo queste ma mille altre tali parole.
(27. Gen. 1822.)
Aliter usato in latino alla maniera
italiana di altrimenti, cioè come noi diciamo p.e. fa questo; [2363]altrimenti
t'ammazzo, cioè per se no, o se non che ec. (v. la
Crusca in Se non §. 4. dove spiega sin secus, alioquin, e
in italiano, Altrimenti, benchè a questa voce non faccia parola
di tal uso) usato dico in tal senso, è raro assai ne' buoni latini, e
potrebbe credersi sproposito, e frase moderna. Eccone esempio dall'En. 6.145.
segg. Et rite repertum (il ramo d'oro, sacro a Proserpina come dice
v.138.) Carpe manu. Namque ipse volens facilisque sequetur, Si te fata
vocant: ALITER non viribus ullis Vincere, nec duro poteris convellere ferro.
V. il Forcell. aliter §. ult. Dubito però che quei 2. esempi,
specialmente il primo, facciano precisamente al caso.
(27. Gen. 1822.)
Alla p.2340. marg. Vedi pure il Forcell. in Fido,
Fisus, Confido, Confisus (participii passati non passivi
ma neutri, e non di deponenti ma di neutri), e Virg. En. 5. v. penult. (870-1.)
O nimium coelo et pelago CONFISE sereno, Nudus in ignota, Palinure,
iacebis arena.
(27. Gen. 1822.)
Quei pochissimi poeti italiani che in questo
o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio e natura poetica,
qualche poco di forza nell'animo [2364]o nel sentimento, qualche poco di
passione, sono stati tutti malinconici nelle loro poesie. (Alfieri, Foscolo
ec.). Il Parini tende anch'esso nella malinconia, specialmente nelle odi, ma
anche nel Giorno, per ischerzoso che paia. Il Parini però non
aveva bastante forza di passione e sentimento, per esser vero poeta. E generalmente
non è che la pura debolezza del sentimento, la scarsezza della forza poetica
dell'animo, che può permettere ai nostri poeti italiani d'oggidì
(ed anche degli altri secoli, e anche d'ogni altra nazione), a quei medesimi
che più si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di
stiracchiata immaginazione, son tenuti poeti, l'essere allegri in poesia, ed
anche inclinarli e sforzarli a preferir l'allegro al malinconico. Ciò
che dico della poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella
letteratura. Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la
sola debolezza n'è causa.
(27. Gen. 1822.)
È proprio della nostra lingua, della
francese della spagnuola il far servire la preposizione senza col suo
caso, come per aggettivo, p.e. dicendo luogo senz'acqua, vento senza
umidità, casa senza luce ec. cioè priva di ec. [2365]Ciò
non è frequente in latino e può parere un barbarismo. Pur vedilo
in Virg. En. 6.580. nel Forc. in sine, I. esempio, nel detto di Caligola
presso Svetonio, arena sine calce ec. Così noi ci serviamo
d'altre preposizioni allo stesso modo; uso non molto proprio del buono latino,
ma di cui pur si troverebbero molti altri esempi. Ce ne serviamo pure a modo di
avverbi, come ho detto p.2264. segg.
(28. Gen. 1822.)
Alla p.2360. fine. Come dunque si contrasse
poi il genitivo plurale dicendo manum per manuum, così si
dovettero contrarre gli altri casi, che dovevano da principio aver doppio u,
come appunto il detto genitivo. Parimente il vedere che l'i, sempre o
quasi sempre breve nelle regole della prosodia latina (dico nelle regole, e non
in quei casi che dipendono dal solo costume, come in italia ec.)
è regolarmente e sempre lungo nella desinenza dei dativi plurali della
prima e 2. declinazione, fa credere che quivi da principio egli fosse doppio, o
accompagnato da qualche altra vocale, che rendesse quella sillaba bivocale, e J. Nel qual
proposito osservate che le vocali lunghe per natura nel greco, , ed furono da
principio doppie cioè due E Ǝ, due . Nello
stesso modo io penso che tali vocali lunghe per regola nel latino, fossero da
principio doppie.
(28. Gen. 1822.)
Nimium vobis Romana propago
Visa potens, superi, propria haec si dona
fuissent.
Virg. En. 6. 870-1. [2366]parlando di
Marcello giuniore in persona di Anchise. Riferiscilo a quello che ho detto
altrove, dell'invidia delle cose umane attribuita dagli antichi agli Dei, del
credere che gli Dei potessero ingelosire, e pigliar ombra e timore della nostra
potenza ec. Della quale e d'altre simili opinioni tanto assurde, quanto
naturali e primitive, non si trovano in Virgilio se non piccoli vestigi, essendo
egli troppo dotto, e scrivendo in tempo troppo spregiudicato, e filosofico, e
cominciato ad attristare dalla metafisica, che produsse di lì a poco il
Cristianesimo.
(29. Gen. dì di S. Francesco di Sales. 1822.)
Meglio per più vedilo
nella Crusca, stimato idiotismo provenzale. Adflictis MELIUS confidere rebus
dice Virg. En. 1.452. Vedi il Forcell. in Melior, e in confido, o
Fido, e gl'interpreti di Virgilio.
(29. Gen. 1822.)
Tra me, tra se, fra te
ec. dicono gl'italiani (credo anche gli spagnuoli) per quello che i latini mecum,
secum ec. cioè dentro di me, nel mio pensiero ec.
V. la Crusca. Eccovi questa stessa frase in latino, e presso scrittore
elegantissimo qual è Virg. En. [2367]1.455. dove inter se,
io credo certamente che in verità non vaglia altro che questo. Vedi
gl'interpreti. Il Forcell. in inter, non ha nè questo nè
altro esempio nè significato simile. Vedilo in Se, Me ec.
se avesse nulla, e così l'Append. e il Glossar.
(29. Gen. 1822.)
Alla p.1132. verso il fine. Così di gerere
in aliger, armiger, penniger; di ferre in armifer,
alifer (v. il Forc.), mellifer, lethifer, umbrifer ec.
ec. ec. ec. ec. e di cento altri simili similmente.
(29. Gen. 1822.)
Alla p.2267. marg. Nate, patris summi qui tela Typhoea temnis (Virg. En. 1.665.): oe dissillabo. V. gl'interpreti il Forcell.
la Regia Parnasi.
(29. Gen. 1822.)
In proposito di quanto ho detto altrove del
Sacerdozio che presso gli antichi non era disgiunto dalle professioni civili e
militari ec. ec. nè esigeva alcun particolar genere di vita, di modestia,
ritiratezza ec. v. Virg. En. 2.318. seqq. confrontandolo con 429-30. e soprattutto
v. ib. vers. 201. e nota come i sacerdoti si traessero a sorte dal numero de'
cittadini, de' magistrati, de' militari ec. e non per sempre, ma per un tal
tempo, o per una sola occasione ec. Lascio che [2368]i sacrifizi ec.
privati ec. erano eseguiti da quello stesso che offriva la vittima, come da
Enea spessissimo e v. in particolare En. 6.249-54. Fra i greci si sceglievano i
sacerdoti per le pubbliche cerimonie, feste, sacrifizi ec. fra i patrizi, e i
più ricchi, che potessero spendere ec. ed era questo un carico oneroso,
come quello di fornire una trireme ec. Alle volte esso era ereditario in certe
famiglie ec. Vedi Senofonte nel Convito c.8. §.40.
(29. Gen. 1822.)
Tristis per cattivo
all'italiana, mi par di trovarlo nell'En. 2.548. V. gl'interpr. il Forcell. il
Gloss. ec.
(29. Gen. 1822.)
Alla p.1154. marg. principio. Anche dalla
prima coniugazione si fecero tali contrazioni ne' participii in us e ne'
supini, togliendo l'a di atus, o atum, o fosse che detti
participii o supini contratti, si fossero prima ridotti alla desinenza di itus
come domitus ec. P.e. partus (quando non viene da pario)
è mera contrazione di paratus, e non già un traslato, come
dice il Forcellini. Il che si vede chiaro per gli esempi che egli adduce, ma
molto più per questo (ch'egli omette) dell'En. 2.784. (vedilo) [2369]dove
parta, non vuol dir neppure comparata, acquisita, it. procacciata
ec. come spiega partus il Forcell. ma semplicissimamente parata,
giacchè non solo non era ancora acquistata nè procacciata, ma
doveva costare lunghissime, e innumerabili, e grandissime fatiche e rischi il
guadagnarla, come poi dice Virgilio tante altre volte, e di queste fatiche e
rischi fa tutto il soggetto dell'Eneide: la quale sarebbe finita in quel passo,
se parta volesse dire guadagnata.
(30. Gen. 1822.)
Noi diciamo fare una cosa di buona gana,
cioè alacriter. Presso gli spagnuoli gana vale alacritas.
Gli scrittori latini non hanno parola da cui questa si possa derivare. E pure
dove credete che rimonti la sua origine? Alle primissime sorgenti delle due
lingue sorelle latina e greca. in greco
vuol dire laetitia, gaudium, voluptas. V. il Lessico co'
suoi derivati. Come dunque questa voce nostra e spagnuola, volgarissima in ambo
le lingue, anzi plebea, nè degna della scrittura sostenuta, può
esser mai derivata dal greco? quando ne' tempi barbari in cui nacquero tali
lingue, [2370]appena si sapeva in Italia o in Ispagna che vi fosse al
mondo una lingua greca? come può esser venuta questa voce se non dal
volgare latino, e per mezzo di esso?
Non basta. Questa radice, non solo è delle antichissime
nella lingua greca, ma di quelle che s'avevano per antiquate negli stessi
antichi tempi della greca letteratura. V. il Simposio di Senofonte, c.8. §.30,
dove ricerca l'etimologia del nome di Ganimede e per provare che , viene da una radice che
significa godimento, diletto, ec. ricorre ad Omero. Dunque al
tempo di Senofonte, ell'era già disusata, e certo non era volgare,
quantunque ella si trovi anche in alcuni pochi autori o contemporanei o
posteriori a lui: il che non dee far maraviglia perchè l'imitazione di
Omero durò sempre nella poesia greca; le sue parole e la sua lingua
furono sempre tenute proprie d'essa poesia; oltre che il poeta usa senza biasimo
molte parole antiquate per più ragioni che ve l'autorizzano, ed anche
glielo prescrivono. Ora questa voce (e suoi derivati) non si trova quasi che
ne' poeti, e si può dir poetica. Così durano fra [2371]nostri
scrittori, e massime poeti, molte parole ec. di Dante, disusate nel resto ec. E
dal luogo di Senofonte si vede che quella voce era sin d'allora in Grecia, quel
che sarebbe fra noi una voce detta dantesca.
Quest'antichissima radice, non riconosciuta
dagli scrittori latini, come mai vive oggi in due volgari derivati da
una lingua sorella della greca? Dunque ella fu propria della lingua latina fino
da' suoi principii, cioè da quando ebbe comune origine colla greca (non
dopo, 1. perchè già divenuta fuor d'uso tra' greci, così
che il volgo romano non potè da essi prenderla, il che sarebbe
già inverosimile per se; e come avrebbe potuto prender dai greci una
voce poetica? 2. perchè non si trova negli scrittori latini, i quali, e
non il volgo, furono coloro che poi massimamente grecizzarono il latino).
Dunque d'allora in poi il volgare latino la conservò fino all'ultimissimo
suo tempo, e fino a lasciarla nelle bocche del moderno popolo italiano e
spagnuolo dove ancora rimane. Dunque ecco anche un'altra prova che la lingua
latina fosse più tenace della sua remotissima antichità che la
greca, dove questa voce ec. era uscita d'uso al tempo [2372]già
di Senofonte.
E perchè non resti dubbio che il
nostro gana sia tutt'una radice col greco , se non
bastasse l'identità delle lettere radicali, e la quasi identità
del significato, osserveremo che significa
insulto. La preposizione in composizione
spessissimo risponde alla latina in (come appunto insilire, o insultare
nel senso di saltar sopra, risponde ad ). Ora il
nostro ingannare, (spagn. engañar) se derivi da ingenium
(v. il Dufresne in ingenium 1.) o da gannare non voglio ora asserirlo.
Certo è che gannare (onde gannum ec. che v. nel Dufresne),
voce conosciuta solamente nella barbara latinità, significò irridere
ec. Ed osservare che appunto illudere illusione ec. che significa
primitivamente lo stesso, passò poi, specialmente presso i francesi, a
significare assolutamente inganno, errore ec. V. il Forcell. e il
Gloss. Gannare vien dunque da gana, e ne viene come da , e con lo
stesso significato. (Non so se ganar gagner ec. possano aver
niente a fare col proposito. V. il Gloss. ec.).
Ecco dunque queste due parole, l'una
latino-barbara, cioè gannare, l'altra vivente e popolare italiana
[2373]e spagnuola, d'ambe le quali, non solo non si sarebbe creduto che
fossero antiche, e de' più buoni tempi, ma si sarebbe penato a congetturare
l'etimologia; dimostrate non solo non moderne, non solo non derivate da' tempi
barbari, ma identiche con una radice antichissima che si trova nell'antichissimo
greco, che nel greco de' buoni secoli era già fatta antiquata, che non potè
passare nel latino, donde solo potè venir sino a noi e al nostro volgo,
se non da quando nacque il latino da una stessa origine col greco, e che
perduta nel latino scritto, si è conservata perennemente nel volgare, in
modo che oggi la nostra plebe usa familiarmente una radice ch'era già
poetica, e però già divisa dal volgo, sino dal tempo del
più antico scrittore profano che si conosca, cioè di Omero. Tanta
è la tenacità del volgo, e tanto sono antiche tante cose e parole
che si credono moderne, perciò appunto che l'eccesso della loro
antichità nasconde affatto la loro origine, e l'uso che anticamente se
ne fece. E quindi potete argomentare [2374]quante voci frasi ec.
latino-barbare, o italiane, francesi o spagnuole, della cui origine non si sa
nulla, e si credono moderne o di bassa età, perchè solo ne'
moderni o ne' bassi tempi e monumenti si trovano, si debbano stimare appartenenti
all'antichissima fonte de' nostri volgari e del latino-barbaro, cioè
all'antico latino, e quindi al latino volgare ch'è il solo mezzo per cui
i nostri volgari comunicano colla detta antichissima fonte: e ciò
quantunque in ordine a esse parole e frasi non si possa dimostrare, appunto a
causa della troppo loro antichità, che conservandole ne' volgari o greci
o latini, le bandì dalle scritture. Come vediamo fra noi molte antichissime
parole italiane vivere nella plebe di questa o quella parte d'Italia, e non
esser più ricevute nelle scritture.
(31. Gen. 1822.)
Alla p.2328. fine. (Così l'Alamanni,
Coltivaz. lib.6. v.416-7. O se l'ingorde folaghe intra loro Sopra il secco
sentier VAGANDO STANNO.). Ed è ben ragione perocchè il verbo essere
è di sua natura in tutte le lingue applicabile a qualsivoglia [2375]cosa,
qualità, azione ec. Ora il verbo stare è sostanzialmente e
originariamente continuativo di essere (in latino in italiano in
ispagnuolo), e partecipa della di lui natura, e viene al caso ogni volta che
s'ha da significare continuazione o durata di qualunque cosa è.
Osservate i latini, osservate Virgilio e vedrete che laddove essi congiungono
il verbo stare co' nomi addiettivi, o co' participii d'altri verbi, esso
verbo non tanto significa stare in piedi, ec. quanto continuazione o
durata di ciò ch'è significato da' detti nomi o participii. Talia perstabat memorans (En. 2.650.), Stabant orantes ec. (En. 6.313.). Mi ricordo
anche di altri luoghi di Virgilio dove ciò ch'io dico è anche
più manifesto, e l'uso del verbo stare si rassomiglia più
decisamente a quello che noi e gli spagnuoli ne facciamo co' gerundii. V. gl'interpr.
e il Forcell.
(31. Gen. 1822.)
Alla p.980. marg. Questi tali nomi passarono
nell'italiano alla desinenza in chia o chio, nello spagnuolo in ja
o jo, nel francese in eille o eil, o ouille ec.
perchè prima invece di culus furono pronunziati clus. (oclus
ec.) (così da avunculus [2376]oncle).
Giacchè il cl fu da noi trasmutato quasi sempre in chi,
come quello di claudere o cludere, (v. p.2283) clericus, clavis,
clavus ec. Così il gulus o gula prima in glus,
poi in ghio ec. Unghia ec. (franc. ongLE.) Così stipula
si disse prima stipla, poi stoppia ec. V. il Gloss. ec.
Così gli stessi latini, massime i poeti solevano contrarre siffatte
voci, come periclum ec. maniplum (Virg. Georg. 3.297.) ec.
(31. Gen. 1822.)
È costume massimamente italiano di
elidere e togliere il c dalle parole latine, specialmente e per esempio
avanti il t. Ora anche gli antichi ed ottimi scrittori e monumenti usano
spesse volte lo stesso in molte parole, dicendo p.e. artus per arctus
(dove il c è radicale, perchè arctus fu da
principio arcitus, participio di arcere), ec. v. p.1144. se vuoi.
(nel Virg. dell'Heyne trovi sempre artus, mai arctus) autor
per auctor, autoritas ec. V. il Cellar. il Forcell. l'Ortograf.
del Manuzio ec. E nelle antiche iscrizioni medaglie ec. si troveranno infiniti
esempi di ciò, come dire Atium, o Atius, o Atia,
per Actium ec. ec. Il qual costume o sia buono o cattivo in riga di [2377]latinità,
e di retta ortografia (che certo in molti casi sarà cattivo,
perocchè detto modo di scrivere è incostante ma frequentissimo nelle
dette iscrizioni medaglie, ne' codd. più antichi ec.), serve sempre a
dimostrare che quel costume che il volgo italiano ha poi adottato, e comunicato
finalmente per regola alle ottime scritture (che ne' primi secoli della nostra
lingua adoperarono in questo e simili casi assai frequentemente l'ortografia
latina), fu antichissimo nella pronunzia del volgo o non volgo, giacchè
poteva cagionare ordinariamente tali vizi di scrittura negli amanuensi,
lapidarii ec. La qual considerazione si dee generalizzare e riferire a tutti
quei casi (che son molti) ne' quali (o spettino all'ortografia o ad altro) gli
antichi monumenti codici ec. si trovano ordinariamente, e con decisa
frequenza imbrattati d'errori che si accostano o s'agguagliano alla
pronunzia o al costume qualunque sia della lingua italiana, o delle sue sorelle
ec.
(1. Feb. 1822.)
[2378]Che non si dà
ricordanza, nè si mette in opera la memoria senz'attenzione. Prendete a
caso uno o due o tre versi di chi vi piaccia, in modo che possiate, leggendoli
una volta sola, tenerli tanto a memoria da poterli poi ripeter subito fra voi,
il che è ben facile in quello stesso momento che si son letti: e ripeteteli
fra voi stesso dieci o quindici volte, ma con tutta materialità, come si
fa un'azione ordinaria, senza pensarvi e senza porvi la menoma attenzione. Di
lì ad un'ora non ve ne ricorderete più, volendo ancora
richiamarli con ogni sforzo. Al contrario leggeteli solamente una o due volte
con attenzione, e intenzione d'impararli, o che vi restino impressi; ovvero
poniamo caso che da se stessi v'abbiano fatto una decisa impressione, ed
eccitata per questo mezzo la vostra mente ad attendervi, anche senza intenzione
alcuna d'impararli. Non li ripetete neppure fra voi, o ripetendoli, fatelo solo
una o due volte con attenzione. Di lì a più ore vi risovverranno
anche spontaneamente, e molto più se voi lo vorrete; e se allora di
nuovo ci farete attenzione, in modo che quella reminiscenza [2379]non
sia puramente materiale, ve ne ricorderete poi anche più a lungo per un
certo tempo. Dico tutto ciò per esperienza, trovando d'essermi scordato
più volte d'alcuni versetti ch'io per ricordarmene avea ripetuto meccanicamente
fra me una ventina di volte, e di averne ritenuto degli altri ripetuti una sola
o due volte, con decisa attenzione alle parti ec. E così d'altre cose
ec. E chi sa che queste o simili osservazioni non fossero il fondamento di
quell'arte della memoria che fra gli antichi s'insegnava e si professava come
ogni altra disciplina, siccome apparisce da molte testimonianze, e fra le altre
da Senofonte nel Convito c.4. §.62.
Aggiungete. Ciascun di noi ha qualche metodo
di vita, qualche cosa ch'egli soglia fare ogni giorno, ovvero ogni tanti
giorni, a quella tal ora, in quel tal luogo, occasione ec. Ma se questa cosa o
azione ci è divenuta (come sono necessariamente moltissime in qualunque
individuo) così abituale che noi la facciamo macchinalmente, e senza
porvi più nessuna, o quasi nessuna [2380]attenzione, spessissimo
c'interverrà che anche poco dopo fatta, non ci ricordiamo se l'abbiam fatta
o no, massimamente se non vi sia nessuna circostanza o particolare, ovvero
ordinaria, ma presente ec. ec. che aiuti in quel momento la memoria, (il che si
può fare anche riandando di mano in mano le altre operazioni di quel tal
tempo, le circostanti, le conseguenze, le antecedenze; ovvero proccurando di
salire dalle più vicine alle più lontane ec.) nel qual caso
probabilmente non ce [ne] potremo ricordare in nessunissimo modo, e l'uomo
della più gran memoria del mondo sarà nella stessissima
condizione. Generalmente è nulla o scarsissima la memoria degli atti
detti dell'uomo, dei quali ciascuno ne fa giornalmente e continuamente infiniti,
nè mai se ne ricorda un solo, anche volendo, se qualche particolare
impressione non l'aiuta ec. Nè solo di questi, ma anche di quelli, che
benchè non siano o propriamente o totalmente dell'uomo, si fanno
però con pochissima riflessione ed attenzione, e ponendoci poca o
nessuna importanza, di questi tali dopo pochi momenti, non ci ricordiamo o
appena ci ricordiamo del come, del quando, del perchè, del se gli
abbiamo fatti. E generalmente la memoria va sempre in ragion diretta
dell'attenzione posta non già alla ricordanza, ma a ciò
ch'è il soggetto della ricordanza.
(1. Feb. 1822.)
[2381]Giovanette di 15. o poco
più anni che non hanno ancora incominciato a vivere, nè sanno che
sia vita, si chiudono in un monastero, professano un metodo, una regola di
esistenza, il cui unico scopo diretto e immediato si è d'impedire la
vita. E questo è ciò che si procaccia con tutti i mezzi. Clausura
strettissima, fenestre disposte in modo che non se ne possa vedere persona, a
costo della perdita dell'aria e della luce, che sono le sostanze più
vitali all'uomo, e che servono anche, e sono necessarie alla comodità
giornaliera delle sue azioni, e di cui gode liberamente tutta la natura, tutti
gli animali, le piante, e i sassi. Macerazioni, perdite di sonno, digiuni, silenzio:
tutte cose che unite insieme nocciono alla salute, cioè al ben essere,
cioè alla perfezione dell'esistenza, cioè sono contrarie alla vita.
Oltrechè escludendo assolutamente l'attività, escludono la vita,
poichè il moto e l'attività è ciò che distingue il
vivo dal morto: e la vita consiste nell'azione; laddove lo scopo diretto della
vita monastica anacoretica ec. è l'inazione, e il guardarsi dal fare,
l'impedirsi di fare. Così che la monaca o il monaco [2382]quando
fanno professione, dicono espressamente questo: io non ho ancora vissuto, l'infelicità
non mi ha stancato nè scoraggito della vita; la natura mi chiama a
vivere, come fa a tutti gli esseri creati o possibili: nè solo la natura
mia, ma la natura generale delle cose, l'assoluta idea e forma dell'esistenza.
Io però conoscendo che il vivere pone in grandi pericoli di peccare, ed
è per conseguenza pericolosissimo per se stesso, e quindi per
se stesso cattivo (la conseguenza è in regola assolutamente), son
risoluto di non vivere, di fare che ciò che la natura ha fatto, non sia
fatto, cioè che l'esistenza ch'ella mi ha dato, sia fatta inutile, e
resa (per quanto è possibile) nonesistenza. S'io non vivessi, o
non fossi nato, sarebbe meglio in quanto a questa vita presente, perchè
non sarei in pericolo di peccare, e quindi libero da questo male assoluto:
s'io mi potessi ammazzare sarebbe parimente meglio, e condurrebbe allo stesso
fine; ma poichè non ho potuto a meno di nascere, e la mia legge mi
comanda di fuggir la vita, e nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la
morte volontaria fra gli altri peccati per cui la vita [2383]è
pericolosa, resta che (fra tante contraddizioni) io scelga il partito
ch'è in poter mio, e l'unico degno del savio, cioè schivare
quanto io posso la vita, contraddire e render vana quanto posso la nascita mia,
insomma esistendo annullare quanto è possibile l'esistenza, privandola
di tutto ciò che la distingue dal suo contrario e la caratterizza, e
soprattutto dell'azione che per una parte è il primo scopo e carattere
ed uffizio ed uso dell'esistenza, per l'altra è ciò che v'ha in
lei di più pericoloso in ordine al peccare. E se con ciò nuocerò
al mio ben essere, e mi abbrevierò l'esistenza, non importa;
perchè lo scopo di essa non dev'esser altro che fuggir se medesima, come
pericolosa; e l'essere non è mai tanto bene, quanto
allorchè in qualunque maggior modo possibile è lontano dal
pericolo di peccare, cioè lontano dall'essere e dall'operare
ch'è l'impiego dell'esistenza.
Questo è il discorso di tali persone.
E questo raziocinio, e la risoluzione che ne segue, e la vita che le tien
dietro, sono assolutamente e dirittamente nello spirito del Cristianesimo, e
inerenti alla [2384]sua perfezione. Lo scopo di essa e dell'essenza del
Cristianesimo, si è il fare che l'esistenza non s'impieghi, non serva ad
altro che a premunirsi contro l'esistenza: e secondo essa il migliore, anzi
l'unico vero e perfetto impiego dell'esistenza si è l'annullarla quanto
è possibile all'ente; e non solo l'esistenza non dev'essere il primo scopo
dell'esistenza nell'uomo (come lo è in tutte le altre cose o create, o
anche possibili), ma anzi il detto scopo dev'essere la nonesistenza.
Assolutamente nell'idea caratteristica del Cristianesimo, l'esistenza ripugna e
contraddice per sua natura a se stessa.
(2. Feb. dì della Purificazione di Maria SS. 1822.)
Alla p.2330. Altra prova. I nomi delle cose
che sogliono esser denominate prima d'ogni altra in qualsivoglia lingua, nel
latino, se bene osserverete, sono o monosillabi, o tali che facilmente se ne
scuopre una radice di non più che una sillaba. Segno evidente di conservata
antichità, e questa remotissima e primitiva. Non così, o non
sì spesso in greco, dove sovente i detti nomi non sono monosillabi,
nè se ne può trarre una [2385]radice monosillaba. Dies
, vir ec. sol
, lun-a
. Forse
non poche volte, se quella parola che nella grecità conosciuta è
rimasta in uso, non è monosillaba, lo sarà però un'altra
equivalente, che si trova solo in Omero, o ne più antichi o ne' poeti, o
che si conosce per congettura; che in somma a' buoni e perfetti tempi della
lingua greca era già disusata e antiquata almeno nel linguaggio comune.
Ma questa medesima è un'altra prova anche più materiale che la
lingua latina fosse più tenace della sua antichità.
(2. Feb. 1822.)
Alla p.2281. marg. fine. Questo mischiare
non viene certo da mescolare ma da misculari latino
immediatamente 1. perchè non diciamo miscolare (nè i
franc. mîler o misler, nè gli spagn. mizclar)
laddove i latini doverono certo dir così, e vedendosi che la i
cambiata nel mescolare in e s'è conservata nel mischiare,
ciò non può procedere da altra ragione che dalla sua origine
latina. 2. perchè è costume bensì dell'idioma italiano il
cangiare in chi il latino cul, (v. p.2375.) non così
però di cangiare l'italiano col. Così che mischiare [2386]denota
un misculare o i latino, dal quale necessariamente dev'essere
stato preceduto. Questa 2. ragione vale anche per meschiare altra
corruzione di mischiare, cioè cambiato poi l'i in e,
come in mescolare mezclar ec.
(3. Feb. 1822.)
Alla p.2324. sul principio. V. pure il
Forcell. in montuosus il quale inclino a credere che possa dinotare un
vecchio ed antiquato, o popolare e corrotto dal volgo montus us. V. il
Gloss. se ha nulla.
(3. Feb. 1822.)
Stimabile è la menzogna quando giova
a chi la dice e a chi l'ode non fa nocumento. Parole in persona di
Cariclea fanciulla greca, presso Eliodoro Delle cose Etiopiche Libro Primo
tradotto dal Gozzi, Opere, Venez. Occhi. 1758. t.6. p.92.
(4. Feb. 1822.)
La lingua italiana ha un'infinità di
parole ma soprattutto di modi che nessuno ha peranche adoperati. - Ella si
riproduce illimitatamente nelle sue parti. Ella è come coperta tutta di
germogli, e per sua propria natura, pronta sempre a produrre nuove maniere di
dire. - Tutti i classici o buoni scrittori crearono continuamente nove frasi.
Il vocabolario ne contiene la menoma parte: e per verità il frasario di
un solo [2387]di essi, massime de' più antichi ec. formerebbe da
se un vocabolario. Laonde un vocabolario che comprenda tutti i modi di dire,
ottimi e purissimi, adoperati da' classici italiani, e dagli stessi soli testi
di lingua, sarebbe impossibile. Quanto più uno che comprendesse tutti
gli altri egualmente buoni che sono stati usati, o che si possono usare in infinito!
Usarli dico e crearli nuovamente, e nondimeno con sapore e natura tutta antica:
anzi non la moderna, ma la sola antica lingua italiana possiede ed è
capace di questa fecondità. - Deducete da ciò l'ignoranza di chi
condanna quanto non trova nel Vocabolario. E concludete che la novità
de' modi è così propria della lingua italiana, e così
perennemente ed essenzialmente, ch'ella non può conservare la sua forma antica,
senza conservare in atto la facoltà di nuove fogge.
(5. Feb.
1822.)
eb.1822
Ni sabian que pudiesse haver sacrificio sin que muriesse alguno por la
salud de los demàs. Parole di
Magiscatzin, vecchio Senatore Tlascalese a Ferdinando Cortès, presso D.
Antonio de Solìs, Hist. de la Conquista de Mexico, lib.3. capit.3.
[2388]en Madrid 1748. p.184. col.1. Ecco l'origine e la primitiva
ragione de' sacrifizi, e idea della divinità. Si stimava invidiosa e
nemica degli uomini, perchè gli uomini lo erano per natura fra loro, e
per causa delle tempeste ec. le quali appunto si cercava di stornare co' sacrifizi.
Nè si credeva già primitivamente che gli Dei godessero
materialmente godessero della carne o sangue o altro che loro si sacrificava,
ma della morte e del male della vittima, e che questo placasse l'odio loro
verso i mortali, e la loro invidia. Egoismo del timore, che ho spiegato in
altro luogo. Quindi si facevano imprecazioni ed esecrazioni sulla vittima, che
non si considerava già come cosa buona, ma come il soggetto su cui doveva
scaricarsi tutto l'odio degli Dei, e come sacra solo per questo verso. Quindi
quando il timore (o il bisogno, o il desiderio ec.) era maggiore, si
sacrificavano uomini, stimando così di soddisfar maggiormente l'odio
divino contro di noi. E ciò avveniva o tra' popoli più vili e
timidi (e quindi più fieramente egoisti), o più travagliati dalle
convulsioni degli elementi (com'erano i Tlascalesi ec.), o ne' tempi più
antichi, [2389]e quindi più ignoranti, e quindi più
paurosi. E nell'estrema paura, si sacrificavano non solo prigionieri, o nemici,
o delinquenti ec. come in America, ma compatrioti, consanguinei, figli, per
maggiormente saziare l'odio celeste, come Ifigenia ec. Eccesso di egoismo
prodotto dall'eccesso del timore, o della necessità, o del desiderio di
qualche grazia ec.
(6. Feb. 1822.)
Nè fra gli antichi, nè fra'
popoli poco civilizzati fu mai che il popolo conquistato s'avesse per
compatriota del conquistatore, come oggidì.
(14. Feb. 1822.)
Alla p.2338. Ho detto delle contraddizioni
naturali che occorrono fra quegli oggetti che il presente stato dell'uomo gli rende
necessarii anche nell'agricoltura ec. Aggiungo che di quegli stessi animali
ch'egli nodrisce, molti sono nemici fra loro per natura, e si danneggiano
scambievolmente quando non ci si provveda, o che lo facciano volontariamente, o
anche involontariamente per fisiche disposizioni, senza esser nemiche ec. come
le galline nuocciono ai buoi.
(16. Feb. 1822.)
[2390]L'attenzione de' fanciulli
è scarsa 1. per la moltitudine e forza delle impressioni in
quell'età, conseguenza necessaria della novità ed inesperienza:
le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione loro in mille parti e continuamente,
l'impediscono di esser sufficiente in nessuna: e questa è la distrazione
che s'attribuisce ai fanciulli, tanto più distratti, quanto più
suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perchè anche la
facoltà di attendere non si acquista senz'assuefazione ec.: 3.
perchè la natura ha provveduto in modo che fin che l'uomo è nello
stato naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende,
essendo l'attenzione la nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della
corruzione ed infelicità umana.
(16. Feb. 1822.)
Della convenienza di conservare agli
scrittori la facoltà di fabbricar nuove parole e modi sopra le forme
già proprie della lingua, cioè sopra le varie facoltà per
le quali essa n'ha prodotto degli altri di quel tal genere, vedi un bello ed
espressivo luogo del Caro, Apologia, Parma 1558. p.52. dopo aver parlato delle
voci Suo merto et tuo valore nel Predella, prima di entrare nelle opposizioni
numerate.
(18. Feb. 1822.)
[2391]Ma nulla fa chi troppe cose
pensa. Tasso Aminta, Atto 2. scena 3. v. ult.
(20. Feb. primo di Quaresima. 1822.)
I muti hanno essi la facoltà
della favella? No certo. Eppur quanto alla favella n'hanno tutta la disposizione
naturale quanta n'ha il miglior parlatore del mondo. Ma questa non è
altro che possibilità, la quale il muto non riduce mai all'atto e
non adopera in verun modo, perchè non avendo udito, non impara dagli
altri (cioè non si avvezza) a farlo, e coll'assuefazione, di cui non ha
il mezzo, non acquista la facoltà. Ecco che cosa sono tutte le pretese
facoltà naturali ed ingenite nell'uomo. E qual si crede più
naturale della favella? principal caratteristica dell'uomo, e suo maggior
distintivo dai bruti.
(20. Feb. 1822.)
Cogliere (che anche si dice corre)
e coger non sono altro che colligere; scegliere (anche scerre)
ed escoger dimostrano un excolligere latino detto volgarmente a
preferenza e in vece di eligere 1. perchè la preposizione ex
della quale sono composti questi due verbi moderni non significa niente in
queste due lingue (oltre ch'ella è qui sfigurata in modo che anche [2392]significando
per se, non significherebbe nulla in questi casi, non essendo più lei)
bensì in latino. 2. perchè questi due verbi sono tanto simili che
dimostrano l'unità dell'origine, e tanto diversi fra loro che danno ad
intendere di non esser derivato nessuno di essi due dall'altro.
(22. Feb. 1822.)
Alla p.2304. vedi un luogo notabile di
Francesco da Buti comentatore ms. di Dante, presso la Crusca v. Strega.
(26. Feb. 1822.)
Asseriscono che la natura ha data
espressamente all'uomo la facoltà di perfezionarsi, e voluto che
l'adoprasse, e però non ha provveduto a lui del necessario così
bene come agli altri animali, anzi glien'ha mancato anche nel più essenziale.
E da questa facoltà vogliono che l'uomo sia tenuto per superiore e
più perfetto degli altri esseri. 1. Vi par questa una bella provvidenza?
Dare all'uomo la facoltà di perfezionarsi, cioè di conseguire la
felicità propria della sua natura; ma frattanto perchè questa
perfezione non si poteva conseguire se non dopo lunghissimo spazio di tempo, e
successione d'infinite esperienze, [2393]fare decisamente, e deliberatamente
infelici un grandissimo numero di generazioni, cioè tutte quelle che
dovevano essere innanzi che questa perfezione propria dell'esser loro, e non
per tanto difficilissima e remotissima, si potesse conseguire, come ancora non
possono affermare che si sia fatto. E per rispetto di questa medesima
facoltà di perfezionarsi, di questo dono, di questo massimo privilegio
dato dalla natura alla specie umana, mancare alla medesima del necessario,
quando era evidente che questa facoltà non avrebbe avuto effetto, e non
avrebbe potuto supplire al preteso mancamento della natura verso di noi, se non
dopo lunghissimo tempo, e dopo che moltissime generazioni avrebbero dovuto, a
differenza di tutti gli altri esseri, sentire e sopportare il detto mancamento,
e l'infelicità che risulta dal non essere nello stato proprio della
propria natura. In verità che questo, se fosse vero, mostrerebbe una
gran predilezione della natura verso di noi, e gran superiorità nostra sugli
altri esseri. 2. Non essendo la perfezione altro [2394]che l'essere nel
modo conveniente alla propria natura, e tutti gli animali e le cose essendo
così, tutte sono perfette nel loro genere, e ciò vuol dire che
son perfette assolutamente, non potendo la perfezione considerarsi fuori del
genere di cui si discorre. La natura dunque (giacchè gli animali e le
cose non hanno acquistata questa perfezione da loro, e sono in tutto secondo
natura) ha fatto gli animali e le cose tutte perfette. L'uomo solo, secondo
voi, l'ha fatto perfettibile. Bella superiorità e privilegio. Dare agli
altri il fine, a voi il mezzo; a tutti la perfezione, a voi non altro che il
mezzo di ottenerla. E di più un mezzo o inefficace e quasi illusorio, o
così poco efficace, che, lasciando gl'infiniti ostacoli, e l'immenso
spazio di tempo che s'è dovuto passare prima di ridurci allo stato
presente, in questo ancora non possiamo esser tanto arditi nè sciocchi
da darci per perfetti (che vorrebbe dir felici, quando siamo il contrario): e
oltre a questo non sappiamo quando lo potremo essere: anzi non possiamo
congetturar neppure in che cosa potrà consistere la nostra [2395]perfezione
se mai s'otterrà: e per ultimo, se parliamo da vero, siamo o dobbiamo
essere omai più che persuasi, che la detta perfezione, qualunque ce la
figuriamo, non s'otterrà mai, e non diverremo mai più felici. E
pur gli animali lo sono dal principio del mondo in poi, senza essersi mossi
dalla natura. Ecco la superiorità naturale su tutti gli esseri, che si
scopre in noi mediante la bella e generale supposizione della nostra
perfettibilità.
(5. Marzo 1822.)
J . Quippe
omnia bona sunt ac pulcra, ad quae bene se habent; mala vero ac turpia, ad quae
male. Leunclav. Parole di Socrate ad Aristippo appresso Senofonte . 8. §.7.
(17. Marzo 1822.)
Nelle scritture de' moderni puristi italiani
(p.e. del Botta) per lo più si vede chiaramente un moderno che scrive
all'antica, e quindi non ha la grazia dello scrivere antico, non avendone lo
spontaneo. Una delle due, o s'ha da parere un [2396]antico che scriva
all'antica, vale a dire che questo scrivere paia naturale dello scrittore, e
venuto da se; o s'ha da essere un moderno che scriva alla moderna: e volendo
parere un moderno, non si dee volere scrivere altrimenti, se si vuol fuggire il
contrasto ridicolo e l'affettazione; e molto meno volendo scriver cose moderne,
e pensieri di andamento moderno (cioè insomma propri dello scrittore,
che mentre vive non sarà mai antico): le quali cose e i quali pensieri,
da che mondo è mondo, in qualsivoglia nazione non si sono scritti
nè potuti scrivere in altra lingua che moderna (perchè questa
sola è loro connaturale, e perciò sola dà il modo di bene
e pienamente esprimerli), e non altrimenti che alla moderna.
(19. Marzo dì di S. Giuseppe. 1822.)
Quando mai, se si potesse, dovressimo,
quanto allo stile, parere antichi che pensassero alla moderna. Laddove nei
nostri accade tutto il contrario.
Il P. Dan. Bartoli è il Dante della
prosa italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua, è
tutto a risalti e rilievi.
(22. Marzo 1822.)
Domandato se credesse che la morte d'alcuno
fosse stata pianta da vero, affermò, portando per esempio quella di Bartolommeo
Cacciavolpe, ch'era vissuto [2397]di beni d'usufrutto, e di pensioni (assegnamenti)
a vita, e morto pieno di debiti.
(25. Marzo
dì dell'Annunziata. 1822.)
Decia
(Motezuma), que no era crueldad ofrecer à sus Dioses unos Prisioneros de
Guerra, que venian yà condenados à muerte; no hallando razon,
que le hiciesse capaz de que fuessen proximos los Enemigos. D. Antonio de Solìs, Hist. de la Conquista de
Mexico, lib.3. capitulo 12. en Madrid año de 1748. p.230. col.2.
(25. Marzo, dì dell'Annunziazione di
M. V. SS. 1822.)
Il Vocab. della Crusca non ha interi due
terzi delle voci, o significati e vari usi loro, e nè pure un decimo dei
modi di quegli stessi autori e libri che registra nell'indice. E questi non
sono appena una terza o quarta parte di quegli autori e libri italiani de'
buoni secoli che secondo ogni ragione vanno considerati e sono autentici nella
lingua, anche nella pura lingua antica. Aggiungeteci ora i libri moderni bene
scritti, e le voci e modi che usati o non usati ancora da buoni scrittori, sono
necessarissimi a chi vuole scriver [2398](com'è dovere) delle
cose presenti, e a' presenti o futuri, massime le spettanti alle scienze
immateriali o materiali, e che tutti mancano al Vocabolario; si può far
ragione che questo non contenga più d'una quarantesima parte della
lingua italiana in genere (a dir molto); e non più d'una trentesima
dell'antica in particolare, ossia di quella che s'ha per classica. Del che non
si può far carico ai compilatori, se non quanto alle mancanze relative
agli autori de' quali professano d'aver fatto spoglio e formatone il
vocabolario. Perchè del resto nessuna lingua viva ha, nè
può avere un vocabolario che la contenga tutta, massime quanto ai modi,
che son sempre (finch'ella vive) all'arbitrio dello scrittore. E ciò
tanto più nell'italiana (per indole sua). La quale molto meno può
esser compresa in un vocabolario, quanto ch'ella è più vasta di
tutte le viventi: mentre veggiamo che nè pur la greca ch'è morta,
s'è potuta mai comprendere in un Vocabolario nè men quanto alle
voci, che ogni nuovo scrittore, ne porta delle nuove. [2399]Molto meno
quanto ai modi ne' quali ell'è infinita e a disposizione degli scrittori,
come appunto la nostra, e ciascuno scrittor greco ne forma de' nuovi a suo
piacere, e in gran numero. Or non è cosa ridicolissima che mentre nessun'altra
nazione stima che la sua lingua sia determinata e prescritta dal suo vocabolario,
non ostante che questo sia molto meglio fatto, molto più esteso (relativamente)
del nostro, e che la lingua loro possa più facilmente o meglio esser compresa
in un vocabolario; noi la cui lingua è impossibile (sopra qualunque altra)
che vi si possa comprendere, che di più, abbiamo un vocabolario inesattissimo
nelle cose stesse che porta, molto più inferiore alla ricchezza della
nostra lingua di quello che le convenga o se le debba perdonare di essere, fatto
sopra un piano sopra cui nessun altro è fatto, cioè sopra il
piano dell'antico, mentre noi siamo moderni, e della pura autorità
quando la lingua è viva; noi dico vogliamo che un vocabolario
così ridondante d'imperfezioni, e poco proprio della lingua nostra (e
d'ogni lingua viva), abbia su di questa una virtù, un'autorità e
un dominio, che i più perfetti vocabolari delle altre nazioni (anche
nazioni unite come la francese e l'inglese) nè si arrogano, nè
sognano, nè pensano che [2400]sia menomamente proprio
dell'essenza loro, nè compatibile colla natura delle lingue vive, e che
nessuno s'immagina mai di riconoscere in essi.
(29. Marzo. Venerdì dell'Addolorata. 1822.)
(Socrate), ; , , , = J. J . J J. X. . .. . J. §. -. Così possiamo discorrere di tutto
il resto.
(16. Aprile, Martedì in Albis, 1822.)
Rinunziare o sbandire una nuova parola o una
sua nuova significazione (per forestiera o barbara ch'ella sia), quando la
nostra lingua non abbia l'equivalente, o non l'abbia così precisa, e
ricevuta in quel proprio e determinato senso; non è altro, e non
può esser meno che rinunziare o sbandire, e trattar da barbara e illecita
una nuova idea, e un nuovo concetto dello spirito umano.
(18. Aprile, Giovedì in Albis, 1822.)
[2401] (Socrate). J J , J Senof. . l.4.
c.1. §.2.
(19. Aprile. Venerdì in Albis, 1822.)
Estaban
persuadidos (los Mexicanos) à que no huvo Dioses de essotra parte del
Cielo (cioè che non ci ebbe altri Dei se non un solo che tra essi non
avea nome, ma s'aveva per superiore a tutti, e se gli attribuiva la creazione
del Cielo e della Terra, e davasegli sede in cielo), hasta que multiplicandose
los hombres, empezaron sus calamidades; considerando los Dioses como unos
genios favorables, que se producian, quando era necessaria su operacion; sin
hacerles dissonancia (à los Mexicanos), que adquiriessen el Sèr
(estos Dioses), y la Divinidad en la miserias de la Naturaleza. Don Antonio de
Solìs, Hist. de la Conquista de Mexico, lib.3. capitulo 17. en Madrid,
año de 1748. p.259. col. 1.
(21. Aprile. 1822.)
Non è da far mai pompa della propria
infelicità. La sola fortuna fa fortuna tra gli uomini, e la sventura non
fu mai fortunata; nè si può far traffico, e ritrarre
utilità dalla miseria, quando ella sia vera. Nessuno fu mai più
stimato o più gradito per esser più infelice degli altri. E
però allo sventurato, volendo esser bene accolto ed accetto, o [2402]farsi
tenere in pregio, non solamente conviene dissimulare le proprie disgrazie, ma
fingersi del numero de' fortunati, pretendere a questo titolo, combatter la
fama o chiunque glie lo neghi, e mettere ogni studio per ingannar gli altri in
questo punto.
(23. Aprile. 1822.). V. p.2415.2485.
Intorno alla gelosia che avevano i romani
della preminenza della loro lingua sulla greca, vedi Dione p.946. nota 86.
(23. Aprile 1822.)
Di quelli che non avendo mani, supplirono
all'ufficio loro coi piedi, v. Dione Cassio l.54. c.9. p.739. e quivi la nota
91.
(25. Aprile. 1822.)
La natura vieta il suicidio. Qual natura?
Questa nostra presente? Noi siamo di tutt'altra natura da quella ch'eravamo. Paragoniamoci
colle nazioni naturali, e vediamo se quegli uomini si possono stimare d'una
stessa razza con noi. Paragoniamoci con noi medesimi fanciulli, e avremo lo
stesso risultato. L'assuefazione è una seconda natura, massime l'assuefazione
così radicata, così lunga, e cominciata in sì tenera
età, com'è quell'assuefazione (composta d'assuefazioni infinite e
diversissime) che ci fa esser tutt'altri che uomini naturali, o conformi alla
prima natura dell'uomo, e alla natura generale degli esseri terrestri. [2403]Basti
dire che volendo con ogni massimo sforzo rimetterci nello stato naturale, non potremmo,
nè quanto al fisico, che non lo sopporterebbe in verun modo, nè
posto che si potesse quanto al fisico ed esternamente, si potrebbe quanto al
morale ed internamente; il che viene ad esser tutt'uno, non potendo noi esser
più partecipi della felicità destinata all'uomo naturalmente,
perchè l'interno nostro, che è la parte principale di noi, non
può tornar qual era, per nessuna cagione o arte. Che ha dunque a fare in
questa quistione del suicidio, e in ogni altra cosa che ci appartenga, la legge
o l'inclinazione di una natura, che non solo non è nostra, ma anche
volendo noi e proccurandolo per ogni verso, non potrebbe più essere? Il
punto dunque sta qual sia l'inclinazione e il desiderio di questa seconda
natura, ch'è veramente nostra e presente. E questa invece d'opporsi al
suicidio, non può far che non lo consigli, e non lo brami intensamente:
perchè anch'ella odia soprattutto l'infelicità, e sente che non
la può fuggire se non colla morte, e non tollera che la tardanza di
questa allunghi i suoi patimenti. [2404]Dunque la vera natura nostra,
che non abbiamo da far niente cogli uomini del tempo di Adamo, permette, anzi richiede
il suicidio. Se la nostra natura, fosse la prima natura umana, non saremmo
infelici, e questo inevitabilmente, e irrimediabilmente; e non desidereremmo,
anzi abborriremmo la morte. (29. Aprile, 1822.). La natura nostra presente
è appresso a poco la ragione. La quale anch'essa odia
l'infelicità. E non v'è ragionamento umano che non persuada il
suicidio, cioè piuttosto di non essere, che di essere infelice. E noi
seguiamo la ragione in tutt'altro, e crederemmo di mancare al dover di uomo
facendo altrimenti.
Alla p.1287. principio. Io son certo che gli
antichi orientali, o i primi inventori dell'alfabeto, non s'immaginarono che i
suoni vocali fossero così pochi, e tanto minori in numero che le
consonanti. Anzi dovettero considerarli come infiniti, vedendo ch'essi
animavano, per così dire, tutta la favella, e discorrevano
incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue per le vene degli
animali. O pure, (e questo credo piuttosto) non li considerarono neppure come
suoni, ma come suono individuo, e questo infinito e indeterminabile e
indivisibile, come appunto immaginarono gli antichi filosofi quello spirito
animator del tutto che totam agitat molem, et toto se corpore miscet. Ed
è verisimile che l'idea di rappresentare i suoni vocali col mezzo de'
punti (alieni affatto, e avventizi alla [2405]scrittura ebraica) non
venisse (così tardi) in mente ai rabbini, se non per la pratica che
aveano contratta delle lingue occidentali, diffuse nell'Asia da gran tempo ec.
oltre che i medesimi ebrei s'erano già sparsi da gran tempo per
l'occidente, o per paesi dove correvano le lingue occidentali. Par che gli
antichi ebrei considerassero le vocali come spiriti, o come inseparabili
dalle consonanti (p.e. a, d ec.) laddove
le consonanti per lo contrario sono inseparabili dalle vocali. Ma la
sottigliezza e la spiritualità, e il continuo uso del suono vocale nella
favella, impedivano loro di considerarlo nelle sue parti, se non come legato
colle consonanti, o colle aspirazioni che rendevano la vocale più aspra,
più notabile, piùcorporea, e quasi la trasmutavano in consonante,
ovvero esse stesse eran come consonanti, legate necessariamente a questo o quel
suono vocale; p.e. l'aspirazione a al solo
suono dell'a, non comportando forse un'altra vocale, quella tal razza di
aspirazione ec.
(29. Aprile. 1822.). V. p.2500.
Essendo vissuto lunghissimo tempo in
città piccola, e fra gente lontanissima da quel che si chiama buon
tuono, e spirito di mondo, quantunque io non abbia più che tanta pratica
della così detta buona società, mi par nondimeno [2406]di
avere in mano bastanti comparazioni per potere affermare che ne' paesi piccoli,
e fra gli uomini e le società di piccolo spirito, si apprende assai
più della natura umana, e sì del carattere generale, sì
de' caratteri accidentali degli uomini, di quello che si possa fare nelle
grandi città, e nella perfetta conversazione. Perchè, oltre che
in queste gli uomini son sempre mascherati, e d'apparenze lontanissime dalla
sostanza, e dai caratteri loro individuali; oltre che sono tanto più
lontani dalla natura, e dal vero carattere generale dell'uomo, e lo sono, non
solo per finzione, ma anche per carattere acquisito; il principale è che
son tutti appresso a poco d'una forma, sì ciascuno di essi, come
ciascuna di tali società rispetto alle altre. Laonde veduto e conosciuto
un uomo solo, si può dir che tutti, poco più poco meno, sieno
veduti e conosciuti. Al contrario di quel che succede nelle città
piccole, e nella piccola società, dove non è individuo, che non
offra qualche nuova scoperta circa le qualità di cui la natura umana
è capace. Maggior varietà si trova fra questi tali uomini che
nelle stesse campagne (o fra' selvaggi, o non inciviliti ec.) [2407]perchè
gli uomini affatto o quasi affatto incolti, sono abbastanza vicini alla natura
(ch'è una qualità e un tipo generale) per rassomigliarsi moltissimo
scambievolmente, mediante la stessa natura. Questi sono simili fra loro, quelli
che sono perfettamente o quasi perfettamente colti, si può dir che sieno
uguali gli uni agli altri, in virtù dell'incivilimento che tende per
essenza ad uniformare. Lo stato di mezzo è il più vario, il
più suscettivo di diverse qualità, e il più conformabile
secondo le circostanze relative e individuali. Queste osservazioni si possono
estendere, e distinguere in diversi modi. P.e. si conosce assai meglio la
natura umana e la sua capacità di forme, esaminando un uomo volgare, che
un dotto, un filosofo, uno esperimentato negli affari, o vissuto nel gran mondo
ec. ec.; assai meglio esaminando il carattere di una società piccola,
che d'una grande; assai meglio esaminando una nazione non perfettamente colta,
che una perfettamente civile (spagnuoli, tedeschi-italiani francesi); assai
meglio esaminando lo spirito di quella tal nazione civile, o delle sue parti,
lontano dalla capitale, o dal centro [2408]della società
nazionale, ch'esaminando la società di essa capitale ec. Così
dico ancora del carattere nazionale, il quale p.e. rispetto ai francesi, si
conoscerà molto meglio esaminando la società della Bretagna, o
della Provenza, che quella di Parigi.
(30. Aprile. 1822.)
Che la lingua greca si conservasse
incorrotta, o quasi incorrotta, tanto più tempo della latina, e anche
dopo scaduta già la latina ch'era venuta in fiore tanto più
tardi, si potrà spiegare anche osservando, che la letteratura (consorte
indivisibile della lingua) sebbene era scaduta appresso i greci, pur aveva
ancor tanto di buono, ed era eziandio capace di tal perfezione, che talvolta
non aveva che invidiare all'antica. Esempio ne può essere la Spedizione
di Alessandro, e l'Indica d'Arriano, opere di stile e di lingua così
purgate, così uguali in ogni parte e continuamente a se stesse, senza
sbalzi, risalti, slanci, voli o cadute di sorte alcuna (che sono le
proprietà dello scriver sofistico e guasto, in qualsivoglia genere,
lingua, e secolo corrotto), di semplicità e naturalezza e
facilità, chiarezza, nettezza ec. così spontanea ed inaffettata,
così ricche, così [2409]proprie, così greche
insomma nella lingua, e nella maniera, e nel gusto, che quantunque Arriano
fosse imitatore, cioè quello stile e quella lingua non fossero cose
naturali in lui ma procacciate collo studio de' Classici (come è
necessario in ogni secolo dove la letteratura non sia primitiva) e
principalmente di Senofonte, non per questo si può dire ch'egli non le
avesse acquistate in modo che paiano e si debbano anzi chiamar sue, nè
se gli può negare un posto se non uguale, certo vicinissimo a quello
degl'imitati da lui. Ora il tempo d'Arriano fu quello d'Adriano e degli
Antonini, nel qual tempo la letteratura latina, con tutto che fosse tanto meno
lontana della greca dal suo secol d'oro, non ha opera nessuna che si possa di
gran lunga paragonare a queste d'Arriano ne' suddetti pregi, come anche in
quelli d'una ordinata e ben architettata narrazione, e altre tali virtù
dello scriver di storie. Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezion della
lingua non si potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle
doti di storico appartenenti [2410]al bello letterario, sebben egli
l'avanza di molto in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel
che mantiene la lingua, è la bella letteratura, non la filosofia
nè le altre scienze, che piuttosto contribuiscono a corromperla, come
fece lo stile di Seneca. E però Plutarco contemporaneo di Tacito, e
com'esso, alquanto più vecchio d'Arriano, non si può recar per
modello nè di lingua nè di stile, essendo però stato forse
più filosofo di tutti i filosofi greci, molti de' quali sono esempi di
perfettissimo scrivere. Ma non erano così sottili come Plutarco, siccome
Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello scrivere, e
quegli perfettissimo.
(1. Maggio 1822.)
Dalla mia teoria del piacere segue che per
essenza naturale e immutabile delle cose, quanto è maggiore e più
viva la forza, il sentimento, e l'azione e attività interna dell'amor
proprio, tanto è necessariamente maggiore l'infelicità del vivente,
o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità.
Ora la forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore quanto
è maggiore la vita, o il [2411]sentimento vitale in ciascun
essere; e specialmente quanto è maggiore la vita interna, ossia
l'attività dell'anima, cioè della sostanza sensitiva, e
concettiva. Giacchè amor proprio e vita son quasi una cosa, non
potendosi nè scompagnare il sentimento dell'esistenza propria
(ch'è ciò che s'intende per vita) dall'amore dell'esistente,
nè questo esser minore di quello, ma l'uno si può sempre
esattamente misurare coll'altro. E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i
sentimenti di chi vive sono compresi o riferiti o prodotti ec. dall'amor
proprio: il quale è il sentimento universale che abbraccia tutta
l'esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve n'ha che sieno veramente
altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o produzioni di questo,
ch'è tutt'uno col sentimento dell'essere, o una parte essenziale del
medesimo.
Dal che segue che l'uomo avendo per la sua
natura ed organizzazione esteriore ed interiore maggior vita, maggior capacità
di più vasta e più numerosa concezione, maggior sentimento
insomma, o maggior sensibilità di tutti gli [2412]altri viventi,
dee necessariamente avere maggiore intensità, attività, ed
estensione o quantità o sentimento d'amor proprio, che non ne ha verun
altro genere di viventi. Quindi l'uomo per essenza propria e inseparabile,
è, e nasce più infelice, o meno capace di felicità che
verun altro genere di viventi, o di esseri.
Questo si deve intendere dell'uomo naturale.
Ma siccome questa capacità ed intensità e forza ed
attività di sentimento della quale egli è naturalmente provveduto
sopra ogni altro animale, rende il suo spirito più conformabile,
più suscettibile di sempre maggior sentimento, più raffinabile,
vale a dire più capace di sempre più vivamente e più
variamente sentire; anzi siccome essa capacità non è altro che
conformabilità, e suscettività di nuovo sentimento, e di nuove
modificazioni dell'animo; così l'uomo, perfezionandosi, come dicono,
cioè crescendo la forza e la varietà e l'intimità del suo
sentimento, e perciò prevalendo in lui sempre più lo spirito,
cioè la parte sensitiva, [2413]al corpo, cioè alla parte
torpida e grave; acquista egli e viene di secolo in secolo necessariamente
accrescendo la forza e il sentimento dell'amor proprio, e quindi di secolo in
secolo divien più, e più inevitabilmente infelice. Dal che segue
che l'uomo, come dicono, perfezionato, è, per essenza umana, e per
ordine generale della natura, più infelice del naturale, e tanto
più quanto è più perfezionato. E così
l'infelicità dell'uomo è sempre in ragion diretta degli
avanzamenti del suo spirito, cioè della civiltà, consistendo essa
negli avanzamenti dello spirito, e non potendo dire alcuno che il corpo
dell'uomo si sia perfezionato mediante di essa. Anzi è manifestamente
scaduto da quel ch'era nell'uomo naturale, in cui la preponderanza del
corpo o della materia tenea più basso, e men vivo il sentimento, e
quindi l'amor proprio e quindi l'infelicità.
In uno stesso secolo, essendo altri
più raffinato, colto ec. di spirito, altri meno, segue [2414]dalle
predette cose che quegli debba necessariamente esser più infelice,
questi meno, in proporzione; e l'ignorante e il rozzo e il villano manco infelice
del dotto, del polito, del cittadino ec.
Indipendentemente dalla coltura, nascendo
gli uomini quali con maggior sensibilità, o vivezza di spirito, o
conformabilità, o sentimento d'uomo (dice il Casa, Galat., cap.26.
princip.), quali con minore, dalle predette cose resta spiegato il
perchè gli uomini quanto più sensibili, tanto più sieno
irreparabilmente infelici, e il perchè la natura dica agli uomini
grandi, Soyez grand et malheureux (D'Alembert). Giacchè questo maggior
sentimento non è altro che maggior vivezza e profondità e senso
ed attività d'amor proprio, o non può star senza queste cose, abbracciando
l'amor proprio ogni possibile sentimento animale, e producendolo, o essendo
sostanzialmente legato con essolui, e in proporzion diretta con esso.
(2. Maggio 1822.). V. p.2488.
[2415]Alla p.2402. Non solo non
bisogna vantarsi delle proprie sciagure, ma guardarsi di confessarle, e
ciò anche a quelli cui sono notissime. Se ne perde, non solo la
protezione, o l'amore efficace, ma eziandio la semplice affezione, e lo so per
propria sperienza.
(5. Maggio. 1822.)
La vita è fatta naturalmente per la
vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta per l'attività, e
per tutto quello che v'ha di più vitale nelle funzioni de' viventi.
(5. Maggio. 1822.)
Una lingua non è bella se non
è ardita, e in ultima analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza
è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec.
del suono delle parole? Quest'è una bellezza affatto esterna, e della
quale poco o nulla si può convenire, essendo diversissime in questo
genere le opinioni e i gusti, secondo le nazioni e i secoli. Per noi è
bruttissimo il suono delle parole orientali, e per gli orientali altrettanto
sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa intendiamo noi
dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che sentimento,
che gusto [2416]ne proviamo noi, se non, per dir poco, incertissimo,
confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia della lingua nostra,
qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed è
sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non
avremmo alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla
tedesca, o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza?
Ricchezza di frasi e di modi non si dà se non in una lingua ardita,
perchè, di forme esatte e matematiche, tutte le lingue ne sono o ne
possono essere egualmente ricche nè più nè meno: e questa
ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima per natura sua:
giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole
puramente, giova alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa
è una qualità quasi estrinseca, e senza quasi accidentale alla
lingua, la quale senza punto punto alterarsi, o scomporsi in niun [2417]modo
può essere ed è, oggi più abbondante di parole, domani
meno, secondo le circostanze nazionali, commerciali, politiche, scientifiche
ec. Infatti la lingua francese è in verità ricchissima di parole,
massime in filosofia, scienze, conversazione, manifatture, e in ogni uso e
materia di società, di commercio ec. ec. e non per questo è
bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La
vera e non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si
può perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una
bellezza intrinseca, e spetta all'indole della lingua; e questa non può
consistere in altro che nell'ardire. Or questo ardire che cos'è,
fuorchè la libertà di non essere esatta e matematica? Giacchè
quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne sono egualmente capaci,
e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero uniformi affatto
nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà se non se
nella natura. Quindi se lingua bella è lingua ardita e libera,
ella è parimente lingua non esatta, e non obbligata [2418]alle
regole dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso. Osservate
tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina, italiana,
spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che ardire, e
questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate anche
gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e paragonateli
con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma ec. chiamata
bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non sia
lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa,
benchè senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non
quanto allo stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche
tutte le prose francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica, [2419]anzi
contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita, riputata bellissima
fra le orientali, è notatamente arditissima e poeticissima.)
Quelli pertanto che essendo gelosissimi
della purità e conservazione della lingua italiana, si scontorcono, come
dice il Bartoli (Torto ec. c.11.), ad ogni maniera di dire che non sia stampata
sulla forma della grammatica universale, non sanno che cosa sia nè la
natura della lingua italiana che presumono di proteggere, nè quella di
tutte le lingue possibili. Ciascuna bellezza, sì di una lingua in genere
(eccetto l'armonia e la ricchezza delle parole, o delle loro inflessioni),
sì di un modo di dire in ispecie, è un dispetto alla grammatica
universale, e una espressa (benchè or più grave or più
leggera) infrazione delle sue leggi.
(5. Maggio. 1822.). V. p.2425.
L'animo forte ed alto resiste anche alla
necessità, ma non resiste al tempo, vero ed unico trionfatore di tutte
le cose terrene. Quel dolore profondissimo e ostinatissimo, che sdegnava e
calpestava la consolazione volgare [2420]della sventura, cioè l'inevitabilità,
e l'irreparabilità della medesima, e il non poterne altro, che rinasceva
ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima, che per lunghissimo spazio,
era sembrato indomabile e inestinguibile, e piuttosto pareva accrescersi di
giorno in giorno che scemarsi; per tutto ciò non può far che
ricusi e non ammetta la consolazione del tempo, e dell'assuefazione che il
tempo insensibilmente e dissimulatissimamente introduce, e che in ultimo, dopo
ostinatissima guerra non si trovi vinto e morto, e che quell'animo feroce non
pieghi il collo, e non s'adatti a strascinare il suo male senza sdegno, e senza
forza di dolersene. E ben può egli avere sdegnato e rifiutato per lungo
tempo anche la consolazione del tempo, ma non perciò l'ha potuta
sfuggire. (5. Maggio. 1822.). Si può ricusare la consolazione della
stessa necessità, ma non quella del tempo.
Il punto d'onore (come dicono gli spagnuoli)
fu conosciuto egualmente dagli antichi e dai moderni, e quasi da tutte le
società, benchè poco o [2421]niente civili, in qualunque
tempo, come anche da' Messicani, anche da' selvaggi. Ed è naturale
all'uomo posto in relazione cogli uomini. Tuttavia in questo punto gli antichi
differiscono dai moderni, e i selvaggi dai civili, infinitamente, e
l'utilità del punto d'onore che fra gli antichi e i selvaggi era somma,
fra i moderni e civili è nulla o quasi nulla, o anche il contrario
dell'utilità. Le ragioni eccole.
Il punto d'onore è una delle tante
illusioni dell'uomo sociale, ed è tutto riposto nell'opinione. Or questa
opinione (giacchè nella sostanza e verità delle cose esso non
è nulla) può esser più o meno utile, ed esser utile o
disutile secondo primieramente in quali cose ella ripone il punto d'onore (e
questo è già chiaro), poi secondo il genere intrinseco di quest'onore
per se, e la sua maggiore o minor grandezza, e la sua diversa qualità, e
il suo peso specifico, indipendentemente dagli oggetti sui quali si esercita, o
da' quali deriva.
Paragoniamo ora gli antichi ai moderni, e in
questo paragone saranno inclusi anche i [2422]selvaggi e i civili,
mettendo quelli per gli antichi, e i civili in luogo de' moderni. Per punto di
onore quei due parenti o amici di Leonida (vedi meglio la storia) alle
Termopile, ricusarono l'ambasciata che questi proponeva loro di fare, e dicendo
ch'erano quivi per combattere, e non per portar lettere, restarono, e morirono
coi loro compagni in difesa della patria, essendo già certi di non
potere scampar la morte, quando fossero rimasti. Per punto d'onore quel giovane
offeso pubblicamente da un altro, lo sforza a combattere colla spada, e mette a
rischio la propria vita, e quella eziandio d'un amico intrinseco e carissimo,
che inavvertentemente, o per un accesso di passione l'abbia ingiuriato.
Qui sono da considerar tre cose. 1. La forza
del punto d'onore, e la necessità ch'egli impone. Questa è uguale
in tutti e due i casi: perchè nell'uno e nell'altro l'infamia (secondo
l'opinione ch'è il solo fondamento del punto d'onore) sarebbe stata la
pena di quei due greci, e di questo giovane, se avessero contravvenuto alle
leggi del punto d'onore. Sicchè questa forza (notate bene) non è
niente scemata da' tempi [2423]antichissimi in qua, se non forse
nell'estensione, cioè in quanto ella opera in minor numero di persone.
Ma in quelli in cui opera ell'è dello stesso valore.
3. La grandezza e la qualità di
quest'onore, ossia la natura di quell'idea che l'uomo se ne forma. Questa si
può vedere considerando che il premio di quei due greci per aver
osservato le leggi del punto d'onore, furono il rispetto e l'invidia portata
dai loro concittadini ai loro parenti; la sepoltura pubblica; gli onori piuttosto
festivi che funebri renduti alla loro memoria; gl'inni e i cantici de' poeti e
dei musici per tutta la Grecia, e quindi per sempre nelle altre nazioni civili;
la ricordanza eterna delle storie patrie e forestiere; l'immortalità in
somma, non solo presso i greci, ma presso tutti gli altri popoli colti, fino a
oggidì. Il premio di quel giovane duellatore è la stima di pochi
giovanastri suoi pari, d'una società di caffè, [2424]o per
dir molto, degli scioperati d'una provincia; e bene spesso la carcere, o
l'esilio volontario, la confisca dei beni ec.
In somma, considerando attentamente, si vede
che l'onore antico, anche in quanto era oggetto del punto d'onore, non si
differenziava dalla gloria, e da una gloria riconosciuta da tutti per tale;
laddove il moderno in molti casi, e presso molta, e (per lo più) la
miglior parte della società, non si differenzia dall'infamia. Questa
è la più notabile ed importante diversità che passa fra
l'onore antico e il moderno; che quello era gloria, e questo, per dir poco,
è nulla.
La qual differenza si può vedere
anche nelle cose, dove il punto d'onore moderno sarebbe utile, non altrimenti
che l'antico. Che gloria, che immortalità si guadagna, che entusiasmo
commove un uffiziale che per punto d'onore, tien fermo in un posto
pericolosissimo, o vi resta morto? Si può veramente dire che l'onor moderno
è tutto opinione, e più opinione di quel che lo fosse l'antico.
Giacchè l'onor moderno sebbene riconosciuto da molti, sta tutto
nell'opinione [2425]individuale di ciascuno per se, e dopo ch'egli n'ha
osservato le leggi, anche con suo sommo sacrificio, nessuno onore gliene viene,
neanche dall'opinione degli altri, che lo dispensa. Come quegli atti secreti di
virtù, quelle buone opere di pensiero, che in questo mondo non son premiate
se non dalla propria coscienza. Tutto l'opposto succedea fra gli antichi.
Era punto d'onore nelle truppe spartane il
ritornare ciascuno col proprio scudo. Circostanza materiale, ma utilissima e
moralissima nell'applicazione, non potendosi conservare il loro scudo
amplissimo (tanto che vi capiva la persona distesa), senza il coraggio di far
testa, e di non darsi mai alla fuga, che un tale scudo avrebbe impedita.
(6. Maggio 1822.)
Alla p.2419. Come può esser bella una
lingua che non ha proprietà? Non ha proprietà quella
lingua che nelle sue forme, ne' suoi modi, nelle sue facoltà non si
distingue dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale, e del
discorso umano regolato dalla dialettica. Una lingua regolata da questa sola [2426]non
ha niente di proprio; tutto il suo è comune a tutte le nazioni parlanti,
e a tutte le altre lingue; il suo spirito, la sua indole, il suo genio non
è suo, ma universale; vale a dire ch'ella non ha veruna
originalità, e quindi non può esser bella, cioè non
può esser nè forte, nè distintamente nobile, nè
espressiva, nè varia (quanto alle forme), nè adattata
all'immaginazione, perchè questa è diversissima e moltiplice, e
nel tempo stesso ella è la sola facoltà umana capace del bello, e
produttrice del bello. Ora che cosa vuol dire una lingua che abbia
proprietà? Non altro, se non una lingua ardita, cioè capace di
scostarsi nelle forme, nei modi ec. dall'ordine e dalla ragion dialettica del
discorso, giacchè dentro i limiti di quest'ordine e di questa ragione,
nulla è proprio di nessuna lingua in particolare, ma tutto è
comune di tutte. (Parlo in quanto alle forme, facoltà ec. e non in
quanto alle nude parole, o alle inflessioni delle medesime, isolatamente
considerate.) Dunque se non è, nè può esser bella la forma
di una lingua che non ha proprietà, non è nè può
esser [2427]bella una lingua che nella forma sia tutta o quasi tutta matematica,
e conforme alla grammatica universale. E così di nuovo si viene a
concludere che la bellezza delle forme di una lingua (tanto delle forme in genere,
quanto di ciascuna in particolare) non può non trovarsi in opposizione
colla grammatica generale, nè esser altro che una maggiore o minor
violazione delle sue leggi.
La lingua francese si trova nel caso detto
di sopra: poich'ella in quanto alla forma, esattamente parlando, non ha proprietà,
vale a dir che non ha qualità sua propria, ma tutte le ha comuni con
tutte le lingue, e colla ragione universale della favella. Il che quanto noccia
alla originalità, anzi l'escluda, e quanto per conseguenza favorisca la
mediocrità, anzi la richieda e la sforzi, resta chiaro per se stesso.
(Bossuet, scrittore non mediocre, ebbe bisogno di domare, come gli stessi
francesi dicono, la sua lingua; e come dico io, fu domato e forzato alla
mediocrità dello stile, dalla sua lingua. E così lo sono tutti
quegli scrittori francesi [2428]che hanno sortito un ingegno
naturalmente superiore al mediocre. Nè più nè meno di
quello che la società, e lo spirito della nazion francese, sforzi alla
mediocrità in ogni genere di cose gli uomini i più elevati della
nazione, e gli spiriti più superiori all'ordinario. Essendo la
mediocrità non solo un pregio, ma una legge in quella nazione, dove il
supremo dovere dell'uomo civile, è quello d'esser come gli altri).
Dalle dette considerazioni segue che la
lingua francese, non avendo nessuna o quasi nessuna proprietà, e quindi
ripugnando alla vera e decisa originalità dello stile (ben diversa da
quelle minime differenze dell'ordinario, che i francesi esaltano come somme
originalità), non può aver lingua poetica; e così è
nel fatto.
Segue ancora, che, non avendo niente di
proprio, ma tutto comune a tutte le lingue, e tutto proprio del discorso umano
in quanto discorso umano, dev'essere accomodata sopra tutte alla
universalità: e così è realmente.
(7. Maggio 1822.)
[2429]A voler esser lodato o
stimato dagli altri, bisogna per necessità intuonar sempre altamente e
precisamente alle orecchie loro: io vaglio assai più di voi:
acciocchè gli altri dicano: colui vale alquanto più di noi, o
quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia genere, o propriamente o
almeno metaforicamente parlando, è sempre incominciata dalla bocca
propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu vuoi, un'azione o una
produzione ec. la più degna e la più lodevole che si possa immaginare;
t'inganni a partito se credi che quell'azione ec. essendo manifestissima, e
manifestissimamente lodevolissima, gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente,
e cominciare essi a dir bene di te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non
rompi il silenzio, e se non hai l'arte o il coraggio d'essere il primo a far
questo. Ciò massimamente in questi tempi di perfezionato e purificato
egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della modestia.
(7. Maggio. 1822.)
Che società, che amicizia, che
commercio potresti tu avere con un cieco e sordo, o egli con te? [2430]Al
quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno
de' tuoi sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione
di spirito, cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual
sentimento di te penseresti d'aver destato, o di poter mai destare nell'animo
suo? E nondimeno tu sai pur ch'egli vive, ed oltracciò di vita umana e
d'un genere medesimo colla tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad
intendere i suoi bisogni, e beneficato esteriormente da te, o in altro modo
influito, potrebbe aver qualche senso della tua esistenza, e formarsi di te
qualche idea; anzi è certo che ti considererebbe come suo simile, non
ch'egli n'avesse alcuna prova certa, ma appunto per la scarsezza delle sue
idee; come fanno i fanciulli, che sempre inclinano a creder tutto animato, e
simile in qualche modo a loro, non conoscendo, nè sapendo neppure
insufficientemente concepire altra forma d'esistenza che la propria, nonostante
ch'essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità
esteriori.
[2431]Or se contuttociò, tu
non crederesti di poter aver con costui nessuna o quasi nessuna società,
e non ti soddisfaresti nè ti compiaceresti in alcun modo del suo commercio,
che dovremo dire di quella società che i filosofi tedeschi e romantici,
vogliono che il poeta supponga, anzi ponga e crei fra l'uomo e il resto della
natura? La qual società vogliono che sia tale che tutto per
immaginazione si supponga vivo bensì, ma non di vita umana, anzi
diversissima secondo ciascun genere di esseri? Non è questa una
società peggiore e più nulla di quella col cieco e sordo? Il
quale finalmente è uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente
t'immagini che le cose vivano, non supponendo che questa vita abbia nulla di
comune colla tua, che sentimento di te puoi presumere di destare in loro, o
qual sentimento della vita loro puoi presumere di ricever da essi, non potendo
neppur concepire altra forma di vita se non la propria? Che giova alla
tua immaginazione e alla tua sensibilità il figurarti che la natura
viva? Che relazione può la tua fantasia fabbricarsi [2432]colla
natura per questo? Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei. Non
basta al sentimento e al desiderio innato di quasi tutti i viventi che li porta
verso il loro simile, il figurarsi che le cose vivano, ma solamente che
vivano di vita simile per natura alla propria. Tolta questa non
v'è società fra viventi, come non vi può esser
società fra cose dissimili, e molto meno fra cose che in nessun modo si
possono intendere l'une coll'altre, nè comunicarsi alcun sentimento,
nè farsi scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o
formarsi nessuna idea del genere di vita l'una dell'altra. Fra le bestie e
l'uomo non è di gran lunga così, e perciò qualche
società può passare e passa fra questo e quelle, e maggiore,
quanto più la loro vita, e il loro spirito è simile al nostro, e
quanto più esse mostrano di concepire le cose nostre, e noi le loro; e
maggiore eziandio generalmente perchè l'immaginazione nostra (e
probabilmente anche la loro) entra in questo commercio altresì, e ce le
dipinge molto più simili a noi che forse non sono, e noi a loro
parimente. [2433]Certo è poi che grandissima affinità e
somiglianza passa tra la vita degli animali e la nostra, tra le loro passioni
(radicalmente parlando) e fra le nostre ec. Affinità e somiglianza che
non si trova o non apparisce fra l'esistenza delle cose inanimate e la nostra;
che l'immaginazione antica, e fanciullesca, e, più o meno, quella di
tutti i tempi, non vedendola, la suppone e la crea; che i bravi tedeschi non
vogliono che si supponga, e che non per tanto s'immagini e si conservi un
commercio scambievole fra le cose inanimate e l'uomo.
(8. Maggio. 1822.)
Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la
vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale
è il contrario della vita vitale (come dice Cicerone in Lael.).
Ed in tanto non l'odia sempre sopra ogni cosa, in quanto non ama neppur sempre
la vita sopra ogni cosa; p.e. quando un eccesso di dolor fisico gli fa
desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel dolore. Vale a [2434]dire
quando l'amor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla
morte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè
perchè gli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di
liberarsi dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto
puramente dalla speranza.
Del resto l'odio della noia, è uno di
quei tanti effetti dell'amor della vita (passione elementare ed essenziale nel
vivente) che ho specificati in parecchi di questi pensieri. E l'uomo odia la
noia per la stessa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza.
E quest'odio medesimo della noia è padre d'altri moltissimi e diversissimi
effetti, e sorgente d'altre molte e varie passioni o modificazioni delle medesime,
tutte essenzialmente derivanti da esso odio, delle quali ho pur detto in
più luoghi.
(8. Maggio 1822.)
Che le passioni antiche fossero senza
comparazione più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più
strepitosi, più risaltati, più materiali, [2435]più
furiosi, e che però nell'espression loro convenga impiegare colori e
tratti molto più risentiti che in quella delle passioni moderne,
è cosa già nota e ripetuta. Ma io credo che una differenza
notabile bisogni fare tra le varie passioni, appunto in riguardo alla maggiore
o minor veemenza loro fra gli antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle
tutte sotto due capi generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il
dolore antico fosse di gran lunga più veemente, più attivo,
più versato al di fuori, più smanioso e terribile (quantunque
forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in quanto alla
gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi, ella potesse
esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli antichi, e
ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto
più rara e breve che fosse mai, come lo era nè più
nè meno il dolore anticamente. Questa osservazione potrebbe forse
servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori delle passioni. Vero
è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari [2436]più
violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che
nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de' moderni li
porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o
quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più
gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione
possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non
interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e
nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e
dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono stati
bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col generale, nè accostumati a
quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il resto, che caratterizza il
nostro secolo.
(9. Maggio. 1822.)
Il mondo, o la società umana nello
stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell'amor proprio
così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare
al sistema [2437]dell'aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici)
si premono l'une l'altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma
essendo le forze uguali, e uguale l'uso delle medesime in ciascuna colonna, ne
risulta l'equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par
distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente
esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna.
Nè più nè meno accade
nel sistema della società presente, dove non ciascuna società o
corpo o nazione (come presso gli antichi), ma ciascun uomo individuo continuamente
preme a più potere i suoi vicini, e per mezzo di esso i lontani da tutti
i lati, e n'è ripremuto da' vicini e da' lontani a poter loro nella
stessa forma.
Dal che risulta un equilibrio prodotto da
una qualità distruttiva, cioè dall'odio e invidia e nemicizia
scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno, e dal perenne
esercizio di queste passioni (cioè [2438]in somma dell'amor
proprio puro) in danno degli altri.
Con ciò resta spiegata una specie di
fenomeno. Lo stato d'egoismo puro, e quindi di puro odio verso altrui (che ne
segue essenzialmente) è lo stato naturale dell'uomo. Ma ciò non
è maraviglia, spiegandosi esso, e dovendosi necessariamente spiegare,
col negar la pretesa destinazione naturale dell'uomo allo stato sociale stretto
(cioè diverso da quello ch'hanno fra loro quasi tutte le bestie, massime
le più svegliate); al quale stato ripugnano per natura loro le dette
qualità naturalissime e assolutamente proprie dell'uomo (come si
può vedere anche nel fanciullo ec.). La maraviglia è ch'essendo
tornato l'uomo allo stato naturale per questa parte (mediante l'annichilamento
delle antiche opinioni e illusioni, frutto delle prime società e
relazioni contratte scambievolmente dagli uomini), la società non venga
a distruggersi assolutamente, e possa durare con questi principii distruttivi [2439]per
natura loro. Il qual fenomeno resta spiegato colla sopraddetta comparazione. E
questo equilibrio (certo non naturale, ma artifiziale), cioè questa parità
e questa universalità d'attacco e di resistenza, mantiene la
società umana, quasi a dispetto di se medesima, e contro l'intenzione e
l'azione di ciascuno degl'individui che la compongono, i quali tutti o
esplicitamente o implicitamente mirano sempre a distruggerla.
Dalla detta comparazione caveremo
altresì un corollario morale. Se qualche colonna d'aria viene a
rarefarsi, o a premer meno dell'altre, e far meno resistenza per qualunque
accidente, ciascuna delle colonne vicine, e ciascuna delle lontane addossandosi
alle vicine, senza un istante d'intervallo, corrono ad occupare il luogo suo, e
non appena ella ha lasciato di resistere sufficientemente, che il suo luogo
è conquistato. Così la campana pneumatica anderebbe in
minutissimi pezzi, mancando la sufficiente resistenza dell'aria quivi
rinchiusa, se non si provvedesse a questo colla configurazione [2440]della
campana. Lo stessissimo accade fra gli uomini, ogni volta che la resistenza e
reazione di qualcuno manca o scema, sia per impotenza, sia per inavvertenza,
sia per volontà o inesperienza. E però son da ammonire i
principianti della vita, che se intendono di vivere, e di non vedersi preso il
luogo immediatamente, e non esser messi a brani o schiacciati, s'armino di
tanta dose d'egoismo quanta possano maggiore, acciocchè la reazion loro
sia, per quanto essi potranno, o maggiore o per lo meno uguale all'azione degli
altri contro di loro. La quale, vogliano o non vogliano, credano o non credano,
avranno infallibilmente a sostenere, e da tutti, amici o nemici che sieno di
nome, e tanta quanta maggiore sarà in poter di ciascuno. Chè se
il cedere per forza, cioè per causa della propria impotenza (in qual
genere ch'ella si sia), è miserabile; il cedere volontariamente,
cioè per mancanza di sufficiente egoismo in questo sistema di pressione
generale, è ridicolo e da sciocco, e da inesperto o irriflessivo. E [2441]si
può dire con verità che il sacrifizio di se stesso (in qual si
voglia genere o parte) il quale in tutti gli altri tempi fu magnanimità,
anzi la somma opera della magnanimità, in questi è viltà,
e mancanza di coraggio o d'attività, cioè pigrizia, e dappocaggine;
ovvero imbecillità di mente; non solamente secondo l'opinione degli
uomini, ma realmente e secondo il retto giudizio, stante l'ordine e la natura
effettiva e propria della società presente.
(10. Maggio 1822.). V. p.2653.
Non si nomina mai più volentieri,
nè più volentieri si sente nominare in altro modo chiunque ha
qualche riconosciuto difetto o corporale o morale, che pel nome dello stesso
difetto. Il sordo, il zoppo, il gobbo, il matto tale. Anzi queste persone non
sono ordinariamente chiamate se non con questi nomi, o chiamandole pel nome
loro fuor della loro presenza, è ben raro che non vi si ponga quel tale
aggiunto. Chiamandole o udendole chiamar così, pare agli uomini d'esser
superiori a questi tali, godono dell'immagine del loro difetto, sentono e si
ammoniscono in certo modo della propria superiorità, l'amor proprio
n'è lusingato e se ne compiace. Aggiungete l'odio eterno e naturale
dell'uomo verso l'uomo che si pasce [2442]e si diletta di questi titoli
ignominiosi, anche verso gli amici o gl'indifferenti. E da queste ragioni
naturali nasce che l'uomo difettoso com'è detto di sopra, muta quasi il
suo nome in quello del suo difetto, e gli altri che così lo chiamano
intendono e mirano indistintamente nel fondo del cuor loro a levarlo dal numero
de' loro simili, o a metterlo al di sotto della loro specie: tendenza propria
(e quanto alla società, prima e somma) d'ogn'individuo sociale. Io mi
sono trovato a vedere uno di persona difettosa, uomo del volgo, trattenersi e
giocare con gente della sua condizione, e questa non chiamarlo mai con altro
nome che del suo difetto, tanto che il suo proprio nome non l'ho mai potuto
sentire. E s'io ho veruna cognizione del cuore umano, mi si dee credere com'io
comprendeva chiaramente che ciascuno di loro, ogni volta che chiamava
quell'uomo disprezzatamente con quel nome, provava una gioia interna, e una
compiacenza maligna della propria superiorità sopra quella creatura sua
simile, e non tanto dell'esser libero da quel difetto, quanto del vederlo e
poterlo deridere e rimproverare in quella creatura, essendone libero esso. E
per quanto frequente fosse nelle loro bocche quell'appellazione, io sentiva e
conosceva ch'ella non usciva mai dalle loro labbra senza un tuono esterno e un
senso e giudizio interno di trionfo e di gusto.
(13. Maggio 1822.)
Juvare col dativo, caso comune al
nostro giovare, è rarissimo negli scrittori latini, vedilo
appresso Plauto, nel Forcellini.
(21 Maggio 1822.)
Ho detto altrove d'una grande incertezza e
di molti scambi che si trovano nell'uso latino circa i tempi dell'ottativo o soggiuntivo,
ora scambiati fra se, ora sostituiti a quelli dell'indicativo: ed ho mostrato
come questi usi che si tengono per pure eleganze degli scrittori latini, fossero
comuni anche al volgare, e si conservino nelle lingue derivate, non certo dal
latino elegante, ma da esso volgare. A questo proposito si può notare il
presente ottativo latino, usato spessissimo ed elegantemente in vece dell'imperfetto
ottativo, e in certo modo anche del futuro indicativo, come in Orazio Sat. 1.
v.19. l.1 nolint per nollent, o nolent; [2443]od.
3. v.66. e
(24. Maggio 1822.)
Di ciò che ho notato altrove che
l'uso di fabbricar nuovi composti, e di supplir così al bisogno di
esprimer nuove idee, o nuove parti d'idee (ch'è tutt'uno, secondo
le osservazioni della moderna ideologia), essendo stato così comune alle
lingue antiche, e alle stesse moderne ne' loro principii, s'è poi quasi
dimenticato, per utilissimo che sia; se ne possono dar, fra l'altre, le
seguenti ragioni.
1. Che tutte le lingue ne' loro principii
sono per necessità più ardite che nel progresso, e le lingue
antiche rispettivamente più ardite delle moderne. Or queste composizioni
richiedono un certo ardire, massime trattandosi di farne un grand'uso, e
d'applicar questa facoltà a quasi tutti i nuovi bisogni della lingua.
2. Che nelle lingue antiche la
necessità di far grand'uso de' composti, era molto ma molto [2444]maggiore
che nelle moderne, a causa del tanto minor numero ch'esse avevano di parole
originarie. Le radici, come ho detto altrove, e assegnatene le ragioni, son
sempre scarsissime in una lingua nascente. Quindi l'assoluto bisogno della
composizione, crescendo il numero delle cose da esprimersi, e volendosi
perfezionar l'espressione delle cose, e distinguerla meglio; e arrivando gli
uomini appoco appoco a staccare un'idea dall'altra, e a suddividerle
(ch'è tutto il progresso dello spirito umano), e però avendo
mestieri di nuove parole. E infatti si vede che l'incremento e il
perfezionamento di qualunque lingua antica è stata ridotta a una certa
perfezione, fu sempre compagno, o anch'effetto dell'uso di comporre più
parole in una, arricchendo così la lingua: nel qual uso, e in quello dei
derivativi (de' quali parimente intendo qui di ragionare) i greci e latini
furono singolari maestri.
Ma derivando le lingue moderne da lingue
già perfezionate e letterate, la scarsezza delle radici non vi si
osserva più, essendo divenute radicali, o in qualunque modo semplici e
indipendenti per noi, quelle infinite parole [2445]che, p.e. in latino,
sono evidentemente composte o derivate da altre, e che son rimaste in uso p.e.
nell'italiano. Dove, quantunque la provenienza e dipendenza loro ci sia
così manifesta e vicina, pur fanno offizio, ed hanno, relativamente alla
lingua nostra, la vera natura di radicali 1. o perchè gli elementi di
cui si compongono, separati che sieno, non significano niente in italiano, come
significavano in latino, o quando anche l'un d'essi abbia qualche significato
da se, l'altro, o gli altri, non l'hanno; 2. o perchè corrotte e
travisate in modo che la forma de' loro elementi è perduta affatto,
quando anche essi elementi sussistano ancora per se stessi nell'italiano; 3. o
perchè, essendo esse derivative in latino, non sussistono nell'italiano
quelle voci latine da cui esse derivano; 4. o perchè, sussistendo anche
queste voci, non sussiste più il costume di derivarne le altre parole in
quei tali modi latini; e così le originarie e le derivate, quanto al
latino, nella lingua nostra sono indipendenti l'une dall'altre, e rispetto alla
nostra lingua, non hanno fra loro alcun'affinità (forse neanche di
significato, per le solite alterazioni), [2446]ma l'une e l'altre quanto
all'italiano, si debbono egualmente riconoscere per radicali.
Da tutte le quali cose è seguito che
abbondando noi sommamente di radicali, abbiamo intermesso, e poi lasciato, e finalmente
quasi dimenticato l'uso delle derivazioni, e principalmente delle composizioni
di nuove parole; e con ciò resolo assai difficile a chi voglia
richiamarlo. Il qual uso, sebbene non tanto quanto in greco e in latino, pur fu
comune ai primi scrittori italiani, perciocchè la lingua era ancor
povera di radici, come accade a tutte le lingue ne' loro principii, e quindi si
ricorse necessariamente a questo mezzo, a cui tutte le lingue ricorrono col
perfezionarsi. Ma impinguata poi la lingua sì con questo mezzo,
sì coll'arricchirla d'infinite parole latine, che per noi, come ho
detto, vengono ad esser tante radici, si dimenticò l'uso della
derivazione e composizione, come suol pure accadere alle altre lingue per
cagioni simili; p.e. alla lingua latina accadde quando ella s'impinguò
strabocchevolmente di parole greche, le quali per lei divenivan tante radicali,
e così cresciuto di moltissimo il numero delle sue radici,
dimenticò o scemò l'uso di comporre o derivare nuove parole dalle
già esistenti, per li nuovi bisogni, come [2447]ho significato di
proposito altrove.
Nè perciò la lingua latina ne
divenne più potente che fosse prima: nè la lingua italiana
similmente. Le radici, per quante vogliano essere, son sempre poche al bisogno,
essendo infinite le idee, e la memoria e le facoltà degli uomini essendo
limitatissime, e però incapaci di ritener precisamente tante parole
quante sono le idee, e le parti e diversità loro; se queste parole sono
affatto diverse e dissimili e indipendenti l'una dall'altra, come avverrebbe se
tutte fossero radicali. E quindi l'uomo è incapace di possedere e di
usare una lingua che abbia nel tempo stesso tante parole quante mai sono le
cose da esprimersi, e che sia tutta composta di radici sole. La composizione e
derivazione sono il mezzo più semplice e vero, riducendo infinite parole
sotto pochi elementi, come ho spiegato altrove paragonando questo mezzo alla
scrittura nostra, e una lingua tutta composta di radici alla scrittura Cinese.
Quindi non potendo mai bastar le radici, e
avendo noi lasciato l'uso della derivazione e composizione di nuove parole
dalle già esistenti, vediamo infatti che con tanto maggior numero di [2448]radici,
la lingua nostra è infinitamente meno ricca e potente, e meno esatta e
propria nell'espressione delle minime diversità delle idee, di quel che
fossero la latina e la greca con tanto meno radici.
La conclusione è che bisogna a tutti
i patti, e malgrado qualunque difficoltà, riassumer l'uso di spiegar le
nuove idee col comporre, derivare, e formare nuove parole dalle radici della
propria lingua; essendo questo, per natura delle cose (che tutto opera per
modificazione degli elementi, e non per aggiunzione di sempre nuovi elementi,
per modificazione o composizione e non per moltiplicazione), l'unico, proprio,
ed assoluto mezzo di rendere una lingua sufficiente ed uguale a qualunque numero
d'idee, ed a qualunque novità d'idee; e renderla tale non accidentalmente
ma per propria essenza, e non per alcuni momenti, come può essere adesso
p.e. la francese, ma per sempre finch'ella conserva il suo carattere: come
s'è veduto manifestamente nella lingua greca che da' tempi antichissimi
fino a oggidì, è stata ed è eternamente capace di
qualunque novità d'idee, [2449]antiche o moderne che sieno, e per
diversissime che vogliano essere da quelle che correvano quando la lingua greca
era in fiore. E simile in ciò credo che le sia la tedesca. Abbia cura di
conservarsi tale.
Perocchè tali son tutte ne' loro
principii. Ma perfezionandosi, e però civilizzandosi, e pigliando
commercio con lingue e letterature e nazioni straniere, e così impinguandosi
di parole forestiere che per lei divengono radicali, dismette l'uso della
composizione ec.: e per pochi momenti supplisce bene a' suoi bisogni colle
radici pigliate in prestito, ma di lì a poco, o diviene una stalla
d'Augia a forza di stranierismi moltiplicati in infinito, o volendosi conservar
pura, non può più parlare, perchè s'è lasciato
cadere il solo istrumento che avesse per supplire alla novità delle idee
conservandosi pura, cioè il coltivare e far fruttare le sue proprie
radici. E forse perciò conservarono sempre i greci questa
facoltà, perchè poco pigliarono da' forestieri, o non volendo
prenderne per la nota loro superbia nazionale, o perchè realmente non si
trovavano intorno altra nazione letterata e [2450]civile, dalla quale
potessero prendere, sebbene con molte commerciarono, ma la letteratura le
scienze e la civiltà de' greci, da' tempi noti in poi, furono sempre puramente
greche.
E così accadde cosa osservabilissima:
cioè che la lingua greca per essersi conservata pura, divenne e si
mantenne (ed ancora si mantiene) la più potente e ricca e capace di
tutte le lingue occidentali. Non per altro se non perch'ella restringendosi in
se sola, non lasciò mai di porre a frutto e a moltiplico il proprio
capitale. E viceversa per esser divenuta così potente, si mantenne pura
più lungo tempo di qualunqu'altra (ancor dopo ch'ebbe a fare con una
nazione civile e signora sua, come la latina). Giacchè non ebbe alcun
bisogno nè di parole nè di modi stranieri per esprimere qualunque
cosa occorresse: e i greci avendo alle mani facile e pronto e spendibile il
capitale proprio, non si curarono dell'altrui, il quale sarebbe stato loro
più difficile a usare, e manco manuale del proprio. L'opposto di quello
che avviene a noi per aver trasandato di porre a frutto il nostro bellissimo e
vastissimo capitale, che benchè sia tale (oltre che la maggior parte ce
n'è ignota), non basta [2451]nè potrà mai bastare
al continuo e sempre nuovo bisogno della società favellante, se non lo faremo
fruttare, come non solo concede amplissimamente, ma porta e vuole l'indole e la
natura sua.
(30. Maggio 1822.). V. p.2455.
Beato colui che pone i suoi desiderii, e si
pasce e si contenta de' piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai
far conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale,
nè quanto ai particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o
distratti, e poco esercitati a riflettere.
(30. Maggio 1822.)
Alla p.2252. L'idea dell'eternità
entra in quella di ultimo, finito, passato, morte, non meno che in quella
d'infinito, interminabile, immortale. E vedi altro mio pensiero già
scritto in questo proposito, (30. Maggio 1822.) cioè p.2242. 2251.
Quanto sia più naturale e semplice
l'andamento della lingua greca (tuttochè poeticissima), che non è
quello della latina; e quindi quanto men proprio suo, e quanto la lingua
greca dovesse esser meglio disposta all'universalità che non era la
lingua latina, si può vedere anche da questo.
[2452]Sebben l'italiana e la
spagnuola son figlie vere e immediate della latina, pure è molto ma
molto più facile di tradurre naturalmente e spontaneamente in italiano o
in ispagnuolo gli ottimi autori greci, che gli ottimi latini. E tanto è
più facile quanto i detti autori greci son più buoni, cioè
più veramente e puramente greci. Siccome per lo contrario, quanto ai
latini, è tanto meno difficile, quanto meno son buoni, cioè meno
latini, come p.e. Boezio tradotto con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite
de' SS. Padri (che non hanno quasi più nulla del latino) tradotte
egregiamente dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi da F. Bartolomeo da
S. Concordio ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito Livio, difficilissimamente
pigliano un sapore italiano, se non lasciano affatto l'indole e l'andamento proprio.
Al contrario di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora essendo l'andamento
delle lingue moderne generalmente assai più piano e meno figurato ec.
delle antiche, questo è un segno che la lingua greca, adattandosi alle
moderne molto più della latina, doveva esser molto più semplice e
naturale nella sua costruzione e forma.
(30. Maggio 1822.)
[2453]Se l'uomo sia nato per
pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono
alcuni, sia l'attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste
potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana, e il
regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine),[16]
osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande
nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare
più, e più gran cose degli altri; non avesse in se maggior vita e
maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii; e per natura ed
inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto all'azione e
all'energia dell'esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice
dell'Alfieri (Corinne, t.1. liv. dern.), anzi dice ch'egli non era nato per
iscrivere, ma per fare, se la natura de' tempi suoi (e nostri) glielo avesse
permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi
tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. Fra' quali
siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare (altro che fagiolate),
perciò nessuno o quasi nessuno è [2454]vero filosofo,
nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, massime
degl'inglesi e francesi, i quali (per la natura de' loro governi e condizioni
nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto
più fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e
più altamente e straordinariamente pensano e scrivono.
(30. Maggio 1822.)
Grazia dallo straordinario. I nei che altro
sono se non difetti, e false produzioni della cute? E non sono stati
considerati lungo tempo come bellezze? (Anzi così anche oggi volgarmente
si sogliono chiamare). E le donne col porsegli dintorno non facevano insomma
altro che fingersi dei difetti, e fabbricarseli appostatamente, per proccurarsi
grazia e bellezza.
(1. Giugno 1822.)
Qual fosse l'opinione di Socrate, o di
Senofonte, e anche degli altri antichi, circa quelle arti e mestieri che da
gran tempo si stimano e sono veramente necessarii all'uso del viver civile,
anzi parte, alimento ec. della civilizzazione, e che intanto nocciono alla
salute e al viver fisico, e in oltre all'animo, di chi gli esercita, v. l'Econom.
di Senofonte cap.4. § .2.3. e cap.6. §.5.6.7.
(3. Giugno 1822.)
[2455] J (si
corpora effeminentur), = . Socrate
ap. Senofon. Econom. c.4. §.2.
(3. Giugno. 1822.)
Alla p.2451. L'Alfieri fu arditissimo e
frequentissimo formatore di parole derivate o composte nuovamente dalle nostrali,
e sebbene io non credo ch'egli, facendo questo avesse l'occhio alla lingua
greca, nondimeno questo suo costume dava alla lingua italiana una
facoltà e una forma similissima (materialmente) all'una delle principalissime
e più utili facoltà e potenze della lingua greca. Io non
cercherò s'egli si servisse di questo mezzo d'espressione colla misura e
moderatezza e discrezione che si richiede, nè se guardasse sempre alla
necessità o alla molta utilità, nè anche se tutti i suoi
derivati e composti, o se la maggior parte di loro sieno ben fatti. Ma li porto
per esempio acciocchè, considerandoli, si veda più distintamente
e per prova, quante idee sottili o rare o non mai ancora precisamente significate,
quante cose difficilissime e quasi impossibili ad esprimersi in altro modo
(anche con voci forestiere), si esprimano chiarissimamente e precisamente e facilmente
con questo mezzo, senza punto uscire della lingua nostra, e senza quindi
nuocere alla purità. Certo [2456]è che quando l'Alfieri
chiama il Voltaire Disinventore od inventor del nulla, (vere principali
e proprie qualità ed attributi della sapienza moderna) quel disinventore
dice tanto e tal cosa, quanto e quale appena si potrebbe dire per via d'una
lunga circollocuzione, o spiegare e sminuzzare pazientemente, stemperatamente e
languidamente in un periodo.
(3. Giugno. 1822.)
La religion Cristiana fra tutte le antiche e
le moderne è la sola che o implicitamente o esplicitamente, ma certo per
essenza, istituto, carattere e spirito suo, faccia considerare e consideri come
male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre bene (anche negli
animali), e sempre male il suo contrario; come la bellezza, la giovanezza, la
ricchezza ec. e fino la stessa felicità e prosperità a cui
sospirano e sospireranno eternamente e necessariamente tutti gli esseri
viventi. E li considera come male effettivamente, perciocchè non si
può negare che queste tali cose non sieno molto pericolose all'anima, e
che le loro contrarie (come la bruttezza ec.) non liberino da infinite
occasioni di peccare. E perciò quelli che fanno professione di devoti
chiamano fortunati i brutti ec. e considerano la bruttezza ec. come un bene
dell'uomo, una fortuna della società, e come una condizione, una
qualità, una [2457]sorte desiderabilissima in questa vita.
Similmente dico della prosperità, la quale rende naturalmente superbi,
confidenti in se stessi e nelle cose, e quindi distratti e poco adattati
all'abito di riflettere (ch'è necessarissimo alla cura della salute
eterna), e dà molto attaccamento alle cose di questa terra. E quindi
l'opinione che le disgrazie (o come le chiamano, le croci), sieno favori di
Dio, e segni della benevolenza divina: opinione stranissima e affatto nuova;
inaudita in tutta l'antichità e presso tutte le altre religioni moderne
(tutte le quali consideravano anzi il fortunato solo, come favorito di Dio,
onde fra gli antichi beato, ec. era
un titolo di rispetto e di lode, e tanto a dire come sanctus, o come vir
iustus etc. L'etimologia di è favorito
dagli Dei, o che ha buon Dio cioè favorevole. Al
contrario , infelice,
che ha mali Dei. V. p.2463. V. i Lessici: e nella stessa religion
cristiana da principio si chiamavano beati, anche vivendo, gli uomini
più distinti o per virtù o per dignità, come oggi si
chiama Beatitudine il Papa); inaudita presso qualunque popolo non
civile; e finalmente tale ch'io non so se verun'altra opinione possa esser
più dirittamente contraria alla natura universale delle cose, e a tutto
l'ordine dell'esistenza [2458]sensibile.
(4. Giugno. 1822.)
Alla p.1660. mezzo. Non so bene se il
Salviati o il Salvini sia quel che dice dell'antica falsa, e latina ortografia
degl'italiani, e particolarmente dell'et non mai pronunziato se
non e, o ed. Tutte le lingue nascono, com'è naturale appoco
appoco, e per lungo tempo non sono adattabili alla scrittura e molto meno alla
letteratura. Cominciando ad adattarle alla scrittura, l'ortografia n'è
incertissima, per l'ignoranza di quei primi scrittori o scrivani, che non sanno
bene applicare il segno al suono: massime quando si servano, com'è il
solito, di un alfabeto forestiero, quando è certo che ciascuna nazione o
lingua ha i suoi suoni particolari, che non corrispondono a quelli significati
dall'alfabeto di un'altra nazione. Venendo poi la letteratura, l'ortografia
piglia una certa consistenza, ed è prima cura de' letterati di
regolarla, di ridurla sotto principii fissi, e generali, e di darle
stabilità. Ma anche questa opera è sempre imperfettissima ne'
suoi principii. Per lo più la letteratura di una nazione deriva da
quella di un'altra. Quindi anche l'ortografia in quei principii [2459]segue
la forma e la stampa di quella che i letterati hanno sotto gli occhi, troppo
deboli ancora per essere originali, e per immaginar da se, e seguire e conoscer
bene la natura particolare de' loro propri suoni ec.: le quali cose non son
proprie se non di quello ch'è già o perfezionato o vicino alla
perfezione. Nel nostro caso poi, questa lingua letterata, e di ortografia
già regolatissima e costante, sopra la cui letteratura s'andavano
formando le moderne, era anche immediatamente madre delle lingue moderne. E
benchè queste (massime la francese), avessero perduto molti de' suoi
suoni, e sostituitone, o aggiuntone molti altri, contuttociò la
somiglianza fra la madre e le figlie era tanta, e la loro derivazione da lei
era così fresca, che cominciando a scrivere e poi a coltivare queste
lingue non mai ancora scritte o coltivate, non si pensò di potersi
servire d'altra ortografia che della latina. La quale ortografia già
esisteva, e la nostra s'avea da creare: ma nessuna cosa si crea in un momento,
massime che tante altre ve n'erano da creare allo [2460]stesso tempo, le
quali occupavano tutta l'attenzione di quei primi formatori delle favelle
moderne. Uomini che ad una materia putrida (giacchè tutte erano
barbarissime corruzioni) aveano a dar vita, e splendore.
Quindi l'ortografia italiana del trecento,
anche quella dei primi letterati, era tutta barbaramente latina. Si può
vedere il manoscritto della divina Commedia fatto di pugno del Boccaccio e del
Petrarca, e pubblicato quest'anno o il passato da una Biblioteca di Roma.
Quindi conservato l'h che niun italiano pronunziava più (se non
colla g, e c); quindi l'y, lettera inutile, avendo perduta
la sua antica pronunzia di u gallico; quindi il k, ec. ec. E
siccome per lunghissimo tempo, anche dopo stabilita la nostra letteratura, si
durò a credere che il volgare non fosse capace di scrittura e d'uso
più che tanto nobile e importante (e per molto tempo realmente non lo
fu, perchè non v'era applicata); così fino al cinquecento, e massimamente
fino a tutta la sua prima metà, [2461]si seguitò a
scrivere l'italiano, con ortografia barbaramente latina, o non credendolo
capace d'ortografia propria, o non sapendogliela ancora trovare, e ben regolare
e comporre, o pedantescamente volendo ritornare il volgare al latino quanto
più si potesse. Vedi la edizione della Coltivazione dell'Alamanni fatta
in Parigi 1546. da Rob. Stefano, sotto gli occhi dell'autore, e ristampata colla
stessa ortografia in Padova, Volpi 1718, e Bologna 1746. e quella delle Api del
Rucellai, Venez. 1539, che fu la prima, (per Giananton. de' Nicolini da Sabio)
ristampata parimente ne' detti luoghi. Dice il Volpi che quella maniera e di
scrivere e di puntare che vedesi all'Alamanni esser piacciuta, è
alquanto diversa non solo da quella che oggidì s'usa, ma da quella eziandio
che a tempi di lui universalmente si costumava. (G. A. V. a' Lettori). Vedi
anche le lettere del Casa al Gualteruzzi, da un ms. originale, nelle sue op.
t.2. Venez. 1752. Io non so se sia vero, nè se quella del Rucellai p.e.
se ne diversifichi notabilmente: non mi par che l'edizioni italiane di que'
tempi (come quella delle Rime del Firenzuola in Firenze, cit. nel Voc.) [2462]ne
vadano molto lungi: ma se ciò fosse, verrebbe dalla dimora dell'Alamanni
in Francia. V. p.2466.
In somma la lingua italiana pericolava di
stabilirsi e radicarsi irreparabilmente in quella stessa imperfezione d'ortografia,
in cui si veniva formando, e poi per sempre si radicò la lingua
francese. Fortunatamente non accadde, anzi ell'ebbe la più perfetta
ortografia moderna: non lettere scritte le quali non si pronunzino: non lettere
che si pronunzino e non si scrivano: ciascuna lettera scritta, pronunziata
sempre e in ogni caso, come si pronunzia recitando l'alfabeto ec. V. p.2464.
Cagioni di questo vantaggio furono
l'infinita capacità, acutezza e buon gusto d'infinite persone in quel
secolo, e l'altre circostanze ch'ho notate altrove. Alle quali si può e
si dee forse aggiungere che i suoni della lingua latina, e generalmente la
pronunzia e l'uso di essa, sopra la cui ortografia si formava naturalmente la nostra,
era molto meno diverso dall'uso e pronunzia nostra e spagnuola, di quel che sia
dal francese. [2463]Quindi essendo tutte tre queste ortografie formate
da principio egualmente sulla latina, le due prime che poco avevano da mutarla
per conformarla all'uso loro, facilmente la corressero (massime l'italiana) e
ve l'uniformarono; ma la francese che avrebbe dovuto quasi trovare una nuova
maniera di scrivere (essendo nella pronunzia, come in ogni altra parte, la
più degenere figlia della latina), ed anche trovare in parte un nuovo
alfabeto (come per le e mute ec.), fu incorrigibile.
Fra tanto queste osservazioni si debbono
applicare a dimostrar con un esempio recente, quanto debbano essere state alterate
le primitive lingue nell'applicarle alla scrittura e all'alfabeto o proprio o
forestiero, e nella creazione della loro ortografia, e quanto poco ci possiamo
fidare del modo in cui esse ci ponno essere pervenute, cioè pel solo
mezzo della scrittura.
(5. Giugno, vigilia del Corpus Domini. 1822.)
Alla p.2457. marg. Qual nazione, se non dopo
fatta Cristiana, non riputò per doni [2464]di Dio, e segni del
favor celeste le prosperità, e per gastighi di Dio, e segni dell'odio
suo le sventure? (Onde fra' più antichi, e fra gli stessi ebrei, come i
lebbrosi ec., si fuggiva con orrore l'infelice come scellerato, e quando anche
non si sapesse, o non si fosse mai saputa da alcuno la menoma sua colpa, si
stimava reo di qualche occulto delitto, noto ai soli Dei, e la sua infelicità
s'aveva per segno certo di malvagità in lui, e se l'avevano creduto
buono, vedendo una sua sciagura, credevano di disingannarsene.). Al contrario
accadde nella nostra religione, la quale, se non altro, definisce per maggior
favore, e segno di maggior favore di Dio l'infelicità, che la
prosperità.
(5. Giugno. 1822.)
Alla p.2462. mezzo - non elementi
dell'alfabeto inutili, o che esprimano più d'un suono indarno ec. come
p.e. nello spagnuolo è inutile che il suono del j sia espresso
anche nè più nè meno dal x avanti vocale, e dal g
avanti l'e e l'i. E non solo inutile, ma in ispagnuolo produce
ancor molta confusione e varietà biasimevole [2465]e inutile nel
modo di scrivere una stessa parola, anche appresso un medesimo scrittore, in un
medesimo libro: sebbene io credo che la moderna ortografia spagnuola
(rettificata e resa più esatta, come tutte le altre, e come tutte le
cose moderne) sia emendata in tutto o in parte di questi difetti, e di queste
inutilità. Similmente la ç, o zedilla è un elemento
inutile, e produce confusione, e varietà dannosa. ec. ec.
(6. Giugno, dì del Corpus Domini. 1822.)
I greci J, gli
spagnuoli Tio, gl'italiani zio, esprimendo questi col Z,
quelli col T, il suono del t aspirato che nè gli uni
nè gli altri hanno. Donde questa parola così necessaria e usuale
e volgare in tutti i linguaggi, e usualissima e volgarissima nello spagnuolo e
nell'italiano; donde, dico, e per qual mezzo può esser passata dal greco
a questi volgari moderni, se non per mezzo del volgare latino, non trovandosi
nel latino scritto? L'avranno forse presa gli spagnuoli e gl'italiani dal greco
moderno, o da quello de' bassi tempi (non si saprebbe con qual mezzo), e avrebbe
potuto divenir usuale e volgarissima e scacciar la parola antica, [2466]una
parola forestiera significante una cosa che tuttogiorno s'era nominata e si
nomina? E siccome si potrebbe dubitare che alcune o tutte queste parole ch'io
dimostro uniformi nel greco e ne' nostri volgari, ci fossero derivate per mezzo
del francese ne' bassi tempi, e il francese l'avesse avute dalle colonie greche
state anticamente in Francia ec. del che ho discorso altrove, notate che questo
J si trova
in tutti i volgari derivati dal latino, fuorchè appunto nel francese che
da avunculus dice oncle. Oltre che la qualità della cosa
significata da questa voce, non permetterebbe, come ho detto, ch'ella fosse
passata così tardi, e potuta stabilirsi ne' nostri volgari in luogo dell'antica
denominazione; se questa, cioè, non fosse antica e antichissima. Vedi
però il Forcell. il Gloss. i Diz. franc. ec. (8. Giugno 1822.). V. anche
calare a cui la Crusca pone per greco
(9. Giugno 1822.)
Alla p.2462. principio. Si scrivevano ancora
(massime più anticamente, chè nel cinquecento la maggior dottrina
dava un poco più di regola) le parole italiane o non latine in modo
latino, [2467]o le parole latine (italianate) in modo non latino, e non
conveniente all'italiano, come con lettere non italiane che in quelle tali
parole non ci andavano neppure in latino: p.e. ymago o ymagine
ec. Effetto dell'ignoranza in cui si era anco riguardo al latino e alla sua
buona ortografia, (quando infatti non si sapeva di gran lunga bene nè
pur la lingua latina, e i codici poi erano scorrettissimi ec. e pochi confronti
s'eran potuti fare ec.) o del cattivo modo di scriver latino a quei tempi, e
dell'imperfezione e infanzia dell'ortografia nostrale. Queste osservazioni
serviranno a spiegare il perchè p.e. nella lingua francese, le
imperfezioni dell'ortografia molte volte non paia ch'abbiano a far niente
coll'ortografia latina, scrivendosi malamente anche delle parole non venute dal
latino; e altre venute dal latino scrivendosi in maniera discordante
così dalla buona ortografia latina, come dalla pronunzia francese.
Intendo parlare delle parole francesi ch'erano in uso anche anticamente,
perchè le più moderne, di qualunque origine siano, già si
sa che nello scriverle s'è seguito il costume di quella tale imperfetta
ortografia ch'era già stabilita. Ma la prima causa di questa
imperfezione, fu secondo me, quella che ho detta, [2468]cioè la
cattiva, indebita e puerile applicazione dell'ortografia latina (anch'essa in
gran parte falsa e mal conosciuta, come anche la lingua latina, e cattiva)
all'ortografia volgare.
(10. Giugno 1822.)
Nelle annotazioni alle mie Canzoni (Canzone
6. stanza 3. verso 1.) ho detto e mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica
l'idea rappresentata dal vocabolo. Questa è una delle principali cagioni
per cui la metafora è una figura così bella, così poetica,
e annoverata da tutti i maestri fra le parti e gl'istrumenti principalissimi
dello stile poetico, o anche prosaico ornato e sublime ec. Voglio dire ch'ella
è così piacevole perchè rappresenta più idee in un
tempo stesso (al contrario dei termini). E però ancora si
raccomanda al poeta (ed è effetto e segno notabilissimo della sua vena
ed entusiasmo e natura poetica, e facoltà inventrice e creatrice) la novità
delle metafore. Perchè grandissima, anzi infinita parte del nostro
discorso è metaforica, e non perciò quelle metafore di cui
ordinariamente si compone risvegliano più d'una semplice idea. [2469]Giacchè
l'idea primitiva significata propriamente da quei vocaboli traslati è
mangiata a lungo andare dal significato metaforico il quale solo rimane, come
ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa parola non abbia perduto
affatto, anzi punto, il suo significato proprio, ma lo conservi e lo porti a
suo tempo. P.e. accendere ha tuttavia la forza sua propria. Ma s'io dico
accender l'animo, l'ira ec. che sono metafore, l'idea che
risvegliano è una, cioè la metaforica, perchè il lungo uso
ha fatto che in queste tali metafore non si senta più il significato proprio
di accendere, ma solo il traslato. E così queste tali voci
vengono ad aver più significazioni quasi al tutto separate l'una
dall'altra, quasi affatto semplici, e che tutte si possono omai chiamare ugualmente
proprie. Il che non può accadere nelle metafore nuove, nelle
quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente tutto il diletto
della metafora: massime s'ell'è ardita, cioè se non è
presa sì da vicino che le idee, benchè diverse, [2470]pur
quasi si confondano insieme, e la mente del lettore o uditore non sia obbligata
a nessun'azione ed energia più che ordinaria per trovare e vedere in un
tratto la relazione il legame l'affinità la corrispondenza d'esse idee,
e per correr velocemente e come in un punto solo dall'una all'altra; in che
consiste il piacere della loro moltiplicità. Siccome per lo contrario le
metafore troppo lontane stancano, o il lettore non arriva ad abbracciare lo
spazio che è tra l'una e l'altra idea rappresentata dalla metafora; o
non ci arriva in un punto, ma dopo un certo tempo; e così la
moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il piacere, non ha
più luogo.
(10. Giugno 1822.). V. p.2663. iu.1822
Proma voce latina, feminino
sustantivo di promus, è da aggiungersi al Lessico e all'Appendice
del Forcellini. Il Forcellini dice: Promus i, m. (cioè mascolino)
semplicemente, e non ha esempi del feminino, se non uno in aggettivo. Sta in un
frammento del libro primo Œconomicorum di Cicerone, portato da
Columella, e nella mia ediz. di Senofonte (Lipsiae 1804, cura Car. Aug. Thieme,
ad recensionem Wellsianam) t.4. p.407. Vi si legge haec primo tradidimus.
Errore. Leggi promae. Corrisponde [2471]al di
Senofonte c.9.
art.10. . E che
anche Cicerone l'abbia detto in femminino, e non v. g. promo, apparisce
da quel che segue: EAMQUE admonuimus etc., cioè promam.
Questo errore è anche nella mia ediz. di Columella l.12. c.3. (forte
al.4.) dov'è portato il detto passo.
(10. Giugno 1822.)
Alla inclinazione da me più volte
notata e spiegata, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro
godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee
riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s'attribuisce
ragionevolmente alle donne e a' fanciulli, e ch'è propria altresì
di qualunque altro è meno capace o per natura o per assuefazione di
contrastare e vincere e reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche
proprio pur troppe volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se
stessi, i quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà a
tenere il segreto, e qualche voglia interna di manifestarlo (anche con danno
loro), quando sono sull'andare del confidarsi con altrui, o semplicemente del
conversare, o discorrere, [2472]o chiaccherare. Dico lo stesso anche di
quando il segreto non è d'altrui ma nostro proprio, e quando noi vediamo
che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e come tale, ci
eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per isboccataggine.
Ma che anche questa inclinazione, non sia
naturale nè primitiva (come pare), ma effetto delle assuefazioni, e
dell'abito di società contratto dagli uomini vivendo cogli altri uomini,
lo provo e lo sento io medesimo, che quanto era prima inclinato a comunicare
altrui ogni mia sensazione non ordinaria (interiore o esteriore), così
oggi fuggo ed odio non solo il discorso, ma spesso anche la presenza altrui nel
tempo di queste sensazioni. Non per altro se non per l'abito che ho contratto
di dimorar quasi sempre meco stesso, e di tacere quasi tutto il tempo, e di
viver tra gli uomini come isolatamente e in solitudine. Lo stesso si dee
credere che avvenga ai solitari effettivi, ai selvaggi, a quelli che o non
hanno società o poca, e rara, all'uomo naturale insomma, privo del
linguaggio, o con poco uso del medesimo, al muto, a chi per qualche accidente
ha dovuto per lungo tempo viver lontano dal consorzio degli uomini, come
naufragi, pellegrini in luoghi di favella non conosciuta, carcerati ec. frati silenziosi
ec.
(11. Giugno. 1822.)
[2473]Alle ragioni da me recate in
altri luoghi, per le quali il giovane per natura sensibile, e magnanimo e
virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli altri,
e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente,
e insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane
della detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e
più presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini,
e il danno della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque
altro della necessità di esser malvagio, e della inevitabile e somma
infelicità ch'è destinata in questa vita e in questa
società agli uomini di virtù vera. Perocchè gli altri non
essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto
nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio e
persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure
di quella virtù che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie
e le persecuzioni degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per
combatterle e respingerle, come si trova il virtuoso. [2474]In somma il
giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo
verso gli uomini, nè così presto, com'è obbligato a
concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e
meno infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui
medesimo. Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli
per massima nata e confermata e radicata immobilmente dall'esperienza, non
arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di malvagità
fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile
ed eterna, a cui necessariamente dee giungere (e tosto) l'uomo d'ingegno al
tempo stesso e di virtù naturale.
(13. Giugno. 1822.)
Diciamo tuttogiorno in volgare: venir
voglia a uno d'una cosa, venirgli pensiero, talento, desiderio,
ec. ec. V. la Crusca e i Diz. francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir
questo in latino? Chi non lo stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or
ecco appunto una tal frase parola per parola nel poema più perfetto del
più [2475]perfetto ed elegante poeta latino, e in un luogo che
dovea necessariamente esser de' più nobili, cioè nel principio e
invocazione delle Georgiche: (l.1. v.37.) Nec tibi regnandi veniat tam dira
cupido, Nè ti venga sì brutta voglia di regnare cioè nell'inferno.
V. il Forcell. e il Gloss. se hanno niente al proposito.
(14. Giugno. 1822.)
Dell'antica fratellanza della lingua greca
colla latina, ossia della comune origine d'ambedue, e come in principio l'una
non differisse dall'altra, ma fossero in Italia e in Grecia una lingua sola,
vedi un bel luogo di Festo portato dal Forcellini v. Graecus in fine.
(14. Giugno. 1822.)
Chi negherà che l'arte del comporre
non sia oggi e infinitamente meglio e più chiaramente e distintamente
considerata, svolta, esposta, conosciuta, dichiarata in tutti i suoi principii,
eziandio più intimi, e infinitamente più divulgata fra gli uomini,
e più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò di molto
maggior quantità di esempi e modelli, che non era presso gli antichi? e
massime presso quegli antichi e in quei secoli ne' quali meglio e più
perfettamente e immortalmente si scrisse? Eppure [2476]dov'è oggi
in qualsivoglia nazione o lingua, non dico un Cicerone (quell'eterno e supremo
modello d'ogni possibile perfezione in ogni genere di prosa), non dico un Tito
Livio, ma uno scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore
quanto n'ha qualunque non degli ottimi, ma pur de' buoni scrittori greci o
latini? E dov'è poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni,
uguale a quello che n'hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo
insieme tutti i migliori scrittori di tutte le nazioni letterate, dal
risorgimento delle lettere sino a oggidì. E dico buoni precisamente in
quel che spetta all'arte del comporre, e del saper dire una cosa, e trattare
un argomento con tutta la perfezione di quest'arte. Dico buoni quanto alla
lingua loro, qualunqu'ella sia, e perfetti in essa e padroni, come fu Cicerone
della latina, o come lo furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi
di Cicerone in questo e nel rimanente, ma pur buonissimi e classici. [2477]Dico
buoni in questo senso, giacchè non entro nell'arte del pensare, ec. E
quel che dico de' prosatori, dico anche de' poeti, colle stesse restrizioni, e
quanto al modo di trattare e significare le cose immaginate: chè l'invenzione
e l'immaginazione in se stesse e assolutamente considerate, appartengono a un altro
discorso.
Fatto sta che oggi tutti sanno come vada
fatto, e niuno sa fare. Niuno sa fare perfettamente, e pochissimi
passabilmente. E gli ottimi scrittori moderni di qualunque lingua o
tempo, appena si possono paragonare all'ultimo de' buoni antichi. O se
gli agguagliano in qualche parte o qualità, o se anche li vincono,
sottostanno loro grandemente in altre parti, e nell'effetto dell'insieme, e nel
complesso delle qualità spettanti all'arte del ben comporre, e ben
enunziare i propri sentimenti, e formare un discorso. Siccome per l'opposto non
è sì mediocre scolare di rettorica, il quale abbia pur letto la
rettorica del Blair, e non ne sappia, quanto al modo e alla ragione del ben
comporre, più di Cicerone.
[2478]Tant'è. Secondo
l'osservazion del Democrito Britanno Bacon da Verulamio tutte le facoltà
ridotte ad arte steriliscono, perchè l'arte le circonscrive. (Gravina,
Della Tragedia, cap.40. p.70. principio.). L'arte si trova sempre e perfezionata
(ovvero inventata e formata), e divulgata e conosciuta da tutti, in quei tempi
nei quali meno si sa metterla in pratica. A tempo d'Aristotele non v'erano
grandi poeti greci: l'eloquenza romana era già spirata a tempo di
Quintiliano (il quale forse, in quanto al modo di fare, se n'intendeva
più di Cicerone). Lo stesso saper quel che va fatto è cagione che
questo non si sappia fare. Anche qui si verifica che il troppo è padre
del nulla, e che il voler fare è causa di non potere, ec. ec. Gli
scrupoli, i dubbi, i timori di cader ne' difetti già ben conosciuti ec. ec.
legano le mani allo scrittore, e i più se ne disperano, e non seguendo
nè i precetti dell'arte, nè essendo più a tempo di seguir
la natura propria già in mille modi distorta, stravolta, e alterata
dall'arte, scrivono, come vediamo, pessimamente, benchè sappiano
ottimamente quel che s'abbia da fare a scriver bene.
(15. Giugno. 1822.)
[2479]Quanto prevaglia nell'uomo la
materia allo spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei
dolori. Perocchè i dolori dell'animo non sono mai paragonabili ai dolori
del corpo, ragguagliati secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E
sebben paia molte volte a chi è travagliato da grave pena dell'animo,
che sarebbe più tollerabile altrettanta pena nel corpo; l'esperienza ragguagliata
dell'una e dell'altra può convincere facilmente chiunque sa riflettere
che tra' dolori dell'animo e quelli del corpo, supponendoli ancora,
relativamente, in un medesimo grado, non v'è alcuna proporzione. E
quelli possono esser superati dalla grandezza o forza dell'animo, dalla
sapienza ec. (lasciando stare che il tempo consola ogni cosa), ma questi hanno
forza d'abbattere e di vincere ogni maggior costanza.
(15. Giugno 1822.)
Molto ragionevolmente s'ammira la ritirata
dei diecimila greci, eseguita per lunghissimo tratto d'un immenso paese nemico,
e impegnato invano ad impedirla; dal core del [2480]regno, a' suoi
ultimi confini. ec. Or che si dovrà dire di una non ritirata, ma
conquista di un regno anch'esso immenso, qual era quello del Messico, eseguita
non da diecimila, ma da mille, o poco più spagnuoli, e in tanta maggior
lontananza dal loro paese, e questa, di mare, ec. ec.? Quanto più corre
il tempo, tanto più cresce la differenza ch'è tra uomini e
uomini, e la superiorità degl'inciviliti sui barbari. Non erano
così differenti i Persiani dai greci, benchè differentissimi,
nè così inferiori, benchè sommamente inferiori, quanto i
Messicani (benchè non privi nè di leggi, nè di ordini
cittadineschi e sociali, nè di regolato governo, nè anche di
scienza politica e militare ridotta a certi principii) per rispetto degli
spagnuoli. E principalmente nelle armi, i Persiani e i greci non differivano
gran cosa, laddove gli spagnuoli dai Messicani moltissimo. E così
rispettivamente nella Tattica.
(16. Giugno. Domenica. 1822.)
[2481]N. N. diceva che gli ossequi
ec. e i servigi interessati rade volte conseguiscono l'intento loro,
perchè gli uomini sono facili a ricevere e difficili a rendere. (tutti ricevono
volentieri, e rendono mal volentieri e poco.) Ma eccettuava da questo numero quelli
che i giovani prestano talvolta alle vecchie ricche o potenti. E soggiungeva
che non v'ha lusinghe, ossequi o servigi meglio collocati di questi, nè
che più facilmente e più spesso ottengano il loro fine.
(17. Giugno. 1822.)
Grazia dal contrasto. La medesima
insipidezza o del carattere, o delle maniere, o de' discorsi, o degli scherzi,
sentimenti ec. in una persona bella, fa molte volte effetto, ed è un charme
tanto nelle donne rispetto agli uomini, come viceversa. La stessa rozzezza, o
una certa poca delicatezza di modi ec. è spesse volte e per molti graziosa
e attraente in una persona di forme delicate ec.
(17. Giugno. 1822.)
Ho discorso altre volte della ferocia
cagionata nell'uomo virtuoso, nel giovane, ec. dalla risoluzione di commettere
a occhi aperti [2482]un primo delitto. Ho anche ragionato del danno
involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo stabilimento e
perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre inevitabilmente
cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro coscienza,
sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de' gastighi
dell'altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare,
come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l'uomo il quale per la
prima volta s'è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran
fatica e pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e
si trova allora nell'atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione
di una gran ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d'altra tal bestia
salvatica, che va in furore, ed è più che mai terribile appena
ch'ell'ha gustato, o veduto il sangue d'altro animale. Perocchè l'uomo
in quel punto è come sparso e macchiato di sangue, cioè omicida [2483]della
propria coscienza. E generalmente l'esecuzione di qualunque proposito è
tanto più efficace ed energica ed infiammata ed avventata e pronta,
quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta
maggior pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l'uomo teme
di pentirsi, e s'avventa nell'esecuzione, come fuggendo con grand'impeto e
fretta e spavento dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora,
potrebbe distorlo, o precipitarlo di nuovo nell'irresoluzione, che l'uomo teme
e odia naturalmente, e ch'è uno de' principali travagli dell'animo.
Massime quando l'effetto della risoluzione (o sia il piacere, o sia l'utile, o
sia la vendetta, o sia la soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira
e lo invita gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl'impedisca
di cercarlo e di conseguirlo, e d'altra parte desidera vivamente di non perderlo,
e non privarsene per proprio difetto.
(17. Giugno. 1822.)
[2484]I francesi non hanno poesia
che non sia prosaica, e non hanno oramai prosa che non sia poetica. Il che
confondendo due linguaggi distintissimi per natura loro, e tutti due propri
dell'uomo per natura sua, nuoce essenzialmente all'espressione de' nostri pensieri,
e contrasta alla natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente
quando ragiona coll'animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i
francesi, se vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa
ed ornata ec.
(19. Giugno. 1822.)
Quanto sia vero che i talenti in gran parte
son opera delle circostanze, vedasi che ne' paesi piccoli è
infinitamente maggiore che ne' grandi, il numero delle persone di grado agiato
e comodo e (negli altri luoghi) colto e civile, che non hanno il senso comune,
e da' quali non si può fidare l'esecuzione o il maneggio del menomo
affare ec. Lo stesso dico proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto
alle più grandi, delle meno colte o socievoli rispetto alle più
colte, delle capitali dove tutti son obbligati [2485]a conversare, a
trattar negozi ec. rispetto alle città di provincia ec.
(19. Giugno. 1822.)
Alla p.2402. Qualunque inferiorità o
svantaggio abbia un uomo o rispetto agli altri, o rispetto a qualcuno in
particolare, l'unico rimedio è dissimularlo arditamente, costantemente e
ostinatamente. E questo è ancora l'unico mezzo, se lo svantaggio e il
male è compassionevole, e se pur si trova in alcuno la compassione,
d'esserne compatito. Chi lo confessa per qualunque cagione, o perchè
creda non poterlo dissimulare (ch'è falso, ancor che sia visibile, o
notissimo, o in qualunque guisa manifesto), o per altro, e con ciò crede
di guadagnar compassione, e pensa che negandolo o proccurando di nasconderlo, e
mostrando di non avvedersene, gli altri lo debbano maggiormente disprezzare e
deridere, e non compatire, s'inganna a partito, che anzi questo è il
modo sicuro d'esserne disprezzato e deriso. L'uomo non lascia per qualunque
cagione di profittare del vantaggio ch'egli ha sopra gli altri [2486]uomini,
o sopra un tal uomo, se questi non fa grandissima forza perchè gli
altri, quanto è possibile, non s'accorgano o ricordino del suo
svantaggio, o non se ne possano profittare. E perciò dev'egli operare e
portarsi sempre come se quello svantaggio non esistesse, o come s'egli non se
n'avvedesse, e mostrare affatto di non sentirlo; e proccurare anche di far
quelle cose che più si disdicono ec. a' suoi pari rispetto al detto
svantaggio. Quanto sono maggiori gli svantaggi che s'hanno, tanto più
bisogna che l'individuo stia per se stesso. Perocchè gli altri uomini
non istaranno mai per lui, e quel che desiderano e vogliono principalmente si
è ch'egli si confessi loro inferiore. Il che dev'egli sempre fermamente
ricusare.
(21. Giugno 1822.)
Ho detto altrove del J de'
greci, come dimostri il sentimento e la forza ch'aveva in quella nazione la
bellezza, e la sublimità che le attribuivano, pigliandola per parte e
nome di virtù. Aggiungi l'uso della loro lingua di chiamar tutte le
cose buone, oneste, virtuose, utili. V. fra gli altri, Senof. . . . . . Alla immaginazione degl'italiani (come le
sopraddette cose a quella de' greci) si deve sotto lo stesso aspetto attribuire
l'uso che fanno [2487]delle parole significanti la grazia esterna
per dinotare la probità, onestà, bontà ec. de' costumi: uomo
DI GARBO, GALANTuomo.
(21. Giugno. 1822.)
Quel che si dice, ed è verissimo, che
gli uomini per lo più si lasciano governare dai nomi, da che altro viene
se non da questo che le idee e i nomi sono così strettamente legati
nell'animo nostro, che fanno un tutt'uno, e mutato il nome si muta decisamente
l'idea, benchè il nuovo nome significhi la stessa cosa? Splendido esempio
ne furono i romani, esecratori del nome regio, i quali non avrebbero tollerato
un re chiamato re, e lo tollerarono chiamato imperatore, dittatore, ec. e
dichiarato inviolabile (cosa nuova) col nome vecchio della potestà
tribunizia. E che non avrebbero tollerato un re così detto, si vede.
Perocchè Cesare il quale, bench'avesse il supremo comando, pur sospirava
quel nome, non parendoli essere re, se non fosse così chiamato, (e
ciò pure per la sopraddetta qualità dell'animo nostro, bench'egli
fosse spregiudicatissimo), fattosi [2488]offerire la corona da Antonio
ne' Lupercali, fu costretto rigettarla esso stesso da' tumulti ed esecrazioni
di quel popolo già vinto e schiavo, e che poi chiamato di nuovo alla
libertà, non ci venne. E gl'imperatori che furono dopo, e che da
principio (cioè finchè il nome d'imperatore non fu divenuto anche
nella immaginazion loro e del popolo, lo stesso e più che re) ebbero lo
stesso desiderio di Cesare, non crederono che quel popolo domo si potesse impunemente
ridurre a sostenere il nome di re, benchè non dubitarono di fargli avere
un re e di fargli tollerare ed anche amare la cosa significata da questo nome.
(22. Giugno. 1822.)
Alla p.2414. fine. Tutti gli uomini e tutti
gli animali amano se stessi nè più nè meno secondo la
misura ed energia della loro vitalità. Quindi non mi par più vero
quel ch'io dico altrove, che la quantità dell'amor proprio sia precisamente
uguale in ciascun vivente. Perocchè le diverse specie di viventi, e i
diversi individui d'una medesima specie, e questi medesimi individui in diversi
tempi e circostanze [2489]hanno relativamente diverse somme di
vitalità. Come altre specie hanno più spiriti, altre meno. E fra
queste l'umana ne ha più di tutte. Ma fra gli uomini altri n'hanno
più, altri meno: ed anche naturalmente questi nasce con più,
questi con meno talento.
Di più l'amor proprio essendo una
qualità del vivente, e queste qualità, come ho provato in
più luoghi, essendo disposizioni, e queste disposizioni conformabili, e
che possono fruttificare e produrre delle facoltà, e questo massimamente
nell'uomo, ne segue che l'amor proprio, specialmente nell'uomo, è
conformabile e coltivabile come le altre qualità. Anzi tanto più
quanto egli abbraccia tutte le qualità dell'animo del vivente.
Quindi anche l'amor proprio fa progressi, come ne fa lo spirito umano, ed
è maggiore non solo in una specie o individuo naturalmente più
vivo e sensitivo, ma anche in un individuo colto rispetto ad uno non colto, in
un secolo colto rispetto [2490]ad un altro meno colto, in una nazione
civile rispetto a una barbara, e in uno individuo medesimo, è maggiore
dopo lo sviluppo delle sue qualità o disposizioni sensitive, sentimento,
vitalità, ingegno, è maggiore, dico, che non era prima.
E siccome ho provato che l'infelicità
dell'animale è sempre in ragion diretta dell'attività del suo
amor proprio, così resta chiaro, e perchè l'uomo sia naturalmente
meno felice degli altri animali, e perchè a misura ch'egli
s'incivilisce, il che accresce di mano in mano l'attività dell'amor
proprio, egli divenga ogni giorno più infelice, necessariamente, e quasi
per legge matematica.
Che poi l'amor proprio sia conformabile,
coltivabile, modificabile, sviluppabile, suscettivo d'incremento, e di maggiore
o minore attività e influenza, si farà chiaro considerando l'amor
proprio, come una passione. E infatti lo è, anzi non v'è passione
che non sia amor proprio, e tutte sono un effetto suo [2491]non distinto
dalla causa, e non esistente fuor di lei, la quale opera ora così, e si
chiama superbia, ora così, e si chiama ira, ed è sempre una
passione sola, primitiva, essenziale. Dimodo che le passioni sono piuttosto
azioni ch'effetti dell'amor proprio, cioè non sono figlie sue in maniera
che ne ricevano un'esistenza propria, e separata o separabile da lui.
Or p.e. l'ira o l'impazienza del proprio
male, non è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse
specie, o individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze?
Ponetelo nelle sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura;
col tempo e coll'assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni
parte di questa proposizione). Fate che questo medesimo non abbia mai provato
sventure, o assuefatelo di nuovo alla prosperità, o supponete in una di
queste due circostanze un altro individuo, e sia egli di natura mansuetissima.
Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale
dell'amor proprio, che l'impazienza del male di questo sè che si ama?
E pur questa [2492]impazienza è maggiore e minore secondo le
nature, le specie, gl'individui, e le circostanze e le assuefazioni di un
medesimo individuo. Così dunque l'amor proprio del qual essa è opera.
(22. Giugno. 1822.)
Intorno al suicidio. È cosa assurda
che secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba viver contro
natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro
natura. E che sia lecito d'essere infelice contro natura (che non avea fatto
l'uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un
modo contro natura, essendo questo l'unico possibile, dopo che noi siamo ridotti
così lontani da essa natura, e così irreparabilmente.
(23. Giugno. 1822.)
Il fatto sta così e non si può
negare. La somma della moralità pratica era ed è tanto maggiore
presso gli antichi, i pagani, i selvaggi, che presso i moderni, i Cristiani,
gl'inciviliti, quanto la somma della morale teorica, e la perfetta cognizione,
definizione, analisi e propagazione della medesima è maggiore presso
questi che presso quelli. E nella stessa [2493]proporzione si deve
discorrere anche oggidì de' Cristiani più rozzi, e meno (o
più confusamente) istruiti de' doveri sociali ed umani, per rispetto
alla gente più colta e addottrinata ne' medesimi doveri.
(24. Giugno dì di S. Gio. Battista. 1822.)
Nè il titolo di filosofo nè
verun altro simile è tale che l'uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra
se stesso. L'unico titolo conveniente all'uomo, e del quale egli s'avrebbe a
pregiare, si è quello di uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse
di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo natura. In questo
modo e con questa condizione il nome d'uomo è veramente da pregiarsene,
vedendo ch'egli è la principale opera della natura terrestre, o sia del
nostro pianeta, ec.
(24. Giugno. dì del Battista. 1822.)
L'amor proprio, il quale, come ho dimostrato
più volte, è necessaria o quasi necessaria sorgente
d'infelicità, era però (oltre l'essere una essenziale conseguenza
e parte [2494]dell'esistenza sentita e conosciuta dall'esistente)
necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può
dare amor della felicità senz'amor di se stesso? anzi questi due amori
sono precisamente una cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar
felicità senza amor di felicità? Giacchè l'animale non
può godere e compiacersi di quel che non ama. Dunque non amando la
felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene. Dunque quella
non sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque l'animale,
se non amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe essenzialmente
incapace della felicità, e in disposizione contraddittoria colla natura
di essa. Quindi si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene l'amor
proprio produce necessariamente l'infelicità (maggiore o minore), la
natura non ha però sbagliato nell'ingenerarlo ai viventi, essendo necessario
alla felicità, e però il suddetto [2495]inconveniente era
inevitabile come tanti altri, e deriva come tanti altri da una cosa ch'è
un bene, e fatta per bene.
(24. Giugno. 1822.)
Quanto sia vero che l'amor proprio è
cagione d'infelicità, e che com'egli è maggiore e più
attivo, maggiore si è la detta infelicità, si dimostra per
l'esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non solo è soggetto
a mille dolori d'animo, ma incapace ancora di godere i maggiori beni del mondo,
e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e nel miglior
modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti, non
è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco.
Cosa osservata. Com'è anche osservatissimo che l'uomo è tanto
più infelice quanto ha più e più vivi desiderii, e che
l'arte della felicità consiste nell'averne pochi e poco vivi ec.
(Ch'è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato, con [2496]un
ardore incredibile che lo trasporta verso la felicità, con la maggior
forza possibile per poter gustare e sostenere i piaceri e anche fabbricarseli
coll'immaginazione, proccurarseli coll'opera ec.; in un'età a cui tutto
sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti; contuttochè sia privo
del disinganno, e però veda le cose sotto il più bell'aspetto
possibile, e di più essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor
lontano e ben difeso dalla sazietà, e capace di dar peso a ogni
godimento, non gode mai nulla, e pena più d'ogni altro, e si sazia
più presto; e tanto più quanto egli è più vivo
[così spesso il Casa] e sensitivo ec., e quindi per necessità
più amante di se stesso.) Ora la misura dei desiderii, la loro copia
vivezza ec. è sempre in proporzione della misura, vivezza, energia,
attività dell'amor proprio. Giacchè il desiderio non è
d'altro che del piacere, e l'amor della felicità non è altro che
il desiderio del piacere, e l'amor della felicità non è altro che
l'amor proprio.
(24. Giugno. 1822.). V. p.2528.
Quindi osservate che tutto quanto si dice
dell'amor proprio si deve anche intendere [2497]dell'amor della
felicità ch'è tutt'uno (v. p.2494.). E però la misura, la
forza, l'estensione, le vicende, gl'incrementi, gli scemamenti, tanto individuali
che generali, dell'uno di questi amori, son comuni all'altro nè
più nè meno.
(24. Giugno. 1822.)
L'antichissima e propria significazione del
verbo pareo, in luogo di cui vennero poi in uso i suoi composti adpareo,
compareo ec. s'è conservata in uso familiarissimo e
frequentissimo presso gl'italiani e gli spagnuoli (parere, parecer,
si pare ec.). Per qual mezzo, se non del volgare antico latino? V. il
Forc. e il Gloss. Così i francesi paroître, o paraître ec.
(25. Giugno. 1822.)
Ho detto altrove che il timore è la
più egoistica passione dell'uomo sì naturale e sì civile.
Così anche degli altri animali. Ed è ben dritto, perocchè
l'oggetto del timore pone in pericolo (vero o creduto) l'esistenza o il ben
essere di quel sè che il vivente ama per propria essenza [2498]sopra
ogni cosa. L'uomo il più sensibile per abito e per natura, il più
nobile, il più affettuoso, il più virtuoso, occupato anche
attualmente, poniamo caso, da un amore il più tenero e vivo, se con
tutto ciò è suscettibile del timor violento, trovandosi in un
grave pericolo (vero o immaginato) abbandona l'oggetto amato, preferisce (e
dentro se stesso e coll'opera) la propria salvezza a quella di quest'oggetto,
ed è anche capace in un ultimo pericolo di sacrificar questo oggetto
alla propria salute, dato il caso che questo sacrifizio (in qualunque modo
s'intenda) gli fosse, o gli paresse dovergli esser giovevole a scamparlo. Tutti
i vincoli che legano l'animale ad altri oggetti, o suoi simili o no, si rompono
col timore.
(26. Giugno 1822.)
L'estrema possibile semplicità o
naturalezza dello stile, dello scrivere o del parlar francese civile, è
sempre di quel genere ch'essi medesimi (in altre occasioni) chiamano maniéré.
Anche il Salvini lo chiama ammanierato. V. la definizione di maniéré
ne' Diz. francesi, dove lo diffiniscono per un'abitudine viziosa che deforma
tutto, e fa proprio al caso. V. p.e. il Tempio di Gnido, e le Favole di
La Fontaine.
(26. Giugno 1822.)
[2499]Ho assegnato altrove come
principio d'infinite e variatissime qualità dell'animo umano (p.e.
l'amor delle sensazioni vivaci) l'amor della vita. Questo amore però
è non solo necessaria conseguenza, ma parte, ovvero operazione naturale
dell'amor proprio, il quale non può non essere amore della propria
esistenza, se non quando quest'esistenza è divenuta una pena. Ma
ciò non in quanto esistenza, chè l'esistenza in quanto esistenza,
è per natura eternamente amata sopra ogni cosa dall'esistente.
Perocchè tanto è amar la propria esistenza in quanto esistenza,
quanto è amar se stesso. E sarebbe una contraddizione quasi impossibile
a concepirsi, che l'esistenza non fosse amata dall'esistente; e quindi che in
certo modo l'esistenza fosse odiata dall'esistenza, e combattuta
dall'esistenza, e contraria all'esistenza, o anche semplicemente non cara e non
gradita a se stessa, nemmeno inquanto se stessa.
(26. Giugno. 1822.)
[2500]Alla p.2405. Un corollario si
può tirare molto ragionevolmente dal vedere che le scritture orientali
mancano per lo più delle vocali. Ed è che quelle lingue fossero
le prime ad esser coltivate, la scrittura orientale la prima ad essere inventata
(appunto perchè più imperfetta, e similmente si potrebbe dire
della struttura ec. delle loro lingue), le letterature orientali le prime a
nascere, e in somma l'oriente il primo ad esser civilizzato, e quindi
probabilmente il primo ad esser popolato, e ridotto alla società ec.
Confermando con questa, le altre prove che già s'hanno delle dette
proposizioni, e dell'origine che il genere umano ha dell'oriente.
(26. Giugno. 1822.)
Per qual cagione il barbarismo reca
inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna
sì dirittamente all'eleganza? Intendo per barbarismo l'uso di parole o
modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall'indole della propria
lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè [2501]se
noi usassimo p.e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni
arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci
sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero
all'eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della
favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p.e.
nell'italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e
non già trasportati p.e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni
francesi, chè questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E
domando perchè il barbarismo così definito e inteso, distrugga
affatto l'eleganza delle scritture.
Certo è che non ripugna alla natura
nè delle lingue, nè degli uomini, nè delle cose, e non
è contrario ai principii eterni ed essenziali dell'eleganza, del bello
ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d'idee
[2502]con parole e modi appresi e ricevuti da un'altra nazione, che sia
seco loro in istretto e frequente commercio, com'è appunto la Francia
rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode,
per la mercatura eziandio, e generalmente per l'influenza che ha la
società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa.
Torno a dire che questo non ripugna naturalmente al bello, se quelle voci e
modi non sono di forma assolutamente discorde e ripugnante alle forme della
propria lingua. E tale si è appunto il caso nostro. Bisogna dunque
cercare un'altra cagione fuori della natura generale e immutabile,
perchè questo barbarismo distrugga sensibilmente l'eleganza, e non possa
stare seco lei. Egli è pur certo, e tutti i maestri dell'arte
l'insegnano e raccomandano, e io l'ho spiegato e dimostrato altrove, che non
solo il pellegrino giova all'eleganza, ma questa non ne può [2503]fare
a meno, e non viene da altro se non da un parlare ritirato alquanto (più
o meno) all'uso ordinario, sia nelle parole, sia ne' loro significati, sia ne'
loro accoppiamenti, nelle metafore, negli aggiunti, nelle frasi, nelle
costruzioni, nella forma intera del discorso ec. Or come dunque il barbarismo,
ch'è un parlar pellegrino, il barbarismo dico, quando anche non ripugni
dirittamente, anzi punto, all'indole generale e all'essenza della lingua,
nè all'orecchio e all'uso de' nazionali, in luogo di riuscirci elegante,
ci riesce precisamente il contrario, e incompatibile coll'eleganza? Ecco com'io
la discorro.
I primi scrittori e formatori di
qualsivoglia lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non
fuggirono il barbarismo, ma lo cercarono. V. Caro, Apologia, p.23-40.
cioè l'introduzione del Predella. Tolsero voci e modi e forme e metafore
e maniere di stile e costruzioni ec. (e questo in gran copia) dalle lingue
madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene, [2504]massimamente
se a queste, benchè aliene, apparteneva quella letteratura sulla quale
essi si modellavano, e dalla quale venivano derivando e imparavano a fabbricar
la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci
tolte non solo dal latino, ma dall'altre lingue o dialetti ch'avevano una tal
qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di
provenzalismi (che vengono ad essere appunto presso a poco i gallicismi, tanto
abominevoli oggidì); de' quali abbondano parimente gli altri
trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com'è bene
osservato dagli eruditi: di barbarismi Erodoto: di barbarismi i primi scrittori
francesi ec.
E non è mica da credere nè che
questi barbarismi de' primi e classici scrittori, fossero, a quei tempi, comuni
nella loro nazione, ed essi scrittori si lasciassero strascinar dall'uso
corrente; ne che gli usassero e introducessero per solo bisogno, o per
arricchir [2505]la loro lingua di parole e modi economicamente
utili. Gli usarono, come si può facilmente scoprire, per espresso fine
di essere eleganti col mezzo di un parlar pellegrino, e ritirato dal volgare. E
sebben furono costretti, volendo essere intesi, a usar gran parte delle voci e
modi correnti, e formarne il corpo della loro scrittura, pur molto volentieri e
con predilezione s'appigliarono quando poterono alle voci e modi forestieri,
per parlare alla peregrina, e per dare al loro modo di dire un non so che di
raro, ch'è insomma l'eleganza. E p.e. di Dante, si vede chiaramente
ch'egli si studiò di parlare a' suoi compatrioti co' modi e vocaboli
provenzali, a cagione che la nazion provenzale era allora la più colta,
ed aveva una specie di letteratura, abbastanza nota in Italia, e che rendeva la
lingua provenzale così domestica agl'italiani colti, che le sue parole o
frasi, italianizzandole, non erano enigmi [2506]per loro, e così
poco volgare che le dette voci e frasi non erano ordinariamente nella loro
bocca (come non lo sono ora le latine che p.e. i poeti derivano di nuovo
nell'italiano, e che tutti intendono), nè in quella del popolo: il quale
però eziandio era sufficientemente disposto ad intenderle (senza perdere
il piacere del pellegrino) a causa delle canzoni provenzali, amorose ec.
ch'andavano molto in giro, e si cantavano ec. Or dunque da queste canzoni, e
dalla letteratura e dalla lingua provenzale tirò Dante molte voci e modi
per essere elegante: e ci riuscì allora; e con tutti questi che oggi si
chiamerebbero barbarismi, sì egli, come Omero, e tali altri scrittori
primitivi, s'hanno da per tutto per classici, e taluni per eleganti; o se
s'hanno per ineleganti, viene piuttosto dall'arcaismo che dal barbarismo.
In somma il barbarismo, quando è
veramente un parlar pellegrino, e che non ripugna ec. come sopra, e che
s'intende, è [2507]sempre (da qualunque lingua sia tolto,
rispetto alla lingua propria) non solo compatibile coll'eleganza, ma vera fonte
di eleganza.
Cresciuta, formata, stabilita la lingua, e
la letteratura di una nazione, interviene le più volte, che
introducendosi il commercio fra questa ed altre lingue e letterature, parte l'uso,
e l'assuefazione di udire voci e modi forestieri, parte la necessità di
riceverne insieme cogli oggetti coi libri coi gusti cogli usi colle idee che
da' forestieri si ricevono, parte l'amor delle cose straniere e la
sazietà delle proprie, ch'è naturale a tutti gli uomini sempre
inclinati alla novità (v. Omero Odiss. 1. v.351-2.), parte fors'anche
altre cagioni riempiono la favella nazionale di voci e modi forestieri in guisa
che appoco appoco, dimenticate o disusate le voci e maniere proprie, divien più
facile il parlare e lo scrivere con quelle de' forestieri, che s'hanno
più alla mano, e s'usano più giornalmente, e più
familiarmente. Ed ecco un'altra volta introdotto il barbarismo nella lingua [2508]e
letteratura nazionale, ma per tutt'altra cagione e fine, e con tutt'altro
effetto che l'eleganza e l'arricchimento loro. Quanto all'arricchimento, questo
è il punto in cui la lingua nazionale comincia a scadere e scemare
sensibilmente, e impoverirsi, e indebolirsi fino al segno che dimenticate e
antiquate la maggiore o certo grandissima parte delle sue voci e modi, e anche
delle sue facoltà, ella non ha più forza nè capacità
di supplire ai bisogni del linguaggio, e di fornire un discorso del suo, senza
ricorrere al forestiero. (E la nostra lingua è già vicina a
questo segno, non solo per le ricchezze proprie ch'avrebbe dovuto venire acquistando,
e non l'ha fatto, ma anche per quelle infinite ch'aveva già, ed ha
perdute, e molte irrecuperabilmente). E così dico della letteratura.
Quanto poi all'eleganza, quelle voci e modi,
non essendo più pellegrini, non sono più eleganti. Anzi non
c'è cosa più volgare e ordinaria di quelle voci e modi forestieri.
Come accade appunto in Italia oggidì, che non si può nè
parlare nè scrivere in un italiano più volgare e corrente, che
parlando e scrivendo in un italiano alla francese. [2509]Il che
è ben naturale e conseguente, secondo le cagioni che ho assegnate, le
quali introducono questo secondo barbarismo in una lingua. Perocchè
esse l'introducono ed influiscono direttamente, non negli scritti de' grandi
letterati e degli uomini di vero e raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo
barbarismo) ma nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei
libri degli scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche
cercano, nè si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella
che son soliti di parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero
esprimere in altro modo, nè possiedono altre voci e forme di dire. Di
più seguono ed approvano (secondo il poco e stolto loro giudizio) l'uso
corrente, la moda ec. ed accattano l'applauso e la lode del volgo, e si
compiacciono di quella misera novità, e vogliono passar per autori alla
moda: così che oltre all'ignoranza, li porta al [2510]barbarismo
anche la volontà, ed il cattivo loro giudizio; e l'esempio gli strascina
ec. Di più formandosi a scrivere sui soli o quasi soli libri stranieri
divulgati nella loro nazione, non conoscono altre voci, frasi, e maniere di
stile, che quelle di que' libri, o non si vogliono impazzire a scambiarle
coll'equivalenti nazionali, che non hanno punto alla mano. E così imbrattano
sempre più la lingua e letteratura nazionale di cose forestiere, anche
oltre all'uso della favella ordinaria de' loro compatrioti.
Introdotto così, e fondato e
propagato in una lingua il barbarismo per la seconda volta, la stessa sua
propagazione lo rende inelegante al contrario della prima volta.
Perocchè allora la lingua volgare non è quella che si chiama
così e ch'è veramente nazionale, ma è quella barbara e
maccheronica che si parla e scrive ordinariamente, e però chi scrive
alla forestiera, scrive volgarissimo, e quindi inelegantissimo. [2511]Dov'è
da notare che allora il barbarismo non è contrario all'eleganza come forestiero:
chè anzi il forestiero bene inteso da' nazionali, e non affettato,
è sempre elegante. Ma per l'opposto è inelegante come
volgare.
E laddove la prima volta, quand'esso non era
volgare, riusciva elegante, e più elegante di quel ch'era nazionale,
questa seconda volta il puro nazionale riesce molto più elegante del
forestiero, non già come puro nè come nazionale (chè queste
qualità non furono mai cagione di eleganza), ma come non volgare, come
ritirato dall'uso corrente e domestico, come proprio oramai de' soli scrittori,
e questi anche pochi.
Ecco che la purità della favella
è divenuta quasi sinonimo dell'eleganza della medesima: e questo con
verità e con ragione, ma non per altro, se non perch'essa purità
è divenuta pellegrina.
Così quelle voci e modi che una volta
[2512]perchè familiari alla nazione non erano eleganti, anzi
fuggite dagli scrittori di stil nobile ed elevato, o che tali pretendevano di
essere; divengono già elegantissime e graziosissime perchè da una
parte si riconoscono ancora facilmente per nazionali, e quindi sono intese
subito da tutti, come per una certa memoria fresca, e non riescono affettate,
dall'altra parte non sono più correnti nell'uso quotidiano. E
così anche le parole e maniere una volta trivialissime e plebee nella
nazione, aspirano all'onor di eleganti, e lo conseguiscono, come si potrebbe mostrare
per mille esempi di voci e frasi individue.
In somma oggi, p.e. fra noi, chi scrive con
purità, scrive elegante, perchè chi scrive italiano in Italia
scrive pellegrino, e chi scrive forestiero in Italia scrive volgare.
Dal che si deve abbatter l'errore di quelli
che pretendono che v'abbia principii fissi ed eterni dell'eleganza. V. la
pag.2521. sulla fine. Non v'ha principio fisso dell'eleganza, se non questo (o [2513]altro
simile) che non si dà eleganza senza pellegrino. Come non v'ha principio
eterno del bello se non che il bello è convenienza. Ma come è
mutabile l'idea della convenienza, così è variabile il
pellegrino, e quindi è variabile l'eleganza reale, effettiva e concreta,
benchè l'eleganza astratta sia invariabile. Nè purità
nè altra tal qualità delle parole o frasi, sono principii certi
ed eterni dell'eleganza d'esse voci o frasi individue. Ineleganti una volta, divengono
poi eleganti, e poi di nuovo ineleganti, secondo ch'esse sono o non sono
pellegrine, giusta quelle tali condizioni del pellegrino, stabilite di sopra.
Queste verità sono confermate dalla
storia di qualunque letteratura e lingua. La purità dell'Atticismo non
divenne un pregio nell'idea de' greci, nè fu sinonimo d'eleganza presso
loro, se non dopo che i greci ebbero a udire ed usare familiarmente voci e
frasi forestiere. Omero, Erodoto, Senofonte medesimo (specchio d'Atticismo) erano
[2514]stati elegantissimi con voci e frasi forestiere, poco usate da'
greci de' loro tempi; anzi per mezzo appunto d'esse voci e frasi, fra l'altre cose.
Non si pregia la purità, nè anche si nomina, se non dopo la
corruzione, cioè quand'essa è pellegrina. E prima della
corruzione si pregia il forestiero perchè pellegrino. Ennio, Plauto,
Terenzio, Lucrezio ec. specchi della eleganza latina, son pieni di grecismi,
cioè di barbarismi. Al tempo di Cicerone, di Orazio, e molto più
di Seneca, di Frontone ec. che l'Italia parlava già mezzo greco, erano
sorti i zelanti della purità, e il grecismo lodato in Plauto e in
Cecilio (Oraz. ad Pison.) era impugnato ne' moderni, e proibito affatto da'
pedanti, e usato con moderazione dai savi, e Cicerone se ne scusa spesso, e
loda ed ama e deplora la purità dell'antico sermone, e la favella di sua
nonna, ch'al tempo di sua nonna tutti i buoni scrittori posponevano al
grecismo, quanto potevano [2515]farlo senza riuscire oscuri presso un
popolo allora ignorante del forestiero, e del greco, e delle voci e frasi che
non fossero nazionali. Dal che, e non da altro, e forse dalla stessa poca loro
perizia del greco, nacque che gli antichi scrittori latini, benchè abbondanti
di grecismi e barbarismi, pur si riputassero e fossero modelli del puro sermone
Romano, rispetto agli scrittori più moderni. E lo stesso dico degli antichi
italiani.
E quella ricchissima, fecondissima,
potentissima, regolatissima, e al tempo stesso variatissima, poetichissima e
naturalissima lingua del cinquecento, ch'a noi (ne' suoi buoni scrittori)
riesce così elegante, forse ch'allora fu tenuta per tale? Signor no, ma
per corrotta. E la buona lingua si stimava solo quella del trecento, e se ne
deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della
lingua, (come noi facciamo rispetto al 500), e gli scrittori tanto più
s'avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere in
quella di quell'altro secolo. Laddove a noi, a' quali l'una e l'altra è
divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto
più seguono l'uso [2516]del loro secolo, e meno imitano il
trecento. Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser
naturali e di vena, come è il Caro che non fu mai imitatore. (È
notabile che di parecchi cinquecentisti, le lettere dov'essi ponevano meno
studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima, mentr'era quella
del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore stile che
l'altre opere, dove si volevano accostare alla lingua del trecento, mentre
nelle lettere usavano la lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e
naturalissimi.). V. p.2525. Ma anche nel cinquecento non si stimava veramente
elegante se non il pellegrino, e lo trovavano e cercavano nella lingua del
trecento, che sola chiamavano pura, quando per noi è purissima quella
del cinquecento. V. Salviati, Avvertim. della lingua, citati nelle op. del
Casa, Venez. 1752. t.3. p.323. fine - 324. Nel trecento poi nemmen si parlava
di purità, nè si poneva tra i pregi della lingua o dello scrivere;
e la lingua del loro secolo non si stimava elegante (se non forse alcune
smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che
s'amassero nel resto di Toscana o d'Italia, che in Firenze, come accade
veramente anche oggi): e quelli scrittori che più si stimavano eleganti,
e che tali si credevano o pretendevano essi medesimi, erano non quelli che oggi
più s'ammirano per la naturalezza e la semplicità, e che [2517]in
somma usavano più puramente la lingua nazionale o patria del tempo loro,
ma quelli che oggi meno s'apprezzano, cioè che la fornivano di parole e
modi forestieri, e che si studiavano di tirarla alle forme d'altre lingue, e
d'altri stili, come fece il Boccaccio rispetto al latino, e come anche Dante,
la cui lingua, s'è pura per noi, che misuriamo la purità
coll'autorità, niuno certamente avrebbe chiamato pura a quei tempi,
s'avessero pensato allora alla purità, e gli stessi cinquecentisti non
erano molto inchinati a stimarlo tale, nè ad accordargli un'assoluta
autorità e voto decisivo in fatto di purità di lingua,
restringendosi piuttosto al Petrarca e al Boccaccio. V. Caro Apolog. p.28. fine
ec. Lett. 172. t.2. e se vuoi, anche il Galateo del Casa circa la stima
ch'allora si faceva di tanto poeta.
Per le quali considerazioni e confronti,
sebbene la lingua italiana di questo secolo sia bruttissima e pessima per
ragioni e qualità indipendenti dalla purità e dal barbarismo,
cioè perchè povera, monotona, impotente, fredda, inefficace,
smorta, inespressiva, impoetica, inarmonica ec. ec. nondimeno ardisco dire che
se gli scrittori barbari della moderna Italia, arriveranno ai posteri,
quando la lingua italiana sarà già in qualunque modo mutata dalla
presente, e se [2518]la prevenzione (che influisce moltissimo sopra il
senso dell'eleganza e del bello in ogni cosa) e il giudizio del secol nostro
non avrà troppa forza ne' futuri, come non l'ha in noi il giudizio de'
cinquecentisti, questa nostra barbara lingua, si stimerà elegante, e
piacerà, perchè divenuta già pellegrina, e forse il
Cesarotti ec. passerà per modello d'eleganza di lingua.
Finalmente non è ella cosa conosciutissima
che alla poesia non solo giova, ma è necessario il pellegrino delle
parole delle frasi delle forme (niente meno che delle idee), per fare il suo
stile elegante e distinto dalla prosa? Non lo dà per precetto
Aristotele? (Caro, Apolog. p.25.). Il poetico della lingua non è quasi
il medesimo che il pellegrino? O certo il pellegrino non è una
qualità poetica nella lingua, e non serve di sua natura a poetichizzare
il linguaggio e lo stile? Or ditemi se nelle poesie italiane d'oggidì si
può trovar cosa più [2519]prosaica delle voci, frasi ec.
forestiere? se più triviale, più ordinaria, in somma più
decisamente impoetica e più distruttiva dell'eleganza del linguaggio, e
in maggior contraddizione colla natura dello stil poetico? Tanto che, riuscendo
sempre le dette voci e maniere, inelegantissime nella prosa, che pur è
obbligata a minor eleganza, nella poesia riescono stomachevoli, e la cambiano
affatto di poesia in cattiva prosa, onde osserva il Perticari (De' 300isti), sebbene
non con tutta verità, che il barbarismo insignorito delle prose
italiane, pur non mise piede nelle poesie, come non ci potesse esser poesia con
barbarismi. E questo perchè? essendo il pellegrino così proprio
della poesia, ch'ella non ne può far senza? Perchè, torno a dire,
se non perchè tali voci e frasi ec. forestiere, sono appunto le
più volgari, giornaliere, correnti, usuali voci e maniere della nostra
favella presente? e quindi distruttive del pellegrino? e se nuove nella
scrittura o nella poesia, non [2520]nuove, anzi vecchie nell'uso volgare
del discorso, e quindi distruttive della novità ch'è l'uno de'
principali pregi della lingua poetica? Laonde oggi sono eleganti le poesie
scritte nella pura lingua italiana, e spesso anche in quella che una volta fu
poco meno che trivialissima. Non per altro se non perchè quanto
più sono italiane, tanto più dette poesie ci riescono pellegrine.
Concludo che il barbarismo è
distruttivo dell'eleganza, sì della prosa, e sì massimamente
della poesia (alla quale più si richiede il pellegrino), non come pellegrino,
nè come semplicemente forestiero, e contrario alla purità
(ch'è un nome astratto, e sempre variabile nella sua sostanza); ma per
lo contrario, come distruttivo del pellegrino, e del nuovo, come
volgare, come triviale, come quello che forma la parte più moderna, e
quindi più corrente e ordinaria della favella. E che la purità
è necessaria e giovevole all'eleganza, [2521]non in quanto
purità, nè in quanto nazionale ec. (qualità alienissime
dall'eleganza e dalla grazia), ma in quanto pellegrina e rara, e distinta
dall'uso comune, e ritirata dal volgo, e diversa dalla favella giornaliera
presente. (il che viene in somma a dire ch'ella non è più
veramente purità, essendo bensì stata, ma non essendo più
nazionale. E pure allora solamente viene in pregio la purità, quando
ella non è più tale, cioè quando a volerla usare, non si
usa la vera lingua nazionale corrente. Così lingua pura, è
un abuso di parole, in vece di dire, lingua antica della nazione e degli
scrittori nazionali.) V. p.2529.
Tutte le sopraddette osservazioni, e
particolarmente quelle della pagina 2512. fine - 13. si debbono applicare alla
teoria della grazia derivante da quello ch'è fuor dell'uso. Le cagioni
dell'eleganza delle parole o modi sono eterne, ed eternamente le stesse. Ma
niuna parola o frase ec. di niuna lingua, è perpetuamente elegante, [2522]per
elegantissima che sia o che sia stata una volta, nè viceversa triviale
ec.: neanche durando la stessa indole, genio, spirito, carattere, forma ec. di
quella tal lingua. E non solo niuna parola o modo, ma niun genere o classe di
parole o modi.
Spesso una parola è inelegante, o (se
si tratta di verso) impoetica in un senso, ed elegante e poetica in un altro,
solamente perchè in quello è volgare, e in questo no, o poco
frequentemente usata. Come chi dicesse varii in poesia per diversi,
parecchi, non peccherebbe contro la buona lingua, avendovene molti
esempi, e fra gli altri del Tasso (Discorso sopra vari accidenti della
sua vita), ma sarebbe poco elegante, per esser questo significato della detta
parola molto volgare e familiare. Ma chi dicesse, come il Petrarca, VARIE di
lingue e d'armi e de le gonne, o come Virgilio Mille trahit VARIOS adverso
sole colores, non s'allontanerebbe punto dall'eleganza, per la ragione [2523]contraria.
E notate ch'io non parlo solamente de' sensi metaforici, i quali possono render
poetica una voce usualissima, ed anche impoetichissima, ma parlo eziandio de'
significati propri, come dimostra l'addotto esempio, o de' poco meno che
propri. E quel che dico delle voci, dico delle frasi ec.
(29. Giugno, dì di San Pietro, mio natalizio. 1822.).
Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e
così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con
proprietà, non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura
con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche
Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le
proprie idee, concetti, immagini, sentimenti.
(29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro.)
Il giovane istruito da' libri o dagli uomini
e dai discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e inevitabilmente
[2524]che il mondo e la vita per esso lui debbano esser composte
d'eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di piaceri, il
mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma più veramente
egli si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se
stesso, che quel che gli è detto e predicato, cioè
l'infelicità, le disgrazie della vita, della virtù, della sensibilità,
i vizi, la scelleraggine, la freddezza, l'egoismo degli uomini, la loro
noncuranza degli altri, l'odio e invidia de' pregi e virtù altrui,
disprezzo delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi, nobili, teneri ec.
sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l'opposto, cioè
quell'idea ch'egli si forma della vita e degli uomini naturalmente, e
indipendentemente dall'istruzione, quella che forma il suo proprio carattere,
ed è l'oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, e speranze, l'opera e
il pascolo della sua immaginazione.
(29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
[2525]Alla p.2516. marg. fine - e
sempre scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento,
e della sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell'esempio del Caro non
Fiorentino, come era bella e graziosa questa lingua nazionale del
cinquecento, ch'allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava
scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè meno di
quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun
Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d'altro secolo
scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro
Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non
istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o
bene imitato, è fresco e lontanissimo dall'affettazione la più
menoma, come s'oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che
scrisse, ebbe poco tempo di studiarlo, lasciando star le lettere, familiari, ch'egli
scriveva anzi di malissima voglia, come dice [2526]spessissimo, e dice
ancora: E delle mie (lettere) private io n'ho fatto molto poche che mi sia
messo per farle (cioè con istudio), e di pochissime ho tenuta copia
(lett. 180. vol.2. al Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua
gli erano naturali, e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo
secolo e della sua nazione, benchè da lui modificate secondo il suo
gusto, e benchè si professi molto obbligato nella lingua a Firenze,
scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol.2.).
Vedi ancora quel ch'egli dice del poco studio e impegno con cui tradusse
l'Eneide, la Rettor. d'Aristot. le Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che siccome
le lettere familiari (e forse queste anche più della Rettor. e delle
Oraz.) ci riescono pur contuttociò di squisita e quasi inimitabile
eleganza.
(29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
() , (agros
qui incrementum nullum haberent, cioè così ben coltivati
già quando si comprano, che non si [2527]possano far migliori) J¡¡ÞÜ Õ. Dice queste cose Iscomaco
di suo padre, il quale non voleva che si comprassero fondi ben coltivati, ma
trascurati dal possessore, e le dice a Socrate presso Senofonte Del governo della
casa, cap.20. §.23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza
e nell'aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato
che non si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per
se, è sempre infelicissimo, come fu presso a poco quello d'Augusto
divenuto padrone di tutto il mondo, e malcontento com'egli s'espresse.
(29. Giugno 1822.)
Ho discorso altrove di quello che si suol
dire, ch'ogni proposizione ha due aspetti, e dedottone che ogni verità
è relativa. Notate che ogni proposizione, ogni teorema, ogni oggetto di
speculazione, ogni cosa ha non solo [2528]due ma infinite facce, sotto
ciascuna delle quali si può considerare, contemplare, dimostrare e
credere con ragione e verità. E in tanto si dice che n'abbia due, in
quanto d'ogni proposizione si può dir pro e contra, dimostrarla vera e
falsa, e sostenere così la tal proposizione, come la sua contraria. E
ogni proposizione e verità sussiste e non sussiste in quanto al nostro
intelletto, e anche per se. E d'ogni cosa si può affermar questo
o quest'altro, e parimente negarlo. Il che più vivamente e dirittamente
dimostra come non sussiste verità assoluta.
(29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro e
mio natalizio.)
Alla p.2496. fine. Finchè si fa conto
de' piaceri, e de' propri vantaggi, e finchè l'uso, il frutto, il
risultato della propria vita si stima per qualche cosa, e se n'è gelosi,
non si prova mai piacere alcuno. Bisogna disprezzare i piaceri, contar per
nulla, per cosa di niun momento, e indegna di qualunque riguardo e custodia, i
propri vantaggi, quelli della gioventù, e se stesso; considerar [2529]
la propria vita gioventù ec. come già perduta, o disperata, o
inutile, come un capitale da cui non si può più tirare alcun
frutto notabile, come già condannata o alla sofferenza o alla
nullità; e metter tutte queste cose a rischio per bagattelle, e con poca
considerazione, e senza mai lasciarsi cogliere dall'irresoluzione neanche nei
negozi più importanti, nemmeno in quelli che decidono di tutta la vita,
o di gran parte di essa. In questo solo modo si può goder qualche cosa.
Bisogna vivere », témere, à l' hasard, alla
ventura.
(30. Giugno. 1822.). V. p.2555.
Alla p.2521. La conchiusione e la somma del
discorso si è che in qualunque tempo e in qualunque letteratura è
piaciuta una lingua diversa dalla presente nazionale parlata, per bonissima,
utilissima e bellissima che questa fosse: e non s'è mai giudicata
elegante la scrittura composta delle voci e de' modi ordinari in quel tempo e
correnti [2530]effettivamente nella nazione, per purissimi che
questi fossero. E questa (bench'altre ancora ve n'abbia) è l'una delle
principali cagioni per cui non piace, e si disapprova e si biasima e riesce
inelegante nelle scritture la presente lingua della nostra nazione, e si
richiama la nostra lingua antica. Con ragione, benchè non sia molto
ragionevole il richiamarla come pura, chè nè essa era
pura, nè la purità è un pregio necessario ed appartenente
all'essenza dello scriver bene, e molte volte non è possibile, e in fine
è piuttosto un nome che una cosa, non potendosi mai definir questa
purità, nè trovar precisamente quel che sia la purità di
una tal lingua individua, anzi non esistendo essa mai, perchè tutte le
lingue sono composte di voci, modi ec. presi più o meno ab antico da
molte e varie altre lingue. E non potendosi neppur circoscrivere la così
detta [2531]purità dentro i termini dell'uso nazionale,
perchè se ciò fosse, tutte le nazioni in tutti i tempi
parlerebbero puramente, e tutti gli scrittori seguendo la lingua del tempo
loro, scriverebbero puramente, massime conformandosi alla parlata, e non esisterebbe
il contrario della purità, cioè l'impurità, perchè
nessuna lingua in nessun tempo sarebbe mai impura, benchè tutta composta
da capo a piedi di barbarismi. Sicchè resta che per lingua pura
s'intenda come suo preciso sinonimo la lingua antica di una nazione,
cioè quella lingua composta per la più parte di voci e modi
venuti di fuori, che dagli antichi fu parlata e scritta. E in particolare
quella che fu contemporanea della miglior letteratura e coltura nazionale, e in
somma quella che fu il risultato, non già dell'abbozzo (ch'ebbe la
lingua italiana da' 300isti) ma del perfezionamento dato alla lingua [2532]nazionale,
e massime alla scritta, dagli scrittori e letterati nazionali nel tempo in cui
maggiormente e precisamente fiorì la letteratura e coltura nazionale,
che fu per noi il 500.
Richiamare questa tal lingua, non pura,
propriamente parlando, ma antica, e non come pura, ma come antica, richiamarla,
dico, nella letteratura, è, come ho detto, ragionevole, ed autorizzato
dall'esempio dell'altre nazioni antiche e moderne. Ed è ragionevole
sì per li suoi pregi intrinseci e indipendenti dalle circostanze, e per
la miseria e bruttezza propria assoluta e indipendente della nostra lingua
moderna; sì per quello che ho dedotto dal precedente discorso,
cioè che una lingua nazionale usitata e parlata presentemente non
può mai riuscire elegante nelle scritture, quando anche, in se, fosse
ottima e bellissima.
Potranno oppore a quest'ultima proposizione,
e al mio precedente discorso, che gli [2533]scrittori classici del 500
ebbero gran fama ed onore, e piacquero anche al tempo loro, quando anche
scrivessero appunto nella lingua nazionale usitata e parlata a quel tempo.
Rispondo.
1. La maggior fama degli scrittori del 500
fu a que' tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa
ch'erano servili imitatori del Petrarca, e quindi del 300, e si veda
nell'Apologia del Caro, la misera presunzione ch'avevano di scrivere come il Petrarca,
e che non s'avessero a usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle
prose volevano restringer la lingua a quella sola del Boccaccio, e siamo pur
lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello
spirito che governava la repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno
di molte parole a dimostrargli, che l'apice della letteratura, e quello a cui
nondimeno aspiravano [2534]tanto gl'infimi quanto i sommi, era la lirica
Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori
più grandi in ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi
principalmente pe' loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come
un lampo per l'Italia, si trascrivevano subito, si domandavano, erano il
trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i letterati se
ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con proposte e
risposte ec. E senza questi versi difficilmente s'arrivava alla riputazion di
letterato. Osservate, per non allontanarmi dall'esempio più volte
addotto, il Caro, le cui rime sono la sola cosa che di lui non si legga
più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete che
questa riposava essenzialmente e soprattutto nell'opinion ch'egli avea di poeta
(che nol fu mai), e [2535]tutto il restante suo merito letterario,
s'aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio. E fu stimato gran
poeta, non già per l'Eneide, ch'oggi s'ammira, e si ristampa,
ch'è scritta in istile e lingua propria del suo tempo, benchè
abbellita al suo modo, e arricchita di
latinismi. Questa fu opera postuma e non
levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato
perchè sapeva rimare alla Petrarchesca, e giudicar di tali pretese
poesie. E la sua famosa Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non
s'arriva a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l'avrebbe
scritta altrimenti. (Caro, Apolog. p.18.). E chi non sa l'inferno che cagionò
in Italia, e come nella disputa di quell'impiccio petrarchesco ci prese parte
tutta la nazion letterata, considerandola come affar di tutta la letteratura?
Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate, [2536]non
furono già ammirate nel 500 (quanto alla lingua). Ed è certo che
la lingua del Caro, come l'immaginazione e l'ingegno di Dante, son venute
principalmente in onore, e riposte nel sommo luogo che meritano, in questo e
sulla fine del passato secolo. Il che, di Dante, si vede anche fra gli
stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de' lumi, e
del gusto, e della filosofia, e della teoria dell'arti, e del sentimento del
vero bello. Quanto al Caro, ciò viene in gran parte da circostanze materiali.
2. Le prose italiane ch'ebbero fama nel
2° Per lo stile, per la imitazione de'
classici latini o greci indipendentemente dalla lingua. Questo studio era
comune ai buoni prosatori (come anche poeti) del 500. Ed avendosi allora gran
gusto e inclinazione per il classico, si stimavano e ricercavano le prose scritte
nello stile e ad imitazione e colle forme degli antichi classici, benchè
la lingua non piacesse gran fatto. E questa è una delle ragioni per cui
si faceva conto anche delle lettere più familiari, e d'ogni bagattella,
e schediasma, anche degli scrittori non celebri, con tutto che fossero scritte
nella lingua del [2538]secolo, e si raccoglievano con diligenza che ora
sarebbe ridicola, e si stampavano ec. benchè di niunissima importanza nelle
cose. Perocchè quasi tutti, o certo moltissimi scrivevano allora in
buono stile, essendo divulgatissimo lo studio de' veri classici. Di
più questo medesimo, benchè spettasse allo stile, pur essendo
così strettamente uniti lo stile e la lingua, dava alle prose (come
anche alle poesie) del 500. un sapor d'eleganza indipendente dalla lingua in
se.
3° Perchè molti (e questo fu vero e
principal pregio del cinquecento, ed a cui fu dovuto il perfezionamento della
nostra lingua) si studiavano anche di accostare e di modellare non solo lo
stile, ma anche la lingua italiana, sulla latina e greca, in quanto lo potea comportare
la sua natura. Questo fu comune alla massima parte de' veri buoni scrittori del
cinquecento, massime prosatori. E questo li rendeva eleganti anche presso i
contemporanei. [2539]Ma questa eleganza veniva non da altro che dal
pellegrino, (cioè dal latino e dal greco) benchè quegli scrittori
volessero piuttosto perfezionare, accostare al latino o al greco, render
classica la lingua del loro secolo, che quella del 300, parlassero, come
facevano, e bene, più da 500isti, che da 300isti, più da moderni
che da antichi italiani; usassero la lingua viva e non la morta, le parole
moderne più che le antiche, e insomma innestassero il latino e il greco
nella lingua del 500, e non del 300, e però l'eleganza loro non venisse
dall'uso dell'antico italiano, nè dalla così detta purità,
quantunque oggi per noi sieno purissimi. Ma tali non erano allora per li
pedanti, i quali chiamavano corrotto e barbaro quel che non era del 300,
proibivano il latinismo anche più di quello che facciano i pedanti
oggidì, poichè s'ardivano di chiamar barbara ogni voce latina che
non fosse stata usata [2540]dagli antichi, anzi dal Boccaccio o dal
Petrarca, per convenientissima che fosse all'italiano, e anche nello stile, e
nella composizione della dicitura, volevano piuttosto o quella del Boccaccio o
del Petrarca o quella degl'ignoranti non iscrittori ma scrivani del 300, che
quella de' classici latini e greci. (V. le opposizioni del Castelvetro alla
canzone del Caro, e l'Apol. del Caro).
4° Si stimavano le prose (o le poesie) del
500, per le cose, per l'immaginazione, invenzione, concetti, sentenze, scoperte
o dottrine scientifiche, ec. erudizione ec. ec. benchè la lingua non
piacesse, essendo pur la pura e vera lingua corrente di quel secolo. Onde per
noi tali scrittori riescono purissimi ed elegantissimi perchè antichi.
Ma corrotti si stimavano allora, e negletti, e di niun conto in somma nella
lingua. E la pura lingua del 500, quella che si dimostra pienamente nelle
lettere familiari di [2541]quel secolo, scritte a penna corrente, e
ch'è ricchissima potentissima ec. e per noi purissima ed elegantissima e
spesso tanto più pura e graziosa quanto è più propria del
secolo, e più naturale, si chiamava allora decisamente corrotta, e si
deplorava, anche da' veri letterati la degenerazione della lingua italiana, non
per altro se non perchè non era più quella propriamente del 300,
benchè dopo la corruzione del 400, fosse risorta più bella e
potente di prima, il che affermo a chiunque ne conosca le intime qualità,
e le vaste e riposte ricchezze e facoltà della propria lingua del 500.
Lascio star che questa è regolata, e quella del 300 va dove e come vuole,
e non se ne cava il costrutto, e per lo più bisogna indovinarne il
senso. Del resto questi tali scrittori di lingua stimata allora cattiva e
impura, e dispregiata, e condannata, s'apprezzavano anche allora per le cose, [2542]se
in queste avevano merito, come accade proporzionatamente ai nostri moderni,
indipendentemente dalla lingua, dalla purità e dall'eleganza.
5° Ognuno de' dialetti nazionali, fuori del
suo distretto, è forestiero nella stessa nazione. Gran parte de'
cinquecentisti, toscani o no, prosatori o poeti, scrivevano, com'è noto,
nel dialetto toscano, o se non altro n'infioravano i loro scritti. Con ciò
erano stimati eleganti. Ma benchè scrivessero nel dialetto toscano del
tempo loro, quest'eleganza, presso tutti i lettori non toscani, veniva
anch'essa dal pellegrino. Ed anche presso i toscani veniva dal pellegrino, a
causa che trasportandosi nelle scritture voci e modi popolari e perciò insoliti
ad essere scritti, questi riuscivano straordinarii anche per li toscani, non in
se ma nelle scritture. Ed ho spiegato altrove come anche la familiarità
nello scrivere, e le voci e modi ordinari, riescano eleganti, [2543]non
come ordinarii, anzi come straordinarii e pellegrini nella scrittura ordinata,
studiata, civile (), e
colta. E ciò massimamente nella poesia, dove molti adoperavano il
volgare toscano, anche in poesia non burlesca, come fa il Firenzuola ec. In
somma lo stesso linguaggio popolare molte volte dà eleganza agli scritti,
perciò appunto ch'essendo popolare, non è domestico collo scriver
de' letterati, e vi riesce pellegrino. Aggiungi che a gran parte degli stessi
lettori toscani (naturalmente non plebei) riuscivano e riescono nuove o poco
familiari molte voci de' loro o d'altri scrittori, tolte dalla lingua del loro
popolo. Del resto l'eleganza derivante dall'uso del dialetto toscano nel colto
scrivere, talvolta è minore per li toscani come poco pellegrina, o come
triviale; talvolta maggiore, come non troppo pellegrina, nè tanto
straordinaria che degeneri in disconveniente, affettato ec. siccome
spesso fa per gli altri italiani. I toscani accusano il Botta fiorentinizzante
nella sua storia, come troppo triviale e pedestre, e insomma inelegante. E in
genere l'eleganza ch'essi ne sentono, e [2544]quella che deriva dal familiare,
dal popolare ec. nel colto scrivere, è d'un altro sapore e d'un'altra qualità
dall'eleganza ch'è prodotta dall'assoluto pellegrino: non essendo
pellegrino per chi legge, il familiare e il popolare, se non relativamente,
cioè rispetto alla colta scrittura.
(30. Giugno - 2. Luglio. 1822.)
Quello ch'altrove ho detto del modo che in
greco si chiama la malattia, cioè debolezza (J, si deve anche dire del
latino, infirmitas, infirmus. (4. Luglio. 1822.). Così
anche languor ec.
Della vita e condizione d'Omero ogni cosa
è nascosta. E pure in questa universale ignoranza, una tradizione
antichissima ed universale e perpetua si mantiene, e tutti, che tutto ignorano
intorno a lui, questo solo n'affermano ed hanno per certo, che fosse povero e misero.
Così la fama non ha voluto che si dubiti, nè che resti nel puro
termine di congettura che il primo e il sommo de' [2545]poeti incontrasse
la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato coll'esempio dell' di questa
infelice famiglia, che qualunque è d'animo veramente e fortemente
poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di vivo sentimento, scriva o
no, in prosa o in verso) nasce infallibilmente destinato all'infelicità.
(4. Luglio 1822.)
Gli uomini semplici e naturali sono molto
più dilettati e trovano molto più grazioso il colto, lo studiato
e anche l'affettato che il semplice e il naturale. Per lo contrario non
v'è qualità nè cosa più graziosa per gli uomini
civili e colti che il semplice e il naturale, voci che nelle nostre lingue e
ne' nostri discorsi sono bene spesso sinonime di grazioso, e confuse con
questa, come si confonde la grazia colla naturalezza e semplicità,
credendo che sieno essenzialmente, e per natura, e per se stesse, [2546]qualità
graziose. Nel che c'inganniamo. Grazioso non è altro che lo
straordinario in quanto straordinario, appartenente al bello, dentro i termini
della convenienza. Il troppo semplice non è grazioso. Troppo semplice
sarà una cosa per li francesi, e non lo sarà per noi. Lo
sarà anche per noi, e con tutto questo sarà ancora al di qua del
naturale. (Tanto siamo lontani dalla natura, e tanto ella ci riesce
straordinaria). Viceversa dico del civile rispetto ai selvaggi, naturali,
incolti ec. Del resto possiamo vedere anche nelle nostre contadine che sono
molto poco allettate dal semplice e dal naturale, o per lo meno sono tanto
allettate dal nostro modo artefatto, quanto noi dalla loro naturalezza, o
reale, o dipinta ne' poemi ec.
(4. Luglio 1822.)
Le Dee e specialmente Giunone, è
chiamata spesso da Omero () [2547]cioè
ch'ha occhi di bue. La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero
ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell'uomo. Nondimeno i greci
intendentissimi del bello, non temevano di usar questa esagerazione in lode
delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come
titolo di bellezza, indipendentemente anche dal resto, e come contenente una
bellezza in se, contuttochè contenga una sproporzione. E in fatti non
solo è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne (che non
sieno, come sono molti, di gusto barbaro) la grandezza degli occhi, ma anche un
certo eccesso di questa grandezza, se anche si nota come straordinario, e
colpisce, e desta il senso della sconvenienza, non lascia perciò di piacere,
e non si chiama bruttezza. E notate che non così accade dell'altre parti
umane alle quali conviene esser grandi (lascio l'osceno che appartiene ad [2548]altre
ragioni di piacere, diverse dal bello): nè i poeti greci, nè verun
altro poeta o scrittore di buon gusto, ha mai creduto che l'esagerazione della
grandezza di tali altre parti fosse una lode per esse, e un titolo di bellezza,
come hanno fatto relativamente agli occhi. Dalle quali cose deducete
1o. Quanto sia vero che gli occhi sono la
principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto
più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente
si dipinge la vita e l'anima dell'uomo (e degli animali); e però quanto
più son grandi, tanto maggiore apparisce realmente l'anima e la
vitalità e la vita interna dell'animale. (Nè quest'apparenza
è vana.) Per la qual cosa accade che la grandezza loro è
piacevole ancorchè sproporzionata, indicando e dimostrando maggior
quantità e misura di vita. 2o. Quanta [2549]parte di quella che
si chiama bellezza e bruttezza umana sia indipendente ed aliena dalla
convenienza, e quindi dalla propria teoria del bello. Giacchè, come
accade nel nostro caso, anche quello ch'è sproporzionato e fuor della
misura ordinaria, piace a causa dell'inclinazione ch'ha l'uomo alla vita, e si
chiama bello. Ma di questo bello è cagione, non già la
convenienza, ma la detta inclinazione e qualità umana indipendente dalla
convenienza, e in dispetto della convenienza, e quindi del vero, proprio e
preciso bello.
(4. Luglio. 1822.)
La quistione se il suicidio giovi o non
giovi all'uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e
preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose
è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è
cosa certa, [2550]immutabile e perpetua che l'uomo in qualunque
condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo
può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove, il piacere
è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun
uomo dev'essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita,
così anche ciascuno dev'esser certo di non passar giorno senza
patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno
senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza
lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati
insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il
patire o il non patire. Certo il godere, fors'anche il godere e patire sarebbe
meglio del semplice non patire, (giacchè la natura e l'amor proprio ci
spinge e trasporta tanto verso il godere, che c'è più grato il
godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere)
ma il godere essendo impossibile all'uomo, resta escluso necessariamente e per
natura [2551]da tutta la quistione. E si conchiude ch'essendo all'uomo
più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza
patire, è matematicamente vero e certo che l'assoluto non essere giova e
conviene all'uomo più dell'essere. E che l'essere nuoce precisamente
all'uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e
formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore
moltiplicato tante volte quanti sono gl'istanti della nostra vita, in
ciascuno de' quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo
col fatto non meno che coll'intenzione, col desiderio, e col discorso
più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra
mente. Effetto dell'amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni
ch'egli fa considerandole sotto l'aspetto di bene, e del massimo bene che gli
convenga in quelle tali circostanze.
[2552]Che poi l'uomo debba esser
certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte
non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e
dolori accidentali che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini,
si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l'uomo
dev'esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocchè
l'assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come
a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura,
per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del
piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice
non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella teoria del
piacere): perocchè l'uomo e [2553]il vivente non può esser
privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità,
senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e
l'infelicità non v'è condizione di mezzo. Quella è il fine
necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta
la vita dell'animale. Non ottenendolo, l'animale è infelice; e questo in
ciascuno di quei momenti, nei quali desiderando il detto fine, ossia la
felicità, infinitamente, come fa sempre, non l'ottiene e
n'è privo, come lo è sempre. E però l'uomo dev'esser fisicamente
certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E tutta la vita
è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di patimenti
necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento.
Di più l'uomo dev'esser certo di
provare in vita sua più o meno, maggiori [2554]o minori, ma certo
gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si chiamano mali, dolori,
sventure, o che provengono dai vari desiderii dell'uomo ec. E quando anche
questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma parte della sua vita,
(com'è certo che ne comporranno la massima), essendo egli d'altra parte
certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione ritorna a'
suoi primi termini, cioè se essendo meglio il non patire che il patire,
e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non vivere. Un
solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita, non avendo
per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che l'essere
noccia all'esistente, e che il non essere sia preferibile all'essere.
Tutto questo essendo applicabile ad [2555]ogni
genere di viventi in qualunque loro condizione (niuno de' quali può esser
felice, e quindi non essere infelice, e non patire) e d'altronde posando sopra
principii e fondamenti quanto profondi altrettanto certissimi, e immobili, ed
essendo esattissimamente ragionato e dedotto, e strettamente conseguente, serva
a far conoscere la distruttiva natura della semplice ragione, della metafisica,
e della dialettica, in virtù delle quali tutto il mondo vivente, dovrebb'esser
perito, per volontà e per opera propria, poco dopo il suo nascere.
(5. Luglio 1822.)
Alla p.2529. Finchè il giovane
conserva della tenerezza verso se stesso, vale a dire che si ama di quel
vivo e sensitivissimo e sensibilissimo amore ch'è naturale,
e finchè non si getta via nel mondo, considerandosi, dirò quasi,
come un altro, non fa mai nè può far altro che patire, e non gode
mai un istante di bene e di piacere nell'uso e negli accidenti della vita
sociale. (6. Luglio. 1822.). A goder della vita, è necessario uno
stato di disperazione.
[2556]Il grand'uso che gl'italiani
(forse anche gli spagnuoli e i francesi) fanno della preposizione compositiva di
o dis nel senso negativo (come disamore, disfavorire; e
per apocope in questo e mill'altri casi, sfavorire; disutile, e
mill'altre da formarsi anche a piacere: v. la Crusca), essendo molto poco e
scarso nel latino scritto (come in dispar dissimilis discalceatus
dove il dis nega: v. il Forcell. in di), e d'altra parte non
significando niente in italiano, in francese in ispagnuolo la detta
preposizione per se (la quale sembra venire dal greco usata come in , , ), par che
dimostri d'essere stato molto più comune nel latino volgare di quello
che nello scritto, e d'aver tenuto il luogo di vera particella negativa,
così frequente e manuale nella composizione come la greca privativa, e come lo è la detta
particella presso di noi ad arbitrio del parlatore o scrittore che ha bisogno
d'un [2557]qualunque composto che dica il contrario di quel che dice la
tale o tal altra radice italiana. Del resto il dis latino nelle parole dissimilis,
dispar, secondo me, ha più tosto una tal qual forza disgiuntiva,
che veramente negativa. E in discalceatus, discingo ec. io credo che
propriamente abbia piuttosto la forza del greco in
composizione (come qui appunto discingo),
e del latino ex pure in composizione, (come appunto excalceatus
ch'è lo stesso), di quello che la vera forza privativa del greco che tiene presso di noi, sebbene discalceatus
ec. passò poi a significar privativamente senza scarpe. E forse
in questa maniera, cioè dalla forza di , e di ex
composti, passò la particola dis presso di noi, al significato
assoluto di privazione o negazione. Ma vedendosi p.e. dalla voce discalceatus
(e v. il Forcell. [2558]in Dis...) che questo passaggio l'avea fatto la
detta preposizione anche fra gli antichi latini, si dimostra quel ch'io dissi
da principio, cioè che il suo uso negativo o privativo, così
frequente e familiare come nel latino scritto non si trova, ci dev'esser venuto
dal latino volgare.
(9. Luglio 1822.). V. p.2577.
Quanto gli uomini sieno allontanati dalla
vera loro natura, dalle qualità e distintivi destinati alla loro specie,
l'osservo anche nella gran differenza fisica che s'incontra fra gli uomini da
individuo a individuo. Lascio i mostri, difettosi ec. dalla nascita, o dopo la
nascita, che sono infiniti presso gli uomini; e fra qualunque genere d'animali
appena se ne troverà uno per mille dei nostri, in proporzione della numerosità
della specie: anche escludendo affatto quelli che tra gli uomini hanno
contratto imperfezioni fisiche, per cause accidentali, visibili, [2559]e
se non facili, almeno possibili ad evitarsi. Lascio gli Etiopi, gli Americani
che non avevano barba, certe differenze di costruzione negli Ottentotti, i
Patagoni (se ve n'ha), i Lapponi (che forse nascono e vivono in un clima non
destinato dalla natura alla specie umana, come a tante altre specie
d'animali, piante ec. ha negato questo o quel clima, o paese ec. o tutti i
climi e paesi, fuorchè un solo.). Tutto ciò si potrà
considerare come differenze delle varie specie tra loro, dentro uno stesso genere,
nel modo che p.e. il genere dei cani ha diversissime specie, e diverse o in uno
stesso clima, e paese, o in diversi climi destinati a tale o tal altra di esse
ec.
Ma che in un medesimo clima, in un medesimo
paese, da due medesimi genitori, nascano dei figli così differenti fisicamente,
come accade tra gli uomini, che [2560]di due concittadini, di due
fratelli, l'uno sarà p.e. di statura gigantesca, e di temperamento
robustissimo, l'altro fiacchissimo e piccolissimo; e che questo accada indipendentemente
da ogni causa visibile, o accidentale, o amovibile; che accada nonostante una
medesimissima educazione ed esercizio fisico; che accada e resti manifestamente
determinato fin dalla nascita dell'uno e dell'altro: questo, dico io, in qual
altra specie d'animali si trova? Specie, dico, e non genere, perchè p.e.
diverse specie di cani sono diversissime di grandezza, ma non così
gl'individui di ciascuna d'esse specie fra se stessi, neppur pigliandoli da
diverse famiglie, da diverse patrie, da diversi paesi, da diversi climi.
E fermandomi e ristringendomi alla
differenza che passa fra le proporzioni fisiche degl'individui umani, io dico
che i [2561]due estremi di questa differenza sono così lontani,
che niun'altra specie d'animali, considerata nelle stesse circostanze di
famiglia, patria, clima ec. offre di grandissima lunga due individui
così differenti di grandezza come sono gl'individui umani tutto giorno,
e massimamente pigliandoli da' due sopraddetti estremi.
Certo è che la natura a ciascuna
specie d'animali (come anche di piante ec.) ha assegnato certe proporzioni
nè tanto strette che l'uno individuo sia precisamente della misura
dell'altro, nè tanto larghe che non si possa quasi definir nemmeno
lassamente la grandezza propria degl'individui di quella specie. Ora di
qualunque specie d'animali vi discorra un naturalista, ve ne dirà presso
a poco la grandezza, e qualunque individuo voi ne veggiate,
corrisponderà, o si [2562]discosterà poco da quella, e in
somma la misura della grandezza sarà sempre per voi una qualità
distintiva di quella specie d'animali, e pigliandola a un dipresso,
(tanto più a un dipresso quanto la loro grandezza specifica è maggiore
assolutamente) non t'ingannerà mai. Poniamo anche caso che d'una specie
tu non abbia veduto se non un solo individuo, e che questo sia l'estremo o
della grandezza o della piccolezza della specie. Ancorchè tu ti formi
l'idea della grandezza di quella specie sopra quel solo individuo, vedendone
poi degli altri, non ti trovi ingannato gran cosa, nè sproporzionatamente
lontano dalla tua idea, nè per causa della differente grandezza
(purchè siano in fatto della medesima specie), ti accade di non
riconoscerli per individui di quella tale specie, o di dubitare che non lo
sieno. E ciò quando anche fossero gli estremi contrari del primo
individuo da te veduto.
[2563]Questo pensiero, considerate
ben le cose, trovo che non è vero, e però lo lascio a mezzo. La
differenza delle proporzioni fisiche tra gl'individui umani, ci par maggiore
che nell'altre cose, per le ragioni ch'ho detto altrove. Ma in realtà
non è maggiore nè sproporzionata relativamente, e n'esiste
altrettanta fra gli altri individui animali, in proporzione della loro maggiore
o minor grandezza specifica, e parlando sempre, come si deve, a un dipresso:
benchè in essi animali non ci dia così nell'occhio e non ci paia
tanta. Ma colla misura facilmente si scopre che la detta differenza negli
animali è maggiore, e negli uomini è minore ch'a noi non sembra.
(9-10. Luglio 1822.)
L'uomo non è perfettibile ma
corrottibile. Non è più perfettibile ma più corrottibile
degli altri animali. È ridicolo, ma contuttociò è
naturale, che la nostra corrottibilità, e degenerabilità, e
depravabilità, sia [2564]stata presa, e si prenda a tutta bocca
da' più grandi e sottili e perspicaci e avveduti ingegni e filosofi per
perfettibilità.
(10. Luglio 1822.)
Per lo più noi riconosciamo alla sola
voce anche senza vederle le persone da noi conosciute, per moltiplici che siano
le nostre conoscenze, per minima che sia la diversità di tale o tal
altra voce da un'altra, per pochissimo che noi abbiamo praticata quella tal
persona, o praticatala pure una sola volta. Non così ci accade nelle
voci degli animali, nelle quali, neppure avvertitamente pensandoci, sappiamo
riconoscer differenza tra molti individui d'una stessa specie, o riconosciutane,
non ci resta in mente. Anche, con difficoltà riconosciamo le voci, p.e.
in paese forestiero di lingua, o dialetto, pronunzia ec., e le confondiamo
spesso; almeno a principio. L'ho osservato in me. Effetti dell'assuefazione,
dell'attenzione parziale e minuta ec. da riferirsi a quei pensieri dove ho
portato altri esempi simili.
(11. Luglio. 1822.)
[2565]Noi abbiamo oscuro da obscurus,
e scuro. Obscurus è certo un composto, come dimostra la
preposizione ob. Tolta la quale resta scurus. Che questa voce esistesse
una volta, non si può dubitare, dovendo esistere il semplice prima del
composto. V. il Forcell. Obscurus,
principio. Ma questa voce ignota presso i latini, si conserva nell'italiano. E
questa medesima è una prova ch'esistesse, come viceversa le cose dette
sono una prova che la nostra voce sia antica, e venutaci col volgare latino.
Osservate se credeste che scuro fosse fatto per apocope volgare da oscuro,
che l'apocope dell'o iniziale, per quello che mi pare, non è
punto in uso nel nostro popolo.
(12. Luglio 1822.)
Ho notato, mi pare, in Floro, il quoque
messo innanzi alla voce da cui dipende. Vedilo similmente nella Volgata Gen.
12. v.8. confrontando questo versetto col precedente.
(12. Luglio 1822.)
[2566]È egli possibile che
nella morte v'abbia niente di vivo? anzi ch'ella sia un non so
che di vivo per natura sua? come dunque credere che la morte rechi, e sia essa
stessa, e non possa non recare un dolor vivissimo? Quando tutti i sentimenti
vitali, e soli capaci del dolore o del piacere, sono non solamente intorpiditi
come nel sonno o nell'asfissia ec. (ne' quali casi ancora, le punture, i
bottoni di fuoco ec. o non danno dolore, o ne danno meno dell'ordinario, in
proporzione dell'intorpidimento, della gravezza p.e. del sonno, ch'è
minore o maggiore, com'è somma nell'ubbriaco) ma anzi il meno vitali, il
meno suscettibili e vivi che si possa mai pensare, essendo quello il punto in
cui si spengono per sempre, e lasciano d'esser sentimenti. Il punto in cui la
capacità di sentir dolore s'estingue interamente, ha da esser un punto
di sommo dolore? Anzi non può esser nemmeno di dolore comunque, non
potendosi concepir [2567]l'idea del dolore, se non come di una cosa
viva, e il vivo è inseparabile dal dolore, essendo questo un
irritamento, un aigrissement dei sensi, che si risentono, cosa di
cui non sono capaci nel punto in cui in vece di risentirsi, si dissentono
per sempre. Così non si dee creder nemmeno che quel piacer fisico ch'io
affermo esser nella morte, sia un piacer vivo ma languidissimo. E il piacere, a
differenza del dolore, opera languidamente sui sensi, anzi osservate che il
piacer fisico per lo più consiste in qualche specie di languore, e il
languor de' sensi è un piacere esso stesso. Però i sentimenti ne
son capaci anche estinguendosi, e perciò medesimo che si estinguono.
(16. Luglio. 1822.)
Una macchina dilicata (cioè
più diligentemente e perfettamente organizzata) è più
facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non [2568]toglie che la
non sia più perfetta di questa, e che andando come deve andare non vada
meglio della rozza, supponendole anche tutt'e due in uno stesso genere, come
due orologi. Così l'uomo è più dilicato assai di tutti gli
altri animali, sì nella costruzione esterna, sì nelle fibre
intellettuali. E perciò egli è senza dubbio il più perfetto
nella scala degli animali. Ma ciò non prova ch'egli sia
più perfettibile; bensì più guastabile, appunto
perchè più delicato. E d'altra parte l'esser più facile a
guastarsi, non toglie che non sia veramente la più perfetta delle
creature terrestri, come ogni cosa lo dimostra.
(18. Luglio. 1822.)
Tutto è arte, e tutto fa l'arte fra
gli uomini. Galanteria, commercio civile, cura de' propri negozi o degli
altrui, carriere pubbliche, amministrazione politica interiore ed esteriore,
letteratura; in tutte queste [2569]cose, e s'altre ve ne sono, riesce
meglio chi v'adopra più arte. In letteratura, (lasciando stare quel che
spetta alla politica letteraria, e al modo di governarsi col mondo letterato)
colui che scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello
che trionfa, e che meglio arriva all'immortalità, sieno pure i suoi
pensieri di poco conto, e sieno pure importantissimi e originalissimi quelli
d'un altro che non abbia sufficiente arte nello scrivere: il quale non
riuscirà mai a farsi nome, e ad esser letto con piacere, e nemmeno a far
valutare, e pigliare in considerazione e studio i suoi pensieri. La natura ha
certamente la sua parte, e la sua gran forza; ma quanta sia la parte e la forza
della natura in tutte queste cose, rispettivamente a quella dell'arte, mi pare
che dopo le gran dispute che se ne son fatte, si possa determinare in questo modo,
e precisare [2570]in questi termini. Supposto in due persone ugual grado
d'arte, quella ch'è superiore per natura, riesce certamente meglio
dell'altra nelle sue imprese. Datemi due persone che sappiano ugualmente
scrivere. Quella che ha più genio, sicuramente trionfa nel giudizio de'
posteri e della verità. Datemi due galanti egualmente bravi nel mestier
loro. Quello ch'è più bello (in parità d'altre
circostanze, come ricchezza, fortuna d'ogni genere, comodità ed
occasioni particolari ec.) soverchia sicuramente l'altro. Ma ponete un uomo
bellissimo senz'arte di trattar le donne; un gran genio senza scienza o pratica
dello scrivere; e dall'altra parte un bruttissimo bene ammaestrato e pratico
della galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed esercitato nella maniera
d'esporre i propri pensieri, questi due si godranno le donne e la gloria, e
quegli altri due staranno indubitatamente a vedere. Dal che si deduce che in
ultima [2571]analisi la forza dell'arte nelle cose umane è maggiore
assai che non è quella della natura. Lucano era forse maggior genio di
Virgilio, nè perciò resta che sia stato maggior poeta, e riuscito
meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo stimi nemmeno paragonabile a
Virgilio.
Queste considerazioni debbono determinare
secondo me la parte che ha la natura in quello che si chiama talento,
cioè quanto v'abbia di naturale e d'innato nelle facoltà
intellettuali di qualunque individuo. Sebbene il talento si consideri come cosa
affatto naturale, non è di gran lunga così, come ho mostrato
altrove. Ma non è nemmen vero ch'egli sia tutto effetto delle
circostanze e assuefazioni acquisite: come si dimostra cogli esempi e
comparazioni precedenti. Certo è bensì che di due talenti uguali
per natura, ma l'uno [2572]coltivato e l'altro non coltivato, quello si
chiama talento, e questo neppur si chiama così, non che sia messo al
paro di quello. Dal che di nuovo s'inferisce che la maggior parte del talento
umano, e delle facoltà intellettuali è opera delle assuefazioni,
e non della natura, è acquisita e non innata; benchè
non si fosse potuta acquistare in quel grado senza possedere
primitivamente quell'altra minor parte, o sia disposizione naturale, e
assuefabilità, suscettibilità, conformabilità.
(19. Luglio. 1822.)
Dire che la lingua latina è figlia
della greca, perchè vi si trovano molte parole e modi greci introdottivi
parte dalla letteratura, parte dal commercio e vicinanza delle colonie
greco-italiane, parte dall'antico commercio avuto colla nazione greca sempre
mercatrice, parte derivanti dalla stessa comune origine d'ambe le lingue,
è lo stesso appunto che vedendo la nostra presente [2573]lingua
italiana piena di francesismi, e modellata sulla francese, conchiudere che la
lingua italiana è figlia della francese. Anzi v'ha più di
francese nella presente lingua italiana (che è quasi una traduzione, e
una scimia della francese) di quel che v'abbia di greco nella lingua latina,
massime poi dell'antica. Del resto la parità va molto bene a proposito,
perchè infatti le lingue italiana e francese sono appunto sorelle, come
la greca e la latina.
(20. Luglio 1822.)
Omero è il padre e il perpetuo
principe di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e
principe non si riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun'altra arte o
scienza umana. Di più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque
altra arte o scienza, se ne può con questa sicurezza, cagionata
dall'esperienza di tanti secoli, chiamar principe [2574]perpetuo. Tale
è la natura della poesia ch'ella sia somma nel cominciare. Dico somma e
inarrivabile in appresso in quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia,
non in quanto allo stile ec. ec. Esempio ripetuto in Dante, che in quanto
poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl'italiani.
(21. Luglio 1822.)
Non c'è virtù in un popolo
senz'amor patrio, come ho dimostrato altrove. Vogliono che basti la Religione.
I tempi barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla superstizione, e la
virtù dov'era? Se per religione intendono la pratica della medesima,
vengono a dire che non c'è virtù senza virtù. Chi è
religioso in pratica, è virtuoso. Se intendono la teorica, e la speranza
e il timore delle cose di là, l'esperienza di tutti i tempi dimostra che
questa non basta a fare un popolo attualmente e praticamente virtuoso. L'uomo,
e specialmente [2575]la moltitudine non è fisicamente capace di
uno stato continuo di riflessione. Or quello ch'è lontano, quello che
non si vede, quello che dee venir dopo la morte, dalla quale ciascuno naturalmente
si figura d'esser lontanissimo, non può fortemente costantemente ed efficacemente
influire sulle azioni e sulla vita, se non di chi tutto giorno riflettesse.
Appena l'uomo entra nel mondo, anzi appena egli esce dal suo interno (nel quale
il più degli uomini non entra mai, e ciò per natura propria) le
cose che influiscono su di lui, sono le presenti, le sensibili, o quelle le cui
immagini sono suscitate e fomentate dalle cose in qualunque modo sensibili: non
già le cose, che oltre all'esser lontane, appartengono ad uno stato di
natura diversa dalla nostra presente, cioè al nostro stato dopo la
morte, e quindi, vivendo noi necessariamente fra [2576]la materia, e fra
questa presente natura, appena le sappiamo considerare come esistenti,
giacchè non hanno che far punto con niente di quello la cui esistenza
sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La conchiusione è che tolta alla
virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile, e tuttogiorno posta
dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual ragione,
come ho provato, non può esser che l'amor patrio), è tolta anche
la virtù: e la ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca
affatto alla natura della vita presente, e delle cose in cui la virtù si
deve esercitare, questa ragione, dico, non sarà mai sufficiente all'attuale
e pratica virtù dell'uomo, e molto meno della moltitudine, se non forse
ne' primi anni, in cui dura il fervore della nuova opinione, come nel primo
secolo del Cristianesimo (corrotto già nel secondo. [2577]V.
i SS. Padri.)
(21. Luglio 1822.)
Alla p.2558. Anche gli spagnuoli hanno la
particella compositiva des corrispondente al nostro dis, ed
è fra loro frequentissima. Queste spesso significano cessazione, come desamparar,
disguardare, dismettere (che vuol dir cessare da un'opera ec.
laddove intermettere vale lasciarla per un poco) ec. ec. Tali particelle
potrebbono venire dalla latina de corrotta in des o dis,
come da dedignari, disdegnare, desdeñar, ec. e il
sopraddetto dismettere forse viene da dimittere che in molti
significati non ha la forza della particella di, ma di de, mutata
forse in di per la composizione o per corruzione. V. il Forcell. in Dimitto.
In ogni modo i nostri composti formati colla particella dis, e gli
spagnuoli colla des, ec. possono dimostrare l'esistenza antica di molti
tali composti nel latino volgare, non conosciuti nel latino scritto: [2578]o
che in esso volgare la detta particella si pronunziasse de, o dis,
come abbiamo anche veduto, o nell'un modo e nell'altro, o comunque.
(23. Luglio. 1822.)
La lingua latina ebbe un modello d'altra
lingua regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la
greca, la quale non n'ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado
per grado. L'aver avuto un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione
che la lingua latina fosse più perfetta della greca, e altresì
che fosse meno libera. (Nè più nè meno dico delle
letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta, quella
più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche
sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar la
dialettica, e l'ordine ragionato all'orazione. Non [2579]avevano alcun
esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com'è naturale a chiunque
incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla dialettica e dall'ordine
ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e confermate nell'uso dello
scrivere, sanzionate dall'autorità, e dallo stesso errore di tali scrittori,
sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse medesime, si chiamarono,
e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà della lingua greca.
Così è accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch'ella
fu molto e da molti scritta nel 300, secolo d'ignoranza, e che anche allora fu
applicata alla letteratura in modo sufficiente per far considerare quel secolo
come classico, dare autorità a quegli scrittori, presi in corpo e in
massa, e farli seguire da' posteri. I greci o non avevano affatto alcuna lingua
coltivata a cui guardare, o se ve n'era, era molto lontana da loro, come forse
la sascrita, l'egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai loro più
dotti. Gl'italiani n'avevano, cioè la [2580]latina e la greca. Ma
quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime la
latina buona e regolata. (Fors'anche molti conoscendo passabilmente il latino,
e fors'anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in italiano,
per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che tutto
dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti delle
cose ec.) Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero con ordine
più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F. Bartolommeo,
Cavalca ec. Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di
tutti conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti aberrarono dall'ordine
dialettico dell'orazione. Questi principalmente diedero autorità presso
i posteri a' loro scrittori contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo
di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e che non pretendevano
di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali abbondarono di sragionamenti,
e disordini gramaticali d'ogni sorta.
Di tali aberrazioni n'hanno tutte le lingue
quando si cominciano a scrivere, e tutte nel séguito ne conservano più o
meno, sotto il nome di proprietà loro, benchè non sieno [2581]in
origine e in sostanza, se non errori de' loro primi scrittori e letterati,
perpetuati nell'uso della scrittura nazionale. Meno d'ogni altra fra le antiche,
n'ebbe o ne conservò la lingua latina, per la detta ragione, fra
l'altre. Meno di tutte fra l'antiche e le moderne, ne conserva la lingua
francese, non per altro se non perch'ella ha rinunziato e derogato e fatta assolutamente
irrita l'autorità de' suoi scrittori antichi, i quali abbondarono di
tali aberrazioni o quanto gli altri, o più ancora. Parlo dei veramente
antichi, cioè del sec. 160. e non del 170. quando lo spirito, la
società e la conversazione francese era già in un alto grado di
perfezione.
La ricchezza, il numero e l'estensione,
ampiezza ec. delle facoltà di una lingua, è per lo più in
proporzione del numero degli scrittori che la coltivarono prima delle regole
esatte, della grammatica, e della formazione del Vocabolario. La lingua
francese che ha rinunziato all'autorità di tutti gli scrittori propri
anteriori alla sua grammatica e al suo Vocabolario (ch'erano anche pochi e di
poco conto, e perciò hanno potuto essere scartati), è la meno
ricca, e le sue facoltà son più ristrette che non son quelle di
qualunqu'altra lingua del mondo. V. p.2592.
(25. Luglio, dì di S. Giacomo, 1822.).
[2582]Il piacere che noi proviamo
della Satira, della commedia satirica, della raillerie, della maldicenza
ec. o nel farla o nel sentirla, non viene da altro se non dal sentimento o
dall'opinione della nostra superiorità sopra gli altri, che si desta in
noi per le dette cose, cioè in somma dall'odio nostro innato verso gli
altri, conseguenza dell'amor proprio che ci fa compiacere dello scorno e
dell'abbassamento anche di quelli che in niun modo si sono opposti o si possono
opporre al nostro amor proprio, a' nostri interessi ec., che niun danno, niun
dispiacere, niuno incomodo ci hanno mai recato, e fino anche della stessa
specie umana; l'abbassamento della quale, derisa nelle commedie o nelle satire ec.
in astratto, e senza specificazione d'individui reali, lusinga esso
medesimo la nostra innata misantropia. E dico innata, perchè l'amor proprio,
ch'è innato, non può star senza di [2583]lei.
(25. Luglio, dì di S. Giacomo
maggiore 1822.)
Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non
così anticamente, quando il mondo abbondava e di pascolo (cioè di
spettacolo e trattenimento), e di esercizio, e di fini, e di premi all'anime
grandi. Anzi a quei tempi era fortuna il nascer grande come oggi il nascer
nobile e ricco. Perocchè siccome nella monarchia quelli che nascono di
grande e ricca famiglia, ricevono le dignità, gli onori, le cariche
dalla mano dell'ostetrice (per servirmi di un'espressione di Frontone ad Ver.
l.2. ep.4. p.121.), così nè più nè meno accadeva
anticamente ai grandi e magnanimi e valorosi ingegni. I quali nelle circostanze,
nell'attività e nell'immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di
svilupparsi, coltivarsi e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non
potevano mancar di prevalere e primeggiare; come oggidì possono esser
certi di tutto il contrario. [2584]Lascio che quanto gli animi erano
più grandi, tanto meglio erano disposti a godere della vita, la quale in
quei tempi non mancava, e di tanto maggior vita erano capaci, e
quindi di tanto maggior godimento; e perciò ancora era da riputarsi a
vera fortuna e privilegio della natura il nascer grand'uomo, e s'aveva a considerare
come un effettivo e realizzabilissimo mezzo di felicità: all'opposto di
quello che oggi interviene.
(26. Luglio, dì di S. Anna. 1822.)
Nelle parole si chiudono e quasi si legano
le idee, come negli anelli le gemme, anzi s'incarnano come l'anima nel corpo,
facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle
parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all'intelletto e alla
concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all'animo nostro disgiunto dal
corpo.
(27. Luglio. 1822.)
[2585]Ho paragonato altrove gli
organi intellettuali dell'uomo agli esteriori, e particolarmente alla mano, e
dimostrato che siccome questa non ha da natura veruna facoltà (anzi da
principio è inetta alle operazioni più facili e giornaliere),
così niuna ne portano gli organi intellettuali, ma solamente la
disposizione o possibilità di conseguirne, e questa più o meno
secondo gl'individui. Nello stesso modo io non dubito che se meglio si ponesse
mente, si troverebbero anche negli organi esteriori dell'uomo, p.e. nella mano,
molte differenze di capacità, non solo relativamente alle diverse
assuefazioni, e al maggiore o minore esercizio di detto organo, ma naturalmente,
e indipendentemente da ogni cosa acquisita; come accade negl'ingegni, che per
natura sono qual più qual meno conformabili, e disposti [2586]ad
assuefarsi, cioè ad imparare. E forse a queste differenze si vuole attribuire
l'eccessiva e maravigliosa inabilità di alcuni che non riescono (anche
provandosi) a saper far colle loro mani quello che il più degli uomini
fanno tuttogiorno senza pure attendervi nè anche pensarvi; e
l'altrettanto mirabile facilità ch'altri hanno d'imparare senza studio,
e d'eseguire speditissimamente le più difficili operazioni manuali, che
il più degli uomini o non sanno fare, o non fanno se non adagio, e con
attenzione. Vero è che si trova molto minor differenza individuale fra
la capacità generica della mano di questo o di quello, che fra la capacità
de' vari ingegni. Ma questo nasce che tutti in un modo o nell'altro esercitano
la mano, e quindi le danno e proccurano una certa abilità [2587]e
assuefabilità generale: non così l'ingegno. Ed è molto
maggiore, generalmente parlando, il divario che passa fra l'esercizio de'
diversi ingegni, che fra l'esercizio della mano de' diversi individui. Divario
che non è naturale, e non ha che far colle disposizioni native di tali
organi.
(28. Luglio. Domenica 1822.)
È frequentissimo e amplissimo
nell'Italiano o nello Spagnuolo l'uso della voce termine nel suo plurale
massimamente, la quale piglia diversi significati, secondo ch'ell'è
applicata. (Questi per lo più importano condizione, stato,
essere sustantivo o cosa simile.) Vedi la Crus. Non così nel
latino scritto, dov'essa voce non ha che la forza di confine o limite
ec. Pur vedi presso il Forcell. nell'ultimo esempio di questa voce, ch'è
di Plauto, una frase tutta italiana e spagnuola, la qual può dimostrare
che detta voce nel volgare latino avesse o tutti o in parte quegli usi appunto
ch'ell'ha nelle dette lingue. V. Du Cange, s'ha
nulla. V. anche l'Alberti Diz. franc. Terme in fine.
(29. Luglio. 1822.)
[2588]A un giovane il quale essendo
innamorato degli studi, diceva che della maniera di vivere, e della scienza
pratica degli uomini se n'imparano cento carte il giorno, rispose N. N. ma
il libro (ma gli è un libro) è da 15 o 20 milioni di carte.
(30. Luglio 1822.)
Da coquere diciamo cocere (che
per più gentilezza e per proprietà italiana si scrive cuocere)
mutato il qu radicale, in c parimente radicale. Che questa
lettera fosse radicale anche ab antico si può raccogliere dalla voce praecox
(cioè praecocs) praecocis, la quale (spogliata della prep.
prae) forse contiene la radice di coquere. E molte altre
pronunzie volgari di voci derivate dal latino, si potrebbono forse dimostrare
antichissime con simili osservazioni delle loro radici (o già note, o
scopribili), delle voci loro affini ec. (30. Luglio. 1822.). V. Forcellini Coquo,
Praecox ec. e il Glossario.
Da quello che altrove ho detto de' numeri
ec. si deduce che gli animali, non avendo lingua, non sono capaci di concepir
quantità determinata ec. se non menoma, e ciò non per difetto di
ragione, e insufficienza e scarsezza d'intendimento, ma per la detta
necessarissima causa. (30. Luglio 1822.). Onde l'idea della quantità
determinata (benchè cosa materialissima) è [2589]esclusivamente
propria dell'uomo.
La letteratura greca fu per lungo tempo
(anzi lunghissimo) l'unica del mondo (allora ben noto): e la latina (quand'ella
sorse) naturalissimamente non fu degnata dai greci, essendo ella derivata in
tutto dalla greca; e molto meno fu da essi imitata. Come appunto i francesi
poco degnano di conoscere e neppur pensano d'imitare la letteratura russa o
svedese, o l'inglese del tempo d'Anna, tutte nate dalla loro. Così
anche, la lingua greca fu l'unica formata e colta nel mondo allora ben
conosciuto (giacchè p.e. l'India non era ben conosciuta). Queste ragioni
fecero naturalmente che la letteratura e lingua greca si conservassero tanto
tempo incorrotte, che d'altrettanta durata non si conosce altro esempio. Quanto
alla lingua n'ho già detto altrove. Quanto alla letteratura, lasciando
stare Omero, è prodigiosa la durata della letteratura greca non solo
incorrotta, ma nello stato di creatrice. Da Pindaro, Erodoto,
Anacreonte, Saffo, Mimnermo, gli altri lirici ec. ella dura senza interruzione
fino a Demostene; se non che, dal tempo di Tucidide a Demostene, ella si restringe
alla sola Atene per [2590]circostanze ch'ora non accade esporre. V.
Velleio lib.1. fine. Nati, anzi propagati e adulti i sofisti e cominciata la
letteratura greca (non la lingua) a degenerare, (massime per la perdita della
libertà, da Alessandro, cioè da Demostene in poi), ella con
pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in Egitto, e ancora quasi in istato
di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec. Finito il suo stato di
creatrice, e dichiaratasi la letteratura greca imitatrice e figlia di se
stessa, cioè ridotta (come sempre a lungo andare interviene) allo studio
e imitazione de' suoi propri classici antichi, l'esser questi classici, suoi, e
questa imitazione, di se stessa, la preserva dalla corruzione, e purissimi di
stile e di lingua riescono Dionigi Alicarnasseo, Polibio, e tutta la di scrittori
greci contemporanei al buon tempo della letteratura latina; i quali
appartengono alla classe, e sono in tutto e per tutto una
d'imitatori dell'antica letteratura greca, e di quella
durevolissima di scrittori greci classici, ch'io chiamo
creatrice. Corrotta già [2591]la letteratura latina, e sfruttata
e indebolita, la greca sopravvive alla sua figlia ed alunna, e s'ella produce
degli Aristidi, degli Erodi attici, e altri tali retori di niun conto nello
stile (non barbari però, e nella lingua purissimi), ella pur
s'arricchisce d'un Arriano, d'un Plutarco, d'un Luciano, ec. che quantunque
imitatori, pur sanno così bene scrivere, e maneggiar lo stile e la lingua
antica o moderna, che quasi in parte le rendono la facoltà creatrice.
Aggiungi che in tal tempo la Grecia, colla sua letteratura e lingua incorrotta,
era serva, e l'Italia signora colla sua letteratura e lingua imbastardita e
impoverita.
(30. Luglio 1822.)
La storia di ciascuna lingua è la
storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue
è la storia della mente umana. (L'histoire
de chaque langue est l'histoire des peuples qui l'ont parlée ou qui la parlent,
et l'histoire des langues est l'histoire de l'esprit humain.).
(31. Luglio, dì di S. Ignazio Loiola. 1822.)
[2592]Intorno all'etimologia di favellare.
L'altre due voci sono FAVELLARE e CICALARE: l'una si è
dir favole; e CICALARE si è il cigolare degli uccelli.
Cellini Discorso sopra la differenza nata tra gli Scultori e Pittori circa
il luogo destro stato dato alla Pittura nelle Essequie del gran Michelagnolo
Bonarroti. fine. Opere di Benvenuto Cellini, Mil. 1806-11. vol.
3. p.261. Parla di tre voci che s'usano in lingua toscana per
esprimere il parlare, e la prima detta dal Cellini si è ragionare,
il che egli dice che vuol fare, e non favellare nè cicalare.
(2. Agosto, dì del perdono. 1822.).
Le
stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men belle, secondo che sono
più o meno lucide. Così il sole e la luna secondo che son chiari
e nitidi. Questa così detta bellezza non appartiene alla speculazione
del bello, e vuol dir solamente che il lucido, per natura, è dilettevole
all'occhio nostro, e rallegra l'animo ec. ec.
(3. Agosto. 1822.)
Alla p.2581. marg. Fra le lingue antiche, la
greca non solo ebbe infiniti scrittori prima della sua grammatica, ma prima
ancora d'ogni grammatica conosciuta. Quindi la sua inesauribile ricchezza, e la
sua assoluta onnipotenza. La lingua latina per [2593]verità non
dico che avesse Vocabolari (sebbene ebbe forse parecchie nomenclature ec. come
la greca col tempo ebbe i suoi libri detti ec. ec.),
e certo ebbe parecchi scrittori anteriori alla sua grammatica (fra' quali se
vogliamo porre Cicerone, sarà certo che questi furono i migliori), ma la
grammatica essa già l'aveva in quella della lingua greca, studiando la
qual lingua per principii e nelle scuole ec. (cosa che i greci non avevano mai
fatto con altra lingua del mondo) necessariamente i latini imparavano le regole
universali della grammatica e l'analisi esatta del linguaggio, e applicavano
tutto ciò alla lingua loro: lasciando star gl'infiniti libri di grammatica
greca che già s'avevano dal tempo de' Tolomei in giù. Quindi la
lingua latina, per antica, riuscì meno libera e meno varia d'ogni altra.
Laddove la lingua italiana scritta primieramente da tanti che nulla sapevano
dell'analisi del linguaggio (poco o nulla studiando altra lingua e grammatica,
come sarebbe stata la latina), venne, per lingua moderna, similissima di
ricchezza e d'onnipotenza alla greca. La lingua tedesca ha veramente [2594]grammatica,
ma non so quanto sia rispettata dagli scrittori tedeschi; ovvero le eccezioni
superando le regole, queste vengono ad essere illusorie, e il grammatico non
può far altro ch'andar qua e là dietro chi scrive, per vedere e notar
come scrivono. Di più ella non ha vocabolario riconosciuto per
autorevole, e questo in una lingua moderna è una gran cosa
conducentissima alla ricchezza, potenza, libertà della lingua.
(4. Agosto. 1822.)
Ho detto altrove che le voci greche nelle
lingue nostre non sono altro che termini (in proporzione però del tempo
da ch'elle vi sono introdotte: p.e. filosofia e tali altre voci greche
venuteci mediante il latino, sono alquanto più che termini), cioè
ch'elle non esprimono se non se una pura idea, senz'alcun'altra concomitante.
Per questa ragione appunto, oltre le altre notate altrove, le voci greche sono
infinitamente a proposito nelle nostre scuole e scienze, perocch'elle rappresentano
costantemente e schiettamente quella nuda, secca e semplicissima idea alla
quale sono state appropriate; e perciò servono alla precisione [2595]molto
meglio di quello che possano mai fare le voci tolte dalle proprie lingue, le
quali voci benchè fossero formate, composte ec. di nuovo, sempre
porterebbero seco qualche idea concomitante. Ma per questa medesima ragione le
voci greche sono intollerabili nella bella letteratura (barbare poi nella
poesia, benchè i francesi si facciano un pregio, un vezzo e una galanteria
d'introdurcele), dove intollerabili sono le idee secche e nude, o la secca e
nuda espressione delle idee.
(6. Agosto 1822.)
A ciò che ho detto altrove di quel
verso dell'Alfieri, Disinventore od inventor del nulla, soggiungi.
Quest'appunto è la mirabile facoltà della lingua greca, ch'ella
esprime facilmente, senza sforzo, senza affettazione, pienamente e chiarissimamente,
in una sola parola, idee che l'altre lingue talvolta non possono propriamente e
interamente esprimere in nessun modo, non solo in una parola, ma nè
anche in più d'una. E questo non lo conseguisce la detta lingua per
altro mezzo che della immensa facoltà de' composti.
[2596]Quanta sia l'influenza
dell'opinione e dell'assuefazione anche sui sensi, l'ho notato altrove
coll'esempio del gusto, che pur sembra uno de' sensi più difficili ad essere
influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi
ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di
buon sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch'essi s'avessero) m'era lodato
per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose, ch'effettivamente
secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi piacciono,
ma mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti cibi
s'è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano
che la mente mia s'è avvezzata a giudicar da se, e s'è venuta
rendendo indipendente dal giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione
che preoccupa la sensazione. La qual assuefazione ch'è propria
dell'uomo, e ch'è generalissima, potrà essere ridicolo, ma pur
è verissimo il dire che influisce anche in queste minuzie, e determina
il giudizio [2597]del palato sulle sensazioni che se gli offrono, e
cambia il detto giudizio da quello che soleva essere prima della detta
assuefazione. In somma tutto nell'uomo ha bisogno di formarsi; anche il palato:
ed è cosa facilissimamente osservabile che il giudizio de' fanciulli sui
sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è
incertissimo, confusissimo e imperfettissimo: e ch'essi in moltissimi, anzi nel
più de' casi non provano punto nè il piacere che gli uomini fatti
provano nel gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale
o tal altro. Lascio i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di
poche qualità di cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il
sentimento ch'essi ne provano) è poco meno imperfetto e dubbio che quel
dei fanciulli. Tutto ciò a causa dell'inesercizio del palato.
Del resto quello ch'io ho detto di me
stesso, avviene indubitatamente a tutti, e ciascuno se ne potrà
ricordare. Perchè sebbene non tutti, col crescere, si liberano dall'influenza
della prevenzione, [2598]e acquistano l'abito di giudicare da se generalmente
parlando, pure, in quanto alle sensazioni materiali, difficilmente possono mancare
di acquistarlo, essendo cosa di cui tutti gli spiriti sono capaci. Nondimeno
anche questo va in proporzione degl'ingegni, e della maggiore o minore
conformabilità, ed io ho espressamente veduto uomini di poco, o poco esercitato
talento, durar lunghissimo tempo a compiacersi di saporacci e alimentacci ai
quali erano stati inclinati nella fanciullezza. E ho veduto pochi uomini il cui
spirito dalla fanciullezza in poi abbia fatto notabile progresso, pochi, dico,
n'ho veduti, che anche intorno ai cibi non fossero mutati quasi interamente di
gusto da quel ch'erano stati nella puerizia.
Ben potrebbono tuttavia esser poco
conformabili i sensi esteriori, o qualcuno de' medesimi, in un uomo di
conformabilissimo ingegno. Ma si vede in realtà che questo accade di
rado, e per lo più la natura degli individui (come quella delle specie,
e dei generi, e come la natura universale) si corrisponde appresso a poco in
ciascuna sua parte. [2599]E in questo caso particolarmente ciò
è ben naturale, poichè la conformabilità non è
altro che maggiore o minor dilicatezza di organi e di costruzione; e
difficilmente si trovano affatto rozzi, duri, non pieghevoli i tali o tali
organi in un individuo che sia dilicatamente formato nell'altre sue parti. Come
infatti è osservato da' fisici che l'uomo (della cui suprema conformabilità
di mente diciamo altrove) è parimente di tutti gli animali il più
abituabile, e il più conformabile nel fisico: però il genere
umano vive in tutti i climi, e uno individuo medesimo in vari climi ec. a
differenza degli altri animali, piante ec. Così mi faceva osservare in
Firenze il Conte Paoli.
(6. Agosto. 1822.)
L'uniformità è certa cagione
di noia. L'uniformità è noia, e la noia uniformità.
D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche
l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure
è noia, come ho detto altrove, e provatolo con esempi. V'è la
continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è
uniformità, e perciò noia ancor essa, benchè il suo soggetto
sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo che le descrizioni nella
poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a continue descrizioni, hanno
tolto il piacere, e sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri
moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone di niuna
letteratura, leggere avidamente l'Eneide [2600](ridotta nella loro
lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è intendente,
e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che pur paiono scritte per chi
si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di
Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno ec. La
continuità de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose
poco differenti dai piaceri, anch'essa è uniformità, e
però noia, e però nemica del piacere. E siccome la
felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri
(qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua,
essendo nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i
modi la felicità degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e
vietare agli animali la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo
veduto parecchie volte come la Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili,
ed avutala in quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.)
Ecco come i mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e
pigliano vera e reale essenza [2601]di beni nell'ordine generale della
natura: massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali,
sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove, e di più non
interrompono il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità,
così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali.
Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l'affanno
e il male del timore all'uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec.
le infermità, e cent'altri mali inevitabili ai viventi, anche
nello stato primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno,
forse il genere e l'università loro non è accidentale) si riconoscono
per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e
quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il
qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo
perch'essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la
sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè
senza essi mali, i beni [2602]non sarebbero neppur beni a poco andare,
venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e
non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar
lungo tempo ec.
(7. Agosto 1822.).
, , . Verso di
non so qual poeta antico, applicabile e proporzionabile alle diverse età
del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle
diverse età dell'individuo. E infatti del secol nostro non è
proprio altro che il desiderio (eternamente inseparabile dall'uomo anche
il più inetto, e debole, e inattivo e non curante; per cagione dell'amor
proprio che spinge alla felicità, la qual mai non s'ottiene) e il
lasciar fare.
(7. Agosto. 1822.)
Ho mostrato altrove che quasi tutte le
principali scoperte che servono alla vita civile sono state opera del caso, e
tiratone le sue conseguenze. Voglio ora spiegare e confermar la cosa con un
esempio. L'arte di fare il vetro, anzi l'idea di farlo, e la pura cognizione di
poterlo fare (la qual arte è antichissima), è egli credibile che
sia mai potuta venire [2603]all'uomo per via di ragionamento? Cavar
dalle ceneri, e altre materie la cui specie esteriore è toto coelo distante
dalla forma e qualità del vetro (v. l'Arte Vetraria d'Antonio Neri) un
corpo traslucido, fusibile, configurabile a piacimento ec. ec. può mai
essere stato a principio insegnato da altro che da uno o più
semplicissimi e assolutissimi casi? Ora quanta parte abbia l'uso del vetro
nell'uso della vita e delle comodità civili, com'esso appartenga al
numero dei generi necessari, come abbia servito alle scienze, quante immense e
infinite scoperte si sieno fatte in ogni genere per mezzo de' vetri ridotti a
lenti ec. ec. ec., quanto debbano al vetro l'Astronomia, la Notomia, la Nautica
(tanto giovata e promossa dalla scoperta dei satelliti di Giove fatta col
telescopio ec.), tutte queste cose mi basta accennarle. Ma le accenno
affinchè si veda che quando anche le successive scoperte,
perfezionamenti ec. fatti, acquistati ec. intorno al vetro, o per mezzo del
vetro ec. non sieno stati casuali ma pensati (sebbene l'invenzione
dell'occhiale e del Cannocchiale si dice che fosse a caso): contuttociò
si debbono [2604]tutti, esattamente parlando, riconoscere per casuali,
essendo casuale la loro origine, cioè l'invenzione del vetro, senza la
quale niente del sopraddetto avrebbe avuto luogo. E però tutta quella
parte (non piccola) del sapere, dei comodi, della civiltà umana che ha
dipendenza e principio ec. dall'invenzione del vetro, e che senza questa non si
sarebbe conseguita, è realmente casuale, e per puro caso acquistata.
E che queste ed altre simili innumerevoli
scoperte sieno state veri casi, si può arguire anche dal vedere che
moltissimi popoli composti di esseri che per natura, ingegno naturale, ec.
erano e sono in tutto come noi, non essendosi dati presso loro, i casi che si
son dati presso noi, mancavano o mancano affatto di queste o quelle invenzioni
e di tutti i progressi dello spirito umano che ne son derivati: e ciò
quando anche detti popoli fossero in molta società, ed avessero fatto
molte altre scoperte, quali erano p.e. in America i Messicani, popolo in gran
parte civile, che non per tanto mancava appunto del vetro.
[2605]Di più osservo che
quantunque la Chimica abbia fatto oggidì tanti progressi, e sia
così dichiarata e distinta ne' suoi principii, in maniera da parere
ch'ella potesse e dovesse far grandi scoperte, non più attribuibili al
caso, ma solo al ragionamento; niuna mai ne ha fatta che abbia di grandissima
lunga l'importanza e l'influenza di quelle che ci son venute dagli antichi,
fatte in tempi d'ignoranza, e senza principii, o con pochissimi e indigesti e
mal intesi principii delle analoghe scienze (la scoperta della polvere, del
vetro ec.) Tutto quel ch'ha fatto è stato di perfezionar le antiche, o
di farne delle analoghe (come quella della polvere fulminante) che non si sarebbero
fatte se le antiche non fossero state già conosciute. E quel che dico
della Chimica dico delle altre scienze. Voglio inferire che quelle principali
scoperte che o subito, o col perfezionamento, accrescimento, applicazione
ch'hanno poi subìto, decisero e decidono, cagionarono e cagionano in
gran parte i progressi dello spirito umano, originariamente non sono effetti della
scienza [2606]nè del discorso, ma del puro caso, essendo state
fatte ne' tempi d'ignoranza, e non sapendosene far di gran lunga delle simili
colla maggior possibile scienza. E che per tanto tutta quella parte del sapere
e della civiltà, tutto quel preteso perfezionamento dell'uomo e della società
che dipende in qualunque modo dalle predette scoperte (la qual parte è
grandissima anzi massima), non è stato nè preordinato nè
prevoluto dalla natura, perchè quegli che non ha preordinato nè
prevoluto le cause e le prime indispensabili origini (le quali, come dico, sono
state assolutamente accidentali), non può avere ordinato nè voluto
gli effetti.
(10. Agosto, dì di S. Lorenzo. 1822.)
Quello che ho detto del vetro, si dee dire
di mille e mille altre importantissime invenzioni, che senza una benchè
menoma notizia e traccia ec. che però il solo caso ha potuto
somministrare, non si sarebbero mai potute fare, e però son tutte
casuali, per applicate, accresciute, perfezionate che sieno state in seguito, e
quando anche non si possano più riconoscere da quel che furono [2607]a
principio, non si possa neanche investigare la loro prima origine e forma e
natura, ec. ec.
(10. Agosto. 1822.)
Così tosto come il bambino è
nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli,
accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell'esistenza che gli
dà. E l'uno de' principali uffizi de' buoni genitori nella fanciullezza
e nella prima gioventù de' loro figliuoli, si è quello di
consolarli, d'incoraggiarli alla vita; perciocchè i dolori e i mali e le
passioni riescono in quell'età molto più gravi, che non a quelli
che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti,
sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la
buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio,
ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio!
perchè dunque nasce l'uomo? e perchè genera? per poi racconsolar
quelli che ha generati del medesimo essere stati generati?
(13. Agosto 1822.)
[2608]Si può scrivere in
italiano senza scrivere in maniera italiana, laddove non si può quasi
scrivere in francese che non si scriva alla maniera francese. E si può
scrivere e parlare in italiano e non all'italiana: scrivere un italiano non italiano
ec.
(16. Agosto, dì di S. Rocco. 1822.)
Sallustio, Catil. c.23. Maria montesque
polliceri. Non si trova, ch'io sappia, questo proverbio, oggi volgarissimo
in Italia, se non in questo scrittore studiosissimo delle voci e maniere
antiche, e che per conseguenza bene spesso declina alle voci e maniere
popolari, come sempre accade agli scrittori studiosi dell'antichità della
lingua, della quale antichità principal conservatrice è la plebe.
(17. Agosto. 1822.)
La nazione spagnuola poetichissima per
natura e per clima fra tutte l'Europee (non agguagliata in ciò che
dall'Italia e dalla Grecia), e fornita di lingua poetichissima fra le lingue
perfette (non inferiore in detta qualità se non all'italiana, e non
agguagliata di gran lunga da nessun'altra) non ha mai prodotto un poeta
nè un poema che sia o sia stato di celebrità veramente [2609]europea.
Tanto prevagliono le istituzioni politiche alle qualità naturali. ' (Homer.).
E questa osservazione può molto servire a quelli che sostengono la
maggiore influenza del governo rispetto al clima.
(18. Agosto. Domenica. 1822.)
L'immenso francesismo che inonda i costumi e
la letteratura e la lingua degl'italiani e degli altri europei, non è
bevuto se non dai libri francesi, e dall'influenza delle loro mode, e coll'andarli
a trovare in casa loro, il che per quanto sia frequente, non può mai
esser gran cosa. Laddove Roma e l'Italia da' tempi del secondo Scipione in poi,
e massime sotto i primi imperatori, era piena di greci (greci proprii, o nativi
d'altri paesi grecizzati); n'eran piene le case de' nobili, dove i greci erano
chiamati e ricevuti e collocati stabilmente in ogni genere di uffici, da quei
della cucina, fino a quello di maestro di filosofia ec. ec. (V. Luciano J , [2610]e
l'epig. di Marziale del graeculus esuriens ec. ec.); n'eran pieni i
palazzi e gli offici pubblici: oltre che tutti i ricchi mandavano i figli a
studiare in Grecia, e questi poi divenivano i principali in Roma e in Italia,
nelle cariche, nel foro ec. Quindi si può stimar quale e quanto dovesse
necessariamente essere il grecismo de' costumi, e letteratura, e quindi della
lingua in Italia a quei tempi. Aggiunto che anche le donne avevano a sapere il
greco, lo studio che tutti più o meno facevano de' loro libri, e il piacere
che ne prendevano, e le biblioteche che ne componevano ec. ec.
(18. Agosto. Domenica. 1822.)
Dicasi quel che si vuole. Non si può
esser grandi se non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e
opera contro ragione, e avendo la forza di vincere la propria riflessione, o di
lasciarla superare dall'entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in
essa un ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e
raffreddatrice.
(22. Agosto 1822.)
[2611]Nessuna cosa è
vergognosa per l'uomo di spirito nè capace di farlo vergognare, e
provare il dispiacevole sentimento di questa passione, se non solamente il vergognarsi
e l'arrossire.
(22. Agosto. 1822.)
Non basta che lo scrittore sia padrone del
proprio stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò
consiste la perfezion dell'arte, e la somma qualità dell'artefice.
Alcuni de' pochissimi che meritano nell'Italia moderna il nome di scrittori
(anzi tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere padroni dello stile:
vale a dir che il loro stile è fermo, uguale, non traballante, non
sempre sull'orlo di precipizi, non incerto, non legato e rétréci, come
quello di tutti gli altri nostri moderni, francesisti o no, ma libero e sciolto
e facile, e che si sa spandere e distendere e dispiegare e scorrere, sicuro di
non dir quello che lo scrittore non vuole intendere, sicuro di non dir nulla in
quel modo che lo scrittore non lo vuol dire, sicuro di non dare in un altro
stile, di non cadere in una qualità che lo scrittore voglia evitare;
procede a piè saldo senza inciampare nè dubitare di se stesso,
non va a trabalzoni, ora in cielo ora in terra, or qua or là, ec. Tutte
queste qualità nel loro stile si trovano, e si dimostrano, cioè
si fanno sentire al lettore. Questi tali son padroni del loro stile. Ma il loro
stile non è padrone delle cose, vale [2612]a dir che lo scrittore
non è padrone di dir nel suo stile tutto ciò che vuole, o che gli
bisogna dire, o di dirlo pienamente e perfettamente: e anche questo si fa
sentire al lettore. Perciocchè spessissimo occorrendo loro molte cose
che farebbero all'argomento, al tempo, ec. che sarebbero utili o necessarie in
proposito, e ch'essi desidererebbero dire, e concepiscono perfettamente, e
forse anche originalmente, e che darebbero luogo a pensieri notabili e belli;
essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le fuggono, o le toccano di fianco,
e di traverso, e se ne spacciano pel generale, o ne dicono sola una parte,
sapendo ben che tralasciano l'altra, e che sarebbe bene il dirla, o in somma
non confidano o disperano di poterle dire o dirle pienamente nel loro stile. La
qual cosa non è mai accaduta ai veri grandi scrittori, ed è
mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti scrittori sono e si
mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel cattivo italiano
che è proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a loro, anzi solo
naturale), ma non sono nè si mostrano sicuri di [2613]poter dire
nel buono italiano tutto quello che loro occorra; come lo erano i nostri antichi.
Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte cose quasi necessarie, e delle
quali si compiacerebbero se le avessero potuto e saputo dire nel buono
italiano, e la cui mancanza si sente, e che molte volte sono anche notissime a
tutti in questo secolo, essi le tralasciano avvertitamente, e le dissimulano,
almeno da qualche necessaria parte, e se ne mostrano o ignoranti, o poco
istruiti, o di non averle concepite, quando pur l'hanno fatto anche più
degli altri, e che in somma non ardiscono dirle per timore di offendere il
buono italiano e il proprio stile. Il qual timore e la quale impotenza
assicurerebbe alla letteratura e filosofia italiana di non dar mai più
un passo avanti, e di non dir mai più cosa nuova, come pur troppo si
verifica nel fatto.
(27. Agosto. 1822.)
Lo scriver francese tutto staccato, dove il
periodo non è mai legato col precedente (anzi è vizio la
collegazione e congiuntura de' periodi, come [2614]nelle altre lingue
è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè
può nè dee mai prendere quell'andamento piano, modesto
disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche
parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico io,
fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E
queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell'avventato del
suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano
degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il
lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par
proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e
perciò gli convenga spezzare il suo dire, e fare i periodi corti, per
fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). Effettivamente il tuono di qualunque
scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla ad
alta voce. Tale riesce almeno per chi non [2615]è francese, e per
chi non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec.
Quel tuono moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano
anche le loro Orazioni, e fra queste, anche [le] più veementi e
passionate, è una qualità eterogenea anche alle lettere familiari
de' francesi.
(28. Agosto 1822.)
In questa, come in molte altre
qualità, lo scriver francese si rassomiglia allo stile orientale, il
quale anch'esso per le medesime ragioni, e per loro necessaria conseguenza
è tutto spezzato, come si vede ne' libri poetici e sapienziali della
scrittura. La lingua ebraica manca quasi affatto di congiunzioni d'ogni sorta,
e non può a meno di passar da un periodo all'altro senza legame, se pure
vuol servire alla varietà, perchè altrimenti tutti i suoi periodi
comincerebbero, come moltissimi cominciano, dall'uau. Ma ciò
può esser virtù per gli orientali, essendo difetto ne' francesi:
perchè a quelli è naturale, a questi no. Neppur noi italiani,
neppur gli spagnuoli hanno quella tanta soprabbondanza di sentimento vitale, e
quella tanta veemenza e rapidità naturale e abituale e fisica
d'immaginazione che hanno gli orientali; a cui perciò riesce insoffribilmente
languido e lento quell'andamento dello scrivere che per noi è moderato,
e quelle immagini ec. che per noi tengono [2616]il giusto mezzo; e a cui
riesce moderatissimo quel che riesce eccessivo per noi. Ma se neppur gl'italiani
e neppur gli spagnuoli hanno la forza abituale e fisica della vita interna che
hanno gli orientall, molto meno ci arriveranno i francesi. E in verità
il modo del loro scrivere è per loro abito, non già natura, come
si può vedere anche ne' loro scrittori antichi.
(28. Agosto. 1822.)
La niuna società dei letterati
tedeschi, e la loro vita ritirata e indefessamente studiosa e di gabinetto, non
solo rende le loro opinioni e i loro pensieri indipendenti dagli uomini (o
dalle opinioni altrui), ma anche dalle cose. Laonde le loro teorie, i loro
sistemi, le loro filosofie, sono per la più parte (a qualunque genere
spettino: politico, letterario, metafisico, morale, ec. ed anche fisico) poemi
della ragione. In fatti delle grandi e vere e sode scoperte sulla
natura e la teoria dell'uomo, de' governi ec. ec. la fisica generale ec. n'han
fatto gl'inglesi (come Bacone, Newton, Locke), i francesi (come Rousseau,
Cabanis) e anche qualche italiano (come Galilei, Filangieri ec.), ma i tedeschi
nessuna, benchè tutto quello che i loro [2617]filosofi scrivono,
sia, per qualche conto, nuovo, e benchè i tedeschi abbondino
d'originalità in ogni genere sopra ogni altra nazion letterata (ma non
sanno essere originali se non sognando): e benchè la nazion tedesca abbia
tanti metafisici, computando anche i soli moderni, quanti non ne hanno le altre
nazioni tutte insieme, computando i moderni e gli antichi: e bench'ella sia
profondissima d'intelletto per natura, e per abito. Di più i letterati
tedeschi hanno appunto in sommo grado quello che si richiede al filosofo per
non esser sognatore, e per non discostarsi dal vero andandone in cerca: il che
i filosofi delle altre nazioni non sogliono avere. Vale a dir che i tedeschi
hanno un sapere immenso, una cognizione quasi (s'egli è possibile)
intera e perfetta di tutte le cose che sono e che furono. Ed essendo essi
così padroni della realtà per forza del loro studio, e gli altri
letterati essendo così poco padroni de' fatti, è veramente maraviglioso,
come certissimo, che [2618]laddove l'altre nazioni oramai tutte
filosofano anche poetando, i tedeschi poetano filosofando. E si può dir
con verità che il menomo e il più superficiale de' filosofi
francesi (così leggieri e volages per natura e per abito) conosce
meglio l'uomo effettivo e la realtà delle cose, di quel che faccia il maggiore
e il più profondo de' filosofi tedeschi (nazione sì riflessiva).
Anzi la stessa profondità nuoce loro: e il filosofo tedesco tanto
più s'allontana dal vero, quanto più si profonda o s'inalza;
all'opposto di ciò che interviene a tutti gli altri. (29. Agosto.
1822.). I tedeschi incontrano molto meglio e molto più spesso nel vero
quando scherzano, o quando parlano con una certa leggerezza e guardando le cose
in superficie, che quando ragionano: e questo o quel romanzo di Wieland
contiene un maggior numero di verità solide, o nuove, o nuovamente
dedotte, o nuovamente considerate, sviluppate ed espresse, anche di genere
astratto, che non ne contiene la Critica della ragione di Kant.
(30. Agosto 1822.). Vedi l'abbozzo del mio discorso sopra i
costumi presenti degl'italiani.
[2619]È curioso l'osservare
come l'universalità sia passata dalla lingua greca ch'è la
più ricca, vasta, varia, libera, ardita, espressiva, potente, naturale
di tutte le lingue colte, alla francese ch'è la più povera,
limitata, uniforme, schiava, timida, languida, inefficace, artifiziale delle
medesime. E più curioso che l'una e l'altra lingua abbiano servito
all'universalità appunto perchè possedevano in sommo grado le
predette qualità, che sono contrarie direttamente fra loro. E pur
tant'è, ed anche oggidì dalla lingua francese in fuori, non
v'è, e mancando la lingua francese, non vi sarebbe lingua meglio adattata
all'universalità della greca, ancorchè morta, (2. Settem. 1822.)
ed ancorch'ella sia precisamente l'estremo opposto alla lingua francese.
(2. Sett. 1822.)
Alla p.1271. Io tengo per certissimo che
l'invenzione dell'alfabeto sia stata una al mondo, voglio dir che la scrittura
alfabetica non sia stata inventata in più luoghi (o al medesimo tempo o
in diversi tempi) ma in un solo, e da [2620]questo sia passata la
cognizione e l'uso della detta scrittura di mano in mano a tutte le nazioni che
scrivono alfabeticamente. Non è presumibile che un'invenzione
ch'è un miracolo dello spirito umano (o forse ha la sua origine dal caso
come il più delle invenzioni strepitose) sia stata ripetuta da molti,
cioè fatta di pianta da molti spiriti. E la storia conferma ciò
ch'io dico. 1. Le nazioni che non hanno, o non hanno avuto commercio con alcun'altra,
o con alcun'altra letterata, non hanno avuto o non hanno alfabeto. Cento altre
nostre cognizioni mirabili si son trovate sussistenti presso questo o quel popolo
nuovamente scoperto: l'alfabeto (primo mezzo di vera civilizzazione) non mai.
Il Messico avea governo, politica, nobiltà, gerarchie, premi militari,
anzi Ordini cavallereschi rimuneratorii del merito, calendario, architettura, idraulica,
cento belle arti manuali, navigazione, ec. ec. ed anche storie e libri geroglifici,
ma non alfabeto. La China ha inventato polvere, bussola, e fino la stampa; ha
infiniti libri, ha prodotto un Confucio, [2621]ha letteratura, ha gran
numero di letterati, fino a farne più classi distinte, con graduazioni,
lauree, studi pubblici ec. ec. ma non ha alfabeto (benchè i libri cinesi
si vendano tutto dì per le strade della China al minutissimo popolo, e
anche ai fanciulli, e la professione del libraio sia delle più ordinarie
e numerose). 2. Si sa espressamente per tradizione che gli alfabeti son passati
da paese a paese. La Grecia narra d'avere avuto il suo dalla Fenicia;
così ec. ec. ec. 3. Grandissima parte degli alfabeti dimostra
l'unità dell'origine guardandone sottilmente o il materiale, o i nomi
delle lettere (come quelli del greco paragonati agli ebraici ec. ec.). E
questo, non ostante che le nazioni siano disparatissime, e niun commercio sia
mai stato fra talune di esse, come tra gli ebrei e i latini antichi che
ricevettero l'alfabeto (forse) dalla Grecia, che l'ebbe dalla Fenicia, che
l'ebbe da' samaritani o viceversa ec. ec. e così l'alfabeto latino vien
pure a ravvicinarsi sensibilmente all'ebraico. [2622]4. Se alcuni
alfabeti non dimostrano affatto alcuna somiglianza con verun altro, nè
per figura nè per nomi ec. ciò non conclude in contrario. Ma vuol
dire, o che l'antichità tolse loro, o agli alfabeti nostri ogni vestigio
della loro primissima origine; o piuttosto che quelle tali nazioni ricevendo
pur di fuori, come le altre, l'uso della scrittura alfabetica, o non adottarono
però l'alfabeto straniero, o adottatolo lo vennero appoco [appoco]
perfezionando, cioè accomodando alla loro lingua, finchè lo mutarono
affatto: o vero tutto in un tratto gliene sostituirono un altro nuovo e proprio
loro, come fu dell'alfabeto armeno, sostituito al greco ch'era stato usato fino
allora dalla nazione, la quale col mezzo di esso aveva imparato a scrivere, e conosciuto
l'uso dell'alfabeto, del che vedi p.2012.
(2. Sett. 1822.)
Le nazioni civili dell'Asia, dopo la
conquista d'Alessandro erano veramente
cioè parlavano e scrivevano la lingua greca, non come propria, ma come
lingua colta, e nota universalmente, [2623]e letta da per tutto (e così
deve intendersi il luogo di Cic. pro Archia), e come noi o gli svedesi o
i russi o gli olandesi scrivono il francese: noi (più di rado) per
cagione della sua universalità; quegli altri, come anche i polacchi, e
al tempo di Federico i prussiani, per non aver lingua che sia o fosse ancora
abbastanza capace ec. Nè si dee credere che le lingue patrie di quelle
nazioni, fossero spente, neanche diradate dall'uso, e sostituita loro la greca
nella conversazione quotidiana, come accadde della latina, nelle nazioni
latinizzate. Restano anche oggi le lingue asiatiche antiche, o dialetti derivati
da quelle, o composti di quelle e d'altre forestiere, come dell'arabica ec. E
v. ciò che s'è detto altrove di Giuseppe Ebreo, e Porfirio Vit.
Plotini c.17. nel Fabric. B. G. t.4. p.119-120. (e quivi la nota) . Di
questi che scrivevano
in lingua non loro, e pure scrivevano anche egregiamente, fu Luciano da
Samosata, v. le sue opp., dove fa cenno della sua lingua patria, e tali altri
di que' tempi; anzi tutti gli Asiatici [2624]che scrissero in greco
(eccetto quelli delle Colonie, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo ec.), alcuni
Galli non Marsigliesi nè d'altra colonia greco-gallica (come Favorino),
alcuni Africani, massime Egiziani (perchè nel resto dell'Affrica, esclusa
la Cirenaica, trionfò la lingua latina, ma come lingua de' letterati e
del governo ec. non come popolare, per quanto sembra), alcuni italiani (come M.
Aurelio) ec. ec.
(9. Sett. 1822.)
Questo appunto fu quello che la lingua
latina non ottenne mai, o quasi mai, cioè d'esser bene intesa, parlata,
letta, scritta da quelli che non la usavano quotidianamente come propria, e
così si deve intendere il citato luogo di Cic. latina suis finibus,
exiguis sane, continentur. Pur non erano tanto ristretti neppur allora,
quanto all'uso quotidiano, essendo già stabilito il latino in Affrica
ec.
Visto non è altro che una contrazione
del participio visitus (come quisto di quesitus in
ispagnuolo), ignoto agli scrittori latini.
(14. Sett. 1822.)
Per la Dissertazione dell'antico volgare
latino vedi fra gli altri il Pontedera, Antiquitatum latinarum
graecarumque enarrationes atque emendationes. Patav. Manfrè, typis Seminarii, 1740. 4to epist. 1.2.
principalmente.
(15. Sett. dì della B. V. Addolorata. 1822.). V. anche il
Lanzi Saggio sulla lingua etrusca.
Ho detto in più luoghi che l'opinione
è Signora degli individui e delle nazioni, che [2625]tali sono e
furono e saranno quelli e queste, quali sono o furono o saranno le loro
opinioni e persuasioni e principii. La cosa è naturalissima, e conseguenza
necessaria dell'amor proprio in un essere ragionante. Perocchè l'amor
proprio porta l'uomo a sceglier sempre quello che se gli rappresenta come suo
maggior bene. Ma qual cosa se gli rappresenti come tale, ciò dipende
dall'opinione, e così la libertà dell'uomo è sempre
determinata dall'intelletto. Quindi sebben l'uomo alle volte si scosta da' suoi
principii, considerando per allora come suo maggiore bene quello che pur
è contrario ai medesimi, nondimeno è naturale che la massima
parte delle operazioni, desiderii, costumi ec. sì degl'individui
sì de' popoli sia conforme ai principii tenuti dal loro intelletto
stabilmente e abitualmente.
(16. Sett. 1822.)
Ho detto altrove che le antiche nazioni si
stimavano ciascuna di natura diversa dalle altre, [2626]non
consideravano queste come loro simili, e quindi non attribuivano loro nessun
diritto, nè si stimavano obbligate ad esercitar cogli esteri la
giustizia distributiva ec. se non in certi casi, convenuti generalmente per
necessità, come dire l'osservazion de' trattati, l'inviolabilità
degli araldi ec. cose tutte, la ragion delle quali appoggiavano favolosamente
alla religione, come quelle che da una parte erano necessarie volendo vivere in
società, dall'altra non avevano alcun fondamento nella pretesa legge
naturale. Quindi gli araldi amici e diletti di Giove presso Omero ec. quindi il
violare i trattati era farsi nemici gli Dei (v. Senof. in Agesilao) ec. Ho
citato l'Epitafios attribuito a Demostene per provare che questa falsa, ma
naturale idea della superiorità loro ec. ec. sulle altre nazioni, le
confermavano [2627]le nazioni antiche, e poi le fondavano sulle favole,
e sulle storie da loro inventate, tradizioni ec. dando così a questo
inganno una ragione, e una forza di massima e di principio. Anche più
notabile in questo proposito è quel che si legge nel Panegirico d'Isocrate
verso il principio, dove fa gli Ateniesi superiori per natura ed origine a
tutti gli uomini. V. anche l'oraz. della Pace, dove paragona gli Ateniesi coi, e coi .
Similmente il popolo Ebreo chiamavasi il popolo eletto, e quindi si poneva
senza paragone alcuno al di sopra di tutti gli altri popoli sì per
nobiltà, sì per merito, sì per diritti ec. ec. e spogliava
gli altri del loro ec. ec.
(25. Settembre 1822.)
Pausa, posa, posare (per
riposare), riposo, riposare (reposare) e simili vengono indubitatamente [2628]da
ec.
(28. Sett. 1822.)
Isocrate nel Panegirico p.133. cioè
prima del mezzo, (quando entra a parlare delle due guerre Persiane) lodando i costumi
e gl'istituti di coloro che ressero Atene e Sparta innanzi al tempo d'esse
guerre, dice, , .
(30. Settembre 1822.)
Isocrate nel Panegirico p.150, cioè
poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da' fautori de' Lacedemoni () alle
loro città, dice dei medesimi: , , , (parla
dei privati cioè di ciascun cittadino) J , J , J . [2629] , J JJ. E
veramente l'abito della propria sventura rende l'uomo crudele , come
dice costui. (30. Sett. 1822.). Vedi la p. seg. pensiero primo.
Da quello che altrove ho detto e provato,
che il piacere non è mai presente, ma sempre solamente futuro, segue che
propriamente parlando, il piacere è un ente (o una qualità) di
ragione, e immaginario.
(2. Ott. 1822.)
A ciò che ho detto altrove delle voci
ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, hermita ec. tutte fatte dal
greco , aggiungi
lo spagnuolo ermo, ed ermar (con ermador ec.) che
significa desolare, vastare, appunto come il greco . (3.
Ottobre. 1822.). Queste voci e simili sono tutte poetiche per l'infinità
o vastità dell'idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali
immagini di solitudine, silenzio ec.
Le sensazioni o fisiche o massimamente
morali che l'uomo può provare, sono, niuna di vero piacere, ma
indifferenti o dolorose. Quanto alle indifferenti la sensibilità non
giova nulla. Restano solo le dolorose. Quindi la sensibilità,
benchè [2630]assolutamente considerata sia disposta
indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però
non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi
è che necessariamente l'uomo sensibile, sentendo più vivamente
degli altri, e quel che l'uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo
altro che dolore, dev'esser più infelice degli altri. Egli più
capace d'infelicità, e questa capacità non può mancar
d'esser empiuta nell'uomo.
(5. Ottobre 1822.)
Ho detto altrove che il timore è la
più egoistica delle passioni. Quindi ciò ch'è stato
osservato, che in tempo di pesti, o di pubblici infortuni, dove ciascun teme
per se medesimo, i pericoli e le morti de' nostri più cari, non ci
producono alcuno o quasi alcun sentimento.
(5. Ottobre. 1822.)
Ho detto che gli scrittori greci hanno
ciascuno un vocabolarietto a parte, dal quale [2631]non escono mai o
quasi mai, e nella totalità del quale ciascun d'essi si distingue
benissimo da ciascun altro, e ch'esso vocabolario, massime ne' più antichi
è molto ristretto, e che la lingua greca ricchissima in genere, non
è più che tanto ricca in veruno scrittore individuo; e tanto meno
è ricca quanto lo scrittore è più antico e classico, e
quindi i più antichi e classici si distinguono fra loro nelle parole e
frasi più di quel che facciano parimente fra loro i più moderni,
che son più ricchi assai, ed abbracciano ciascuno una maggior parte
della lingua, onde debbono aver fra loro più di comune che gli antichi
non hanno fra loro medesimi, come che le parole e frasi di ciascuno
generalmente prese, sieno tutte ugualmente proprie della lingua.
Tutto ciò si dee specialmente
intendere [2632]delle radici, nelle quali gli antichi greci sono
ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi gli uni dagli
altri, nella totalità del Vocabolario delle medesime. Laddove i moderni
ne sono incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche
più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti;
rispetto p.e. ad Isocrate, Senofonte ec.), ed hanno in esse radici molto
più di comune fra loro. Ma quanto ai composti o derivati fatti da quelle
radici che sono familiari a ciascuno di loro, niuno scrittor greco è
povero, nè scarso, nè troppo uniforme. Ma quando mai, sarebbero
più poveri in questa parte i più moderni, che i più
antichi. Certo sono più timidi e servili, ed attaccati all'esempio de'
precedenti, e parchi e ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La
qual novità quanto alle voci, non può consistere in greco se non
se in nuovi composti o derivati.
(5. Ott. 1822.)
[2633]Dalle suddette cose si
può conoscere che l'immensa ricchezza della lingua greca, non
pregiudicava alla facilità di scriverla, e quindi non s'opponeva alla
sua universalità, non essendo necessaria più che tanta ricchezza
(o usata o conosciuta e posseduta) non solo per iscrivere e parlar greco, ma
eziandio per iscriverlo e parlarlo egregiamente; e bastando poche radici per
questo; poichè restavano liberi i composti all'arbitrio dello scrittore,
o quando anche non restassero liberi, infiniti composti e derivati portava seco
ciascuna radice, onde lo scrittore pratico di poche radici veniva subito ad
avere una lingua molto sufficiente a tutti i suoi bisogni. Il che scemava infinitamente
la difficoltà che si prova nelle lingue, perchè un vocabolario
sufficientissimo [2634]allo scrittore o parlatore si riduceva sotto
pochi elementi, e procedeva da pochi principii ossia radici, e quindi era molto
più facile ad impararlo ed impratichirsene, che se esso senza essere
niente maggiore, avesse contenuto tutta la lingua, ma fosse proceduto da
più numerose e diverse radici. Tutte queste circostanze siccome quelle
notate nel pensiero precedente non si trovavano nella lingua latina, che meno
ricca della greca, era però per la sua ricchezza più difficile a
scrivere e a parlare che la greca non fu, perchè la ricchezza
(ancorchè minore) della latina, bisognava averla tutta in contanti, a volere
scrivere e parlar latino, e massimamente a farlo bene. E l'orecchie latine erano
delicatissime come le francesi, circa il vero e [2635]proprio andamento
(e la purità) della loro lingua, che rispetto alla greca era
liberissimo, cioè sommamente vario, ed in gran parte ad arbitrio.
(8. Ottobre. 1822.)
La lingua greca ch'è la più
antica delle colte ben conosciute, è anche fra tutte le lingue colte la
più capace di significar l'idee e gli oggetti più propriamente moderni
cioè i più difficili a significarsi e di supplire ai bisogni
d'espressioni, prodotti dall'ampiezza, varietà e profondità delle
nozioni moderne. E il fatto stesso lo dimostra, ricorrendosi tutto dì
alla lingua greca ec. come ho detto altrove.
(10. Ottobre. 1822.)
, , , (. . ) J , [2636] (all.
codd. ) . Isocr. p.37.
cioè a meno di tre piccole pagine dal principio dell'Oraz.
(10. Ott. 1822.)
Non c'è regola nè idea
nè teoria di gusto universale ed eterno. Qual potreb'ella essere, se non
la natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può immaginare e intendere
e concepire da noi, fuori della natura?) ma qual natura, se non l'umana?
Poichè le cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del
cattivo gusto, non sono considerate se non per rispetto all'uomo. Or non
è ella cosa manifestissima, che la natura dell'uomo si diversifica moltissimo
secondo i climi, secoli, costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze
fisiche, morali, politiche, ec. e queste, individuali, nazionali ec. ec.? Resta
dunque per tutta idea e teoria di gusto [2637]universale ed eterno, un
idea ed una teoria, che comprenda solamente, e si fondi, e si formi di quei
principii che, relativamente al gusto, si trovano esser comuni a tutti gli uomini,
e tenere alla primitiva e immutabile natura umana. Ma questi principii, dico io
che sono pochissimi, ed applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi di
numerosissime e diversissime conseguenze (siccome lo sono tutti i principii naturali,
e veramente elementari, perchè la natura è semplicissima, pochi
principii ha posto, e questi, infinitamente e diversissimamente e anche
contrariamente[17]
modificabili): dal che segue che questa idea e questa teoria d'un gusto che sia
veramente universale ed eterno, si riduce a pochissime regole, ed è
infinitamente meno circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e
lascia luogo a infiniti [2638]gusti diversissimi ed anche contrarii fra
loro (che noi riproviamo, e perchè ripugnano al gusto nostro o
individuale o nazionale, e questo forse momentaneo, li crediamo, al nostro
solito, contrarii all'universale ed eterno): anzi non solo lascia loro luogo,
ma li produce, non meno che quello ch'a noi pare il solo vero buon gusto ec.
(13. Ott. 1822.)
Ma senza alcun fallo gli uomini comunemente
hanno questo difetto, e tutti generalmente in ciò pecchiamo, che noi
della nostra vita speriamo assai, ed il nostro tempo largo misuriamo, e dello
altrui per lo contrario sempre temiamo, e siamone scarsi e solleciti, debole e
breve reputandolo. Perocchè chi è quello che tanto oltre sia, o
che così vicino alla fossa abbia il piede, che non si faccia a credere
di dover quattro o sei anni poter [2639]campare, e che a ciò ogni
cosa opportuna non apparecchi? Veramente io credo che niuno ce ne abbia fra
noi; nè maraviglia sarebbe di ciò, se noi questa medesima
speranza avessimo similmente della altrui vecchiezza, che noi abbiamo della
nostra, e non ci facessimo beffe in altrui di quello che in noi medesimi
approviamo. Casa, Orazione seconda per la Lega. Lione (Venezia) appresso Bartolommeo
Martin. senza data di tempo. appiè del 3. tomo delle opere del Casa,
Venez. Pasinelli 1752. p.41. Tre altre pagine mancano per la fine dell'Oraz.
(13.-14. Ottobre. 1822.)
Ho detto altrove che gran parte delle voci
che in poesia si chiamano eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali,
se non per esser fuori dell'uso comune e familiare, nel quale già furono
una volta (o furono certo nell'uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente
per essere antiche rispetto [2640]alla moderna lingua, benchè non
sieno antiquate. E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono
oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto ancora che per tal
cagione, non potendo i primi poeti o prosatori di niuna lingua, aver molte voci
nè frasi antiche da usare ne' loro scritti, e quindi mancando
d'un'abbondantissima fonte d'eleganza, è convenuto loro tenersi per lo
più allo stile familiare, come familiarissimo è il Petrarca ec.,
e sono stati incapaci dell'eleganza Virgiliana.
Aggiungo ora che in fatti la poesia,
appresso quelle nazioni ch'hanno lingua propriamente poetica, cioè
distinta dalla prosaica (e ciò fu tra le antiche la greca, e sono tra le
moderne l'italiana e la tedesca, e un poco fors'anche la spagnuola) è
conservatrice [2641]dell'antichità della lingua, e quindi della
sua purità, le quali due qualità sono quasi il medesimo, se non
che la prima di queste due voci dice qualcosa di più.
Dell'antichità, dico, è conservatrice la lingua poetica,
sì ne' vocaboli, sì nelle frasi, sì nelle forme, sì
eziandio nelle inflessioni, o coniugazioni de' verbi, e in altre
particolarità grammaticali. Nelle quali tutte essa conserva (o segue di
tratto in tratto a suo arbitrio) l'antico uso, stato comune ai primi prosatori,
e quindi sbandito dalle prose. Ed ha notato il Perticari nel Trattato degli
Scrittori del Trecento che in tanta corruzione ultimamente accaduta della
nostra lingua parlata e scritta, lo scriver poetico s'era pur conservato e si
conserva puro; il che fino a un certo segno, e massime ne' versificatori [2642]che
non hanno molto preteso all'originalità (come gli arcadici, i frugoniani
ec. a differenza de' Cesarottiani ec.) si trova esser verissimo. Così fu
nella lingua greca, che la poesia fu gran conservatrice delle parole, modi,
frasi, inflessioni, e regole e pratiche grammaticali antiche. Ond'ella ha una
lingua tutta diversa dalla sua contemporanea prosaica. E ciò accade
(parlo del conservar l'antichità e purità della lingua), accade,
dico, proporzionatamente anche nelle poesie che non hanno lingua appartata,
come la francese, e forse l'inglese. Se non altro, queste poesie sono sempre
più pure dello scriver prosaico appresso tali nazioni, rispetto alla lingua.
(15. Ottobre 1822.)
Mania, smania, smaniare e lo
spagnuolo mania, e il francese manie, maniaque ec. dal greco , ec.
cioè furor, furere ec. furore frenesia ec.
(22. Ottobre. 1822.)
[2643]L'amor della vita cresce
quasi come l'amor del danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe
scemare. Perciocchè i giovani disprezzano e prodigano la vita loro,
ch'è pur dolce, e di cui molto avanza loro; e non temono la morte: e i
vecchi la temono sommamente, e sono gelosissimi della propria vita, ch'è
miserabilissima, e che ad ogni modo poco hanno a poter conservare. E
così il giovane scialacqua il suo, come s'egli avesse a morire fra pochi
dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come s'avesse a
provvedere a una lunghissima vita che gli restasse.
(24. Ottob. 1822.)
Cara spagn. cioè faccia,
e così cera, e chère nello stesso senso, vengono
dal greco. V. Perticari Apol. di Dante part.2. c.5. not.1. p.75.
(28. Ott. 1822.)
È bello a paragonare il luogo di
Cicerone pro Archia da me recato altrove, sulla ristrettezza geografica [2644]della
lingua latina al suo tempo, col luogo di Plutarco sulla sua immensa
propagazione a tempo di Traiano, il qual luogo è portato dal Perticari
l. sop. cit. c.8. princip. p.88. (28. Ottob. 1822.). Vedi anche il med. Pertic.
ib. p.89. e 92-94.
L'uomo odia l'altro uomo per natura, e
necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali
è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura non si
può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto
e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale,
politico, filosofico, d'opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima
ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare
che la società cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli
degli uomini fra loro, vadano secondo le regole di quelli che si chiamano
diritti sociali, e doveri dell'uomo verso l'uomo.
(2. Nov. dì de' Morti. 1822.)
[2645]Se l'uomo esce fuori della
naturale puritade, allora pecca. Servando dunque la nostra condizione e
virtù, bastiti o uomo, lo naturale ornamento, e non mutare l'opera
del tuo Creatore, perocchè volerla mutare è un guastare. Vite
de' Santi Padri, parte 1. capitolo 9. fine, p.25. e son degne d'esser vedute
anche le cose precedenti a queste parole. Le quali sono in bocca di
Sant'Antonio, e nella sua Vita, il cui testo originale greco è di S.
Atanasio.
(Recanati - Roma. Novembre. 1822.)
La storia greca, romana ed ebrea contengono
le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza.
Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e
più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo
modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza massimamente, [2646]delle
cognizioni, de' pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le
dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse
unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse
che non può esserci mai ispirato da verun'altra storia, sia anche
più bella, varia, grande, e per se più importante delle
sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le
più note; perchè sono le più domestiche, familiari,
pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto,
ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò
elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti storici veramente
propri d'epopea, di tragedia, ec. [2647]e all'interesse dei detti
argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto,
nè con veruna industria, cavando argomenti o dall'immaginazione, o dalle
altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella
della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi
più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio,
l'hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e
perch'ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più
legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca
e romana, e neanche l'ebrea. Tutto ciò è relativo, e l'interesse
delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche
qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell'essere le medesime
familiari [2648]a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual
circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec.,
questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre
storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato.
(Roma. 25. Nov. 1822.)
La
formation d'une langue est l'oeuvre des grands écrivains; l'Italie en compte
trop peu: plus de la moitié de l'esprit et du coeur humain n'a pas encore passé
sous la plume des Italiens, et par conséquent dans leur langue. Lettres sur
l'Italie par Dupaty en 1785. let.41. Tome 1. à Gênes 1810, p.185. Non solo
dello spirito e del cuore umano, ma neppur la metà delle cognizioni che
sopra queste materie s'avevano al tempo di Dupaty, e molto meno di quelle che
s'hanno presentemente.
(30. Nov. 1822. Roma.)
[2649]Sopra i dialetti della lingua
latina. Estratto da un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un
Viaggiatore oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie
di Roma t.2. p.58-70. (Genn. 1821.). = L'antica lingua di questi popoli
(Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di riconoscere dalle
inscrizioni raccolte dal Maffei: ed è probabile che gli originarj
dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia, sieno una rimota
cagione della varietà de' linguaggi che vi si parlano presentemente.
[2650]Ma checchè sia pure
degli elementi della lingua loro (de' primi Veneti), è cosa notoria
ch'essi ne avevano una a se, comunque fosse composta; la quale rimase in
seguito, come le altre di tutti gl'Italiani aborigeni, assorta nel Latino; e
molte prove si potrebbero addurre per dimostrare che una tal lingua (come accadde
di quella dei Galli ec.) tinse de' suoi propri colori la massa colla quale si
confuse (la lingua latina): e le Iscrizioni lapidarie raccolte dal Maffei nel
territorio Veneto fanno vedere quella stessa provincialità antica (benchè
di un genere diverso) che caratterizza quelle delle Colonie Galliche; e vi si
riconosce lo stesso scambiamento di lettere che è frequentissimo nel dialetto
Veneto che ora si parla. Cicerone nelle sue Lettere familiari fa menzione [2651]di
certi termini che erano in voga in queste provincie (Venete), e sconosciuti a
Roma. Tito Livio fu accusato di patavinità o padovanismo (checchè
si debba intendere sotto questa espressione): fu anche detto di Catullo d'aver
egli introdotte certe nuove forme di dire nella Lingua Latina: e si potrebbero
addurre alcune prove di questi suoi Veronismi. Ne sia una il nome di Pronus
con cui egli chiama un torrente: termine che io non so che sia usato da alcun
altro. Nè si supponga che questo non sia che uno degli ordinarj ed adattati
epiteti sostituiti al sostantivo. Giacchè Pronio nella provincia
di Verona ritiene anche presentemente il significato di Torrente. Ho già
fatto sentire l'opinione in cui sono che quello ch'io cerco di dimostrare [2652]relativamente
agli Stati Veneti (l'antichissima origine di quegli elementi e proprietà
del suo dialetto che non vengono dal latino, e non sono del comune Italiano; e
la loro derivazione dalla lingua veneta anteriore al latinizzamento di quella
provincia, qualunque fosse essa lingua), possa probabilmente applicarsi all'Italia
tutta. In conferma della qual opinione giova il ricordare che l'Algarotti cita,
non so dove, una lettera di Varo a Virgilio, nella quale commentando un certo epigramma,
critica la parola putus asseverando non essere Latina. Presentemente il
vocabolo Putto, quantunque naturalizzato nell'Italiano, credo
però che sia usato familiarmente dai soli Mantovani, e ne' paesi
confinanti, e che non sarebbe inteso dal volgo di Toscana. = p.62-63.
(3. Dic. 1822.)
[2653]Da rullus cioè
circulator, roule, rouler etc.
(8. Dic. 1822. dì della Concezione di Maria SS.a)
Alla p.2441. Luciano nel Dial. , dopo i
due terzi del Dial. in bocca di Caronte dice: , , (J) , , . , , .
(Roma 13. Dic. 1822.)
Il vero certamente non è bello: ma
pur anch'esso appaga o, se non altro, affetta in qualche modo l'anima, ed
esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero,
arrivando al quale, l'uomo pur si diletta e compiace, ancorchè brutto e
misero e terribile sia questo tal vero. Ma la peggior cosa del mondo, e la maggiore
infelicità dell'uomo si è trovarsi privo del bello e del vero,
trattare, convivere con ciò che non è nè bello nè
vero. Tale si è la sorte di chi vive nelle città grandi, dove
tutto è falso, e questo falso non è bello, [2654]anzi
bruttissimo.
(Roma 13. Dic. 1822.)
Codicis (Vatic. Cic. de Repub.) orthographia miris laborat varietatibus et inconstantia.
Est enim id fatum latinae scripturae ac pronunciationis, quod grammaticorum tot
pugnantia praecepta infinitaeque quaestiones demonstrant. Hinc merito
Cassiodorius (Inst. praef.) orthographia apud graecos plerumque sine ambiguitate
probatur expressa; inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta monstratur;
unde etiam modo studium magnum lectoris inquirit. Exempli gratia, labdacismus
(for. lambdacismus, sed in emendd. nihil) proprius Afrorum fuit; sicut colloquium
pro conloquium, teste Isidoro (Orig. 1. 32.) Quid porro? nonne ipsa
latinitas, uti observabat Hieronymus (Prol. lib. II. comm. ad Gal.) (scil. ad
ep. S. Paul. ad Galat.) et regionibus quotidie mutabatur et tempore? postea
praesertim quam tanta barbarorum peregrinitas in imperium rom. infusa est,
lingua autem generis quarti esse coepit, quod Isidorus (Orig. IX. 1.) mixtum
appellat. Maius. M. Tulli Cic. de Re pub. quae supersunt edente [2655]Ang.
Maio Vaticanae Bibliothecae praefecto. Romae in Collegio Urbano apud
Burliaeum 1822. Praefat. cap.13. p.
XXXVII.
(Roma. 16. Dic. 1822.)
Ed in vece di et si legge nel Cod.
antichissimo vaticano palimpsesto della rep. di Cic. l.1 c.3. p.10. dell'ediz.
qui sopra citata, ed disertos; e c.15. p.43. ed ipse, come
avverte il Mai nelle note, benchè nel testo riponga et. (17. Dic.
1822.). Anzi ivi l.3. c.2. p.218. dove l'ediz. ha et ut, il copista avea
scritto nel cod. e ut, e l'antico emendatore fece ed ut, forse
schivando il concorso delle due sillabe simili et, ut.
Quin adeo de fin. 1. 3. ausus est
Cicero latinam quoque linguam dicere locupletiorem quam graecam, qua de re
saepe se disseruisse confirmat. Sed contradicunt merito primum ipse Cicero tusc.
II. 15. et apud Augustinum contra acad. II. 26; tum Lucretius 1. 140.
831; Fronto apud Gellium II. 26. Maius ad Cic. de repub. p.67. not.
(18. Dic. 1822.)
De Massiliae graecis legibus et litteratura,
triplicique lingua, graeca scilicet, latina et gallica, lege Varron. apud Isid.
Orig. XV. 1. 63. et ap. Hieron. prolog. lib. II. comm. ad Gal. (scil. in ep. D. Pauli
ad Galat.). Confer etiam
Caesarem Bell. Civil. II. 12. Tacitum Agric. IV. Silium XV. 169. Homeri editio
seu recensio massiliensis [2656]laudatur inter nobiles in scholiis
venetis. Maius loc. sup. cit. p.75. not.1.
(18. Dic. 1822.)
Quod quantae fuerit utilitati post videro (onninamente per videbo) Cic. de re publ.
l.2. c.9. Rom. 1822. p.142. v. ult. Luogo da aggiungersi a quelli che ho recati
altrove per dimostrare l'uso antico del futuro ottativo in vece del futuro indicativo;
uso da cui sono nati tutti i futuri di tutti i verbi italiani francesi e spagnuoli,
distintiva de' quali futuri e caratteristica è sempre la r.
(19. Dic. 1822.)
Ad Cic.
de re publ. II. 10. p.143. v.
ult. ubi legitur septem, haec Maius editor ib. not. c. Cod. SEPTE. Iam M finalem omitti interdum in antiquis
codicibus exploratum est. An vero illud SEPTE e lingua rustica est?
Certe ita fere nunc loquuntur Itali. (19. Dic. 1822.). Nel Conspectus
Orthographiae Codicis Vaticani aggiunto dal Niebuhr a questa ediz., si legge p.352.
col.2. SEPTE (II. 10.) et MORTUS (II. 18.) a desciscente in vulgarem sermone
tracta sunt. Le sillabe finali am em ec. s'elidevano ne' versi. Dunque l'm
infatti non si pronunziava. V. i miei pensieri sulla sinizesi. V. la pag.2658.
, , , . Plato de rep. l.8. p.563. Il qual
luogo è riportato da Cic. de rep. 1. 44. p.111-112. (citato il [2657]nome
di Platone fin dal c. preced. p.107.), esprimendolo liberamente così:
Sic omnia nimia, cum vel in tempestate vel in agris vel in corporibus laetiora
fuerunt, in contraria fere convertuntur, maximeque (suppl. cum Maio, id)
in rebus publicis evenit. Le quali sentenze fanno a quella mia, che il troppo
è padre del nulla. In fatti, come seguono a dire Cic. e Plat. dalla
troppa libertà nasce la servitù, cioè, dicon essi, il
contrario della libertà, ed io dico, il nulla della libertà,
cioè la fine; la niuna libertà.
(19. Dic. 1822.)
Quoties g est ante n, toties
memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum divideretur (nel fine o
della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori vocabuli parti, n
autem posteriori. Ergone Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare
haec verba videntur? Maius ad Cic. de re
publ. II. 19. p.165. v.7. (dove la pag. del cod. finisce in mag, e la
seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20.
Dic. 1822.). Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti questi
codd. come p.e. in Ispagna. V. p.3762.
[2658]Nella republ. di Cic.
succitata, al c.37. del lib.2. p.203. v.1.-2, dove l'edizione ha res publica
richiedendosi in fatti il nominativo, il Cod. ha repubblica, quasi
fosse italiano. Dal che apparisce che anche anticamente s'usava di tralasciare
l's finale nel pronunziare le voci latine, come si lascia nelle nostre
lingue. (21. Dic. 1822.). Infatti è nota l'apocope della s nella
fine delle voci presso gli antichi poeti latt. V. la p.2656, marg.
Eademque (mens aut ratio aut
sapientia, ut supplet Maius in notis et in addendis, nam superiora in cod.
desiderantur) cum accepisset homines inconditis vocibus incohatum quiddam et
confusum sonantis (sonantes), incidit (incídit) has et distinxit
in partes; ET UT SIGNA QUAEDAM, SIC VERBA REBUS INPRESSIT, hominesque
antea dissociatos iucundissimo inter se sermonis vinclo conligavit. A simili
etiam mente, vocis qui videbantur infiniti soni, paucis notis inventis, sunt omnes
signati et expressi, quibus et conloquia cum absentibus et indicia voluntatum,
et monumenta rerum praeteritarum tenerentur. ACCESSIT EOS NUMERUS, (post
interventas scil. voces et litteras) RES CUM AD VITAM NECESSARIA, tum [2659]una
inmutabilis et aeterna: quae prima inpulit etiam ut suspiceremus in caelum, nec
frustra siderum motus intueremur, di numerationibusque noctium ac dierum...
(desunt reliqua) Cic. De re publica, l.3. c.2. Rom. 1822. p.218-9.
(22.
Dic. 1822.)
Il verbo sum ebbe antichissimamente
un participio presente e questo non fu il più moderno ens entis,
conservato ancora nella nostra lingua, e nella spagnuola, ma sens sentis.
Testimonio le voci prae-sens, ed ab-sens, e con-sens, la
quale ultima in verità non è altro che la preposizione cum
congiunta al participio presente di sum, e vale qui simul est,
onde Dii Consentes, Dii qui simul sunt. V. Forcell. in Consens, praesens ec. Quindi si
fortifica la mia conghiettura e che il verbo sum avesse anche un
participio passato, in us, come anticamente l'avevano gli altri neutri,
ed anche gli attivi in senso attivo (p.e. peragratus, cioè qui
peragravit, da peragro attivi), e che questo incominciasse per s,
onde da esso fosse [2660]formato il verbo sto.
(Roma 22. Dic. 1822.)
Cic. de rep. l.3. c.8-20. p.230-48. sotto la
persona di L. Furio Filo disputa contro la giustizia, e dimostra la non
esistenza della legge naturale, e reca in mezzo le varietà e discordanze
de' costumi e delle leggi presso i diversi popoli, e de' giudizi degli uomini e
de' vari secoli intorno al retto e al giusto, e a' loro contrarii. Degna d'esser
letta è questa disputazione, massime per ciò che riguarda i vari
e ripugnanti giudizi delle antiche nazioni circa il così detto diritto
naturale e universale, o idea innata del giusto e del bene. E cita il Mai
(nella 3. nota della p.232.) sopra questo proposito S. Girolamo in Iovin.
II. 7. sqq. Sesto Empirico III. 24. et contra eth. 190. seqq. ed
Erodoto III. 38. quos auctores haud paenitendo cum fructu ii legent qui
naturali civilique historiae student.
(22. Dic. 1822.)
Nella sopraddetta disputazione è
notabile un frammento (c.15. p.243.), dove Cicerone in persona di Filo ricorda
quella favolosa opinione che avevano gli Arcadi [2661]e gli
Ateniesi d'essere J,
cioè terrae filii, perlochè stimandosi di diversa origine
e natura dagli altri uomini, niente stimavano di dovere alle altre nazioni,
benchè riconoscessero leggi e diritti che obbligassero ciascuno
individuo della propria nazione verso gli altri individui della medesima. E v.
quivi la nota 1. del Mai.
(22. Dic. 1822.). V. p.2665.
Et quamquam optatissimum est, perpetuo
fortunam quam florentissimam permanere; illa tamen aequabilitas vitae non
tantum habet sensum, (mallem sensus 2do casu, quod magis
tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna
revocatur. Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5.
(23. Dic. antivigilia di Natale 1822.)
E pensatamente io chiamai figura non tutto
quello, che si diparte dalla prima formazion della lingua, ma dal più
ordinario modo de' parlatori presenti. Imperocchè ciò che fu
figura in un tempo, [2662]non riman poi figura quando è sì
accomunato dall'uso, che divien la più trivial maniera del linguaggio
usitato, dipendendo i linguaggi dall'arbitrio degli uomini, tanto
nell'introdursi, quanto nell'alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori,
come alcun pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria
dell'Uso ha prescritte. Trattato dello Stile e del Dialogo del Padre Sforza
Pallavicino della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p.22.
(26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.)
Circa la mia opinione che troia
nell'antico latino volesse dire come in italiano scrofa, vedi nel
Forcellini troianus aggiunto di porcus, e che cosa ne dica.
(Roma 28. Dicembre 1822.)
Il Padre Sforza Pallavicino nel Trattato
dello Stile e del Dialogo, Capo 27, intitolato Si stabilisce quali
Autori deono esser seguiti nelle materie scientifiche da quelli che scrivono in
Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena 1819. pag.175-8.) dà
decisa ed universale, e non relativa ma assoluta preferenza agli [2663]scrittori,
stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora, in cui egli
scriveva) sopra quelli e quella del 300.
(5. Gennaio 1823.)
In ristretto (in
somma), la favella e la Scrittura sono indirizzate a' coetanei, ed a'
futuri, non a' defunti. Pallavic. loc. sup. cit. pag.181 fine.
(5. Gen. 1823.)
Nemo enim orator tam multa, ne in graeco
quidem otio, scripsit, quam multa sunt nostra. Cic. Orator, num.108, parlando
delle sue orazioni.
(9. Gen. 1823.)
Alla p.2470. Delle metafore Cic.
nell'Oratore, num.134, comandando che l'Oratore ne faccia grand'uso dice: Ex
omnique genere (subintell. rerum) frequentissimae translationes erunt, quod eae
propter similitudinem transferunt animos, et referunt ac movent huc et illuc;
qui motus cogitationis, celeriter agitatus, per se ipse delectat.
(10. Gen. 1823.)
In un luogo di Lucilio portato da Cic.
nell'Oratore num.149. leggi Aptae pavimento per Arte. Vero
è che la sillaba seconda del verso precedente è breve.
(10. Gen. 1823.)
Anticamente i latini dicevano maxilla
axilla etc. (Cic. Orator, n.155.), indi fecero mala, ala, ec. Or noi
conserviamo l'antico: mascella, ascella, tassello. Dicevano anche siet
per sit (vedi ib. num.159.); or [2664]quello e non questo si dovette
sempre conservare nell'uso del popolo, come apparisce da sia, soit, sea.
(10. Gen. 1823.). Notisi il nostro uso simile, di aggiungere un'e alle
vocali accentate: virtue, fue ec.
Nell'Oratore di Cic. num.196. illa ipsa
delectarent, leggi non delectarent.
(11. Gen. 1823.)
Transferenda tota dictio est ad illa quae nescio cur, quum Graeci et nominent,
nos non recte incisa et membra dicamus. Neque enim esse possunt
rebus ignotis nota nomina; sed, quum verba aut suavitatis aut inopiae causa
transferre soleamus, in omnibus hoc fit artibus, ut, quum id appellandum sit
quod, propter rerum ignorationem ipsarum, nullum habuerit ante nomen, necessitas
cogat aut novum facere verbum, aut a simili mutuari. Cic. Orator, num.209.
(11. Gen. 1823.)
Nell'Oratore di Cicerone num.231.
cioè molto presso alla fine, leggi reperiant ipsâ eâdem ec. per reperiam.
(11. Gen. 1823.). Ivi, num.11. cioè non molto dopo il principio, e
durante ancora l'esordio, leggi ut sine causâ alte repetita videatur, in
vece d'ut non sine causâ alte repetitâ videatur. (12. Gen. 1823.). Ivi,
num.16. leggi de moribus sine multa in vece di de moribus? sine ec.
Ivi 19. poterimus fortasse discere per dicere. Ivi 32. nomen
eius non extaret per nomen eius extaret. (12. Gen. 1823.). [2665]Ivi
83. leggi recte QUIDAM vocant Atticum, e v. num.75. Ivi 88. leggi
aut tempore alieno non alienum, giacchè questa voce si riferisce
a ridiculo. (12. Gen. 1823.). Ivi, 107. leggi laudata. 138. leggi
quid caveat. (13. Gen. 1823. Roma, in letto.). 150. leggi in dicendo.
(13. Gen. 1823.). 182. leggi quid accideret o quid accidisset.
195. leggi quisque o quique per cuique.
(13. Gen. 1823.)
Alla p.2661. Dell'antica presuntuosa
opinione avuta da vari popoli, e massime dagli Ateniesi, d'essere J, e
perciò differenti di nascita o di diritti dagli altri uomini, con che
giustificavano le conquiste, le preminenze nazionali, le pretensioni che
ciascun popolo aveva sugli altri popoli, l'essere sciolti da ogni legge verso i
forestieri, la schiavitù di questi o nazionale o individuale,
l'oppressione degl'inquilini o stranieri domiciliati, l'odio in somma verso
l'altre nazioni, mentre professavano amore alla propria, e si stimavano
obbligati dalla legge e dalla natura verso i propri cittadini o connazionali,
vedi anche l'orazione funebre recitata da Socrate in persona d'Aspasia nel
Menesseno di Platone, verso il principio.
(2. Febbraio, dì della Purificazione di Maria SS. 1823.).
V. p.2675.
[2666]La prosa francese (nazione e
lingua la più impoetica fra le moderne, che sono le più
impoetiche del mondo) è molto più poetica della stessa prosa
antica scritta nelle lingue le più poetiche possibili. Lo stesso mancare
affatto di linguaggio poetico distinto dal prosaico fa che lo scrittor francese
confonda quello ch'è proprio dell'uno con quel ch'è proprio
dell'altro, e che come il poeta francese scrive prosaicamente così il
prosatore scriva poeticamente, e che la lingua francese manchi non solo di
linguaggio e stile poetico distinto per rispetto al prosaico, ma anche di
linguaggio e stile veramente prosaico, e ben distinto e circoscritto e definito
per rispetto al poetico. Questa è l'una delle cagioni della poeticità
della prosa francese. Altre ancora se ne potranno addurre, ma fra queste, una
che ha del paradosso e pure è verissima. La prosa francese è
poetica perchè la lingua francese è poverissima. Quindi la
necessità di metafore di metonimie di catacresi di mille figure di
dizione che rendono poetica la lingua della prosa, e secondo il nostro gusto, [2667]gonfia,
concitata ed aliena da quella semplicità, riposatezza, calma, sicurezza
ed equabilità e gravità di passo che s'ammira nelle prose latina
e greca, le più poetiche lingue dell'occidente. P.e. non avendo i
francesi una parola che significhi unitamente il padre e la madre, (come noi,
che diciamo i genitori), sono obbligati a dire spesso les auteurs de
ses jours, des jours de quelqu'un, de celui-là etc. Queste tali
frasi necessarie e forzate, obbligano poi lo scrittor prosaico francese a
formar loro un contorno conveniente, a seguire una forma di dire, uno stile,
dove queste frasi, figure ec. non disdicano, e quindi a innalzare il tuono
della sua prosa, e dargli un color poetico tanto nello stile quanto nella
lingua: e così la povertà della lingua francese rende poetica la
sua prosa, e per le figure che l'obbliga ad usare in cambio delle parole che le
mancano, e per le figure che queste medesime figure forzate richiedono intorno
a se, e quasi portano con se, e per lo stile e il linguaggio e il tuono che
queste figure forzate [2668]domandano per non disdire.
(2. Feb. 1823.)
Chi mi chiedesse quanto e fino a qual segno
la filosofia si debba brigare delle cose umane e del regolamento dello spirito,
delle passioni, delle opinioni, de' costumi, della vita umana; risponderei
tanto e fino a quel punto che i governi si debbono brigare dell'industria e del
commercio nazionale a voler che questi fioriscano, vale a dire non brigarsene
nè punto nè poco. E sotto questo aspetto la filosofia è
veramente e pienamente paragonabile alla scienza dell'economia pubblica. La
perfezione della quale consiste nel conoscere che bisogna lasciar fare alla
natura, che quanto il commercio (interno ed esterno) e l'industria è
più libera, tanto più prospera, e tanto meglio camminano gli
affari della nazione; che quanto più è regolata tanto più
decade e vien meno; che in somma essa scienza è inutile, poichè
il suo meglio è fare che le cose vadano come s'ella non esistesse, e
come anderebbero da per tutto dov'ella e i governi non s'intrigassero del commercio
e dell'industria; e la sua perfezione è [2669]interdirsi ogni
azione, conoscere il danno ch'essa medesima reca, e in somma non far nulla, al
quale effetto gli uomini non avevano bisogno d'economia politica, ma s'ella non
fosse stata, ciò si sarebbe necessariamente ottenuto allo stesso modo, e
meglio. Ora tale appunto si è la perfezione della filosofia e della
ragione e della riflessione ec. come ho detto altrove.
(2-3. Feb. 1823.)
Sopra quello che ho detto altrove che l'uso
de' sacrifizi nacque dall'egoismo del timore. Toutes les fois que le courroux des dieux se déclare par la famine, par une
épidémie ou d'autres fléaux on tâche de le détourner sur un homme et sur une
femme du peuple, entretenus par l'état pour être, au besoin, des victimes
expiatoires, chacun au nom de son sexe. On les promène dans les rues au
son des instrumens; et après leur avoir donné quelques coups de verges,
on les fait sortir de la ville (d'Athènes). Autrefois
on les condamnoit aux flammes et on jetoit leurs cendres au vent. (Aristoph. in equit. v.1133. Schol. ibid. Id. in
ran. v.745. Schol. ib. Hellad. ap. Phot. p.1590. Meurs. graec. fer. in
thargel.). Voyage du jeune [2670]Anacharsis
en Grèce t.2. ch.21. 2e édit. Paris 1789. p.395. Vedete
anche nello stesso capit. la 3a pag. avanti a questa, circa i sacrifizi di
vittime umane, i quali si facevano principalmente ne' maggiori pericoli e
timori, come dice altrove il medesimo autore.
(7. Feb. 1823.). V. p.2673.
Sopra la riunione del sacerdozio e dello
stato civile nelle medesime persone, presso gli antichi, del che ho detto
altrove; e come le funzioni del sacerdozio non impedissero in modo alcuno gli
antichi preti di servire alla patria. Chaque
particulier peut offrir des sacrifices sur un autel placé a la porte de sa
maison, ou dans une chapelle domestique. (Hesych. in . Lomey. de lustrat. p.120.) Même ouvrage, même chap. p.397. (V. anche
Aristoph. in Plut. v.1155. et Schol. ibid.) Cette espèce de sacerdoce
ne devant exercer ses fonctions que dans une seule famille, il a fallu établir
des ministres pour le culte public. Ibid. Tous (les prêtres de
la Grèce) pourroient se borner aux fonctions de leur
ministère, et passer leurs jours dans une douce oisivité. (Isocr. de
permut. t.2. [2671]p.410.) Cependant plusieurs d'entre eux empressés
a mériter par leur zèle les égards dus à leur caractère,
ont rempli les charges onéreuses de la république, et l'ont servie soit dans
les armées, soit dans les ambassades. (Herodot. l.9. c.85. Plut. in Aristid.
p.321. Xenoph. hist. graec. p.590. Demosth. in Neaer. p.880.) Ibid. p.403. Vedi
il 2o dell'Eneide intorno a Panto sacerdote, e l'Iliade intorno ad Eleno ec.
(7. Feb.
1823.)
Parmi
plusieurs de ces nations que les Grecs appellent barbares, le jour de la
naissance d'un enfant est un jour de deuil pour sa famille. (Herodot.
l.5. c.4. Strab. l.11. p.519. Anthol. p.16.)
Assemblée autour de lui, elle le plaint d'avoir reçu le funeste présent de la
vie. Ces plaintes effrayantes ne sont que trop conformes aux maximes des sages
de la Grèce. Quand on songe, disent-ils, à la destinée qui attend
l'homme sur la terre, il faudroit arroser de pleurs son berceau. (Eurip. fragm. Cresph. p.476. Axioch. ap. Plat. t.3. p.368. Cic. tusc. l.1. c.48. t.2. p.273.) Même ouvrage ch.26. t.2. p.3.
(8. Feb. 1823.)
[2672]Le plus grand des
malheurs est de naître, le plus grand des bonheurs, de mourir. (Sophocl. Oedip.
Colon. v.1289. Bacchyl. et alii ap. Stob.
serm.96. p.530. 531. Cic. tusc. l.1.
c.48. t.2. p.273.) La vie, disoit Pindare, n'est que le rêve d'une ombre
(Pyth. 8. v.136.); image sublime, et qui d'un seul trait peint tout le néant de
l'homme. Même ouvrage. ch.28. p.137. t.3.
(10. Feb. 1823.)
Les
plaisirs de l'esprit ont des retours mille fois plus amers que ceux des sens.
ib. p.139.
(10.
Feb. 1823.)
JJ ¯ , J , J. Plato in Gorgia ed. Frider. Astii. Lips. 1819 ... t.1. p.362-4. Ne enitamini
ut diligenter philosophemini, sed cavete ne, supra quam oportet, sapientiores
facti ipsi inscientes corrumpamini. , , , , J J. ib. p.356. Philosophia enim, o Socrate, est illa
quidem lepida, si quis eam modice attingit, sin ultra quam opus est ei studet,
corruptela est hominum. Tutta la vituperazione della filosofia che
Platone in quel Dial. mette in bocca di Callicle, dalla p.352. alla p.362.
è degna d'esser veduta. V'è anche insegnata (sebben Platone lo fa
per poi negarla e confutarla) la vera legge naturale, che ciascun uomo o
vivente faccia tutto per se, e il più forte sovrasti il più
debole, e si goda quel di costui. (Roma 12. Feb. [2673]1823. primo
dì di Quaresima.)
Alla
p.2670. Le peuple de Leucade qui célèbre tous les ans la fête
d'Apollon, est dans l'usage d'offrir à ce dieu un sacrifice expiatoire,
et de détourner sur la tête de la victime tous les fléaux dont il est
menacé. On choisit pour cet effet un homme condamné à subir le dernier
supplice. On le précipite dans la mer du haut de la montagne de Leucade. Il
périt rarement dans les flots; et après l'en avoir sauvé, on le bannit
à perpétuité des terres de Leucade. (Strab. l.10. p.452. Ampel. memorab.
c.8.) Voyage d'Anacharsis etc. ch.36. t.3. p.402.
(17. Feb. 1823.)
Pianger si de' il nascente ch'incomincia Or
a solcare il mar di tanti mali, E con gioia al sepolcro s'accompagni, L'uscito
de' travagli della vita. Poeta antico appo Plutarco Come debba il giovane
udir le poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane, pagina
ultima, cioè p.169. del tomo primo Opuscoli morali di Plutarco
volgarizzati da Marcello Adriani il giovane stampati per la prima volta in
Firenze, Piatti, 1819.
(19. Feb. 1823.). V. la p. seg.
Dei beni umani il più supremo colmo
È sentir meno il duolo. Sentenza che racchiude la somma di tutta
la filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra.
(19. Feb. 1823.)
[2674] per insomma,
denique ec. come noi diciamo appunto in breve. Platone, Gorgia, ed.
principe Ald. t... p.457. A.
(19. Feb. 1823.)
Grave non è nè a farsi
nè a soffrirsi Quello a che noi necessità costringe. Tragico
antico, ap. Plut. Discorso di consolazione ad Apollonio, una pagina avanti il
mezzo. Volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine. Fir. 1819. t.1. p.194.
(20. Feb. 1823.)
Alla p. antecedente. V. un detto di
Crantore, e un frammento d'Aristotele in questo proposito, appresso il medesimo
Plutarco dell'Adriani, nel Discorso di consolazione ad Apollonio t.1. p.203-4.
e un verso di Menandro ib. 213.
(21. Feb. 1823.)
On ne
fait entrer dans la cavalerie (Lacédémonienne) que des hommes sans expérience,
qui n'ont pas assez de vigueur ou de zèle. C'est le citoyen riche qui
fournit les armes, et entretient le cheval. (Xen. hist. gr. l.6. p.596.). Si ce
corps a remporté quelques avantages il les a dus aux cavaliers étrangers que
Lacédémone prenoit à sa solde (Id. de magistr. equit. p.971.). En
général les Spartiates aiment mieux servir dans l'infanterie: persuadés que le
vrai courage se suffit à lui-même, ils veulent combattre corps
à corps. J'étois auprès du roi Archidamus, quand on lui présenta
le modèle d'une machine à lancer des traits, nouvellement
inventée en Sicile. Après l'avoir examinée avec attention: C'en est
fait, dit-il, de la valeur. (Plut. apophth. Lac. t.2. p.219.) Voy. d'Anach. ch.50. t.4. p.252. Applicate [2675]tutto
questo all'invenzione ed uso delle armi da fuoco ed alla milizia moderna.
(23. Feb. 1823.)
Alla p.2665. Les Arcadiens se regardent comme les enfans de la terre, parce qu'ils ont
toujours habité le même pays, et qu'ils n'ont jamais subi un joug etranger.
(Thucy. l.1. c.2. Xen. hist. gr. l.7. p.618. Plut. quaest. roman. t.2. p.286.). Même ouvrage ch.52. t.4. p.295.
(23.
Feb. 1823.)
Dans les
transports de sa joie (Cydippe la prêtresse de Junon), elle supplia la
Déesse d'accorder à ses fils (Biton et Cléobis) le plus grand des
bonheurs. Ses voeux furent, dit-on, exauces: un doux sommeil les saisit dans le
temple même (de Junon, entre Argos et Mycènes) et les fit
tranquillement passer de la vie à la mort; comme si les dieux n'avoient
pas de plus grand bien à nous accorder, que d'abréger nos jours. (Herodot. I. 31. Axioch. ap. Plat. t.3. p.367. Cic. Tusc. I. 47. Val. Max. v.4.
estern. 4. Stob. serm.169. p.603. Serv. et Philarg. in
Georg. III. 532.) Même ouvrage ch.53. t.4. p.343-4. Aggiungi
Plutarco nel libro della consolazione ad Apollonio, volgarizzamento di Marcello
Adriani il giovine. Fir. 1819. t.1. p.189. e vedi ciò ch'egli soggiunge
a questo proposito. Al qual luogo egli ha rispetto nella pag.213. da me citata
qui a tergo.
(25. Feb. 1823.)
[2676]La statue de Telesilla
(famosa poetessa d'Argo, e guerriera, salvatrice della sua patria) fut posée
sur une colonne, en face du temple de Vénus; loin de porter ses regards sur des
volumes représentés et placés à ses pieds, elle les arrête avec
complaisance sur un casque qu'elle tient dans sa main, et qu'elle va mettre sur
sa tête. (Pausan. 11. 20. p.157.). Même ouvrage. l.c. p.338. Così
potrebb'essere rappresentata la nazione latina, la nazion greca e tutta l'antichità
civile: inarrivabile e inarrivata nelle lettere e arti belle, e pur considerante
l'une e l'altre come suoi passatempi, ed occupazioni secondarie; guerriera,
attiva e forte.
(25. Feb. 1823.)
Gli scrittori greci più eleganti ed
attici e antichi sogliono usare la voce per nel
significato di aiunt, è fama, on dit, il singolare invece del
plurale (forma ellittica per uom dice, altri dice).
Così noi volgarmente tutto giorno, e non solo noi nel parlare, ma
eziandio gli scrittori nostri, massime del trecento, usiamo dice per dicono,
altri dice, l'uom dice, un dice (on dit). Passavanti Ediz. Venez. del
Bortoli p.251. E così DICE che fa il Leone. Mi ricordo di
aver trovato questa frase anche in altri trecentisti, e mi par senza fallo
nelle Vite de' Santi Padri. Quest'uso che noi abbiamo comune cogli antichissimi
e più eleganti e puri scrittori greci, per qual mezzo ci può
esser venuto se non per quello dell'antico [2677]volgar latino? Sempre
ch'io trovo qualche conformità frappante fra il greco e
l'italiano (massime l'italiano volgare, popolare, corrente e parlato) e
così il francese e lo spagnuolo, conformità che non appartenga
alla natura generale delle favelle, ma alle proprietà arbitrarie ed
accidentali delle lingue, se quella tal qualità o parte ec. sopra cui
cade questa conformità, non si trova negli scrittori latini, io tengo
per fermo ch'ella si trovasse nel latino parlato, cioè nel volgar
latino. Giacchè questo ebbe commercio col volgar greco, e quel
ch'è più, venne da una medesima fonte col greco; e da esso volgar
latino è venuto il nostro volgare. Ma qual commercio ebbe mai il nostro
volgare col volgar greco, cioè col greco parlato, e massime coll'antico?
qual commercio poi col greco scritto, e questo pure antichissimo? Quanto al
nostro caso, io non credo che negli scrittori latini si trovi p.e. ait
in vece di aiunt. Ma veggasi il Forcellini.
(Roma 2. Marzo 1823.). V. p.2987.
Tutti gl'imperi, tutte le nazioni ch'hanno
ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno combattuto con quelli di
fuori, co' vicini, co' nemici: poi liberati dal timore esterno, e soddisfatti
dell'ambizione e della cupidigia di dominare sugli stranieri e di possedere
quel di costoro, e saziato l'odio nazionale contro l'altre nazioni, hanno
sempre rivolto il ferro [2678]contro loro medesime, ed hanno per lo
più perduto colle guerre civili quell'impero e quella ricchezza ec. che
aveano guadagnato colle guerre esterne. Puoi vedere p.3791. Questa è
cosa notissima e ripetutissima da tutti i filosofi, istorici, politici ec.
Quindi i politici romani prima e dopo la distruzion di Cartagine, discorsero
della necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec.
L'egoismo nazionale si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è
vero che l'uomo è per sua natura e per natura dell'amor proprio, nemico
degli altri viventi e se-amanti; in modo che s'anche si congiunge con alcuno di
questi, lo fa per odio o per timore degli altri, mancate le quali passioni,
l'odio e il timore si rivolge contro i compagni e i vicini. Quel ch'è
successo nelle nazioni è successo ancora nelle città, nelle
corporazioni, nelle famiglie ch'hanno figurato nel mondo ec. unite contro gli
esteri, finchè questi non erano vinti, divise e discordi e piene
d'invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli estranei. Così in
ciascuna fazione di una stessa città, dopo vinte le contrarie o la
contraria. V. il proem. del lib.7. delle Stor. del Machiavello. Ed è
bello a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si
potria trar giovamento da' nimici (Opusc. mor. di Plut. volgarizz. da
Marcello Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t.1. p.394.) La qual cosa
ben parve che comprendesse [2679]un saggio uomo di governo
nominato Demo, il quale, in una civil sedizione dell'isola di Chio, ritrovandosi
dalla parte superiore, consigliava i compagni a non cacciare della città
tutti gli avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò (disse egli) non incominciamo
a contendere con gli amici, liberati che saremo interamente da' nimici:
così questi nostri affetti (soggiunge Plutarco, cioè l'emulazione,
la gelosia, e l'invidia) consumati contra i nimici meno turberanno gli
amici. V. ancora gl'Insegnamenti Civili di Plut. dove il cit. Volgarizz.
p.434. ha Onomademo in vece di Demo: .
Ora nello stesso modo che alle famiglie,
alle corporazioni, alle città, alle nazioni, agl'imperi, è
accaduto al genere umano. Nemici naturali degli uomini furono da principio le
fiere e gli elementi ec.; quelle, soggetti di timori e d'odio insieme, questi
di solo timore (se già l'immaginazione non li dipingeva a quei primi
uomini come viventi). Finchè durarono queste passioni sopra questi
soggetti, l'uomo non s'insanguinò dell'altro uomo, anzi amò e
ricercò lo scontro, la compagnia, l'aiuto del suo simile, senz'odio
alcuno, senza invidia, senza sospetto, come il leone non ha sospetto del leone.
Quella fu veramente l'età dell'oro, e l'uomo era sicuro tra gli uomini:
non per altro se non perch'esso e gli altri uomini odiavano e temevano de'
viventi e degli [2680]oggetti stranieri al genere umano; e queste
passioni non lasciavano luogo all'odio o invidia o timore verso i loro simili,
come appunto l'odio e il timore de' Persiani impediva o spegneva le dissensioni
in Grecia, mentre quelli furono odiati e temuti. Quest'era una specie d'egoismo
umano (come poi vi fu l'egoismo nazionale) il quale poteva pur
sussistere insieme coll'individuale, stante le dette circostanze. Ma trovate o
scavate le spelonche, per munirsi contro le fiere e gli elementi, trovate le
armi ed arti difensive, fabbricate le città dove gli uomini in compagnia
dimoravano al sicuro dagli assalti degli altri animali, mansuefatte alcune
fiere, altre impedite di nuocere, tutte sottomesse, molte rese tributarie,
scemato il timore e il danno degli elementi, la nazione umana, per così dire,
quasi vincitrice de' suoi nemici, e guasta dalla prosperità, rivolse le
proprie armi contro se stessa, e qui cominciano le storie delle diverse
nazioni; e questa è l'epoca del secolo d'argento, secondo il mio modo di
vedere; giacchè l'aureo, al quale le storie non si stendono, e che resta
in balìa della favola, fu quello precedente, tale, quale l'ho descritto.
(4. Marzo 1823.)
Plutarco nel principio degl'Insegnamenti
civili, volgarizzamento cit. di sopra, Opusc. 15. t.1. p.403. Molto meno
arieno ancora gli [2681]Spartani patito l'insolenza, e buffonerie
di Stratocle, il quale avendo persuaso il popolo (credo Ateniese, o Tebano)
a sacrificare come vincitore; che poi sentito il vero della rotta si
sdegnava, disse: Qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa, ed
in gioja per ispazio di tre giorni? Agli Spartani si possono paragonate i
filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti gli uomini, avidi del sapere o
della filosofia, e di scoprir le cose più nascoste dalla natura, e per
conseguenza di conoscere la propria infelicità, e per conseguenza di
sentirla, quando non l'avrebbero sentita mai o di sentirla più presto. E
la risposta di Stratocle starebbe molto bene in bocca de' poeti, de' musici,
degli antichi filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli
che sono accusati d'avere introdotti o fomentati, d'introdurre o fomentare o
promuovere de' begli errori nel genere umano, o in qualche nazione o in qualche
individuo. Che danno recano essi se ci fanno godere, o se c'impediscono di
soffrire, per tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono quanto e
mentre possono la nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare
che l'ignoriamo o dimentichiamo?
(5. Marzo. 1823.)
[2682]Grazia dal contrasto. Conte
Baldessar Castiglione, Il Libro del Cortegiano. lib.1. Milano, dalla
Società tipogr. de' Classici italiani, 1803. vol.1. p.43-4. Ma avendo io
già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando
quegli che dalle stelle l'hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi
par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano,
più che alcuna altra; e ciò è fuggir quanto più si
può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per
dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che
nasconda l'arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza
fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè
delle cose rare, e ben fatte ognun sa (p.44. dell'ediz.) la DIFFICULTÀ,
onde in esse la FACILITÀ genera grandissima maraviglia; e
per lo contrario, lo sforzare, e, come si dice, tirar per i capegli, dà
somma disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si sia.
(Roma 14. Marzo. 1823. secondo Venerdì di Marzo.)
In vero rare volte interviene che chi non
è assueto [2683]a scrivere, per erudito che egli si sia, possa
mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, nè
gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze
che spesso si trovano negli antichi. Il medesimo, ivi, p.79. Da quanto pochi
adunque può sperar degna, vera ed intima e piena e perfetta stima e lode
il perfetto scrittore o poeta! e per quanto pochi scrive e prepara piaceri
colui che scrive perfettamente! V. p.2796.
(15. Marzo. 1823.)
Nè altro vuol dir il parlar antico,
che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar il parlar
antico, non per altro che per voler più presto parlare come si parlava,
che come si parla. Il medesimo, ivi, p.64.
(15.
Marzo 1823.)
Quelques
sages, épouvantés des vicissitudes qui bouleversent les choses humaines,
supposèrent une puissance qui se joue de nos projets, et nous attend au
moment du bonheur, pour nous immoler à sa cruelle jalousie. (Herod. I. 32. III. 40. VII. 46. Soph. in Philoct. v.789.) Voyage d'Anacharsis. ch.71. p.136.
t.6.
(Roma 26. Marzo. 1823.)
«L'excès
de la raison et de la vertu, est presque aussi funeste que celui des plaisirs
(Aristot. de mor. II. 2. t.2. p.19.); la nature nous a donné des goûts
qu'il est aussi dangereux d'éteindre que d'épuiser.» Même ouvrage ch.78.
t.6. p.456.
(29. Marzo. Sabato Santo. 1823.)
[2684]L'uomo sarebbe felice se le
sue illusioni giovanili (e fanciullesche) fossero realtà. Queste
sarebbero realtà, se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad
averle: perciocchè il giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando
nel mondo, non si troverebbe ingannato della sua aspettativa, nè del
concetto che aveva fatto degli uomini, ma li troverebbe e sperimenterebbe quali
gli aveva immaginati. Tutti gli uomini più o meno (secondo la differenza
de' caratteri), e massime in gioventù, provano queste tali illusioni
felicitanti: è la sola società, e la conversazione scambievole,
che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se
stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni,
come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel
genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non le avrebbe mai perdute;
ed elle son proprie del giovane in particolare non tanto a causa del calore
immaginativo, naturale a quell'età, quanto della inesperienza, e del
vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l'uomo avesse continuato a vivere
isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni giovanili, e tutti gli uomini
le [2685]avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque
esse sarebbero realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa
originaria e continua della infelicità umana è la società.
L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società.
Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice.
(Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua. 1823.)
J J ec. Peu
s'en faut: beaucoup s'en faut: peu s'en fallut ec. poco mancò che ec. di
poco fallò, per poco, per poco non, ec. V. p.3817.
(1. Aprile. 1823.)
A noi pare bene spesso di provar del piacere
dicendo, o fra noi stessi o con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto
è vero che il piacere non può mai esser presente, e quantunque da
ciò segua ch'esso non può neanche mai esser passato, tuttavia si
può quasi dire ch'esso può piuttosto esser passato che presente.
(Roma. 12. Aprile 1823.)
Le ciel
qui nous donna la réflexion pour prévoir nos besoins, nous a donné les besoins
pour mettre [2686]des bornes à notre réflexion. Études de la
Nature par Jacques-Bernardin-Henri de Saint-Pierre. Paul et Virginie. dans le
Dialogue entre Paul et le Vieillard. Paris de l'imprimerie de Monsieur. 3e
édit. tom.4. p.132.
(Roma 14. Aprile 1823.)
En
Europe le travail des mains déshonore. On l'appelle travail méchanique. Celui
même de labourer la terre y est le plus méprisé de tous. Un artisan y est
bien plus estimé qu'un paysan. loc. cit. pag.136. Tutto
l'opposto era fra gli antichi, appresso i quali gli agricoltori e l'agricoltura
erano in onore, e l'arti manuali o meccaniche ( ) e i
professori delle medesime erano infami. V. Cic. de Offic. l.1. e l'Economico di
Senofonte, e quello attribuito già ad Aristotele.
(14. Aprile 1823.)
Sopra il verbo difendere usato
già dagli antichi Latini come da' francesi e dagli antichi italiani e
dagli spagnuoli per proibire, vedi Perticari Apologia di Dante p.157.
(Recanati 12. Maggio 1823.)
Usano i buoni scrittori greci elegantemente
l'infinito dei verbi in luogo della seconda e della terza persona dell'imperativo.
invece di
, o di [2687], o di J (hoc
fiat) o di o di la quale ultima parola si
sottintende in questa formola ellittica di . Simile a
quest'uso è quello degl'italiani di usare l'infinito in vece della seconda
persona singolare dell'imperativo, quando precede una particella negativa ossia
vietativa. Non fare, non dire per non fa, non di'. Il qual uso
viene dal comune rustico romano, ossia da quella lingua in cui degenerò
il latino d'Europa ne' bassi tempi, che si parlò in tutta l'Europa
latina, e da cui nacquero le lingue italiana, francese, spagnuola, portoghese,
e i loro dialetti. V. il Perticari, Apologia di Dante p.170. Ma quest'uso
figurato è rimasto ai soli italiani, benchè già fosse
proprio anche dei provenzali, come dimostra il Perticari, loc. cit. I greci
dicevano ancora per . Così
ancora invece delle seconde e terze persone imperative plurali, cioè invece
di o . V. Senofonte
, c.4.
num.40. Platon. Sophist. t.2. Astii p.346. v.11. E.
(12. Maggio 1823.)
[2688]Il Perticari nell'Apolog. di
Dante p.207. not.19. trovando in un'antica canzone provenzale il verbo arsare
dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora
è sembrato vocabolo senza radice, giacchè dal verbo ardere
dovrebbe derivare arduto e non arso. S'inganna: ed anzi il verbo arsare
deriva da arso di ardere che n'è la radice. I participii
de' nostri verbi sono per lo più i participii latini, quando il verbo
è latino. Se in questi participii è qualche anomalia, la ragione
e l'origine della medesima, non si deve cercare nell'italiano nè nel
provenzale, ma nel latino, sia che quest'anomalia esista anche nel latino, sia
che quel participio (e così dico delle altre voci) ch'è anomalo
per noi, non lo sia per li latini. Giacchè l'uso italiano, massime nel
particolare dei participii, ha seguito ordinariamente l'uso latino senza guardare
se questo corrispondesse o no alle regole o all'analogia della nuova lingua che
si veniva formando. E moltissime irregolarità della nostra lingua e
delle sue sorelle vengono dalla sua cieca conformità colla lingua madre.
Da sospendere, prendere, accendere, [2689]discendere ec. secondo
l'analogia della nostra lingua, verrebbe sospenduto, prenduto, accenduto,
discenduto, difenduto ec. Ma i latini dicevano suspensus, prensus,
defensus ec. Dunque anche gl'italiani sospeso, preso, acceso, disceso,
difeso ec. Nè la radice p.e. di preso è il prensare
(che anzi viene da prensus) ma il prehendere o prendere
de' latini. Al contrario i latini da vendere facevano venditus;
qui la nostra lingua segue la sua analogia e dice venduto da venditus[18],
non veso, perchè il latino non dice vensus. Credo anch'io
che gli antichi latini dicessero suspenditus, prenditus, accenditus ec.
ma se poi dissero diversamente, l'anomalia di preso, acceso ec. non
è d'origine italiana nè provenzale, ma latina. Così da ardere
noi dovremmo fare arduto. Ma sia che i primi latini dicessero arditus
da ardeo, come dissero ardui per arsi, sia che nol
dicessero mai, certo è che poi e comunemente dissero arsi, arsurus,
arsus, supino arsum. Noi dunque non diciamo arduto ma arso,
e diciamo arso [2690]perchè così dissero i latini,
e l'origine di quest'anomalia si cerchi nel latino dov'ella pur fu e donde ella
venne, non nell'italiano o nel provenzale o nella lingua romana o romanza;
quando è chiaro ch'ell'è tanto più antica di tutte queste
lingue. Similmente da audeo dovevasi fare auditus. Ma i latini a
noi noti fecero ausus. Anomalia della stessa natura e condizione di arsus
da ardeo, seconda congiugazione come audeo. Quest'ausus
è il nostro oso nome: da questo nome oso viene osare,
che i provenzali dissero o almeno scrissero anche ausar (Perticari l.c.
p.210. lin.7.): ed infatti osare non è che un continuativo
barbaro d'audere ch'è la sua radice prima, e l'immediata è
ausus. Ma il Perticari viceversa direbbe che oso ed ausus
viene da osare e da ausare, giacchè dice che arso
viene da arsare. Quasi che, anche secondo l'analogia della nostra
lingua, da arsare si potesse far arso: e non piuttosto arsato,
ch'è il [2691]suo vero participio, e ben differente da arso
ch'è participio d'un altro verbo.
Questo e altri tali errori del Perticari e
d'altri moltissimi grammatici antichi e moderni, vengono dalla poca notizia che
costoro hanno avuta della formazione e derivazione de' verbi in are da'
participii regolari o anomali d'altri verbi; formazione usitatissima da'
latini, presso de' quali i verbi così formati erano continuativi; e seguitata
ad usare larghissimamente ne' tempi bassi e ne' principii delle moderne lingue
dell'Europa latina.
Ausus sum: son oso. Questa
frase italiana corrispondente alla latina, conferma, seppur ve n'è
bisogno, l'identità del nome oso col participio ausus,
sola voce del verbo audere che si sia conservata nell'uso delle lingue
figlie della latina, e madre di più voci moderne, come osare, oser,
osadìa, osado (participio d'ausare), osadamente ec.
(Recanati 15. Maggio 1823.)
Somma conformabilità dell'uomo. Le
bestie sono più o meno addomesticabili, secondo che sono più o [2692]meno
assuefabili e conformabili di natura. Ma nè le bestie domestiche
convivendo coll'uomo, nè queste o altre bestie convivendo con bestie di
specie diversa dalla loro, contraggono il carattere e i costumi umani o di
quelle altre bestie, nè i caratteri di più bestie di specie
diversa si mescolano tra loro per convivere che facciano insieme; ma solamente
le bestie domestiche ricevono certe assuefazioni particolari, e certi costumi
non naturali portati dalle circostanze, i quali non hanno però che far
niente coi costumi dell'uomo. Ma l'uomo convivendo colle bestie, contrae
veramente gran parte del carattere di queste, ed altera il suo proprio per una
effettiva mescolanza di qualità naturali alle bestie con cui convive.
È cosa osservata nella campagna romana, e nota quivi alle persone che
per mestiere per abito e per natura sono tutt'altro che osservatrici, che i
pastori e guardiani delle bufale, sono ordinariamente stupidi, lenti, goffi,
rozzissimi, selvatici e tali che poco hanno dell'uomo: che i pastori de' [2693]cavalli
sono svelti, attivi, pronti, vivaci, arguti, agili di corpo e di spirito:
quelli delle pecore, semplici, mansueti, ubbidienti ec. (Recanati 16. Maggio
1823.). E tra gli abitanti della campagna romana i due estremi della zotichezza
e della spiritualité e furberia, della torpidezza e del brio, della
dappocaggine, pigrizia ec. e dell'attività, sono i guardiani delle
bufale e quei de' cavalli; come lo sono i caratteri di queste specie di animali
fra quelle che abitano nella detta campagna.
(16. Maggio. 1823.)
Degli scrittori non romani che scrissero in
latino, e son tenuti classici in quella lingua e letteratura vedi Perticari, Apologia
di Dante, capo 30. p.314-16.
(Recanati 16. Maggio. 1823.)
Del disprezzo in cui fu tenuta dai dotti la
lingua italiana (detta volgare) nel 300, nel 400 e nel
(17. Maggio 1823.). V. altresì Perticari Degli Scritt. del
[2694]Formata una volta una lingua
illustre, cioè una lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale,
ella non si perde più finchè la nazione a cui ella appartiene non
ricade nella barbarie. La durata della civiltà di una nazione è
la misura della durata della sua lingua illustre e viceversa. E siccome una
medesima nazione può avere più civiltà, cioè dopo
fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova,
ciascuna sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata,
corrotta, decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di
civiltà e di lingua illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute,
o vogliamo piuttosto dire, nella storia conosciuta, un solo esempio,
cioè quello della nazione italiana. Perchè niuna delle altre
nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà moderna e presente,
e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile (che si sappia) in
antico, se non l'italiana. Così niun'altra nazione può mostrare
due lingue illustri da [2695]lei usate e coltivate generalmente, (come
può far l'italiana) se non in quanto la nostra antica lingua,
cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per l'Europa a noi
soggetta, e fece per qualche tempo italiane di costumi e di lingua e
letteratura le Gallie, le Spagne, la Numidia (che non è più
risorta a civiltà) ec.
Ma tornando al proposito nostro, siccome la
Grecia, in tutta la storia conosciuta, è la nazione che per più
lungo tempo ha conservato una civiltà, così la lingua greca illustre
è di tutte le lingue illustri conosciute nella storia antica o moderna,
quella che ha durato più lungo tempo. Sebbene nei secoli bassi la
civiltà greca fosse in gran decadenza, e similmente e proporzionatamente
la lingua greca illustre, nondimeno la Grecia non divenne assolutamente
barbara, se non dopo la presa di Costantinopoli, conservandosi almeno qualche
parte della civiltà greca, se [2696]non altro, nella Corte di Bisanzio
finchè questa durò. E fino a questo medesimo termine durò
ancora la lingua greca illustre, in maniera che gli scrittori greci di questi
ultimi tempi, come Teofilatto e quei della Storia Bizantina, sono per la
più parte intelligibili e piani senz'altro particolare studio, a tutti
quelli che intendono Omero ed Erodoto. Di modo che la lingua greca illustre
durò sempre una e sempre quella, per 23 secoli, cioè da Omero
fino all'ultimo imperatore greco. Durata maravigliosa: ma tale altresì
fu quella della greca civiltà. Perchè la Grecia per niuna
circostanza di tempi non divenne mai interamente barbara finchè non fu
tutta suddita de' turchi; nè mai per tutto l'intervallo de' secoli antecedenti
fu priva di letteratura, neanche ne' peggiori secoli, come si può
vedere, considerando anche solamente la Biblioteca di Fozio scritta nel nono
secolo, e le varie opere di Tzetze [2697]scritte nel 12° oltre il Violario
d'Eudocia Augusta, il Lessico di Suida ec. opere che in niun'altra parte del
mondo fuor della parte greca, quando pur fossero state tradotte nelle
rispettive lingue, si sarebbero a quei tempi sapute neppure intendere, non che
comporne delle simili.
La lingua illustre latina nata tanto
più tardi, tanto più presto morì, perchè la civiltà
italiana e quella di tutta l'Europa latina per diverse circostanze finì
pochissimi secoli dopo nata. Già quando Costantino trasportò la
corte in Bisanzio, la Grecia vinceva d'assai e per civiltà e per
letteratura il mondo latino, e massimamente l'Italia. E forse questa fu una
delle cagioni che indussero Costantino a quel traslocamento, il quale fu poi
un'altra circostanza che contribuì a mantenere la civiltà in
Grecia, e seco la lingua illustre (coltivata poi da Temistio, da Libanio, da Giuliano
imperatore da Giamblico, da Gregorio, da Basilio ben superiori in [2698]grecità
a quello che furono in latinità Girolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio e
Leone Papi, Ammiano, Boezio), ed aiutò la corruzione ed estinzione della
civiltà e della lingua illustre latina, massime in Italia, dove
mancò affatto una corte latina. La quale per poco tempo fu nelle Gallie,
e vi produsse Sidonio e Pacato e gli altri nobili letterati di que' tempi, e
fece per allora quella provincia superiore senza comparazione per
latinità, letteratura e civiltà alla stessa Italia che le avea
compartite alle Gallie. Finchè le conquiste fatte dai Barbari distrussero
affatto e la civiltà e la lingua illustre in tutta l'Europa latina.
La nuova nostra lingua illustre fu
sufficientemente organizzata e stabilita nel 300 insieme colla nuova
civiltà italiana. Questa ancor dura e non s'è mai più
perduta. Dunque anche la lingua italiana illustre del 300, nè si
è mai perduta, e dura ancora dopo ben cinque secoli: e quei trecentisti
che più si divisero dal parlar plebeo e dai particolari dialetti
separati, o (come in [2699]Dante) mescolati, quali sono il Petrarca, il
Boccaccio, il Passavanti, il traduttore delle Vite de' Padri, eccetto alcune poche
e sparse parole o frasi, sono ancora moderni per noi, e la loro lingua è
fresca e viva, come fosse di ieri. La differenza tra essi e noi sta quasi tutta
nello stile e ne' concetti. V. p.2718.
Al contrario le lingue non bene o
sufficientemente organizzate e regolate, variano continuamente e in breve si
spengono quasi affatto, e fanno luogo a lingue quasi nuove, anche durando il
medesimo stato della nazione, sia di civiltà (se pur vi fu mai
civiltà non accompagnata da lingua illustre), sia di maggiore o minore
barbarie. La lingua provenzale benchè scritta da tanti in poesia ed in
prosa, pure perchè non ordinata sufficentemente nè ridotta a
grammatica, è tutta morta dopo brevissima vita. E degli stessi
trecentisti italiani, quelli che più s'accostarono al dir plebeo e
provinciale, fosse fiorentino o qualunque, siccome tanti scrittori fiorentini o
toscani di cronichette o d'altro, sono già da gran tempo scrittori di
lingua per grandissima [2700]parte morta; giacchè infinite delle
loro voci, frasi, forme e costruzioni più non s'intendono nelle stesse
loro provincie, o vi riescono strane, insolite, affettate, antiquate e invecchiate.
Vedi Perticari Apologia di Dante, capo 35. e specialmente p.338.-45.
(17. Maggio. 1823.)
La cagione per cui negli antichissimi
scrittori latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla
lingua italiana, che non se ne trova negli scrittori latini dell'aureo secolo,
e tanto maggiore quanto sono più antichi, si è che i primi
scrittori di una lingua, mentre non v'è ancora lingua illustre, o non
è abbastanza formata, divisa dalla plebea, fatta propria della
scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme plebee,
idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più
vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e
da cui si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran
parte della lingua plebea ch'è la sola ch'esista allora nella nazione, o
che [2701]non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e
cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla
(com'è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea;
sì perchè allora i cortigiani ec. non hanno l'esempio e la
coltura derivante dalle Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per
parlare molto diversamente dalla plebe. Ora l'unica lingua che possano seguire
e prendere in mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata,
giacchè la scritta ancor non esiste. E siccome la lingua italiana e le
sue sorelle non derivano dal latino scritto ma dal parlato, e questo in gran
parte non illustre, ma principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta
conformità di queste nostre lingue cogli antichissimi e primi scrittori
latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo
43. pag.430.
(20. Maggio 1823.)
[2702]Materia della pigrizia non
sono propriamente le azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non
è piacere presente, o vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è
pigro al bere o al mangiare. Lo studio è cosa faticosissima. Ma se
l'uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad ogni altra cosa, non
sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio gl'interi
giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose, sono
infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il fine
dei pensieri e delle azioni dell'uomo è sempre e solo il piacere. Ma i
mezzi di conseguir quello che l'uomo si propone come piacere, ora hanno piacere
in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia,
ancorchè domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui
condurrebbero sia vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè
l'uomo faccia molta stima di questo piacere e lo desideri, ancorchè
finalmente il fine al quale questi mezzi conducono sia necessario, o molto [2703]utile
ad ottenere altri piaceri. Così l'uomo si astiene di comparire a una
festa (dove crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se
si fosse trovato all'ordine, o se non se gli fosse richiesto d'assettarsi,
sarebbe andato alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si
otteneva certamente con un'ora di pochissima fatica. Così la pigrizia
ritiene ancora da quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e
il bere, perchè essi in se non hanno piacere. Così da cento altre
azioni utili, cioè conducenti più o men tosto al piacere
(giacchè questo è il significato di utile), ma non piacevoli in
se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch'esse
procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno
piacevoli.
(20. Maggio 1823.)
La voce popolare bobò che
significa presso di noi uno spauracchio de' fanciulli simile al Æ ec. dei
greci, alle Lammie de' latini ec. [2704](V. il mio Saggio sugli errori
popolari) non è altro che un sostantivo formato dalle due voci bau
bau (colla solita mutazione dell'au in o), o piuttosto le
stesse due voci sostantivate, e ridotte a significare una persona o spettro che
manda fuori quelle voci bau bau. Le quali sono voci antichissime e
comuni ai greci che con esse esprimevano l'abbaiare dei cani, e quindi fecero
il verbo ; ai
latini che ne fecero nello stesso senso il verbo baubari, e a noi che ne
abbiamo fatto baiare e quindi abbaiare (se pur questi verbi non
vengono dal suddetto latino), onde il francese antico abaïer e il
moderno aboyer de' quali verbi vedi il Dizionario di Richelet. Vedi
anche la pag.2811.-13. Ma dall'esprimere la voce de' cani, le parole bau bau
passarono a significare una voce che spaventasse i fanciulli. V. la Crusca
in Bau. Quindi il nostro Bobò sostantivo di persona.
Presso i francesi bobo è voce parimente puerile che significa un
petit mal, cioè quello che le nostre balie dicono bua, la
qual [2705]voce fu pur delle balie latine, ma con altro significato,
cioè con quello che le nostre dicono bumbù, o come ha la
Crusca, bombo. V. Forcellini. I Glossari non hanno nulla al proposito.
(20. Maggio 1823.)
Di alcune cagioni che anche ne' bassi tempi
poterono introdurre vocaboli e modi greci nel volgare o ne' volgari d'Italia,
vedi Perticari Apologia di Dante, capo 39. p.386.
(21. Maggio 1823.)
Dell'antico volgare latino, vedi Perticari
Degli scrittori del 300. lib.1. cap.5. 6. 7.
(21. Maggio 1823.)
È pur doloroso che i filosofi e le
persone che cercano di essere utili o all'umanità o alle nazioni, sieno
obbligate a spendere nel distruggere un errore o nello spiantare un abuso quel
tempo che avrebbono potuto dispensare nell'insegnare o propagare una nuova
verità, o nell'introdurre o divulgare una buona usanza. E veramente a
prima vista può parer poco degno di un grande [2706]intelletto, e
poco utile, o se non altro, di seconda o terza classe nell'ordine de' libri utili,
un libro, tutta la cui utilità si riduca a distruggere uno o più
errori. (Tali sono p.e. i due Trattati di Perticari, e tutta la Proposta di
Monti). Ma se guarderemo più sottilmente, troveremo che i progressi
dello spirito umano, e di ciascuno individuo in particolare, consistono la
più parte nell'avvedersi de' suoi errori passati. E le grandi scoperte
per lo più non sono altro che scoperte di grandi errori, i quali se non
fossero stati, nè quelle (che si chiamano, scoperte di grandi
verità) avrebbero avuto luogo, nè i filosofi che le fecero
avrebbero alcuna fama. Così dico delle grandi utilità recate ai
costumi, alle usanze ec. Non sono, per lo più, altro se non correzioni
di grandi abusi. Lo spirito umano è tutto pieno di errori; la vita umana
di male usanze. La maggiore e la principal parte delle utilità che si
possono recare agli uomini, consiste nel disingannarli e nel correggerli,
piuttosto che nell'insegnare [2707]e nel bene accostumare, benchè
quelle operazioni bene spesso, anzi ordinariamente, ricevano il nome di queste.
La maggior parte de' libri, chiamati universalmente utili, antichi o moderni,
non lo sono e non lo furono, se non perchè distrussero o distruggono
errori, gastigarono o gastigano abusi. In somma la loro utilità non
consiste per lo più nel porre, ma nel togliere, o dagl'intelletti o
dalla vita. Grandissima parte de' nostri errori scoperti o da scoprirsi, sono o
furono così naturali, così universali, così segreti,
così propri del comune modo di vedere, che a scoprirli si richiedeva o
si richiede un'altissima sapienza, una somma finezza e acutezza d'ingegno, una
vastissima dottrina, insomma un gran genio. Qual è la principale
scoperta di Locke, se non la falsità delle idee innate? Ma qual
perspicacia d'intelletto, qual profondità ed assiduità di
osservazione, qual sottigliezza di raziocinio non era [2708]necessaria
ad avvedersi di questo inganno degli uomini, universalissimo, naturalissimo,
antichissimo, anzi nato nel genere umano, e sempre nascente in ciascuno
individuo, insieme colle prime riflessioni del pensiero sopra se stesso, e col
primo uso della logica? E pure che infinita catena di errori nascevano da
questo principio! Grandissima parte de' quali ancor vive, e negli stessi
filosofi, ancorchè il principio sia distrutto. Ma le conseguenze di
questa distruzione, sono ancora pochissimo conosciute (rispetto alla loro
ampiezza e moltiplicità), e i grandi progressi che dee fare lo spirito
umano in séguito e in virtù di questa distruzione, non debbono
consistere essi medesimi in altro che in seguitare a distruggere.
Cartesio distrusse gli errori de'
peripatetici. In questo egli fu grande, e lo spirito umano deve una gran parte
de' suoi progressi moderni al disinganno proccuratogli da Cartesio. Ma quando
questi volle insegnare e fabbricare, il suo sistema [2709]positivo che
cosa fu? Sarebbe egli grande, se la sua gloria riposasse sull'edifizio da lui posto,
e non sulle ruine di quello de' peripatetici? Discorriamo allo stesso modo di
Newton, il cui sistema positivo che già vacilla anche nelle scuole, non
ha potuto mai essere per i veri e profondi filosofi altro che un'ipotesi, e una
favola, come Platone chiamava il suo sistema delle idee, e gli altri
particolari o secondari e subordinati sistemi o supposizioni da lui immaginate,
esposte e seguite.
(21. Maggio. 1823.)
Paragonando la filosofia antica colla
moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente
perchè i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove
la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare.
Il che se gli antichi tal volta facevano, niuno però era che in questo
caso non istimasse suo debito e suo interesse il sostituire[19].
Così fecero anche nella prima restaurazione della filosofia Cartesio e
Newton. Ma i filosofi [2710]moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono.
E questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perchè
la debolezza del nostro intelletto c'impedisce di trovare il vero positivo, ma
perchè in effetto la cognizione del vero non è altro che lo
spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose
che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch'esse
non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben
conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è
bisogno rimuovere gl'impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e
nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio.
Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità,
come dice un filosofo tedesco, (Wieland) è sottilissima, che i fanciulli
e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate:
cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto. [2711]Di
qui si conferma quel mio principio che la sommità della sapienza
consiste nel conoscere la sua propria inutilità, e come gli uomini
sarebbero già sapientissimi s'ella mai non fosse nata: e la sua maggiore
utilità, o per lo meno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre
l'intelletto umano (s'è possibile) appresso a poco a quello stato in cui
era prima del di lei nascimento. E quello ch'io dico qui dell'intelletto, dico
altrove, e qui ridico, anche per rispetto alla vita, e a tutto quello che
appartiene all'uomo, e che ha qualsivoglia relazione colla sapienza.
(21. Maggio 1823.)
I filosofi antichi seguivano la
speculazione, l'immaginazione e il raziocinio. I moderni l'osservazione e
l'esperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica
e la moderna). Ora quanto più osservano tanto più errori scuoprono
negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri
del popolo, de' filosofi, o di ambedue. Così lo spirito umano fa
progressi: e tutte le scoperte fondate sulla nuda osservazione delle cose, [2712]non
fanno quasi altro che convincerci de' nostri errori, e delle false opinioni da
noi prese e formate e create col nostro proprio raziocinio o naturale o
coltivato e (come si dice) istruito. Più oltre di questo non si va. Ogni
passo della sapienza moderna svelle un errore; non pianta niuna verità,
(se non che tali tuttogiorno si chiamano le proposizioni, i dogmi, i sistemi in
sostanza negativi). Dunque se l'uomo non avesse errato, sarebbe già sapientissimo,
e giunto a quella meta a cui la filosofia moderna cammina con tanto sudore e
difficoltà. Ma chi non ragiona, non erra. Dunque chi non ragiona, o per
dirlo alla francese, non pensa, è sapientissimo. Dunque sapientissimi
furono gli uomini prima della nascita della sapienza, e del raziocinio sulle
cose: e sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California,
che non conosce il pensare.
(21. Maggio 1823.)
Ho detto che la filosofia moderna, in luogo
degli errori che sterpa, non pianta nessuna [2713]verità
positiva. Intendo verità semplicemente nuove; verità di cui vi
fosse alcun bisogno, che avessero alcun valore, alcuno splendore, che meritassero
di essere annunziate e affermate, che non fossero al tutto frivole e puerili,
che non fossero manifestissime e conseguenti per se medesime, se gli errori contrarii
non avessero avuto luogo, o non esistessero oggidì nelle menti degli
uomini. Per esempio la filosofia moderna afferma che tutte le idee dell'uomo
procedono dai sensi. Questa può parere una proposizione positiva. Ma
ella sarebbe frivola, se non avesse esistito l'errore delle idee innate; come
sarebbe frivolo l'affermare che il sole riscalda, perchè niuno ha
creduto che il sole non riscaldasse, o affermato che il sole raffredda. Ma se
questo fosse avvenuto, allora neanche quella verità o proposizione, che
il sole riscalda, sarebbe tenuta frivola. Di più l'intenzione e lo
spirito di quella proposizione che tutte le nostre idee vengono dai [2714]sensi,
è veramente negativo, ed essa proposizione è come se dicesse,
L'uomo non riceve nessuna idea se non per mezzo dei sensi; perch'ella mira espressamente
ed unicamente ad escludere quell'antica proposizione positiva che l'uomo riceve
alcune idee per altro mezzo che per quello dei sensi; ed è stata dettata
dalla sottile speculazione di chi ben guardando nel proprio intelletto s'avvide
che niuna idea gli era mai pervenuta fuori del ministerio dei sensi. Questo
è un procedere affatto negativo, sì nella scoperta, sì
ancora nell'enunciazione, perchè infatti da principio quella
verità fu annunziata come negazione dell'errore contrario che allora
sussisteva. Così discorrete d'infinite altre proposizioni o dogmi ec.
della filosofia moderna, che hanno aspetto di positivi, ma che nello spirito,
nella sostanza, nello scopo, e nel processo che il filosofo ha tenuto per
iscoprirli, sono, o certo originalmente [2715]furono, negativi.
(22. Maggio 1823.)
Perticari, Degli Scritt. del
(22. Maggio 1823.)
Di quelli che nel 500. volevano restringere
la lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella
del solo Boccaccio, vedi Perticari Degli Scritt. del
(23. Maggio 1823.)
Ho detto altrove che la lingua francese,
povera di forme, è tuttavia ricchissima e sempre più si
arricchisce di voci. Distinguo. La lingua francese è povera di sinonimi,
ma ricchissima di voci denotanti ogni sorta di cose e di idee, e ogni menoma
parte di ciascuna cosa e di ciascuna idea. Non può molto variare nella
espressione d'una cosa medesima, ma può variamente esprimere le
più varie e diverse cose. Il che non possiamo noi, benchè
possiamo ridire [2716]in cento modi le cose dette. Ma certo è
sempre varia quella scrittura che può esser sempre propria,
perchè ad ogni nuova cosa che le occorre di significare, ha la sua
parola diversa dalle altre per significarla. Anzi questa è la più
vera, la più sostanziale, la più intima, la più
importante, ed anche la più dilettevole varietà di lingua nelle
scritture. E quelle scritte in una lingua soprabbondante di sinonimi, per lo
più sono poco varie, perchè la troppa moltitudine delle voci fa
che ciascheduno scrittore per significare ciaschedun oggetto, scelga fra le
tante una sola o due parole al più, e questa si faccia familiare e
l'adoperi ogni volta che le occorre di significare il medesimo oggetto; e
così ciascheduno scrittore in quella lingua abbia il suo vocabolarietto
diverso da quel degli altri, e limitato: come altrove ho detto accadere agli
scrittori greci ed italiani. E osservo che sebbene [2717]la lingua greca
è molto più varia della latina, nondimeno per la detta ragione le
scritture greche, massime quelle degli ottimi e originali, sono meno varie delle
latine per ciò che spetta ai vocaboli e ai modi.
(23. Maggio 1823.). V. p.2755.
Chi vuol vedere un piccolo esempio della
infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un
aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove;
e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di
Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue,
l'una nelle parole che compongono il Dialogo tra Socrate e Fedro, la quale
è la solita e propria di Platone, l'altra nelle due orazioni contro
l'amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell'orazione di questo in
lode dell'amore. Perciocchè Platone in queste orazioni adopra e vocaboli
e frasi e costrutti [2718]notabilissimamente e visibilmente diversi da
quelli che compongono la lingua ordinaria de' suoi Dialoghi, sebbene in questi
egli tratta bene spesso le medesime o simili materie a quelle delle tre
suddette orazioni, massime dell'ultima. E i vocaboli, le frasi, i costrutti
dell'ultima orazione (di stile tutta poetica, ma non perciò tumida o
esagerata o eccessiva o tale che non sia vera prosa) sono pure diversissimi da
quelli delle altre due. Nè in veruna di queste tre lo scrittore fa forza
alla lingua, o dimostra affettazione, come fecero poi quei greci più
recenti che si scostarono dalla maniera propria per seguire e imitare l'altrui.
Ma certo chi non conoscesse altra lingua greca che la consueta di Platone, non
senza una certa difficoltà potrebbe intendere quelle tre orazioni.
(23. Maggio. 1823.)
Alla p.2699. Di quelli scrittori del 300 che
usarono lingua più illustre e comune, o manco plebea e provinciale o municipale,
vedi Perticari [2719]Degli Scritt. del
(23. Maggio 1823.)
Anche il Gelli confessava (ap. Perticari
Degli Scritt. del Trecento l.2. c.13. p.183.) che la lingua toscana non era
stata applicata alle scienze.
(24. Maggio 1823.)
Della impossibilità o
dannosità di sostituire ai termini delle scienze o delle arti 1. le
circollocuzioni, 2. i termini generali, 3. i metaforici e catacretici o in
qualunque modo figurati, vedi Perticari loc. cit. p.184-5.
(24. Maggio 1823.)
Aristotele diceva più essere le
cose che le parole: e il Perticari loc. cit. p.187-8. spiega ed applica
questa sentenza alla necessità di far sempre nuovi vocaboli per le nuove
cognizioni e idee.
(24. Maggio 1823.)
Della necessità di far nuove voci
alle nuove cose, o alle cose non mai trattate da' nazionali, e che ciascuna
scienza o arte abbia i suoi termini propri e divisi da quelli delle altre scienze
e del dir comune, vedi Cicerone de finibus l.3. c.1-2. (24. Maggio
1823.).
[2722]Delle lingue vive non accade
quello che delle lingue le quali più non si parlano. Queste, a guisa
di pianta che più non vegeta, non possono ricevere accrescimento; e
tutto quello, che a lor riguardo si può fare da noi, si è di serbarle
diligentemente nello stato in cui sono; perciocchè in esse ogni
alterazione tende a corrompimento. Al contrario le lingue che sono vive,
vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in esse le
piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non sono segnali
certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e vigoria. E
però coloro, i quali non vorrebbon che i nostri scritti avessero altro
sapore che di Trecento, nocciono alla lingua, perchè si sforzano di ridurla
alla condizione di quelle che sono morte, e, in quanto a loro sta, ne diseccano
i verdi rami, sicch'ella non possa, contro all'avviso d'Orazio, più
vestirsi di nuove foglie. Quest'autore vivea pure nel secol d'oro [2723]della
lingua latina, e nel tempo in cui essa era nel suo più florido stato: e
tuttavia perch'ella era ancor viva, egli pensava ch'essa potesse arricchirsi
vie maggiormente e ricevere nuove forme di favellare. Nota dell'Abate Colombo
alle Lezioni sulle Doti di una colta favella con una non più stampata
sullo stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo autore
(cioè dell'Abate Colombo). Parma per Giuseppe Paganino 1820. (ediz.
2da delle tre prime Lezioni e delle altre operette, fuorchè d'una). Lezione
IV. Dello Stile che dee usare oggidì un pulito Scrittore. pag.96.
(antepenultima delle Lezioni). nota a.
(25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.)
I pedanti che oggi ci contrastano la
facoltà di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch'essa è
già perfetta. Ma lo stesso contrasto facevano nei cinquecento quand'essa
si stava perfezionando, [2724]anzi nel momento ch'ella cominciavasi a
perfezionare, come fece il Bembo, il quale volea che questo cominciamento fosse
il toglierle la facoltà di crescer mai più, e 'l ristringerla al
solo Petrarca e al solo Boccaccio. Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone
e d'Orazio, cioè nel secolo d'oro della lingua latina, nel quale ella si
perfezionava, e fino al quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria
nasce presto, e gli uomini impotenti presto, anzi subito credono e vogliono che
sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè
accrescere quel tanto, più o manco, di buono ch'è stato fatto,
per dispensarsi dall'oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch'essi non si sentono
capaci di farlo. (25. Maggio 1823.). E come pochissimo ci vuole a superare
l'abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio, e
pochissima bontà basta a fare ch'essi la credano insuperabile, qual
è veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che [2725]al
loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il mediocre pare ottimo, e
l'ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al contrario.
(27. Maggio. 1823.)
Per quanto voglia farsi, non si speri mai
che le opere degli scienziati si scrivano in bella lingua, elegantemente e in
buono stile (con arte di stile). Chiunque si è veramente formato un
buono stile, sa che immensa fatica gli è costato l'acquisto di
quest'abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo studio, quante
riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò, quanti
confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi inutili,
e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima
assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del
bello scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e
finalmente l'arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta
difficoltà [2726]è giunto a riconoscere e sentire ne'
grandi maestri, arte difficilissima ad acquistare, e che non viene già
dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensì la suppone,
e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza
l'arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la
loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi,
come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far
questo si richiede un'arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l'uomo,
e tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli
scienziati si assoggettino a questi studi e fatiche, non avendoci amore alcuno,
ed essendo tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando
loro assolutamente il tempo necessario per un'arte che domanda più tempo
d'ogni altra? Oltre di ciò i più perfetti possessori di
quest'arte, dopo le [2727]lunghissime fatiche spese per acquistarla, non
sono mai padroni di metterla in opera senza che lo stesso adoperarla riesca
loro faticosissimo e lunghissimo, perchè certo neppure i grandi maestri
scrivono bene senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e
correzioni, e lime ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli
scienziati questo lavoro, il quale è tanto indispensabile come quello
che si richiede ad acquistare l'arte di bene scrivere?
Per gli scienziati ch'io escludo dalla
possibilità di scriver bene ed elegantemente, non intendo i moralisti, i
politici, gli scrutatori del cuore umano e della natura umana, i metafisici,
insomma i filosofi propriamente detti. Le scienze di costoro non sono molto
lontane da quella che si richiede a bene scrivere, nè le loro abitudini
ripugnano all'abitudine e alla riflessione che produce il bello, il semplice,
l'elegante. Anzi Cicerone diceva che senza filosofia non si dà perfetto
oratore; e lo stesso si può dire [2728]del perfetto scrittore
d'ogni genere. La scienza del bello scrivere è una filosofia, e profondissima
e sottilissima, e tiene a tutti i rami della sapienza. Di più la materia
stessa di tali discipline è suscettibilissima d'eleganza. Quindi molti
ottimi scrittori antichi e moderni ha fornito questa sorta di dottrine.
Ma io escludo dal bene scrivere i professori
di scienze matematiche o fisiche, e di quelle che tengono dell'uno e dell'altro
genere insieme, o che all'uno o all'altro s'avvicinano. E di questa sorta di
scienze in verità non abbiamo buoni ed eleganti scrittori nè
antichi nè moderni, se non pochissimi. I greci trattavano queste scienze
in modo mezzo poetico, perchè poco sperimentavano e molto immaginavano.
Quindi erano in esse meno lontani dall'eleganza. Ma certo essi ne furono tanto
più lontani, quanto più furono esatti. Platone è fuori di
questa classe. Gli antichi lodano assai lo stile d'Aristotele e di Teofrasto.
Può essere ch'abbiano riguardo ai loro scritti politici, morali,
metafisici, piuttosto che ai naturali. Io dico il vero che nè in questi [2729]nè
in quelli non sento grand'eleganza. (Quel ch'io ci trovo è purità
di lingua e un sufficiente e moderato atticismo: l'uno e l'altro, effetto del
secolo e della dimora anzi che dello scrittore, e insomma natura e non arte. Niuna
eleganza però nè di stile nè di parole. Anzi
sovente grandissima negligenza sì nella scelta sì nell'ordine e
congiuntura de' vocaboli; poca proprietà, e non di rado niuna sintassi.)
Ben la sento e moltissima in Celso, vero e forse unico modello fra gli antichi
e i moderni del bello stile scientifico-esatto. Col quale si potrà forse
mettere Ippocrate. I latini ebbero pochi scrittori scientifici-esatti. E di
questi, fuori di Celso, qual è che si possa chiamare elegante? Non certamente
Plinio, il quale se si vorrà chiamar puro, si chiamera così,
perchè anch'egli per noi fa testo di latinità. Lascio Mela, Solino,
Varrone, Vegezio, Columella ec. Il nostro Galileo lo chiami elegante chi non
conosce la nostra lingua, e non ha senso dell'eleganza. (Vedi Giordani Vita del
Cardinale Pallavicino). Il Buffon sarebbe unico fra' moderni per il modo
elegante di trattare le scienze esatte: ma oltre che la storia naturale si
presta all'eleganza più d'ogni altra di queste scienze; tutto ciò
che è elegante in lui, è estrinseco alla scienza propriamente
detta, [2730]ed appartiene a quella che io chiamo qui filosofia propria,
la quale si può applicare ad ogni sorta di soggetti. Così fece il
Bailly nell'Astronomia. Sempre che usciamo dei termini dottrinali e insegnativi
d'una scienza esatta, siamo fuori del nostro caso. La scienza non è
più la materia ma l'occasione di tali scritture; non s'impara la scienza
da esse, nè questa fa progressi diretti, per mezzo loro, nè
riceve aumento diretto dalle proposizioni ch'esse contengono: elle sono
considerazioni sopra la scienza. (28. Maggio. Vigilia del Corpus Domini.
1823.). I pensieri di Buffon non compongono e non espongono la scienza, non sono
e non contengono i dogmi della medesima, o nuovi dogmi ch'esso le aggiunga, ma
la considerano, e versano sopra di lei e sopra i suoi dogmi. Si può
ornare una materia coi pensieri e colle parole. Tutte le materie sono capaci
dell'ornamento de' pensieri, perchè sopra ogni cosa si può
pensare, e stendersi col pensiero quanto si voglia, più o meno lontano
dalla materia strettamente presa. Ma non tutte si possono ornare colle parole.
Il Buffon adornò la scienza con pensieri [2731]filosofici, e a
questi pensieri non somministrati ma occasionati dalla storia naturale,
applicò l'eleganza delle parole, perch'essi n'erano materia capace. Ma i
fisici, i matematici ordinariamente non possono e non vogliono andar dietro a
tali pensieri, ma si ristringono alla sola scienza.
Chiamo qui scienze esatte[20]
tutte quelle che ancorchè non sieno ancora giunte a un cotal grado di
perfezione e di certezza, pure di natura loro debbono esser trattate colla
maggior possibile esattezza, e non danno luogo all'immaginazione (della quale
il Buffon fece grandissimo uso), ma solamente all'esperienza, alla notizia
positiva delle cose, al calcolo, alla misura ec.
(30. Maggio. 1823.)
In proposito della prontissima decadenza
della letteratura latina, e della lunghissima conservazione della greca,
è cosa molto notabile, come dopo Tacito, cioè dall'imperio di
Vespasiano in poi (fino al quale si stendono le [2732]sue storie) la
storia latina restò in mano dei greci, e le azioni nostre furono narrate
da Appiano, Dione, Erodiano, anche prima della traslocazione dell'imperio a
Constantinopoli, e dopo questa da Procopio, Agazia, Zosimo ec. Senza i quali la
storia del nostro impero da Vespasiano in poi, sarebbe quasi cieca, non avendo
altri scrittori latini che quei miserabili delle Vite degli Augusti, piene di
errori di fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per
non dir di Orosio e d'altri tali più miserabili ancora. Così
quella nazione che ne' tempi suoi più floridi aveva narrato le sue
proprie cose, e i suoi splendidissimi gesti, e le sue altissime fortune, e
forse prima d'ogni altra, aveva dato in Erodoto l'esempio e l'ammaestramento di
questo genere di scrittura; dopo tanti secoli, quando già non restava se
non la lontana memoria della sua grandezza, estinto il suo imperio e la sua
potenza, fatta [2733]suddita di un popolo che quando ella scriveva le
sue proprie storie, ancora non conosceva, seguiva pure ad essere l'istrumento
della memoria dei secoli, e i casi del genere umano e di quello stesso popolo
dominante che l'aveva ingoiata, ed annullato da gran tempo la sua esistenza
politica, erano confidati unicamente alle sue penne. Tanto può la
civilizzazione, e tanto è vero che la civilizzazione della Grecia ebbe
una prodigiosa durata, e vide nascere e morire quella degli altri popoli (anche
grandissimi), i quali erano infanti, anzi ignoti, quand'ella era matura e
parlava e scriveva; e giunsero alla vecchiezza e alla morte, durando ancora la
sua maturità, e parlando essa tuttavia e scrivendo. Veramente la Grecia
si trovò sola civile nel mondo ai più antichi tempi, e senza mai
perdere la sua civiltà, dopo immense vicissitudini di casi, così
universali [2734]come proprie, dopo aver veduto passare l'intera favola
del più grande impero, che nella di lei giovanezza non era ancor nato;
dopo aver communicata la sua civiltà a cento altri popoli, e vedutala in
questi fiorire e cadere, tornò un'altra volta, in tempi che si possono
chiamar moderni, a trovarsi sola civile nel mondo, e nuovamente da lei uscirono
i lumi e gli aiuti che incominciarono la nuova e moderna civiltà nelle altre
nazioni.
Lascio la Storia Ecclesiastica, della quale
i greci hanno tanti scrittori, e i latini, si può dir, niuno se non S.
Ilario, della cui storia restano alcuni frammenti, che non so però
quanto abbiano dello storico, nè se quella fosse veramente storia. V. i
Bibliografi, e le opp. di S. Ilario, e una Dissert. del Maffei appiè
dell'opp. di S. Atanas. ediz. di Pad. 1777. Lascio le Croniche d'Africano e
d'Eusebio, opere che niuno avrebbe pur saputo immaginare a quei tempi nell'Europa
latina, che furono il modello di tutte le miserabili Cronografie latine uscite
dipoi (di Prospero, Isidoro ec.), che furono recate allora nella lingua
d'Italia, come nell'infanzia della letteratura latina furono tradotte le opere
di Omero, di Menandro, [2735]ec. che furono anche recate nelle lingue
d'Oriente (armena, siriaca ec.), di quell'Oriente che di nuovo riceveva la
civiltà e letteratura dalla Grecia, e quivi ancora servirono di modello,
come alla Cronica di Samuele Aniese ec.
(30. Maggio. 1823.)
Nam si quis minorem gloriae fructum putat ex
graecis versibus percipi, quam ex latinis, vehementer errat; propterea, quod
graeca leguntur in omnibus fere gentibus, latina suis finibus, exiguis sane,
continentur. Quare si res hae, quas gessimus, orbis terrae regionibus
definiuntur, cupere debemus, quo manuum nostrarum tela pervenerint, eodem
gloriam, famamque penetrare. Cic. Orat. pro Archia poeta, cap.10. Dunque se le
cose latine continebantur suis finibus, le cose greche legebantur
anche extra suos fines, dunque anche da quelli che non parlavano
naturalmente il greco, dunque s'elle legebantur in omnibus fere gentibus,
quasi tutte le nazioni intendevano il greco benchè non [2736]fossero
greche, dunque il mondo era , dunque
la lingua greca era universale di quella universalità ch'oggi ha la
francese. Nè per suis finibus si possono intendere i termini
dell'impero latino, i quali certamente non erano angusti ai tempi di Cicerone,
e lo dimostra anche quello che segue nel medesimo passo addotto.
(31. Maggio. 1823.)
È cosa indubitata che i giovani,
almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni,
non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma
eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e
si crede comunemente), s'annoiano più che i vecchi, e sentono molto
più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la
difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una
conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè
ne' giovani è [2737]più vita o più vitalità
che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di se stesso; e
dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o
maggiore intensità e sentimento e stimolo e vivacità e forza del
medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi
è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è
maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania
ed avidità e fame e bisogno di piacere: e non trovandosi il piacere
nelle cose umane è necessario che dove n'è maggior desiderio
quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento
dell'infelicità; quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di
vuoto; quivi maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior
difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della
medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne' giovani
che ne' vecchi; siccome [2738]sono; massime in questa presente mortificazione
e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia
della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il
giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa
impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle
sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile;
in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle
facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
Il qual ristagno è micidiale alla
felicità per le ragioni sopraddette. Ora esso è l'effetto proprio
del moderno modo di vivere, e il carattere che lo distingue dall'antico, e
quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo di carattere
essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da concepirsi agli [2739]antichi,
gl'ispirò il René, che si aggira tutto in descrivere e
determinare questo ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si
conchiuda se la vita antica o la moderna è più conducente alla
felicità, ovvero qual delle due sia meno conducente
all'infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo
ristagno come effetto preciso e proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza
se ne debba tirare intorno a questa religione, per ciò che spetta al
temporale. In verità si trova ad ogni passo che le sue più fine,
profonde, nuove e vere osservazioni e i suoi argomenti intorno al
Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al
carattere e spirito dell'uomo Cristiano, o moderno e civile, provano dirittamente
il contrario di quello ch'egli si propone. E può dirsi che ogni volta
ch'egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia per la sentenza contraria
alla sua, accresce gli argomenti che la fortificano, e somministra nuove armi ai
suoi propri avversari, credendosi di combatterli.
(1. Giugno. Domenica. 1823.). V. p.2752.
Opra sincope di opera si
trova in Ennio (ap. Forcell. v. opera, fin.), come nei nostri poeti opra
e [2740]oprare e adoprare ec. Tan alla spagnuola
per tam nel cod. antichissimo di Cic. de Repub. l.1. c.9. p.26. ed. Rom.
1822. dove vedi la nota del Mai.
(3 Giugno. 1823.)
Per esempio d'uno dei tanti modi in cui gli
alfabeti, ch'io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si
moltiplicarono e diversificarono dall'alfabeto originale, secondo le lingue a
cui furono applicati, può servire il seguente. Nell'alfabeto fenicio,
ebraico, samaritano ec. dal quale provenne l'alfabeto greco, non si trova il , carattere inutile perchè rappresenta
due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide, proccurato vanamente
dall'Imperatore Claudio d'introdurre nell'alfabeto latino, che parimente ne
manca, sebbene derivi dall'origine stessa che il greco; e in luogo del quale si
trovano negli antichi monumenti greci i due caratteri . (Secondo
i grammatici il vale
ancora e ; ma essi lo deducono dalle inflessioni ec.
come , ec. Non
so nè credo che rechino alcun'antica inscrizione ec.) V. p.3080. Ora
ecco come dev'esser nato questo carattere che distingue l'alfabeto greco dal
fenicio. Nella lingua greca, [2741]per proprietà sua, è
frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha di questi suoni che
in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli scrivani adunque obbligati
ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta ad intrecciare insieme
quei due caratteri ogni volta che occorreva loro di scriverli
congiuntamente. Da quest'uso, nato dalla fretta, nacque una specie di nesso che
rappresentava i due sopraddetti caratteri; e questo nesso che da principio
dovette conservare parte della forma d'ambedue i caratteri che lo componevano,
adottato generalmente per la comodità che portava seco, e per la
brevità dello scrivere, appoco appoco venne in tanto uso che occorrendo
di scrivere congiuntamente il e il , non si adoperava più se non quel
nesso, che finalmente per questo modo venne a fare un carattere proprio, e
distinto dagli altri [2742]caratteri dell'alfabeto, destinato ad
esprimere in qualunque caso quel tal suono: ma destinato a ciò non
primitivamente, nè nella prima invenzione o adozione dell'alfabeto greco,
e nella prima enumerazione de' suoni elementari di quella lingua o della
favella in genere; ma per comodità di quelli che già si servivano
da gran tempo del detto alfabeto. Di modo che si può dire che questo
carattere non sia figlio del suono ch'esso esprime, come lo sono quelli
ch'esprimono i suoni elementari, ma figlio di due caratteri preesistenti
nell'alfabeto greco, e quindi quasi nepote del suono che per lui è
rappresentato. La grammatica e le regole dell'ortografia ec. non esistevano
ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad esaminare e stabilire
l'alfabeto nazionale, trovato questo nesso già padrone dell'uso comune,
e sottentrato in luogo di carattere distinto e non doppio [2743]ma
unico, lo considerarono come tale, gli diedero un posto proprio nell'alfabeto
greco tra i caratteri elementari, e fissarono per regola che quel tal suono ps
si esprimesse, come già da tutti si esprimeva, col ??, e non altrimenti.
Ed eccovi questo nesso, introdotto a principio dagli scrivani per fretta e per
comodo, non riconoscendosi più la sua origine, o anco riconoscendosi, ci
viene nelle grammatiche antiche e moderne come un carattere proprio dei greci,
e come uno degli elementi del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo , che non è fenicio, introdotto come
nesso per rappresentare due caratteri, cioè , o , o : e ciò per essere questi suoni,
frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella lingua latina, nel cui
alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo medesimo nesso, considerato come
carattere. In luogo del quale gli antichi greci scrivevano , o . Lo
stesso dicasi [2744]del ,
carattere (originariamente nesso) che non si trova nell'alfabeto fenicio
(perciocchè il [ o p è veramente il , latino P, giacchè l'F è il
digamma eolico), e che fu introdotto in vece del che si trova
negli antichi monumenti greci, dove pur si trova il KH in vece del X, carattere
non fenicio. Questi due suoni composti, anzi doppi, ph e ch,
frequentissimi nella lingua greca, non si udivano nella latina. Dunque
l'alfabeto latino non ebbe questi due segni. I tre caratteri , , s'attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a
Palamede, aggiunti da lui all'alfabeto Cadmeo o Fenicio. Lo stesso dite dell', che s'attribuisce presso il medesimo a
Simonide ec.
Ne' tempi più hassi, moltiplicandosi
le scritture, o piuttosto la necessità di scrivere in fretta per la
scarsezza degli scrivani e del guadagno, e di scrivere in poco spazio per la
scarsezza della carta ec., e massimamente la negligenza e sformatezza e il
cattivo gusto della scrittura, e quindi impicciolendosi e affrettandosi sommamente
le forme dei caratteri, [2745]si moltiplicarono anche a dismisura i nessi,
le abbreviature ec. d'ogni genere (delle quali gli antichi erano stati parchissimi,
e alle quali anche poco si prestava la forma del loro carattere); di modo che
non v'è quasi codice o greco o latino di quelle età che non offra
nuove differenze di legature e abbreviature ec. Ma oltrechè la stessa
moltitudine e varietà loro impediva che questi tali caratteri doppi o
tripli o quadrupli ec. non fossero ricevuti nell'alfabeto; esisteva già
la grammatica e le regole ortografiche, e gli alfabeti delle rispettive lingue
erano da sì gran tempo, per sì lungo uso, e sì pienamente
determinati, fissati e circoscritti, che non davano più luogo nemmeno ai
nessi più costantemente e universalmente, e con più certa
significazione adottati in quei tempi.
Se non che forse negli alfabeti delle [2746]lingue
che si formarono dopo i detti tempi, e massimamente delle settentrionali,
rimase alcun vestigio di quel barbaro uso de' caratteri composti, il quale
è probabilmente l'origine del W, del Ç ec.
Negli alfabeti Orientali, settentrionali
antichi ec. (alcuni de' quali abbondano perciò strabocchevolmente di caratteri,
impropriamente chiamati lettere da' nostri, come il sascrito, che n'ha
più di 50.) si trovano moltissimi caratteri rappresentanti due, tre,
quattro o anche più suoni elementari unitamente. I quali caratteri non
si debbono creder sincroni all'invenzione o adozione di quegli alfabeti, ma
nati dalla fretta e dal comodo degli scrivani come nessi, e ricevuti poi facilmente
come caratteri semplici (benchè così numerosi) negli alfabeti di
lingue le cui grammatiche e regole ortografiche o non esistono, o nacquero
tardi, o non sono abbastanza fisse, ferme, certe, stabilite, invariabili, o abbastanza
precise, minute, determinate, esatte, particolari, distinte, o abbastanza note
e adottate universalmente [2747]nella rispettiva nazione, o tardi hanno
conseguito queste qualità. E dico tardi, rispetto alla maggiore o minore
antichità della scrittura e letteratura presso quelle nazioni; presso
alcune delle quali esse sono molto più antiche che presso la greca, come
la scrittura e letteratura sascrita presso gl'indiani.
Nondimeno questa prodigiosa
moltiplicità di caratteri rappresentanti de' suoni composti, nasce in
alcuni dei detti alfabeti dal mancare in essi totalmente o in parte i segni
rappresentanti i suoni semplici della favella. La qual mancanza, ch'è la
maggiore imperfezione che possa essere in un alfabeto, cagiona necessariamente
e immediatamente un'assoluta e indeterminata moltiplicità di segni
nell'alfabeto medesimo. Ma questa mancanza ed imperfezione non è
già una prova che quegli alfabeti abbiano un'origine diversa da quella
degli alfabeti Europei. Essa mancanza ed imperfezione, e la moltiplicità
[2748]di caratteri che ne deriva, e l'uso di segni rappresentanti de'
suoni composti, sono tutte qualità che dovettero necessariamente essere
nell'alfabeto primitivo; perchè l'uomo non arriva al semplice e agli
elementi se non per gradi, anzi queste sono le ultime cose a cui egli arriva, e
nell'arrivarvi consiste appunto la maggior possibile perfezione delle sue idee
in qualunque genere. Ora nessuna cosa umana è perfetta nel suo
principio, e massime un'invenzione così difficile e astrusa come fu
quella dell'alfabeto. Non fu poco, anzi fu maravigliosissimo il pensiero di
applicare i segni della scrittura ai suoni delle parole, invece di applicarli
alle cose e alle idee, come si fece nella scrittura primitiva e nella geroglifica,
come facevano i messicani nelle loro pitture scrittorie, come fanno i selvaggi,
e i chinesi. Dopo concepito questo mirabile pensiero, che fu l'origine
dell'alfabeto, questo pensiero ch'io dico essere stato unico nel mondo,
cioè concepito da un uomo solo (e in questo senso io sostengo [2749]che
l'origine di tutti gli alfabeti sia stata una sola) molto ancora vi volle, e
molto tempo dovette passare, e molti tentativi farsi, e molti alfabeti passare
in uso presso varie nazioni, prima che l'uomo arrivasse a distinguere i suoni veramente
semplici della favella, cioè quelli di cui si componevano tutti gli
altri suoni che formavano le parole. Ma da principio, e poi successivamente a
proporzione, finchè non si giunse al detto punto, moltissimi suoni
composti dovettero parer semplicissimi e indecomponibili. Il numero di questi,
e dei segni destinati a rappresentarli, e quindi dei caratteri dell'alfabeto,
dovette andar sempre scemando a misura che l'uomo si avvicinava a scoprire i
puri elementi dei suoni. Ma in questo intervallo gli alfabeti che si usavano,
dovevano aver molti caratteri, perchè questi rappresentavano dei suoni
composti. Non tutte le nazioni poterono profittare della scoperta che finalmente
si fece dei suoni veramente semplici. Quelle nel cui uso erasi già [2750]confermato
un alfabeto più o meno composto di segni rappresentanti de' suoni
più o manco moltiplici; quelle presso cui la scrittura era già
comune; quelle massimamente che avevano già una letteratura, dovettero
conservare il loro alfabeto, o tal qual era, o semplificato di poco,
perchè l'uso vince ogni ragione. (Basti osservare che la China presso
cui l'uso della scrittura s'era forse o introdotto o diffuso prima che fra le
altre nazioni, non potè neppure o non volle ricevere l'uso dell'alfabeto
assolutamente.) Così l'alfabeto fenicio, e gli alfabeti europei derivati
da quello, si perfezionarono, mentre molti alfabeti orientali ec. rimasero nell'imperfezione,
e questa si radicò e si mantenne in essi perpetuamente fino al dì
d'oggi.
Vedesi dalle sopraddette cose, ch'io
distinguo due epoche nelle quali l'uso de' caratteri rappresentanti de' suoni
composti dovette introdurli ne' vari alfabeti. L'una prima del perfezionamento
dell'alfabeto, l'altra dopo la sua intera perfezione. [2751]Nell'una e
nell'altra epoca (specialmente però nella prima) questi caratteri
contribuirono grandemente a distinguere l'alfabeto di una nazione da quello di un'altra,
benchè tutti gli alfabeti derivassero da un'origine sola. Anzi parlando
delle diversità intrinseche ed essenziali de' vari alfabeti (cioè
di quelle che non consistono nella forma de' caratteri ec.), questa è
forse la loro cagione principale. (3-4. Giugno. 1823.). Si possono facilmente
riconoscere i caratteri composti appartenenti alla seconda epoca da quelli
della prima, considerando se essi si trovano o no nell'alfabeto da cui
più o meno immediatamente deriva quello in questione. Non trovandosi,
è segno ch'essi appartengono alla seconda epoca. Come, non trovandosi
nell'alfabeto fenicio, da cui viene il greco, i caratteri composti o doppi , , , , , è segno che questi appartengono
alla seconda epoca, nel modo che si è mostrato di sopra. Questo
però non è sempre un segno certo, potendo una nazione anche in
quella prima imperfezione dell'alfabeto, [2752]avere adottato dei
caratteri composti che non si trovassero in quell'alfabeto da cui derivava il
suo, ed avergli adottati per diverse ragioni, come per bisogni particolari
della sua lingua, a cui non bastassero i caratteri che bastavano all'altra, o
alcuni di questi soprabbondassero e non servissero, altri mancassero. La vera,
intrinseca, ed essenziale differenza tra i caratteri composti della prima epoca
e quelli della seconda, si è che quelli sono figli immediati de' suoni,
cioè trovati per rappresentare immediatamente i suoni, e questi sono
figli d'altri caratteri, cioè trovati per rappresentare due o più
caratteri già esistenti e noti, e così sono nipoti de' suoni.
(4. Giugno. 1823.)
Alla p.2739. fine. In primavera non è
dubbio che la vita nella natura è maggiore, o, se non altro, è
maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione e torpore di esso
sentimento cagionato dal freddo, e del contrasto tra il nuovo sentimento, o fra
il ritorno di esso, e l'abitudine contratta nell'inverno. Questo accrescimento
di vita [2753](chiamiamolo così) è comune in quella
stagione, come alle piante e agli animali, così agli uomini e massime
agli individui giovani, sì delle predette specie, come dell'umana. Ora
indubitatamente non è alcuno, se non altro de' giovani, che in quella
stagione non sia più malcontento del suo stato e di se, che negli altri
tempi dell'anno (parlando astrattamente e generalmente, senza relazione alle
circostanze particolari, o vogliamo dire, in parità di circostanze).
Tanto è vero che il sentimento dell'infelicità si accresce o si
scema in proporzione diretta del sentimento della vita, e che l'aumento di
questo è inseparabile dall'aumento di quello. (4. Giugno 1823.). V.
p.2926. fine. Così una sventura particolare opera maggior effetto e
più dolorosa impressione in un temperamento forte e vivo, e lo abbatte
di più che non un temperamento debole, contro quello che parrebbe
dovesse essere, e che il volgo crede e dice. E la causa di ciò, non
è, come si suol dire, la maggior resistenza che un temperamento [2754]forte
oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior grado di vita, e quindi la maggiore
intensità di amor proprio e il maggior desiderio di felicità, che
nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la rassegnazione, o
piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore. Se il dolore
faceva quasi una strage nell'uomo antico, siccome fa nel selvaggio; se gli
antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura fino alle smanie e
al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al deliquio, al totale
spossamento di forze, al deperimento della salute, all'infermità, alla
morte o volontaria o naturale, ciò non proveniva, come si dice, dal non
essere assuefatti al dolore. Qual è l'uomo vivo che non sia accostumato
a soffrire? Ma proveniva dal maggior vigore di corpo ch'era negli antichi ed
è ne' selvaggi, a paragone de' moderni e civili. E forse questa,
più che la minore assuefazione, è la causa che i giovani siano
più sensibili [2755]alle sventure e più suscettibili di dolore
che i vecchi; o certo questa n'è in grandissima parte la causa. Massimamente
osservando che questa differenza si trova anche fra giovani assuefattissimi
alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di quanto convenga
patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto ogni cosa a lor
modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia la più felice
abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini.
(4. Giugno 1823.)
Alla p.2717. Dico che la lingua francese
è più ricca dell'italiana quanto alle parole non sinonime.
Intendo de' nomi e de' verbi. Nelle altre parti dell'orazione la ricchezza
nostra è incomparabile non solo colla lingua francese, ma pur colla latina,
e forse con ogni lingua viva. Questa ricchezza è utile, e reca alla
nostra lingua un'immensa ed inesauribile fecondità di frasi [2756]e
di forme, e allo scrittore italiano la facoltà di poterne sempre foggiar
delle nuove, non solo conformi all'indole e proprietà della lingua, ma
che non paiano neppur nuove (forse neanche allo stesso scrittore),
perchè nascono come da se, dal fondo della lingua, chi ben lo conosce, e
lo sa coltivare e scaturiscono dalla natura di essa. Da ciò deriva una
incredibile varietà. Ma la sostanziale e necessaria ricchezza di una
lingua non può consistere nelle particelle ec. bensì ne potrebbe
nascere, se queste si applicassero alla composizione delle parole, come fa la
lingua greca, la quale è ricchissima di nomi e di verbi (che sono la
sostanza e la principal ricchezza di una favella) non per altra cagione principalmente,
se non per la estrema abbondanza di preposizioni e particelle d'ogni sorta, e
per l'uso larghissimo ch'ella ne fa nella composizione d'ogni maniera di
vocaboli.
(5. Giugno. ottava del Corpus Domini. 1823.)
[2757]Ritenere per ricordarsi
o tenere a mente (v. la Crusca in ritenere §.7.) onde ritenitiva
e retentiva per memoria, viene dal latino. V. Forcellini in Retinere
fine. Aggiungi Cassiodoro De artibus ac disciplinis liberalium litterarum.
Cap. 5. cioè De Musica opp. Cassiod. ed. Venet. 1729. t.2.
p.557. col. 2. (la detta opera s'intitola più comunemente de septem
disciplinis). Apud Latinos autem magnificus vir Albinus librum de hac re
(de Musica), compendiosa brevitate conscripsit; quem in bibliotheca Romae
nos habuisse, atque studiose legisse RETINEMUS. Vedi ancora il Forcell. in Retinentia.
Il Glossario non ha niente in proposito.
(6. Giugno. 1823.)
È proprietà della nostra
lingua di contrarre i participii de' verbi della prima congiugazione, togliendo
dalla loro desinenza in ato, le due prime lettere, cioè at:
i quali participii così contratti, e serbano il loro valore di
participii, servendo pure alla congiugazione de' loro verbi coll'ausiliare; e
bene spesso passano a fare uffizio di [2758]aggettivi; e molti semplici
aggettivi della nostra lingua non sono altro che participii così
contratti o di verbi italiani originati dal latino o d'altronde, o di verbi pur
latini ec. V. Bartoli Il Torto e 'l diritto del non si può. capo 137. e
la pag.3060-3. 3035-6. ec. Ora questo medesimo costume di contrarre in questo
medesimo modo i participii in atus della prima, togliendo loro le due
lettere at caratteristiche della desinenza, si vede essere stato anche
fra' latini, fra' quali Virgilio ed altri fecero inopinus per inopinatus,
e da necopinatus, necopinus, e così d'altri participii, o
aggettivi così formati, di molti de' quali forse non si riconosce ora
più la prima origine e forma di participii in atus, mancando loro
le caratteristiche at. Odorus per odoratus. E tanto
maggiormente si dee credere che questa sorta di contrazione familiarissima a
noi, fosse anche più familiare al volgo latino che agli scrittori,
quanto che il popolo ama sempre le contrazioni e accorciamenti.
(10. Giugno. 1823.)
[2759]Io udii un uomo di campagna,
avvezzo per la sua professione a considerare i rovesci degli elementi come
sciagure e calamità, raccontando gli effetti d'una inondazione da lui
poco innanzi veduta, e raccontandoli come dannosissimi, e compiangendoli, soggiungere
che nondimeno ella era stata una cosa bella e piacevole a vedere e udire, per
l'impeto e il rombo, la grandezza e la potenza della piena. Tanto è vero
che l'uomo è inclinato per natura alla vita, e che tutte le sensazioni
forti e vive, quand'elle non recano dolore al corpo, e non sono accompagnate
col danno o col presente pericolo di chi le prova, sono per la loro stessa
forza e vivezza, piacevoli, ancorchè per tutte le altre loro
qualità ed effetti siano dispiacevoli o terribili ancora.
(10. Giugno 1823.)
Chi vuol manifestamente vedere la differenza
de' tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla civilizzazione,
e alle opinioni che [2760]s'avevano intorno alla virtù e
all'eroismo, siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai
diritti e al modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico; e chi
vuol notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea
della virtù eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse
in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.)
dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha più luogo co' Rutuli alcuna
misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo
per la celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa
scena e questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce
Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso da Agamennone,
che senza alcuna pietà uccide il troiano già vinto e
supplichevole.
[2761]Ma chiunque bene osservi
vedrà che siccome questa scena riesce naturalissima e conveniente in
Omero, così riesce forzatissima e fuor di luogo in Virgilio, e ripugna
all'idea che il lettore si era formato sì del carattere di Enea,
sì della virtù eroica generalmente, dietro alle tracce di quel
poema: anzi, dirò anche, ripugna all'idea che se n'era formata lo stesso
Virgilio. E tutto quel luogo del suo decimo libro, dov'Enea fa lo spietato e il
terribile, si riconosce a prima giunta per tirato d'altronde, (cioè
dall'imitazione d'Omero, e dal carattere eroico-omerico) alieno dall'indole del
poema e dell'eroe, alieno dal concetto medesimo di Virgilio: tanto che quella
che si chiama inumanità, sembra in quel luogo come affettata da Enea, ed
ascitizia, e quasi finta e par ch'egli ci sia inesperto e non la sappia esercitare;
laddove negli eroi di Omero [2762]ella par vera e propria e che venga
loro da natura.
La ragione si è che Omero e tutti
quei del suo tempo concepivano l'inumanità verso i nemici come
appartenente alla virtù eroica, come parte, come debito della medesima,
e tanto è lungi che la tenessero per colpa o eccesso, che anzi la stimavano
una dote e un attributo degno e proprio dell'eroe: ed intendevano di lodar
quello a cui l'attribuivano; e l'attribuivano ed esageravano, volendo lodare,
eziandio a chi non l'avesse o non l'avesse in quel tal grado; come fanno i
panegiristi circa ogni sorta di virtù. Laddove Virgilio la concepiva,
secondo le idee incivilite del suo tempo, come un vizio, e un biasimo; e
concepiva come virtù e pregio la benignità ed umanità verso
i nemici, il che sarebbe stato ridicolo o assurdo ai tempi d'Omero, come lo
sarebbe ora presso i [2763]selvaggi, e questa umanità pose come
parte essenziale e notabilissima della virtù eroica, ed espressela nel
suo Enea, anzi gliel'attribuì come qualità caratteristica e
principale della sua indole. E quei tratti d'inumanità non li tolse
nè li ritrasse dalla forma dell'eroismo ch'egli avea nella sua mente,
nè da quella del carattere di Enea ch'egli si era composta; ma dal poema
che s'aveva e s'era sempre avuto per modello dei poemi eroici, e in cui si
stimava universalmente, essere rappresentata la vera idea del carattere eroico.
E ne li tolse quasi contro sua voglia; o più veramente non s'accorse che
questa idea a' suoi tempi, in questa parte, era mutata; e non era, in questo,
l'idea sua nè quella de' suoi contemporanei; e ch'essa era, in
ciò, ben diversa dal concetto ch'egli s'era formato e ch'aveva espresso,
del suo Enea. Laonde non vide che quei tratti, benchè propri della [2764]virtù
eroica appresso Omero, ed appartenenti al carattere di quegli eroi, non avevano
che fare col suo poema. Ma esso gli appropriò ad Enea pensandosi d'aver
espresso fino allora, e di esprimere nel suo poema un eroe come quelli di
Omero, e un carattere eroico come l'eroismo espresso da Omero; nel che
s'ingannava; e pensandosi che l'eroismo per li suoi tempi fosse quella cosa
medesima ch'era stato per li tempi d'Omero, nel che pur s'ingannava. Siccome
anche s'ingannava pensandosi d'aver fatto un eroe che fosse potuto essere a
quei tempi ne' quali egli lo supponeva; o ch'essendo, fosse potuto essere
stimato eroe da' suoi contemporanei. Perchè infatti Virgilio nel formare
il carattere di Enea, non salvò la verisimiglianza, rispetto ai tempi in
cui fu questo eroe, e peccò di anacronismo in questo carattere molto
peggio che nell'episodio di Didone; [2765]siccome peccò di
gravissimo anacronismo lo Chateaubriand nei Martiri, supponendo le opinioni
religiose, la religiosità e le superstizioni de' tempi di Omero, ne'
tempi di Luciano.
L'inumanità verso i nemici non era
biasimo ai tempi di Omero, perchè i nemici non erano considerati come
uomini, o come parte di quel corpo a cui apparteneva il loro avversario. Gli
antichi (e i selvaggi altresì) erano ben lontani dal considerare tutto
il genere umano come una famiglia, e molto più dal considerare i nemici
come loro simili e fratelli. Simili e fratelli non erano per gli antichi, e non
sono per li selvaggi, se non gl'individui della loro stessa società; o
nazione o cittadinanza o esercito che la vogliamo chiamare e considerare. Di
questo ho detto altrove. Quindi essere inumano verso i nemici, tanto era per
gli antichi, quanto essere inumano verso i lupi o altri animali che non [2766]sono
del genere umano, anzi gli nocciono. Siccome appunto i nemici nocevano o
cercavano di nuocere a quella società, dentro i limiti della quale si
conteneva tutta quella famiglia umana a cui gli antichi si stimavano appartenere.
E come a chi prendesse a difendere o a vendicare la sua società contro
gli animali nocivi, sarebbe lode il non perdonar loro in alcuna maniera, ma
sterminarli tutti a poter suo; così agli antichi era lode l'inumanità
verso i nemici, che non si reputavano aver diritto all'umanità, non istimandosi
aver nulla di umano, cioè nulla di comune con quegli uomini che
li combattevano; e l'eccesso o il sommo grado di questa inumanità si
giudicava proprissima dell'eroe. Massimamente che tutte le passioni o azioni
forti erano fra gli antichi stimate molto più degne, o certo più
eroiche che le deboli; e quindi la spietatezza verso chi non aveva alcun titolo
alla clemenza, quali si stimavano [2767]i nemici, era creduta molto
più eroica che la compassione, affetto dolce, molle, e stimato
femminile; la vendetta molto più eroica che il perdono, siccome il
risentimento era giudicato ben più degno dell'uomo che la pazienza delle
ingiurie, la quale non andava mai disgiunta dalla riputazione e dal biasimo di
viltà o dapocaggine.
Quando Omero, introduce Priamo ai piedi
d'Achille, quando ci commuove fino all'anima coll'amaro spettacolo di tanta
grandezza ridotta a tanta miseria, quando par che impieghi ogni artifizio, che
accumuli ogni circostanza, propria a destarci la compassione più viva, e
nel tempo stesso ci rappresenta Achille, il protagonista del suo poema, il
modello della virtù eroica da lui concepita, così difficile,
così tardo a lasciarsi piegare, piangente sopra il capo di Priamo, non
già le sventure di Priamo, ma le sue proprie e il suo vecchio padre, e
il suo Patroclo, della cui morte esso [2768]Priamo era venuto a
chiedergli in certo modo il perdono, quando finalmente non lo fa risolvere di
concedere al supplichevole e infelicissimo re la sua misera domanda, se non in
vista dell'ordine espresso già ricevutone da Giove per mezzo di Teti,
senza il quale egli dimostra e fa intendere assai chiaramente che nè le
preghiere nè il pianto nè il dolore nè tutto il misero
apparato di quel re domo e prostratogli dinanzi, l'avrebbero vinto; a noi pare
che questo Achille sia quasi un mostro, e che anche una virtù secondaria
anzi minima, non che primaria, (come si rappresenta la sua in quel poema) anche
molto più gravemente offesa, anche già meno acerbamente
vendicata, anche con minori cagioni d'intenerirsi, avesse dovuto e commuoversi
ben tosto, e sommamente, e concedere già molto prima di quel ch'ella fa,
la domanda del supplichevole, e concedere anche assai di più, potendo [2769]farlo,
e farlo di volontà sua. Ma Omero stimò di doverci rappresentare
in quel punto Achille come egli rappresentollo. E non si creda ch'egli nel far
questo abbia solamente in mira di conservare la simiglianza del carattere
feroce di Achille, da lui fino allora espresso, e di non farne un personaggio
diverso da quel che l'aveva fatto essere. Omero attende a salvare il suo eroe
dal biasimo della compassione, cioè della mollezza, e della
facilità di lasciarsi commuovere, e della tenerezza di cuore; come noi
attenderemmo (e come infatti i più moderni epici ec. attesero ec.) a
salvarlo dal biasimo della durezza della insensibilità, della
crudeltà verso il nemico, e a proccurargli appunto la lode della
compassione verso il nemico, come cosa magnanima ec. Omero non ha solamente
riguardo all'Achille tal quale egli l'ha fatto, ma alla virtù eroica tal
quale allora si concepiva; egli introduce quell'episodio compassionevole in
grazia del sommo interesse e del gran contrasto di affetti a cui dà
luogo, ma guarda che Achille non offenda in alcuna parte le leggi dell'eroismo;
non si mostri leggero, flessibile, dappoco perdonando; non sia ripreso d'essere
stato umano [2770]co' nemici della sua nazione e suoi.
Tali erano i tempi di Omero, e molto
più quelli ch'egli dipinge: e tali bisogna considerarli volendo ben
conoscere ed estimare la somma arte imitativa di quel grande spirito, anche
nelle situazioni più difficili. Siccome appunto era questa, assai
più difficile per lui, stante le predette considerazioni, che non
sarebbe per noi. Nella quale quanto più a noi può parere ch'egli
abbia peccato, quanto più egli si allontana dalla nostra opinione, e
delude ed étonne la nostra aspettativa, tanto la sua arte è maggiore,
la sua imitazione più vera, la sua osservazione e conservazione de'
caratteri, de' tempi, de' personaggi più costante, e più mirabile
la sua riuscita, e la felicità con cui egli si trae fuori delle difficoltà
somme di questo passo. E tanto eziandio erano e si denno valutar maggiori esse
difficoltà.
(11. Giugno. 1823.)
[2771]Noi diciamo fumo per superbia,
fasto, vanità, onori vani o l'orgoglio che ne nasce, e il
vanto ch'altri ne fa: insomma applichiamo in molti modi e casi quella
parola a significare la superbia e le cose che a questa appartengono. Vedi Caro
lett. 20. vol.1. principio. Nè più nè meno fanno i greci
della voce , (il cui
proprio significato si è fumo), e de' suoi derivati e composti.
Siccome anche noi similmente di fumoso, e fumosità.
(12. Giugno 1823.)
Matto non verrebb'egli da mthn, mtaiow, e mattia
cioè mattezza da matÛa?
(12. Giugno 1823.)
Come la lingua latina abbia conservato
l'antichità più della greca, si dimostra ancora con queste
considerazioni. 1. La lingua latina conserva nell'uso comune de' suoi buoni
tempi e de' seguenti (non solo degli anteriori) i temi, o altre voci regolari
di verbi che tra' greci, avendo le stesse radici che in latino, ma essendo
però difettivi o anomali, non conservano i loro primi temi o quelle tali
voci regolari, o non le usano se non di rarissimo, [2772]o talmente
ch'essi temi ed esse voci non si trovano se non presso gli antichissimi autori,
o presso i poeti soli, i quali in ciascuna lingua che ha favella poetica
distinta, conservano sempre gran parte d'antichità per le ragioni che ho
detto altrove. Dovechè la lingua latina usa essi temi ed esse voci
universalmente sì nella prosa come nel verso, ed usale ne' secoli in
ch'ella era già formata e piena, ed usale eziandio non come rare,
nè come quasi licenze o arcaismi, ma tutto dì e regolarmente e
come temi e voci proprie e debite di quei verbi a' quali appartengono. Per
esempio il verbo do, si è il tema di (e nota
che questo verbo in greco non è neppure anomalo nè difettivo, ma
l'uso l'ha cangiato interamente dal suo primo stato, a differenza del verbo latino
do.). Il qual tema conservasi nel latino in tutti i composti d'esso
verbo, come credo, edo, trado, addo, subdo, prodo, vendo, perdo, indo,
condo, reddo, dedo, ec. (ne' quali per istraordinaria anomalia è
mutata la coniugazione di do dalla prima nella terza: non così in
circumdo as, venundo as, pessundo as ec.) Ma in nessun composto del verbo
comparisce nel greco il suo vero tema. voce e
tema di verbo anomalo o difettivo, non si troverà [2773]credo, in
greco se non presso i poeti, ma tra' latini edo e il suo composto comedo
sono voci e verbi di tutti i secoli e di tutte le scritture. Eo tema da cui nascono in greco tanti verbi,
non si trova nè fra' poeti greci nè fra' prosatori ma egli
è comune e proprio ai latini, e ne nasce un verbo usitatissimo, co' suoi
composti, che tutti conservano il tema intatto e conservano altresì
tutta la sua coniugazione perfettamente, redeo, abeo, exeo, ineo, subeo,
coeo, adeo, circumeo, pereo, intereo, obeo, prodeo, introeo, veneo, praetereo,
transeo, ec. Nessun composto greco conserva il tema .Lateo è il medesimo che J, voce, e
tempo ben raro negli scrittori greci, e verbo difettivo in greco, ma tema
comune e usitatissimo, e verbo quasi perfetto e regolare in latino. Il tema J trovasi
espressamente in Senofon. Simpos. c.4. §.48. I Dori e gli Eoli dicevano
probabilmente J. Patior
che sta in luogo dell'attivo patio (il quale pur si trova nell'antica
latinità) è più vicino al J, (Dor. ed
Eol. J)
inusitato in greco, che non è l'usitato .
Composti, per-petior ec. Il verbo fero, s'io non m'inganno, ha
più voci in latino che in greco. Del tema sto equivalente
all'inusitato , altrove.
Il tema non si
trova, ch'io sappia in greco. Il verbo si trova, cioè , ec. ma
è difettivo. Il verbo sto è intero.
[2774]Viceversa saranno ben pochi
quei verbi anomali o difettivi latini il cui proprio puro e vero tema, disusato
in latino, o le cui voci che in latino sieno o perdute o irregolari, si
conservino, e regolari, nell'uso greco universale d'ogni buon secolo e d'ogni
genere di scrittura. Tale per esempio sarebbe il verbo , tema di memini
(il qual memini è fatto per duplicazione della m, come
in greco e come
molti preteriti latini, cecini, cecidi, dedi, steti, fefelli, poposci,
pepuli, tetuli antico, da tulo o tollo, tetigi, pepigi, peperci,
cecidi, spopondi, dedidi, tetendi, peperi, totondi, pependi, didici v.
Gell. 7. 9) ec. Di questo verbo si
conservano alcune voci nel greco, ma piuttosto presso i poeti che altrove: e
dubito che in alcun luogo si trovi esso tema . Puoi
vedere la p.3691.
E qui osservo che la lingua latina conserva
ordinariamente i suoi temi più semplici e puri cioè composti di
minor numero di lettere, che non fa la lingua greca. Il che si può
vedere e per gli esempi sopraddotti, e per alcuni che s'addurranno, e per
moltissimi che si potrebbero addurre. Per esempio da o , i greci,
per la solita duplicazione o anadiplasiasmo, oltre l'inflessione in , fecero ; come da , [2775]da
o o , da , da o o , da J J, da J o o o , da e da o da , da , , o , o J, da o , da , da , da J ec. , ec. da , da , e mille
altri. I latini conservarono il puro do. Così da J J. I latini
lateo. Così da , da , da , da J J, da J J, da , da o , da , da o e simili,
da , da ec., da , da , J, da , da J, da e , da , , , . Cento
forme e figure avevano i greci (o provenienti dalla varietà e
proprietà de' dialetti, o d'altronde) sì di alterare, come di
accrescere gli elementi de' loro temi. Non così i latini. Quindi i loro
temi o sono monosillabi, o più facili da ridursi alla radice monosillaha.
V. p.2811.
2. Molte radici (o primitive o secondarie)
di vocaboli greci che non si trovano nel greco, o non sono in uso, quantunque
lo fossero già, si conservano nel latino, e sono usitate. Può
servir d'esempio la voce do, radice del verbo , il quale
non è nè anomalo nè difettivo come ho detto di sopra. Ma è
veramente lo stesso do (non un suo derivato) alterato cioè
duplicato ed inflesso alla maniera greca. si
è un vero derivato di , il quale
però non si trova ne' greci, o è rarissimo e solamente poetico.
Ben si trova il suo participio fem. sostantivato , che
nella 2da iscrizione triopea, è [2776]adoperato in forma
aggettiva. I latini hanno rapio, che per metatesi è appunto il
tema . Nello
Scapula trovo senza esempio ed . Questo
sarebbe contrazione di (v. Schrevel.
in ), del
quale non
sarebbe un derivato ma quasi un'inflessione, come da , . Ma di non
può venire ,
bensì o . V.
p.2786.
3. Com'è detto qui sopra, p.2774-5.
la lingua latina è solita di conservar le parole molto più
semplici quanto agli elementi, che non fa la lingua greca. E ciò si deve
intendere non solo de' temi de' verbi o delle radici di qualunque vocabolo, ma
d'ogni altra qualsivoglia voce. Per i latini
hanno dens -tis. dev'essere
un'alterazione di come di , di , di , di , di da e , v.
p.2825.3169. o di ec.
Infatti è
molto più imitativo e conveniente che dove il , quanto all'imitare, ci sta a pigione. Or
questo verbo in origine è formato e nato evidentemente dall'imitazione
del suo soggetto, come ululo. E non è maraviglia,
perciocchè egli è vocabolo significativo d'un suono. V. p.2811. e
lo Scap. in . I latini
hanno ululo, che certo è originalmente tutt'uno con , ed
è tanto più semplice negli elementi. , verbo
difettivo o anomalo, è fatto per anadiplasiasmo da , il [2777]quale
non è già il suo tema, ma sibbene , onde come da , da , da , da inusitato poetico
da poetico
da , da inusitato
, da , da , da (contratto
) . I latini
hanno nosco senza l'anadiplasiasmo e senza il g. E qui pure si
noti nel latino la conservazione dell'antichità. I greci medesimi dicono
comunemente anche . Ma il
puro tema di questo verbo, ch'è e per
sineresi fatto da (come i sopraddetti ec.), da
cui gli Eoli (v.
Lexic.), non si trova in tutta la grecità, e trovasi nel latino. Nel
quale il verbo nosco è così regolare come i suoi uniformi,
cresco, suesco, nascor, scisco e simili e in parte adolesco, exolesco,
inolesco ec. pasco ec. V. la pag.3688. sqq. E comparisce nel latino
il g eolico ne' composti di nosco, agnosco, cognosco, ignosco,
dignosco (trovasi anche dinosco), prognosticum (sebben questa
è voce tolta dal greco a dirittura, ai tempi di Cic. o circa). Negli
altri composti praenosco, internosco, il g non comparisce. V.
p.3695.
[2778]4. Molti attivi di verbi che
in greco non conservano se non il medio -salio (in senso
attivo, o passivo, o in ambedue), o il passivo, (in senso passivo o attivo ec.)
l'uno e l'altro, o parte dell'uno, parte dell'altro, (com'è ordinarissimo),
segni certissimi di un verbo greco attivo perduto (come lo sono i deponenti in
latino), o che in greco sono appena conosciuti, o solamente poetici, o antiquati
o insoliti, sono comuni ed usitati universalmente in latino, o se non altro si
conservano. Di ciò si potrebbero addurre non pochi esempi. Bastimi il
verbo gigno, attivo di che
significa gignor e che in greco manca non solo di voce ma eziandio di
significazione attiva. E notate che il verbo latino gigno nel perfetto e
ne' tempi che dal perfetto si formano e nel supino, muta la i radicale
in e, e perde il secondo g come appunto accade nel greco nelle sue
inflessioni. Serva per altro esempio il verbo volo, il quale io dico
esser la voce attiva di ,
cioè , mutato
il b in v, come in tanti [2779]altri casi (p.e. da vado),
vedi p.4014. e fatto dell', , alla Dorica, cioè , come di i dori , i latini bos, di gli Eoli (come da ), i
latini somnus, di , nox:
v. p.3816. oltre le solite mutazioni volgari di vulgus vulpes ec. in volgus
volpes. (12-13. Giugno 1823.). si
trovò certamente nell'antica lingua greca, come mostra il suo medio . E forse
sì che J ed J furono
fatti per J dal tema
monosillabo volo,
onde , ec. V.
Lexic. E così J volo viene forse
dalla stessa radice del suo sinonimo , di cui
però v. Ammon. de Different. vocabulor. ( nolo è
di Plat. e di Demost. nelle epist.) Di tal J se n'ha
appunto un esempio in JJ. V.
p.3842.
Alle osservazioni da me fatte circa il verbo
expectare nel principio della mia teoria de' continuativi, aggiungi che
anche in greco vale osservare
o stare a vedere guardare, e nel medesimo tempo aspettare, onde
(13. Giugno 1823.)
Che il proprio tema de' verbi ß, , fosse , come
forse ho detto nella mia teoria de' continuativi parlando di sisto, e
che l'iota sia una giunta fatta al tema per proprietà di lingua, si
conosce sì dalle molte voci di questi verbi che mancano di quell'i
paragogico, e da tutti i loro derivati che parimente [2780]ne mancano,
sì dal verbo il quale
colla medesima paragoge (ch'esso perde in molte voci) è fatto
dall'inusitato (v. la
Gramm. di Pad. p.210.) o , onde , , che
vagliono altresì volare, e che in origine non debbon esser altro
che il verbo pando
explico che ancora esiste, trasportato alla significazione del volare per
lo spiegar delle ali ec. e vedi la pag.2826.
Del resto niente impedirebbe che sto
e non
avessero niente di comune nella loro origine, o ch'essi fossero nati da una
stessa lingua madre, ma indipendentemente l'uno dall'altro, giacchè
l'uno significa stare ed anche essere (vedi Forcellini), e
l'altro stabilire, il cui passivo o medio ,
passivando il significato di stabilire, viene a prendere la
significazione neutra di stare (quasi essere stabilito).
Ma supponendo che sto e sieno in
origine uno stesso verbo, niente pure impedisce che il greco sia derivato dal
verbo latino, e che tuttavia il latino sisto, ben diverso da sto
e per coniugazione e per significato e per tutto, sia nato dal greco , .
[2781]Chi può saper le varie
vicende dei commerci antichissimi fra le lingue latina e greca, dopo che l'una
e l'altra nacquero dalla stessa madre; quando la storia delle due nazioni
comincia per noi così tardi, e massime la storia veridica, e certa; e la
storia non alterata dalle favole ambiziose di cui è tutta piena l'antica
istoria greca? Chi può con certezza negare che in quel lunghissimo
tratto di tempi oscurissimi non vi fossero delle epoche nelle quali la lingua
greca si arricchisse delle spoglie della sorella, ed altre, o successivamente o
anche allo stesso tempo, in cui la lingua latina si arricchisse, come certo
fece, delle spoglie della greca, ed anche ricevesse sotto nuova forma alcune di
quelle medesime voci ch'erano nate da lei e da lei passate nella lingua greca,
o alcuni derivati di quelle? Come sarebbe nella nostra supposizione;
cioè che sto, nato nella lingua latina dal participio di sum,
passato in Grecia sotto forma di , [2782]ridotto
quivi per paragoge alla forma di , e per contrazione
a quella d' e mutata
significazione per affinità, ritornasse nel latino colla forma di sisto,
il qual verbo verrebbe così ad essere originalmente il medesimo che sto.
Osservando la cosa ne' tempi moderni, non
sappiamo noi che la lingua francese è venuta d'Italia? e che dal
medesimo fonte nacque una lingua sorella della francese, cioè
l'italiana? E non vediamo noi quante parole nate o allevate nel nostro paese,
cioè nella lingua latina; di qua passate in Francia; quivi alterate o di
forma o di senso o d'ambedue; sono ritornate in Italia come forestiere ed
altrui, e ricevute in questa lingua sorella della francese, e ciò fino
dal cento o dal dugento o dal trecento, e tuttogiorno nella metà
dell'ultimo secolo e in questo? E chi dicesse per questa ragione che la lingua
francese è madre e non sorella dell'italiana, o chi negasse che la
lingua francese sia provenuta [2783]d'Italia, s'apporrebb'egli al vero?
Credo eziandio che non poche voci venute
dalla stessa lingua italiana (non dall'antica latina), e passate in Francia; di
là ci sieno tornate, e ci tornino tuttavia bene spesso come forestiere:
o che quelle nostre sieno dimenticate, o che queste sieno alterate in modo che
non si riconoscano essere originalmente tutt'une colle nostre ancora esistenti,
e già preesistenti alle sopraddette francesi. (Quanto a molte voci e
forme italiane passate anticamente fra' provenzali, ed ora credute provenzali
di origine, o perchè si trovano nei loro scrittori, e non più
presso noi; o perchè, alquanto mutate dalla prima figura e
significazione, le ritolsero dai provenzali i nostri primi poeti o que' del
300, e i commerci di que' tempi, vedi Perticari Apologia capo 11. 12. p.108-17.
e capo 19. fine p.176-7.). Così dico di molte voci spagnuole ricevute
nella nostra lingua durante il 500 e il 600, ne' quali secoli la letteratura
spagnuola nata dall'italiana, modellavasi pur tutta sull'italiana, e quindi
certo la loro lingua doveva abbondare, e abbondava, di parole e maniere
provenutele dall'italiano.
Ma lasciando questo, potremo anche dire che
il sistema de' continuativi fosse proprio della lingua onde nacquero la latina
e la greca; che di lei fossero il verbo sum (il quale certo si trova [2784]tutto
nella sascrita) e il verbo sto che ne deriva; che da lei li pigliassero
le dette due lingue; e che poi dalla greca venisse nella latina, coll'andar del
tempo e de' commerci, il verbo sisto. Così discorrete de' verbi apo
ed apto, ed , de'
quali nella mia teoria de' continuativi.
In questa supposizione la lingua latina
resterebbe pur molto superiore alla greca, rispetto alla conservazione
dell'antichità. 1. Ella avrebbe conservato il sistema de' continuativi,
e la greca no. Di più ella n'avrebbe conservato il modo cioè la
formazione da' participii passivi, il che alla lingua greca è
impossibile. 2. Il suo verbo sum sarebbe più conforme a quello
della lingua madre. E ciò si proverebbe, primo perch'esso, come ho
detto, si trova molto più simile a quello della lingua sascrita antichissima,
che non il greco : secondo,
perchè esso si presterebbe ottimamente per la sua forma grammaticale,
come altrove ho mostrato, alla formazione del verbo sto, il quale nella
nostra supposizione sarebbe venuto dalla lingua madre, e in essa, come in
latino, sarebbe stato un continuativo formato da sum: e perchè
esso sum si presterebbe [2785]a questa formazione secondo la
regola ordinaria de' continuativi latini, la qual regola nella nostra supposizione
sarebbe provenuta dalla lingua madre.
Laddove nella lingua greca il verbo per
ragione grammaticale, e per origine considerata dentro i termini d'essa lingua,
non ha che far niente con , ed
è un tema intieramente distinto. Il tema non si
trova nel greco, ma , , , e tali
alterazioni. Ma in latino il tema sto si trova, non pur semplice, anche
ne' composti adsto ec. ec. chiaro e puro. E il verbo sto si
può dir quasi regolare, se non fosse il duplicamento nel perfetto steti,
usitato però in molti altri verbi ancora, come in do monosillabo,
di coniugazione affatto simile a sto ec. 3. Perchè il medesimo sto
e per forma e per significato si riconoscerebbe in latino per derivato
espressamente da sum, come abbiamo supposto ch'ei fosse nella lingua
madre: laddove in greco nè per forma nè per significato avrebbe
che far nulla con . In somma
tutta la ragione grammaticale e dei continuativi in generale, e in particolare
del verbo sto considerato come continuativo e derivativo di sum,
la qual ragione abbiamo supposto che fosse nella lingua madre, sussisterebbe piena
e perfetta nella lingua latina; laddove nella greca sarebbe intieramente
perduta. Così discorrete della ragione grammaticale, [2786]e
della origine e derivazione di apto o , le quali
si troverebbero intere nella lingua latina, e per nulla nel greco; oltre al
tema apo conservato nel latino e perduto nel greco.
(13-14. Giugno 1823.)
Alla p.2776. La voce
properispómena può benissimo essere un antico participio di un verbo (v. la
p.2826. marg.) come di , di per sincope
di , da sincope
di . Non
così di al quale
non può in nessun modo appartenere. Che se i grammatici fanno questa
voce
proparossìtona, scrivendo , 1. non
tutti così fanno, e vedi Schrevel. e Forcell. in Harpyiae: 2.
può ben essere che questa voce sia proparossìtona ne' due luoghi
dell'Odissea, e in quello della Teogonia (v.267.) ne' quali è usurpata
per antonomasia, come vuole il Visconti che sia nell'Odissea, o per nome
appellativo, come è nella Teogonia: perciocchè perduta la sua
forma e significazione di participio, e ridotta a sostantivo, [2787]e
mutato uso, condizione e significato, non è maraviglia ch'esso muti
l'accentazione come accade in altre mille parole. Ma tale ancora, ella si
riconosce per un participio femminino, il quale non può venire se non da
parossìtono,
e non da ,
nè da nè
da , e il cui
mascolino sarebbe . E nel
luogo delle iscrizioni triopee, dov'ella è aggettivo, io son d'opinione
che vada scritta properispómena. Non so come la scriva il Visconti: la lapide
non ha accenti. 3. Ognun sa che in queste materie degli accenti, come in tante
altre, non è da prestar gran fede ai grammatici che abbiamo,
benchè greci, e ch'essi sono stati corretti cento volte dagli eruditi
moderni colla più accurata osservazione dell'antichità; delle
origini, delle derivazioni, delle analogie, della ragion grammaticale della
lingua greca. E se ciò accade anche nelle cose che appartengono alla
lingua di Tucidide o di Platone, quanto minor forza avrà un'obbiezione [2788]fondata
sull'autorità di sempre recenti e semibarbari e poco dotti grammatici in
materie così antiche, come è questa; nella quale poi in
particolare, i grammatici, secondo il Visconti, errarono nella stessa
significazione della parola, pigliando per démoni alati, per tempeste,
procelle, venti ec. (vedi lo Scapula e il Tusano) quelle che, secondo il
Visconti, non erano altro che le Parche.
Del resto, quando ben si volesse che fosse
participio di (il che
io non credo) fatto per sincope d', (come
anche da o o o , da o da , da o da ) e che il
latino rapio non fosse un disusato (supposto
dal Visconti) ma questo (del
quale trovo nel Tusano: , pro
, usurpatur,
Etym.) resterebbe sempre fermo e che o fosse in
origine un participio ec. e che la lingua latina conservi qui
l'antichità più della greca, nella quale quest', che
sarebbe, certo più antico di ,
sarà pur sempre o inusitato o rarissimo, e forse noto per lo [2789]solo
Etimologico. (14. Giugno 1823.). Nota che il Visconti, se ben mi ricordo, non
cita se non due luoghi dell'Odissea, e questi sono, s'io non m'inganno, , 241. ,
(14. Giugno. 1823.). V. la Crus. in Rapina §.1. Rapinosamente,
Rapinoso, e questi pensieri p.4165. fin.
[2790]Il nome di Arpalice
(della quale vedi Forcell. in Harpalyce) non credo che sia nato,
nè si debba cercare altronde che dalla velocità ec. Io poi son
d'opinione che nel citato luogo della Teogonia, 265-9, la voce non sia
punto un appellativo, come hanno creduto i grammatici, gl'interpreti e i
Lessicografi, ma un puro aggettivo significante ratte, veloci, il che mi
persuadono sì il confronto del citato luogo dell'Iliade, sì le
addotte osservazioni in proposito, sì tutto il contesto del luogo d'Esiodo.
(figlio
di Nereo e della Terra) ΩJJ
J
(così scrivono con lettera maiuscola) Ω , (nomi propri, e simboleggiano le procelle
e i venti, come indica la loro etimologia, e come pur dicono i grammatici e gli
interpreti) [2791] Ω .
Io tengo per fermo che sia un secondo
epiteto compagno di . Il
duplicare o moltiplicare gli epiteti senza congiungerli fra loro con alcuna
particella congiuntiva, poco usitato dai poeti latini, è familiarissimo
ai poeti greci; e proprissimo di Omero, e dietro lui, degli altri: siccome di
Dante (secondochè osserva Monti nella Proposta) e degli altri poeti
italiani. Vedi fra gli altri infiniti luoghi, Odiss. , 96-100, il qual luogo è ripetuto
più d'una volta nell'Iliade, e s'io non fallo, anche nell'Odissea.
Del resto il luogo dell'iscrizione triopea J , dove è
manifesto aggettivo e sta per rapaci, notisi essere espressamente
imitato dai seguenti versi dell'Odissea, ed averli l'autore avuti onninamente
in vista. . , 241. , 371. . , 77.
[2792]Notisi ancora l'aggettivo compagno
d' e
tuttavia non legato con questo per nessuna congiunzione.
Il disuso del tema da cui venne il
participio , il disuso
di questa voce in senso o di participio o d'aggettivo, e l'uso comune della
medesima per significare con nome appellativo quelle favolose bestie alate
delle quali vedi Forcell. in Harpyiae, uso e favola che par più
recente dei tempi d'Omero e d'Esiodo, dovettero indurre in errore i grammatici
e gl'interpreti greci (e quindi i moderni) sopra il vero senso di quella voce
negli addotti luoghi de' due poeti, e massime in quelli dell'Odissea. Vedi
l'interpretazione che ne dà Eustazio presso lo Scapula ec. Quando
però non si voglia credere che la stessa mala intelligenza della voce appresso
Omero ec. (la qual mala intelligenza dev'essere molto antica) abbia dato
origine ovvero occasione alla favola delle Arpie, il quale accidente non
mancherebbe di esempi. Delle Arpie vedi le note a Luciano, opp. Amstel. 1687. t.1. p.94. not.5.
(15-16. Giugno 1823.)
Et ferruginea (Charon) subvectat corpora
cymba. Aen. 6.303. Chi non sente che questo subvectat è
continuativo, e indica costume di subvehere tuttodì? Ma per
meglio sentirlo, sostituiscasegli la voce subvehit, e veggasi se la proprietà
latina di questo luogo non va tutta in fumo. Vedi altri simili esempi nel [2793]Forcellini
in vecto, convecto, advecto ec.
(16. Giugno 1823.)
Traslatare, trasladar, translater
continuativi barbari di transferre.
(16. Giugno 1823.)
Gli scrittori greci de' secoli medii e
bassi, cioè dal terzo inclusive in poi, sono pieni d'improprietà
di lingua (com'è quella di Coricio sofista del sesto secolo nell'Orazione
eÞw Soèmmon otrathlthn in Summum ducem, §.11. ap. Fabric. B. G. edit.
vet. vol.8. p.869. lib.5. cap.31. di usare la voce dikaot¯w in vece
di krit¯w o di mrtuw), pieni
di frasi strane quanto alla lingua, pieni di solecismi, e di mille
contravvenzioni alle antiche regole della sintassi e grammatica greca, ma non
hanno barbarismi. La loro lingua per tutto ciò che appartiene all'eleganza,
è diversissima da quella degli antichi scrittori: ma per tutto il resto
è la stessa. Si può dir ch'essi ignorino il buon uso della lingua
che scrivono, che non la sappiano adoperare; ma la lingua che scrivono è
quella degli antichi: quella che gli antichi scrissero [2794]bene, essi
la scrivono male. Molte loro parole che non si trovano negli antichi, sono
però cavate dal fondo della lingua greca o per derivazione o per composizione
ec.; rade volte ripugnano all'indole d'essa lingua, e per esser chiamate buone,
greche, pure e di buona lega, non manca loro se non la sanzione
dell'antichità. In somma il grecismo di questi scrittori è per lo
più cattivo o pessimo, ma la loro lingua è pura. Le voci e frasi
poetiche versate a due mani nelle prose, le voci o frasi antiquate, le metafore
o strane affatto e barbare, o poetiche, non offendono la purità della
lingua, ed appartengono piuttosto al conto dello stile. Il periodo di questi
scrittori, il giro della dicitura, per lo più rotto, slegato,
saltellante, ineguale, ovvero intralciato, duro, aspro, monotono, e lontanissimo
dalla semplicità e dalla maestà dell'antica elocuzione greca,
appartiene certo in gran parte alla lingua, al cui genio è contrarissima
la struttura dell'orazione di quei bassi scrittori, ma non nuoce alla purità.
Il numero e l'armonia è diversissimo [2795]in questi scrittori da
quel ch'egli è negli antichi, ma ciò non solo per la negligenza
di quelli, bensì ancora per la diversa pronunzia introdotta appoco
appoco nella lingua greca, massimamente estendendosi ella a tanti e sì diversi
e tra se lontani paesi, e subentrando a sì diverse favelle, o prendendo
luogo accanto ad esse e in compagnia di esse, o in mezzo ad esse:
giacchè bisogna considerare che la più parte degli scrittori
greci dal 3. secolo in poi, non furono greci di nazione, o certo non furono
greci di paese, ma Asiatici ec., e greci solamente di lingua, e questo ancora
non sempre dalla nascita, ma per istudio, come p.e. Porfirio, della cui lingua
patria, vedi la Vita di Plotino, capo 17. e l'Holstenio de Vita et scriptis
Porphyrii cap.2. V. p.2827.
(17. Giugno. 1823.)
Una delle proprietà comuni alle tre
lingue figlie della latina, le quali proprietà si debbono per
conseguenza credere originate dalla lingua madre di tutt'e tre, come ho detto
altrove, si è quella di [2796]usare causa (cosa, chose)
per res.
(18. Giugno 1823.)
, J J , J , , J , ; J. J , (nationem
hanc) , , J , (festum) , J . . Oratio
funebris in Procopium Sophistam-Gazaeum (§.35. p.859.) primum edita gr. et lat.
a Fabric. in B. G. edit. vet. t.8. p.841-63. lib.5. c.31.
(19. Giugno 1823.)
Alla p.2683. marg. Da questa verissima
osservazione del Castiglione, segue che tutte le immense fatiche che un
perfetto scrittore deve spendere per dare a' suoi scritti la finitezza, la [2797]grazia,
la leggiadria, la nobiltà, la forza, insomma la bellezza della lingua,
non possono esser nè valutate, nè gustate, neppur sentite dagli
stranieri, che non sono assueti a scrivere in quella tal lingua, o non
sono assueti a scriverla bene, il che è tutt'uno; e quindi elle sono
tutte gittate per gli stranieri, e tutte inutili, alla gloria dello scrittore
riguardo agli esteri. Ma quanta parte dello stile è quasi tutt'uno colla
lingua! Anzi chi può veramente o gustare o giudicare dello stile di
un'opera, non potendo della lingua? E si può ben dire che ogni lingua ha
il suo stile, o i suoi stili, che non si possono non che giudicare, appena ben
concepire, se non si è in grado di giudicare e gustare quella tal lingua
perfettamente, anzi di bene scriverla, perchè neppure i nazionali
gustano quegli stili se non sono sperimentati nello scrivere la propria lingua.
Dunque neppure i pregi dello stile di un perfetto scrittore possono esser
valutati dagli stranieri, e tanto [2798]meno quanto egli è
più perfetto, divenendone i pregi del suo stile come oggetti finissimi
che sfuggono interamente alle viste deboli e ottuse, laddove se essi fossero
stati più grossolani sarebbero potuti esser veduti. Ora quanta parte di
un'opera è lo stile! Togliete i pregi dello stile anche ad un'opera che
voi credete di stimare principalmente per i pensieri, e vedete quanta stima ne
potete più fare. Dunque gli stranieri non sono assolutamente in grado
nè di valutare nè di gustare nessuna opera di un perfetto
scrittore, nemmeno, se non imperfettissimamente, per la parte dei pensieri.
Dunque tutta la vera piena e ragionata stima che si può far d'un
perfetto scrittore si restringe dentro i termini della sua nazione. E tra' suoi
nazionali quanti sono che sappiano bene scrivere e quindi ben gustarlo e
valutarlo? Che cosa è dunque quella gloria per cui tanto ha sudato un
perfetto scrittore, per cui ha forse speso in una sola opera tutta la vita? E
quanto piacere ed a quanti proccura questa tale [2799]opera tanto
lungamente e studiosamente travagliata e sudata a solo fine ch'ella proccurasse
sommo e pieno e perfetto piacere? E in verità quanto alle opere di
letteratura, tutte le sopraddette cose, e la conseguenza che io ne traggo,
sussistono a tutto rigore[21].
(19. Giugno 1823.)
J , , , , , J J . Scythis
quidem honestum, ut cum quis hominem occiderit, capitis, cute divulsa, partem
crinitam ante equum gestet, osseam vero auro vel argento obducens, ex illa
bibat Diisque ipsis libamina fundat. Graecorum autem nullus easdem aedes ingredi
vellet una cum viro, qui tale quid fecerit. (Ex versione Io. Northi). [2800]Scrittore
incerto di alcune in
dialetto Dorico, che si trovano sovente nei Codici appiè de' libri di
Sesto Empirico, e furono pubblicate da Enrico Stefano tra i frammenti de'
Pitagorici, e dal Fabricio, B. G. edit. vet. vol.12. p.617-35. lib.6. cap.7.
§.6. Il Fabricio le chiama Disputationes Antiscepticae, ma in
verità sono anzi esercitazioni scettiche in ciascuna delle quali si
sostiene il pro e il contra, e questo vuol dire il titolo ch'è premesso
a queste nel
Codice Cizense, e riferito dal Fabricio p.617. nel qual titolo queste sono
chiamate . Il
soprascritto passo è nella seconda ,
intitolata , ap. Fabric. l.c. p.622.
(21. Giugno 1823.)
È massima molto comune tra' filosofi,
e lo fu specialmente tra' filosofi antichi, che il sapiente non si debba
curare, nè considerar come beni o mali, nè riporre la sua
beatitudine nella presenza o nell'assenza delle cose che dipendono dalla fortuna,
quali ch'elle si sieno, o da veruna forza di fuori, ma solo in quelle che dipendono
interamente e sempre dipenderanno da lui solo. Onde [2801]conchiudono
che il sapiente, il quale suppongono dover essere in questa tale disposizion
d'animo, non è per veruna parte suddito della fortuna. Ma questa
medesima disposizione d'animo, supponendo ancora ch'ella sia più
radicata, più abituale, più continua, più intera,
più perfetta, più reale ch'ella non è mai stata effettivamente
in alcun filosofo, questa medesima disposizione, dico, già pienamente
acquistata, ed anche, per lungo abito, posseduta, non è ella sempre suddita
della fortuna? Non si sono mai veduti de' vecchi ritornar fanciulli di mente,
per infermità o per altre cagioni, l'effetto delle quali non fu in balia
di coloro l'impedire o l'evitare? La memoria, l'intelletto, tutte le
facoltà dell'animo nostro non sono in mano della fortuna, come ogni
altra cosa che ci appartenga? Non è in sua mano l'alterarle,
l'indebolirle, lo stravolgerle, l'estinguerle? La nostra medesima ragione non
è tutta quanta in balia della fortuna? Può nessuno assicurarsi o
vantarsi [2802]di non aver mai a perder l'uso della ragione, o per
sempre o temporaneamente; o per disorganizzazione del cervello, o per accesso
di sangue o di umori al capo, o per gagliardia di febbre, o per ispossamento
straordinario di corpo che induca il delirio o passeggero o perpetuo? Non sono
infiniti gli accidenti esteriori imprevedibili o inevitabili che influiscono
sulle facoltà dell'animo nostro siccome su quelle del corpo? E di
questi; altri che accadono ed operano in un punto o in poco tempo, come una
percossa al capo, un terrore improvviso, una malattia acuta; altri appoco
appoco e lentamente, come la vecchiezza, l'indebolimento del corpo, e tutte le
malattie lunghe e preparate o incominciate già da gran tempo dalla
natura ec. Perduta o indebolita la memoria non è indebolita o perduta la
scienza, e quindi l'uso e l'utilità di essa, e quindi quella disposizion
d'animo che n'è il frutto, e di cui ragionavamo? Ora qual facoltà
dell'animo umano è più labile, [2803]più facile a
logorarsi, anzi più sicura d'andar col tempo a indebolirsi od estinguersi,
anzi più continuamente inevitabilmente e visibilmente logorantesi in
ciascuno individuo, che la memoria? In somma se il nostro corpo è tutto
in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all'azione delle cose
esteriori, temeraria cosa è il dire che l'animo, il quale è tutto
e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e
dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano
gli antichi, quale mai non esistette, quale non può essere se non
immaginario, tale ancora, sarebbe interamente suddito della fortuna,
perchè in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione
sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima.
(21. Giugno 1823.)
Altro è il timore altro il terrore.
Questa è passione molto più forte e viva di quella, e molto
più avvilitiva dell'animo e sospensiva dell'uso della ragione, anzi
quasi di tutte le facoltà dell'animo, ed anche de' sensi del corpo. [2804]Nondimeno
la prima di queste passioni non cade nell'uomo perfettamente coraggioso o
savio, la seconda sì. Egli non teme mai, ma può sempre essere
atterrito. Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato.
(21. Giugno 1823.)
Si sa che negli antichi drammi aveva gran
parte il coro. Del qual uso molto si è detto a favore e contro. Vedi il
Viaggio d'Anacarsi cap.70. Il dramma moderno l'ha sbandito, e bene stava di
sbandirlo a tutto ciò ch'è moderno. Io considero quest'uso come
parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme
dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa
piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e il grande ha bisogno
dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se
non introducendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla moltitudine
è rispettabile, bench'ella sia composta d'individui tutti disprezzabili.
Il pubblico, [2805]il popolo, l'antichità, gli antenati, la
posterità: nomi grandi e belli, perchè rappresentano un'idea
indefinita. Analizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la
più parte da nulla, tutti pieni di difetti. Le massime di giustizia, di
virtù, di eroismo, di compassione, d'amor patrio sonavano negli antichi
drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine indefinita, e
spesso innominata, giacchè il poeta non dichiarava in alcun modo di
quali persone s'intendesse composto il suo coro. Esse erano espresse in versi
lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati dalla musica
degl'istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo condannare quanto
ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come assurde, ec. quale altra
impressione potevano produrre, se non un'impressione vaga e indeterminata, e
quindi tutta grande, tutta bella, tutta poetica? Quelle massime non erano poste
in bocca di un individuo, che le recitasse in tuono ordinario e naturale. [2806]Per
grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima
d'individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione
o concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con
quelle, e quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non che
potessero produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le azioni, le
qualità, le avventure di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre quel
tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore del padre, marito della madre,
e cose simili. La nazione intera, la stessa posterità compariva sulla
scena. Ella non parlava come ciascuno de' mortali che rappresentavano l'azione:
ella s'esprimeva in versi lirici e pieni di poesia. Il suono della sua voce non
era quello degl'individui umani: egli era una musica un'armonia. Negl'intervalli
della rappresentazione questo attore ignoto, innominato, questa moltitudine di
mortali, prendeva a far delle profonde o sublimi riflessioni [2807]sugli
avvenimenti ch'erano passati o dovevano passare sotto gli occhi dello
spettatore, piangeva le miserie dell'umanità, sospirava, malediceva il
vizio, eseguiva la vendetta dell'innocenza e della virtù, la sola
vendetta che sia loro concessa in questo mondo, cioè l'esecrare che fa
il pubblico e la posterità gli oppressori delle medesime; esaltava
l'eroismo, rendeva merito di lodi ai benefattori degli uomini, al sangue dato
per la patria. (V. Oraz. art. poet. v.193-201.). Questo era quasi lo stesso che
legare sulla scena il mondo reale col mondo ideale e morale, come essi sono
legati nella vita: e legarli drammaticamente, cioè recando questo legame
sotto i sensi dello spettatore, secondo l'uffizio e il costume del poeta
drammatico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare
quello che è. Questo era personificare le immaginazioni del
poeta, e i sentimenti degli uditori e della nazione a cui lo spettacolo si
rappresentava. Gli avvenimenti erano [2808]rappresentati dagl'individui;
i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti ch'essi producevano o
dovevano produrre nelle persone poste fuori di essi avvenimenti erano
rappresentati dalla moltitudine, da una specie di essere ideale. Questo
s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'utilità che si cava
dall'esempio di quelli avvenimenti. E per certo modo gli uditori venivano ad
udire gli stessi sentimenti che la rappresentazione ispirava loro,
rappresentati altresì sulla scena, e si vedevano quasi trasportati essi
medesimi sul palco a fare la loro parte; o imitati dal coro, non meno che si
fossero gli eroi imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche quando
il coro prendeva parte diretta all'azione, questo fare agir nel dramma la
moltitudine, era più poetico, e doveva produrre maggiore e più
vivo effetto, che il divider tutta l'azione fra pochi individui, come noi
facciamo.
Da queste considerazioni si argomenti se [2809]sia
giusto il dire che l'uso del coro nuoce all'illusione. Qual grata illusione
senza il vago e l'indefinito? E qual dolce grande e poetica illusione doveva
nascere dalle circostanze sovra esposte! (21. Giugno. 1823.). Nelle commedie la
moltitudine serve altresì all'entusiasmo e al vago della gioia, alla , a dar
qualche apparente e illusorio peso alle cagioni sempre vane e false che noi
abbiamo di rallegrarci e godere, a strascinare in certo modo lo spettatore
nell'allegrezza e nel riso, come accecandolo, inebbriandolo, vincendolo
coll'autorità della vaga moltitudine. V. p.2905.
Io non so quali abbiano ragione intorno
all'origine del verbo latino accuso, o quelli che lo derivano da causa,
o quelli che lo fanno venire da un verbo cuso continuativo di cudere,
del qual cuso non recano però nessuno esempio. (V. Forcell. v. accuso
fin. v. cuso.). Forse a questi ultimi potrebbe esser favorevole il
nostro antico cusare, il quale se venisse da cuso e non da causari,
o se non fosse uno storpiamento d'accusare, sarebbe un antichissimo tema
perduto o disusato nel latino scritto, e conservato nell'italiano; e sarebbe il
semplice dei verbi composti accuso, incuso, excuso, recuso. È da
notare però che il nostro volgo (almeno quello della Marca) usa il verbo
causare nel significato appunto del nostro antico cusare, e del
latino causari, cioè in senso, non di cagionare, ma di recare
per cagione o come [2810]cagione, accagionare: l'usa
dico in questa frase avverbiale causando che, cioè atteso che,
poichè. Il qual significato di causare e il qual modo avverbiale
non è notato dalla Crusca, ma trovasi pure usato da Lorenzo de' Medici
nella famosa lettera a Gio. de' Medici Card. suo figliuolo, poi Papa Leone X,
verso il fine, dove però nella raccolta di Prose, stampata in Torino
1753. vol.2. p.782. trovo cagionando che per causando che, che
sta nelle Lettere di diversi eccellentissimi huomini, raccolte dal Dolce,
Venez. appresso Gabriel Giolito de' Ferrari et fratelli 1554. p.303. e nelle
Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni
stampate da Paolo Manuzio in Venez. 1544. carte 6. p.2. (In ogni modo anche la
frase avverbiale cagionando che manca nella Crusca.) Nelle Lettere di
XIII Huomini illustri, Ven. per Comin da Trino di Monferrato 1561. p.485. trovo
pensando che. Vedi il Magnifico di Roscoe, dove quella lettera è
riportata.
Del resto il verbo accuso o accudo,
o cudo-cusus semplice ha il suo continuativo o frequentativo accusito.
(23. Giugno. 1823.). Se accuso è quasi accauso, tanto e
tanto è da notare questo continuativo, che sarà quasi accausito
dal participio accausatus.
[2811]Alla p.2775. Il verbo che oggi
si pone come tema, non è certamente altro che reduplicazione di un tema
più semplice, il che è dimostrato sì dalla voce ,
sì dal verbo presso
Omero, sì dalla voce J usata
più volte da Plutarco per temere. , , da per reduplicazione.
da . da o da . V.
p.4109. Anche in latino titillo è fatto per duplicazione da . E altre
tali duplicazioni alla greca si trovano pure in latino (come quelle de'
perfetti memini, cecidi ec.), sieno veramente latine di origine, o
greche, o comuni anticamente ad ambe le lingue, ec. ec.
(23. Giugno. 1823.)
Institutum autem eius (Moeridis in ) est
annotare et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis
dialectis, maxime illa utebantur:
interdum notat et vulgi,
illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam , ut in , , J, , , , . Fabric.
B. G. edit. vet. l.5. c.38.§.9. num.157. vol.9 p.420.
(23. Giugno. 1823.)
Alla p.2776. margine. Lo stesso discorso si
può fare di , il quale
è pur verbo esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono;
il qual suono come è similissimo a quello di ,
così non ha niente che fare con . Ma
questa e simili interposizioni della lettera [2812]e
d'altre tali, sono state fatte o per evitare l'iato o per altre diverse
cagioni, nel processo della lingua, quando già non v'era più
bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo
stesso suo suono l'oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente
per se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella
lingua si guardava più alla dolcezza ec. che alla necessità ec.
ne' quali modi le parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla forma
primitiva e hanno spesso perduto affatto quel suono rappresentativo che prima
avevano e sul quale furono modellati e creati, e nel quale da principio consisteva
la ragione della loro significanza. I latini dal tema o bauare
fecero baubari, interponendo un b (il quale in questo caso
è più adattato all'imitazione) invece del . Noi baiare, che per verità
potrebb'essere appunto quello stesso originale
ch'è affatto perduto nella lingua greca e nella latina scritta: e ben si
potrebbe credere che fosse totalmente [2813]voce antica latina, conservata
nel volgare; dal che si dedurrebbe, primo, che l'antico latino, e di poi il suo
volgare perpetuamente conservò puro il verbo originale
(giacchè l' greco in
latino antico ora risponde a un u, ora ad un i), quantunque non
si trovi nel latino scritto; verbo inusitato affatto nell'antica e moderna
grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o vogliamo
dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto, conservasi
ancora purissimo e senz'alterazione alcuna nell'italiano, e vedi la pag.2704.
Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo, invece di baubari
dicessero bauari (appunto ), e che
la mutazione dell'u in i (vocali che spessissimo si scambiano,
per esser le più esili, come ho detto altrove) seguisse nell'italiano e
nel francese ec. Ovvero che gli antichi dicessero bauari, e poi il volgo
baiari.
(24. Giugno 1823.)
I continuativi latini, tutti (se non forse visere
da visus di video, co' suoi composti inviso, reviso ec.,
e forse qualche altro, che io chiamerò continuativi anomali) appartenenti
alla prima congiugazione, sono fatti dal participio o dal supino del verbo originale
come ho dimostrato. Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi, pur della prima
maniera, i quali sono evidentemente fratelli o figli di altri verbi della
terza, ed hanno una significazione evidentemente continuativa della significazione
di questi, ma non sono fatti da' loro participii. Quelli che io ho osservati
sono 1. cubare, co' suoi composti accubare, incubare, decubare,
secubare, recubare, ec. il significato de' quali è manifestissimamente
[2814]continuativo di quello di cumbere (inusitato,
fuorchè nella voce cubui ec. e cubitum che ora s'attribuiscono
a cubare), incumbere, accumbere ec. tanto che ogni volta che si
dee esprimere azione continuata, si usano immancabilmente quelli e non questi,
(come anche viceversa nel caso opposto) e appena si troverà buono
esempio del contrario, quale potrebb'esser quello di Virgilio Aen. 2. 513-14. Ingens
ara fuit; juxtaque veterrima laurus Incumbens arae, invece d'incubans.
2. educare continuativo di educere quanto al significato. 3. jugare
parimente di jungere, e così conjugare, abiugare, deiugare,
e s'altro composto ve n'ha. 4. dicare similmente di dicere, e
così i composti judicare, di ius dicere; dedicare,
praedicare, abdicare ec. V. p.3006. 5. labare di labere inusitato,
cioè labi deponente. È nóto che questi verbi della terza
hanno anche i loro continuativi formati regolarmente da' loro participii, ma
con significato diverso da quello de' soprascritti verbi della prima, sebbene
anch'esso continuativo; come dicere ha pur dictare e dictitare;
ducere, onde educere, ha ductare e ductitare; jungere
ha nel basso latino e nello spagnuolo junctare, (noi volgarmente aggiuntare,
i franc. ajouter); labi o labere ha pur lapsare[22].
Cubitare, accubitare ec. possono venire da accubatus [2815]inusitato
e da accubitus, ec. e quindi essere derivativi così di accumbere
come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi fratelli e col suo
semplice cubo, non ha del proprio nè il preterito perfetto
nè i tempi che da questo si formano, nè il participio in us,
nè il supino, ma li toglie in prestito da accumbere, recumbere,
incumbere ec. facendo, nè più nè meno come fan questi,
accubui, accubitus i, accubitum ec. Vedi però la p.3570. 3715-7. Incubare
ha anche incubavi, incubatum. Cubare ha anche cubavi, o
certo cubasse. Notate che se talvolta troverete ne' lessici o ne'
grammatici ec. degli esempi di accubare, incubare ec. adoperati nel preterito
o nel supino ec. che non vi paiano di senso continuativo, dovete credere
ch'essi sieno male attribuiti a quei verbi, e spettino ad incumbere,
accumbere, occumbere ec.
(24. Giugno, dì del Battista 1823.).
V. p.2996. V. a questo proposito p.2930.2935.
Sono molti verbi formati da' participii in us,
i quali non esprimono azione continuata, nè costume di fare quella tale azione,
o non l'esprimono sempre, e nondimeno anch'essi, ed anche in questo caso, sono
veri continuativi, e il Forcellini e gli altri che li chiamano frequentativi,
sbagliano, ed usano una voce impropria, parlando [2816]con tutto rigore
ed esattezza. Per esempio iactare nel luogo dell'Eneide 2. 459. ed exceptare
nelle Georg. 3. 274. sopra i quali luoghi ho disputato altrove, non esprimono
azione continuata per se stessa, giacchè l'azione di lanciare, e quella
di ricever l'aria col respiro non sono azioni continue, ma si concepiscono come
istantanee; nè anche significano costume di lanciare o di ricevere; ma
moltitudine continuata di queste tali azioni, cioè di lanciamenti, per
così dire, e di ricevimenti, che senza interruzione e per lungo tempo
succedono l'uno all'altro. Questa è idea continua, e bene, in questo
caso, si chiameranno continuativi quei tali verbi, e non potranno per nessun
modo chiamarsi altrimenti con proprietà. Malissimo poi si chiameranno
frequentativi, giacchè ben altro è il fare una cosa
frequentemente, ed altro il ripetere per un certo maggiore o minor tempo una
stessa azione continuamente, quando anche quest'azione per se non sia continua,
e si fornisca nell'istante. Questa è continuità di fare una
stessa azione, ben diversa dalla frequenza di fare una stessa azione. La qual
frequenza suppone e considera degl'intervalli, maggiori [2817]minori, e
più o meno numerosi che sieno, durante i quali quell'azione non si fa;
laddove la detta continuità non li suppone, ed ancorchè, come
è naturale, sempre vi sieno, pure, siccome minimi, non li considera.
Avendo l'occhio a queste osservazioni si vedrà quanto gran numero di
verbi latini detti frequentativi, lo sieno impropriamente, e quante significazioni
credute frequentative, e che tali paiono a prima vista, perchè
rappresentano ripetizione di una stessa azione, contuttociò non lo
sieno, ma sieno veramente continuative. Bisogna sottilmente distinguere, come
abbiamo mostrato, e non credere che qualunque verbo esprime ripetizione di una
stessa azione, sia frequentativo, nè che questa ripetizione sia sempre
lo stesso che la frequenza d'essa azione. La successione di più
azioni di una stessa specie è ben altra cosa che la frequenza di
esse. E con questo criterio, siccome cogli altri che abbiamo dati in vari
luoghi circa le diverse significazioni de' verbi fatti da participii in us,
si correggeranno infiniti errori de' grammatici e lessicografi; rettificherannosi
infinite loro definizioni; conoscerassi e distinguerassi partitamente il vero
spirito, e la vera e varia proprietà e forza de' verbi formati da'
suddetti participii; e vedrassi come il senso frequentativo, [2818]ch'è
solamente l'uno dei tanti che ricevono essi verbi, sia stato male scelto o
preso a denotare e denominare e definire tutti questi verbi, ed anche
considerato come l'unico loro proprio senso. Il che è lo stesso che
porre la parte per il tutto. E quando ciò s'abbia a fare, meglio
converrà a questi verbi il nome di continuativi, il qual nome abbraccia
un assai più gran numero delle varietà proprie del significato di
questi verbi. Le quali varietà non ancora considerate nè dai
grammatici nè dai filologi nè dai filosofi, e nondimeno
necessarissime a considerarsi e distinguersi per ben penetrare nell'intima
proprietà ed eleganza, ed anche nell'intimo e vero senso e valore della
lingua latina, e nell'intelligenza dell'efficacie, delle bellezze ec. dei passi
degli scrittori, noi abbiamo proccurato di dichiarare ed esporre, sì ai
grammatici e filologi, come ai filosofi e a' letterati.
(25. Giugno 1823.)
Un continuativo anomalo o semianomalo si
è hietare fatto da hiatus, quasi da hietus,
participio d'hiare. Dove la mutazione dell'a in e viene 1.
dal voler evitare il cattivo suono d'hiatare, del qual suono sempre
evitato nella formazione de' continuativi fatti da verbi della prima, ho detto
altrove[23]. 2.
da questo, che sebbene i latini, in questa [2819]cotal formazione
solevano cambiar l'ultima a del participio, in i, facendo p.e. da
mussatus mussitare invece di mussatare, qui non poterono far
così, stante l'altro i che precedeva, onde avrebbero fatto hiitare
che riusciva di tristo suono, e difficile alla pronunzia.
(25. Giugno. 1823.)
Bubulcitare dinota
forse un antico verbo bubulco, dal cui participio esso sia formato.
Così credo io, secondo l'ordinaria ragione osservata da' latini nella
formazione de' verbi, secondo la qual ragione e proprietà non mi par
verisimile che bubulcitare sia fatto a dirittura da bubulcus.
(19. Giugno 1823.).
Subvento da subvenio, coepto
da coepio, vocito da voco, coenito o cenito
da coeno, dormito da dormio, sternuto da sternuo,
observito da observo, perito da pereo (come ito
ed itito da eo), adiuto (onde aiutare, ayudar, aitare,
aider, atare) e adiutor aris da adiuvo, eiulitare da eiulare,
clamitare (declamitare ec.) da clamare. Cicerone nota che declamitare
era voce nuova al suo tempo. V. Forcellini. Fugito da fugio, ed
altro da fugo. Flato da flo-flatus, onde fiatare.
V. Forcell. e il Glossar. Volito da volo-volatus. Strepito
da strepo strepitus. Sponso (onde sposare, épouser ec.) e desponso
da spondeo e despondeo, e notate la significazione continuativa e
durativa di quelli a paragone del significato di questi. Responso e responsito
da respondere.
(25. Giugno 1823.)
[2820]Frequentativi. Cantito.
Sumptito o sumtito. Da cano-cantus, e da sumo-sumptus o sumtus. (25. Giugno.
1823.). Missito da mitto-missus. (26. Giugno 1823.). Accessito.
Il verbo eo is è forse e senza
forse il solo che avendo un continuativo desinente in ito, cioè
appunto itare, abbia anche un frequentativo pure in ito, distinto
dal continuativo, e formato col raddoppiamento della it, cioè ititare,
il che fu schivato da' latini in tutti gli altri verbi dove sarebbe potuto
accadere, come ho detto altrove. Onde questi verbi non ebbero se non un solo o
continuativo o frequentativo o l'uno e l'altro insieme, desinente nel semplice ito.
Vero è che il verbo ititare non ha nel Forcellini che un solo
esempio, e secondo me, poco sicuro.
(26. Giugno 1823.)
Alcuni continuativi o frequentativi
composti, sono fatti dal continuativo semplice, a dirittura, senza che il verbo
padre del continuativo abbia i composti corrispondenti. Di ciò mi pare
d'aver detto altrove. Veggasi la p.3619. P.e. recito e suscito sono
continuativi composti di cito il qual è continuativo di cieo
che non ha nè recieo nè suscieo nè i participii
recitus nè suscitus. Dico di cieo, [2821]non
di cio, che ha pur lo stesso significato, ma il suo participio è citus,
e di cieo citus, onde citare, e quindi excitare, incitare,
concitare ec. che hanno la sillaba ci breve, vengono tutti da cieo.
Da cio o vogliamo dire da excio, verrebbe il verbo excito
appresso Stazio, se fosse genuino, e sincero. V. Forcellini.
(26. Giugno 1823.)
Nexo nexas è continuativo
regolare, come si vede, di necto-nexus. Nexo nexis (v.
Forcellini) sarebbe anomalo, sull'andare di viso visis da video-visus,
e potrebbe forse confermare quello che mi par di aver detto altrove circa plecto
is, o altro simile, da me stimato continuativo, benchè, come tale,
anomalo.
(26. Giugno 1823.). V. p.2885. ed osserva
anche la p.2934-5.
Verbi in tare i quali sono
continuativi, benchè paiano tutt'altro, e non apparisca a prima vista
questa loro qualità. Confutare, refutare ec. sono continuativi, o
composti da futare, o derivati da confundere ec. E futare
viene dal participio di fundere, il qual participio ora è fusus,
ma anticamente futus. Vedi Forcellini in Confuto initio vocis, in
Futo ec. Da altro participio pur di fundo, e pure antico e inusitato,
cioè funditus, viene funditare.
(26. Giugno 1823.). V. p.3585. 3625.
Un altro futare dice Festo che fu
usato da Catone per saepius fuisse. Questo dimostrerebbe un antico
participio [2822]futus del verbo sostantivo latino. Dico del
verbo sostantivo, e non dico del verbo sum. Questo è
originalmente il medesimo che il greco ovvero , e che il sascrito asham, e il suo
participio in us dovette essere situs o stus o sutus
(giacchè è notabile il nostro antico suto, vero e proprio
participio del verbo essere, laddove stato che oggi s'usa in vece di
quello, è tolto in prestito da stare), come ho detto altrove. Il
franc. été è lo stesso che sté, giacchè gli antichi
dicevano esté, e quell'e innanzi, è aggiunto per dolcezza
di lingua avanti la s impura nel principio della parola, come in espérer,
espouser (ora épouser), del che ho detto altrove. Ora il participio sté
sarebbe appunto stus in latino. Ma il participio futus, onde futare,
non potè essere se non di quel verbo da cui il verbo sum tolse in
prestito il preterito perfetto fui colle voci che da questo si formano,
cioè fueram, fuero ec. Il qual verbo fuo non ha che far
niente in origine con sum nè con , ma
è lo stesso che , e v.
Forcell. in fuam e in sum. Di questo dunque dovette esistere
anche il participio futus, il quale dimostrasi col verbo futare che
ne deriva. E nótisi che Festo dice il verbo futare essere stato usato da
Catone per saepius fuisse, e non per saepius esse, onde pare che
questo verbo appresso Catone conservasse una certa corrispondenza e
similitudine e analogia colle voci fui, fuisse ec. tolte in prestito da sum,
le quali tutte indicano il passato, e che anch'esso denotasse il passato di
natura sua, ed avesse [2823]significazione preterita. Del resto come il
verbo futare è diverso da stare, così il participio
futus, da cui quello deriva, è diverso da situs o stus
da cui vien questo, e come futus è participio di fuo e stus
di sum, così futare è continuativo di fuo
e stare di sum. E l'esistenza del participio futus dimostrata
dal verbo futare, non nuoce a quella che io sostengo del participio stus,
giacchè sum e fuo, che ora fanno un sol verbo anomalo
composto e raccozzato di due difettivi, furono a principio due verbi ben
distinti e per origine, e per forma materiale, e probabilmente completi tutti e
due, e non difettivi come ora.
(26. Giugno 1823.)
È notabile come il nostro volgo e il
nostro discorso familiare conservi ancora l'esattissima etimologia e
proprietà de' verbi stupeo, stupesco, stupefacio, stupefio, ec.
che diciamo anche stupire, stupefare, stupefarsi. In luogo de' quali
verbi diciamo sovente restare, o rimanere o divenire o diventare
di stoppa per grandemente maravigliarsi che sono precisissimamente
il significato proprio e l'intenzione metaforica de' predetti verbi latini. [2824]Così
penso assolutamente io, sebbene altri li derivano da stipes, e forse
niuno ha pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa.
Il che forse è avvenuto perchè non dovettero sapere o avvertire
quella nostra frase familiare che ho notata. Che se in alcuni mss. si trova
anche stipeo ed obstipeo, ciò non vale, perchè stupa
si disse anticamente stipa, secondo Servio, che lo deriva da stipare.
Potrebbe anche esser la stessa voce che da [24]. E l' greco, siccome ho detto più volte
cambiasi nel latino ora in i ora in u, e queste due vocali i
ed u si scambiano sovente fra loro e nel latino e nelle altre lingue,
come ho pur detto altrove: ed osservate infatti che l'u francese e bergamasco,
e l' greco, è appunto un
misto e quasi un composto d'ambedue queste vocali i ed u, e non
si sa a qual più delle due rassomigliarlo; onde si vede quanto elle
sieno affini e simili ed amiche tra loro, che s'accozzano insieme a fare (sulla
bocca di molti e diversi popoli) una sola vocale, dove niuna delle due viene a
prevalere. Quindi s'argomenti quanto è facile che queste due vocali si
scambino l'una coll'altra nella pronunzia [2825]umana, anche in uno
stesso tempo e popolo, nonchè in diversi tempi e nazioni e climi. SimUlare
da simIlis, onde anche similare, e noi simigliare e somigliare.
assimulare e assimilare. maximus, optimus e maxumus, optumus.
amantissimus e amantissumus. V. Perticari Apolog. di Dante p.156.
cap.16. verso il fine. lubens, decumus, reciperare e recuperare,
carnufex.
(26. Giugno. 1823.)
Fortunatianus in
Honorii (Augustodunensis, De luminaribus Ecclesiae) Codicibus lib.1. cap.98.
vitiose Fortunatius, natione Afer, Aquilejensis Episcopus, interfuit
Concilio Sardicensi An. 347. et p.179. teste Hieronymo (De scriptoribus Ecclesiasticis)
cap.97. scripsit Commentarios in Evangelia, titulis (ut apud Hilarium
fit) ordinatis, brevique et rustico sermone. De rustico sermone Latino
singularem se libellum conscribere proposuisse testatus est V. C. Christianus
Falsterus ad Gellii XIII. 6. parte 3. Amoenitatum Philologicarum p.186. De
Fortunatiano hoc, qui ad Arianos denique deflexit, plura Tillemontius tomo VI.
memoriarum pag.364. 419. - Fabricius Bibl.
Lat. med. et inf. aetat. ed. Mansii, Patav. 1754. t.2. p.178-179. lib.6.
art. Fortunatianus.
(26. Giugno 1823.)
Alla p.2776. Da o , . Notate
che l'Etimologico dice espressamente che deriva da
(e non
viceversa), ed aggiunge, come sedere
facio, seu colloco, pono, da colloco,
statuo. Così sedere
facio, in sede colloco ch'è lo stesso verbo che , come dice Eustazio, [2826]è
fatto da . pando
explico da idem.
Da , , , , , , . Anche da
volo
si trova fatto nei
frammenti del d'Epifanio
pubblicati dal Mustoxidi e dallo Scinà nella Collezione di vari aneddoti
greci (i quali frammenti però credo che non fossero, come gli Editori
stimarono, inediti). Vedi l'ultima pagina delle annotazioni degli Editori a
essi frammenti, nel fine, e, se vuoi, la p.2780. margine. E forse buona parte
di questi tali verbi mancavano originariamente del , aggiunta poi per proprietà di
pronunzia o di dialetto, per evitar l'iato ec. Da . Ma
questa è un'altra formazione, che cambia in certo modo il significato e
lo rende più continuo ec. Così potrebbe essere da e non da . sembra
venire da a
dirittura, non da ; e
così molti altri. Da .
(26. Giugno 1823.)
È da notare che la nostra ben
distinta teoria della formazione grammaticale de' continuativi e frequentativi,
giova ancora a dimostrare evidentemente l'antica esistenza ed uso de'
participii o supini di moltissimi verbi che ora ne mancano affatto, mentre
però esistono ancora i loro continuativi o frequentativi come fugitare
dimostra fugitus o fugitum di fugio, che altrimente non si
conoscerebbe, e così cent'altri; ovvero di participii e supini diversi
da quelli che ora si conoscono, come agitare dimostra il part. agitus
diverso da actus, noscitare noscitus diverso da notus, futare
e funditare futus e funditus, ambedue diversi da fusus,
(v. la p.2928 segg. 3037.) quaeritare quaeritus, diverso da quaesitus
che non è di quaero, ma di quaeso, benchè a quello
s'attribuisca, e simili. E serve ancora ad illustrare e mettere in chiaro
l'antico uso e regola seguíta [2827]da' latini nella formazione de'
participii in us e de' supini, come ho fatto vedere altrove in proposito
di agitare; e la vera origine di molti participii più moderni,
come actus, e la loro ragione grammaticale; e spiega e scioglie molte
anomalie apparenti ec. ec. ec.
(27. Giugno. 1823.)
Alla p.2795. marg. Cambiata la pronunzia
della lingua greca, doveva necessariamente mutarsi e il modo di produrre
l'armonia colla collocazione delle parole, (giacchè le parole collocate
all'antica e pronunziate diversamente, non potevano più rendere l'antica
armonia) e quindi variarsi affatto la struttura dell'orazione, e prendere un
altro giro il periodo; ed oltre a ciò mutarsi ancora l'armonia risultante
dalla collocazione delle parole modernamente pronunziate, giacchè di diversi
elementi, cioè di parole diversamente pronunziate era quasi impossibile
che ne risultasse uno stesso effetto per mezzo della varia collocazione,
cioè che le parole pronunziate alla moderna e distribuite per ciò
diversamente dal modo antico, producessero l'armonia stessa che producevano
coll'antica pronunzia e collocazione. Quindi diversa struttura e giro di
orazione e di periodo, e nel [2828]tempo stesso diversa armonia. Assai
più gran cosa che non pare, si è il cambiamento della pronunzia
in una lingua. E parlo qui solamente della pronunzia che spetta alla
quantità, cioè alla brevità o lunghezza delle sillabe, ed
all'accentazione, senza entrar punto in quella pronunzia che spetta alle stesse
lettere ed elementi della favella, la qual pronunzia come influisca sulle
lingue e come basti a diversificarle l'una dall'altra, e sia principal causa
sì della moltiplicazione sì della continua alterazione de' linguaggi,
è cosa già dimostrata. Ma quella pronunzia che spetta alla
semplice quantità delle sillabe ed agli accenti, par cosa del tutto estrinseca
alla lingua. Infatti ella non altera in nessun conto il materiale delle parole
come fa l'altra. Ed appunto ell'è veramente estrinseca ed accidentale
alle parole. Nondimeno il cambiamento di questa pronunzia, che nulla influisce
su ciascuna parola, influisce sulle più intrinseche parti della favella,
ed arreca essenzialissimi cangiamenti alla composizione e all'ordine delle
parole, e quindi al giro ed alla forma della dicitura, e quindi alla vera
indole della favella. V. p.3024.
Oltre di che, quando anche a' tempi bassi si
fosse potuta dare all'orazione l'antica armonia, quando anche quest'armonia si
fosse ben conosciuta [2829](che già non si conosceva), il mutato
e corrotto gusto non lasciava nè poteva lasciar di stendersi anche
all'armonia. Onde quell'armonia antica non sarebbe piaciuta, senza cadenze,
senza strepito, senza ritornelli, senza eco, senza rimbombo, senza sfacciataggine
di ritmo, dolcemente e accortamente variata ec. Tutte le contrarie
qualità piacevano e si celebravano a quei tempi. Leggansi le orazioni o
declamazioni o proginnasmi ec. e l'epistole stesse de' sofisti, Libanio,
Imerio, Coricio ec. Questo ancora gli obbligava a dare alle parole un giro
diverso dall'antico. Di più, quando anche non fosse mancata loro la
volontà, sarebbe mancata l'arte che infinita si richiede alla retta economia
ed uso de' numeri. Quindi essi sono sempre insolentemente monotoni ec.
(27. Giugno 1823.)
Ho detto altrove che il greco moderno
è senza paragone più simile al greco antico che non l'italiano al
latino. Fra le altre moltissime particolarità basti osservare che una
delle cose che massimamente distinguono le lingue moderne dalle antiche, e fra
queste l'italiana, spagnuola ec. dalla latina, si è che le moderne mancano
dei casi de' nomi; il che [2830]basterebbe quasi per se solo a
diversificare il genio e lo spirito delle nostre lingue, da quel delle antiche.
Ora il greco moderno conserva gli stessi casi dell'antico. Conserva ancora
l'uso della composizione fatta coi vocaboli semplici e colle preposizioni e
particelle. Ma già non v'è bisogno d'altra prova che di gittar
l'occhio sopra una pagina di greco vernacolo correttamente scritto, per
conoscere la visibilissima e, direi quasi, totale somiglianza ch'esso ha
coll'antico, e quanto ella sia maggiore, anzi di tutt'altro genere che non
è quella che passa tra l'italiano e il latino, giacchè questa consiste
principalmente nel materiale de' vocaboli e delle radici, e quella, oltre di
ciò, in grandissima parte dell'indole e dello spirito. Ho detto,
correttamente scritto, perchè certo fra il greco moderno scritto o
parlato da un ignorante e quello scritto da un uomo colto, ci corre tanto
divario quanto fra questo e il greco antico. Vedi il contratto in greco moderno
barbaro pubblicato da Chateaubriand nell'Itinerario. Ma ciò è
naturale, e succede in tutte le lingue e nazioni, e certo il greco antico
parlato, anche dai non plebei, e scritto [2831]dagl'ignoranti era ben
diverso da quello che scrivevano i dotti, come il latino rustico,
dall'illustre. Vedi la pag.2811. Il greco moderno colto, giacchè ed ogni
lingua può esser colta, e niuna lingua non colta può valer nulla,
potrebbe certo divenire una lingua bella, efficace, ricca, potente, e forse,
per la gran parte che conserva sì delle ricchezze come delle
qualità e della natura dell'antico, una lingua superiore o a tutte o a
molte delle moderne colte e formate.
(27. Giugno. 1823.)
Grazia dallo straordinario e dal contrasto.
Spesse volte la grazia o delle forme o delle maniere deriva da una bellezza e
convenienza nelle cui parti non esiste veramente nessun contrasto, ma che
però risulta da certe parti che non sogliono armonizzare e convenire insieme,
benchè in questa tal bellezza e in questo tal caso convengano; ovvero da
parti che non sogliono trovarsi riunite insieme, benchè trovandosi,
sempre armonizzino: onde essa bellezza è diversa dalle ordinarie,
benchè sia vera bellezza, cioè intera convenienza ed armonia. In
tal caso il contrasto [2832]è estrinseco ed accidentale, non
intrinseco: in tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza, ma non
dalla bellezza in quanto bellezza, bensì in quanto bellezza non
ordinaria, e di genere diversa dalle altre: così che la grazia anche in
questo caso deriva dal contrasto, non delle parti componenti il bello, ma del
tutto, cioè di questo tal bello, col bello ordinario; e dalla sorpresa
che l'uomo prova vedendo o sentendo una bellezza diversa da quella ch'egli
suole considerar come tale, il che produce in lui un contrasto colle sue idee.
Questo caso, da cui nasce la grazia, non è raro. Tutte quelle fisonomie,
o quelle forme di persona, perfettamente armonizzanti, e con tutto ciò
non ordinarie, o nelle quali non si suol trovare armonia, o in somma di genere
diverso dal più delle fisonomie e forme belle, sono per qualche parte graziose.
E il caso è più frequente e più facile nelle maniere, le
quali ammettono più varietà che le forme materiali e naturali, e
possono armonizzare in molti più modi che le dette forme.
[2833]La grazia, anche in questi
casi, è sempre relativa, cioè secondo il contrasto che fanno
quelle tali forme o maniere colle assuefazioni e colle idee che lo spettatore
ha intorno al bello. Il qual contrasto può esser maggiore in una persona,
minore in un'altra, e in un'altra nullo; e quindi produrre un senso di maggiore
o minor grazia; ovvero questo senso non esser prodotto in niun modo. E questa
varietà può anche essere in una medesima persona in diversi tempi
e circostanze, assuefazioni ed idee. Onde può succedere che ad una
medesima persona in altro tempo, o ad un'altra persona nel tempo stesso, riesca
grazioso in questi casi appunto il contrario di quello ch'erale già
riuscito, o che riesce a quell'altra persona. E questa grazia di cui discorro
può esser tale per un maggiore o minor numero di persone, per la
più parte o per pochi, per quelli d'una città o nazione o per
quelli d'un'altra, per la gente di campagna o di città: secondo che lo
straordinario di quella tal bellezza e armonia è maggiore o minore,
più o meno visibile, rispettivo a quello [2834]che i più
riconoscono per bellezza o a quello che pochi ec. Sebbene io abbia qui
considerato questa grazia applicandola alle forme e maniere delle persone, il
medesimo discorso si potrà e dovrà fare intorno a tutti gli altri
oggetti capaci di bellezza e di grazia, in molti de' quali sarà molto
più frequente e più facile il caso della grazia figlia della
bellezza diversa dall'ordinario, ch'esso non è nelle forme e maniere
degli uomini.
(27. Giugno 1823.). V. p.3177.
Dovunque non cade bellezza, non cade grazia.
Dico relativamente agli uomini, perchè bellezza e bruttezza cade in qualsivoglia
cosa, ma gli uomini non ne giudicano, e non ne ricevono il senso se non in
certe. E in queste sole, dov'essi possono ricevere il senso della bellezza,
possono anche ricever quello della grazia e concepirla. E viceversa similmente,
dovunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che l'una non possa esser senza
l'altra. Ma quel genere ch'è capace dell'una è capace dell'altra.
E per bellezza, intendo quella ch'è propriamente e filosoficamente [2835]tale,
cioè quella ch'è convenienza, non l'altre impropriamente chiamate
bellezze.
(27. Giugno 1823.)
Pascitare da pascitus antico
participio di pasco poi contratto in pastus, come noscitare
da noscitus poi ristretto in notus, (siccome da suesco suetus
ec.), del qual verbo noscitare ho detto altrove.
(28. Giugno 1823.)
Emptito o emtito
frequentativo da emo-emptus emtus. Non vi sarebbe chi appresso Plauto
Cas. 2. 5. 39. leggesse empsitem per emptitem se si fosse ben posto
mente alla teoria ed alla formazione grammaticale de' frequentativi in ito,
ed alla loro derivazione dai participii o supini, e non d'altronde.
(28. Giugno 1823.)
Ho recato altrove, in proposito dei
sinonimi, alcuni esempi di voci che nelle lingue figlie della latina sono
passati ad aver per proprii de' significati ben lontani da quelli che avevano
nella latina, e tra queste il verbo quaerere (querer) che nella lingua
spagnuola significa velle. Aggiungete l'esempio del verbo latino creare
(criar) che in ispagnuolo significa allevare, educare, sì esso come
i suoi derivati, crianza, criado ec.
(28.
Giugno 1823.)
[2836]Solae communes natos,
consortia tecta Urbis habent (apes), magnisque
AGITANT sub legibus aevum. Georg.
l.4. v.153-154. Qui il verbo agito non può esser
più continuativo di quel ch'egli è; e veramente non so chi possa
avere il coraggio di dire ch'egli in questo e ne' simili luoghi sia
frequentativo.
(28. Giugno 1823.)
Ho mostrato altrove che i poeti e gli
scrittori primitivi di qualunque lingua non potevano mai essere eleganti quanto
alla lingua, mancando loro la principal materia di questa eleganza, che sono le
parole e modi rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella
lingua, perchè scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero
torre, e i quali conservassero quelle parole e modi che già furono in
uso. Onde quando una lingua comincia ad essere scritta, tanto esiste della
lingua quanto è nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso,
e che poi ne cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo
conservasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi sono stati. Togliere
più che tante parole o forme da quella lingua la cui letteratura serve
di modello alla nuova (come gl'italiani avrebbero potuto fare dalla lingua latina),
è pericoloso in quei principii molto più che nel séguito (contro
quello che si stimano i pedanti), anzi non si può, perchè quando
nasce la letteratura [2837]di una nazione, questa nazione è
naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così facendo,
non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si propagherebbe
mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di più, il poeta
sembrerebbe affettato. Vedi in questo proposito la p.3015. Questo medesimo vale
anche per le parole della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso
comune, sia per disuso (seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di
conoscerle, mancando fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra
cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e
non istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè
scritto in volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli
non potesse capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza
di parole o di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente
ignoranti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo
studio. Ho dunque detto altrove che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi
tutti, e sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile,
tirano al familiare. E questo viene, sì per adattarsi alla capacità
della nazione, sì perchè, mancando loro, come s'è detto,
la principal materia dell'eleganza [2838]di lingua, sono costretti a
pigliare una lingua domestica e rimessa, e non volendo che questa ripugni e
disconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere anche questo,
per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde accade che questi
tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri, quando le loro
parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune, hanno
pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè
già elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne'
più alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que'
poeti e scrittori, questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a
parole non eleganti, e un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare,
le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono, come
nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a' loro
modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del
Petrarca. Queste considerazioni si possono fare, e questi effetti si scorgono,
massimamente ne' poeti, non solo perchè gli scrittori primitivi di una
lingua e i fondatori di una letteratura [2839]sono per lo più
poeti, ma perchè mancando ad essi la detta materia dell'eleganza niente
meno che a' prosatori, questa mancanza e lo stile familiare che ne risulta
è molto più sensibile in essi che nella prosa, la quale non ha
bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso comune per esser elegante di
quella eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche poco del
familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare
anch'esso, massime ad ora ad ora, pur ci sa meno familiare, e ci rende
più il senso dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca,
e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel Petrarca bellissima.
Così è: la condizione del poeta e del prosatore in quel tempo,
quanto ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la stessa (a
differenza de' tempi nostri che abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio
poetico tutto distinto): il prosatore si trova dunque aver poco meno del suo
bisogno, e quasi anche tanto che gli basti a una certa eleganza: il poeta che
non si trova aver niente di più, bisogna che si contenti di uno stile e
di una maniera che si accosti alla prosa. Ed infatti è benissimo definita
[2840]la familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo
che il loro stile, senza essere però basso, perchè tutto in loro
è ben proporzionato e corrispondente, tiene della prosa. Come fa
l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema primitivo, pure essendo stato
quasi un primo tentame di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era
creduta capace, com'esso medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo
modo nel genere e nello stile eroico.
Tutto questo discorso sui poeti e scrittori
primitivi di una lingua, si deve intender di quelli che meritano veramente, il
nome di poeti o di scrittori, e non di quei primissimi e rozzissimi, ne' quali
non cade sapore nè di familiarità nè d'eleganza, nè
d'altra cosa alcuna determinata e che si possa ben sentire, fuorchè
d'insipidezza, non avendo essi nè lingua, nè stile, nè
maniera, nè carattere formato, sviluppato, costante e uniforme. E il
sopraddetto discorso ha massimamente luogo, e i sunnotati effetti avvengono
principalmente nel caso che sui principii di una letteratura compariscano tali
e così grandi ingegni che o la creino [2841]quasi in un tratto, o
tanto innanzi la spingano dal luogo ove la trovano, ch'essa paia poco meno che
opera loro. Il qual caso avvenne alla letteratura greca e alla italiana[25].
Perciocchè quando la letteratura si va formando appoco appoco, e con
tanta uniformità di progressi, che mai un suo passo non sia fuor d'ogni
proporzione cogli antecedenti, i summentovati effetti sono manco notabili, e
manco facili a vedere, trovandosi l'eleganza delle parole e dei modi già
fatta possibile coll'abbondanza degli scrittori e l'arricchimento della lingua
che dà luogo alla scelta, e la nazione già capace e colta e
studiosa, prima che la letteratura giunga a produr cosa alta e perfetta, e che
un grande ingegno faccia uso dell'una e dell'altra disposizione, cioè di
quella della lingua, e di quella de' suoi nazionali.
(28. Giugno. 1823.). V. p.3009. 3413.
Participii in us di verbi attivi o
neutri, non deponenti, in senso attivo o neutro, alla foggia di quelli de'
deponenti. Dissimulatus a um, pransus a um, impransus a um, coenatus a um,
incoenatus a um, potus a um, (dall'antico po o poo, di cui
altrove) appotus a um, iuratus a um, coniuratus a um, iniuratus e
simili, solitus a um, insolitus a um, suetus a um co' suoi composti, hausus
(Forc. haurio fin.). Vedi la pag.2904. fine. 3072. esus a um, ventus
a um [2842]appresso Plauto, gavisus a um (gavisus sum,
per l'antico gavisi). Vedi il Forcellini sì in questi participii,
sì ne' verbi loro, specialmente in coeno, edo, venio ec. (28.
Giugno 1823). obstinatus a um; obitus a um, e altri composti di eo,
come interitus a um, praeteritus a um. Placitus a um, come gavisus. V. Forc. V. p.3060.
Continuativi delle lingue figlie della
latina. Diventare ital. da devenio-deventus. Sepultar spagn. da sepelio
sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato da Venanzio
Fortunato, poeta e scrittore italiano del sesto secolo, Carm. lib.8. Hymno de vitae aeternae gaudiis. (Glossar.
Cang.) Pressare, presser, prensar, oppressare, oppressé, soppressare, expressar
ec. da premo-pressus. V. il Glossar. Tritare da tero-tritus.
Il Gloss. Tritare, Frequenter terere, Ioh. de Ianua cioè genovese
del secolo 13o, autore di un Lessico edito. Cautare, incautare da caveo-cautus.
V. il Glossar. Gozar spagnuolo da gaudeo gavisus. Fecesi ne'
bassi tempi di gavisus gausus, onde gosus, onde gosare, e gozar.
Ovvero di gavisus gavisare, gausare, gosare, gozar. Trovasi nelle
antiche glosse latino-greche gaviso . V. il
Glossar. Cang. in Gavisci, ed anche in Gavisio, Gausida (goduta
sostantivo) e Gausita. Vedi quivi anche Gauzita, dove trovi
già il z di gozar. Da questo, o da gavisio, gausio,
gosio, anzi da gavisus us, gausus, gosus credo io che sia fatto lo spagnuolo
gozo, godimento, piuttosto che da gaudium. Gozar assai
spesso, come il nostro godere e il francese jouir, è vero
continuativo di gaudere, non meno per il significato che per la forma,
equivalendo a frui. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent
ec. dee esser venuto similmente da gavisare, prima che questo fosse mutato
in [2843]gausare, e ne sparisse la i, che manca in gozar,
ma con tutto ciò è più sfigurato. Così dite di joie,
jouissance, joyeux ec. e di gioia, gioire, ec. che di là
vengono. Pransare o pranzare ital. da pransus di prandeo
onde il frequentativo latino pransitare. Incettare non da un
barbaro incaptare, come pensa Giordani nel principio della lettera a
Monti, Proposta vol.1. parte 2., ma appunto da un inceptare mutato l'a
di captare in e per virtù della composizione, come in attrectare,
contrectare, detrectare, obtrectare, ec. da tractare o da detractus
ec. di detraho, in affectare ec. da affectus di afficio
il quale viene da facio, in coniectare, subiectare, obiectare ec.
da coniectus di coniicio che viene da iacio, in descendo,
ascendo ec. da scando, in occento da occentus di occino
da cano, in aggredior ec. da gradior, in accendo,
incendo, succendo da candeo o dall'inusitato cando, v.
p.3298. e in molti simili, benchè più generalmente e regolarmente
l'a della prima sillaba de' verbi dissillabi[26] si
muti per la composizione in i (e puoi vedere la p.2890.) Incepto
da inceptus d'incipio è tutt'altro verbo. Da capto,
o certo da capio vengono excepto, recepto, accepto, intercettare, discepto,
ec. i quali pure mutano l'a in e, e non fanno excapto, recapto
ec. V. p.3350. fine. 3900. fine. Avvisare nel suo senso proprio (vedi la
Crusca in avvisare §.1.2.3.) è verissimo continuativo di avvedere
nel senso suo primitivo. Ma non può esser fatto da questo verbo
italiano, il quale ha per participio avvisto e avveduto, non avviso.
Conviene che sia fatto da advisus di advidere, il qual verbo oggi
non si trova nella buona latinità. Puoi vedere la p.3034. Trovasi
però nella bassa il verbo advidere in senso di avvertire,
che io credo metaforico, [2844]e in questo e simili sensi il verbo advisare
e avisare. V. il Glossar. Cang. Anche i francesi e gli spagnuoli, che
non hanno il verbo avvedere, hanno aviser e avisar, ma
l'usano in quei sensi metaforici ne' quali l'usiamo anche noi. Nel senso
proprio nel quale egli è più dirittamente continuativo del suo
verbo originale advidere, non credo ch'egli si trovi se non nella nostra
lingua, e principalmente nei nostri antichi autori. Noi diciamo anche avvistare,
ed equivale a un di presso ad avvisare nel senso proprio, o nel
più simile a questo. V. p.3005. Advidere dovette propriamente
significare adspicere, oculos advertere, e quindi anche animum advertere.
(Nell'esempio che ne porta il Glossario, non mi risolvo s'ei voglia dire animadvertere,
o commonere, come il Glossario spiega). Nel qual senso, avvisare
preso nel significato proprio, è suo vero continuativo, esprimendo la
stessa azione, ma più durevole. Si può dir simile ad adspectare.
Noi non usiamo advidere se non reciproco, cioè neutro passivo,
sempre però in significato simile ai sopraddetti, o che questo sia
relativo agli occhi che propriamente vedono, o all'animo che considera e
conosce. Chi vuol ridere e nuovamente vedere quanti spropositi abbia fatto dir
la poca notizia finora avutasi della formazion de' verbi [2845]latini e
latinobarbari da' participii o supini d'altri verbi, vegga la bella etimologia
di advisare che dà l'Hickesio presso il Cange nel Glossario. Vedi
la Crusca anche in avvisamento §.3. e in avvisatura.
(29. Giugno, mio dì natale. 1823.). V. p.3019.
Vantano che la lingua tedesca è di
tale e tanta capacità e potenza, che non solo può, sempre che
vuole, imitare lo stile e la maniera di parlare o di scrivere usata da
qualsivoglia nazione, da qualsivoglia autore, in qualsivoglia possibile genere
di discorso o di scrittura; non solo può imitare qualsivoglia lingua; ma
può effettivamente trasformarsi in qualsivoglia lingua. Mi spiego. I
tedeschi hanno traduzioni dal greco, dal latino, dall'italiano, dall'inglese,
dal francese, dallo spagnuolo, d'Omero, dell'Ariosto, di Shakespeare, di Lope,
di Calderon ec. le quali non solamente conservano (secondo che si dice) il
carattere dell'autore e del suo stile tutto intero, non solamente imitano,
esprimono, rappresentano il genio e l'indole della rispettiva lingua, ma
rispondono verso per verso, parola per parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle
costruzioni, all'ordine preciso [2846]delle parole, al numero delle
medesime, al metro, al numero e al ritmo di ciascun verso, o membro di periodo,
all'armonia imitativa, alle cadenze, a tutte le possibili qualità
estrinseche come intrinseche, che si ritrovano nell'originale; di cui per
conseguenza elle non sono imitazioni, ma copie così compagne
com'è la copia d'un quadro di tela fatta in tavola, o d'una pittura a
fresco fatta a olio, o la copia d'una pittura fatta in mosaico, o tutt'al
più in rame inciso, colle medesimissime dimensioni del quadro.
Se questo è, che certo non si
può negare, resta solamente che si spieghi con dire che la lingua
tedesca non ha carattere proprio, o che il suo proprio carattere si è di
non averne alcuno, oltre i cui limiti non possa passare, il che viene a dir lo
stesso. Che una lingua per ricca, varia, libera, vasta, potente, pieghevole,
docile, duttilissima ch'ella sia, possa ricevere, non solo l'impronta di altre
lingue, ma per così dir, tutte intiere in se stessa tutte le altre
lingue; ch'ella si rida della libertà, della infinita
moltiplicità, della immensità della lingua greca, e dopo averla
tutta abbracciata, ed ingoiatone tutte le innumerabili forme, ella si trovi
ancora tanta capacità come per lo innanzi, e possa ricevere e riceva,
sempre che vuole, tutte le forme [2847]delle lingue le più
inconciliabili colla stessa greca (che con tante si concilia) e fra loro; delle
lingue teutoniche, slave, orientali, americane, indiane; questo, dico, non
può umanamente accadere, se non in una lingua che non abbia carattere;
non è accaduto alla greca ch'è stata ed è la più
libera, vasta e potente e la più diversissimamente adattabile di tutte
le lingue formate che si conoscono; non è accaduto e non accade, che si
sia mai saputo o si sappia a nessun'altra lingua perfetta di questo mondo.
Io determino il mio ragionamento
così. Ogni nazione ha un suo carattere proprio e distinto da quello di
tutte le altre, come lo ha ciascuno individuo, e tale che niun altro individuo
se gli troverà mai perfettamente uguale. Ogni lingua perfetta è
la più viva, la più fedele, la più totale imagine e storia
del carattere della nazione che la parla, e quanto più ella è
perfetta tanto più esattamente e compiutamente rappresenta il carattere
nazionale. Ciascun passo della lingua verso la sua perfezione, è un
passo verso la sua intera conformazione col carattere de' nazionali. Ora
domando io: i tedeschi non [2848]hanno carattere nazionale? certo che
l'hanno. Forse non ancora sviluppato, di modo ch'essendo tuttavia informe,
è capace d'ogni configurazione, e non ben si distingue da quello degli
altri popoli? anzi sviluppatissimo, perchè la civiltà loro
è già in un alto grado. Forse così vario, così
sfuggevole, così pieghevole, così adattabile ad ogni sorta di
qualità, ch'esso abbracci tutti i caratteri delle altre nazioni, e a
tutti questi si possa conformare? tutto l'opposto, perchè il carattere
della nazione tedesca è benissimo marcato, e così costante, che
forse il suo difetto è di piegare alla roideur, a una certa rigidezza
e durezza, e di mancare un poco troppo di mollezza e pieghevolezza. Ma quando
anche fosse appunto il contrario (come sarebbe fino a un certo segno negl'italiani),
a me basterebbe che la nazion tedesca avesse pure un qualunque carattere, che
offrisse abbastanza tratti di distinzione per non poterlo confondere con un
altro, e molto meno con qualsivoglia altro. Or dunque se la nazione tedesca ha
un carattere proprio, se essendo civile non può non averlo, se tutte le
nazioni civili lo hanno e non possono mancarne, [2849]la lingua tedesca,
s'ella è formata, e più, s'ella è perfetta, dev'essere una
fedelissima e completa immagine di questo carattere, e per conseguenza avere
anch'essa un carattere, e determinato e costante, e tale che non si possa
confondere con quello di un'altra lingua, nè ella possa ammettere il
carattere di un'altra lingua, ancorchè simile a lei, nè, molto
meno, scambiare il suo proprio carattere con questo. Ma la lingua tedesca senza
far violenza alcuna a se stessa, ammette le costruzioni, le forme, le frasi,
l'armonia, non solo delle lingue affini, non solo delle settentrionali, ma
delle più aliene, ma delle antichissime, delle meridionali, delle
formate e delle informi, di quelle che appartengono a nazioni per costumi, per
opinioni, per governi, per costituzione corporale, per climi, per leggi eterne
della natura disparatissime, ed eziandio contrarissime al carattere proprio e
costantissimo e certissimo della nazion tedesca, in somma di tutte le possibili
lingue passate e presenti, e per così dir future. Dunque la lingua
tedesca non è formata, non è determinata, e molto meno, perfetta.
Parlando dell'adattabilità o
pieghevolezza, e della varietà e libertà [2850]di una
lingua, bisogna distinguere l'imitare dall'agguagliare, o rifare, le cose dalle
parole. Una lingua perfettamente pieghevole, varia, ricca e libera, può
imitare il genio e lo spirito di qualsivoglia altra lingua, e di qualunque
autore di essa, può emularne e rappresentarne tutte le varie
proprietà intrinseche, può adattarsi a qualunque genere di
scrittura, e variar sempre di modo, secondo la varietà d'essi generi, e
delle lingue e degli autori che imita. Questo fra tutte le lingue perfette
antiche e moderne potè sovranamente fare la lingua greca, e questo fra
le lingue vive può, secondo me, sovranamente la lingua italiana. Perciò
io dico che questa e quella sono piuttosto ciascuna un aggregato di più
lingue che una lingua, non volendo dire ch'elle non abbiano un carattere
proprio, ma un carattere composto e capace di tanti modi quanti lor piaccia. Questo
è imitare, come chi ritrae dal naturale nel marmo, non mutando la natura
del marmo in quella dell'oggetto imitato; non è copiare nè
rifare, come chi da una figura di cera ne ritrae un'altra tutta [2851]compagna,
pur di cera. Quella è operazione pregevole, anche per la
difficoltà d'assimulare un oggetto in una materia di tutt'altra natura;
questa è bassa e triviale per la molta facilità, che toglie la
maraviglia; e in punto di lingua è dannoso, perchè si oppone alla
forma e natura ed essenza propria ch'ella o ha o dovrebbe avere. Imitando in
quel modo s'imitano le cose, cioè lo spirito ec. delle lingue, degli
autori, dei generi di scrittura; imitando alla tedesca s'imitano le parole,
cioè le forme materiali, le costruzioni, l'ordine de' vocaboli di
un'altra lingua (il che una lingua perfetta, anzi pure formata, non dee mai
poter fare, nè può per natura fare); e probabilmente s'imitano
queste, e non le cose; cioè non s'arriva ad esprimer l'indole, la forza,
la qualità, il genio della lingua e dell'autore originale (benchè
pretendano di sì), appunto perchè in un'altra e diversissima lingua
se ne imitano anzi copiano le parole: e mad. di Staël ancora è di questo
sentimento in un passo che ho recato altrove della prima lettera alla Biblioteca
Italiana, 1816. n. 1.
[2852]Una traduzione in lingua
greca fatta alla maniera tedesca, una traduzione dove non s'imita, ma si copia,
o vogliamo dire s'imitano le parole, dovendosi nelle traduzioni imitar solo le
cose, si è quella de' libri sacri fatti da' Settanta. Ora la medesima
lingua greca, quella così immensamente pieghevole e libera, nondimeno,
percioch'ella è pur lingua formata e perfetta, riesce in quella
traduzione (fatta certo in antico e buon tempo) affatto barbara e ripugnante a
se stessa, e non greca; e di più, quantunque noi non possiamo per la
lontananza de' tempi, e la scarsezza delle notizie grammaticali ec. e la
diversità de' costumi e dell'indole, neppur legendo gli originali
ebraici, pienamente giudicare e sentir qual sia il proprio gusto de' medesimi,
e il vero genio di quella lingua, nondimeno possiamo ben essere certissimi che
questo gusto e questo genio non è per niente rappresentato dalla version
de' Settanta, che non è quello che noi vi sentiamo leggendola, che non
ve lo sentirono i greci contemporanei o posteriori, e ch'ella in somma fu ben
lontana dal fare ne' greci lo stesso effetto, nè di gran lunga simile,
neppure analogo a [2853]quello che facevano ne' lettori ebrei gli
originali[27].
Ch'è appunto il fine che dovrebbero avere le traduzioni, e che i
tedeschi pretendono di pienamente e squisitamente conseguire col loro metodo.
Aggiungasi dopo tutto ciò che la traduzione de' Settanta, barbara per
troppa conformità estrinseca coll'originale, non le è di gran
lunga così scrupolosamente e onninamente conforme, come le vantate
traduzioni tedesche agli originali loro.
Una lingua perfetta che sia pienamente
libera ec. colle altre qualità dette di sopra, contiene in se stessa,
per dir così, tutte le lingue virtualmente, ma non mica può mai
contenerne neppur una sostanzialmente. Ella ha quello che equivale a ciò
che le altre hanno, ma non già quello stesso precisamente che le altre
hanno. Ella può dunque colle sue forme rappresentare e imitare
l'andamento dell'altre, restando però sempre la stessa, e sempre una, e
conservando il suo carattere ben distinto da tutte; non già assumere
l'altrui forme per contraffare l'altrui andamento; dividendosi e
moltiplicandosi in mille lingue, e mutando a [2854]ogni momento faccia e
fisonomia per modo che o non si possa mai sapere e determinare qual sia la sua
propria, o di questa non si possa mai fare alcuno argomento da quelle ch'ella
assume, nè in queste raffigurarla.
Ella è cosa più che certa e
conosciuta che i popoli meridionali differiscono per tratti essenzialissimi e
decisivi di carattere da' popoli settentrionali, e gli antichi da' moderni, per
non dire delle altre secondarie suddivisioni e suddifferenze nazionali
caratteristiche. Ella è cosa ugualmente inconcussa che il carattere di
ciascuna lingua perfetta si è precisamente quello della nazione che la
parla, e viceversa. La stessa verità è indubitata e universale
intorno alla letteratura. Or dunque che una lingua settentrionale possa senza
menomamente violentarsi nè differir da se stessa, non solo imitare, anzi
copiare, il carattere, ma assumere indifferentemente le forme, l'ordine, le
costruzioni, le frasi, l'armonia di qualunque lingua meridionale come di
qualunque settentrionale, che una lingua moderna possa altresì lo stesso
indifferentemente con qualunque lingua antica [2855]siccome con
qualunque moderna; questo in rerum natura, e se i principii della logica
universale vagliono qualche cosa ne' casi particolari, è impossibile
quando questa lingua sia veramente formata e determinata, e molto più
nella supposizione che sia perfetta. Questo medesimo oltre di ciò,
secondo tutte le regole e teorie speculative della letteratura, secondo tutti
gl'insegnamenti dati finora dall'osservazione e dall'esperienza in queste materie,
è contraddittorio in se stesso, non essendo possibile che una tal lingua
contraffacendo esattamente le forme, e frasi proprie e speciali d'un'altra
lingua caratteristicamente diversa, ne rappresenti il genio e il carattere, e
ne conservi lo spirito; essendosi sempre veduto ne' casi particolari, e
confermato colle ragioni speculative generali, che da tal causa risulta
contrario effetto, e contrario totalmente, anche trattandosi di lingue affini,
e somiglianti di carattere. Ma lasciando questo, e tornando alla prima
impossibilità, dico che il carattere proprio di una lingua, è
sempre per sua natura esclusivo degli altri caratteri, siccome lo è
quello [2856]di una nazione, quando sia formato e completo; che quello
ch'è impossibile alla nazione è impossibile alla lingua; che se
la nazion tedesca non può assumere per natura il preciso e proprio carattere
de' francesi, se non può assumerne i costumi e le maniere senza nuocere
al carattere nazionale, senza guastarsi, senza rendersi affettata, e
dimostrarsi composta di parti contraddittorie, e produrre il senso della
sconvenienza, dello sforzo, della violenza fatta alla propria natura,
così la lingua tedesca, s'ella ha già forma propria e certa,
s'ella ha carattere, s'ella è perfetta, non può per natura
contraffare e ricopiare il carattere delle altre lingue, non può senza
gl'inconvenienti sopraccennati e anche maggiori, rinunziando alle forme proprie,
assumere nelle traduzioni le forme delle lingue straniere.
Astraendo da tutto questo, dico che in una
lingua la quale abbia pienamente questa facoltà, le traduzioni di quel
genere che i tedeschi vantano, meritano poca lode. Esse dimostrano che la lingua
tedesca, [2857]come una cera o una pasta informe e tenera, è
disposta a ricevere tutte le figure e tutte le impronte che se le vogliono
dare. Applicatele le forme di una lingua straniera qualunque, e di un autore
qualunque. La lingua tedesca le riceve, e la traduzione è fatta.
Quest'opera non è gran lode al traduttore, perchè non ha nulla di
maraviglioso; perchè nè la preparazione della pasta, nè la
fattura della stampa ch'egli vi applica, appartiene a lui, il quale per
conseguenza non è che un operaio servile e meccanico; perchè
dov'è troppa facilità quivi non è luogo all'arte,
nè il pregio dell'imitazione consiste nell'uguaglianza, ma nella simiglianza,
nè tanto è maggiore quanto l'imitante più s'accosta
all'imitato, ma quanto più vi s'accosta secondo la qualità della
materia in cui s'imita, quanto questa materia è più degna; e quel
ch'è più, quanto v'ha più di creazione nell'imitazione,
cioè quanto più v'ha di creato dall'artefice nella somiglianza
che il nuovo oggetto ha coll'imitato, ossia quanto questa somiglianza vien
più dall'artefice che dalla materia, ed è più nell'arte [2858]che
in essa materia, e più si deve al genio che alle circostanze esteriori.
Neanche una tal opera può molto giovare alla lingua, nè servire
ad arricchirla, o a variarla, o a formarla e determinarla, sì perch'ella
dee perdere queste impronte e queste forme colla stessa facilità con cui
le riceve e per la ragione stessa per cui così facilmente le riceve;
sì perchè queste nella loro moltiplicità nocciono l'una
all'altra, si scancellano e distruggono scambievolmente, e impediscono l'una
all'altra l'immedesimarsi durabilmente e connaturarsi colla favella; sì
perchè questa moltiplicità immoderata è incompatibile con
quella tal quale unità di carattere che dee pur avere una favella ancorchè
immensa, massime ch'elle sono diversissime l'une dall'altre, o ripugnano scambievolmente;
sì perchè gran parte di queste forme o impronte essendo
alienissime o affatto contrarie al carattere nazionale de' tedeschi, e a quello
della loro letteratura, non possono se non nuocere alla lingua, e guastarla, o
impedire o ritardare ch'ella prenda e fortemente [2859]abbracci e
ritenga quella sola forma e carattere che le può convenire, cioè
quella che sia conforme al carattere della nazione e della nazionale letteratura,
senza la qual forma perfettamente determinata, e da lei perfettamente ricevuta
per costantemente conservarla, essa lingua non sarà mai compiuta e
perfetta.
Conchiudo che se i traduttori tedeschi
(grandissimi letterati e dottissimi, e spesso uomini di genio) fanno veramente
quegli effetti che ho ragionati nel principio di questo pensiero, il che
pienamente credo quanto alle cose che appartengono all'estrinseco; se con
ciò non fanno alcuna violenza alla lingua, nel che credo assai ma assai
meno di quel che si dice; se in somma la lingua tedesca, quanto alle
qualità sopra discusse, è tale quale si ragiona, nel che non so
che mi credere; la lingua tedesca come applicata assai tardi alla letteratura,
e come appunto vastissima e immensamente varia, sì per
l'antichità della sua origine, sì per la moltitudine
degl'individui, e diversità de' popoli che la parlano, non è
ancora nè perfetta, nè formata e sufficientemente [2860]determinata;
ch'ella è ancor troppo molle per troppa freschezza; ch'ella col tempo e
forse presto (per l'immenso ardore, attività e infaticabilità
letteraria di quella nazione) acquisterà quella sodezza e certezza che
conviene a ciascuna lingua, e quella particolar forma e determinato e stabil
carattere e proprietà, e quel genere di perfezione che conviene a lei,
con quel tanto di unità caratteristica ch'è inseparabile dalla
perfezione di qualunque lingua, siccome di qualunque nazione, e forse di
qualunque cosa, se non altro, umana; che allora ella potrà essere e
sarà liberissima, vastissima, ricchissima, potentissima, pieghevolissima,
capacissima, immensa, e immensamente varia, pari in queste qualità
astrattamente considerate, e superiore eziandio, se si vuole e se è
possibile, non che all'italiana ma alla stessa lingua greca, ma non per tanto
ella non avrà o non conserverà per niun modo quelle
facoltà stravaganti e senza esempio, divisate di sopra; e quelle
traduzioni ora lodate e celebrate piuttosto, cred'io, per gusto matematico che
letterario, piuttosto come curiosità che come opere di genio, [2861]piuttosto
come un panorama o un simulacro anatomico o un automa, che come una statua di
Canova, piuttosto misurandole col compasso, che assaporandole e gustandole e
paragonandole agli originali col palato, quelle traduzioni, dico, parranno ai
tedeschi non tedesche, e nel tempo stesso non capaci di dare alla nazione la
vera idea degli originali, aliene dalla lingua, e proprie di un'epoca d'imperfezione,
e immaturità.
(29 30. Giugno 1823.)
In ciascun punto della vita, anche nell'atto
del maggior piacere, anche nei sogni, l'uomo o il vivente è in istato di
desiderio, e quindi non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di
totale assopimento e sospensione dell'esercizio de' sensi e di quello del pensiero,
da qualunque cagione essa venga) nel quale l'individuo non sia in istato di
pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o
per circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in
istato di maggior sensibilità ed esercizio della vita, e viceversa.
(30. Giugno 1823.). V. p.3550.
[2862]L'amicizia, non che la piena
ed intima confidenza tra' fratelli, rade volte si conserva all'entrar che
questi fanno nel mondo, ancorchè siano stati allevati insieme, ed
abbiano esercitato l'estremo grado di questa confidenza sino a quel momento; e
di più seguano ancora a convivere. E pure se l'uomo è capace di
piena ed intima confidenza, e s'egli dovrebbe conservarla perpetuamente verso
qualcuno, questo dovrebb'essere verso i fratelli coetanei, ed allevati
con lui nella fanciullezza: e dico dovrebb'essere, non per forza naturale della
congiunzione di sangue, la qual forza è nulla e immaginaria, e niente ha
che fare nel produr quella confidenza o nel conservarla, ma per forza naturale
dell'abitudine e dell'abitudine contratta nel primo principio delle idee e
delle abitudini dell'individuo, e nella prima capacità di contrarle, e
conservata tutto quel tempo che dura la maggiore intensità e
disposizione ed ampiezza, e il maggior esercizio di questa capacità.
Nondimeno questa confidenza così fortemente stabilita e radicata si
perde per la varietà che s'introduce nel carattere de' fratelli mediante
il commercio cogli altri individui della società. Ma se questo [2863]commercio
non avesse avuto luogo, quella confidenza sarebbe stata perpetua, com'ella non
è mai cessata fino a quell'ora. Che vuol dir ciò, se non che nei
caratteri degli uomini, novantanove parti son opera delle circostanze? e che
per diversissimi ch'essi appariscano, come spesso accade anche tra fratelli, in
questa diversità non è opera della natura, se non una parte
così menoma che saria stata impercettibile? È quasi impossibile
il caso che tutte le minute circostanze e avvenimenti che incontrano all'un de'
fratelli nell'uso della società, incontrino all'altro, o sieno uguali a
quelle che incontrano all'altro, ancorchè postogli da vicino. Questa
diversità diversifica due caratteri che parevano affatto, ed erano quasi
affatto, compagni, e com'ella è inevitabile, così la
diversificazione di questi caratteri nella società non può mancare.
E ho detto le minute circostanze, contentandomi di queste, perchè anche
la somma di cose minutissime basta a produrre grandissimi e visibilissimi
effetti sull'indole degli uomini, massime allora ch'eglino sono principianti
nel mondo, e che in essi la capacità delle abitudini e delle opinioni,
ossia la formabilità dell'indole, è ancor [2864]molta e
grande e in buon essere.
(30. Giugno. 1823.)
Diminutivi che nelle lingue figlie della
latina sono passati in luogo dei positivi latini, del che ho ragionato altrove,
sia che questi positivi non esistano più in esse lingue, sia che questi
diminutivi sieno fatti loro sinonimi. Fratello, sorella, figliuolo
ital. orilla da ora, cioè estremità, spagn.
V. il Glossar. il Forcell. e i Diz. spagn. quanto alle tre suddette voci
italiane. (30. Giugno. 1823.). Orecchia, oreja, oreille da auricula;
pecchia, aveja, abeille da apicula o apecula, come vulpecula.
Flagellum s'usava anche nell'antico latino pel suo positivo flagrum;
siccome ora flagello, fléau; e flagrum è perduto. Scalpello
e scalpro. V. p.2974. 3001. 3040. 3264.
Proprietà comune alle tre figlie
della lingua latina. Aggiungere pleonasticamente per idiotismo, e per
proprietà di lingua l'aggettivo plur. altri o altre ai
pronomi plurali nos e vos. Noi altri, voi altri; nous autres, vous autres; nosotros, vosotros. Nel che l'italiano e il francese è
libero di farlo o non farlo, lo spagnuolo no ec. E presso i primi, massimamente
i francesi, par che quest'usanza sia del dir familiare. Ella è presso
noi della scrittura familiare, frequentissima nel discorso domestico, e quasi
continua in quello del volgo, come nello spagnuolo, quando voi ha
significato veramente plurale. V. p.2891.
(30. Giugno 1823.)
Nostri plurali femminini o neutri, in a,
da nomi di singolare mascolino o neutro, del che ho detto altrove in proposito
dalla voce plurale fusa per fusi usata da Simmaco. Le peccata,
le fata, le calcagna, le cervella, le fila, le ciglia. Questi plurali
corrispondono [2865]ai rispettivi latini. Le risa: risum i non si
trova, nè nel Forcell. nè nel Glossario. Così nè
anche le anella: anellum i. Le letta. Trovasi lectum i in
Ulpiano. V. il Glossar. in lectumstratum.
(30. Giugno 1823.)
Altronde per altrove (del che
ho detto, se non erro, parlando di un luogo di Floro, e dello spagn. donde,
cioè unde, detto, come ora si dice, per ubi) trovasi in
Giusto de' Conti Son. 22. e Canz.
(30. Giugno 1823.)
Suppeditare se viene
da sub e pedes (v. Forcell.), donde si ha tolta quella giunta e
desinenza d'itare? Io lo credo fatto da qualche participio, e
però continuativo d'altro verbo perduto. (1. Luglio. 1823.). Cioè
da suppedio-suppeditus, conforme a impedio-impeditus, expedio,
praepedio ec. che pur vengono da pes, ma non hanno il t nel
tema, perchè non son fatti da' participii. È da notare
però che l'i di suppedito è breve, e in suppeditus
sarebbe lunga. Ma credo v'abbiano molti altri esempi di questo, che l'i
de' verbi in ito sia sempre breve, ancorchè fatti da participii
in itus lungo. Certo da' participii in atus si fa ito
breve. V. la p.3619.
Gli spagnuoli usano l'avverbio luego,
cioè subito, nel principio delle enumerazioni, e massime quando s'hanno
a recare più d'un argomento, e recasi il primo, dicono luego, che
vale primieramente. Pretto grecismo. I greci [2866]in casi simili,
e specialmente nel caso predetto, usano elegantemente ,
cioè subito, in principio di periodo, come gli spagnuoli luego,
ed anche luego al punto in istile più familiare, o burlesco. S.
Gio. Crisostomo o chiunque sia l'autore dei due sermoni sulla Preghiera , nel
Serm. 2, che incomincia J, sul
principio: J , . .. V.
Plat. de rep. 1. t.4. p.32. v. ult. dove non serve
all'enumerazione ma vale ecco qua subito, pronto e come senza cercare
o senza andar lontano. E così i greci spessissimo. Noi diremmo la
prima cosa avverb., prima di tutto, in primo luogo; i latini primum,
o principio (v. Georg. 2. 8., 4. 8.), ec.
(1. Luglio 1823.)
Ho detto sovente che ciascuno autor greco
ha, per così dire, il suo Vocabolarietto proprio. Ciò vale non
solamente in ordine all'usare ciascun d'essi sempre o quasi sempre quelle tali
parole per esprimere quelle tali cose, laddove gli altri altre n'usano, o in
ordine ai loro modi e frasi familiari e consuete, ma eziandio in ordine al significato
delle stesse parole o frasi che anche gli altri usano, o che tutti usano.
Perocchè chi sottilmente attende e guarda negli scrittori greci,
vedrà che le stesse parole e frasi presso un autore hanno un senso, e
presso un altro un altro, e ciò non solamente trattandosi di autori
vissuti in diverse epoche, il che non sarebbe strano, ma eziandio di autori
contemporanei, e compatriotti ancora, come p.e. di Senofonte e [2867]Platone,
i quali furono di più condiscepoli, e trattarono in parte le stesse materie,
e la stessa Socratica filosofia. Dico che il significato delle parole o frasi
in ciascuno autore è diverso: ora più ora meno, secondo i termini
della comparazione, e secondo la qualità d'esse parole; e per lo
più la differenza è tale che i poco accorti ed esercitati non la
veggono, ma ella pur v'è, benchè picciolissima. Un autore adoprerà
sempre una parola nel significato proprio, e non mai ne' metaforici. Un altro
in un significato simile al proprio, o forse proprio ancor esso, e non mai
negli altri sensi. Un altro l'adoprerà in un senso traslato, ma con
tanta costanza, che occorrendo di esprimere quella tal cosa, non
adoprerà mai altra voce che quella, e adoprando questa voce, non la
piglierà mai in altro senso, onde si può dire che presso lui
questo significato è il proprio di quella voce: (come accade che i sensi
metaforici de' vocaboli pigliano spesse volte assolutamente il luogo del
proprio, che si dimentica) e questo caso è molto frequente. Un altro
adoprerà quella voce colla stessa costanza, o con poco manco, in [2868]un
altro senso traslato, più o meno diverso, e talvolta vicinissimo e
similissimo, ma che pur non è quel medesimo. E tutta questa
varietà (con altre molte differenze simili a queste) si troverà
nell'uso di uno stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso avverbio in
autori contemporanei e compatriotti. Alla qual varietà, come ben sanno i
dotti in queste materie, è da por mente assai, e da notar sempre in ciascuno
autore, massime ne' classici, qual è il preciso senso in cui egli suole
o sempre o per lo più adoperare ciascuna parola o frase. Trovato e
notato il quale, si rende facile la intelligenza dell'autore, e se ne penetra
la proprietà e l'intendimento vero delle espressioni, e si spiegano
molti suoi passi che senza la cognizione del significato da lui solito d'attribuirsi
a certe parole, non s'intenderebbero; com'è avvenuto a molti interpreti
e grammatici ec. che spiegando questi passi secondo l'uso ordinario di quelle
tali parole o frasi, e non considerandole in quello particolare ch'esse
sogliono aver presso quello scrittore, o non hanno saputo [2869]strigarsi
o si sono ingannati. E così accade anche ai ben dotti, che però
non abbiano pratica di quel tale autore, e vi sieno principianti, o che ne
leggano qualche passo spezzato. Certo non prima si arriva a pienamente e
propriamente intendere qualunque autor greco che si abbia presa pratica del suo
particolar Vocabolario, e de' significati di questo: e tal pratica è
necessario di farla in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo lungo
intervallo a leggere: benchè in alcuni costa più in altri meno, e
in certi costa tanto, che solo i lungamente esercitati e familiarizzati colla
lezione e studio di quel tale autore sono capaci di bene intenderne e spiegarne
la proprietà delle voci e frasi, e della espressione sì
generalmente, sì in ciascun passo. Insomma questi solo conoscono la sua grecità,
la quale, si può dire, in ciascuno autor greco, più o meno
è diversa.
(1. Luglio 1823.)
Non è maraviglia che la scrittura
francese sia così diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto, a
tutte le ortografie delle lingue figlie della latina, ed anche, almeno in
parte, della inglese e della tedesca, servì [2870]di modello e di
guida la scrittura latina, che apparteneva all'unica letteratura che si
conoscesse quando prima si cominciarono a formare e regolare le moderne
ortografie, anzi era altresì quasi l'unica scrittura nota, perchè
le lingue moderne poco fino allora s'erano scritte, e quando conveniva
scrivere, s'era per lo più scritto in latino, benchè barbaro. Ora
la pronunzia francese, è tra le pronunzie delle lingue nate dalla latina,
quella che più s'è discostata dal latino. Ond'è che la
lingua francese è altresì fra queste lingue la più diversa
dalla madre, così di spirito, di costruzioni, di maniere, di frasi, e di
assai vocaboli, come di suoni[28].
Egli è certissimo che da principio la lingua francese si pronunziava nel
modo stesso che si scriveva, ossia la pronunzia delle sillabe nelle parole
francesi corrispondeva al valore che avevano nell'alfabeto le lettere con cui
esse parole si scrivevano. I versi che si trovano ancora de' poeti provenzali,
pronunziavansi indubitatamente in questo modo o con poca differenza, come ne fa
fede la loro misura, le loro rime ec. che si perderebbero l'une e l'altra pronunziando
quei versi altramente, o alla moderna. Ma le irruzioni e i commerci de'
settentrionali [2871]avendo cangiata la pronunzia francese, e diradata
di vocali e inspessita di consonanti e resa più aspra, e così
diversificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo della francese, mutata
eziandio la provenzale, (v. Perticari Apologia di Dante cap.11. principio,
p.206. fine - 208. principio, e cap.12. principio, p.111 112. e ivi fine,
p.119. e Capo 16. fine, p.158.) la lingua francese si allontanò
sommamente dalla latina, sì per li nuovi vocaboli e forme che
acquistò da popoli che non avevano mai parlato latino, sì per li
suoni di cui vestì, e con cui pronunziò quegli stessi vocaboli
tolti dal latino ch'ella aveva, e che tuttora conserva. Quindi per due ragioni
la pronunzia francese dovette riuscir diversa dalla scrittura. Primo, per la
sopraddetta, cioè perchè non avendovi scrittura nota, o almeno
scrittura appartenente a lingua letterata e formata, fuori della latina,
l'ortografia francese dovette pur prendere, come l'altre, per suo modello la
latina, ed essendo già la pronunzia francese fatta diversissima dalla
latina, e certo assai più diversa che non erano o non furono poi la
spagnuola e l'italiana, [2872]perciò la scrittura francese dovette
molto più differire dalla pronunzia, che non differiscono la spagnuola e
l'italiana che presero e usarono lo stesso modello. Secondo: questa
diversificazione e settentrionalizzazione di pronunzia, avendo avuto luogo, o
acquistato forza ed estensione in Francia piuttosto tardi, e di più
trovandosi che i poeti di cui la Provenza abbondò, scrivevano il
provenzale, stato già tutt'uno col francese, ed allora tuttavia analogo,
ma più latino, (v. Perticari l.c. p.107. principio) lo scrivevano, dico,
in modo simile ed analogo al latino; ed essendo così vero come naturale
che i primi che scrissero qualche cosa in francese, riguardarono ai provenzali,
e se li proposero per guide, come quelli ch'erano in quei tempi i più
dotti forse della Francia, ed avevano contribuito a spargere in essa il gusto
della poesia volgare e dello scrivere in volgare; da tutto questo ne
seguì che la scrittura francese si accostò al latino, come ci si
accostava e la scrittura [e] pronunzia provenzale; ci si accostò dico,
nonostante che la pronunzia francese ogni dì più se ne scostasse,
con che si venne anche a scostare dalla scrittura. [2873]Perciocchè
veramente si può dire che la pronunzia francese da se, e movendosi essa,
si allontanò e divise dalla scrittura, piuttosto che la scrittura dalla
pronunzia. Benchè veramente sia debito de' buoni e filosofi ortografi di
far che la scrittura in qualunque modo tenga sempre dietro alla universale
pronunzia, regolata, o riconosciuta per regolare; e non far che la scrittura
stia ferma, e lasci andare questa tal pronunzia al suo viaggio, senza darsene
alcun pensiero. Ma questi discorsi non si potevano nè fare nè seguire
in quei primi e confusi tempi e ignoranti, nè dopo fatti, sono stati
effettuabili, avendo preso piede l'usanza contraria in modo che non si potea
più scacciare nè mutare; abbisognando ella di troppe e troppe
grandi ed essenziali mutazioni, non di poche e lievi e quasi accidentali come
ne abbisognò e ne ricevette l'usanza italiana.
Da tutte queste cagioni e andamenti
n'è seguito questo curioso effetto: che la lingua francese scritta,
è talora uguale, spessissimo somigliante alla latina, e quasi sempre
riconoscibile per figlia [2874]di lei; ma la lingua francese pronunziata,
ch'è pure in somma quanto dire la vera lingua francese, n'è tanto
diversa, anzi dissimile, che appena si può riconoscere questa
figliuolanza. E degli stessi vocaboli latini che i francesi conservano, e sono
assaissimi, gran parte e forse la maggiore, pronunziati, riescon tali, che
guardandoli nella sola pronunzia non s'indovinerebbe mai la loro origine,
nè mai si piglierebbero per nati da tali o tali vocaboli latini; laddove
questa origine si riconosce a prima vista leggendo quei vocaboli scritti. E
veramente se la scrittura francese non fosse così diversa dalla pronunzia,
io credo che oramai la notizia della più parte delle origini di questa
lingua sì moderna, sarebbe perduta, o in preda delle dissertazioni delle
congetture e delle favole. Mentre ella si conserva per solo benefizio della
diversità e irregolarità anzi assurdità della scrittura, e
in questa si conserva chiarissima e certissima e visibilissima, e tanto
più visibile quanto la scritura più è diversa dalla pronunzia,
perchè tanto più è simile al latino. Tanto si è
mutata la lingua latina sulle bocche francesi per l'uso avuto co' popoli
settentrionali, e forse ancora in gran parte ancor prima, per la natura del [2875]clima
stesso, oltre la origine settentrionale di molti de' medesimi parlatori,
cioè de' Franchi di origine. Quantunque nè l'origine gotica e
longobardica di molti italiani, nè la vandalica nè la moresca di
tanti spagnuoli abbiano prodotto di gran lunga effetti simili e proporzionati a
questi nelle lingue di questi due popoli.
Somiglianti cagioni dovettero certamente
contribuire a fare che le scritture inglese e tedesca siano riuscite meno conformi
alle pronunzie, e queste meno corrispondenti al valor delle lettere ne'
rispettivi alfabeti, e meno costanti nelle regole medesime loro (che hanno,
almeno in francese, tante eccezioni e sotteccezioni) che non sono le scritture
e pronunzie italiana e spagnuola. Perocchè l'alfabeto inglese è
il latino, e il tedesco originariamente non è altro: laddove le loro
lingue sono e originariamente e presentemente tutt'altre che la latina. Di
più essendo pervenuta la letteratura e scrittura latina, e l'uso
eziandio della medesima, anche dove non pervenne l'uso di questa loquela, come
in Inghilterra e in Germania, anche i tedeschi e gl'inglesi regolarono
primieramente o abbozzarono la loro ortografia e scrittura col solo o quasi
solo esempio della latina avanti gli occhi. E dopo preso piede le prime regole
o i primi abbozzi, non si è più in caso di distruggerli, e [2876]neppur
si è sempre in caso di fare che il resto, sebbene ancor non sia fatto, o
non abbia preso piede, non gli corrisponda; almeno non sempre si può
riuscire ad impedirlo perfettamente, o a far che impeditolo, la macchina
cammini bene e regolarmente, e senza imbarazzi e contrapposizioni e disturbi
ec. disordini, effetti contraddittorii ec.
(1. Luglio 1823.)
L'uomo si rassegna a soffrire passivamente,
o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano e senza niuna speranza,
o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente
senz'alcun frutto. Quindi è che dall'abito della rassegnazione sempre
nasce noncuranza, negligenza, indolenza, inattività, e finalmente
pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e quasi immobilità.
(2. Luglio. 1823.)
Dico altrove che l'uso di crear
giudiziosamente e parcamente nuovi composti, fu mantenuto dagli autori latini,
e massime da' poeti, non solo fino alla intera formazione della lingua e della
letteratura, ma nello stesso secolo d'oro della latinità, e nel tempo
che immediatamente gli succedette. Di quest'uso parla Macrobio [2877]Saturn.
VI. 5. mostrando che alcuni epiteti composti che si credevano fatti da Virgilio
sono di fabbrica più antica. Segno qui alcuni composti latini de' quali
ch'io sappia non si trova esempio negli autori anteriori al secolo aureo. E
saranno tutti composti di due nomi, l'uno sostantivo e l'altro addiettivo, o
tutti e due sostantivi ec. o d'un nome e d'un verbo o participio o verbale, ec.
che sono i composti più rari; lasciando stare i nomi o verbi ec.
composti con preposizioni o particelle, de' quali si potrebbero addurre al caso
nostro esempi in troppa abbondanza. Alipes, aliger, armifer, armipotens,
armisonus, aeripes, aerisonus, aerifer, aerifodina, aequaevus, aequidistans
presso Frontino ed altri, algificus presso Gellio, aequilatatio
presso Vitruvio, aequilateralis presso Censorino, aequilaterus presso
Marziano Capella, aequilibris ec., aequinoctium, della qual voce
vedi Festo appo il Forcellini in aequidiale, aequipedus ed aequipollens
presso Apuleio; aequipondium presso Vitruvio, aequicrurius presso
Marziano Capella, alticinctus, altitonans, altitonus, altivolus presso
Plinio il vecchio, anguitenens, aegisonus, auricornus, aurifer, aurifex,
aurifodina presso Plinio il vecchio, aurigena, auriger, auripigmentum
presso Plinio e Vitruvio, [2878]auriscalpium presso Marziale e
Scribonio, bijugus e bijugis (ma qui c'entra un avverbio) e altri
tali composti con bis, equiferus ed equisetum presso Plinio il
vecchio, fontigenae di Marziano, ignigena, ignipotens, ignipes,
gemellipara, mellifer, mellificium, mellificus presso Columella, mellifico
e melligenus presso Plinio il vecchio, nidifico presso il
medesimo e Columella, nidificium presso Apuleio, nidificus presso
Seneca tragico, noctifer e simili, nubifer, nubifugus di
Columella, floriparus d'Ausonio, securifer, securiger, nubivagus presso
Silio, nubigena (in proposito del quale è da notare che Macrobio
nel citato luogo, che merita d'esser veduto, volendo provare come molti epiteti
creduti fatti da Virgilio sono più antichi, recita quel dell'Eneide, 8.
293. Tu nubigenas, invicte, bimembres, e mostra che bimembris
è di Cornificio, ma di nubigena non dice niente, sicchè
pare che lo conceda per moderno, e veramente nel Forcellini non se ne trova esempio
se non d'autori posteriori a Virgilio, il quale appresso il medesimo Forcell.
in questa voce non è citato), penatiger d'Ovidio, solivagus
presso il Forcellini, i cui esempi son tolti da Cicerone, e presso il medesimo
Cic. de republ. 1. 25. p.70. ed. Rom. 1822.; ed altri tali moltissimi.
(2. Luglio 1823.)
[2879]Notate la radice monosillaba
di caput For-CEPS, secondo quello che ne ho congetturato altrove, e di
tutti i suoi derivati, ancora in dein-CEPS, della qual voce v.
Forcellini.
(2. Luglio. 1823.)
Che il v, presso gli antichi latini
non sia stata che una specie d'aspirazione, e non una consonante, e che tale in
verità sia la sua natura, di tener cioè dell'aspirazione, e di
svanir sovente dalle voci secondo l'indole delle varie pronunzie. Dionigi
d'Alicarnasso Archaeol. roman. l.1. c.35. parlando dell'origine del nome
Italia. , , J , J , , J , , , [2880] , J. . , J. J . Da bibo
noi diciamo bevo, e beo tolta la lettera v, beve e bee,
beendo, bere da bevere tolto il v, e contratto beere
in bere ec. V. il Corticelli, e il Buommattei Trattato 12. c.40. fine.
Così da debeo devo e deo, devi e dei ec. V.
i grammatici e l'uso volgare. Dal lat. pavo diciamo pavone e paone,
paonessa, paoncino ec. Diciamo altresì pavonazzo e paonazzo.
E in cento altre parole leviamo e inseriamo il v a nostro piacere, o
ch'esso veramente, secondo l'etimologia appartenga loro, o che no, e talvolta
l'inseriamo sempre e costantemente in voci a cui esso non appartiene, o lo
passiamo pur sempre e costantemente sotto silenzio in quelle voci dov'esso
dovrebb'essere ed era. E in questo particolare v'è frequentissima
discordanza tra le pronunzie e dialetti delle provincie, città,
individui d'Italia, tra gli antichi autori e i moderni, tra l'antico parlare e
il moderno, tra il moderno parlare e lo scrivere ec.
(2. Luglio. 1823.)
[2881]Traduzione del passo
soprascritto di Dionigi d'Alicarnasso fatta da Pietro Giordani nella Lettera
al Chiarissimo Abate Giambattista Canova sopra il Dionigi trovato dall'Abate
Mai. Milano, per Giovanni Silvestri, 1817. p.30-31. Ma Ellanico Lesbiese
dice che Ercole menando ad Argo i buoi di Gerione, e già trovandosi in
Italia, poichè un bue sbrancatosegli della greggia fuggendo corse tutta
la spiaggia, e notando per lo stretto del mare in Sicilia arrivò; esso
Ercole interrogando i paesani, dovunque nel correr dietro al bue passava, se
alcuno lo avesse veduto; e quelli poco intendendo la favella greca, e per
gl'indizi ch'Ercole ne dava chiamando essi quell'animale nella nativa lor lingua
Vitulo (come anch'oggi si chiama): accadde che dal vocabolo di quella bestia,
tutto il paese ch'ella corse fosse nominato Vitulia. (il greco dice ch'Ercole
medesimo così nominollo, e dice Vitalia). Che poi il nome col tempo si mutasse
nella presente forma, non è da maravigliare, quando molti de' vocaboli
greci cosiffatte mutazioni patirono.
(2. Luglio 1823.)
[2882]È notabile come lo
spagnuolo atar abbia conservato il proprio e primitivo significato di aptare
cioè legare, significato che benchè proprio e
primitivo, pur non è molto frequente negli autori latini, anzi un
esempio che faccia veramente al caso non mi pare che sia se non quello
d'Ammiano nel Forcell. v. aptatus. Ora Ammiano è pur di bassa
latinità. Mostra che il volgo abbia sempre conservato il primo uso di
questo verbo, più degli scrittori eleganti, che l'hanno piuttosto adoperato
metaforicamente. Del resto se mai si potesse dubitare che il verbo aptare venisse
da aptus, il cui proprio senso è legato ec. e che Festo
dice essere participio di apo, lo spagnuolo atar che vale legare
congiungere, finirebbe di mandare a terra qualunque dubbio. Il nostro attare,
adattare, adapter ec. ha per proprio il significato metaforico ordinario di
apto, adapto ec. V. nel Forcell. esempi di coaptare, coaptatio,
coaptatus, () in senso
di collegato ec. tutti di S. Agostino, il quale certo non pigliava
questo buono e primitivo uso di tali parole da' più antichi padri della
scrittura latina, nè dagli scrittori aurei che non le usano, ma dal
parlar del volgo, che tuttavia conservava quel significato, come ancora lo
conserva in Ispagna. E così dite di Ammiano. [2883]E chi sa che aptare
in questo senso, non sia l'origine di attaccare, attacher ec.? V. il
Glossar. Cang. principalmente in attachiare, cioè vincire
ec. Ma siccome questa voce si trova massimamente usata nelle scritture
latino-barbare d'inglesi e scozzesi, così non voglio contrastare che la
sua origine non possa probabilmente essere Teutonica ec. come si afferma nel
medesimo Glossar. v.2. Tasca.
(3. Luglio 1823.). V. p.2887.
Io provo presentemente un piacere, io vorrei
che la condizione di tutta la mia vita, di tutta l'eternità, fosse
uguale a quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò
che nessun uomo dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un
solo momento, neppure nell'atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in
quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (e se non
è perfetto, non è piacere), egli dovrebbe naturalmente desiderare
di provarlo sempre, perchè il fine dell'uomo è il piacere; e
quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui quel
momento, e di più desiderare di viver sempre, per sempre godere. Ma egli
è certissimo che [2884]nessun uomo ha concepito nè formato
mai questo desiderio nemmeno nel punto più felice della sua vita, e
nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo che non ha concepito
nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante neppur
l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per
provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in
quel punto niuno mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò
nè sospese punto il desiderio nè anche la speranza di un maggiore
ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un
vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal punto l'uomo spesse
volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto, ed esprime
questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma egli ha il
torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo ec.
(3. Luglio 1823.)
Quanta barbarie avesse introdotto anche
nell'ortografia italiana durante il quattrocento l'eccessivo modellarla sulla
latina, onde, se si fosse perseverato in [2885]quella forma, anche noi
scriveremmo diversissimamente da quel che pronunzieremmo, come si può credere
che allora avvenisse, se pur la pedanteria di quei tempi, o piuttosto i
pedanti, (perchè di tutti non è credibile) non pronunziavano come
scrivevano; vedi alcuni esempi nelle Lezioni sulle doti di una colta favella
dell'Ab. Colombo, Parma 1820. Lez. 3. p.69. 70. e il Comento di Pico Mirandolano
sopra la Canzone d'amore di Girolamo Benivieni con essa Canzone ec. Venez.
1522. dove si scrive sempre ad per a avanti consonante, anche
seguendo il d, come ad dir (st.1. della Canz. v.6. a carte 41.); advenire
ec. Durò questo pessimo uso anche nei principii del cinquecento. Nel
citato libro si scrive tabola per tavola, egloge per egloghe, ec.
ec. oltre philosopho, admirando, ad pena per appena ec.
(3. Luglio 1823.)
Alla p.2821. Altresì farebbe a questo
proposito il verbo nicto is detto (se però mai fu detto, e v. il
Forcellini) per nicto as, (o nictor aris), il quale è
verbo continuativo fatto dall'inusitato niveo, e dimostra sì
l'antica esistenza di questo niveo ch'è anche dimostrata dal suo
composto conniveo, sì il participio o supino di quello e di
questo, che ora ne manca, il quale anche [2886]sarebbe dimostrato dal
nome nictus us, secondo i ragionamenti da me fatti altrove, se
però questa è voce vera, e se, e quando significa nictatio,
e non nisus. Perocchè anche nisus pare ch'ella possa
significare, secondo il Forcellini, e in questo senso ella servirebbe
altresì a comprovare l'antico participio nictus di nitor eris,
usato già in vece di nixus e di nisus; dal quale nictus
di nitor nasce altresì il continuativo nictari, il quale
io credo totalmente diverso da nicto di niveo, e non tutt'uno,
come vuole il Forcellini ec. giacchè i due significati non hanno la
menoma analogia, e d'altra parte l'origine dell'uno e dell'altro verbo è
pianissima, perchè se v'è conniveo dovette esservi niveo,
e facendosi da conniveo connixi, deve farsi nel supino, connictum,
come da dixi, dictum, e quindi da niveo, nictum, e quindi nictare:
e quanto a nictor di nitor il Forc. medesimo non la mette in
dubbio. Anzi io credo che nicto as sia di niveo solamente, e nictor
aris solamente e propriamente di nitor, benchè in due luoghi
di Plinio trovisi nictari per connivere ec. il che potrebb'essere
fallo degli scrivani (e infatti in un di quei luoghi v'è chi legga nictare),
e fallo eziandio dello stesso Plinio che confondesse l'uno coll'altro verbo, essendo
ambedue antichi e poco al suo tempo usati: nel qual proposito vedi quello che dicono
il Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, e Giordani nella Lettera a
Monti, vol. 1. par.2. della Proposta, sopra la voce fastus ec. Del resto
da [2887]nixus di nitor (che forse non è differente
da nictus per niuna ragione grammaticale, ma per sola diversità
di pronunzia) si fa altresì il suo continuativo cioè nixor
aris[29].
(3. Luglio 1823.)
Alla p.2883. Se ad alcuno non paressero
sufficienti le testimonianze che si hanno dell'esistenza dell'antico verbo apo,
consideri che sì la forma estrinseca, sì la significazione vera e
propria, e il primitivo uso di aptus, sono al tutto di participio. E se aptus
è participio, dovrà esser participio di apo o d'altro tal
verbo, quale ch'essi vogliano, dal qual verbo dovrà esser venuto ptein e aptare.
Se non vogliono che aptus sia participio, sarà pur sempre incontrastabile
che apto sia stato fatto da aptus. E se questo è, dunque
ch'è lo stesso che apto, sarà pur venuto da aptus,
o se non altro da una radice simile a questa, la quale sarà stata nella
lingua madre della greca e della latina, e conservatasi nella latina,
cioè nell'aggettivo aptus, si sarà perduta nella greca.
Che aptus venga da , o da J come vuol
Servio, un aggettivo da un verbo, è fuor d'ogni verisimiglianza,
perchè è contrario [2888]ad ogni usata norma di
derivazione, sì per la forma materiale comparata dei detti verbi, e del
detto aggettivo, sì per la ragione grammaticale, analogia, ec. che in
tal derivazione, niuna si troverebbe. Che poi aptus venga da aptare,
(come Perticari credeva che arso venisse da arsare: vedi p.2688.)
sarà anche meno verisimile a quelli che avranno ben considerata la
nostra teoria della formazione de' verbi in tare da' participii in tus,
dichiarata ed esposta e provata con tanti esempi. A tutti i quali parrà
molto più probabile che aptare sia un continuativo fatto da un
participio in tus ec. che non può esser se non aptus, (il
quale, come ho detto, ha tutto quanto del participio) e questo da apo
ec. Che aptus sia sincope di aptatus, il qual participio esiste,
ed è ben diverso da aptus, è così credibile come
che jactus di jacio sia sincope di jactatus participio di jactare,
e altri tali spropositi, molti de' quali sono stati detti e creduti per non
aver posto mente alla formazione de' verbi ec. che noi illustriamo.
(4. Luglio. 1823.)
[2889]Da , Dor. etc. , o da , futuro , sedeo,
e così da o da sedes e simili. Da saltus.
(4. Luglio 1823.)
A quello che altrove ho detto circa la
formazione dei verbi in uo o in uor dai nomi verbali, o
qualunque, della quarta declinazione, o dai nomi della seconda desinenti in uus,
e circa i nomi in uosus fatti da simili radici, e agli avverbi ec. aggiungi
praesumptuosus, praesumptuose; presuntuoso, presontuoso, prosuntuoso, prosontuoso,
presuntuosamente, presuntuosità ec.; presumptuoso ec.
spagnuolo, da sumptus us. Mutuor aris da mutuus. A quel che in
questo proposito ho detto di monstruosus, mostruoso ec. aggiungi che gli
spagnuoli in verità dicono monstruo non monstro, onde ben
si deduce, non monstrosus, ma monstruosus. Quaestuosus da quaestus
us. Ructuo, ructuosus da ructus us. Eructuo v. Forcell. in Eructo
fin. Evacuo da vacuus, e così vacuo as.
(4. Luglio. 1823.). V. p.3263.
Dico altrove delle sillabe latine che non
sono dittonghi, e pur sono composte di più vocali. Tra queste è
notabile la seconda sillaba di eheu, la qual voce non è trisillaba,
ma dissillaba, benchè composta di tre vocali, e benchè eu
non si conti fra' dittonghi latini. [2890]Ed è dissillaba non per
licenza o figura poetica, ma per regola, e trisillaba non potrebb'essere o non
senza licenza. Così dite di hei, heu, euge, eugepae, euganeus ec.
ec. Eburneus-eburnus.
(4. Luglio. 1823.)
Non è fuor di ragione nè
arbitrario e gratuito quello ch'io dico circa la formazione dei continuativi
da' participii in atus, che mutano l'a in i ec.
Perocchè questa mutazione è ordinarissima e solenne nelle
derivazioni e composizioni della lingua latina. Onde da capio, frango,
tango, sapio, facio, iacio, taceo ec. ec. si fa in composizione cipio,
fringo ec. cioè p.e. accipio, effringo, attingo, insipiens, resipio,
desipio, afficio, adjicio, conticesco, reticeo ec. e così nelle
derivazioni ec. Anche la e si muta in i: p.e. da teneo, sedeo,
specio, rego, lego ec. contineo, insideo, aspicio, corrigo, colligo
ec.
(5. Luglio. 1823.). Puoi vedere la p.2843.
Ho detto altrove che presso Omero il nome serve a
una perifrasi, come , in modo
che per se stesso non vuol dir nulla, ma significa quello che occorre unitamente
al nome col quale è congiunto; p.e. , il
dì del ritorno, vuol dire il ritorno e non [2891]altro.
Più esempi di quest'uso d'Omero vedili nell'Index vocabulorum Homeri del
Sebero, in .
(5. Luglio 1823.). V. p.2995,2.
Alla p.2864. marg. È indubitato,
secondo me, che quest'uso nacque dall'altra pessima usanza, introdotta nel
latino fin dai primissimi tempi dell'impero, di dar del voi alle persone
singolari. Onde è probabile che allora, o poco dipoi, o certo nel volgar
latino quando che sia, s'introducesse questo costume di aggiungere l'aggettivo altri
al voi e al noi (giacchè il noi anche negli ottimi
tempi in latino e in greco, si usava in senso singolare) quando questi pronomi
avevano ad aver senso plurale, per distinguerli da quando avevano ad averlo
singolare. E così introdotto quest'uso nel volgar latino, passò
in tutte tre le lingue figlie. E con ragione; perchè in esse ancora si
manteneva e si mantiene quell'altra pessima usanza che, secondo me, lo
produsse. Stante la quale, l'uso di questo idiotismo è quasi necessario
per evitar mille equivoci e dubbi sì nello scrivere, sì nel
parlare, quando molte persone sono presenti, o [2892]quando nello
scrivere si suppongono ec.: (come si vede tutto dì per esperienza;
massime nello scrivere, dove per iscrupolo di esser troppo familiare, e
perchè non si sa più la lingua, ec. ormai generalmente si
tralascia questo idiotismo). Infatti noi nel parlar familiare non lo abbandoniamo
quasi mai, nè gli spagnuoli lo possono abbandonare. Ma anche gli spagnuoli
tacciono l'otros se parlano a persona singolare, o di se stessi
singolarmente, ne' quali casi dicono vos e nos. Lo tacciono
ancora quando il vos e il nos fa ufficio delle nostre particelle
o pronomi ci e vi, come nous e vous in francese.
Del resto in nessuna delle tre lingue si direbbe voi altri o noi
altri in senso singolare. È notabile che l'uso di nos in
senso singolare, fu più proprio delle lingue antiche che delle moderne,
nelle quali anzi, quanto al parlare o allo scrivere familiare, a cui solo
spetta il noi altri, esso uso è intieramente abolito. Vedendosi
dunque che pur tutte tre queste lingue usano familiarmente questo idiotismo di noi
altri senza abbisognarne punto per distinzione, confermasi ch'esso
idiotismo derivi dalla lingua latina, la quale ne avea bisogno per distinguere
il nos plurale dal nos singolare. (5. Luglio 1823.). Altri
è qui ridondante, come in greco
ec. del che spesso altrove.
[2893]A proposito del vario
significato e del figurato uso de' tempi dell'ottativo in latino, dello scambio
d'essi tempi tra loro, e con quelli d'altri modi, ec. vedi Orazio epist.
(5. Luglio 1823.)[30]
Circa quello che altrove ho detto de'
participii quaesitus e quaeritus e del verbo quaeritare
ec. I francesi hanno querir da quaerere, e quêter,
anticamente quester, da quaesitus di quaesere, onde noi chiesto,
e gli spagnuoli quisto. Chéri è il querido degli
spagnuoli da quaeritus di quaerere. E chérir è lo
stesso querer spagnuolo nel significato, che questo pure ha, di voler
bene. Il nostro cherere è il quaerere latino, in
significato però di volere, come lo spagnuolo querer, e
anche di domandare, come il nostro chiedere ch'è il latino
quaerere (v. p.2995.), siccome il suo participio chiesto è
il latino quaesitus, per sincope quaestus. Malquerer,
malquerido, malquisto, cioè volere e voluto male. Chesta,
inchesta, richesta sust., per chiesta ec. richedere richesto;
inchierere richierere cioè inquirere requirere; ec. acchiedere
quasi acquaerere per acquirere, con altro senso. Acquérir
e conquérir francesi, adquirir spagnuolo sono i latini acquirere
e conquirere. Acquêter, anticamente acquester, e l'antico conquêter
o conquester francesi, lo spagnuolo conquistar, e l'italiano acquistare
[2894]e conquistare sono continuativi fatti da acquisitus
e conquisitus, detratta la seconda i. (V. il Glossario se ha nulla
in tutte queste e simili voci).
(5. Luglio 1823.)
Questa detrazione fatta, come si vede, in
tante voci o derivate o composte da quaesitus, o che non sono altra voce
se non questa medesima, conferma la mia opinione che da situs particip.
di sum si facesse stare, detratta la i come appunto da conquisitus
conquistare, e così da quaesitus quisto e chiesto ec.
Così da positus, postus repostus ec. ec. E della soppressione
della i in moltissimi participii latini come docitus-doctus, legitus-legtus-lectus
ec. soppressione divenuta, fino ab antico, comune, anzi universale, vedi
ciò che dico altrove. La qual detrazione non è solamente propria
delle lingue moderne (dico circa questo vocabolo quaesitus appunto),
giacchè la stessa lingua latina ne fa uso nella voce quaestus us,
la quale, come altrove ho dato per regola circa tali verbali, è formata
appunto da quaesitus, e dovrebbe regolarmente dire quaesitus us,
la qual voce ancora si trova effettivamente. Siccome vi sono le voci quaesitio,
quaesitor, quaesitura, di cui sono contrazione quaestio, quaestor,
quaestura, voci fatte da quelle per detrazione della i, come per tal
detrazione sono fatte quaestorius, quaestuosus ec. benchè non si
trovi quaesitorius, [2895]quaesituosus ec. E vedi a questo
proposito le p.2932. e 2991-2. 3032. segg.
Del resto il nostro antico suto
è lo stesso che lo spagnuolo sido, e che il latino situs
da me supposto: è lo stesso, dico, considerato il solito scambio e la
solita affinità fra la lettera u e l'i, del che ho detto
più volte, e fra l'altre p.2824-5. principio (e se n'ha appunto un
esempio nella voce quaesumus di quaesere, detta per quaesimus.
V. Forcellini.). Stante il quale scambio e affinità si può
credere o che gli antichi latini dicessero così sutus come situs
(maxumus e maximus, lubens e libens), o prima l'una di queste, e
poi col tempo l'altra, o che l'italiano antico mutasse la pronunzia latina
facendo suto da situs, o viceversa lo spagnuolo facendo sido
da sutus, giacchè questo scambio tra u ed i ebbe
luogo frequentemente anche nei principii delle moderne lingue (v. Perticari
Apolog. di Dante c.16. verso il fine p.156.) siccome lo ha tutto dì.
(5. Luglio 1823.). V. p.3027.
Quanto sia facile l'imparare a parlare,
quanto poco tempo debba esser corso innanzi che il genere umano [2896]arrivasse
primieramente ad accorgersi di avere organi capaci di formare e articolare vari
suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali suoni, e finalmente a crear
col loro diverso accozzamento una serie di voci di convenuta significazione,
che fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i proprii sensi, e
più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar questa serie
al punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i bisogni
dell'espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo pur tutto giorno
con uomini i quali parlano, ed usano una lingua già perfetta, non arriva
mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima delle sopraddette cose,
cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni articolati:
giacchè seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è
meno articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io torno in
campo colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura aveva
espressamente destinato l'uomo a parlare, se, come dice Dante, opera naturale
è ch'uom favella, essa natura lasciasse tanto da fare all'uomo per [2897]arrivare
ad eseguire quest'opera naturale, e debita alla sua essenza, e propria
di essa, quest'opera senza la quale egli non avrebbe mai corrisposto alla sua natura
particolare, nè all'intenzione della natura in generale, e condannasse
espressamente tanta moltitudine e tante generazioni d'uomini, quante dovettero
passare prima che fosse trovata una lingua, altre a non sapere nè potere
in alcun modo fare, altre a non poter fare se non se imperfettissimamente,
quello che l'uomo doveva pur sapere e potere compiutamente fare per sua propria
natura? E poichè l'uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai del suo
stato primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più
necessario istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama
suo perfezionamento; e se d'altronde tanto è per ciascuna cosa il ben
essere, quanto l'esser perfetta, nè si dà per veruna specie di
enti felicità veruna senza la perfezione conveniente ad essa specie;
è egli possibile che se questa che si chiama perfezione dell'uomo, fosse
veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa natura nel formar l'uomo [2898]l'avesse
posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e
destinatagli, ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse
avere nemmeno una prima idea dell'istrumento, col quale dopo lunghissimi
travagli, e lunghissimo corso di generazioni e di secoli, la sua specie sarebbe
finalmente arrivata a conseguire alcuna parte di questa perfezione?
Certo se questo è vero, perchè
diciamo noi che l'uomo è per natura il più perfetto degli esseri
terrestri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale
specie in che ella si considera. Ma paragonando pur l'uomo colle altre specie
di questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non
si dovrà sostenere che l'uomo è per natura la più
imperfetta di tutte le cose? Perocchè tutte le altre cose hanno da
natura la perfezione che loro si conviene, e però sono tutte naturalmente
così perfette, come debbono essere, che è quanto dire perfettissime.
Solo l'uomo, secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura
così lontano dallo stato che gli conviene, che più, quasi, non
potrebb'essere, e quindi laddove tutte [2899]l'altre cose sono in natura
perfettissime, l'uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie
umana lungi da esser la prima in natura, è anzi l'ultima di tutte le
specie conosciute.
Questa conseguenza deriva dal supposto principio:
ma come il principio è falso, così essa non è vera; e
questa proposizione considerata ancora in se sola, si riconosce agevolmente per
falsissima. Poichè relativamente all'ordine delle cose terrestri, l'uomo
come l'essere più di tutti conformabile, è il più perfetto
di tutti.
Se però nel detto ordine delle cose
terrestri, considerando la perfezione di ciascheduna specie in modo
comparativo, cioè relativamente l'una all'altra, non vogliamo immaginare
una doppia scala, ovvero una scala parte ascendente e parte discendente. E
nella estremità inferiore della prima, porre gli esseri affatto o
più di tutti gli altri inorganizzati. Indi salendo fino alla
sommità, porre gli esseri più organizzati, fino a quelli che
tengono il mezzo della organizzazione, della sensibilità, della conformabilità.
E di questi farne il sommo [2900]grado della scala, cioè della
perfezione comparativamente considerata, come quelli che forse sono per natura
i più disposti a conseguire la propria particolare e relativa felicità,
e conservarla. Da questi in poi sempre discendendo giù giù per
gli esseri più organizzati sensibili e conformabili, porre nell'ultimo e
più basso grado dell'altra parte della scala l'uomo, come il più
organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri.
Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o
ripiegando così la scala, troveremmo che l'uomo è veramente nella
estremità non della perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala
sola o semplice e retta), ma della imperfezione; e in una estremità più
bassa ancora di quella che è dall'altra parte della scala.
Perocchè dalla comparativa imperfezione degli esseri posti in quel
grado, non ne segue ai medesimi alcuna infelicità laddove all'uomo
grandissima.
E veramente io così penso. L'uomo non
è per natura infelice. La natura non ha posto [2901]in lui
nessuna qualità che lo renda tale per se medesima, nessuna che tal qual
è naturalmente, si opponga da niuna parte al suo ben essere; e
però la natura direttamente non ha prodotto l'uomo nè infelice,
nè tale ch'ei debba necessariamente divenirlo. Perocchè l'uomo
potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro, come gli altri esseri si
conservano nel loro, e conservandocisi, sarebbe così felice, o
così non infelice, come gli altri esseri sono felici o non sono infelici
durando nel naturale stato. Sicchè la natura in ordine all'uomo non ha
violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi, che
ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto abbisogna
alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla
infelicità. Ma l'eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità
e organizzazione dell'uomo, che lo rende il più mutabile e quindi il
più corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo rende eziandio per
conseguenza il più infelicitabile, benchè non lo renda per se
stessa e naturalmente infelice, cioè lo rende il [2902]più
disposto a potersi, e più d'ogni altro essere, allontanare dal suo stato
naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua
felicità; perch'essa stessa conformabilità umana è
più d'ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo
stato, uso, operazioni, applicazioni e simili. Talchè difficilmente
l'uomo si conserva in effetto nel suo naturale e primitivo stato, e però
difficilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali considerazioni,
e stante appunto la somma conformabilità e organizzazione
dell'uomo, metafisicamente considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione,
diremo che l'uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri,
anche per natura, in quanto però solamente ella è naturale
in lui una disposizione maggiore che in qualunqu'altro essere a perdere
il suo stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione, neppure in
ordine all'uomo, si può trovare propriamente nella natura; l'uomo non
è imperfetto nè in natura, nè per natura; anzi se volete,
in natura e per natura egli è il più perfetto degli esseri; ma [2903]in
natura e per natura egli è più di tutti disposto a divenire
imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma sua perfezione
naturale; come quelle macchine o quei lavorii compitissimi e perfettissimi, che
per esser tali, sono minutamente lavorati, e quindi delicatissimi, e per la
somma delicatezza più facilmente degli altri si guastano, e perdono
l'essere e l'uso loro.
Ma ad essi si trovano forse artefici che
possono ripararli, a noi guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci
riponga nel primo stato, (nè da noi medesimi siamo atti a farlo).
Poichè nè la natura ci ripiglia in mano per riformarci, come
l'artefice il suo lavoro sconciato, nè altra potenza v'ha che ci possa
restaurare come un nuovo artefice il lavoro altrui.
(6. Luglio. 1823.)
Alla p.2815. marg. Auspico e suspico
v. p.3686. da specio, sono come aedifico, vivifico, sacrifico,
amplifico, gratifico, velifico, significo, vocifico (s'è vero),
magnifico, mellifico, e tali altri non pochi, da facio[31], i
quali hanno la forma e la coniugazione mutata dalla loro origine o per esser
fatti da nomi, come p.e. aedificium, sacrificium, magnificus, amplificus,
ch'è di Frontone, vivificus, ec. o per accidente e virtù
della composizione, quando [2904]anche sieno fatti direttamente dal
verbo originale facio. E notate che i composti di questo verbo fatti con
preposizione o particella, non hanno questa forma, ma solo quelli fatti con
nomi ec. Lucrificare-Lucrifacere. Benefacere-Beneficare italiano. Ludifacere-Ludificare.
A ogni modo siccome questi tali verbi, se ben li guardi, hanno per lo
più un significato continuativo, giacchè altro e meno è
p.e. mel facere, altro e piùmellificare, si potrebbe forse
credere che la loro inflessione in are mutata da quella della terza
coniugazione non fosse a caso nè senza ragione, e che essi
appartenessero alla categoria di verbi della quale al presente discorriamo,
cioè di continuativi appartenenti alla prima coniugazione ma non formati
da' participii, e diversi da quelli che ne sono formati, come nel caso nostro,
da facio facto, labefacto ec. da specio specto, suspecto (a cui
appartiene suspectio ch'equivale a suspicio e da cui il nostro sospettare
e lo spagn. sospechar (come pecho da pectus) che vagliono suspicari.
Soupçonner è quasi suspicionare, da soupçon, suspicio onis)
ec. Suspico potrebbe anche esser fatto da suspicio is, il qual
verbo trovasi appo Sallustio in senso di sospettare, ed al quale appartiene
il participio suspectus che vale per lo piùsospetto
aggett. E forse in questo senso si disse anche suspicior eris, onde poi suspicor,
giacchè trovasi suspectus per sospettoso, (così anche
in ital. sospetto) e Apuleio l'adopra [2905]espressamente
coll'accusativo, come participio d'un verbo deponente, in vece di suspicatus.
Ma vedi la pag.2841-2.
(7. Luglio. 1823.)
Alla p.2809. Nelle nostre Opere serie
e buffe l'effetto del coro non è cattivo. Ma esso nelle opere serie
è ben lontano dal far quegli uffici, dal sostener quel personaggio, e
quindi dal muovere quelle illusioni e far quegli effetti che faceva nelle
tragedie antiche: ond'è ch'esso riesce forse meglio nelle opere buffe,
quanto all'effetto morale, giacchè muove pure all'allegria, e fa come
l'uffizio, così l'effetto che produceva nelle antiche commedie,
nè il muovere all'allegria, ch'è pure una passione, è
piccolo effetto morale. Laddove nelle opere serie esso non interessa
quasi che gli occhi e gli orecchi, e niuna passione ancorchè menoma
nè desta nè pur tocca. Ma questo è pur troppo il general
difetto di tutta l'Opera, e massime della seria, e nasce dal far
totalmente servir le parole allo spettacolo e alla musica, e dalla confessata
nullità d'esse parole, dalla qual necessariamente deriva la
nullità de' personaggi, e [2906]così del coro, e quindi la
mancanza d'effetto morale, ossia di passione; se non altro la molta scarsezza,
rarità, languidezza, e poca durevolezza dell'uno e dell'altra.
Del resto i pochi moderni che hanno
introdotto il coro ne' loro drammi regolari, come Racine nell'Ester, non
avendogli dato le condizioni ch'esso avea negli antichi, niuno o quasi niuno
effetto hanno prodotto. Ed anche la natura d'essi drammi sì moralmente
parlando, e sì anche materialmente (poichè la scena si finge per
lo più in luogo coperto e chiuso, con altre tali circostanze che
restringono, e impiccoliscono, e circoscrivono, e depoetizzano le idee), non
era adattata nè al coro degli antichi nè a' suoi effetti. Parlo
anche delle commedie, le quali presso gli antichi si supponevano per lo
più, o la più parte di ciascuna, in piazza, o ne' porti, come il Rudens
di Plauto, o in somma all'aperto ec. V. p.2999.
(7. Luglio. 1823.)
In tutte le lingue tanto gran parte dello
stile appartiene ad essa lingua, che in veruno scrittore l'uno senza l'altra
non si può considerare. La magnificenza, la forza, la nobiltà,
l'eleganza, la semplicità, la naturalezza, la grazia, la varietà,
tutte o quasi tutte le qualità dello stile, sono così legate alle
corrispondenti qualità della [2907]lingua, che nel considerarle
in qualsivoglia scrittura è ben difficile il conoscere e distinguere e
determinare quanta e qual parte di esse (e così delle qualità contrarie)
sia propria del solo stile, e quanta e quale della sola lingua; o vogliamo
piuttosto dire, quanta e qual parte spetti e derivi dai soli sentimenti, e
quanta e quale dalle sole parole; giacchè rigorosamente parlando, l'idea
dello stile abbraccia così quello che spetta ai sentimenti come
ciò che appartiene ai vocaboli. Ma tanta è la forza e
l'autorità delle voci nello stile, che mutate quelle, o le loro forme,
il loro ordine ec. tutte o ciascuna delle predette qualità si mutano, o
si perdono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto, cangia natura in modo
che più non è quello nè si riconosce. Veggasi la p.3397-9.
Tutto ciò accade in tutte le lingue,
fuorchè nella francese. Chè veramente nella lingua francese lo
stile è formato quasi tutto dai sentimenti, e dalle figure che appartengono
alle sentenze. E la diversità degli stili, e quella delle qualità
di uno stile, non si può considerare in essa lingua se non quanto ai
sentimenti, e non appartiene, non dipende, non [2908]nasce se non da
questi. Perocchè, se ben si osserva, quanto alle parole, e a tutto
ciò che loro appartiene, tutti gli stili de' francesi, sì di
diversi autori e scritture, sì di una stessa scrittura o scrittore in
diversissime materie, sono poco men che conformi.
E non è maraviglia; perocchè
dov'è pochissimo luogo alla scelta delle parole e dell'ordine e
composizioni loro, quivi pochissima potrà essere la differenza o tra gli
stili di vari autori o di varie opere, o tra le qualità di un medesimo
stile in diverse materie e occasioni, per ciò che spetta alle parole. Le
quali non potendosi scegliere, non possono essere qua eleganti, qua nobili, qua
efficaci, qua graziose, ma sempre tali, o non mai. Nè potendosi
scegliere gli ordini e collocamenti delle medesime, non può nascere
dalla composizion de' vocaboli ora una qualità di stile ed ora un'altra,
ma sempre una, perchè sempre una e niente variabile è ella
medesima. Dico dalla composizion de' vocaboli considerata in se, non in quanto
ai sentimenti ch'esprimono, perchè in quanto a questa parte, la lingua francese
è capace di ricever varietà di stile dalla composizione delle
parole, [2909]ma ben guardando, si sente che questa varietà non
deriva punto dalla composizione stessa in se, ma dalle sentenze e figure loro.
Onde si può dire che la lingua
francese non avendo appresso a poco che uno stile, lo scrittor francese, quanto
alla lingua, non ha mai stile proprio, e che per quanto appartiene alle parole,
lo stile di qualsivoglia scrittor francese non è suo, ma della lingua. E
così lo stile di qualsivoglia genere di scrittura non è d'esso genere
ma della lingua universale; e lo stile della poesia francese non è della
poesia ma della lingua, e lo stile della prosa è quel della lingua,
è quello della conversazione, non è neppur proprio della prosa
più che della poesia, anzi vedi in proposito la p.3429.
Il che si può parimente dire della
lingua ebraica, nella quale altresì, quanto alle parole, non era luogo
alla scelta, benchè, quanto alle composizioni delle medesime, forse
v'avesse luogo un poco più che nella francese, essendo ella tutta indigesta
e informe, e quindi tutta poetica.
Effettivamente la differenza degli stili e
delle qualità di un medesimo stile, quanto alla lingua, è
così minuta e così scarsa in francese, che un forestiere il quale
benissimo la distinguerà negli scrittori greci e latini, che sono lingue
morte, difficilmente, anzi appena, secondo me, la distinguerà e
sentirà mai negli scrittori francesi. Nè potrà mai ben
dire, questo scrittore o questo passo è elegante, [2910]questo
dignitoso e magnifico, questo energico, questo grazioso quanto alle parole, e
questo no. Onde nasce che anche generalmente parlando, la differenza dello
stile, cioè del modo di esprimere i concetti, chè questo è
ciò che si chiama stile, è poco sensibile al forestiere nella lingua
francese; certo assai meno sensibile che nelle altre. Difficilissimo è
ancora al forestiero il sentir la differenza degli stili (inquanto
propriamente stili) francesi di diversi tempi (dico dal secolo di Luigi in
poi), o comparando uno scrittor d'un secolo a uno di un altro, o generalmente
lo stile di un secolo a quel di un altro. Ho detto dal secolo di Luigi, e intendo
di quelli che in quel secolo scrissero bene, e che s'hanno ancora per buoni, e
inquanto s'hanno per tali (come Corneille), nella lingua ec. Tanto più
che nella espressione de' concetti, anche in quella parte dello stile che
spetta alle sentenze, il modo degli scrittori francesi è più
vario bensì che nella parte delle parole, ma infinitamente meno vario
che negli scrittori delle altre lingue, sì per rispetto dell'uno
scrittore e dell'un secolo all'altro, o dell'una opera e dell'un genere di
scrittura all'altra opera e all'altro genere, sì per rispetto alle varie
parti di una stessa opera o genere, e alle varie gradazioni e qualità di
un medesimo stile. E basti dire in prova, che la lingua francese, non solamente
non ha linguaggio, ma neppur quasi stile poetico veramente.
In simil modo nella lingua ebraica, non si
sente se non poca differenza di stili, o di qualità di un [2911]medesimo
stile. Il che si attribuisce alla lontananza de' tempi e de' nostri gusti e
costumi, quasi l'uniformità dello stile ebraico non fosse vera, se non
relativamente. Ma io la credo assolutamente vera, e l'attribuisco alle dette
ragioni, nè credo che lo scrittore ebraico potesse avere stile proprio,
nè veruna materia stile proprio, ma tutti e due un solo, quanto alla lingua,
per la povertà di questa[32] ed
eziandio quanto al modo e alla parte dello stile che spetta alle sentenze, per
la niuna arte degli scrittori, e perchè la lingua li serrava e circoscriveva
anche in questa parte. Come appunto anche in Francia fa la medesima lingua, e
l'impero assoluto dell'usanza il qual si esercita colà sullo stile come
su d'ogni altra cosa. Del resto come la lingua francese non ha che linguaggio e
stile prosaico e manca del poetico, così l'ebraico non ha che il poetico
e manca del prosaico. E ciò perchè quella è lingua
definitamente ed essenzialmente moderna, questa fu essenzialmente e moralmente
antica e quasi primitiva.
[2912]È notabile come da
contrarie cause nascano uguali effetti. La lingua ebraica non ammette
varietà nello stile per esser troppo antica, la lingua francese nemmeno,
per esser troppo moderna; quella per eccesso d'imperfezione e per povertà
che nasce dall'antichità, questa per eccesso di perfezione e per
povertà che nasce dall'essere squisitamente moderna, sì di tempo
come d'indole. Nell'una e nell'altra le parole poco vagliono, le sentenze
tutto, lo stile si riduce ai nudi concetti (cosa che non ha luogo in verun'altra
lingua letterata). Ma ciò nella ebraica perchè le parole non
hanno ancor preso vigore, nella francese perchè l'hanno perduto; in
quella perchè i concetti non hanno ancora onde farsi un corpo, in questa
perchè l'hanno deposto, in quella perchè la materia è
ancora scarsa a vestir lo spirito, in questa perchè lo spirito ha
consumato la materia, è ricomparso nudo del corpo di cui s'era vestito,
ha prevaluto alla materia, e tutta l'esistenza è spiritualizzata,
nè si vede o si tocca oramai, o certo non si vuole nè vedere
nè toccare quasi altro che spirito. [2913]Ambedue le lingue
dànno nel metafisico, e, si può dire, nell'incorporeo per due cagioni
e principii direttamente opposti, come il fanciullo per eccessiva
semplicità è talvolta così sottile nelle sue quistioni,
come il filosofo per grande dottrina e sapienza e sagacità.
(7. Luglio. 1823.). V. la p. seguente.
Alla p.2853. marg. Veramente la pretesa
forza d'imitazione che ha la lingua tedesca, non potrebbe perfettamente realizzarsi
che sopra una lingua come l'ebraica. Perocchè una lingua informe come
questa, può sola esser bene imitata, anzi contraffatta, copiata e trasportata
tutta intera in una lingua informe come è necessario che sia la lingua
tedesca se ha la detta forza e facoltà che se le attribuisce. E
viceversa solo una lingua informe, come questa, sarebbe atta a contraffare
senza far violenza a se stessa e perfettamente, una lingua informe come l'ebraica,
o come una lingua selvaggia; il che non è possibile alle lingue formate,
nè fu possibile in greco e in latino contraffar nelle traduzioni
letterali la lingua ebraica, senza violentare e snaturare affatto [2914]il
greco e il latino, come fu fatto, e come accade altresì nelle lingue
moderne che hanno (se alcuna ne ha) traduzioni letterali della scrittura, fatte
o sull'ebraico, o sul letterale greco o latino o d'altra lingua moderna.
(7. Luglio. 1823.)
Alla pagina antecedente. Questa
spiritualizzazione della società essendo oggidì universale,
è altresì universale l'effetto che ho detto esserne
seguìto nella lingua francese, cioè che lo stile degli scrittori
moderni di qualsivoglia lingua non differisca oramai se non se ne' sentimenti,
e consista tutto nelle cose. E in verità quanto allo stile propriamente
detto, v'è minor divario oggidì fra due scrittori di due lingue
disparatissime e in diversissime materie, che non v'era anticamente fra due
scrittori contemporanei, compatriotti, d'una stessa lingua e materia. (Pongasi
per esempio Platone e Senofonte). Lascio poi quanta poca varietà di
stile si possa trovare in uno stesso scrittore. Gli stili de' moderni non si
diversificano se non per le sentenze. Anzi tutti gli scrittori e tutte le opere
escono, quanto allo stile, da una stessa scuola, vestono d'uno stesso panno,
anzi hanno una sola fisonomia, una sola attitudine, gli stessi gesti e movimenti,
le stesse fattezze e circostanze esteriori: solo si distinguono l'une
dall'altre perchè dicono diverse cose, benchè collo stesso tuono
e modo di recitazione. Sicchè, proporzionatamente, accade oggi nel mondo
civile quel medesimo che ho detto accadere in Francia; quasi niuno scrittore ha
stile [2915]proprio: non v'è che uno stile per tutti, e questo
consiste assai più nelle sentenze che nelle parole: poco oramai si
guarda allo stile nelle opere che escono in luce, o se vi si guarda, ciò
è più per vedere s'egli segue l'uso e la forma di stile
universalmente accettata, o no: se la segue, non si parla del suo stile; se non
la segue, allora solo il suo stile dà nell'occhio, e per lo più
è ripreso, e ordinariamente con ragione. La differenza ch'è in
questo particolar dello stile fra la lingua francese e l'altre moderne, si
è che se in quella lo scrittore non ha stile proprio, egli è perchè
la lingua n'ha un solo; se il suo stile non è vario, egli è che
la lingua non ha varietà di stile. Ma nelle altre lingue il difetto
viene dallo scrittore: egli è che manca di varietà di stile, e
non la lingua; e s'ei non ha stile proprio, egli può averlo; almeno la
lingua sua non glielo impedisce; ma ei non ha stile proprio, perchè un
solo stile ha, non la sua lingua, che molti ne ammette, ma, per così
dire, la lingua europea, ossia l'uso e lo spirito universale della letteratura
e della civiltà [2916]presente, e del nostro secolo. V. p.3471.
Del resto egli è certissimo che
quantunque le moderne lingue, almeno parecchie di esse, sieno capacissime
d'ogni sorta di varietà, qualità, e perfezion di stile, nondimeno
niuna delle medesime è, che possa mostrare neppur ne' suoi antichi e nel
suo secolo aureo nè tanta varietà, nè di gran lunga
tanta perfezione di stile propriamente detto, quanta ne possono mostrare nei
loro le lingue antiche. I moderni poi, quanto vincono gli antichi nel fatto
delle sentenze, tanto cedono loro tutti in tutte le parti dello stile
propriamente detto, e nel culto delle parole preso in tutta l'estension del
termine. E non solo non mettono nè sanno mettere in pratica, ma
nè pur conoscono perfettamente tutte le squisitezze degli artifizi e degli
accorgimenti che gli antichi insegnavano comunemente e adoperavano intorno a esso
culto, e che si possono vedere negli scritti rettorici di Cicerone e di
Quintiliano. I moderni non ne conoscono generalmente neppure i nomi, e neppur
ne hanno tanta idea che basti a poter valutare in confuso a che segno [2917]arrivasse
questa squisitezza. Nei moderni le sentenze, e la spiritualità del
secolo, nocciono alle parole e allo stile, all'arte del quale niuno di loro si
applica da senno, o ci pone tanto studio e tempo quanto bisognerebbe. Negli
antichi classici di ciascuna lingua moderna, ne' quali non aveano luogo le
dette circostanze, e ciascuno de' quali facea dell'arte dello stile il suo
principale studio, e attendeva più alle parole che alle cose, ogni volta
che si metteva da vero a comporre; pure in nessuno o in quasi niuno di loro si
trovò arte o capacità bastante, nè quanto si richiedeva a
conseguire quell'alto grado di perfezione, neppur relativamente e limitatamente
alle forze, indole, qualità, e capacità delle rispettive lingue.
(8. Luglio 1823.)
L'argomento con cui altrove dall'aggettivo potus,
che io chiamo vero participio, e da' sostantivi potus us (fatto da esso
participio, secondo la regola da me altrove assegnata) e potio onis
paragonati con potatio, ho dimostrato l'esistenza di un antico verbo poo;
riceve forza dai composti appotus ed epotus, veri participii, [2918]come
di forma così di significazione (che in quello è attiva[33], in
questo passiva); da' quali forse si potrebbe anche raccorre l'antica esistenza
de' verbi composti appoo ed epoo diverso da epoto. Avvi
ancora compotatio, compotor sost. e compotrix.
(8. Luglio 1823.)
Da quello che ho detto p.2789-90. si rileva
che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio raptus
e che questo dovette essere usato dagli antichi latini e volgarmente, in senso
di veloce, come ratto fra noi. Perocchè dire che questo sia nato
dall'avverbio italiano ratto, e quest'avverbio da raptim, onde ratto
per veloce venga da raptim è derivazione o formazione
priva d'ogni esempio. E per lo contrario è certissimo che ratto
avverbio viene da ratto aggettivo, anzi è lo stesso aggettivo neutralmente
e avverbialmente posto, il che è proprietà ed uso della nostra
lingua di fare, come alto, forte, (anche i francesi fort avverbio
e aggettivo) presto, tosto, piano e mill'altri, per altamente ec.
Anzi è in libertà dello scrittore o parlatore italiano di far
così de' nuovi avverbi dagli aggettivi, [2919]non già
viceversa. V. il Forcell. in Rapio col.1. fine, Rapto fine, Raptus
l'esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente hanno p.e. demasiado
avv. e aggett. ec.
(8. Luglio 1823.)
Noi usiamo volgarmente il verbo volere
applicandolo a cose inanimate, o ad esseri immaginari, e talvolta impersonalmente,
in modo ch'egli o sta per potere, o ridonda e non fa che servire a una
perifrasi, per idiotismo, e per proprietà di lingua. Per esempio, La
piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè, Non si può far che la
piaga se gli rammargini, ossia La piaga non se gli può ancora rammarginare.
Qui volere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare,
se la stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se
il negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar piede,
l'erba non ci vuol nascere. Cioè, Se piglierà piede, Non ci
nasce. Qui volere ridonda. Da più mesi non è voluto
piovere. Cioè, non è piovuto. Qui volere ridonda ed
è impersonale. Anche in francese: cette
machine ne veut pas aller, ce bois ne veut pas brûler. Alberti.
Così, mi pare, anche in ispagnuolo.
Ora questo grazioso idiotismo proprio della
nostra lingua, fu proprio altresì della più pura lingua greca
(anzi secondo i grammatici egli è un atticismo) e fu adoperato [2920]dagli
scrittori più eleganti, e massime da Platone, primo modello dell'atticismo.
Nel Convito, Opp. ed Astii, Lips. 1819-... t.3. 1821. p.460. v.16-17. D. J J , se ti
vorrà passare il singhiozzo, in vece di . Qui J ridonda.
V. lo Scapula in J, e . Corinto . J (nel
principio del Fedro), J . Ma non
è vero che stia sempre, in questo tale idiotismo per potere, come
dice anche lo Scapula ne' due citati luoghi. Per potere sta assolutamente
nel Sofista, t.2. 1820. p.314. v.18-19. D-E. , J, J che altre
cose possano mescolarsi insieme, altre no. Ma nel passo del Convivio, e in
quello di Omero presso lo Scapula, J ridonda,
come sovente in italiano volere, nel detto nostro idiotismo, e malissimo
si spiegherebbe per potere. In quello del Fedro altresì in
sostanza ridonda, perchè il luogo vale . Se
diremo , [2921]diremo
forse altrettanto, ma non lo stesso, e benchè diremo il vero, non
perciò diremo quel medesimo appunto che dice Socrate. In questo e in
altri molti casi simili, tanto nel greco quanto nell'italiano, spiegando il
verbo volere per potere, l'espressione riesce vera e giusta, ma
non pertanto l'intenzione della frase non era di dir potere. Perchè
spesso nell'esprimerci noi abbiamo due intenzioni l'una finale (e questa nel
caso nostro sarà ugualmente bene spiegata rendendo volere per potere,
che dicendo ch'egli ridonda), l'altra immediata (e questa nel caso nostro non
si otterrebbe con dir potere, nè si spiegherebbe con questa
voce); da ambedue le quali intenzioni è diversa quella intenzione o
significato che ha la locuzione letteralmente presa. (8. Luglio. 1823.). Del
resto noi non usiamo in questo tal senso e modo il verbo volere, se non
colle particelle negative o condizionali, o con interrogazione, come in quel
verso di Anacreonte (od. 4 ) J ; che
vorrà essere questo sogno? Ma in locuzione, forma e significazione
affermativa non s'usa [2922]mai il verbo volere nè dagl'italiani
nè da' francesi ne' sovresposti sensi, se non se in quella frase voler
dire o significare ec. che è greca anch'essa, e che
può riferirsi all'idiotismo di cui ragioniamo. I greci ancora usano per
lo più questo idiotismo fuori di affermazione, benchè non sempre.
Affermativamente, e pur di cose inanimate o ideali e intellettuali, e come si
dice, di ragione, usiamo noi il verbo volere, in un senso però
differente dai sopraddetti, ed equivalente al greco , ma con
significanza di qualche dubitazione: come Questa guerra vuole andare in lungo,
cioè, Pare che questa guerra sia per durar molto: Vuol piovere ec. In
questo senso il verbo volere equivale al significato che sovente ha in
italiano dovere, il quale talvolta significa assolutamente (come avere
a, aver da cogl'infiniti), talvolta con qualche dubitazione, come Questa
guerra deve andare in lungo, cioè, pare che ec. Dicesi ancora Questa
guerra mostra di voler esser lunga, pare che voglia esser ec. E in simili modi:
e così dovere. In altro modo ancora diciamo affermativamente il
verbo volere per proprietà di lingua, eziandio di cose inanimate,
con significazione di esser presso a, mancar poco che non; e in questo
senso egli non s'usa se non nel passato o piucchè passato, benchè
in un esempio della Crusca, Volere §.3., trovisi nel gerundio.
(9. Luglio. 1823.). V. p.3000.
[2923]Gl'italiani non hanno
costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non
sono nazioni.
(9. Luglio. 1823.)
Bisogna (far grande stima) avere una grande
idea di se stesso, per esser capace di sacrificar se stesso. Chi non ha molta e
costante stima di se medesimo, non è buono all'amor vero, nè
capace del dévouement e del totale sacrifizio ch'egli esige ed ispira.
(9. Luglio. 1823.)
Il verbo avere in senso di essere, usato
impersonalmente dagl'italiani da' francesi dagli spagnuoli, talora eziandio
personalmente dagl'italiani (v. il Corticelli), non è altro che il
latino se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome.
Il volgo latino dovette dire p.e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè
non v'è; poi lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non
v'ha nulla. Cicerone: Attica belle se habet col pronome, e altrove: Terentia
minus belle habet: ecco lasciato figuratamente il pronome nella stessa
frase. (Forcell. in Belle). Bene habeo, bene habemus, bene habent
tibi principia sono [2924]tutte locuzioni ellittiche per l'omissione
del pronome se, nos, me. Bene habet, optime habet, sic habet; ecco oltre
l'omission del pronome se, anche quella del nome res. Onde avviene
che in queste locuzioni, che intere sarebbono bene se res habet, sic se res
habet, il verbo habere per le dette ellissi venga a trovarsi
impersonale. Ed ecco nel latino il verbo habere in significato di essere,
neutro assoluto, cioè senza pronome, e impersonale. Quis hic habet?
chi è qui? In questo e negli altri luoghi dove il verbo habere
sta per abitare in significato neutro, esso verbo non vale propriamente
altro che essere; e habitare altresì, ch'è un
frequentativo o continutivo di habere, sempre che ha senso neutro, sta
per essere. E questa forma è tutta greca; giacchè presso i
greci , la
metà delle volte non è altro che un sinonimo di essere, e s'usa
in questo senso anche impersonalmente, come in italiano, francese e spagnuolo,
tutto dì. V. p.3907. Così anche nel greco moderno a ogni tratto. [2925], non
ci è, non ci ha.
(9. Luglio. 1823.)
Intorno al verbo habitare, che per
virtù della sua formazione può essere e continuativo e
frequentativo, si considerino gli esempi del Forcellini, in alcuni de' quali (come
in quello di Cic. de Senect. c. ult.) egli ha decisissimamente il primo significato,
in altri il secondo: o vale solere habere cioè esse ec. E
vedi ancora il primitivo habere nel senso del continuativo habitare (dal
qual senso deriva quello di questo verbo) nel Forcellini in habeo col.3.
(9. Luglio. 1823.)
È uso della nostra lingua di porre
l'avverbio male come particella privativa in vece di in avanti
gli aggettivi, i sostantivi, gli avverbi, i participii ec. o facendo di questi
tutta una voce con quella, o scrivendo quella separatamente. Il qual uso ci
è così proprio, che sta in libertà dello scrittore di fare
in questo modo de' nuovi accoppiamenti nel detto senso, sempre ch'ei vuole,
siccome n'han fatto alcuni moderni, [2926]p.e. il Salvini, ad esempio
degli antichi, e stanno segnati nella Crusca. Male per non o poco
o difficilmente. V. la Crusca in male. I francesi similmente: mal-adresse, mal-adroit, mal-adroitement,
mal-aisé, mal-gracieux, mal-plaisant, mal-habile, mal-honnête ec. ec.
V. il Diz. del Richelet in Mal, fine. Or quest'uso è tutto
latino e degli ottimi tempi. Vedi Forcell. in male.
(9. Luglio 1823.)
Maltrattare, maltraiter, maltratar -
male-tractatio è d'Arnobio, ap. Forcell. voc. Male fine,
in vece di che altri dissero mala tractatio. È proprio de' nostri
antichi scrittori, e del volgar fiorentino o toscano di usar male in
tutti i generi e numeri in vece dell'aggettivo malo.
(9. Luglio 1823.)
Savamo, savate de'
nostri antichi, per eravamo eravate, sarebbono elle persone di un
imperfetto più regolare, più antico e più vero di sum,
sumus, sunt, che non è l'usitato eram fatto forse da un altro
tema; persone, dico, di un imperfetto sabam, era, conservato nel volgar
latino fino ai primi tempi del nostro?
(9. Luglio 1823.)
Alla p.2753. Ella è anche cosa
certissima che in parità di circostanze, l'uomo, ed anche il giovane, [2927]e
altresì il giovane sventurato, è meno scontento dell'esser suo,
della sua condizione, della sua fortuna durante l'inverno che durante la state;
meno impaziente dell'uniformità e della noia, meno impaziente delle sventure,
meno renitente alla sorte e alla necessità, più rassegnato, meno
gravato della vita, più sofferente dell'esistenza, e quasi riconciliato
talvolta con esso lei, quasi lieto; meno incapace di concepire come si possa
vivere, e di trovare il modo di passare i suoi giorni: o almeno tutte queste
disposizioni sono in lui più frequenti o più durevoli nell'inverno
che nella state; e spesso abituali in quella stagione, laddove in questa non
altro mai che attuali. Ed anche il giovane abitualmente disperato di se e della
vita, si riposa della sua disperazione durante l'inverno, non che egli speri
più in questo tempo che negli altri, ma non prova o prova meno efficace
il senso di quella disperazione che radicalmente non può abbandonarlo.
Cioè intermette [2928]di desiderare o desidera meno vivamente
quelle cose ch'egli è al tutto e abitualmente e per sempre disperato di
conseguire. Tutto ciò perchè gli spiriti vitali sono manco mobili
ed agitati e svegli nell'inverno che nella state.
Queste considerazioni vanno applicate al
carattere delle nazioni che vivono in diversi climi, di quelle che sogliono passare
la più parte dell'anno al coperto e nell'uso della vita domestica e
casalinga a causa del rigore del clima, e viceversa ec.
(9. Luglio 1823.). Veggasi la p.3347-9. e
3296. marg. ec.
A proposito del verbo vexare che io
dico esser continuativo di vehere[34] e
fatto da un antico participio vexus in vece di vectus, del che
vedi la pag.2020. è da notare che sì altrove sì
particolarmente ne' participii in us non è raro nella lingua
latina lo scambio delle lettere s e t. Eccovi da intendo,
intensus e intentus, onde intentare, come da vectus
vectare; da ango, anxus ed anctus. V. Forc. ango in
fine. V. p.3488. E così tensus e tentus da tendo e
dagli altri suoi composti, del che ho detto altrove in proposito d'intentare.
V. p.3815. Dico lo scambio giacchè, secondo [2929]me questi tali
participii, come tensus e tentus, non sono che un solo
pronunziato in due diversi modi per proprietà della lingua materiale.
Onde vexus, cioè vecsus è lo stesso identicamente
che vectus, e vecsare o vexare, per rispetto all'origine,
lo stesso che vectare. Ma vexus si perdette, restando vectus,
e forse fu più antico di questo, come vexare sembra esser
più antico di vectare. Del resto da veho is exi è
così ragionevole che venga vexus, come da necto is exi, nexus,
onde nexare, compagno di vexare, e da pecto is exi, pexus
(e notisi ch'egli ha eziandio pectitus) e da plecto is exi, plexus,
onde amplexare ec. flecto is exi, flexus. (v. p.2814-15. marg.) ec. E quanto ai verbi che hanno o ebbero de'
participii così in sus come in tus, vedi per un altro
esempio fundere, che ha fusus ed ebbe anche futus, p.2821.
e nitor eris che ha nixus, onde nixari, ed ebbe nictus,
onde nictari, il qual esempio (v. la p.2886-7.) fa particolarmente al
caso. V. p.3038. Figo-fixi-fictus, e fixus ch'è più
comune ancora[35].
E di molti altri verbi la nostra teoria de' continuativi dimostra de' doppi
participii o supini, [2930]cioè dimostra che ebbero participio o
supino diversi da quelli che ora hanno, o due, ambo perduti, o ancor più
di due, come fundo-fusus, futus, funditus, ec. ec. V. la p.2826. e il pensiero
seguente, e la p.3037. Del resto vexare rispetto a vehere
potrebbe anche appartenere a quella categoria di verbi della quale, p.2813.
segg. Ma non lo credo per le suddette ragioni che mi persuadono ch'ei venga da
un particip. vexus. Vexus, flexus ec. da vexi ec. sono forse
contrazioni di vexitus ec. e altresì vectus ec. il quale
però conserva il t, come textus da texui, ec. V. la
p.3060-1. con tutte quelle a cui essa si riferisce e quelle che in essa si
citano.
(9.
Luglio. 1823.)
Pinso pinsis pinsi et pinsui, pinsum
et pinsitum et pistum. Da pinsus o da pinsitus, pinsitare
appresso Plauto, se questa voce è vera. Da pistus pistare
appresso il Forcellini e il Glossario (vedilo in Pistare e Pistatus),
onde il nostro pestare che volgarmente si dice anche oggi più
spesso pistare, siccome pisto per pesto. (V. il Glossar.
in pestare). Pisto rimane eziandio nello spagnuolo, ed è
un aggettivo neutro sostantivato, che vale quello che noi diciamo il pollo
pesto. Tutti tre questi participii di pinso sono comprovati con
esempi, e non da me congetturati. V. Forcell. in ciascuno di loro, e in pinso.
Notiamo qui quello che dice Festo alla voce pinso
(ap. Forcell. in Pistus). Pistum a
pinsendo pro molitum antiqui frequentius usurpabant quam nunc nos dicimus. [2931]Infatti
pistillum, pistor, pistrinum e quasi tutti i derivati di pinso
vengono dal supino o participio pistum o pistus. Ora, secondo
Festo, al suo tempo questo participio o supino molto usitato dagli antichi, era
poco frequentato. Egli vuol certo dire nel linguaggio polito e nella scrittura.
Ma eccovi che il volgo latino e il parlar familiare conservava l'uso antico e
conservollo sino all'ultimo, giacchè nelle lingue figlie della latina
non resta quasi (dico quasi per rispetto al verbo pisar e. di cui qui
sotto) del verbo pinsere altro che quello che appartiene al suo participio
pistus, cioè pesto, pisto ital. e spagn. pestare,
pestello ec. E il verbo pestare o pistare che sembra essere
sottentrato ne' bassi tempi all'originale pinsere, nel luogo del quale
ei si conserva fra gl'italiani anche oggidì, fu formato allora da pistus,
o s'ei fu proprio anche degli antichi latini, certo è ch'egli si
conservò nelle bocche del volgo e nel parlar familiare andando in disuso
e totale dimenticanza il verbo pinso, al contrario di quello che [2932]sembra
dir Festo, o che si potrebbe ragionevolmente raccogliere dalle di lui
soprascritte parole, chi non sapesse i fatti.
Pistus[36], onde pistare
è formato evidentemente dal regolare e primitivo pinsitus,
toltagli la n, onde pisitus, e contratto questo in pistus,
come positus, repositus ec. in postus, repostus. E vedi la
p.2894. Ora come da pinsitus pisitus e pistus, tolta la n,
così da pinsus altro participio irregolare di pinso, del
qual participio altresì s'hanno parecchi esempi (v. Forcell. in pinso
fin. e pinsus), fu fatto, secondo me, pisus, e da questo, siccome
da pistus pistare, viene il verbo pisare, il quale conseguentemente
e secondo questo discorso, è un continuativo di pinsere appunto
come pistare, e come forse pinsitare. Se a questo discorso
avessero posto mente quelli che appresso Varrone e Plinio sostituiscono il
verbo pinsere al verbo pisare (o pisere, di cui poscia),
riconosciuto pur da Diomede, e letto ancora da taluni appresso Persio [2933](v.
Forcell. in pinso fine), non avrebbero forse pensato a bandire questo
verbo. E meno ancora lo avrebbero fatto se avessero osservato questo medesimo
verbo pisare appresso un Anonimo, de re architectonica, il quale
non ho ora tempo d'investigar chi sia, se non è l'epitomatore di
Vitruvio, ma certo al suo stile non par troppo recente, e vedi il suo passo nel
Gloss. in Pisare. E meno se avessero guardato allo spagnuolo pisare
(calcare, cal-pestare) e all'italiano pigiare ch'è il medesimo: e
se in quel luogo di Varrone ficum et uvam passam cum piserunt, dov'essi
ripongono pinserunt, avessero osservato l'evidente conformità con
le solenni frasi vernacole pisar las uvas, pigiar le uve. E così
se avessero posto mente al sostantivo piso onis, derivante da pisare
o certo da pisus per pinsus, il qual sostantivo trovasi appresso
il Forcell. e nel citato anonimo ap. il Glossar. e nello spagnuolo pison,
onde pisonar ec. Vedi ancora nel Forcellini in pinso il luogo di
Varrone l. 1. R. R. c. 63. con quel ch'ei ne dice: e il vocabolo Pisatio,
dove non lodo quei che leggono spissatione.
[2934]In luogo di pisare,
trovasi, e più spesso, pisere. Intorno a questo veramente avrei i
miei dubbi, e credo più ragionevoli di quello de' sopraddetti che
leggono sempre pinsere. Voglio dire che a me non par da negare
l'esistenza di quel verbo derivato da pinsere, ma mi par da dubitare
circa la sua coniugazione, e forse da non concedere ch'ei sia della terza, e
dovunque si trova pisere da ripor pisare. Il quale ed è
più regolare secondo la nostra teoria de' continuativi, ed è
comprovato dal Glossario e dal vernacolo spagnuolo e italiano (giacchè
per puro accidente e vezzo di pronunzia noi diciamo pigiare in luogo di pisare
ch'è lo stesso, e che certamente si dice in qualche dialetto o provincia
d'Italia, come, io credo, nel veneziano), ed è confermato dalle altre
considerazioni addotte di sopra.
In ogni modo il verbo pisere detto in
vece di pisare, sarebbe un continuativo anomalo di pinsere; sia
che anche pisare esistesse nell'antico latino, e da lui per corruzione
fosse fatto pisere, come forse nexere da nexare (v.
p.2821.); sia che pisere fosse fatto [2935]a dirittura da pisus-pinsus
di pinsere prima di pisare e in luogo di questo (come visere
per visare da video-visus), e che questo non sia stato mai nell'antico
o nell'illustre ma solo nel basso o nel rustico Latino (fatto da pisere
o a dirittura da pinsere), e quindi ne' moderni vernacoli; o sia
finalmente che pisere e pisare esistessero ambedue quando che
sia, contemporaneamente, ma indipendentemente l'uno dall'altro per rispetto all'origine.
E vedi a questo proposito di continuativi anomali spettanti alla terza, la
p.2885.
Pisare considerato come
appartenente a pinsere (la quale appartenenza e parentela, quantunque il
Forcellini non la riconosce o non la esprime, e fa derivar piso is, ed
anche, a quel che pare, piso as dal greco , qual
ch'ella si voglia che sia, chi la può mettere in dubbio?) potrebbe anche
riferirsi a quella categoria di cui p.2813. segg. e 2930. Ma le addotte ragioni
mi persuadono piuttosto ch'esso appartenga dirittamente alla classe degli
ordinarii continuativi. Forse piuttosto alla sopraddetta categoria potrebbe
appartenere pinso as, se questo verbo fosse pur vero, del che vedi il
Forcellini in pinso.
(10. Luglio 1823.)
Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il
Forcellini in Caespitator e il Glossario in Cespitare.
(10. Luglio. 1823.)
[2936]Le cose ch'esistono non sono
certamente per se nè piccole nè vili: nè anche una gran
parte di quelle fatte dall'uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità
loro sono di un altro genere da quello che l'uomo desidererebbe, che sarebbe, o
ch'ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch'egli s'immaginava
nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch'ei s'immagina ancora tutte
le volte ch'ei s'abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed
essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più
grandi di quello che il fanciullo o l'uomo s'immaginava, l'uomo nè il
fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso,
che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le
cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell'uomo, non sono atte
alla felicità dell'uomo. (10. Luglio. 1823.). Non ch'elle sieno cose da
nulla, ma non sono di quella sorta che l'uomo indeterminatamente vorrebbe, e
ch'egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son
nulla alla felicità dell'uomo, non essendo un nulla per se medesime. E
chi potrebbe chiamare un nulla la [2937]miracolosa e stupenda opera
della natura, e l'immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei
mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva?
poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe
disprezzare l'immensurabile e arcano spettacolo dell'esistenza, di quell'esistenza
di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o sufficientemente
immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual
uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e
misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè
nè l'esistenza e vita nostra, nè quella degli altri esseri giovi
veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo
per noi l'esistenza così nostra come universale scompagnata dalla
felicità, ch'è la perfezione e il fine dell'esistenza, anzi
l'unica utilità che l'esistenza rechi a quello ch'esiste? e quindi esistendo
noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto
per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell'opera
di cui non vediamo [2938]nè potremo mai vedere nemmeno i limiti?
nè arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare
l'artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di
lei? cioè la qualità dell'esistenza della più parte delle
cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose,
cioè degli esseri ch'esistono. Pochissimi de' quali, a rispetto della
loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo,
anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte
dell'esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto, neppur quanto
agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al
nostro proprio individuo.
(10. Luglio. 1823.)
Questo ch'io dico delle opere della natura,
dicasi eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque
cagione notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o
appartengano puramente alla ragione; o di mano o d'intelletto o d'immaginativa;
scoperte, invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec. [2939]discipline pratiche
o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d'ogni genere, opere
d'arte ec. ec.
(11. Luglio. 1823.)
Dalle lunghe considerazioni da me fatte
circa quello che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec.,
dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o
dogmi ec. antichissimi, che mi pare avere accennato in diversi luoghi, si
può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione
e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una
remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato
da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e
sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato
felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l'origine della sua
infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo
uso della ragione. E pare che questa verità fosse nota ai più
antichi sapienti, e una [2940]delle principali e capitali fra quelle che
essi, forse come pericolose a sapersi, enunziavano sotto il velo dell'allegoria
e coprivano di mistero e vestivano di finzioni, o si contentavano di accennare
confusamente al popolo; il quale era in quei tempi assai più diviso per
ogni rispetto dalla classe de' sapienti, che oggi non è: onde nasceva
l'arcano in cui dovevano restare quei dogmi ch'essendo sempre proprii de' soli
sapienti, non erano allora quasi per niun modo communicati al popolo, separato
affatto dai saggi. Oltrechè in quei tempi l'immaginazione influiva e
dominava così nel popolo, come anche nei sapienti medesimi, onde nasceva
che questi, eziandio senz'alcuna intenzione di misteriosità, e
senz'alcun secondo fine, vestissero le verità di figure, e le
rappresentassero altrui con sembianza di favole. E infatti i primi sapienti
furono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia, e
le prime verità furono annunziate in versi, non, cred'io, con espressa intenzione
di velarle e farle poco intelligibili, ma perchè esse si presentavano [2941]alla
mente stessa dei saggi in un abito lavorato dall'immaginazione, e in gran parte
erano trovate da questa anzi che dalla ragione, anzi avevano eziandio gran
parte d'immaginario, specialmente riguardo alle cagioni ec., benchè di
buona fede creduto dai sapienti che le concepivano o annunziavano. E inoltre
per propria inclinazione e per secondar quella degli uditori, cioè de'
popoli a cui parlavano, i saggi si servivano della poesia e della favola per
annunziar le verità, benchè niuna intenzione avessero di renderle
méconnaissables.
(11. Luglio 1823.)
Il principal difetto della ragione non
è, come si dice, di essere impotente. In verità ella può
moltissimo, e basta per accertarsene il paragonare l'animo e l'intelletto di un
gran filosofo con quello di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo
filosofo avanti il suo primo uso della ragione: e così il paragonare il
mondo civile presente sì materiale che morale, col mondo selvaggio
presente, e più col primitivo. Che cosa non può la ragione umana
nella speculazione? Non penetra ella fino all'essenza delle cose che esistono,
ed anche di se medesima? non ascende fino al trono di Dio, e non [2942]giunge
ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo Essere? (Vedi quello
che ho detto altrove in questo proposito). La ragione dunque per se, e come
ragione, non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un
ente finito, è potentissima; ma ella è dannosa, ella rende
impotente colui che l'usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a
proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l'esercita e la
possiede, e più ella si perfeziona, più l'essere ragionante
diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti
sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così
dir la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose
tanto più impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore
la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto l'esser delle cose
si scema e restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede
poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è
acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà che
lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella
più si stende [2943]e quanto meglio e più finamente vede.
Così ch'ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch'ella sia
grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le
mancano quanto ella più n'abbraccia, e più minutamente gli
scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella
ragione. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu'altra
cosa, eccetto solamente ch'alla ragione). Perciocch'ella per se può
vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede
però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può
mai esser visibile a qualsivoglia vista.
(11. Luglio 1823.)
Come gli antichi riponessero la
consolazione, anche della morte, non in altro che nella vita, (del che ho detto
altrove), e giudicassero la morte una sventura appunto in quanto privazion
della vita, e che il morto fosse avido della vita e dell'azione, e prendesse
assai più parte, almeno col desiderio e coll'interesse, alle cose di
questo mondo che di quello nel quale stimavano pure ch'egli abitasse e dovesse
eternamente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per sempre un membro, si
può vedere ancora in quell'antichissimo costume di onorar l'esequie e
gli anniversari ec. di [2944]un morto coi giuochi funebri. I quali
giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più
energiche, più solenni, più giovanili, più vigorose,
più vitali che si potessero fare. Quasi volessero intrattenere il morto
collo spettacolo più energico della più energica e florida e
vivida vita, e credessero che poich'egli non poteva più prender parte
attiva in essa vita, si dilettasse e disannoiasse a contemplarne gli effetti e
l'esercizio in altrui.
(11. Luglio 1823.)
Gridano che la poesia debba esserci
contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i
costumi, e fors'anche gli accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso
delle antiche finzioni, opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p.3152.
Ma io dico che tutt'altro potrà esser contemporaneo a questo secolo
fuorchè la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e
seguir le idee e mostrare i costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria
è un fantasma, la libertà la patria l'amor patrio non esistono,
l'amor vero è una [2945]fanciullaggine, e insomma le illusioni
son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le
passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un
poeta, una poesia, senza illusioni senza passioni, sono termini che reggano in
logica? Un poeta in quanto poeta può egli essere egoista e metafisico? e
il nostro secolo non è tale caratteristicamente? come dunque può
il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto poeta?
Osservisi che gli antichi poetavano al
popolo, o almeno a gente per la più parte non dotta, non filosofa. I
moderni all'opposto; perchè i poeti oggidì non hanno altri lettori
che la gente colta e istruita, e al linguaggio e all'idee di questa gente
vuolsi che il poeta si conformi, quando si dice ch'ei debba esser contemporaneo;
non già al linguaggio e alle idee del popolo presente, il quale delle
presenti nè delle antiche poesie non sa nulla nè partecipa in
conto alcuno. Ora ogni uomo colto e istruito oggidì, è
immancabilmente egoista e filosofo, privo d'ogni notabile illusione, spoglio di
vive passioni; e ogni donna altresì. Come può il poeta essere per
[2946]carattere e per ispirito, contemporaneo e conforme a tali persone
in quanto poeta? che v'ha di poetico in esse, nel loro linguaggio, pensieri, opinioni,
inclinazioni, affezioni, costumi, usi e fatti? che ha o ebbe o potrà mai
aver di comune la poesia con esso loro?
Perdóno dunque se il poeta moderno segue le
cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la maniera antica, se usa
eziandio le antiche favole ec., se mostra di accostarsi alle antiche opinioni,
se preferisce gli antichi costumi, usi, avvenimenti, se imprime alla sua poesia
un carattere d'altro secolo, se cerca in somma o di essere, quanto allo spirito
e all'indole, o di parere antico. Perdóno se il poeta, se la poesia moderna non
si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poichè esser
contemporaneo a questo secolo, è, o inchiude essenzialmente, non esser
poeta, non esser poesia. Ed ei non si può essere insieme e non essere.
(11. Luglio. 1823.). E non è conveniente a filosofi e ad un secolo
filosofo il richieder cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in se
stessa e ne' suoi propri termini.
(12. Luglio 1823.)
[2947]Intentare lat. da intendo,
onde il francese intenter e quello che noi pur diciamo intentare
un'accusa, un processo e simili. V. il Glossar. Cang. Participio intentatus.
Intentare de' nostri antichi (v. la Crus. in intentare e intentazione)
e intentar spagnuolo, da tento colla prepos. in, e vale lo
stesso che tentare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto diverso
dall'altro intentare sopraddetto, io lo credo venuto, se non altro, dal
latino volgare, poichè m'ha sapor di vera latinità, e non mi
riesce verisimile che sia stato creato nelle lingue vernacole, pochissimo usate
a crear nuovi composti con preposizione il qual uso è tutto greco e
latino. Participio intentato, intentado, o intentatus,
cioè tentatus (Similmente obtento, se questa voce è
vera, viene da ob-tineo, laddove ostento da os-tendo,
antic. obs-tendo, [v. la p.2996.]). Diverso da questo è l'altro
participio intentatus che significa il contrario, cioè non
tentatus, fatto non colla prep. in, ma colla particella privativa
del medesimo suono in, il quale participio noi pure l'abbiamo, e viene
ad essere un terzo participio intentatus diverso per origine e per
significato, benchè di suono in ogni cosa conforme ed uguale, dai due
sopraddetti. Similmente inauditus, insuetus ed [2948]altri tali,
vagliono non auditus, non suetus, ed altresì l'opposto,
cioè suetus, auditus, da insuesco ed inaudio.
(12. Luglio. 1823.)
Quanto mirabile sia stata l'invenzione
dell'alfabeto, oltre tutti gli altri rispetti e modi, si può anche per
questa via facilmente considerare. È cosa osservata che l'uomo non pensa
se non parlando fra se, e col mezzo di una lingua; che le idee sono attaccate
alle parole; che quasi niuna idea sarebbe o è stabile e chiara se l'uomo
non avesse, o quando ei non ha, la parola da poterla esprimere non meno a se
stesso che agli altri, e che insomma l'uomo non concepisce quasi idea chiara e
durevole se non per mezzo della parola corrispondente, nè arriva mai a
perfettamente e distintamente concepire un'idea, anzi neppure a determinarla
nella sua mente in modo ch'ella sia divisa dall'altre, e divenga idea, oscura o
chiara che sia, nè a fissarla in modo ch'ei possa richiamarla,
riprenderla, raffigurarla nella sua mente e seco stesso quando che sia; non
arriva, dico, a far questo mai, finch'egli non [2949]ha trovato il
vocabolo con cui possa significar questa idea, quasi legandola e
incastonandola; o sia vocabolo nuovo, o nuovamente applicato, se l'idea
è nuova, o s'egli non conosce la parola con cui gli altri la esprimono,
o sia questo medesimo vocabolo che gli altri usano a significarla.
Tutto ciò ha luogo in ordine ai suoni
elementari della favella, per rispetto all'alfabeto. L'alfabeto è la
lingua col cui mezzo noi concepiamo e determiniamo presso noi medesimi l'idea
di ciascuno dei detti suoni. Quegli che non conosce l'alfabeto, parla, ma non
ha veruna idea degli elementi che compongono le voci da lui profferite. Egli ha
ben l'idea della favella, ma non ha per niun conto le idee degli elementi che
la compongono: siccome infinite altre idee hanno gli uomini, degli elementi e
parti delle quali non hanno veruna idea nè chiara nè oscura che
sia separata dalla massa delle altre: e questo appunto è il progresso
dello spirito umano; suddivider le idee, e concepir l'idea delle parti e degli
elementi delle medesime, conoscere [2950]che quella tale idea ch'egli
teneva per semplice, era composta, o scompor quella idea ch'era stata semplice
per lui finallora, e scompostala concepir l'idee delle parti di essa, sia di
tutte le parti, sia d'alcuna. Nè altro è per l'ordinario una
nuova idea[37],
che una porzione d'idea già posseduta, nuovamente separata dalle altre
porzioni della medesima, e nuovamente determinata in modo ch'ella sussista da
se, e sia idea da se, e da se si concepisca.
Or questa determinazione si fa col mezzo
della lingua, cioè con un vocabolo nuovo o nuovamente applicato. E non
è difficilissimo il farlo, perocchè la lingua è già
trovata e posseduta, e l'uomo ha chiare idee degli elementi che la compongono,
cioè de' vocaboli, e facilmente si aggiunge alle cose trovate.
Ma per determinare gli elementi della voce
umana articolata, l'unica lingua, come ho detto, è l'alfabeto. Or questa
lingua non era trovata ancora, e niuna idea se ne aveva. Quindi niun mezzo [2951]di
determinare presso se stesso le idee degli elementi di detta voce; e quindi
infinita difficoltà di concepir queste idee e di fissarle nella propria
mente; cioè di suddivider l'idea della voce, e stabilire nel proprio
intelletto le idee separate delle di lei porzioni.
A noi già istruiti dell'alfabeto,
niuna difficoltà reca il concepire determinatamente l'idea di ciascun
suono di nostra voce, distintamente l'uno dall'altro. Ma supponghiamo, come ho
detto, un uomo non istruito dell'alfabeto, quali sono i fanciulli e
gl'illetterati, e senza insegnargli l'alfabeto, nè dargliene veruna idea
(s'è possibile che nel presente stato di cose, un uomo, benchè
ignorante, niuna lontana e confusa idea possegga dell'alfabeto), comandiamogli
ch'egli da se risolva la sua propria voce nei suoni che la compongono, e dica
quanti e quali. Già questa sola proposizione moltissima luce gli
darà, la qual non avevano i primi inventori dell'alfabeto, perocch'egli
intenderà che la sua voce è composta di parti diverse l'una
dall'altra, e concepirà l'idea della divisibilità della medesima.
Idea difficilissima [2952]a concepire, e molto più quella, che
tali parti si possano determinare ciascuna da se, e concepire distintamente
l'una dall'altra. A ogni modo, dopo tutte queste idee preliminari, e dopo aver
fatto così grandi e difficili passi verso l'invenzione dell'alfabeto, si
può quasi certamente credere ch'egli in niun modo riuscirà
nè a trovare e concepire quali parti ed elementi compongano il suono
della sua voce, nè quando anche trovasse e concepisse la qualità
e diversità scambievole di questi elementi, riuscirà a determinare
e fermare appo se stesso l'idea di ciascuno di loro, non avendo i segni con cui
significarli, e rappresentarli distintamente a se stesso, ed a cui riferire le
sue proprie idee; nè formerà per niun modo il pensiero che
siccome l'altre idee si rappresentano e determinano co' vocaboli, e così
determinate e rappresentate, ad essi vocaboli si riferiscono, così anche
quelle de' suoni elementari si possano significare e determinare con altri
segni, cioè con quelli dell'alfabeto, ed a questi riportare [2953]colla
mente. Imperciocchè questo appunto è quello che noi facciamo,
senz'avvedercene: rapportiamo ciascun suono elementare al corrispondente
carattere dell'alfabeto, e per questo mezzo ne concepiamo chiaramente e
determinatamente l'idea distinta e separata, sempre che ci occorre, e la
richiamiamo e riprendiamo a piacer nostro. Così facciamo dell'altre idee
rispetto alle parole.
Ed è notabile che in questo secondo
caso, noi rapportiamo l'oggetto della nostra idea alla parola che lo significa,
o pronunziata o scritta. Gli uomini avvezzi alla lettura, sogliono per lo
più rapportarsi al vocabolo scritto, e concepir tutt'insieme l'idea di
ciascuna cosa, del vocabolo che lo significa, e della forma materiale in
ch'egli si scrive. V. p.3008. Ma gl'illetterati e i fanciulli si rapportano
semplicemente al vocabolo pronunziato, e ciò basta a concepire l'idea
determinata e chiara di qualsivoglia cosa il cui vocabolo si conosca, e di
qualsivoglia vocabolo il cui significato ben s'intenda. Perocchè ciascun
vocabolo anche [2954]semplicemente considerato nella sua profferenza,
nella qual solamente possono considerarlo gl'illetterati, ha tanto corpo, e per
così dire persona, e tanta consistenza, che basta a ferire i sensi, e
quindi essere ritenuto nella memoria, e distinto col pensiero dagli altri
vocaboli.
Il che non accade circa i suoni della voce.
Perocchè esso suono è il vocabolo di se medesimo; e quindi l'idea
del suono e del vocabolo che lo significa essendo una cosa stessa, e non
potendosi l'uno riferire all'altro, la mente non è in verun modo aiutata
dal linguaggio a concepire determinatamente e ritenere e richiamare a suo
talento le idee d'essi suoni distinte l'una dall'altra. Vero è che non
potendosi profferir da sè se non le vocali, tutti gli altri suoni hanno
presso noi una sorta di nome, che non è propriamente esso suono nudo,
come bi ci, sono nomi di b c. E nelle antiche lingue ciascun
suono anche vocale, portava un suo proprio nome arbitrario e di convenzione
(come son le parole, o vogliam dire come i nomi d'ogni altra [2955]cosa)
il qual nome era più distinto che fra noi da esso suono nudo, onde si
può dir che in quelle lingue i suoni della favella avessero i loro vocaboli
diversi dall'oggetto, siccome l'avevano gli altri oggetti; che il linguaggio aiutasse
il pensiero anche circa i detti suoni, e che la nuda idea de' medesimi avesse
dove appoggiarsi e a che riferirsi anche fuori della scrittura e dell'alfabeto
scritto, cioè i nomi conventizi ed imposti dei detti suoni, e l'alfabeto
pronunziato. Per esempio alèf, beth, ghimèl, alfa, beta,
gamma, iota, eta erano nell'ebraico e nel greco i nomi propri de' suoni,
diversi da' medesimi suoni.
Contuttociò, se non agli antichi,
certo ai moderni, si può considerar come quasi impossibile di concepir
chiaramente e precisamente, ritener costantemente, e richiamar facilmente le
idee di ciascun suono elementare della favella, delle qualità proprie di
ciascuno, e della loro scambievole diversità, senza la cognizione
dell'alfabeto scritto. [2956]Nè credo che si possa allegare
esempio di chi possegga o abbia mai posseduto distintamente e perfettamente
queste tali idee nel modo e colle condizioni ch'io dico, senza conoscere i caratteri
che le significano e rappresentano. Vale a dire non credo che alcuno abbia mai
avuto e ritenuto, abbia e ritenga la chiara, determinata e distinta idea di ciascun
suono, senza poterlo riferire al rispettivo carattere dell'alfabeto, ma
rapportandolo solamente al suo vocabolo, o non rapportandolo a cosa alcuna, ma
considerandolo col pensiero solamente in se stesso, e tenendolo semplicemente
per se stesso. Non lo credo, dico, di alcuno, e neppur degli antichi, i quali
tengo per fermo che nell'imporre i nomi che imposero ai suoni, avessero
tutt'altro intento e motivo[38] che
quello di aiutar con essi nomi il pensiero, e di far ch'essi suoni si potessero
insegnare separatamente dall'alfabeto scritto, ed esser saputi, conosciuti
distintamente e costantemente ritenuti da quelli che non conoscessero i caratteri
nè potessero in niun modo leggere. Certo i fanciulli [2957]oggidì
non prima imparano a distinguere i suoni del proprio lor favellare che ad
intendere i caratteri che li significano, nè la distinta cognizione e
idea di quelli è nelle menti loro per alcun tempo scompagnata dalla cognizione
e dalla idea di questi.
Per le quali ragioni io dissi di sopra
(p.2953.) che noi colla nostra mente rapportiamo sempre ciascun suono
elementare della favella al corrispondente carattere dell'alfabeto, quante
volte concepiamo nella mente nostra la distinta idea di qualsivoglia dei detti
suoni; e non dissi al nome o vocabolo de' medesimi.
Con queste considerazioni fra l'altre, e per
questa via, si può facilmente comprendere e sentire che l'invenzione
dell'alfabeto fu, si può dire, così difficile, ed è
così maravigliosa come fu ed è l'invenzione della lingua.
Perocchè quel medesimo che dee farci maravigliare intorno alla lingua,
cioè come sienosi potute avere idee chiare e distinte senza l'uso delle
parole, e come inventar [2958]le parole senza avere idee chiare e
distinte alle quali applicarle, questa medesima meraviglia ha luogo in
proposito dell'alfabeto. Potendosi appena concepire come questo abbia potuto
preceder le idee chiare e distinte de' suoni elementari, o come tali idee
abbiano potuto essere innanzi alla cognizione de' segni che li figurano. Onde
si può applicare all'alfabeto quel detto di Rousseau il quale confessava
che nella considerazion della lingua e nello investigare e spiegare
l'invenzione della medesima, trovavasi in grandissimo imbarazzo perchè
non sembra possibile una lingua formata innanzi a una società quasi
perfetta, nè una società quasi perfetta innanzi all'uso d'una
lingua già formata e matura.
Anzi a rispetto dell'alfabeto cresce sotto
un certo riguardo la meraviglia. Perchè idee chiare e distinte d'oggetti
sensibili e sensibilmente distinti gli uni dagli altri, si poterono avere anche
senza l'uso delle parole, e trovate le parole a significar questi oggetti, si
potè col mezzo delle similitudini e delle metafore (principale [2959]strada
per cui tutte le lingue si accrebbero) nominare eziandio gli oggetti meno
sensibilmente distinti fra loro, e quindi i meno sensibili, i meno chiaramente
conceputi, e finalmente gl'insensibili e gli oscurissimi; e trovare il modo di
significarli. Ma questa scala non ebbe luogo in ordine all'alfabeto, che
è, come ho detto, la lingua significante i suoni elementari. Tutti
questi, benchè cadano sotto i sensi, sono tuttavia così confusi,
legati, stretti, incorporati gli uni cogli altri nella pronunzia della favella,
così lontani dall'essere in modo alcuno sensibilmente distinti, e
la loro diversità scambievole è così difficile a notare,
ch'ella è quasi fuor del dominio de' sensi, e la difficoltà di
concepire l'idea chiara e distinta di ciascuno di loro senza i segni, e di
trovarne i segni senz'averne conceputo le chiare e distinte idee, non è
quasi aiutata da verun rispetto, nè fu potuta vincere gradatamente, ma
quanto alla parte principale, e alla somma dell'invenzione, essa difficoltà
fu dovuta necessariamente vincere tutta in un tratto. Questa [2960]invenzione,
per dirlo brevemente, apparteneva tutta all'analisi; è di natura sua,
tutta opera ed effetto di questa; richiedeva essenzialmente la risoluzione negli
ultimi e semplicissimi elementi, le quali cose sono appunto le più
difficili all'umano intelletto, e le ultime operazioni ch'egli soglia giungere
a fare.
(12. 14. Luglio. 1823.)
Supponete un cieco nato al quale una felice
operazione, nella sua età già matura o adulta, doni
improvvisamente la vista. Domandategli o considerate i suoi giudizi (dico giudizi
e non sensazioni, le quali non appartengono alla considerazione del bello
esattamente e filosoficamente inteso) circa il bello materiale o il brutto materiale
degli oggetti visibili che si presentano a' suoi occhi. E voi vedrete se questi
giudizi sono conformi al giudizio che generalmente si suol fare di quegli
oggetti sotto il rapporto del bello; o se piuttosto essi non sono difformissimi
o contrarissimi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delicatezze, ma nelle
parti e nelle cose più sostanziali. Di ciò non mancano esperienze
[2961]effettive e prove di fatto, perchè la circostanza ch'io ho
supposta non manca di esempi reali.
E il cieco nato, restando cieco, quali idee
concepisce egli della forma umana e di quella degli altri oggetti ch'ei
può pur conoscere per mezzo del tatto? quali idee circa la loro bellezza
o bruttezza? crediamo noi che queste idee, questi giudizi ch'ei forma
convengano colle idee e co' giudizi degli uomini che veggono? e che sovente non
sieno contrarissime a queste? Ma se esistesse un bello ideale e assoluto, non
dovrebbe il cieco nato conoscerlo, come si pretende ch'ei conosca naturalmente
e che tutti gli uomini conoscano il bello morale che si crede essere assoluto,
il qual bello morale niuno lo vede, come il cieco non vede il bello materiale?
E nelle qualità che si credono assolutamente belle o brutte in questa o
quella specie d'oggetti; e massime in quelle qualità che appartengono
agli oggetti che il cieco nato conosce per mezzo degli altri sensi fuor della
vista; e più in quelle che appartengono alla specie umana, della [2962]quale
esso medesimo cieco fa parte, non dovrebbero le idee ed i giudizi del cieco, in
quanto egli può comprenderle, convenire col giudizio e colle idee di
quelli che veggono, circa il bello e il brutto che ne deriva o che n'è
composto? non dovrebbero dico convenire, almeno per ciò che spetta al
sostanziale e al principale? Laddove ciascuno di noi è persuaso ch'esse
idee e giudizi non convengono coi nostri, se non forse accidentalmente, anzi
per lo più ne sono remotissimi e contrarissimi.
(14. Luglio 1823.)
Il fanciullo, il cieco nato che abbia
improvvisamente acquistato la vista, e tutti gli uomini di qualunque nazione,
tempo, costume, gusto, opinione, considera la gioventù come bella in se
più della vecchiezza. La gioventù quanto a se par bella a tutti
assolutamente. Essa è per tutti una qualità bella (sì
considerata negli uomini che negli animali per la più parte, e
così nelle piante, e nel più delle specie che ne sono partecipi)
ec. Questo consenso universale non prova punto che v'abbia una qualità essenzialmente
e assolutamente bella per se medesima, o necessaria alla composizione del bello
in nessun [2963]genere di cose (giacchè la convenienza non
è una qualità che componga il bello, una parte che entri nella
composizione del bello; ma il bello consiste in essa, essa è il bello, e
viceversa il bello è convenienza e non altro).
1. La gioventù si chiama bella, come
si chiama bello un color vivo. Nè l'una nè l'altro meritano
questo nome filosoficamente. La bellezza loro non è convenienza: ma il
bello filosofico non è altro che convenienza. Quello che ci porta a
chiamar bella la gioventù non è giudizio ma inclinazione. Il
piacere che deriva dalla vista della gioventù non si percepisce per via
del giudizio ma della inclinazione, e quindi non spetta alla bellezza.
Altrimenti gli uomini diranno che l'esser donna assolutamente è bellezza,
perch'essi veggono con più piacere una donna che un uomo. Ma le donne
diranno al contrario. Queste qualità non hanno a far niente col bello
filosoficamente definito. Esse spettano alla considerazione del piacere che
nasce dall'inclinazione, [2964]la quale può ben essere universale
in una specie, ed anche in tutte le specie, perchè può esser
naturale e innata. Le idee son quelle che non possono essere innate. E il piacere
che reca la vista della gioventù è una sensazione pura, non
un'idea, nè deriva da un'idea. Che ha dunque che fare col bello ideale?
Questo non può essere che un'idea. Il caldo, il freddo, l'amaro, il
dolce, che niuno chiama belli nè brutti, appartengono alla categoria
della gioventù. L'effetto ch'essi producono nell'uomo o nell'animale, in
quanto esso effetto è attualmente piacevole o dispiacevole, non è
idea ma sensazione. Dunque non è nè bello nè brutto. Così
nè più nè manco l'effetto che produce nell'uomo o
nell'animale la vista della gioventù. Il cieco nato adunque che vede per
la prima volta una persona giovane e trova la gioventù piacevole a vedere,
non prova l'effetto di niuna bellezza, ma di una qualità che la natura
ha fatto esser piacevole a vedere [2965]come il dolce a gustare. Egli
non giudica allora ma sente. Se dipoi sopra questa sensazione egli fonda
e forma un giudizio e un'idea, come gli uomini sempre fanno, questa è
venuta dalla sensazione, e non da un'idea innata, cioè da quella del
bello che si suppone ideale. Bensì quella sensazione, in quanto
piacevole, è venuta da una qualità innata e naturale in quel
cieco, ma questa qualità non è un'idea; essa è una
inclinazione e disposizione, nè deriva nè risiede nè
spetta punto per se all'intelletto. Nel quale, e non altrove, dovrebbe esistere
e risiedere il bello ideale, s'egli esistesse. E nell'intelletto quindi debbono
accadere gli effetti del vero bello veduto, e non altrove; e da esso derivarne
le sensazioni. Ma nel caso nostro accade il contrario. L'idea è cagionata
nell'intelletto dalla sensazione.
Così discorrere del fanciullo. Il
quale neanche si può così semplicemente dire che trovi piacevole
a vedere la gioventù, appena, e la prima volta ch'ei la vede; che gli
paia, come si dice, bella assolutamente e per se, e più bella
della vecchiezza, al primo vederla. [2966]Ho notato altrove quanto
spesso una persona giovane gli paia, e sia da lui espressamente giudicata
bruttissima, e una persona vecchia bellissima (ancorchè ella sia a tutti
gli altri brutta, eziandio per vecchia), e ciò per varie circostanze. E
i sopraddetti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non v'hanno luogo
costantemente e sicuramente nè in modo che non sia accidentale e di
circostanza, se non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione naturale
verso la gioventù, massime in ordine agl'individui della propria specie;
il quale sviluppo, specialmente ne' paesi meridionali, accade nel fanciullo
assai presto, e molto prima ch'egli sia in grado ec. Vedi l'Alfieri nella sua
Vita. Accade, dico, almeno in parte. E anche circa il cieco nato che acquisti
improvvisamente il vedere, dubito molto che egli ne' primi momenti, e anche ne'
primi giorni, trovi assolutamente bello, come si dice, l'aspetto della
giovanezza per se medesimo, e più bello che quello della vecchiezza. ec.
Del resto il cieco nato, restando pur cieco, troverà certo più
piacevole [2967]p.e. la voce giovanile che la senile, e tutte le altre
sensazioni che gli verranno da persone giovani, in parità di circostanze,
le troverà più piacevoli di quelle che gli verranno da persone
vecchie; e l'idea ch'egli concepirà della giovanezza, qualunque ella
sia, sarà per lui più piacevole, e, come si dice, più
bella che la contraria, e piacevole e bella per se medesima. Ma tutto
ciò sarà effetto della inclinazione, e non derivato originalmente
dall'intelletto. ec.
2. La gioventù non è
necessaria alla composizione del bello, neppur nelle specie nelle quali essa ha
luogo. Essa ancora è una qualità relativa, eziandio considerandola
dentro i termini d'una medesima specie di cose. P.e. parlando della specie
umana, egli si dà un bel vecchio, niente meno che un bel giovane.
V'è la bellezza propria del bambino, del fanciullo, della età
matura, dell'età senile, della decrepita ancora, niente manco che quella
propria dell'età giovanile. (Vedi Senofonte cap. 4. §.17. del Convito.)
In molti [2968]casi la giovanezza ripugnando alle altre qualità
dell'oggetto, ovvero a tale o tal altra circostanza estrinseca a lui relativa,
ella non solamente non servirebbe a comporre il bello, ma gli nuocerebbe, lo
distruggerebbe, e produrrebbe a dirittura il brutto, appunto in quanto giovanezza;
di modo che quell'oggetto sarebbe brutto espressamente perchè giovane,
quel composto sarebbe brutto precisamente in tanto in quanto la giovanezza
v'avrebbe parte. P.e. gli antichi rappresentavano gli Dei giovani. Tali erano
le loro idee, e bene stava. Ma oggi chi rappresentasse il Dio Padre
coll'aspetto della gioventù, in vece della vecchiezza, questa effigie,
in quanto giovanile, sarebbe ella bella? No, anzi brutta, appunto in quanto
giovanile, e in quanto all'aspetto della giovanezza, perchè le nostre
idee e l'uso nostro e le qualità che la nostra immaginazione attribuisce
a Dio Padre, ripugnano a questa qualità. Anche fra gli antichi una
immagine, una statua giovanile di Giove regnante e fulminante, sarebbe stata
brutta in quanto giovanile. E forse che l'aspetto di Giove nelle antiche immagini
è brutto? Anzi bellissimo, ma non giovane. [2969]Nè
perciò men bello di Apollo giovane, nè di Mercurio più
giovane ancora, nè di Amore fanciullo. La giovanezza in questi tali casi
cagionerebbe la bruttezza perchè sarebbe sconveniente. Così fanno
tutte l'altre qualità nello stesso caso per la stessa ragione. Dunque la
giovanezza come tutte l'altre qualità, e può essere sconveniente,
ed essendo, cagiona bruttezza. Dunque ella come tutte l'altre non cagiona bellezza
se non quando conviene. Dunque la gioventù non è cagione
nè parte di bellezza assolutamente nè per se, ma relativamente, e
solo in quanto ella conviene, e ciò considerandola eziandio in quelle
sole spezie di cose che possono parteciparne, e di più dentro i termini
d'una medesima specie. Dunque la gioventù, filosoficamente ed
esattamente parlando, non appartiene per se alla bellezza più di qualsivoglia
altra qualità; e, come tutte l'altre, è resa propria a formar la
bellezza, non da altro che da una cagione a lei estrinseca e diversa, e per se
variabilissima e incostante, cioè dalla [2970]convenienza. La
quale ora ammettendo la gioventù, la rende propria al detto uffizio, ora
escludendola, ve la rende al tutto inabile.
Potrà dirsi che, se non altro la
bellezza giovanile è maggiore p.e. della senile. Potrei rispondere
ch'ella è più piacevole, ma non già maggior bellezza per
se, non essendo maggior convenienza. Il fatto però è questo.
L'ordine universale della natura, indipendentemente affatto dalla bellezza,
porta che le forme e le facoltà delle specie capaci di gioventù e
di vecchiezza, si trovino nella maggior pienezza conveniente alla rispettiva
specie e nella maggior perfezione relativa ad essa specie, nel tempo della
gioventù perfetta di ciascun individuo. Quindi non assolutamente, ma
relativamente all'ordine attuale della natura, si può dir che p.e. la
forma dell'uomo perfettamente giovane è più perfetta di quella
del vecchio, e la più perfetta di tutte quelle delle quali l'uomo
è capace. Laonde la bellezza della sua forma giovanile si potrà
dir maggiore di quella della senile. [2971]Ma questo maggiore
è accidentale, e propriamente non appartiene alla bellezza, ma a quel
soggetto in cui ella si considera. Perocchè la forma giovanile a cui
essa bellezza appartiene, è per rispetto alla natura dell'uomo, e non
per rispetto al bello, più perfetta della senile. E quindi, a parlare
esattamente, nasce che la bellezza giovanile dell'uomo, non sia bellezza
maggiore della senile, ma appartenente ad una forma che è la più
perfetta di cui l'uomo sia capace, cioè alla giovanile. Onde la
perfezione, e la maggior perfezione, non è qui propria della bellezza,
ma del soggetto a cui ella appartiene accidentalmente, cioè della forma
giovanile dell'uomo. E però la forma giovanile non può per se
entrare nella composizione di quel che si chiama bello ideale; giacchè
essa forma può ben essere il soggetto del bello (siccome può
anche non essere, e spessissimo non è), ma non è già esso
bello, e la bellezza non gli appartiene che accidentalmente, ed è del
tutto [2972]estrinseca e diversa alla di lei natura. E conchiudesi che
la bellezza giovanile è bellezza relativamente alla forma giovanile, ma
non assolutamente, nè in quanto giovanile, dandosi bellezza scompagnata
dalla gioventù, anche nella medesima specie. Sicchè la bellezza
giovanile è come tutte l'altre relativa, e non assoluta. Relativa
cioè alla forma giovanile. Tanto è lungi che la gioventù
sia per se stessa una qualità bella, quando non è che il soggetto
della bellezza, e può esserlo e non esserlo, e la bellezza può
stare in una medesima specie con e senza la giovanezza.
(14-15. Luglio. 1823.)
Il tema di poto dev'esser po
(fatto da , come do
da , no
da ), di cui potus,
come il tema di nato è no, di cui natus.
(15. Luglio. 1823.)
Prisciano riconosce il verbo legito
da lego, invece di lecto o di lectito che pur sussistono.
Questo legito conferma quello ch'io ho detto altrove in proposito di [2973]agito,
cioè che gli antichi, anzi originali, propri e regolari participii di questi
tali verbi fossero p.e. agitus, legitus, docitus, onde per sincope agtus,
legtus, e in ultimo actus, lectus, doctus. E ci dimostra evidentemente
l'originale, primitivo e perduto participio di lego, cioè legitus.
E non ha che far con rogito, come dice il Forcell. o Prisciano stesso
appo lui, il quale non viene da rogitus, ma da rogatus, come mussito
da mussatus, e come ho provato largamente altrove. Giacchè il
tema di rogito, cioè rogo appartiene alla prima coniugazione,
e non alla terza come lego, nè alla seconda come doceo, e
però la formazione del suo continuativo o frequentativo è
soggetta a un'altra regola, da me altrove stabilita. Eccetto se rogo non
avesse anticamente avuto un participio anomalo rogitus (come domo
domitus), del che mi pare aver detto altrove, inducendomi in questo
sospetto la voce rogito, cioè rogato (quasi un aggettivo
neutro sostantivato), la qual voce è latino-barbara (v. il Glossar.
Cang.) [2974]e italiana.
(15. Luglio 1823.)
Urito presso Plauto, se questa
voce è vera, dimostra il perduto e regolare participio uritus di uro,
in vece di ustus, onde ustulo ec.
(16. Luglio 1823.). V. p.2991.
Alla p.2864. Noi abbiamo anche i positivi frate
e suora, cioè frater e soror. I francesi non hanno
che i positivi. Frayle spagnuolo, cioè frate religioso
sembra essere un diminutivo di frater, cioè, non che sia
diminutivo in ispagnuolo, ma che sia venuto da fratellus, o
dall'italiano fratello.
(16. Luglio 1823.). V. p.2983. fine.
Se la voce eructus appresso Gellio
è vera, essa non si potrebbe considerare se non come un participio d'un
verbo anteriore ad eructo e ructo, dai quali si fa ructatus ed
eructatus, come da poto potatus, e non potus, il qual potus
dimostra un verbo originario di poto. Ructus us eziandio par che
dimostri un verbo originario di ructo e di eructo, formandosi,
come altrove ho notato, questi sostantivi verbali della 4. declinazione da'
participi in us [2975]de' loro verbi originali, sicchè da ructo
si farebbe ructatus us, non ructus. Così motus us
viene da moveo, non da moto as, potus us da po, non da poto
ec. Queste considerazioni mi portano a sospettare che ructo ed eructo
siano continuativi d'un tema perduto, a cui spettino eructus a um appo
Gellio, e ructus us onde ructuo e ructuosus. Anche eructuo
vedi nel Forcell. in Eructo. Al qual sospetto mi spinge massimamente la
forma propria e materiale di ructare ed eructare tutta
continuativa.
(16. Luglio 1823.)
Alla p.2786. marg. Anche
potrebb'esser preterito medio o di , come di da , o di
contratto, come da di , da di ec. Non si direbbe
però nè
ec. come , , , ma ec.
attivo, o attivi o medii che sieno , ec. che
non si trovano, ch'io sappia, se non mascolini o neutri. I quali participii
molti li chiamano attivi e contratti nel modo che ho detto alla p.2786. e 2788.
marg. (e v. Schrevel. in ) ma altri,
e credo con più ragione, li chiamano medii, e contratti nel modo detto
qui di sopra. L'attivo participio perfetto di sarebbe
non , ma o come di . Di
però sarebbe o , come [2976]ho
detto a pag.2776. ovvero anche o , come nè
più nè meno, il quale fa .
(16. Luglio 1823.). V. p.2987.
Benchè materiale, non sarà
perciò vana l'osservazione che i poemi d'Omero, massime l'Iliade, avuto
rispetto alla qualità della lingua greca, la quale in un dato numero di
parole o di versi dice molto più che le lingue moderne naturalmente e
ordinariamente non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi di
tutti i poemi Epici conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati
all'Eneide, ch'è poema scritto nella lingua più di tutte vicina
alla detta facoltà della lingua greca, oltre ch'essi sono composti di 24
libri ciascuno, laddove l'Eneide di soli dodici, si trova che avendo l'Eneide
9896 versi, l'Odissea n'ha 12096, e l'Iliade 15703, il qual computo l'ho fatto
io medesimo. Notisi che i versi di Virgilio sono della stessa misura che quelli
di Omero. Questo parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi
scritti nelle lingue moderne, sì per la differente misura [2977]de'
versi e quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto
maggiormente perchè le lingue moderne hanno bisogno d'assai più
parole che non la lingua greca e latina per significare una stessa cosa. Onde
quando anche v'avesse qualche poema epico moderno che di parole eccedesse
quelli d'Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero,
per così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n'ha che non
sia notabilmente minore di questi, o certo dell'uno d'essi, cioè dell'Iliade.
Ora ella è pur cosa mirabile ad osservare
che lo spirito e la vena di Omero, l'uno tanto vivido gagliardo e fervido e
l'altra così ricca e feconda in ciascheduna parte, abbiano potuto
reggere, lascio stare in due poemi, ma in un poema medesimo, per così
lungo tratto. Perciocchè tutti gli altri poeti epici, avendo tolto qual
più qual meno, quale direttamente e quale indirettamente, qual
più visibilmente e qual più copertamente da lui, e
successivamente gli uni dagli altri di mano in mano, si vede tuttavia che non
hanno [2978]potuto reggere a un corso così lungo, per vigorosi e
vivaci che fossero, e sonosi contentati d'una carriera assai più breve,
e bene spesso prima di giungere al termine di questa medesima, hanno pur
lasciato chiaramente vedere che si trovavano affaticati, e che la lena e l'alacrità
veniva lor manco, tanto più quanto più s'avvicinavano alla meta[39]. E
Virgilio, il quale che cosa non ha tolto ad Omero?, nella seconda metà
della sua Eneide riesce evidentemente languido e stanco, e diverso da se
medesimo, se non nella invenzione[40],
certo però nell'esecuzione cioè nelle immagini, nella espansione
e vivacità degli affetti e nello stile, il che non può esser
negato da veruno che ben conosca la maniera, la poesia, la lingua, la
versificazione di Virgilio, anzi a questi tali la differenza si fa immediatamente
sentire: e vedesi che l'immaginazione di Virgilio era per la lunga fatica
illanguidita, raffreddata, e sfruttata; non rispondeva all'intenzione del
poeta; non [2979]gli ubbidiva; egli poetava già per instituto e
quasi debito, per arte e per abitudine, arte e abitudine che in lui erano eccellentissime,
e possono ai meno esperti sembrare impeto ed poetica,
ma non sono, e non paiono tali ai più accorti, i quali in quegli ultimi
libri desiderano la vena, la J, l'alacrità
di Virgilio. L'invenzione doveva essere stata da lui tutta concepita e disposta
fin dal principio, com'è naturale in ogni buon poeta, e massime in un
poeta di tant'arte e maestria. Quindi s'ella nel fine non è inferiore al
principio, niuna maraviglia. L'immaginazione era così fresca quando inventava
il fine del poema, come quando inventava il principio. Ma non minor forza, vivezza,
attività, prontezza, fecondità d'immaginativa si richiede allo
stile, ossia all'esecuzione che all'invenzione. Anzi si può dire che lo
stile poetico, e nominatamente quello di Virgilio, sia un composto di continue,
innumerabili e successive invenzioni. Ogni metafora, ogni aggiunto che abbia
quella mirabile [2980]e novità ed efficacia ch'e' sogliono avere
in Virgilio, sono tante particolari e distinte invenzioni poetiche, come sono
invenzioni le similitudini, e richiedono una continua energia, freschezza,
mobilità, ricchezza d'immaginazione, e un concepir sempre vivamente e
quasi sentire e vedere qualsivoglia menoma cosa che occorra di nominare o di
esprimere eziandio di passaggio e per accidente. Anche in ogni altra parte dell'esecuzione,
cioè nelle immagini ec. e nella vena degli affetti anche in situazioni
che per la invenzione sono patetichissime ec. Virgilio ne' sei ultimi libri
è inferiore a se stesso, che che ne dica Chateaubriand. V. p.3717.
In verità questo affievolimento e
spossamento dell'immaginazione, del calore, dell'entusiasmo in un poema di
lungo spirito, non solo ci dee parer perdonabile, ma così naturale,
ch'egli sia quasi inevitabile anche ai più grandi e veri poeti. Massime
considerando quella continuità d'azione che si richiede all'immaginativa,
nel modo spiegato di sopra. Ma Omero, da niuno attingendo, non avendo esemplari
coll'uso e meditazione de' quali, se non altro, ristorasse le sue forze, si rinfrescasse,
e ripigliasse animo (come accade anche ai più originali poeti), senz'altro
nè fonte nè [2981]soccorso, nè modello, nè
sprone che se medesimo, la sua propria immaginativa e la natura, in uno anzi in
due interi poemi più lunghi di tutti quelli ch'essi poscia hanno
prodotti, non mostra mai nè quanto all'invenzione nè quanto allo
stile il menomo languore o isterilimento, ma dura fino all'ultimo colla stessa
freschezza, vivacità, efficacia, ricchezza, copia, impeto, così
intero di forze, così abbondante di novità, così fervido,
così veemente, così mosso ed affetto dalla natura, e dagli
oggetti che se gli presentano o ch'egli immagina, come nel principio.
Massimamente nella Iliade. Nella quale anzi la ricchezza, varietà, bellezza,
originalità e forza dell'invenzione tanto più s'accrescono,
quanto più si avanza, ed è maggiore nel fine che nel principio.
E veramente si può dire che Omero fu
molto più ricco del suo solo, che tutti gli altri poscia non furono del
loro proprio e dell'altrui accumulato insieme. Nè certo, secondo le
addotte considerazioni, dee parer poco maraviglioso e notabile, benchè
materiale, il dire che i poemi epici d'Omero sono più lunghi di [2982]tutti
quelli che da essi in uno o altro modo derivarono (poichè anche il
Paradiso perduto e la Messiade derivano pur di là), e che di essi in una
o altra guisa si alimentarono. Massime aggiungendo che in tutta la loro
estensione essi sono i medesimi, cioè sempre veri poemi, e sempre uguali
a se stessi, il che non si può neppur sempre dire di tutti gli altri
sopraddetti.
Par che l'immaginazione al tempo di Omero
fosse come quei campi fertilissimi per natura, ma non mai lavorati, i quali,
sottoposti che sono all'industria umana, rendono ne' primi anni due e tre volte
più, e producono messi molto più rigogliose e vivide che non
fanno negli anni susseguenti malgrado di qualsivoglia studio, diligenza ed efficacia
di coltura. O come quei cavalli indomiti, lungamente ritenuti nelle stalle, che
abbandonati al corso, si trovano molto più freschi e gagliardi de'
cavalli esercitati e addestrati, dopo aver fatto un doppio spazio. Tanto che,
considerando la freschezza dello stile, delle immagini, della invenzione di
Omero nella fine della Iliade, par ch'ei non lasci di poetare [2983]e
non chiuda il poema, se non perch'ei vuol così, e per esser giunto alla
meta ch'ei s'era prefisso, o perchè ogni opera umana dee pure aver
qualche fine, ma che fuori di questo caso, egli avrebbe ancora e spirito e lena
per seguire, senza pur posarsi, a correre ancora non interrottamente
altrettanto e maggiore, anzi non determinabile spazio. E che l'opera sua riceva
il suo termine, ma la ricchezza e copia della sua immaginativa non sia di gran
lunga esaurita, anzi sia poco meno che intatta; e che il suo corso finisca, ma
non il suo impeto.
E par che la natura ancor vergine dalla
poesia (siccome vergine dalle scienze e dalla filosofia ec. che distruggono l'immaginazione
e l'illusioni ch'essa natura ispira) le somministrasse in quel tempo tanta
copia d'immagini e sentimenti che non avesse quasi alcun fondo, e a rispetto di
cui sembri povera e scarsa quella che i più grandi poeti trassero poscia
in qualunque tempo dalla natura già molto studiata e imitata.
(16-17. Luglio. 1823.)
Alla p.2974. Cervello (cerebellum),
cerveau, cervelle da cerebrum. V. p.3618. Crivello (cribellum
come flabellum da flabrum) diminutivo di cribrum. I franc.
crible, gli spagn. [2984]criva. Cerebro, celabro, cribro,
cribrare ec. per crivellare ec. non sono voci volgari, ma tolte dal
latino dagli scrittori. Così lo spagn. celebro, in vece di cui
volgarmente dicono sesso. Così pure il nostro moderno e tecnico cerebello.
Trivello o trivella (Forcell. in terebra) voci nostre
volgari, onde nella Crusca trivellare, sono quasi terebellum o terebella
diminutivo del lat. terebra, come cerebellum e cervello di
cerebrum. Vecchio, viejo, vieil sono indubitatamente diminutivi di vetus,
come pecchia, aveja, abeille da apecula. Forse da vetulus o
da veculus volgarmente contratto da vetusculus. Vieux forse
è lo stesso che il positivo vetus. Vedi per tutte le soprascritte
voci il Forcellini e il Glossario, se hanno nulla a proposito.
(17. Luglio 1823.). V. p.3514. 3557.
Trapano, trapanare, trépan, trépaner – ec.
(17. Luglio 1823.)
Usitari e altri tali frequentativi o
diminutivi da me notati poscia qua e là, sono da aggiungersi a quelli
che io notai già tutti insieme per dimostrare che molti verbi hanno il
frequentativo in itare senza avere il continuativo in tare,
contro il Forcellini che spesso dice quello esser derivato da questo. [2985]
(17. Luglio 1823.)
Se molti continuativi latini non hanno una
significazione continuativa del verbo originale, ma uguale o poco diversa da
questo, ciò non toglie che la virtù della loro formazione non sia
veramente continuativa, e che la proprietà loro non sia tale,
benchè non sempre osservata e custodita dagli scrittori latini, e in
alcuni verbi non mai, per le ragioni dette altrove. Che se questa obbiezione
valesse, ella varrebbe nè più nè meno contro coloro che
chiamano quei verbi frequentativi, non trovandosi ch'essi abbiano sempre o
tutti un significato diverso da' verbi originali, e varrebbe anche circa quei medesimi
verbi in itare ch'io dico esser veramente frequentativi di formazione.
P.e. il Forcell. in parito dice ch'egli è frequentativo di paro
(e per formazione può infatti esser non meno frequentativo che continuativo),
soggiungendo et eiusdem fere significationis. Così in haesito,
e spessissimo. Dunque la detta obbiezione farebbe tanto contro i passati
grammatici e le passate denominazioni e teorie de' verbi formati [2986]da'
participii in us, quanto contro di me e delle mie denominazioni,
distinzioni e teorie. Se tali verbi non hanno senso continuativo neanche
l'hanno frequentativo. Dunque l'obbiezione non è più per me che
per gli altri.
(17. Luglio 1823.)
È notabile che tutte le maniere di
verbi frequentativi o diminutivi italiani da me altrove enumerati, come saltellare,
salterellare ec. sono immancabilmente e solamente della prima coniugazione,
ancorchè il verbo originale e positivo sia d'altra coniugazione, come scrivere,
onde scrivacchiare ec.; nè più nè manco che in
latino tutti i continuativi e frequentativi o diminutivi (se non forse pochi
anomali) del genere ch'io ho preso ad esaminare, da qualunque coniugazione essi
vengano; ed anche altri verbi derivativi, sieno diminutt. sieno frequentatt.
sieno l'uno e l'altro insieme, ec. di verbi originali ec. con diverse
formazioni, che non spettano alla mia teoria, ed istituto, come ustulare, misculare
di cui altrove ec. pandiculari, vellicare (v. p.2996. marg.),
sorbillo, cantillo, conscribillo ec. cavillor, missiculo, claudico,
ec. Anche in francese tali verbi diminutivi ec. e così in ispagnuolo mi
par che sieno della 1. coniugazione.
(17. Luglio 1823.)
Scambio del v in g, del quale
ho detto altrove. Nuvolo (dal latino nubilum) - nugolo. Pagolo
per Pavolo o Paulo (spagnuolo Pablo).
(18. Luglio. 1823.)
Dico che nella formazione dei continuativi
da' verbi della prima, l'ultima a del participio si cambia in i.
Da mussatus mussitare. Ed aggiungo che i verbi della prima non hanno se
non questo o continuativo o frequentativo, e non un altro frequentativo che
verrebbe a essere in ititare. Si eccettuino [2987]i verbi il cui
participio è dissillabo, come do, flo, no-datus, flatus, natus, i
quali non mutano l'a in i, ma la conservano. Datare, flatare,
natare. E da questi participii si potrà anche fare un distinto
frequentativo in itare, sebbene ora non mi sovvenga esempio al
proposito.
(18. Luglio. 1823.)
Alla p.2677. Anche il volgo e il discorso
familiare spagnuolo usa questo idiotismo del singolare dice per lo
plurale dicono. Nella Historia del famoso Predicador Fray Gerundio de
Campazas s'introduce un contadino chiamato Bastian Borrego a usar
queste frasi plebee disque, dizque per dicenque.
(18. Luglio 1823.)
Alla p.2976. J, J, J, J, J, J e J sono
tutti chiamati dai Grammatici participii perfetti della voce attiva di J, o J ec., e
non della media, ma contratti dai due primi.
(18. Luglio 1823.)
La gioventù non era fra gli antichi
un bene inutile, e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè
la vecchiezza era un incomodo e uno [2988]svantaggio che niun bene, niun
comodo, niun godimento togliesse, e niuna privazione recasse seco. Quindi e
molto meno frequente che a' tempi nostri era il numero di quelli che in
gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si trovano
commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire
Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Perocchè al presente le
contrarie cagioni producono effetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e
nulla ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare il suo desiderio, e
occupare la sua forza vitale, adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani
suicidi oggidì che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma giovani
e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per la vecchiezza, e poco, o meno
ferventemente e impetuosamente e smaniosamente, desidera. Quindi è
così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi miracolo.
E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a
una vita, ch'ei si può ancora promettere, [2989]di molti anni. Il
vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e rinunzia a
pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi appena e forse
neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur si
troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche
caso ove la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte
più trista, e sicura. Ma neanche nell'estreme sventure è costume
de nostri vecchi il ricorrere volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni
a quello che ho detto altrove circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la
cura della vita crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età
scema il valore d'essa vita.
(18. Luglio 1823.)
Alla p.2870. Come la nazion francese
è tra tutte quelle europee che si chiamano meridionali quella che
più partecipa del settentrionale sì per clima, come per indole,
costumi eccetera[41]
così la lingua francese è di tutte le figlie della latina, o
vogliamo dire delle meridionali colte, quella che ha più del
settentrionale sì per la natura, asprezza ec. dei suoni, come per [2990]la
proprietà ed indole della dicitura, forma, struttura ec. E si può
dire che per l'uno e per l'altro rispetto essa lingua, siccome la nazione che
la parla tenga il mezzo, e sia quasi un grado e un anello fra le meridionali e
le settentrionali europee colte. Dico per l'uno e per l'altro rispetto,
cioè per li suoni e per l'indole. Le quali due cose sono sempre analoghe
e corrispondenti fra loro, cioè tale è sempre l'indole di una
lingua perfetta qual è quella de' suoni materiali ch'ella adopera. E la
varietà medesima che si trova fra i suoni di due lingue d'una medesima
classe, o di due lingue di classi diverse, o delle lingue di due classi (come
settentrionale e meridionale), si troverà sempre fra i caratteri e i geni
delle medesime lingue o classi, purch'elle sieno perfette, e ben corrispondenti
all'indole della nazione, il che sempre accade quando una lingua è
perfettamente sviluppata, e senza di che non può essere che una lingua,
ancorchè [2991]colta, abbia perfettamente sviluppato, o conservi,
il suo vero, conveniente, naturale e proprio carattere.
(19. Luglio 1823.)
Alla pag.2974. Intorno a questo verbo urito,
e al verbo quaerito di cui diffusamente altrove, e ad altri simili,
è da discorrere come segue. Puoi vedere la p.3060 1. e le note
grammaticali del Mai a Cic. de Rep. I. 5. p.18. Gli antichi latini dissero frequentissimamente
s per r. Veggasi il Forcell. in S, ed R, e in Quaeso.
Quindi, dicendo essi uso per uro, dissero eziandio ussi
per uri preterito perfetto (raddoppiando la s dopo vocale lunga,
del qual uso v. Quintil. ap. Forcell. in S), ed usitum per uritum
che sarebbe stato il vero supino di uro. O quando anche non
iscambiassero la s e la r nelle altre voci di uro, le
scambiarono certo nel perfetto nel supino e nel participio in us, per
modo che mancando il perfetto il supino e il participio regolare, non
restò in uso se non il detto ussi ed usitus e usitum,
contratto però questo in ustus e ustum, come positus-postus,
e come quaestus us e chiesto, quisto ec. da quaesitus (del
che vedi la p.2894-5.). [2992]Similmente da haereo, haurio, sia
che dicessero anticamente, haeseo, hausio, o sia come si voglia, certo
è che in luogo dei regolari haeri o haerui, haeritum haeritus,
hauri o haurii o haurivi, hauritum, hauritus, fecero haesi,
hausi hausitum hausitus, che oggi rimangono in luogo di quelli, contratto
però hausitum ed hausitus in haustum ed haustus,
come appunto usitus in ustus. E fecero similmente haesitus
il quale oggi non rimane, ma è dimostrato da haesitare, che
regolarmente dovrebb'essere haeritare. Haesum, onde haesurus ec.
o è contratto diversamente o anomalo, come haesi per haesui
(o haerui), il quale però fu trovato da Diomede in non so quale
antico (Forcell. Haereo fin.). Così dite di hausum ed hausus.
Ma in conferma di questo mio discorso, e di tutto quanto io dico circa questi
tali continuativi, come urito, quaerito, ed anche legito, agito e
tanti altri che non sembrano poter derivare da participii, e in conferma di
quanto altrove ho ragionato degli antichi e regolari participii e supini ora
perduti, ma dimostrati in parte da continuativi e frequentativi, eccovi appunto
[2993]haurivi o haurii, hauritu, hauriturus, hauritus
(come appunto uritus perduto, onde uritare; quaeritus perduto,
onde quaeritare, querido, chéri ec.) usati anch'essi in vece di hausi,
haustu, hausturus (o, come Virg. hausurus), haustus;
bensì da autori, la più parte, recenti, perchè, come ho
detto, l'antica pronunzia preferiva la s. Ma la regolare era pur questa,
e il vederla usata da' più moderni e più rozzi, e il vederla
convenire coi continuativi antichi (come urito, quaerito), i quali da
essa e non d'altronde derivano, persuade ch'ella fosse conservata continuamente
nelle bocche del volgo, fino a passare nelle lingue moderne, giacchè
p.e. querido chéri ec. non sono altro che il regolare e originario quaeritus
per quaesitus, onde l'antico quaeritare proprio de' Comici Plauto
e Terenzio, il qual verbo fa fede al detto participio, che conservatosi nelle
lingue moderne, è perduto nel latino.
Del resto, io non so, come ho detto, se gli
antichi dicessero anche uso, haeseo, hausio ec. per [2994]uro ec.
come dissero ussi, hausi, haesi ec. per uri perfetto, hauri
o haurii ec. Ben so che siccome dissero quaesii, quaesivi, quaesitus,
quaesitum per quaerii, quaerivi, quaeritus, quaeritum che sono
affatto perduti, così dissero quaeso per quaero, e tutto
questo verbo profferirono colla s siccome colla r, benchè
questa in molte voci di quaero non sia perduta, anzi col tempo sia rimasta
in esse voci la sola pronunzia della r, e non quella dell's.
Dalle quali cose è seguìto che di quaero e quaeso
si facciano dai lessicografi ec. due verbi, essendo un solo, e che quaero
si faccia anomalo (quaero is, sii o sivi, situm) e quaeso
difettivo (quaeso is, ii o ivi), quando in realtà il primo
(volendoli distinguere, che non si dee) sarebbe difettivo, e il secondo intero
e regolarissimo. Ma tornando al proposito, questo quaeso mi persuade che
si dicesse anche haeseo, hausio e così in ogni altra voce; e
così pure in molti altri verbi de' quali si dee discorrere nel [2995]modo
stesso che si è fatto di uro, haereo, haurio, quaero.
(19. Luglio. 1823.)
Alla p.2893. Chiedere vien da quaerere,
ed è propriamente (benchè con diverso significato) lo stesso che
il nostro chierere, siccome fedire verbo difettivo italiano, onde
fiedo, fiede ec. vien dal lat. ferire, ed è propriamente
lo stesso che il nostro fierere o ferere, onde fiéro, fiére,
fére (colla e larga) ec. usato dagli antichi nostri in alcune voci
in cambio dell'ital. ferire. V. la Crusca e il Buommattei ec.
(20. Luglio. 1823.)
Alla p.2891. Il Fischer nella prefazione
alla Grammat. Greca del Weller, ed. Lips. 1756. dice che i pleonasmi d'Omero
derivano dalla lingua ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo
è che quel pleonasmo di e simili,
da me notato altrove, e non osservato dal Fischer, può servire a spiegar
molti passi della Scrittura nei quali la parola giorno non serve che ad una
perifrasi, onde [2996]p.e. in die irae tuae, non vale altro che in
ira tua; cosa finora, ch'io sappia, non veduta dagl'interpreti, i quali
p.e. pensano che quel dies significhi il giorno del giudizio ec.
(20. Luglio. 1823.)
Alla p.2815. A questa categoria di verbi
(che forse si potrebbero chiamare continuatt. irregolari, tutti, come viso
is) spettano senza dubbio i seguenti. Occupo da ob e capio.
Veggasi la pag.3006-7. Obstino da ob e teneo, interposta
la s, come in ostendo che anticamente dovette dirsi obstendo
ed esser lo stesso che il più moderno verbo obtendo. Nè
è maraviglia che la prep. ob sia fatta seguire da una s
nella composizione per proprietà di lingua, o ch'esistesse anche
anticamente una prep. obs per ob; giacchè vediamo appunto ab
e abs, e nella composizione preporsi sempre alle voci comincianti per t
la prep. abs e non ab. Così anche fuor di composizione,
quando non s'usi la prep. a: perocchè convien dire p.e. o a te,
o abs te, non ab te. V. Forcell. in A, ab, abs, e
in Abs. V. p.3001. fine. 3696. Tornando al proposito è manifesto [2997]che
obstino, obstinatus vien da teneo, come ne viene pertinax,
pertinacia ec. che spettano alla stessa significazione. La e
è cangiata in i come appunto in pertinax e ne' composti
ordinari contineo, obtineo ec. Ed è notabile che laddove gli
altri verbi di questa categoria son fatti, come ho detto, da verbi della terza,
questo che indubitatamente appartiene a essa categoria, e non può esser
di senso più continuativo, è fatto da un verbo della seconda. V.
p.3020. Aucupo ed aucupor da avis e capio, come occupo,
e come Nuncupo da nomen e capio, se però non si
vuole che vengano da auceps aucupis quanto alla derivazione immediata. Anticipo
da ante e capio. Participo da pars e capio, come anticipo,
se non si vuol che venga da particeps cipis. Vociferor aris (forse anche
vocifero as) da vox e fero fers. Opitulo e opitulor
da ops e tuli di fero o di tollo di cui forse
è propriamente questo perfetto (v. Forcell. in Tollo fin.), o
piuttosto dall'antico tulo, tulis, tetuli, latum, verbo della terza, di
cui v. Forcell. in tulo.
[2998]In caso ch'opitulo
fosse fatto da tuli perfetto, ciò non sarebbe senza esempio in
questa categoria di verbi. Accubo ec. è dal perf. accubui
di accumbo. Fors'anche participo, anticipo, e così significo,
aedifico, e gli altri di cui a pag.2903. sqq. vengono dai perfetti cepi,
e feci di capio e facio, mutato l'e in i per
virtù della composizione, (come p.e. in colligo, corrigo, conspicio
ec. ec. da lego, rego, specio) e mutata la desinenza; onde da ciò
venga che in essi verbi manchi la i radicale de' loro temi, siccome
manca in molte voci formate dai detti perfetti, p.e. cepero, feceram ec.
Ma non lo credo, perocchè auspico e suspico che sono della
stessa forma di significo, participo ec. non possono venire dal perfetto
di specio, il quale è spexi, se pur non si volesse
supporre un antico e ignoto speci, analogo a feci, jeci ec.
Del resto i verbi da cui derivano i
soprascritti, hanno anche i loro continuativi fatti da participii, cioè capto
e tento.
Aspernor aris e asperno
as (giacchè aspernor si trova anche in senso passivo) da ad
e sperno is. (20. Luglio. 1823.). Consterno, as, avi, atum (il
Forc. per errore di stampa stravi atum, come apparisce dagli esempii) da
sterno is, e cum, ovvero da consterno is. Crepo as, forse
da crepo is. V. Forc. in Crepo, fine. V. p.3234.
[2999]Alla p.2906. Bell'effetto
fanno nell'Aminta e nel Pastor fido, e massime in questo, i cori, benchè
troppo lambiccati e peccanti di seicentismo, e benchè non vi siano
introdotti se non alla fine e per chiusa di ciascun atto. Ma essi fanno quivi
l'offizio che i cori facevano anticamente, cioè riflettere sugli
avvenimenti rappresentati, veri o falsi, lodar la virtù, biasimare il
vizio, e lasciar l'animo dello spettatore rivolto alla meditazione e a considerare
in grande quelle cose e quei successi che gli attori e il resto del dramma non
può e non dee rappresentare se non come particolari e individue, senza
sentenze espresse, e senza quella filosofia che molti scioccamente pongono in
bocca degli stessi personaggi. Quest'uffizio è del coro; esso serve
con ciò ed all'utile e profitto degli spettatori che dee risultare dai
drammi, ed al diletto che nasce dal vago della riflessione e dalle circostanze
e cagioni spiegate di sopra.
(21. Luglio. 1823.)
[3000]Delle cose veramente ridicole
nella società o negl'individui è ben raro trovar chi ne rida. E
s'alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l'aiuti a farlo, e che
gli dia ragione, o che pur senta la causa del suo riso. Gli uomini per lo
più ridono di cose che in effetto son tutt'altro che ridicole, e spesso
ne ridono per questo appunto che non sono ridicole. E tanto più ne
ridono quanto meno elle son tali.
(21. Luglio. 1823.)
Alla p.2922. fine. Alcune volte noi diciamo volere
anche di cose animate, anche degli uomini, ma relativamente a ciò
che non dipende dalla lor volontà, o che non può dipender da
volontà, o che anche è contrario affatto alla lor volontà;
e lo diciamo non solo per ischerzo, ma eziandio seriamente, in virtù
dell'idiotismo che ho preso a illustrare. P.e. il tale non vuole ancora
guarire, cioè, ancor non guarisce: e il verbo volere ridonda. Qua
si dee riferire un luogo di Platone nel Sofista ed. Astii t. 2. p.246. [3001]v.
(21. Luglio. 1823.)
Alla p.2864. Stipula, da stipa
voce inusitata, restando il diminutivo, dal quale noi stoppia, i
francesi esteuble onde éteule. V. Forcell. in stipula, stipa,
stipulor ec. e il Gloss. se ha nulla.
(21. Luglio 1823.)
Continuativi barbari. Dilatar spagn.
da differo dilatus. V. la Crusca. I francesi dilayer. Trovo nel
moderno spagn. dilatar anche per denunziare, accusare, da defero-delatus.
Decretare, decretar, décréter da decerno-decretus. Diviser franc. da
divido-divisus. Libertar spagn. quasi liberitare o liberatare.
Tal contrazione non è maravigliosa in questo caso, e fors'è
antica. Libertus a non sembra che contrazione di liberatus a.
Vedi Forcell. e Glossar. se hanno nulla.
(21. Luglio. 1823.)
Alla p.2996. fine. Che obstino venga
da obs e teneo v. Forcell. in obstinatus principio e in obscenus
principio. Se anche obscenus viene da obs, notisi l'analogia.
Perocchè nella composizione, alle parole [3002]comincianti per c,
q, t non si premette mai la prep. a o ab ma sempre abs.
Così dunque se obscenus viene da cano o da caenum,
bene sta che non si dica obcenus ma obscenus. Oscillo, secondo
me, è da obs e cillo as, e vale quasi obciere,
obmovere, obcire. Dico poi cillo as, non cillo is come il
Forc., perchè è chiaro che nel luogo di Festo cillent (optativo)
è voce della prima; perchè cillo dev'essere stato un
diminutivo di cio o di cieo, come conscribillo ec. (v. la
p.2986.) che sono della prima, benchè conscribo ec. sieno della
3a; perchè veggo oscillans, oscillatio, e il nostro oscillare
ec. e lo stesso Forc. dice oscillo as, non is. V. in Forc. tutte queste
voci e oscillum e cilleo. Se oscillo as fosse fatto da cillo
is o cilleo es, esso apparterrebbe a questa nostra categoria, come obstino
as, da teneo es, ec. Non pare che il Forc. si sia accorto che cilleo
o cillo spetta indubitatamente a cio, o cieo. E
così dunque altresì ben si dice ostendo cioè obstendo,
obstino non obtino. I più moderni trascurarono questa regola
e dissero obtendo, obtineo ec. In luogo del qual ultimo verbo pare che
gli antichi dicessero obstineo, in significato però di ostendo.
V. Forcell. in obstinet. E forse
molti verbi o voci latine composte comincianti per os, le quali si
dicono formate dal nome os, non lo sono infatti che da obs, come
p.e. oscen inis che si dice fatto da os e cano (quasi si
cantasse mai con altro che con la bocca), viene forse veramente da obs e
cano. Infatti occinere cioè obcinere (che secondo
l'antica regola sarebbe stato obscinere, e quindi oscinere come ostendere,
il quale anch'esso da taluno è scioccamente derivato da os, in
manifesto dispetto del significato) si diceva degli uccelli d'augurio, e dal
modo in cui Livio l'adopra par che questa voce fosse solenne in tal [3003]proposito.
V. Forcell. in occino, occento, occentus, occano, obcantatus, obcanto.
Io dubito anche molto che quelle voci che si dicono derivate da sursum
contratto in sus (eccetto susque) come sustineo, sustollo,
suspendo, suspicio ec. ec. vengano infatti da sub (terza
preposizione terminata in b, come ob ed ab), e sieno
originariamente substineo, substollo ec. introdotta la s per
proprietà di lingua; e vagliano tener di sotto, innalzar di sotto,
cioè esprimano l'azione che si fa di sotto in su, come in ispagn. subir
non vale già scendere o andar sotto, ma salire,
cioè andare di sotto in su. Così spesso il latino subire.
V. Forcell. nel quale troverai ancora subvenio per supervenio. V.
p.3558. Subrepere nel luogo di Plinio cit. dal Forc. v. Sauroctonus,
non è propriamente altro che repere di sotto in su, poichè
questo è (s'io ben mi ricordo) quel che fa la lucerta nell'Apollo
Saurottono del museo pio-clementino, la quale non repit clam, ma
scopertamente, e non iscende, ma salisce su per un albero. Plinio poi
usò il tema repere come appropriato alla lucerta, ch'è
quasi un reptile. Il detto Apollo è certo una copia di quel di
Prassitele, di cui Plinio. Del resto l'inserimento della s trovasi
ancora dopo altre preposizioni, ed appunto al caso nostro fanno destino
e praestino fratelli carnali di obstino, fatti da de o prae
e da teneo (v. Forc. in Destino e Praestino) e non
già da un sognato stino, come vogliono alcuni. E questi due verbi
eziandio, spettano alla categoria di cui parliamo, massime che essi, e [3004]specialmente
destino hanno forza tutte continuativa.
(21. Luglio. 1823.)
Frequentissimo nell'italiano scritto, e
più nello spagnuolo scritto e parlato si è l'uso del verbo andare,
andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc.
in eo is, col. 3. princip.), Non ibo inulta. Notate che noi
abbiam preso indubitatamente quest'uso dagli spagnuoli (infatti esso è
frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri spagnuolismi: nei 500 o
300isti, non si trova, ch'io mi ricordi, o mai o quasi mai). E Seneca appunto
è spagnuolo. La frase dell'egizio Claudiano qui vindicet ibit,
cioè erit, è d'altro genere, perchè nè gli
spagnuoli nè gl'italiani non usano andare per essere se
non seguìto effettivamente o potenzialmente da un aggettivo che ha forza
di predicato.[42]
Qua si deono forse riferire le frasi, andar la bisogna, la cosa ec. così
andò il fatto, così va per così è, va bene,
come va la salute ec. ec. V. i Diz. francesi e spagnoli.
(21. Luglio. 1823.). V. p.3008.
[3005]Alla p.2844. Così lo
spagn. avistar. - A questo discorso appartengono il franc. viser, deviser, francese
antico, per s'entretenir familièrement etc. (V. il Gloss. Cang.
in Visores, 2.) e l'ital. divisare, il quale però ancora,
almeno in alcuni sensi, può esser continuativo barbaro di divido-divisus
e lo stesso che il franc. diviser. V. la Crusca, e il Forc. e Gloss.
s'hanno nulla.
A questo proposito è da notare circa
la voce guisa, franc. guise, di cui altrove ho parlato, ch'ella
non è altro che come dir visa, e dovette da principio significare
aspetto, quel ch'apparisce e si vede, forma, onde poi modo, maniera,
façon. Del primo significato e della forma ch'ebbe primieramente questa
voce ne fanno fede il nostro divisa sust.[43] (il
quale non credo che venga da divisare per variare); il francese devise;
divisato per de-formato, contraffatto, déguisé, travestito, che
il Salvini disse barbaramente diguisato;[44] divisamento
per assisa. Guisar in ispagn. è vestire ec. Ma vedi i Diz.
spagn. Travisare, travisato, travisamento, traviso vagliono travestire,
quasi traguisar. Svisare vedilo nella Crusca. Veggasi il Gloss. se ha
nulla.
(21. Luglio 1823.)
[3006]Suso, giuso.
Così i più antichi latini per sursum deorsum. V.
Forcellini in Susum ec. e il Gloss. se ha nulla.
Alla p.2814. Vindicare, indicare che
risponderebbe forse a indicere com'educare a educere. Ma
si può pur dubitare che quello venga da vindex icis, questo da index
icis;[45]
e così iudicare da iudex icis, educare da un e-dux
ucis, (in senso reciproco come redux da reduco) jugare
da jux o junx jugis ch'esiste oggidì ne' composti coniux
ec. come ho detto altrove. E così si può molto dubitare che tutta
questa categoria di verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti, non da' verbi
originarii a dirittura. In ogni modo, posto quello che ho congetturato altrove,
che tali nomi, come dux, dex (iu-dex, in-dex ec.), ceps (parti-ceps,
au-ceps ec.), fex (arti-fex ec.), spex (aru-spex
ec.), fer (luci-fer ec.), e simili, sieno anteriori ai rispettivi
verbi, seguirebbe da ciò che i verbi di questa categoria formati da tali
nomi fossero fratelli e non figli di que' della terza corrispondenti, e sempre
sarebbe importante e a proposito nostro il notare come di due verbi fatti da
una radice, quello [3007]che ha o che da principio ebbe senso
continuativo, sia della prima coniugazione, e l'altro della terza ec. Si
può anche discorrere in questo modo. Educare può venire da
dux, aggiunta la preposizione al solo verbo, e non al nome; onde non
è necessario supporre un nome composto edux. Basta il nome
semplice. Così sacrificare (p.2903.) può venir da un sacrifex
ed anche dal semplice fex. Così occupare (p.2996.)
può venire da un occeps occupis (come auceps aucupis onde aucupare),
ovvero occeps occipis che sarebbe il medesimo (giacchè la
mutazione scambievole dell'i ed u in questi tali nomi è
ordinarissima siccome in ogni altro caso; e quindi mancipium e mancupium
etc.), può venir dico da questo nome composto, ovvero dal semplice ceps.
Mancipo o mancupo, secondo questo discorso, non verrà da manus
e capio, ma da manceps ipis, che anticamente si dovette anche dir
manceps cupis. V. p.3019. fine. Opitulare (p.2997.) verrà
da opitulus. E così, se non tutti, almeno una gran parte de'
verbi di questa categoria.[46].
(22. Luglio. 1823.)
[3008]Alla p.3004. fine. Congiunto
coi participii passivi il verbo andare appo gli spagnuoli fa quasi
l'officio di verbo ausiliare e le veci di essere, come appo noi il verbo
venire (venire ucciso ec. per essere ucciso, ed è
anche dell'Ariosto: e vedi la Crusca): ma quello significa ordinariamente una
passione più continua o durevole. Non so se si direbbe fulano
andò muerto o matado per fuè matado.
(22. Luglio 1823.)
Alla p.2953. Così ci accade nello
apprendere o appresa che abbiamo alcuna lingua straniera; così ci accade
dico in ordine a riportare al corrispondente carattere del suo alfabeto l'idea
di que' suoni che non si trovano nella nostra lingua, o che non sono espressi
nel nostro alfabeto distintamente dagli altri, o ch'essendo composti sono
però espressi nell'alfabeto di quella lingua straniera con un carattere
particolare, sia perchè tal composizione di suoni non s'usi nella nostra
lingua, e molto s'usi in quell'altra, sia che la nostra scrittura la significhi
con più d'un carattere, e quella straniera con un solo (come la greca il
p ed s con ). Del che
potete vedere la p.2740. seqq. 2745 fine - 46, e [3009]segg.
(22. Luglio 1823.). V. p.3024.
Alla p.2841. Lo stile e il linguaggio
poetico in una letteratura già formata, e che n'abbia uno, non si
distingue solamente dal prosaico nè si divide e allontana solamente dal
volgo per l'uso di voci e frasi che sebbene intese, non sono però adoperate
nel discorso familiare nè nella prosa, le quali voci e frasi non sono
per lo più altro che dizioni e locuzioni antiche, andate, fuor che ne'
poemi, in disuso; ma esso linguaggio si distingue eziandio grandemente dal prosaico
e volgare per la diversa inflessione materiale di quelle stesse voci e frasi
che il volgo e la prosa adoprano ancora. Ond'è che spessissimo una tal
voce o frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo, e prosaica,
anzi talora affatto impoetica, anzi pure ignobilissima e volgarissima in un
altro modo. E in quello è tutta elegante, in questo affatto triviale,
eziandio talvolta per li prosatori. Questo mezzo di distinguere e separare il
linguaggio d'un poema da quello della prosa e del volgo inflettendo o
condizionando diversamente [3010]dall'uso la forma estrinseca d'una voce
o frase prosaica e familiare, è frequentissimamente adoperato in ogni
lingua che ha linguaggio poetico distinto, lo fu da' greci sempre, lo è
dagl'italiani: anzi parlando puramente del linguaggio, e non dello stile,
poetico, il detto mezzo è l'uno de' più frequenti che s'adoprino
a conseguire il detto fine, e più frequente forse di quello delle voci o
frasi inusitate.
Or questa diversa e poetica inflessione e
pronunzia de' vocaboli correnti, che altro è per l'ordinario, se non
inflessione e pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell'antico
discorso, ed ora andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo
che quelle parole così pronunziate e scritte non altro sono veramente
che parole antiche e arcaismi, in quanto così sono scritte e
pronunziate? nè altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze,
voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella riflessione
di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p.131-2. Certo questa diversità
d'inflessione per la più parte non è se [3011]non quello
ch'io dico: così ne' poeti greci, così ne' latini (più
schivi però dell'antico, e quindi il loro linguaggio poetico è
assai meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che il greco),
così negl'italiani. Perocchè non è da credere che la
inflession d'una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più elegante
o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più
conforme all'etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno
trita dall'uso familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo
ricercata. (Anzi bene spesso è trivialissima l'inflessione regolare ed
etimologica, ed elegantissima e tutta poetica la medesima voce storpiata, come
dichiaro in altro luogo). E questo non esser trita, nè anche ricercata,
ma pur bene intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale
inflessione della medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto o l'infletterla
secondo questo fa ch'ella non riesca trita all'universale, ma difficilmente
può far ch'ella e non paia ricercata e sia bene intesa da tutti. Oltre
ch'ella riesce anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto
è proprio. In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio
e fonte al linguaggio poetico, e all'eleganza qualunque. Lo vediamo noi
italiani in Dante, dove le [3012]voci e inflessioni veramente proprie di
dialetti particolari d'Italia fanno molto mala riuscita, nè la poesia
nostra, nè verun savio tra' nostri o poeti o prosatori ha mai voluto
imitar Dante nell'uso de' dialetti, non solo generalmente, ma neppure in ordine
a quelle medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui adoperate. Circa l'uso
e mescolanza de' dialetti greci nella inflessione delle parole appresso Omero,
non volendo rinnovare le infinite discussioni già fatte da tanti e tanti
in questo proposito, solamente dirò che o le circostanze della Grecia e
d'Omero erano diverse da quelle che noi possiamo considerare, e quindi per
l'antichità ed oscurità della materia non potendo nulla
giudicarne di certo e di chiaro, niuno argomento ne possiamo dedurre; ovvero (e
così penso) quelle inflessioni che in Omero s'attribuiscono a' dialetti,
e da' dialetti si stima che Omero le prendesse, o tutte o gran parte erano in
verità proprie della lingua greca comune del suo tempo, o d'una lingua,
o vogliamo dir d'un uso più [3013]antico ancora di lui; dalla
qual lingua comune, o fosse più antica, o allora usitata, Omero tolse
quelle inflessioni ch'egli si stima aver pigliato da questo e da quel dialetto
indifferentemente e confusamente. Non volendo ammetter nulla di questo,
dirò che in Omero la mescolanza de' dialetti dovè riuscir
così male come in Dante. Circa i poeti greci posteriori, i quali tutti
(fuor di quelli che scrissero in dialetti privati, come Saffo, Teocrito ec.)
seguirono interamente Omero, come in ogni altra cosa, così nella lingua,
e da lui tolsero quanto il loro linguaggio ha di poetico, cioè
della sua lingua formarono quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia
linguaggio poetico comune, la questione non è difficile a sciogliere.
Perocchè quelle inflessioni ch'essi adoperavano, benchè proprie
di particolari dialetti, essi non le toglievano da' dialetti ma dal dialetto o
linguaggio Omerico, di modo ch'elle riuscivano eleganti e poetiche, non in
quanto proprie di privati dialetti, ma in quanto antiche ed Omeriche; ed erano
bene intese [3014]dall'universale della nazione, nè parevano
ricercate perchè tutta la nazione benchè non usasse familiarmente
nè in iscrittura prosaica le inflessioni e voci Omeriche, le conosceva però
e v'aveva l'orecchio assuefatto per lo gran divulgamento de' versi d'Omero cantati
da' rapsodi per le piazze e le taverne, e saputi a memoria fino da' fanciulli.[47] Il
che non accadde a' poemi di Dante, il quale non fu mai in Italia neppur poeta
di scuola, come Omero in Grecia presso i grammatisti medesimi, o certo
presso i grammatici (vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p.583. not.
5.); nè il dialetto o linguaggio poetico italiano è o fu mai
quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d'alcuni pochi e particolari
poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli Uberti, l'autore del Quadriregio
Federico Frezzi, ed alcuni dell'ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua
del Petrarca è quella di Dante, nè da lui fu presa, nè
punto si serve de' particolari dialetti.
Non potendo dunque i dialetti somministrare
inflessioni rimote dall'uso corrente [3015]che siano adattate al
linguaggio poetico, resterebbe per allontanar le voci comuni dalla prosa e
dall'uso, che il poeta le ravvicinasse alla etimologia ed alla forma ch'elle
hanno nella lingua madre, qualvolta nell'uso comune e prosaico elle ne sono
lontane. Questo mezzo è possibile e buono e spesso adoperato da' poeti
quando la nazione è già colta e dotta, e la letteratura nazionale
già formata. Ma ne' principii ciò è ben difficile e
pericoloso, prima perchè dalla nazione ignorante quelle voci in tal modo
rimutate corrono rischio di non essere intese; poi perchè presso la nazione
non avvezza un tal rimutamento corre rischio di saper di pedanteria (il qual
rischio dura eziandio proporzionatamente nel séguito) e di riuscire affettato.
Onde la stessa difficoltà che in quei principii si opponeva, come ho
detto (p.2836-7.) al dedur più che tante voci o frasi nuove dalla lingua
madre, quella medesima si opponeva a dedur da essa lingua inusitate inflessioni
e diverse dalle correnti.
[3016]Resta dunque per allontanar
dall'uso volgare le voci e frasi comuni, l'infletterle e condizionarle in
maniere inusitate al presente, ma dagli antichi nazionali, parlatori,
prosatori, o poeti usitate, e dalla nazione ancor conosciute, e conservate di
mano in mano negli scritti di quelli che cercando l'eleganza proccurarono di
scostarsi mediocremente dal volgo. Per le quali cose tali inflessioni non
producono nè oscurità nè ricercatezza, benchè
riescano pellegrine e rimote dall'uso, e perciò producano eleganza.
Questo mezzo è usitatissimo da' poeti quando la nazione è colta,
formata la letteratura, e quando la lingua scritta ha un'antichità. Con
esso principalmente si forma, si compone, si stabilisce a grado a grado un
linguaggio poetico che tuttavia più si va differenziando dal prosaico e
dal familiare, finchè giunge a quel punto di differenza, oltre il quale
non è bene ch'egli trapassi. Ma questo mezzo necessario all'eleganza,
necessarissimo a potere avere o formare un linguaggio distintamente
poetico e proprio della poesia, manca [3017]affatto ai primi scrittori e
poeti di qualsivoglia nazione, i quali non trovano antichità di lingua
scritta, non ponno se non debolmente, confusamente e scarsamente conoscere le
antichità della lingua parlata, e conoscendole ancora, o in quanto le
conoscono, non ponno se non molto parcamente adoperarla per non riuscire oscuri
e affettati alla nazione ignorante, e non assuefatta ad altro linguaggio
nazionale mai se non solo al suo corrente e giornaliero. Quindi è che
quei primi poeti e scrittori debbono necessariamente rivolgersi al linguaggio per
la più parte, e in genere, familiare, e conseguentemente eziandio
pigliare un stile che sappia sempre più o meno di familiare, in
qualsivoglia materia ch'ei trattino e genere di scrittura ch'egli esercitino.
(23. Luglio 1823.)
Come la lingua sascrita prodigiosamente
ricca, tragga e formi la sua ricchezza da sole pochissime radici, col mezzo del
grand'uso ch'ella fa della composizione e derivazione de' vocaboli, vedi l'Encyclop.
méthodique, Grammaire et littérature, article Samskret, particolarmente il
passo [3018]di M. Dow.
A questo proposito è notabile un
luogo che si legge nella Orazione delle lodi di Filippo Sassetti
(viaggiatore Fiorentino morto nel 1589.) detto nell'Accademia degli Alterati
l'Assetato, di Luigi Alamanni (diverso dal poeta) che sta nelle Prose
fiorentine, parte 1. vol. 4. ed. Venez. 1730-43. p.46-7. dove puoi vederlo, ed
è non molto prima del mezzo della Orazione. Di Filippo Sassetti puoi
vedere il Tiraboschi nella Storia della letterat. ital. e quelle lettere del medesimo
Sassetti ch'ei quivi accenna (ed. Rom. t. 7. par. 1.
p.240-1.). Dal detto luogo si raccoglie che quegli, se non erro, il
primo diede notizia all'Europa della lingua Sascrita, e molto veridica e
giusta; della qual lingua trattò poi diffusamente un altro nostro italiano,
il P. Paolino da S. Bartolommeo. Bibliot. Ital. n. 23. Novem.
1817. p.206.
(23. Luglio 1823.)
Fatum da for faris. - Dicha spagn.
(cioè detta) per fortuna (come desdicha sfortuna, dichoso,
desdichada ec.) da dicta (femmin. come , [3019], la
destinée) o da dictum, come da suspectus o suspectum (Gloss.
Cang.) sospetto, gli spagnuoli in femminino sospecha in vece di sospecho.
(23. Luglio 1823.)
Alla p.2845. Si vuol notare che avvisare
e altri verbi da me segnati alla p.3005. i quali vengono da videre
serbano la forma regolare e ordinaria della loro derivazione dal participio in us,
mentre il continuativo di video che trovasi nel buon latino, non serba
questa forma, e non è visare, ma visere, coi composti invisere,
revisere ec. Frattanto il franc. viser anche per significato
è vero continuativo di videre, ed è fatto da questo, non
dal verbo francese che gli risponde, cioè voir il quale non ha
mai la sillaba vis. Se però viser non viene da visage
o dalla parola vis che propriamente significa viso, benchè
ora non s'adoperi che nella dizione vis-à-vis.
(24. Luglio. 1823.)
Alla p.3007. Che tali verbi vengano da
cotali nomi piuttosto che da' verbi corrispondenti della terza, si può
anche dedurre dal vedere che praeceps, [3020]il quale sembra
venir dalla stessa radice di manceps auceps ec. (siccome anceps , il quale
fa pure ancipitis e non ancipis o ancupis), secondo quello
che altrove ne ho ragionato, avendo per suo genitivo praecipitis e non praecipis
o praecupis, troviamo che il verbo della prima coniugazione che a lui
corrisponde, non è praecipare nè praecupare, ma praecipitare.
Laddove manceps particeps ec. facendo mancipis, participis,
troviamo che si dice appunto mancipare, participare, e non mancipitare,
participitare. ec.
(24. Luglio. 1823.)
Il canto fermo è come la prosa della
musica: il figurato la poesia.
(24. Luglio 1823.)
Alla p.2997. Similmente da un verbo della
seconda è fatto sedare, il quale spetta indubitatamente a questa
categoria, e viene da sedeo, e per significato n'è un continuativo.
Sedare si trova ancora in significato neutro come sedeo, e questo
dev'essere il suo primitivo. Anche miseror aris - misereor eris della
seconda, se quello però non viene da miser. Ora paragonate quel
passo di Stazio: his [3021]dictis sedere minae,
cioè, dice il Forcell. (in Sedeo col. ult.) sedatae sunt,
ossia cessarono o si mitigarono, con quell'altro antico postquam
tempestas sedavit, cioè cessò o si mitigò.
Sedare pulverem ap. Fedro è sedere vel considere vel residere
facio. Sedare curriculum è sedere facio in quanto sedere
significa talora consistere, fermarsi. Il Forc. stesso spiega sedo
per facio ut aliquid residat. Vedilo in Sedeo e Sedo e paragona
insieme gli esempi e i significati dell'uno e dell'altro, ed anche dei composti
di Sedeo ec. Nota che sedeo ha anche il suo verbo formato dal participio
in us, cioè sessitare.
(24. Luglio. 1823.)
Alle molte cose da me dette altrove per
mostrare come la lingua greca non ha bisogno che di poche radici per essere ricchissima,
stante l'infinito uso ch'ella fa delle derivazioni e composizioni ec., e
com'ella moltiplichi in infinito i suoi vocaboli primitivi, ec. aggiungi la
voce media ch'ella ha, e il bellissimo uso ch'ella fa delle [3022]voci
passive de' suoi verbi. Perocchè di moltissimi verbi greci si può
dire che ciascuno di essi non è uno, ma tre, e serve per tre; avendo
l'attivo, il medio, e il passivo de' medesimi, ciascuno un significato diverso
proprio, oltre ai metaforici che ha per ciascuno di loro, e questi anche
diversi, cioè l'attivo diverso dal medio ec. O vogliamo dire che
ciascuno di tali verbi ha tre ben distinti significati propri, oltre ai
metaforici. Nè questi significati si possono confondere insieme,
perocchè ciascuno di loro corrisponde a una diversa e distinta
inflessione. Onde non si accumulano i significati in una stessa parola, e non
ne segue l'oscurità e ambiguità, nè la povertà e uniformità
che da tale accumulamento deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre non sono
in sostanza che un verbo, e non hanno che un tema. L'uso che i latini fanno del
passivo non è paragonabile a quello che ne fanno i greci (oltre che il
passivo latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran parte dell'ausiliare
sum). Appresso i quali il passivo [3023]ha sovente una
significazione propria attiva o neutra, diversa però da quella
dell'attivo, e da quella del medio ec. ec.
(24. Luglio. 1823.)
Necesso as è verbo di Venanzio
Fortunato. Vedi Forcell. e Gloss. Cang. Si potrebbe però credere che
fosse antico, e che necessus a um antico addiettivo fosse originariamente
participio di qualche verbo di cui necesso fosse continuativo. In tal
caso necessitare latino-barbaro e italiano, necessitar spagn. nécessiter
franc. sarebbe un frequentativo di questo tale ignoto verbo. In caso diverso,
se non vorremo ch'ei venga da necessitas, necessità, nécessité ec.,
diremo ch'egli è fatto da necessatus di necesso, colla
solita mutazione dell'a in i. Nótisi che nell'esempio di Venanzio
Fortunato non è chiaro se necesso sia attivo, e vaglia cogo,
come affermano il Forcell. e il Gloss. ovvero neutro, e vaglia abbisognare,
aver mestieri, indigere, poscere, come in ispagn. necessitar che si
costruisce col genitivo.
(24. Luglio. 1823.)
[3024]Alla p.3009. Altresì
qualunque suono, e qualunque vocabolo di una lingua straniera che adoperi
caratteri diversi da' nostri, se noi conoscendo quella lingua, non per sola
favella orale, ma per iscrittura, ed essendo atti ed avvezzi a leggerla,
concepiamo detto suono o vocabolo espressamente, col pensiero, esso ci si
rappresenta sotto la forma e ne' caratteri ch'egli ha nella lingua a cui
appartiene, ancorchè quel tal suono elementare sia comune anche alla
nostra, ed espresso nel nostro alfabeto con un proprio carattere. Così
sempre ci accade, fuori di qualche circostanza particolare, in cui la mente
voglia o debba concepire p.e. un vocabolo greco in caratteri latini ec. ec.
(24. Luglio. 1823.)
Alla p.2828. fine. Notate che anche la vera
pronunzia e la vera armonia della lingua latina è da gran tempo e
perduta e ignota. Contuttociò, quantunque sia certissimo che questo
rende assai difficile ai moderni di scrivere secondo la vera indole della
lingua, del giro, del periodo, della costruzione latina ec., nondimeno, siccome
la lingua latina è morta, così lo scrittore che oggi vuole
scrivere in [3025]latino (e così quelli che scrissero in latino
dal
(24. Luglio 1823.)
Occulto as, da occulo-occultus.
Notisi che occultus a um, adoprandosi sempre o quasi sempre
aggettivamente, (siccome fra noi occulto ec.), se noi non conoscessimo
il verbo occulo, lo terremmo certo per un aggettivo proprio e radicale,
e non per un participio. Quindi si può far ragione quanto verisimilmente
io dubiti e talora sostenga che altri tali aggettivi i quali hanno tutta l'estrinseca
sembianza di participii, ancorchè non usati mai come participii, e
benchè non si conosca verbo a cui spettino, tuttavolta non sieno originariamente
altro che participii di verbi o perduti o non conosciuti per loro radice.
(25. Luglio, dì di S. Giacomo. 1823.)
[3027]Alla p.2895. fine. Da sutus
ancora si potè fare sto, poichè anche l'u per
contrazione, nominatamente ne' participii, è solito a sparire, siccome
l'i. Da solutus gli spagnuoli soltar, noi sciolto,
omesso l'u. Da volutus e volutare noi voltare e volto,
e così ne' composti involto, rivolto ec. Così gli
spagnuoli buelto o vuelto: i francesi voûte (cioè
volta sostantivo) e quindi voûter, dove la sillaba ou
equivale al nostro ol, come in écOUter ascOLtare. Volta per fiata,
viene altresì da volvere ed è contrazione di voluta.
Così il sostantivo spagn. buelta cioè voltata, ritorno
ec.
(25. Luglio. 1823.)
Ho discorso altrove di quel luogo di
Cicerone nella Vecchiezza, dove dice che l'animo nostro, non si sa come, sempre
mira alla posterità ec. e ne deduce ch'egli abbia un sentimento naturale
della sua propria eternità e indestruttibilità. Ho mostrato come
questo effetto viene dal desiderio dell'infinito, ch'è una conseguenza
dell'amor proprio, e dal continuo ricorrer che l'uomo fa colla speranza [3028]al
futuro, non potendo esser mai soddisfatto del presente, nè trovandovi piacere
alcuno, e d'altronde non rinunziando mai alla speranza, fino a trapassar con
essa di là dalla morte, non trovando più in questa vita, dove
ragionevolmente fermarla. Ma il suddetto effetto non è naturale. Esso
viene dall'esperienza già fatta, che la memoria degli uomini insigni si
conserva, dal veder noi medesimi conservata presentemente e celebrata la memoria
di tali uomini, e dal conservarla e celebrarla noi stessi. Onde introdotta nel
mondo questa fama superstite alla morte, essa è stata ed è
bramata e cercata, come tanti altri beni o di opinione o qualunque, di cui la
natura niun desiderio ci aveva ispirato, e che sono comparsi nel mondo di mano
in mano per varie circostanze, non da principio, nè creati dalla natura.
Nei primissimi principii della società, quando ancor non v'era esempio
di rammemorazioni e di lodi tributate ai morti, neppur gli uomini coraggiosi e
magnanimi, quando anche desiderassero la stima de' loro compagni e contemporanei,
pensarono mai [3029]a travagliare per la posterità, nè,
molto meno, a trascurare il giudizio de' presenti per proccurarsi quello de'
futuri, o rimettersi alla stima de' futuri. Che se il tempo che ho detto, colle
circostanze che ho supposte non v'è mai stato, supponendo però
ch'egli sia stato o sia mai per essere in alcun luogo, certamente ne verrebbe
l'effetto che ho ragionato, cioè che niuno benchè magnanimo, benchè
insigne tra' suoi connazionali o compagni, avrebbe o concepirebbe alcuna cura o
pensiero della posterità.
(25. Luglio. dì di San Giacomo.
1823.)
La vita umana non fu mai più felice
che quando fu stimato poter esser bella e dolce anche la morte, nè mai
gli uomini vissero più volentieri che quando furono apparecchiati e
desiderosi di morire per la patria e per la gloria.
(25. Luglio, dì di San Giacomo.
1823.)
In molte altre cose l'andamento, il
progresso, le vicende, la storia del genere umano è simile a quella di
ciascuno individuo poco meno che una figura in grande somigli alla medesima
figura fatta [3030]in piccolo; ma fra l'altre cose, in questa. Quando
gli uomini avevano pur qualche mezzo di felicità o di minore infelicità
ch'al presente, quando perdendo la vita, perdevano pur qualche cosa, essi l'avventuravano
spesso e facilmente e di buona voglia, non temevano, anzi cercavano i pericoli,
non si spaventavano della morte, anzi l'affrontavano tutto dì o coi
nemici o tra loro, e godevano sopra ogni cosa e stimavano il sommo bene, di morire
gloriosamente. Ora il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto maggiore
è l'infelicità e il fastidio di cui la morte ci libererebbe, o se
non altro, quanto è più nullo quello che morendo abbiamo a
perdere. E l'amor della vita e il timor della morte è cresciuto nel
genere umano e cresce in ciascuna nazione secondo che la vita val meno. Il
coraggio è tanto minore quanto minori beni egli avventura, e quanto meno
ei dovrebbe costare. La morte che per gli antichi così attivi, e di vita,
se non altro, così piena, era talora il sommo bene, è stimata e
chiamata più comunemente il sommo male quanto la vita è
più misera. È ben [3031]noto che le nazioni più
oppresse, e similmente le classi più deboli e misere e schiave nella
società, sono le meno coraggiose e le più timide della morte, e le
più sollecite e gelose di quella vita ch'è pur loro un sì
gran peso. E quanto più altri le opprime e rende infelice la vita loro,
tanto ne le fa più studiose. E insomma si può dire che gli
antichi vivendo non temevano il morire, e i moderni non vivendo, lo temono; e
che quanto più la vita dell'uomo è simile alla morte, tanto
più la morte sia temuta e fuggita, quasi ce ne spaventasse quella
continua immagine che nella vita medesima ne abbiamo e contempliamo, e quegli
effetti, anzi quella parte, che pur vivendo ne sperimentiamo. E viceversa.
Or si applichi quel ch'io dico degli antichi
e dei moderni, agl'individui giovani e vecchi, in qualunque età delle
nazioni e del genere umano, e troverassi proporzionatamente la medesima
differenza e di circostanze e di effetti.
(25. Luglio 1823.)
[3032]Visto ital. e
spagn. participio di vedere, è manifesta contrazione di visitus,
come quisto, chiesto ec. di quaesitus (v. p. 2893. sqq.).
Così vista sustantivo verbale italiano e spagnuolo è
contrazione di visita voce latinobarbara per visitus us
cioè visus us. Così i composti di vedere hanno p.e.
avvisto, rivisto, provvisto ec. La voce vista per veduta,
e con altri sensi simili, ch'ella ha pure appresso di noi, è
latino-barbara. Vedila nel Glossario. E ch'ella sia contrazione di Visita,
com'io dico, e quindi visto sia contrazione di visitus, vedi il
Glossario medesimo in Vista 4. Ora consideriamo.
1. Il latino video da cui viene il
nostro vedere e lo spagn. ver fa nel participio, non visitus,
ma visus. Similmente viso is anomalo, che ne deriva. Ma secondo i
principii da me posti e dimostrati altrove, egli è certissimo che
l'antico participio di video dovette esser visitus (anomalo in
vece di viditus) come di doceo fu docitus. Quindi il
nostro italiano e spagnuolo visto è contrazione (usitatissima
anche nell'antico e buon [3033]latino: vedi p.2894. e seg.) dell'antico visitus;
egli è un latinissimo vistus anteriore a visus e
più regolare. Or come mai questo participio, perduto affatto nel latino
conosciuto, questo participio antichissimo, più antico e più
regolare dell'usato dagli scrittori latini, comparisce per la prima volta nel
latino-barbaro, e quindi si trova usitatissimo e comunissimo in due lingue
moderne figlie della latina, e trovasi in luogo del visus del latino conosciuto,
il qual visus nelle dette lingue non trovasi? Forse questo participio,
indipendentemente dal latino, è stato fatto in dette lingue dal verbo vedere
secondo le regole di coniugazione proprie, non del latino, ma di esse
lingue? Anzi secondo queste regole, egli è in esse lingue affatto
anomalo e irregolare e fuori d'ogni ordine; ei non ha in esse lingue veruna
origine; e in luogo di esso, la lingua italiana, secondo le regole delle sue
coniugazioni, dee dire veduto[48]
(lo spagnuolo dovrebbe dir veido o vido), e lo dice infatti ancor
esso. Ma questo secondo participio [3034]italiano, regolare e moderno
è molto meno volgare e più nobile, e quell'altro irregolare,
antico e latino è più plebeo, e forse, almeno in vari luoghi, il
solo che la plebe adoperi, siccome in ispagnuolo egli è unico sì
per la plebe che per la gente colta e per la scrittura. Donde pertanto questo
participio nel latino-barbaro, e nelle lingue moderne, s'ei non viene dal
latino conosciuto, nè dalle radici e regole d'esse lingue? Qual altro
mezzo ce lo può aver conservato, se non il volgare latino, conservatore
dell'antichità più che il latino scritto, e in questo presente
caso, più regolare eziandio?
2. Visito as si fa frequentativo di viso
is. Lasciamo stare s'egli sia di viso is, o piuttosto di video
il cui participio è lo stesso, cioè visus. Ma se l'antico
participio dell'uno o dell'altro o d'ambedue, fu visitus, il verbo visito
potrà eziandio esser continuativo di qual de' due si creda meglio, e
venire non da visus, o supino visum, ma da visitus, o
supino visitum. Da visus altresì nacquero parecchi verbi
di cui vedi la [3035]p.2843. seg. 3005. 3019. Se visito viene da visitus
di video, egli non sarà nè figlio di viso is,
nè diverso da esso per formazione e per significato originario (cioè
esso frequentativo, e viso continuativo), anzi sarà fratello di viso
is, formato nello stesso modo, cioè dal participio in us di video,
continuativo com'esso visere; ma sarà fratello maggiore,
perchè formato da un participio più antico e più regolare
di visus, o piuttosto sarà originalmente tutt'un verbo con viso
is, perchè formato da un medesimo participio, cioè visitus
detto anche visus per contrazione e anomalia.
3. Ho sostenuto pag.2932. segg. l'esistenza
del verbo pisare o pisere (tutt'uno con pigiare e pisar)
fatto da un pisus participio di pinsere. Ora coll'esempio di visto,
e coll'aiuto delle considerazioni ch'esso ci somministra, confermeremo quel
nostro discorso; e all'incontro con esso discorso confermeremo il presente. Il
participio regolare di pinso è pinsitus che tuttavia
sussiste. Ecco un gemello di visitus. Da pinsitus si fece per
contrazione [3036]e anomalia pinsus che altresì sussiste.
Ecco da visitus, visus che solo sussiste nel latino conosciuto.
Altresì da pinsitus si fece pistus che parimente sussiste.
Questa formazione suppone e dimostra due cangiamenti; primo la detrazione della
n, onde pisitus che non sussiste, ma si prova, come vedete. Ed
eccoci di nuovo a visitus. Secondo, la solita detrazione dell'i
(come in postus per positus), onde pistus ch'è il
solo participio conservato nelle lingue moderne (pesto, ital. pisto
italiano volgare, e spagnuolo), da cui pistare. Ed eccovi appunto il vistus
conservato nelle lingue moderne in luogo e di visitus e di visus,
onde avvistare ec. (v. la p.2844. 3005.). Ma siccome da pinsitus
si fece pinsus, detrattele lettere it, così appunto da pisitus
pisus, non altrimenti che pistus. E ciò nè più
nè meno che da visitus visus, non altrimenti che vistus.[49] E
siccome da visus anomala contrazione di visitus si fece l'anomalo
viso is in cambio di viso as, (qui si può vedere la
p.3005. circa il verbo viser avvisare ec.) così è curioso
a notare che anche da pisus anomala contrazione di pinsitus o pisitus,
si trovi o si creda fatto, oltre [3037]a piso as, e fors'anche in
luogo di questo, l'anomalo continuativo piso is.
E qui possiamo considerare quanti participii
in us abbia uno stesso verbo cioè pinso, o piuttosto
quanti ne sieno nati da un solo cioè pinsitus, parte esistenti,
parte dimostrati per ragione, e alcuno di questi dalla nostra teoria de' continuativi.
È bene il considerarlo perchè ciò serva d'esempio, e
quindi si faccia ragione quanto giustamente io dica che moltissimi verbi della
prima, che sembrano tutt'altro, sono veri continuativi di verbi o noti o ignoti
(e vedi a questo proposito p.2928-30.), e quanti che si credono puri aggettivi,
sono veri participii di verbi talora anche noti, ma non riconosciuti per loro
padri, (del che vedi la p.3026.).
Dunque da pinso Pinsitus 1 Pinsus
2 Pisitus 3 Pistus 4 Pisus 5 1. 2. 4. esistenti nel buon
latino. 3. dimostrato per ragione grammaticale da pistus. 5. dimostrato
da' continuativi pisare o pisere, pigiare, pisar. [3038]Chi
volesse che pisus non fosse da pisitus ma da pinsus,
detrattane la n come da pinsitus in pisitus, poco monterebbe.
Avremmo sempre e in pinsus e in pisus la detrazione dell'it a
dimostrare la derivazione di visus da visitus, e
l'anteriorità di questo, come anche di vistus che ha sola una
lettera meno di visitus, e non due.
(25. Luglio. dì di S. Giacomo.
1823.). V. la p. seg.
Alla p.2929. Così da vivo-vixi-victum
si dovette fare anche vixum e vixus. Lo deduco dal nostro antico visso,
il quale non è contrazione di vissuto perchè tal contrazione
non è dell'indole e uso della nostra lingua. Bensì vissuto
(che molti dicono e dissero più regolarmente vivuto, anche
trecentisti, come ho trovato io medesimo, non altrimenti che da riceVERE
riceVUTO) sembra venire da un altro, ed anche più antico e regolare
participio latino vixitus, cambiato l'i in u, come in latino
a ogni tratto (v. p.2824-5. principio, e 2895.), e come particolarmente in italiano
ne' participii passivi per proprietà, costume e regola della lingua (venditus-venduto,
redditus-renduto, perditus-perduto, seditus antico [3039]e regolare
- seduto, debitus da altra coniugazione - devuto, tenitus, antico
e regolare - tenuto, ceditus antico e regolare - ceduto.).
E qui è da osservare la conservazione
nel nostro volgare, di questo antichissimo vixus ignoto nel latino,
simile a quella di vistus, di cui veggasi p.3032-4. (25. Luglio. 1823.).
Sia che visso sia fatto dal supino vixum ignoto, o dall'ignoto participio
neutro vixus, in luogo del quale non si trova neppur victus a um (trovandosi
victum supino), sebbene dovette esservi, secondo quello che di tali
participii neutri ec. ho detto altrove. E infiniti ne conservano le lingue
figlie, che non si trovano nel latino scritto.
(25. Luglio, dì di S. Giacomo. 1823.)
Alla p. anteced. Chi poi volesse che pisere
non venisse da pisus (benchè pur se n'abbia un bellissimo esempio
in visere da visus, siccome ho detto), ma che (s'ei veramente
esistè) fosse lo stesso che pinsere, detratta la n come in
pistus, mi darebbe altresì poca noia. In tal caso pisare
non sarebbe fratello ma figlio di pisere; e certo esso e pisar e pigiare
verrebbero da pisus, come dimostrano gl'infiniti [3040]esempi che
della formazione di tali verbi della prima maniera da' participii in us
d'altri verbi, raccoglie la mia teoria de' continuativi ec. ec.
(26. Luglio. dì di Sant'Anna. 1823.). V. p.3052.
L'uomo in cui concorressero grande e colto
ingegno, e risolutezza, si può affermare senz'alcun dubbio che farebbe e
otterrebbe gran cose nel mondo, e che certo non potrebbe restare oscuro, in
qualunque condizione l'avesse posto la fortuna della nascita. Ma l'abito della
prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza
del risolvere, ed anche la fermezza nell'operare. Di qui è che gli
uomini d'ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre
prigionieri, per così dire, dell'irresolutezza, difficili a risolvere,
timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli nell'eseguire. Altrimenti essi
dominerebbero il mondo, il quale, perchè la risolutezza per se
può sempre più che la prudenza sola, fu ed è e sarà
sempre in balia degli uomini mediocri.
(26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.)
Alla p.2864. Avolo, abuelo, ayeul da avulus.
Noi abbiamo anche il positivo avo.
(26. Luglio. 1823.). V. p.3054. 3063.
[3041]Alla p.3014. Io credo per
certo che in qualunque modo, quelle inflessioni, voci, frasi ec. che in Omero
si credono proprie di tale o tal altro dialetto, fossero al suo tempo per
qualsivoglia cagione conosciute ed intese da tutte le nazioni greche, o se non
altro, da una tal nazione (come forse la ionica), alla qual sola, in questo
caso, egli avrà avuto in animo di cantare e di scrivere, e avrà
probabilmente cantato e scritto. Quanto agli altri poeti, se le ragioni che ho
addotte per ispiegare come, malgrado l'uso de' dialetti, essi fossero
universalmente intesi, non paressero bastanti, si osservi che effettivamente in
Grecia, siccome altrove, i poeti cessarono ben presto di cantare al popolo, (e
così pur gli altri scrittori), e il linguaggio poetico greco divenne
certo inintelligibile al volgo, dal cui idioma esso era anche più
separato che non è la lingua poetica italiana dalla volgare e familiare.
Scrissero dunque i poeti per le persone colte, le quali intendendo e studiando
tuttodì e sapendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, parodiandoli,
alludendovi a ogni tratto [3042]nella colta conversazione e nella
scrittura, intendevano anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio
poetico greco, benchè composto delle proprietà di vari dialetti.
Perocchè esso era tutto Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in
genere; cioè le inflessioni, le frasi, le voci che lo componevano, o
erano le identiche Omeriche (e tali erano in fatti forse la più gran
parte), o erano di quel tenore, di quella origine, derivate o formate da quelle
di Omero, o tolte dai fonti e dai luoghi ond'egli le trasse, e ciò
secondo i modi e le leggi da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo Omero
al popolo, e per il popolo composero, come i drammatici, poco o nulla
mescolarono i dialetti, e ne segue effettivamente che se talvolta il loro stile
è Omerico, come quello di Sofocle, il loro linguaggio però non
è tale. Esso è attico veramente, siccome fatto per gli Ateniesi,
se non forse nei pezzi lirici, i quali anche per la natura del soggetto e del
genere, sarebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In effetto Frinico appresso
Fozio (cod. 158.) conta fra' modelli, regole [3043]norme del puro e
schietto sermone attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in
quanto sono attici, perocchè questi talora per ischerzo o per
contraffazione mescolarono qualche cosa d'altri dialetti, e ciò non
appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici, forse, avendo rispetto al
gran concorso de' forestieri che d'ogni parte della Grecia accorrevano alla
rappresentazione dei drammi in Atene, non avranno avuto riguardo di usare
alcuna cosa d'altri dialetti. Ma generalmente si vede che il dialetto de'
drammatici greci è un solo. E del resto, siccome tra noi e ne' teatri di
tutte le colte nazioni, benchè la più parte dell'uditorio sia
popolo, nondimeno i drammi che s'espongono, non sono scritti nè in
istile nè in lingua popolare, ma sempre colta, e bene spesso anzi
poetichissima e diversissima dalla corrente e familiare ed eziandio dalla prosaica
colta; così si deve stimare che accadesse appresso a poco più o
meno anche in Grecia e in Atene, dove i giudici de' drammi che concorrevano al
premio, [3044]non era finalmente il popolo, ma uno scelto e piccol
numero d'intelligenti, e dove le persone colte fra quelle che componevano
l'uditorio, erano per lo meno in tanto numero come fra noi. V. il Viaggio d'Anacar.
cap. 70.
Altri poeti non drammatici si restrinsero
pure a tale o tal dialetto particolare, e per conseguenza scrissero a una sola
nazione o parte della Grecia, e questa si proposero per uditorio (com'è
verisimilissimo che facesse anche Omero); nè questi furono pochi, anzi
fra gli antichi furono i più. E si può dir che la totale,
confusa, indifferente, copiosa mescolanza de' dialetti nel linguaggio poetico
greco, e il seguir ciecamente la lingua e l'uso di Omero non sia proprio se non
de' poeti greci più moderni e nella decadenza della poesia, come
Apollonio Rodio, Arato, Callimaco e tali altri de' tempi de' Tolomei, quando
già la base della letteratura greca era l'imitazione de' suoi antichi
classici. Perocchè di Esiodo contemporaneo di Omero, o poco anteriore o
posteriore, non è maraviglia se il suo linguaggio si trova omerico:
spieghisi l'uso di [3045]questo linguaggio in lui, colle ragioni e
considerazioni stesse con cui si spiega in Omero. In Anacreonte v'ha pochissima
mescolanza di dialetti. (V. Fabric. B. Gr.
in Anacr.) Certo il suo linguaggio è tutt'altro da
quello di Omero. Esso è Ionico. Saffo scrisse in Eolico. Empedocle,
benchè Siciliano e pittagorico, adoperò in vece del dorico
l'ionico. (V. Fabric. in Empedocle, Giordani sull'Empedocle di Scinà,
fine dell'articolo secondo). Forse che il dialetto ionico era allora il
più comune della Grecia? Probabile, pel gran commercio di quella nazione
tutta marittima e mercantile. Forse quello che noi chiamiamo ionico non era in
quel tempo che il linguaggio comune della Grecia, siccome poi lo fu con certe
restrizioni l'attico, che nacque pur dall'ionico? Probabile ancora; e in tal
caso sarebbe risoluta anche la quistione intorno ad Omero, il quale da tutti
è riconosciuto per poeta principalmente ionico di linguaggio; e si
confermerebbe la mia opinione che il linguaggio da lui seguito, non fosse allora
che l'idioma comune di tutta la Grecia, siccome l'italiano [3046]del
Tasso è l'italiano comune di tutta l'Italia. O forse la Grecia era ancor
troppo poco colta universalmente per aver un linguaggio comune già
regolato e perfetto, e in mancanza di questo serviva l'ionico, come il
più divulgato perchè proprio della nazione più commerciante?
O finalmente Empedocle scelse l'ionico per imitare e seguire Omero? Molto
probabile. In Pindaro e in altri lirici del suo o di simil genere, la
mescolanza de' dialetti non fa maraviglia. Essa è licenza piuttosto che
istituto (); e
questa licenza è naturale in quel genere licenziosissimo in ogni altra
cosa, come stile, immagini, concetti, transizioni, sentenze ec.
Questa mia sentenza che il creduto
moltiplice dialetto di Omero, non fosse che il greco comune di allora, o non
fosse che un dialetto solo al quale appartenessero tutte quelle
proprietà che ora a molti e diversi si attribuiscono, credo che sia sentenza
già sostenuta e [3047]anche generalmente ricevuta oggidì
appresso gli eruditi stranieri.
(26. Luglio 1823. dì di S. Anna.)
La forza, l'originalità,
l'abbondanza, la sublimità, ed anche la nobiltà dello stile
possono, certo in gran parte, venire dalla natura, dall'ingegno
dall'educazione, o col favore di queste acquistarsene in breve l'abito, ed
acquistato, senza grandissima fatica metterlo in opera. La chiarezza e (massime
a' dì nostri) la semplicità (intendo quella ch'è quasi uno
colla naturalezza e il contrario dell'affettazione sensibile, di
qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia materia e stile e composizione,
come ho spiegato altrove), la chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio
la grazia che senza di queste non può stare, e che in esse per gran
parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la semplicità, quei
pregi fondamentali d'ogni qualunque scrittura, quelle qualità
indispensabili anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a
nulla valgono, e colle quali niuna scrittura, benchè niun'altra dote
abbia, è mai dispregevole, sono tutta e per tutto opera dono ed effetto
dell'arte. [3048]Le qualità dove l'arte dee meno apparire, che
paiono le più naturali, che debbono infatti parere le più
spontanee, che paiono le più facili, che debbono altresì parer
conseguite con somma facilità, l'una delle quali si può dir che
appunto consista nel nascondere intieramente l'arte, e nella niuna apparenza
d'artifizioso e di travagliato; esse sono appunto le figlie dell'arte sola, quelle
che non si conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne
l'abito, le ultime che si conseguiscano, e tali che acquistatone l'abito, non
si può tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in atto. Ogni
minima negligenza dello scrittore nel comporre, toglie al suo scrivere, in quanto
ella si estende, la semplicità e la chiarezza, perchè queste non
sono mai altro che il frutto dell'arte, siccome abituale, così ancora
attuale; perchè la natura non le insegna mai, non le dona ad alcuno;
perchè non è possibile ch'elle vengano mai da se, chi non le
cerca, nè che veruna parte [3049]di veruna scrittura riesca mai
chiara nè semplice per altro che per espresso artifizio e diligenza
posta dallo scrittore a farla riuscir tale. E togliendo immancabilmente la
chiarezza e la semplicità, ogni minima negligenza dello scrittore
inevitabilmente danneggia, e in quella tal parte distrugge sì la
bellezza sì la bontà di qualsivoglia scrittura. Perocchè
la semplicità e la chiarezza sono parti così fondamentali ed
essenziali della bellezza e bontà degli scritti, ch'elle debbono esser
continue, nè mai per niuna ragione (se non per ischerzo o cosa tale)
elle non debbono essere intermesse, nè mancare a veruna, benchè
piccola, parte del componimento. La forza, la sublimità, l'abbondanza o
la brevità e rapidità, lo splendore, la nobiltà medesima,
si possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella scrittura; elle
possono, anzi debbono avere quando il più quando il meno, sì
dentro una medesima, come in diverse composizioni e generi; elle possono esser
differenti da se medesime, secondo le scritture, e le parti e circostanze [3050]e
occasioni di queste, anzi elle nè deggiono nè possono altrimenti.
Ma la chiarezza e la semplicità non denno aver mai nè il
più nè il meno; in qualsivoglia genere di scrittura, in
qualsivoglia stile, in qualsivoglia parte di qualsiasi componimento, elle, non
solo non hanno a mancar mai pur un attimo, ma denno sempre e dovunque e
appresso ogni scrittore esser le medesime in quanto a se (benchè con
diversi mezzi si possono proccurare, e dar loro diversi aspetti e diverse circostanze),
sempre della medesima quantità, per così dire, e sempre uguali a
se stesse nell'esser di chiarezza e semplicità, e nell'intensione di
questo essere.
(26. Luglio. 1823. dì di Sant'Anna.)
È ben difficile scrivere in fretta
con chiarezza e semplicità; più difficile che con efficacia
veemenza, copia, ed anche con magnificenza di stile. Nondimeno la fretta
può stare colla diligenza. La semplicità e chiarezza se
può star colla fretta, non può certo star colla negligenza.
È bellissima nelle scritture un'apparenza di trascuratezza, di
sprezzatura, un abbandono, una quasi noncuranza. [3051]Questa è
una delle specie della semplicità. Anzi la semplicità più
o meno è sempre un'apparenza di sprezzatura (benchè per le
diverse qualità ch'ella può avere, non sempre ella produca nel
lettore il sentimento di questa sprezzatura come principale e caratteristico)
perocch'ella sempre consiste nel nascondere affatto l'arte, la fatica, e la
ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai dalla vera trascuratezza,
anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e studio.
Quando la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger lo scritto,
è quello dello stento, della fatica, dell'arte, della ricercatezza,
della difficoltà. Perocchè la facilità che si dee sentir
nelle scritture è la qualità più difficile ad esser loro
comunicata. Nè senza stento grandissimo si consegue nè l'abito
nè l'atto di comunicarla loro.
(27. Luglio. 1823.)
Voce non esistente nel latino scritto,
comune però alle tre lingue figlie. Speranza, espérance, esperança,
cioè sperantia, verbale di [3052]spero, fatto
secondo l'uso del buon latino, come constantia, instantia, redundantia ec.
(27. Luglio. 1823.)
Alla p.3040. Qua io credo che si debba
riferire il verbo posare (francese poser onde déposer,
opposer, supposer, composer, apposer, disposer, exposer, proposer, imposer ec.
ec.) in quanto ei significa por giù, deporre, con tutti i suoi
derivati ec. in questo senso. Che riposare e posare per quiescere
vengano da pausa pausare ec. (e così il franc. reposer ec.)
l'ho detto in altro luogo, lo dimostra l'uso del verbo pausare ec. ec.
nel Glossar. Cang. e va bene. Ma che posare, poser, déposer per deporre,
vengano da pausare, non da ponere, e non siano quindi affatto
diversi da posare ec. per quiescere, benchè suonino allo
stesso modo; non posso in alcun modo persuadermelo, benchè trovi nel
Gloss. un esempio dove pausare sta per deporre. Io credo che sia
sbaglio di copista (o dello stesso autore, ignorante, come tutti allora erano,
della lingua stessa barbara) che ha scritto l'au per l'o, sillabe
solite a confondersi, massime ne' bassi tempi, e massime avendovi un altro
verbo similissimo, cioè pausare [3053]per riposare,
a cui l'au veramente conveniva. Posare per deporre dee
certo venire da positus, contratto in posus, come visitus-visus,
pinsitus-pinsus, pisitus-pisus, onde viser, pisare. Da positus
non contratto, viene depositare e lo spagn. depositar, di cui
pure ho parlato altrove. Aggiungete che poser in francese non vale bene
spesso altro che propriamente porre, e non ha nientissimo a far con riposare
o reposer, se non in quanto quest'ultimo talvolta significa residere,
far la posa, e in questo senso egli è un altro verbo, e viene
altresì da ponere. Da postus viene appostare ital. apostar
spagn. impostare italiano moderno tecnico.
(27. Luglio. 1823.). V. p.3058.
Pausare poi potrà venir da pausa,
la qual voce viene da . Ma
potrebbe anche (insieme con posare, cioè quiescere, reposare,
reposer ec.) essere un vero continuativo fatto da un pausus
participio di pauo o pavo o simil verbo pari al sopraddetto verbo
greco. V. Forcell. e quello che altrove ho detto di tali voci in un pensiero
separato, e il Glossar.
(27. Luglio. 1823.)
[3054]A proposito di quel che ho
detto nel principio del mio discorso sui continuativi circa exspectare
esperar ec. vedi il Gloss. Cang. in Sperare 3, e 5.
(27. Luglio. 1823.)
Crystallus da gelo.
La stessa metafora adoperata da' latini e greci per significare il cristallo
naturale, adoprasi da' francesi per l'artifiziale. Glace, lastra di
cristallo fattizio.
(27. Luglio. 1823.)
Alla p.3040. fine. Questi tali diminutivi
comuni a tutte tre le lingue figlie dimostrano che l'uso di essi in luogo e
significato de' positivi viene dal latino, massime che anche nel buon latino si
trovano molti diminutivi usati in luogo de' positt. disusati o perduti o meno
usati, ovvero indifferentemente dai positivi ec. ec. ec. I quali fanno ben
probabile che il volgo o il sermon familiare latino usasse nel modo stesso
anche que' diminutivi positivati che oggi s'usano o in tutte 3. le lingue figlie,
o in alcuna di loro ec. da noi in parte annoverati ec. ec. ec.
Al qual proposito si osservi la voce fabula
fabella ec. onde fabulo as, fabulor aris, e favella, favellare
ec. come ho largamente detto altrove. Ch'ella venga da fari lo credo, ma
parmi eziandio chiaro ch'ella è un diminutivo d'altra voce. E tanto più
che non si dice fabulella, ma fabella, altro diminutivo, che non
vien da fabula, ma pare che insieme con questo dimostri un terzo [3055]e
positivo nome, del quale ambedue sieno diminutivi.[50]
Questo positivo è ignoto nel latino. Non vi si usano che i detti
diminutivi, col verbo diminutivo fabulo ec. Ma noi abbiamo la voce fiaba
che significa appunto favola, e che poi fu applicato particolarmente a
certe stravaganti composizioni teatrali, come anche fabula in latino fu
applicato a significare i drammi in senso non diminutivo ma positivo. Dubito
forte che questo fiaba sia voce antichissima nel latino, perduta nello
scritto, conservata nel volgare fino a noi.
(27. Luglio. 1823.)
Come pedantescamente l'ortografia francese
sia modellata, anzi servilmente copiata dalla latina si può osservar
nell'uso dell'h che in parole o sillabe affatto compagne di pronunzia, e
di suono, non hanno l'h se in latino (o in greco ec.) non l'avevano, se
l'avevano l'hanno anche in francese. Come in Christ-cristal,
technique, théologie, homme-omettre ec. Così dite del ph,
dell'y ec. Cosa veramente pedantesca e infilosofica [3056]che
parole nazionali, usualissime, volgarissime s'abbiano da scrivere non come la
nazione le pronunzia, ma come le scrivevano quelli dalle cui lingue esse vennero,
i quali così le scrivevano perchè così le pronunziavano,
giacchè anche i latini pronunziavano p.e. l'y come u
gallico, ec. (sebbene anch'essi da' tempi di Cicerone in poi peccarono un poco
nella servile imitazione della scrittura greca circa le parole venute o
nuovamente prese dal greco. E vedi Desbillons ad Phaedr. Manheim 1786. p. LXVIII.). Che se le voci naturalizzate in una lingua,
e mutate affatto dal loro primo stato per la pronunzia della nazione, s'avessero
sempre a scrivere nel modo in cui le scrivevano o le scrivono quei popoli,
ancorchè lontanissimi e diversissimi, onde a noi vennero, e se la
scrittura originale s'avesse sempre a conservare in ciascuna voce, cangiata o
non cangiata dal tempo, dal luogo, e dalla diversa nazione e lingua, e se il pregio
di un'ortografia consistesse nel conservare le forme originali di ciascuna voce
per forestiera ch'ella fosse, non so perchè le voci venute dal greco non
si debbano scrivere con lettere greche, e l'ebraiche e le arabiche con lettere
e punti ebraici ed arabici, e le tedesche con lettere tedesche. Giacchè
usando diverso alfabeto, la scrittura originale si può imitare, ma non
perfettamente conservare. E così dovremmo imparare e usare cento
alfabeti per saper leggere e scrivere la nostra lingua. [3057]Veramente
nessuna nazione in questa parte è così savia, e niuna scrittura
così vera, perfetta e filosofica come l'italiana. Gli antichi greci se
le potrebbero paragonare, se non che poche voci forestiere li ponevano in pericolo
di guastar la loro ortografia.
(27. Luglio. 1823.)
Condiscendere, condiscendenza, condecender o
condescender, condescendre, condescendance ec. vengono dal greco per condiscendenza
è in S. Gio. Crisost. nel Sermone Quod nemo laedatur nisi a seipso
, che
incomincia , cap.11.
Opp. Chrysost. ed. Montfaucon, t. 3.
p.457. B. Vedi i Glossar. latino e greco. V. p.3071.
Sopra per contro (v. Crusca
in Sopra §.2. Venire sopra alcuno, Dare sopra. Il Bocc. Nov. 17. Acciocchè
sopra, cioè contro, Osbech dall'una parte con le sue forze discendesse.
E v. pur la Crusca in Scendere. §.1.) è pretto grecismo (ignoto
nel buon latino) e grecismo dell'ottimo e purissimo greco. I greci dicono nel medesimo senso,
sì quando questa preposizione è separata, sì nella
composizione, come ec. J.
(28. Luglio 1823.)
[3058]Alla p.3053. fine. Posar
spagn. per abitare, onde posada ec. Pausar spagn. ec. V. i
Diz. spagn. - Repossione per repos-it-ionem trovasi in un'antica iscrizione
latina recentemente scoperta, e illustrata dal Ciampi (in una lettera data da
Varsavia e stampata nell'Appendice al Giornale di Milano due o tre anni fa); e
sta con significazione di luogo da riporre robe.
(28. Luglio. 1823.). V. p.3060.
Corruptio optimi pessima. Questo
proverbio si verifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sensibilissimi
che col tempo e coll'uso del mondo divengono più insensibili
degl'insensibilissimi per natura, come ho detto altrove, e danno nell'eccesso
contrario ec.
(28. Luglio. 1823.)
Persone imperfette, difettose, mostruose di
corpo, tra quelle che non arrivano a nascere e si perdono per aborti, sconciature
ec. non volontarie nè proccurate; tra quelle che son tali dalla nascita,
e muoiono appena nate o poco appresso, per vizi naturali interni o esterni;
quelle che così nate vivono e si veggono e si ponno facilmente contare,
annoverando le mostruosità e difettosità d'ogni sorta; quelle
finalmente che tali son divenute dopo la nascita, più [3059]presto
o più tardi, naturalmente e senza esterna cagione immediata, voglio dire
o per vizio ingenito sviluppatosi in séguito, o per malattia qualunque
naturalmente sopravvenuta; sommando dico e raccogliendo tutti questi individui
insieme, si vedrà a colpo d'occhio e senza molta riflessione che il loro
numero nel solo genere umano, anzi nella sola parte civile di esso, avanza di
gran lunga non solamente quello che trovasi in qualsivoglia altro intero genere
d'animali, non solamente eziandio quello che veggiamo in ciascheduna specie
degli animali domestici, che pur sono corrotti e mutati dalla naturale condizione
e vita, e da noi in mille guise travagliati e malmenati; ma tutto insieme il
numero degl'individui difettosi e mostruosi che noi veggiamo in tutte le specie
di animali che ci si offrono giornalmente alla vista, prese e considerate insieme.
La qual verità è così manifesta, che niuno, io credo,
purchè vi pensi un solo momento e raccolga le sue reminiscenze, la
potrà contrastare. Simile differenza si troverà in questo particolare
fra le nazioni civili e le selvagge, e proporzionatamente fra le più
civili e le meno, secondo un'esatta scala, come tra' francesi italiani tedeschi
spagnuoli ec.
[3060]Quali conseguenze si tirino
da queste osservazioni, è così facile il vederlo, come esse
conseguenze sono evidentissime, ed hanno quella maggior certezza che possa
avere una proposizione dimostrata matematicamente, e dedotta matematicamente da
un'altra di cui non si possa dubitare.
(28. Luglio. 1823.)
Porgo per porrigo is,
sincope usata dagli antichi latini e volgare tra noi. V. Forcell. in Porgo
e massime il luogo di Festo.
(28. Luglio. 1823.)
Alla p.2842. principio. Defectus a um
sembra avere il significato neutro di is qui defecit in parecchi luoghi,
de' quali v. Forcell. in defectus a um, e il Fedro di Desbillons,
Manheim 1786. p. LVII. ad lib. I. fab. 21. vers. 3. Quietus
a um da quiesco. V. in particolare il Desbillons loc. cit. p. LXII.
ad II.8. v. 15. Usurpatus a um. V. Cic. ad fam. IX. 22. verso il princ.
(28. Luglio. 1823.). V. p.3074.
Alla p.3058. Assus (e così semiassus)
per assatus sarebbe una contrazione che farebbe al proposito. Se
però assare non viene appunto da assus, il quale in tal
caso sarebbe participio di verbo ignoto. E s'ei fosse il medesimo che arsus
(v. Forcell. in Assus), il che non è inverisimile, [3061]stante
l'antico uso latino di pronunziare e scrivere la s per la r (del
che altrove cioè per 2991. segg.) assare sarebbe lo stesso che arsare,
voce de' bassi tempi, della quale altrove, continuativo di ardeo, e
più regolare ec. nella pronunzia che assare.[51] V.
p.3064. Elixus per elixatus (che pur si dice) sarebbe altra
contrazione al proposito, se però elixo non viene da elixus,
come ho detto di assus. E veggasi a questo proposito la p.2757 8. e
2930. marg.
(29. Luglio. 1823.)
Niuna cosa nella società è
giudicata, nè infatti riesce più vergognosa del vergognarsi.
(29. Luglio 1823.)
In proposito di favella, favellare,
hablar ec. di cui molto distesamente ho ragionato altrove, veggansi le voci
francesi habler, hablerie, hableur ec. Essi hanno anche fable ec.
come noi pur favola ec. e gli spagnuoli fabula ec. dall'altro significato
latino di fabula, fabulari ec. (29. Luglio. 1823.). Vedi pur lo spagn. habla
e hablilla ec. ser habla o hablilla del pueblo.
(29. Luglio. 1823.)
[3062]Alla p.3055. marg. Asinus-asellus
in vece di asinellus, che sarebbe intero e regolare, e che noi diciamo. Opera-opella
ec.
(29. Luglio. 1823.)
Esse conveniens alicui rei pro convenire;
il participio attivo coll'ausiliare esse, all'italiana. V. Fedro Fab. 27
v.
(29. Luglio 1823.)
Altri due italianismi veggansi in Fedro II.
5. v. 25., e 8. v. 4. - Desbillons loc. cit. p. LXIV e LXV. E notinsi i luoghi
di Varrone il quale parla del latino illustre. Altro eziandio III. 6. v. 5. -
Desbill. p. LXXI. Ma Fedro seguiva o s'appressava in molte cose al latino
volgare. Quindi è ch'ha delle frasi tutte sue, cioè che non si
trovano negli altri autori latini, e che sono sembrate non latino. Vedi il
Desbillons p. XXII-VI. e gli altri che trattano della sua latinità.
Niuno de' quali, io credo, ha osservato la vera cagione della differenza di
questa latinità della più nota. Tutti gli scrittori latini (anche
antichi e veri classici) che hanno del familiare nello stile, come, oltre i
Comici, Celso (che s'accosta molto a Fedro quanto può un prosatore a un
poeta, e che fu pur creduto non appartenere al secolo d'oro) e [3063]lo
stesso Cesare, inclinando per conseguenza più degli altri al linguaggio
volgare, (benchè moderatamente e con grazia, come molti degl'italiani,
p.e. il Caro), si accostano eziandio più degli altri all'andamento,
sapore ec. e alle frasi, voci o significazioni ec. dell'italiano. Così
pure fa Ovidio fino a un certo segno, ma per altra ragione, cioè per la
negligenza e fretta che non gli permetteva di ripulire bastantemente il suo
linguaggio, di dargli dovunque il debito splendore, nobiltà ec.; di
tenersi sempre lontano dalla favella usuale: insomma perchè non sapeva o
non curava di scrivere perfettamente bene, e si lasciava trasportare dalla sua
vena e copia, con poco uso della lima, siccome per lo stile, così per la
lingua.
(29. Luglio. 1823.)
Alla p.3040. fine. Asellus, capella
equivalgono ad asinus, capra. Vedi a questo proposito il Forcell. in catellus.
(30. Luglio. 1823.). V. p.3073.
Come da nosco-notus, noscito,
così da nascor-natus, nasciturus, del che mi pare di aver detto
altrove.
(30. Luglio. 1823.)
[3064]Similmente morior-mortuus-moriturus
ec. ec.
(30. Luglio 1823.)
Alla p.3061. Che assare venga da ardere,
e sia lo stesso che arsare, oltre la verisimiglianza ch'ha in se
medesimo, considerando i significati di tali verbi, si fa eziandio più
probabile osservando che il nostro arrostire (franc. rôtir)
ch'equivale ad assare, viene da urere ch'equivale quasi ad ardere
(preso attivamente, come noi sovente lo prendiamo, e come bisogna considerarlo
nel caso nostro: v. Forcell. in ardeo e arsus participio passato,
i Diz. franc. in arder, e lo spagnuolo). E che arrostire venga da
urere, si dimostra guardando ch'egli è corruzione (o che altro si
voglia) d'abbrostire il quale originariamente è il medesimo
verbo; e che abbrostire è quasi il medesimo che abbrostolire,
il qual è corruzione di abbrustolare; e che abbrustolare,
detratte le lettere abbr (non so come premessegli) è appunto il
latino ustulare, il cui significato è nè più
nè meno quello di abbrustolare; e che ustulare è
fatto da ustus di urere. Abbrustiare voce fiorentina è
quanto al materiale lo stesso che abbrustolare, mutato il tol [3065](lat.
tul) in ti, secondo il costume della lingua nostra (e massime
della fiorentina e toscana), come da oc-ul-us occh-i-o, da masc-ul-us
masch-i-o, che i fiorentini dicono mastio ec. come ho detto altrove
(così da misc-ul-are misch-i-are, i fiorentini mistiare).
Le lettere abbr abr o br paiono nelle nostre lingue esser
proprie, non so perchè, delle voci di questo tal significato o simile;
come in abbrostire e ne' sopraddetti (i francesi non conservano che l'r,
cioè rostir, ma questa sembra essere un'aferesi di abbrostire,
o abrustire che sarebbe un vero latino-barbaro), in brustolare, abbruciare
ec., bruciare ec., abbronzare ec. abbruscare (v. l'Alberti),
brûler, abrasar ec. Forse queste tutte sono corruzioni del latino amb
(ambustus, amburere ec.). Veggasi il Glossario se ha nulla in proposito.
Veramente abbruciare, bruciare, brûler, abrasar sembrano non
appartenere al latino, e da quella origine da cui essi vennero, fu tolto forse
ancora l'uso di premettere le lettere abbr, abr, br ad altre voci di
significato affine al loro, [3066]benchè venute d'altra origine,
cioè latina ec.
(30. Luglio. 1823.)
Che la lingua italiana mediante la
letteratura sia stata per più secoli divulgatissima in Europa, e
più divulgata che niun'altra moderna a quei tempi, o certo per
più lungo spazio (perchè la lingua spagnuola per certo tempo lo
fu forse altrettanto, e in Italia nel 600 trovo stampate le Novelle di
Cervantes in ispagnuolo, mentre oggi in tanta diffusione della lingua francese,
che niuno è che non la intenda, è ben difficile che tra noi si
ristampi un libro francese di letteratura o divertimento in lingua francese),
raccogliesi da parecchi luoghi e notizie da me segnate qua e là, e da
molte altre che si possono facilmente raccorre. Vedi in particolare Andres,
Stor. della letterat. parte
Il Menagio, Regnier Desmarais, il Milton ec.
che scrissero e poetarono in lingua italiana, sono esempi non rinnovatisi,
cred'io, rispetto ad alcun'altra lingua moderna, se non dipoi rispetto alla
francese, e certo non dati nè imitati mai dagl'italiani, se non appresso
[3070]parimente quanto al francese. S'è vero che nel 500
v'avessero cattedre di lingua italiana tra' forestieri, come dice Alberto
Lollio, esse erano, cred'io, le uniche dove s'insegnasse lingua moderna forestiera
nè nazionale, nè mai vi fu cosa simile in Italia per nessun'altra
lingua moderna (eccetto forse in Propaganda di Roma) fino a questi
ultimissimi tempi (v'è ora qualche cattedra di lingua moderna in Italia?
Dubito assai: di lingua italiana? dubito ancor più). È noto poi
che la letteratura e lingua spagnuola nel suo secolo d'oro che fu il 500. come
per noi, si modellò in gran parte sull'italiana, colla qual nazione la
Spagna ebbe allora purtroppo che fare.
(30. Luglio. 1823.)
Benedetto Buommattei nell'Orazione delle
lodi della lingua toscana detta da lui l'anno 1623. nell'Accademia
Fiorentina (Vita del Buommatt. in fronte alla sua Grammat. ed. Napoli 1733.
p.22. princ.), verso il fine, cioè nella succitata Raccolta di Torino
p.299. fine - 300. e appiè della sua Gramatica, ediz. cit. p.273. fine, dice
della universal [3071]diffusione della lingua toscana a quel
tempo ciò che ivi puoi vedere.
(30. Luglio. 1823.)
Dompter da domitare,
inseritoci il p, come in emptus, sumptus (sumpsi ec.) e
simili, e come alcuni fanno in temptare che nel Cod. de Rep. di Cic.
è scritto temtare, come anche si scrive emtus, sumtus,
peremtus ec. Veggasi la p.3761. fine. E il Richelet nel Diz. scrive domter
con tutti i suoi derivati similmente, e vuol che si pronunzi donter,
dontable ec. così anche altri Dizionari moderni. Così dompnus
e domnus contratto da dominus. E a questo discorso appartiene la
voce somnus fatta da e, come
dice Gellio, da sypnus - o supnus-sumnus-somnus. V. il Glossar.
se ha niente che faccia a proposito.
(31. Luglio. 1823.)
Alla p.3057. Similmente angustia per
angoscia (ch'è corruzione di angustia) o in simile significato
par che venga dal greco, quanto cioè alla metafora. , in
questo senso e in San Basilio Magno nell'Omil. o sermone de
gratiarum actione, opp. ed. Garnier, t. 2. p.26. D. cap. 2.
È da veder però se tali metafore vennero a noi da' greci, o a'
greci dal latino (v. p.e. Forcell. in angustia: anche noi diciamo in tal
senso strette, strettezza ec.) o dal latino-barbaro. [3072]V. il
Gloss. lat. (perchè il greco non ha niente) e lo Scapula.
(31. Luglio. 1823.)
Alla p.2841. marg. Di tali participii
passivi di verbi neutri (e fors'anche di verbi attivi) adoperati in senso
neutro (fors'ancora attivo), anzi non in altro senso che in questo, cioè
non mai passivamente ne abbondano le lingue figlie della latina. Stato,
caduto, uscito, svaporato, esalato, venuto, andato, salito, sceso, sorto,
vissuto, morto, ec. Anzi quasi tutti i verbi neutri hanno nelle dette
lingue tali participii col detto senso e non altro.
(31. Luglio. 1823.).[53] V.
p.3298.
Ho discorso altrove della voce camara
o camera. V. Fedro IV. 22. v. 29. e ivi il Desbillons e gli altri.
(31. Luglio 1823.)
I Romani, che tanto fecero con la
virtù, e col sangue, riconoscevan nondimeno ogni cosa dalla Fortuna; Dea
più ch'altro Nume da loro adorata. Onde Lucio Silla che vinse la
Virtù, e i Trionfi, e i sette Consolati di G. Mario, si fè
chiamare il Felice, e teneasi esser della Fortuna figliuolo. Ed Augusto
pregò gli Dii, che [3073]dessero al nipote la sua fortuna, la
quale fu stupenda. Bern. Davanzati. Orazione in morte del Gran Duca di Toscana
Cosimo primo.
(1. Agosto. dì del Perdono. 1823.)
Alessandro Magno schifò quel
(consiglio) d'Aristotile, che volea ch'egli trattasse i Greci da parenti, e i
Barbari da bestie, e sterpi. Id. ib.
(1. Agosto. dì del Perdono. 1823.)
Alla p.3063. Scrupulus diminutivo di scrupus,
usato però sempre, ch'io sappia, in luogo del positivo nei sensi metaforici,
eccetto solamente appo Cic. de repub. III. 16. p.244. Anzi eziandio nel senso
proprio, fuor d'un luogo di Petronio, non so che si trovi mai adoperato il
detto positivo. Ma il diminutivo bensì. Così dico di calx per
lapis, da cui calculus. V. Forcell. in calculus e calx.
(1. Agosto. dì del Perdono. 1823.)
Aborto as da aborior-abortus, o
dal semplice orior. Il nostro abortire e il lat. abortio is
(se questo verbo è vero) sarebbero continuativi anomali. Il franc. avorter
è il lat. abortare. V. lo [3074]spagnuolo e il Gloss.
se ha nulla.
(1. Agosto. dì del Perdono. 1823.)
Appellito as da appello-appellatus,
onde lo spagn. apellidar, apellido sostantivo ec.
(1. Agosto. 1823.)
Reditus a um. V.
l'Oraz. di Claudio Imp. (citata in altri casi dal Forcell. come in appellito)
ap. Gruter. p.502. col. 1. v. 36. Cretus,
concretus ec. V. Forcell. Pertaesus, Distisus, Fisus, diffisus,
confisus ec. V. Forc. Exoletus cioè qui exolevit.
Conspiratus. V. Forc. in fine vocis. Census a um. V.
Forc. Status a um. V. Forc. nel principio di questa voce,
massime il luogo d'Ulpiano. Nuptus a um. Falsus. V. Forc.
(1. Agos. 1823.)
È da notare che la lingua spagnuola,
per suo quasi perpetuo costume e regola, conserva ne' participii de' verbi
latini della 2da e 3a maniera l'antica e regolare e piena forma della quale ho
discorso altrove, non ostante che nel latino conosciuto ella sia alterata,
contratta, o anomala. Ne' quali casi la lingua italiana suol seguire ciecamente
la latina ancorchè contro la regola e proprietà delle sue coniugazioni,
e inflessioni, come ho detto altrove in proposito di arsare. P.e. 1. tenido,
venido, e cento simili sono participii intieri, cioè tenitus,
venitus, [3075]in luogo de' contratti che usa la lingua latina conosciuta,
cioè tentus, ventus ec. Noi in questo e in molti altri casi
mutiamo bene spesso l'i in u (scambio che può essere
anch'esso antichissimo) dicendo tenuto, venuto ec. I francesi cambiano
sovente e comprendono nella lettera u tutte le lettere itus: tenu,
venu da tenitus, venitus e così ordinariamente. 2. Corregido
è participio intero e senza mutazione di lettera alcuna, cioè corregitus,
dal qual regolare participio la lingua latina fece corregtus per
contrazione, e indi mutato il g nell'affine palatina, correctus
ch'è solo participio rimasto nel latino conosciuto, e nell'italiano.
Similmente leido (se non che lo spagnuolo omette il g in tutto
questo verbo) è il primitivo e regolare legitus (dimostrato da legitare)
e da questo viene, non già da lectus, da cui il nostro letto.
Anzi, perchè veggiate la differenza, da lectus sostantivo lo spagnuolo
non fa leido, ma lecho (voce antica), [3076]equivalendo il
ch spagnuolo assai spesso al ct latino. 3. Movido, nacido,
conocido e cento simili sono participii e interi e irregolari, in luogo di
contratti ed anomali. Movitus per motus. Nascitus (dimostrato,
oltre l'analogia, da nasciturus, come altrove ho notato) per natus
ch'è solo oggi nel latino e nell'italiano e nel francese Cognoscitus,
dimostrato, come altrove ho detto, da noscito, per cognitus,
ch'è unico nel latino, unico nel francese. Nell'italiano v'è cognitus
e v'è anche cognoscitus, mutato al solito l'i in u,
e dico mutato, perchè in conosciuto, l'i è
accidentale della scrittura, non proprio della parola, e serve solamente a
dinotar la pronunzia delle lettere sc, che poste avanti l'u senza
l'intrapposizione della i, si profferirebbero in altro modo.[54] Del
resto nacido ec. è proprio lo stesso che nascitus, omessa
la s per proprietà moderna, perchè gli antichi la [3077]scrivevano,
come pure in crecer (onde crecido-crescitus-cresciuto, per cretus-cru),
condecender ec. ec. La lingua spagnuola suol essere regolarissima in
questi tali participii, più assai dell'italiana, più della
francese, e conservare più di ambedue l'antichità e primitiva proprietà
latina, anzi conservarla si può dir, pienamente. E ciò non meno
nè in diverso modo quando la latina conosciuta è irregolare o
contratta, che quando ell'è regolare e semplice, come da habitus,
havido o habido, che noi colla solita mutazione diciamo avuto.
Ora questo havido nello spagnuolo ha la stessissima forma di tenido
ec. Ma non così in latino, benchè teneo sia della stessa
forma di habeo.[55] V.
p. 3572. fine.
Non è tuttavia che alcune volte la
lingua spagnuola non segua in tali participi ciecamente o l'anomalia o la
contrazione della lingua latina, come suol far l'italiano e il francese e non
ne divenga essa stessa anomala, come le altre due. Di visto, e quisto
(che però si dice anche regolarmente querido) dico altrove.
Da facere, hacer, [3078]ella non fa pienamente hacido,
facitus, ma contrattamente hecho da factus (fatto, fait),
anticamente fecho, mutato il ct in ch per proprietà
spagnuola, come in derecho, provecho ec. ec. e come ho pur detto
altrove; e l'a cambiato in e, come in trecho da tractus,
in leche da lacte ablativo (Perticari vuol che si dica dall'accusativo
tolta la m; ma ecco che l'accusativo di lac è lac:
vedi però il Forcell. appo il quale lac è mascolino in
più esempi), e come i latini ne' composti, conFECTUS ec., in echar
da jactare. Dov'è notabile che anche noi e i francesi facciamo la
stessa mutazione: gettare, jeter, come i latini ne' composti: obiectare
ec. Da dicere non decido o dicido, ma dicho-dictus-detto-dit.
(1. Agos. 1823.). V. p.3362.
La più bella e fortunata età
dell'uomo, la sola che potrebb'esser felice oggidì, ch'è la
fanciullezza, è tormentata in mille modi, con mille angustie, timori,
fatiche dall'educazione e dall'istruzione, tanto che l'uomo adulto, anche in
mezzo all'infelicità che porta la cognizion del vero, il disinganno, la
noia della vita, l'assopimento della immaginazione, non accetterebbe di tornar
fanciullo colla condizione di soffrir quello stesso che nella fanciullezza ha
sofferto. E perchè così tormentata [3079]e fatta infelice
quella povera età, nella quale l'infelicità parrebbe quasi
impossibile a concepirsi? Perchè l'individuo divenga colto e civile,
cioè acquisti la perfezione dell'uomo. Bella perfezione, e certo voluta
dalla natura umana, quella che suppone necessariamente la somma
infelicità di quel tempo che la natura ha manifestamente ordinato ad
essere la più felice parte della nostra vita. Torno a domandare.
Perchè fatta così infelice la fanciullezza? E rispondo più
giusto. Perchè l'uomo acquisti a spese di tale infelicità quello
che lo farà infelice per tutta la vita, cioè la cognizione di se
stesso e delle cose, le opinioni, i costumi le abitudini contrarie alle naturali,
e quindi esclusive della possibilità di esser felice; perchè
colla infelicità della fanciullezza si compri e cagioni quella di tutte
le altre età; o vogliamo dire perch'ei perda colla felicità della
fanciullezza, quella che la natura avea destinato e preparato siccome a questa,
così a ciascun'altra età dell'uomo, e ch'altrimenti egli avrebbe
ottenuta in effetto.
(1. Agosto. 1823.)
[3080]Assaltare da assalire,
come il semplice salto lat. da salio.
(1. Agos. dì del Perdono. 1823.). V.
p.3588.
Alla p.2740. marg. Io credo bene che il fosse posto in uso tanto per esprimere il , quanto il e il ; e così il tanto pel , quanto
pel e pel ; posto in uso, dico, dagli scrivani che in
quei primi tempi e in quella imperfezione dell'ortografia, non distinguevano
bastantemente e confondevano rispetto ai segni le varie pronunzie e i vari
suoni, massime affini, nè si curavano di distinguerli più che
tanto l'un dall'altro nelle scritture, o non sapevano perfettamente farlo. Credo
per conseguenza, che
antichissimamente si pronunziasse e scrivesse , non ; si pronunziasse
e scrivesse , e non ; , e non ; , e non ; e
così dell'altre doppie. Ma che poi, introdotto l'uso di queste doppie si
continuassero quelle lettere a pronunziare secondo la derivazione grammaticale
o l'uso antico e le antiche radicali, e che quindi p.e. il e il avessero
ora una pronunzia [3081]ed ora un'altra, cioè ora ora ec. non
lo credo, anzi tengo che il fosse
sempre pronunziato , e il sempre .
Passaggio non difficile neppure nella pronunzia (e ordinario anche e regolare
in milione d'altri casi sì nella pronunzia che nella scrittura e
grammatica greca) d'una in un'altra affine, cioè dalle palatine e alla
palatina , e dalle
labiali alla labiale . Massime
che il e il sono veramente medie nella pronunzia tra le
loro affini, benchè si assegni il nome di medie al e al , e al , non al ec. Lo
deduco dal latino, fra' quali parimente il x fu sostituito sì al cs
che al gs, ed anticamente scrivevasi e pronunziavasi p.e. gregs,
legs, regs, non grecs, lecs, recs, come oggidì, almeno noi
italiani, sogliamo sempre pronunziare. V. il Forc. e il Diz. di gramm. e
letterat. dell'Encicl. metod. in X. Ma che in seguito il x anche
tra' latini antichi, ossia de' buoni tempi, fosse sempre pronunziato cs,
come oggi, dimostrasi dal considerare p.e. i verbi lego, rego, tego e simili
(appunto venuti da' nomi sopraddetti) i quali nel perfetto fanno rexi, texi
(lego ha legi). Dove certo la x antichissimamente
equivalse a gs, come ho detto altrove. Ma eccovi i participii lectus,
rectus, tectus, che da prima furono legitus ec. e poi contratti,
mutarono il g in c. Resta dunque più che probabile che
anche quei perfetti si pronunziassero col c, recsi, tecsi malgrado [3082]la
loro derivazione grammaticale e quindi è altrettanto probabile che
qualora nell'x doveva esservi il g, passasse in c,
giacchè non v'è niuna ragione di più perch'ei dovesse far
questo passaggio ne' detti perff. che in qualunqu'altra voce.
(2. Agosto. dì del Perdono. 1823.)
È cosa dimostrata e dalla ragione e
dall'esperienza, dalle storie tutte, e dalla cognizione dell'uomo, che
qualunque società, e più le civili, e massime le più
civili, tendono continuamente a cadere nella monarchia, e presto o tardi, qualunque
sia la loro politica costituzione, vi cadono inevitabilmente, e quando anche ne
risorgono, poco dura il risorgimento e poco giova, e che insomma nella
società non havvi nè vi può avere stato politico durabile
se non il monarchico assoluto. È altrettanto dimostrato, e colle
medesime prove, che la monarchia assoluta, qual ch'ella sia ne' suoi principii,
qual ch'ella per effimere circostanze possa di quando in quando tornare ad
essere per pochi momenti, tende sempre e cade quasi subito e irreparabilmente
nel despotismo; perchè stante [3083]la natura dell'uomo, anzi
d'ogni vivente, è quasi fisicamente impossibile che chi ha potere
assoluto sopra i suoi simili, non ne abusi; vale a dire è impossibile
che non se ne serva più per se che per gli altri, anzi non trascuri
affatto gli altri per curarsi solamente di se, il che è nè
più nè meno la sostanza e la natura del despotismo, e il
contrario appunto di quello che dovrebb'essere e mai non fu nè
sarà nè può essere la vera e buona monarchia, ente di
ragione e immaginario. Ora egli è parimente certo, almeno lo fu per gli
antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che il peggiore stato politico
possibile e il più contrario alla natura è quello del despotismo.
Altrettanto certo si è che lo stato politico influisce per modo su
quello della società, e n'è tanta parte, ch'egli è
assolutamente impossibile ch'essendo cattivo quello, questo sia buono, e che
quello essendo imperfetto, questo sia perfetto, e che dove quello è
pessimo, non sia pessimo questo altresì. Or dunque lo stato [3084]politico
di despotismo essendo inseparabile dallo stato di società, e più
forte e maggiore e più durevole nelle società civili, e tanto
più quanto son più civili, ricapitolando il sopraddetto, mi dica
chi sa ragionare, se lo stato di società nel genere umano può
esser conforme alla natura, e se la civiltà è perfezionamento, e
se nella somma civiltà sociale e individuale si può riporre e far
consistere la vera perfezione della società e dell'uomo, e quindi la
maggior possibile felicità d'ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo
tende naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva ordinato, e la
felicità e perfezione ch'essa gli avea destinate.
(2. Luglio. dì del Perdono. 1823.)
La delicatezza, p.e. la delicatezza delle
forme del corpo umano, è per noi una parte o qualità essenziale e
indispensabile del bello ideale rispetto all'uomo, sì quanto al vivo,
sì quanto alla imitazione che ne fa qualsivoglia [3085]arte, la
poesia ec. Puoi vedere la pag.3248-50. Ora egli è tutto il contrario in
natura. Perciocchè la delicatezza, non solo relativamente, cioè
quella tal delicatezza che la nostra imaginazione e il nostro concetto del
bello esige nelle forme umane, e quel tal grado e misura ch'esso concetto
n'esige, ma la delicatezza assolutamente, è per natura, brutta nelle
forme umane, cioè sconveniente a esse forme. Giacchè l'uomo per
natura doveva essere, e l'uomo naturale è tutto il contrario che
delicato di forme. Anzi rozzissimo e robustissimo, come quello che dalla necessità
di provvedere a' suoi bisogni giornalmente, è costretto alla continua
fatica, e dal sole e dalle intemperie degli elementi è abbronzato e
irruvidito. E la delicatezza gli nuocerebbe; onde s'egli pur accidentalmente
sortisce una persona delicata dalla nascita, questo è un male e un
difetto fisico per lui, e quindi una sconvenienza e bruttezza fisica, [3086]come
lo sono tanti altri difetti corporali che sì l'uomo naturale come il
civile (e così gli altri animali e vegetabili) si porta dalla nascita,
non per legge e per regola generale della natura umana, ma per circostanze
irregolari e per accidente individuale o familiare o nazionale ec. Per le quali
cose è certissimo che nell'idea che l'uomo naturale si forma della bellezza
fisica della sua specie, non entra per nulla la delicatezza, la quale per tutte
le nazioni civili in tutti i secoli fu ed è indispensabile parte di tale
idea. Anzi per lo contrario è certissimo che la delicatezza per l'uomo
naturale entra nell'idea della bruttezza umana fisica. Che se l'uomo naturale
non esigerà nelle forme feminili tanta rozzezza quanta nelle maschili,
non sarà già ch'egli vi esiga la delicatezza, nè anche
ch'egli concepisca per niun modo la delicatezza come bella nel sesso femminile;
anzi per lo contrario egli esigerà [3087]nelle forme donnesche
tanta robustezza quanta è compatibile colla natura di quel sesso, e tanto
più belle stimerà quelle forme quanto più mostreranno di
robustezza senza uscir della proporzione del sesso. E se la robustezza
uscirà di tal proporzione, ei la condannerà, non come opposta
alla delicatezza, quasi che la delicatezza fosse parte del bello, ma senza
niuna relazione alla delicatezza, la condannerà come sproporzionata e
fuor dell'ordinario in quel sesso. Laddove per lo contrario le nazioni civili
esigono nelle forme donnesche tanta delicatezza quanta possa non uscir della
proporzione, e piuttosto ne lodano l'eccesso che il difetto. E quando ne
condannano l'eccesso, lo condannano solo in quanto eccesso, non in quanto di delicatezza,
nè in quanto opposto alla grossezza e rozzezza; laddove l'uomo naturale
condannando la soverchia robustezza non la condanna come robustezza, ma come
soverchia secondo le proporzioni ch'egli osserva nel generale.
[3088]Ecco dunque l'idea universale
di tutte le nazioni ed epoche civili circa il bello umano (ch'è pur quel
bello intorno a cui gli uomini convengono naturalmente più che intorno
alcun altro) dirittamente opposta a quella dell'uomo naturale, quanto alla
parte che abbiamo considerata. Dicasi ora che l'idea del bello è naturale
ed insita, non che universalmente conforme, eterna, immutabile.
E in questa differenza d'idee che abbiamo
notata, qual è più conforme alla natura umana, più
derivante dalla natura, e (se qui avesse luogo la verità) qual è
più vera, più giusta, più ragionevole? Certo quella
dell'uomo naturale. Dunque non si dica, come diciamo di tanti altri in tante
occasioni, ch'egli non concorda con noi circa il bello, perchè non ne ha
il fino senso, nè la mente atta a concepire il vero bello ideale.
(Il che noi diremo, cred'io, ancora degli Etiopi, il cui bello ideale
umano è nero e non bianco, rincagnato, di labbra grosse, lanoso). Come
mai può esser bella in una [3089]specie di animali la debolezza,
la pigrizia? E pur tale ella è nell'uomo appo tutte le nazioni civili, perocchè
la delicatezza non è senza l'una e l'altra, e da esse fisicamente nasce,
e le dimostra necessariamente all'intelletto.
Sentimento e giudizio degli uomini di
campagna circa la bellezza umana e la delicatezza. - Il qual sentimento e
giudizio è certamente per le dette ragioni più giusto del nostro.
Del nostro, uomini di fino senso e gusto, e profondi conoscitori del bello,
è più naturale e quindi più giusto il sentimento e il
giudizio di spiriti grossi, rozzi, inesercitati, ignoranti.
Quel che si è detto della
delicatezza, dicasi di altre molte qualità che per consenso di tutti i
secoli e popoli civili denno trovarsi nelle forme dell'uomo per esser belle; e
che per natura non si trovavano, o non doveano trovarsi nelle forme dell'uomo, [3090]o
vi si trovavano e dovevano trovarvisi le contrarie. Perocchè siccome
l'animo e l'interiore dell'uomo e quindi i costumi e la vita, così anche
le forme esteriori sono, in molte qualità, rimutate affatto da quel
ch'erano negli uomini primitivi. E intorno a tutte queste qualità, il sentimento
e il giudizio di tal uomini circa la bellezza umana corporale, differisce o
espressamente contraddice a quello di tutte le nazioni ed epoche civili
universalmente; e sempre è più ragionevole.
(4. Luglio 1823.)
Come le forme dell'uomo naturale da quelle
dell'uomo civile, così quelle di una nazione selvaggia differiscono da
quelle di un'altra, quelle di una nazione civile da quelle di un'altra; quelle
di un secolo da quelle di un altro, per varietà di circostanze fisiche
naturali o provenienti dall'uomo stesso; e (per non andar fino alle famiglie e
agl'individui) è cosa osservata e naturale che gli uomini dediti alle
varie professioni materiali (senza parlar delle morali, che influiscono sulla fisonomia,
dei caratteri e costumi acquisiti, [3091]che pur sommamente
v'influiscono, e la diversificano in uno stesso individuo in diversi tempi)
ricevono dall'esercizio di quelle professioni certe differenze di forme,
ciascuno secondo la qualità del mestiere ch'esercita e secondo le parti
del corpo che in esso mestiere più s'adoprano o più restano
inoperose, così notabili che l'attento osservatore, e in molti casi senza
grande osservazione, può facilmente riconoscere il mestiere di una tal
persona sconosciuta ch'ei vegga per la prima volta, solamente notando certe
particolarità delle sue forme. Così si può riconoscere
l'agricoltore, il legnaiuolo, il calzolaio, anche senz'altre circostanze che lo
scuoprano.
Qual è dunque la vera forma umana? Ed
essendo diversissime e in parte contrarissime le qualità che di essa si
osservano in intere nazioni, classi ec. di persone, benchè generalmente
e regolarmente comuni in quella tal classe; come si può determinare
esattamente essa forma secondo i capi delle qualità regolari e delle
parti che regolarmente la compongono? E non potendosi determinare la forma
umana [3092]regolare e perfetta, perocch'ella regolarmente per intere
classi, nazioni e secoli si diversifica, come si potrà determinare la
bellezza della medesima? Quando appena si troverà una qualità che
la possa comporre, la quale non manchi o non sia mancata regolarmente ad intere
classi e generazioni d'uomini, o non sia stata anzi tutto l'opposto? Che cosa
è dunque questo tipo di bellezza ideale, universalmente riconosciuto,
eterno, invariabile? quando neppure intorno alla nostra propria forma visibile,
se ne può immaginar uno che sia riconosciuto per tale da tutti gli
uomini, in tutti i tempi, o che non possa, o non abbia potuto non esserlo?
quando esso non si trova neppur nella natura? dove dunque si troverà, o
dove s'immaginerà, o donde si caverà egli?
Perocchè egli è certo che se
taluno fosse (come certo furono e sono molti), il quale non avesse mai veduto
altra forma d'uomini che l'una di quelle tali sopraddette, propria di una cotal
nazione, o classe, o schiatta ec. ec. [3093]l'idea ch'egli si formerebbe
della bellezza umana visibile, non uscirebbe delle proporzioni e delle qualità
ch'egli avrebbe osservate in quella tal forma, e sarebbe lontanissima, e
talvolta contrarissima, all'idea che si formerebbe un altro che si trovasse
nella stessa circostanza rispetto a un'altra maniera di forme. Al quale la
bellezza immaginata e riconosciuta da quel primo, parrebbe vera bruttezza, o
composta di qualità ch'egli, se non altro, in parte, giudicherebbe onninamente
brutte e sconvenienti, perchè diverse o contrarie a quelle ch'egli
sarebbe assuefatto a vedere. Un agricoltore il quale non avesse mai veduto
forme cittadine, crediamo noi che si formerebbe della bellezza un'idea conforme
o simile a quella de' cittadini? anzi non contraria affatto in molte parti
essenziali? Un popolo di calzolai concepirebbe la bella forma dell'uomo tozzotta,
di spalle larghe e grosse, gambe sottili e ripiegate all'indentro, braccia quasi
più grosse delle gambe ec.
[3094]Tutto ciò spetta a
quello che nelle forme umane dipende dalla natura largamente presa, cioè
dalle cause fisiche ec. Di quello poi che dipende dalle usanze che dovrà
dirsi? pareva impossibile nel 16° secolo, secolo di squisito gusto, al Cellini,
finissimo conoscitore del bello, di dar grazia e bell'aria al ritratto del
Bembo (ch'egli aveva a fare in una medaglia), perchè il Bembo non
portava barba. E il Bembo si fece crescer la barba per farsi ritrarre dal
Cellini, e che il ritratto facesse bella vista essendo barbato, e così
fu fatto. Che ne sarebbe parso a un artista de' nostri tempi? Molte cose si
posson dire delle varie opinioni ec. di varie nazioni e tempi sopra l'uso della
barba (ch'è pur cosa naturale), relativamente al bello. Così de'
capelli e delle così diverse e contrarie pettinature, o tosature (totali
o in parte) tenute per belle o per brutte in diverse età da una stessa
nazione, in diverse nazioni ec. Eppure anche intorno ai capelli v'è la
pettinatura naturale ec. ec.
(5. Agosto. 1823.)
[3095]Futuri del congiuntivo usati
da' latini in vece di quelli dell'indicativo, del che altrove. Odero,
meminero, credo anche coepero, novero. Forse ero coi composti
potero, subero ec. furono originariamente futuri del congiuntivo.
(5. Agosto. 1823.)
Riprendono nell'Iliade la poca unità,
l'interesse principale che i lettori prendono per Ettore, il doppio Eroe
(Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero nelle parti è superiore
agli altri poeti, nel tutto però preso insieme, nella condotta del
poema, nella regolarità è inferiore agli altri epici,
particolarmente a Virgilio. Certo se potessero esser vere regole di poesia
quelle che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. In proposito delle cose
contenute nel séguito di questo pensiero, vedi la pag.470. capoverso 2.
Omero fu certamente anteriore alle regole
del poema epico. Anzi esse da' suoi poemi furono cavate. Considerandole dunque
come cavate e dedotte da' suoi poemi, e fondate sull'autorità di Omero,
e principalmente dell'Iliade, dico che [3096]chi ne le trasse, prese abbaglio,
e che d'allora in poi fino al dì d'oggi, s'ingannarono e s'ingannano
tutti quelli che le seguirono o le sostennero, o le seguono o sostengono
(ciò sono tutti i litteratores) come appoggiate sull'esempio di
Omero: perchè quest'esempio non sussiste, e dalla forma della Iliade non
nascevano e non si potevano cavar quelle regole. Considerandole poi come indipendenti
da Omero, come sussistenti da se, e supponendo (il che non è vero)
ch'elle sieno il parto della ragione e della specolazione assoluta, dico senza
tergiversazione che Omero, siccome non le conobbe, così neanche le
seguì, ma seguendo la natura, molto miglior maestra delle Poetiche e de'
Dottori di Scuola e delle teorie, s'allontanò effettivamente da esse regole;
ed aggiungo che queste sono errate da chiunque le immaginò,
perchè incompatibili colla natura dell'uomo, perchè seguendole,
il poema epico non può produrre il grande e forte e bello effetto ch'ei
deve, o per lo meno [3097]non può produrre il maggiore e migliore
effetto che gli sia d'altronde e in se stesso possibile; e che per conseguenza
esse regole sono cattive e false.
Nelle Iliade pertanto non v'è
unità. Due sono realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due
gl'interessi e diversi l'uno dall'altro: l'uno pel primo di questi Eroi e per
la sua causa, l'altro pel secondo e per la causa de' greci. Interessi affatto
contrarii che Omero volle espressamente destare e desta, volle alimentare e
mantenere continuamente vivi ne' suoi lettori, e l'ottiene; volle far
ciò dell'uno e dell'altro interesse ugualmente e come di compagnia, e
così fece.
È proprio degli uomini l'ammirar la
fortuna e il buon successo delle intraprese, l'essere strascinati da questo e
da quella alla lode, e per lo contrario dalla mala sorte e dal tristo esito al
biasimo, l'esaltare chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non
l'ottenne, lo stimar colui superiore al generale, costui uguale o inferiore, [3098]il
credersi minor di quello e da lui superato, maggior di questo od uguale; in
somma il distribuir la gloria secondo la fortuna. Questa proprietà degli
uomini di tutti i tempi avea maggior luogo che mai negli antichi. L'esser
fortunato era la somma lode appo loro. (V. fra l'altre la p.3072. fine e
p.3342.) E ciò per varie cagioni. Primieramente la fortuna non si
stimava mai disgiunta dal merito, per modo ch'eziandio non conoscendo il
merito, ma conoscendo la fortuna d'alcuno, si reputava aver bastante argomento
per crederlo meritevole. Come negli stati liberi pochi avanzamenti si possono
ottenere senz'alcuna sorta di merito reale, e come gli antichissimi popoli
nella distribuzione degli onori, delle dignità, delle cariche, dei
premi, avevano ordinariamente riguardo al merito sopra ogni altra cosa,
così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i loro
favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n'erano
degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si
stimavano compagni [3099]ed indizi de' pregi dell'animo e de' costumi, e
la stessa ricchezza o nobiltà e l'altre felicità della nascita
cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi
maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche
posti nell'Elisio, s'interessassero più della terra che dell'Averno, e
che gli Dei fossero più solleciti delle cose terrene che delle celesti,
ne seguiva che considerassero la felicità come principalissima parte di
lode, perocchè il merito infelice come può giovare a se o agli
altri? e come può parer buono e grande quello ch'è inutile? e se
il merito era infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non
giovando in questa terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni,
avrebbe acquistato luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato?
Era dunque la felicità, principale ed
essenzial cagione e parte di lode e di stima e di ammirazione e di gloria
presso gli antichi, ancor [3100]più che presso i moderni; e
massimamente appo gli antichissimi. Perocchè insomma ella è cosa
naturale il pregiar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben
ragionevole ch'ella tanto più sia pregiata quanto i costumi, le opinioni
e la vita degli uomini sono più vicini e conformi alla natura, quali
erano in fatti nella più remota antichità. Omero dunque pigliando
a esaltare un Eroe ed una nazione, e togliendoli per soggetto del suo canto e
della sua lode, e facendo materia del suo poema l'elogio loro, si sarebbe fatto
coscienza di sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non avessero
conseguito l'intento di quella impresa di ch'egli prendeva a cantare. Egli
doveva dunque pigliare un Eroe fortunato.
E tanto più quanto questo Eroe era un
guerriero, e i suoi pregi eroici il coraggio e valor dell'animo, e l'impresa
una guerra. Perocchè se ne' tempi moderni eziandio, poca o nulla
è la gloria del vinto, e la lode di quella guerra [3101]che non
è terminata dalla vittoria, molto più si deve stimare che
così fosse appo gli antichi. Fra' quali effettivamente l'esser vinto si
teneva per ignominia, e il vincere in qualsivoglia modo era gloria, non si
considerando allora gran fatto altra giustizia che quella dell'armi, altro
diritto che della forza. Oltre che volendo Omero nel suo poema (siccome poi
vollero gli altri epici) adombrar quasi un modello o un tipo di uomo superiore
al generale e maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero, come
poteva egli farlo superiore agli altri uomini e singolarmente mirabile per le
virtù proprie della sua professione, s'ei non l'avesse fatto vittorioso?
anzi tale che niuno gli potesse resistere? Come poteva egli fare che questo
Eroe fosse vinto, cioè superato dagli altri in quelle virtù e
qualità per le quali egli intendeva di mostrarlo a tutti superiore e fra
tutti unico, affine di produrre la maraviglia, ed eseguire [3102]quel
tipo di compiuto guerriero ch'ei si proponeva? Non è della guerra come
d'altre molte imprese che possono venir fallite e mancare del loro intento a
cagione di ostacoli insuperabili all'uomo e di forze superiori alle umane. Ma
la guerra è dell'uomo coll'uomo, e quindi è forza il far
vincitore colui che si vuol far superiore agli altri uomini e singolare nella
sua specie per le virtù guerriere. Chi cede nella guerra, cede all'uomo,
cosa che oggidì potrà essere scusata ma di rado lodata; fra gli
antichissimi non che lodata, era pur di rado scusata, e generalmente spregiata
com'effetto o di viltà o di debolezza, la quale, sebbene involontaria,
era poco meno spregiata della viltà, come lo sono anche oggidì proporzionatamente
e la debolezza e tanti altri difetti degl'individui o delle nazioni, esteriori
o interiori, che non dipendono dalla volontà di chi n'è il soggetto.
Dico che la guerra è [3103]dell'uomo coll'uomo, sebbene Omero
c'intramette anche gli Dei. Ma questa finzione era per abbellire e non per
alterare la natura della guerra eccetto in alcune parti poco essenziali. Come
quando s'introduce Achille alle prese col Csanto. Nel qual caso, non essendo la
battaglia d'uomo con uomo, ma colla superior potenza di un Dio, Omero non si fa
scrupolo d'introdurre Achille chiedente aiuto e fuggente, nè stima che
questo tolga alla sua superiorità, perch'ei lo vuol far superiore agli
uomini non agli Dei, e vittorioso nella guerra de' mortali, non degli Eterni. E
infatti l'intervento degli Dei, come non doveva (volendo conservare il buono
effetto) alterare, così effettivamente non altera appresso Omero la
sostanza della guerra umana.
Conveniva dunque che l'Eroe e la nazione presa
da Omero a celebrare fossero fortunati e vittoriosi, massimamente aggiungendosi
alle [3104]predette considerazioni generali questa particolarità
che l'Eroe da Omero celebrato era greco, e la nazione era la greca, cioè
quella alla quale egli cantava e a cui egli apparteneva, e la guerra era stata
contro i Barbari. Molto conveniente cosa, pigliare per soggetto del poema epico
le lodi e le imprese della propria nazione e una guerra contro i perpetui e
naturali nemici di lei, ciò erano i Barbari. Cosa che raddoppiava, anzi
moltiplicava l'interesse del poema, siccome accade nella Lusiade, siccome
ancora nell'Eneide ec. Onde Isocrate pensa che gran parte della
celebrità di Omero e della grazia in che sempre furono i suoi poemi appo
i greci, derivi dal patriotismo de' medesimi poemi e dalle battaglie e vittorie
contro i Barbari, che in essi sono celebrate. (Vedilo nel Panegirico, ediz. del
Battie Isocr. Oratt. 7. et epistt. Cantabrig.
1729. p.175-6.). Or come poteva Omero fingere o narrar perditori [3105]la
sua nazione e un Eroe della medesima, e ciò in una guerra contro i
Barbari? Il che tra gli antichi sarebbe stato tanto più assurdo che tra
i moderni, quando anche le lodi e l'interesse del poema fossero stati tutti per
li greci, e quando anche, fingendoli sventurati, Omero avesse mosso le lagrime
e i singhiozzi sopra le loro sciagure, sarebbe tuttavia riuscito assurdo di
maniera, che sarebbe eziandio stato pericoloso al poeta. Frinico ateniese, gran
tempo dopo Omero, fece suggetto di una tragedia la presa di Mileto fatta da
Dario, e mosse gli uditori a pietà sopra quella sciagura dei greci per
modo, che, secondo l'espressione di Longino (sect.24.) tutto il teatro si
sciolse in lagrime. 3 Gli Ateniesi lo multarono in mille dramme (Plut. politic.
praecept. Strabo l.14. Schol. Aristoph. Vesp.) perch'egli avea rinfrescato la
memoria delle domestiche calamità e ripostele sotto gli occhi
rappresentandole al vivo (Herodot. l.6. c.21.); [3106]di più
vietarono con decreto che quella tragedia fosse più recata sulle scene (Tzetz.
Chil. 8. (alibi reperio 7.) hist. 156.): anzi secondo Eliano (Var. l.13.
c.17.), lagrimando, lo cacciarono dal teatro esso stesso che stava
rappresentando la sua propria tragedia. (Vedi Fabric. B. G. in Catal. Tragicorum, Meurs. Bibl. Att. Bentley Diss. ad Ep. Phalar. p.256) V. p.4078.
Adunque per tutte queste cagioni doveva
nell'Eroe di Omero e nella nazione da lui celebrata concorrere colla
virtù la fortuna. Ed ecco l'uno degl'interessi che campeggiano
nell'Iliade senza interruzione per tutto il corpo del poema: interesse il quale
consiste nell'ammirazione ispirata dalla straordinaria e superiore
virtù; al quale interesse e alla qual maraviglia, cioè al pieno
effetto di tal virtù descritta e figurata nel poema, richiedevasi
necessariamente la felicità e il buon successo, che in tutti i tempi, ma
negli antichissimi principalmente, sono considerati come il compimento della
virtù, anzi pure come indispensabile perfezione [3107]di lei, o
come solo indizio che possa dimostrarla veramente perfetta e somma.
Altra proprietà dell'uomo si è
che laddove la superiorità, laddove la virtù congiunta colla
fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l'ammirazione; per
lo contrario la sventura in qualunque caso, ma molto più la sventura
congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e
dolcissimo. Perocchè l'uomo si compiace nel sentimento della
compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene con essa quel sentimento
che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo, cioè una
quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura
è naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato,
perchè l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee
dolorose. Mirando dunque, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato,
e non abbominandolo nè disdegnandolo quantunque tale, e finalmente
giungendo a compassionarlo, cioè a voler coll'animo entrare a parte de'
suoi [3108]mali, pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di
vincere la propria natura, di ottenere una prova della propria
magnanimità, di avere un argomento con cui possa persuadere a se medesimo
di esser dotato di un animo superiore all'ordinario; tanto più ch'essendo
proprio dell'uomo l'egoismo, e il compassionevole interessandosi per altrui,
stima con questo interesse che niun sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso
straordinariamente magnanimo, singolare, eroico, più che uomo,
poichè può non essere egoista, e impegnarsi seco medesimo per
altri che per se stesso. Veggansi le pagg.3291-97. e 3480-
Tornando al proposito, il primo dei detti
interessi, cioè quello della maraviglia era rilevato in Omero dalla
circostanza che l'ammirazione cadeva sopra la superiorità, la
virtù e la felicità di un eroe e di un esercito nazionale, sopra un'impresa
fatta dalla propria nazione e fatta contro i di lei naturali nemici. Questa
circostanza rendeva non solamente possibile ma naturalissima la vivacità
e la durata di tale interesse ne' lettori o uditori greci (per li quali
scriveva Omero) in tutto il corso del poema. Tolta questa circostanza, il detto
interesse non può esser nè molto vivo nè molto durevole.
Il lettore non s'interessa gran fatto per coloro per cui vede continuamente
interessarsi lo stesso poeta. L'interesse del lettore (nel senso in cui
presentemente ci conviene intenderlo) è quasi una cura ch'egli si prende
[3110]di quelle persone su cui l'interesse cade. Or dunque il lettore
trova inutile il darsi gran pensiero di quelli a' quali vede aversi bastante cura
da altri. Il poeta e la fortuna da lui narrata fanno quello che avrebbe a fare
il lettore interessandosi; essi medesimi provveggono al fortunato: il lettore
non ha dunque niuna cagione di farlo egli, ei non desidera quello che gli
è spontaneamente dato, quello ch'egli ottiene già senza darsene
briga e sollecitudine. Per queste cagioni accade che poco e poco durevolmente
c'interessi il fortunato, massime ne' poemi epici e ne' drammatici. Ed effettivamente
oggidì i lettori della stessa Iliade, non essendo greci, o non
s'interessano mai vivamente per li greci, i quali sanno già dovere uscir
vittoriosi, o presto lasciano d'interessarsene.[56] Ma
non bisogna dall'effetto che l'Iliade fa in noi, misurar quello ch'ei faceva
nei greci, ai quali essa era destinata, nè per conseguenza l'arte del
poeta che la compose, nè il pregio e valore del poema. [3111]L'altro
interesse, cioè quello della compassione, non poteva Omero introdurlo
nel suo poema in modo ch'ei si riferisse ad Achille o ai greci; non poteva,
dico, per le suddette ragioni. Solamente poteva fare che la compassione si riferisse
pur talvolta ai greci o a qualcuno di loro, come a soggetti secondarii e accidentalmente
(qual è p.e. Patroclo), non come a soggetto primario della compassione,
al qual soggetto tendessero tutte le fila del poema. Questo soggetto ei lo
prese nella parte contraria alla greca, in quella parte alla quale doveva appartener
la sventura, se alla greca doveva appartener la felicità. Egli scelse o
finse tra' nemici un Eroe per così dir, di sventura, il quale fosse
opposto all'Eroe della fortuna, e l'interesse del quale dovesse perpetuamente bilanciare
e contrastare e accompagnare l'interesse dell'altro nell'animo de' lettori.
Questo Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille, ed anche ad
Aiace e a Diomede, perchè la superiorita delle forze doveva [3112]esser
l'attributo e la lode principale della parte greca (lode ch'era ai tempi eroici
la più grande); ma oltre che di forze eziandio lo fe' superiore a tutti
gli altri greci e troiani, di coraggio e magnanimità lo fece pari allo
stesso Achille, e nel rimanente ornandolo di qualità diverse da quelle
di costui, lo venne però a far tale che tanto pesasse egli quanto
questi. Somma pietà verso gli Dei, verso la patria, verso i parenti, somma
affabilità, giovanezza, e viril bellezza sopra ogni altra
(giacchè quella di Paride non era virile) della sua parte. Di più
accortezza e destrezza nel maneggio della guerra e nel governo delle battaglie,
vigilanza, provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche, arte di
parlare ne' consigli pubblici o a' soldati, disprezzo d'ogni pericolo, l'onore
stimato sopra ogni cosa, come quando ei ricusa di entrare nella città
vedendosi venir sopra Achille, e dopo l'onore, la patria; costanza ec. ec. In
somma com'egli aveva fatto in Achille un uomo [3113]sommamente ammirabile,
così fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente amabile. E
come la vittoria riportata da Achille sopra l'invincibile Ettore, porta al
colmo l'ammirazione per colui, così la sventura di Ettore mette il colmo
alla sua amabilità e volge l'amore in compassione, la quale cadendo
sopra un oggetto amabile è il colmo per così dire del sentimento
amoroso. Molte sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono nella
Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte
le fila del medesimo niente meno e del paro che alla vittoria di Achille, e
sempre unitamente: in essa il poema si chiude. Alle quali cose mirando il nostro
Cesarotti, e giudicando che Ettore fosse il principal soggetto dell'interesse
nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il principale scopo ed assunto
del poema, prosuntuosamente ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la
morte d'Ettore, stimando che Omero non avesse bene inteso se [3114]stesso
e la sua propria intenzione quando ne' primi versi della Iliade annunziò
espressamente un altro assunto. Nel che s'ingannò grandemente, per non
aver mirato alla natura umana, alle qualità di que' tempi, alle
circostanze di Omero (giacchè se oggi nell'Iliade l'unico, non che
principale, interesse è per Ettore, non così fu anticamente,
nè tale fu l'intenzione di Omero scrivendo ai greci), e per avere avuto
l'occhio alle moderne opinioni circa l'unità dell'interesse e del
soggetto principale. Ma come nell'intenzione di Omero l'unico interesse non
dovette esser quello di Achille, nè l'unico soggetto e scopo la sua
vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro un tal
Eroe qual fa Ettore; così neanche l'interesse d'Ettore dovette esser l'unico,
nè la sua sventura per se medesima l'unico soggetto e scopo del poema.
Doppio dovette essere secondo l'intenzione
di Omero, e doppio infatti riuscì [3115]a' lettori o uditori
greci l'interesse, lo scopo, e l'Eroe del poema. E qui si deve considerare il
maraviglioso artifizio di Omero. Non solevasi a' tempi eroici, cioè
quasi selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L'odio che gli portava la parte
contraria, quell'odio il quale faceva che ciascun soldato considerasse
l'esercito o la nazione opposta come nemici suoi personali, e con questo sentimento
combattesse, non lasciava luogo alla stima. E quando anche s'avesse cagione di
stimare il nemico, ciascuno, come si fa de' nemici personali, cercava a tutto
potere di deprimerlo sì nella propria immaginazione che presso gli
altri, e ricusava di riconoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva
nè si conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi fortemente
combatte e di chi vince è tanto maggiore quanto più forte e
stimabile è il nemico e il vinto. Ma sebbene allora [3116]ciascuno
amasse e cercasse la gloria sopra ogni altra cosa ed assai più che al
presente, niuno si curava di accrescerla a costo del proprio odio verso il
nimico, niuno sosteneva di aggrandire a' propri occhi o agli altrui il pregio
della propria vittoria col considerare e render giustizia al valore della
resistenza; ognuno preferiva di tenere anzi l'inimico per vile e codardo e tale
rappresentarlo agli altri, perchè l'odio e la vendetta più si
soddisfa e gode disprezzando il nimico e privandolo d'ogni qualsivoglia stima,
che sforzandolo e vincendolo, e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli che
di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche risorse, poca varietà,
poco campo di passioni al poema epico. Omero ebbe l'arte di fare che i greci si
contentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e fece loro provare il
piacere, a quei tempi ignoto o rarissimo, di vantarsi e compiacersi [3117]di
una vittoria riportata sopra un nemico nobile e valoroso. Questo piacere fu
veramente Omero che lo concepì, Omero che lo produsse; ei non era
proprio de' tempi, non nasceva dalla maniera di pensare e dalle disposizioni di
quegli uomini, ma nacque dalla poesia d'Omero; Omero per dir così ne fu
l'inventore. Questo gli diede campo di moltiplicare e intrecciar gl'interessi,
di variar le passioni e gli effetti cagionati dal suo poema nell'animo de'
lettori.
Come la stima, così la compassione
verso il nimico, ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi.
(Vedi quello che altrove ho detto in proposito d'un'azione d'Enea appo
Virgilio, dopo morto Pallante). Gli animi naturali non provano nella vittoria
altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente
parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche) nasce
bensì, come di sopra ho detto, [3118]dall'egoismo, ed è un
piacere, ma non è già propria nè degli animali nè
degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli
animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo
piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o
facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per
cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti
e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benchè
realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso,
cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi
moderni e civili la compassione non è propria se non degli animi colti e
dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne
dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco
intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo
spirito di Omero era certamente [3119]vivissimo e mobilissimo, e il
sentimento delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere
della compassione, lo trovò, qual egli è, sommamente poetico,
perocch'egli, oltre alla dolcezza, induce nell'animo un sentimento di propria
nobiltà e singolarità che l'innalza e l'aggrandisce a' suoi
occhi, vero e proprio effetto della poesia. Veggasi la p.3167-8. e 3291-7.
Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de' principali fini del
medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle accompagnar
questo piacere e questo affetto con quello della maraviglia, affetto appartenente
all'immaginazione e non al cuore, che fino a quel tempo era forse stato l'unico
o il principal effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse continuamente
del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e dall'altra sua
facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di
sentire. Questo suo intento è manifestissimo [3120]nel suo poema,
più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più
colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la
maraviglia prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli,
sempre tengono il primo luogo. Vedesi apertamente che Omero si compiace nelle
scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene offrono, egli
immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e cercatamente
(come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca a introdurre il quale, e non ad
altro, è destinata e ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in Troia,
nel maggior fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere
inopportuno intempestivo e imprudente), e che nell'une e nell'altre ei non
trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le circostanze che
possono eccitare e accrescere la compassione, e le sminuzza, e le rappresenta
con grandissima arte e intelligenza del cuore umano. E il soggetto di tutte [3121]queste
scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri
che quegli stessi che Omero ha tolto a deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha
preso ad esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far
piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi
avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.
Grande, caro, artifiziosissimo e
poetichissimo effetto dell'Iliade, che Omero ottenne col duplicare
espressamente e l'interesse e lo scopo e l'Eroe, che non si poteva ottenere
altrimenti, che fu tutto invenzione ed opera di Omero, voglio dir l'unione e
l'armonia di questi due interessi e fini contrarii, e il pensiero d'introdurli
ambedue nel suo poema, e sostenerli congiuntamente fino all'ultimo, facendoli
camminar sempre del pari. Con che oltre all'avere raddoppiato l'effetto del suo
poema, interessando per l'una parte l'immaginazione, per l'altra il cuore; [3122]oltre
all'aver potuto congiungere l'interesse che deriva dalla virtù felice
con quello che deriva dalla virtù sventurata (il che non si poteva fare
se non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, perocchè accumulando
l'una e l'altra in un soggetto solo e facendo che di sventurato divenisse
felice, o di felice terminasse nella sventura, l'uno e l'altro interesse
sarebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distruttivo l'uno dell'altro,
per modo che finita la lettura, l'un solo di essi sarebbe rimasto, come accade
p.e. nelle così dette, assurde tragedie, di lieto fine);[57]
oltre, dico, all'aver potuto mettere in moto nel suo poema ambedue quegl'interessi
che fortissimamente operano nell'uomo, e grandissimo piacere gli recano, e sono
poetichissimi, cioè la maraviglia della virtù superante ogni
ostacolo ed ottenente il suo fine, interesse che in quei tempi principalmente
era di gran forza, e la compassione della somma virtù caduta in somma e
non medicabile nè consolabile calamità; [3123]oltre tutto
questo Omero ottenne di potere introdurre nel suo poema, un perpetuo contrasto
di passioni contrarie continuamente operanti ne' lettori, continuamente
equilibrantisi l'una l'altra, continuamente sottentranti e implicantisi e
mescolantisi l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione dell'interesse
dello scopo e della persona principale, la qual duplicazione in virtù di
questo perpetuo e perpetuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia ma
moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'Iliade nell'animo de'
lettori, e la vivacità delle sensazioni, e il commovimento e
l'agitazione dello spirito, propria operazione della poesia.
Tali si furono le intenzioni di Omero, tale
il mezzo e l'arte da lui adoperati per conseguirle, tale la vera natura, il
vero carattere, il vero andamento del suo poema, la vera forma ch'egli ha e che
l'autore volle dargli. Vediamo ora gli altri poeti epici e i loro poemi, e [3124]le
regole dell'epopea che dopo Omero furono concepute e insegnate e poste e
seguite.
Videro tutti la necessità di far che
l'Eroe e la impresa principale che si prendesse a lodare e a narrare
nell'epopea riuscissero felicemente. Ciò fu dato per regola, e questa
regola fu seguita da tutti. Massimamente che dietro l'esempio dell'Iliade
(benchè l'Odissea somministrasse pure un esempio diverso) non fu stimato
proprio soggetto di poema epico altro che imprese guerriere, nè d'altro
genere d'Eroe fu creduto che l'epopea dovesse rappresentare il modello, se non
che del gran Capitano. Onde parve tanto più necessaria la felicità
nell'Eroe del poema e nell'impresa che ne fosse il soggetto, non giudicandosi
degno d'epopea un Capitano vinto da' nemici nè una guerra perduta.
Sin qui andava bene: ma v'era il grandissimo
inconveniente che l'interesse che i lettori possono prendere per li fortunati,
ancorchè virtuosi, è scarso, debole e breve, e non [3125]si
può reggere pel corso d'un lungo poema, nè tutto, per così
dire, animarlo e vivificarlo, nè anche sufficientemente animarne una
sola parte. Mancando il contrasto fra la virtù e la fortuna, oltre che
ne scapita la verità dell'imitazione, essendo pur troppo il vero che
questo contrasto sussiste nel mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso
fortunato è soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema, e
impedisce l'illusione,[58]
(massime a' moderni tempi, perchè a quelli d'Omero era altra cosa); ne
seguiva anche il pessimo effetto della freddezza, perchè il lettore non
ha che interessarsi per la virtù, vedendola felice, ed ottener
già quello che le conviene.
Quindi è che ne' poemi epici
posteriori ad Omero, l'Eroe e l'impresa felice nulla avrebbero interessato i
lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità non fossero in
qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In
verità un [3126]poema epico di lieto fine richiede
necessariamente la qualità di poema nazionale; e per ciò che
spetta e mira a esso fine, un poema epico non nazionale non può
interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un interesse
universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze.
L'Eneide fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli episodi e tutte
le parti e allusioni che spettano alla storia ed alla gloria de' Romani,
l'Eneide anche pel suo proprio soggetto potè produr ne' Romani il primo
di quegl'interessi che abbiamo distinto in Omero, perocchè i Romani si
credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d'Enea consideravasi o
poteva considerarsi da essi come un successo e una gloria avita, e ad essi
appartenente, e da essi ereditata. Il soggetto della Lusiade fu nazionale, e di
più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre
quel primo interesse di cui ragioniamo. Il soggetto dell'Enriade è
affatto nazionale e la memoria di quell'Eroe era particolarmente cara ai
francesi, onde la scelta dell'argomento in genere fu molto giudiziosa, massime
ch'e' non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi
forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana da'
tempi d'Omero. Il soggetto e l'eroe [3127]della Gerusalemme furono anche
più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi
ad interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a
una nazione sola, ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un
medesimo spirito, da una medesima professione, da un medesimo interesse circa
quello che fu il soggetto del Goffredo. Dico tanto più degni, perchè
essendo d'interesse più generale, rendevano il poema più che
nazionale, senza però renderlo d'interesse universale, il che,
trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire
quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare perchè
quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava
però ancora generalmente ne' Cristiani uno spirito di sensibile odio contro
i Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perchè in
quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne' costumi e divisi tra
loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana [3128]come
cosa propria, e i nemici di lei come propri nemici ciascuno; e quindi non solo
con odio spirituale e per amor di Dio, ma con odio umano, con passione per
così dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto, e per inclinazione
odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro
di Cristo era cosa di che allora tutti s'interessavano, siccome in questi ultimi
tempi, della distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè
questa e quella fossero più nel desiderio che nella speranza, o certo
più desiderate che probabili: aggiunta però di più la differenza
de' tempi, perocchè nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni e i
desiderii pubblici erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e costanti
ch'e' non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O
aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro
ingegno nell'esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per
le stampe, le nazioni e i principi d'Europa [3129]a deporre le
differenze scambievoli e collegarsi insieme per liberar da' cani[59] il
Sepolcro, e distruggere il nemico de' Cristiani, e vendicar le ingiurie e i
danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto generale così delle
persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de' gabinetti,
certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta libertà
della voce e della stampa, massimamente in Italia, non eran pochi;[60] e
di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni
digressioni ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si riscaldava
l'immaginazione de' poeti e de' prosatori, e se ne traeva l'ispirazione dello
scrivere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della libertà della
Grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti i savi
greci la concordia di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guerra contro il
gran re, e contro il barbaro impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E
come Isocrate [3130]per conseguir questo fine s'indirizzava colle sue
studiatissime ed epidittiche, scritte e non recitate orazioni ora agli Ateniesi
(nel Panegirico, e v. l'Oraz. a Filippo, ediz. sopra cit. p.260-1.) ora a
Filippo, secondo ch'ei giudicava questo o quelli più capaci di volerlo
ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la Grecia e capitanarla
contro i Barbari, così nel 500. lo Speroni s'indirizzava pel detto
effetto con una lavoratissima orazione stampata e non recitata nè da
recitarsi, a Filippo II di Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le
occasioni. Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu
adempiuto da Alessandro, mosso fra l'altre cose, come è fama (v. Eliano
Var. l.13. e J ), dall'orazione
appunto che Isocrate n'avea scritto a Filippo suo padre, l'uno e l'altro
già morti.
Or considerate queste circostanze si trova
veramente savissima, opportunissima, nobilissima la scelta fatta dal Tasso, e
degna di quel grand'animo, che seppe concepire nientemeno [3131]che un
poema europeo (qual fu il Goffredo non meno per l'argomento che per gli altri
pregi), dove la generalità dell'interesse non pregiudicasse (ch'è
pur sì difficile e raro) alla vivacità e forza del medesimo.[61] E
in vero se dalla estensione dell'interesse si deve misurare, almeno in qualche
parte, il pregio d'un poema, anzi d'ogni scrittura, niun poema epico in questa
parte nè vinse nè agguagliò la Gerusalemme; siccome
ancora, secondo le opinioni di que' tempi, ne' quali ci dobbiamo riporre
coll'intelletto, niun poeta epico si propose mai scopo più nobile
nè più degno nè più magnanimo che il Tasso, il quale
intese col suo poema di contribuir più che tutti gli altri scrittori
insieme, ad eccitare i principi Cristiani a quella sacra e generosa guerra ec.
coll'esempio e la lode di quelli che l'avevano intrapresa e valorosamente
operata e felicemente terminata. (Puoi vedere per meglio conoscere le opinioni
e i sentimenti [3132]dell'Europa cristiana verso l'impero turco nel 500,
la B. G. del Fabricio, t.13., p.500-6.)[62]
Molto ragionevolmente adunque i sopraddetti
poeti (per non parlare degli altri, come di Voltaire e di Ercilla autore dell'Araucana,
e del Trissino ec.) scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la qual
circostanza (largamente però intendendo la parola nazionale, come p.e.
circa la Gerusalemme) è assolutamente impossibile dare alcuno interesse
a un poema epico che abbia e serbi la unità, com'ella oggi s'intende. Ed
è perciò ben poco lodevole l'assunto di quel moderno che volle
dare all'Italia una nuova Gerusalemme. (Arici, Gerusal. distrutta).
Ma l'interesse che nasce dalla virtù
felice è, come ho detto, sempre debole anche in un soggetto nazionale, e
soffre moltissimi inconvenienti, massime in tempi così diversi da quelli
di Omero, come sono i moderni, e come furono quei di Virgilio che in molte
parti si rassomigliano ai presenti.
1. Tutte quelle speciali circostanze che ne'
tempi antichissimi rendevano singolarmente pregevole [3133]la
felicità, e cagione di stima per se medesima, perirono ben tosto, ed
altre contrarie ne sottentrarono che produssero e producono contrario effetto,
e sempre lo produrranno, perchè queste seconde circostanze non sono per
passar mai.
2. È così falso,[63] o
per lo meno straordinario, che la virtù sia compagna della fortuna, che
un virtuoso fortunato, un meritevole che ottiene il suo merito (e tanto
più s'egli è straordinariamente meritevole, se la sua
virtù è veramente singolare, il che oggi sommamente nuoce) eccede
quasi quel grado di singolarità e rarità che è compatibile
colla credibilità, colla illusione, coll'immedesimarsi che dee fare il
lettore ne' casi e ne' personaggi narrati dal poeta, con quella cotal somiglianza
che il lettore dee pur trovare tra quei casi e i presenti, tra quelle persone e
se stesso; deve, dico, trovarla per qualche parte, a voler ch'ei ci provi
interesse. Di questo inconveniente ho già detto di sopra.[64]
Esso ancora non è mai per passare, anzi cresce e crescerà, si
conferma e confermerassi ogni dì maggiormente.
[3134]3. E ciò tanto
più, quanto l'idea che noi abbiamo della virtù è ben
diversa da quella che s'aveva a' tempi d'Omero. La virtù qual suol
essere concepita dai moderni ha la fortuna assai più nemica, che non
quella virtù concepita dagli antichissimi, la quale consisteva quasi
tutta o principalmente nella forza e nel coraggio; qualità che, se non
sempre, certo assai spesso son seguite (anche oggidì) dalla fortuna, e
molto giovano a conseguirla. Ond'era tanto più ragionevole e conveniente
che a quei tempi l'eroe del poema epico, il quale dev'esser sommamente
virtuoso, si scegliesse felice, perchè quella virtù in ch'ei si
doveva rappresentare eccellente, conduce infatti alla felicità, e il
mostrar ch'ella non avesse conseguito il proprio intento, l'avrebbe mostrata
imperfetta, come quella che non era bastata a produrre quel ch'ella suole, e a
che ella naturalmente serve e conduce. Massime che gli uomini sogliono giudicar
dai successi, [3135]ed estimare assolutamente la natura, le
qualità, il grado, il valore e la propria bontà delle cose dai
loro effetti. Ma la virtù modernamente considerata, è per sua
stessa natura, non solo non conducente, ma pregiudizievole alla fortuna. Questo
discorso ha massimamente luogo ne' tempi più moderni, in che l'idee
morali, e per cagione del Cristianesimo e per altro, sono più raffinate,
e sempre più tanto si raffinano quanto più divengono inutili, e
tanto si perfezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno segregando
affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente le dette considerazioni sono anche
applicabilissime ai tempi di Virgilio; e in fatti la virtù di Enea
è immensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di perfetto eroe
concepito e voluto esprimere da Virgilio fu diversissimo, e in buona parte
contrario, a quello di Omero.
4. Oggi l'amor patrio e nazionale è
quasi nullo. Anche ne' romani al tempo di [3136]Virgilio esso era
abbastanza raffreddato perchè quasi niun di loro considerasse più
la sua patria come cosa individualmente sua propria. Il che appunto facevano i
più antichi, e come questo cagionava l'entusiasmo che ciascun d'essi manifestava
nell'operare per la patria, così produceva il grande interesse che ciascuno
pigliava alle glorie d'essa patria cantate dai poeti. Questo spirito non si trovava
più ne' Romani, e però non potè essere se non mediocre in
esso loro l'interesse verso le vittorie e le lodi di remotissimi loro antenati,
che oltracciò portarono un nome diverso dal loro. (troiani). Omero
cantò ai greci liberi, e Virgilio ai Romani, dopo lunghissima e
ferocissima libertà fatti sudditi, e di più pacificamente
tiranneggiati, perchè quello fu quasi il più pacifico tempo
dell'imperio romano, e in ch'essi meno pensarono a libertà e meno si
dolsero del giogo. Delle nazioni moderne poi, nulla dirò. Parlino i
fatti; e se ne deduca quanto vivo e [3137]durabile interesse possa cagionare
in un'epopea la nazionalità dell'impresa e dell'Eroe. Quando non esiste
quasi nazionalità nelle nazioni. Ciò vale sopra tutto per
l'Italia.
5. Finalmente l'interesse che può
produrre in un poema epico un Eroe ed un'impresa nazionale felice, nè
può, come è chiaro, riuscire universale, nè anche
può essere perpetuo, come più sotto si mostrerà cogli
esempi. Unico interesse che possa in un'epopea riuscire universale e per luogo
e per tempo, cioè comune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si
è quello che nasce dalla sventura, e più dalla virtù
sventurata, dalla beltà, dalla giovanezza e anche dal valor militare
personale sventurato. E questo altresì può solo esser vivissimo,
e durare in chi legge per tutto il corso della lettura, e perseverare nel suo
animo lungo tempo di poi, come pungolo lasciato nella piaga.
Ma l'unico modo che v'aveva d'introdurre
questo interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero nell'Iliade,
cioè di duplicare onninamente l'Eroe, l'interesse e lo scopo poetico di
tutta l'epopea, non solamente [3138]dagli Epici posteriori ad Omero non
fu voluto abbracciare, ma fu sopra tutte l'altre cose fuggito, come quello che
dirittamente avrebbe esclusa quella unità d'interesse, di scopo e
d'Eroe, che quei poeti e i Dottori de' loro tempi e de' nostri, davano per
primaria e supremamente indispensabile qualità del poema epico: la
unità, dico, non quale è quella della Iliade, dalla quale pur
furono tratte le regole, le norme e il tipo dell'epopea, ma quale i posteriori
ingegni metafisicamente sottilizzando, e troppo artisticamente e strettamente
considerando, la concepirono, determinarono e prescrissero. Ond'è che
quantunque in ciascuno de' nominati poemi epici v'abbiano molte sventure
cantate, ed avendovi una parte vittoriosa e felice, v'abbia altresì
necessariamente una parte soccombente e sfortunata, si guardarono però
bene tutti i detti poeti di farci piangere sopra questa sventura, come aveva
fatto Omero; e di condurre il poema in modo che [3139]all'ultimo la
vittoria della parte avventurosa, benchè sempre desiderata e allora
applaudita dal lettore, fosse nel tempo medesimo cordialmente da lui pianta e
lagrimata, destandosi così nel suo animo sì pel corso del poema,
sì massimamente nel fine, e durando in esso dopo la lettura quel vivo
contrasto di passioni e di sentimenti, quella mescolanza di dolore e di gioia e
d'altri similmente contrarii affetti che dà sommo risalto agli uni e
agli altri, e ne moltiplica le forze, e cagiona nell'animo de' lettori una
tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli
vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla
poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già
lasciar l'animo nostro in riposo e in calma. Questi mirabili effetti li
produsse divinamente la Iliade, costringendo gli uditori greci a piangere sulla
morte e sui funerali di Ettore ucciso dalle armi de' loro [3140]maggiori,
in guerra, per loro, giusta, e con giusta causa (cioè la vendetta di
Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di Andromaca e della
desolata città nemica, già vicina all'ultima calamità,
che, per così dire, le loro proprie armi o i loro proprii eserciti gli
avevano infatti recata. Sublimissimo effetto concepito, disegnato e prodotto da
Omero in tempi feroci e semibarbari, e non saputo concepire nè produrre
da verun altro epico in tempi civili. Perocchè temendo di raddoppiar
l'interesse, (ch'era appunto ciò che avevano a fare, e senza il che non
era possibile quel divino effetto), evitarono espressamente e studiosamente di
fare in modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa riuscisse
più che tanto virtuoso o per qualunque lato interessante sino al fine. E
maggiormente si guardarono di sempre ugualmente condurre e in ultimo annodare
le fila della loro epopea tanto all'esito [3141]dell'Eroe vittorioso
quanto a quello di un altro Eroe a lui per molti lati pari e seco lui
compensabile e comparabile ma soccombente. Come fece Omero, perchè
nell'Iliade Ettore è, e fu voluto rappresentare, espressamente
comparabile ad Achille.
Turno non occupa se non pochissima parte
dell'Eneide, e riesce così poco interessante che certo la sua sventura e
morte non ha mai tratto ad alcuno un sospiro. Gli Eroi de' Barbari nella Gerusalemme
sono appostatamente più d'uno e di ugualissimo pregio,[65]
sicchè l'interesse non si determina per alcuno di loro, nè della
loro morte o calamità niuno si compiange, nè a veruna di queste
morti o calamità tendono le fila del poema. Di più il Tasso, stante
lo spirito del suo tempo, e stante che in quel caso pareva che la Religione
interdicesse, come suole, e confondesse colla empietà
l'imparzialità, non potè a meno di rappresentare con tratti odiosi
(in alcuno più in altri manco, ma generalmente, e massime in Solimano ed
Argante, odiosi), i nemici de' Cristiani. Quindi nella presa di Gerusalemme
niuno sente per niun modo la sventura e il disastro di quella città
infedele, nè [3142]la presa è descritta o narrata con
intenzione di muovere a compatimento, nè in maniera da poterne mai
cagionare nè meno a caso. Altrettanto dicasi delle sconfitte degli
eserciti maomettani o pagani. E similmente si discorra dell'altre moderne
epopee.
Non è già che Virgilio e gli
altri volessero e intendessero spogliare affatto d'ogni valore, d'ogni
virtù, d'ogni pregio la parte contraria alla vincitrice. Anzi intendendosi
a' tempi loro meglio che a' tempi d'Omero, che tanto più si loda colui
che vince non per caso ma per virtù, quanto s'amplifica quella del
vinto, non lasciarono di volere espressamente rappresentare virtuosi in molte
parti e degni di stima e lodevoli anche i nemici, sì tutti insieme, come
parecchi distinti personaggi del loro numero. Ma ciò facendo,
intentissimamente evitarono che l'interesse pe' nemici o per alcuno de' medesimi
non giungesse di gran lunga a pareggiare quello che volevano ispirare ai
lettori verso la parte e l'Eroe vittoriosi. Nel che riuscirono ottimamente,
anzi al di là della loro intenzione, perchè laddove essi vollero
pur [3143]comunicare alcun poco d'interesse a questo o quel personaggio
nemico o alla parte inimica, niuno gliene comunicarono.
Queste sono le forme di poema epico, e
queste le regole e il processo seguiti e adoperati dall'una parte da Omero, dall'altra
parte dai poeti epici che, per dir così, da lui nacquero. Comparate
così le forme, l'idea, e se così vogliamo dire, le cagioni, e le
intenzioni de' poeti, consideriamo ora generalmente e paragoniamo i rispettivi
effetti.
Nell'Iliade oggidì l'interesse per
Achille e per li greci, come ho detto, è poco o niuno, perchè i
suoi lettori non sono più greci. Nondimeno l'interesse nell'Iliade
è vivissimo continuo e durevole eziandio dopo la lettura. Esso è
per Ettore e per li troiani. I lettori di qualsivoglia nazione, dopo tanti
secoli, dopo tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano, tutti efficacemente
e continuamente s'interessano leggendo la Iliade. E tutti non per altri che per
li troiani e per Ettore, cioè per la sventura; e questo interesse [3144]si
riduce principalmente e come a suo capo alla compassione. Questa cioè
è quel sentimento dominante e finale, che noi nella Iliade provando, chiamiamo
interesse della medesima. Le quali cose mossero il Cesarotti a intitolar quel
poema, come ho detto, La Morte d'Ettore, misurando l'indole e l'intento
primitivo, proprio e vero del poema dall'effetto ch'ei produce sopra di noi in
tanta diversità e lontananza di tempo, di nazione, di opinioni, di
carattere e di costumi. Nell'Eneide l'interesse della compassione non
v'è. Dico non v'è, come interesse finale. Quello che si
concepisce per Didone, quello per Niso ed Eurialo sono interessi episodici che
non ci accompagnano se non per piccola parte del poema, nè hanno che
fare colla sostanza e collo scopo di esso, talmente che possono affatto
risecarsi senza che la testura nè il principale e finale effetto del
poema per nulla se ne risentano o ne siano cangiati. L'interesse per l'Eroe
felice, cioè per Enea, e per la parte felice, cioè per li
troiani, dovette esser mediocre anche a principio, [3145]come di sopra
ho mostrato, ed ora è più che mediocre. E ciò, non ostante
che il lettore di Virgilio non possa quasi a meno di trasferire o di continuare
ne' fortunati troiani dell'Eneide quell'interesse ch'egli ha conceputo per gli
sfortunati e vinti troiani della Iliade. Perocchè egli è
certissimo che l'Iliade oltre all'aver partorito l'Eneide, oltre all'averla
nutrita e cresciuta, per dir così, del suo proprio latte, (voglio dire
averle somministrato l'argomento e i materiali in gran parte, o datogliene
l'occasione, e d'altronde averle porto i mezzi e i modi di trattarla, e gli
ornamenti ec. cioè il modello, e le immagini, e le forme delle
invenzioni, dell'ordine, dello stile poetico ec.) la sostiene e l'aiuta anche
oggidì, comunicandole parte del suo proprio interesse, riscaldandola del
suo fuoco, e riverberandosi sulla Eneide e in essa influendo e derivandosi e
quasi irrigandola gli affetti che la lettura o la notizia della Iliade
inspirò. Laonde se la Eneide, quanto al suo principal soggetto ispira
alcuno interesse, egli è pur da notare che grande e forse la massima
parte di esso, non a lei propriamente appartiene, ma le vien di fuori, e
l'è totalmente accidentale ed estrinseco, non interiore ed essenziale,
nè in essa [3146]nasce ma altrove ed anteriormente nacque. Il che
non si deve confondere col proprio e nativo interesse dell'Eneide[66].
La Lusiade avrà certo interessato ed
interesserà forse anche oggidì i lettori portoghesi, nè si
può bastantemente lodare lo sfortunato Camoens per l'avere scelto un soggetto
così strettamente nazionale, e di più per l'aver saputo adattare
e far materia di poema epico un argomento allora modernissimo, qualità
che per l'una parte produce estreme difficoltà le quali a molti sono
sembrate in un poema epico insuperabili, e per l'altra sommamente
contribuirebbe a produrre o singolarmente accrescere l'interesse d'un'epopea,
come ancora di un dramma e di qualsivoglia poesia. Ma per li lettori dell'altre
nazioni non so quanto nella Lusiade possa essere l'interesse, nè se ne'
medesimi portoghesi, mancata la recente memoria di quelle imprese, e
raffreddato, come per tutta l'Europa, l'amor nazionale e gli altri sentimenti
magnanimi, la Lusiade produca per ancora un interesse abbastanza [3147]vivo,
continuo e durabile.
Quello spirito dell'Italia e dell'Europa
Cristiana verso gl'infedeli (e, diciamolo ancora, verso il Cristianesimo) che
disopra ho descritto, che regnò al tempo del Tasso e ne' precedenti, che
in lui ancora grandemente potè, che ispirò e produsse la
Gerusalemme, è totalmente sparito e perduto, e le nostre condizioni a
questo riguardo sono affatto cangiate in tutta l'Europa. Nullo è dunque
oggidì l'interesse della Gerusalemme. Dico che la Gerusalemme non ha
più realmente veruno interesse finale e principale, cioè non
ispira più quell'interesse ch'ella principalmente e per istituto si
propone d'ispirare; perocchè esso non ha più luogo negli animi
de' lettori, affatto cangiati come sono, nè può più
nascere in alcuno quell'interesse, essendo mutate e quasi volte in contrario le
circostanze. Benchè certo la Gerusalemme al suo tempo ispirò moltissimo
interesse, e forse maggiore che l'Eneide al tempo suo, ed oltre di questo universale
nelle colte nazioni, [3148]dove quello dell'Eneide non potè esser
che nazionale. Nè certo la Gerusalemme mancò del suo fine. Ma ora
non per tanto non può più produrlo. Interessi però
episodici e non finali ve n'hanno molti nella Gerusalemme. V'ha quello di
Olindo e Sofronia e nasce dalla sventura. V'ha quello di Erminia, quello di
Clorinda, e nascono dalla sventura. V'ha quello del Danese, e nasce dalla
sventura, e, quel ch'è notabile, da sventura toccante alla stessa parte
che aveva a riuscir vittoriosa e fortunata, cioè a dire alla Cristiana.
Colla quale occasione è da considerare la bella e straordinaria facoltà
che concedeva al Tasso lo spirito del suo tempo, cioè di congiungere la
compassione alla felicità, di far nascere questa da quella, di salvar
l'estrema unità che si esigeva ne' poemi epici pigliando un Eroe felice
e facendolo non per tanto compassionevole. Alleanza impossibile anticamente,
difficile e di poco buono effetto oggidì. Ma le opinioni Cristiane (che
al suo tempo fiorivano) riponendo [3149]la felicità propria
dell'uomo nell'altra vita, facendola indipendente da quella di questo mondo,
considerando le sventure temporali come vantaggi e reali fortune, insegnando
massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per
Dio, e più chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di
rappresentare come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un
personaggio, il quale, facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure
magnanimo ec., poteva pur fare sommamente compassionevole e tenero. Nè
altrimenti egli si governò circa il Danese, il quale ei non diede
già per infelice, ma per felicissimo veramente, essendo morto, e
generosamente morto per Dio, e nel tempo stesso il volle fare e il fece oggetto
di compassione e di tenerezza per la temporale sventura e per questa morte
fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei non si volle prevalere di tal
facoltà nè di tali opinioni e disposizioni del suo tempo, se non
quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone) [3150]e in
episodii; e l'eroe principale volle farlo felice non solo eternamente ma
temporalmente altresì, e la principale impresa volle che bene uscisse
non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non m'ardisco
però di riprendere il suo giudizio, nè so biasimarlo s'ei
credette che i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e
che troppa forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia,
nè potessero molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido
effetto. Siccome essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le
azioni e le quasi secondarie opinioni degli uomini; nè valsero in alcun
tempo a cangiare la natura umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta.
In verità due sorti di opinioni e di dogmi, l'una dall'altra distinta, e
che quasi nulla comunicavano insieme, tenevano all'età del Tasso e ne'
secoli a lei precedenti gl'intelletti degli uomini. L'una Cristiana, l'altra
naturale; quella quasi del tutto inefficace [3151]e inattiva, la cui
forza non si stendeva fuori dell'intelletto e ne' termini di questo si
restringeva la sua esistenza; l'altra efficace attiva che dall'intelletto
stendevasi a influire e muovere la volontà, e governare le operazioni e
la vita. Perocchè gli uomini sono sempre mossi dalle opinioni, nè
altro che le opinioni può cagionare le loro azioni volontarie, nè
v'ha opera umana volontaria che dalla opinione, ossia giudizio dell'intelletto,
non derivi. Ma l'intelletto umano è capace di contenere al tempo stesso
opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di contenerli conoscendone la
scambievole, inconciliabile contrarietà, come accadeva ai detti tempi.
Ben diversi dalla primissima età del Cristianesimo, quando un solo
genere di opinioni regnava negli animi, cioè quelle della religione, ed
era efficace, e stendevasi alla volontà ed al reggimento delle azioni
interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò assai meno di quel
che può credere [3152]chi non conosce la storia ecclesiastica, o
chi non ci ha riflettuto, o chi in essa si lascia imporre dai nomi, e dal
linguaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, se non altro, divenne
in breve assai raro. Del resto egli è duopo distinguere in ciascuna
età, nazione, individuo le opinioni efficaci dalle inefficaci che
nell'intelletto puramente si restringono. Quelle talor possono servire alla
poesia, talora non possono (come le presenti, e vedi la pag.2944-6.), talor
più, talora meno; queste sempre pochissimo o nulla. Parlo delle opinioni
che in se hanno relazione alla pratica e al governo della vita, non dell'altre,
che son fuori del mio discorso. P.e. quelle opinioni, illusioni ec. antiche o
moderne che derivando dalla immaginazione o dall'esperienza ec. persuasero e
occuparono, o persuadono ec. l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla che
far colla pratica della vita per lor natura, non influiscono sulla
volontà, e sono inefficaci, e queste possono però, ed anche
grandemente, servire alla poesia.
Da questa digressione, non aliena, cred'io,
dal proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi
assurdo che Omero in tempi feroci abbia tanto fatto giuocare la compassione nel
suo poema, n'abbia fatto un interesse principale e finale, abbia seguito e
ottenuto il suo intento in modo che anche oggidì, mancato l'altro
interesse all'Iliade, non si può forse tuttavia legger cosa che [3153]tanto
interessi, non avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione
quasi unicamente sopra i nemici de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva,
i quali non istimavano gran fatto la generosità verso il nemico, anzi
apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni abbiano fatto ed
espressamente esclusa la compassione dal grado d'interesse finale, abbiano per
lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici della
parte e dell'Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella Gerusalemme
non dava scrupolo al Tasso perch'ei la fa morir convertita, e nel medesimo
canto la scuopre per cristiana di genitori e di nazione; sì ch'ella cade
in ultimo, secondo l'intenzione finale del poeta, sopra una Cristiana), ec. ec.
In verità egli sarebbe stato credibile, e certo egli avrebbe dovuto
accadere, tutto l'opposto.
1. Quella raffinatezza dell'amor proprio e
della facoltà di sentire, la quale è necessaria perchè la
compassione trovi luogo nell'animo umano, [3154]la produce, e seco il
piacere ch'altri ne gusta non fu in alcun modo propria de' tempi d'Omero, e
proprissima di quelli di Virgilio e de' moderni, perocch'ella nasce dalla civiltà.
Parlo qui della compassione inefficace, qual è quella che si prova
leggendo un poema, e che spesso e facilmente ha luogo negli animi civili,
massime destandovela lo charme e l'artifizio della poesia, e degli abili
prosatori. La compassione efficace la qual ci muove a sovvenire alle miserie
altrui, nasce anch'essa dalla detta raffinatezza, e quindi dalla civiltà,
ma richiede una raffinatezza maggiore di quella che la civiltà soglia
ordinariamente produrre e produca nel comune degli uomini, e una facoltà
naturale di sentire maggior dell'ordinaria, e quindi ella è e fu in ogni
tempo ben rara.
2. Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava
quello che negli uomini si chiama cuore, moltissimo l'immaginazione. Oggi per
lo contrario (e così a' tempi di Virgilio) l'immaginazione [3155]è
generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo
è ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì difficilmente
può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed esser
grande per quella parte che propriamente spetta all'immaginazione e per
ciò che da lei deriva, come furono Omero e Dante. Se l'animo degli uomini
colti è ancor capace d'alcuna impressione, d'alcun sentimento vivo,
sublime e poetico, questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti
oggidì appresso gli altri poeti di verso e di prosa, il cuore è
sottentrato universalmente e quasi del tutto all'immaginazione, quello
gl'ispira, quello essi mirano a commuovere, e su quello realmente operano
sempre ch'ei sono atti a riuscire nel loro intento. I poeti d'immaginazione oggidì,
manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la ricerca, e siccome non fu la
immaginazione che li mosse a poetare, ma essi che si espressero dal cervello e
dall'ingegno, [3156]e si crearono e fabbricarono una
immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e
riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell'animo de' lettori, e
non fanno alcun buono effetto. Così dico di quelle parti che ne' moderni
scrittori sono di pura immaginazione. Lord Byron è un'eccezione di
regola, forse unica, per se stesso. V. p.3477. Quanto all'effetto delle sue
poesie sopra i lettori, dubito ch'elle debbano essere eccettuate dal numero
delle altre poesie d'immaginazione. V. p.3821. L'animo nostro è troppo diverso
dal suo. Male ei ci può restituire quella immaginativa ch'egli ha
conservata, ma che noi abbiamo per sempre perduta.[67] Ora
tra i poeti epici egli è pure strano che Omero antichissimo abbia tanto
mirato al cuore, e che Virgilio e i moderni non si sieno proposti per oggetto
finale ed essenziale de' loro poemi che di muovere l'immaginazione.
Perocchè il soggetto essenziale e unico principale de' loro poemi si
è un Eroe felice e un'impresa felicemente [3157]terminata. Ora la
felicità non vale che per la maraviglia, la quale spetta
all'immaginazione e nulla al cuore. Tanto possono fare errare i più
grandi spiriti le regole e l'arte, e tanto nascondere la natura dell'uomo, de'
tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro e occultare il proprio
scopo e la propria essenza di quelle cose medesime ch'essi intraprendono ed
alle quali esse regole appartengono.
3. Le idee, i principii di
generosità, di equità, di umanità, di beneficenza verso il
nemico sì ne' giudizi sì ne' sentimenti sì nelle azioni,
nacquero, si può dir, dopo Omero, mitigati che furono i ferocissimi e
implacabili ed eterni odi nazionali, proprii degli uomini ancor vicini a
natura.[68]
Essi principii sono massimamente comuni ed efficaci ne' tempi moderni,
ne' quali non vi possono avere odi nazionali, non avendovi quasi nazioni, e
niuno individuo considera, come anticamente, per nemici personali quelli della
nazione, i quali altresì ed effettivamente nol sono nè per
sentimento nè per fatto, ma nemici [3158]solamente del suo re ec.
Anzi i detti principii oggi degenerano in totale indifferenza verso il nemico
della nazione, la qual porta a non distinguerlo quasi affatto dall'amico. Or
non è egli maraviglioso che il poema d'Omero sia cento volte più
imparziale e generoso verso i nemici della sua propria nazione, che non sono i
poemi moderni verso la parte contraria a quella ch'in essi si celebra? e tanto
che volendo nella Iliade investigare i proprii sentimenti del poeta, e non
mirando se non se all'espressione di questi, appena si potrebbe oggi
distinguere se Omero fosse greco o troiano, o d'una terza nazione, e in
quest'ultimo caso, per qual di quelle due fosse più propenso nel suo
animo.
4. Oggi, come ho già detto, e
proporzionatamente eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che
più non esista interesse pubblico, se non in quei pochi che le cose
pubbliche amministrano, e che il pubblico rappresentano, [3159]anzi, si
può dir, lo compongono e costituiscono. Ed è ben cosa ragionevole
e consentanea che l'interesse pubblico negli altri più non esista (e chi
governa non legge poemi). Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che
qualche felicità e gloria nazionale, poco possono oggidì
interessare, o certo assai meno che a' tempi d'Omero. Ma la sventura, e massime
degl'immeritevoli, è sempre dell'interesse privato di ciascheduno uomo.
Niuno è che non si stimi infelice e conseguentemente nol sia, e niuno
è parimente che non si reputi immeritevole della infelicità ch'ei
sostiene. Queste disposizioni benchè comuni a tutti i tempi, sono
massimamente sensibili oggidì, poichè per le circostanze
politiche la vita non ha più come vivamente occuparsi e distrarsi, e
d'altronde il lume della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, o
impedisce del tutto qualunque illusione di felicità. Quindi eziandio
indipendentemente dalla compassione, egli era [3160]tanto più
conveniente oggidì che a' tempi d'Omero il far molto giuocare ne' poemi
epici le sventure degli uomini, quanto che oggi il sentimento della
infelicità nelle nazioni civili è più vivo che fosse mai
nel genere umano, ed è il sentimento e il pensiero per così dir
dominante, da cui niuno oramai trova più come distrarsi. E la infelicità
individuale degli uomini è, per così dire, il carattere o il
segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel d'Omero, il quale forse
godette di quella maggior felicità o minore infelicità che possa
godersi dall'uomo nello stato sociale, e che sempre risulta dalla grande
attività della vita e dalle grandi e forti illusioni, cose proprissime
di quel tempo, massime nella Grecia. Or dunque oggidì le sventure
cantate da' poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in
ogni altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura
l'universale e più continuo sentimento degli uomini d'oggidì, ed
amando naturalmente gli uomini di parlare e [3161]udir parlare delle
cose proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa,
e dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si
assomigliano, nè potendosi trovar somiglianza più universale che
quella della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui
o di legger ne' poeti i suoi propri sentimenti, e contando per somma ventura
ogni volta ch'egli incontra o nella vita o ne' libri qualche notabile
conformità o di casi o di circostanze o di opinioni o di carattere o di
pensieri o d'inclinazioni o di modi o di vita e abitudini, colle sue proprie; e
consolandosi ciascheduno delle sue sventure coll'esempio vivamente rappresentato,
e più col vederle quasi celebrate e piante in altrui (e ciò in
soggetto e circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli
cantati ne' poemi epici), innalzando il concetto di se stesso quasi il canto
del poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed
intenerendosi nella lettura quasi sui proprii mali. Chè in verità
qualora leggendo i poeti (versificatori o prosatori) o le storie noi ci
sentiamo [3162]commuovere da quelle vere o finte calamità, e ci
lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le miserie altrui ma
più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo
in quel medesimo punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al
pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch'è vera e propria e debita
arte, e dev'essere scopo, del poeta l'occasionarla) è principal cagione
di quelle nostre lagrime. E ci accade allora (e così ne' teatri ec.)
come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve
vita a se destinata ec. ec. sublimissimo e bellissimo e naturalissimo quadro di
Omero. Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera più
particolarmente appartenenti ai lettori, interesseranno sempre più, per
la maggior somiglianza e prossimità, che non è quella dello
sventurato in generale, e perchè sarà tanto più facile e
pronto il passaggio dell'animo del lettore da quelle calamità alle sue
proprie ec. Onde sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema sia
nazionale, e questi soggetti saranno sempre preferibili agli altri, e la nazionalità
conferirà moltissimo all'interesse.
Venendo oramai a ristringere il mio
discorso, dico che l'Iliade, benchè, oltre al non esser noi greci, sieno
corsi da ch'ella fu scritta o cantata, ben ventisette secoli, con tutte quelle
innumerabili e sostanzialissime diversità che sì lungo tratto di
tempo ha portato allo spirito ed alle circostanze esteriori [3163]e
interiori dell'uomo e delle nazioni, c'interessa senz'alcun paragone più
che l'Eneide scritta in tempi tanto posteriori, e più conformi ai
nostri, ed aiutata pur grandemente come ho detto, dall'interesse medesimo della
Iliade; più che la Gerusalemme, più che altri tali poemi, i
quali, massimamente rispetto all'Iliade, si possono dir nati l'altro ieri. Dico
c'interessa estremamente di più, intendendo dell'interesse totale e finale,
e risultante da tutto il poema, e diffuso e serpeggiante per tutto il corpo del
medesimo. Il quale interesse così inteso, manca quasi affatto ai poemi
che dalla Iliade derivarono; perocchè non bisogna confonder con esso, il
piacere che ci cagiona la lettura di tali poemi, derivante dallo stile,
dalle immagini, dagli affetti, e da tali altre cose che non hanno
essenzialmente a far coll'ultimo e principale scopo e scioglimento del poema;
nè anche i particolari (o episodici o non episodici) interessi qua e
là sparsi, non finali nè continui [3164]o perpetui, e
nascenti da questa o da quella parte e non dall'insieme e dal tutto del poema;
nè anche finalmente quell'interesse che può nascere dal semplice
intreccio, interesse di pura curiosità, che non aspira nè corre
ad altro che a voler essere informato dello scioglimento del nodo, conosciuto
il quale, esso interesse finisce; interesse pochissimo interessante, e
superficialissimo nell'animo; interesse che può esser sommo in poemi,
drammi ed opere di niuno interesse, anzi non è mai nè sommo
nè principale nè anche molto notabile e sensibile, se non se in poemi,
drammi ed opere di niun intimo e profondo interesse e di pochissimo valor poetico,
perchè il destare, pascere e soddisfare la curiosità non è
effetto che abbia punto che fare colla natura della poesia, nè le
può esser altro che accidentale e secondario. Or dunque i poemi derivati
dalla Iliade, leggonsi con molto piacere, destano di tratto in tratto alcuno
interesse più o men vivo e durabile, [3165]ma essi mancano quasi
affatto di quell'interesse totale, finale e perpetuo, di cui l'Iliade, dopo 27
secoli, appo uomini non greci, sommamente abbonda, e dal quale si dee senza
fallo misurare il pregio e il grado di bontà del complesso e dell'intero
di un poema epico, siccome d'ogni altro poema.
Per lo che tornando finalmente là
donde incominciai, conchiudo che tutto all'opposto di ciò che si dice e
si crede, il poema dell'Iliade sarà forse dai posteriori poemi vinto ne'
dettagli o nelle qualità secondarie, come dir lo stile, o alcuna parte
di esso, qualche immagine, qualche parte o qualità dell'invenzione;
sarà forse eziandio vinto in alcuna parte della condotta, come nel
celare più studiosamente l'esito, laddove Omero par che studiosamente lo
sveli innanzi tempo (e forse anche questo si potrebbe difendere, e in ogni modo
non nuoce che all'interesse di curiosità, del quale Omero, o come
superficialissimo e non poetico ch'egli è, [3166]o come narrando
forse cose universalmente allora cognite alla nazione, non si fece alcun
carico); ma che nell'insieme, nel totale del disegno, nell'idea nello scopo e
nell'effettivo risultato del tutto, tutti i poemi epici cedono di gran lunga
all'Iliade.[69]
E soggiungo che in ciò gli cedono appunto per aver seguìto una
unità che Omero non si propose, e a causa di quello stesso incremento e
stabilimento dell'arte che li conformò e regolò, e che in essi si
vanta, e che Omero non conobbe, e che peccano appunto per quella maggior
perfezione di disegno che loro si attribuisce sopra l'Iliade, e che in questa
pretesa perfezione consiste appunto il maggiore ed essenzial peccato del loro
disegno, peccato che niuno ci riconosce, non potendo però lasciare di
sentirne gli effetti, ma rapportandoli a non vere cagioni, e male esigendo che
quei poemi producano effetti non compatibili realmente con quel disegno che in
essi lodano, e senza cui gli avrebbero biasimati; e finalmente che Omero [3167]non
conoscendo l'arte (che da lui nacque) e seguendo solamente la natura e se
stesso, cavò dalla sua propria immaginazione ed ingegno un'idea, un
concetto, un disegno di poema epico assai più vero, più conforme
alla natura dell'uomo e della poesia, più perfetto, che gli altri,
avendo il suo esempio e in esso guardando, e ridotta che fu ad arte la
facoltà ond'egli avea prodotto que' modelli, e determinata, distinta e
stretta che fu da regole la poesia, non seppero di gran lunga fare.
(5-11. Agosto. 1823.)
Alla p.3109. margine. E l'egoista lusinga il
suo amor proprio anche col persuadersi di non essere egoista e di amare altri
che se, e col credere di darne a se stesso una prova. Quindi per gli animi
raffinati è anche più dolce la compassione verso gl'inimici che
verso gli amici o gl'indifferenti, prima perchè tanto più facilmente
e vivamente l'uomo si persuade che quel sentimento ch'egli allora prova sia
sgombro e puro d'ogni mescolanza e influenza d'egoismo; poi perchè tanto
maggior concetto [3168]egli allora forma della grandezza e
generosità e nobiltà del suo proprio animo, e tanto più
s'aggrandisce a' suoi propri occhi, (considerando la compassione ch'ei concede
agli stessi nemici), del quale effetto della compassione ho detto p.3119. Onde
veramente somma fu l'arte, squisitissima l'intenzione e lo scopo, e supremamente
bello l'effetto della poesia d'Omero, il quale rivolge principalmente sui
nemici la compassione di che egli anima tutto il suo poema, ed alla quale come
all'uno de' principali effetti di questo, egli mira.
La compassione è quasi un'annegazione
che l'uomo fa di se stesso, quasi un sacrifizio che l'uomo fa del suo proprio egoismo.
Or questo è fatto per egoismo, niente meno che il sacrifizio della roba,
de' piaceri, della vita medesima, che l'uomo fa talvolta, non da altro mosso
che dall'amor proprio, cioè dal piacere ch'ei trova in far quella tale
azione. Così l'egoismo giunge fino a sacrificar se stesso a se stesso:
tanto è l'amor ch'ei si porta, ch'ei si fa volontaria vittima di se
medesimo: tanto egli è pieghevole e vario, e capace di tanti [3169]e
sì strani e sì diversi travestimenti, che per suo proprio amore
ei cessa anche di esser egoismo, e quando voi lo vedete sacrificar se medesimo,
egli è allora il più raffinato egoismo che si trovi, il
più efficace e potente e imperioso, il più intimo e il più
grande, perocch'egli è maggiore negli animi in proporzione ch'ei sono
più vivi, delicati e sensibili, (come altrove più volte ho
detto), quale è necessario che sia in sommo grado chi può
veramente di sua propria volontà e scelta sacrificar se medesimo.
(12. Agosto. dì di Santa Chiara. 1823.)
Alla p.2776. Vedi la Grammat. del Weller,
edit. Lips. 1756. p.50. v.7.8. p.58.
fine.
(12. Agosto. dì di Santa Chiara. 1823.)
Et Davus
non recte scribitur. Davos scribendum: quod nulla
litera vocalis geminata unam syllabam facit. (geminata cioè p.e.
due a, o come in questo caso, due u). Sed quia ambiguitas vitanda
est nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario pro hac regula
digamma [3170]utimur, et scribimus DaFus, serFus, corFus. Donatus ad Ter. Andr. 1. 2. 2.
(12. Agosto, dì di S. Chiara. 1823.)
Così
ridondante, o con un certo cotal significato che non si può altrimenti
esprimere se non col gesto, si crede esser proprietà della nostra
lingua, e idiotismo del nostro dir familiare (benchè molto usato dagli
eleganti scrittori). V. pure Cic. ad Att. 14. 1. e il Forcell. in Abeo §.16o.
Ma quest'uso è latino e greco. V. il Forcell. in Sic ai § sesto,
nono, decimo, Catullo XIV. 16, e Platone nel Convito, ed. Astii, Lips. 1819. seqq. t.3. p.440. vers.24. E. Gli
spagnuoli hanno qualcosa di simile.
(12. Agosto. dì di S.Chiara. 1823.)
Profittare, approfittare, profiter,
aprovechar ec. quasi profectare da profectus di proficio.
Pretextar spagn. prétexter franc. da praetexo-xtus.
(12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.)
Diciamo volgarmente uomo indigesto
per difficile, bisbetico. Or tale appunto si è il proprio
significato del greco , per
metafora morosus, opposto di . E v. la
Crus. in discolo.
(12. Agos. dì di Santa Chiara. 1823.)
[3171]Niuna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto, nè l'altezza e
nobiltà dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e interamente
comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la
pluralità de' mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo
ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo,
e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente
sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde
quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come
smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con questo
atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua
nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la
quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire
a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare
e contener [3172]col pensiero questa immensità medesima della esistenza
e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai pure
a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto all'altre cose,
eziandio ch'ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per nulla
dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale
sopra tutti gli esseri terrestri si è l'uomo, tanto sono più capaci
della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa
conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto
maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l'individuo
è di maggiore e più alto e più capace intelletto ed
ingegno.
(12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.)
Al proposito di habeo e di usati per essere spettano
i verbali habitus e etc. P.e.
habitus corporis, cioè modus habendi o se habendi,
modus quo corpus habet [3173]o se habet, vale propriamente modo
di essere del corpo ec.
(12. Agos. dì di S. Chiara. 1823.)
Alla p.3132. marg. principio. Da quello che
si legge nell'epistola di Antonio Eparco a Filippo Melantone (ch'era pur non
cattolico, ma famoso eretico e poco si doveva curare de' luoghi santi) la qual
epistola è riportata dal Fabricio nel citato luogo; e dalle varie scritture
ed anche storie di quei tempi, si raccoglie che in verità il gabinetto
ottomanno mirasse a soggettarsi l'Europa, non tanto per diffondere la religione
di Maometto (sebbene anche questo, s'io non m'inganno, è precetto o
consiglio dell'Alcorano, che si proccuri di diffonderla coll'armi il più
che si possa, promettendo premi nell'altra vita a chi sostenga di morire
combattendo per questa causa ec.) quanto per propagare il proprio imperio, e
non tanto odiando gli altri principi e regni europei come Cristiani, quanto
appetendoli come materia di conquista. O certo pare che gli altri gabinetti
europei riguardassero tutti la potenza ottomana con maggior sospetto ch'ei non
si guardavano l'un l'altro, temendone, non per la religion Cristiana, ma per se
[3174]stessi. E senza fallo la potenza ottomana si manteneva ancora a
quel tempo nell'opinione di conquistatrice appresso gli altri, e il gabinetto ottomano
conservava ancora le intenzioni e i progetti di conquistatori. Nè poteva
essere spenta la memoria e il terrore di quando, non più che un secolo
addietro, quella nazione tartara, dopo le tante imprese e conquiste e progressi
fatti per sì lungo tempo nell'Asia, presa Costantinopoli, antichissima
sede del greco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della potenza romana, aveva
finalmente piantato nell'Europa risorgente alla civiltà, un trono
barbaro, una lingua e un popolo Asiatico (cosa fino allora, per quanto si
stende la ricordanza delle storie, non più veduta), oltre una religione
diversa dalla Cristiana (cosa pur non veduta in Europa da' tempi pagani in poi,
eccetto i mori di Spagna, i quali si debbono eccettuare anche sotto i rispetti
detti di sopra); ed aveva imposto il giogo della schiavitù orientale
alla più colta nazione che fosse in quei tempi, come apparve dai tanti
esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che fuggendo la turca tirannide, si
erano sparsi per le altre parti d'Europa, portando i greci codici, e la greca
letteratura, e rendendo comune e proprio di quel secolo più che d'ogni
altro, lo studio ed anche l'uso della greca lingua nelle scuole e fra' letterati
d'Italia, di Francia e di Germania, ed aiutando universalmente il progresso
delle rinate lettere. Spettacolo veramente terribile, la cui impressione non
poteva nel seguente secolo essere spenta, nè si poteva ancora [3175]aver
cessato di temere e di odiare generalmente il Turco sì nelle corti e
sì nel popolo, non solo come conquistatore, ma di più come conquistatore
barbaro e crudele, minacciante le nazioni civili; (quasi come i Goti e gli
altri popoli settentrionali ne' bassi secoli), anche astraendo affatto dalla
religione. Quindi il voto de' politici e degli scrittori di quel secolo per la
lega universale contro i turchi, prende un aspetto anche più grave, e
non è solamente da riguardarsi com'effetto di antiche opinioni e rimembranze
religiose, e di fanatismo e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante
alla politica, e derivante dalla considerazione delle reali circostanze d'Europa
in quel secolo. E tanto più importante n'apparisce il soggetto, e
più degno, saggio e nobile il pensiero, la scelta e l'intenzione del
Tasso, che nel suo poema fece servire la religione, e le opinioni e lo spirito
popolare del suo tempo, e le altre cose che si prestano alla poesia
(perocchè le speculazioni politiche non possono esser materia da
ciò) a promuovere quello scopo ch'era allora de' più importanti
per la conservazione della civiltà, della libertà, dello stato,
del ben essere di tutta Europa, cioè la concordia de' principi europei
per essere in grado e di respingere e di distruggere il [3176]Barbaro
che minacciava o era creduto minacciare di schiavitù tutte le nazioni
civili, il comune nemico che macchinava o era creduto macchinare la conquista
di tutta Europa dopo quella di gran parte dell'Asia, e insidiare perpetuamente
ai regni europei, come anticamente i persiani alle greche repubbliche.
Nè certo minor gravità ed importanza dovranno sotto tale aspetto
essere riputati avere il poema del Tasso, la Canzone del Petrarca e l'altre
poesie e prose italiane o forestiere appartenenti a tal materia, di quella che
avessero le orazioni d'Isocrate contro il Persiano, o di Demostene contro il
Macedone; anzi, per ciò che spetta alla materia, tanto maggiore di
queste, quanto queste toccavano l'interesse della Grecia sola, piccola parte
d'Europa, e quelle miravano alla salvezza dell'Europa intera e di tutte le sue
nazioni e lingue. (15. Agosto. Assunzione di Maria Vergine Santissima. 1823.).
Nè la nimicizia degli europei verso i maomettani, e di questi verso
quelli si restringeva alle sole opinioni e discorsi, ma consisteva anche ne'
fatti,[70]
come apparisce dalle imprese de' Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni di
Gerusalemme [3177]che in quel medesimo secolo, dopo 212. anni di
possedimento (1310.) perdettero Rodi (1522.) ed ebbero prima Viterbo dal Papa,
e poi Malta (1530.) da Carlo V, e con prodigioso valore la difesero (1566.)
quattro mesi con morte di 15 mila soldati barbari e ottomila marinai; dalle
imprese di Carlo V contra i Maomettani d'Europa e d'Affrica; da quelle de' Veneziani
nel detto secolo; dalla famosa vittoria di Lepanto riportata dalle flotte
spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci anni avanti (1571.) che
fosse pubblicata la Gerusalemme (1581.), e certo in tempo che il Tasso la stava
componendo e meditando, poichè fin dieci anni avanti (1561.), egli n'aveva
già scritto o abbozzato 6. canti. (V.
Tirabos. t.7. par.3. p.118.). (16. Agosto. 1823.). V. p.4236. e l'Oraz.
del Giacomini in lode del Tasso nelle Prose fior. la qual finisce con
un'esortazione alla guerra contro i turchi.
Alla p.2834. Questa tal grazia definita di
sopra, è la grazia più graziosa e più fina, anzi quella
che propriamente si chiama grazia, e che suol essere considerata dagli artisti,
dagl'intendenti, dagli speculatori teorici o pratici del bello, quella che
sogliamo intendere col nome di grazia, ed a cui principalmente appartiene
l'indefinibilità e inconcepibilità [3178]che alla grazia
s'attribuisce. La grazia nascente da difetto (come quella di Roxolane appo il
Marmontel), è più grossolana e poco degna dell'artista, o di
qualunque imitatore del bello. Essa è bensì più
comunemente sensibile (perocchè quell'altra grazia non tutti, anzi pochi,
la sentono), e sempre ch'ella è sentita, fa maggior effetto dell'altra,
eziandio negl'intendenti del bello, negli spiriti di buon gusto, e negli animi
delicati e sensibili. E ciò perchè il contrasto in essa è
più notabile e spiccato, e maggiore la straordinarietà. Ma
perciò appunto questo effetto è più grossolano, e per
così dire più materiale e corporeo, laddove quell'altro è
più spirituale e più delicato, e quindi più direttamente e
giustamente proprio della grazia, l'idea della quale inchiude quella della
delicatezza. La grazia derivante da difetto punge e solletica come un sapore
acre e piccante, o aspro, o acido, o acerbo, che per se stesso è
dispiacevole, e pure in un certo grado piace, e quindi molti spiriti che non
hanno mai potuto sentire quell'altra grazia, o che sono di già blasés
sul bello, a causa del lungo uso ed assuefazione, sono [3179]mossi e
allettati da quella grazia, per dir così, difettosa, come i palati o
ruvidi e duri per natura, o stanchi de' cibi piacevoli per la lunga
assuefazione, sono dilettati e solleticati da quei sapori. Laddove l'altra suddetta
grazia è quasi un soave e delicatissimo odore di gelsomino o di rosa,
che nulla ha di acuto nè di mordente, o quasi uno spiro di vento che vi
reca una fragranza improvvisa, la quale sparisce appena avete avuto il tempo di
sentirla, e vi lascia con desiderio, ma vano, di tornarla a sentire, e
lungamente, e saziarvene.
(16. Agosto. dì di San Rocco. 1823.)
È cosa indubitata che la
civiltà ha introdotto nel genere umano mille spezie di morbi che prima
di lei non si conoscevano, nè senza lei sarebbero state; e niuna, che si
sappia, n'ha sbandito, o seppur qualcuna, così poche, e poco acerbe e poco
micidiali, che sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con queste che
cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità di quelle. (Vediamo
infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee degli altri animali,
massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente de' selvaggi,
e massime de' più [3180]naturali, come i Californii; e che anche
quelle degli agricoltori sono molte più poche e rare e men feroci che
quelle de' cittadini). È parimente indubitato che la civiltà
rende l'uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e
dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d'esser danneggiato da quelle
fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari,
egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe
sostenuto senza verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È
indubitato che la civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura
(siccome a ogni altra cosa proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale
privo di forza, o con minor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo;
e ch'ella rende propria dell'uomo civile la delicatezza rispettiva di corpo,
qualità che in natura non è propria nè dell'uomo nè
di veruno altro genere di cose, nè dev'esserlo (vedi la pag.3084.
segg.). È indubitato che le generazioni umane peggiorano in quanto al
corpo di mano in mano, ogni generazione più, sì per se stessa,
sì perch'ella così peggiorata non può non produrre una
generazione peggior di se ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me
altrove in diversi luoghi considerate, si fa più che certissimo e si
tocca con mano, che i progressi della civiltà portano seco e producono
inevitabilmente il successivo deterioramento [3181]del suo fisico, deterioramento
sempre crescente in proporzione d'essa civiltà. Nei progressi della
civiltà, e non in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente
tutti, chiamano oggidì (e molti anche in antico) il perfezionamento
dell'uomo e dello spirito umano. È dunque dimostrato e fuori di
controversia che il perfezionamento dell'uomo include, non accidentalmente ma di
necessità inevitabile, il corrispondente e sempre proporzionato
deterioramento e, per così dire, imperfezionamento di una piccola parte
di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo che quanto l'uomo s'avanza
verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella imperfezione; e quando
l'uomo sarà pienamente perfetto, il corpo umano, generalmente parlando,
si troverà nel peggiore stato ch'e' mai siasi trovato, e in che gli sia
possibile di trovarsi generalmente. Se con ciò si possa giustamente
chiamare perfezionamento, quello che oggi s'intende sotto questo nome,
cioè se l'incremento della civiltà sia perfezionamento dell'uomo,
e la perfezione della civiltà perfezione dell'uomo; se una tal
perfezione ci possa essere stata destinata dalla natura; [3182]se la nostra
natura la richiegga ed a lei tenda; se veruna natura richiegga o possa richiedere
una perfezione di questa sorta; se perciò che l'uomo è
civilizzabile, e in quanto egli è civilizzabile, ei sia, come dicono, e
come stabiliscono e dichiarano per fuori d'ogni controversia, perfettibile; si
lascia giudicare a chiunque non è ancor tanto perfezionato, tanto vicino
all'ultima perfezione dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto l'uso del
raziocinio, e non serbi neppur tanta parte del discorso naturale quanta
è propria ancora degli altri viventi.
(17. Agosto. Domenica. 1823.)
Trembler, temblar sono
verbi diminutivi, cioè fatti da un tremulare, il quale è
da tremere, come misculare (onde mesler, cioè mêler,
mezclar, mescolare, meschiare, mischiare) da miscere, secondo che ho
notato altrove. Ma essi verbi trembler e temblar hanno il senso
del positivo tremere che nel francese e nello spagnuolo non si trova.
Noi abbiamo e tremare e tremolare, quello positivo, e questo,
così di forma come di significazione, diminutivo. Diciamo anche tremulare,
o piuttosto lo dicevano i nostri antichi, più alla latina, benchè
questo verbo nel buon latino non si trovi. Trovasi però nel [3183]basso
latino: v. il Glossar. Cang. Il Franciosini scrive tremular, lo chiama
vocabolo barbaro, e lo spiega tremare. Gli spagnoli dicono pure tremolar
(Solìs Hist. de Mexico, l.1. capit.7. princip.), ma attivamente per agitare,
dimenare, sventolare (come tremolar unas vanderas nel citato luogo
del Solìs), alla qual significazione par che appartenga l'ultimo esempio
del Gloss. Cang. in Tremulare.
(17. Agos. 1823. Domenica.)
Gli uomini che nel mondo sono stimati e son
tenuti da quanto gli altri o da più degli altri, lo sono per l'ordinario
in quanto coll'uso della società essi si sono allontanati dalla natura
lor propria e dagli abiti naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se
oscurata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto
più è oscurata in loro e coperta e mutata sì la natura
individuale e lor propria, vale a dire il loro natural carattere, e gli abiti a
che essa particolar natura gli avrebbe condotti, sì la natura generale
degli uomini, tanto la stima generale verso di essi è maggiore. Voglio
dir che la più parte delle qualità che negli uomini ottengono
stima appo il mondo, o sono totalmente acquisite e per nulla naturali, anzi
spesso contrarie alla natura lor propria o generale; ovvero sono talmente
svisate [3184]dal naturale che per naturali non si ravvisano, e
più che sono svisate, più, per l'ordinario, si stimano.
Perocchè egli è ben raro che una qualità semplicemente
naturale, e tale qual ella è da natura, sia stimata punto nella
società, e quando pur sialo, questa stima non è nè
durevole, nè salda, nè generale, nè molta, ed è
sempre inferiore a quella delle qualità acquisite o snaturate, le quali
si apprezzano per regola, stabilmente e seriamente, ma le naturali quasi per
gioco, per rarità, per variare, per passatempo, momentaneamente. Quelle
si stimano come gravi, serie, e da negozio; queste come lievi, di poca importanza
ed utilità, da semplice trattenimento e da ozio: e la società
presto se ne annoia.
Questo genere di persone ch'è l'unico
generalmente stimato nella società, tiene il mezzo fra due generi, non
istimato nè l'uno nè l'altro, ma l'uno non istimabile, l'altro
stimabilissimo e molto più stimabile veramente di quello che il mondo stima.
Del primo genere sono quelle persone, in cui la natura non ha avuto forza
bastante per cangiarsi; cioè quelle che non furono capaci dell'arte,
onde vivendo nella società, non hanno da lei saputo apprendere,
nè su di lei modellarsi, e per [3185]poca abilità naturale
hanno conservata la loro natura, il loro natural carattere, gli abiti a cui la
natura o propria o generale gl'inclinò; sicchè vivono e
conversano nella società, tali appresso a poco quali dapprima vi
entrarono. Ciò sono le persone povere di spirito, di tardo e duro
ingegno, di corta e scarsa capacità. Eziandio spettano a questo genere
coloro in cui la natura si conserva per mancanza di coltura che la scacci o la
tramuti. Ciò sono le persone idiote e rozze, di poco o niuno uso
sociale, poco o nulla assuefatte alla civile conversazione, le quali recano
nella società, sempre che vi si accostano, il loro primitivo carattere,
e le naturali abitudini, non mai cangiate da quello che furono da principio,
non mescolate o accresciute con alcuna qualità sociale acquisita; e
ciò non per durezza d'ingegno, nè per naturale insufficienza, e
incapacità di apprendere, ma per mancanza d'insegnamento, di esercizio,
di coltura dell'ingegno e delle maniere. Questo genere di persona sia della
prima specie sia della seconda, non è punto stimata nè ricercata [3186]nè
gradita nella società, perch'egli conserva la natura, al contrario di
quelle persone che ho detto essere apprezzate nel mondo.
Del secondo genere[71]
sono coloro in cui la natura straordinariamente forte, e più potente che
nel comune degli uomini, ha superato e respinto l'arte, e non le ha lasciato
luogo da situarsi, non per istrettezza e cortezza d'essa natura, ma perch'ella,
sebbene amplissima ed estesissima, tutto il luogo essa medesima irremovibilmente
occupò. Ciò sono le persone di carattere originale,
straordinariamente vigoroso, costante, fermo, i quali rigettano le abitudini
contrarie alla loro gagliarda natura e al detto carattere, di qualunque genere
ei sia; e non soffrono di piegarsi e adattarsi agli altrui costumi, di seguire
le altrui inclinazioni, di cangiare o di modificare o di nascondere e
mascherare o finalmente di smentire se stessi; non ammettono nè modi,
nè usanze, nè gusti, nè occupazioni, nè istituti di
vita, nè parole, nè fatti se non conformi esattamente alla loro
primitiva natura ed indole, e da essa richiesti, cagionati, mossi, suggeriti.
Questi sono [3187]gli uomini chiamati singolari e originali; non mai
stimati (certo oggidì, e nelle nazioni più civili e socievoli,
non mai), per lo più disprezzati, ovvero odiati e fuggiti, sempre
derisi. In questi tali tutto è forza, e per la forza si conserva in essi
immutabile la natura. Altri pur v'ha del medesimo genere, ne' quali
avvengachè la natura sia parimente fortissima e potentissima, contuttociò
si mescola in essi e nella natura loro una sorta di debolezza e non poca.
Ciò sono quelle persone di vastissimo finissimo e altissimo ingegno, al
quale per la troppa capacità ed ampiezza sfuggono e in essa ampiezza si
perdono le cose piccole; per la troppa finezza riescono difficilissime e impossibili
ad apprendersi, a seguirsi, a possedersi le cose grosse; per la troppa altezza
escono di vista le cose basse. Non già ch'essi sempre le sdegnino, anzi
bene spesso con somma e intentissima cura le cercano e studiano, ma con gran meraviglia
loro e dei pochi che ben li conoscono, non viene lor fatto di conseguire in
quelle cose appena una centesima parte di quell'abilità e di quel
successo che gl'ingegni mediocri, e talora [3188]piccoli, con molto
minor cura e studio, facilmente e perfettamente conseguono, possiedono e
adoprano. Il medesimo eccesso della cura e della contenzion d'animo che quei
rari ingegni pongono a conseguire ed esercitare le qualità sociali, cura
e contenzione abituale e familiare in essi, e che mai e' non sanno intermettere
o rilasciare; il medesimo eccesso dico, togliendo loro la possibilità
della disinvoltura, del riposo d'animo, della facilità, dell'abbandono,
della sicurezza, della confidenza in se stessi (che a chi suol riflettere sulle
cose, e conoscerne e investigarne e sentirne e pesarne le difficoltà, e
a chi sempre mira alla perfezione, e d'altronde sa bene per molte esperienze e
sente quanto ella sia difficile, a questi tali, dico, la confidenza in se stessi
è impossibile); togliendo dunque loro la possibilità di queste
qualità che sono d'indispensabilissima e primissima necessità per
godere nella società e per piacerle, e generalmente per ottenere colle
parole o coi fatti qualunque successo nel mondo; il detto eccesso, torno a
ripetere, impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente
conseguire, di mai, se non con grandissima difficoltà e stento,
adoperare ed esercitare le [3189]qualità che nel mondo si
apprezzano ed amano e premiano. Questi tali, benchè grandissimi ingegni,
benchè fecondi di bellissimi, utilissimi, altissimi, nuovissimi
pensieri, benchè scrittori sommi in questo o quel genere, o pur
letterati o filosofi o privati politici di altissimo valore, benchè
d'animo nobilissimi, sensibilissimi, rarissimi, benchè spesso
capacissimi di dilettar sommamente o di sommamente giovare a qualsivoglia
società e a qualunque genere di persone coi loro scritti o colle
produzioni qualunque del loro ingegno, lungamente e maturamente, o almeno
riposatamente, pensate; anzi benchè le dette misere qualità siano
pur troppo propriissime de' singolari ingegni, e tanto più quanto alcun
d'essi più s'inalza sopra il comune, e a proporzione di ciò più
invincibili e costanti; e benchè quasi tutti gl'ingegni veramente
singolari e sommi, massime quelli che risplendettero o risplendono negli studi
delle scienze, delle lettere, o delle arti, fossero e sieno più o meno
partecipi di tali qualità caratteristiche, si può dire, degli
straordinarii e sublimi talenti; (vedi fra l'altre cose il Pseudo-Donato nella
Vita di Virgilio [3190]cap.6. fine, dov'è l'autorità di
Melisso, Grammatico, liberto di Mecenate, contemporaneo di Virgilio: Forcell.
in Melissus, Fabric. B. Lat. 1. 494.); contuttociò questi tali
nella società, se non da quelli che conoscono per altra parte il loro
merito, e che conoscendolo sono capaci di apprezzare chi lo possiede, sono
generalmente (e non irragionevolmente, perocchè niun diletto e molta
noia e fatica reca la loro conversazione) disprezzati ed evitati, ancor
maggiormente che quelli dell'altra specie, e confusi dai più coi primi
del primo genere, ai quali in fatti, nell'esteriore e in ciò che d'essi
apparisce, quasi a capello si rassomigliano. In questo genere si può
recar per esempio della prima specie l'Alfieri, della seconda G. G. Rousseau.[72]
Anche questo genere di persone benchè stimabilissimo non è
stimato, perocch'ei conserva la natura, o non è bastantemente mutato dal
naturale.
Sicchè tra quello che non è
stimabile e quello ch'è degno di somma stima, restano solamente stimati
quelli che tengono il mezzo, e cioè gli uomini mediocri e mediocremente [3191]degni.
E ritrovasi per questa via e sotto questo rispetto, siccome per tutte l'altre
vie e per ogni altro riguardo, trionfare nell'umana conversazione la
mediocrità.
Nè solamente alla stima del mondo, ma
a qualunque altro successo nella società, come al far fortuna,
all'avanzarsi nel favore o de' principi o de' privati, e a cose tali si può
applicare la triplice distinzione e la successiva suddivisione degli uomini da
me fatta fin qui, e troverannosi dovunque gli effetti corrispondere ai sopra osservati,
secondo i generi e le spezie surriferite.
(18. Agos. 1823.)
All'amore che noi abbiamo della vita, e
quindi delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli
scritti o nel discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che
producono in quanto a loro una idea vivace, o per la vivacità dell'azione
o del soggetto qualunque ch'elle significano (come spaccare), o
perchè vivamente rappresentano all'immaginativa questa [3192]medesima
azione o soggetto, qualunque siasi la cagione perch'esse vivamente lo
rappresentino (come spaccare più vivamente rappresenta l'azione significata,
e desta un'idea più viva che fendere per varie ragioni che ora
non accade specificare, e lungo sarebbe il farlo), o perchè di un'azione
o di un soggetto non vivace, ne destano però una viva e presente idea.
(18. Agosto. 1823.)
Per li nostri pedanti il prender noi dal
francese o dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è
giustificato dall'esempio de' latini classici che altrettanto faceano
dal greco, come Cicerone massimamente e Lucrezio, nè dall'autorità
di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano
il farlo. Perocchè i nostri pedanti coll'universale dei dotti e
degl'indotti tengono la lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere
ch'ella non fu madre della latina, ma sorella, nè più nè
meno che la francese e la spagnuola sieno sorelle dell'italiana. Ben è
vero che la greca letteratura e [3193]filosofia fu, non sorella, ma
propria madre della letteratura e filosofia latina. Altrettanto però
deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti dell'italiana
letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa attingere, per
rispetto alla letteratura e filosofia francese. La quale dev'esser madre della
nostra, perocchè noi non l'abbiamo del proprio, stante la singolare inerzia
d'Italia nel secolo in che le altre nazioni d'Europa sono state e sono
più attive che in alcun'altra. E voler creare di nuovo e di pianta la
filosofia, e quella parte di letteratura che affatto ci manca (ch'è la
letteratura propriamente moderna); oltre che dove sono gl'ingegni da questa
creazione? ma quando anche vi fossero, volerla creare dopo ch'ella è creata,
e ritrovare dopo trovata ch'ell'è da più che un secolo, e dopo
cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e trattata continuamente da
tutto il resto d'Europa del pari; sarebbe cosa, non solo inutile, ma stolta e
dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli [3194]altri
in una medesima carriera, volersi collocare sul luogo delle mosse quando gli
altri sono già corsi tanto spazio verso la meta, ricominciare quello che
gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche impossibile, perchè
nè i nazionali nè i forestieri c'intenderebbono se volessimo
trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e
noi non ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l'opera, vedendo nelle nostre
mani bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente
matura e colorita; e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e
impaccerebbe di quel che accelerasse e favorisse gli avanzamenti della
filosofia, e letteratura moderna e filosofica. Erano ben altri ingegni tra'
latini al tempo che s'introdussero e crebbero gli studi nel Lazio; ben altri
ingegni, dico, che oggi in Italia non sono. Nè però essi vollero
rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo
allora poco filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando
l'una e l'altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i [3195]greci,
da questi le tolsero, e gli altrui ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e
ricevuti e coltivati che gli ebbero, allora, secondo l'ingegno di ciascheduno e
l'indole della nazione, de' costumi, del governo, del clima, della lingua,
delle opinioni romane, modificarono ed ampliarono le cose da' greci trovate, e
diedero loro abito e viso e attitudini domestiche e nuove. Se vuol dunque l'Italia
avere una filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora
non ebbe mai, le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori
pigliandole, le verranno principalmente dalla Francia (ond'elle si sono sparse
anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima e di
carattere e di genio e di lingua ec. che l'italiana), e vestite di modi, forme,
frasi e parole francesi (da tutta l'Europa universalmente accettate, e da buon
tempo usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la moderna
letteratura, come altrove ho ragionato, e volendole ricevere, nol potrà
altrimenti che ricevendo altresì assai parole e frasi di là, ad
esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie; [3196]siccome
appunto convenne fare ai latini delle voci e frasi greche ricevendo la greca
letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa giustificazione,
ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo la
lingua francese sorella dell'italiana siccome della latina il fu la greca, e
producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una letteratura
moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel Lazio. E
tanto più saremo fortunati degli altri stranieri che dal francese
attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura, quanto che noi nel
francese avremo una lingua sorella, e non, com'essi, aliena e di diversissima
origine.
(18. Agos. 1823.)
Alla p.1011. marg.-fine. Aggiungete ancora
che la lingua latina è della italiana, madre conosciuta e certa e fuori
d'ogni controversia. Non così accade all'altre lingue d'origine diversa.
Si saprà per certo che la lingua tedesca è d'origine teutonica, la
svedese d'origine slava, ma quale delle antiche lingue teutoniche o schiavone
sia madre della tedesca e della svedese, non si potrà senza moltissime
controversie, nè senza grandi [3197]dubitazioni e incertezze,
nè più che largamente e mal distintamente, determinare ec. ec.
(19. Agos. 1823.). Noi sappiamo bene qual e che cosa sia questa lingua latina
madre dell'italiana, e possiamo definitamente additarla, e mostrarla tutta
intera. Ma dir che la teutonica o la slava o simili è madre della
tedesca o della russa ec., è quasi un dire in aria, benchè sia
vera, nè quelli possono definitamente additarci quale individualmente
sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per laceri
avanzi, mostrarcela.
In molti luoghi di questi miei pensieri ho
dimostrato come l'uomo debba quasi tutto alle circostanze, all'assuefazione,
all'esercizio; quanta parte di ciò che si chiama talento naturale, e
diversità o superiorità o inferiorità di talenti, non sia
per verità altro che assuefazione, esercizio, ed opera di circostanze
non naturali nè necessarie ma accidentali, e diversità di
assuefazioni e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e maggiore o
minor favore o disfavore di circostanze e di accidenti secondarii: la
diversità delle quali cose accresce a dismisura le piccole differenze e
le piccole superiorità o inferiorità di facoltadi che si trovano
naturalmente e primitivamente tra questo e quello ingegno di questo o quello
individuo o nazione, in questo o quel secolo. Io però non intendo con
ciò di negare che non v'abbiano diversità naturali fra i vari
talenti, le varie facoltà, i vari primitivi caratteri degli uomini; ma
solamente affermo e dimostro che tali diversità assolutamente naturali,
innate, e primitive sono molto [3198]minori di quello che altri ordinariamente
pensa. Del resto che gl'intelletti, gli spiriti, insomma gli animi degli uomini
differiscano naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con minute
differenze bensì, ma pur vere ed effettive e notabili differenze; e che
varie sieno le loro naturali disposizioni, maggiori in altri, in altri minori,
ed ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi altri, è cosa,
come da tutti e sempre creduta, così vera e reale, e dimostrata da molte
osservazioni, le quali, o alcune di esse, verrò qui sotto segnando per capi,
sommariamente però, ed in modo che sopra ciascun capo potrà e
dovrà molto più estendersi il discorso di quello che io sia per
estenderlo.
1. Notabili sono le differenze che passano
tra l'esteriore figura e conformazione degli uomini, paragonando secolo a secolo;
nazione selvaggia o corrotta o civile l'una coll'altra; nazioni civili tra
loro; così nazioni selvaggie o barbarizzate; clima a clima; famiglia a famiglia;
individuo a individuo. Differenze regolari o irregolari; ordinarie o
straordinarie; naturali o accidentali, ma pur [3199]sempre fisiche;
mostruosità ec. La differenza delle lingue dimostra una vera differenza
negli organi corporali della favella tra' vari popoli parlanti; differenza
cagionata o dal clima o da qualsivoglia altra cagione naturale, indipendente
però certo dall'assuefazione nell'essenziale e generale e costante che
in essa differenza si trova. Negli altri vari organi esteriori dell'uomo si
trovano eziandio molte notabili differenze naturali tra uomo e uomo, clima e
clima, nazione e nazione, individuo e individuo; differenze di disposizione,
cioè disposizione a maggiore o minor numero di abilità, a tali o
tali abilità piuttosto che ad altre, e disposizione maggiore o minore;
più o meno scioltezza e speditezza e sveltezza fisica, secondo le
qualità naturali de' muscoli e de' nervi che a quel tale organo
appartengono. Se l'esteriore adunque degli uomini differisce notabilmente per
natura nell'uno uomo paragonato coll'altro, è ben ragionevole che si
creda notabilmente differire anche la naturale conformazione dell'interiore ne'
diversi uomini; quando non si può volgere in dubbio la manifesta
analogia e perfetta corrispondenza [3200]che passa tra l'esterno e
l'interno dell'uomo sotto qualunque rispetto. E nel particolare dell'ingegno,
la diversa conformazione esteriore del capo ne' diversi individui e nazioni, la
quale è visibile e non si può negare, dimostra chiaramente una
diversa conformazione di ciò che nel capo si contiene, nel che risiede
l'ingegno; onde viene a esser provato che tra gli uomini v'ha differenza
naturale d'ingegno. E infatti è quasi dimostrato che la fronte spaziosa
significa grande e capace ingegno naturale, e per lo contrario la fronte
angusta; e così le altre differenze esteriori del capo osservate dai
craniologi: le osservazioni de' quali se non sono tutte vere, non lasciano di
provare generalmente una differenza naturale di spirito e d'indole ne' diversi
uomini; nel giudizio delle quali differenze se coloro spesse volte s'ingannano,
ciò nasce perch'ei non guardano che il fisico; ma l'assuefazione e le
circostanze talora accrescono, talora cancellano, talora volgono affatto in
contrario le differenze delle disposizioni naturali; delle quali sole possono
pronunziare i craniologi, non de' loro effetti, che da troppo altre cause [3201]sono
influiti, e spesso riescono contrarii ad esse disposizioni. E vedi a questo
proposito il fatto di Zopiro e Socrate ap. Cic. Tusc. lib.4. cap.37. Qua pur si
deve riferire la diversità delle fisonomie, degli occhi, che tanto
esprimono e dimostrano dell'animo e dell'ingegno, e l'arte de' fisionomi.
2. Differenze generali, regolari, e costanti
si trovano fra i caratteri, i talenti, le disposizioni spirituali delle diverse
nazioni, massime secondo i diversi climi. Quelle d'ingegno grossissimo, come i
Lapponi; queste d'acutissimo, come gli orientali; altre pigre, altre attive;
altre coraggiose, altre timide; in altre prevale l'immaginazione, in altre la
ragione, e ciò in altre più, in altre meno; altre riescono e
riuscirono sempre eccellenti in una parte, altre in altra; ec. ec. e tutto
questo costantemente. Non si può negare che i principii e le fondamenta
di tali differenze non sieno naturali, e quindi non si può negare che
non v'abbia una vera primitiva differenza d'indole e d'ingegno tra nazione e
nazione, clima e clima, come v'ha reale, visibile, naturale e, generalmente
parlando, costante differenza di esteriore, di fisonomia ec. tra nazioni e
climi, selvaggi o civili ec. ec. Dunque proporzionatamente [3202]è
da dire che anche tra individuo e individuo di una stessa o di diverse nazioni,
esiste dalla nascita una reale differenza d'indole e di talento, o vogliamo
dire un principio e una disposizione di differenza, che ad idem redit.
3. Lasciando da parte il tanto che si
potrebbe dire sull'influsso fisico, ossia sulla naturale azione del corpo e de'
sensi, e quindi degli oggetti esteriori, sull'animo indipendentemente
dall'assuefazione, ne toccheremo solamente alcune cose che più fanno al
proposito. Ho udito di uno abitualmente scempio o tardissimo d'ingegno, che
caduto di grande altezza, e percosso pericolosamente il capo, divenne, guarito
che fu, d'ingegno prontissimo e furbissimo, e questi ancor vive. Ho udito
d'altri molto ingegnosi, per simile accidente divenuti stupidi, e sciocchi.
Lasciando questo, egli è certissimo che la malattia del corpo (e
così la sanità) influisce grandissimamente sull'ingegno e
sull'indole. Tacendo delle minori influenze, che tutto giorno si osservano, si
può notare quello che narra il Caluso nella Lettera appiè della
Vita di Alfieri, circa i versi d'Esiodo da lui una [3203]sola volta
letti, ch'ei recitava francamente nella sua ultima malattia. E mi fu raccontato
da testimonii di udito, del maraviglioso spirito, degli argutissimi motti e
risposte, di una prontezza affatto straordinaria di mente e di lingua, di una
prodigiosa facilità, fecondità e copia d'invenzioni che si fece
osservare in un vecchio Cardinale (Riganti) (non molto usato a facezie,
nè di molto spirito, e di carattere ben diverso dalla energia, e
rapidità e mobilità) poco dopo essere stato colto da una
apoplessia (della quale infermità rimase impedito nelle membra, e
morì parecchi mesi appresso), e stando in letto. Esempio di Ermogene, e
de' suoi simili che puoi vedere nella Dissertaz. del Cancellieri sugli
Smemorati ec. Corrispondenza che, generalmente parlando, si osserva tra
gl'ingegni e i caratteri degli uomini per una parte, e le rispettive
complessioni dall'altra. Pazzi e frenetici; febbricitanti, deliranti. La
malattia cambia talora, com'è detto, l'ingegno e il carattere o per
sempre, o per momenti, o per più o men tempo: ciò massimamente
quando ella interessa in particolare il cerebro. Il quale se può essere
notabilissimamente diversificato dalle malattie e dalle varie circostanze e
accidenti che accadono durante [3204]la vita a uno stesso uomo, non si
può non credere e giudicare che la tanta e inesauribile diversità
delle circostanze e degli accidenti che concorrono nella generazione de' vari
individui, non diversifichi siccome le loro complessioni, e questa o quella
parte del corpo, così eziandio quella in che risiede l'ingegno e
l'animo, cioè il cerebro, e quindi il talento e l'indole nativa e
primitiva de' vari individui, nazioni ec.
5. Spessissimo l'ingegno è svegliato
da cause fisiche manifeste ed apparenti, come un suono dolce, o penetrante, gli
odori, il tabacco, il vino eccetera[73] e
quel che dico dell'ingegno, dicasi delle passioni, de' sentimenti, dell'indole
ec.; e quel che dico dello svegliare, dicasi del sopire, del muovere,
dell'affettare, modificare come che sia, dell'accrescere, dello sminuire, del
produrre, del distruggere o per sempre o per certo tempo ec. Tutti questi
effetti nei casi qui considerati, non hanno a far coll'assuefazione, e
dimostrano per conseguenza che lo spirito dell'uomo [3206]può
esser modificato e diversamente conformato da cause, circostanze e accidenti
fisici diversi dalle assuefazioni. Così p.e. la luce è naturalmente
cagione di allegria, siccome il suono, e le tenebre di malinconia; quella
eccita sovente l'immaginazione, ed ispira; queste la deprimono ec. Un luogo, un
appartamento, un clima chiaro e sereno, o torbido e fosco, influiscono sulla immaginativa,
sull'ingegno, sull'indole degli abitanti, sieno individui o popoli, indipendentemente
dall'assuefazione. Così una stagione, una giornata, un'ora nuvolosa o serena;
il trovarsi per più o men tempo in un luogo qualunque oscuro o luminoso,
senza però abitarvi, tutte queste circostanze fisiche, indipendenti
dall'assuefazione e dalle circostanze morali, affettano, quali momentaneamente
quali durevolmente, lo spirito dell'uomo, e variamente lo dispongono, e ne
producono le assuefazioni, e le differenze di queste ec. ec. ec.
(19. Agosto. 1823.). V. p.3344.
Dimostrato che nell'idea del bello non
convengono nè gli uomini naturali fra loro, nè gli spiriti
incorrotti e semplici come quelli de' fanciulli, e quindi ch'essa idea non si
trova una in natura; e che d'altronde gli uomini colti, savi, esercitati, profondi,
[3207]gli artisti medesimi e i poeti ec. disconvengono circa il bello,
ed anche in cose essenziali, più o meno, secondo la differenza delle
nazioni, climi, opinioni, assuefazioni, costumi, generi di vita, secoli;
disconvengono, dico, eziandio bene spesso dove credono di convenire (perocchè
tra loro non s'intendono); disconvengono tra loro, e dai fanciulli, e dagli
uomini o naturali o ignoranti; e che tali differenze circa l'idea del bello, si
trovano fra individuo e individuo in una stessa nazione, si trovano in un
medesimo individuo in diverse età e circostanze, si trovano, e
costantemente, fra nazione e nazione, clima e clima, secolo e secolo, civili e
non civili; si trovano fra barbari e barbari, dotti e dotti, ignoranti e ignoranti,
selvaggi e selvaggi, colti e colti, più e men barbari, più e men
civili, fanciulli e fanciulli, adulti e adulti, intendenti e intendenti,
artisti ed artisti, speculatori e speculatori, filosofi e filosofi; dimostrato,
dico, tutto questo, come ho già fatto in molti luoghi, viene a esser
provato che il bello ideale, unico, eterno, immutabile, universale, è
una chimera, poichè nè la natura l'insegna o lo mostra, nè
i filosofi o gli artisti l'hanno mai scoperto o lo scuoprono, a forza di osservazioni
[3208]e di cognizioni, come si sono scoperte e si scuoprono le altre
idee stabili e invariabili appartenenti alle scienze del vero ec. ec.
(20. Agosto. 1823.)
Che quello che nella musica è
melodia, cioè l'armonia successiva de' tuoni, o vogliamo dire l'armonia
nella successione de' tuoni, sia determinata, come qualsivoglia altra armonia
ovver convenienza dall'assuefazione, o da leggi arbitrarie; osservisi che le
melodie musicali non dilettano i non intendenti, se non quanto la successione o
successiva collegazione de' tuoni in esse è tale, che il nostro orecchio
vi sia assuefatto; cioè in quanto esse melodie o sono del tutto
popolari, sicchè il popolo, udendone il principio, ne indovina il mezzo
e il fine e tutto l'andamento, o s'accostano al popolare, o hanno alcuna parte
popolare che al popolare si accosti. Nè altro è nelle melodie
musicali il popolare, se non se una successione di tuoni alla quale gli orecchi
del popolo, o degli uditori generalmente, siano per qualche modo assuefatti. E
non per altra cagione riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non
perchè [3209]le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate,
per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli
altri compositori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo
generalmente conosce ed alle quali esso è assuefatto, cioè al
popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili
che dagli altri compositori non s'usa, al popolare. E siccome le assuefazioni
del popolo e dei non intendenti di musica, circa le varie successioni de'
tuoni, non hanno regola determinata e sono diverse in diversi luoghi e tempi,
quindi accade che tali melodie popolari o simili al popolare, altrove piacciano
più, altrove meno, ad altri più, ad altri meno, secondo ch'elle
agli uditori riescono o troppo note e usitate; o troppo poco; o quanto
conviene, colla competente novità che lasci però luogo
all'assuefazione di far sentire in quelle successioni di tuoni la melodia, la
qual dall'assuefazione degli orecchi è determinata. Onde una medesima
melodia musicale piacerà più ad uno che ad altro individuo,
più in [3210]una che in altra città, piacerà
universalmente in Italia, o piacerà al popolo e non agl'intendenti, e
trasportata in Francia o in Germania, non piacerà punto ad alcuno, o
piacerà agl'intendenti e non al popolo; secondo che le assuefazioni di
ciascheduno orecchio circa le successioni de' tuoni, saranno più o meno
o nulla conformi o affini agli elementi o membri () che
comporranno essa melodia, ovvero a quello che si chiama il motivo.
E di qui, e non d'altronde, nasce la
diversità de' gusti musicali ne' diversi popoli. Dico ne' popoli, e non
dico negl'intendenti, i quali avendo tutti un'arte uniforme, distinta in
regole, universalmente abbracciata e riconosciuta, co' suoi principii fissi e
invariabili e universali, siccome quelli di qualsivoglia altra scienza che tale
è in Italia quale in Polonia, in Portogallo, in Isvezia; nel giudicare
di una melodia musicale, non mirano all'orecchio, ma alle regole e a' principii
ch'essi hanno nella loro arte o scienza, cioè nel contrappunto; ed
essendo esse regole e principii dappertutto gli stessi e dappertutto ugualmente
riconosciuti, i giudizi che i diversi intendenti pronunziano non possono
grandemente [3211]disconvenire gli uni dagli altri, e tanto meno quanto
essi più sono intendenti. Ma non così de' popoli, e de' non
intendenti, i quali non hanno altra regola e canone che l'orecchio, e questo
non ha altri principii che le sue proprie assuefazioni, e non già alcuni
dettati e infusi universalmente dalla natura, come si crede. E però le
nostre melodie non paiono pur melodie a' turchi a' Cinesi nè ad altri
barbari, o diversamente da noi, civili. Che se questi pure alcuna volta se ne dilettano,
il diletto non nasce in loro dalla melodia, cioè dal senso della
successiva armonia de' tuoni, la quale essi non sentono nè comprendono,
posto pur ch'ella fusse tra noi l'una delle più popolari; ma nasce da'
puri suoni per se, e dalla delicatezza, facilità, rapidità,
volubilità del loro succedersi, mescolarsi, alternarsi (sia nella voce o
in istrumenti), dalla dolcezza delle voci o degl'istrumenti, dal sonoro, dal
penetrante e da simili qualità de' medesimi, dalla soavità
eziandio de' rapporti rispettivi d'un tuono coll'altro in quanto alla
facilità e alla delicatezza del passaggio da questo a quello (laddove i
passaggi nelle [3212]musiche de' barbari sono asprissimi, perchè
fatti da tuoni a tuoni troppo lontani o da corde a corde troppo distanti), e
insomma da cento qualità (per così dire, estrinseche) della
nostra musica che nulla hanno a fare colla rispettiva scambievole armonia o
convenienza de' tuoni nella lor successione, cioè colla melodia, e col
senso e gusto della medesima, che nè i turchi nè gli altri
barbari, udendo la nostra musica, non provano punto mai. La qual cosa appunto,
salva però la proporzione, accade ai non intendenti di musica e al
popolo fra noi, quando egli odono, come tutto dì avviene, di quelle
melodie che nulla o troppo poco hanno del popolare. Niun diletto ne provano, se
non quello, per così dire, estrinseco, che di sopra ho descritto, e che
nasce dalle qualità della musica, diverse e indipendenti dall'armonia
de' tuoni nella successione. Di queste non popolari melodie, che sono la
più gran parte della nostra musica, parlerò poco sotto. E per
conchiudere il discorso de' barbari e delle nazioni che hanno circa la musica
idee e gusti e sentimenti affatto diversi da' nostri, dico che in essi, siccome
[3213]fra noi, le assuefazioni determinano quali sieno le successive collegazioni
de' tuoni che sieno tenute per melodie, e le assuefazioni cagionano, siccome
fra noi, il senso e il piacere d'esse melodie, quando elle sono udite. E questo,
se in essi popoli, non v'ha teoria musicale, accade a tutta la nazione. Se alcun
d'essi popoli ha teoria musicale, come l'hanno i Chinesi, diversa però
dalla nostra, gl'intendenti fra loro hanno altra cagione che determina il loro
giudizio e produce in loro il diletto circa le melodie; e questa cagione si
è, come nei nostri intendenti, la conformità di quelle cotali
successioni de' tuoni co' principii e i canoni della loro teoria o arte o
scienza musicale, i quali principii e canoni essendo diversi da' nostri,
diverso eziandio dev'essere il giudizio di quegl'intendenti circa le varie, o nazionali
o forestiere, melodie, da quello de' nostri, e diverso similmente il piacere. E
così è infatti nella China, dove e il popolo (che dappertutto,
dovunque esiste una musica, avrebbe giudicato nello stesso modo) e
gl'intendenti (il che non potrebbe avvenire nelle nazioni barbare che non hanno
teoria musicale [3214]sufficientemente distinta per principii e regole,
e ordinata e compiuta, come l'hanno i Chinesi), giudicarono espressamente
più bella la loro musica che l'Europea, la quale i nostri, favoriti in
ciò espressamente da un loro imperatore, volevano introdurvi, insieme
colle nostre teorie. E ciò furono, se ben mi ricorda, i Gesuiti.
Ho detto in principio che la melodia nella
musica non è determinata se non dall'assuefazione o da leggi arbitrarie.
Delle melodie determinate dall'assuefazione, e che per ciò sono melodie,
perchè quelle tali successioni di tuoni convengono con quelle che gli
orecchi sono assuefatti a udire, ho discorso fin qui. Le melodie determinate da
leggi arbitrarie, sono quelle che il popolo e i non intendenti non gustano, se
non se nel modo specificato di sopra, senza nè conoscere nè sentire
ch'elle sieno melodie, cioè che quei tuoni così succedendosi e
intrecciandosi e alternandosi, armonizzino, cioè convengano, tra loro;
quelle che pel popolo e per li non intendenti, non sono infatti melodie, ma
solo per gl'intendenti; quelle che gl'intendenti soli gustano in virtù
del giudizio, quali sono infiniti altri diletti umani (v. Montesquieu, Essai
sur le goût. De la sensibilité. p.392.), massime nelle arti; quelle che
non [3215]sono melodie se non perchè ed in quanto corrispondono alle
regole circa la successiva combinazione de' tuoni, consegnate in una scienza o
arte, non dettata dalla natura ma dalla matematica, universale e universalmente
riconosciuta in Europa, come lo sono tutte le altre arti e scienze in questa
parte del mondo legata insieme dal commercio e da una medesima civiltà
ch'ella stessa si è fabbricata e comunicata di nazione a nazione, ma non
riconosciuta fuori d'Europa nè dalle nazioni non civili, nè da
quelle che hanno un'altra civiltà da esse fabbricata o d'altronde
venuta; qual è sopra tutte la nazion Chinese, la quale ed ha una scienza
musicale, e in essa non conviene punto con noi. Ho detto che la nostra scienza
o arte musicale fu dettata dalla matematica. Doveva dire costruita. Essa
scienza non nacque dalla natura, nè in essa ha il suo fondamento, come
le più dell'altre; ma ebbe origine ed ha il suo fondamento in quello che
alla natura somiglia e supplisce e quasi equivale, in quello ch'è giustamente
chiamato seconda natura, ma che altrettanto a torto quanto [3216]facilmente
e spesso è confuso e scambiato, come nel caso nostro, colla natura
medesima, voglio dire nell'assuefazione. Le antiche assuefazioni de' greci (per
non rimontar più addietro, che nulla rileva al proposito) furono
l'origine e il fondamento della scienza musicale da' greci determinata,
fabbricata, e a noi ne' libri e nell'uso tramandata, dalla qual greca scienza,
viene per comun consenso e confessione la nostra europea, che non è se
non se una continuazione, accrescimento e perfezione di quella, siccome tante
altre e scienze ed arti (anzi quasi tutte le nostre) che la moderna Europa
ricevè dall'antica Grecia e perfezionò, e a molte cangiò
faccia appoco appoco del tutto. La greca musica popolare, le ragioni della
quale non altrove erano che nell'assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia
musica popolare), fu l'origine, il fondamento, e per così dir l'anima e
l'ossatura della musica greca scientifica, e quindi altresì della nostra,
che di là viene. Ma siccome accade a tutte le arti ch'elle col crescere,
col perfezionarsi, col maggiormente determinarsi, si dilungano appoco appoco da
ciò che fu loro origine, fondamento, subbietto primitivo e ragione, o
fosse la natura [3217]o l'assuefazione o altro, e talvolta giungono fino
a perderlo affatto di vista, ed esser fondamento e ragione a se stesse, il che
è intervenuto in buona parte alla poetica, intervenne ancora all'arte
musica.[74]
Quindi è che spessissimo sia giudicato buono ed ottimo dagl'intendenti,
e perciò piaccia loro sommamente, e che sia melodia per essi, quello che
dal popolo e da' non intendenti è giudicato o mediocre o cattivo, che
poco o niun effetto produce in essi, che poco o nulla gli diletta, che per essi
non è assolutamente melodia: sebbene ei lodano sovente ed ammirano
cotali composizioni di tuoni, o in vista delle qualità indipendenti
dall'armonizzare della loro combinazione successiva, che di sopra ho descritte,
o mossi dalla fama del compositore, o dalla voce degl'intendenti, o dal favore,
o dal diletto altre volte ricevuto nelle composizioni del medesimo, o dalla
coscienza della propria ignoranza, o dalla maraviglia delle difficoltà e
stranezze che in tali composizioni ravvisano, o dalla stessa novità, benchè
per essi nulla dilettevole musicalmente, o in fine da cento altre cause estrinseche
e accidentali, o diverse e indipendenti dal diletto che nasce dal senso della
melodia, cioè della convenienza scambievole de' tuoni nel succedersi [3218]l'uno
all'altro. E per lo contrario interviene spessissimo che quelle successioni de'
tuoni le quali per il popolo sono squisitissime, carissime, bellissime, spiccatissime
e dilettosissime melodie, non ardisco dire non piacciano agli orecchi degl'intendenti,
ma con tutto ciò dispiacciano al loro giudizio, e ne sieno riprovate,
tanto che per essi talora non sieno neppur melodie quelle che per tutti gli
orecchi e per li loro altresì, sono melodie distintissime, evidentissime,
notabilissime e giocondissime. Il che si può vedere in fatto nel
giudizio degl'intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il
modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita esser piena
di melodia molto più che le antiche e classiche, e da chiunque sa
è giudicata non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e
irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perchè
gl'intendenti giudicano, e giudicando sentono (cioè col fattizio, ma
reale sensorio dell'intelletto e della memoria) secondo i principii e le norme
della loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le
loro assuefazioni relative al proposito. Le quali assuefazioni segue e si
propone [3219]o loro si accosta il moderno modo di comporre, assai
più che l'antico, ignorando o trascurando più o manco i canoni
dell'arte, di che gli antichi furono peritissimi e religiosissimi osservatori.
Con queste considerazioni s'intenderà
facilmente il perchè nelle melodie sia, come si dice, difficilissima e
rarissima la novità, cioè solo difficilissimamente e di rado possa
il Musico trovare nuove melodie. Il che mirabilmente conferma le mie
osservazioni. Perocchè veramente il disporre in nuove maniere la
scambievole successione de' tuoni secondo le regole dell'arte musicale, non
è punto difficile, essendo infinite le diversità di combinazioni
successive sia di tuoni sia di corde (cioè generalmente di note)
a cui esse regole danno luogo. Ma limitatissime e poche, e non più
assolutamente che tante, sono le assuefazioni de' nostri orecchi; ond'è
che pochissime sieno quelle combinazioni successive di tuoni (dico pochissime
rispetto all'immenso numero d'esse combinazioni assolutamente considerate) che
possano parer melodie all'universale, o al più di una nazione o secolo,
e produrre in esso il diletto che nasce dal senso della melodia. Ed infatti
nuove melodie, [3220]che tali sieno per gl'intendenti e rispetto
all'arte, non sono in verità punto rare, nè difficili a inventarsi,
e di esse si compone la massima parte di qualsivoglia opera musicale, non solo
antica e classica, ma moderna italiana eziandio, benchè le moderne
italiane abbiano, come ho detto, più melodia popolare che le antiche e
straniere; cioè maggiormente seguano le assuefazioni de' nostri orecchi,
ed un più gran numero delle loro melodie contraffacciano o imitino, o in
tutto o in qualche parte o nel motivo somiglino le successioni di tuoni e note,
a cui sono assuefatti generalmente gli uditori. E in verità, se non
fosse la memoria, che anche involontariamente e inavvertitamente subentra a
pigliar parte nella composizione, più difficile sarebbe forse al
compositore l'abbattersi a trovar melodie non popolari già da
altri trovate, che non il trovarne delle nuove, conformi alle regole musicali.
Certo è che la principale, anzi la
vera arte degl'inventori di musica, e il vero, proprio musicale, e grande
effetto delle loro invenzioni, allora solo si manifesta ed ha luogo quando le
loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori ne sieno
colpiti e maravigliati come di [3221]melodia nuova, e nel tempo medesimo,
per essere in verità assuefatti a quelle tali succcessioni di tuoni,
sentano al primo tratto ch'ella è melodia. Il qual effetto, proprio,
anzi solo proprio della vera vera musica, e solo grande, solo vivo, solo
universale, non altrimenti si ottiene che coll'adornare, abbellire,
giudiziosamente e fino al debito segno variare, nobilitare per dir così,
nuovamente fra loro congiungere e disporre, presentare sotto un nuovo aspetto
le melodie assolutamente e formalmente popolari, e tolte dal volgo, e le varie
e sparse forme di successioni di note, che gli orecchi generalmente conoscono,
e vi sono assuefatti. Non altrimenti che il poeta, l'arte del quale non
consiste già principalmente nell'inventar cose affatto ignote e strane e
a tutti inaudite, o nello sceglier le cose meno divulgate, anzi ciò
facendo egli più tosto pecca e perde e toglie all'effetto della poesia,
di quel che gli aggiunga; ma l'arte sua è di scegliere tra le cose note
le più belle, nuovamente e armoniosamente, cioè fra loro convenientemente,
disporre [3222]le cose divulgate e adattate alla capacità dei
più, nuovamente vestirle, adornarle, abbellirle, coll'armonia del verso,
colle metafore, con ogni altro splendore dello stile; dar lume e nobiltà
alle cose oscure ed ignobili; novità alle comuni; cambiar aspetto, quasi
per magico incanto, a che che sia che gli venga alle mani; pigliare v. g. i
personaggi dalla natura, e farli naturalmente parlare, e nondimeno in modo che
il lettore riconoscendo in quel linguaggio il linguaggio ch'egli è
solito di sentire dalle simili persone nelle simili circostanze, lo trovi pur
nel medesimo tempo, nuovo e più bello, senz'alcuna comparazione,
dell'ordinario, per gli adornamenti poetici, e il nuovo stile, e insomma la
nuova forma e il nuovo corpo di ch'egli è vestito. Tale è l'officio
del poeta, e tale nè più nè meno del Musico. Ma siccome la
poesia bene spesso, lasciata la natura, si rivolse per amore di novità e
per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice, a sue proprie e
stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e a'
principii che l'erano stati assegnati, di quello che al suo fondamento ed anima
ch'è [3223]la natura; anzi lasciata affatto questa, che aveva ad
essere l'unico suo modello, non altro modello riconobbe e adoperò che le
sue proprie regole, e su d'esso modello gittò mille assurde e mostruose
o misere e grette opere; laonde abbandonato l'officio suo ch'è il
sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una o per altra parte,
di quell'effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di
produrre e di proccurare; così l'arte musica nata per abbellire,
innovare decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare,
regolare, simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare
insomma le melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi
domestiche; com'ella ebbe assai regole e principii, e d'altronde s'invaghì
soverchiamente della novità, e dell'ambiziosa creazione e invenzione,
non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le
melodie popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva
per proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz'altro,
gittò le sue composizioni [3224]nuove veramente e strane: con che
ella venne a perdere quell'effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch'ella
doveva proporsi per suo proprio fine, e ch'ella da principio otteneva, quando
cioè lo cercava, o quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava.
Perocchè io non dubito che i mirabili
effetti che si leggono aver prodotto la musica e le melodie greche sì
ne' popoli, ossia in interi uditorii, sì negli eserciti, siccome quelle
di Tirteo, sì ne' privati, come in Alessandro; effetti tanto superiori a
quelli che l'odierna musica non solo produca, ma sembri pure, assolutamente
parlando, capace di mai poter produrre; effetti che necessitavano i magistrati
i governi i legislatori a pigliar provvidenze e fare regolamenti e quando
ordini, quando divieti, intorno alla musica, come a cosa di Stato (v. il Viag.
d'Anacarsi, Cap.27. trattenimento secondo); (e parlo qui degli effetti della
musica greca che si leggono nelle storie e avvenuti fra' greci civili, non di
que' che s'hanno nelle favole, accaduti a' tempi salvatichi); non [3225]dubito,
dico, che questi effetti, e la superiorità della greca musica sulla
moderna, che pur quanto a' principii ed alle regole, dalla greca deriva, non
venga da questo, ch'essendo fra' greci l'arte musicale, sebbene adulta, pur
tuttavia ancora scarsa, non offriva ancora abbastanza al compositore da coniare
o inventar di pianta nuove melodie che niun'altra ragione avessero di esser
tali se non le regole sole dell'arte; nè da poter gittarne sopra queste
regole unicamente, o sopra le forme e melodie musicali da altri inventate di
pianta, delle quali non poteva ancora avervi così gran copia, come
ve n'ha tra' moderni. Ma quel ch'è più, l'arte, sebben
cominciò anche tra' greci a corrompersi e declinare da' suoi principii,
e da' suoi propri obbietti o fini e instituti, anzi molto avanzò nella
corruzione (v. Viag. d'Anac. l. c.), non giunse tuttavia di gran lunga ad
allontanarsi tanto come tra noi, e così decisamente e costantemente,
dalla sua prima origine, dal primo fondamento e ragione delle sue regole, dalla
prima materia delle sue composizioni, cioè le popolari melodie;
nè a dimenticare, [3226]come oggi, impudentemente e totalmente il
suo primo e proprio fine, cioè di dilettare e muovere l'universale degli
uditori ed il popolo; nè, molto meno, giunse a rinunziar quasi interamente
e formalmente a questo fine, e scambiarlo apertamente in quello di dilettare, o
maravigliare, o costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima
classe di persone, cioè quella degl'intendenti: il quale per
verità è il fine che realmente si propone la musica tedesca,
inutile a tutti fuori che agl'intendenti, e non già superficiali, ma ben
profondi. Non fu così la Musica greca. E in questo ravvicinamento della
moderna musica al popolare, ravvicinamento così biasimato
dagl'intendenti, e che sarà forse cattivo per il modo, ma in quanto
ravvicinamento al popolare è non solo buono, ma necessario, e primo
debito della moderna musica; in questo ravvicinamento, dico, vediamo quanto
l'effetto della musica abbia guadagnato e in estensione, cioè nella
universalità, e in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche
talor maggior commovimento degli animi. [3227]Che se in niuna parte, e
meno in quest'ultima, gli effetti della moderna musica sono per anche
paragonabili a quelli che si leggono della greca, è da considerarsi che
l'uomo oggidì è disposto in modo da non lasciarsi mai
veementemente muovere a nessuna parte; che analogamente a questa generale
disposizione, neanche le melodie assolutamente popolari d'oggidì, son
tali nè di tal natura che possano facilmente ricevere dal compositore
una forma da produrre in veruno animo un più che tanto effetto; e che in
ultimo i compositori non iscelgono nè quelle melodie popolari o parti di
esse che meglio si adatterebbero alla forza e profondità dell'effetto,
nè in quelle che scelgono, ci adoprano quei mezzi che si richieggono a
produrre un effetto simile, nè così le lavorano e dispongono come
converrebbe per tal uopo: e ciò non fanno perchè nol vogliono e
perchè nol sanno. Nol sanno perchè privi essi medesimi
d'ispirazione veramente sublime e divina, e di sentimenti forti e profondi nel
comporre in qualsiasi genere, non possono nè scegliere nè usar lo
scelto in modo da [3228]produr negli uditori queste siffatte sensazioni
ch'essi mai non provarono nè proveranno. Nol vogliono, perchè
appunto non conoscendo tali sensazioni, nulla o ben poco le stimano, nè
altro fine si propongono che il diletto superficiale e il grattar gli orecchi,
al che di gran lunga pospongono le grandi e nobili e forti emozioni, di cui mai
non fecero esperimento. Ma che maraviglia? quando gli antichi musici erano i
poeti, quegli stessi che per la sublimità de' concetti, per la eleganza
e grandezza dello spirito brillano nelle carte che di loro ci rimangono, o
perdute queste coi ritmi da loro inventati e applicativi, vivono immortali i
loro nomi nella memoria degli uomini, e ciò talora eziandio per egregi e
magnanimi fatti? E quando all'incontro i moderni musici, stante le circostanze
della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono per
corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d'animo il peggio del peggior
secolo che nelle storie si conti? la feccia della feccia delle generazioni? Da
vita, opinioni e costumi vili, adulatorii, dissipati, [3229]effeminati,
infingardi, come può nascer concetto alto, nobile, generoso, profondo,
virile, energico? Ma questo discorso porterebbe troppo innanzi, e condurrebbe
necessariamente al parallelo della musica e de' musici colle altre arti e loro
professori, a quello della moderna musica coll'antica, e delle moderne usanze
colle antiche relative al proposito; e finalmente a trattare della funesta
separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quello di
poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali arti,
indivise e indivisibili (v. il Viag. d'Anac. l. c. particolarmente l'ult. nota
al c.27.). Il qual discorso da molti è stato fatto, e qui non sarebbe
che digressione. Però lo tralascio.
Tornando al nostro primo proposito, il qual fu di mostrare che
l'armonia o convenienza scambievole de' tuoni nelle loro combinazioni
successive, è determinata, siccome ogni altra convenienza,
dall'assuefazione; si vuol notare che quest'assuefazione in fatto di melodie
(come anche di armonie) non è sempre del popolo, [3230]ma
bene spesso in lui prodotta e originata dalla stessa arte musica.
Perocchè a forza di udir musiche e cantilene composte per arte, (il che
a tutti più o meno accade) anche i non intendenti, anzi affatto ignari
della scienza musicale, assuefanno l'orecchio a quelle successioni di tuoni che
naturalmente essi non avrebbero nè conosciute nè giudicate per
armoniose (o ch'elle sieno inventate di pianta dagli uomini dell'arte, o da
loro fabbricate sulle melodie popolari, e di là originate); in
virtù della quale assuefazione essi giungono appoco appoco e senza
avvedersi del loro progresso, a trovare armoniose tali successioni, a sentirvi
una melodia, e quindi a provarvi un diletto sempre maggiore, e a formarsi circa
le melodie una più capace, più varia, più estesa
facoltà di giudicare, la qual facoltà, che in altri arriva a maggiore
in altri a minor grado, è poi per essi cagione del diletto che provano
nell'udir musiche; giudizio e diletto determinato, dettato, e cagionato, non
già dalla natura primitiva e universale, ma dall'assuefazione accidentale
e varia secondo i tempi, i luoghi e le nazioni. [3231]Io di me posso accertare
che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi incominciai) io trovava
affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle
più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono
armoniche, e nell'udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della
melodia.
Nè più nè meno accade
nella pittura, scultura, architettura. Senz'alcuna cognizione della teoria,
nè della pratica immediata dell'arte, a forza di veder dipinti, statue,
edifizi, moltissimi si formano un giudizio, e una facoltà di gustare e
di provar piacere in tal vista, e nella considerazione di tali oggetti, la qual
facoltà non aveano per l'innanzi, e si acquista appoco appoco per mezzo
dell'assuefazione, la quale determina in questi tali (e sono i più che
parlino di belle arti) l'idea delle convenienze pittoriche ec. del bello ec. e
quindi anche del brutto ec., col divario che il soggetto della pittura e scultura
si è l'imitazione degli oggetti visibili, della quale ognun vede la
verità o la falsità, onde le idee del bello e del brutto pittorico
e scultorio, in quanto queste arti sono imitative, è già
determinata in ciascheduno prima dell'assuefazione Non così
nell'architettura e nella musica, meno imitative, e questa imitativa di cose
non visibili ec. Così discorrasi in ordine alla poesia, ed al gusto e
giudizio che l'uomo se ne forma e n'acquista, ec.
Nel detto modo si formano i
mezzi-intendenti, più o meno capaci di giudicare e quindi di provar
diletto nelle composizioni musicali, cioè che più o meno hanno
udito e riflettuto in questo genere e postovi attenzione. I quali
mezzi-intendenti costituiscono la massima parte di quelli che parlano di musica
e di quel pubblico che dà espressamente il suo voto circa le
composizioni musicali che compariscono, giacchè i periti veramente della
scienza musica e conoscitori di essa per elementi e regole, sono ben pochi
rispetto al pubblico.
Or dunque molte che si chiamano melodie
popolari, hanno il loro fondamento nell'assuefazione de' mezzi-intendenti, o
del popolo in quanto [3232]assuefatto a udir musiche. E delle
composizioni successive di note, altre riescono melodie a tutti gli orecchi,
altre a quelli di chiunque è pure un poco intendente (cioè assuefatto),
altre ai mezzi-intendenti più avanzati, altre ai soli veri e perfetti
intendenti, ed altre a questi più a quelli meno, o viceversa, eccetera.
E così il giudizio e il senso della melodia sempre nasce e dipende ed
è determinato dall'assuefazione, o dalla cognizione di leggi che non
hanno la loro ragione nella natura universale, ma nell'accidentale e
particolare uso presente o passato, e in altre tali cose, le quali leggi ho
chiamato di sopra arbitrarie.
E tutto ciò sia aggiunto per
ispiegare e distinguere e quasi classificare quello ch'io intenda per popolare
nella musica, per melodia popolare, e per assuefazione degli orecchi
determinante la scambievole convenienza delle note nella loro scambievole
successione e collegamento.
Del resto poi le assuefazioni che di sopra
ho chiamato del
popolo, (voglio dire dell'universale) nascono ed hanno origine da varie
cagioni, e fra l'altre dalla natura, indipendentemente però da veruna
naturale [3233]convenienza scambievole di quali si sieno tuoni, ma solo
in tanto in quanto p.e. certe passioni naturalmente e universalmente amano
certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono a un tal altro. La qual
cosa che nulla ha che fare coll'assoluta convenienza di tal tuono a tal tuono,
(perocchè qui la ragione della convenienza de' tuoni non istà
nella natura loro, nè nei loro naturali rapporti, ma è relativa
alla natura dell'uomo che indipendentemente dalla convenienza, ama in quel tal
caso quel tuono e quel passaggio) fu l'origine delle melodie, le quali furono
da principio, siccome sempre avrebbero dovuto e dovrebbero essere, imitative;
bensì tali che abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla
scelta, colla disposizione, coll'atta mescolanza e congiungimento, e di
più colla delicatezza, grazia, mobilità ec. degli organi o naturali
(coltivati ed esercitati), o artifiziali inventati e perfezionati. Nè
più nè manco di quello che le poesie debbano, imitandola ornare,
abbellire, variare e mostrar sotto nuovo abito la natura. Veggasi a questo
proposito la citata nota ultima al Capo [3234]27. del Viag. d'Anac. e
quello che altrove ho detto sopra l'imitativo della musica, e sopra quella
convenienza musicale che ha nella imitazione sola la sua ragione ed origine.
E notisi che se nulla v'ha nella musica, sia
nell'armonia sia nella melodia, che universalmente da tutti i popoli civili e
barbari sia riconosciuto e praticato, o che in tutti faccia effetto; ciò
si dee riferire alla natura operante nel modo detto di sopra, o in altri che si
potrebbero dire, operante prima dell'assuefazione e indipendentemente da lei,
ma indipendentemente altresì dalla convenienza e senz'alcuna relazione
all'armonia. Oltre all'altre cagioni di universale effetto nella musica,
indipendenti pure dalla convenienza, parte delle quali ho annoverate di sopra
p.3211. sg., parte altrove, parte potrei annoverare.
(20-21. Agos. 1823.)
Alla p.2998. ult. linea. Crepo is ui itum
sarebbe come strepo is ui itum, da cui strepitare, come appunto
da crepo as o is, crepitare. E crepo as riterrebbe o torrebbe
in prestito il perfetto e il supino di crepo is, cioè crepui,
itum, come appunto accubo ec. quelli di accumbo ec.
cioè accubui itum. Profligo [3235]as è da fligo
is, onde affligo is, confligo is ec. che hanno i continuativi afflicto,
conflicto ec. fatti regolarmente da' participii. V. Forc. in Profligo e proflictus.
(22.
Agos. 1823.). V.
p.3246. e 3341. 3987.
Saluto as si deriva da salus.
Ma io l'ho in forte sospetto di continuativo fatto da salveo-salvitus (antico),
mutato in salutus, ovvero da salvo, mutato il part. salvatus
parimente in salutus. (V. Forc. in saluto, fin. e in Salvo).
Giacchè spessissimo la lingua latina, massime antica, scambiava tra loro
l'u e il v, mutando questo in quello, o per lo contrario.
Così lavo ne' composti diviene luo: ed ablutus si
dice in luogo di ablavatus. Così lautus per lavatus,
fautam per favitum. A questo proposito noterò il continuativo
lavito. Forcell. Cerebrum
in fine. E commentor e commento, a particip. commentus verbi comminiscor
(forse anche comminisco), dice il Forcell.; e notate che qui non dice
dal supino, cioè da commentum, come suole.
(22. Agos. 1823.)
Platone nel Sofista verso il fine, ediz.
dell'Astio, Opp. di Plat. Lips. 1819. sgg.
t.2. p.362. v.2. sgg. A. penult. pagina del Dialogo. J ö ; , , , (. . Ast.) J , J J ; [3236]Unde
iam nomen utrique eorum quisquam arripiet conveniens? an dubium non est quin
difficile sit, propterea quod ad generum in species distributionem vetustam
quandam, ut videtur, et inconsideratam superiores habebant offensionem atque
fastidium, ita ut ne conaretur quidem ullus dividere; quocirca etiam nomina non
satis nobis possunt in promptu esse? Astius. Vuol dir Platone e si lagna,
che gli antichi greci (e così tutti gli antichi d'ogni nazione) ebbero
poche idee elementari, onde la loro lingua (e così tutte le lingue fino
a una perfetta maturità e coltura, e fino che la nazione non filosofa)
mancava di termini esatti, e sufficienti ai bisogni del dialettico massimamente
e del metafisico. Ond'è che Platone il quale volle sottilmente
filosofare, ed esercitare l'esatto raziocinio, e considerare profondamente la
natura delle cose, fu arditissimo nel formare de' termini di questa fatta, ed abbonda
sommamente di voci nuove e sue proprie, esatte e logiche ovvero ontologiche,[75] che
da niuno altro si trovano adoperate, o che da' suoi scritti furono tolte. E
notisi che Platone faceva questa lagnanza della sua [3237]lingua, la
più ricca, la più feconda, la più facile a produrre, la
più libera, la più avvezza e meno intollerante di novità,
ed oltre a questo, nel più florido, perfetto ed aureo secolo d'essa
lingua, e quasi ancora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone
parve scarsa a' bisogni dell'esatto filosofare la stessa lingua greca nel suo
miglior tempo, e trattando materie sottili egli ebbe bisogno di parere ardito agli
stessi greci in quel secolo, e di fare scusa e addur la ragione del suo coniar
nuove voci. Nè certo si dirà che Platone le coniasse o per
trascuratezza e poco amore della purità ed eleganza della lingua, di
ch'egli è fra gli Attici il precipuo modello, nè per ignoranza
d'essa lingua, e povertà di voci derivante da questa ignoranza.
(22. Agos. 1823.)
Chiunque esamina la natura delle cose colla
pura ragione, senz'aiutarsi dell'immaginazione nè del sentimento,
nè dar loro alcun luogo, ch'è il procedere di molti tedeschi[76]
nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben
quello che suona il vocabolo analizzare, [3238]cioè
risolvere e disfar la natura, ma e' non potrà mai ricomporla, voglio
dire e' non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare
una grande e generale conseguenza, nè stringere e condurre le dette
osservazioni in un gran risultato; e facendolo, come non lasciano di farlo,
s'inganneranno; e così veramente loro interviene. Io voglio anche
supporre ch'egli arrivino colla loro analisi fino a scomporre e risolvere la natura
ne' suoi menomi ed ultimi elementi, e ch'egli ottengano di conoscere ciascuna
da se tutte le parti della natura. Ma il tutto di essa, il fine e il rapporto
scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di
questo tutto, e l'intenzion vera e profonda della natura, quel ch'ella ha
destinato, la cagione (lasciamo ora star l'efficiente) la cagion finale del suo
essere e del suo esser tale, il perchè ella abbia così disposto e
così formato le sue parti, nella cognizione delle quali cose dee
consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si aggirano insomma
tutte le verità generali veramente grandi e importanti, queste cose, dico,
è impossibile il ritrovarle [3239]e l'intenderle a chiunque colla
sola ragione analizza ed esamina la natura. La natura così analizzata
non differisce punto da un corpo morto. Ora supponghiamo che noi fossimo
animali di specie diversa dalla nostra, anzi di natura diversa dalla general
natura degli animali che conosciamo, e nondimeno fossimo, siccome siamo, dotati
d'intendimento. Se non avendo noi mai veduto nè uomo alcuno nè
animale di quelli che realmente esistono, e niuna notizia avendone, ci fosse
portato innanzi un corpo umano morto, e notomizzandolo noi giungessimo a
conoscerne a una a una tutte le più menome parti, e chimicamente decomponendolo,
arrivassimo a scoprirne ciascuno ultimo elemento; perciò forse potremmo
noi conoscere, intendere, ritrovare, concepire qual fosse il destino, l'azione
le funzioni le virtù le forze ec., di ciascheduna parte d'esso corpo
rispetto a se stesse, all'altre parti ed al tutto, quale lo scopo e l'oggetto
di quella disposizione e di quel tal ordine che in esse patti scorgeremmo, e
osserveremmo pure co' propri occhi, e colle proprie mani tratteremmo; quali gli
effetti particolari e l'effetto generale e complessivo di esso ordine, e del
tutto di esso corpo; quale il fine di questo tutto; quale insomma e che cosa la
vita dell'uomo; anzi se quel corpo fosse mai e dovesse esser vissuto; [3240]anzi
pure, se dalla nostra stessa vita non l'arguissimo, o se alcuno potesse
intendere senza vivere, concepiremmo noi e ritrarremmo in alcun modo dalla piena
e perfetta e analitica ed elementare cognizione di quel corpo morto, l'idea
della vita? o vogliamo solamente dire l'idea di quel corpo vivo? e intenderemmo
noi quale e che cosa fosse l'uomo vivente, e il suo modo di vivere esteriore o
interiore? Io credo che tutti sieno per rispondere che niuna di queste cose
intenderemmo; che volendole congetturare, andremmo le mille miglia lontani dal
vero, o sarebbe a scommetter millioni contro uno che di nulla mai, neanche facendo
un milione di congetture, ci apporremmo; finalmente ch'egli sarebbe cosa
probabilissima, ch'esaminato e conosciuto quel corpo morto, in questa
conoscenza ci fermassimo, e neppur ci venisse in sospetto ch'ei fosse mai stato
altro, nè fosse mai stato destinato ad esser altro che quel che noi lo
vedremmo, e tale qual noi lo vedremmo, nè della sua passata vita
nè dell'uom vivo, ci sorgerebbe in capo la più menoma conghiettura.
[3241]Applicando questa
similitudine al mio proposito dico che scoprire ed intendere qual sia la natura
viva, quale il modo, quali le cagioni e gli effetti, quali gli andamenti e i
processi, quale il fine o i fini, le intenzioni, i destini della vita della
natura o delle cose, quale la vera destinazione del loro essere, quale insomma
lo spirito della natura, colla semplice conoscenza, per dir così, del
suo corpo, e coll'analisi esatta, minuziosa, materiale delle sue parti anche
morali, non si può, dico, con questi soli mezzi, scoprire nè
intendere, nè felicemente o anche pur probabilmente congetturare. Si
può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire
l'università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un
effetto poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata a produrre
un effetto poetico generale; ed altri ancora particolari; relativamente al
tutto, o a questa o quella parte. Nulla di poetico si scorge nelle sue parti,
separandole l'una dall'altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume
della ragione esatta e geometrica: nulla di poetico ne' suoi mezzi, nelle sue
forze e molle interiori o esteriori, ne' suoi processi in questo modo
disgregati e considerati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi
fredda, morta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il
coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico di un [3242]metafisico
che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun'altra forza o agente impiega
nelle sue speculazioni, ne' suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come
dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione. Nulla di poetico poterono
nè potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica.
Perocchè tutto ciò ch'è poetico si sente piuttosto che si
conosca e s'intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s'intende,
nè altrimenti può esser conosciuto, scoperto ed inteso, che col
sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta
all'immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l'intendere tutte le
sopraddette cose; ed elle il possono, perocchè noi ne' quali risiedono
esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa
università ch'esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse sole
in armonia col poetico ch'è nella natura; la ragione non lo è;
onde quelle sono molte più atte e potenti a indovinar la natura che non
è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore
spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch'è poetico,
però ad essi soli è possibile ed appartiene l'entrare e il
penetrare addentro ne' grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni
sì generali, sì anche particolari, della [3243]natura.
Essi solo possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare,
comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere di operare, di vivere,
i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini. Essi pronunziando o congetturando
sopra queste cose, sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di apporsi
talora al vero o di accostarsegli. Essi soli sono atti a concepire, creare,
formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico che abbia il
meno possibile di falso, o, se non altro, il più possibile di simile al vero,
e il meno possibile di assurdo, d'improbabile, di stravagante. Per essi gli
uomini convengono tra loro nelle materie speculative e in molti punti astratti,
assai più che per la ragione, al contrario di quel che parrebbe dover
succedere; perocchè egli è certissimo che gli uomini discorrendo
o conghietturando per via di semplice ragione, discordano per lo più tra
loro infinitamente, s'allontanano le mille miglia gli uni dagli altri, e pigliano
e seguono tutt'altri sentieri; laddove discorrendo per via di sentimento e
d'immaginazione, gli uomini, le diversissime [3244]classi di essi, le
nazioni, i secoli, bene spesso, e costantemente, convengono del tutto fra loro,
come si può vedere in moltissime proposizioni (sistemi) ed anche
pùre supposizioni, dall'immaginativa e dal cuore o trovate o formate, e
da essi soli derivate e autorizzate, e in essi soli fondate, le quali furono
sempre e sono tuttavia ammesse e tenute da tutte o da quasi tutte le nazioni in
tutti i tempi, e dall'universale degli uomini avute, anche oggidì, per
verità indubitabili, e da' sapienti, quando non altro, per più verisimili
e più universalmente accettabili che alcun'altra sul rispettivo
proposito. Il che forse di niuna ipotesi (generale o particolare, cioè
costituente sistema, o no ec.) dettata dalla pura ragione e dal puro
raziocinio, si vedrà essere intervenuto nè intervenire.
Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; o la
ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e
insegnato e confermato le più grandi, più generali, più
sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità
filosofiche che si posseggano, e rivelato [3245]o dichiarato i
più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano, della natura e delle
cose, come altrove ho diffusamente esposto.
(22. Agos. 1823.)
In conferma del sopraddetto si osservi che i
più profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero, e
quelli di più vasto colpo d'occhio, furono espressamente notabili e
singolari anche per la facoltà dell'immaginazione e del cuore, si distinsero
per una vena e per un genio decisamente poetico, ne diedero ancora insigni
prove o cogli scritti o colle azioni o coi patimenti della vita che dalla
immaginazione e dalla sensibilità derivano, o con tutte queste cose insieme.
Fra gli antichi Platone, il più profondo, più vasto, più
sublime filosofo di tutti essi antichi che ardì concepire un sistema il
quale abbracciasse tutta l'esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu
nel suo stile nelle sue invenzioni ec. così poeta come tutti sanno. V.
il Fabric. in Platone. Fra' moderni Cartesio, Pascal, quasi pazzo per la forza
della fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad. di Staël ec.
(23. Agosto, udita la morte del Papa Pio VII. che fu a' 20. di
questo. 1823.)
[3246]A quei pochi monosillabi
latini da me altrove raccolti, aggiungi pax, voce ch'esprime una cosa
che dovette esser delle prime o delle più antiche nominate; onde pacare,
pacisci, pactum ec. Il greco corrispondente è trisillabo: .[77]
(23. Agos. 1823.)
Alla p.3235. Placeo es - placo as. Placeo ha pur Placito
as. Notisi che questo placo viene da un verbo della seconda maniera,
non della 3.a Convivo is - convivo as e convivor-aris. Convitare,
e combidar (franc. convier), quasi convictare è un
regolar continuativo di convivo is - convictus. Quando però non
fosse o una corruzione, o piuttosto un fratello (comune, come vedete, a tutte
le tre lingue figlie), d'invito as, il qual verbo donde viene? forse da vita?
o forse è un continuativo dell'anomalo continuativo inviso is -
invisus, quasi invisare, mutata la s in t, come non di
rado si scambiano queste lettere ne' participii (fixus - fictus etc.), o
è una diversa inflessione d'inviso is medesimo, e più
regolare? Del resto, se non convivo is, certo il suo semplice vivo is,
ha forse il regolare continuativo victo as, e senza dubbio il frequentativo
victito. Vedi poi il Glossario, se ha nulla in proposito per le suddette
cose.
(23. Agos. 1823.). V. p.3289.
[3247]È cosa nota che le
favelle degli uomini variano secondo i climi. Cosa osservata dev'essere
altresì che le differenze de' caratteri delle favelle corrispondono alle
differenze de' caratteri delle pronunzie ossia del suono di ciascuna favella
generalmente considerato: onde una lingua di suono aspro ha un carattere e un
genio austero, una lingua di suono dolce ha un carattere e un genio molle e
delicato; una lingua ancora rozza ha e pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi,
raddolcendosi e ripulendosi il carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi,
divenendo regolare, e perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e raddolcisce
e mitigasi e si ammollisce eziandio la generale pronunzia ed il suono.
Dev'esser parimente osservato, che siccome il carattere della lingua al
carattere della pronunzia, così i caratteri delle pronunzie
corrispondono alle nature dei climi, e quindi alle qualità fisiche degli
uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità morali che dalle
fisiche procedono e lor corrispondono. Onde ne' climi settentrionali, dove gli
uomini indurati dal freddo, da' patimenti, e dalle fatiche di provvedere a'
propri bisogni in terre [3248]naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo,
e fortificati ancora dalla fredda temperatura dell'aria, sono più che
altrove robusti di corpo, e coraggiosi d'animo, e pronti di mano, le pronunzie
sono più che altrove forti ed energiche, e richiedono un grande spirito,
siccome è quella della lingua tedesca piena d'aspirazioni, e che a
pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant'altri può avere in
petto, onde a noi italiani, udendola da' nazionali, par ch'e' facciano grande
fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo contrario accade
nelle lingue de' climi meridionali, dove gli uomini sono per natura molli e
inchinati alla pigrizia e all'oziosità, e d'animo dolce, e vago de'
piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond'egli è proprio
carattere della pronunzia non meno che della lingua p.e. tedesca, la forza, e
dell'italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue queste
proprietà rispettive dell'una lingua all'altra, ne segue che anche
assolutamente, e considerando ciascuna lingua da se, nella lingua p.e.
italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza, [3249]onde lo scrittore
o il parlatore italiano appo cui la lingua (sia nello stile, sia nella
combinazione delle voci, sia nella pronunzia) è più delicata e
più dolce che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità
non passino i confini che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia
per rispetto alla stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia
trattata), più si loda che gli altri italiani, appunto perocchè
la lingua italiana nella dolcezza e delicatezza avanza l'altre lingue. Ma per
lo contrario fra' tedeschi dovrà maggiormente lodarsi lo scrittore o il
parlatore appo cui la lingua riesca più forte che appo gli altri
tedeschi, perocchè la lingua tedesca supera l'altre nella forza, e suo
carattere è la forza, non la dolcezza: nè la dolcezza è
pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa, considerandola
rispetto alle altre lingue, è qualità non pregio, e nello scrittore
o parlatore italiano è pregio, non in quanto dolcezza, ma in quanto
propria e caratteristica della lingua italiana. Così civilizzandosi le
nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di corpo, divenne
altresì pregio negl'individui umani la maggior [3250]delicatezza
delle forme, non perchè la delicatezza sia pregio per se; che anzi la
rispettiva delicatezza delle forme era certamente biasimo, e tenuto per difetto,
o per causa di minor pregio d'esse forme, appo gli uomini primitivi; ma solo
perchè la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della
natura, e contro il vero ben essere e il destino dell'umana vita, è
fatta propria e caratteristica delle nazioni e persone civili.[78]
Laonde ben s'ingannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Staël nell'Alemagna)
che cercarono di raddolcire la loro lingua, credendo farsi tanto più
pregevoli degli altri tedeschi quanto più dolcemente di loro la
parlassero e scrivessero, e che la dolcezza, proccurandola alla lingua tedesca,
le avesse ad esser pregio, contro la natura, e contro il carattere della
lingua, il quale è la forza, e tanta forza richiede nello scrittore e
nel parlatore, quanta possa non varcare i confini prescritti dalla
qualità d'essa lingua, e da quella delle particolari materie in essa
trattate; ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come vizio nella
lingua tedesca e non pregio, perchè opposta alla sua natura.
[3251]Tornando al proposito debbono
esser, come ho detto, cose osservate queste proporzioni che passano tra le
diverse nature dei climi e i diversi caratteri delle rispettive pronunzie e
geni delle rispettive lingue, ed altresì il modo di queste proporzioni,
cioè il modo in che il clima opera sulle favelle, e da quali
proprietà del clima quali proprietà derivino alle pronunzie e
alle lingue. Ma forse non sarà stato egualmente notato che trovandosi in
un medesimo clima e paese essere stati in diversi tempi diversi caratteri di
pronunzia e di lingua, queste diversità corrispondettero sempre alle
qualità fisiche degli uomini che ciascuna d'esse pronunzie e lingue,
l'una dopo l'altra usarono, le quali fisiche qualità variarono secondo
le diverse circostanze morali, politiche, religiose, intellettuali ec. che in
diverse generazioni in quel medesimo clima e paese ebber luogo. Ond'è
che sebbene il clima meridionale naturalmente ispira dolcezza ne' caratteri
delle pronunzie e de' suoni, tuttavia suono della lingua greca, e quello della
lingua romana, certo più molle che non era a quel tempo, e che adesso
non è, il suono delle [3252]lingue settentrionali, pur fu molto
men delicato e più forte di quello che oggi si sente nella nuova lingua
dello stesso Lazio e di Roma e d'Italia. E ciò non per altra cagione
fisica immediata, se non perchè, stante le loro circostanze morali e
politiche e il lor genere di vita e di costumi, gli antichi Greci e Romani (il
che anche per mille altri segni e notizie si prova) furono di corpo molto
più forti che i moderni italiani non sono. La stessa pronunzia della
moderna lingua francese (e così delle altre) si è addolcita coi
costumi della nazione, come dice Voltaire ec. giacchè un dì si
pronunziava come oggi si scrive ec. Ond'è che siccome la pronunzia
francese per la geografica posizione e natural qualità del suo clima,
ch'è mezzo tra meridionale e settentrionale, tiene quasi tanto delle pronunzie
del sud quanto di quelle del nord,[79] ed
è un temperamento dell'une e dell'altre e un anello che queste a quelle
congiunge,[80]
così il carattere delle pronunzie greca e latina, tiene, non dirò
già il proprio mezzo tra il settentrionale e il meridionale, ma tra il
carattere dell'italiana, ch'è l'uno estremo delle moderne pronunzie
meridionali, e l'estremo assoluto della dolcezza; e quello della pronunzia
settentrionale meno aspra e che più [3253]s'accosti a dolcezza, e
sia per questa parte l'estremo delle pronunzie settentrionali, alle meridionali
più vicino. O volessimo piuttosto dire che le pronunzie greca e latina
sieno medie tra l'italiana ch'è la più meridionale, e la
francese, che non è nè ben meridionale nè per anco
settentrionale. Le lingue orientali, la greca moderna, la turca, quelle de'
selvaggi e indigeni d'America sotto la zona, parlate e scritte in climi assai
più meridionali che quel d'Italia o di Spagna, sono tuttavia molto men
dolci dell'italiana e della spagnuola, e taluna anche delle settentrionali
europee. Ciò per la rozzezza o per la acquisita barbarie de' popoli che
l'usano o che l'usarono, per li costumi aspri e crudeli ec. antiche o moderne
ch'esse lingue si considerino.
(23. Agos. 1823.)
Una lingua strettamente universale,
qualunque ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di necessità e
per sua natura, la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida
e brutta lingua, la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la
più impropria all'immaginazione, e la meno da lei dipendente, anzi la
più da lei per ogni verso disgiunta, la più esangue ed inanimata
e morta, che mai si possa concepire; uno scheletro un'ombra di lingua piuttosto
che lingua veramente; una lingua non viva, quando pur fosse da tutti scritta e
universalmente intesa, anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che
più non si parli nè scriva. Ma si può pure sperare che
perchè gli uomini sieno già fatti generalmente sudditi infermi,
impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati, languidi, e miseri della ragione, ei
non diverranno però mai schiavi moribondi e incatenati [3254]della
geometria. E quanto a questa parte di una qualunque lingua strettamente
universale, si può non tanto sperare, ma fermamente e sicuramente
predire che il mondo non sarà mai geometrizzato, non meno di quel che si
possa con certezza affermare ch'ei non ebbe una tal favella mai, se non forse
quando gli uomini erano così pochi, e di paese così ristretti, e
niente vari di opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita, che la lingua era
universale solo perciò che più d'una nazione d'uomini, almeno
parlanti, non v'aveva, onde universale era la lingua perch'era una al mondo,
nè altra lingua mai s'era udita, ed una era e sempre era stata la
lingua, perchè una sempre la nazione infino allora, o una, se non altro,
la nazione che di lingua avesse uso e notizia.
(23. Agosto. 1823.)
Quello poi che ho detto che una lingua
strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi un'ombra di lingua,
che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene a quella lingua
caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave (nelle Riflessioni
intorno [3255]all'istituzione d'una lingua universale,
opuscolo stampato in Roma, e poi dal medesimo autore rifuso nell'Appendice 2.a
al capo II del Libro 3° del Saggio filosofico di Gio. Locke su l'umano intelletto
compendiato dal D. Winne, tradotto e commentato da Francesco Soave C. R. S.
tomo 2do, intitolato Saggio sulla formazione di una Lingua Universale),
la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le idee,
bensì alcune delle inflessioni d'esse parole (come quelle de' verbi), ma
piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza
rapporto a niun suono pronunziato, nè significazione e dinotazione
alcuna di esso. Questa non sarebbe lingua perchè la lingua non è
che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole. Ella sarebbe una
scrittura, anzi nemmeno questo, perchè la scrittura rappresenta le
parole e la lingua, e dove non è lingua nè parole quivi non
può essere scrittura. Ella sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non
sono nè lingua nè scrittura ma cosa diversa dall'una e
dall'altra. Quest'algebra di linguaggio (così nominiamola) [3256]la
quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni
ch'è meno dell'altre impossibile ad essere strettamente universale, si
può pur confidentemente e certamente credere che non sia per essere
nè formata ed istituita, nè divulgata ed usata giammai.
Dirò poi ancora, ch'ella in verità non sarebbe strettamente
universale, perch'ella lascerebbe a tutte le nazioni le loro lingue, siccome
ora la francese. Ella di più non sarebbe propria che dei dotti o colti.
Ma di tutti i dotti e colti lo è pure oggidì la francese. Quale
utilità dunque di quella lingua? la quale non sarebbe forse niente
più facile ad essere generalmente nella fanciullezza imparata, di quello
che sia la francese, che benissimo e comunissimamente nella fanciullezza
s'impara. E tutti i vantaggi che si ricaverebbero da quella chimerica lingua,
tutti, e molto più e maggiori, e forse con più facilità si
caverebbero dalla lingua francese, divenendo, se pur bisogna, più comune
e più studiata e coltivata di quel ch'ella già sia.
Quanto poi ad una lingua veramente [3257]universale,
cioè da tutte le nazioni senza studio e fin dalla prima infanzia
intesa e parlata come propria, lasciando tutte le impossibilità
accidentali ed estrinseche, ma assolutamente insormontabili, che ognun conosce
e confessa; dico ch'ella è anche impossibile per sua propria ed assoluta
natura, quando pur gli uomini che l'avrebbero a usare, non fossero, come sono,
diversissimamente conformati rispetto agli organi ec. della favella ed alle
altre naturali cagioni che diversificano le lingue; di modo che, quando anche
superato ogni ostacolo, una qualunque lingua, per impossibile ipotesi, fosse
divenuta universale nella maniera qui sopra espressa, la sua universalità
non potrebbe a patto alcuno durare, e gli uomini tornerebbero ben tosto a
variar di lingua, per la stessa natura di quella tal favella universale, in cui
le condizioni medesime che la farebbero atta ad esser tale, sarebbero in
espressa contraddizione colla durevolezza della sua universalità, e
formalmente la escluderebbono. Perocchè una lingua appropriata ad essere
strettamente universale, deve, come [3258]in altri luoghi ho largamente
esposto, essere di natura sua, servilissima, poverissima, senza ardire alcuno,
senza varietà, schiava di pochissime, esattissime, e stringentissime
regole, oltra o fuor delle quali trapassando, non si potesse in alcun modo
serbare nè il carattere nè la forma d'essa lingua, ma in diversa
lingua assolutamente si parlasse. Nè senza una buona parte o similitudine
almeno di queste qualità e di ciascuna di esse, la lingua francese
sarebbe potuta giungere a quel grado di universalità largamente
considerata, in cui la veggiamo; nè certo mantenervisi, seppur
momentaneamente vi fosse giunta, come vi giunse un dì la greca.
Perocchè queste qualità indispensabilmente richieggonsi ad una,
ancorchè non assoluta o stretta, universalità durevole di una
lingua. Ora una lingua così formata e costituita, e di tali
qualità in sommo grado (come a una lingua strettamente universale si
ricercherebbe) fornita, a pochissimo andare, per cagione di queste medesime
qualità, si corromperebbe e traviserebbe [3259]in modo che
più non sarebbe quella; come altrove ho dimostrato di tali lingue non
libere, coll'esempio (fra l'altre cose) della latina, la quale, siccome ogni altra,
quantunque servilissima, che si conosca, fu ed è ben lontana dall'aver
queste qualità in sommo grado, come si richiederebbe di necessità
ad una lingua che avesse ad essere strettamente e durabilmente universale.
Così quelle medesime condizioni che da una parte cagionerebbono, e in
modo che senza esse non potrebbe stare, la propria, o vogliam dire esatta, e
durevole universalità di una lingua; d'altra parte e nel tempo stesso,
per propria natura loro, rendono assolutamente inevitabile e inevitabilmente
prontissima una totale corruzione e mutazione della lingua medesima. Onde
nè senza esse la stretta universalità di una lingua può
stare, nè qualsivoglia universalità durare, come si è altrove
provato; e parimente con esse non può durare nè la stretta
universalità nè il proprio stato di una lingua. Perocchè,
quanto al proprio stato, è evidente che una lingua di necessità
corrompendosi e cangiandosi [3260]del tutto, di necessità lo
perde, cioè perde la sua forma, proprietà, carattere e natura. E
quanto alla stretta universalità, dato ancora che una lingua
corrompendosi appo una sola nazione, si corrompesse ugualmente, di modo ch'ella
quantunque mutata da quella prima, fosse pur sempre una sola in essa nazione, e
a tutta comune; egli è fisicamente impossibile a seguire, e assurdo a
supporre che una medesima lingua corrompendosi appo molte e diversissime nazioni
e cambiandosi affatto da quella di prima, pur corrompendosi da per tutto
ugualmente, e facendo da per tutto in un medesimo tempo gli stessi passi, si
mantenesse sempre una sola appo tutte le dette nazioni insieme. La corruzione
non ha legge, e quella che nasce dalla troppa schiavitù e circoscrizione
d'una lingua, n'ha meno che mai, ed è più cieca che ogni altra;
nè dove non v'ha regola alcuna, nè scambievole convenzione e
consenso (il che sarebbe contrario alla natura della corruzione di una lingua),
nè conformità di circostanze, quivi può essere
uniformità. La quale se è quasi impossibile in una sola nazione,
dal continuo commercio e da [3261]tante altre circostanze congiunta
insieme e fatta una, quanto più tra molte nazioni, sempre, per quanto
commercio possano avere insieme, disgiunte e fra se diverse! E si è
infatti veduto quanto diversa fosse la corruzione della lingua latina nelle
diverse nazioni in ch'ella si propagò, fino a produrre varie affatto
distinte e separate e separatamente regolate e costituite favelle, che tuttavia
si parlano. E ciò quantunque la lingua latina non fosse d'assai
così servile ec. come è necessario supporre una lingua
strettamente universale. Resta dunque provato che una lingua strettamente
universale, per cagione di quelle stesse condizioni ond'ella sarebbe divenuta e
con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e senza cui
l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per
causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi,
dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di
quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente l'occasionerebbero,
in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua [3262]universalità,
la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle medesime condizioni
che a tal durata indispensabilmente richieggonsi.
Questo che ho detto di una lingua
universalmente parlata come propria, devesi pur dire di una sognata lingua che
in tutte le nazioni civili i dotti e gl'indotti scrivessero come propria,
rimanendo le varie lingue nazionali pel solo uso di favellare, a un di presso
nel modo che ai bassi tempi le varie favelle o dialetti volgari, scrivendo
tutti, anche notai ec., ogni sorta di scritture in Latino, corrotto e barbaro,
e secondo i diversi luoghi diverso, ma pur da per tutto Latino.
E conchiudo che una lingua universalmente da
tutte le nazioni, anche sole civili, o parlata o scritta, o l'uno e l'altro, ed
intesa, come propria è impossibile, non solo estrinsecamente e
per ragioni estrinseche, ma per sua propria ed intrinseca natura e
qualità e proprietà ed essenza, non relativamente nè
accidentalmente, ma essenzialmente, di necessità, ed assolutamente.
(25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.)
Movere neutro, o in forma ellittica
per movere se o movere castra, come tra noi muovere [3263]neutro
o ellittico (e così trarre), del che mi sembra avere altrove notato
un esempio di Floro, vedilo appo Svetonio, in Divo Julio, Cap.61. §.1. e
quivi le note degli eruditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il
Poliziano Stanze I. 22. dove troverai muovere neutro, senza
l'accompagnamento del sesto caso, come ancora in latino.
(25. Agos. dì di S. Bartolomeo.
1823.)
Alla p.2889. Tumultuo e tumultuor
da tumultus us. Acuo da acus us, è della terza
coniugazione per una che, stante la moltitudine anzi la pluralità degli esempi
dimostranti che tali verbi sono regolarmente della prima, possiamo chiamare anomalia.
Così statuo is da status
us. Arcuo as da arcus us.
(26. Agos. 1823.)
Grassor aris
continuativo di gradior eris il cui participio in us oggi
irregolarmente è gressus, in antico, come dimostra il detto
continuativo, più regolarmente fu grassus. Gressus bensì
ne' composti i quali, come molti altri, mutano l'a di gradior in e;
ingredior, aggredior ec. Così ascendo ec. da scando,
e puoi vedere la pag.2843.
(26. Agos. 1823.)
[3264]Alla p.2864. Castello,
château, castillo tengono fra noi il luogo del positivo castrum, col
quale anche in latino bene spesso indifferentemente si scambiava castellum,
o si usava equivalentemente ec.
(26. Agos. 1823.)
Francesismi familiarissimi, usitatissimi e
volgarissimi in quella nazione, tant mieux, tant pis, frasi ellittiche o
irregolari, e che paiono veri idiotismi francesi, non sono che latinismi, anzi
idiotismi, cioè volgarismi, latini. Vedi gli eruditi alla favola 5.
lib.3. di Fedro, Aesopus et Petulans. V. anche il Forcellini se ha
nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo volgarmente e scriviamo tanto meglio,
tanto peggio, ma in senso meno ellittico, più naturale e regolare,
anzi per lo più regolarissimo, e meno sovente assai de' francesi.
(26. Agos. 1823.)
Alla p.2996. marg. - vengono cred'io da medeor
(medeo ancora si disse, poichè medeor si trova pure
passivo), non da medicus. Lo deduco appunto dal veder medicor
deponente come medeor, (laddove medico corrisponderà
all'antico medeo), e dal vedere ancora che medicatus e medicatus
sum suppliscono pel verbo medeor che manca del preterito e del
participio in us. V. Forc. in Medeor. fine. Veggasi la p.3352.
sgg. circa il continuativo meditor di medeor fatto dal suo participio
in us.
(26. Agos. 1823.)
[3265]Si può dire che le
viste, i disegni, i proponimenti, i fini, le speranze, i desiderii dell'uomo,
tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro, tanto
più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o
giungono, lontano, quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che
gli rimane, e viceversa. Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione al
futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere al presente
momento, perocchè il presente non è in verità che
istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o
passato o futuro. Ma considerando il presente e il futuro non esattamente e
matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e
chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. Poco
più là mira il fanciullo; ond'è che proporre al fanciullo
(p.e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch'egli acquisterà
nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza),
è assolutamente inutile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed
utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori o vantaggi
ch'egli [3266]possa e debba conseguire ben tosto, e quasi di giorno in
giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi lo scopo della gloria e
della utilità degli studi, senza il quale ravvicinamento è
impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto scopo, e per conseguirlo si
assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura,
che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del giovane, ma
meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul futuro
oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia
già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne
la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e
delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che
d'essa si contentino, e che non cerchino di prontamente effettuarla e recarla
in opera, e venire al fatto. Il che nasce dall'ardore di quelle età,
dall'attività dell'animo unita e cospirante con quella del corpo, dalla [3267]freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un
oggetto ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro
un picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo
prova in condurle a fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni
sperati, la quale inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono
posseduti. Le contrarie cagioni producono la lunghezza e lontananza delle viste
nell'uomo maturo; e l'eccesso di dette contrarie qualità producono
l'eccesso del contrario effetto nella vecchiezza, la quale ridotta a non
potersi ragionevolmente promettere più che un brevissimo avanzo di vita,
pure nella estensione delle sue viste supera di gran lunga tutte le altre
età dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e
d'animo, e pel disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento
dell'amor proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento [3268]della
vita, non è capace se non di fievoli desiderii, e quindi si contenta di
propor loro uno scopo lontano e in esso fermarli, e i suoi desiderii si
contentano di rimanervi; per la diuturna esperienza fatta della vanità e
del tristo esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a
luoghi così lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai,
avvicinandosi a quelli e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria
dell'età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere
eziandio e quasi differire le sue speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e
il loro conseguimento ch'ei si propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di
vagheggiare; e per l'abito della tardità e lentezza nell'operare a cui
la gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e
negligenza e torpore dell'animo che ne deriva e n'è pur cagione, i suoi
desiderii altresì e le sue speranze ne divengono tarde e pigre e lente e
quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive per
mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana [3269]indispensabilmente
ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se stesso non con l'intelletto, ma
con l'immaginazione e con la non ragionata abitudine dell'altre facoltà
del suo spirito, che il tempo e la natura e le cose sian divenute ed abbiano a
riuscir così lente e pigre com'esso necessariamente è.
(26. Agosto. 1823.)
Il poeta lirico nell'ispirazione, il
filosofo nella sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa e di
sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo qualunque nel punto di una
forte passione, nell'entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere,
mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e
superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente
consistere. Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte più
cose ch'egli non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo
d'occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti
più volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili
congiunture), egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti
scambievoli, e per la novità di quella moltitudine [3270]di
oggetti tutti insieme rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare,
benchè rapidamente, i detti oggetti meglio che per l'innanzi non avea
fatto, e ch'egli non suole; e a voler guardare e notare i detti rapporti.
Ond'è ch'egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà
di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a lui ed all'ordinario del
suo animo), e ch'egli l'adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità
generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno fuor di
quel punto e di quella ispirazione e quasi e furore
o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e
pazientissime ed esattissime ricerche, esperienze, confronti, studi, ragionamenti,
meditazioni, esercizi della mente, dell'ingegno, della facoltà di
pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno, ripeto, non solo quel
tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu'altro o poeta o ingegno qualunque o
filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur molti filosofi insieme
cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento dello spirito umano,
cercherebbero di scoprire, o d'intendere, o di spiegare, siccome [3271]colui,
mirando a quella ispirazione, facilmente e perfettamente e pienamente fa a se
stesso in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri, purch'ei sia capace
di ben esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente
presenti le cose allora concepite e sentite.
(26. Agos. 1823.)
Secondo ch'io osservo[81] e
che si potrà spiegare colle ragioni da me recate in altri luoghi,
l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in qualunque modo per
altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla beneficenza e
all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità delle
altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o
rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità,
del poco o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed
in proporzione inversa della debolezza, della infelicità,
dell'esperienza delle sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente
presenti, del bisogno che l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. Quanto
più l'uomo è in istato di esser [3272]soggetto di
compassione, o di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brama o
l'esige, anche a torto, e si persuade di meritarla, tanto meno egli compatisce,
perocch'egli allora rivolge in se stesso tutta la natural facoltà, e
tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli aveva, di compatire. Quanto
l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui, tanto meno egli è,
non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non solo esercita,
ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o pretende, e crede a
torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo debole, e sempre bisognoso
di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e si rendono nella società,
e che sono il principale oggetto a cui la società è destinata, o
quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole comunione degli
uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui, e di rado o
non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed ancora agli
uomini più deboli e più bisognosi di lui. L'uomo assuefatto alle
sventure, e [3273]massime quegli a cui la vita è sinonimo e compagno
del patimento, nulla sono mossi, o del tutto inefficacemente, dalla vista o dal
pensiero degli altri mali e travagli e dolori. L'amor proprio in un essere
infelice è troppo occupato perch'egli possa dividere il suo interesse
tra questo essere e i di lui simili. Assai egli ha da esercitarsi quando egli
ha le sue proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle che se gli
rappresentano in qualunque modo in altrui. Se le proprie sventure sono
presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso,
in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli altri. Se sono passate, posto
ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di esse fa che l'uomo non trovi
nulla di straordinario nè di terribile ne' patimenti e disastri degli
altri, nulla che meriti di farlo come rinunziare al suo amor proprio per
impiegarlo in altrui beneficio; come già pratico del soffrire, egli si
contenta di consigliar tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si
rassegnino alla lor sorte, e si crede in diritto di esigerlo, quasi [3274]egli
medesimo n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in
qualche modo si persuade di aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le
sue pene virilmente al possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno
il più degli uomini, nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto;
nella stessa guisa che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere
stato indegno de' mali ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito
d'insensibilità verso l'altrui sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu
sventurato, non è facile a dispogliarsene, sì perch'esso è
troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire alla natura dell'uomo;
sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel
mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e
ben sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.
Io osservo (e n'ho presente a me stesso non
un solo esempio), che i giovani non poveri, o non oppressi nè avviliti
dalla povertà, sani e robusti di corpo, coraggiosi, attivi, [3275]capaci
di fornir da se stessi a' loro bisogni, e poco o nulla necessitosi, ovver poco
o nulla desiderosi degli altrui soccorsi e dell'altrui opera o fisica o morale,
almeno abitualmente; non tocchi ancora dalla sventura, o piuttosto (giacchè
qual è l'uomo nato che già non abbia sofferto?) tocchi da
essa in modo ch'essi pel vigore della età e della complessione, e per la
freschezza delle forze dell'animo, la scuotono da se, e poco caso ne fanno;
questi tali giovani, dico, ancorchè da una parte intolleranti fin della
menoma ingiuria, ed anche proclivi all'ira; inclinati ed usi di motteggiare i
presenti e gli assenti ancor più che gli altri non sono; soverchiatori
anzi che no, sia di parole, sia d'opere eziandio; - v. p.3282. 3942. dall'altra
parte, ancorchè abbandonati da tutti, e forse da quelli stessi che
avrebbero il più sacro dovere di prenderne cura, ancorchè
sperimentati nella ingratitudine degli uomini, e fatti accorti per prova, della
niuna utilità e grazia, ed eziandio del danno, che spesso risulta dal
far beneficio; ancorchè pronti e perspicaci d'ingegno, e non ignari del
mondo, e ben consapevoli quanto il costume degli uomini sia rimoto dal beneficare
e dal compatire, e quanto altresì [3276]le loro opinioni ne gli
allontanino, e quanto gli uomini sieno generalmente indegni ch'altri ne prenda
cura; con tutto ciò questi tali sono prontissimi a compatire, dispostissimi
a sovvenire agli altrui mali, inclinatissimi a beneficare, a prestar l'opera
loro a chi ne li richiede, ancorchè indegno, a profferirla pure spontaneamente,
sforzando l'altrui ripugnanza d'accettarla, e conoscendo quella di ricercarla;
apparecchiati senza riservo e senza cerimonie ai bisogni ed a proccurare i
vantaggi degli amici: ed in effetto sono quasi continuamente occupati per
altrui più che per se stessi; le più volte in piccoli, ma pur
faticosi, noiosi, difficili uffizi e servigi, la cui moltiplicità, se
non altro, compensa la piccolezza di ciascuno; talora eziandio in cose grandi o
notabili e che richieggono grandi o notabili cure, fatiche, ed anche sacrifizi.
E ciò facendo, nè presso se stessi, nè presso i
beneficati, nè presso gli altri attaccano un gran pregio ai loro
servigi, nè gran conto ne fanno, nè se ne reputano di gran merito
(quasi accecati e dissennati da Giove, come dice Omero di Glauco quand'egli
scambiò le sue armi d'oro con quelle del Tidide ch'erano di rame): di
più poca o niuna gratitudine esigono, quasi ei fossero stati tenuti a beneficare,
[3277]o nulla avesse loro costato il benefizio; non mai si credono in diritto
di ripetere il benefizio, o costretti a farlo, lo fanno con grandissima riserva
e senza pretensione alcuna, e riavendone pure una parte, o domandata o spontanea,
si tengono per obbligati essi a chi gli uffici da loro prestatigli scarsamente
rimunerò.
Tutto questo o parte, più o meno,
m'è avvenuto di notare ne' giovani della qualità sopra descritta,
e non solo in quelli che per inesperienza del mondo, e gentilezza di natura,
con pienezza di cuore, e con buona fede e semplicemente sono trasportati verso
la virtù, la generosità, la magnanimità, ponendo il loro
maggior piacere e desiderio nel far bene e negli atti eroici, e nella
rinegazione e rinunzia e sacrificio di se stessi; ma eziandio ne' disingannati
del mondo, e posti in quelle circostanze che di sopra ho notate, o in alcune di
esse, o in altre somiglianti. Tutto ciò, dico, ho notato avvenire in
questi cotali giovani, mentre essi godono e sentono i vantaggi della gioventù,
della sanità, del vigore, e sono in istato da bastare a se stessi. Ma o
coll'età, [3278]o innanzi all'età, sopravvenendo loro di
quegl'incomodi, di quegli accidenti, di quei casi, di que' disastri fisici o
morali, da natura o da fortuna, che tolgano loro il bastare a se medesimi, che
li renda abitualmente o spesso bisognosi dell'opera e dell'aiuto altrui, che
scemi o distrugga in essi il vigore del corpo, e seco quello dell'animo; questi
tali, come ho pur veduto per isperienza, di misericordiosi e benefici divengono
appoco appoco, in proporzione dell'accennato cambiamento di circostanze,
insensibili agli altrui mali o bisogni, o comodi, solleciti solamente dei proprii,
chiusi alla compassione, dimentichi della beneficenza, e interamente circa
l'una e circa l'altra cangiati e volti in contrario, sì di costumi,
sì di disposizione d'animo. Nè solo appoco appoco, ma eziandio rapidamente
e quasi in un tratto, e nello stesso fiore della giovanezza, ho io veduto
accadere tale cangiamento in persone sopravvenute da improvvisa o rapida calamità
di corpo o di spirito o di fortuna, onde il loro animo fu atterrato e prostrato
subitamente o in poca d'ora, o crollato e renduto mal fermo, e la loro vita fu
soggettata agl'incomodi, e alla trista necessità dell'aiuto altrui, [3279]e
la sanità scossa, e il corpo svigorito, e simili cose contrarie alla
loro prima condizione. Insomma al subito o rapido cangiamento delle circostanze
sopra notate, ho veduto con pari subitaneità o rapidità
corrispondere il cangiamento del carattere e costume di tali persone rispetto
al compatire, al beneficare e all'adoperarsi in qualunque modo per altrui.
E quelli che da natura, o per qualunque
cagione, fin dalla fanciullezza o dalla prima giovanezza e dal primo loro ingresso
nel mondo, son tali quali i sopraddetti divennero, cioè deboli di corpo
e di spirito, timidi, irresoluti, avviliti dalla povertà o da
qualsivoglia altra causa fisica o morale, estrinseca o intrinseca, naturale in
loro o accidentale e avventizia; sempre o sovente bisognosi dell'opera altrui,
avvezzi fin dal principio a soffrire, a mal riuscire nelle loro intraprese o
ne' desiderii loro, e quindi a sempre sconfidar delle cose e della vita e dei
successi, e quindi privi di confidenza in se medesimi; più domestici del
timore o della triste espettazione che della speranza; questi tali, e quelli che
loro somigliano in tutto o in parte, sono più o meno, fin dal principio
della loro vita o fino dalla loro entrata [3280]nella società, alieni
e dall'abito e dagli atti della compassione e della beneficenza, e dalla
inclinazione o disposizione a queste virtù; interessati per se soli,
poco o nulla capaci d'interessarsi per gli altri, o sventurati o bisognosi, o
degni o indegni che sieno dell'aiuto altrui; meno ancora capaci di operare per
chi che sia; poco o nulla per conseguenza atti alla vera ed efficace ed operosa
amicizia, ben simulatori di essa per ottenerne dagli altri gli aiuti o la
pietà di che hanno mestieri, ed abili a farla servire ai soli loro vantaggi;
simulatori e dissimulatori eziandio generalmente in ogni altra cosa. E queste
qualità divengono in loro caratteristiche, di modo che l'amor proprio
non è in essi altro mai ch'egoismo, e l'egoismo è il loro
carattere principalissimo; ma non veramente per colpa loro, piuttosto per
necessità di natura; e neanche per natura che di sua mano immediatamente
abbia posto negli animi loro più che negli altri questo pessimo vizio,
ma perchè dalle circostanze in che essi o per natura o per accidente si
sono trovati fin dal principio, [3281]nasce naturalmente e
necessariamente questo tal vizio, forse più necessariamente e
inevitabilmente e maggiore che da verun'altra cagione. V. p.3846.
Da' quali pensieri si dee raccogliere questo
corollario, che le donne essendo per natura più deboli di corpo e
d'animo, e quindi più timide, e più bisognose dell'opera altrui
che gli uomini non sono, sono anche generalmente e naturalmente meno degli
uomini inclinate alla compassione e alla beneficenza, non altrimenti ch'elle,
per universale consenso, sieno generalmente e regolarmente meno schiette degli
uomini, più proclivi alla menzogna e all'inganno, più feconde di
frodi, più simulatrici, più finte; tutte qualità, con
molte altre analoghe (che nelle donne generalmente si osservano), derivanti per
natura niente più, niente meno che la sopraddetta, dalla debolezza
d'animo e di corpo, e dall'insufficienza delle proprie forze, de' propri mezzi
e di se stesso a se stesso. E si può concludere che le donne sono,
generalmente parlando, più egoiste degli uomini, o più portate
all'egoismo per natura (sebbene le circostanze sociali, che spesso rovesciano
la natura, e fanno [3282]talora le donne, anche prima che abbiano
formato il loro carattere, signore degli uomini, oggetti delle lor cure
spontanee, de' loro omaggi, suppliche ec. ec., possano ben render vana questa
disposizione), e naturalmente si troverà un maggior numero di donne
egoiste che non d'uomini. Così le nazioni e i secoli più
infelici, tiranneggiati ec. si vede costantemente che furono e sono i
più egoisti ec. ec.
(26-27.
Agos. 1823). V. p.3291. 3361.
Alla p.3275. marg. - Anzi quanto più
questi tali son franchi, coraggiosi, non timidi dell'altrui aspetto nè
dell'altrui conversazione, schietti, aperti, liberi nel parlare, nei modi,
nell'operare, intolleranti di dissimulare e di mentire (anche, tal volta,
eccessivamente); e quanto più sono vendicativi delle ingiurie, fieri con
chi gli offende o insulta o disprezza o danneggia, quanto meno molli e facili
ai nemici, agl'invidiosi, ai detrattori, ai maldicenti, agli oltraggiatori,
agli offenditori qualunque; ed eziandio quanto più pendono a una certa
soverchieria di parole o di fatti verso chi non è nè compassionevole
nè bisognoso, amico o indifferente o nemico che sia; proclivi o facili
all'ira, anche durevole; tanto più sono misericordiosi e benefici verso
gli amici o gl'indifferenti (dandosene loro l'occorrenza, e la facoltà
ec. e in questi il bisogno o l'utilità ec.), o verso i nemici stessi e
gli offenditori, vinti che sieno, o già puniti, o chiedenti scusa o
perdono, o riparata che hanno l'offesa, o anche senz'altro caduti in grave
disgrazia o bisogno, ed avviliti ec. (Tale fu Giulio Cesare come si vede in
Svetonio). E il contrario accade negli uomini di contraria qualità: [3283]il
contrario, dico, si quanto al compatire o beneficare chi che sia, sì
quanto al rimettere o dimenticare le ingiurie. E di contraria qualità
sono gli uomini timidi, di maniere legate, deboli di corpo e d'animo ec. quali
ho descritti a pagg.3279-80.
(27. Agos. 1823.)
Confictito da confingo-confictus
o dal semplice fingo-fictus.
(27. Agos. 1823.)
Fissare o fisare, ficcare, fixar
fixer, ficher, da figo-fixus. Affissare o affisare, afficher
da affigo. Conficcare da configo. ec. Forse anche fitto
sust. e affittare non d'altronde vengono che da fictus altro
participio di figo, traendo il nome dall'avviso pubblico che suole affiggere
alla sua casa, o a' cantoni della città ec. chi vuole affittare essa
casa, o possessioni, terre ec.; il quale avviso o avvisi pubblicamente affitti
si chiamano in francese affiches, da noi volgarmente affissi. Sebbene
la prep. a in affittare sembra essere espressamente aggiunta al
sostantivo fitto per esprimere il dare a fitto, come in francese affermer
da ferme, e tra noi volgarmente annolare [3284]da nolo.
Veggasi per tutte le suddette voci il Gloss. se ha nulla.
(27. Agos. 1823.)
Al detto da me circa l'anomalo partic. arso
che il Perticari crede di arsare e non di ardere, del quale egli
è pure in latino, cioè di ardeo, arsus; si può
aggiungere che la lingua italiana (ed anche le sue sorelle) bene spesso,
secondo che la lingua latina ha diversi participii d'un solo verbo, diversi
n'ha ella pure, cioè quelli stessi che ha la latina, regolari o irregolari
che siano quanto all'analogia latina o italiana. P.e. da figofixus-fictus,
figgere-fisso, fitto. Talvolta ella ha quello che corrisponde all'analogia
italiana, e insieme quello che il verbo ha nel latino, sia regolare participio
o anomalo in esso latino. Del che ho detto altrove. Talvolta ec. ec.
(27. Agosto. 1823.)
La lingua greca, secondo che si può
vedere a pagg.2774-2777, e più largamente e distintamente per capi
presso i grammatici, ebbe in costume di alterare notabilmente le sue radici[82],
p.e. i temi de' suoi verbi, anche fuori affatto dei casi di derivazione e di
composizione, e senza punto alterarne il significato, ma [3285]semplicemente
la forma estrinseca e gli elementi del vocabolo. Onde i verbi in li trasmutavano in verbi in ; dei temi ad altri aggiungevano le lettere , e li
facevano terminare in , ad altri
, e li
terminavano in , ad altri
[83] e li
finivano in (ma
questi non erano sempre alterati dal tema, ma da un altro tempo del verbo: v. i
Grammatici), ad altri duplicavano la prima consonante, interponendo una vocale,
come l'iota (), ec.
Spesso si mutava la desinenza, volgendola in ec. senza
mutazione di significato: , ec. ec. E
di questi verbi e temi così alterati materialmente
senz'alcun'alterazione di significato, altri restarono soli, venendo a mancare
il tema o verbo primitivo e incorrotto, altri restarono insieme con questo,
altri insieme con altri verbi fatti per tali alterazioni dal medesimo tema ec.
ec. Ed altri interi, altri difettivi, suppliti dal verbo primitivo in molte
voci, anomali, regolari ec. ec. del che vedi i Grammatici. E queste alterazioni
de' verbi primitivi e de' temi (e così dell'altre radici), alterazioni
affatto diverse distinte e indipendenti dalla derivazione e dalla composizione,
che anche nelle altre lingue hanno luogo; alterazioni che per niun conto
influivano nè modificavano il significato (come influisce e modifica, o
suole per lo più e regolarmente fare, la composizione e la derivazione),
non furono [3286]già nella lingua greca quasi casuali, rare, fuor
di regola e di costume e d'ordine, quasi anomalie, aberrazioni, non proprie della
lingua, ma frequentissime, ordinarie, usitate, abituali, e regolari, ossia
fatte per regola, come apparisce dal gran numero di temi e verbi che si trovano
alterati in questo o quello de' suddetti modi e degli altri che si potrebbero dire;
onde i grammatici distinguono siffatte alterazioni o modificazioni affatto materiali
in molti diversi generi, e sotto ciascun genere radunano un gran numero di
verbi o temi, in quella tal guisa uniformemente alterati dal primo loro essere.
Questa tal sorta di alterazione, questo modo di alterare le voci, indipendente
e diverso affatto dal derivare e dal comporre, e del tutto scompagnato dalla
mutazione o pur modificazione di senso, non si trova punto nel latino; certo
non vi si trova per costume nè per regola, nè d'assai così
frequente, nè così vario ec. Perlochè anche di qui si
faccia ragione quanto più nel greco che nel latino sia difficile il
rintracciare le origini, l'antichità, il primitivo o l'antico stato
delle voci e della lingua e della [3287]grammatica, le radici,
l'etimologie ec. Massime considerando che detta materialissima alterazione si
fa non mica in uno o in due, ma in molti diversissimi modi, tutti però
frequentatissimi e usitatissimi; che moltissimi verbi o vocaboli così
alterati hanno mandato in disuso i non alterati ec. che naturalmente moltissimi
verbi così alterati, essendo perduti quelli della primitiva forma, saranno
da noi creduti aver la forma primitiva, e pigliati per radici, quando non saranno
che alterazioni di queste, più o men lontane, mediate o immediate,
maggiori o minori ec. ec.
Usa ancora la lingua greca alcune derivazioni di voci, p.e. di
verbi, che nulla però cambiano il significato, e il non cambiarlo non
è in esse anomalia, o cosa non ordinaria, come lo sarebbe in latino, ma
ordinaria e regolare. Voglio dir p.e. di quella maniera siracusana di formare
dal perfetto de' temi un nuovo verbo, come da J di J fare J, da di , , da di , (e questa maniera, con siffatti
verbi, sono ricevuti massime da' poeti, ma anche da' prosatori greci, generalmente);
e di quell'altra maniera greca di fare dal futuro primo de' temi un nuovo
verbo, aggiungendoci il , come da (inusitato) - , inusitato onde . (V. i Gram. se però
è vera questa maniera, e non piuttosto si fa p.e. dal tema stesso, cioè , interpostovi , come da , , interposto [3288]l' ec. ec.). Queste e tali altre
molte derivazioni senza cambiamenti di significato, che perciò appunto
hanno contribuito sommamente a perdere e distruggere le voci originarie, e contribuiscono
a nasconderle, e renderne difficile l'investigazione, e confondere l'erudito, e
dividere i gramatici in cento diversi sistemi e opinioni, sì circa le
regole più o men generali, sì circa le particolari etimologie ec.
ec.; non hanno luogo nella lingua latina, o certo assai meno senza confronto
ec. ec.
(27. Agos. 1823.)
Ajouter quasi adjunctare,
aggiuntare, spagn. juntar, da adiungere. Anche il nostro giuntare
è da iungere. V. la Crusca in Giugnere §.7 e il Gloss. in iunctare,
adiunctare ec. se ha nulla.
(28. Agosto. 1823.)
Succenseo è verbo, secondo me,
indubitatamente formato dal participio in us d'altro verbo, cioè
di succendo. (V. anche il Forcell. in Censeo fine.) Ma oltre al
non essere della prima maniera, ei non solo non è di senso continuativo,
ma è neutro nel mentre che succendo è attivo. Onde nulla
ha che fare colla nostra teoria: se non ch'è notabile, come fatto da un
participio passivo, della qual formazione [3289]non mi ricordo adesso
altro esempio che sia fuori del numero de' nostri continuativi e frequentativi.
(28. Agos. 1823.)
Fator aris da for-aris-fatus.
Verbo da porsi insieme con dato as, nato as, e s'altro ve n'ha
(fatti tutti da un tema monosillabo.), dove l'a del participio in atus,
non si muti, nella formazione del continuativo, in i.
(28. Agosto 1823.)
Alla p.3246. Fatigo as da ago is
(v. Forcell.) se questa etimologia è vera. (Noi abbiamo fatica,
volgarmente fatiga, franc. fatigue, spagn. fatiga. Che
questa sia la radice di tal verbo? Certo ella è voce commune a tutte tre
le lingue figlie. Ma in tal caso dovrebb'ella esserlo ancora di fatisco
per venir meno? il che non parrebbe probabile. V. il Gloss. se ha
nulla). Ago ha dal participio actus il frequentativo actito,
e dall'antico e regolare agitus l'usitato continuativo o frequentativo agito.
Non so se mitigo as possa aver nulla che fare con questo discorso.
(28. Agos. 1823.)
Sogliono le opere umane servire di modello
successivamente l'une all'altre, e così appoco [appoco] perfezionandosi
il genere, e ciascuna opera, o le più [3290]d'esse riuscendo
migliori de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello
apparire ed essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte
l'altre, per infino alla decadenza e corruzione d'esso genere, che suole
altresì ordinariamente succedere all'ultima sua perfezione. Non
così nell'epopea; ma per lo contrario il primo poema epico, cioè
l'Iliade che fu modello di tutti gli altri, si trova essere il più
perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho dimostrato parlando
della vera idea del poema epico p.3095-3169. Secondo le quali osservazioni da
me fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea
(almen quanto all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema
epico che si conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere
incominciò non più tardi che subito dopo il primo poema epico a
noi noto. Similmente negli altri generi di poesia, per lo più, i
migliori e più perfetti modelli ed opere sono le più antiche, o
assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni e letterature particolari,
[3291]come tra noi la Commedia di Dante è nel suo genere, siccome
la prima, così anche la migliore opera.
(28. Agosto. 1823.)
Alla p.3282. Bisogna distinguere tra egoismo
e amor proprio. Il primo non è che una specie del secondo. L'egoismo
è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se
stesso, non operare che per se stesso immediatamente, rigettando l'operare per
altrui con intenzione lontana e non ben distinta dall'operante, ma reale,
saldissima e continua, d'indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso
come ad ultimo ed unico vero fine, il che l'amor proprio può ben fare, e
fa. Ho detto altrove che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo
quanto in esso è maggiore la vita o la vitalità, e questa
è tanto maggiore quanto è maggiore la forza e l'attività
dell'animo, e del corpo ancora. Ma questo, ch'è verissimo dell'amor
proprio, non è nè si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi,
i moderni, gli uomini poco sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti
dei fanciulli e dei giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di forte immaginazione.
[3292]Il che si trova essere appunto in contrario. Ma non già
quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor proprio è veramente
maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e ne' vecchi,
maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi.[84] I
fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più teneri di se
stessi che nol sono i loro contrarii. Nella stessa guisa discorrasi dei deboli
rispetto ai forti e simili. Così generalmente furono gli antichi
rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più
forti di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione
(sì per le circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati,
e insomma maggiormente e più intensamente viventi. (Dal che seguirebbe
che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de' moderni,
secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore
amor proprio, come altrove ho mostrato: ma l'occupazione e l'uso delle proprie
forze, la distrazione e simili cose, essendo state infinitamente maggiori in
antico che oggidì; e il maggior grado di vita esteriore essendo stato
anticamente più che in [3293]proporzione del maggior grado di
vita interiore, resta, come ho in mille luoghi provato, che gli antichi fossero
anzi mille volte meno infelici de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi
e de' civili: non così de' giovani e de' vecchi oggidì,
perchè a' giovani presentemente è interdetto il sufficiente uso
delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha quasi il vecchio
oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da me in
più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità
del giovane che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso).
Il sacrifizio di se stesso e dell'amor
proprio, qualunque sia questo sacrifizio, non potendo esser fatto (come
niun'altra opera umana) se non dall'amor proprio medesimo, e d'altronde essendo
opera straordinaria, sopra natura, e più che animale (certo in niuno
altro animale o ente non se ne vede esempio, se non nell'uomo), anzi più
ancora che umana, ha bisogno di una grandissima e straordinaria forza e
abbondanza di amor proprio. Quindi è che dove maggiormente [3294]abbonda
l'amor proprio, e dov'egli ha maggior forza, quivi più frequenti e
maggiori siano i sacrifizi di se stesso, la compassione, l'abito,
l'inclinazione, e gli atti di beneficenza. (Vedi a questo proposito le pagine
3107-9, 3117-19, 3153-4, 3167-9.). Ond'è che tutto questo debba trovarsi
e si trovi infatti maggiore e più frequente ne' giovani, negli antichi,
negli uomini sensibili e d'animo vivo, e finalmente negli uomini, i quali
hanno, generalmente parlando, maggior quantità e forza d'amor proprio e
minore d'egoismo; di quello che ne' maturi e ne' vecchi, ne' moderni (eccetto
quanto alla compassione, come ho detto ne' luoghi qui sopra citati,
perchè gli antichi non si sacrificavano che principalmente per la
patria), ne' torpidi e insensibili e duri e d'animo tardo e morto, e per fine
nelle donne; i quali in genere hanno maggior quantità e forza d'egoismo,
e minore d'amor proprio.
Restringendo il discorso conchiudo in primo
luogo, tanto esser lungi che l'egoismo sia in proporzion diretta dell'amor
proprio, ch'egli [3295]n'è anzi in proporzione inversa; egli
è segno ed effetto o della scarsezza e languidezza primitiva, o dello
scemamento e affievolimento dell'amor proprio; egli abbonda maggiormente ed
è maggiore ne' secoli, ne' popoli, nel sesso, negl'individui e nelle
età di questi, in che la vita è minore, e quindi l'amor proprio
più scarso, più debole e freddo.
Conchiudo in secondo luogo che i vecchi e
maturi, i moderni, gl'insensibili, le donne hanno maggiore egoismo e minore e
men vivo amor proprio che i fanciulli e i giovani, gli antichi, i sensibili,
gli uomini (perocchè quelli hanno men vita o vitalità, e
l'egoismo è qualità o passione morta, ossia men vitale che si possa).[85] E
che per questa cagione sono naturalmente e men disposti e meno soliti di sacrificarsi
per chi o per che che sia, di compatire efficacemente o inefficacemente, di
beneficare, di adoperarsi per altrui: il che si vede effettivamente essere, e
non può negarsi. (Altrettanto dicasi dei deboli e dei forti,
degl'infelici abitualmente e degli abitualmente fortunati, e simili; tutte
qualità [3296]alle quali corrisponde e dalle quali nasce in
questi maggiore, in quelli minore vitalità, ed abito di maggiore o
minore attività e vita).[86]
Se non che potrà farsi un'eccezione
in favor delle donne quanto alla compassione, massime inefficace.
Perocchè a questa, come s'è detto ne' luoghi citati qui dietro
(p.3294.), si richiede o giova, non solo la maggior vita, e quindi la maggior
quantità e forza dell'amor proprio, ma eziandio la maggiore raffinatezza
e delicatezza d'esso amor proprio e dell'animo: nelle quali proprietà le
donne sono forse, o certo son riputate essere, superiori generalmente, e in parità
di circostanze, agli uomini. E così pure discorrasi de' moderni rispetto
agli antichi. In tutto ciò che nella compassione o nella beneficenza
richiede piuttosto delicatezza o più delicatezza, finezza, e quasi
abilità ed artifizio d'amor proprio, che vivacità, energia, forza
e copia del medesimo, e che abbondanza ed intensità di vita; in tutto
ciò, dico, e in quello che ad esso appartiene, le donne, i moderni e
quelli che nelle predette qualità di delicatezza sono loro analoghi, [3297]superano,
ordinariamente parlando, gli uomini, gli antichi, i selvaggi, i villani e
così discorrendo. Conforme appunto alle cose dette nelle succitate
pagine.
Ond'è che le donne in quanto
più deboli e bisognose d'altrui, sieno meno misericordiose e benefiche
degli uomini; in quanto di corpo e d'animo più delicate, al contrario.
Ma in ciò quelle qualità, cioè la debolezza e il bisogno,
credo che ordinariamente prevagliano e sieno di maggiore e più notabile
effetto che queste, cioè la delicatezza e simili. Onde, tutto insieme
compensato, le donne sieno in verità, generalmente e per natura,
più egoiste, e quindi meno misericordiose (massime in quanto alla
compassione efficace) e meno benefiche degli uomini. Perocchè molto
maggior parte ha nella beneficenza, nella disposizione e nell'atto del sacrificar
se stesso, e nell'esclusione dell'egoismo, l'intensità, la forza, l'abbondanza
della vita, e quindi dell'amor proprio, che la delicatezza e raffinatezza dell'animo
disgiunte dalla forza ed energia ed attività ed interna vivace vita del
medesimo. E ciò non pur negli uomini rispetto [3298]alle donne,
ma generalmente in chi che sia, rispetto a chi che sia.[87].
(28. Agos. 1823.). V. p.3314.
Circa il verbo pascito, e il regolare
e primitivo participio di pasco ch'egli dimostra, cioè pascitus,
poi contratto in pastus, vedi Forcell. in fine di Compesco,
ch'è un composto di Pasco.
(29. Agosto. 1823.)
Distito da disto,
dimostrerebbe il suo participio distatus o il supino distatum, se
però quel continuativo o frequentativo è vero. Il supino statum
di sto è noto. Del resto veggasi la p.3849.
(29. Agos. 1823.)
Alla p.2843. Compesco, dispesco da pasco.
Decerpo, discerpo ec. da carpo.
(29. Agosto. 1823.)
Offenso as (offenser), defenso
as, defensito as (difensare) da offensus, defensus di offendo,
defendo.
(29. Agos. 1823.)
Pattare, impattare, empatar, non so
s'abbiano a far nulla con paciscor-pactus. Veggasi il Gloss. in
proposito.
(29. Agos. 1823.)
Alla p.3072. I verbi latini neutri hanno
ordinariamente il participio in rus con significato neutro. Quieturus
cioè qui quiescet (Sveton. in Jul. Caes. c.16. §.2.), mansurus
cioè qui manebit, casurus cioè qui [3299]cadet,
victurus cioè qui vivet, e altri tali infiniti. Perchè non
dunque victus cioè qui vixit, casus cioè qui
cecidit, (massime avendovi il verbale casus us, fatto, come
altrove osservo esser solito, dal part. in us) ec.? quando pur sembra
che quei participii in rus o derivino o almeno suppongano i participii
rispettivi in us. Quanto a' verbi attivi, per la stessa ragione,
considerando che i lor participii in rus non sono passivi ma attivi, non
dovrà fare gran maraviglia, nè parere incredibile che anche i
loro participii in us avessero oltre il passivo significato, eziandio
l'attivo, come io pretendo.
Celsus, excelsus, praecelsus dubito
forte che originariamente non sieno altro che participii in attivo o neutro
significato, appartenenti a' verbi neutri cello, excello, praecello. De'
quali il primo, cioè cello, ch'è inusitato, ma ch'è
sufficientemente dimostrato dagli altri due, suoi composti, e da antecello,
v. il Forcell. in Excello.
Del resto s'io dico che i continuativi e i
frequentativi si facevano da' participii in us, piuttosto che da' supini
(in um o in u), intendo dell'origine di questa formazione, e de'
suoi [3300]primi tempi, e dell'antichità ec. In séguito, quando
anche l'altre proprietà di tali verbi così formati erano
già mal note, trascurate, cambiate ec. come altrove ho detto, non contendo
che chi volesse formare nuovi verbi di questo genere, non li formasse piuttosto
dal supino che dal participio in us del verbo originale (sia che questo
participio non esistesse più, o che fosse per anche in uso), o vero
indifferentemente dall'uno o dall'altro; o che mancando ancora il supino, non
facesse che seguire l'analogia degli altri verbi così formati. Solamente
osservo 1°. che non perchè molti continuativi e frequentativi che si leggono
negli scrittori dell'aureo tempo o de' molto posteriori, non si trovino ne'
più antichi, si dee perciò sempre e facilmente conchiudere
ch'essi fossero allora nuovi, e coniati appunto da quello o da quegli
scrittori, o in quel secolo in cui lo troviamo. 2°. Che l'uso di participii in us
di verbi neutri, e d'altri di verbi attivi in significati attivi, non fu
solamente proprio dell'antichissima latinità, ma anche dell'aurea, e
della declinante e corrotta eziandio (fino forse a passare alle lingue [3301]figlie:
v. la p.3072.), come apparisce dal luogo di Velleio altrove da me notato, e dai
vari esempi degli autori che usarono i cosiffatti participii da me sparsamente
notati (i quali esempi si possono vedere nel Forcellini), sia che li
prendessero a uno a uno da' più antichi, o dall'uso d'allora; o che
l'uso durasse in genere per tutti o quasi tutti i verbi neutri e attivi, ad
arbitrio dello scrittore e del parlatore, o pur dell'uno soltanto o dell'altro
ec.
(29. Agos. 1823.)
Come l'uomo sia quasi tutto opera delle
circostanze e degli accidenti: quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante
di quelle medesime qualità che in lui più naturali si credono,
anzi di quelle ancora che non d'altronde mai si credono poter derivare che
dalla natura, nè per niun modo acquistarsi, e necessariamente in lui
svilupparsi e comparire, non altro sieno in effetto che acquisite, e tali che
nell'uomo posto in diverse circostanze, non mai si sarebbero sviluppate,
nè sarebbero comparse, nè per niun modo esistite: come la natura
non ponga quasi [3302]nell'uomo altro che disposizioni, ond'egli possa
essere tale o tale, ma niuna o quasi niuna qualità ponga in lui; di modo
che l'individuo non sia mai tale quale egli è, per natura, ma solo per
natura possa esser tale, e ciò ben sovente in maniera che, secondo
natura, tale ei non dovrebb'essere, anzi pur tutto l'opposto: come insomma
l'individuo divenga (e non nasca) quasi tutto ciò ch'egli è, qualunque
egli sia, cioè sia divenuto. Qual cosa pare più naturale,
più inartifiziale, più spontanea, meno fattizia, più
ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta
dalle circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità
con cui l'uomo suol riguardare la donna, e la donna l'uomo, ed essere
trasportato l'uno verso l'altra; quel tal genere, dico, di affetti e di
sentimenti che l'uomo, e massimamente il giovane nella prima età,
senz'ombra di artifizio, senza intervento di volontà, anzi tanto
più quanto egli è più giovane, più semplice ed
inesperto, e quanto meno il suo carattere [3303]è stato
modificato e influito dall'uso del mondo e dalla conversazione degli uomini e
pratica della società, suol provare alla vista o al pensiero di donne
giovani e belle, o nel trattenersi seco loro; e così le donne giovani
cogli uomini giovani e belli? quel tressaillement, quell'emozione, quell'ondeggiamento
e confusione di pensieri e di sentimenti tanto più indistinti e
indefinibili quanto più vivi, che parte par che abbiano del materiale,
parte dello spirituale, ma molto più di questo, in modo che par ch'egli
appartengano interamente allo spirito, anzi alla più alta e più
pura e più intima parte di esso? Or questo genere di sentimenti e di
affetti e di pensieri, questa qualità del giovane, cioè questa
tale sensibilità, e la facoltà ed abito di provare questi siffatti
sentimenti, non è per niun modo naturale nè innata, ma acquisita,
ossia prodotta di pianta dalle circostanze, e tale che se queste non fossero
state, l'uomo neppur conoscerebbe nè potrebbe pur concepire questa
qualità, nè anche sospettare d'esserne capace. [3304]Il
genere umano naturalmente è nudo, e, seguendo la natura, almeno in molte
parti del globo, egli non avrebbe mai fatto uso de' vestimenti, siccome le
vesti sono affatto ignote p.e. ai Californii. Nè l'uomo nè il giovane
non avrebbe mai veduto nè immaginato nelle donne (e così la donna
negli uomini) nulla di nascosto. E nulla vedendo di nascosto, nè potendo
desiderare o sperar di vedere, e ben conoscendo fin dal principio la
nudità e la forma dell'altro sesso, egli non avrebbe mai provato per la
donna altro affetto, altro sentimento, altro desiderio, che quello che per le
lor femmine provano gli altri animali; nè avrebbe concepito intorno a
lei altro pensiero che quello di mescersi seco lei carnalmente; nè
l'aspetto o il pensiero o la compagnia della donna avrebbe in lui cagionato,
neppur nella primissima gioventù, verun altro effetto che un desiderio
il più puramente e semplicemente sensuale che possa mai dirsi, un impeto
a soddisfare tal desiderio, ed un piacere (molto languido in se stesso per
l'abitudine e l'assuefazione incominciata sin dalla nascita, e sempre continuata)
altrettanto carnale che quel desiderio, e interamente, unicamente [3305]e
manifestissimamente materiale, cioè appartenente e derivante dalla sola
materia e dal senso, nè più nè meno che quel piacere che
in lui avrebbe prodotto la vista di un color rosso bello e vivo o altra tal
sensazione; se non solamente che quel diletto sarebbe stato per natura maggiore
di questi; siccome tra gli altri diletti, o naturalmente o per circostanze,
qual è maggiore qual è minore, non in se, ma rispetto agli uomini
e agli animali, insomma agli esseri che li provano, e ne' quali essi diletti
nascono ed hanno l'essere.
Tale sarebbe stato l'uomo in natura per
rispetto alla donna, e la donna per rispetto all'uomo. Ma introdotto l'uso de'
vestimenti (e di più que' costumi e quelle leggi fattizie ed arbitrarie
di società che impediscono o difficultano il torli di mezzo quando si
voglia ed occorra), la donna all'uomo (massime al giovane inesperto) e l'uomo alla
donna sono divenuti esseri quasi misteriosi. Le loro forme nascoste hanno
lasciato luogo all'immaginazione di chi le mira così vestite. Per
l'altra [3306]parte l'inclinazione e il desiderio naturale dell'un sesso
verso l'altro non ha, per questo cangiamento di circostanze esteriori, potuto
nè cessare nè scemare nel genere umano, niente più che
negli altri animali. L'uomo dunque (e così la donna verso l'uomo) si
è veduto sommamente e sopra tutte le cose trasportato, com'ei fu sempre,
verso un essere il quale non più, come prima, se gli rappresentava e se
gli era sempre rappresentato dinanzi tutto aperto e palese, e tale e tanto,
quale e quanto esso è; ma verso un essere quasi tutto a lui nascosto, un
essere che sin dalla sua nascita non se gli è rappresentato nè
agli occhi nè al pensiero, o non suole rappresentarsegli, che velato
tutto e quasi arcano. Ecco da una circostanza così estrinseca, così
accidentale, così removibile, com'è quella de' vestimenti, mutato
affatto, massime nella fanciullezza e nella prima gioventù il carattere
e le qualità dell'un sesso rispettivamente all'altro. La vista, il
pensiero, la conversazione di [3307]questo essere sopra tutti e invincibilmente
amato e desiderato, ma le cui forme non cadono (almeno abitualmente) sotto i
suoi sensi, e che per conseguenza, essendone celate le forme (che sono
sì gran parte e dell'uomo e d'ogni cosa), e di più impeditane o
fattane difficile la libera conversazione, e quindi anche l'intera conoscenza
del suo animo, costumi ec., per conseguenza, dico, è divenuto per lui
tutto misterioso; il pensiero dico e la vista e il consorzio di questo essere
l'immerge in una quantità di concezioni, d'immaginazioni, d'illusioni,
di sentimenti, vivissimi e profondissimi perchè quell'essere gli
è per natura dolcissimo e carissimo, ma nel tempo stesso confusissimi,
incertissimi, per lo più falsissimi, sublimi, vasti, perchè quel
medesimo essere trovandosi essergli quasi tutto misterioso e quasi cosa segreta
ed occulta, i pensieri e i sentimenti ch'esso gli desta, sono tutti
capitalmente e quasi esclusivamente governati e modificati e figurati, e in
gran parte prodotti e creati, dalla fantasia, e questa [3308]gagliardamente
mossa. Nello stato naturale, l'inclinazione innata dell'uomo verso la donna,
trovando tutto aperto e palese, e niun luogo avendovi alla immaginativa, ella
non producea che pensieri e sentimenti semplicissimi, distintissimi,
chiarissimi, materialissimi. Ora essa inclinazione, esso amore ingenito e naturalmente
fortissimo e ardentissimo, trovando il mistero, e i loro effetti congiungendosi
nell'animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir con un'idea oscura e
confusa, oscurissimi e confusissimi, ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento
volte meno sensuali e carnali di prima (poichè la detta idea non viene immediatamente
dal senso ec.), e finalmente quasi mistici debbono essere i pensieri e gli
affetti che risultano da questa mescolanza di sommo desiderio e tendenza
naturale, e d'idea oscura dell'oggetto di tal desiderio e tendenza. E
però l'uomo si rappresenta la donna in genere, e in ispecie quella
ch'egli ama, come cosa divina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ec.
Perocchè la natura gliela propone come desiderabilissima e amabilissima,
le circostanze gliela rendono desideratissima (perocch'ei non può
facilmente nè subito ottenerla), ed esse altresì gli nascondono
quale ella sia veramente ec. E così da una circostanza così
materiale, com'è quella de' vestimenti (e come son l'altre cagionate dai
costumi e leggi sociali circa le donne), nasce nell'uomo un effetto il
più spirituale [3309]quasi, che abbia mai luogo nel suo animo, i
pensieri e i sentimenti più sublimi e più nobili e più propri
dello spirito, la persuasione di non esser mosso che da esso spirito ec. ec.;
da una circostanza così reale e visibile e determinata nascono in lui le
maggiori illusioni, i più vaghi, incerti, indeterminati pensieri, la
maggiore operazione della più fervida e più delirante e sognante
immaginativa; da una circostanza così accidentale un effetto così
intimo, così generale nel più de' giovani (almeno per un certo tempo),
così costante, così connesso e proprio, a quel che pare, del
carattere dell'individuo; finalmente da una circostanza non naturale nasce un
effetto che universalmente si considera come il più naturale, il
più proprio dell'uomo, il più assolutamente inevitabile, il meno
acquistabile, il meno fattibile, il meno producibile da altra forza che dalla
stessa mano della natura, il più congenito ec. secondo che ho detto di
sopra.
Così e per queste cagioni nacque nel
genere umano tra l'uno e l'altro sesso la tenerezza, la quale i selvaggi non
provano e non conoscono (nè gli uomini primitivi provarono, nè
una nazione dove non s'usino le vestimenta ec. [3310]proverà o
conoscerà mai) siccome niun altro degli effetti sopra descritti, anzi
neppure, propriamente parlando, l'amore, ma l'inclinazione e l'impeto da lei
cagionato, l', l'abito
e l'atto della tendenza; perchè non è propriamente amore quello
che noi ponghiamo p.e. all'oro e al danaio. V. p.3636. e 3909.
Altra prova delle proposizioni da me esposte
nel principio di questo pensiero, può essere, fra le mille, la seguente.
Qual uomo civile udendo, eziandio la più allegra melodia, si sente mai
commuovere ad allegrezza? non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure
internamente rallegrato, cioè concepisce quella passione che si chiama
veramente gioia? Anzi ella è cosa osservata che oggidì qualunque
musica generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e
muovere una malinconia, bensì dolce, ma ben diversa dalla gioia; una
malinconia ed una passion d'animo che piuttosto che versarsi al di fuori, ama
anzi per lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e ristringe, per
così dire, l'animo in se stesso quanto più può, e tanto
più quanto ella è più forte, e maggiore l'effetto [3311]della
musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle proprie sventure,
anzi n'è il più efficace e soave medicamento, ma non in altra
guisa le consola, che col promuovere le lagrime, e col persuadere e tirare
dolcemente ma imperiosamente a piangere i propri mali anche, talvolta, gli
uomini i più indurati sopra se stessi e sopra le lor proprie calamità.
In somma generalmente parlando, oggidì, fra le nazioni civili, l'effetto
della musica è il pianto, o tende al pianto (fors'anche talor di piacere
e di letizia, ma interna e simile quasi al dolore): e certo egli è mille
volte piuttosto il pianto che il riso, col quale anzi ei non ha mai o quasi mai
nulla di simile. Questi effetti della musica su di noi ci paiono sì
naturali, sì spontanei ec. ec. che non pochi vorranno e vogliono che sia
proprio assolutamente della natura umana l'essere in tal modo affetti dall'armonia
e dalla melodia musicale.
Ora, tutto al contrario di quello che
avviene costantemente tra noi, sappiamo che [3312]i selvaggi, i barbari,
i popoli non avvezzi alla musica o non avvezzi alla nostra, in udirne qualche
saggio, prorompono in éclats di giubilo, in salti, in grida di gioia, si
rompono dalle risa per la grande contentezza, e insomma cadono in un entusiasmo
e in un'intera e decisa ebbrietà e furore e smania di pura allegria.
(29-30. Agos. 1823.).
Votare ec. da voveo-votus. Persécuter,
perseguitare ec. veggasi il detto da me nella teoria de' continuativi circa
il verbo sectari. Mercatare ec. da mercor mercatus. Veggansi il
Gloss. il Forc. i Diz. franc. e spagn.
(31. Agosto. Domenica. 1823.)
Patulus sembra un diminutivo di patus,
andato in
piena dimenticanza, restando in sua vece il
detto
diminutivo. - A quello che altrove ho detto
di fabula e
fabella, se ambo sieno diminutivi, o
quello positivo,
questo diminutivo, aggiungi l'esempio di baculum
e
baculus positivi, bacillum
diminutivo. E vedi il
luogo di S. Isidoro appo il Forcellini in Bacillum
[3313]fine.
(31. Agosto 1823.)
Circa quello che ho detto altrove della
melodia, basti il tenere che il principio, l'origine prima, il fondamento,
ossia la ragione originale del perchè qualsivoglia successione melodiosa
di tuoni, sia melodiosa, cioè armonica successivamente; o vogliamo dire
la prima fonte e ragione della convenienza scambievole de' tuoni nella successione,
non fu e non è quasi altro che l'assuefazion solamente, la quale
bensì è suscettibile di ampliazione, di modificazioni infinite e
variazioni, di applicazioni diversissime, di diversissime combinazioni delle
sue parti; cose tutte che hanno infatti avuto ed hanno continuamente luogo
nella musica e nelle composizioni del Musico, il cui uffizio non è
originariamente e principalmente altro che il far buon uso delle assuefazioni
generali circa l'armonia, cioè la convenienza, successiva o simultanea
delle note delle corde, degli stromenti, voci ec. ec. servata la proporzione
scambievole degl'intervalli, ossia del tempo. Ben può il Musico
modificare in assaissime guise queste assuefazioni, ma dee però sempre
riconoscerle [3314]e seguirle e in loro mirare, come fondamento e
ragione dell'arte sua.
(31. Agosto. Domenica. 1823.)
Alla p.3298. Un uomo (o donna) di carattere
naturalmente pacifico, placido, quieto, riposato, ordinato, inclinato a una
certa pigrizia, è per natura portato all'egoismo. Quanto più
l'uomo o per indole e condizion primitiva, o per effetto dell'età, o per
istanchezza del mondo, per disinganno ec. ama il riposo, la pace, l'ordine,
l'uniformità della vita, è lontano dal calore, dai desiderii
vivi, dai disegni vasti o impetuosi, o fervidi, o attivi ec. è dedito
all'inazione, al metodo; anzi quanto più egli è tollerante delle
ingiurie e degli stessi patimenti per debolezza d'animo o di corpo o d'ambedue,
quanto è più disposto e solito di rinunziare al risentimento, di
chinare il capo alle circostanze, alla necessità, di sacrificare e di
posporre qualunque cosa alla conservazione della sua quiete interna ed esterna
e della sua inattività; quanto più l'uomo è vile e
codardo; quanto più suole appagarsi del presente, soddisfarsi di
ciò che gli accade, pigliar le cose come vengono; tanto meno egli
è disposto e solito di sacrificarsi o adoperarsi [3315]per
altrui; tanto meno è accessibile alla compassione, tanto più
è inclinato e tanto più ha d'egoismo. L'abitudine dell'ozio in
qualsivoglia età, è sempre conciliatrice d'egoismo. In somma per
tutte queste osservazioni, e per qualunque altra si voglia fare intorno ai vari
caratteri degli uomini, apparisce e sempre apparirà, che la natura
dell'egoismo è un ghiaccio dell'animo; un freddo, un congelamento, una
quasi concrezione, una durezza o un induramento, una secchezza o un disseccamento
dell'amor proprio; una povertà, una scarsezza di vita; una
inattività effettiva, o un'inclinazione alla medesima ec.; o naturale o
avventizia che sia, o morale o fisica, o l'uno e l'altro, o portata dalla
nascita e cresciuta poi e confermata coll'assuefazione colle circostanze cogli
avvenimenti della vita ec., o da queste prodotta in contrario e in dispetto
dell'indole primitiva ec. (31. Agosto. 1823.). Io credo potere asserire che
generalmente gli uomini meno soggetti a passioni veementi, quelli che non amano
il piacere, quelli che mai non vissero per li piaceri, mai non furono
trasportati da' piaceri e [3316]dal desiderio e furore di questi (sieno
piaceri corporali o spirituali), o che più nol sono; anche i meno
iracondi, i più pazienti, e simili, per natura, o per abito contratto;
sono i più inclinati all'egoismo, i più alieni abitualmente dal
compatire e dal beneficare; spesso anche i più ingiusti per
volontà riflettuta. E i contrari viceversa.
Sono moltissimi che amano, predicano,
promuovono, ed esercitano esclusivamente la giustizia, l'onestà,
l'ordine, l'osservanza delle leggi, la rettitudine, l'adempimento de' doveri
verso chi che sia, l'equa dispensazione de' premi e delle pene, la fuga delle
colpe; ma ciò non per virtù, nè come virtù, non per
finezza o grandezza o forza o compostezza d'animo, non per inclinazione, non
per passione, ma per viltà e povertà di cuore, per
infingardaggine, per inattività, per debolezza esteriore o interiore,
perchè non potendo (per debolezza) o non volendo (per pigrizia) o non
osando (per codardia) nè provvedersi nè difendersi da se stessi,
vogliono che la legge e la società vegli per loro, e provvegga loro e li
difenda senza loro fatica, e in modo ch'essi se ne riposino su di lei;
perchè la via del retto è la meno pericolosa, la sola che nel
mondo [3317]sia palesemente permessa; perchè
l'onestà delle azioni avendo (almeno apparentemente) meno ostacoli a
combattere, cagiona meno imbarazzi, esige meno attività, meno travagli,
produce conseguenze meno moleste; perchè non ardiscono contravvenire
alle leggi, nè farsi alcun nemico, molto meno quei che comandano e che
vegliano all'esecuzione d'esse leggi; perchè temono il castigo, la
riprensione, il biasimo pubblico, si lasciano imporre dall'apparenza
dell'opinione universale, la quale opinione mostra di stimare o di non
molestare nè denigrare i buoni, e di odiare e biasimare i cattivi ec.
perchè non hanno spirito d'aspirare a cose straordinarie, nè di
procacciarsi o beni o piaceri, nè di avanzare il loro stato ec., col
subire qualche, ancorchè minimo, pericolo, col combattere qualche
ostacolo, ec. nè di nulla tentare fuor del consueto e dell'ordine, e
nulla rischiare, ec. Questi tali, benchè incapaci di far male o torto
(volontariamente) ad alcuno, o d'offendere altrui in verun modo, di soverchiare
ec. sono grandissimi egoisti, chiusi alla compassione, ignari della
beneficenza. Sono altri ch'esercitano ed amano al modo stesso la giustizia, non
per virtù, nè anche per viltà, ma perchè stanchi e
disingannati del mondo, e nulla più curandosi di quanto si possa
acquistare o coll'ingiustizia o comunque, non cercano più che la pace,
la quale non si trova fuor dell'ordine, e però sono amici dell'ordine.
Questi ancora sono per lo più egoisti o nati o divenuti. (1. Settembre.
1823.).
Italianismi nell'uso della voce unus.
Vedi Svetonio, in Iul. Caes. cap.32. §.1. e quivi il Pitisco ec. col
Forcellini ec.
(1. Sett. 1823.)
[3318]Un francese, un inglese, un
tedesco che ha coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare,
non ha che a scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già
formata, stabilita e perfetta, imparata la quale, ei non ha che a servirsene.
Nè dal principio della loro letteratura in poi, è stato mai
bisogno ad alcuno scrittore di queste nazioni, qual ch'ei si fosse, il formarsi
una lingua moderna, cioè tale che volendo scrivere, come ognun deve,
alla moderna, ei potesse col di lei mezzo esprimere i suoi concetti in qualsivoglia
genere. Come dal principio delle loro letterature in poi, quelle nazioni non
hanno mai intermesso di coltivar esse medesime gli studi in esse introdotti; o
creando e inventando nuovi generi o discipline, con esse hanno naturalmente e
sin dal loro principio creato o formato il linguaggio che loro si conveniva; o
accettando generi o discipline forestiere, non mai per ancora in esse nazioni conosciute
o trattate, insieme con essi generi e discipline accettarono senza contrasto
alcuno quei modi e quei vocaboli, ancorchè forestieri, che con esse
erano congiunte, e che a volerle trattare indispensabilmente si richiedevano;
così non è stato mai tempo alcuno in [3319]cui gli
scrittori di quelle nazioni, avendo che scrivere, non avessero come scrivere;
mai tempo alcuno in cui quelle nazioni non avessero lingua nazionale moderna
per qualunque genere di letteratura e per qualsivoglia disciplina da loro
trattata.
Ben diverso è oggidì il caso
dell'Italia. Come noi non abbiamo se non letteratura antica, e come la lingua
illustre e propria ad essere scritta, non è mai scompagnata dalla
letteratura, e segue sempre le vicende di questa, e dove questa manca o
s'arresta, manca essa pure e si ferma; così fermata tra noi la
letteratura, fermossi anche la lingua, e siccome della letteratura, così
pur della lingua illustre si deve dire, che noi non ne abbiamo se non antica.
Sono oggimai più di centocinquant'anni che l'Italia nè crea,
nè coltiva per se verun genere di letteratura, perocchè in niun
genere ha prodotto scrittori originali dentro questo tempo, e gli scrittori che
ha prodotto, non avendo mai fatto e non facendo altro che copiare gli antichi,
non si chiamano coltivatori della letteratura, perchè non coltiva [3320]il
suo campo chi per esso passeggia e sempre diligentemente l'osserva, lasciando
però le cose come stanno; nè per rispetto di questi scrittori verun
genere della nostra letteratura s'è per niuna parte avanzato o
migliorato, niun genere nuovo introdotto; la nostra letteratura è d'allora
in poi, quanto a questi scrittori, affatto stazionaria; or questo si
chiamerà aver coltivato la nostra letteratura? potremo dir che sia stata
coltivata senza profitto alcuno: ciò viene a esser la stessa cosa.
In questo spazio di tempo la letteratura
francese e la tedesca sono nate, la letteratura inglese si è
primieramente formata e stabilita. Queste tre letterature, quante elle sono e
quanto abbracciano, s'includono, si può dir, tutte, quanto al tempo, ne'
centocinquant'anni della immobilità della nostra letteratura. La depravazione
e quindi il cominciamento dell'ozio e della inoperosità della
letteratura italiana furono quasi il segnale alle altre letterature più
famose d'Europa di sorgere e comparire [3321]nel mondo. Elle sono sorte,
e in breve spazio hanno avanzato e passato i termini da noi già tocchi,
e il progresso universale della letteratura e delle cognizioni umane ne'
centocinquant'anni ultimi è stato così rapido e così
grande, ch'egli equivale per così dire a quello fatto per tutti i secoli
addietro infino all'epoca nominata. Ciò singolarmente si può dire
in quanto alla filosofia, la quale rinata dopo la detta epoca, e tutta nuova,
fa parere più che pigmea la filosofia di tutti gli altri secoli insieme.
Ella è divenuta la scienza, il carattere, la proprietà de'
moderni; ella regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna; ella
n'è la materia e il subbietto; ella in somma è il tutto
oggidì negli studi, e in qualsivoglia genere di scrittura; o certo nulla
è senza di lei.
Fra queste generali vicende e questo
progresso della letteratura, l'Italia, come di sopra dissi, nulla ha fatto per
se. Gli scrittori alquanto originali ch'ella ha prodotti in questo tempo, gli
scrittori che posson meritar nome di moderni, non [3322]sono stati
sufficienti nè per originalità nè per numero, a darle una
lingua nazionale moderna, nello stesso modo ch'ei non sono stati sufficienti a
fare ch'ella avesse una letteratura moderna nazionale.
E quanto alla lingua, l'insufficienza loro a
far che l'Italia n'avesse una moderna sua propria, è venuta
principalmente da questa cagione. Trovando interrotta in Italia la letteratura,
essi hanno trovato interrotta la lingua illustre; antica quella, antica ancor
questa. Una lingua antica non può esser buona a dir cose moderne, e
dirle, come devesi, alla moderna: nè la nostra lingua in particolare era
buona ad esprimere le nuove cognizioni, a somministrare il bisognevole a tanta
e sì vasta novità. Introducendosi fra noi appoco appoco la
notizia delle letterature e discipline straniere, que' pochi italiani ch'eccitati
da queste nuove cognizioni si trovarono un capitale di mente da poter loro aggiungere
qualche cosa di loro; quei molti più che invaghiti della novità,
o mossi da qualunque altro motivo, deliberarono, [3323]senza però
aver nulla di proprio da scrivere, d'introdurre o divulgare, come si doveva, in
Italia i nuovi generi, le nuove letterature e discipline, la nuova filosofia,
anzi per meglio dire, la filosofia, non bastando a ciò la lingua italiana
antica, intieramente la dismessero, e come di facoltà e di pensieri,
così di lingua andarono a scuola dagli stranieri; e da cui toglievano le
cose, sia per solamente ripeterle, sia pur talora per accrescerle e in qualche
parte migliorarle, da essi tolsero anche le voci e le maniere e le forme del
favellare e scrivere. Gli scienziati propriamente detti, rispetto ai quali la
nostra nazione non fu quasi per alcun tempo seconda a verun'altra, sempre
però poco curanti della lingua, seguirono la barbarie venuta in uso,
come il linguaggio ch'era loro alla mano, e come indifferentemente avrebbero
seguito qualunque altro linguaggio o puro o impuro che avessero avuto in pronto
e che fosse stato comune, il che sempre avevano fatto qui ed altrove.
Tristo veramente e difficile era il caso
loro, ma peggio il partito a cui s'appigliarono. Difficile il caso,
perocchè quanto è facile il continuare a una nazione la sua
lingua illustre insieme colla sua letteratura, tanto è difficile,
interrotta per lungo spazio la letteratura, e dovendo quasi ricrearla,
riannodare la lingua a lei conveniente colla già antiquata lingua
illustre della nazione, colla lingua che fu propria della nazionale letteratura
prima che questa fusse totalmente interrotta.
[3324]In questo caso non si
trovò forse mai nazione veruna (se non se oggidì la spagnuola
quando ella intraprendesse di ristorare la sua quasi spenta letteratura). Ma
questo appunto è il caso nel quale si trova oggi l'Italia.
Noi abbiamo una lingua; antica bensì,
ma ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima, insomma colma d'ogni
sorta di pregi; perocchè abbiamo una letteratura, antica ancor essa, ma
vasta, varia, bellissima, abbondantissima di generi e di scrittori,
splendidissima di classici, durata per ben tre secoli e più, tale che
rispetto all'età ch'ella aveva quando fu tralasciata, l'età che
hanno presentemente l'altre letterature, è affatto giovanile. Per queste
cagioni, e per altre che ora non accade specificare, questa lingua italiana che
noi ci troviamo, supera di ricchezza, di potenza, di varietà tutte le
lingue moderne, salvo forse la tedesca; di bellezza avanza d'assai tutte queste
lingue senza eccezione nè dubbio alcuno; d'altri pregi è
superiore, non solamente a esse lingue, ma alle antiche eziandio. Tale si
è [3325]la lingua italiana per se ed intrinsecamente. Ma ella
è antica; cosa estrinseca; ed essendo antica non basta, nè si adatta
tal quale ella è, a chi vuole scriver cose moderne in maniera moderna.
Perciò forse potrà un uomo sano volere o concedere che una tal
lingua si gitti e dimentichi come divenuta del tutto inutile, e che dando
all'Italia una letteratura moderna propria, se le debba dare con essa insieme
una lingua affatto nuova, come finora s'è fatto, o pigliandola dagli
stranieri, ch'è pur quel che s'è fatto, o creandola di pianta,
quasi niuna, o solo una imperfettissima e debole e scarsa e spregevole lingua,
avesse avuto l'Italia per lo passato.
Ma certo, come questo è assurdissimo,
e siccome per prova veggiamo, dannosissimo; così quello è
necessario, evidente e certo, che volendo dare alla moderna Italia una moderna
letteratura, conviene non già mutare la sua antica lingua, nè
disfarla, nè rinnovarla, ma salvi i suoi fondamenti, l'indole e
proprietà sua, e tutti i suoi pregi secondo le loro speciali e proprie
qualità, rimodernarla, e fare in modo che la lingua [3326]moderna
italiana illustre sia propriamente una continuazione, una derivazione dell'antica,
anzi la medesima antica lingua continuata, niente meno che la francese
dell'ultima metà del passato secolo, e quella del presente, non sono altra
che quella del tempo di Luigi XIV. continuata di mano in mano.
Or questo ai francesi fu facile, perchè
la loro letteratura non fu interrotta per alcun tempo, da Luigi in poi; laonde
la loro lingua fu sempre continuata naturalmente e senza sforzo, e sempre
successivamente modificandosi secondo i tempi, fu in ciascun tempo moderna, ma
una in tutti i tempi considerati insieme. A noi bisogna far forza alle cose, e
quasi scancellare e annullare o nascondere il fatto, cioè governarci in
modo che quel che fu, apparisca non essere stato, e la lingua italiana sembri
non essere stata per alcun tempo interrotta, ma continuamente avanzata e
modificata sino a divenir propria e conforme e conveniente all'odierna Italia
ed alla sua moderna letteratura.
Quindi si consideri le grandissime
difficoltà ed ostacoli che si attraversano, le angustie [3327]che
stringono, la vera infelicità della condizione in cui si trova oggidì
l'italiano che aspiri ad esser scrittor classico, cioè pensare originalmente,
dir cose proprie del tempo, dirle in modo proprio del tempo, e perfettamente
adoperare la sua lingua, senza le quali condizioni, e una sola che ne manchi,
non si può mai nè pretendere giustamente, nè
ragionevolmente sperare l'immortalità letteraria. (Alla quale, e sia
detto per incidenza, ben raro o niuno è che giungesse per mezzo di opere
scritte in lingua non sua; come se noi spaventati dalle difficoltà che
ho detto e son per dire, volessimo scrivere in francese piuttosto che in
italiano.)
Un italiano ancorchè pienamente
istruito in tutto ciò che si richiede oggidì in qualsivoglia
luogo a un perfetto uomo di lettere, ancorchè sommamente ricco d'immaginazione
e di cuore, ancorchè fecondissimo e gravido di pensieri propri, importantissimi,
profondissimi, novissimi, d'invenzioni, d'idee d'ogni genere convenientissime
al tempo; ancorchè osservatore, meditatore, ragionatore senza pari;
ancorchè peritissimo di tutte l'arti e artifizi dello [3328]stile;
volendo perfettamente scrivere in italiano, ed essendo, per ogni altro
riguardo, capacissimo di perfettamente scrivere; si trova mancare affatto della
lingua in cui possa farlo, non solo perfettamente, ma pur mediocrissimamente. A
questo tale è duopo apprestarsi prima di tutto una lingua colle sue
mani. Ma questa in qual modo? Manco difficile sarebbe il crearsela. Se l'Italia
non avesse che una lingua imperfettissima, ristrettissima e bambina, manco
difficile sarebbe a un grande ingegno il perfezionarla, l'arricchirla, il
dilatarla, il condurla a maturità. Ma l'Italia ha una lingua altrettanto
perfetta quanto immensa; bensì da lungo tempo dismessa, e però
impropria a' di lui bisogni, a' quali ella non fu ancor mai per alcuno adattata
nè adoperata. Conviene adunque indispensabilmente che l'ingegno da noi
supposto, innanzi di porsi a scrivere, perfettamente impari questa lingua
infinita, che tutta l'abbracci, che la si converta in succo e sangue, che se ne
renda risolutissimo e pienissimo possessore e padrone, che n'abbia per le dita
e il tutto e fino alle menome parti franchissima e speditissimamente. [3329]Come
senza ciò potrebb'egli derivarne e farne nascere e pullulare in guisa
che paia del tutto spontanea, una lingua conforme alla natura e a' bisogni de'
moderni tempi e delle moderne cognizioni, la qual sembri e sia onninamente una
coll'antica? come commettere insieme quella con questa per modo che nulla
appaia la commissura? Ma questa lingua essendo antica, egli non la può
già imparar dalla balia, ma gli conviene apprenderla per istudio;
essendo infinita e in se diversissima, egli non la può apparare con
istudio nè breve nè leggero, ma solo con lunghissimi sudori, e
profonde ricerche sulle sue proprietà, e continuo esercizio di leggerla
e di scriverla, e assiduo ed attentissimo studio de' suoi classici che sono in
grandissimo numero. E così facendo, troverà, e sempre più
si persuaderà, che siccome della lingua greca si dice, così della
italiana si può dire, lei essere veramente infinita, e tale ch'egli
è impossibile di tutta abbracciarla, e mai non viene quel giorno che
nuove conoscenze intorno a essa lingua non si possano [3330]acquistare,
nè che il cammino sia terminato. Ma senza andare agli eccessi; sebbene
nulla v'ha qui d'esagerato; senza però voler conservare una troppo grande
esattezza nel ragionamento; supponendo ancora, com'è il vero, che un
grande e felice ingegno possa arrivare a comprender coll'animo e possedere, se
non tutta quanta la nostra lingua, pur tanta parte di lei che la cognizione e
la domestichezza d'essa parte, gli basti a poter sulle fondamenta, sull'ordine,
sul disegno dell'antica lingua fabbricare come una continuazione d'edificio la
moderna; veggasi quanto a costui convien travagliare innanzi di poter far uso
de' suoi pensieri. Ella è cosa certa che la vera cognizione e padronanza
di una lingua come l'italiana, domanda, per non dir troppo, quasi una
metà della vita, e dico di quella cognizione e padronanza ch'è
indispensabile a chiunque debba veramente ristorarla. Ma la scienza, la
sapienza, lo studio dell'uomo, non domandano tutta la vita? e quella immensa
moltiplicità di cognizioni piccole e grandi, quella universalità
che [3331]si richiede oggidì quasi generalmente a ogni uomo di
lettere, ma ch'è sommamente necessaria al filosofo; la cognizione ed uso
e pratica di tante altre lingue antiche e moderne e de' loro autori,
letterature ec. domandano poca parte di tempo? Certo è veramente dura e
deplorabile oggidì la condizione dell'italiano il quale avesse nella sua
mente cose degne d'essere scritte e convenienti a' nostri tempi; perocch'egli,
anche volendo usare la maggior semplicità del mondo, non avrebbe una
lingua naturale in cui scrivere (come l'hanno i francesi ec. atta a potervi
subito scrivere, com'ei l'abbiano competentemente coltivata e studiata),
nè il modo di bene esprimere i suoi concetti gli correrebbe mai alla
penna spontaneo, ma converrebbe ch'egli si fabbricasse l'istrumento con cui
significar le sue idee. E d'altronde ella è ben ardua e difficile la
condizione di un ingegno quantunque si voglia grande e colto, al quale oltre la
grande impresa di ristorare la letteratura italiana, e dare o mostrare all'Italia
una letteratura propria moderna, [3332]quasi ciò fosse poco,
converrebbe in prima necessariamente aprirsi la via col ristorare la lingua
italiana e dare all'Italia una lingua nazionale moderna, quasi questa ancora
non fosse per se sola un'impresa sufficiente a una vita intera e ad un
eccellente ingegno.
Tanta è la difficoltà di
condurre a termine due imprese di questa sorta, il che dovrebb'esser pure
necessariamente lo scopo e l'istituto di qualunque letterato italiano degno di
questo nome; e d'altronde egli è così vero che la letteratura e
la lingua mai non si scompagnano, nè l'una dall'altra si dissomigliano,
e ch'egli è quasi impossibile di scrivere perfettamente, e in forma che
paia spontanea, una lingua per solo studio apparata o fabbricatasi; che io
siccome so certo che l'Italia non avrà propria letteratura moderna
finch'ella non avrà lingua moderna nazionale, così mi persuado
che tal lingua ella non avrà mai finchè non abbia tale letteratura:
onde (se pur dobbiamo sperarlo) nata una letteratura [3333]moderna
italiana, seco a paro nascerà una moderna lingua, e quindi di mano in
mano cresceranno ambedue appoco appoco, l'una insieme coll'altra e in
virtù dell'altra scambievolmente, ma più la lingua in
virtù della letteratura, che questa per l'aiuto di quella. E così
con mio dispiacere predìco che seppur avremo mai più lingua
moderna propria, questa non nascerà dall'antica nè a lei
corrisponderà, ma nascendo dalla nuova letteratura, a questa sarà
conforme: ed essendo di origine straniera, ci si verrà appoco appoco
appropriando e pigliando forme nazionali (quai ch'elle saranno per essere; non
già le antiche) a proporzione che la nuova letteratura diverrà
nazionale, e metterà radici in Italia, e si nutrirà e
crescerà del nostro terreno, e produrrà frutti propri italiani. A
questo mi conduce il considerare che nè i nostri antichi scrittori
nè i moderni o antichi di nazione alcuna presente o passata, furono mai
pensatori, originali ec. scrivendo in altra lingua che in quella del loro
secolo e in quella usata generalmente [3334]da' nazionali, e che loro
veniva alla penna spontanea, ben da loro assai volte (come da Cicerone)
raffinata, riformata, accresciuta, perfezionata, ma non mai per solo studio appresa,
per solo studio quasi ricreata. Al quale immenso travaglio, ed alla continua
difficoltà di scrivere e perfettamente scrivere in una tal lingua ancor
dopo appresa, formata e posseduta, è quasi impossibile trovare un pensatore
originale, un gran filosofo, un uomo di genio e di grande immaginazione, che si
assoggetti; o che assoggettandocisi, si conservi in se stesso e ne' suoi
scritti, pensatore, filosofo, originale; senza di che sarebbe inutile
l'esservisi assoggettato. Non altrimenti che siano inutili allo scopo di dare
all'Italia lingua e letteratura moderna propria, coloro che oggi si sforzano di
scrivere in buono italiano, da' quali è rimota ogni sorta di pensiero,
non solo nuovo ma moderno, e che avendo a nominar qualche cosa moderna, la
nominano o accennano copertamente, e avendo talvolta a mostrare qualche
conoscenza, qualche idea di quelle che i nostri antichi non avevano, si fanno
un pregio e un dovere di non farlo che dissimulatamente, fingendosi [3335]il
più che possono ignoranti di quanto gli antichi ignoravano. E non altrimenti
che inutili al sopraddetto scopo sieno oggidì coloro che tra noi pur
pensano qualche cosa (ben pochi e poco), o che da' paesi di fuori recano a noi
qualche pensiero ec. i quali tutti non iscrivono italiano ma barbaro. E questa
separazione e distinzione di gente che scrive in italiano (vero o preteso), e
gente che pensa, stimo per le suddette ragioni, che sempre sia per durare in
Italia; mentre questi non prevagliano a quelli, formando finalmente appoco
appoco un nuovo italiano illustre e rendendolo universale tra noi in vece dell'antico.
Dal che siamo ancora ben lontani, massime oggidì, che il numero e il
valore di quelle ombre di filosofi che ha veduto fin qui l'Italia, va pur
sempre notabilissimamente scemando; e sempre per lo contrario crescendo, non il
valore, ma il numero di quelli che pretendono e aspirano a scrivere il buon italiano;
onde l'Italia è quasi tutta rivolta di nuovo alla sua antica lingua, e
di pensieri oramai nulla più pensa nè [3336]cura nè
richiede; propriamente nulla.
Mala cosa per certo si è
l'interruzione degli studi,
dovunque ella accada, sì per mille
altri danni, sì perchè
colla letteratura ella antiqua la lingua
illustre.[88]
Di modo che risorgendo essa letteratura, l'è grandissimo impedimento e
indugio a poter crescere e formarsi la mancanza di lingua a lei conveniente, e
il tempo e l'industria che bisogna spendere in fornirnela. Quanto crediamo noi
che ritardasse gli avanzamenti dello spirito umano (non in una sola nazione ma
in tutta l'Europa) dopo il risorgimento degli studi, la mancanza di lingue
proprie alle nuove lettere? La qual mancanza non da altro provenne che dalla
diuturna interruzione della letteratura in Europa. Perocchè la lingua
latina non avrebbe cessato di esser parlata e propria degli europei, se fosse
durata la letteratura latina. Ben si sarebbe sempre modificata secondo i tempi,
di modo ch'ella oggidì sarebbe diversa dall'antica; ma sarebbe pur
lingua latina; e in Europa si parlerebbe e scriverebbe il latino come lingua
propria, come moderna, come conveniente a' nostri tempi (quale infatti ella
sarebbe); e lo spirito umano sarebbe più oltre ch'ei non è, [3337]perchè
sarebbe stato impiegato nel coltivar la sapienza e le lettere quel tempo che fu
dovuto spendere nel formare delle lingue convenienti a queste, e ai costumi e
al carattere de' moderni secoli. Il che volendo evitare e risparmiare i primi
cultori de' risuscitati studi, si ostinarono a volere scrivere in latino; ma il
latino era lingua antica, nè mai in una lingua antica si potranno
scriver cose moderne nè scriverle modernamente. E molto nocque una tale
ostinazione al progresso de' lumi e della coltura e alla formazione dello
spirito nazionale e moderno. Il quale non mai si sarebbe formato se non fossero
state formate e stabilite le lingue moderne in vece della latina. Siccome per
lo contrario si vede che queste non prima furono formate e stabilite di quel
che lo spirito nazionale e moderno pigliasse una consistenza e una certa forma
e fisonomia propria, prima in Italia, poscia in Ispagna, indi in Francia e in
Inghilterra, ultimamente in Germania, che ultima di tutte queste nazioni lasciò
l'uso della lingua latina come letterata e illustre, e le sostituì [3338]la
nazionale. E questo esempio dell'Europa si deve proporzionatamente applicare e
paragonare al caso dell'odierna Italia, e dedurne delle congetture, certo assai
verisimili e solide, circa il futuro esito delle nostre presenti circostanze.
(1-2. Settembre. 1823.)
Del resto, dalle considerazioni qui dietro
fatte sulla necessità che l'Europa e lo spirito umano avevano di nuove
lingue illustri a potersi avanzare e nè costumi e nelle scienze e nelle
lettere e nella filosofia, dopo il risorgimento degli studi; e sul grandissimo
detrimento e ritardo che portò alla rinata civiltà la
rinnovazione dell'uso esclusivo del latino come lingua illustre; e sul maggior
danno e indugio che le avrebbe apportato la continuazione di tale uso,
apparisce più visibilmente che mai quanto debbano a Dante, non pur la
lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l'Europa
tutta e lo spirito umano. Perocchè Dante fu il primo assolutamente in
Europa, che (contro l'uso e il sentimento di tutti i suoi contemporanei, e di
molti posteri, che di ciò lo biasimarono: v. Perticari Apologia cap.34.)
ardì concepire [3339]e scrisse un'opera classica e di letteratura
in lingua volgare e moderna, inalzando una lingua moderna al grado di lingua
illustre, in vece o almeno insieme colla latina che fino allora da tutti, e
ancor molto dopo da non pochi, era stata e fu stimata unica capace di tal
grado. E quest'opera classica non fu solo poetica, ma come i poemi d'Omero,
abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in
teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ec. E riuscì classica
non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie;
nè solo rispetto all'Italia ma a tutte le nazioni e letterature. Senza
un tale esempio ed ardire, o s'ei fosse riuscito men fortunato e splendido, e
se quell'opera pel suo soggetto fosse stata meno universale, e meno
appartenente, per così dire, a ogni genere di letteratura e di dottrina;
si può, se non altro, indubitatamente credere che sì l'Italia
sì l'altre nazioni avrebbero tardato assai più che non fecero a
inalzare le lingue proprie e moderne al grado di lingue illustri, e quindi a
formarsi delle letterature proprie e [3340]moderne e conformi ai tempi,
e quindi lo spirito e il carattere nazionale, moderno, distinto, determinato
ec. Dante diede l'esempio, aprì e spianò la strada, mostrò
lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl'italiani:
l'Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile. Nè il
fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda
riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre
alla lingua latina, perchè così giudicò richiedere le
circostanze de' tempi e la natura delle cose; e volle espressamente bandita la
lingua latina dall'uso de' letterati, de' dotti, de' legislatori, notari ec.,
come non più convenevole ai tempi. Il fatto di Dante venne da proposito
e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l'istituto e lo scopo
(quanto spetta al nostro discorso)[89]
(siccome eziandio la scelta e l'uso de' mezzi) fu da acutissimo, profondissimo
e sapientissimo filosofo. Veggasi il Perticari nel luogo citato.
(2. Sett. 1823.)
I francesi amano di usare il numero ordinale
pel cardinale. Louis quatorze, livre
deux etc. [3341]Pretto
idiotismo e sgrammaticatura. Or vedilo altresì, se non fallo, appo
Svetonio in Iul. Caes. c.39. §.4. e appo gli autori quivi allegati dal Pitisco
ec.
(2 Settembre. 1823.). V. p.3544.3557.
I limiti della materia sono i limiti delle
umane idee.
(3. Settembre. 1823.)
Alla p.3235. Instigo as da instinguo
is, onde instinctus a um e instinctus us. Il
semplice è stinguo (onde anche exstinguo, restinguo, distinguo
ec.) e di questo verbo ho detto altrove in altro proposito. Quelli che
derivano instigo da insto ec. molto s'ingannano. Gli altri verbi
da noi raccolti in questa categoria mostrano ch'ei viene da instinguo
come jugo da jungo ec.[90] Chi
volesse che insidior (fors'anche si trova insidio) venga a
dirittura da insideo piuttosto che da insidiae (la qual voce in
tal caso verrebbe non da insideo ma da insidior), lo mostrerebbe
appartenente a questa categoria, e in tal caso sarebbe da notare ch'ei non
nascerebbe da un verbo della terza, ma (da un anomalo) della seconda. (3.
Settembre. 1823.). Potrebbe però anche venire da insido is.[91] Invideo,
invidia, invidiare ital. ec.
(3. Sett. 1823.)
[3342]Alla p.3098. Tutte le nazioni
e società primitive, non altrimenti che oggidì le selvagge,
riputarono l'infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a causa di vizi e
delitti ond'ei fosse colpevole, o a causa d'invidia o d'altra passione o capriccio
che movesse i Numi ad odiar lui in particolare o la sua stirpe ec. secondo le
diverse idee che tali nazioni avevano della giustizia e della natura degli Dei.
Un'impresa mai riuscita mostrava che gli Dei l'avessero contrariata o per se
stessa o per odio verso l'imprenditore o gl'imprenditori. Un uomo solito a échouer
nelle sue intraprese, era senza fallo in ira agli Dei. Una malattia, un
naufragio, altre tali disgrazie provenienti più dirittamente dalla
natura erano segni più che mai certi dell'odio divino. Si fuggiva quindi
l'infelice, come il colpevole; se gli negava ogni soccorso e compassione,
temendo di farsi complice in questo modo della colpa, per poi divenire
partecipe della pena. Qua si dee riferire l'infamia pubblica in cui erano i
lebbrosi appresso gli Ebrei, e lo sono ancora, s'io non m'inganno, appo gl'indiani.
Gli amici e la moglie di Giobbe lo [3343]stimarono uno scellerato,
com'ei lo videro percosso da tante disgrazie, benchè testimonii dell'innocenza
della passata sua vita. I Barbari dell'isola di Malta vedendo l'Apostolo S.
Paolo naufrago, e pur salvato in terra, e quivi assalito da una vipera, lo
stimarono un omicida che la divina vendetta perseguitasse per ogni dove (Act.
cap.28. 3-6.). Rimane eziandio nelle antiche lingue il segno, come d'ogni altra
antica cosa, così di queste opinioni.
(Aristoph. Plut. 4.5. 19.), (ib.
4.3.47.), J e simili
nomi tanto valevano infelice, quanto malvagio, scellerato
ec. V. i latini. Onde anche tra noi sciagurato, disgraziato, misero,
miserabile ec. hanno l'uno e l'altro significato; ovvero si attribuiscono
altrui anche per avvilimento e disprezzo. Così in francese malheureux, miserable ec. Cattivo ha
perduto affatto il significato di misero, che prima ebbe, ma non quello
di ribaldo, reo, malo ch'è il suo più ordinario e volgare
significato oggidì.
(3. Settembre 1823.). V. p.3351.
J, ( infelix)
J, ec. ec.
V. lo Scapula, e p.3382. quegli
che ha nemico
cioè la divinità, o . Ma e'
vuol dire infelice. Luciano congiunge J J . ch'ha
gli dei amici, ma e' vuol dir fortunato, felice. V. lo Scapula in
queste voci e in J e in , co'
derivati ec. e Aristot. Polit. l.3. p.260. e ivi il Vettori (ed. Flor. 1576.).
Tapino donde se non da ?
(3. Settembre 1823.)
[3344]Scrissero, vissero, dissero,
videro; diedero, tennero e simili innumerabili, quasi da scripserunt,
vixerunt, dixerunt, viderunt, dederunt, tenuerunt. Così veramente
dissero molti poeti, massime i più antichi, e che tal pronunzia fosse o
restasse propria del volgo romano, il quale conservasse anche in questo
l'antichità e la trasmettesse fino a noi, si può raccogliere da
certi versi popolari portati da Svetonio in Jul. Caes. cap.80 §.3. (dove
si veggano le note del Pitisco ec.), che correvano in Roma sugli ultimi tempi
di Giulio Cesare. Dico popolari,[92] e
in fatti si paragonino con quelli riportati dal medesimo Svetonio ib. cap.49.
§.7., ch'erano cantati dalla soldatesca di Cesare.
(3. Sett. 1823.)
Alla p.3206. -
[3345]7. La memoria,
indipendentemente dall'esercizio, il quale anzi per se, tanto l'accresce quanto
è maggiore, più assiduo, più lungo, decresce evidentemente
(almeno per l'ordinario) secondo l'età. Anzi osservando, si vede chiaro
ch'ella ne' fanciulli è maggiore naturalmente, e minore per difetto o
scarsezza d'esercizio, e che coll'età crescono le sue forze, per
così dire artifiziali e fattizie, e scemano le naturali; finchè
distrutte queste ne' vecchi quasi affatto, anche quelle divengono inutili, e si
perdono e dileguano, mancato loro il subbietto, cioè la disposizion
fisica a ritenere degli organi destinati alla memoria. Le forze della memoria
nell'uomo maturo sono quasi medie tra quelle del fanciullo e del vecchio,
perchè le fattizie suppliscono alle naturali, che nel fanciullo sono
maggiori assai che nell'uomo maturo, ma in questo sono maggiori assai che nel
vecchio, e bastano ancora a servir di materia e subbietto alle forze
artifiziali e derivanti dall'esercizio generale e particolare, passato e
presente, ch'è maggiore nell'uomo maturo che nel fanciullo ec. È
anche indubitabile che fisicamente altri ha maggiore, altri minor memoria,
alcuni prodigiosa, altri niuna; e ciò in pari età, e [3346]supposta
eziandio la parità di tutte l'altre circostanze. E questa differenza
fisica talora è primitiva e innata, ossia dalla nascita, talora
avventizia, ma pur sempre fisica, e indipendente, almeno in gran parte e
radicalmente, dalle cause morali ec. Altresì è certo che in uno
stesso individuo in una stessa età, anzi pure non di rado in una stessa
giornata in diverse ore, per cause evidentemente fisiche, la memoria ora
è più pronta e maggiore e più chiara, ora meno; ora
più ora men facile sia ad apprendere sia a rimembrare, e disposta a
farlo più o meno perfettamente ec. Or tutto questo discorso della
memoria in cui si scorge tanto di fisico ec. perchè non dovrà
eziandio applicarsi all'ingegno, al talento, all'intelletto ec. ch'è
pure una facoltà dell'anima come la memoria, e viene ed è
fondato, siccome questa, in una disposizione naturale, primitiva e innata
nell'uomo ec.? (3. Settembre. 1823.). Se la disposizion fisica e naturale
è varia quanto alla memoria nelle diverse età, ne' diversi
individui, in diversi tempi ec. indipendentemente dal morale, perchè non
eziandio quanto [3347]all'intelletto e al talento?
(3. Settembre. 1823.)
La stagione e il clima freddo dà
maggior forza di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza del
presente, inclinazione all'ordine, al metodo, e fino all'uniformità. Il
caldo scema le forze di agire, e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il
desiderio, rende suscettibilissimi della noia, intolleranti
dell'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se
stessi e del presente. Sembra che il freddo fortifichi il corpo e leghi
l'animo: che il caldo addormenti e ammollisca e illanguidisca e intorpidisca il
corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo l'animo.[93]
L'attività del corpo è propria de' settentrionali, de'
meridionali quella dell'animo. Ma il corpo non opera se non mosso dall'animo.
Quindi è che i settentrionali sebbene senza controversia sia lor propria
l'attività e laboriosità, pur sono veramente i più quieti
popoli della terra; e i meridionali i più inquieti, benchè sia
lor propria l'infingardaggine. I settentrionali hanno bisogno di grandissimo
impulso a muoversi, a sollevarsi, a cercar novità: ma [3348]mossi
che sieno, non sono facili a racquietare. Vedesi nelle loro storie, nelle
quali, massime nelle moderne, e massime in quelle della Germania, pochissime
rivoluzioni si troveranno (specialmente a paragone di quelle de' meridionali)
ma queste lunghissime, come quella di religione mossa da Lutero, e convertita
ben tosto in rivoluzione politica. Sopportano facilmente la tirannia,
finch'ella non gli spinge à bout, come gli Svizzeri. Ubbidiscono
volentieri, e comandati travagliano (anche eccessivamente) più
volentieri che se operassero spontaneamente. Vedesi nella loro milizia. I
meridionali sono facili e pronti e frequenti a muoversi, rivoltosi, poco
tolleranti della tirannide, poco amici dell'ubbidire, ma facilissimi ancora a
racquietare, facilissimi a ritornare in riposo; mobili, volubili, instabili,
vaghi di novità politiche, incapaci di mantenerle; vaghi di
libertà, incapaci di conservarla; al contrario de' settentrionali che di
rado la cercano, poco se ne curano; cercata o comunque acquistata, lunghissimamente
la conservano. Infatti essi, e in particolare i tedeschi o teutoni, sono i soli
in Europa che serbino qualche vestigio di libertà, qualche immagine [3349]delle
antiche repubbliche; i soli appo cui le repubbliche si veggano per esperienza poter
durare anche a' tempi moderni. Verbigrazia gli Svizzeri, le città libere
di Germania, le repubblichette de' Fratelli Moravi ec. Nel mezzogiorno d'Europa
non esiste più neppure un'ombra di repubblica in alcun luogo, fuori di
San-Marino. In Germania ve n'ha non poche, ed alcuni piccoli principati di
colà si governano oggi, o per volontà del principe (come
Saxe-Gotha) o per costituzione, quasi a maniera di repubblica e stato franco.
Si applichino queste osservazioni a quelle
da me fatte p.2752-5, 2926. fine -28, e viceversa quelle a queste.
(3. Sett. 1823.). V. p.3676.
Se l'idea del giusto e dell'ingiusto, del
buono e del cattivo morale, non esiste o non nasce per se nell'intelletto degli
uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un'azione o un'ommissione
sia giusta nè ingiusta, buona nè cattiva. Perocchè non vi
può esser niuna ragione per la quale sia giusto nè ingiusto,
buono nè cattivo, l'ubbidire a qualsivoglia legge; e niun principio [3350]vi
può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a
chi che sia, se l'idea del giusto, del dovere e del diritto, non è
innata o inspirata (come vuole Voltaire, cioè naturalmente
e per innata disposizione nascente nelle menti degli uomini, com'ei son giunti
all'età di ragione) negl'intelletti umani.
(4. Sett. 1813.)
Verbi in uo. Heluor o helluor aris
da helluo o heluo onis. Mutuo as e mutuor aris da mutuus.
Cernuo as da cernuus.
(4. Sett. 1823.)
Insidiae, desidia sono
evidentemente composti da in o de e dal nome sedia, mutata
l'e in i, come al solito, e come appunto in insideo, desideo
da sedeo. (V. la p.2890.) Ma la voce semplice sedia che pur
dovette esistere nel latino, poich'esisterono i suoi composti, è perduta
nel latino scritto, conservasi nell'italiano. V. il Gloss. ec.
(4. Sett. 1823.)
Continuativo. Mutito e mutuito.
V. il Forc. in ambedue queste voci.
(4. Sett. 1823.)
Alla p.2843. Anzi dal dirsi incettare,
piuttosto che incattare (come pur diciamo [3351]accattare,
riscattare ec.) deduco che questo verbo spetti a' buoni tempi della
lingua latina, giacchè ne' bassi tempi, e meno nelle lingue volgari, non
si conservò e si trascurò questo uso di mutare l'a de'
verbi latini in e o i per la composizione, e l'e in i
ec.
(4. Sett. 1823.)
Alla p.2843. marg. Dico verbi dissillabi
contando per una sola sillaba l'eo ne' verbi della seconda (do-ceo),
e l'io in quelli della quarta (au-dio), secondo il volgar uso da
me altrove dimostrato, che per dissillabi li pronunziava. E dico dissillabi,
avendo riguardo al tema, cioè alla prima persona singolare presente
indicativa.
(4. Sett. 1823.)
Alla p.3343. Generalmente appo gli antichi e
nelle nazioni o società primitive il nome d'infelice è un
obbrobrio, e s'adopra per vitupero, per ingiuria, per ignominia, per biasimo,
per rimprovero ec. e così si riceve. E l'esser tenuto per infelice
è come aver mala fama. E l'infelicità (qualunque) si rinfaccia
come il delitto o il vizio ec.
(4. Sett. 1823.)
[3352]Nisi me omnia fallunt, il verbo
meditor è un verissimo e perfettissimo continuativo di medeor.
Continuativo pel significato, e continuativo per la forma e la derivazione.
Medeor non ha participio in us
che sia usitato, ma secondo l'analogia il suo vero e regolare participio in us
è meditus. E ch'egli ora non l'abbia non fa meraviglia. Innumerabili
sono i verbi che più non l'hanno, e che l'hanno solamente irregolare, i
cui participii in us, o i cui participii in us regolari, sono
stati da me dimostrati o si potrebbero dimostrare col mezzo de' continuativi o
frequentativi che ne derivano, o con altri mezzi, benchè essi participii
sieno altronde affatto inusitati. Similmente ho dimostrato più
participii in us (o supini) di verbi che n'hanno un solo oggidì,
o tre participii di verbi che n'hanno oggidì soli due ec.
Medeor si fa drivare da o regno,
impero, perchè il medico dee comandare. Misera e forzatissima
etimologia. Tengo per indubitato che medeor non è altro se non il
verbo curo,
curam gero; verbo greco [3353]antichissimo, e che già era
fuor d'uso, o sapeva almeno d'antico, a' tempi di Senofonte, come par che si
debba raccogliere dal suo Simposio c.8. §.30. Che se i poeti (e quindi gli
scrittori di stile fiorito e sofistico) lo seguitarono a usare anche molto
appresso, così fecero di mille altre voci antiche, anzi le usarono appunto
perchè antiche, e fatte peregrine e divise dal volgo. Così pur
fecero i latini, così fanno i poeti italiani, e di ciò dico altrove
diffusamente. La molta antichità di questo verbo giova molto a poter
credere ch'ei possa avere in latino un fratello, proprio della più
antica latinità, com'è il verbo medeor. Or dunque che medeor
sia lo stesso che si
dimostra con più ragioni. E primieramente estrinseche.
1°. Non resta in greco che il medio o il
passivo () di
questo verbo. Così in latino non resta che il deponente medeor,
onde medicor, altresì deponente, del quale vedi la p.3264.
2°. Se ad alcuno facesse forza che da paresse
dover derivare medor non medeor, oltre che se gli potrebbero
recare [3354]infiniti esempi di tali mutazioni, massime spettanti alla
desinenza (anzi pur d'altre molto più sostanziali, e non appartenenti
alla desinenza, e alla forma propria della congiugazione, siccom'è
questa), e massime poi in voci così antiche ( mascol. vinum-
neutro ec. ec.); osservisi che il fut. di è come
fosse da .[94] Del
resto la difficoltà varrebbe quasi egualmente anche per impero,
che ordinarissimamente si dice e , non , del
quale lo Scap. non reca che un solo esempio di Omero usante il partic.
(frequentissimo è per lo contrario ), e
ciò forse piuttosto per proprietà di dialetto, o per modificazione
poetica, che per altro. Nè si trova, ch'io sappia, il fut. nè
l'aor. o , come di si ha .
Intrinsecamente, cioè quanto al
significato, una bellissima prova che medeor sia lo stesso che , si
è la facilità, prossimità e naturalezza dell'etimologia.
Il medicare è veramente curare, aver cura, consulere,
provvedere (tutti significati di ) al malato.
E infatti [3355]non s'usa egli in latino peculiarmente il verbo curare
per medicare? Non è divenuto questo senso, nel nostro volgare e
ordinario uso, il solo proprio dello stesso verbo curare? cioè medicare,
sanare. Non è egli assolutamente (s'io non m'inganno) il solo senso
che abbia lo spagnuolo curar? Così dite di cura, franc. cure
ec. cioè medicatura, guarigione. Dunque medeor è
propriamente anche pel
significato, colla sola differenza ch'egli conserva solo un significato
più particolare e speciale, in cambio d'uno più generale; come
appunto è avvenuto, nel nostro volgar familiare e parlato, al verbo curare,
e nella lingua spagnuola a curar, ch'è proprio lo stessissimo e
identico caso; e così a milioni d'altri verbi in diversi casi.
Sicchè medeor è , neppur
metaforico (se non quando significa rimediare, sanare), ma nel senso
proprio, e non istiracchiato, come derivandolo da impero.
Del resto osservisi che e
particolarmente vale
assai spesso il medesimo che ,
cioè curo, curam gero. E probabilmente [3356]l'uno e
l'altro non vengono che da una radice, e sono in origine un solo verbo, significante
da principio o impero o curo chè ciò non monta al
presente. Nego dunque che medeor venga da impero,
non nego che venga da , anzi da , curo,
il che viene a essere il medesimo che derivarlo da . Anzi,
sebbene nelle voci antichissime non si può nè si dee molto
guardare alle brevi e alle lunghe, e moltissime altre differenze di questa
sorta si potrebbero allegare tra voci greche e voci latine identiche di
significato o certo di origine, e anche tra l'antico e il più moderno
latino, o tra vari secoli della latinità o della grecità, intorno
a una stessa voce; contuttociò non contrasterò che medeor
si derivi piuttosto da che da , a
cagione che la me di medeor è breve sì in esso,
sì in medicor e in tutti gli altri suoi derivati o composti (come
remedium), non eccettuato il verbo meditor, di cui or ora. E si
può ben credere che avesse
l'anomalo futuro (come ha ),
indicante il verbo inusitato , massime
che si trova [3357]il suo attivo . Anzi
sarà naturalissimo il supporre che medeor venga a dirittura
dall'inusitato (fosse
proprio di tutta la Grecia o solo di qualche dialetto che così lo
mutasse da ) e
così il verbo medeor non potrebbe, nè pel significato
nè per la forma, essere più evidentemente perfettamente regolarmente
e compiutamente lo stesso che il verbo greco.
Da medeor dunque, che poi
passò a significare specialmente e unicamente il medicare, coi
significati metaforici a questo convenienti; ma che da principio, secondo il
sopraddetto, significò, siccome il greco ,
generalmente curo, curam gero, consulo; da medeor dico io che
giusta l'ordinaria e regolare formazione de' continuativi da' participii in us,
fu fatto il verbo meditor.
1° Anche meditor, come medeor
e come medicor e come è
deponente.
2° Meditor quanto al significato
equivale appunto al greco . Or
questo donde è fatto? da , (oggi
inusitato, se non [3358]impersonale) curae sum, e fors'anche curo,
onde curo,
curam gero, onde cura,
onde , curo,
curam gero, e quindi exerceo, exerceo me, meditor, siccome anche vale exercitatio,
meditatio, anzi anche il partic. di trovasi
pure per qui se exercuit ec. (V. lo Scap. in ).
Può darsi un esempio e una prova più bella? è
propriamente il meditor de' greci, ed esso viene da curo,
come meditor da medeor nel suo primitivo, proprio e generale
significato, cioè appunto curo. Certo è ridicolo il
derivare meditor da , (come fa
il Forcell.) perchè questi verbi significano la stessa cosa; ma sebbene
quanto all'origine e alla stirpe essi non abbiano tra loro nulla che fare,
contuttociò la derivazione del verbo greco serve a mostrare evidentissimamente
e chiarire la derivazione, la discendenza, l'origine, la radice del verbo
latino a lui equivalente. Derivazione confermata e comprovata dalla nostra
teoria della formazione de' continuativi, tra' quali questo [3359]è
regolarissimo per la forma, proprissimo pel significato. Chi non vede che
l'esercitare e il meditare una cosa è una continuazione del semplice averne
o pigliarne cura? il che si può talvolta compiere in poca d'ora; ma
quello di necessità e per sua natura esige durata, lunghezza,
continuità di tempo.
Ecco come la nostra teoria de' continuativi
rischiara mirabilmente le origini della lingua latina, rettifica l'etimologie,
mostra le vere e primitive proprietà delle voci, le analogie scambievoli
delle lingue. Come qui, coll'osservazione che meditor debba venire da un
participio in us ec. 1. trovasi il perduto partic. o sup. di medeor.
2. scopresi la vera etimologia di meditor. 3. correggesi e dichiarasi
quella di medeor. 4. trovasi e dimostrasi il primitivo e proprio
significato di questo verbo. 5. osservasi l'analogia tra la lingua greca e la
latina nelle paragonate derivazioni di meditor e di (verbi
equivalenti) rispetto al significato. (3. Sett. 1823.). - Come i re antichissimamente
erano quello che dovevano, cioè tutori e curatori della repubblica
(Cic. de rep.), [3360]o tali erano riputati ben più che poscia
non furono, non è maraviglia che il re fosse chiamato curatore () e il
regnare curare, o viceversa. Insomma fu ben facile e naturale la
traslazione dall'uno all'altro di questi significati, qualunque de' due si
fosse il primitivo e proprio del verbo . - Medeor,
meditor sono deponenti. Così è
medio. Ed è ben naturale che in senso di curo, curam gero si
dicesse piuttosto o che attivo,
perchè questo significato è di quelli che hanno un non so che di reciproco,
i quali sogliono esprimersi in greco col verbo medio. Ond'è
altresì naturalissimo che medeor sia deponente, venuto
cioè da o ,
quantunque esista anche l'attivo di questo verbo. Il quale non esiste in . Ma
ciò, per la detta ragione, non fa gran forza a provare che medeor
sia piuttosto che il
verbo .
(5. Settembre. 1823.)
Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna
nella conversazione e nella vita, quanto ei [3361]sa ridere.
(5. Sett. 1823.)
Constater franc. continuativo di consto
as, non mutato l'a di constatus in i, il che dimostra
che questo continuativo dev'essere latino-barbaro, o d'origine francese. Il simile
dicasi dello spagn. horadar (anticamente foradar) da foro as.
V. il Gloss. se ha nulla in proposito.
(5. Sett. 1823.)
Alla p.3282. L'uomo (così la donna)
debole e bisognoso dell'opera altrui, o nato o divenuto, s'abitua ad essere in
qualche modo, più o meno, servito e sovvenuto dagli altri, ed esso a non
servire nè aiutare nessuno, perch'ei non può, quando anche da
principio il desideri, quando anche per indole sia inclinato a beneficare. Per
quest'abito ei contrae l'egoismo, il quale, come vedete, non è ingenito
in lui per se stesso, (quando anche ei sia stato sempre debole e bisognoso fin
dalla nascita), ma figlio di un abito da lui fatto o più presto o
più tardi, incominciato fin dal principio della vita, o sul fior degli
anni, o al mezzo, o sul declinare ec. Per quest'abito ei s'avvezza a
considerare (se non per ragione, certo praticamente) [3362]gli altri
come fatti per lui, e sè come fatto per se solo, ch'è appunto
l'egoismo; diventa alieno dalla compassione e dalla beneficenza ch'egli non ha
mai potuto o non può più esercitare, di cui non ha mai potuto
acquistare o ha dovuto perdere l'abitudine.
(5. Sett. 1823.)
Alla p.3078. Queste medesime anomalie della
lingua spagnuola, e quelle molte più della lingua italiana (delle quali
vedi la p.2688. segg. e altri luoghi), nelle quali anomalie queste lingue per
seguir la latina, abbandonano la norma della loro propria analogia, possono
servire a far credere che quando elle dalla propria analogia non si scostano,
non perciò abbandonino la lingua latina, ma la seguano, non quale noi la
conosciamo, bensì quale ella fu conservata nel volgare; massime se in
questi casi si vegga, come spessissimo e forse le più volte si vede, che
la lingua italiana o spagnuola seguendo la propria analogia segue ancor quello
che sarebbe stato secondo la vera analogia della lingua latina, sebben questa,
per ciò che noi ne conosciamo, in moltissimi di questi casi non segua
essa analogia sua propria, ma sia anomala e [3363]irregolare. Laonde non
sarà da disprezzarsi il testimonio che da' participii regolari italiani
o spagnuoli si volesse trarre a provare che anche la lingua latina avesse i
participii analoghi a questi (benchè a noi sconosciuti), e da cui questi
sieno derivati. P.e. dall'ital. veduto io potrò non vanamente
dedurre il latino viditus che sarebbe appunto il regolarissimo latino,
siccome quello è il regolarissimo italiano. Massime che siccome in latino
visus anomalo, così trovasi ancora in italiano e in ispagnuolo
l'anomalo visto, in cui queste lingue lasciano la loro analogia per
seguire, non già l'analogia, ma l'anomalia della lingua latina. Veggasi
la p.3032. segg. e in particolare la p.3033. marg. Similmente si può
discorrere della lingua francese. E generalmente, osservando, si vedrà
che quanto ai participi passivi, quello ch'è o sarebbe regolare nelle
lingue figlie (salve le solite e regolari modificazioni cioè delle desinenze,
dell'i vólto in u nell'italiano, come a pag.3075. e altre tali)
è o sarebbe altresì regolare nel latino.
(5. Sett. 1823.)
[3364]Il subito passaggio dal
grave, serio, lento, malinconico, passionato, raccolto e, come si dice,
dall'adagio (s'io non m'inganno) all'allegro, all'accelerato, al dissipato,
all' étourdi ec. ec. tanto usitato nella nostra musica, anzi proprio di
quasi tutte le nostre arie ec., non solo non ha fondamento alcuno nella natura,
ma anzi è generalmente contrarissimo alla natura, nella quale niente
v'ha di subitaneo, e molto manco il passaggio da' contrarii ne' contrarii. Oltre
che, astraendo pure dal subitaneo, l'allegro nuoce al passionato, spegne o
raffredda la passione negli animi degli uditori, contrasta bruttamente con
quello che precedette; l'effetto dell'una parte della melodia nuoce, contrasta,
distrugge quello dell'altra; è inverisimile che un malinconico parli in
tuono allegro, un passionato in tuono dissipato, e si abbandoni al gaio, allo
scherzevole, all'insouciant, al pazzeggiare ec. ec. Nondimeno
l'assuefazione che chiunque ha udito musica, deve tra noi aver fatto a questi
tali passaggi, ce li fa parer convenientissimi, ce li fa aspettare come
naturali, come richiesti dalla melodia ec. precedente, come dovuti, come
proprii assolutamente della composizione musicale; fa che il nostro orecchio li
richiegga come spontaneamente e naturalmente (e così è infatti,
perchè l'assuefazione è seconda natura); anzi, mancando essi, ci
fa considerar questa mancanza come sconvenienza; fa che il nostro orecchio
desideri alcuna cosa, non resti soddisfatto, anzi resti come choqué e révolté
della mancanza, deluso spiacevolmente dell'aspettativa; insomma fa che tal
mancamento [3365]produca il senso e il giudizio dell'imperfetto, del
mutilo, del disavvenevole, e quindi del disaggradevole, e quindi del brutto
musicale.[95]
(5. Sett. 1823.). Dunque l'idea del contrario del brutto, cioè del bello
e della convenienza musicale, dipende ed è determinata dall'assuefazione,
tanto che se questa è, non solo non naturale, ma contraria alla natura,
anche quel bello e quella convenienza, cioè l'idea che noi n'abbiamo
è, non solo oltre natura, e non fondata sulla natura, nè prodotta
dalla natura, ma contro natura.
(6. Sett. 1823.)
J'ai vu
quatre sauvages de la Louisiane qu'on amena en France, en 1723. Il y avait
parmi eux une femme d'une humeur fort douce. Je lui demandai, par interprète,
si elle avait mangé quelquefois de la chair de ses ennemis, et si elle y avait
pris goût; elle me répondit qu'oui; je lui demandai si elle aurait
volontiers tué ou fait tuer un de ses compatriotes pour le manger; elle me
répondit en frémissant, et avec une horreur visible pour ce crime. Voltaire.
Correspondance du Prince Royal de Prusse (depuis Frédéric II.) et de M. de
Voltaire. Lettre 31. Octobre, [3366]à Cirey. 1737. tome 1.r de la
Correspondance de Frédéric II, Roi de Prusse, 10e de la collection
des Oeuvres Complettes de Frédéric II, Roi de Prusse, 1790. p.142.
(6. Sett. 1823.)
La lingua latina s'introdusse, si
piantò e rimase in quelle parti d'Europa nelle quali entrò
anticamente e si stabilì la civilizzazione. Ciò non fu che nella
Spagna e nelle Gallie. Quella fino dagli antichi tempi produsse i Seneca,
Quintiliano, Columella, Marziale ec. poi Merobaude, S. Isidoro ec. e altri
moltissimi di mano in mano, i quali divennero letterati e scrittori latini,
senza neppure uscire, come quei primi, dal loro paese, o quantunque in esso
educati, e non, come quei primi, in Roma. Le Gallie produssero Petronio
Arbitro, Favorino ec. poi Sidonio, S. Ireneo ec. La civiltà v'era
già innanzi i romani stata introdotta da coloni greci. Di più la
corte latina v'ebbe sede per alcun tempo. La Germania benchè soggiogata
anch'essa da' Romani, e parte dell'impero latino, non diede mai adito a civiltà
nè a lettere, nè a' buoni nè a' mediocri nè a'
cattivi tempi di quell'impero. Ella fu sempre barbara. Non si conta fra gli
scrittori latini di veruna latinità [3367](se non
dell'infimissima) niuno che avesse origine germanica o fosse nato in Germania,
come si conta pur quasi di tutte l'altre provincie e parti dell'impero romano.
Quindi è che la Germania benchè suddita latina, benchè
vicina all'Italia, anzi confinante, come la Francia, e più vicina assai
che la Spagna, non ammise l'uso della lingua latina, e non parla latino
(cioè una lingua dal latino derivata), ma conserva il suo antico idioma.
(Forse anche fu cagione di ciò e delle cose sopraddette, che la Germania
non fu mai intieramente soggiogata, nè suddita pacifica, come la Spagna
e le Gallie, sì per la naturale ferocia della nazione, sì per
esser ella sui confini delle romane conquiste, e prossima ai popoli d'Europa
non conquistati, e nemici de' romani, e sempre inquieti e ribellanti, onde ad
essa ancora nasceva e la facilità, e lo stimolo, e l'occasione, e
l'aiuto e il comodo di ribellare). Senza ciò la lingua latina avrebbe
indubitatamente spento la teutonica, nè di essa resterebbe maggior
notizia o vestigio che della celtica e dell'altre che la lingua latina spense
affatto in Ispagna e in [3368]Francia. Delle quali la teutonica non
doveva mica esser più dura nè più difficile a spegnere.
Anzi la celtica doveva anticamente essere molto più colta e perfetta o
formata che la teutonica, il che si rileva sì dalle notizie che s'hanno
de' popoli che la parlarono, e delle loro istituzioni (come de' Druidi, de'
Bardi, cioè poeti ec.), e della loro religione, costumi, cognizioni ec.
sì da quello che avanza pur d'essa lingua celtica, e de' canti bardici
in essa composti ec. L'Inghilterra par che ricevesse fino a un certo segno
l'uso della lingua latina, certo, se non altro, come lingua letterata e da
scrivere.[96]
Ella ha pure scrittori non solo dell'infima, ma anche della media
latinità, come Beda ec. Ma era già troppo tardi, sì
perchè la lingua latina era già corrotta e moribonda per tutto,
anche in Italia sua prima sede, sì perchè l'impero latino era nel
caso stesso. Quindi i Sassoni facilmente distrussero la lingua latina in
Inghilterra, ancora inferma e mal piantata, propria solo dei dotti (com'io
credo), e le sostituirono la [3369]teutonica, trionfando allo stesso
tempo (almeno in molta parte dell'isola) anche dell'idioma nazionale, indigeno,
e
volgare, cioè del celtico ec., al qual trionfo doveva pure aver
già contribuito la lingua latina, soggiogata poi anch'essa, e più
presto ed interamente dell'indigena, da quella de' conquistatori. Laddove nelle
Gallie i Franchi non poterono mica introdurre la lingua loro, benchè
conquistatori, nè estirpar la latina, ben radicata, e per lunghezza di
tempo, e perchè insieme con essa erano penetrati e stabiliti nelle
Gallie, i costumi, la civiltà, le lettere, la religione latina, e
perchè quivi detta lingua non era già propria ai soli dotti, ma
comune al volgo, ond'essi conquistatori l'appresero, e parlata ec. Così
dicasi de' Goti, Longobardi ec. in Italia; de' Vandali ec. in Ispagna. Che se
la lingua latina in Italia, in Francia, in Ispagna, trionfò delle lingue
germaniche benchè parlate da' conquistatori, può esser segno
ch'ella ne avrebbe pur trionfato nella Germania ov'elle parlavansi da'
conquistati, se non l'avessero impedito le cagioni dette di sopra.
Perocchè si vede che la lingua latina trionfava [3370]dell'altre,
non tanto come lingua di conquistatori e padroni, superante quella de'
conquistati e de' servi, nè come lingua indigena o naturalizzata,
superante le forestiere, avventizie e nuove; quanto come lingua colta e
formata, superante le barbare, incolte, informi, incerte, imperfette, povere,
insufficienti, indeterminate. Altrimenti non sarebbe stato, come fu, impossibile
ai successivi conquistatori d'Italia, Francia, Spagna, il far quello che i
latini ne' medesimi paesi, conquistandoli, avevano fatto; cioè
l'introdurre le proprie lingue in luogo di quelle de' vinti. Nel mentre che i
Sassoni in Inghilterra, certo nè più civili nè più
potenti de' Franchi, de' Goti, de' mori, ec. i Sassoni, dico, in Inghilterra, e
poscia i Normanni, trionfavano pur senza pena delle lingue indigene di
quell'isola, perchè mal formate ancor esse, benchè non affatto
barbare, ed anzi (p.e. la celtica) più colte ec. delle loro. Ma queste
vittorie della lingua latina sì nell'introdursi fra' conquistati, e
forestiera scacciare le lingue indigene; sì nel mantenersi malgrado i
conquistatori, e in luogo di cedere, divenir propria anche di questi, si
dovettero, come ho detto, in grandissima parte, alla civiltà dei [3371]costumi
latini e alle lettere latine con essa lingua introdotte o conservate: di modo
che detta lingua non riportò tali vittorie, solamente come colta e
perfetta per se, ma come congiunta ed appartenente ai colti e civili costumi,
opinioni e lettere latine. Perocchè, come ho detto, sempre ch'ella ne fu
disgiunta, cioè dovunque la civiltà e letteratura latina, e l'uso
del viver latino, o non s'introdusse, o non si mantenne, o scarsamente s'introdusse
o si conservò; nè anche s'introdusse la lingua latina, come in
Germania, o non si mantenne, come accadde in Inghilterra. E ciò si vede
non solo in queste parti d'Europa, che non ammisero la civiltà latina
per eccesso di barbarie, o che non ammettendola, restarono barbare; ma eziandio
in quelle dove una civiltà ed una letteratura indigena escluse la forestiera,
in quelle che non ammettendo i costumi nè le lettere latine, restarono
però, quali erano, civili e letterate, cioè nelle nazioni greche.
Le quali non ricevendo l'uso del viver latino, non ricevettero neppur la
lingua, benchè la sede dell'impero [3372]romano, e Roma e il
Lazio, per così dire, fossero trasportate e lunghissimi secoli
dimorassero nel loro seno. Ma la Grecia contuttociò non parlò mai
nè scrisse latino, ed ora non parla nè scrive che greco. Ed essa
era pur la parte più civile d'Europa, non esclusa la stessa Roma, al
contrario appunto della Germania. Sicchè da opposte, ma analoghe e
corrispondenti e ragguagliate e proporzionate, cagioni, nacque lo stesso
effetto.
Tutto ciò che ho detto
dell'Inghilterra si rettifichi consultando gli storici, e quello che altrove ho
scritto circa l'uso della lingua latina in quel paese e nella Scozia e nell'Irlanda.
(6. Settembre. 1823.)
Dialetti della lingua latina. Vedi Cic. pro
Archia poeta, c.10.. fine, dove parla de' poeti di Cordova pingue quiddam sonantibus
atque peregrinum. Non avevano certamente questi poeti scritto nella lingua
indigena di Spagna, che i romani mai non intesero, siccome niun'altro idioma
forestiero, eccetto il greco; ma in un latino che sentiva di Spagnolismo, come
quel di Livio parve [3373]sapere di Patavinità. E le parole di
Cicerone, chi ben le consideri anche in se stesse, non possono significare
altro. Perocchè era fuor di luogo la nota di peregrino se si
fosse trattato di una lingua forestiera, che non in parte, o per qualche
qualità, ma tutta è peregrina; nè questo in lei sarebbe
stato difetto, e volendolo considerar come tale, soverchiamente leggiera e
sproporzionata sarebbe stata quella semplice espressione che la lingua e lo
stile di quei poeti sapeva di forestiero. Oltrechè l'una e l'altro
sarebbero stati barbari, e per le orecchie romane affatto strani, rozzi, insolenti,
insopportabili, non così solamente macchiati d'un non so che di pingue e
di peregrino. Era in Cordova introdotta già (siccome in altre parti
della Spagna già soggiogate, perchè quella provincia non fu
sottomessa che appoco appoco, e con grandissimo intervallo una parte dopo
l'altra, e, come osserva Velleio,[97] fu
di tutte la più renitente, e tra le romane conquiste la più lunga
e difficile e per lungo tempo incertissima); era, dico, introdotta già
in Cordova la lingua e la letteratura latina, siccome [3374]dimostra
l'aver essa poi potuto produrre i Seneca e Lucano, l'esempio dello stile de'
quali, può (quanto allo stile) servire pur troppo di copioso commento
alle parole di Cicerone, che, s'io non m'inganno, della lingua non meno che
dello stile si debbono intendere.
(6. Settem. 1823.)
Dico in più luoghi che la natura non
ingenera nell'uomo quasi altro che disposizioni. Or tra queste bisogna
distinguere. Altre sono disposizioni a poter essere, altre ad essere. Per
quelle l'uomo può divenir tale o tale; può, dico, e non
più. Per queste l'uomo, naturalmente vivendo, e tenendosi lontano
dall'arte, indubitatamente diviene quale la natura ha voluto ch'ei sia,
bench'ella non l'abbia fatto, ma disposto solamente a divenir tale. In queste
si deve considerare l'intenzione della natura: in quelle no. E se per quelle
l'uomo può divenir tale o tale, ciò non importa che tale o tale
divenendo, egli divenga quale la natura ha voluto ch'ei fosse: perocchè
la natura per quelle disposizioni non ha fatto altro che lasciare all'uomo la
possibilità di divenir tale o tale; nè quelle sono [3375]altro
che possibilità. Ho distinto due generi di disposizioni per parlar
più chiaro. Ora parlerò più esatto. Le disposizioni
naturali a poter essere e quelle ad essere, non sono diverse individualmente
l'une dall'altre, ma sono individualmente le medesime. Una stessa disposizione
è ad essere e a poter essere. In quanto ella è ad essere, l'uomo,
seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da circostanze non naturali,
non acquista che le qualità destinategli dalla natura, e diviene quale
ei dev'essere, cioè quale la natura ebbe intenzione ch'ei divenisse,
quando pose in lui quella disposizione. In quanto ella è disposizione a
poter essere, l'uomo influito da varie circostanze non naturali, siano
intrinseche siano estrinseche, acquista molte qualità non destinategli
dalla natura, molte qualità contrarie eziandio all'intenzione della
natura, e diviene qual ei non dev'essere, cioè quale la natura non
intese ch'ei divenisse, nell'ingenerargli quella disposizione. Egli però
non divien tale per natura, benchè questa disposizione sia naturale:
perocchè essa disposizione non era ordinata a questo [3376]ch'ei
divenisse tale, ma era ordinata ad altre qualità, molte delle quali
affatto contrarie a quelle che egli ha per detta disposizione acquistato.
Bensì s'egli non avesse avuto naturalmente questa disposizione, egli non
sarebbe potuto divenir tale. Questa è tutta la parte che ha la natura in
ciò che tale ei sia divenuto. Siccome, se la disposizion fisica del
nostro corpo non fosse qual ella è per natura, l'uomo non potrebbe, per
esempio, provare il dolore, divenir malato. Ma non perciò la natura ha
così disposto il nostro corpo acciocchè noi sentissimo il dolore
e infermassimo; nè quella disposizione è ordinata a questo, ma a
tutt'altri e contrarii risultati. E l'uomo non inferma per natura; bensì
può per natura infermare; ma infermando, ciò gli accade contra
natura, o fuori e indipendentemente dalla natura, la quale non intese disporlo
a infermare.
Similmente si discorra degli altri animali,
e di mano in mano degli altri generi di creature, con quest'avvertenza
però e con questa proporzione, che negli altri animali, le disposizioni [3377]ingenite
sono più ad essere che a poter essere; il che vuol dire che gli animali
sono naturalmente meno conformabili dell'uomo; che essi per le loro naturali
disposizioni, non solo non debbono acquistare altre qualità che le
destinate loro dalla natura, il che è proprio anche dell'uomo, ma non
possono acquistarne molto diverse da queste, come l'uomo può; non
possono acquistar tante e così varie qualità, come l'uomo
può, per essere sommamente conformabile: in fine che le loro naturali
disposizioni non rendono possibile tanta varietà di risultati, non
possono esser così diversamente applicate e usate come quelle dell'uomo.
Ond'è che gli animali non acquistino quasi altre qualità che le
destinate loro dalla natura, non divengano se non quali la natura gli ha
voluti, quali ella intese che divenissero nel dar loro quelle disposizioni. Il
che vuol dire ch'ei si mantengono nello stato naturale; che non è altro
se non quello che ho detto, cioè divenir tali quali la natura ha inteso;
perchè nè anche gli animali nascono, ma divengono; nè la [3378]natura
ingenera in essi delle qualità, ma delle disposizioni, ben più
ristrette che quelle dell'uomo. In questo modo e con questa proporzione
passando ai vegetabili, e quindi scendendo per tutta la catena degli esseri,
troverete che le naturali disposizioni sono di mano in mano sempre maggiormente
ad essere che a poter essere, cioè si restringono, finchè
gradatamente si arrivi a quegli enti ne' quali la natura non ha posto
disposizioni nè ad essere nè a poter essere, ma solo
qualità. Del qual genere io non credo che alcuna cosa si possa in
verità trovare, esattamente e strettamente parlando, ma largamente si
potrà dire che di tal genere sia questo nostro globo tutto insieme
considerato e rispetto al sistema solare o universale, e similmente i pianeti e
il sole e le stelle e gli altri globi celesti. Ne' quali e ne' moti loro, e per
dir così, nella vita, e nell'esistenza rispettiva degli uni agli altri,
niun disordine si può trovare, niuna irregolarità, niun morbo,
niuna ingiuria, niun accidente, successo o effetto che sia contro nè
fuori delle intenzioni avute dalla natura nel porre in essi le qualità
che ci ha posto; dico le qualità rispettive [3379]che hanno gli
uni verso gli altri, le quali negli effetti e nell'uso loro sempre e
interamente corrispondono alle primitive destinazioni della natura, e
immutabilmente serbano ed efficiunt quell'ordine dell'universo che la
natura volle espressamente e vuole, e quella vita o esistenza ch'essa natura
gli ha destinata, e tale nè più nè meno quale ella intese
e ordinò che fosse. Da questo genere di esseri rimontando indietro per
insino all'uomo, troveremo sempre di mano in mano decrescere secondo l'ordine
delle specie e de' generi, il numero e l'efficacia e importanza delle qualità
ingenerate in ciascun di essi generi o specie dalla natura, e crescere
altrettanto il numero o l'estensione, la varietà o piuttosto la
variabilità o adattabilità delle disposizioni in esse
dalla natura ingenerate: e queste disposizioni esser da principio solamente, o
quasi del tutto, ad essere, poscia eziandio a poter essere, e ciò sempre
più, salendo pe' vegetabili ai polipi, indi per le varie specie d'animali
fino alla scimia, e all'uomo salvatico, e da queste specie all'uomo. Nella cui
parte che si chiama morale o spirituale, troveremo, come ho detto, che [3380]la
natura non ha posto di sua mano quasi veruna qualità determinata, se non
pochissime, e queste, semplicissime: tutto il resto disposizioni, non solo ad
essere, ma a poter essere tante cose, ed acquistare tanto varie qualità,
quanto niun altro genere di enti a noi noti. E per questa scala ascendendo,
troveremo colla medesima gradazione, che quanto minore in ciascun genere o
specie è il numero e il valore delle qualità ingenite e naturali,
quanto maggiore quello delle disposizioni altresì naturali, e quanto maggiormente
queste disposizioni sono a poter essere (ossia divenire), tanto maggiore
esattamente in ciascuno d'essi generi o specie, e nell'esistenza loro, e negli
effetti loro sopra se stessi e fuor di se stessi è il numero e la
grandezza de' disordini, delle irregolarità de' morbi, de' casi, degli
accidenti, de' successi non naturali, non voluti o espressamente disvoluti
dalla natura, contrarii alle intenzioni e destinazioni fatte dalla natura nel
formare quei tali generi o specie, e nel così disporli com'essa li
dispose, sì rispetto a se stessi, sì riguardo agli altri generi e
specie a cui essi hanno relazione, ed all'intera [3381]università
delle cose. Tutto ciò troverassi nelle meteore, ne' vegetabili, negli
animali sopra tutto, e fra gli animali, sopra tutti nell'uomo, ossia nel genere
umano. Perocchè il vivente è meno dell'altre cose tutte composto
di qualità naturali, e più di disposizioni; e tra' viventi l'uomo
in massimo grado. Nel quale è maggior la vita che negli altri viventi; e
la vita si può, secondo le fin qui dette considerazioni, definire una
maggiore o minore conformabilità, un numero e valore di disposizioni
naturali prevalente in certo modo (più o meno) a quello delle ingenite
qualità. Massime rispetto allo spirituale, all'intrinseco, a quello che,
propriamente parlando, vive; a quello in che sta propriamente e si esercita la
vita, in che siede il principio vitale, e la facoltà dell'azione sia
interna sia esterna, cioè la facoltà del pensiero e della
sensibile operazione. ec. Nella qual facoltà consiste propriamente la
vita ec. (6-7. Settembre. 1823.). Per lo contrario le cose che meno partecipano
della vita sono quelle che per natura hanno meno di qualità e più
di disposizione, cioè le meno conformabili naturalmente. E se v'ha cosa
che non sia punto conformabile naturalmente, quella niente partecipa della
vita, ma solo esiste; quella è che si dee propriamente [3382]chiamare
semplicemente e puramente esistente ec. ec. ec.
(8. Sett. Natività di Maria Santissima. 1823.)
Alla p.3343. marg. È da notare che
tutti questi nomi per etimologia non significano propriamente altro che misero,
afflitto, ec. o povero ec. o fatichevole ec., ovvero miseria,
calamità, povertà, laboriosità ec. E che in processo
di tempo, molti di essi, e forse i più, perduta o fatta men comune e
antiquata o poetica ec. questa significazione non ritennero nell'uso ordinario
che quella di ribaldo, cattivo, scellerato, malvagità, nequizia
ec. quasi fosse impossibile che il misero non fosse malvagio. Probabilmente la
distinzione tra miser
e improbus, e la
diversa accentazione, non vien che da' grammatici greci, i quali non
considerarono i tanti altri esempi di voci sì greche sì
forestiere che riuniscono l'una e l'altra significazione, e non avvertirono che
la seconda è un vero e mero traslato della prima.
(8. Sett. Natività di Maria Vergine
Santissima. 1823.) V. 823.
È tanto mirabile quanto vero, che la
poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la
filosofia ch'essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più
contraria al bello; sieno le facoltà le [3383]più affini
tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran
filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi nè l'uno
nè l'altro non può esser nel gener suo nè perfetto
nè grande, s'ei non partecipa più che mediocremente dell'altro
genere, quanto all'indole primitiva dell'ingegno, alla disposizione naturale,
alla forza dell'immaginazione. Di ciò ho detto altrove. Le grandi verità,
e massime nell'astratto e nel metafisico o nel psicologico ec. non si scuoprono
se non per un quasi entusiasmo della ragione, nè da altri che da chi
è capace di questo entusiasmo. (Eccetto ch'elle sieno scoperte appoco
appoco, piuttosto dal tempo e dai secoli, che dagli uomini, in guisa che a
nessuno in particolare possa attribuirsene il ritrovamento, il che spesso
accade). La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le
sommità dell'umano spirito, le più nobili e le più
difficili facoltà a cui possa applicarsi l'ingegno umano. E malgrado di
ciò, e dell'esser l'una di loro, cioè la poesia, la più
utile veramente di tutte le facoltà, sì la poesia, [3384]come
la filosofia sono del pari le più sfortunate e dispregiate di tutte le
facoltà dello spirito. Tutte l'altre dànno pane, molte di loro
recano onore anche durante la vita, aprono l'adito alle dignità ec.:
tutte l'altre, dico, fuorchè queste, dalle quali non v'è a sperar
altro che gloria, e soltanto dopo la morte. Povera e nuda vai, filosofia.[98] Della
sorte ordinaria de' poeti mentre vivono, non accade parlare. Chi s'annunzia per
medico, per legista, per matematico, per geometra, per idraulico, per filologo,
per antiquario, per linguista, per perito anche in una sola lingua; il pittore
eziandio e lo scultore e l'architetto; il musico, non solo compositore ma
esecutore, tutti questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati
nelle conversazioni e nella vita civile con istima, ricercati ancora, onorati,
invitati, e quel ch'è più premiati, arricchiti, elevati alle
cariche e dignità. Chi s'annunzia solo per poeta o per filosofo,
ancorch'egli lo sia veramente, e in sommo grado, non trova chi faccia caso di
lui, non ottiene neppure ch'altri gli parli con leggiere testimonianze di
stima. La ragione si è che tutti si credono esser filosofi, [3385]ed
aver quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero metterlo in opera, o
poterlo facilissimamente acquistare e adoperare. Laddove chi non è
matematico, pittore, musico ec. non si crede di esserlo, e riguarda come
superiori per questo conto a lui ed al comune degli uomini, quei che lo sono.
Il genio, da cui principalmente pende e nasce la facoltà poetica e la
filosofica, non si misura a palmi, come ciò che si richiede a esser medico
o geometra. Quindi nasce che quello ch'è più raro tra gli uomini
tutti si credano possederlo. E quindi è che le due più nobili,
più difficili e più rare, anzi straordinarie, facoltà, la
poesia e la filosofia, tutti credano possederle, o poterle acquistare a lor
voglia. Oltre che il genio non può essere nè giudicato, nè
sentito, nè conosciuto, nè aperçu che dal genio. Del quale
mancando quasi tutti, nol sentono nè se n'avveggono quand'ei lo trovano.
E il gustare, e potere anche mediocremente estimare il valor delle opere di
poesia e di filosofia, non è che de' veri poeti e de' veri filosofi, a
differenza delle opere dell'altre facoltà. ec.
[3386]E qui si consideri il divario
fra gli antichi e i moderni tempi. Chè fra gli antichi i filosofi, e
massime i poeti, avevano senza contrasto il primo luogo, se non nella fortuna
(molti filosofi l'ebbero ancora nella fortuna, come Pitagora, Empedocle,
Archita, Solone, Licurgo ed altri de' più antichi, che furono padroni
delle rispettive repubbliche), certo nella estimazion pubblica, non solo dopo
morte, ma durante la loro vita. E pure molti più erano allora che
oggidì quelli che potevano esser poeti, perchè l'immaginazione
era signora degli uomini; e la debole filosofia di que' tempi non distingueva
gran fatto i filosofi da' volgari, nè molto si richiedeva per giungere
alle loro cognizioni, e per salire alla loro altezza. - ec. ec.
(8. Sett. Natalizio di Maria Vergine
Santissima. 1823.)
Alla p.3205. Un suono dolce o penetrante,
indipendentemente dall'armonia o melodia che può sembrare aver rapporto
alle idee, gli odori, il tabacco ec. influiscono sull'immaginazione
massimamente, e v'influiscono in modo al tutto fisico, cioè senz'alcun
rapporto per se stessi alle idee. Laddove quegli oggetti che agiscono sull'immaginazione
[3387]e la risvegliano ec. per mezzo del senso della vista, lo fanno
eccitando certe idee apposite, legate a quei tali oggetti o per la lor propria
forma, o per le rimembranze ch'essi destano nella memoria, o per immagini
adeguate e analoghe in qualunque modo a quella tal vista ec. Niente di
ciò accade nel suono semplicemente considerato, negli odori, nel tabacco
ec. se non accidentalmente, ed anche fuori di tale accidente, quelle cose
influiscono a dirittura sulla facoltà immaginativa. Così
discorrasi anche della luce per se stessa e indipendentemente dagli oggetti
ch'ella ci discuopre allo sguardo; perocchè anche la luce per se
influisce e sveglia fisicamente la facoltà immaginativa, senza relazione
propria e particolare a veruna idea. Certo l'immaginazione è visibilmente
sottoposta a mille cause totalmente fisiche, che la commuovono e scuotono, o
l'assopiscono e intorpidiscono, la sollevano o la deprimono, l'eccitano o la
raffrenano, la scaldano o l'agghiacciano. Se dunque l'immaginazione, [3388]perchè
non l'ingegno? mentre quella è pure una facoltà tutta spirituale,
o tutta appartenente a ciò che nell'uomo si considera come spirito;
è una parte o facoltà dell'animo solo, dello spirito ec. e dello
stesso ingegno.
(9. Settembre. 1823.). V. p.3552.
Molti presenti italiani che ripongono tutto
il pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano
affatto, anzi neppur concepiscono, la novità de' pensieri, delle
immagini, de' sentimenti; e non avendo nè pensieri, nè immagini,
nè sentimenti, tuttavia per riguardo del loro stile si credono poeti, e
poeti perfetti e classici; questi tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si
dicesse, non solamente che chi non è buono alle immagini, ai sentimenti,
ai pensieri non è poeta, il che lo negherebbero schiettamente o
implicitamente;[99]
ma che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può
nè possedere un buono stile poetico, nè tenerne l'arte, nè
eseguirlo, nè giudicarlo nelle opere proprie nè nelle altrui; che
l'arte e la facoltà e l'uso dell'immaginazione e dell'invenzione
è tanto indispensabile allo stile [3389]poetico, quanto e forse
ancor più ch'al ritrovamento, alla scelta, e alla disposizione della
materia, alle sentenze e a tutte l'altre parti della poesia ec. (Vedi a tal
proposito la p.2978-80.) Onde non possa mai esser poeta per lo stile chi non
è poeta per tutto il resto, nè possa aver mai uno stile veramente
poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha abitudine,
di sentimento di pensiero di fantasia d'invenzione, insomma
d'originalità nello scrivere.
(9. Sett. 1823.)
La lingua spagnuola, secondo me, può
essere agli scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile
novità ond'essi arricchiscano la nostra lingua, massimamente di
locuzioni e di modi.
1° Io penso che niuno possa pienamente
discorrere di niuna delle cinque lingue che compongono la nostra famiglia,
ciò sono greca, latina, italiana, spagnuola, e francese, s'egli non le
conosce più che mediocremente tutte cinque.
2° La lingua spagnuola è sorella carnalissima
della nostra. Or come sia ragionevole il derivar [3390]nuove ricchezze
nella lingua propria dalle lingue sorelle, vedi, fra l'altre, p.3192-6.
3° La potenza avuta dagli Spagnuoli in
Europa, e in Italia nominatamente, al tempo appunto che la lingua e letteratura
nostra si formava e perfezionava, ciò fu nel cinquecento,[100] a
fece che molte voci e molte più locuzioni e forme spagnuole fossero, non
solo dal volgo e nel discorso familiare, ma dai dotti e dai letterati nella lingua
scritta ed illustre italiana introdotte o accettate in quel secolo e nel
seguente eziandio (dal Redi, dal Salvini, dal Dati ec. V. p. es. la Crusca in alborotto,
verdadiero Dallo spagnuolo viene l'avv. giacchè o già
che per poichè, usitatissimo appo i nostri migliori del
seicento). Perocchè la lingua spagnuola era a quel tempo generalmente
studiata, intesa, parlata, scritta, e fino stampata, in Italia. (V. Speroni
Oraz. in lode del Bembo nelle Orazz. Ven. 1596: p.144; Caro Lett. vol.2.
lett.177.) E questa è primieramente un'ottima ragione perchè
dalla lingua spagnuola si possa ancora [3391]attingere, dico l'essersene
già molto attinto. Così sempre accade nelle lingue. Il già
tolto d'altronde e naturalizzato, prepara gli orecchi e il gusto a quello che
si voglia ancor torre dallo stesso luogo, appiana la strada, apparecchia quasi
il posto e il letto alle novità che dalla medesima fonte si vogliano
dedurre, e ne facilita l'introduzione. Il canale è scavato, nè fa
di bisogno fabbricarlo; sta allo scrittore il dar corso per esso alle acque,
giusta la misura che gli paia opportuna. Aggiungasi a questo, che tale
commercio onde la lingua italiana si arricchì della spagnuola, fu, come
ho detto, nel secolo in che la nostra lingua si formò e
perfezionò, e prese o determinò il suo carattere, cioè nel
cinquecento; ond'è ben naturale che molte parti della lingua spagnuola
non ancora da noi ricevute, convengano e consuonino colle proprietà
della nostra lingua, poichè non poche forme e locuzioni, ed anche non
poche voci spagnuole e significazioni di voci, entrarono nella composizione della
nostra lingua appunto quand'ella ricevè la sua piena forma e
perfezionamento e la distinta specifica impronta del suo [3392]carattere.
Finalmente è da osservarsi che mentre i nostri antichi non solo nel
cinquecento, ma fin dal ducento e dal trecento introdussero nella lingua nostra
moltissime voci, locuzioni e forme francesi che ancora in buona parte vi si
conservano, queste, da tanto tempo in qua, e similmente quelle altre infinite
che i moderni v'introdussero e v'introducono tuttavia, serbano sempre, chi ben
le guarda, una sembianza e una fisonomia di forestiere, massime le locuzioni e
forme. Laddove le frasi e i modi, ed anche i vocaboli spagnuoli introdotti
nella nostra lingua, stanno e conversano in essa colle nostre voci italiane
così naturalmente che paiono non venuti ma nati, non ispagnuoli ma
italiani quanto alcun altro mai possa essere e quanto lo sono i nostri propri
vocaboli. Anzi io so certo che pochissimi, ma veramente pochissimi, sanno, o
sapendo, avvertono questi tali esser modi e vocaboli o significati d'origine
spagnuola. Ben ne veggo assai sovente de' riputati e battezzati per purissimi
italiani natii.[101]
Nè me ne maraviglio, perocchè in essi la differenza dell'origine
nulla si sente, ed è possibile il saperla, ma [3393]non il
sentirla. E non voglio tacere che delle tante parole, frasi e forme francesi
introdotte da' nostri antichi, sia ducentisti, sia trecentisti, sia
cinquecentisti, sia secentisti, nell'italiano, grandissima parte, e forse la
maggiore, è uscita dall'uso nostro ed antiquata per modo che
oggidì nemmeno il più sfrontato e impudente gallicista e
parlatore o scrittore di francese maccheronico sarebbe ardito di usarle. E
ciò, quanto a quelle che furono tra noi usate nel ducento o nel trecento,
è accaduto da gran tempo in qua, cioè fino dal cinquecento, nel
qual secolo le antiche voci francesi-italiane che oggi più non s'usano,
erano parimente quasi tutte dimenticate, benchè delle altre se ne
introducessero. Ma delle voci e maniere spagnuole introdotte fra noi, ben poche
o la minor parte, o certo in assai minor numero che delle francesi, si trovano
oggidì esser cadute dell'uso nostro. Le altre han posto da gran tempo
saldissime radici nella lingua italiana, come quelle che l'hanno trovata esser
terreno proprio da loro, e tale che l'esservi esse state [3394]piuttosto
traspiantate che prodotte spontaneamente e primieramente, sia piuttosto caso
che natura.
4° La lingua spagnuola è carnal
sorella dell'italiana, non di famiglia solo e di nascita e di eredità,
ma di volto, di persona e di costumi. Nè la lingua francese se le
può paragonare per questo conto, non più ch'ella si possa
comparare all'italiana o alla spagnuola per conto della somiglianza, sia
esteriore sia interiore, colla madre comune. La lingua spagnuola è piuttosto
altra che diversa dall'italiana. Ed era ben ragione che così fosse,
perocchè l'Italia, la Spagna e la Grecia sono in Europa per natura di
clima, di terreno e di cielo le più conformi provincie meridionali.[102] Or
tra queste, la Spagna e l'Italia avendo l'una dato, l'altra ricevuto una stessissima
lingua, era ben naturale che in processo di tempo ambedue riuscissero tanto e
niente meno conformi di linguaggio, quanto a due separate nazioni è possibile
il più. Laddove la Francia che una medesima lingua ricevè
dall'Italia ancor essa, partecipando però del settentrionale [3395]e
pel clima e per l'indole e per gli avvenimenti che la storia descrive,
settentrionalizzò la sua ricevuta lingua, e fecene un misto nuovo, suo
proprio e bello, come altrove s'è detto. E intanto allontanandosi da'
suoni dalle forme e dal genio della lingua madre, l'idioma francese col
medesimo passo si divise eziandio dall'indole, dallo spirito e dalla
qualità de' suoni delle lingue sorelle, che sempre alla madre si attennero
quanto comportarono i tempi e le circostanze; e che quantunque inondate ancor
esse dalle lingue settentrionali, pure per la totale diversità del clima
e dell'indole delle loro regioni, se ne mantennero così pure, che
pervenute per così dire a seccarle, soltanto pochissime parole, niuna
forma, niuna qualità appartenente al genio ed all'indole, si trovarono
averne contratto. Veramente la lingua spagnuola e per carattere e per forme e
per costrutti e per suoni e per che che sia, è così conforme
all'italiana, che altre due lingue colte così tra loro conformi non si
trovano ch'io mi creda, nè mai, ch'io sappia, si ritrovarono. [3396]E
più conformi sarebbero le suddette due lingue se la Spagna avesse avuto
e potesse vantare più vasta, copiosa e varia, più lunga, e
più perfetta letteratura, ch'ella non ebbe. Dico sarebbono più
conformi per ciò che tocca alla quantità, come dire alla
ricchezza, alla varietà e cose tali. Chè per certo non
mancò alla lingua spagnuola se non quello che ho detto, per essere anche
in queste parti comparabile alla lingua italiana; per esserlo cioè in
tutto, anche nella quantità, siccom'essa lo è nella
qualità, eccetto solamente che ancor nelle sue qualità
ell'è meno perfetta dell'italiana. Del rimanente ella, quanto alla
qualità, non potrebbe quasi essere più conforme alla nostra di
quel ch'ella sia.
5° Nè tale sarebbe se la letteratura
spagnuola, benchè cedendo d'assai all'italiana per la quantità,
non le fosse pari del tutto nella qualità, salvo la minore perfezione di
ciascun suo attributo. Le stesse cagioni, sì naturali, sì
accidentali, che ci resero gli spagnuoli così conformi di lingua, ce li
fecero altrettanto conformi [3397]nella letteratura. Nè poteva
essere altrimenti, perchè l'una e l'altra vanno sempre del pari. Certo
è che nel cinquecento, secolo aureo e principale non meno della lingua e
letteratura spagnuola che della italiana, il commercio tra queste due
letterature fu strettissimo, e l'influenza reciproca; bensì maggiore
d'assai quella dell'italiana sulla spagnuola che viceversa, perchè
l'italiana era di gran lunga maggiore, e portata ad un alto grado già
molto prima, cioè nel 300. Laonde, se imitazione vi fu, non è
dubbio che gli spagnuoli imitarono, e gli scrittori italiani furono loro
modelli. Ma senza più stendersi in questo, egli è certissimo ed evidente
che il buono e classico stile spagnuolo e lo stile italiano buono e classico,
salvo che quello è meno perfetto, non sono onninamente che uno solo. Ora
quanta parte abbia la lingua nello stile,[103]
quanta influenza lo stile nella lingua, come sovente sia difficile e quasi
impossibile il distinguere questa da quello, e le proprietà dell'una da
quelle dell'altro, o si parli di uno scrittore e di una scrittura
particolarmente, [3398]o di un genere, o di una letteratura in
universale; sono cose da me altrove accennate più volte. Basti ora il dire
che non si è mai per ancora veduto in alcun secolo, appo nazione alcuna,
stile corrotto o barbaro e rozzo, e lingua pura o delicata, nè
viceversa, ma sempre e in ogni luogo la rozzezza, la purità, la
perfezione, la decadenza, la corruttela della lingua e dello stile si sono
trovate in compagnia.[104]
Chè se ne' nostri trecentisti la lingua è pura e lo stile
sciocco; 1° lo stile non pecca se non per difetto di virtù, per
inartifizio, e mancanza d'arte e di coltura, ma niun vizio ha e niuna
qualità malvagia; sicchè non può chiamarsi corrotto: 2° lo
stile de' trecentisti è semplice e nella semplicità energico,
come porta la natura, e tale nè più nè meno è la
lingua loro, la quale generalmente non ha pregio nessuno se non questi, che
sono pur pregi dello stile, ma non sempre, e che non bastano: 3° che che ne
dicano i pedanti, ogni volta che lo stile de' trecentisti pecca di rozzo, anche
la lor lingua è rozza; ogni volta che di barbaro, anche la lingua
è barbara; ogni volta che di eccessiva semplicità ed inartifizio,
anche la semplicità della [3399]lingua passa i termini,
com'è stato ben provato in questi ultimi tempi; e finalmente se talvolta
il loro stile è tumido, falso, o insomma corrotto comunque,
(benchè tal corruzione in loro sia piuttosto fanciullesca e d'ignoranza,
che manifestante il cattivo gusto, e la depravazione, che in essi non poteva
aver luogo), allora anche la lingua non è da noi chiamata pura, se non
perchè ed in quanto antica, secondo le osservazioni da me fatte altrove
circa quello che si chiama purità di lingua.
Adunque lo stile che colla lingua è
così strettamente legato, è lo stesso nello spagnuolo e
nell'italiano. Dico quello stile che dall'una e dall'altra nazione è
riconosciuto per classico. Ebbero anche i francesi nel medesimo secolo del cinquecento
uno stile conforme o quasi conforme allo spagnuola e all'italiano, ma esso non
è riconosciuto oggidì per classico da quella nazione, nè
per tale fu riconosciuto in quel secolo in che la letteratura francese
pigliò forma e carattere e perfezionossi, in somma nel secolo aureo che
dà legge [3400]e norma, generalmente parlando, alla lingua e
letteratura francese di qualunque secolo successivo. E se pur quello stile
talvolta è o fu riconosciuto per classico da' francesi (come in Amyot),
ciò è come un classico che essi non debbono seguire nè
imitare, un classico diverso da quello che è classico oggidì per
loro nelle scritture di questo secolo, un classico che in queste scritture sarebbe
vizio, anzi non si comporterebbe, anzi non senza fatica s'intenderebbe; una
lingua in somma e uno stile che, secondo confessano essi medesimi,
ancorchè bello e classico, non è più loro.
Lo stile e la letteratura spagnuola forma
veramente (quanto alla sua indole) una sola famiglia collo stile e letteratura
greca, latina e italiana. Lo stile e la letteratura francese per lo contrario
appartengono a una famiglia ben distinta dalla suddetta. La letteratura
francese insieme con quelle ch'essa ha prodotte, ciò sono la inglese del
tempo della regina Anna, la svedese, la russa, (e credo eziandio l'olandese),
forma in Europa, propriamente parlando, una terza distinta famiglia, un terzo
genere di letteratura e di stile: intendendo per seconda famiglia di letterature
[3401]europee quelle di carattere settentrionale, cioè l'inglese
de' tempi d'Ossian e di quelli di Shakespeare, e la moderna ch'è una
continuazione di questa, la tedesca, l'antica scandinava, illirica, e simili.
(Sebbene il carattere scandinavo e illirico, sì delle nazioni, sì
delle letterature, è distinto dal teutonico ec. Ma non esiste
letteratura scandinava nè illirica, se non antica e mal nota,
perchè la presente letteratura Svedese, Danese, russa ec. non è
che francese. Staël nel principio dell'Alemagna).[105]
Come altrove ho detto della lingua, così della letteratura e dello stile
francese si deve dire. Essi tengono il mezzo tra il meridionale e il
settentrionale, tra il classico e il romantico; essi formano una categoria propria,
niente meno diversa e distinta da quella delle letterature e stili greco, latino,
italiano classico, spagnuolo classico, e dall'indole e spirito loro, di quel
ch'ella sia dalle letterature inglese moderna, tedesca, e loro affini o
simiglianti. V. p.3559.
Quel carattere di nobiltà, di
dignità, di ardire, di semplicità, di naturalezza ec. ec. che
distingue [3402]gl'idiomi e gli stili greco e latino, non si possono in
alcuna lingua del mondo, nè moderna nè antica, esprimer meglio
nè più spontaneamente e naturalmente che nella italiana e nella
spagnuola, e negli stili riconosciuti respettivamente per classici appo queste
due nazioni: nè si potrebbero, assolutamente parlando, esprimer meglio
di quello che queste due lingue e questi due stili possano fare. Dico possano
fare, perchè lo spagnuolo non lo ha forse ancora mai fatto
perfettamente, benchè la sua indole e lo comporti e lo richiegga. Dico
quel tal carattere identico di nobiltà ec. proprio della lingua e stile
greco e latino. Le qualità medesime in genere, come la nobiltà in
genere ec. possono esser proprie anche del francese e del tedesco e d'ogni
lingua colta, ma quel tal carattere individuale e identico di nobiltà
ec. che distingue i suddetti stili greco e latino, non solo non lo richieggono
nè l'amano, ma in niun modo lo comportano, gli stili francese, inglese
ec. Questi possono esser nobili, ma in altro modo; semplici ma in diversissimo [3403]modo;
naturali ma tutt'altra naturalezza, perch'egli hanno tutt'altra natura, e
tutt'altro carattere hanno le rispettive nazioni, e tutt'altro per queste
è naturale; arditi, ma la lingua francese rispetto a se stessa solamente,
chè rispetto all'altre, e assolutamente parlando, è timidissima,
al contrario della greca e della latina, e della spagnuola e italiana
altresì: le restanti lingue e stili possono essere arditi, anche
più del greco e del latino, anche più dello spagnuolo e
dell'italiano, ma in tutt'altro modo.
E per recare un esempio; laddove la lingua e
lo stile spagnuolo e italiano si piegano naturalmente e quasi da se al dignitoso,
come il greco e il latino (che in qualunque genere e materia hanno sempre del
grave e dell'elevato), lo stile francese non ci si piega per niun modo, ma
sempre tira al familiare e al piano. Contuttociò egli pure ottiene di
staccarsi dal familiare e dal volgo, di sostenersi, d'innalzarsi; ma come? Con
un copiosissimo uso d'immagini, pensieri ed espressioni poetiche. [3404]E
non mezzanamente confusamente o solo in parte poetiche, ma forte espressa e
totalmente. Senza ciò non ottiene mai dignità ed elevazione, e
sempre tira al basso, e si accosta al discorso ordinario, allo stile parlato,
di conversazione ec. Ma ciò è ben diverso, e in certo senso,
contrario al modo in che i greci e i latini davano dignità ed elevatezza
al loro stile, in che gliene diedero i nostri classici e gli spagnuoli,
benchè non sempre perfetti nel loro genere di stile, come avrebbero e
potuto e dovuto essere, e come esigeva naturalmente esso genere di stile, e
l'indole stessa della lingua ec. Si possono vedere le pagg.3453. segg. e 3561.
segg. ec. Vedi quello che altrove ho detto sopra il poetico dello stile di
Floro, (v. p.3420.), e quello che ho detto sopra ciò, che la lingua
francese sempre prosaica nel verso, è oggimai sempre poetica nella
prosa; e altri tali pensieri.
Venendo alla conchiusione, ripeto che da una
lingua così conforme alla nostra, come ho mostrato essere la spagnuola,
per ogni verso, e per tante cagioni naturali, accidentali, intrinseche,
estrinseche ec.; da una lingua sorella com'essa è all'italiana; da una
lingua ec. ec.; molta bella ed utile novità possono trarre gli scrittori
italiani moderni, come ne trassero gli antichi e classici nostri. Ma voglio io
perciò introdotti nella lingua italiana degli spagnuolismi? Tanto come,
consigliando [3405]di attingere dal latino, intendo consigliare che
s'introducano nell'italiano de' latinismi.[106]
Sono nel latino molte parole, nello spagnuolo alcune, nel greco, nel latino e
nello spagnuolo moltissimi modi e forme di dire, (e molte significazioni di
vocaboli o modi già fatti italiani) le quali tutte non per altro non
sono italiane, se [non] perchè da veruno per anche non introdotte nella
nostra lingua. Adoperandole nell'italiano, elle sarebbero così bene
intese, cadrebbero così bene e facilmente, parrebbero così
spontanee e naturali, sarebbero così lontane da ogni sembianza
d'affettate, che niuno s'accorgerebbe non pur ch'elle fossero o greche o latine
o spagnuole anzi, o più, che italiane, ma neppur sentirebbe che fossero
nuove nella nostra lingua, nè se n'avvedrebbe in altro modo che ricercandone
espressamente il vocabolario. O se vi sentisse della novità, ne
sentirebbe quel tanto e non più, che dà grazia, eleganza, forza,
nobiltà, bellezza allo stile e alla lingua, e dividono l'una e l'altra
dal popolo, il che non pur è concesso ma richiesto al nobile scrittore
in qualunque genere. Queste [3406]voci, frasi, forme, benchè
latine, greche, spagnuole di origine; benchè non mai per l'innanzi usate
o sentite in italiano; introdotte che vi fossero, non sarebbero nè
latinismi nè grecismi nè spagnolismi, perchè non vi si
conoscerebbe nè la latinità, nè la grecità ec., o
se vi si conoscerebbe, non vi si sentirebbe, ch'è quel che importa;
nè vi si conoscerebbe che per cagioni estrinseche e proprie del lettore,
cioè per la cognizione che questi avrebbe di quelle lingue, e degli
scrittori italiani ec.; non per cagioni intrinseche, cioè proprie di
quella tale scrittura, stile ec. per le qualità di quelle tali voci,
frasi ec. rispetto alla lingua italiana o a quel tal genere e stile. Altre
voci, frasi, forme, significazioni sono in gran numero nelle dette lingue, che
si potrebbero pure utilissimamente introdurre nella italiana, ma non altrove
che in certi luoghi, con certi contorni, preparazioni ec. nè senza molta
avvertenza, arte, discrezione, giudizio dell'opportunità ec. Con le
quali condizioni, nè anche queste (che sono in molto maggior numero
dell'altre sopraddette) non riuscirebbero nè latinismi nè
grecismi ec. per le stesse ragioni. [3407]Ovunque si senta
latinità, grecità ec. o un sapore di non nazionale,
indipendentemente dalle cognizioni ec. del lettore, e per propria
qualità della parola o frase, o del modo in ch'ella è adoperata,
quivi è latinismo, grecismo ec. quivi barbarismo, quivi sempre vizio. E
siccome nei contrarii casi suddetti, malgrado la vera novità, niun vizio,
anzi pregio vi sarebbe; così in questo caso, niun pregio sarebbevi, e
sempre vizio, quando anche la novità non fosse vera, cioè quando
bene quella tal parola ec. avesse già esempio d'autor classico
nazionale, e n'avesse ancor molti; sia che in tutti questi ella stesse
parimente male, o che stando bene in questi, ella stesse male nel dato caso,
perchè non intelligibile o difficile a intendere, perchè male
adoperata, e senza i debiti riguardi, e in occasione e con circostanze non opportune
ec. Similmente accade e si dee discorrere intorno alle parole antiquate. La
novità in una lingua, o la rarità ec., insomma il pellegrino, da
qualunque luogo sia tolto (o da' forestieri, o dagli antichi classici nazionali
ec.), deve sempre parere una [3408]pianta, bensì nuova nel paese
o rara, ma nata nel terreno medesimo della lingua nazionale, e non pur della
nazionale, ma della lingua di quel secolo, della lingua conveniente a quel
genere a quello stile a quel luogo della scrittura. Sempre ch'ella par
forestiera (e recata d'altronde) per qualunque ragione, e in qualunque di
questi sensi, ella è cattiva. Nel caso contrario è sempre buona.
Lo studio della lingua greca, latina,
spagnuola, applicato a quello dell'italiana, non ci deve servire a latinizzare,
grecizzare ec. in niuna parte (sensibilmente) la nostra lingua. Esso ci deve
servire e ci serve mirabilmente a conoscere in quanti modi, niuno per anche usato,
si possa usare e rivolgere questa lingua italiana medesima che abbiam per le
mani, si possano comporre insieme, o adoperare per se stesse le sue parole,
frasi ec.[107]
Noi dobbiamo pescare in esse lingue, non latinismi, grecismi, ec. ma, per dir
così, voci e forme e frasi italiane non per anche usate; delle quali
esse lingue abbondano. Studiandole (siccome strettissimamente affini alla
nostra, alla sua indole) ec. noi ci avveggiamo [3409]che l'italiano
può adoperare un tal modo, forma, voce, significazione, ch'e' non ha mai
adoperato; la può adoperare, non perchè latina, greca, spagnuola,
ma perchè conforme all'indole dell'italiano stesso, perchè questa
lingua per se medesima, e tale qual ella è n'è capace;
perchè appunto adoperata nell'italiano, non parrà nè
latina nè greca nè spagnuola, ma parrà e sarà
subito italiana. (cioè sarà intesa subito, cadrà
naturalmente, o dovunque o in certi tali generi o luoghi, ec. ec.). Fatta
questa scoperta, e avvedutici di questa verità, della quale senza lo
studio di quelle lingue non avremmo avuto alcuna notizia, noi introduciamo
nell'italiano quella tal frase ec. da niuno ancora usata, e che noi, se la
lingua latina ec. non ce l'avesse mostrata, non avremmo potuto concepire e
immaginare e inventare da noi medesimi e mediante la sola cognizione della
nostra lingua, se non per caso.[108]
Così quelle lingue ci somministrano copiose novità, che non sono
nè latinismi nè grecismi, ec. ma italianismi o nuovi o rari, e
questi bellissimi e utilissimi, e insomma degnissimi d'entrare in uso. Nello
stesso modo che sono italianismi, [3410]e degnissimi d'entrare in uso,
infiniti vocaboli, locuzioni (significati) e forme nuove, che l'abile e
giudizioso e ben perito scrittore, può inesauribilmente e
incessantemente derivare, formare, comporre ec. dalle stesse radici, degli
stessi materiali, degli stessi capitali e fondi della lingua nostra,
profondamente conosciuti e perfettamente posseduti, seguendo sempre e
intieramente la vera indole e proprietà d'essa lingua, e conformandosi
con tutte le sue qualità sieno intrinseche, sieno estrinseche ec.
(9-10. Sett. 1823.)
Gli uomini che vivono in solitudine sono
inclinatissimi al metodo. Ma non tanto quelli che nella solitudine sono occupati,
o che perciò appunto vivono in solitudine, (ne' quali, siccome in tutti
quelli che sono molto occupati, il metodo e l'ordine dell'azioni sarebbe ragionevolissimo,
perchè l'ordine così di luogo come di tempo è sempre risparmio
dell'uno o dell'altro, e il disordine al contrario) quanto in quelli che nulla
hanno da fare, come malati cronici, carcerati, vecchi ritirati per
cagionevolezza dell'età, per debolezza, o per abito di pigrizia. Questi
sogliono esser metodici fino all'ultimo eccesso. Pare che l'uomo sia tanto
più [3411]geloso di ordinare la sua vita quanto meno ha da
occuparla, o quanto meno la occupa.[109]
Non potendo o non volendo impiegare il tempo, si occupa a regolarlo e partirlo
e distinguerlo. L'ordinare le sue operazioni diviene l'unica sua operazione e
occupazione. (11. Sett. 1823.). Io ho conosciuto uno di questi che dal capo al
piè della giornata non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi della
brevità del tempo, e che il giorno non bastava alle sue occupazioni
quotidiane; e perciò sopportava di mala voglia qualunque straordinaria distrazione
o altro, che gli occupasse alcun poco di tempo.
(11. Sett. 1823.)
Come altrove ho detto, la monarchia è
il più, anzi il solo, perfetto stato di società, perchè il
solo naturale, il solo primitivo, il solo comune agli animali che hanno qualch'ombra
di società, il solo che si trovi nel cominciamento di tutte le nazioni.
(In qual modo nascesse la monarchia, vedilo nel principio della Rep. di Aristotele,
che benissimo lo spiega, perocchè [3412]certo le nazioni o le
popolazioni non convennero mai espressamente di ubbidire ad alcuno, nè
mai diedero in niun modo i loro suffragi per li quali riuscisse eletto ad
unanimità un monarca, che in questa elezione fondasse di quindi innanzi
il diritto di comandarle.) Da questo principio segue che ogni repubblica o
stato franco, comunque antichissimo, comunque anteriore a quella civilizzazione
ch'è affine alla corruzione, comunque proprio eziandio di tempi e di popoli
affatto rozzi, od anche di tempi e popoli eroici e virtuosi e magnanimi ec.,
sempre ch'esso si trova in una società già formata, già
capace di tal nome, (sia antica, sia moderna, sia civile, sia selvaggia)
è indizio certo di corruzione di questa tal società, ed è
esso medesimo una corruzione del governo; il quale senza fallo, si sappia o non
si sappia dalla storia, prima fu monarchico; ond'esso stato franco è
indubitatamente in essa società una sorta di governo secondaria e non
primitiva, ma sottentrata in luogo della primitiva, e nata dalla corruzione di
questa, o certo della respettiva società.
(11. Settembre. 1823.). V. p.3517.
[3413]Alla p.2841. Sperone Speroni
nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta delle Orazioni sue
stampate in Ven. 1596. pag.144-5. poco innanzi il mezzo dell'orazione suddetta.
I medesimi verbi colla stessa construtione (p.145.) usa il volgar
poeta, (il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur
è lunge da quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et
qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare in
un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati
Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene
vantino, quando al modo, che da' Poeti è tenuto hanno affettato di
ragionare. Et chi questo non crede, vada egli a leggere il Decameron del
Boccaccio, terzo lume di questa lingua, et troveravvi per entro cento versi di
Dante così intieri, come li fece la sua comedia.[110]
Non parrebbe da queste parole che l'Italia non avesse lingua propriamente [3414]poetica,
o certo ben poco distinta dalla prosaica? E non è d'altronde manifesto
ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla prosaica che non
è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che non
è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad
intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, (lo
studio che ci vuole, e il divario tra il linguaggio della poesia latina
e della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte
delle trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte
è diversa) ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente
intendesse la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito
studio la poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'Italia non aveva
ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la
diversità del linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se
non lieve, e male o insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che
componevano con istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla
lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era similissima alla lingua
poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una colla prosaica.
Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300, volevano [3415]accostarsi
a quella del loro secolo, davano in uno stile familiare, bellissimo
bensì, ma poco diverso da quel della prosa. Testimonio l'Orlando
dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le rime, a questa
la misura (oltre le immagini e la qualità de' concetti ec.) in che eccedono
o di che mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E
paragonando il poema del Tasso (scritto nella propria lingua del suo tempo)
colle prose eleganti di quell'età, poco divario vi si potrà
scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti italiani del 500. furono
soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi sullo stile di
Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile riuscì ed è
necessariamente familiare, come ho detto altrove. Seguendo questo carattere, o
che i poeti del
In somma la lingua italiana non aveva ancora
bastante antichità, per potere avere abbastanza di quella
eleganza di cui qui s'intende parlare, e un linguaggio ben propriamente
poetico, e ben disgiunto dal prosaico. Le parole dello Speroni provano questa
verità, e questa le mie teorie a cui la presente osservazione si riferisce.
Il cui risultato è che dovunque non è sufficiente
antichità di lingua colta, quivi non può ancora essere la detta
eleganza di stile e di lingua, nè linguaggio poetico distinto e proprio
ec. (11. Sett. 1823.). Ho già detto altrove [3417]che non prima
del passato secolo e del presente si è formato pienamente e perfezionato
il linguaggio (e quindi anche lo stile) poetico italiano (dico il linguaggio e
lo stile poetico, non già la poesia); s'è accostato al Virgiliano,
vero, perfetto e sovrano modello dello stile propriamente e totalmente e
distintissimamente poetico; ha perduto ogni aria di familiare; e si è
con ben certi limiti, e ben certo, nè scarso, intervallo, distinto dal
prosaico. O vogliamo dir che il linguaggio prosaico si è diviso esso
medesimo dal poetico. Il che propriamente non sarebbe vero; ma e' s'è
diviso dall'antico; e così sempre accade che il linguaggio prosaico,
insieme coll'ordinario uso della lingua parlata, al quale ei non può
fare a meno di somigliarsi, si vada di mano in mano cambiando e allontanando
dall'antichità. I poeti (fuorchè in Francia)[111] serbano
l'antico più che possono, perch'ei serve loro all'eleganza, o
dignità ec. anzi hanno bisogno dell'antichità della lingua. E
così, contro quello [3418]che dee parere a prima giunta, i
più licenziosi scrittori, che sono i poeti, son quelli che più
lungamente e fedelmente conservano la purità e l'antichità della
lingua, e che più la tengon ferma, mirando sempre e continuando il
linguaggio de' primi istitutori della poesia ec. Dalla quale antichità
la prosa, obbligata ad accostarsi all'uso corrente, sempre più
s'allontana. Ond'è che il linguaggio prosaico si scosti per vero dire
esso stesso dal poetico (piuttosto che questo da quello) ma non in quanto poetico,
solo in quanto seguace dell'antico, e fermo (quanto più si può)
all'antico, da cui il prosaico s'allontana. Del resto il linguaggio e lo stile
delle poesie di Parini, Alfieri, Monti, Foscolo è molto più
propriamente e più perfettamente poetico e distinto dal prosaico, che
non è quello di verun altro de' nostri poeti, inclusi nominatamente i
più classici e sommi antichi. Di modo che per quelli e per gli altri che
li somigliano, e per l'uso de' poeti di questo e dell'ultimo secolo, l'Italia
ha oggidì una lingua poetica a parte, e distinta affatto dalla prosaica,
una doppia lingua, l'una prosaica l'altra [3419]poetica, non altrimenti
che l'avesse la Grecia, e più che i latini. Ed è stato anche
osservato (da Perticari sulla fine del Tratt. degli Scritt. del Trecento) che
nella universale corruzione della lingua e stile delle nostre prose e del
nostro familiar discorso accaduta nell'ultima metà del passato secolo, e
ancora continuante, la lingua de' poeti si mantenne quasi pura e incorrotta,
non solo ne' migliori o in chi pur seguì un buono stile, ma ne' pessimi
eziandio, e negli stili falsi, tumidi, frondosissimi, ridondanti, strani o imbecilli
degli arcadici, de' frugoniani, bettinelliani ec. Così pure era accaduto
ne' barbari poeti del secento. La cagione di ciò è facile a
raccorre da queste mie osservazioni, le quali sono ben confermate da questi
fatti. Laddove egli è pur certo che riguardo alla prosa, lo stile non si
corrompe mai che non si corrompa altresì la lingua, nè viceversa,
nè v'ha prosatore alcuno di stile corrotto e lingua incorrotta: del che
puoi vedere le pagg.3397-9.
(12. Sett. 1823.)
[3420]Opinione de' greci, anche
filosofi, e principali filosofi, sul giusto e l'ingiusto creduto altro verso i
greci, altro verso i barbari, non accidentalmente, ma naturalmente; sulla
supposta inferiorità di natura di questi a quelli; sul supposto naturale
diritto ne' greci di comandare a tutte l'altre nazioni, come per natura incapaci
di governarsi da se nè d'acquistare le facoltà a ciò
convenienti; sulla supposta servilità non di circostanza ma di natura
ne' barbari (cioè nei non greci), servilità creduta in essi
così universale, che l'esser molti di essi nella propria nazione servi,
era creduto irragionevole, perchè niuno nella loro nazione era stimato
aver dritto di comandarli, essendo tutta la nazione composta di soli servi per
natura. Vedi la Rep. d'Aristot. ediz. del Vettori, Firenze Giunti 1586. libro
1. p.7.31.32. libro 3. p.257. e le note del Vettori ai rispettivi luoghi. E
Plutarco t.2. p.329. B. ec. (12. Settembre 1823.). Opinione rinnovatasi presso
gli spagnuoli ec. quanto agli americani indigeni, ai negri ec. ec.
Alla p.3404. Quanto nel cit. pensiero ho
detto dello stile di Floro, si può, e meglio, applicare a quello di
Platone, riputato, sì quanto allo stile e a' concetti, sì quanto
alla dizione,[112]
esser [3421]quasi un poema (v. Fabric. B. G. in Plat. §.2. edit. vet.
vol.2. p.5.); e nondimeno sommo e perfetto esempio di bellissima prosa,
elegantissima bensì e soavissima (non meno che gravissima: suavitate
et gravitate princeps Plato: Cic. in Oratore), amenissima ec., ma pur verissima
prosa, e tale che la meno poetica delle moderne prose francesi (e mi contento
di parlare delle sole riconosciute per buone), è molto più
poetica di quella di Platone che tra le greche classiche è di tutte la
più poetica. Non altrimenti che molto più poetiche della prosa
platonica sono assaissime prose sacre e profane de' posteriori sofisti e de'
padri greci ec. la cui moltitudine avanza forse e senza forse quella che ci
rimane delle prose classiche antiche. Ma per vero dire, nè quelle son
prose, nè le moderne francesi lo sono, ma sofistumi l'une e l'altre,
quelle in ogni cosa, queste in quanto allo stile.
(12. Sett. 1823.)
Che i miracoli della musica, la sua natural
forza sui nostri affetti, il piacere ch'ella [3422]naturalmente ci reca,
la sua virtù di svegliar l'entusiasmo e l'immaginazione, ec. consista e
sia propria principalmente del suono o della voce, in quanto suono o voce
grata, e dell'armonia de' suoni e delle voci, in quanto mescolanza di suoni e
voci naturalmente grata agli orecchi; e non già della melodia; e che conseguentemente
il principale della musica e la considerazione de' suoi effetti non appartenga
alla teoria del bello proprio, più di quello che v'appartenga la considerazione
degli odori, sapori, colori assoluti ec., perocchè il diletto della
musica, quanto alla principale e più essenziale sua parte, non risulta
dalla convenienza; veggasi in questo, che non v'ha così misera melodia
che perfettamente eseguita da un istrumento o da una voce gratissima non
diletti assaissimo; nè v'ha per lo contrario così bella melodia
ch'eseguita p.e. con bacchette su d'una tavola, o su di più tavole che
rispondano a' diversi tuoni, o in qualsivoglia istrumento o voce ingratissima o
niente grata, rechi quasi diletto alcuno, e ciò quando anche ella sia
eseguita perfettamente rispetto a [3423]se stessa. E ben gli uomini si
sono potuti accorgere delle suenunciate verità in questi ultimi tempi,
ne' quali, per quello che se n'è detto, la sorprendente voce della
Catalani ha rinnovato quasi negli uditori i miracolosi effetti della musica
antica. Certo questi effetti non nascevano nè principalmente nè
essenzialmente nè quasi in parte alcuna dalle melodie. Le quali, oltre
che da mille altri potevano esser cantate, si sa poi ch'erano delle più
triviali ed insipide. Tutto il diletto era dunque originato dalla voce della
cantante, cioè dalle qualità d'essa voce che piacciono
naturalmente agli orecchi umani, tutte indipendenti dalla convenienza:
straordinaria dolcezza, flessibilità, rapidità, estensione ec.
voce canora, sonora, chiara, pura, penetrante, oscillante, tintinnante, simile
alle corde o ad altro istrumento musicale artefatto ec. ec.
Con queste osservazioni non farà
maraviglia che i barbari e anche gli animali sieno tanto dilettati dalla nostra
musica, benchè non assuefatti alle nostre melodie, e quindi non capaci
di conoscere nè di sentire quello che noi chiamiamo il bello musicale.
Non sono le melodie in se, nè la loro novità, che producono in
essi il [3424]diletto: sono gl'istrumenti e le voci, che presso noi sono
raffinate e perfette, queste coll'esercizio, coll'arte ec. quelli colle tante
invenzioni e perfezionamenti ec. Alla perfetta qualità di questi organi
unita l'arte di adoperarli perfettamente cioè di trarne de' suoni
più grati ec. che non ne trarrebbe chi non avesse alcun'arte; unitavi di
più l'arte di accordare insieme questi organi nel modo ch'è
naturalmente il più grato agli orecchi (come l'arte di mescolare e temperare
i sapori); ne risulta una dolcezza ec. che a' barbari riesce affatto nuova, e
che perciò produce in essi un piacer sommo ed effetti mirabili; piacere
ed effetti che niente hanno da far col bello, perchè niente colla
convenienza, se non con quella ch'è relativa alla naturale disposizione
degli orecchi, e che tanto appartiene al bello, quanto la grata mescolanza de'
sapori, ch'è una convenienza dello stessissimo genere dell'armonia
musicale. Con queste osservazioni si spiegheranno ancor bene, e meglio che in
alcun altro modo, moltissimi [3425]de' miracoli della musica antica,
massime quelli che si raccontano delle nazioni o de' tempi più rozzi,
come di Saule e Davidde ec. Essi miracoli non nascevano dalle qualità
delle melodie, come si crede, ma dalle qualità naturali o artifiziali
degl'istrumenti o delle voci, e del modo di toccarli o adoperarle, in quanto da
tali qualità nascevano suoni, o armonie di suoni, straordinariamente
grate per se stesse all'orecchio; straordinariamente, dico, rispetto a quelle nazioni
o a quei tempi. L'esser da lungo intervallo dissuefatto dall'udir musiche,
produceva anch'esso e produce tuttavia molti mirabili effetti, i quali
s'attribuiscono alle melodie, ma non nascono infatti principalmente che dalla
sensazione di suoni grati ec. per se stessa, tornata ad essere molto efficace
per la dissuefazione. Se Alessandro tutto il dì occupato nelle cose
militari, era a tavola mirabilmente affetto e dominato dalla musica (se non
erro) di Timoteo, ciò si rechi alla suddetta cagione, oltre al vino che [3426]naturalmente
esalta l'animo, in un corpo stanco massimamente; e dispone a provar vivissime
sensazioni per menome cause ancora.
Osservisi che generalmente fa negli uomini
molto maggiore effetto la musica vocale che l'istrumentale, la voce di una
donna in un uomo che quella di un uomo, e nella donna viceversa; la voce di
basso fa forse nella donna maggior effetto che quella di tenore o contralto, e
nell'uomo al contrario ec. Così de' diversi istrumenti, quello fa in
generale maggior effetto, produce maggior piacere ec.; questo meno. Tutto
ciò in parità di circostanze, e trattandosi p.e. d'una medesima
melodia ec. Or tali differenze non hanno a far nulla colla convenienza, nulla,
col bello proprio, sono indipendenti dalla qualità delle melodie, che
sole spettano nella musica al discorso del bello; appartengono alle qualità
sole de' suoni ec.; sono della stessa categoria che le differenze degli odori e
sapori ec. che niuno s'avvisò di chiamar belli nè brutti,
bensì più o meno piacevoli o dispiacevoli: [3427]e
ciò non per altro se non perchè in essi non ha luogo, come non
l'ha nel nostro caso, il discorso della convenienza ec.
(12. Sett. 1823.)
Delicatezza considerata presso le nazioni
civili come parte assolutamente del bello. Statue greche umane. L'Apollo, il
Mercurio (già Antinoo), il Meleagro ec. - In tutte queste le forme hanno
della donna. - Tale si è il carattere delle statue greche, quanto alle
forme umane, e delle sculture e scuole di là provenute antiche e
moderne. - Tra le statue di Roma, tu ravvisi subito una fattura greca al donnesco
delle forme. - Così Canova - Il bello delle forme umane consiste dunque
nell'inclinare e partecipare al donnesco - Possiamo noi credere che le forme
umane, secondo natura, le più perfette, fossero o sieno di questa sorta?
che di questa sorta sia il bello umano concepito da' primitivi selvaggi ec.? e
non anzi l'opposto? che l'intenzione della natura sia tale riguardo all'uomo,
cioè ch'essendo perfetto, (e ciò vuol dire quale ei dev'essere),
abbia del donnesco, e non ne sia anzi remotissimo? - Chi s'è mai
avvisato tra' civili di pigliar le forme d'Ercole per modello di bellezza
d'uomo? ma nol sarebbero esse veramente [3428]in natura? e tuttavia
l'idea e la statua d'Ercole non è il preciso contrario dell'idea e della
statua d'Apollo? certo che sì, quanto alla forma virile e matura ec.
(12. Sett. 1823.)
Alla p.3417. In Francia siccome la prosa
segue l'uso del parlar quotidiano assai più che altrove, e l'è
sempre assai più conforme, così i poeti non hanno creduto potersi
scostare gran fatto dall'uso medesimo e dalla prosa, nè lasciar di seguire
da vicinissimo l'uno e l'altra nelle continue mutazioni ch'esse naturalmente e
inevitabilmente subiscono. Sì ne' poeti che ne' prosatori ciò
nasce dalla natura di quella nazione e di quella società. I poeti
francesi non hanno dunque antichità di linguaggio da usare. Tutto e
sempre di mano in mano nella lingua francese è moderno. E tutto è
ancor nazionale; perchè guardigli il cielo dall'arricchire la loro
lingua di qualche voce tolta nuovamente dal latino, benchè totalmente
analoga e affine ad altre voci francesi. La lingua loro è dunque in
tutto e sempre viva e incapace sì dell'antico, [3429]si ancora
del pellegrino (se non di quello che introdotto in una lingua, o usato da uno
scrittore è libertinaggio e barbarie, non eleganza o nobiltà
ec.). Da ciò viene che la lingua francese non è capace di eleganza
ec. (del che mi pare aver detto altrove), e che la Francia non ha e non
può avere lingua propria della poesia. E non avendola, e però i
termini tra questa e quella della prosa non essendo certi, anzi non avendovene
alcuno, perocchè il campo dell'una e dell'altra è un solo e indiviso,
la Francia non ha neppur lingua propria espressamente della prosa, e nella
più impoetica lingua del mondo, qual è la francese, non si trova
quasi prosa che non sappia di poesia per lo stile, più o meno, ma certo
più di tutte le classiche prose scritte nelle più poetiche lingue
come la greca e la latina. Del che veggasi la p.3420-1. Del resto è ben
naturale che ove non è distinzion di lingua (tra poesia e prosa)
quivi non possa essere vera distinzion di stile[113].
(13. Sett. 1823.)
[3430]Altronde per altrove,
e indi fors'anche quasi ivi o colà, delle quali
cose ho detto altrove. V. Petrarca Son. Io sentia dentr'al cor già
venir meno.
(15. Sett. 1823.)
Natura insegna il curare e onorare i
cadaveri di quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per
circostanze ec. e l'onorar quelli di chi fu in vita onorato ec. Ma ella non
insegna di seppellirli nè di abbruciarli, nè di torceli in altro
modo davanti agli occhi.[114]
Anzi a questo la natura ripugna, perchè il separarci perpetuamente da'
cadaveri de' nostri è, naturalmente parlando, separazione più
dolorosa che la morte loro, la qual non facciam noi, ma questa è
volontaria ed opera nostra, e quella è quasi insensibile a chi si trova
presente, e accade bene spesso a poco a poco; questa è manifestissima e
si fa in un punto. E separarsi da' cadaveri tanto è quasi in natura
quanto separarsi dalle persone di chi essi furono, perchè degli uomini
non si vede che il corpo, il quale, ancor morto, rimane, ed è,
naturalmente, tenuto per la persona stessa, benchè mutata (piuttosto che
in luogo di [3431]quella), e per tutto ciò ch'avanza di lei. Ma
d'altra parte il lasciare i cadaveri imputridire sopra terra e nelle proprie
abitazioni, volendoseli conservare dappresso e presenti, è mortifero, e
dannoso ai privati e alla repubblica. I poeti, oltre all'avere insegnato che
nella morte sopravvive una parte dell'uomo, anzi la principale e quella che
costituisce la persona, e che questa parte va in luogo a' vivi non accessibile
e a lei destinato, onde vennero a persuadere che i cadaveri de' morti, non
fossero i morti stessi, nè il solo nè il più che di loro
avanzava; oltre, dico, di questo, insegnarono che l'anime degl'insepolti erano
in istato di pena, non potendo niuno, mentre i loro corpi non fossero coperti
di terra, passare al luogo destinatogli nell'altro mondo. Così vennero a
fare che il seppellire i morti o le loro ceneri, e levarsegli dinanzi, fosse,
com'era utile e necessario ai vivi, così stimato utile e dovuto ai
morti, e desiderato da loro; che paresse opera d'amore verso i morti quello che
per se sarebbe stato segno di disamore, e opera d'egoismo; che l'amore [3432]così
consigliato e persuaso imponesse quello ch'esso medesimo naturalmente vietava;
che venisse ad esser secondo natura e suggerito dall'amor naturale, quello che
per se aveva al tutto dello snaturato; e che fosse inumanità e
spietatezza il trascurar quello che senza ciò sarebbesi tenuto per
inumano e spietato. Così gli antichi e primi poeti e sapienti facevano
servire l'immaginazione de' popoli, e le invenzioni e favole proprie a' bisogni
e comodi della società, conformando quelle a questi, e si verifica il
detto di Orazio nella Poetica ch'essi furono gl'istitutori e i fondatori del
viver cittadinesco e sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio tenuti per
fondatori di città. E così gli antichi dirigevano la religione al
ben pubblico e temporale, e secondo che questo richiedeva la modellavano, e di
questo facevano la ragione e il principio e l'origine de' dogmi di essa: opponendola
alla natura dove questa si opponeva alle convenienze della vita sociale; e
vincendo la natura fortissima, coll'opinione ancor più forte, massime l'opinion
religiosa. (15. Settembre. 1823.). Chi riguarda come legge naturale il
seppellire o abbruciare ec. i cadaveri, troverà forse in queste
osservazioni di che mutar sentenza.
Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si
getta al pericolo, anche della morte; di più sacrifica [3433]determinatamente
se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi si trovano
che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore ardente ec. si
sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore corporale,
anche non grande. S'incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e
volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci
d'incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo.
(15. Sett. 1823.)
Che il timore sia, come ho detto altrove,
più naturale all'uomo della speranza, e che l'uomo inclini più a
quello che a questa, veggasi che qualora gli uomini ignorano le cagioni degli
effetti o naturali o artifiziali, ordinariamente ne temono; e tanto è
quasi, per gl'ignoranti massimamente e primitivi e selvaggi e fanciulli, effetto
di cagione nascosta, quanto effetto spaventoso. Or quando mai la speranza
è così temeraria? Di più se l'ignoranza, superstizione ec.
portò anticamente [3434]o porta oggidì a pigliar
qualch'effetto nuovo o sconosciuto per presagio dell'avvenire o per segno del
presente ignoto, osservisi che generalmente questi presagi e questi segni
furono creduti sinistri. Lascio l'ecclissi le quali possono parere spaventose
naturalmente a chi ne ignora la cagione, non ne ha mai veduto ec., e da questo
primitivo spavento può ben esser nata l'opinione del cattivo augurio che
loro si attribuì, e che le rese spaventose per sì lungo tempo
presso tutte le nazioni, e fin anche al di d'oggi, benchè già si
sapesse e si sappia che l'oscurazione non era per durar sempre ma passeggera
ec. Ma le comete che cosa hanno di spaventevole per se, più ch'altro
corpo celeste, o che la via lattea ec.? E volendole pigliare per segni o
presagi, perchè non di bene? ma non si troverà nazione dov'elle
fossero o sieno stimate annunziare altro che male. Quelli che gli antichi
chiamavano mostri, cioè cose straordinarie, benchè nulla
terribili per se stesse e materialmente tutte erano stimate cattivi augurii.
Così nelle vittime il mancare del cuore, s'è pur vero che
ciò accadesse talvolta, come gli antichi narrano, [3435]o che
paresse così per errore di chi inspiciebat le viscere ec. Tutti
segni che l'uomo è più facile e proclive a temere che a sperare;
e che questo è di rado così irragionevole e precipitoso come
quello; o certo ben più di rado ec. Massimamente in natura, ne' fanciulli,
negl'ignoranti e negli uomini naturali.
(15 Sett. 1823.)
L'immaginazione e le grandi illusioni onde
gli antichi erano governati, e l'amor della gloria che in lor bolliva, li facea
sempre mirare alla posterità ed all'eternità, e cercare in ogni
loro opera la perpetuità, e proccurar sempre l'immortalità loro e
delle opere loro. Volendo onorare un defonto innalzavano un monumento che contrastasse
coi secoli, e che ancor dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo sovente
nelle stesse occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il
dì dell'esequie si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità
delle antiche fabbriche d'ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le
nostre, anche pubbliche, non saranno certo vedute da posteri molto lontani; le
piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo, [3436]la profondissima
impronta delle antiche medaglie e monete, che passate per tante mani, dopo
tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono,
dove i coni delle nostre monete di cent'anni fa son già scancellati;
tutte queste e tant'altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche
illusioni e dell'antica forza e dominio d'immaginazione. Se fabbricavano per fasto
i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio non si
appagava dell'ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano esser testimoni
della sua potenza e contribuire a pascere la sua vanità: se per diletto,
per bellezza, ornamento ec. tutto questo s'aveva da propagare nel futuro in
perpetuo; se per utile tutte le generazioni avvenire avevano a partecipare di
quella utilità; se il principe, se il comune, se i privati, se per
comodo, per onore, per vantaggio particolare o pubblico; se in memoria di
successi ricordevoli o privati o pubblici; se in ricompensa di virtù, di
belle azioni, di beneficii pubblici o privati; se in onor privato o pubblico,
di vivi o di morti; se in testimonianza d'amore ec. ec. qualunque fine si
proponessero, qualunque [3437]effetto dovesse seguitare a quell'opera,
esso aveva ad essere eterno, s'aveva a stendere in tutto l'avvenire, non aveva
a cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non permettevano
loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di proccurare un
effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi d'una idea
ristretta a poco più che a quello ch'essi vedevano. L'immaginazione
spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e
la posterità, perocchè il presente è limitato e non
può contentarla; è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza,
e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il futuro per una immaginazione
gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti non la soddisfa. Dunque ella
guarda e tira verso l'eternità.
Fu proprio carattere delle antiche opere
manuali la durevolezza e la solidità, delle moderne la caducità e
brevità. Ed è ben naturale in un'età egoista. Ell'è
egoista perchè disingannata. Ora il disinganno, [3438]come fa che
l'uomo non pensi se non a se, così fa che non pensi se non quasi al
presente; di quello poi che sarà dopo di lui, non si curi punto nè
poco. Oltre che l'egoista è vile, sì per l'egoismo, sì per
altre parti e cagioni. E l'età moderna ch'è quella del despotismo
tranquillo, incruento e perfezionato, come può non essere abbiettissima?
Ora un animo basso non si sa levar alto, nè proporsi de' fini nobili,
nè cape l'idea dell'eternità in menti così anguste,
nè l'uomo abbietto può riporre la sua felicità nel conseguimento
d'obbietti sublimi.
Ne' tempi intermedi fra l'antico e il
moderno, osservando i monumenti materiali che n'avanzano, si trovano evidenti segni
e dell'antiche illusioni e del sopravvegnente disinganno. Si vede anche
grandissima solidità in molte barbariche opere de' bassi tempi, (anche
private, anzi per lo più tali) certo a paragone delle moderne. Chi
può paragonare la solidità di queste con quella degli edifizi
pubblici o privati del
Si possono applicare queste considerazioni
anche alla letteratura. Non s'usavano anticamente le brochures,
nè gli opuscoli e foglietti volanti, nè scritture destinate a
morire il dì dopo nate. E quello ancora che si scriveva per sola circostanza
e per servire al momento, scrivevasi in modo ch'e' potesse e dovesse durare
immortalmente.
[3440]Cicerone dopo dato un
consiglio al senato o al popolo, da mettersi in opera anche il dì
medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola
eredità si poneva a tavolino, e dagl'informi commentari che gli avevano
servito a recitare, cavava, componeva, limava, perfezionava un'orazione formata
sulle regole e i modelli eterni dell'arte più squisita, e come tale,
consegnavala all'eternità. Così gli oratori attici, così
Demostene di cui s'ha e si legge dopo 2000 anni un'orazione per una causa di 3
pecore: mentre le orazioni fatte oggi a' parlamenti o da niuno si leggono, o si
dimenticano di là a due dì, e ne son degne, nè chi le
disse, pretese nè bramò nè curò ch'elle avessero
maggior durata.
(15. Sett. 1823.)[116]
Il giovane innanzi la propria esperienza,
per qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate
o disamate, credute o non credute, ec. non si persuaderà mai
efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, nè deporrà il
desiderio e la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e de' piaceri
sociali, nè l'opinione favorevolissima, e nel fondo del cuore, [3441]fermissima,
della possibilità, anzi probabilità di esser felice pigliando
parte alla vita, all'azione ec. Perchè? perchè quest'opinione,
desiderio, speranza, non è capriccio ma natura, nè si estirpa
dall'animo, come le opinioni o passioni accidentali, nè val tenerezza e
pieghevolezza e docilitate d'età nè d'indole a render queste cose
estirpabili. Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha
provvveduto di speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato
colla speranza il desiderio di quelle età.
(15. Sett. 1823.)
Altrove ho rassomigliato il piacere che reca
la lettura di Anacreonte (ed è nel principio di questi pensieri)[117] a
quello d'un'aura odorifera ec. Aggiungo che siccome questa sensazione lascia
gran desiderio e scontentezza, e si vorrebbe richiamarla e non si può;
così la lettura di Anacreonte; la quale lascia desiderosissimi, ma
rinnovando la lettura, come per perfezionare il piacere (ch'egli par veramente
bisognoso d'esser perfezionato, anche più che ispirar desiderio d'esser
continuato), niun piacere si prova, anzi non si vede [3442]nè che
cosa l'abbia prodotto da principio, nè che ragion ve ne possa essere,
nè in che cosa esso sia consistito; e più si cerca, più
s'esamina, più s'approfonda, men si trova e si scopre, anzi si perde di
vista non pur la causa, ma la qualità stessa del piacer provato,
chè volendo rimembrarlo, la memoria si confonde; e in somma pensando e
cercando, sempre più si diviene incapaci di provar piacere alcuno di
quelle odi, e risentirne quell'effetto che se n'è sentito; ed esse
sempre più divengono quasi stoppa e s'inaridiscono e istecchiscono fra
le mani che le tastano e palpano per ispecularle. Di qui si raccolga quanto sia
possibile il tradurre in qualsiasi lingua Anacreonte (e così l'imitarlo
appostatamente, e non a caso nè per natura, senza cercarlo), quando il
traduttore non potrebbe neanche rileggerlo per ben conoscer la qualità
dell'effetto ch'egli avesse a produrre colla sua traduzione; e più che
lo rileggesse e considerasse, meno intenderebbe detta qualità, e
più la perderebbe di vista; perocchè lo studio di Anacreonte
è non pure inutile per imitarlo o per meglio [3443]gustarlo o per
ben comprendere e per definire la proprietà dell'effetto e de'
sentimenti ch'esso produce, ma è piuttosto dannoso che utile; nè
la detta proprietà si può definire altrimenti che chiamandola
indefinibile, ed esprimendola nel modo ch'ho fatto io con quella similitudine
ec. Nè certo alla prima lettura si può essere il traduttore, o
l'imitatore, o verun altro, ben avveduto e chiarito e informato del proprio ed
intero carattere di Anacreonte; dico chiarito, e compresolo in modo ch'ei possa
esattamente e data opera esprimerlo, nè pur significarlo distintamente
a se stesso, nè concepirne e formarne idea chiara e precisa; chè
queste qualità della idea sono contraddittorie e incompatibili colla
natura di detto effetto e carattere.
(16. Sett. 1823.)
Quante volte diss'io Allor pien di spavento,
Costei per fermo nacque in paradiso. Petr. Canz. Chiare fresche e dolci acque. J Saffo ap.
Longin. sezione 10. È proprio dell'impressione che fa la bellezza [3444](e
così la grazia e l'altre illecebre, ma la bellezza massimamente,
perch'ella non ha bisogno di tempo per fare impressione, e come la causa esiste
tutta in un tempo, così l'effetto è istantaneo) è proprio,
dico, della impressione che fa la bellezza su quelli d'altro sesso che la
veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare; e questo si è quasi
il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a prima giunta,
o quello che più si distingue e si nota e risalta. E lo spavento viene
da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile
di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare
impossibile di possederlo com'ei vorrebbe; perchè neppure il possedimento
carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo
n'è propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter
soddisfare e riempiere il desiderio ch'egli concepisce di quel tale oggetto;
col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (come profondamente,
benchè in modo scherzevole osserva Aristofane nel Convito di Platone):
ora ei non vede che questo possa mai essere. [3445]La forza del desiderio
ch'ei concepisce in quel punto, l'atterrisce per ciò ch'ei si
rappresenta subito tutte in un tratto, benchè confusamente, al pensiero
le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocchè il
desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e
il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua.Ora a lui
pare e che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o non ne vede il
come, e gli par cosa troppo ardua e difficile e improbabile), e ch'esso non sarà
mai per estinguersi da se medesimo, come quando proviamo un dolor vivissimo, ci
pare a prima giunta ch'ei sarà perpetuo, e che ne sia impossibile la
consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà. Tutto questo accade
principalmente (ed oggimai unicamente) ai giovani prima d'entrar nel mondo, o
sul loro primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali
e son più suscettibili di vivezza d'impressione e di vivezza di
desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente l'amore [3446]o
si dilegui o si soddisfaccia, e del come; e che al mondo non v'ha cosa veramente
amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa ch'ei brama da quegli
oggetti ch'ei stima inaccessibili ec. ec.
Del resto, generalizzando, è da
osservare che il primo concepimento d'un desiderio vivissimo di cosa difficile
a ottenere, il qual concepimento non ha più luogo se non se ne'
fanciulli e nella prima gioventù, è sempre accompagnato da spavento,
e ciò si spiega colle cagioni sopraddette. Massime se la cosa è o
pare impossibile ad ottenere; l'uno e l'altro de' quali casi è ben
frequente nelle suddette età. Alle quali, per queste ragioni, i
desiderii come son penosissimi nella lor durata e nel loro corso, così
riescono spaventosi nella or nascita (e più quel d'Amore, ch'è
più penoso, perchè più forte; massime negl'inesperti). E
si dice per ischerzo, ma non senza ragione di verità, che bisogna
soddisfare ai desiderii de' fanciulli per non trovargli morti dietro alle
porte.
(16. Sett. 1823.)
Fermezza di carattere e facoltà di
generalizzare formano quelli che si chiamano uomini superiori: essi sanno
pensare e sanno operare: [3447]dice M. Say ne' Cenni sugli uomini e la
Società. Ma la fermezza di carattere è di due sorti, che nascono
da principii affatto contrarii, l'una da forza d'animo, e da acutezza d'ingegno
ec.; l'altra da stupidità di spirito, da incapacità di ragionare,
di comprendere ec. e quindi di mutare opinione, da scarsezza d'ingegno,
ottusità e tardità di mente ec. E il come, è facile a
concepirlo ec.
(16. Sett. 1823.)
Gli uomini straordinari, bene spesso e forse
il più delle volte, non son tali per grandezza assoluta di niuna loro
qualità, nè anche per grandezza o forza ec. di essa qualità
considerata rispettivamente a quel ch'ella suol essere nel comune degli uomini;
insomma non sono straordinarii perchè veruna lor qualità sia
straordinaria (cioè non si trovi nel comune), nè
straordinariamente grande o perfetta ec.; ma solo per lo squilibrio delle loro
qualità, cioè perchè l'una o più d'una di esse,
senza esser nè straordinaria, nè maggior ch'ella soglia,
prepondera all'altre, e perciò risalta e dà negli occhi. Mentre
molti uomini [3448]di qualità tutte grandi, (ed anche
straordinarie), ma ben tra loro equilibrate, bilanciate e compensate,
sicchè l'una non eccede l'altra, non sono stimati straordinarii,
perchè l'una offusca lo splendore e nuoce alla vista dell'altra
scambievolmente. E spesse volte lo stesso avere, benchè non tutte,
però molte o parecchie qualità grandi, (ed anche straordinarie),
producendo un certo equilibrio e contrappeso, e facendo che l'una di loro renda
l'altra meno notabile, è cagione che l'uomo non paia straordinario. Ed
all'opposto l'averne poche o una sola che sia o straordinariamente grande o
straordinaria, producendo uno squilibrio e sbilancio, non solo non nuoce alla
riputazione d'uomo straordinario, nè la rende minore, ma la produce e
l'accresce.
(16. Sett. 1823.)
Tragedie o drammi di lieto fine. - L'effetto
loro totale, si è di lasciar gli affetti dell'uditore in pieno equilibrio;
cioè di esser nullo. - Il fine dei drammi non è, e non dev'essere,
d'insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano di
peccare. Meglio sarebbe una predica dell'inferno o del purgatorio; e meglio
ancora una [3449]lettura del codice penale, che si facesse dalla scena.
Il loro scopo si è d'ispirare odio verso il delitto. Questo è
ciò che le leggi non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio
uffizio di esse, ed esse sole il possono, o certo più e meglio d'ogni
altra cosa, eccetto forse l'esempio vivo de' gastighi, cioè l'effettiva
esecuzione delle leggi penali. Ora la punizione del delitto non ispira odio.
Anzi lo scema, perchè sottentra e con lui si mescola la compassione.
Anzi lo distrugge, perchè la vendetta spegne tutti gli odi. Anzi produce
un effetto a lui contrario, perchè la compassione è contraria
all'odio; e spesso avviene che nel veder punito il delitto, questa superi ogni
altro sentimento, e gli spenga, e resti sola; e spesso la pena, benchè
giusta ed equa, par più grave del delitto; e spessissimo è
odiosa, parte per la pietà, parte perchè alcuni per viltà
d'animo e poca stima di se stessi, altri per cognizione dell'uomo, si sentono,
più o meno, prossimamente o lontanamente, capaci di peccare; e niuno ama
di esser punito, anzi tutti abborrono il gastigo in se stessi. - Il dramma [3450]di
lieto fine coll'effetto di una sua parte distrugge quello dell'altra.[118]
Voglio dire la compassione. (Dell'odio verso la colpa, ch'è pur
distrutto dalla catastrofe, ho già detto). Il giusto ec. divenuto felice,
per infelice che sia stato, non è più compatito. Ognuno quasi si
contenterebbe di arrivare per la stessa strada alla stessa sorte. L'oppresso
vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltissima il
travagliare in un dramma ec. ad eccitare un affetto che il dramma medesimo
debba direttamente spegnere, e che, non a caso, ma per intenzione dell'autore e
per natura dell'opera, finita la rappresentazione o la lettura, non debba
lasciare alcun vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che
durando si opponga all'effetto voluto e cercato dall'autore e dalla
qualità del dramma. E quando l'eccitar questo affetto, come la compassione
per gl'immeritevolmente infelici, è il principale scopo che l'autore e
il dramma si propongono (come ordinariamente accade), il farlo non durevole, il
distruggerlo nel suddetto modo, è contraddizione ne' termini: [3451]principale
e non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col
dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e
da non dover perseverare nè sino alla fine nè dopo la fine, e da
non dover esser prodotto dal dramma considerato nell'intero; dovere dal
dramma considerato nell'intero esser prodotto un effetto diverso, anzi
contrario, a quello ch'ei si propone per iscopo principale. - La naturalezza e
la verisimiglianza è maggiore assai ne' drammi di tristo che in quelli
di lieto fine, perchè così va il mondo: il delitto e il vizio
trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità sono
ambedue di chi non le merita. - Ma nel mondo il felice per lo più ha
nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la
malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de'
felici e degl'infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande
utilità, quindi l'odio e il disprezzo originato dal dramma, verso i
malvagi benchè felici, e viceversa. Non dall'alterar la natura e la
verità delle cose, facendo sfortunato il vizio e la virtù. [3452]E
ben grande utilità morale, e che ben di rado si proccura e si ottiene, e
basta ben a produr l'odio e l'indignazione, il far conoscere e recar sotto gli
occhi le vere qualità morali e i veri meriti de' felici e degl'infelici.
E l'odio, il disprezzo, il vitupero, l'infamia, l'indignazione, la pietà,
la stima, la lode sono non piccoli, e certo i soli, gastighi e compensi
destinati in questo mondo al vizio e alla virtù. Non è poco il
far che l'uno e l'altra gli ottengano, che l'uno sia punito, l'altra premiata
com'ambedue possono esserlo, che la natura delle cose abbia luogo, che l'ordine
stabilito alle cose umane e il decreto della natura sia effettuato. Il qual
ordine e decreto non è altro che questo: sieno i malvagi felici ed infami,
i buoni infelici e gloriosi o compatiti. Ordine spesso turbato, e decreto ben
sovente trasgredito, non quanto alla felicità ed infelicità, ma
quanto al biasimo e alla lode, all'odio ed all'amore o compassione. - L'uditore
vedendo il vizio e il delitto rappresentato con vivi e odiosi colori nel
dramma, desidera fortemente di vederlo punito. E per lo contrario vedendo la [3453]virtù
e il merito oppressi e infelici, e rendutigli con bella e viva pittura ed
artifizio amabili e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di vederli
ristorati e premiati. Or se nè l'uno nè l'altro fa il dramma
stesso, cioè lascia il vizio
impunito anzi premiato, e la virtù non premiata anzi punita e
sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti, l'uno morale e l'altro poetico. Il
primo si è che l'uditore, appunto per lo sfortunato esito della
virtù e il contrario del vizio, che se gli è rappresentato nel
dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è in lui le
sorti di que' malvagi e di que' virtuosi, punendo gli uni col maggior possibile
odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di compassione
e di lode. E con questa disposizione tutta di abborrimento e detestazione verso
i malvagi e di tenerezza e pietà verso i buoni, egli parte dallo
spettacolo. La qual disposizione quanto sia morale e buona e desiderabile che
si desti, chi nol vede? E questo [3454]è veramente l'unico modo
di far che l'uditore parta appassionato per la virtù, e passionatamente
nemico del vizio; l'unico modo di ridurre a passione l'amor dell'una e l'odio
dell'altro, cosa difficilissima a conseguirsi oggidì in chicchessia, e
stata sempre difficile ad ottenersi ne' cuori volgari e plebei della
moltitudine; ma cosa dall'altra parte così utile che più non
può dirsi, perchè nè quell'amore nè quell'odio
saranno nè furono mai efficaci nell'uomo essendo pura ragione, e s'ei
non si convertano in passione, quali furono non di rado anticamente. L'effetto
poetico si è che un dramma così formato lascia nel cuore degli
uditori un affetto vivo, gli fa partire coll'animo agitato e commosso, dico agitato
e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato, prima acceso e poi
spento a furia d'acqua fredda, come fa il dramma di lieto fine; insomma produce
un effetto grande e forte, un'impressione e una passion viva, nè la
produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto fine; e
l'effetto è durevole [3455]e saldo. Or che altro si richiede al
totale di una poesia, poeticamente parlando, che produrre e lasciare un
sentimento forte e durevole? quando anche ei non fosse d'altronde utile e morale,
come nel nostro caso. Certo ben pochissime sono quelle poesie qualunque, che
ottengano il detto scopo; e quelle qualunque pochissime che l'ottengono, non
sono e non possono esser altro che grandi, insigni, famose e vere poesie. Or
fate che il dramma dopo avervi mosso all'odio verso il malvagio, ve lo dia, per
così dir nelle mani, legato, punito, giustiziato. Voi partite dallo
spettacolo col cuore in pienissima calma. E come no? qual vostro affetto resta
superiore agli altri? non rimangon tutti in pienissimo equilibrio? e una poesia
che lascia gli affetti de' lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si
chiama poesia? produce un effetto poetico? che altro vuol dire essere in pieno
equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta nè commozione alcuna?
e qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere,
così o così, ma [3456]sempre commuover gli affetti? E
quanto all'equilibrio, vedete: da una parte l'odio e l'ira che avevate
concepita, dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e l'altra; di qua il
desiderio, di là l'oggetto desiderato, cioè il castigo del
malvagio. Le partite sono uguali; l'affare è finito, il negozio è
terminato, gl'interessi pareggiati: voi chiudete il vostro libro de' conti e
non ci pensate più. Infatti l'uditore si parte dal dramma di lieto fine
non altrimenti che chi abbia ricevuto un'offesa e fattone piena e tranquilla vendetta,
o ne sia stato pienamente soddisfatto, il quale torna a casa e si corica colla
stessa placidezza e coll'animo così riposato, come se non gli fosse stata
fatta alcuna offesa, e di questa non serba pensiero alcuno. Bello effetto di un
dramma, di una rappresentazione, di una poesia; lasciare di se tal vestigio
negli animi degli spettatori o uditori o lettori, come s'e' non l'avessero
nè veduta nè udita nè letta. Meglio varrebbe essere stato
a uno spettacolo di forze, di giuochi, equestre, e che so io, i quali pur
lasciano [3457]nell'animo alcuna orma o di maraviglia o di diletto o
d'altro. Ma in verità in quella parte dell'anima in cui il dramma e la
poesia deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia alcun segno. Se
lascia alcuna traccia in altra parte dell'anima, questo effetto o è
alieno dalla poesia, o l'è secondario, o estrinseco, accidentale, di
circostanza, parziale, cioè non prodotto dal totale della composizione,
forse proprio della decorazione, dell'azione ec. dello spettacolo più
che del dramma, non poetico ec. Or quanto all'effetto del dramma di lieto fine
poeticamente considerato, esso è tale qual si è mostrato, anzi
non è, perch'esso è nullo, e per ciò che spetta al totale,
il dramma di lieto fine non produce, poeticamente, alcun effetto. Quanto
all'effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi
l'ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che
l'uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l'ha preoccupata il poeta: questi ha
fatto il tutto; l'uditore non ha a far più nulla, e nulla fa. Quella
passione ch'egli avrebbe concepita, l'ha sfogata il poeta da se: al poeta [3458]dunque
rimane. L'ira l'odio che l'uditore avrebbe portato seco, il poeta l'ha
soddisfatto. Odio ed ira e qualunque passione soddisfatta, non resta. (Non resta,
dico, quanto all'atto, di cui solo è padrone il poeta, e non dell'abito).
Dunque l'uditore parte dal dramma senza nè odio nè ira nè
altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto. Tutto questo
discorso circa la parte che spetta nel dramma ai malvagi, si faccia
altresì circa quella che spetta ai buoni. - Chiuderò queste osservazioni
con un esempio di fatto, narratomi da chi si trovò presente. Si
rappresentò in Bologna pochi anni fa l'Agamennone dell'Alfieri.
Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro, tanto odio verso
Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale
insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che
l'ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl'innocenti
restano oppressi, quivi si vide quello che possano le vere tragedie negli animi
degli uditori, quando elle sono di [3459]tristo fine. Perchè
promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l'Oreste
pur d'Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì
dal teatro fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito, e
dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l'indomani di trovarsi a veder
la pena di questo scellerato. E l'altro dì prima di sera il teatro era
già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente
che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di 3000 anni addietro, potuto
ispirare e lasciare da quella tragedia, ed una passione così calda, un
effetto così vivo, potuto da lei produrre e lasciare; per l'una e per
l'altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco o
utili o dilettevoli. E paragonando gli effetti di questa con quelli dell'Oreste,
che certo furono molto minori e men vivi (sebbene anche questa seconda tragedia
sia bellissima), si sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore
se il dramma di tristo, o quello di lieto fine, sia da preferirsi, [3460]e
qual de' due abbia maggior forza negli animi, e sia d'effetto più teatrale
e poetico, e più morale ed utile. - Si potrà applicare tutto il
passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne' quali
l'infelicità de' buoni o degli immeritevoli, non vien da' cattivi,
nè da altrui vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono
l'Edipo re di Sofocle, la Sofonisba d'Alfieri, e molte tragedie di varie età
e lingue, e molti drammi sentimentali moderni, appresso varie nazioni. E
similmente a quei drammi in cui l'infelicità viene da colpa, ma o
involontaria o compassionevole ec. degli stessi infelici, come appunto si
può dire che sia l'Edipo re, la Fedra, e molti drammi, massimamente
moderni, o tragedie ec. E dalle stesse predette osservazioni si potrà
raccogliere se sia meglio che lo scioglimento di tali drammi sia felice o
infelice, che la sorte de' protagonisti si muti o si conservi la stessa, che di
felice divenga infelice, o che per lo contrario, ec.
(16-18. Settembre. 1823.)
Relatar spagnuolo, cioè riferire,
raccontare, da relatus di refero. Relater francese antico,
vale il medesimo.
(18. Sett. 1823.)
[3461]I poeti latini (e
proporzionatamente gli altri scrittori secondo che lor conveniva) usarono la
mitologia greca, non per lo aver preso da' greci la loro letteratura e poesia,
ma perchè, o da' greci o d'altronde ch'e' ricevessero la loro religione,
essa mitologia alla religion latina apparteneva niente meno che alla greca, e
nel Lazio non meno che in Grecia era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde
se questa o quella favola adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini,
fu tolta da' greci, o ch'ella fosse stata primieramente e di netto inventata da
qualche greco poeta, o che in Grecia e non nel Lazio ella fosse sparsa ec., non
perciò segue che la mitologia dagli scrittori latini usata, non fosse,
com'ella fu, altrettanto latina che greca. Perocchè il fabbricare, per
dir così, sul fondamento delle opinioni popolari, fu sempre lecito ai
poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i poeti latini fabbricarono su
tali opinioni popolari nazionali, o dell'altrui fabbriche sì servirono,
o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno di ciò li dee
riprendere. Nè perciò [3462]essi vollero introdurre un nuovo
genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di lor poesia;
nè supposero falsamente un genere un sistema di opinioni popolari che
nella nazione non esisteva, ma su di quel ch'esisteva in effetto, innestarono,
fabbricarono, lavorarono. Similmente i greci, da qualunque luogo pigliassero la
loro mitologia, certo è che di là presero eziandio la loro
religion popolare, e che tra' greci il sistema greco religioso e mitologico,
quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al generale, non fu
prima de' poeti che del popolo. E se i letterati greci si giovarono, come si
dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o d'altre genti, non
adottarono perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser popolari, e
nazionali ec. le mitologie d'esse nazioni. L'aver noi dunque ereditato la
letteratura greca e latina, l'esser la nostra letteratura modellata su di
quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale
perch'ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al
modo che quegli antichi l'adoperavano. Giacchè non abbiamo già
noi colla [3463]letteratura ereditato eziandio la religione greca e
latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò
ch'essi avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura
ebbero i greci dalla Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le
ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt'altre
sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de' greci e de'
latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla maniera
degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione.
L'imitare non è copiare, nè ragionevolmente s'imita se non quando
l'imitazione è adattata e conformata alle circostanze del luogo, del
tempo, delle persone ec. in cui e fra cui si trova l'imitatore, e per li quali
imita, e a' quali è destinata e indirizzata l'imitazione. Questa
può essere imitazione nobile, degna di un uomo, e di un alto spirito e
ingegno, [3464]degna di una letteratura, degna di esser presentata a una
nazione. E una letteratura fondata comunque su tale imitazione può esser
nazionale e contemporanea e meritare il nome di letteratura. Altrimenti
l'imitazione è da scimmie, e una letteratura fondata su di essa è
indegna di questo nome, sì per la troppa viltà, essendo letteratura
da scimmie, sì perchè una letteratura che tra' suoi è
forestiera, e a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma
al più solo una parte d'altra letteratura o una copia da potersi
guardare, se fosse però perfetta (ch'è sempre l'opposto) collo
stesso interesse con cui si guarda una copia d'un quadro antico ec. e niente
più. Veramente pare che i nostri poeti usando le antiche favole (come
già i più antichi italiani e forestieri scrivendo in latino)
affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma antichi, e se ne
pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e letteratura, non
esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e
finzione barbara, [3465]ripugnante alla ragione, e colla qual macchia
una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera letteratura.
Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella
letteratura e quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando
e simulando di esser antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere
italiani moderni, di aver qualche idea che gl'italiani antichi non avessero
perchè non poterono, (così forse fece Cic. verso Catone antico
ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo
letteratura nè lingua, perchè questa non essendo moderna,
benchè italiana, non è nostra, ma d'altri italiani, e
perchè non si dà nè si diede mai nè può
darsi letteratura che a' suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è
letteratura.
Quel ch'io dico dell'uso delle favole
antiche fatto alla maniera antica (cioè mostrandone persuasione e presentandole
in qualunque modo a' lettori o uditori come e' ne fossero persuasi, chè
altrimenti il prevalersi della mitologia non ha peccato alcuno), fatto dico da'
poeti cristiani antichi o moderni (massime italiani) scrivendo a' Cristiani, si
[3466]dee dire dell'eccessivo uso, anzi abuso intollerabile della
mitologia che fanno e fecero i pittori e scultori ec. cristiani, non d'Italia solo,
ma d'ogni nazione, e niente meno i forestieri che gl'italiani. Se sta ad essi a
scegliere il soggetto, potete esser sicuro, massime degli scultori, ch'e' non
escirà della mitologia. Ed anche grandissima parte de' soggetti eseguiti
per commissione, essendo mitologici, segue che il più delle pitture e
massimamente delle sculture che si veggono in Europa (fuor delle Chiese), sieno
mitologiche. Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un
poeta) sia che la sua opera paia una statua antica (come un poema antico),
dovendo solamente cercare ch'ella sia tanto bella quanto un'antica, o
più bella ancora, quantunque, se si vuole, nel genere del bello antico.
(19. Sett. 1823.)
Ces
hommes qui existent ainsi (les Chartreux de Rome) sont pourtant les mêmes
à qui la guerre et toute son activité suffiraient à peine s'ils
s'y étaient accoutumés. C'est un sujet inépuisable de réflexion que [3467]les
différentes combinaisons de la destinée humaine sur la terre. Il se passe dans
l'intérieur de l'ame mille accidents, il se forme mille habitudes qui font de
chaque individu un monde et son histoire. Connaître un autre parfaitement
serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc qu'on entend par
connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu
seul le fait. Corinne, livre 10. chap.1. t.2. p.114. Ciò
vuol dire che l'uomo è sommamente e infinitamente o indeterminatamente
conformabile, e non è possibile conoscer mai tutti i modi e tutte le
differenze in cui lo spirito degl'individui, secondo la diversità delle
circostanze (ch'è infinita o indeterminabile), si conforma o si
può conformare; per la stessa ragione per cui non si possono conoscere
tutte le circostanze possibili ad aver luogo, che possono influire sullo
spirito degl'individui, nè tutte quelle che hanno effettivamente
influito su tale o tale individuo determinato, nè le loro combinazioni
scambievoli, nè le loro minute diversità che producono non
piccole differenze di carattere ec. [3468]La maggior cognizione adunque
che si possa avere dell'uomo è quella di sapere perfettamente e
ragionatamente che gli uomini non si possono mai ben conoscere, perchè l'uomo
è indefinitamente variabile negl'individui, e l'individuo stesso per se.
E il più certo segno di tal cognizione si è quello di non maravigliarsi
mai un punto, e di esser bene e ragionatamente e veramente disposto a non
maravigliarsi di qualunque strana e inaudita e nuova indole, carattere,
qualità, facoltà, azione di qualunque individuo umano noto o
ignoto ci possa venire agli orecchi o agli occhi, ci accada o possa accader
d'intendere o di vedere, in bene o in male. Chi è veramente giunto a
questa disposizione, e l'ha in se ben perfetta, radicata e costante, ed efficace,
può dire di conoscer l'uomo il più ch'è possibile
all'uomo. E più infatti non può se non Dio, come ben dice la
Staël, perchè Dio solo può conoscere e conosce tutti i possibili.
Or gli uomini non si possono perfettamente conoscere, chi non conosca poco men
che tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura e di questa terra.
(19. Sett. 1823.)
[3469]Alla p.2709. Quasi tutti gli
antichi che scrissero di politica (tranne Cic. de rep. e de legibus),
la pigliarono puramente o principalmente dalla parte speculativa, la vollero
ridurre a sistema teorico e di ragione, e disegnare una repubblica di lor
fattura; e questo si fu lo scopo, l'intenzione e il soggetto de' loro libri.
Ond'è che quantunque i moderni, primieramente abbiano fatto della
politica il loro principale studio, secondariamente, come privati che erano e
sono la più parte, e quindi inesperti del governo, sieno stati obbligati
a tenersi in ciò alla speculazione più che alla pratica, e per la
medesima cagione abbiano immaginato, sognato, delirato e spropositato nella
politica più che in altra scienza; nondimeno io tengo per fermo che gli
antichi, anzi i soli greci, avessero più Utopie[119]
che tutti i moderni insieme non hanno. Utopia è la repubblica di
Platone, sì quella disegnata nella Politia, sì l'altra ne' libri
delle Leggi, diversa da quella, come osserva Aristotele nel 2do de'
Politici, p.106-16. Utopie furono quelle di Filea Calcedonio (Aristot. Politic.
l.2. ed. Victorii, Florent. p.117-26.), e d'Ippodamo Milesio (ib. p.127-35.),
Utopia è quella d'Aristotele (v. il Fabricio).[120] E
senza [3470]fallo Utopie furono ancora i libri politici e peri nomon o
nomoi di Teofrasto, di Cleante e d'altri tali filosofi, mentovati dal Laerzio,
e i perduti libri pur politici e peri nomon dello stesso Aristotele, e molti altri
siffatti.[121]
Aristotele spianta le repubbliche degli altri, ma nè più
nè meno che in filosofia, si crede in obbligo di sostituire, e ci
dà la sua repubblica e il suo sistema.[122] E
così gli altri. Ed è pur notabile che gli antichi, e
nominatamente i greci, o avevano, o avevano avuto in mano gli affari pubblici,
o potevano averli, o certo, ancorchè stati sempre privati, erano pur parte
delle rispettive repubbliche, e contribuivano insieme col popolo al governo. E
generalmente parlando, nelle antiche repubbliche, tutte libere, i privati, ancorchè
dediti solo a filosofare e studiare, erano più al caso, se non altro per
li continui discorsi giornalieri, per lo essersi trovati assai spesso alle
concioni, perchè i negozi pubblici passavano tutti e succedevano sotto
gli occhi di tutti, e le cause degli avvenimenti erano manifeste, e nulla
v'avea di segreto; [3471]erano dico al caso d'intendersi veramente di
politica, e di poterne ragionare per pratica, molto più che i moderni
privati non sono, i quali si trovano e si son trovati, per lo più, in
circostanze tutte opposte, e nemmeno fanno effettivamente parte della loro repubblica
e nazione, nè d'altra veruna, se non di nome. E nondimeno essi seguono
nella politica l'immaginazione e la speculazione molto manco, e l'esperienza e
i fatti molto più che gli antichi non fecero, e vaneggiano e inventano
ed errano molto meno.
(19. Sett. 1823.)
, ; Aristot.
Polit. l.2. ed. Victor. Flor. 1576.
ap. Juntas, p.131.
(19. Sett. 1823.)
Alla p.2916. Questa uniformità di
stile in Europa viene ancora da questo che tutte le moderne letterature son
venute in principio dalla Francia (anche quel che v'ha nella letteratura e
nello stile italiano e spagnuolo di moderno); laonde e gli stili nelle diverse
lingue d'Europa sono conformi tra loro di genere, perchè tutti derivati
da una stessa fonte; e poca varietà [3472]hanno ciascun d'essi
stili verso se medesimo, perchè tutti derivati originariamente da uno
stile che non ne ha veruna, e molti modificantisi tuttavia su di questo.
Del rimanente, egli è tanto certo che
l'arte dello stile e del dire è propria esclusivamente degli antichi,
quanto che l'arte del pensare è propria esclusivamente de' moderni. Gli
antichi non solo facevano di quell'arte uno studio infinitamente maggiore che
noi non facciamo; non solo ne possedevano e conoscevano mille parti, mille
mezzi, mille secreti che noi neppur sospettiamo, e che appena e a gran fatica
possiamo intendere quando e' gli spiegano e ne parlano exprofesso (come Cicerone
Quintiliano ec.), non solo in somma la detta arte era senza paragone più
ampia, stesa, ricca, varia, distinta, accurata, specificata, particolarizzata
appo gli antichi che fra i moderni, ma essa era quasi l'unico, e senza quasi il
principale studio degli antichi che pretendevano e aspiravano particolarmente
al nome di scrittori, e massime di letterati. Si osservino sottilmente le opere
d'Isocrate, di Senofonte e di tali altri cento. Tutte parole in sostanza [3473]senza
più. Gli antichi letterati, se ben guardiamo, non si proponevano in
conchiusione altro, che di dir bene, correttamente, cultamente e
artifiziosamente, quello che tutti già sapevano e pensavano o facilissimamente
avrebbero potuto e saputo pensare da se, ma pochi sapevano in quel modo
significare. E non per altro in verità divenivano famosi che per questo
(ancorchè forse nè gli altri nè essi se ne avvedessero, o
avessero avuta questa intenzione espressa e distinta e a se medesimi
manifesta), quando ottenevano il detto effetto. E non parlo già qui de'
sofisti, i quali a differenza degli altri, avevano e professavano apertamente
la detta intenzione e la facevano vedere; e questa si era l'unica
diversità reale che passasse tra' più antichi sofisti e i
classici, e il genere di scrittura di questi e di quelli. Gli uni affettavano
di dir bene, e mostravano di affettarlo, gli altri dicevano bene per arte, ma
non mostravano di proccurarlo e ricercarlo, come però facevano. Quanto
allo stile, questi e quelli differivano notabilmente. Quanto a' concetti, [3474]alle
sentenze, all'invenzione, alla condotta, all'ordine ec. non v'è divario
alcuno. Si considerino attentamente i due predetti (nemici ambedue de'
Sofisti), e tutti quelli che fra gli antichi cercarono e ottennero fama di bene
scrivere;[123]
e si vedrà che ne' loro concetti ec. tutto è sofistico. Nè
anche bisognerà molta attenzione ad avvedersene. In Senofonte,
particolare odiator de' sofisti, tanto perseguitati dal suo maestro, (v. la
fine del Cinegetico) e a lui per se stesso abbominevoli; in Senofonte
così candido e semplice e naturale che par tutto l'opposto possibile del
sofistico, in Senofonte il sofistico de' concetti dà subito nell'occhio,
tanto ch'io lo sentii notare con maraviglia a persona niente intendente
nè di greco nè di letteratura antica, che avea non più che
gittato l'occhio su certa traduzione di quell'autore. E Socrate stesso, l'amico
del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e
d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi
concetti se non un sofista [3475]niente meno di quelli da lui derisi? E
per quanto poco gli antichi generalmente pensassero, non è possibile a
credere che i pensieri e le osservazioni di Socrate, di Senofonte, di Isocrate,
di Plutarco (tanto più recente) e simili, non fossero al tempo di
costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (sieno politici, filosofici,
morali o qualunque) o eccedessero la comune capacità di pensare, di
trovare, di concepire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimerli a quel modo,
come ho detto di sopra.
È cosa osservata che le antiche opere
classiche, non solo perdono moltissimo, tradotte che sieno, ma non vaglion
nulla, non paiono avere sostanza alcuna, non vi si trova pregio che l'abbia
potute fare pur mediocremente stimabili, restano come stoppa e cenere. Il che
non solo non accade alle opere classiche moderne, ma molte di esse nulla
perdono per la traduzione, e in qualunque lingua si voglia, sono sempre le
medesime, e tanto vagliono quanto nella originale. I pensieri di Cicerone non sono
certo così comuni, come quelli de' sopraddetti ec., nè furono de'
più [3476]comuni al suo tempo, massime tra' romani. Nondimanco io
peno a credere ch'altri possa tollerar di leggere sino al fine (o far
ciò senza noia) qualunque è più concettosa opera di
Cicerone, tradotta in qual si sia lingua. Che vuol dir ciò, che vuol dir
questa differenza di condizione tra l'antiche e le moderne opere, tradotte
ch'elle sieno, se non che negli antichi, anche sommi, scrittori, o tutto o il
più son parole e stile, tolte o cangiate le quali cose, non resta quasi
nulla, e le loro sentenze scompagnate dal loro modo di significarle paiono le
più ordinarie, le più trite, le più popolari cose del
mondo. Veramente i pensieri degli antichi, più o meno, son persone del
volgo: detratta la veste, se le loro forme non appaiono rozze, certo paiono ordinarie,
e di quelle che per tutto occorrono, senza nulla di peregrino, nulla che inviti
l'occhio a contemplarle, anzi neppure a guardarle, nulla insomma nè di
singolare nè di pregevole. Nelle opere moderne all'opposto tutto
è pensieri e persona; stile nulla; vesti così dozzinali che
più non potrebbero essere. E perciò appunto è necessario
che le opere classiche antiche tradotte perdano tutto o quasi tutto il loro
pregio cioè quello dello stile, perchè i moderni non hanno di
gran lunga l'arte dello stile che gli antichi ebbero nè possono nelle
loro tradizioni conservare ad esse opere il detto pregio ec. Ma non conservando
lor questo, niuno altro gliene posson lasciare che vaglia la pena della
lettura, e che distingua gran fatto esse opere dalle più volgari e
mediocri, massime le morali, filosofiche ec. So che la volgarità de' pensieri
negli antichi, da molti è considerata come relativa a noi, che sappiam
tanto di più; ma [3477]io dico che si fa torto
all'antichità, allo spirito e alla ragione umana universale, se non si
crede che questa volgarità, almen quanto a grandissima parte d'essi
pensieri, non sia assoluta, o non fosse volgarità anche al tempo degli
scrittori che gli esposero.
(19. Sett. 1823.)
Sonito da sono as,
continuativo o frequentativo (se però non è dal nome sonitus),
ma d'incerta fede. Forcell.
(20. Sett. 1823.)
Contentus a um (onde contentare
ital. contenter franc. ec.) non è in origine che un participio
bello e buono. Eppure appoco appoco ei divenne un aggettivo semplicissimo, e
tale egli è unicamente nell'italiano, nel francese nello spagnuolo. (20.
Sett. 1823.). Così falsus ec. di cui veggasi la p.3488. V. p.3620.
Frissont, frissonner, - brivido - .
(20. Sett. 1823.)
Alla p.3156. Si potrebbe aggiungere il
nostro Monti, nel quale tutto è immaginazione, e nulla parte ha il
sentimento, come n'ha grandissima nel più delle poesie di Lord Byron (se
però quel di Lord Byron è ben significato [3478]col nome
di sentimento). Certo è che il Monti benchè d'immaginazione
senz'alcun confronto inferiore a quella di lord Byron, e benchè non
abbia di poetico che l'immaginazione (sì nelle cose sì nello
stile), si lascia leggere non senza piacere, nè senza effetto poetico, e
l'immaginoso in lui comparisce molto più spontaneo e men comandato che
in Lord Byron. Ed è forse al contrario, perchè Lord Byron
è veramente un uomo di caldissima fantasia naturale, e Monti,
qualch'egli sia per se stesso, nelle sue composizioni non è che un buono
e valente traduttore di Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio ed altri poeti antichi,
e imitatore, anzi spesso copista, di Dante, Ariosto e degli altri nostri
classici. Sicchè Lord Byron tira le immagini dal suo fondo, e Monti
dall'altrui. E se nell'uno ha dell'impoetico lo sforzo che [nel] suo poetare
apparisce, nell'altro è veramente impoetico l'imitare e il copiare che
però nella sua stessa poesia intrinsecamente non si lascia scorgere.
Ond'è che le poesie di Lord Byron sieno meno poetiche, considerate in se
stesse, che quelle di Monti. Mentre però questi è infinitamente meno
poeta di quello. [3479]E si conchiude che le poesie dell'uno sieno
impoetiche, e che l'altro non sia poeta. E l'effetto poetico delle poesie di
Monti spetta più agli antichi che a lui, ed è piuttosto come di
poesia e d'immaginazione antica, che di moderna. Nel sentimento poi la vena del
Monti è al tutto secca, e provandocisi, il che egli fa ben di rado, non
ci riesce punto, come nel Bardo.
(20. Sett. 1823.)
Il poeta dee mostrar di avere un fine
più serio che quello di destar delle immagini e di far delle
descrizioni. E quando pur questo sia il suo intento principale, ei deve
cercarlo in modo come s'e' non se ne curasse, e far vista di non cercarlo, ma
di mirare a cose più gravi; ma descrivere fra tanto, e introdurre nel
suo poema le immagini, come cose a lui poco importanti che gli scorrano
naturalmente dalla penna; e, per dir così, descrivere e introdurre
immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di
compiacenza e di studio apposito, e di pensarci e badarci, nè di voler
che il lettore ci si fermi. Così fanno Omero e Virgilio e [3480]Dante,
i quali pienissimi di vivissime immagini e descrizioni, non mostrano pur
d'accorgersene, ma fanno vista di avere un fine molto più serio che stia
loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente,
cioè il racconto dell'azioni e l'evento o successo di esse. Al contrario
fa Ovidio, il quale non dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir
così, confessa quello che è; cioè a dir ch'ei non ha
maggiore intento nè più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere,
ed eccitare e seminare immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare
continuamente.
(20. Sett. 1823.)
Io notava un vecchio ributtantemente
egoista, compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sacrifizi e
sofferenze volontarie (vere o false ch'elle fossero, e volontarie veramente o
no), e farlo con una certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime a chi
conoscesse il carattere della persona, lui essere persuaso di fare e sostener
cose eroiche, e quei sacrifizi e patimenti dimostrassero in lui una gran
superiorità d'animo, e rinunzia di se stesso e del suo amor proprio.
Egli aveva ben caro che così paresse agli [3481]altri, e a questo
fine ne parlava, ma dava bene ad intendere che tale si era infatti la sua
propria opinione. Tanto poteva in un animo il più radicato nel
più schietto e completo egoismo, intollerante d'ogni menomo incomodo, e
capace di sacrificar chi e che che sia ad una sua menoma comodità; tanto
poteva, dico, in un animo qual esso era infatti, e di più totalmente
inerte, solitario, e segregato affatto dalla società, il desiderio di
parere sì agli occhi altrui, sì ancora a' suoi propri, capace di
grandi sacrifizi, superiore all'amor proprio, il contrario di egoista, ed
insomma eroe. E tanto è vero che non si trova quasi uomo così impudentemente
e perfettamente egoista nel fatto, che non desideri grandemente di comparire
almeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, e non si compiaccia sommamente
dell'opinione di essere un eroe. Perocchè a tutti è grato il fare
stima di se, e si può esser certi che tutti, o in un modo o nell'altro,
si stimano, e grandemente, e così continuamente come e' si amano, che
vuol dir tuttafiata, senza intervallo alcuno, [3482]benchè la
stima di se stesso (come anche l'amore, secondo che altrove s'è dimostrato)
abbia in un medesimo individuo ora il più ora il manco, secondo diverse
circostanze e cagioni. Del resto puoi vedere la pag.124. 3108-9. e 3167-9.
Questo che io dico dei vecchi egoisti si può applicare ai fanciulli,
egoisti estremi, ignari ancora dell'eroismo, perchè niuno gliene ha
parlato, e nondimeno vaghi di molte piccole glorie, come di star male o di
farlo credere, perchè si parli di loro nella famiglia, e per aver
qualche somiglianza cogli adulti, alla quale aspirano generalmente e continuamente
in mille cose, solo per vanità o vogliamo dire ambizione ec. V.
l'Alfieri di sè che facea gli esercizi militari da piccolo.
(20. Sett. vigilia della Festa di Maria
Santissima Addolorata. 1823.)
Ne' tragici greci (così negli altri
poeti o scrittori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella
particolare e distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de' caratteri
che è propria de' drammi (e così degli altri poemi e componimenti)
moderni, non solo perchè gli antichi erano molto inferiori a' moderni
nella cognizione del cuore umano, il che a tutti è noto, ma
perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria
degli antichi l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica
de' moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove.
Oltre di ciò i moderni ne' drammi
vogliono interessare col mettere i lettori o uditori in relazione coi
personaggi di quelli, col far che i lettori [3483]ravvisino e contemplino
se stessi, il proprio cuore, i propri affetti, i proprii pensieri, le proprie
sventure, i proprii casi, le proprie circostanze, i proprii sentimenti, ne'
personaggi del dramma, e nel loro cuore, affetti, casi, ec. quasi in un
fedelissimo specchio. Si può esser certi che l'intenzione de' greci
tragici, massime de' più antichi, fu tutt'altra, e in certo senso
contraria. Questo effetto era troppo debole, molle, intimo, recondito, sottile,
perchè o i poeti antichissimi fossero capaci di proporselo, o i loro
uditori di provarlo, o provato, di compiacersene. Secondo la natura de' popoli
e de' tempi meno civili, gli spettatori cercavano e i poeti si proponevano nel
dramma un effetto molto più forte e gagliardo ed éclatant, delle
sensazioni molto più fiere, più energiche, piùprononcées;
delle impressioni molto più grandi; ed al tempo stesso meno interiori e
spirituali, più materiali ed estrinseche. I tragici greci cercarono lo
straordinario e il maraviglioso delle sventure e delle passioni, appresso a
poco come fa oggi Lord Byron (con molta maggior cognizione però dell'une
[3484]e dell'altre); tutto l'opposto di quel che si richiedeva per metterle
in relazione, in conformità, e d'intelligenza, con quelle degli uditori.
Sventure e casi orribili e singolari, delitti atroci, caratteri unici, passioni
contro natura, furono i soggetti favoriti de' tragici greci. Tale per certo si
fu l'intenzion loro, sebbene la scelta l'invenzione l'immaginazione non sempre
corrispondesse pienamente all'intento, e talor più talor meno, in chi
più in chi meno. Ma generalmente parlando, e massime, torno a dire, i
più antichi tragici greci, cercarono o amarono di preferenza il sovrumano
de' vizi e delle virtù, delle colpe e delle belle o valorose azioni, de'
casi, delle fortune: al contrario appunto de' moderni tragici che cercano in
tutto questo il più umano che possono. Quindi coloro si rivolsero per lo
più al favoloso, quindi il corrispondente apparato della scena e degli
attori; quindi non solo il soggetto ma il modo di trattarlo, di condurre il
dramma, d'intrecciarlo, di recare lo scioglimento dovettero corrispondere al
fine del poeta e dell'uditorio, che era in questo di ricevere in quello di
produrre una sensazione delle più vive, [3485]delle più
poetiche ec.; quindi anche gli episodii dovettero corrispondere alla natura di
tale scopo e di tal dramma; quindi le furie introdotte nel teatro (nelle Eumenidi
di Eschilo), che fecero abortir le donne e agghiacciare i fanciulli (v. Fabric.
Barthélemy ec.); quindi i soggetti per lo più lontani o di tempo, o di
luogo, di costumi ec. dagli spettatori, benchè tanti soggetti poetici
offrisse ai tragici greci la storia, non pur nazionale ma patria, e non pur
patria, ma contemporanea ec. ec.; quindi le inverisimiglianze d'ogni genere, i
salti, le improvvisate, (fatte per verità con meno arte, varietà
ec. che non farebbero i modi e che non si fa ne' modi drammi e romanzi d'intreccio),
l'intervento sì frequente degli Dei o semidei ec. ec. I moderni
drammatici come gli altri poeti, come i romanzieri ec. si propongono di agir
sul cuore, ma gli antichi tragici, non men che gli altri antichi, sulla
immaginazione. Questa osservazione, che non si può negare, basta a far
giudizio quanto debbano essenzialmente differire i caratteri dell'antico e del
moderno dramma, con che diversi canoni si debba giudicar dell'uno e dell'altro,
quanto sia assurdo il tirar le moderne poesie drammatiche a parallelo d'arte
ec. colle antiche, quasi appartenessero a uno stesso genere, ch'è
falsissimo. Gli antichi tragici non vollero altro che por sotto gli occhi e
l'immaginazione degli spettatori quasi un volcano ardente o altro [3486]tale
terribile fenomeno o singolarità della natura, che niente ha che fare
con quelli che lo riguardano. Essi rappresentavano così quelle sciagure,
quelle colpe, quelle passioni, quelle prodezze, come meteore spaventevoli che
gli spettatori potessero contemplare senza pericolo di nocumento, provando il
piacer della maraviglia, e dello spaventoso impotente a nuocere, senza
però trovare nè dover trovare alcuna conformità o
somiglianza fra esse sciagure ec. e le lor proprie, o quelle de' loro
conoscenti, anzi neppur de' loro simili e degl'individui della loro specie.
Da queste osservazioni si dee raccogliere
per qual ragione non si trovi, e come sia vano il cercare e più il
pretendere di trovare nelle antiche tragedie que' dettagli quelle gradazioni
quella esattezza nella pittura e nello sviluppo e condotta delle passioni e de'
caratteri, che si trovano nelle moderne; anzi neppur cosa alcuna di simile odi
analogo.
Queste osservazioni possono in parte
applicarsi anche alle antiche commedie, massime a quella [3487]che in
Atene si usò da principio e che poi fu chiamata propriamente antica, . Neppure
questa mirava a mettere i personaggi in relazione cogli spettatori, se non con
alcuni in particolare, che in essa erano espressamente rappresentati in
caricatura. Ancor essa mirava ad agir sull'immaginazione, intento affatto
alieno dalla moderna commedia, ed anche da quella che fu chiamata in Grecia la
commedia nuova , o
seconda ,
ch'è del genere di Terenzio, traduttor di Menandro, che ne fu il
principe. Quindi nell'antica commedia le invenzioni strane, non
naturali, poetiche, fantastiche; i personaggi allegorici, come la Ricchezza
ec.; le rane, le nubi, gli uccelli; le inverisimiglianze, le stravaganze, gli
Dei, i miracoli ec. Le antiche commedie non erano propriamente azioni (), ma
satire immaginose, fantasie satiriche, drammatizzate, ossia poste in dialogo;
come quelle di Luciano, conformi in tutto alle antiche commedie, se non
quanto all'estensione, alla personalità, ed altre tali non
qualità ma circostanze estrinseche, accidentali, arbitrarie ec. che non
toccano alla natura del genere ec.
(20. Sett. [3488]1823. Vigilia di
Maria SS. Addolorata.)
Alla p.2928, marg. fine. Da falsus di
fallere (fatto aggettivo) gli spagnuoli falto (seppur e' non
fosse contrazione di fallito, ma non credo, e in tal caso gli spagnuoli
direbbero anzi faldo da un falido), e falta sostantivo per
falsa, e così il franc. faute, cioè falte. E
da falto o da falta il verbo spagn. faltar per falsare
che noi diciamo, e che si disse ancora in latino (v. Forcell.), e che i
francesi dicono fausser; e per fallare o fallire ital., faillir
franc., fallere lat. Faltar la palabra spagn. fausser sa
parole, franc. falsare la fede, Speroni Orazz. Ven. 1596. Or. 8.
contra le Cortegiane, par.2. p.195. ovvero fallire la promessa, ib.
p.198. fine. falseggiar l'amore per mancar delle promesse fatte in
amore, abbandonando una donna per amare un'altra, o amando un'altra insieme,
malgrado delle parole date. Speroni Dial. 1. Ven. 1596. p.9. principio. V.
p.3772.[124]
V. la Crusca e il Glossar.
(21. Sett. Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.)
Molti sono timidi i quali sono insieme
coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società,
i quali nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano
i pericoli [3489]e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.; e non
sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui sosterrebbero
facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in battaglia o in
duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il coraggio
a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro brava i
danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale,
l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il
coraggio, che anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre
con verisimiglianza che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso.
Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la
quale assai facilmente e spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il
temer la vergogna, ch'è male, per così dire, interno e dell'animo,
giacchè nulla nuoce al corpo nè alle cose esteriori, ed opera sul
pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che l'uomo non tema i danni
esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il pericolo ed eziandio la
certezza di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali
agl'interni e spirituali, [3490]e l'anima, per così dire, al
corpo; e volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito,
e morire piuttosto che patir la pena della vergogna. Chè in questo e non
altro consiste quel coraggio che viene da sentimento di onore, e gli effetti
del medesimo. Il qual coraggio ha origine e fondamento, anzi è esso stesso
una spezie di timidità, o certo una spezie di qualità contraria
alla sfrontatezza, all'impudenza, all'inverecondia.
(21. Sett. Festa della Beatissima Vergine
Addolorata. 1823.). V. la pag. seg.
Non si dà nella orazione, qualunque
ella sia, tratto veramente sublime, in cui il lavoro non ceda di grandissima
lunga alla materia, cioè dove l'altezza e il pregio del pensiero,
dell'immagine, e simili, non vinca d'assaissimo la nobiltà, l'eleganza,
e il pregio dell'espressione e dello stile. Una sola virtù
dell'espressione può e deve, in un luogo ch'abbia ad esser sublime,
andar di pari coll'altezza del concetto, e questa si è la
semplicità, o vogliamo dir la naturalezza e l'apparenza della
sprezzatura.
(21. Sett. 1823.)
[3491] J , (Isacco
Casaub. scrive ) , , , (il medesimo legge , ). Epicarmo comico dell'antica commedia, Coo
di patria, ma vissuto in Sicilia, contemporaneo di Gerone tiranno. Frammento
recato da Alcimo appresso Diog. Laerz. in Plat. lib.3.
segm.16. p.175. ed. Amstel. 1692. Wetsten.
(21. Sett. Festa di Maria SS. Addolorata.
1823.)
Rasito as da rado is - rasus,
frequentativo. Il continuativo si trova in francese, cioè raser,
che resta in luogo del positivo, mancante in quella lingua. (22. Settembre
1823.). V. ancora nello spagnuolo, arrasar.
Alla p. precedente. I timidi (cioè
paurosi della vergogna, soggetti alla , mauvaise
honte) non solo sono capaci di non temere nè fuggire il pericolo, il
danno, il sacrifizio, ma eziandio di cercarlo, di desiderarlo, di amarlo, di
bramar la morte, di proccurarsela colle proprie mani. Le stesse qualità
morali o fisiche che portano sovente alla timidezza (ciò sono fra
l'altre, la riflessione, la delicatezza [3492]e profondità di
spirito ec.[125]
onde Rousseau era strabocchevolmente e invincibilmente timido), portano ancora
alla noia della vita, al disinganno, all'infelicità, e quindi alla
disperazione. È veramente mirabile e tristo, non men che vero, come un
uomo che non solo non teme nè fugge, ma desidera supremamente la morte,
un uomo ch'è disperato di se stesso, che conta già la vita e le
cose umane per nulla, un uomo ch'è risoluto eziandio di morire, tema
ancor tuttavia l'aspetto degli uomini, si perda di coraggio nella
società, si spaventi del rischio di essere ridicolo (rischio ch'egli ha
sempre davanti agli occhi, e il cui pensiero e timore si è quello che lo
rende timido), e non abbia coraggio d'intraprender nulla per migliorare o
render meno penosa la sua condizione, e ciò per tema di peggiorar quella
vita della quale egli non fa più caso alcuno, della quale ei dispera,
che non può parergli possibile a divenir peggiore, odiandola già
egli tanto da desiderar sommamente d'esserne liberato, o da volere
determinatamente gittarla via. È mirabile che un uomo desideroso o [3493]risoluto
di morire, un uomo che ripone il suo meglio nel non essere, che non trova per
lui miglior cosa che il rinunziare a ogni cosa; stimi ancora di aver qualche
cosa a perdere, e cosa tanto importante, ch'egli tema sommamente di perderla; e
che questa opinione e questo timore gli renda impossibile la franchezza, e il
gittarsi disperatamente nella vita ch'ei nulla stima; ch'egli ami meglio
rinunziare decisamente a ogni cosa e perdere ogni cosa, che mettersi, com'ei si
crede, al pericolo di perdere quella tal cosa, cioè quella riputazione e
quella stima altrui che l'uomo timido teme a ogni momento di perdere,
conversando nella società, e ch'egli sa però bene di non avere, o
di perderla, mostrandosi timido; ma contuttociò lo rende incapace di
franchezza il timore continuo di perdere, e la continua e affannosa cura di
conservare, quello ch'ei comprende di non possedere, quello ch'ei ben s'avvede
o di perdere necessariamente o di non mai potere acquistare se non deponendo
quel continuo ed eccessivo timore, quella continua ed eccessiva cura. Tutte
queste misere e strane contraddizioni [3494]e tutti questi accidenti
hanno luogo (proporzionatamente più o meno ec.) nelle persone timide, e
più quanto elle sono di spirito più delicato ec. delicatezza che
bene spesso è la sola o la principal cagione della timidità. Ma
quanto al temere ancora la vergogna desiderando la morte o essendo disposto di
proccurarsela, si spiega col vedere che quel coraggio il quale non nasce da
cause fisiche, nè da atto o abito naturale o acquisito d'irriflessione,
ma per lo contrario nasce da riflessione accompagnata col sentimento d'onore, e
da delicatezza d'animo (non da grossezza, come quell'altro) preferisce
effettivamente la morte alla vergogna, e tanto è più pauroso di
questa che di quella, che ad occhi aperti e deliberatamente sceglie in fatto la
prima piuttosto che la seconda, e antepone il non vivere alla pena di
vergognarsi vivendo.
(22. Sett. 1823.)
Si suol dire che gli antichi attribuivano
agli Dei le qualità umane, perch'essi avevano troppo bassa idea della
divinità. Che questa idea non fosse appo loro così alta come [3495]tra
noi, non posso contrastarlo, ma ben dico che se essi attribuirono agli Dei le
qualità umane, ne fu causa eziandio grandemente l'aver essi degli uomini
e delle cose umane e di quaggiù troppo più alta idea che noi non
abbiamo. E soggiungo che umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar
questi, quanto onorare e inalzar gli uomini; e ch'effettivamente non più
fecero umana la divinità che divina l'umanità, sì nella
lor propria immaginazione e nella stima popolare, sì nella espressione
ec. dell'una e dell'altra, nelle favole, nelle invenzioni, ne' poemi, nelle
costumanze, ne' riti, nelle apoteosi, ne' dogmi e nelle discipline religiose
ec. (22. Sett. 1823.). Tanto grande idea ebbero gli antichi dell'uomo e delle
cose umane, tanto poco intervallo posero fra quello e la divinità, fra
queste e le cose divine (non per abbassar l'une ma per elevar l'altre,
nè per disistima dell'une ma per altissimo concetto dell'altre), ch'essi
stimarono la divinità e l'umanità potersi congiungere insieme in
un solo subbietto, formando una persona sola. Onde immaginarono un intiero
genere participante [3496]dell'umano e del divino, participazione che
lor sembrò naturalissima, e ciò furono i semidei. E similmente i
fauni, le ninfe, i pani ed altre tali divinità, anzi semidivinità[126] terrestri,
acquatiche, aeree, insomma sublunari, reputate mortali, si possono ridurre a
questo genere di partecipanti (vedi il Forcellini in Nympha):
sebben elle erano inferiori ai semidei, come Ercole (di cui vedi Luciano Dial.
d'Ercole e Diogene, che fa molto a proposito), cioè participanti forse
di minor parte di divinità e più d'umanità o
mortalità; siccome gli eroi, finch'essi sono mortali possono parere un
grado inferiori a' Pani, ninfe ec. cioè men divini. (V. Forcell. in Heros,
Indigetes, Semideus; e Platone nel Convito ed. Astii t.3. 498. D- 500. E, che fa ottimamente al caso).[127]
Gli antichi non trovarono maggior difficoltà a comporre in un suggetto
medesimo l'umanità e la divinità, di quel che a comporre i due
sessi umani, il maschio e la femmina, negl'immaginari ermafroditi; quasi
l'umano e il divino fossero, non altrimenti che il virile e il donnesco, due
diverse specie, per dir così, d'un genere istesso, nè maggior
differenza, o intervallo, [3497]o distinzion di natura fosse tra loro.
(22. Sett. 1823.)
Le speranze che dà all'uomo il
Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato
in questo mondo, a dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù
i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini,
chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli
onori temporali, inimicato dalla fortuna. La promessa e l'aspettativa di una
felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1°. che l'uomo
non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o
congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2°.
ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare
nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3°.
ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella
che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è
negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la
causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale [3498]espettativa
è ben poco atta a consolare in questa vita l'infelice e lo sfortunato, a
placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue
privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una
felicità temporale, una felicità materiale, e da essere
sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è
presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa
vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che noi
sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo
concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la
perfezione e il fine dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici
perocchè esistiamo.[128]
Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser
felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti
esistiamo. È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il
fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La
nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè
desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a
tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria
ma altrui, [3499]ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma
altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in
qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità
che l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e
propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua
presente esistenza. Nè egli può mai lasciar di desiderar questa
felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai
desiderare altra felicità che questa. E non è più
possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati,
di quello che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella
dell'animale; di quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua
natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e
delle cognizioni, piacere che l'animale non può concepire nè che
possa esser piacere, nè come, nè qual piacere sia; e così
discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale
nè verun altro essere, può esattamente definire nè a se
stesso nè agli altri, qual sia assolutamente e in generale la
felicità ch'ei desidera; perocchè [3500]niuno forse l'ha
mai provata, nè proveralla, e perchè infiniti altri nostri
concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri, sono per noi
indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che
dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che
dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali
che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti
quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed
abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma
ciò non ostante, sì l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o
certo sente, che la felicità ch'ei desidera è cosa terrena.
Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e
perchè, s'è dichiarato altrove), quel medesimo è un
infinito terreno, bench'ei non possa aver luogo quaggiù, altro che
confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed
appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva senz'alcun
desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o positivo, nel
conseguimento [3501]del quale o di più d'uno di loro, ei ripone
sempre o espressamente o confusamente, benchè pur sempre per errore, la
sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun desiderio al
mondo, se non quello di un non so che, quell'essere infelice senza mancare di
niun bene nè patire assolutamente niun male, è impossibile; e se
Augusto diceva d'essere in questo caso, poteva parergli che così fosse,
ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente in tal caso nè
è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè
è per mancar materia di qualche desiderio determinato, più o men
vivo, o ch'esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci
dispiaccia. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e vivi
desiderii determinati di questa specie. Or tutti questi desiderii determinati
che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici,
sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere all'infelice una
felicità celeste, benchè intera e infinita, e superiore senza paragone
alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli desidera, si è come a un che si
muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto
morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo
divario che l'affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo
odorato da quella sensazione, [3502]e questo piacere sarebbe della
medesima natura di quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e
sensibile come l'altro. Non così possiamo dire de' piaceri celesti
promessi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual caso l'uomo si trova
naturalmente e necessariamente sempre, e l'infelice massimamente, benchè
tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè tutti e sempre si trovano
nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che
s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi
desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor
natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue
che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in
effetto; perchè a chi desidera una cosa si promette un'altra ch'è
diversissima da quella; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto,
si promette di soddisfare un desiderio ch'ei non ha e non può per sua
natura avere nè formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un
male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non conosce nè
può conoscere, e ch'ei non vede nè può vedere come sia per
esser bene, e come possa piacergli; [3503]a chi è misero in
questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza,
ed altra esistenza non può concepire nè desiderarne la
felicità, si promette la beatitudine di una tutt'altra esistenza e vita,
di cui questo solo gli si dice, ch'ella è sommamente e totalmente e
più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch'ei
non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo non
può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè
con veruna facoltà nè veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol
punto la materia, e s'egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque
di cosa non materiale, s'inganna del tutto; così egli non può col
desiderio passare d'un sol punto i limiti della materia, nè desiderar
bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch'ei
prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra natura, s'inganna, e non la desidera,
ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei non può desiderar bene alcuno
d'altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni, non
può per modo alcuno [3504]consolarlo realmente nè de' mali
di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, nè (quando e'
non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza
dell'aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.
Di più, l'uomo si pasce per verità e si sostiene e vive
grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza,
ancorchè lontana, la qual è un piacere, ma come e perchè?
Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso a parte a parte
il godimento ch'egli attende o spera, e prova diletto nel considerare e
rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, e le sue qualità e
condizioni e circostanze, anticipando ed anzi assaporando effettivamente colla
immaginazione mille volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa
rappresentazione, quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o
sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor
più ch'ei nol sarà quando si troverà presente in effetto
(se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a
un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o
nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere
di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte? Come ci
può per verun deliro o veruno sforzo dell'immaginazione o dell'intelletto
parer presente [3505]quello a cui nè l'immaginazione nè
l'intelletto non si possono neppure a grandissimo tratto avvicinare; quello che
non è fatto nè per questa immaginazione nè per questo
intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che
l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che
non sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il
congetturarlo; quello che spetta a tutt'altra natura che la nostra presente?
Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra una
tutt'altra natura?
Certo l'uomo desidererà sempre di
esser liberato dai dolori e dai mali ch'egli effettivamente prova, e di
conseguire quelli ch'ei crederà beni in questa vita, e di esser felice
in questo mondo in ch'egli vive. E non potendo mai lasciare di desiderarlo
niente più ch'ei possa ottenerlo, e la religion cristiana non
soddisfacendo a questo suo unico e perpetuo desiderio, nè
promettendogli di soddisfarlo mai per niun modo, anzi non dandogliene speranza
alcuna, segue che le speranze cristiane non sieno atte a consolare
effettivamente [3506]il mortale, nè ad alleviare i suoi mali
nè i suoi desiderii. E la felicità promessa dal Cristianesimo non
può al mortale parer mai desiderabile, se non in quanto infinita, anzi
in quanto perfetta (chè infinita e non perfetta nol contenterebbe), e in
quanto felicità, astrattamente considerata, ma non già in quanto
tale qual ella è, e di quella natura di ch'ella è. Ed oso dire
che la felicità promessa dal paganesimo (e così da altre religioni),
così misera e scarsa com'ella è pure, doveva parere molto
più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la
speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare,
perchè felicità concepibile e materiale, e della natura di quella
che necessariamente si desidera in terra.
Osservisi che di due future vite, l'una
promessa l'altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior
effetto di quella. E perchè? perchè ci s'insegna che nell'inferno
(e così nel Purgatorio) avrà luogo la pena del senso. Onde
ci si rende concepibile nel genere, benchè non concepibile
nell'estensione, la pena che dee aver luogo in una vita e in un modo di essere [3507]a
noi d'altronde inconcepibile non meno che quello de' Beati nel Paradiso. E
sebbene noi non possiamo concepire il modo in cui questa pena possa aver luogo
nell'altra vita e nell'anime ignude, pur ci si dice ch'ella ha luogo miris
sed veris modis (S. Agostino), restando fermo ch'ella è pena
sensibile e materiale; onde noi non sapendo nè immaginando il come,
sappiamo però bene e concepiamo il quale sia quella pena.
E perciò può dirsi con
verità che il Cristianesimo è più atto ad atterrire che a
consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è
certissimo infatti che l'influenza da lui esercitata sulle azioni degli uomini,
è sempre stata ed è tuttavia come di religion minacciante assai
più che come di religion promettente; ch'egli ha indotto al bene e
allontanato dal male, e giovato alla società ed alla morale assai
più col timore che colla speranza; che i Cristiani osservarono e osservano
i precetti della religion loro più per rispetto dell'inferno e del
Purgatorio che del Paradiso. E Dante che riesce a spaventar dell'inferno, non
riesce nè anche poeticamente parlando, a invogliar punto del Paradiso; [3508]e
ciò non per mancanza d'arte nè d'invenzione, ec. (anzi ambo in
lui son somme ec.) ma per natura de' suoi subbietti e degli uomini.
(Similmente, con proporzione, si può discorrere dell'Eliso e
dell'inferno degli antichi, questo molto più terribile che quello non
è amabile; dello stato de' reprobi e della felicità de' buoni di
Platone ec.).
È anche certo che siccome il
Cristianesimo senza il suo inferno e il suo Purgatorio e col solo suo Paradiso,
non avrebbe avuta e non avrebbe sulla condotta e sui costumi degli uomini
quella influenza ch'egli ebbe ed ha, così non l'avrebbe avuta, o minore
assai, se e' non avesse minacciato nell'inferno e nel Purgatorio una pena di
qualità concepibile, e s'egli avesse solo minacciata la pena del danno
ch'è di qualità inconcepibile, e di natura diversa dalle pene di
questo mondo; benchè non tanto, quanto la beatitudine celeste dalle terrene;
perchè noi concepiamo pure e sentiamo per esperienza come ci possa fare
infelici la privazione e il desiderio di beni non mai provati, mal conosciuti,
ed anche non definibili; dei desiderii vaghi ec. Onde anche non concependo il
bene del Paradiso, possiamo in qualche modo concepire come la privazione
irreparabile e il desiderio continuo ed eterno di esso, possa fare infelici,
massime chi sa di non poter esser mai soddisfatto, [3509]e pur sempre
desidera, e sa d'aver sempre a desiderare, e chi è certo di penar sempre
allo stesso modo, e di essere eternamente infelice senza riparo, e senza
sollievo alcuno ec. Tutto ciò noi possiamo ben concepire, quasi
secondariamente, come possa esser causa di somma infelicità,
benchè non possiamo concepirlo primariamente, cioè la
qualità di quel bene che nell'inferno ec. si desidera, e la cui
privazione e desiderio fa infelici i dannati ec.
(23. Sett. 1823.)
Niente d'assoluto. - Veggasi il pensiero
antecedente, in particolare p.3498-9. margine. nel quale si dimostra che
nè l'uomo nè alcun vivente non desidera neppur la felicità
assolutamente, ma relativamente, e solo s'ella conviene alla di lui propria
natura, ed è richiesta dal di lui modo particolare di essere ec. e in
quanto ella sia tale. ec. Nè perchè una cosa sia felicità,
per questo solo ei la desidera, nè si compiace nello sperarla, quando
ella non convenga al suo modo di essere ec. - Si può però dire
per un lato, che l'uomo desidera la felicità assolutamente. Veggasi la
p.3506. Ei non desidera tale o tale felicità, s'a lui non conviene: e dovendo
desiderare una tale felicità, ei non può desiderar se non
la conforme e propria al suo modo di essere. Ma la felicità
assolutamente e indeterminatamente considerata, e s'ei così la considera,
ei non può non bramarla, cioè in quanto felicità
semplicemente
Di qual cosa par che si possa ragionare
più assolutamente che della lunghezza o estensione di una data porzione
di tempo? la quale si misura esattamente coll'oriuolo, e si divide [3510]perfettamente
in parti anche minutissime, non col pensiero solo, ma con gl'istrumenti da
ciò, e come fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e si
raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza che dà
l'aritmetica. Ora egli è certissimo che la lunghezza di una medesima
quantità di tempo ad altri è veramente maggiore ad altri minore,
e ad un medesimo individuo può essere, ed è, quando maggiore
quando minore. Onde può dirsi con verità che una medesima data
porzione di tempo or dura più or meno ad un medesimo individuo, ed a chi
più a chi meno. Lasciamo stare che il tempo disoccupato, annoiato,
incomodato, addolorato e simili, riesce e si sente esser più lungo che
quel medesimo o altrettanto spazio di tempo, occupato, dilettevole, passato in
distrazione e simili[129]; e
ciò ad un medesimo individuo, o a diversi individui d'una sola specie in
un tempo medesimo, o in tempi diversi. Lasciando questo, si osservi che agli
animali i quali vivono meno dell'uomo per lor natura, a quelli che vivono al
più trent'anni, venti, dieci, cinqu'anni, [3511]un anno solo,
alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni soltanto (chè egli v'ha effettivamente
animali che rispondano a tutte queste differenze di durata, e a cento e
mill'altre intermedie); a questi animali, dico, una data porzione di tempo
è veramente più lunga e dura più che all'uomo, e tanto
più quanto la lor vita naturale è più corta; e l'idea che
ciascun d'essi si forma ed acquista naturalmente della durata e quantità
di una tal porzione qualunque di tempo, è assolutamente maggiore di
quella che l'uomo concepisce; e maggiore in ragione esattamente inversa della
lunghezza ordinaria del viver loro. E s'egli è vero come dicono, che
nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia degli animaletti, tra i quali, quei, i
quali essendo nati il mattino, muojono la sera, sono i più vecchi, e
muojono carichi di figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo
(Genovesi, Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla Morale. Meditaz. 1.
Piacere dell'esistenza. §. o articolo 12. Bassano, Remondini 1783. p.26. Vedilo
dall'articolo 11. al fine della Meditazione); [3512]se questo, dico,
è vero (che ben può essere,[130] e
se non d'essi animaletti, d'altri, visibili o invisibili; e se no, discorrasi
proporzionatamente di quelli che, come di certo si sa, vivono pochissimi
giorni), egli è certissimo che l'idea che questi animali si formano e
naturalmente acquistano della durata e quantità p.e. di una mezz'ora di
tempo, è tanto maggiore della nostra idea, che noi non possiamo pur
concepire il quanto. E veramente una mezz'ora dura per essi indefinibilmente
più che per noi, stante la rapidità delle loro azioni,
sensazioni, passioni ed eventi; il velocissimo succedersi di questi, gli uni
agli altri; la inconcepibile prontezza del loro sviluppo; la rapidità,
per così dire, della lor vita ed esistenza; e stante ch'essi in una
mezz'ora, in un minuto, vivono ed esistono, si può ben dire, assai
più che noi nè gli altri più macrobii animali, in
quel medesimo spazio, non fanno; e la loro esistenza in un minuto è veramente
di quantità e d'intensità ec. maggiore che la nostra non
è, in altrettanto spazio, e che noi non possiamo pure immaginare. In
contrario senso ragionisi dell'idea che dovettero aver gli uomini naturalmente
della durata e quantità di una data porzione di tempo, quando la [3513]lor
vita naturale era strabocchevolmente più lunga della presente; e proporzionatamente
dell'idea che debbono averne le nazioni (se ve n'ha) che vivono ordinariamente
più di noi (siccome v'ha certo di quelle che vivono meno, e prestissimo
giungono alla maturità, e ciò ne' climi caldi, come nell'America
meridionale, ove le donne si maritano di 10 o 12 anni,[131] e
tra gli orientali ec. e vedi a questo proposito l'Indica di Arriano, c.9.
sect.1-8. e Plinio se ha nulla ec.); e dell'idea che n'hanno gli animali
più longevi dell'uomo, come l'elefante, il cervo, la cornice, la
tartaruga, alla quale pigrissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura
diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico, non lunghissima vita,
perch'ella stante la tardità de' suoi movimenti ed azioni, alla quale
corrisponde quella del suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la sua
natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo assai meno che l'uomo in
altrettanto spazio non fa. E così proporzionatamente gli altri animali
più longevi di noi. E dalle suddette osservazioni si raccoglie che la
somma e quantità della vita, e però la [3514]durata e
lunghezza della medesima, è generalmente e appresso a poco altrettanta
in effetto negli animali ed esseri brachibiotati, che ne' macrobiotati
e negl'intermedii, e niente minore, e così viceversa. Onde la durata di
un medesimo spazio di tempo è naturalmente e generalmente e
costantemente, salve le varie circostanze della vita di una stessa specie e
individuo, accennate di sopra, come la noia, il piacere ec. che variano l'idea
e 'l sentimento della durata ec. sempre però dentro i limiti e la proporzione
e in rispetto dell'idea d'essa durata, propria particolarmente della specie per
sua natura ec. per gli uni maggiore per gli altri minore ec. e non si
può determinare ec. nè giudicarne assolutamente come noi facciamo
ec.
(24. Sett. 1823.)
Transito as, da transeo-transitus.
V. il Forcell. in Transitans. Oggi questo verbo ci è comune, e lo
trovo ancora nello spagnuolo moderno, e mi par eziandio nel francese. Ma in
tutte tre queste lingue egli è piuttosto termine di gazzetta (inutilissimo),
che voce degna della lingua ec.
(25. Sett. 1823.)
Alla p.2984. Vieil da veculus
come oeil da oculus, oreille da auricula o aurecula (corrottamente)
ec. vermeil, vermiglio, vermejo da vermiculus o vermeculus
ec. Sommeil è certamente un somniculus diminutivo, preso
in senso positivo, come somme da somnus. Resta però il
senso diminutivo [3515]a sommeiller che vien da somniculare
come il nostro sonnecchiare, e che serve a confermar la derivazione di sommeil
da somniculus. Appareil; apparecchio, apparecchiare, sparecchio
ec.; aparejo, aparejar dimostrano un diminutivo positivato appariculare
per apparare, (come misculare per miscere, di cui
altrove), appariculus per apparatus;[132]
voci ignote nel buon latino, ma comuni alle tre lingue figlie. V. Glossar. ec.
(25. Sett. 1823.)
A quello che altrove ho detto di occhio
e di ojo, formati regolarmente da oculus, non da ocus,
come potrebbe parere, aggiungasi che anche oeil viene manifestamente da oculus
(v. la pag. qui dietro), e non potrebbe venire da ocus. Aggiungi ancora
a quello che ho detto in tal proposito, che da somniculosus abbiam fatto
oltre sonnacchioso e sonnocchioso, anche sonnoglioso e sonniglioso,
mutato il cul in gli, come in vermiglio da vermiculus,
di cui v. pur la pag. antecedente, e in periglio da periculum, e in
coniglio (conejo) da cuniculus. Quindi i diminutivi spagn.
in illo, da iculus. (25. Sett. 1823.). Abbiamo anche sonnoloso.
[3516]Axilla era voce
antiquata fin dal tempo di Cicerone, e sostituitavi ala (v. Forc. in Axilla,
in X ec.). Antiquata nel parlare e nello scrivere colto. Ora il volgo conservolla
sempre, tanto che la trasmise a noi, i quali usiamo ancora volgarmente e
tuttodì quella voce latina che al tempo di Cicerone era già
disusata. Ascella, aisselle. Così dite di maxilla, (mascella,
mexilla), che pur si trova usata da scrittori posteriori, ma ciò
dovette esser con poca eleganza. Ala e mala che al tempo di
Cicerone in questi significati erano più recenti e più usate di
quell'altre, oggi, restando queste, sono esse affatto perdute in tali significazioni.
(25. Sett. 1823.). Al contrario palus è rimasto, paxillus
perduto; velum è rimasto, vixillum non è per noi
che voce poetica ec.
(25. Sett. 1823.)
Testa si dice anche per ogni
genere di coccia, come di quella de' pesci, onde la tartaruga è
detta testudo ec. Quindi si conferma la congettura da me altrove fatta sopra
l'origine del dir testa, cioè coccia per capo. Si
cominciò a dar quel nome al cranio, ed è metafora o metonimia ec.
molto naturale. V. Forcell.
(25. Sett. 1823.)
[3517]Alla p.3412. fine.
Altrettanto però è certo che una società capace di repubblica
durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta; che
una società pienamente corrotta (come la moderna) non è assolutamente
capace d'altro stato durevole che del monarchico quasi assoluto; e che il non
essere assolutamente capace se non di assoluta monarchia, e l'essere incapace
di durevole stato franco, è certo segno di società pienamente corrotta.
Così, apparentemente, si ravvicinano i due estremi, di società
primitiva, di cui non è proprio altro stato che la monarchia; e di
società totalmente guasta, di cui non è propria che l'assoluta
monarchia. Colla differenza che questa società non è onninamente
capace di altro stato durevole, quella sì; e che in questa non
può durar che una monarchia assoluta cioè dispotica, in quella
una tal monarchia non poteva assolutamente durare; ma l'era propria una
monarchia piena bensì ed intera, ma non assoluta nè dispotica;
una monarchia dove il re era padron di tutto, e il suddito niente manco libero.
Del resto s'egli è [3518]proprio carattere sì della
società primitiva come della più corrotta l'essere ambedue per
natura monarchiche di governo, non è questo il solo capo in cui si veda
che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai
loro principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o
tanto più quanto a questo termine più s'avvicinano, si trovano di
nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed
essere che nel cominciar d'essa carriera. Bensì per cagioni ben diverse
e contrarie a quelle d'allora: onde questi effetti e questo stato sono ben
peggiori ritornando, che allora non furono; e se e dove furon buoni e
convenienti all'umana società ed alla felicità sociale nel
principio, son pessimi nel ritorno e nel fine ec.
(25. Sett. 1823.)
Superiorità della natura sulla
ragione, dell'assuefazione (ch'è seconda natura) sulla riflessione. -
Mio timor panico d'ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi, (come tuoni ec.),
ma senz'ombra di pericolo (come spari festivi ec.); timore che stranamente e
invincibilmente [3519]mi possedette non pur nella puerizia, ma
nell'adolescenza, quando io era bene in grado di riflettere e di ragionare, e
così faceva io infatti, ma indarno per liberarmi da quel timore,
benchè ogni ragione mi dimostrasse ch'egli era tutto irragionevole. Io
non credeva che vi fosse pericolo, e sapeva che non v'era pericolo nè
che temere; ma io temeva niente manco che se io avessi saputo e creduto e
riflettuto il contrario. (puoi vedere la p.3529.). Non potè nè la
ragione nè la riflessione liberarmi di quel timore irragionevolissimo,
perch'esso m'era cagionato dalla natura. Nè io certo era de' più
stupidi e irriflessivi, nè di quelli che men vivono secondo ragione, e
meno ne sentono la forza, e son meno usi di ragionare, e seguono più
ciecamente l'istinto o le disposizioni naturali. Or quello che non potè
per niun modo la ragione nè la riflessione contro la natura, lo
potè in me la natura stessa e l'assuefazione; e il potè contro la
ragione medesima e contro la riflessione. Perocchè coll'andar del tempo,
anzi dentro un breve spazio, essendo io stato forzato in certa occasione a
sentire assai da vicino e frequentemente di tali scoppi, perdei quell'ostinatissimo
e innato timore in modo, che non solo trovava piacere in quello [3520]che
per l'addietro m'era stato sempre di grandissimo odio e spavento senza ragione,
ma lasciai pur di temere e presi anche ad amare nel genere stesso quel che
ragionevolmente sarebbe da esser temuto; nè la ragione o la riflessione
che già non poterono liberarmi dal timor naturale, poterono poscia,
nè possono tuttavia, farmi temere o solamente non amare, quello che per
natura o assuefazione, irragionevolmente, io amo e non temo. Nè io son
pur, come ho detto, de' più irriflessivi, nè manco di riflettere
ancora in questo proposito all'occasione, ma indarno per concepire un timore
che non mi è più naturale. Questo ch'io dico di me, so certo
essere accaduto e accadere in mille altri tuttogiorno, o quanto all'una delle
due parti solamente, o quanto ad ambedue. - Quello che non può in niun
modo la riflessione, può e fa l'irriflessione.
(25. Sett. 1823.). V. p.3908.
Tre stati e condizioni della vecchiezza
rispetto alla giovanezza[133] ed
alle altre età. 1. Quando il genere umano era appresso a poco
incorrotto, o certo proclive ed abituato generalmente alla virtù, e
quando l'esperienza insegnava all'individuo le cose utili a se ed agli altri,
senza disingannarlo delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili,
magnanime [3521]ec.; nè gli dimostrava la perversità degli
uomini, che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire
della virtù, che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per
naturale istituto aveva intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva;
allora i vecchi, come più ricchi d'esperienza e più saggi, erano
più venerabili e venerati, più stimabili e stimati, ed anche in
molte parti più utili a' loro simili e compagni ed al corpo della società,
che non i giovani e quelli dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la
società umana e giunta la corruzione al mezzo, o più oltre,
l'esperienza dovette fare tutto il contrario delle cose dette di sopra, e
distruggendo le buone disposizioni naturali, e le qualità contratte ne'
primi anni, render l'individuo tanto peggiore di carattere, d'animo, di
costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più egli avesse
sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società) molto meno
stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i
giovani ec.; molto più tristi, svergognati, [3522]finti, coperti,
furbi, traditori, malvagi insomma, alieni dal ben fare, e dannosi, o inclinati
a far danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre
età, e massime i giovani, furono molto più degni di stima e molto
più utili o men dannosi, perchè meno corrotti; più buoni
perchè più naturali; più proprii a ben fare, più
misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più
generosi per natura dell'età, men guasti dall'esempio e dalle cattive
massime, o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione sociale di gran
lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel quale
oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar
lungamente o in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè
lunga esperienza nè d'assai mali esempi per corrompere negl'individui la
sempre buona natura ed indole primitiva; nascono, si può dir, gli uomini
già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed ogni sorta di
bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il
giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio
di malizia, [3523]di frode, di malvagità, e conosce il mondo
assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per
ben contrarie cagioni e con ben contrari effetti (veggasi la p.3517-8.) son
tornate le cose appresso a poco nel loro stato primiero. I giovani
massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi, perchè in
essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si
aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e
l'impeto e il fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al
bene, ora conducendogli dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende
gl'individui tanto più cattivi, perniciosi ed odiabili, quanto esso
ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò
già più stimabili nè venerabili, ma più tollerabili
e meno da essere odiati e fuggiti che quelli dell'altra età, siccome
meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e siccome
anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui,
perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga
esperienza più disingannati [3524]de' piaceri e de' vantaggi di
questa vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza
e l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità,
divenute oggi cagione, non già di bene nè di bontà, ma di
minor male e cattiveria, che non il calor naturale e l'inesperienza che
già furon cagioni principali di bontà, ed or sono cagioni di maggiore
ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza rispetto alla gioventù
(e proporzionatamente all'altre età), come il meglio al bene; poscia
come il cattivo al buono; in ultimo è (e probabilmente sarà
sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al pessimo.
Quel che s'è detto della vecchiezza e
della gioventù ec. dicasi ancora di quei caratteri e disposizioni
degl'individui, o naturali e primitive, o acquistate e avventizie, le quali
hanno faccia e sembianza di vecchiezza, di gioventù ec. e rispondono
all'indole e qualità proprie di queste età, benchè ad esse
disposizioni ec. non corrisponda in fatto l'età [3525]reale de'
rispettivi individui, anzi sia loro ben diversa o contraria ec.
(25. Sett. 1823.)
L'uomo tanto può fare e patire quanto
egli è assuefatto di fare e di patire (o che l'assuefazione continui, o
che quantunque passata, ne restino gli effetti totalmente o in parte), niente
più niente meno.
(26. Sett. 1823.)
Tutti hanno provato il piacere, o lo
proveranno, ma niuno lo prova. Tutti hanno goduto o godranno, ma niuno gode.
Questo pensiero spetta a quelli sopra il non darsi piacere se non futuro o
passato.
(26. Sett. 1823.)
Alla p.3141. marg. Ho detto che Argante,
Solimano e Clorinda sono i soli Eroi degl'infedeli. Perocchè d'Altamoro
e degli altri dell'esercito egizio, che non vengono, si può dire, in
iscena prima dell'ultimo canto (si nominano nel 17° e nel 19° ma nulla operano)
non pare che sia da tener conto, e l'interesse per loro non ha tempo di nascere
perchè troppo poco conversano coi lettori, oltre che il Tasso li fa
molto più barbari ancora e salvatichi, disumani ed odiosi di Argante e
di Solimano, e più empi, dispregiatori degli uomini e degli Dei e
d'ogni religione ec. Eroi Cristiani che soprassalgano, non v'ha nella
Gerusalemme, oltre Goffredo, che Raimondo, Tancredi e Rinaldo. Ma questi sono
ottimamente variati tra loro, e gli ultimi due squisitamente nuancés a
rispetto l'uno dell'altro. E la superiorità di Goffredo e di Rinaldo
è ben decisa e tale che i lettori non possono nè dubitarne
ciascuno fra se, nè contrastarne fra loro, nè ricusare al poeta
di confessarla; e con tutto questo ella non si nuoce scambievolmente, nè
fa torto neppure a Tancredi o a Raimondo ec. In tutta questa parte
l'equilibrio, l'armonia, la [3526]bilanciata ed armonica e concertata e
concordevole varietà che regnano ne' caratteri del valore de' diversi
Eroi de' Cristiani, sono mirabilissime. I quali caratteri erano sommamente
difficili a variare, e però la lor differenza (massime fra Tancredi e
Rinaldo) è piccolissima, ma, quel ch'è maraviglioso, ell'è
nel tempo stesso sensibilissima. Vero è che questa diversificazione l'ha
proccurata e ottenuta il Tasso non tanto col variare le qualità del
valore, quanto colla dispensazion de' successi e delle imprese,
giudiziosissimamente variata e graduata; e coll'altre circostanze, come della
cura del cielo per Rinaldo dimostrata con visioni spedite e tanti miracoli
fatti per produrre il suo ritorno al campo ec. ec.
(26. Sett. 1823.). V. p.3590.
Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare
allegro fuor dell'uso, o più che il momento prima non si era, o di
malinconico farsi giulivo; divenir loquace essendo taciturno di natura, o
rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare,
saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si
stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano
che l'uomo ha bisogno di distrarsi dall'idea del pericolo, e particolarmente di
scacciarla col darsi ad intendere ch'e' non sia pericolo, o non sia grave. E
questo è ciò [3527]che l'uomo proccura di fare dando segni
straordinarii d'allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso dimostrandosi
di non aver nulla a temere, perocch'ei fa cose contrarie a quelle che il timore
propriamente e immediatamente suol cagionare. Affine di non temere, l'uomo
proccura di persuadersi ch'ei non teme, ond'ei possa dedurre che non v'è
ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli è un effetto molto
ordinario di questa passione il muover l'uomo a cose contrarie a quelle a che immediatamente
ella il moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore.
E quelle sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il
timore muove l'uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle
solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che
tali paiono, è uso naturale dell'uomo il cantare, non tanto ad effetto
di figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da
se stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non
teme: appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal [3528]proposito
un luogo molto opportuno del Magalotti segnato da me nelle prime carte di questi
pensieri, sul principio, se non erro, del 1819.). Dai medesimi principii
(più che dal bisogno di distrazione) nasce che in un pericolo comune o
creduto tale, e vero o immaginario assolutamente, piace, conforta, rallegra
l'udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle lor solite operazioni,
l'accorgersi o il credere ch'essi o non istimino che vi sia pericolo, o nulla
per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e di quello che infino
allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto; o che non lo temano,
e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli altri, o l'opinione
che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi, incoraggisce l'individuo che
teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a se stesso è un farsi
coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col dare a se stesso in
se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo pericolo,
ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di aver
nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non [3529]è
certamente coraggioso, o in tale occasione non ha coraggio. E chi ha bisogno
per non temere, di credere che non vi sia pericolo, cioè ragion di
temere, o di sminuirsi l'opinion del pericolo, e di credere che questo
pericolo, questa ragione sia piccola, o minore e più leggera ch'ella non
è, ed altrimenti teme; non è coraggioso, perchè niun teme
quello ch'ei non crede da temersi, e niun teme fuori dell'opinion del pericolo,
vera o falsa, o ancor menoma ch'ella sia, o non ragionata, ma quasi istinto e
passione (come quella di cui vedi la p.3518-20. e massime 3519. marg.)
Anche il dolore degli uomini si consola o si
scema col persuadersi che il danno, la sventura ec. o non sia tale, o sia minore
ch'ella non è, o ch'ella non apparisce, o ch'ella non fu stimata a
principio; e forse (eccetto quella medicina che reca la lunghezza del tempo) il
dolore si consola o mitiga più spesso così che altrimenti. Per
questo nelle pubbliche calamità, quando importa che il popolo sia lieto,
o non abbattuto, o men tristo che non sarebbe di ragione, si proibiscono e tolgono
i segni di lutto, e si ordinano e introducono feste e segni (anche
straordinarii) di allegria. [3530]E ciò bene spesso non tanto
come cagioni, quanto appunto come segni di allegria; non tanto a produrla
dirittamente, quanto a dimostrarla; non tanto a divertir gli animi dal dolore e
dalla mestizia, quanto a persuaderli che non ve ne sia ragione, o che questa
sia minore che non è. Nelle pesti o contagi si vieta il sonar le campane
a morto. Nelle sconfitte si cela al popolo il successo, si proibisce ogni segno
di lutto pubblico, si accrescono le feste, si fingono e spargono ancora delle
novelle tutte contrarie al vero e piene di felicità. È proprio
del buon capitano il mostrarsi lieto o indifferente a' suoi soldati dopo un rovescio
ricevuto, dopo la nuova di un disastro ec. (Queste cose appartengono ancora al
discorso del timore). Così negl'individui. L'afflitto si consola bene
spesso o si rallegra, non tanto colla distrazione, quanto col dar segni a se
stesso d'esser lieto o consolato, col canto, con altri atti ed operazioni
d'uomo allegro o indifferente. Alla prima nuova, o al primo avvedersi in
qualunque modo di un danno, di una sciagura ec., l'animo fa sovente ogni sforzo
prima per non creder il fatto, ancorchè veduto cogli occhi propri, o con
altri sensi ec. o per non [3531]credere che sia sciagura, poi per
crederla molto minore ch'ei non è, poi alquanto minore, passando
così più o meno rapidamente di mano in mano e di grado in grado per
questi vani tentativi fino all'intera cognizione e forzata persuasione della
vera grandezza del male, o fino a quell'ultimo tentativo che riesce, restando
l'animo in una persuasione più o manco inferiore al vero. Chiunque nel
pericolo in cui non v'è nulla a fare, comparisce diverso da quel ch'ei
suole, qualunque ei soglia essere, e qual ch'ei divenga, e quanta che sia
questa diversità, non è coraggioso, o in quel caso non ha vero
coraggio.
Tornando al discorso del coraggio, il vero e
perfetto coraggio (quando si tratti di un pericolo dove l'individuo non abbia
nulla a fare per ischivarlo o mandarlo a vuoto) dee tanto esser lontano dal
muover l'uomo ad allegria o dimostrazione d'allegria straordinaria o diversa
dalla disposizione in che egli era il momento prima dell'apprensione del
pericolo, quanto dal muoverlo a palpitare, a impallidire, a tremare, a dolersi,
a perdersi d'animo, a cadere in tristezza, a divenir taciturno o serio contro
il suo solito o contro quel ch'egli era il momento prima, a piangere, e a
provar gli altri effetti immediati, e dar gli altri segni espressi e formali
del timore. Com'ei non può produrre gli effetti nè i segni propri
del timore, e deve impedirli, [3532]così ed altrettanto ei non
può produrre e deve impedire gli effetti e i segni che paiono più
contrarii a quelli del timore: dico, in quanto questi effetti e questi segni
abbiano relazione al presente pericolo, e da esso, in quanto proprio pericolo,
sieno occasionati, e non vengano da altre cagioni indifferenti. Ad essere
perfettamente e veramente coraggioso, o a fare una prova particolare di vero e
perfetto coraggio (il quale può essere ed atto ed abito, e quello talora
senza questo), si richiede da una parte conoscere pienamente tutta la vera
qualità e la vera grandezza del pericolo, o esserne pienamente persuaso,
vero o creduto ch'ei sia; dall'altra parte non mutarsi per tale cognizione
ovvero opinione e per tal pericolo, non mutarsi, dico, in nessunissimo conto
nè nell'animo, nè nell'esterno, ma conservare esattamente e
veramente lo stato del momento prima, allegro o malinconico ch'ei fosse, e
seguitare, quanto è materialmente possibile, le stesse operazioni ec.
nello stesso modo, in quanto e come si sarebbero seguitate, se il pericolo o
l'opinione [3533]o la cognizione di esso non fosse sopravvenuta; insomma
perseverare e conservarsi, o essere o divenir per ogni parte tale nel pericolo
o nell'opinione o cognizione di esso, come appunto sarebbe avvenuto se tal
pericolo, opinione o cognizione non fosse in alcun modo sopraggiunta (eccetto solamente
quello che le circostanze d'esso pericolo impediscono materialmente di fare, o
in qualunque modo, o per non accrescerlo: come se in una tempesta di mare lo
strepito dell'onde m'impedisce di dormire; o se in una battaglia navale, io a
quell'ora in cui sarei certamente andato a passeggiare sulla coperta, me ne
sto, non toccando a me il combattere, chiuso nella mia camera, per non espormi
inutilmente alle palle). Tutto ciò dev'essere senz'alcuno sforzo, come
è manifesto dagli stessi termini, perchè altrimenti lo stato
dell'individuo non sarebbe onninamente lo stesso allora che prima, ma ben
diverso. E dev'esser naturale e vero (che torna a dir lo stesso che senza
sforzo), sì perchè lo stato non sia cangiato, sì
perchè è proprio sovente del timore, come il muovere all'allegria
ec., così ancora il portar l'individuo a fingersi [3534]a se
stesso indifferente, e nulla mutato nè di fuori nè di dentro da
quel di prima; a perseverare con sembianza di tranquillità nelle stesse
azioni, nello stesso stato, e fino nella malinconia, o nell'apparenza esteriore
di essa, nella taciturnità, ed in altre condizioni spesso occasionate
dal timore, se in queste egli si trovava prima del pericolo. Ciò per
farsi coraggio, per persuadersi che non vi sia che temere ec. nè
più nè meno che chi dimostra allegria ec. Questa indifferenza o
dimostrazione d'indifferenza, lungi da essere effetto o segno di coraggio, lo
è anzi di timore. Forse la similitudine può parer vile, ma io non
trovo più naturale immagine di un uomo veramente e perfettamente
coraggioso nell'ora del pericolo, di quella che Pirrone navigando mostrò
a' suoi compagni spaventati nel tempo di una burrasca; e ciò fu un porco
che in un cantone della nave attendea tranquillamente a mangiar le sue ghiande,
mostrando bene all'esterno che anche il suo stato interiore si era appunto tale
quale se la burrasca non fosse stata. Ma una gran differenza che v'ha tra
questa similitudine e il nostro caso, si è che quell'animale [3535]non
conosceva punto il suo pericolo, dovechè l'uomo coraggioso dee
pienamente comprenderlo e giustissimamente stimarlo, senza però
curarsene più di quanto facesse quell'animale.
Un coraggio perfettamente corrispondente a
quella idea che fin qui s'è descritta, com'è il solo che possa
chiamarsi perfetto, anzi vero; così anche, senza fallo, è rarissimo,
e forse in verità non se ne trova nè trovò mai nessun
esempio reale fra gli uomini, che fosse con tutte le debite circostanze ec. da
noi supposte ec. Onde si rileva che il vero coraggio tra gli uomini (e gli
altri animali non ne sono capaci) o non esiste, come però si crede, o
è di grandissima lunga più raro che non è creduto.
Quando poi si tratti di pericolo dove l'uomo
ha qualcosa a fare per ischivarlo, per impedirlo, o per mandarlo a vuoto, per
tornarlo in bene, come il nocchiero e i marinai nella tempesta, il capitano e i
soldati nella battaglia; allora la indifferenza esteriore e l'operar non
altrimenti che se il pericolo non fosse, non è debito del coraggio, anzi
all'opposto; ma è bensì debito del coraggio la perfettissima
calma interiore, la quale lasci le facoltà dell'anima pienamente [3536]libere
di attendere a quello che fa bisogno contra il pericolo, senza che alla cura
che si dee porre in combatterlo, si mesca neppure il menomo turbamento per la
dubbiosa aspettativa del successo. E le operazioni esteriori debbono esser
così riposatamente fatte come quelle che si fanno a qualunque altro
fine. E in esse operazioni una certa avventatezza, un ardir temerario, un
affrontare il pericolo più che non bisogna, un prenderne maggior parte
che non è duopo, un accrescere irragionevolmente esso pericolo, un
gittarsi via fuor di proposito e simili azioni, che paiono segni ed effetti di
sommo coraggio, sono assai sovente tutto l'opposto, cioè segni ed
effetti del timore, come quell'allegria di cui s'è parlato di sopra. Perocchè
tali atti vengono da un'impazienza, da una fretta di veder l'esito, cioè
d'uscir del pericolo col passargli, per così dire, per lo mezzo; da una
confusione dell'anima, dal non poter tollerare la calma della riflessione a
causa del turbamento che si prova, e ch'essa riflessione accrescerebbe; dal non
essere in istato di considerare come si dovrebbe, per aver l'animo sossopra;
insomma dal [3537]non trovarsi in pieno riposo di spirito, e libero da
ogni passione, come vuole il perfetto coraggio, ma per lo contrario sentire una
passione, la quale preferisce e trova più facile e tollerabile uno
sforzo ancorchè difficile e pericoloso, che una riposatezza, che le riesce
intollerabile e troppo penosa, e non solo difficile ma impossibile (come ogni
passione per natura è incapace di riposatezza e l'esclude per la sua
propria nazione, e spinge all'energico, allo sforzo ec.). E questa tal passione
qual è? e qual può essere? non altro che il timore. Un tal animo
è turbato: dunque non fa prova di perfetto coraggio. Come colui che nel
pericolo, essendo assalito, o dubitando di esserlo, si diffonde in minacce e in
bravare il nemico. Le parole e gli atti di costui dimostrano il coraggio e il
non aver timore alcuno. Ma la sostanza è ch'egli teme assai, e che cerca
d'allontanare o di scemare il pericolo col mostrare di non temerlo. E
così il timore produce in lui le apparenze del coraggio. Or non
altrimenti accade nel caso suddetto, dove il timore produce una specie di
disperazione [3538](segno ed effetto di timore eccessivo, quand'ella non
è giusta, e quelli che più facilmente e grandemente si disperano
nel pericolo, e che perciò, dovendo necessariamente combatterlo, fanno
opere di maggior ardire, sono appunto i più timidi: il timore è
per essi, come per tutti gli uomini, più insopportabile e penoso del pericolo
e del danno: essi non si precipitano in questo se non perchè hanno
moltissimo di quello, e per fuggir esso timore) di disperazione, dico, che ha
sembianza di straordinario coraggio, e non è che temerità e
cecità di mente prodotta dalla paura; e così nel caso di chi
dimostra allegria ec.
Il perfetto coraggio ne' pericoli ch'esigono
operazione, ha molti più esempi reali che l'altro sopra descritto, e non
è certamente una pura idea come forse l'altro lo è. L'uomo che
pensa a combattere il pericolo, e che in effetto è occupato esteriormente
a combatterlo, si può dir che non pensa al pericolo, bench'ei perfettamente
l'intenda. Quella cura ed attività esteriore ed interiore è una
specie di potentissima, efficacissima e total distrazione che diverte l'immaginativa
[3539]e l'intelletto dal pensiero, dalla considerazione, dalla contemplazione,
per così dire, e dalla vista di quel pericolo medesimo, a cui ella
è tutta intenta di riparare, ed al qual solo ella è rivolta. Essa
occupa tutto l'animo, essa è cura di provvedere al pericolo; ed
occupando tutto l'animo non gli lascia luogo a considerare il pericolo per se
stesso semplicemente. Egli è quasi impossibile a un uomo o ad un vivente
il trovarsi in un gran pericolo, conosciuto e considerato come tale, e affissandosi
in esso col pensiero senza distrazione alcuna, e pienamente e semplicemente
comprendendolo per se stesso, e considerandone e rappresentandosene sia colla
fantasia o anche col solo intendimento e ragione, tutta la qualità e la
grandezza, e il danno che seguirebbe dal suo tristo esito, e riguardando questo
come gran danno realmente; contuttociò non temere, e restare in
perfettissima indifferenza e calma interiore ed esteriore.
Quel che ho detto sin qui del coraggio e del
timore nel pericolo, cioè nel dubbio del danno futuro, si applichi
proporzionatamente al coraggio e al timore che hanno luogo nella certezza del
danno futuro imminente, o più o men prossimo. E intendo [3540]di
quel danno ch'è subbietto di ciò che propriamente si chiama timore,
e timidità, viltà ec. non di quello ch'è materia solamente
di afflizione, dispiacere, cordoglio, ec. o dubbiosamente o certamente
aspettato ch'ei sia (nel qual caso questo dispiacere suole altresì
chiamarsi timore), o ricevuto o presente ec.
Il passato discorso spetta ai pericoli (o
danni ec.) inevitabili e non dipendenti dalla volontà de' rispettivi
individui. Il coraggio d'affrontare o cercare i pericoli volontariamente e potendo
a meno, procede per lo più, e principalmente da natura o abito
d'irriflessione o di non riflettere profondamente; ovvero dal non curare il pericolo,
cioè non considerar come male, o come assai piccolo e spregevol male, il
danno che ne potrebbe seguire, (ancorchè tenuto generalmente grandissimo
o sommo dagli uomini), il che viene a esser quanto non riguardare il pericolo
come pericolo, o dal non credere che questo danno ne possa o debba facilmente o
in niun modo seguire, il che torna il medesimo. Questo coraggio non ha che far
colla idea del perfetto coraggio da noi proposta, il quale impedisce di temere
il pericolo o il danno 1° riguardato com'effettivo danno e pericolo, 2°
perfettamente conosciuto, compreso e considerato. Queste condizioni sono essenziali
al perfetto, anzi al vero e proprio coraggio; e quel che n'è senza, o
non è propriamente coraggio, o imperfetto ec.
(26-7. Sett. 1823.)
[3541]Ho discorso altrove del verbo
periclitor mostrando ch'egli è continuativo di un antico periculor,
fatto dal participio di questo, cioè da periculatus contratto in periclatus
come periculum in periclum, e mutata l'a in i
secondo la solita regola, come in mussito da mussatus. Ora vedi
appunto tal participio periculatus nel Forcellini in essa voce. E nóta
ch'ei dimostra il detto verbo periculor, perocchè dice periculatus
sum, tempo perfetto di periculor come periclitatus sum di periclitor.
(27. Sett. 1823.)
Altrove ho notato e raccolto parecchie
metafore delle voci caput, capo ec. Aggiungi Aristot. Polit. lib.2.
ediz. Flor. 1576. p.159. fine per
testa, a testa, cioè per uno, per ciascuno, ciascuno, singuli.
E v. la Crusca in Testa. ec.
(27. Sett. 1823.)
Monosillabi latini. Pes, spes,[134] dies, nox, fax, nix, res. Nótisi che questi e tutti gli altri monosillabi da me raccolti, sono
radici (anche rex, lex ec. come ho mostrato). E che i nomi greci
corrispondenti, bene spesso, oltre al non essere monosillabi, non sono radici:
come (lat. sol
monosillabo) si deriva da [3542]ec.
ec. e (res)
viene da
indubitabilmente. Ed essendo verisimile che i nomi delle cose più
necessarie e frequenti a nominarsi, più materiali ec., delle cose che
sembrano dover essere state le prime nominate ec. (come sono, almeno in gran
parte, quelle significate ne' monosillabi latini da me raccolti ec.) fossero
radici, non meno che monosillabi; par che ne segua che in greco, ove tali nomi
non sono radici, essi non siano i nomi primitivi greci delle dette cose, e che
questi sieno perduti, e che il latino all'incontro gli abbia conservati; e
così si confermi la maggior conservazione dell'antichità nel
latino che nel greco. E probabilmente i detti nomi latini saranno stati una
volta anche greci, e saranno venuti da quella lingua onde il greco e il latino
scaturirono, ma il latino gli avrà sempre conservati, sino a
trasmettergli alle lingue oggi viventi, e nel greco si saranno poi perduti o
disusati ec. ec.
(27. Sett. 1823.)
Verbi in uare. Perpetuo as da perpetuus.
(28. Sett. Domenica. 1823.). Continuo as, Obliquo as. V. p.3571.
Continuativo o frequentativo. Perpetuito
as da perpetuo asperpetuatus. Vedi Forcell. in Perpetuitassint.
[3543]Se già questa voce non fosse fatta (che nol credo) da perpetuitas,
come forse necessitare ital. ec. da necessitas, di che ho detto altrove.
(28. Sett. 1823.)
Tonsito as da tondeo-tonsus,
frequentativo. Il continuativo l'abbiamo noi; tosare (quasi tonsare).
V. il Gloss. ec.
(28. Sett. Domenica. 1823.)
Nella Bibbia bisogna considerare
l'immaginazione orientale e l'immaginazione antichissima, (anzi di un popolo
quasi primitivo affatto ne' costumi ec. e certo la più antica
immaginazione che si conosca oggidì). Ben attese e pesate e valutate quanto
si deve queste due qualità che nella Scrittura si congiungono,[135]
niuno più si farà maraviglia della straordinaria forza
ch'apparisce ne' Salmi, ne' cantici, nel Cantico, ne' Profeti, nelle parti e
nell'espressioni poetiche della Bibbia, alla qual forza basterebbe forse una
sola di dette qualità. E veggansi le poesie orientali anche non
antichissime, le sascrite antichissime ma de' tempi civili dell'India.
(28. Sett. 1823. Domenica.)
Intorno allo spagn. pintar ho detto
altrove che il primitivo e regolare participio di pingo, tingo e simili,
fu pingitus, tingitus ec.? Poi pinctus, tinctus ec., poi pinctus,
(e quindi pintar, quasi pinctare); [3544]e in questo 3°
stato molti di tali participii rimasero, come tinctus, cinctus ec. Molti
altri passarono a un quarto stato, ove si fermarono, come pictus, fictus
ec. Ma noi li conserviamo per lo più nel 3° stato: pinto, finto.
franc. peint, feint. Abbiamo anche pitto, fitto, ma antichi o
poetici ec. Lo spagnuolo (regolarissimo ne' participii passivi sopra ogni altra
sorella, e sopra la stessa latina ec. nel modo che altrove ho detto)[136]
conserva il primitivo fingitus in fingido.
(28. Sett. 1823.)
Alla p.3341. Vedi a questo proposito Fabric.
B. Lat. ed Ven. t.1. p.76. princip. l. I c.6. de Corn. Nep. §.3. fine. E nótisi
che Catullo, come di stil familiare, inclina ai modernismi nella sua
latinità.
(28. Sett. 1823.). V. p.3584.
Alla p.3496. Platone nel cit. luogo non par
che supponga i démoni un composto d'uomo e Dio, bensì un genere intermedio
tra questo e quello, che serviva, com'egli espressam. dice, di gradazione, e a
riempiere il vôto che sarebbe stato nella serie degli ésseri, tra il divino e
l'umano genere. Pareva dunque agli antichi anche filosofi profondi che tra
questi due generi, tra l'uomo e il Dio, avesse luogo ottimamente la gradazione,
niente manco che tra [3545]specie e specie d'animali, tra il regno animale
il vegetabile ec. Ed erano così lontani dal credere, come oggi si fa,
che la distanza fra l'umano e 'l divino fosse infinita, e infiniti, o molto
numerosi, i gradi intermedi; che anzi egli stimavano che un solo anello s'intrapponesse
nella catena fra' sopraddetti due, e bastasse a congiungerli o continuarli, e
che dall'uomo al Dio un solo grado passasse, due soli gradi s'avesse a montare,
e la serie nonpertanto fosse continua. Aggiungi gli amori degli Dei verso le
mortali e delle Dee verso i mortali (tanto gli antichi stimavano la bellezza
umana), e il congiungersi di quelli o di queste con quelle o con questi (come
se il divino e l'umano non fossero pur due specie assai prossime, ma appresso a
poco una stessa, così diversa, come in molte specie d'animali vi sono
delle sottospecie, altre più forti, belle, maggiori ec. altre meno), e
il generarsi o partorirsi figliuoli mortali dagli Dei e dalle Dee, mortali affatto,
o semidei, come Bacco. ec.
(28. Sett. 1823.)
Il più deciso effetto, e quasi la somma
degli effetti che produce in un uomo di raro ed elevato spirito la cognizione e
l'esperienza degli uomini, si è il renderlo indulgentissimo verso
qualunque maggiore e più eccessiva debolezza, piccolezza, sciocchezza,
ignoranza, stoltezza, malvagità, vizio e difetto altrui, naturale o acquisito;
laddove egli era verso queste cose severissimo prima di tal cognizione; e il
renderlo facilissimo ad apprezzare e lodare le menome virtù e i piccolissimi
pregi, che innanzi alla detta esperienza ei soleva dispregiare, non curare,
stimare indegni di lode, e quasi confondere o non distinguere dalle [3546]imperfezioni;
insomma il renderlo facilissimo e solito a stimare, e difficilissimo, insolito,
anzi quasi dimentico del dispregiare e del non curare, tutto all'opposto di
quel ch'egli era per lo innanzi. Tanto poco vagliono gli uomini. E da
ciò si può dedurre e far esatto giudizio quanto sia il valor vero
e la virtù vera degli uomini.
(28. Sett. 1823.). V. p.3720.
In una città piccola, massime dove
sia poca conversazione, non essendo determinato il tuono della società,
(neppur un tuono proprio particolarmente d'essa città, qual sempre
sarebbe in una città piccola, quando veggiamo che anche le grandi hanno
sempre notabilissime nuances di tuono lor proprio, e differenze da
quello dell'altre, anche dentro una stessa nazione) ciascun fa tuono da se, e
la maniera di ciascuno, qual ch'ella sia, è tollerata e giudicata per
buona e conveniente. Così a proporzione in una nazione, dove non v'abbia
se non pochissima società, come in Italia. Il tuono sociale di questa
nazione non esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non v'è tuono di società
che possa dirsi italiano. Ciascuno italiano ha la sua maniera di conversare, o
naturale, o imparata dagli stranieri, o comunque acquistata. Laddove in una
nazione socievole, e così a proporzione in una città grande, non
è, non solo stimato, ma neppur tollerato, chi non si [3547]conforma
alla maniera comune di trattare, e chi non ha il tuono degli altri,
perchè questa maniera comune esiste, e il tuono di società
è determinato, più o meno strettamente, e non è lecito
uscirne senza esser messo, nella società ec., fuor della legge, e considerato
come da men degli altri, perchè dagli altri diverso, diverso dai
più.
(28. Sett. 1823.)
Circa la radice monosillaba di jungo
da me notata altrove in con-iux o con-iunx ec. aggiungi bi-iux
o bi-iunx, il quale io credo che sia il vero nominativo del genitivo biiugis,
e non, come scrive il Forcell., biiugis biiuge. Ben credo che il detto
nominativo non si trovi, ma neanche, io credo, questo secondo, e quello mi par
più conforme all'analogia di coniux ec. Dicesi ancora biiugus
a um.
(29. Sett. Festa di S. Michele Arcangelo. 1823.)
Radice monosillaba di capio, come
altrove ec. For-ceps. Di facio For-fex.
(29. Sett. 1823.)
Scambio del g e del v di cui
altrove. [3548]Parvolo, parvulo, parvulino (vera pronunzia, da parvulus,
e nondimeno disusata). - Pargolo (antico), pargoletto, pargoleggiare
ec. (moderni ed usati).
(29. Sett. 1823.)
Insetare (che noi volgarmente ma
più correttamente diciamo insitare, e forse così tutti
fuor di Toscana, come anche diciamo insito per innesto) è
continuativo di insero-insevi-insitus (diverso da insero erui ertum);
e ben s'ingannerebbe chi lo facesse tutt'uno coll'altro insetare (da seta)
come par che faccia la Crusca. Il franc. enter forse ha la stessa
origine, se non è fatto dal nome ente. Gli spagnuoli hanno in
questo significato il verbo originale enxerir (insero, insitum o ertum),
come ancor noi l'abbiamo oltre al sopraddetto, ma tra noi è tutto
poetico, cioè introdotto da' poeti, e da loro usato; benchè da
essi pigliandolo, anche in prosa ben l'useremmo.
(29. Sett. 1823.)
Il fine del poeta epico (e simili, e in
quanto gli altri gli son simili), non dev'esser già di narrare, ma di
descrivere, di commuovere, di destare [3549]immagini e affetti, di
elevar l'animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d'infiammare alla
virtù, alla gloria, all'amor della patria, di lodare, di riprendere, di
accender l'emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de' propri
avi, degli eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i
veri e proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee
però fare in modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal
fine, non esser altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema
il quale in verità non faccia altro che raccontare, cioè non
produca altro effetto che di stuzzicare e pascere la semplice curiosità
del lettore, ossia coll'intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con
qualunque mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l'azione
raccontata potesse esser nobile sublime interessante ec. (Di questa specie sono
l'Orlando innamorato, il Ricciardetto e simili). E possono ben essere di questa
natura anche i poemi tessuti o sparsi d'invenzioni capricciose e di favole ec.
come i veri poemi. Anche favoleggiando [3550]sempre o quasi sempre, un
poema può non far veramente altro che raccontare. Questi tali non sono
poemi perchè il poeta ha veramente e principalmente per fine quel ch'ei
non dee senon far vista di avere, cioè il narrare. Ma per lo contrario i
poemi pieni di lunghe descrizioni, di dissertazioni e declamazioni morali,
politiche ec., di sentenze, di elogi, di biasimi, di esortazioni, di
dissuasioni ec. in persona del poeta ec. e di simili cose, non sono poemi epici
ec. perchè il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei
ch'e' non deve se non avere senza mostrarlo.
(29 Sett. 1823.). V. p.3552.
Alla p.2861. fine. Questa proposizione
corrisponde a quell'altra da me in più luoghi esposta, che il piacere
è sempre o passato o futuro, non mai presente, e che quindi non v'ha
momento alcuno di piacer vero, benchè possa parere. Così non v'ha
nè vi può aver momento alcuno senza vero patimento, benchè
possa parer che ve n'abbia (perocchè il patimento venendo a essere
perpetuo, il vivente ci si avvezza per modo insin da' primi istanti del vivere,
che pargli di non sentirlo, e di non avvedersene). [3551]Anzi questa seconda
proposizione è necessaria conseguenza della prima, e quasi la medesima
diversamente enunziata. Perocchè dove non v'ha piacere, quivi ha
patimento, perchè v'ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il
desiderio non soddisfatto è pena. Nè v'ha stato intermedio, come
si crede, tra il soffrire e il godere; perchè il vivente desiderando
sempre per necessità di natura il piacere, e desiderandolo perciò
appunto ch'ei vive, quando e' non gode, ei soffre. E non godendo mai, nè
mai potendo veramente godere, resta ch'ei sempre soffra, mentre ch'ei vive, in
quanto ei sente la vita: chè quando ei non la sente, non soffre; come
nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perchè la
vita non gli è sensibile, e perchè in certo modo ei non vive.
Nè altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o
cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch'è quasi come
intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di esser vivente. In questi
soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei
nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e [3552]perciò
appunto ch'egli è vivente, ed in quanto egli è tale, come nella
mia teoria del piacere ec.?
(29. Sett. Festa di San Michele Arcangelo.
1823.)
Alla p.3550. Il narrare non dev'essere al
poeta epico che un pretesto, la persona di narratore non dev'essere a lui che
una maschera, come al didascalico la persona d'insegnatore. Ma questo pretesto,
questa maschera ei deve sempre perfettamente conservarlo, ed esattamente (quanto
all'apparenza e come al di fuori) rappresentarla, in modo ch'ei sembri sempre
essere narratore e non altro. E così fecero tutti i grandi, incluso
Dante che non è epico, ma il cui soggetto è narrativo, sebben ei
dà forse troppo talvolta in dissertazioni e declamazioni ma torno a
dire, il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di
dottrinale, morale ec.
(29. Sett. dì di S. Mich. Arcang.
1823.)
Alla p.3388. Il vino (ed anche il tabacco e
simili cose) e tutto ciò che produce uno straordinario vigore o del
corpo tutto o della testa, non pur giova all'immaginazione, ma eziandio
all'intelletto, ed all'ingegno generalmente, alla facoltà di ragionare,
di pensare, e di trovar delle verità ragionando (come ho provato
più volte per esperienza), all'inventiva ec. Alle volte per lo contrario
giova sì all'immaginazione, sì all'intelletto, alla
mobilità del pensiero e della mente, alla fecondità, alla copia,
alla facilità e prontezza dello spirito, del parlare, del ritrovare, del
raziocinare, del comporre, alla prontezza della memoria, alla facilità
di tirare le conseguenze, di conoscere i rapporti ec. ec. una certa debolezza
di corpo, di nervi ec. [3553]una rilasciatezza non ordinaria ec. come ho
pure osservato in me stesso più volte. Altre volte all'opposto.
Le passioni che son cose indipendenti dalle
idee, giovano pure assai volte, non solo all'immaginazione, ma eziandio all'ingegno
in genere, alla ragione ec. perocchè negli accessi di passione si
scuoprono non di rado, anche da' piccoli o non esercitati o non riflessivi
ingegni, delle verità così grandi come solide, secondo che ho
detto altrove biasimando l'uso della nuda ragione o facoltà dialettica e
ragionatrice nella filosofia, proprio de' tedeschi ec. E per lo contrario le
passioni mille volte nocciono, impediscono, offuscano, indeboliscono ec. ec.
sì l'immaginazione, sì la facoltà ragionatrice, sì
l'ingegno in genere, la memoria ec. come ognun sa ec. Così ancora il
vino e le cose dette di sopra. ec. (29. Sett. dì di S. Michele Arcangelo.
1823.).
Ho notato altrove che la debolezza per se
stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del subbietto in
ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di vedere e
considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non distrugga
però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto: [3554]insomma
quando o convenga al subbietto, secondo l'idea che noi della perfezione di
questo ci formiamo, e concordi colle altre qualità d'esso subbietto,
secondo la stessa idea (come ne' fanciulli e nelle donne); o non convenendo,
nè concordando, non distrugga però l'aspetto della convenienza
nella nostra idea, ma resti dentro i termini di quella sconvenienza che si
chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli
uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. La debolezza
ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno
può piacere ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto
nel brutto, ma in quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima
non sia la cagione della bruttezza nè in tutto nè in parte. Ora
l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone, naturalmente
amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo posto
in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed
essendo, come altrove ho mostrato, una necessaria e propria conseguenza
dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio delle altre, ne seguirebbe che le
creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza
essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri
ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè
perchè da esso riceve diletto. Senza ciò i fanciulli, [3555]massime
dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo
degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli adulti, le donne
dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio mirando un
fanciullo prova un certo piacere, e quindi un certo amore; e così l'uomo
civile non ha bisogno delle leggi per contenersi di por le mani addosso a un
fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura esigenti ed incomodi, ed
in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente egoisti, offendano l'egoismo
degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi siano per questa
parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri). Ma
il fanciullo è difeso per se stesso dall'aspetto della sua debolezza,
che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira naturalmente (parlando in
genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor proprio degli altri
trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa sua
debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima di
noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi
bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi [3556]delle
donne, nelle quali indipendentemente dall'altre qualità, la stessa
debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così di certi
animaletti o animali (come la pecora, i cagnuolini, gli agnelli, gli uccellini
ec. ec.) in cui l'aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo
d'invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè
ci riesce piacevole ec. E si può osservare che tale ella riesce anche ad
altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano
talora di compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non
deboli quando son maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della
stessa specie (ancorchè non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre
specie (eccetto se non ci hanno qualche nimicizia naturale, o se per natura non
sono portati a farsene cibo ec.); ed apparisce in essi animali una certa o
amorevolezza o compiacenza verso questi piccoli. Similmente negli uomini verso
i piccoll degli animali che cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza
non n'è solamente cagione la piccolezza per se (ch'è sorgente di
grazia, come ho detto altrove), nè la sola sveltezza che in questi piccoli
suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e che è
cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec.
secondo il detto altrove da me sull'amor della vita, onde segue quello del vivo
ec. ma v'ha la [3557]sua parte eziandio la debolezza.
(29-30. Sett. 1823.). v. p.3765.
Untare, untar (spagn.)
da ungo-unctus. Unctito dal medesimo. Urtare, heurter
(franc.) da un urtus partic. di urgeo, oda un ursus mutato
in urtus, come falsus in faltus ec. vedi la p.3488. e
quella a che essa si riferisce.
(30. Sett. 1823.)
Alla p.2984. Anche il nostro vieto
è il positivo vetus. E la doppia terminazione francese vieil
vieux forse non ha altra origine che l'esser questi originalmente due nomi diversi,
l'uno positivo, l'altro diminutivo. Ai diminutivi latini usati positivamente
nello stesso fior della latinità, aggiungi oculus, e vedi quello
che altrove ne ho detto in proposito della voce russa oco, citando
l'Hager. (30. Sett. 1823.). Noi ancora diciamo veglio, vegliardo ec.
voci antiche, ora poetiche, o da vieil, e d'origine provenzale ec. o da veculus
dirittamente, come periglio da periculum del che vedi la
pag.3515 fine e marg.
Alla p.3341. princ. Dire p.e. livre deux,
chapitre dix e simili, sembra veramente esser uso de' francesi più
familiare che letterario. Trovo così scritto a lettere in libri
modernissimi, ma di niun'autorità. In libri alquanto più antichi
ma ben autorevoli, trovo p.e. chapitre dixième ec.
(30. Sett. 1823.). V. p.3560.
[3558]Alla p.3003. mezzo. Su-spicio,
il quale materialmente non si può dire se sia formato da sub, o
da sursum (quando s'ammettesse questa seconda sorta di formazione), vale
certamente guardare di sotto in su, perchè guardare in alto
non è nè si può fare altrimenti che guardando di sotto in
su. Or così dite degli altri tali composti pretesi di sursum.
Fra' quali i grammatici ripongono certamente ancor questo, e ciò
perchè sursum significa in alto, in su. Ora osservino i
suoi derivati suspicor, suspicio onis, ec. anzi pur lo stesso suspicere
e suspectare quando significano sospettare, e mi dicano se
possono esser composti della voce sursum. E mi neghino che non sieno
composti della prep. sub, come nè più nè meno il
greco corrispondente ec. da (inusit.)
specio, inspicio, inspecto ec. suspicor.
(30. Sett. 1823.). I quali vocaboli esprimono il guardar sott'occhio ec.
che fa chi sospetta, il guardare con diffidenza ec. e tutta la forza e
proprietà della metafora, e la ragione per cui spicio in questi
composti significa il sospettare, e la proprietà di tali voci ec. sta
nella prepos. sub.
(30. Sett. 1823.)
Dalle cose altrove dette (nel principio
della [3559]teoria de' continuativi) intorno al verbo aspettare
si può dedurre con verisimiglianza che nel volgare latino aspecto as
avesse il significato che ha oggi in italiano, come l'ebbe in lat. expecto;
massime considerando il corrispondente greco che
letteralmente si renderebbe appunto ad-spectare, e lo spagnolo a-guardar
ec. Attendere attendre per aspettare, è traslazione fatta
appunto nello stesso modo, cioè dalla significazione di osservare
a quella di aspettare (e notate anche in attendere la preposizione
ad in conferma della sopraddetta congettura); siccome all'incontro
può vedersi nel Forcell. un esempio di Tacito, dove aspectare
è preso per attendo is (il che potrebbe anche in certo modo
confermare la stessa congettura). I quali dati possono farci ancora congetturare
che attendere nel significato d'aspettare ch'egli ha nelle due
lingue figlie italiano e francese abbia la sua origine nel volgare latino ec.
V. il Gloss. in aspectare, attendere ec. se ha nulla.
(30. Sett. 1823.)
Alla p.3401. La lingua francese quanto
all'origine (non quanto all'indole, veggasi la p.2989. e altre) forma una
famiglia colla greca, latina italiana spagnuola [3560]ma la letteratura
francese appartiene ad un'altra famiglia, e le quattro letterature suddette
formano una famiglia da se (aggiunta la portoghese ch'io comprendo ed intendo
sotto la spagnuola). E questo non è contraddizione, come sarebbe,
secondo i nostri principii, se la lingua francese appartenesse alla famiglia
dell'altre quattro anche quanto all'indole. Laddove quanto all'indole, anche la
lingua de' moderni francesi appartiene a una famiglia diversa (ch'ella forma,
si può dir, da se sola se non quanto ella, come la sua letteratura, ha
corrotte e va corrompendo parecchie altre lingue, e letterature, e ad alcune
che ancor non hanno carattere, come la russa, la svedese, olandese ec. ha
impresso o imprime il suo, più o meno durevolmente ec.), e l'altre
quattro suddette, formano una famiglia a parte.
(30. Sett. 1823.)
Alla p.3557. fine. Del resto l'uso de' nomi
ordinali de' numeri in vece de' cardinali è anche comune in parte
agl'italiani, sì nel discorso familiare (come l'anno mille, il
reggimento quattro ec. ec.) sì nella scrittura anche elegante. V. fra
gli altri lo Speroni nel Discorso o lettera del tempo del partorire delle
Donne, che tiene il terzo luogo tra' suoi Dialoghi, Ven. 1596. p.49. lin.16.
paragonata colle superiori, p.50. lin.23. 24. p.51. lin.24. p.52. lin.1.7.9. 10. 18.22. p.56. lin.3. e altrove.
(30. Sett. 1823.)
Francesismo ed italianismo (fors'anche
spagnolismo) [3561]del genitivo plurale invece dell'accusativo del
medesimo numero, appresso Aristot. Polit. l.3. ed. Flor. ap. Iunt. 1576. p.209.
mezzo, e veggasi quivi il commento di Pier Vettori. (30. Sett. 1823.). Noi ed i
francesi usiamo il genit. plur. anche in vece del nominativo plurale. Anche in
caso terzo ec. a di molti, con di molti, à des femmes ec.
Alla p.3413. Infatti la scrittura dello
Speroni è tutta sparsa e talor quasi tessuta, non pur di vocaboli, o
d'usi metaforici ec. di parole, tutti propri di Dante e di Petrarca, ma di
frasi intere e d'interi emistichi di questi poeti, dall'autore dissimulatamente
appropriatisi e convertiti all'uso della sua prosa. Nè tali voci, frasi
ec. riescono in lui punto poetiche, ma convenientissimamente prosaiche.
Altrettanto fanno più o meno molti altri autori del cinquecento, massime
i più eleganti, ma lo Speroni singolarmente. Or andate e ditemi che
altrettanto potessero fare, non pur i prosatori greci con Omero, o altro lor
poeta, ma i latini con Virgilio ec. benchè il latino non abbia linguaggio
poetico distinto. Che vuol dir ciò dunque, se non che il linguaggio di
Dante e Petrarca era poco o nulla distinto da quel della prosa? Onde i
prosatori potevano farne lor pro, anche a sazietà, senza dar nel
poetico. Le voci e frasi e significati più poetici ed eleganti di
Petrarca Dante ec. tengono come un luogo di mezzo tra il prosaico e il poetico,
onde in una prosa alta, com'è quella dello Speroni, ci stanno
naturalissimamente. P.e. talento in quel significato Che la ragion
sommettono al talento. Non si sa ben dire se sia più del verso che
della prosa. Vedilo benissimo usato dallo Speroni ne' Diall. Ven. 1596. p.69.
fine. Altri, e non pochi, prosatori del 500, siccome nel 300 il Boccaccio,
davano nel poetico sconveniente [3562]alla prosa, adoperando a ribocco e
senza giudizio le voci, le significazioni, le metafore, le frasi, gli
ornamenti, l'epitetare ec. sì di Dante e Petrarca sì de' poeti
del 500. stesso. E ciò per la medesima ragione per cui i detti poeti
adoperavano le frasi e voci ec. della prosa, come a pagg.3414. segg. Ciò
era perchè i termini fra il linguaggio della poesia e della prosa non erano
ancora ben stabiliti nella nostra lingua. Onde come noi non avevamo ancora un
linguaggio propriamente poetico bene stabilito e determinato, (p.3414.3416.),
così nè anche un linguaggio prosaico. Nella stessa guisa (ma
però molto meno) che i francesi non hanno quasi altra prosa che poetica,
perchè appunto non hanno lingua propriamente poetica, distinta e determinata,
e assegnata senza controversia alla poesia (veggansi le p.3404-5.3420-1. 3429.
e il pensiero seguente). Nessun buon autore del seicento, del sette e
dell'ottocento dà nel poetico come molti buoni e classici del 500
(non ostante nel 600 la gran peste dello stile derivata appunto dal cercare il
florido, il sublime, il metaforico, lo straordinario modo di parlare e di
esprimere checchessia, il fantastico, l'immaginoso, l'ingegnoso; e consistente
in queste qualità ec. peste [3563]che nel 500 ancor non regnava,
eppur tanto regnava il florido e il poetico nella prosa, quanto non mai nelle
buone e classiche prose del 600: segno che quel vizio nel 500. veniva da altra
cagione, e ciò era quella che si è detta). Nessuno oggi
(nè nei due ultimi secoli) per poco che abbia, non pur di giudizio, ma
sol di pratica nelle buone lettere sarebbe capace di peccare, scrivendo in
prosa, per poeticità di stile e linguaggio, altrettanto quanto
nell'ottimo ed aureo secolo del 500. (mentre il nostro è ferreo) peccavano
gli ottimi ingegni nelle classiche prose, sì nel linguaggio, sì
nello stile, che quello si tira dietro (p.3429. fine). E come ho detto a
pagg.3417-9. che il linguaggio propriamente poetico in Italia non fu pienamente
determinato, stabilito, e distinto e separato dal prosaico, se non dopo il
cinquecento, e massime in questo e nella fine dell'ultimo secolo; così
si deve dire del linguaggio prosaico, quanto all'essere così esattamente
determinato ch'ei non possa mai confondersi col poetico, nè dar nel poetico
senza biasimo ec. Il che non ha potuto perfettamente essere finchè i
termini fra questi due linguaggi non sono stati fermamente posti, e chiaramente
precisamente [3564]incontrovertibilmente segnati, tirati, descritti.
Onde il linguaggio perfettamente proprio e particolare della prosa, e il
perfettamente proprio e particolare della poesia sono dovuti venire in essere a
un medesimo tempo, e non prima l'uno che l'altro (o non prima esser perfetto
ec. ec. l'uno che l'altro, e crescer del pari quanto alla loro
prosaicità e poeticità); perchè ciascun de' due è
rispettivo all'altro ec. ec.
(30. Sett. 1823.)
Alla p.2911. marg. La lingua ebraica
è poetica ancor nella prosa, per quella sua estrema povertà,
della quale altrove ho ragionato, mostrando come in ciascuna sua parola cento
significati si debbano accozzare e si accozzino, conforme accadde a principio
in ciascheduna lingua, finchè col variare o per inflessione, o per
derivazione, o per composizione, o con altra modificazione le poche radici a seconda
de' loro vari significati, si venne d'una sola parola a farne moltissime, e di
poche, infinite; per modo che ciascun significato de' tanti che dapprima erano
riuniti in un solo vocabolo, non per esser trasportato ad altra parola, ma come
per suddivisione o emanazione o altra varia modificazione di [3565]quello
stesso primo vocabolo, ebbe una parola per se, o con poca e discreta compagnia
d'altri significati.
Or dunque non potendo quasi la prosa ebraica
usar parola che non formicolasse di significazioni, essa doveva necessariamente
riuscir poetica e per la moltiplicità delle idee che doveva risvegliare
ciascuna parola, (cosa poetichissima, come altrove ho detto);e perchè
essa parola non poteva dare ad intendere il concetto del prosatore se non in
modo vago e indeterminato e generale come si fa nella poesia; e perchè
quasi tutte le cose, eccetto pochissime si dovevano esprimere con voci
improprie e traslate (ch'è il modo poetico); cosa che in tutte le lingue
intravviene, rigorosamente parlando, ma non si sente, se non alcune volte, la
traslazione, perchè l'uso l'ha trasformata, quasi o del tutto, in
proprietà; laddove ciò non poteva aver fatto nella lingua
ebraica, la qual se toglieva a una parola il significato proprio in modo che il
traslato divenisse padrone e paresse proprio esso, al vero proprio che cosa
poteva restare in tanta povertà? [3566]sentivasi dunque sempre,
anche nella prosa ebraica, la traslazione, perchè la voce, insieme co'
sensi traslati, riteneva il proprio. Tale pertanto essendo la lingua destinata
alla prosa, necessariamente anche lo stile del prosatore doveva esser poetico,
siccome per la contraria ragione i primitivi poeti latini italiani ec. non
trovando nella lingua voci poetiche, furono necessitati a tenersi in uno stile
che avesse del familiare, come altrove ho detto.
La prosa ebraica era dunque poetica per
difetto e mancamento, e perchè la lingua scarseggiava di voci. Non
così la prosa francese, la qual è per lo più poetica, mentre
la lingua abbonda di voci, come ho detto altrove. Ma essa prosa è poetica
perchè la lingua francese scarseggia, e si può dir, manca di voci
poetiche, cioè di voci antiche ed eleganti propriamente, cioè
peregrine ec. E vedi il pensiero antecedente con quello a cui esso si
riferisce. Le voci ebraiche sono tutte poetiche non appostatamente, nè
perchè usate da' poeti, nè perchè fatte ad esser poetiche
e destinate all'uso della poesia, nè perchè peregrine o per
antichità, o per [3567]traslazione ec. ma per causa materiale ed
estrinseca, e semplicemente perchè son poche. E la lingua ebraica
è tutta poetica materialmente, cioè semplicemente
perciocch'è povera. E lo stile e la prosa ebraica sono poetiche stante
la semplice povertà della lingua. Qualità comune a tutte le
lingue ne' loro principii, insieme colla conseguenza di tal qualità,
cioè insieme coll'esser poetiche. Non intendo però di escludere
le altre ragioni non materiali che certo anch'esse grandemente contribuirono a
render poetica la lingua, stile e prosa ebraica, cioè l'orientalismo e
la somma antichità, del che vedi la pag.3543. E questa seconda
condizione influisce altresì grandemente e produce l'effetto medesimo in
ciascun'altra lingua ne' di lei principii, in ciascuna lingua che conserva il
suo stato primitivo, in ciascun'altra lingua antichissima ec. Del resto la
somma forza e il sommo ardire che si ammira nelle espressioni della Bibbia, e
che si dà per un segno di divinità, (veggasi la p. citata qui
sopra) non proviene in gran parte d'altronde che da vera impotenza e
necessità, cioè da estrema povertà che obbliga a [3568]un
estremo ardire nelle traslazioni e in qualsivoglia applicazione di significati,
a tirar le metafore di lontanissimo ec.
(1 Ottobre, giorno in cui s'intese la creazione del nuovo Papa.
1823.)
Della corruzione, degenerazione,
snaturamento, deterioramento ec. delle generazioni degli uomini civili, e degli
animali dagli uomini dimesticati, cioè alterati, snaturati e corrotti,
in quanto tal deterioramento viene da cause fisiche, e in quanto la
civiltà dell'uomo ec. opera fisicamente sulla generazione, è da
esser veduto il Discorso o Lettera del tempo del partorire delle donne di
Sperone Speroni, che tiene il 3°. luogo tra' suoi Dialoghi, Venez. 1596.
p.53-54. principio.
(1. Ottobre. 1823.)
J J , (prosperitatis.
Victorius) . Aristot.
Polit. l.3. ed. Flor. Iunt. 1576.
p.211.
(1. Ottobre. 1823.)
A ciò che ho detto del nostro usare,
usar, user continuativo di utor-usus, aggiungi [3569]il
nostro abusare, abusar, abuser, continuativo di abutor abusus, e
v. il Gloss. se ha nulla. Oltre disusare, ausare o adusare ec.
(1. Ott. 1823.)
Cuso as continuativo di cudo-cusus.
V. il Forcell. e le cose da me dette in proposito di accuso, excuso, recuso,
incuso e simili.
(1. Ott. 1823.)
Curtare (cortar spagn. accortare,
scortare coll'o stretto, accorciare ec. ital. accourcir ec.
franc.) viene da curtus. Così decurtare ec. Ma curtus
che cos'è? forse un semplice aggettivo? Signor no, ma egli è
senza fallo originariamente un participio (come insinua anche la sua forma
materiale e il modo della sua significazione e del suo uso assolutamente e
generalmente considerato) di un verbo di cui curtare è
continuativo. E questo verbo perduto era un curo o cero o ciro
o simile da o da , tondeo,
scindo, abscindo. Curtare per tondere vedilo nell'ultimo esempio del
Forcellini; il qual luogo non sarebbe stato tentato dai critici, o forse guasto
dagli amanuensi se avessero saputo e considerato questa certissima etimologia e
formazione di curtare che, secondo le norme della nostra teoria de'
continuativi, qui dichiariamo. La qual etimologia indica ancora il proprio
significato di curtare [3570]ch'è appunto tondere,
creduto finora al più metaforico, e il proprio significato di curtus che
è tonsus. Questo verbo originario di curtare, e affatto
conforme a un verbo greco della stessa significazione è da riporsi insieme
con quelli che abbiamo dimostrato per mezzo di gustare, potare e s'altri
tali n'abbiamo accennati, conformi ai greci [137] che
altrettanto vagliono quanto essi verbi ignoti, e quanto i loro noti
continuativi, non altrimenti che vaglia il
medesimo che curto. E il discorso e le ragioni addotte per li suddetti
verbi, si ripetano in proposito di questo. La forma di questo verbo doveva
essere, s'io non m'inganno, e s'è lecito il congetturare, curo is,
curti, curtum, ovvero cureo es ui tum, ovvero anche curo as curui
curtum, come neco as ui ctum, seco as ui ctum, eneco as ui ctum, reseco
ec. i quali supini sembrano contratti da necitum, secitum (non
già necatum, secatum), fatti alla forma di domitum da domo
as ui, cubitum di cubo as ui[138]
ec. Onde il primitivo e intero sarebbe curitum, curitus p. curtus.
(1. Ott. 1823.)
Risito da rideo-risus.
(1. Ott. 1823.)
[3571]Alla p.3542. A questo
discorso appartengono oltre i verbi in uare, e i nomi in uosus,
anche i nomi in ualis che son sempre fatti da' nomi della quarta o da'
nomi in uus ec. ec. altrimenti tali nomi fanno alis semplicemente.[139] Come ritualis, manualis, tonitrualis ec.
ec. da ritus us ec. E così appartengono a questo discorso
gli altri o nomi aggettivi o sustantivi, o avverbi, o voci qualunque derivative,
che hanno l'u davanti alla desinenza propria della loro specie particolare,
qualunque sia e la desinenza e la specie ec.
(1. Ott. 1823.)
Alla p.3541. Il primitivo e proprio
significato di spes non fu già lo sperare ma l'aspettare
indeterminatamente al bene o al male. V. Forc. in Spes, Spero ec. insperatus ec.
Sveton. in Iul. Caes. c.60. §.1. e quivi il Pitisco, i greci in , ec. gli
spagn. in esperar, inesperado ec. ec. gl'it. in speranza, sperare
ec. insperato ec. (oggi nel discorso civile non mai, nella scrittura di
rado, nel volgare e plebeo discorso conservatore perpetuo dell'antichità
spessissimo e più frequentemente ancora che nelle nostre antiche scritture,
si usa speranza, sperare ec. p. aspettare semplicemente[140] e
anche per l'aspettativa determinata al male, ossia il timore, ma
in tal caso non [3572]s'usa cred'io che negativamente, oppure non vuole
indicar propriamente il timore, ma solo l'aspettativa del male, benchè
questo naturalmente sia temibile: come in un autore spagnuolo, estavan
esperando la muerte, non vuol dir che la temessero, benchè certo la
temevano, ma e' vuol dir solo che s'aspettavano di dover morire, ed esperar
ha riguardo alla semplice opinione e giudizio del futuro, non al piacere o
dispiacere che da tal giudizio e opinione ci deriva, e al male o bene che dal
futuro ci verrà o si aspetta, ed al desiderio o nondesiderio e
avversazione del medesimo ec. al che ha pur riguardo la voce timore ec.
e la voce speranza ec. nel nostro senso, che vale aspettativa con
piacere, con desiderio ec. ec.)[141]
Richelet in espérer ec. Il detto significato ch'è certamente il
primitivo e proprio di spes (e non quello che le dà il
Forcellini) rende più probabile che spes sia voce delle
primitive, perocchè l'aspettare, l'aspettativa è un'idea
che dovette esser tra le prime dinominate, e innanzi allo sperare ec.
ch'è una specie dell'aspettare, e un'idea troppo sottile e metafisica
ec. ec.
(1. Ott. 1823.)
Alla p.3077. È da notare che gli
argomenti ch'io traggo da tali participii spagnuoli a dimostrare [3573]gli
antichi participii latini regolari ec. (e così sempre che dallo
spagnuolo io argomento all'antico latino, al volgare ec.), sono tanto
più valevoli, quanto siccome la lingua francese è nell'estrinseco
e nell'intrinseco, fra tutte le figlie della latina, la più remota e
alterata dalla lingua madre (secondo ho detto altrove), così la
spagnuola è nell'estrinseco la più vicina,[142]
mentre però nell'intrinseco lo è la italiana, come altrove ho
distinto. Ma dell'intrinseco poco ha che fare il nostro discorso. La lingua
spagnuola che per la forma esteriore delle parole ha più di tutte le sue
sorelle ereditato dalla latina, e che più di tutte le lingue, a sentirla
leggere o a vederla scritta, rappresenta l'esterna faccia e il suono della
latina e può con essa esser confusa; dev'esser considerata come speciale
e principale conservatrice dell'antichità, della latinità, del
volgar latino ec. quanto alla material forma delle parole e alla
proprietà delle loro inflessioni ec. che è quello che ora
c'importa. La qual conformità particolare col latino si può notar
nello spagnuolo da per tutto, ma nominatamente e singolarmente [3574]e
forse più ch'altrove, nelle coniugazioni de' verbi, il che fa appunto al
nostro caso. AMO, AMAS, AMAt, AMAMUS (lo spagnuolo muta l'u in o,
e questa è la sola mutazione in tutto questo tempo), AMAtIS,
AMANt. Leggansi le sole maiuscole, e s'avrà la coniugazione spagnuola.
La quale in questo tempo è tutta latina, salvo l'omissione del t
in tre soli luoghi,[143] e
la mutazione dell'u in o in un luogo, mutazione pur tutta latina
(vulgus-volgus ec. ec. ec.) e propria senz'alcun dubbio, anche in questo
caso, o di tutto l'antico volgo che parlò latino, o di molte parti e
dialetti di esso. Infatti tal mutazione non solo è propria e
dell'italiano e del francese in questo medesimo caso sempre, ma ordinarissima e
quasi perpetua (massime nell'italiano) in quasi tutti o nella più parte
degli altri casi, sì nelle desinenze, sì nel mezzo delle parole o
nel principio. V-u-lg-u-s-V-o-lg-o.[144] La congiugazione italiana è ben
più mutata, e molto più dell'italiana la francese. Basta a noi
che le regole e le inflessioni della coniugazione latina sieno specialmente
conservate nella spagnuola, ancorchè gli elementi del verbo che non
toccano l'inflessione [3575]e la regola della coniugazione sieno
alterati, o soppressi ec. Come leo è mutato da lego. Ma la
coniugazione di quello essendo similissima alla coniugazione di questo, l'omissione
del g, in cui consiste l'alterazione di quello, non indebolisce punto
l'argomento che dal suo participio leido si cava a dimostrare il latino
corrispondente legitus. E così discorrete degli altri casi e argomenti,
o sieno dintorno a' participii, o a checchessia ch'appartenga alle forme
generali della congiugazione od'altro ec. È da notare che la suddetta
specialissima conformità colla lingua latina, nella quale
conformità la spagnuola vince tutte l'altre, fu da questa ed è propriamente
conservata;[145]
e che avvenga che la conformità dell'intrinseco sia di molto maggior
peso che non l'estrinseca, nondimeno se la lingua italiana nella
conformità col carattere della latina, vince la spagnuola e con essa
tutte l'altre moderne, questa conformità non si può dir
propriamente da lei conservata, ma riacquistata, e non rimastagli naturalmente
e spontaneamente da se, ma restituitagli con arte, dopo già perduta.
Perocch'ella fu in grandissima [3576]parte opera de' nostri letterati
che la lingua italiana modellarono sulla latina. E così accade
generalmente che il carattere di ciascuna lingua è formato e determinato
dalla sua letteratura. (Ben è vero che il carattere di questa
corrisponde al carattere nazionale, e ch'ella non potrebbe già andar
contra la natura e l'inclinazione della lingua, o ciò facendo, non
riuscirebbe, o malissimi effetti partorirebbe e poco durevoli). Ma l'estrinseca
forma non si conserva se non se naturalmente, e perduta che fosse, quasi
impossibile sarebbe il ricuperarla (siccome la forma intrinseca di nostra
lingua, o s'attribuisca alla letteratura o a che che si voglia, dovrà
sempre dirsi, non propriamente conservata, ma ricuperata). Laonde si può
dire veramente che, quanto è alla natura e al popolo, la latinità
si è meglio e in maggior parte e più propriamente conservata e
conservasi in Ispagna che in alcun'altra parte del mondo. (Per lo meno quanto
alle voci e alle norme e regole delle loro inflessioni e modificazioni,
perchè quanto alle frasi, anche senza uscir del popolo, pare che la
latinità rimanga e siasi sempre conservata ben più in Italia,
com'è [3577]di ragione, che altrove, dove forse, parlando di locuzioni
popolari, neppur s'introdusse mai quel che tra noi si conserva ancora, o se
n'introdusse assai meno, o con differenze nate dalle lingue indigene e dalle
diversità de' climi e dall'altre circostanze. Or quel che mai non fu
introdotto, o che fu diverso nell'introdursi, non potea conservarsi).
Questa mirabile e così lunga
conservazione di sì speciale conformità col latino nella lingua
spagnuola, conformità che passa quella conservata nella stessa sede
dell'antico latino, cioè in Italia, dee riconoscersi dalle stesse
circostanze che rendono e sempre resero gli spagnuoli, o loro permisero e
permettono di essere così tenaci de' loro istituti, costumi, opinioni,
religione ec.; così stazionari nel loro carattere, nel grado della loro
civiltà; così lenti ne' loro progressi sociali ec. tanto che
oggidì, dopo il rapido corso incominciato e tenuto dalle altre nazioni
nell'ultimo secolo, la Spagna, a paragone del resto d'Europa, viene ad aver
più del barbaro che del civile: (onde è famoso il detto, mi pare,
di Mons. de Pradt, che la Spagna appartenendo all'Africa, per [3578]isbaglio
geografico si fa parte d'Europa). La stessa gravità e posatezza delle
maniere negl'individui spagnuoli, la lunghezza delle lor cerimonie, de' loro
preparativi alle operazioni manco importanti, e cose simili, sono indizio della
stabilità del carattere, costumi e opinioni nazionali; perchè
generalmente, come tutte le cose in natura osservano la legge dell'analogia,
gl'individui delle nazioni lente ne progressi sociali, letterarii e simili, e
tenaci del loro essere, sono tardi nell'operare e di carattere riposato, e dove
gl'individui son tali, tale è la nazione, e per lo contrario nel caso
opposto. E così discorrasi di ciascun'altra qualità nazionale,
che suol generalmente trovarsi ritratta e quasi compendiata negl'individui.
Or tornando al proposito, le dette
circostanze si possono dividere in geografiche, naturali e storiche. Se
guardiamo alle prime, il sito della Spagna ch'è in uno estremo d'Europa,
facendola poco frequentata dagli stranieri, rende la nazione poco soggetta a
variarsi. Le seconde sono il clima, e il carattere nazionale in quanto alla
parte fisica. Questo negli spagnuoli è pigro e molle [3579]e vago
del riposare e dello stare più che dell'azione e del movimento, o certo
capace di contentarsi facilmente del riposo, per poco che l'operare gli sia
impedito o reso difficile. Così suole ne' climi caldi e felici. La
terra molle e lieta e dilettosa Simili a se gli abitator produce (Tasso
Gerus. 1.62.) Le circostanze istoriche corrispondono alle suddette, e da esse
sono influite e modificate ordinariamente, onde sono piuttosto da considerar
com'effetti che come cagioni. Pur non lasciano talvolta di esser eziandio
cagioni. Considerandole rispetto alla Spagna, le troveremo essere or l'uno or
l'altro, onde talvolta le troveremo come sorelle di quell'effetto di cui
cerchiamo l'origine (dico della singolare conservazione della latinità),
talvolta come madri. Nella generale inondazione di barbari che infestò
le contrade culte di Europa, la Spagna non ebbe (credo) che i Vandali, (o gli
Ostrogoti) ec. i quali anche poco vi si mantennero; certo assai meno che in
Italia non fecero i Goti, i Longobardi e i tanti e sì varii popoli che
la travagliarono e vi fondarono e tennero regni ec. [3580]La Spagna ebbe
lunghissimo tempo i mori, e questi, potenti e regnanti. Ma che, non le
religioni, non le lingue, non i costumi, non il sangue di questi conquistatori
stranieri e degl'indigeni e in gran parte sudditi, si mescolarono insieme mai.
Due sangui, due religioni, due lingue, due maniere di vita, in somma due
nazioni diversissime, contrarie, nemiche, perseverarono sempre in Ispagna, e
sempre divise e ben distinte l'una dall'altra, benchè sempre l'una
accanto all'altra, e materialmente confuse insieme, e sugli occhi l'una
dell'altra. Nè il maomettano riconobbe mai Cristo, nè il
Cristiano Maometto, nè l'arabo lasciò la sua lingua per la
spagnuola, nè lo spagnuolo succhiò mai col latte altra lingua che
l'indigena. Cosa mirabile e che non ha, credo, altro esempio oltre di questo,
se non quello de' greci e de' turchi, il quale ancor dura, e che altrove ho considerato
parlando della singolare tenacità de' greci rispetto ai loro costumi,
pratiche ec. come alla lingua. Tenacità in cui i greci non hanno forse
pari altra nazione che la spagnuola, nè la spagnuola forse altra che la
greca. E ben corrisponde la parità o somiglianza [3581]dei climi
e delle qualità del cielo e del suolo in ambo i paesi. E corrisponde
eziandio la qualità degli stranieri, ambo arabi, non di origine, ma di
lingua (se non m'inganno), ed ambo maomettani di religione; i mori di Spagna e
i turchi. Con questa differenza però a favor della Spagna, che laddove i
turchi barbari e ignorantissimi vennero in un paese civile e dotto, e barbari
regnano sopra una gente per lor cagione imbarbarita, e non più
coltivata; i mori non barbari vennero in un paese già rozzo, e quasi civili
regnarono in un paese molto men civile di loro. Ebbero i mori in Ispagna
un'estesissima letteratura, e piene sono le biblioteche spagnuole e straniere
delle loro opere (alcune, come quelle di Averroe, note per traduzioni e celebri
in tutta Europa). Nè per tanto poterono essi introdurre nè
lasciare la loro letteratura (ch'era pur l'unica a que' tempi in Europa) tra
gli spagnuoli che niuna ne avevano; nè la loro civiltà
(altresì unica); nè col mezzo ed aiuto di questa e della letteratura,
la loro lingua; nè poteron fare che nella Spagna mezza coperta e dominata
da stranieri di diversissimo linguaggio e costume, [3582]e questi civili
e letterati, e ciò per lunghissimo tempo, non si conservasse la lingua
indigena, quanto è al popolo, assai meglio che nelle altre nazioni
partecipi della stessa lingua, le quali non ebbero mai stranieri nè
civili nè letterati, e quei barbari che ebbero, o gli ebbero per molto
minore spazio di tempo, o ben tosto naturalizzati di costumi, di religione ec.
Al contrario della Spagna, e della Grecia, i
franchi nelle Gallie mescolarono ben tosto coi nazionali ogni cosa; genere,
sangue, nozze, costumi, lingua, fede, mutando i vincitori barbari tutte le lor
qualità e il lor carattere istesso in quello de' vinti civili.
Così proporzionatamente in Italia i goti, i Longobardi ec. Or questa
mescolanza appunto nocque alla conservazione delle qualità indigene in
questi due paesi, e nominatamente a quella della lingua, della qual discorriamo.
I franchi non poterono divenir Galli, nè i goti ec. italiani, senza che
i Galli divenissero in molte parti Franchi, (come appunto poi sempre si
chiamarono e chiamano), e gl'italiani goti.
[3583]Finalmente la Spagna non mai
intieramente soggettata e signoreggiata da' mori (a differenza della Grecia)
estirpò e scacciò affatto gli stranieri dal suo seno. E non solo
gli stranieri, ma con essi la lor fede, lingua, letteratura, costumi e tutto. E
non solo tutto questo, ma eziandio il sangue e il genere straniero, che non mai
potutosi mescolare col nazionale, tutto intero quasi, fu finalmente rigettato
fuori dalla nazione, restando questa così puramente spagnuola di sangue
(parlando senza guardare alle minuzie) come l'olio resta puro quando si separa
da qualche liquore a cui non siasi mai punto commisto. (E voglia Dio che anche
in quest'ultima parte la storia de' greci rispetto a' maomettani sia conforme a
quella degli spagnuoli, com'ella è nel resto, e come i greci oggi
proccurano).
Laddove nella Gallia i Franchi sempre
regnarono, e spento il nome stesso de' nazionali, e mutatolo nel loro proprio,
e confusi intieramente con essi, ancora regnano, sicchè, quanto al
sangue, non si può dir se quella nazione sia piuttosto Gallese o Franca,
quanto alla religione è Gallese, quanto ai [3584]costumi e alla
lingua è parte Gallese (cioè latina) parte franca, benchè
l'indigeno prevalga, ma non quanto in Ispagna. Similmente discorrete
dell'Italia.
Della storia moderna di Spagna, della sua
tenacissima fede e superstizione, onde quanto alla religione ella è ancora,
si può dire, oggidì nè più nè meno qual fu
quando scacciò i mori, e qual fu prima de' mori e dello stesso Maometto,
e qual fu la Cristianità generalmente ne' bassi tempi, a differenza di
tutte l'altre moderne nazioni cristiane, e anche non cristiane; della mirabile
antichità, per così dir, di carattere da lei mostrata negli
ultimi tempi, non accade parlare, essendo cose assai note. E veggansi le
pagg.3394-6.
(1-2. Ott. 1823.)
Glisser- lubricus.
(3. Ott. 1823.)
Alla p.3544. Di unus per primus
ve n'ha un solo esempio nel Forcell. ed è l'ottavo da lui portato alla
voce Unus, preso da Cic. de Senect. c.5. ma il Forcellini non vi nota il
significato di primus. Puoi vederlo ancora in duo, tres ec. se
avesse nulla in proposito.
(3. Ott. 1823.)
Assulito per assulto da assilio.
Resilito [3585]per resulto da resilio. V. Forcell.
Ambedue queste voci sono bonissime, e dimostrano l'antico e vero ed intero participio
di salio, cioè salitus (salito, salido, sailli),
poi contratto in saltus (o sup. saltum). E confermano le mie
osservazioni e opinioni sopra le primitive, regolari ed intere forme de'
participii o supini. Se avessero potuto considerare queste opinioni, e se
avessero bene osservato che i continuativi e i frequentativi in ito si
formano da' participii o supini, i Critici non si sarebbero maravigliati dei
suddetti due verbi, nè gli avrebbero tentati con diverse lezioni, e
fors'anche scacciati assolutamente da' testi ov'essi si trovano (de' quali bisogna
vedere l'ultime edizioni).
(3. Ott. 1823.). V. p.3845.
Alla p.2821. Che tutto ciò sia vero,
e della derivazione di confutare ec. da fundo, e del participio futus
per fusus ec. osservisi il nostro rifiutare, ossia il latino refutare
(che significa sovente lo stesso), dirsi nel francese, refuser e nello
spagnuolo, refusar o rehusar, come da refusus o da fusus,
noti participii di fundo o refundo. Eppur tanto sono i verbi francese
e spagnuolo quanto l'italiano e il latino. I francesi hanno anche réfuter
[3586]in altro senso, (ch'è il proprio di refuto e il
più frequente) ma questo è certamente molto meno volgare e
più moderno (benchè non moderno) di refuser, e non
conservato ma ricuperato per mezzo degli scrittori ec. non del popolo, e non
continuatamente pervenuto dalla lingua latina nella francese.
Al qual proposito, parlando delle lingue
moderne figlie, rispetto alla lingua madre, e volendo argomentare da questa a
quelle, o viceversa, o tra loro ec. in materia di antichità ec. bisogna
nelle lingue moderne molto accuratamente distinguere tra voci e frasi latine conservate,
e voci e frasi ricuperate, per mezzo della letteratura, filosofia, politica,
giurisprudenza, diplomatica ec. ec. che sono infinite, e possono anche essere
molto antiche; ma da queste alle latine sarà sempre o nullo o debolissimo
l'argomento, per chi pretenda investigarvi le antichità della lingua ec.
Al contrario nelle voci e frasi conservate cioè trasmesse per continua e
perpetua successione dall'antico e talora dall'antichissimo e primitivo latino
fino alle lingue moderne per mezzo del latino volgare. V. p.3637. Simile
distinzione è quella che convien fare nella lingua [3587]latina
rispetto alle voci greche, cioè tra quelle introdotte dagli scrittori
ec. e quelle antiche e veramente popolari ec. Così nell'inglese rispetto
alle voci francesi ec.
(3. Ott. 1823.)
Diciamo volgarmente e con eleganza
scriviamo, senz'altro pensare, senz'altro dire o fare, senz'altro
preparativo, senz'altra cura senz'altro curarsene e simili, per senza
nulla pensare, senza niun preparativo, niuna cura ec. Nelle quali frasi la
voce altro ridonda, e s'usa per pleonasmo, venendo in somma quelle
locuzioni a dire senza pensare (anche il nulla è inutile
qui, perchè il senza privativo, unito a pensare, comprende
il detto vocabolo, giacchè chi non pensa, nulla pensa), senza
preparativo, cura, (e qui pure sarebbe pleonastico il niuno, sebben
s'usa, come il nulla nel caso sopraddetto) senza curarsene ec.
Veggasi lo Speroni, solertissimo raccoglitore, e larghissimo spenditore delle
più fine e più varie e moltiplici eleganze di nostra lingua; nel
Discorso o lettera Del tempo del partorire delle donne, che tiene il terzo luogo
[3588]fra' suoi Dialoghi Ven. 1596. p.53. lin. penultima. Or confrontisi
questo mero idiotismo italiano, e proprio tutto della lingua, e perciò
elegante collo stessissimo idiotismo usitato nella lingua greca ed attica da'
più eleganti e studiati scrittori. V. Creuzer Meletemata ex disciplina
antiquitatis, par.1. Lips. 1817. p.86. not.62. e Platone nel Convito ed. Astii Lips. 1819. sqq. t.3. p.472. B. v.1. e
p.532. v.7. Ai quali esempi è anche più conforme quello del
Petrarca recato dalla Crusca alla voce Altro dalla Canz. 18.6. dove
altra parimente e manifestissimamente ridonda, anzi pare affatto fuor di luogo
e contraddittorio, come appunto in alcuni de' passi greci che son da vedere ne'
luoghi accennati. E così un altro esempio dello Speroni nel Dialogo
della Retorica. Diall. Ven. 1596. p.153. lin.26. e Dial. 10. p.207. lin. ult.
Vedi ancora il Forcellini se ha nulla. Senz'altro vale similmente alcune
volte senza nulla, semplicemente, onninamente ec. V. p.3885. Così
, del che
vedi le mie Annotaz. all'Eusebio del Mai.
(3. Ott. 1823.)
Alla p.3080. Assaltare, assaltar
è un continuativo latino-barbaro di assalire pur latino-barbaro,
ed è nella stessa significazione di questo. (V. il Glossar. in Assaltare,
Assalire, Adsalire ec.). Laddove sobresaltar è in significato
diverso da sobresalir (saltar conserva il significato latino, ma salir
non [3589]già, se non alla lontana o in parte ec. V. il Forcell.),
e non ha con esso niuna analogia di significazione. Così risaltare
e risalire; da ambedue i quali è affatto diverso e lontano di
significato il nostro risultare o resultare (resultar,
résulter), e da questo e da quelli il latino resulto (v. il Glossar.).
Resulto però e risultare ec. sono per origine gli stessi
che risaltare, e vengono entrambi da resilire, che noi diciamo risalire
con corrotta significazione. (rejallir forse è lo stesso che resilire,
e jallir per origine lo stesso che saillir, e salire lat.
come anche, in parte, per significato.) Così assaltare è
per origine lo stesso che assultare (vera forma latina di questo verbo),
il quale ha anche talvolta una significazione o uguale o simile a quella di assaltare,
come pure assilire. (V. Forc. in assilio ed assulto, e il
Gloss. in adsalire e assultare ec.)[146]
Continuativo affatto italiano di un verbo affatto italiano, ma pur continuativo
formato alla latina, cioè dal participio del verbo originale, si
è scortare (coll'o largo) da scorto di scorgere
in significato di guidare ec. (se pur non fosse [3590]da scorta
sostantivo: i francesi hanno escorte ed escorter). Il qual verbo scorgere
fratello di accorgere (e s'altro n'abbiamo di cotali) è tutto italiano,
non men che accorgere ec. ma forse questi verbi vengono originariamente
per corruzione di forma e traslazione di significato ec. dal latino corrigere.
V. il Gloss. se ha niente in proposito. Forse vi fu un excorrigere (scorgere),
un adcorrigere (accorgere) ec. E la metafora sarebbe al contrario
di avvisare, che dal vedere è passato all'ammonire ec.
(v. il detto altrove di questo verbo avvisare). Laddove scorgere
dall'ammonire (correggere) sarebbe passato al vedere. Ma l'uno e
l'altro significato si troverebbe appresso a poco in accorgere
(accorgimento, accortezza ec.), come appunto in avvisare (avviso per
opinione, accortezza; avvisamento; avvisato per accorto ec. ec.). Del resto scorgere
sarebbe contratto da corrigere come porgere da porrigere,
e simili.
(3. Ott. 1823.)
Alla p.3526. Gran difetto però
è nella Gerusalemme l'aver voluto compensare e bilanciare insieme i
meriti, l'importanza, le parti di Goffredo e quelle di Rinaldo, e l'interesse
per l'uno e per l'altro. Da ciò segue che l'interesse è [3591]veramente
doppio, come nell'Iliade, ma non, come in questa diverso. E perciò
appunto, contro quello che a prima vista si potrebbe giudicare, l'uno interesse
nuoce all'altro e l'indebolisce; voglio dire perchè l'interesse è
altro senza esser diverso, cioè concorre nella medesima parte,
ch'è la cristiana, ed al medesimo fine, ch'è il buon esito
dell'impresa de' Cristiani. Due interessi affatto diversi, e lontani l'uno
dall'altro, possono non pregiudicarsi nè indebolirsi l'un l'altro. E
così accade ne' due interessi d'Ettore e d'Achille, i quali cadono sopra
due contrarie parti la greca e la troiana, e l'uno nasce dalla sventura,
l'altro dalla felicità. Ma due interessi posti strettamente a lato l'uno
dell'altro, prodotti ambedue dalla fortuna ec. miranti ambedue ad un medesimo
fine, non possono non farsi ombra e non impedirsi scambievolmente. Ed essi non
producono il bello effetto del contrasto di passioni nell'animo de' lettori, e
gli altri bellissimi e poetichissimi risultati che nascono ancora dalla lettura
dell'Iliade, o nascevano per lo meno, al tempo e ne' lettori o uditori per li
quali ella fu composta.
[3592]Questa duplicità
d'interesse, benchè paia non ripugnare all'unità (e così
credette il Tasso, il quale si persuase poter con essa servire alla
varietà e schivare l'uniformità, senza punto violar l'unità),
o benchè paia, se non altro, ripugnare alla perfetta unità molto
meno che non faccia la duplicità d'interesse nell'Iliade, nuoce
però molto più di questa al fine per cui l'unità si
prescrive. Il qual fine si è che l'interesse nell'animo de' lettori non
s'indebolisca col dividersi nè col distrarsi, e sia più forte
come rivolto a un segno solo. Ora, come ho mostrato, la duplicità d'Eroe
nella Gerusalemme indebolisce l'interesse nell'animo de' lettori, molto
più che non faccia nell'Iliade. E ciò appunto perchè
quella duplicità concorre in una medesima parte, ed è rivolta a
un segno medesimo, e perchè i due interessi son troppo vicini e del
tutto concordi, e sono due, senza esser diversi. Nella Iliade dove essi sono
tutto l'opposto, essi non solo s'indeboliscono meno, ma non s'indeboliscono
punto, o certo l'interesse totale risultante dal poema nell'animo de' lettori
non pur non è indebolito dalla duplicità, ma a molti doppi [3593]accresciuto,
e in buona parte assolutamente prodotto. Onde si confermano le mie osservazioni
sulla necessità di un interesse veramente doppio, e di due interessi
diversi, alla maniera che si vede nell'Iliade; e sul danno di quella
unità che i precettisti hanno prescritta e che gli epici posteriori ad
Omero si sono proposta. Perocchè, come ho mostrato in questo discorso,
essa unità nuoce al suo medesimo fine, che è di far che l'interesse
e l'effetto totale nel lettore sia più vivo essendo uno e indiviso, e
mirando a un sol segno; chè altrimenti la prescritta unità non
avrebbe ragione alcuna, ed il precetto sarebbe arbitrario, laddove il poeta
dev'esser padrone della sua libertà in quanto l'esserlo e il disporne a
suo modo non ripugna alla natura, e alla qualità e debito del poema
epico. L'unità dunque da' precettisti prescritta nel poema epico,
pregiudicando e ripugnando al suo medesimo fine, è qualità non
pur dannosa, ma vana ed assurda in se stessa e ne' proprii termini.
Ritornando al Tasso, molto ingegnoso
è quel modo in ch'egli proccura, quasi espressamente prevenendo le
obbiezioni de' rettorici, di mostrar [3594]l'accordo de' suoi due Eroi
nella sua opera, e che dal loro esser due, non nasca nel suo poema
duplicità d'interesse. Parla l'anima di Ugone a Goffredo, e dice di
Rinaldo (c.14. stanza 13.) Perchè-lece. Colle quali parole poste
nell'altrui bocca il Tasso viene molto chiaramente a dire ai pedanti e a'
detrattori in persona propria: Gli eroi del mio poema son due, ma
l'interesse è un solo, perchè una è l'impresa e uno il
fine a cui servono entrambi. Ma questa distinzione metafisica, accettata
ancora e predicata da' precettisti (indipendentemente dal negozio del Tasso), e
da molti ancora di buon giudizio, non si avvera mai nell'animo de' lettori.[147]
Due Eroi d'ugual merito, o che servano alla stessa impresa, o che ad imprese
diverse, fanno nell'animo de' lettori due distinti interessi (che tanto
più s'offuscano l'uno coll'altro, quanto men sono diversi, e più
tra loro somiglianti od uguali, e concordi): perocchè questi due Eroi
sono sempre per verità, nell'animo de' lettori, due ben separate
persone, e non già una sola, come vorrebbe il Tasso, della quale l'un
degli Eroi sia capo, l'altro mano; o sieno che che si voglia.
[3595]Provasi questa verità
con effetto nella lettura della Gerusalemme. Ma siccome è soltanto
supponibile, come il punto matematico, e non mai però vero il caso di un
uomo che intra duo cibi distanti e moventi d'un modo, innanzi si muoia di
fame che e' si rechi a' denti l'un d'essi cibi (Dante Par.4.), e tra
due o più cose da scegliere, l'uomo trova sempre, e trovò, alcuna
diversità che l'inclini e determini ad elegger l'una, e l'altra
rifiutare; o quando non sia in sua mano l'eleggere, o non si tratti di sceglier
coll'opera, è impossibile che egli coll'affetto (sia il desiderio, sia
l'amore, sia il compiacimento, sia qualunqu'altro) non s'inclini più ad
una cosa ch'a un'altra, o più da una che da un'altra non fugga;
così non potendo accader che di due o più Eroi, quanto si voglia
pari di merito, l'uno, per qualsiasi cagione, non prevaglia nell'animo de'
lettori, massime quando il loro merito sia di specie diverso; però
è ben lungi che l'interesse nella Gerusalemme (piccolo e quasi morto
com'egli è, secondo che ho detto altrove, e seppur v'è interesse
alcuno) sia quanto al lettore con esatta parità di misura diviso tra Goffredo
e Rinaldo. Ben è vero che l'uno di questi Eroi nuoce all'interesse dell'altro,
ma pure, se il lettor prova nella Gerusalemme qualche interesse, ei non manca
di scegliere tra' due Eroi quello in che egli ne ponga la maggior parte, e
forse anche [3596]tutto. Or questo Eroe prescelto (e me n'appello al
testimonio di qualsivoglia lettore della
Gerusalemme), contro l'intenzione del poeta,
o certo contro il manifesto scopo del poema, e quindi contro il suo debito, e
in pregiudizio del dovuto effetto e dell'unità (molto più che
nell'Iliade ella, e lo scopo e il debito della qualità del poema non
sono pregiudicati); questo eroe, dico, è Rinaldo; laddove tutte le dette
cose volevano, prima, che l'interesse fosse uguale, anzi indiviso tra i due;
poi per lo meno (essendo questo veramente per natura impossibile, perchè
da una parte la duplicità degli Eroi non si può palliare ed
eludere, come vorrebbe il Tasso, in modo veruno, sia quale si voglia, nè
fare che il lettore se la dissimuli, considerando le due persone come una sola;
dall'altra parte non si può togliere che tra' due o più, il
lettore non iscelga e non ponga l'uno innanzi all'altro, e se son più,
l'un dopo l'altro per gradi) ch'ei fosse maggiore per Goffredo.
Ma Goffredo (e questo è un altro
grandissimo, ed intimo, benchè poco o non mai osservato difetto della
Gerusalemme, e benchè colpa della natura de' tempi moderni e delle
raffinate idee, anzi che del Tasso), Goffredo è personaggio pochissimo
interessante, e forse nulla, perchè i suoi pregi e 'l suo valore son
troppo morali. Egli è persona troppo seria, troppo poco, anzi niente
amabile, benchè per ogni parte stimabile. E come può essere
amabile un uomo assolutamente privo d'ogni passione, e tutto ragione? un
carattere freddissimo? Difficilmente ancora può farsi amare chi non
è o non apparisce [3597]capace per niun modo di amare. Ora il
Tasso gli fa un pregio di questa incapacità. (c.5. st.61-4.) Achille
è interessantissimo perch'egli è amabilissimo. Ed è
amabilissimo non solamente a causa del suo sovrano valor personale, ma eziandio
per la stessa ferocia, per la stessa intolleranza, per la stessa
suscettibilità, veemenza ed impeto di carattere e di passioni, superbia,
carattere e maniere disprezzanti (veri mezzi di farsi amare, e forse soli ec.)
iracondo, incapace di sopportare un'ingiuria, soverchiatore, un poco étourdi,
volage ec. e per lo stesso capriccio, qualità che congiunte colla
gioventù e colla bellezza, e di più col coraggio, la forza e i
tanti altri pregi, fortune, circostanze, e meriti reali di Achille, sono sempre
amabilissime, e fanno amatissimo chi le possiede. Ciò avviene anche
oggidì e sempre avverrà. (E veramente Achille è un
personaggio completamente amabile: non sarebbe tale se mancasse dei detti
difetti). Nondimeno s'elle si trovassero oggi in una persona civile in quel
grado in cui Omero le dipinge in Achille, esse parrebbero certamente eccessive,
e mal riuscirebbero; ma ben bisogna distinguere i tempi antichissimi da'
moderni, e la misura conveniente a nazioni semirozze da quella che può
star bene nelle civili. Del resto poi il poema epico in qualunque secolo dee
proporre un personaggio che sia singolare, e le cui qualità eccedano le
ordinarie anche quanto alla misura. Questo personaggio non dev'esser solamente
amabile ed ammirabile ma mirabilmente amabile, e singolarmente ammirabile. Il
Tasso si guardò bene dal dar negli eccessi per questa parte, rispetto a
Rinaldo. Ei gli diede le dette qualità, per le quali lo fece amabile
(mentre Goffredo non lo è) e perchè amabile, interessante assai
più di Goffredo (quanto può essere quel leggiero interesse che si
prende per uomini non isventurati, e in impresa che non può più
starci a cuore, secondo il già detto in tal proposito). [3598]Se
il Tasso eccedette in Rinaldo, ciò fu piuttosto dal lato contrario.
Cioè nel farlo ancor troppo ragionevole, troppo pio e devoto. Colle
quali qualità ei si credette di ornarlo e renderlo più interessante,
e si stimò in dovere di attribuirgliele, e facendo altrimenti avrebbe
creduto di peccare, non solo contro la morale o la religione, ma contro la
poesia e contro il buon giudizio e contro la proprietà del poema epico.
Egli arriva sino a farlo confessare e far la sua penitenza sul monte Oliveto,
prima di andare all'impresa del bosco (c.18. stanza 6-17.). Egli avrebbe
creduto lasciare una gran macchia nell'onor di Rinaldo e una grande mancanza
nella stima de' lettori verso di lui, s'e' non gli avesse fatto purgar la coscienza
ed assolverlo de' peccati dell'uccision di Gernando e delle fornicazioni con
Armida. Contuttociò il carattere di Rinaldo riesce bene amabile. Ma
Goffredo non ha nè ferocia, nè capriccio, nè impeto,
nè passione veruna; non è giovane, non risplende per bellezza; il
suo coraggio e la sua prodezza di cuore e di mano piuttosto si afferma di
quello che si dimostri e si faccia operare; i suoi pregi eroici [3599]si
riducono ad una somma pietà e devozione e cura e zelo religioso (ma non
superstizioso nè passionato in niun modo) e quasi santità,
sì di pensieri, sì di parole e sì di fatti che lo fanno degno
di visioni celesti e di conversar cogli Angeli e co' Beati, e d'impetrare o far
miracoli (v. fra gli altri luoghi c.13. st.70 e segg.), e ad un eccellente
senno; qualità niente amabili, perchè tutte, per così
dire, immateriali. Adunque Goffredo non è amabile, ma stimabile
solamente. Adunque non è che pochissimo interessante o nulla; massime
oggidì ch'è svanito l'interesse dell'impresa, come ho già
detto a suo luogo, e quel zelo o fanatismo di religione, nel quale il Tasso lo
fa singolare.
Difficilmente si può concepire vivo
interesse per una persona, non solo finta, ma neppur vera e viva, senza una
specie d'amore. Parlo di quello interesse che altrove ho distinto, cioè
che ne' poemi o romanzi o storie o simili non nasce dalla pura
curiosità, e nella vita non nasce da qualche cosa di cotale o dalla cura
de' proprii vantaggi (il quale interesse sarebbe per se, non per altrui), o da
che che si voglia di simil fatta. La semplice stima non ha sede nel cuore, e
non tocca in alcun modo al [3600]cuore. Or l'interesse così
inteso come noi dobbiamo, e vogliamo intenderlo in questo discorso, o dev'esser
tutto nel cuore, o il cuore non può far che non v'abbia parte. Si
può veder nella vita, che non si prova interesse efficace e sensibile
per persona alcuna, il quale risieda al tutto fuori del cuore. O gratitudine, o
naturale consanguineità, o simpatia o altra cosa qualunque che produca tale
interesse, il cuore v'ha sempre parte. E dov'ei non l'ha, o quello non è
vero interesse, ma egoismo (come chi s'interessa per chi gli è utile o
piacevole, o tale lo spera, e ci s'interessa con relazione diretta e immediata
a se medesimo e al suo proprio vantaggio), o è ben debole, e per lo
più inefficace, come quello ch'è prodotto dal solo dovere in
quanto dovere, sia di natura sia di che che si voglia, o da altra tale cagione.
Or quello interesse ch'è tutto nel cuore, o dove il cuore ha parte, o
è amore o specie di amore. Non può dunque il poeta render molto
interessante colui ch'e' non sa o non si propone di rendere amabile. E proprio
della poesia il destar la meraviglia e pascerla. Ma oltre che questa passione [3601]non
può esser molto durevole, e quando pure lo fosse, il maraviglioso, s'altro
non l'accompagna, presto sazia; l'interesse che può concepirsi per una
persona solamente ammirabile, non può esser che debolissimo. Si
può dir di questo interesse appresso a poco quel medesimo che abbiam
detto dell'interesse prodotto e sostentato dalla curiosità (il quale
può anche esser più durevole di quello, perchè la
curiosità può durar molto più della meraviglia, la quale
spesso, e ne' poemi forse sempre, si è l'obbietto della
curiosità, ch'è specie di desiderio, e l'obbietto conseguito, per
poco spazio diletta). E tornando a mirar nella vita, possiamo veder tuttodì
quanto sia debole e inefficace e passeggero l'interesse che producono l'ammirazione
o la stima ancorchè somma; seppure interesse alcuno, degno veramente di
tal nome, è mai prodotto da queste qualità. Or dunque volgendoci
a' poemi epici veggiamo nell'Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte
parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benchè sventurato
per quasi tutto il poema, niente interessa. Ei non è giovane, anzi
n'è ben lontano, benchè Omero si sforza di [3602]farlo apparire
ancor giovane e bello per grazia speciale degli Dei, di Minerva ec. o per una
meraviglia (che niente ci persuade perchè inverisimile), piuttosto che
per natura, anzi contro natura. Ma il lettore segue la natura, malgrado del
poeta e Ulisse non gli pare nè giovane nè bello. Le
qualità nelle quali Ulisse eccede, sono in gran parte altrettanto forse
odiose quanto stimabili. La pazienza non è odiosa, ma tanto è
lungi da essere amabile, che anzi l'impazienza si è amabile.[148]
Insomma ne nasce che Ulisse malgrado delle sue tante e sì grandi e
sì varie e sì nuove e sì continue sventure, e malgrado
ch'ei comparisca misero fino quasi all'ultimo punto, non riesce per niun modo
amabile. E per tanto ei non interessa. Ulisse è personaggio maraviglioso
e straordinario. I pedanti vi diranno che ciò basta ad essere interessante.
Ma io dico che no, e che bisogna che a queste qualità si aggiunga
l'essere amabile, e che quelle conducano e cospirino a produr questa, o, se non
altro con lei, sieno condite; e che il protagonista sia maravigliosamente e
straordinariamente amabile, cioè straordinario e maraviglioso
nell'amabilità, [3603]o per lo meno tanto amabile quanto
maraviglioso e straordinario.
Da questi discorsi si raccoglie essere un
sostanziale e capitale (benchè non avvertito) difetto della Gerusalemme,
che il suo principale Eroe, o quello che tale doveva essere, non solamente non
riesca per niuna parte amabile, ma il suo carattere e le sue azioni sieno state
espressamente delineate e composte in modo ch'ei non dovesse riuscire amabile,
o senza l'intenzione di renderlo tale; essendosi il Tasso contentato di farlo
ammirabile e fra tutti sommamente (insieme con Rinaldo) stimabile, e
straordinario per qualità solamente stimabili. Goffredo è appresso
a poco conforme ad Ulisse nel genere di eroismo e di superiorità (salva
la differenza de' tempi, de' costumi e circostanze ec. tanto d'ambo gli Eroi,
quanto de' due poeti): conforme, dico, ad Ulisse, eccetto nell'odiosità,
la quale ancora non so bene se manchi affatto al carattere di Goffredo, e se
possa mancare ad un uomo incapace affatto di passioni, privo affatto
d'illusioni, tutto ragione, austerissimo ne' costumi, nelle azioni, nella
disciplina militare o civile o privata ec. nelle [3604]massime di morale,
di condotta ec. austero verso se e verso gli altri, verso i soggetti ec.
irreprensibile in ogni cosa, grave, malinconico, e quasi tristo e accigliato
ec. ec. Non so, dico, se il lettore della Gerusalemme lasci di concepire nel
suo secreto, se non odio, pure una certa mal conosciuta, mal distinta, non confessata
alienazion d'animo ed avversione per Goffredo.
Richiedendosi necessariamente, come
s'è mostrato, al poeta epico (e similmente al drammatico, al romanziere
ec. ed anche allo storico) ch'egli renda in alcun modo, qualunque siasi,
amabile colui ch'e' voglia rendere interessante, e grandemente amabile, colui
ch'abbia ad essere sommamente interessante; è da considerare che a tal
effetto giova grandissimamente la sventura, la quale accresce a più
doppi l'amabilità ove la trova, e rende spesse volte amabile chi non lo
è, ancorchè sia meritevole delle disgrazie; molto più
quando e' ne sia immeritevole. L'uomo poi amabilissimo, che sia indegnamente
sventuratissimo, è la più amabil cosa che possa concepirsi. [3605]L'uomo
amabile e sventurato meritatamente, è sempre molto più caro e
compatito e interessante, che il non amabile e immeritatamente sventurato, il
quale può non esser nulla compatito e nulla interessare (e così
spessisimo accade), quando eziandio le sue sventure sieno estreme, e quelle
dell'altro menome, nel qual caso ancora, colui non può mancare d'esser
compatito e riuscir più amabile dell'ordinario. Ma non entriamo in tante
sottigliezze e distinzioni. La infelicità nel principal Eroe
dell'impresa ch'è il proprio soggetto del poema, non può aver
luogo, se non come accidentale, e risolvendosi all'ultimo in felicità,
secondo che a suo luogo ho spiegato e mostrato. Per tanto queste osservazioni
confermano grandemente il mio discorso sulla necessità di raddoppiar l'interesse
nel poema epico, a voler ch'esso poema riesca sommamente interessante e produca
grandissimo effetto; e giustificano ed esaltano il fatto di Omero nell'Iliade.
Perocchè non dandosi sommo interesse senza somma amabilità, e la
sventura essendo principalissima [3606]fonte di amabilità, e
quasi perfezione e sommità di essa, e non potendo una grandissima e
piena e finale infelicità aver luogo nell'eroe dell'impresa, resta che
sia bisogno, a far che il poema sia sommamente interessante, duplicarne
formalmente l'interesse, e diversificar l'uno interesse dall'altro,
introducendo un altro eroe sommamente amabile, e sommamente sventurato, dalla
cui finale sventura sia prodotto e intorno ad essa si aggiri, e ad essa sempre
tenda e sia spinto, e in vista di essa per tutto il poema sia proccurato,
questo secondo interesse di cui parliamo, il quale renda il poema sommamente
interessante e capace di lasciar l'interesse nell'animo de' lettori per buono
spazio dopo la lettura ec. Questo è ciò che fece Omero
nell'Iliade, nella quale Ettore è per le sue proprie qualità ed
azioni, e per la sua somma, piena e finale sventura, sommamente amabile, e
quindi sommamente interessante. Quanto ad Achille, ch'è l'altro protagonista,
e l'Eroe dell'impresa (così lo chiameremo per esser brevi), Omero non
potea farlo sfortunato e infelice, massime considerando la natura e le opinioni
di quei tempi, che riponeano il sommo pregio degli uomini nella fortuna, ed
anche ragionando (nel modo che altrove ho [3607]detto), dalla fortuna o
buona o ria argomentavano o la malvagità o la bontà, o il merito o
il demerito di ciascuno, non istimando che nè la sventura nè la
buona sorte potesse toccare agl'immeritevoli. Pur quanto gli fu possibile,
Omero non mancò di cercar di conciliare ad Achille, cogli altri affetti
i più favorevoli, anche l'affetto dolcissimo della pietà, madre o
mantice dell'amore. Ciò non solo coll'accidentale sventura della morte
del suo amico Patroclo e con altre tali, ma col mostrare eziandio, come in
lontananza, la finale sventura e l'infelice destino del bravo Achille, che per
immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni,
e questo in prezzo della sua gloria, ch'egli scientemente e liberamente aveva
scelta e preposta, insieme con una morte immatura, a una vita lunga e senza
onore. Tratto sublime che perfeziona il poetico e l'epico del carattere di
Achille, e della sua virtù, coraggio, grandezza d'animo, ec. e che
finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e interessante.
Il carattere di Enea partecipa molto de'
difetti di quel di Goffredo. Egli ha più fuoco, ma e' [3608]non
lascia però di essere alquanto freddo (e un carattere freddo sì
nella vita sì ne' poemi lascia freddo e senza interesse il lettore, o
chi ha qualunque relazione reale con esso lui, o di lui ode o pensa); egli ha o
mostra più coraggio personale e valor di mano, ma queste qualità
ci appariscono in lui come secondarie, e poco spiccano, e tale si è
l'intenzion di Virgilio, il quale volle che ad esse nel suo Eroe prevalessero
altre qualità, che non molto conducono, o piuttosto nuocono all'essere
amabile. La pazienza in lui è simile a quella di Ulisse. La prudenza e
il senno soverchiano ed offuscano le altre sue doti, non quanto in Goffredo, ma
tuttavia troppo risaltano, e troppo sono superiori all'altre sue qualità,
e troppo è maggiore la parte ch'esse hanno. Troppa virtù morale,
poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo
equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa
benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di
Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli
è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla [3609]natura
e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà
dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo Eroe, che la gioventù e la
bellezza ci paiono in lui fuor di luogo, e quasi ci giungono nuove e ci fanno
meraviglia (la meraviglia poetica non dev'esser certo di questo genere), e
quasi non ce ne persuadiamo, benchè sieno naturalissime; o per lo meno
vi passiamo sopra, senza valutarle, senza fermarci il pensiero, senza formarne
l'immagine, senza considerarli come pregi notabili di Enea, perchè
Virgilio avrebbe creduto quasi far torto al suo eroe ed a se stesso, s'egli ce
gli avesse rappresentati come pregi veramente importanti e degni di
considerazione, e notabili in lui fra le altre doti. E così mentre
Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi
vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti; dà bene ad intendere
ch'ella non era senza corrispondenza, e nella grotta, come ognun sa quel che Didone
patisse, così niun si può nascondere quello ch'Enea facesse;ma
Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione [3610]parla così
coperto, anzi dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne
segue d'inonesto a descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo
anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e'
non mostra essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella
si congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di
Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse
potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo
tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e
sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e
giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse
conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di
Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo Eroe un errore, una
debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza
nella forza, nè cosa meno amabile che un carattere e una persona senza
debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere [3611]appo
i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei
confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di
amore, tenero, sensibile, di cuore. Come se potesse interessare il cuore chi
non mostra, o dissimula a tutto potere, di averlo, o di averlo capace della
più dolce, più cara, più umana, più potente,
più universale delle passioni, che si fa pur luogo in chiunque ha cuore,
e maggiormente in chi l'ha più magnanimo, e similmente ancora ne' più
gagliardi ed esercitati di corpo, e ne' più guerrieri (v. Aristot.
Polit. l.2. ed Flor. 1576. p.142.); e che sovente rende ancora amabili chi la
prova, eziandio agl'indifferenti, al contrario di quel che fanno molte altre
passioni per se stesse. Il giudizio del Tasso, rispetto a Rinaldo, fu in questa
parte migliore assai di quel di Virgilio. Egli non si fece coscienza di
mostrare Rinaldo soggetto alle passioni, alle debolezze e agli errori umani e
giovanili. Egli non dissimula i suoi amori descrivendo quelli di Armida per
lui, ma si ferma e si compiace in descrivergli anch'essi direttamente. Egli non
ha neppure riguardo di farlo [3612]assolutamente reo di un grave,
benchè perdonabile misfatto cagionato da una passione propria e degna
dell'uomo, e quasi richiesta al giovane, e più al giovane d'animo nobile,
e pronto di cuore e di mano, dico dall'ira mossa dalle contumelie. Passione,
che, massime colle dette circostanze, suol essere amabilissima, malgrado i
tristi effetti ch'ella può produrre, e malgrado ch'ella soglia
altresì essere biasimata (perocchè altro è il biasimare altro
l'odiare), e che i filosofi o gli educatori prescrivano di svellerla dall'animo
o di frenarla. E certo in un giovane, e quasi anche generalmente, ella è
molto più amabile che la pazienza. E ciò si vede tuttodì
nella vita. Però il carattere di Rinaldo è molto più
simile ad Achille, e molto più poetico, amabile e interessante che
quello di Enea. O si può, se non altro, dire con verità che
Rinaldo è tanto più amabile di Enea, quanto Enea di Goffredo. Del
resto Enea ha passato e passa molte sciagure prima di giungere a stato felice.
Ma la compassione ch'elle cagionano non è grande, perch'ella cade sopra
un soggetto che il poeta ha creduto di dover fare più [3613]stimabile
che amabile; e perchè in oltre non si compatisce molto colui che nella
sciagura e nel male mostra quasi di non soffrire.
Da tutte queste considerazioni risulta che
l'Iliade oltre all'essere il più perfetto poema epico quanto al disegno,
in contrario di quel che generalmente si stima, lo è ancora quanto ai
caratteri principali, perchè questi sono più interessanti che
negli altri poemi. E ciò perchè sono più amabili. E sono
più amabili perchè più conformi a natura, più
umani, e meno perfetti che negli altri poemi. Gli autori de' quali, secondo la
misera spiritualizzazione delle idee che da Omero in poi hanno prodotta e sempre
vanno accrescendo i progressi della civiltà e dell'intelletto umano,
hanno stimato che i loro Eroi dovessero eccedere il comune non nelle
qualità che natura mediocremente dirozzata e indirizzata produce e promuove
(le quali dalle nostre opinioni sono in gran parte e ben sovente considerate
per vizi e difetti), ma in quelle che nascono e sono nutrite dalla
civiltà e dalla coltura e dalle cognizioni e dall'esperienza [3614]e
dall'uso degli affari e della vita sociale, e dalla sapienza e saviezza, e dalla
prudenza e dalle massime morali e insomma dalla ragione. Or quelle
qualità sono amabili, queste stimabili, e sovente inamabili ed anche odiose.
Gli Eroi dell'Iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli altri
poemi epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono
più materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le
qualità di questi sono tutte spirituali, interiori, morali, proprie
dell'animo, e che dall'animo solo hanno ad esser concepite, e valutate. Dico
tutte, e voglio intender le principali, e quelle che formano propriamente e
secondo l'intenzion de' poeti, il carattere di tali Eroi; perocchè se i
poeti v'aggiunsero anche i pregi più esteriori e corporali, gli aggiunsero
come secondarii e di minor conto, e vollero e ottennero che nell'idea de'
lettori essi fossero offuscati dai pregi morali, e poco considerati a rispetto
di questi; e in verità essi son quasi dimenticati, e, come ho detto in
proposito di Enea, paion quasi fuor di luogo, e poco convenienti con gli altri
pregi, o pare fuor di luogo [3615]il farne menzione e il fermarcisi,
come cose degne da esser notate ed espresse.[149] E
sembra, ed è vero, che i poeti l'han fatto più tosto per usanza e
per conformarsi alle regole ed agli esempi, che perchè convenisse al
loro proposito e al loro intento, e perchè la natura e lo spirito de'
loro poemi e de' loro personaggi lo richiedesse, anzi lo comportasse. Or,
siccome l'uomo in ogni tempo, malgrado qualsivoglia spiritualizzazione e
qualunque alterazione della natura, sono sempre mossi e dominati dalla materia
assai più che dallo spirito, ne segue che i pregi materiali e gli Eroi,
dirò così, materiali dell'Iliade, riescano e sieno per sempre
riuscire più amabili e quindi più interessanti degli Eroi
spirituali e de' pregi morali divisati negli altri poemi epici. E che Omero,
ch'è il cantore e il personificatore della natura, sia per vincer sempre
gli altri epici, che hanno voluto essere (qual più qual meno) i cantori
e i personificatori della ragione. (Perocchè veramente gli Eroi dell'Iliade
sono il tipo del perfetto grand'uomo naturale, e quelli degli altri poemi epici
[3616]del perfetto grand'uomo ragionevole, il quale in natura e secondo
natura, è forse ben sovente il più piccolo uomo).
Del resto par che Omero medesimo
sacrificasse e fosse strascinato dalla crescente ragione e civiltà,
quando avendo nell'Iliade modellato il perfetto guerriero con sì felice
successo, volle poi nella vecchiezza (per quanto si dice dell'epoca dell'Odissea)
modellare il perfetto politico; un guerriero giovane, un maturo e quasi vecchio
politico; certo con poco felice riuscimento, e men felice di quello degli altri
poeti che lui seguirono, i quali fecero i loro Eroi poco amabili, dov'egli il
fece poco meno che odievole. E ben era ragione che così fosse,
perchè quella era ancor l'epoca della natura, e troppo imperfetta era la
ragione perch'altri potesse con buono esito modellare un carattere che avesse
ad esser perfetto secondo lei, ed avere in lei il principio e la ragion della
sua bontà e perfezione, ossia del suo esser buono e lodevole ec.
(3-6. Ottobre. 1823.). V. p.3768.
Tostar spagn. da torreo-tostus.
(6. Ott. 1823.)
[3617]Torto as da torqueo-tortus.
(6. Ott. 1823.)
Nomi in uosus ec. Impetuosus,
da impetus us. Se quella voce, e impetuose, non sono veramente
nel buon latino (v. Forcell.) certo elle sono nelle lingue figlie. (V. il
Gloss.) Tortuosus, tortuose ec. da tortus us.
(6. Ott. 1823.)
Andare per essere, del che
altrove. Ar. Fur. c.11. st.79. Nè
però fu tale pena, ch'al delitto ANDASSE eguale.
(6. Ott. 1823.)
Il Tasso, descrivendo i momenti che
precedono una battaglia campale, e i due campi ordinati in battaglia (Gerus.
Liber. c.20. stanza 30.): Bello in sì bella vista anco è
l'orrore, E di mezzo la tema esce il diletto. Tant'è: ogni sensazion
viva è gradevole perciocchè viva, benchè d'altronde, e
pure per se, dolorosa o paurosa ec. Fuor di quelle che son dolorose al corpo.
All'animo, eziandio dolorose, o altramente spiacevoli, sono sempre in qualche
parte piacevoli.
(6. Ott. 1823.)
A proposito del diminutivo ginocchio
a noi rimasto pel positivo, del che altrove. Genou è il positivo genu.
Ma agenouiller viene dal diminutivo [3618]genuculum o ec.
non altrimenti che inginocchiare. Il Gloss. ha anche l'espresso ginochium.
Servirsi de' diminutivi in luogo de'
positivi fu anche de' greci. grex
ovium è diminutivo di , come di , ma vale
il medesimo.
(6. Ott. 1823.)
Alla p.2983. I francesi chiamano cervelet
quello che gli anatomici appo noi cerebellum. Sicchè quello
è un diminutivo di diminutivo. Così noi diciamo cervellino
e agnellino e cento diminutivi di diminutivi positivati. Ma noi sogliamo
diminuire anche i diminutivi propri, come in fiorellino ec. fino anche a
triplicar la diminuzione.
(7. Ott. 1823.)
La parola veneziana e marchigiana magari
si fa venir dal greco o . Ed io ne
son persuasissimo. Così diciamo ancora beato me, beati noi, beato
lui, loro, voi, te, se questo accadesse. Ch'equivale a magari, utinam.
(7. Ott. 1823.)
Sciscitor dimostra il proprio
participio di scisco, che or veramente non l'ha (siccome non l'hanno
tanti altri del suo genere, p.e. hisco ec. neanche il perfetto passato),
benchè lo pigli in prestito, siccome anche il perfetto, da scio.
V. p.3687. Così scisco e così i suoi composti. [3619]Sciscitor
o sciscito, dimostra il partic. sciscitus regolare e perfetto.
Giacchè ben s'inganna il Forcellini che deriva sciscitor da scio,
da cui esso viene solo in quanto scisco è da scio, come vivisco
da vivo ec. ec. (7. Ott. 1823.). Che sciscito sia fatto per
anadiplosi di scitus (sia di scitus di scio o di quel di scisco,
che secondo me, non è che un medesimo participio) o di scitor
oltre l'altre improbabilità, e il suo evidente venir da scisco,
(il quale non è fatto per anadiplosi), e il non avervi, ch'io sappia,
altro cotal esempio, ec.; lo dimostra per falso la brevità del secondo i,
laddove l'i di scitus, e di scitor ec. è lungo.
Vedi il pensiero seguente.
(7. Ott. 1823.)
Alla p.2865. marg. Queste osservazioni
indebolirebbero o torrebbero l'argomento circa il continuativo di cio e
di cieo da me recato a p.2820. Nondimeno io trovo che da scitus
di scio lungo, si fa scitor (o scito) altresì
lungo. E quanto ai verbi in ito fatto da' participi in itus della
quarta congiugazione io credo che in tutti l'i sia lungo come in essi
participii (7. Ott. 1823.). Equito è da eques equitis.
Bisognerà dire che suppedito sia similmente da pedes peditis,
onde gli sia venuta la desinenza in ito. Pur non trovo in ciò
gran ragionevolezza, e non rinunzio affatto all'altra mia opinione.
Sancitus, vero participio di sancio
per sanctus che n'è contrazione, ancor si trova. Ovvero sancitum
ec. V. Forcell.
(7. Ott. 1823.)
[3620]Alla p.3477. Citus a um.
Sanctus a um, che nelle lingue figlie non è più che
aggettivo. Servio (v. Forcell. Sancio in fine) par che derivi sancio
da Sanctus.[150] In
questo caso ei s'inganna assai, perocch'ei viene a derivare il verbo dal suo
participio.
(7. Ott. 1823.)
Relictos atque desertos habere
espressamente per reliquisse ac deseruisse. Frammenti dell'epistola di
Cornelia madre de' Gracchi, sulla fine; i quali frammenti, come antichi, e come
di donna (che men si sapeva allontanare dal modo di parlar familiare e usitato
in voce), in alcune parti sanno di frase italiana o vogliamo dir moderna.
(7 Ott. 1823.)
Le voci e frasi greche che ho in più
luoghi notate nelle lingue spagnuole francesi e italiane e che non si trovano
nel buon latino, possono sì essere state introdotte nel latino volgare
dagli scrittori grecizzanti fuor di modo, dalla moltitudine di greci inquilini
(la massima parte de' quali apparteneva all'infimo volgo, ai servigi domestici
ec.), dal corrotto uso della conversazione romana ec. e non essere state
adottate nel linguaggio illustre de' [3621]buoni scrittori,
nè anche de' mediocri generalmente, e quindi a noi non essere pervenute
nel latino scritto; sì esser venute dalla stessa fonte nel Lazio che
nella Grecia, cioè proprie dell'antichissimo latino, antiquate o non mai
ammesse nello scritto, ammesse e perpetuamente conservate nel volgare, come di
molte e frasi e voci, ancor viventi fra noi, o no, greche o qualunque, ec.
s'è fatto da noi vedere manifestamente essere accaduto: massime ne'
nostri discorsi sui continuativi. ec.
(7. Ott. 1823.).
Monosillabi latini. Falx, calx (calcagno).
(7. Ott. 1823.)
Participii in us di verbi neutri in
senso neutro. V. Forcell. in Desitus confrontando quegli esempi col
quarto esempio di Desino appresso il medesimo Forcellini.
(7. Ott. 1823.)
Materia p. legno, legname.
Del qual significato ho detto altrove in proposito della voce silva e d'. V. Forc. in materiarius,
materiatio, materiatura, materiatus, materio, materior. In ispagnuolo oltre
madera per legno, v'è maderamen per legname,
ec. ec.
(7. Ott. 1823.)
[3622]Sempre che l'uomo non prova
piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere
qualunque, o e' non s'accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai
propriamente che l'uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo
di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con
noia. Ed essendo la noia, pena e dispiacere, segue che l'uomo, quanto ei sente
la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. Massime quando l'uomo non ha
distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo
del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi
chiamiamo particolarmente di noia. V. p.3713.
(7. Ott. 1823.)
Vermiglio, vermeil, vermejo vien da vermiculus,
come a pagg.3514. fine e 3515. fine. Or dunque questa voce vermiculus
è comune a tutte e tre le lingue figlie per significare il rosso
ec. Dunque dico io che questo significato di vermiculus dovette essere
del volgare latino. E tanto più, quanto è noto che il color della
porpora ec. si faceva appunto con certi vermicelli. V. gli antiquarii, e fra
gli altri la Dissertaz. del Cav. Rosa sulla porpora. Onde è
naturalissima la metafora da' vermicelli, vermiculi, al color rosso, e
specialmente al rosso profondo, vermiglio, qual doveva essere [3623]quel
della porpora, che noi ben potremmo chiamare vermiglia. Niente meno che
sia naturale la metafora da' vermicelli a quell'opus vermiculatum, che
si trova detto pure vermiculus (vedi Forcell.). Anzi assai più
naturale è quella che questa. E notisi che l'uso di fare il color della
porpora ec. co' vermetti, fu dismesso da gran secoli addietro, tanto che ora
non si può certamente sapere che sorta di vermetti fossero quelli. E
s'io non m'inganno, l'uso medesimo della porpora propria, fu tralasciato ne'
tempi bassi a causa del suo gran costo, e della povertà di que' tempi, e
dell'interrotto commercio colle Indie, donde, se non fallo, s'avevano que'
vermicelli, o dove le porpore si fabbricavano ec. Laonde, essendo evidentissimo
che il significato di rosso a vermiculus venne dal detto uso; ed
essendo questo uso antichissimo, e fino ab antichissimo dimenticato o
tralasciato; ed essendo detta significazione comune a tutte le tre lingue figlie
della latina, le quali da' tempi romani in poi, non ebbero fra loro alcun
commercio diretto e notabile ec. se non negli ultimi tempi; ed essendo detta voce
e significazione in tutte tre le lingue antica e propria [3624]e natia
ec., parmi evidente che vermiculus per rubicondo, purpureo ec. fu
dell'antico volgare latino altrettanto che de' moderni, e di là
viene. V. il Gloss. se ha nulla. V. anche il Forcell. circa il proprio color
della porpora o purpureo, in purpura, purpureus ec.
Secondo lui però la porpora si faceva non con vermi, ma con una sorta di
conca marina detta purpura. Il color coccineus si facea colla
grana. Il conchyliatus colla stessa conchiglia detta purpura, o
con altra simile ec. Certo la nostra cocciniglia è un color fatto
d'una specie di vermi, che anch'essi si chiamano cocciniglie.
Così conchylium è la conchiglia e il colore che se ne fa.
Così dunque vermiculus fu il verme e il colore. Similmente coccum,
conchylium, , sono
sì la grana o la conchiglia, sì la lana, il panno, la veste, il
filo, tinti con esse. Fucus si trova eziandio pel colore fatto del fuco.
(7. Ott. 1823.). V. p.3632.
Purgito as da purgo as.
(7. Ott. 1823.)
Il v non fu che un'aspirazione che si
metteva, per evitare l'iato, fra più vocali; e tralasciavasi spessissimo
ec. ec. come altrove in più luoghi. [3625]V. il Forcellini in Fuam.
(7. Ott. 1823.)
Alla p.2821. fine. Nótisi il significato
continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove
questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo,
ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove
esaminato, per excipio. Nótisi ancora che nell'improprio suo ma
più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo.
Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle
ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l'avversario ec. e
ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è
quasi un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare ec. Le quali
osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli
etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo
significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e
così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e
derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale
anche [3626]par che derivi confuto da futum nome (dunque
da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de'
continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche
più naturale ch'ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo
spiega pure per compesco, s'inganna assai. Significazioni analoghe a
quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel
Forcell. in confundo, confusio, confusus, ec.[151] e
nel Gloss. in Confundere, avvertendo che la lingua latina antichissima
aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni
che non ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più
illustre scritto; e n'ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi
usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino,
più si veggono negli scrittori de' bassi tempi (or v. gli esempi di
Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne' volgari
moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più
l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per
ignoranza o [3627]per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una
lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una
lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa
scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto
meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome
eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più
familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell'antico
latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, più
hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi
ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec. più somigliano quella
degli scrittori bassi e de' volgari moderni. I più antichi (coi quali
vanno quelli che più si tennero all'antico per loro instituto, come
Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era
ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal
parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per
istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere e minore studio
fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre, non vollero o non
seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col
latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi [3628]paiono
amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a'
contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli
scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per
la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è
sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de'
tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo
che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di
second'ordine. Tali sono Cornelio Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le
Fèvre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v.
Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De' quali gli stessi moderni,
vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e
giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se
appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a
riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di Cornelio sono
state attribuite ad Emilio Probo (autore assai basso) per ben lungo tempo e in
molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello
che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti, [3629]e
negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput.
del Desbillons). Non così è accaduto nè anticamente accadde
agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio
illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto, assai men diviso dal volgare
e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione
e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p.e.
di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone
ch'è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e
familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec.
Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della
semplicità e bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e
artifizio. Pur l'uno e l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente
stimati da' Greci e contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli
altri in perpetuo ec.
(8. Ott. 1823.)
A proposito del detto da me altrove sopra il
verbo necessitare, notinsi i verbi felicitare, debilitare,
nobilitare, impossibilitare, facilitare, difficultare, ereditare e simili
che son fatti evidentemente da [3630]felicità, eredità
e simili, ovvero da felicitas, hereditas ec.
(8. Ott. 1823.)
Quanto fosse incerta l'ortografia stessa
italiana (che oggi è la più giusta di tutte) anche nel 600,
cioè nel secolo dopo il miglior secolo della nostra letteratura, veggasi
la prefazione all'ortografia del Bartoli, (uomo che fra tutti del suo tempo, e
fors'anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e scienza e per
pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra
lingua), e il consiglio che quivi egli dà a chi vuole scrivere, di
pigliarsi cioè o di formarsi un'ortografia a suo modo, e quella sempre
seguire; consiglio che niuno certamente darebbe oggi in Italia ad alcuno,
nè vi sarebbe più che una ortografia da poter pigliare
cioè scegliere ec. Ma al contrario era allora, dopo tre secoli e
più che si scriveva la nostra lingua, e ciò da letterati, non sol
per uso della vita.
(8. Ott. 1823.)
Le forme regolari e perfette ec. de'
participii e supini (e anche de' perfetti e lor dipendenze) della seconda e
terza maniera massimamente, da me [3631]stabilite e richiamate nei verbi
che più non le hanno, sono, oltre gli altri argomenti, confermate da'
verbi delle stesse maniere che ancor le hanno, e che ne' participii o supini
son regolari e perfetti, sia ch'essi abbiano anche degl'irregolari, o che
gl'irregolari solamente; e ch'essi sieno regolari e perfetti in tutto, o che
senza ciò lo sieno ne' participii o supini. P.e. habeo habes habui,
verbo tutto regolare e perfetto, fa habitum e habitus a um, non habtum.
Perchè dunque doceo doces docui, doctum, non docitum?[152] E
da tali osservazioni si vede che questo paradigma e quello di lego sono
male scelti ad uso delle grammatiche, perchè ambo irregolari, o vogliamo
dire alterati dalla prima lor forma, e dalla vera forma de' loro pari, ne'
supini e ne' participii in us. Il che di lego si dimostra anche
particolarmente col suo derivato legito, come altrove.
(8. Ott. 1823.)
Mi pare di aver nella teoria de'
continuativi detto che il perfetto di lego fu legsi. Notisi [3632]che
oggi e' non lexi come texi, rexi ec. ma legi, ed è
regolarissimo, e quello fu mio errore.
(8. Ott. 1823.)
Alla p.3624. Sempre questa voce vermiglio,
derivata certo dal latino, come mostrano le pagine 3514. fine, 3515. fine, e
l'altre analoghe; derivatane molto ab antico, come mostra la p.3623. fine, e
l'altre analoghe; potrà e dovrà servire ad insegnare (chè
forse per l'addietro non si sapeva, faute di non avere osservato le cose
da me dette in proposito, e i generali su cui esse si fondano) e a provare che
anticamente ancora, siccome oggi la cocciniglia, si usava di fare un color
rosso carico, con non so quali vermicelli. E molto anticamente, perch'egli
è anche a notare che sebbene l'origine di vermiglio, vermeil, vermejo,
e del suo presente significato, e il modo della traslazione di questo, e la cagion
d'essa ec. è indubitatamente quella che abbiamo spiegato, nondimeno oggi
le dette voci sono già passate non solo a significare qualunque color
rosso acceso, ancorchè non fatto con vermi, ma anzi più
volentieri (v. in [3633]particolare i Diz. franc.) s'adoprano a
significare un colorito naturale affatto che artifiziale; bench'elle per la
loro etimologia, e propria forza, e primitiva qualità, non valgano a
significare altro che un color fattizio, una tintura ec. Ma ora elle hanno
mutato il loro valore nel detto modo, e ciò in tutte tre le lingue del
pari, onde si rileva che questa medesima mutazione è bene antica. (8.
Ott. 1823.). Ed ella può anche servire a dimostrare assolutamente l'antichità
della voce ec. ch'è ciò ch'io ho inteso di provare nel pensiero a
cui questo si riferisce.
(8. Ott. 1823.)
Scriveva Voltaire al Principe Reale di
Prussia, poi Federico II, in proposito di una frase di Orazio e del modo in cui
Federico l'aveva renduta traducendo in francese l'ode in ch'ella si trova: Ces
expressions sont bien plus nobles en français: elles ne peignent pas comme le
latin, et c'est là le grand malheur de notre langue qui n'est pas assez
accoutumée aux détails. (Lettres du Prince
Royal de Prusse et de M. [3634]de Voltaire, Lettre 118. le 6. avril
1740. Oeuvres complettes de Frédéric II roi de Prusse. 1790. tome
10, p.500.) Aveva detto Voltaire che l'espressione latina serait
très-basse en français.
Con buona pace di Voltaire la lingua francese
è ed assuefatissima e proprissima ai dettagli, perch'ella ha parole per
significare fino alle più menome differenze delle cose, come altrove ho
detto, e vince in questo forse tutte l'altre lingue antiche e moderne, comprese
le più poetiche, o quelle che meglio hanno linguaggio poetico e nobile.
Ma non avendo sinonimi, nè parole o frasi antiche o poco usitate e
correnti, e rimote dall'uso comune, nè significazioni cotali, ma vocaboli
e frasi e significati triti continuamente dall'uso corrente del discorso e
della conversazione, e tanto solo avendo quanto si trova in questo tal uso, ed
essendo non che pregiato e buono e prescritto, ma vizioso e intollerabile e
condannato e vietato in francese tutto ciò ch'è rimoto dall'uso
del dir comune e presente, ella non può, quando vuol esser nobile,
entrar ne' dettagli, ma le conviene tenersi sempre all'espressioni generali,
che son sempre nobili, o piuttosto, che non sono mai nè possono essere
ignobili. Neanche [3635]la lingua latina, nè qual altra è
più poetica, più capace di eleganza e maestà ec.,
più avvezza ai dettagli, ec. potrebbe mai nella poesia o in uno stile
nobile, entrar gran fatto ne' particolari, s'ella non avesse parole e modi per
significarli, diversi da quelli con che l'uso corrente del parlare, e lo stil
familiare ec. scritto o parlato, significa quei medesimi particolari. E l'espression
latina che sarebbe bassissima in francese, sarebbe stata bassissima anche in
latino, se fosse stata quella o conforme a quella con che l'uso corrente del
dir latino significava quella tal cosa.
(8. Ott. 1823.)
Alla p.3626. Queste osservazioni possono
dimostrare che l'uso moderno metaforico del verbo confondere nel
significato appresso a poco di confuto, benchè non si trovi
precisamente nell'antico latino noto, viene però da esso, per mezzo del
volgare latino; giacchè tale si è il significato latinissimo e
ordinario di un antichissimo verbo latino, che è continuativo di confundo,
e che n'è continuativo appunto nel detto significato. Similmente nel
primo principio della mia teoria de' continuativi [3636]ho discorso in
proposito di un significato dello spagnuolo traer conforme a quello del
suo continuativo tractare, ma ignoto in latino ec.
(9. Ott. 1823.)
L'uso de' diminutivi positivati (sì
verbi che nomi ec.) o che i positivi non s'usino o non esistano ec., o che
s'usino collo stesso valore o equivalente, è comune alle nostre lingue
anche in vocaboli che non derivano dal latino, donde ch'egli abbiano origine.
V. p.3946.3998. Come in francese fardeau (it. fardello), marteau,
martel (martello, martillo), roseau, berceau, tonneau ec. ec.
diminutivi per forma, sono tutti positivi di significato.[153] Fourreau,
diminutivo di un fourre, onde fourrer, che rispondesse al nostro fodero
o fodera. Infatti in spagnuolo si ha aFORRO onde aFORRAR
ec. come noi da fodera, foderare. L'aggiunta dell'a nel principio
delle voci è usitata assai in spagnuolo come in italiano (Monti Propos.
in ascendere). Sicchè aforro è fourre. V.
p.3852. A proposito di berceau, anche noi diciamo positivamente culla,
ch'è altresì diminutivo, fatto da cuna (che noi pure abbiamo),
o ch'e' sia corruzione moderna di cunula (che si trova in Prudenzio), o
ch'e' sia forma antica latina, diminutiva anch'essa, e contratta da cunula,
o indipendente da questo. Vedi il Forcellini in trulla diminutivo di trua.
(9. Ott. 1823.). V. p.3897.3993.
Alla p.3310. Non è propriamente
(benchè si chiami) Amore quello che noi ponghiamo al cibo che ci pasce e
diletta, e agl'istrumenti e [3637]alle cose tutte che servono ai nostri
piaceri, comodi e utilità. Perocchè l'affetto che ci muove verso
questi obbietti non ha nemmeno apparentemente per fine gli oggetti medesimi
(che è il caso in cui il nostro affetto si chiama propriamente amore),[154] ma
noi soli apertamente e immediatamente o vogliam dire i nostri piaceri, comodi,
vantaggi, in quanto nostri.
(9. Ott. 1823.). V. p.3682.
Alla p.3586. Quanto più tai voci e
frasi saranno e saranno sempre state, nelle moderne lingue, affatto volgari, e
quanto meno proprie degli scrittori e delle moderne lingue illustri, o meno
sospettabili di essere state introdotte dagli scrittori e dalla lingua
illustre, tanto più forte e concludente sarà l'argomento da esse
al latino, e dal latino a esse, poste l'altre debite circostanze ec. Onde i
nostri dialetti volgari e non mai scritti (se non per giuoco ec.) e che non
hanno linguaggio illustre, sono molto a proposito in queste materie, e se ne
conferma quello che ho detto della loro utilità per investigar le
origini della lingua latina ec. nella mia teoria de' continuativi verso [3638]il
fine. Altrettanto e più dicasi intorno alla lingua Valacca, che non
è stata mai per niun modo, neppure indiretto, influita da niuna
letteratura, ch'io sappia.
(9. Ottobre 1823.)
Alla p.3575. Ond'è tanto più
forte, anzi fortissimo l'argomentare ch'io fo dallo spagnuolo (da' participii
spagnuoli ec.) all'antico latino. Vedi la pag.3586. e il pensiero antecedente.
(9. Ott. 1823.)
Léser o lézer da laesus
di laedo.
(9. Ott. 1823.)
Primos in orbe deos fecit timor. Intorno
a ciò altrove. Or si aggiunga, che siccome quanto è maggior
l'ignoranza tanto è maggiore il timore, e quanta più la barbarie
tanta è più l'ignoranza, però si vede che le idee de'
più barbari e selvaggi popoli circa la divinità, se non forse in
alcuni climi tutti piacevoli, sono per lo più spaventose ed odiose, come
di esseri tanto di noi invidiosi e vaghi del nostro male quanto più
forti di noi. Onde le immagini ed idoli che costoro si fabbricano de' loro Dei,
sono mostruosi e di forme terribili, non solo per lo poco artifizio di chi
fabbricolle, ma eziandio perchè tale si fu la intenzione e la idea
dell'artefice. E vedesi questo medesimo anche in molte nazioni che
benchè lungi da civiltà pur non sono senza cognizione ed [3639]uso
sufficiente di arte in tali ed altre opere di mano ec. come fu quella de' Messicani,
i cui idoli più venerati eran pure bruttissimi e terribilissimi
d'aspetto come d'opinione. Molte nazioni selvagge, o ne' lor principii,
riconobbero per deità questi o quelli animali più forti
dell'uomo, e forse tanto più quanto maggiori danni ne riceveano, e
maggior timore ne aveano, e minori mezzi di liberarsene, combatterli, vincerli
ec. La forza superiore all'umana è il primo attributo riconosciuto dagli
uomini nella divinità. V. p.3878. E certo egli è segno di
civiltà molto cresciuta e bene istradata il ritrovare in una nazione e
la idea e le immagini o simboli o significazioni della divinità, piacevoli
o non terribili. Come fu in Grecia, sebben molto a ciò dovette
contribuire la piacevolezza e moderatezza di quel clima, che nulla o quasi
nulla offre mai di terribile. Perocchè le forze della natura vedute
negli elementi ec., riconosciute per superiori di gran lunga a quelle degli
uomini, e, a causa dell'ignoranza, credute esser proprie di qualche cosa animata
e capace, come l'uomo, di volontà, poichè è capace di movimento,
di muovere ec.; sono state le cose che hanno suscitata l'idea della divinità
(perchè gli uomini amano e son soliti di spiegar con un mistero un altro
mistero, e d'immaginar cause indefinibili degli effetti che non intendono, e di
rassomigliare l'ignoto al noto; come le cause ignote de' movimenti naturali, alla
volontà ed all'altre forze note che producono i movimenti animali ec.),
ond'è ben naturale che tale [3640]idea corrispondesse alla natura
di tali effetti, e fosse terribile se terribili, moderata se moderati,
piacevole se piacevoli ec. e più e meno secondo i gradi ec. Se non che
nell'idea primitiva dovette sempre prevalere o aver gran parte il terribile,
perchè essendo l'uomo naturalmente inclinato più al timore che
alla speranza, come altrove in più luoghi, una forza superiore affatto
all'umana, dovette agl'ignoranti naturalmente aver sempre del formidabile.
Oltre che in ogni paese v'ha tempeste, benchè più o meno
terribili ec. E tra le varie divinità di una nazione che ne riconosca
più d'una, di una mitologia ec., le più antiche son certamente le
più formidabili e cattive, e le più amabili e benefiche ec. son
certamente le più moderne. Le nazioni più civilizzate adoravano
gli animali utili, domestici, mansueti ec. come gli egizi il bue, il cane, o
loro immagini. Le più rozze, gli animali più feroci, o loro
sembianze (v. la parte 1. della Cron. del Peru di Cieça, cap.55. fine. car.152.
p.2.). Quelle p.e. il sole o solo o principalmente, queste, o sola o
principalmente la tempesta ovvero ec. ec. E a proporzione della rozzezza o
civiltà, gli Dei ec. malefici e benefici erano stimati più o men
principali e potenti, ed acquistavano o perdevano nell'opinione e religion del
popolo, e nelle mitologie, e riti ec. V. p.3833. Come della mitologia greca e
latina ec. senza dubbio si dee dire. Infatti anche indipendentemente da questa
osservazione, s'hanno argomenti di fatto per asserire che p.e. Saturno, Dio
crudele e malefico, e rappresentato per vecchio, brutto, e d'aspetto come
d'indole e di opere, odioso, fu l'uno de' più antichi Dei della Grecia o
della nazione onde venne la greca e latina mitologia, e più antico di
Giove ec. Effettivamente la detta mitologia favoleggia che Saturno regnò
prima di Giove, [3641]e da costui fu privato del regno. La qual favola o
volle espressamente significare la mutazione delle idee de' greci ec. circa la
divinità, e il loro passaggio dallo spaventoso all'amabile ec. cagionato
dal progresso della civiltà, e decremento dell'ignoranza; o (più
verisimilmente) ebbe origine e occasione da questo passaggio, di essere
inventata naturalmente.
Del resto, ho detto altrove che dalla
considerazione della divinità come formidabile, odiosa, odiatrice,
nemica ec. nacque l'uso de' sacrifizi cruenti, comune alla massima parte degli
antichi popoli e de' selvaggi ch'ebbero o hanno una qualunque religione o
tintura di religione. Ora è da notare che detti sacrifizi furono e sono
tanto più crudeli, quanto i detti popoli furono o sono più barbari
e ignoranti, perchè tanto più crudele, nemica, maligna, odiosa,
terribile e' si figuravano o si figurano la divinità. Onde per placarla
e soddisfarla, tormentano le vittime, volendo pascere il di lei odio e
sfamarlo, acciocch'esso risparmi i sacrificatori. E perciò ne'
più antichi tempi de' greci e de' latini, così de' Galli a' tempi
e nella religione de' Druidi, tra' Celti ec. furono propri di questi popoli [3642]ancor
barbari e ignoranti, i sacrifizi d'uomini (che poi per l'uso durarono anche
fino a tempi più civili), e lo sono e furono d'altri moltissimi popoli
selvaggi; come che con tali sacrifizi meglio si soddisfacesse l'ira e l'odio
della divinità verso gli uomini, cioè verso quel tal genere che a
lei facea sacrifizi. E non pur d'uomini nemici, che non sarebbe gran meraviglia
(uso anch'esso comunissimo tra' selvaggi), o di colpevoli e malvagi, ma
eziandio nazionali e probi, benchè questi sacrifizi sieno e fossero meno
frequenti di quelli di nemici o di rei. Qua si può riferire lo spontaneo
sacrifizio e devozione (cioè esecrazione di se stessi ec.) di
Codro, de' Decii, di Curzio (s'è vero) e simili. Tutti appartenenti a'
più antichi e barbari tempi della Grecia e di Roma, nè mai rinnovati
ne' tempi civili appo l'una nè l'altra nazione.
È da considerare ancora che tra'
selvaggi e tra' barbari antichi o moderni ch'ebbero o hanno più
divinità, altre più odiose, altre meno, altre amabili e buone
ec.; le più venerate e colte con sacrifizi e riti e cerimonie e preci
ec. sono o furono le più cattive, [3643]terribili, odiose, brutte
a vedere ec. perchè il timore è più forte, valevole,
efficace, attivo che la speranza e l'amore. Al contrario accadde e accade ne'
men barbari ec. e tanto più quanto men barbari, e altresì in
quelle medesime nazioni in tempi più civili, e a proporzione degl'incrementi
della civiltà e delle conoscenze e del lume della ragione ec. e de'
progressi dello spirito umano. L'una e l'altra di queste verità è
dimostrata dalla storia, dalle notizie dell'antichità, e dalle relazioni
de' viaggiatori ec. V. fra gli altri mille, D. Ant. de Solìs, Historia
de la Conquista de Mexico L.1. c.15. p.43-
(9. Ott. 1823.)
Fuoco - Il suo uso è indispensabile
necessità ad una vita comoda e civile, anzi pure ai primissimi comodi. -
Or tanto è lungi che la natura l'abbia insegnato all'uomo, che fuor di
un puro caso, e senza lunghissime e diversissime esperienze, ei non può
averlo scoperto nè concepito - E non possono neppure i filosofi indovinare
come abbia fatto l'uomo non pure ad accendere, ma a vedere e scoprire il primo
fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al frottement
reciproco de' rami degli alberi cagionato da' venti nelle [3644]foreste,
chi a' volcani, e chi ad altre tali ipotesi l'una peggio dell'altra - E
conosciuto il fuoco, come avrà l'uomo trovato il modo di accenderlo
sempre che gli piaceva? Senza di che e' non gli era di veruno uso. E di
estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a sapere e a
trovar tutte queste cose - Gli antichi favoleggiavano che il fuoco fosse stato
rapito al cielo e portato di lassù in terra. Segno che l'antica tradizione
dava l'invenzione del fuoco e del suo uso e del modo di averlo, accenderlo,
estinguerlo a piacere, per un'invenzione non delle volgari, ma delle più
maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta subito, ma dopo istituita la
società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non avrebbe potuto dar
luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il ratto del fuoco fu
opera di chi volle beneficare la società umana ec. - Non solo la natura
non ha insegnato l'uso del fuoco, nè somministrato pure il fuoco agli
uomini se non a caso, ma ella lo ha fatto eziandio formidabile, e pericolosissimo
il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed immensi danni fisici
non ha fatto l'uso del fuoco sì all'altre [3645]parti della
natura sì allo stesso genere umano. Niuno de' quali avrebbe avuto luogo
se l'uomo non l'avesse adoperato, e contratto il costume di adoperarlo. Il
fuoco è una di quelle materie, di quegli agenti terribili, come
l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente seppellito e
appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli animali, e
dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita totale
della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo
manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali e
particolari, com'è quello de' vulcani, che sono fuor dell'ordine
generale e della regola ordinaria della natura. Tanto è lungi ch'ella
abbia avuto intenzione di farne una materia d'uso ordinario e regolare nella
vita degli animali o di qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del
globo, e di sottometterlo all'arbitrio dell'uomo, come le frutta o l'erbe ec.,
e di destinarlo come necessario alla felicità e quindi alla natural
perfezione della principale specie di esseri terrestri - [3646]Orazio
(1. od.3.) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come
un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e l'invenzion
d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e morbi ec. di
quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della corruzione e snaturamento
e indebolimento ec. della specie umana - Ma il fuoco è necessario all'uomo
anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si vivrebbe in
Lapponia o sotto il polo, anzi pure in Russia ec. senza il fuoco?
Primieramente, rispondo io, come dunque la natura l'ha così nascosto ec.
come sopra? Come poteva ella negare agli esseri ch'ella produceva il
precisamente necessario alla vita, all'esistenza loro? o render loro difficilissimo
il procacciarselo? e pericolosissimo l'adoperare il necessario?
pericolosissimo, dico, non meno a se stessi che altrui? Ed essendo quasi certo,
secondo il già detto, che gli uomini non hanno potuto non tardare un
pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e più ad avvedersi
che lor potesse [3647]servire ed a che, e più a trovare il come
usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il timore che e' dovette
ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne avranno ben
tosto provati e certo prima di conoscerne anzi pur d'immaginarne l'uso e la
proprietà, sì ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto
(come se fulmini o volcani o tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che
n'avranno veduto fuor di se, come incendi e struggimenti d'arbori, di selve ec.
morti e consunzioni e incenerimento d'animali, o d'altri uomini ec. ec.; stante
dico tutto questo, come avranno potuto vivere tanti uomini, o sempre, o fino a
un certo tempo, senza il necessario alla vita loro? Secondariamente, chiunque
non consideri il genere umano per più che per una specie di animali,
superiore bensì all'altre, ma una finalmente di esse; chiunque si
contenti e si degni di tener l'uomo non per il solo essere, ma per un degli
esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di genere
nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma
compreso nell'ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della
terra sì di questo mondo, [3648]e partecipante delle
qualità ec. degli altri, come gli altri delle sue, e in parte conforme
in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di qualità parte comuni
parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo mondo, ed insomma
avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non posto fuor d'ogni
proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza e affinità
ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo o tutta la
terra e ciascuna parte di loro sian fatte unicamente ed espressamente per
l'uomo, e che sia inutile e indegna della natura qualunque cosa, qualunque
creatura, qualunque parte o della terra o del mondo non servisse o non potesse
nè dovesse servire all'uomo, nè avesse per fine il suo servigio;
chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta
obbiezione. S'egli v'ha, come certo v'avrà, una specie di pianta, che
rispetto al genere de' vegetabili ed alla propria natura loro generale, sia di
tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la sommità del genere
vegetale, come lo è l'uomo dell'animale, non per questo [3649]seguirà
nè sarà necessario ch'essa pianta nè si trovi nè
prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare
nè nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in
qualsivoglia regione de' climi ov'ella più prospera e moltiplica,
nè in qualsivoglia terreno e parte delle regioni a lei più
proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno minerale, e negli
altri qualunque. Che all'uomo in società giovi la moltiplicazione e
diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla società giovi la
moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più quanto
è maggiore, questo è altro discorso,[155] e
certo s'inganna assai chi lo nega. Ma che la natura medesima abbia destinato la
specie umana a tutti i climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie
umana, questo è ciò che nè si può provare, e
secondo l'analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più
forte argomento di cognizione concesso all'uomo, si dimostra per falsissimo.
Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova
in tutti i paesi e climi [3650]nè in tutti potrebbe vivere e
nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali ec. si
trovano e stanno bene in più paesi e più diversi, altre in meno,
niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità e di
clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la
propagazione e diffusione di questa specie e quella dell'altre non v'ha
proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di
piante ec. devesi in gran parte non alla natura, ma all'uomo stesso, onde non
avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso. Molte specie che per natura
non erano destinate se non se a un solo paese, o a una sola qualità di
paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini trasportate e
stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è
contro natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in
quei luoghi che a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e
stabilite dall'uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non
prosperano, o ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl'inconvenienti [3651]a
cui le tali specie sono soggette ne' tali casi in siffatti luoghi, sono forse
da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur, benchè male,
sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate? e il genere
di vita ch'esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che loro è
fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s'impiegano a farle
sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri per
loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a
detta specie?
Mentre pertanto non si può dubitare
che la natura, quanto a se, ha limitato ciascuna specie di animali, di
vegetabili ec. a certi paesi e non più; nel tempo stesso, al modo che
nelle altre cose non si vuol riconoscere alcuna proporzione e analogia tra la
specie umana e l'altre specie di esseri terrestri o mondani, così si pretende
che la natura non abbia limitato la specie umana a niun paese, a niuna
qualità di paesi; e a differenza di tutte l'altre specie terrestri, a ciascuna
delle quali la natura ha destinato sol piccolissima parte del [3652]globo,
si vuol ch'ella abbia destinato alla specie umana tutta quanta la terra. Che
l'uomo infatto l'abbia occupata tutta, non si può negare. Così
egli ha fatto milioni d'altre cose contrarie alla natura propria ed
all'universale. Ma argomentar dal fatto, che tale occupazione sia secondo
natura, è cosa stolta. Intorno a una specie di esseri che ha fatto e
tuttogiorno fa tante cose evidentemente non pur diverse ma contrarie alla natura
e propria ed universale, volendo discorrere della sua natura vera, e de' suoi
propri e primitivi destini, bisogna ragionare a maiori, perchè il
ragionamento a minori diviene impossibile. Ragionare a maiori nel
nostro caso, è considerare l'analogia, la quale abbiamo veduto che cosa
dimostri. A minori si potrebbe confermare la stessa cosa, col veder le
miserie fisiche a cui la specie umana è inevitabilmente soggetta in
moltissimi paesi e climi, e le qualità e costituzioni fisiche p.e. de'
Samoiedi, la razza de' quali, piccolissima e deforme, si può considerare
come una degenerazione della specie umana, cagionata dal clima contrario alla
sua natura propria [3653]e primitiva; degenerazione conforme a quella
che manifestamente veggiamo in tante specie di animali, piante ec. stabilite da
noi fuori de' loro nativi, propri e naturali paesi, climi, terreni ec.
Ed in verità, ragionando anche
astrattamente, non vi par egli assurdo, e fuor d'ogni verisimiglianza, e d'ogni
proporzione o convenienza o similitudine con quello che in tutte l'altre cose
veggiamo, che la natura abbia destinato una medesima e identica specie
d'animali a nascere e vivere e prosperare indifferentemente in tante e
così immense diversità di climi e di qualità di paesi, quante
si trovano in questa terra, quanta è quella (per considerare una sola di
tali infinite diversità, cioè quella del caldo e del freddo) che
passa tra le regioni polari e l'equinoziale? Che l'ardore, il gelo; l'estrema
umidità, l'estrema secchezza; la terra affatto sterile, la sommamente
feconda; il cielo sempre sereno, il sempre piovoso; tutte queste cose sieno
state dalla natura rendute affatto indifferenti al bene e perfetto e felice e
proprio essere della specie umana? [3654]Ch'ella abbia ugualmente disposta
la detta specie a tutte queste cose, a tutti questi estremi? Or questo è
ciò che seguirebbe dal fatto, cioè dall'universale diffusione di
nostra specie, se dal fatto si dovesse argomentare la di lei natura: questo
è ciò che suppone veramente e necessariamente nel fatto la detta
universal diffusione, e senza cui essa non può non esser cosa
snaturatissima e contrarissima al ben essere della specie. Qual altra specie di
animali, di vegetali ec. è o può mai parere a un filosofo
disposta naturalmente, non dico a tutti i diversi estremi delle qualità
de' paesi, come si pretende o è necessario pretendere che lo sia indifferentemente
la specie umana; non dico a due soli di tali estremi; ma pure a due differenze
in tali qualità, che non sieno molto lontane dagli estremi? Qual
proporzione, quale analogia sarebbe tra la detta natura fisica della specie
umana, e quella di qualsivoglia altra specie, e di tutte insieme, e tra la
natura universale?
Io dico dunque per fermo, che la specie
umana per sua natura, secondo le intenzioni della natura, volendo poter conservare
il suo ben essere, [3655]non doveva propagarsi più che tanto, e
non era destinata senon a certi paesi e certe qualità di paesi, de'
limiti de' quali non doveva naturalmente uscire, e non uscì che contro
natura. Ma come contro natura ella giunse a un grado di società fra se
stessa, ch'è fuor d'ogni proporzione con quella che hanno l'altre
specie, e che in mille luoghi s'è dimostrato esser causa del suo mal
essere e corruzione ec., così contro natura si moltiplicò e
propagò strabocchevolmente; perocchè questa moltiplicazione, come
poi contribuì sommamente ad accelerare, cagionare, accrescere i
progressi della società, cioè della corruzione umana, così
dapprincipio non ebbe origine se non dal soverchio e innaturale progresso
d'essa società. Quanto le specie sono meno socievoli o hanno minor
società, tanto meno si moltiplicano; e viceversa. Vedesi ciò
facilmente nelle varie specie d'animali, e anche di piante ec. Vedesi ancora
ne' selvaggi e ne' popoli più naturali, il numero della cui popolazione
è per lo più stazionario come il loro stato sociale, il loro
carattere, costume ec. (e tale doveva egli essere, secondo [3656]natura,
in tutta la specie umana; e tale par che sia nell'altre specie d'animali). Piccole
isole, segregate affatto dall'altre terre, hanno da tempo immemorabile fino a'
dì nostri, sempre ugualmente bastato alla popolazione racchiusa in esse,
e tale certo ve n'ha, non ancora scoperta, che ancor basta alla sua
popolazione, e basteralle fino a tempo illimitato, o in perpetuo. Ne' paesi
dove, dopo la prima occupazione fattane dagli uomini, la società non ha
fatto altri progressi, non si è stretta niente di più che allor
fosse, neanche il numero degl'individui umani è cresciuto, e la
moltiplicazione appena v'ha luogo. Al contrario nelle società colte, e
tanto più al contrario (salvo però molte altre circostanze
naturali o sociali che giovano o nocciono per se alla moltiplicazione) quanto
elle sono più colte. Dal che si vede che la soverchia moltiplicazione
del genere umano, e la sua propagazione che da lei nasce e che ne è
necessario effetto, non sono cose che vengono dalla natura, se non fino a un certo
e conveniente grado. E necessaria alla soverchia diffusione del genere umano
è stata, fra l'altre cose, la [3657]navigazione, così
evidentissimamente contro natura; mentre questa anzi avrebbe dovuto insegnarla
e renderla facilissima e non, com'è, pericolosissima ec. ec. ec., se la
detta propagazione, a cui l'arte del navigare era necessaria, fosse stata
secondo le sue intenzioni.
Come ho detto, altre specie sono
naturalmente più, altre meno atte a moltiplicarsi, altre destinate a
più e più diversi paesi, altre a meno e men diversi. Che la
specie umana sia piuttosto delle seconde che delle prime, si può per analogia
dedurre dal suo stesso essere nel suo genere, cioè nel genere animale,
la più perfetta e suprema e migliore. Perocchè veggiamo che in
ogni genere di vegetali, di minerali ec. le specie migliori son le più
rare, le meno trasferibili fuor de' luoghi natii ec. Quella pianta più
d'ogni altra perfetta, che abbiam supposto di sopra, sarebbe verisimilmente la
più rara, la più limitata a certa sorta di paese, di terreno. Le
men perfette, a proporzione. Così pure a proporzione nel genere animale.
Le migliori specie sarebbero le [3658]più rare, le più
scarse nell'intrinseco numero ec. (Se tra le migliori e superiori vogliamo
contare la scimia, l'uomo selvatico ec. che più s'avvicinano all'uomo,
il fatto confermerebbe la mia supposizione). Ed essendo il genere animale nella
natura terrestre, il migliore; e la specie umana essendo la sommità del
genere animale, e quindi di tutte le specie e generi di esseri terrestri; ne
seguirebbe ch'ella naturalmente dovesse essere di tutte le specie terrestri la
più rara, e la più limitata nel numero e ne' luoghi.
Con questi discorsi alla mano, e tenendo
fermo che la propagazione della nostra specie accadde per la massima parte
contro natura, io risponderò facilmente a chi dalle qualità di
tali o tali paesi abitati ora dagli uomini, volesse dedurre che tali o tali
istituti, costumi, usi, invenzioni ec. ec. non insegnati nè suggeriti,
anzi contrariati dalla natura, e per lunghissimo tempo stati necessariamente
ignoti ec. sieno, malgrado della natura, necessarii alla specie umana, alla sua
vita, al suo ben essere. Io considererò tali costumi ec. come i rimedii
dolorosi o disgustosi de' morbi, i quali tanto [3659]sono naturali
quanto essi morbi, che non sono naturali o avvengono contro le intenzioni e
l'ordine generale della natura. La natura non ha insegnato i rimedii
perchè neanche ha voluto i morbi; così s'ella ha nascosto p.e. il
fuoco, non l'ha fatto perchè l'uomo dovesse di sua natura cercarlo con infinita
difficoltà, usarlo con infinito pericolo ec. ma perch'ella non ha voluto
che l'uomo vivesse e abitasse in luoghi dove gli facesse bisogno di fuoco,
(nè si cibasse di ciò che senza fuoco non è mangiabile
nè atto per lui ec.). E in questo modo e con questo mezzo
ribatterò infinite obbiezioni di simil genere contro la mia teoria
dell'uomo; chè certo il detto mezzo si estende a infinita
diversità di cose.
E quanto al fuoco in particolare, dal quale
abbiam preso occasione di questo discorso; che ne' luoghi temperati o caldi,
soli destinati dalla natura all'uomo, e ne' quali infatti si vede che la vita
de' popoli non corrotti ancora, o men corrotti, dalla società, fu ed
è più naturale che altrove, e men bisognosa d'invenzioni e mezzi
e usi [3660]ec. ascitizi, e meno effettivamente di essi contaminata e
alterata (si sa d'altronde e si vede sempre più chiaro per le storie e i
monumenti e avanzi delle memorie antichissime, che si vanno di dì in
dì più scoprendo e intendendo, che un paese caldissimo fu la
culla, ed io aggiungo, la propria e natural sede di nostra specie); che ne' paesi
caldi, dico, la specie umana non abbia mestieri di fuoco a vivere e a ben
vivere secondo natura (non secondo società, chè la vita sociale
senza fuoco non può stare), si vede con effetto v.g. ne' Californii; i
quali, ch'io sappia, non usano fuoco in alcun modo, vivendo in caldissima
temperatura, che lor risparmia il fuoco non men che le vesti; e cibandosi solo
d'erbe e radici e frutta e animali che colle proprie mani disarmate
raggiungono, vincono e prendono, e altre tali cose, tutto crudo. Ma quivi proprio,
accanto a loro e tra loro, i missionarii ed altri europei quivi stabiliti,
morrebbero certo se non usassero fuoco. La necessità del fuoco non vien
dunque da' climi ec. Intanto quei Californii sono a cento doppi nel fisico
più sani, forti, allegri d'aspetto, e certo nel morale e nell'interno
felici, che non questi europei.
[3661]Non sarà alieno da
questo proposito il prevenir chi volesse obbiettare che moltissimi degli usi
invenzioni ec. che hanno cagionato la corruzione del genere umano, o vi hanno
contribuito, o da essa son nate, e l'hanno accresciuta ec. si trovano esser
comuni o a tutti o a moltissimi popoli, anche selvaggi, anche affatto divisi
tra loro, e diversissimi ec. anche privi fino agli ultimi momenti d'ogni commercio
col resto del mondo ec., o alla massima parte dei popoli ec. (com'è
l'uso del fuoco); e da ciò volesse dedurre che tali usi, invenzioni ec.
benchè dalla natura contrariate, pur dalla natura dell'uomo erano
richieste, ed a lei convengono, ed essa presto o tardi immancabilmente le scuopre,
le adotta ec. Rispondo che tutte le cose persuadono una essere stata la culla
del genere umano, e da un solo principio esser derivate tutte le nazioni, e da
un solo paese uscite, e ad una sola origine doversi tutte riferire. Certo per
lunghissimo tempo ebbe tutto il genere umano stretta relazione insieme, stante
la prossimità de' luoghi che esso, accrescendosi e dilatandosi, veniva
di mano in mano [3662]occupando. Prima che alcuna parte dell'uman
genere, o vogliamo dire alcun popolo, restasse così disgiunta dall'altre
che niuna relazione avesse seco loro, era certamente già, non pur nata,
ma notabilmente avanzata la corruzione del genere umano. Poichè, fra
l'altre cose, questa medesima propagazione di esso genere, che le sue parti appoco
appoco divise l'una dall'altra, non potè aver luogo senza ch'e' fosse
già corrotto, come dico nel pensiero antecedente, e la navigazione molto
meno, senza cui non pare che il genere umano si potesse tanto diffondere, sino
a perdere ogni communicazione tra le sue parti. Da qualunque causa per tanto e
in qualunque modo nascesse e crescesse la corruzione e lo snaturamento di
nostra specie, esso fu uno, e nacque e crebbe (fino a un notabil segno) in
tutto il genere umano ad un tempo, siccome tutto il genere umano fu per immenso
corso di secoli, una nazione sola, benchè sempre crescente. Dico dunque
che questa corruzione è un fatto solo, e non più, tanto che dalla
moltiplicità de' fatti conformi, si possa raccogliere ch'essa [3663]corruzione
era naturale e inevitabile. Dico che tutte le dette invenzioni, usanze ec. che
si trovano esser comuni a tutti o alla più parte de' popoli, ebbero una
origine sola, (o il caso, o qualunque altra ch'ella si fosse); che una sola
volta furono dagli uomini superate le immense difficoltà che la natura a
tali invenzioni ec. opponeva; ch'elle si propagarono insieme coll'uman genere;
che i più selvaggi popoli che fino al dì d'oggi si trovino nelle
più remote isole e più divise da ogni commercio, erano, quando in
esse si recarono, già notabilmente corrotti, e portarono seco le dette invenzioni
ec. che lor sono comuni con tutti gli altri popoli, perchè tutti gli
altri ancora dalla medesima fonte derivarono, e dal medesimo luogo e nazione
ebbero quei tali usi e cognizioni ec., e non perchè queste nascessero
tante volte quanti sono e furono i popoli della terra che le posseggono e
possederono. Se l'uso del fuoco è comune a tutti i popoli, io dico che
la sua origine fu sola una. Se la navigazione è comune anche a moltissimi
selvaggi e barbari che da tempo immemorabile fino agli ultimi secoli [3664]o
fino agli ultimi anni, non ebbero relazione alcuna coi popoli civili, o niuna
per ancora ne hanno; io dico che la navigazione fu scoperta una volta sola, e
che di questa scoperta tutti i popoli che navigano ne profittarono, e che da
essa derivano non meno le canoe fatte di un sol tronco scavato, e mosse
con un ramo d'albero per remo, che i bastimenti i più artifiziati e le
barche a vapore. E certo quei popoli non sarebbero, cioè non
abiterebbero in quei paesi, e non sarebbero disgiunti dagli altri popoli, se
prima di divenir tali, essi non avessero conosciuta la navigazione, col cui
mezzo si allontanarono dagli altri. Dunque s'ei la conobbero prima di separarsi
dalla nazione ond'essi derivano, questa nazione la conosceva. Dunque se questa
la conosceva, anche quella ond'essa venne. Dunque così di mano in mano
si giungerà fino a quella nazione, onde tutte provennero, cioè al
genere umano ancora indiviso, e formante per anche una sola nazione.
Così discorrasi di tutte quell'altre scoperte ec. ch'essendo
maravigliosissime e parendo quasi impossibili, pur si [3665]trovano
esser comuni a tutti o quasi tutti i popoli, ancorchè incolti,
remotissimi, disgiuntissimi ec. (Giacchè dell'altre che son facili, e
poco contrariate dalla natura ec. non è necessario il suppor lo stesso,
non è maraviglia se ciascun popolo, ancorchè rozzo, potè
trovarle, se il caso che le mostrò, essendo facile e proclive ad accadere,
ebbe luogo molte volte e in molti luoghi ec. più presto qua e là
più tardi, ma pur dappertutto, in tanto spazio di tempo quanto è
ch'esistono quei popoli; e niuno argomento se ne può trarre a provare
ch'elle sieno naturali, per la moltiplicità delle loro origini;
perocchè de' popoli bastantemente corrotti, era ben naturale che tutti,
presto o tardi, le trovassero ugualmente; oltre che tali scoperte ec. facili e
proclivi non sono mai causa di gran corruzione, nè molta ne richieggono,
nè molto si oppongono alla natura, nè molto contribuirono a
snaturare la nostra vita e la nostra specie).
Tant'è. Popolo umano totalmente
naturale e incorrotto, non esiste. Tutti i popoli, tutti gl'individui umani
sono corrotti e alterati, perchè [3666]tutti hanno origine da un
medesimo popolo, il quale fu corrotto prima di emetterli, o vogliamo dire prima
di diffondersi e dividersi, nè si sarebbe tanto diffuso e tanto diviso
se prima non fosse stato corrotto. Ma questa originaria corruzione che in
moltissimi popoli si fermò e non passò più oltra, e dura
anche oggidì, quasi corruzione primitiva (giacchè popoli o uomini
di vita veramente primitiva non si trovano, nè si possono onninamente
trovare, stante la corrotta origine di tutti, [indicata ancora dalla Scrittura
ec.]); questa corruzione dico, secondo le diverse circostanze naturali o
accidentali o qualunque, in altri passò più o meno avanti, poi si
fermò e divenne stazionaria (come nel Messico, nella China); in altri
retrocedette, poi risorse, poi seguitò e segue sempre a progredire, come
in Europa.
Questo mio discorso non è
immaginazione. L'universale e costantissima tradizione e le memorie tutte della
remotissima antichità provano che una in fatto fu l'origine dell'uman
genere.[156]
Esse e la ragione provano che l'unicità di nazione nell'uman genere
durò e dovette [3667]naturalmente durare per lunghissimo tratto
di secoli. Essa tradizione espressa, esse memorie, essa ragione provano che la
prima corruzione del genere umano fu universale, cioè di tutto il genere
insieme, che dalla nazione umana già corrotta, già degenerata,
già ricca di moltissime invenzioni ec. (il che non potè essere
che dopo lunghissimo spazio) si derivarono e si diffusero e separarono le varie
nazioni in ch'ella poi si divise. (torre di Babele ec.)
E venendo ad altri fatti, si trova che le
scoperte ec. difficili, le quali furon proprie di qualche nazione
particolare, e nacquero dopo la divisione del genere umano; benchè
necessarissime alla vita civile, benchè tali che senza di esse la civiltà
non sarebbe potuta crescere, nè pur giungere a un grado da meritare un
tal nome, non si sono mai introdotte, se non presso le nazioni che hanno o
hanno avuto relazione tra loro; e nell'altre, benchè giunte ancora fino
a un certo segno di dirozzamento, come la China e il Messico ec., non si sono
introdotte ancora, quantunque nelle civili nazioni esse sieno [3668]antichissime,
e d'origine immemorabile; o non vi s'introdussero se non per mezzo delle nazioni
civili che ve le recarono dopo innumerabili secoli. Il che prova evidentemente
che tali scoperte ec. ebbero un'origine sola (o fosse il caso o qualunqu'altra),
poich'esse non furono mai note se non a nazioni che scambievolmente
conversarono; e che esse scoperte non si rinnovarono mai, poichè nelle
nazioni separate da quelle, ancorchè colte, in immenso spazio di tempo,
mai non nacquero. Onde se quelle nazioni le conobbero, ciò fu
precisamente a causa del loro scambievole usare; sicchè quelle scoperte
ec. ebbero un'origine sola, e non furon fatte più che una volta, e da detta
origine provennero a tutte le nazioni che le conobbero e le conoscono. Dunque
se altre tali scoperte ec. difficili, son comuni a tutti i popoli, anche
separati, anche barbarissimi, si dee supporre ch'elle fossero fatte prima che
tali popoli si separassero di là ond'essi vennero; e si deve parimente
dire che anch'esse non ebbero più che una sola origine.
Le scoperte ec. che ho detto esser [3669]solamente
comuni ai popoli che tra loro hanno trattato, sono infinite. Bastimi una. L'uso
della lingua è necessario alla società. Mirabilissima scoperta
è quella della favella. Nondimeno tutti i popoli favellano. Appena gli uomini
incominciarono a stringere una società, incominciarono a balbettare un
linguaggio. La natura stessa lo insegna sino a un certo punto, non solo agli
uomini, ma eziandio agli altri animali; agli uomini molto più, ch'ella
ha fatto certo più socievoli. Stringendosi maggiormente la
società, e crescendo lo scambievole usare degli uomini, fino a passare i
termini voluti e prescritti dalla natura; crebbe necessariamente il linguaggio,
e divenne più potente che la natura non voleva. Tutto ciò dovette
necessariamente aver luogo prima che il genere umano si dividesse. Quando e' si
divise, ei parlava di già, non che favellasse. Ciò si prova a
maiori e a minori; e perchè la società crescente
produceva di necessità l'incremento della lingua, e perchè questo
era necessario all'aumento di quella; perchè il genere umano non si
sarebbe diffuso, se la società non fosse stata già bene [3670]stretta
e cresciuta e adulta, nè questo poteva essere senza un sufficiente
linguaggio, e senza un tal linguaggio il genere umano non si sarebbe diffuso
ec. Quindi è che l'invenzione del linguaggio, così com'ella
è maravigliosissima, è pur comune a tutti i popoli, anche a'
più separati e più barbari.
Ma è forse altrettanto della
scrittura alfabetica? Questa non era necessaria alla diffusione del genere
umano. Bensì ell'è necessarissima alla sua civiltà,
bensì ell'è comune a tutte le nazioni civili, e a quelle che il
furono ec. moltissime di numero, bensì ell'è antichissima, e la
caligine de' tempi nasconde la sua origine; ma perciò ch'ella non fu pur
più moderna della divisione dell'uman genere, non si troverà
nazione alcuna divisa dall'europee ec. ec., per molto sociale ec. ec. ch'ella
sia, la quale conosca la scrittura alfabetica, o che la conoscesse prima di
riceverla da noi. La China così colta, ha una scrittura, ha libri, ha
letteratura ec., ma l'alfabeto non già. I Messicani avevano una
scrittura, ma di alfabeto neppur l'immaginazione. E ciò perchè
l'invenzione dell'alfabeto (come [3671]ho sostenuto altrove, e come si
può confermare con questo discorso) fu sola una, e mai non si
rinnovò, e chi non ebbe e non potè aver notizia dell'alfabeto,
direttamente o indirettamente, dal primo o da' primi che l'inventarono, o fin
ch'e' non l'ebbe di là, mai non ebbe alfabeto, mai non l'inventò
esso (in immenso spazio di tempo), nè gliene venne pure in pensiero. La
China ne ha avuto notizia, ma non l'ha adottato, per la natura sua, e per la
difficoltà di mutare o distruggere le usanze antichissime e universali
nella nazione, e collegate con cento altre che converrebbe pur mutare (come lo
è la scrittura chinese colla letteratura, e quindi coi costumi,
coll'istruzione popolare ec. ec.); e d'introdurne universalmente delle affatto
nuove e troppo diverse di genere ec. ec.
A questo proposito si consideri ancora
quante invenzioni ec. che per lunghissimo tempo furono proprie degli antichi,
ed anche comuni a molte nazioni, ed anche volgari; perdute ne' tempi bassi, non
si sono potute mai più rinnovare, nè mai probabilmente si rinnoveranno
(com'è quella della pittura all'encausto); e ciò, non ostante che
se n'abbia pur la notizia in genere, cioè la memoria ch'esse furono e
quali furono, e sovente ancora parecchie notizie in ispecie, cioè
vestigi del come furono, de' metodi e processi ec. del [3672]modo ec.
de' mezzi, ingredienti ec. della forma di adoperarle ec., e le notizie
particolari e distinte de' loro effetti e fini ec. Contuttociò ad ingegni
così civili, così raffinati, acuti, penetranti, esercitati,
coltivati, così speculativi, così inventivi, così avvezzi
e dediti a inventare, a speculare, a meditare, a riflettere, a osservare, a
comparare, a ragionare ec. quali son divenuti gl'ingegni umani (ben altri erano
certo e sono i primitivi e selvaggi ec.), non è bastato l'animo, dalla
risorta civiltà in poi, di poterle ritrovare una seconda volta.
(11. Ott. 1823.)
Il pensiero antecedente conferma le idee da
me altrove esposte circa la primitiva unicità del linguaggio fra gli
uomini, e la derivazione di tutte le lingue presenti e passate da una sola e
primitiva (cosa appoggiata dalla Scrittura Santa); e circa l'unicità
dell'invenzione dell'alfabeto, e dell'origine prima di tutti gli antichi e moderni
alfabeti.
(11. Ott. 1823.)
La impotenza e strettezza della lingua
francese e la sua inferiorità per rispetto all'altre di qui facilmente
si può comprendere, che l'altre lingue possono, sempre che vogliono, [3673]agevolmente
vestire la forma e lo stile della francese (com'effettivamente hanno fatto o
fanno tutte le lingue colte d'Europa, o per un certo tempo massimamente, come
l'inglese e la tedesca, o anche oggidì, come l'italiana, la spagnuola,
la russa, la svedese, la olandese ec.; e bene avrebbero potuto farlo e potrebbero
farlo sufficientemente anche senza corrompersi e senza violentare dirittamente
la loro propria e caratteristica indole); laddove la francese non può
per niun modo prendere la forma nè lo stile dell'altre lingue, nè
altra forma alcuna che la sua propria. E non pur dell'altre lingue che da lei
sono aliene, per così dire, di famiglia e di sangue, come l'inglese, la
tedesca, la russa ec. le quali pur possono vestire ed hanno vestito o vestono
la forma della francese; ma neanche delle cognate, nè delle sorelle,
come dell'italiana e della spagnuola; nè della lingua stessa sua madre,
come della latina.
(12. Ott. Domenica. 1823.)
Colla medesima proporzione che altri viene
perfettamente e veramente conoscendo e intendendo le difficoltà del bene
scrivere, egli impara [3674]a superarle. Nè prima si conosce e
intende compiutamente, intimamente, distintamente e a parte a parte tutta la
difficoltà dell'ottimo scrivere, che altri sappia già ottimamente
scrivere. E ciò per la stessa ragione per cui l'arte di bene scrivere, e
il modo, e che cosa sia il bene scrivere, non può essere compiutamente
conosciuto e inteso se non da chi compiutamente possegga la detta arte,
cioè sappia interamente metterla in opera. Sicchè in un tempo
medesimo e si conosce la difficoltà del perfetto scrivere, e s'impara il
modo di vincerla e se n'acquista la facoltà. E solo colui che sa
perfettamente scrivere ne comprende sino al fondo tutta la difficoltà,
nè altrimenti può mai bene scrivere, ancorch'ei già sappia
compiutamente farlo, che con grandissima difficoltà. Coloro che male
scrivono, stimano che il bene scrivere sia cosa facile, e scrivono al loro modo
agevolmente, credendosi di scriver bene. E peggio e' sogliono scrivere,
più facile stimano che sia lo scriver bene, e più facilmente
scrivono. Il considerare il bene scrivere per cosa molto difficile, è
certissimo segno di esser già molto avanzato [3675]nel sapere
scrivere, purchè questo tale sia veramente ed intimamente persuaso della
difficoltà ch'ei dice, e non la affermi solamente a parole e mosso da
quello ch'ei n'intende dire, e dalla voce comune. (Perocchè anche chi
non sa scrivere, dice che il bene scrivere è molto difficile, ma e' nol
dice per coscienza nè per prova nè con vera persuasione, e s'egli
è uno di quelli che s'intrigano di scrivere e che presumono di saperlo
fare, certo è ch'egli in verità non crede che ciò sia
difficile, come comunemente si dice, e com'ei pur dice cogli altri). Per lo
contrario lo stimare che il bene scrivere sia cosa facile o poco difficile, e
il confidarsi di poterlo e saperlo agevolmente fare, o poterlo apprender con
poco, è certo segno di non saper far nulla, e di esser sui principii nel
possesso dell'arte, o molto indietro. (Così è generalmente di
tutte le arti, scienze ec.) Da queste osservazioni si dee raccogliere quanti
possano esser quelli che perfettamente conoscano il pregio, e stimino il
travaglio, il sapere, l'arte e l'artifizio di una perfetta scrittura e di un
perfetto scrittore, del che a pagg.2796-9.
(12. Ott. 1823. Domenica.)
[3676]Alla p.3349. Non è da
trascurare una differenza che si trova fra il carattere, il costume ec. degli
antichi settentrionali e abitatori de' paesi freddi, e quel de' moderni;
differenza maggior di quella che suol trovarsi generalmente dagli antichi ai
moderni. Perocchè gli antichi settentrionali ci sono dipinti dagli
storici per ferocissimi, inquietissimi, attivissimi non solo di carattere, ma
di fatto, per impazienti del giogo, sempre vaghi di novità, sempre
macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti, e per quasi assolutamente indomabili
e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al contrario sono così
domabili, che certo niun popolo meridionale lo è altrettanto. E tanto
son lungi dalla ferocia, che non v'ha gente più buona, più
mansueta, più ubbidiente, più tollerante di loro. E se v'ha parte
d'Europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al comando, e si desideri
novità e si odi la soggezione, ciò è per l'appunto fra i
popoli settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno
certamente gran parte da un lato la diversità de' governi antica e moderno,
dall'altro la poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima
parte v'ha certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi [3677]settentrionali,
ma difesi contra le inclemenze dell'aria dalle spelonche, proccurantisi il
vitto colla caccia (Georg. 3. 370. sqq. etc.), alcuni anche erranti e senza
tetto, come gli Sciti ec., erano anche più J di vita,
che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli usi e i comodi sociali,
i popoli civilizzati del Nord divennero naturalmente i più casalinghi
della terra. Niuna cosa rende maggiormente quiete e pacifiche sì le
nazioni che gl'individui, niuna men cupidi, anzi più nemici di
novità, che la vita casalinga e le abitudini domestiche, le quali affezionano
al metodo, rendono contenti del presente ec. come ho detto ne' pensieri citati
in quello a cui questo si riferisce. Quindi è seguìto che non per
sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore o più
divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e costantemente, nel
sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune al nord come al
sud, i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi, sieno stati, sieno, ed
abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del
settentrione, sì d'animo, sì di fatti, [3678]al contrario
di quello che porterebbe la pura natura degli uni e degli altri comparativamente
considerata. Ond'è che i settentrionali moderni e civili sieno in
verità molto più diversi e mutati da' loro antichi, che non sono
i meridionali dagli antichi loro, sì di carattere, sì di usi, di
azioni ec.
Ed è a notare in proposito della vita
casalinga, metodica e uniforme, ch'ella contribuisce a mettere in
attività l'immaginazione, a destare e pascere le illusioni, a far che
l'uomo abbondi d'immagini e di deliri, e con questi facilmente faccia di meno
delle opere, e basti a se stesso, e trovi piaceri in se stesso, ad accrescere
la vita e l'azione interna in pregiudizio dell'esterna; assai più che
non fanno la bellezza e la vitalità della natura ne' paesi meridionali.
Qui gli uomini sono distratti e dissipati, e versati al di fuori, ed hanno
sempre sotto gli occhi il mondo, e gli altri uomini, e la vita, e la
società e la realtà delle cose; il che distrugge o impedisce
l'immaginazione e l'illusione, e produce la noia, e quindi la scontentezza del [3679]presente
e il desiderio di novità. Ma nella vita casalinga, la solitudine, l'esser
sempre, o il più del tempo, raccolto in se stesso, l'esser privo o
scarso di distrazioni, stante il metodo e l'uniformità della vita e la
poca società, lascia libero il campo alle facoltà dell'anima di
agire, di svilupparsi, di ripiegarsi sopra se stesse, di meditare, di pensare,
di riflettere, d'immaginare, e produce necessariamente un'abitudine di
pensiero, che nuoce sommamente, o anche esclude, sì l'abito sì
l'inclinazione sì l'atto dell'operare. E d'altronde l'esser gran parte
del tempo, lontano dal mondo, dalla società, dagli uomini di fuori;
l'abitudine di veder la vita e le cose umane ordinariamente da lungi, produce
naturalmente le illusioni e i bei sogni e i castelli in aria, e lascia libero
l'immaginare e il figurarsi, e il crearsi il mondo e gli uomini e la vita a suo
modo, e dà luogo alla speranza; o perduta ch'ella sia, le agevola il
ritorno (perchè la speranza, purchè sia lasciata fare, e non sia
continuamente respinta dalla realtà, per natura dell'uomo indubitatamente
e presto ritorna); o indebolita, le dà agio di ristorarsi e rintegrarsi;
[3680]o moribonda, la conserva, se non altro, in vita; o fa insomma, che
in parità di circostanze, ella sia sempre maggiore che non sarebbe in
una vita in mezzo al mondo; e tien lungi, o ritarda, o minora il disinganno, o
ne indebolisce gli effetti, o ne ristringe l'estensione ec.
Conseguenza e prova di queste osservazioni
si è che infatti i settentrionali per una parte sono più profondi
e sottili speculatori, più filosofi, massime nelle scienze astratte, o
parti più astratte di esse, o generi più astratti ec., e insomma
più pensatori, che i meridionali; onde la Staël chiama la Germania la
patrie de la pensée. E per altra parte, cosa che sembra contraria sì
alla detta qualità, sì alla natura rispettiva de' settentrionali
e meridionali, sono più immaginosi e più poeti veramente e
più sensibili, entusiasti, e di fantasia più efficace e forte
(quanto però al poetare, non quanto all'operare; e quanto a ciò
ch'è opera del solo spirito, non del corpo), e più inventivi
originali e fecondi che non sono i meridionali. Ma ciò, secondo le
suddette osservazioni, si deve intendere, ed è infatti, de' soli settentrionali
e meridionali moderni, stante le moderne circostanze degli uni e degli altri.
Negli antichi, stante la diversità di tali circostanze, doveva essere [3681]ed
era tutto l'opposto, cioè i meridionali più immaginosi, fecondi
ec. de' settentrionali, conforme alla vera natura, e alla natural
proprietà degli uni e degli altri. Sicchè la detta
superiorità de' settentrionali moderni ec. è veramente uno de'
tanti accidenti sociali; bensì di quelli costanti e connaturali
all'essenza della civiltà assolutamente, e che durando la civiltà
appo gli uni e appo gli altri popoli, non possono mai venir meno.
Del resto l'immaginazione de' settentrionali
rispetto alla meridionale quanto è, generalmente e tutta insieme,
più forte, viva, vigorosa, attiva, feconda e maggiore, tanto ancora
è piùsombre, lugubre, trista, malinconica, funesta e, si
può dir, brutta. Perocchè, lasciando l'altre circostanze, essa
è nutrita dalla solitudine, dal silenzio, dalla monotonia della vita; e
la meridionale dalle bellezze e dalla vitalità ed attività della
natura; e le opere di quella nascono tra le pareti di una camera scaldata da
stufe; le opere di questa nascono, per così dire, sotto un cielo azzurro
e dorato, in [3682]campagne verdi e ridenti, in un'aria riscaldata e
vivificata dal sole.
(13. Ott. 1823.)
Alla p.3637. Anzi l'amore che noi portiamo
al cibo e simili cose che o ci servono o ci dilettano, si potrebbe piuttosto
chiamare odio, perocch'esso, mirando solamente al nostro proprio bene, ci porta
a distruggere, in vista di esso bene, o a consumare in qualunque modo e
logorare e disfare coll'uso, l'oggetto amato; o ad esser disposti a disfarlo o
pregiudicarlo se, e quanto, e come il nostro bene, e l'uso che perciò
abbiamo a farne, lo richiedesse. Quale è l'odio che il Lupo porta all'agnello,
e il falcone alla starna, i quali veramente non odiano nè la starna
nè l'agnello, anzi, secondo che noi sogliamo discorrere dell'altre cose,
si dovrebbe dire ch'essi gli amassero. Ma perciocchè questo amore li porta
a ucciderli e distruggerli per loro proprio bene, perciò noi lo
chiamiamo odio e inimicizia. (V. Speroni Dialogo 5° Ven. 1596. p.87-8.) Or tale
nè più nè meno si è l'amore degli uomini primitivi
verso le femmine, se non quanto il piacere ch'essi ne bramano e ricercano non
richiede la distruzione di quelle. Ma [3683]s'e' la richiedesse, l'amor
delle donne porterebbe i primitivi a distruggerle, tanto è lungi ch'e'
ne gli ritenesse. Siccome infatti ei gli porta a non avere riguardo alcuno agl'incomodi
e ai danni fisici che molte volte loro recano per soddisfare al desiderio
proprio, nel proccurarsi il proprio piacere con esse ec., anche potendo far
questo senza danneggiare. Ed accade pure (eziandio fra' civili) che volendo con
esse proccurarsi il proprio piacere, o potendo o non potendo a meno, o prevedendolo
o non prevedendolo, e' le uccidano, o loro sieno cagione di morire in breve o
fra certo tempo, o di soffrir grandemente nella sanità corporale, anche
per sempre. E non sono elle uccise tuttodì dagli amanti nell'onore? ec.
ec. Così fatto e non altro si è l'amore de' primitivi verso le
donne; e delle donne altresì verso gli uomini, proporzionatamente alla
natura e alle forze di quelle rispetto a questi. E forse solamente dei
primitivi? Queste osservazioni si applichino a quelle in cui proviamo che
dall'amor proprio nasce necessariamente l'odio verso altrui ec.
(13. Ott. 1823.)
Cattiva ortografia italiana nel 500. per
troppo voler somigliarsi all'uso della scrittura latina. Machiavelli scrive
alcune volte (o così portano le sue antiche stampe) sanctissimo
per santissimo.
(13. Ott. 1823.)
[3684]Non v'è persona che
riesca più intollerabile e che meno sia tollerata nella società,
di uno intollerante.
(14. Ott. 1823.)
Mêler ant. mesler,
secondo che ho detto altrove, è da misculare o mesculare, come
mâle, ant. masle, da masculus.
(14. Ott. 1823.)
Excusso as, excussabilis, excussatus, da excutio
is (intorno al qual verbo e suoi affini, come concutio ec. e loro
continuativi, mi pare aver detto altrove), vedili nel Forcellini.
(14. Ott. 1823.)
Intorno alla voce anceps, di cui
nella mia teoria de' continuativi, vedi la voce am nel Forcell.
(14. Ott. 1823.)
Voci basse e volgari e del latino non
illustre ma rustico, e riprovate dagli scrittori anche fino al tempo di S.
Girolamo; due delle quali sono ora proprie delle lingue moderne. V. il Forcell.
in Annihilare, e il Gloss. ec.
(14. Ott. 1823.)
Nomi in uosus, verbi in uare
ec. ec. come altrove in più luoghi. Aggiungi amanuensis. Casuale.
Exercitualis. Casuiste, franc. Luctuosus. Fructuosus.
Fatuité. fortuitus. mortualia, mortuarius, mortuosus. manualis. manuarius. Questi
nomi o verbi o avverbi ec. ch'essendo fatti da nomi della quarta declinazione
(come da manus) conservano sempre l'u, mentre quelli fatti da'
nomi della [3685]seconda, sempre (o regolarmente) lo perdono, mostrano
chiaramente che il genitivo ec. de' nomi della quarta, ch'ora è in us
lungo ec. o in u lungo ne' neutri, anticamente fu in uus o in uu
ec. V. p.3752. Giacchè si vede che i derivati da' nomi della quarta si
formano al modo istesso che i derivati delle voci nelle quali il doppio u
ancor si conserva ed è manifesto e fuori di controversia, come dire i derivati
de' nomi in uus ec. I quali due in valsero per una sola sillaba, come il
doppio u degli ablativi singolari della prima. Sia che questo, e il
doppio u, si pronunziassero doppi, o pur semplici, strascinando in certo
modo la voce ec. In tutti i modi quest'osservazione si riferisca al mio discorso
sui dittonghi latini non considerati da' grammatici, o ch'essi nella pronunzia
fossero monottonghi, o dittonghi veramente, o trittonghi ec. che tutto fa
egualmente a quello ch'io voglio dimostrare in detto discorso. Perocchè
s'anche e' divennero col tempo monottonghi, e ciò fino nella migliore
età della lingua latina (come i comuni ae oe ec.), ciò
tuttalvolta, anzi più che mai, dimostra che gli antichi latini (de'
quali nel detto discorso si parla) pronunziavano sì rapidamente le
vocali successive e concorrenti, ch'e' le tenevano tutte insieme (o due o
più che fossero) per una sillaba sola, e tale le facevano essere nella
pronunzia, e sovente nella scrittura [3686]e ne' versi più o men
regolari, più o men rozzi e informi, e massime ne' ritmici, che certo
furono propri de' più antichi, come poi de' più moderni, invece
de' metrici, o più di questi ec. ma eziandio ne' metrici, ec. ec.
(14. Ott. 1823.)
Alla p.2903. - e conspico o conspicor,
despico (v. Forc. in despicatus) e despicor, (e s'altro tale
ve n'ha da specio o da' suoi vari composti), a proposito del quale, benchè
conspicor si trova ordinariamente in senso nè più
nè meno di conspicio, cioè per nulla continuativo,
nondimeno è da notare il luogo di Varrone, ap. Forcell. Contemplare et conspicare, idem esse apparet. Dunque conspico
è propriamente di significazione continuativo. Vedi ancora l'altro luogo
di Varrone dove conspicor è passivo ap. Forcell. ibid.
cioè in Conspico.
(14. Ott. 1823.)
Ignotus, ch'è specie di
participio, attivamente preso per qui non novit. V. Forcell.
(14. Ott. 1823.)
Nella mia teoria de' continuativi ho discorso
in differente luogo di exercitare e di arctare, quello
continuativo di exerceo, questo di arceo. Nótisi che exerceo
è un de' composti di arceo (almeno così giudico), come coerceo,
onde forse (sebbene ei [3687]fa coercitum) è coarctare
ec. come ho detto parlando di arctare ec.
(14. Ott. 1823.)
Sella è certamente un
diminutivo positivato di sedes (o di sedia, di cui altrove), come
tra noi seggiola e seggetta sono diminutivi positivati di seggia,
corruzione di sedia, che parimente abbiamo, cioè seggia e sedia,
siège ec. Gli spagnuoli silla, pur diminutivo positivato. Sella
it. selle franc. in uno de' significati del lat. sella. Gli spagnuoli
anche qui silla. Sella per sedia, sede, è di Dante. Sella
in senso lordo, v. la Crusca. Sella lat. è diminutivo come trulla
e simili. Diminutivo del diminutivo, sellula. Quindi sellularius,
il cui senso si può dir positivo. Così bene spesso formula
lat. formola ec. per forma.
(14. Ott. 1823.)
Alla p.3618. fine. Io credo che niun de'
verbi di questo genere abbia perfetto proprio, nè i tempi che ne
dipendono, nè supino, nè participio in us, ma li tolgano
in prestito dal verbo originale. Che se questo non esiste, io credo che un
tempo esistesse. P. es. di suesco, adolesco, cresco ec. che hanno
perfetto e supino, io credo che esistessero verbi originali, come sineo,
adoleo ec. di cui fossero propri i detti perfetti e participii,
giacchè [3688]il perfetto e participio o supino regolare e dovuto
di suesco ec. sarebbe suesci, suescitum, non suevi, suetum.
Così dico di glisco, il quale non ha nè perfetto nè
supino. Così di adipiscor, di nascor, di nosco. Se
ciò è vero, notus, natus, non sarebbero contrazioni di noscitus
(questo esistè come prova il verbo noscitare), di nascitus
e questo ancora è provato da nasciturus (nè adeptus
di adipiscitus) come ho detto altrove in più luoghi, ma participii
e supini proprii d'ignoti verbi da cui nosco, nascor ec. sarebbero stati
formati. E nosco non verrebbe da , come ho
detto p.2777., ma sarebbe stato anche in latino un verbo originale no
(diverso da nare) conforme al greco (come do,
po
che altrove abbiam dimostrato, e simili monosillabi di cui ho detto in
più luoghi); dal qual no sarebbe stato fatto il verbo nosco,
non per uso greco, ma per uso latino, (e secondo la ragion latina di formazione
e significato ec.) concordevole in questa parte quanto al materiale della
formazione o della forma col greco, che ebbe pur e , onde e che
suonan lo stesso di nosco. Ma concordevole per pura combinazione
particolare, anzi singolare forse. V. p.3826.
Io credo certo che tutti questi tali verbi [3689]sieno
originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo,[157]
hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco.
E lo credo perchè, come vivesco significa divenir vivo,
cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato
essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi,
cioè divenire aperto, mentre hio significa essere o stare aperto
ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco,
adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano
però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione,
venir essendo o soffrendo ec.[158]
che è proprietà del significato de' verbi latini in sco. E
stimo che dovessero avervi per tutti questi, altrettanti verbi originali che
significassero il pieno essere quella tal cosa, il pieno fare o
patire quella tale azione o passione. Come vivo rispetto a vivesco,
hio rispetto ad hisco, ed altri tali non pochi. Così augesco
rispetto ad augeo neutro (v. Forcellini in Augeo sulla fine).
Così scisco da scio, è propriamente [3690]divenire
sciens, cioè quasi imparare, intendere, conscius, certior fieri,
divenire, esser fatto consapevole, e quel che i latini dicono discere,
il qual verbo (che manca del supino) spetta pure a questa categoria. E
poichè i perfetti e supini di tali verbi (se e' gli hanno) non sono
regolari, io credo che ciò sia perchè questi non son loro, ma di
altri verbi originali, ne' quali essi sarebbero regolari, e stimo che tale
irregolarità e tali perfetti e supini, convenienti ad altri verbi, e
sconvenienti (per analogia grammaticale) a quei verbi a cui ora appartengono,
dinotino altri verbi originali perduti. Massime che si trovano vestigi de'
supini ec. regolari di detti verbi ch'ora esistono, come noscitare,
nasciturus, che mostrano i regolari supini di nascor e nosco,
cioè noscitus e nascitus; i quali non è verisimile
che sieno stati contratti essi medesimi in natus e notus, e che
sieno grammaticalmente tutt'uno con questi.[159] Il
difettivo novi novisti, usato in senso presente ec. (ond'e' non si
può considerare per parte di nosco, come fanno i grammatici)
è, secondo me, un avanzo e un segno [3691]evidente di no verbo
perduto, che nel perfetto fece novi, e nel supino notum (come po
fece potum che ancor resta, onde potare: resta anche potus
participio. ec.), voci poi trasportate al suo derivato nosco, che
grammaticalmente è in verità difettivo, non men di novi isti
con cui egli è supplito, facendo d'ambo un solo.[160]
Così memini è avanzo e segno certo di meno perduto,
anzi rimasto difettivo; da cui reminiscor o reminisco (mancante
di perfetto e supino) che spetta pure a questa categoria, e s'altri v'ha, suoi
compagni; come, secondo me, comminiscor, che viene, credo, da meno
(non da mens come Forcell.), a cui o a commeno (ignoto) spetta,
grammaticalmente parlando, il participio commentus, contratto da menitus
o da commenitus. (Puoi vedere la p.2774.)
Del resto se in qualunque modo si volesse
credere, come si è creduto finora, che p.e. suevi suetum sieno
propri perfetti e supini di suesco, e non tolti in prestito, allora si
dovrà dire che anche scivi scitum che sono della [3692]stessa
forma, sieno propri e veri di scisco, ch'è della stessa forma,
genere di significato e categoria di suesco. Ma il verbo sciscitor
dimostrando il supino sciscitum è un altro esempio che conferma,
come noscito, la mia opinione. E la conferma altresì il vedere
che il perfetto e il supino di scisco sono infatti, grammaticalmente,
gli stessi che quelli di scio, verbo noto ed esistente e usitato, e
verbo riconosciuto fuor di dubbio per origine di scisco. V. p.3763.
Niteo es ui - nitesco is. Albeo es - albesco is. Nigreo es ui - nigresco is. Flaveo es - flavesco is. Horreo es
ui - horresco is. Candeo es ui - candesco is - excandesco is ui (notate lo
stesso perfetto di candeo, che certo, almeno grammaticalmente, è
di excandeo ignoto, e non, come dicono, di excandesco.
Così dite di extimesco, e pertimesco, is, [3693]che
hanno il perfetto ui, il quale grammaticalmente è certo di un pertimeo
e di un extimeo, da timeo che ha infatti timui. E trovasi
veramente pertimens, e fors'anche il verbo extimeo.) Notesco
is ui ec. Vireo - Viresco. Valeo - Valesco - Convalesco, ui. Sanesco,
Consanesco ui. Fluesco. Liquesco. Seneo, Senesco, Consenesco ui. Crebresco is
ui. Flammesco is. (14. Ott. 1823.). Tutti questi verbi in esco
significano fio col participio attivo de' rispettivi verbi in eo.
Cioè nitens fio, candens fio. ec. Concupisco is - concupio.
Il proprio senso de' verbi in sco, è quale l'abbiam definito: pur
se ne troverà che o sempre o per lo più o talvolta abbiano un
senso diverso, p.e. conforme a quel de' loro verbi originali noti o ignoti.[161]
Ciò non fa meraviglia. Il simile ho notato accadere ne' continuativi. E
questo esempio de' verbi in sco, del cui proprio significato non
v'è controversia,[162]
può servire a rispondere a chi dal non continuativo senso di molti
continuativi, o in molti casi ec., volesse trarre argomento di riprovare la
nostra teoria della vera e propria e regolare significazione de' continuativi
ec.
(14. Ott. 1823.)
Credito as da credo itus.
(14. Ott. 1823.)
Circa il verbo nicto, di cui altrove,
vedi Forc. in nico is. Inclino molto a credere che quello sia
continuativo di questo, anzi che d'altro verbo; dico [3694]quel nicto
che sta appresso a poco per ec.
(14. Ott. 1823.)
Alla p.2819. marg. Vado che è
(derivativo di , o
piuttosto lo stesso verbo diversamente pronunziato ec.) verrebbe a essere
originalmente stretto affine di bito o beto per etimologia, come
lo è per significato compagno. Del resto il significato di bito e
(alterazione di come di ec. ec. del che altrove)
è propriamente lo stesso. Bito is continuativo sarebbe come nicto
is, piso is e simili di cui a' lor luoghi. Dell'esistenza de' quali
però, o di alcuni di loro, si dubita. Pur gli uni possono servir di
appoggio agli altri, e i certi ai dubbi, riportandoli alla nostra teoria, ed a'
nostri principii di formazione ec. i quali mostrano l'analogia che v'è
tra gli uni e gli altri, sinora non osservata. ec.
(15. Ott. 1823.). V. p.3710.
Aiguille, aguglia, aguja, guglia (co' lor
derivati ec.) diminutivo sovente positivato, dal lat. aculeus,
altresì diminutivo come equuleus. Anche il greco quando
significa guglia è un diminutivo positivato. e aguglia
o guglia, aiguille, aguja suonano cose simili tra loro anche nel senso
proprio.
(15. Ott. 1823.)
[3695]Alla p.2777. fine. Il g
protatico avanti la n, trovasi nel latino aggiunto eziandio a voci
semplicemente latine, non greche, come al tema nascor in molti de' suoi
composti: adgnascor, agnatus, prognatus, cognatus, cognatio ec. ed anche
nel semplice gnatus. Così gnavus, gnavare ec. per navus,
navare, e ignavus per iñavus. V. Forcell. in gnarus,
ignarus, e nelle voci suddette e
simili ec.
(15. Ott. 1823.). V. p.3727.
Alla p.2996. marg. Nigreo - nigrico -
nigro as. Se nigro venisse da nigreo apparterrebbe forse alla
nostra teoria, almen quanto alla derivazione e formazione, e sarebbe a notare
che il suo verbo originale sarebbe della seconda, non della 3a. Ma
forse nigro viene a dirittura da niger gri. Nigrico o da nigreo,
o da nigro.
(15. Ott. 1823.)
Obsoleto as da obsolesco
- obsoletus. (15. Ott. 1823.). Ma questo non è continuativo. Esso
significa obsoletum reddere, significato alienissimo della sua formazione.
Ei non è che di Tertulliano e d'altri d'inferior latinità
(Forcell. e Gloss.). La sua barbarie è maggiormente manifesta per la
nostra [3696]teoria de' continuativi la quale fa vedere
l'improprietà e disanalogia totale (perchè niuno altro esempio ve
n'ha, ch'io sappia, nel buon latino) del suo significato ed uso.[163] Completare,
compléter ec. voce moderna, sarebbe di simile genere di significazione perocch'ella
propriamente vale far completo; benchè questo viene a coincidere
col senso del verbo originario complere, il che non accade in obsoletare,
perchè obsolesco è neutro e obsoleto attivo. Di completare
mi ricordo aver detto altrove. Questi tali verbi son fatti da' rispettivi
participii (come obsoletus, completus) già passati in aggettivi,
e non come participi ma come aggettivi, onde e' non spettano alla nostra
teoria. E' sono assaissimi. Forse ve n'ha anche nel buon latino, sotto questo
aspetto. Ma meno, cred'io, che nel basso latino, e fra' moderni.
(15. Ott. 1823.)
Alla p.2996. fine. Obsoleo, obsolesco
da obs e oleo, olesco. Vedi il pensiero seguente.
(15. Ott. 1823.)
Alla p.3687. Che adoleo o certamente
il semplice oleo esistesse una volta, vedi il Forcell. in Obsolesco,
principio. Dico un oleo e un adoleo diverso [3697]da
quelli che ancora esistono, o con diverso significato. Qual fosse questo significato
nol saprei dire. Il Forc. l.c. dice cresco, ma questo è il
significato de' derivativi adolesco ec. e proprio del genere e forma
grammaticale d'essi derivativi. Si può anzi dire che il tema che noi
cerchiamo esista ancora; in obsoleo cioè ed in exoleo, de'
quali però v. il Forc. Se obsolesco è da obsoleo,
exolesco da exoleo, ciò è lo stesso che dire che adolesco,
inolesco ec. sono da adoleo inoleo ec. Tutti questi da un medesimo tema,
e la ragion degli uni è quella degli altri. Da ben diverso tema deriva
il verbo obsolesco chi lo deriva (e fors'anche obsoleo) da ob
e soleo (Forcell. l.c.). Ma chi fa così mostra non aver
considerato i fratelli carnali di obsolesco ne' quali la prima s
non comparisce; nè il verbo exoleo, fratello di obsoleo,
il quale non può esser che da ex e oleo. Negar che questi
verbi sieno fratelli è da stolto. Il significato lo prova. Exolesco e
obsolesco vagliono, si può dire, altrettanto. Gli altri
corrispondono, secondo le preposizioni rispettive. [3698]Di più, soleo
ha forse il perfetto solui o solevi? fa forse nel supino soletum?
nel participio soletus? Or così fa ed ha obsoleo. E se obsoleo
non ha che fare con soleo, come dunque obsolesco? si
potrà negare che questo venga da obsoleo? oltre che ciò
è più ch'evidente per se, e per tanti altri esempi analoghi, nol
mostra l'esempio affatto compagno, di exolesco da exoleo?
Finalmente che la prima s di obsolesco e di obsoleo spetti
alla preposizione ob, vedi la p.2996. e le quivi richiamate.
Del resto chi volesse dire che il proprio
preterito perfetto di oleo, adoleo e simili fosse e dovesse essere olui,
adolui ec. onde adolevi inolevi ec. non sieno propri di adoleo,
inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec.,
osservi che anche l'altro oleo ne' composti fa olevi per olui
(Forc. in oleo);[164] e
che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola,
cioè varie solamente di pronunzia, perchè gli antichi latini
massimamente, e poi anche i non antichi, o meno antichi, ed anche i moderni
ec., confondevano spessissimo l'u e il v[165]
(che già non ebbero se non un solo e comune carattere): sicchè olevi
è lo stesso che olui, interposta la e per dolcezza, ovvero
olui è lo stesso che olevi, omessa la e per proprietà
di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non
furono mai considerate [3699]da' latini se non come una stessa lettera.
Così nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi
tempi, e dura ancora ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il
costume di ordinar le parole come se l'u e il v nell'alfabeto
fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè credo
che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della seconda
coniugazione abbia la desinenza in evi o in ui, se sia docui
o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo primitive, ambo
queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io per me credo
che la più antica sia quella in evi, anticamente ei
(conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per adottata corruzione
e passata in regola, si dice anche sedetti[166]
ec.), poi per evitar l'iato eℲi, e poi evi
(come ho detto altrove del perfetto della prima: amai, conservato
nell'italiano ec., amaℲi, amavi),
indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno,
e viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed
è ben consentaneo che da doceo si facesse primitivamente nel
perfetto, docei, [3700]conservando la e, lettera
caratteristica della 2da coniugazione come l'a nella prima,
onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de'
perfetti della seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come
a doceo) ec.?[167] Si
risponde facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si
può spiegare. L'u ebbe luogo nella seconda, come il v,
ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e nella quarta: per evitar
l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle
dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie,
estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva
forma d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto.
Passate in regola nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi
ancora il suo perfetto primitivo (come la terza generalmente e regolarmente,
che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto:
audii, audivi. Il latino volgare per lo contrario non conservò, e
l'italiano non conserva, che i primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni
mostrano l'analogia (finora, [3701]credo sconosciuta) che v'ebbe
primitivamente fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti
della 1. 2. e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e
desinenze di tutti e tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle
alterazioni che dette desinenze variamente ricevettero nella pronunzia,
nell'uso ec., le quali alterazioni passate in regola, furono poi credute forme
primitive ec. Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che
abbiano il perfetto (e sue dipendenze) veramente primitivo, e ciò
senz'averlo doppio come que' della quarta, ne' quali l'un de' perfetti non è
primitivo, si è la 3a.
Tornando a proposito, adultum mutato
l'o in u al solito: volgus - vulgus ec. come ho detto in
100 altri luoghi. Così da colo colui, colitum - coltum - cultum.
Vedi la pag.3853-4. di adolesco e di adoleo è contrazione
di adoletum, anzi di adolitum, supino regolare di adoleo,
come docitum di doceo, poi contratto in doctum. Infatti inolesco
(o piuttosto l'ignoto inoleo) ha inolitum non inoletum. Obsoletum,
exoletum e simili, sono irregolari, e corruzioni dell'ignoto exolitum,
obsolitum. Se però docitum non è corruzione di docetum,
che sarebbe regolare come amatum da amare. Ovvero [3702]se
doctum non è contrazione di docetum, come docui di docevi.
Onde il regolare e primitivo supino della 2. sia in etum da ere,
come exoletum, netum, fletum, suetum (dall'ant. sueo) ed altri
tali, e come amatum da amare; e quelli in itum, come exercitum,
habitum ec. sieno corruzioni, come domitum e simili sono corruzioni
di domatum ec. Io così credo. V. p.3704. e 3853. 3871.
Si attribuisce ad adolesco anche il
perfetto adolui. Forc. in adolesco.
Aboleo es evi itum pur da oleo.
Prisciano ammette anche abolui. Abolesco neutro. Deleo es evi
etum pur da oleo. V. Forc. in Deleo e Leo es. Oboleo es ui. Obolitio. Suboleo es ui -
Subolesco is.
Adoleo nel senso nel quale ei
può aver generato adolesco si trova veramente ancora. Forc. in Adoleo.
Siccome adolesco trovasi ancora in senso conforme all'usitato di adoleo.
Forc. in adolesco.
Il senso di oleo (diverso o tutt'uno
con l'oleo che ancora abbiamo) dovette esser poco diverso da cresco.
Infatti obsoleo di senso appena o nulla differisce da obsolesco.
Così dunque dovette essere adoleo rispetto a adolesco. ec.
V. Forcell. in Adoleo. Il quale forse da bruciare ne' sacrifizi
fu trasferito ad accrescere, come per lo contrario mactare [3703]da
accrescere ad immolare, sacrificare ec. E similmente si
potrà dire di oleo ec. ec. Cioè che il suo primo significato
fosse ulire (com'è oggi), indi abbruciar cose odorifere
ec. (come adoleo), indi accrescere o crescere, nel qual
ultimo senso ei sarà stato preso ne' composti-derivati, adolesco,
exolesco ec. nel composto obsoleo, in exoleo ec. ed
avrà prodotto il derivato olesco, cioè cresco, di
cui v. Forcell. e vedilo ancora in macto ec. ec. e in sobolesco.
(15. Ott. 1823.)
Alla p.3688. principio. Che cretum e cretus
non sieno propri di cresco (v. Forc. cresco fine), ma di altro
verbo, lo dimostra la differenza del significato. (cretus da cerno
è altra voce). Cretus vale generato. Io tengo certo
ch'esso sia contrazione di creatus; che cresco sia fatto da creo
as, come hisco da hio as; e ch'ei vaglia propriamente quasi venirsi
creando, generando, formando; che è veramente quello che fa chi
cresce; a ciascun momento si forma e genera quello che a lui aggiungi e in che
consiste il suo incremento. L'incremento è una continua formazione e
generazione, [3704]non del tutto, ma delle parti accedenti ec. ec. V.
Forc. in Crementum e cretus. Quest'etimologia non è stata
forse data da alcuno. E ciò perchè niuno, credo, ha considerato cresco
come un verbo della nostra categoria de' verbi in sco fatti da altri originali,
con analoga variazione di significato ec. Noi e la troviamo e la confermiamo
per mezzo dell'analogia e proprietà generale del significato, formazione
ec. de' verbi in sco. Cretus non è dunque di cresco
ma di creatus, e ciò anche per la significazione, laddove gli
altri tali, suetus, p.e. per grammatica è di sineo, per
significazione però, di suesco ec.
(15. Ott. 1823.)
Alla p.3702. Queste osservazioni, e i
confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda,
confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di sinesco,
exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non conviene questa desinenza,
ma di altri della seconda da cui essi derivano. Cretum da cerno e
suoi composti è corrottissimo, per cernitum, ch'è il vero,
e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). V.
p.3731. Altresì quel che s'è detto de' perfetti della seconda, e
il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi
ec. non sono di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott. 1823.). V.
p.3827. La desinenza de' perfetti in evi o [3705]in vi,
propria della prima coniugazione e, come abbiamo mostrato, della seconda, che
ora ha più sovente ui, ch'è il medesimo, e finalmente
eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii,
è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se per qualche rara
anomalia, come in crevi da cerno, e suoi composti perfetto
irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, e suoi
composti verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum,
ne' composti situm, solita mutazione in virtù della composizione
ec. V. p.3848. ec. Ovvero per
qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p.3688.) che dovette
essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni,
che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che d'altronde concorreva colla
particella ni: oltre che niun perfetto latino, se ben mi ricordo,
è monosillabo, ancorchè fatto da tema monosillabo: eccetto ii
da eo, e da fuo, fui, i quali furono monosillabi, e forse ancora
lo sono talvolta presso i poeti latini del buon tempo ec. secondo il mio
discorso altrove fatto della antica monosillabia di tali dittonghi ec. Da'
monosillabi do, sto ec. si fece il perfetto dissillabo per duplicazione:
dedi, steti, ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni.
O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (), onde il perfetto [3706]novi
invece del regolare noi sarà stato fatto (come que' della
Del resto dalle soprascritte osservazioni si
potrebbe conchiudere che i veri e regolari e primitivi supini delle 4. coniugazione
son questi: 1a atum, 2.a. etum, 3a itum[170],
4a itum. [3708]E i perfetti (con lor dipendenze): 1a
avi (antic. ai), 2.a evi (ant. ei, più mod. ui),
3a i preceduto dalla ultima radicale del tema, 4a ii
(antica ma conservata) ed ivi (posteriore).
(16. Ott. 1823.)
Alla p.3698. P.e. solutum, volutum,
non sono che o modi di pronunziare o scrivere o di pronunziare e di scrivere i
regolari supini volvitum, solvitum e simili, che non son pochi; o
contrazione di essi supini regolari, fatta per l'elisione dell'i e non
altro (giacchè l'u e il v, come dico, sono una stessa
lettera)[171]
contrazione ed elisione ordinaria, e si può dir, regolare (per il suo
grand'uso) sì ne' verbi della terza, come dictum per dicitum
ec. ec., sì in quelli della seconda, come doctum per docitum
(che non si ha, mentre si ha nocitum, placitum, tacitum, habitum ec. e
non noctum ec.: vedi la p.3631) ec. ec.
(16. Ott. 1823.)
Alla p.3689. princ. Vivesco non ha
perfetto nè supino neppur tolto in prestito. Ma il suo composto revivisco
ha revixi. Ora il Forcell. conviene che questo non è suo ma di revivo,
e ne conviene quantunque revivo, com'ei dice, a nemine est, quod
sciam, usurpatum, si unum excipias Paulin. Nolan. ec. [3709](e v. il
Gloss.). Perchè dunque non conviene egli che p.e. scivi scitum
non sia di scisco ma di scio, ch'è pur verbo ab omnibus
usurpatum? che suevi suetum non sia di suesco ma di sueo,
benchè questo a nemine sit usurpatum? Del resto il trovarsi pure revivo,
conferma la mia sentenza che tutti i verbi in sco sieno fatti da un
altro analogo, sebbene non sempre noto; e il vedere che revivisco fa revixi
e revictum (dimostrato da revicturus, se questo non è di revivo),
come appunto revivo, conferma che i perfetti e supini de' verbi in sco,
se gli hanno, sieno sempre tolti in prestito da' verbi originali, e non mai
loro propri, o ch'essi mai non gli ebbero (ma nosco p.e. ebbe il supino
suo proprio, noscitus, come a pp.3688.3690.), o che gli hanno perduti.
Sebbene non vi era bisogno di revivo a mostrar tutto questo nel nostro
caso, bastando che vi fosse, e fosse noto, il verbo vivo, da cui a
dirittura, senza revivo, o da vivesco (che vien da vivo)
per composizione, poteva ben esser fatto il verbo revivisco, e forse e'
lo è in effetto.
Del resto, sì revivisco,
sì l'analogia (perchè l'e nella desinenza de' verbi in sco
non ha luogo s'e' non son fatti [3710]da verbi in eo;[172] e
p.e. da meno is ch'è della coniugione di vivo is, si fa reminisco,
come a p.3691., e non reminesco), da tremo is, tremisco e composti;
ingemisco ec. Vedi al proposito Forc. in tremisco ec. mi persuadono
che vada detto vivisco anzi che vivesco; e v. Forc. in vivesco,
fine; e il Gloss. in vivescere.
(16. Ott. 1823.). V. p.3828.3869.
Viviturus regolare, per victurus
del buon latino, dimostrante il vero supino vivitum (vivuto), secondo le
nostre teorie (v. fra l'altre, p.3709. fine), vedilo in una carta del secolo del
mille nel Gloss. Cang.
(16. Ott. 1823.)
Alla p.3694. Conferma la nostra congettura
sull'origine del verbo bito o beto, il latino-barbaro rebitare,
dove si vede appunto la coniugazione propria de' continuativi ond'egli sarebbe
più regolare dell'antico bitere ec., e può servire a mostrare
che questo (ond'esso pur viene, o a cui è affine) sia altresì un
continuativo come certo lo è rebitare ec. ec. V. il Gloss. Cang.
in revidare, rettificandolo secondo la nostra teoria e osservazioni ec.
e con queste confermando la lezione di rebitare (da cui revidare
non varia che per pronunzia, propria degli spagnuoli ec. sicchè ben
può stare nel latino barbaro), e dilucidando i dubbi ec. E chi sa che bitere
o betere ec. [3711]non sia veramente bitare o betare
(ma piuttosto quello, sì a causa di rebitare, sì che da batus
di bo o bao doveva farsi, secondo la regola, bitare anzi
che betare) corrotto dagli scrivani per ignoranza della nostra teoria, e
per la stessa cagione non restituito da' critici ec. Infatti che questi e quelli
abbiano esitato su questo verbo, lo dimostra la sua diversa scrittura, bitere,
betere, bitire, e il trovarsi in molti codici vivere per bitere
(vedi Forc.) ec. ec. Nel Curcul. 1.2.52. bitet può così
essere presente congiuntivo di bitare, come futuro indicativo di bitere
ec.
(16. Ott. 1823.)
Excisare o excissare. V. Forcell. in Excissatus.
(16. Ott. 1823.)
A quello che altrove ho detto del verbo cillo
a proposito di oscillo parrebbe che si opponesse il verbo percello
e procello ec. Ma io, qualunque sia l'origine di questi, non credo
abbiano che fare con cillo, stante la differenza (oltre le lett. e
ed i) della coniugazione de' perfetti e supini ec. Ben crederò
che percello ec. sia da , e
così il semplice cello is perduto, ma non già cillo as
ec. Quod os CILLENT, idest INCLINENT, praecipitesque [3712]in
os FERANTUR. (Fest. ap. Forc. in Cillo). Non è chiaro a un
fanciullo che quel cillent è da cillare non da cilleo
nè da cillo is? Donde dunque s'ha preso il Forc. quel suo cillo
is? Se già non fosse, come io penso, errore di stampa is per as.
Quanto a cilleo che sta in Servio (se non v'è errore) ei potrebbe
pur esser da cio, fatto come conscribillo da conscribo
ec., benchè d'altra coniugazione (cioè della 2. invece della
prima) per anomalia, come viso is da video per viso as, e
gli altri tali continuativi d'anomala formazione, cioè d'altra
coniugazione che della prima, da me in più luoghi accennati, insieme e
separatamente. O forse cillEO è da ciEO?
(16. Ott. 1823.)
Tutte le qualità e cagioni che producono
la grazia nelle persone o portamenti o azioni ec. umane, sono più
efficaci, e gli effetti loro più notabili negli osservatori ec. di sesso
diverso. I quali concepiscono quella tal grazia per molto maggiore ch'essa
medesima non apparisce agli osservatori del sesso stesso. Ma tal differenza
d'idee non ha punto che fare colla natura nè della grazia in genere,
nè [3713]di quella tale in ispecie. E quel grand'effetto non
è della grazia, ma della diversità del sesso aiutata dalla
grazia, o viceversa della grazia aiutata ec. in quanto aiutata ec. Tutto
ciò dicasi ancora della bellezza ec.
(17.
Ott. 1823.)
Advento as. N'ho
discorso, mi pare, nella mia teoria de' continuativi. Aggiungo. Qual cosa v'ha
mai nel suo significato, che possa, neppure per somiglianza, farlo chiamare
frequentativo? quale che non sia continuativa, e che non convenga a questo
nome, e lo giustifichi, e ne sia bene dinotata? E con qual altro nome generalmente
potrebb'essere indicata quella significazione, se non con quello di continuativo?
(17. Ott. 1823.)
Alla p.3622. L'idea e natura della quale
esclude essenzialmente sì quella del piacere che quella del dispiacere,
e suppone l'assenza dell'uno e dell'altro; anzi si può dire la importa;
giacchè questa doppia assenza è sempre cagione di noia, e posta
quella, v'è sempre questa. [3714]Chi dice assenza di piacere e
dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sieno tutt'una, ma
rispetto alla natura del vivente, in cui l'una senza l'altra (mentre ch'ei
sente di vivere) non può assolutamente stare. La noia corre sempre e immediatamente
a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de' viventi il piacere e il
dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d'indifferenza e senza passione, non
si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi. La
noia è come l'aria quaggiù, la quale riempie tutti gl'intervalli
degli altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi si partono,
se altri oggetti non gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso
dell'animo umano, e l'indifferenza, e la mancanza d'ogni passione, è
noia, la quale è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre
che non gode nè soffre, non può fare che non s'annoi? Vuol dire
ch'e' non può mai fare ch'e' non desideri la felicità,
cioè il piacere e il godimento. Questo [3715]desiderio, quando e'
non è nè soddisfatto, nè dirittamente contrariato
dall'opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della
felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è
passione. Quindi l'animo del vivente non può mai veramente essere senza
passione. Questa passione, quando ella si trova sola, quando altra attualmente
non occupa l'animo, è quello che noi chiamiamo noia. La quale è
una prova della perpetua continuità di quella passione. Che se
ciò non fosse, ella non esisterebbe affatto, non ch'ella si trovasse
sempre ove l'altre mancano.
(17. Ott. 1823.). V. p.3879.
Alla p.3700. marg. Che la desinenza ui
nel perfetto della 2da, sia stata introdotta nel modo che abbiam
detto, mostrasi ancora col considerarla in alcuni verbi della 1a.
Della quale niuno dubita che il perfetto regolare e proprio non sia quello in avi.
Ma pur parecchi suoi verbi l'hanno in ui: domui, secui, vetui, necui,
crepui ec. co' loro composti enecui, perdomui ec.[173] Or
da che è venuta quest'anomalia? Dalla stessa cagione che l'ha introdotta
ne' verbi della 2da, [3716]nella quale ella, per esser
più comune assai che nella prima, e più comune che non è
ciascuna dell'altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto
chiamasi anomalia quella in evi perchè divenuta più rara,
e una di quell'altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando
all'origine, quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda
non meno che nella prima, e quella in evi è così regolare
nella 2. come nella prima quella in avi. E più comune si è
la desinenza in ui nella seconda che nella prima, perchè
l'ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più
facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più
vasta, per servirmi dell'espressione di Cicerone in altro proposito (Orat.
c.45. circa l'x.). Del resto, come parecchi della seconda hanno il
perfetto così in evi come in ui, qualunque de' due sia
più comune, così tutti o quasi tutti quelli della 1. che l'hanno
in ui, conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi il
più usitato, o viceversa. [3717]E tutti altresì, se non
erro, hanno il supino in itum, come quelli della seconda ch'hanno il perfetto
in ui (mentre quelli che l'hanno in evi conservano altresì
il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto
da citum (nectum, sectum ec.) come appunto lo sogliono avere
quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum
contratto da docitum.[174] Plico as (v. Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi
atum, ui itum. Frico as ui ctum, fricatum. Perfrico ec. Sono as avi atum, ui, sonitus us. V. p.3868. Mico as ui, micatus us. Emico as
ui, emicatio, emicatim. Ma molti di que' della 1. che hanno il
supino in itum, conservano altresì, come il vero perfetto in avi,
così il vero supino in atum (o il participio in atus o in aturus
ec. ch'è tutt'uno, e lo dimostra) più o meno usitato di quello in
itum, non altrimenti che alcuni della seconda conservino forse accanto
del supino in etum il vero in etum. Dico, forse, perchè
ora non me ne soccorre esempio.
(17. Ott. 1823.)
Alla p.2980. Immaginazione continuamente
fresca ed operante si richiede a poter saisir i rapporti, le
affinità, le somiglianze ec. ec. o vere, o apparenti, poetiche ec. degli
oggetti e delle cose tra loro, o a scoprire questi rapporti, o ad [3718]inventarli
ec. cose che bisogna continuamente fare volendo parlar metaforico e figurato, e
che queste metafore e figure e questo parlare abbiano del nuovo e originale e
del proprio dell'autore. Lascio le similitudini: una metafora nuova che si
contenga pure in una parola sola, ha bisogno dell'immaginazione e invenzione
che ho detto. Or di queste metafore e figure ec. ne dev'esser composto tutto lo
stile e tutta l'espressione de' concetti del poeta. Continua immaginazione,
sempre viva, sempre rappresentante le cose agli occhi del poeta, e mostrantegliele
come presenti, si richiede a poter significare le cose o le azioni o le idee
ec. per mezzo di una o due circostanze o qualità o parti di esse le
più minute, le più sfuggevoli, le meno notate, le meno solite ad
essere espresse dagli altri poeti, o ad esser prese per rappresentare tutta
l'immagine, le più efficaci ed atte o per se, per questa stessa
novità o insolitezza di esser notate o espresse, o della loro [3719]applicazione
ed uso ec., le più atte dico a significar l'idea da esprimersi, a
rappresentarla al vivo, a destarla con efficacia ec. Tali sono assai spesso le
espressioni, o vogliamo dire i mezzi d'espressione, e il modo di rappresentar
le cose e destar le immagini ec. nuove o novamente, e per virtù della
novità del modo ec. ec. usati da Virgilio, e massime, anzi
peculiarmente, e come caratteristici del suo stile e poesia, da Dante ec. ec.
Tutte queste cose si richiedono in uno stile come quel di Virgilio (e più
o meno negli altri: ma quel di Virgilio, in quanto stile, è precisamente
il più poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della
poetichità); e questi infatti sono i mezzi ch'egli adopera e gli effetti
ch'egli consegue. Or non si possono adoperar tali mezzi, nè produr tali
effetti (che con altri mezzi, nello stile, non si ottengono) senza una continua
e non mai interrotta azione, vivacità e freschezza d'immaginazione. E
sempre ch'essa langue, langue lo stile, sia pure immaginosissima e poetichissima
l'invenzione e la qualità delle cose in esso trattate ed espresse.
Poetiche saranno le cose, lo stile no; e peggiore sarà l'effetto, che se
quelle ancora fossero impoetiche; per il contrasto e sconvenienza ec. che
sarà tanto maggiore quanto quelle e l'invenzione ec. saranno più
immaginose e poetiche. [3720]Del resto è da vedere la p.3388-9.
(17. Ott. 1823.)
Alla p.3546. I detti effetti accadono in un
gran letterato, in un gran filosofo, in un gran poeta, in un gran professore di
qualsivoglia o letteratura o arte o scienza o abilità ec. verso quelli
che si arrogano quella medesima arte, e la professano. ec. Severissimi, disprezzantissimi,
intollerantissimi a principio, non per superbia (anzi questi tali sono sempre
modestissimi) ma per non trovar niuno che non sia indegnissimo di stima per se,
o che meriti più che pochissimo nella sua professione; e disprezzanti
nel cuor loro, piuttosto ch'esternamente; a poco a poco persuadendosi che
insomma non v'è di meglio di coloro ch'ei disprezzava, dalla mancanza
de' veramente stimabili piglia argomento e in ultimo abitudine di tollerare il
niun merito, e di stimare e lodare il piccolissimo, e di celebrare e fino
ammirare il mediocre (non per se ma per la sua rarità, finalmente
conosciuta, e conosciuta per universale) e insomma di contentarsi del poco e
pochissimo, e di dare alle cose non il [3721]peso assoluto ma il peso
relativo che meritano. Sicchè gli si viene a fare ben raro il caso nel
quale ei possa e sappia totalmente disprezzare.
Passo più oltre, e dico che l'essere
disprezzante, non curante, severissimo, esigente, incontentabile, intollerante
ec. o verso gli uomini in genere, o verso quelli della propria professione,
è segno certo, vista la qualità del mondo, o d'inesperienza, e
poca o niuna cognizione e pratica degli uomini, o di poco talento, che
dall'esperienza non è persuaso e non ne cava il profitto e le
conseguenze che deve, e non sa mai da pochi particolari generalizzare, ma per
ciascun particolare che gli occorre nella vita ha bisogno di nuova ed apposita
esperienza, ch'è il caso, la proprietà e il distintivo degli uomini
di poco ingegno; o finalmente è segno di poco o niun valore sia in
genere, sia nella sua professione, perchè sempre chi poco vale, non
potendo giustamente estimar se stesso nè gli altri, è superbo
verso se, e verso gli altri disprezzante. Laddove chi molto vale, ben potendo
intendere ed estimare il suo valore e l'altrui, sia in genere sia nella sua
professione, e compararlo [3722]ec. può giustamente dispensare e
dispensa, almeno nel suo interno, tanto a se stesso quanto agli altri, il grado
di stima o assoluta o almen rispettiva, che a ciascun si conviene, e si mette
al disopra o al disotto degli altri, e questi al disopra gli uni degli altri,
secondo il merito rispettivo ec.
(17-18. Ott. 1823.)
Alle cose da me dette nella teoria de'
continuativi (sul principio) ed altrove, circa il verbo exspectare ec.
aggiungi il franc. guetter che propriamente vuol dire osservare
ec. e per metafora aspettare ec.
(18. Ott. 1823.)
Participii in us de' verbi attivi in
senso attivo, ovvero neutro, o attivo intransitivo. Desperatus. Corn.
Nep. in Attico c.8. lin. ult. Dove pare che desperatus sia qui desperavit.[175]
(18. Ott. 1823.)
Radice monosillaba di dico. Carisio e
il Vossio credono che il genitivo dicis non venga da , ma da un
dix, e spetti a dico ec. [3723]Probabilmente essi vorranno
che dix venga da dico, ma sarebbe il contrario, come nella teoria
de' continuativi s'è detto di lex, rex ec. Aggiungi grex
monosillabo, significante un'idea primitivissima, e radice di più voci
semplici e composte, come congregare ec. Simile dicasi di nubs. V. Forc.
(18. Ott. 1823.)
Alla p.3717. Quest'osservazione circa il
trovarsi costantemente o quasi costantemente il supino in itum ne' verbi
della 1. e della 2. ch'hanno il perfetto in ui, ancorchè e quel
supino e quel perfetto ne' verbi della 1. senza controversia, e ne' verbi della
2. giusta le nostre osservazioni, sieno anomali ec.; par che dimostri una
corrispondenza, una dipendenza che passasse nella lingua latina fra il perfetto
e il supino (come fra il perfetto e i tempi che è già noto
formarsi da questo, fra' quali niuno, ch'io sappia, ha mai ancora contato il supino);
e che la formazione del supino seguisse e fosse determinata e modificata dalla
forma del perfetto, e che in somma anche il supino nascesse in qualche modo dal
perfetto, come assolutamente, in tutto, e senza controversia ne nasce il
più che perfetto, il futuro dell'ottativo ec. ec. Questo sospetto si potrebbe
anche, [3724]cred'io, confermare con molte altre osservazioni P.e. juvo
as fa il perfetto iuvi, contratto da iuvavi o per evitare
quel doppio v,[176] o
per effetto della pronunzia accelerata e confondente que' due v insieme:
confusione e accelerazione passata poi in regola, onde venne iuvi solo
perfetto di iuvo, e con un v solo e semplice. Perfetto che viene
a essere anomalo, ma anomalia di cui ben si conosce l'origine e la cagione. Ora
nel supino iuvo ha iutum per iuvatum. Participio anomalo,
della cui anomalia non si conosce origine nè cagione, se non dicendo
ch'egli è formato dal perfetto, il quale essendo iuvi, ne vien di
ragione iutum, così bene come da iuvavi verrebbe iuvatum.
V. Forcell. in Juvo fine.
Si potrebbe però dire che iutum è fatto da iuvatum
per evitare quel doppio u, benchè l'uno consonante l'altro
vocale, e per sincope ed elisione dell'a, e per effetto di pronunzia ec.
E certo non si può negare, perchè dà negli occhi, che qui
il supino corrisponde al perfetto (e così in tutti i composti di iuvo;
adiuvi, adiutum ec. ec.), e stolto sarebbe l'attribuire questa
corrispondenza al caso, e il non volere, come sembra evidente, che l'anomalia
del supino della quale non si vede ragione, venga [3725]da quella del
perfetto la cui ragion si vede, e comparato col qual perfetto, e in ragione di
lui, esso supino non è anomalo ec. ec. e il voler piuttosto che
l'anomalia del supino sia casuale ec.
(18. Ott. 1823.). V. p.3732.
Alla p.3687. Quando però n'hanno
alcuno. Giacchè grandissima e forse la maggior parte de' verbi in sco,
non hanno nè perfetto nè supino alcuno, e niuno gliene attribuiscono
i grammatici. Altra prova che niun di loro abbia perfetto nè supino
proprio. Voglio dire che niun l'abbia oggidì, e avendolo, non sia il
proprio. Giacchè anticamente l'ebbero, e proprio, ma diverso da quel che
hanno oggi (se l'hanno), e diverso da quel che conviene o converrebbe a' lor
verbi originali, e da quel d'essi verbi (se esistono ed hanno perfetto e
supino), e regolare ec. come s'è dimostrato con noscitus, nascitus
ec. p.3690.3692.3758. Siccome pur n'è una gran prova, che tutti i verbi
in sco i cui originali si conoscono, se hanno perfetto e supino (o l'un
de' due solamente come spesso accade) che per significato sia loro, o che da'
grammatici lor venga attribuito, questo perfetto e questo supino non è
mai, quanto alla material forma, diverso nè altro da quello de' detti
originali, di qualunque coniugazione si sieno questi ultimi. La quale
osservazione conferma l'altra parte della mia proposizione (anzi la dimostra,
si può dire, affatto), cioè che tutti i perfetti e supini dei
verbi in sco che gli hanno, [3726]o a' quali i grammatici
n'attribuiscono, sieno tolti in prestito da' verbi originali (ne' quali essi
sarebbero o sono regolari ec. laddove in essi nol sono), noti o ignoti che
sieno questi verbi. Giacchè da quello che accade universalmente sempre
che i verbi originali son noti, ben si argomenta quello che dovette accadere
quando e' sono ignoti, e che benchè ignoti oggidì, esistessero
una volta ec. Perchè insomma i verbi in sco o non hanno perfetto
nè supino alcuno, o tale che ad essi grammaticalmente non conviene, ma
ben converrebbe a un verbo loro originale, e se questo verbo si trova, il
perfetto o supino del verbo in sco (che ne abbia) è sempre
materialmente lo stesso.
Del resto per verbo originale intendo un
tema non in sco che abbia dato origine al verbo in sco o
immediatamente o mediatamente. P.e. trovandosi il verbo reminiscor non
è bisogno supporre l'originale remeno immediato: basta il mediato
meno, di cui già s'ha notizia più particolare, anzi degli
avanzi. [3727]Trovandosi dignosco, non è bisogno supporre
il verbo originale immediato dignoo o digno: basta il mediato no
o noo o gnoo; ovvero il verbo nosco che da lui nasce, dal
quale senz'altro potè per composizione esser fatto il verbo dignosco
e cognosco ec. ec. (p.3709.) e probabilmente così fu.
(18. Ott. 1823.)
Alla p.3695. E quanto a nosco, non
solamente ne' suoi composti, ma eziandio nel semplice si trova il g. V.
Forcell. in gnosco, gnobilis ec. Del resto il vedere che questo g
protatico è d'uso non men proprio latino che greco, servirà di
risposta a chi dal trovarlo nel semplice e ne' composti di nosco, come
nel greco e ec.,
volesse dedurre che nosco deve essere immediatamente di origine greca, e
fatto da ec.
contro il detto a p.3688. Qual sia poi l'origine in generale dell'uso del g
protatico appo i latini, o venuto dagli Eoli, o da un fonte comune a questi e a
quelli ec. nulla importa al nostro caso. E ben poterono i latini antichi per un
uso ricevuto dagli [3728]Eoli, e quindi d'origine greca, preporre (o
interporre) il g a voci d'altronde non per tanto affatto latine, o vogliamo
dire non greche, come si vede infatti che fecero in adgnascor ec. (la
qual voce nascor si dimostra anche affatto propria latina per le cose
dette a p.3688-9. nello stesso modo che nosco) ec. ec.
(18. Ott. 1823.). V. p.3754.
Alla p.3390. Anche ne' nostri più
antichi, cioè ne' trecentisti e così in que' del 500 che
più gl'imitano, o in quanto egli adoprano le voci antiquate (come spesso
il Davanzati e altri assai), e fors'anche ne' ducentisti si trovano moltissime
parole spagnuole, oggi fra noi disusate affatto, o rare più o meno, e
tra gli spagnuoli ancora correnti e usuali, o ancor fresche più o meno;
le quali anche chi sa spagnuolo e italiano, non sa che sieno o sieno state
comuni ad ambe le lingue, e trovandole ne' nostri antichi se ne maraviglia,
perchè son prettissime spagnuole. Queste o furon tolte dallo spagnuolo
(forse per mezzo de' provenzali ch'ebbero [3729]a fare coi catalani, ec.
e ne presero e dieder loro voci e modi e poesia e stile e metri ec. ec.: v.
Andres); o forse più probabilmente vengono dalla comun fonte d'ambo
gl'idiomi, o ciò fosse il latin volgare, o qualchessia altra delle tante
secondarie che diedero de' vocaboli alle nostre lingue, potendo essere che da
una di queste le ricevesse sì l'Italia, come la Spagna indipendentemente
l'una dall'altra. P.e. da' provenzali ec. ec. Del resto lo stesso ci accade di
vedere ne' nostri antichi rispetto alle parole e frasi francesi ec. Ma quanto a
queste le cagioni parte son note, parte l'ha spiegate Perticari nell'Apologia.
V. p.3771. e già fur propri italiani (senza esser punto presi dalla
Spagna), indi passarono in disuso, mentre in Ispagna si conservano ancora: e
chi sa che questa non li ricevesse originariamente dalla lingua italiana. Come
che sia, tali voci (o frasi ec.) appo i nostri antichi non hanno punto del
forestiero, se non per chi sappia che or sono spagnuole, e sia avvezzo a
sentirle, leggerle, parlarle nello spagnuolo, e di là le creda venute
ec. ma per se stesse hanno tutta l'aria naturale.
Molte ancora delle voci, frasi ec. spagnuole
che si trovano ne' cinquecentisti (e anche secentisti) italiani, ed ora son
fuor d'uso, è probabilissimo che nè allora fossero antiquate e
prese da autori del 300 ec. ma usitate ancora (il che è facile a vedere,
se ne' trecentisti non si trovano, i quali erano forse meno [3730]studiati,
(fuor de' tre grandi) e certo in assai minor numero noti ed editi, che
oggidì, sicchè gli scrittori del 500 o 600 non potessero
conoscerne quello che noi non ne conosciamo, anzi assai meno di noi); nè
fossero prese dallo spagnuolo, ma proprie e native italiane, benchè alle
spagnuole conformi affatto, ed oggi antiquate tra noi e non nello spagnuolo.
Del resto gli spagnuoli ancora, massime nel
500 e 600, pigliarono dall'italiano moltissime voci e frasi ec., sì gli
scrittori, sì l'uso del favellare spagnuolo (pel commercio scambievole
sì delle due letterature sì delle due nazioni e insomma per le
cause medesime che introdussero tanto spagnuolo nell'italiano). Or queste voci
e frasi italiane stettero e in grandissima parte stanno ancora nello spagnuolo
così naturalmente che nulla hanno del forestiero per se, e per chi non
sappia che tali sono; e non parvero nè paiono (agli spagnuoli nè
agl'italiani nè agli altri) adottive (com'erano e sono) ma naturali,
secondo l'espressione dello Speroni in altro proposito (Diall. p.115.). [3731](Non
altrimenti che accadde e accade nell'italiano alle voci e frasi spagnuole
sì per rispetto a noi, sì agli spagnuoli sì agli altri).
Il che si applichi allo scopo del pensiero a cui il presente si riferisce.
(18. Ott. 1823.)
Alla p.3704. E se ne sa l'origine,
perocchè cretus è metatesi di certus (che ancor
rimane in aggettivo, ed anche in certo senso di participio, e come participio
ha prodotto il verbo certare di cui altrove ec.), contrazione di cernitus.
(19. Ott. 1823.)
Scambio tra il v e il g ec. Trève-tregua.
(19. Ott. 1823.)
Laxus, onde laxare, lassare,
lasciare, lasser ec. è un di quelli aggettivi, che come ho detto
nella mia teoria de' continuativi, mi sanno di participio di verbi ignoti, o
non noti come padri di tali aggettivi ec. e laxare mi sa pur di continuativo
per origine ec. V. Forc. ec.
(19. Ott. 1823.)
Alla p.3708, marg. Lavitum è
dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione
di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto [3732]scambio
tra il v e l'u è dimostrato piucchè mai chiaramente
da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti di lavo, in cui lavo
diventa luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e pienamente
quella ch'io ho supposta ne' perfetti in ui della seconda e massime
della prima. P.e. domui è da domavi nello stessissimo modo
che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v
in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit
per evitar l'iato, come a p.3706. Exuo
is ui utum. Ruo is ui utum contrazione di ruitum, che anche
esiste: prova delle mie asserzioni. V. Forc. in Ruo e composti. Fruor,
itus e ctus sum, ma fruitus è più usato, e
così fruiturus ec. Luo is ui luitum dimostrato da luiturus.
Anche si disse o scrisse luvi. V. Forc. in luo, verso il fine. Fluo
is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito e da fluitans.
Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec., Imbuo
ec. ui utum, co' loro composti, e così con quelli di Sino
ec. In tutti questi supino l'i è stato mangiato per evitar
l'iato, o come in docitum ec. Notisi che laddove l'u in tutti gli
altri tempi di questi verbi, compreso il perfetto, è sempre breve. V.
p.3735. (19. Ott. 1823.). Così i composti di fluo ec.
Lavito da lavare o da lavere.
(19. Ott. 1823.)
Alla p.3725. Queste osservazioni confermano
il mio discorso[177]
sull'antico vexus di veho [3733](fatto da me in proposito
di vexare). Ben è ragione che veho abbia vexum
poich'egli ha vexi, e poich'il supino corrisponde al perfetto. Viceversa
quel discorso conferma grandemente queste osservazioni. Le conferma flexus
da flexi, nexus da nexi, e gli altri quivi notati. Le conferma lo
stesso vectus, noto, certo e moderno participio di veho, nel qual
vectus, donde viene il c, che niente ha che fare con questo tema,
se non dal perfetto vecsi? Così dite di victus per vivitus
(vedi la p.3710.), dove il cq viene da vixi che sta pel
regolare vivi. Così in mille altri di questo genere. Fluo
ha fluxi; dunque fluxum; ed anche fluctum antichissimo (v.
Forc. in fluo fine), onde anche oggi fluctus us, fluctuare ec. (E
così appunto è vectus per vexus). Ma il suo
regolare perfetto sarebbe flui: or dunque egli ebbe pur fluitum dimostrato
da fluito e fluitans ec. Così per diversi perfetti,
diversi corrispondenti supini si troveranno, cred'io, in molti verbi. Ai
perfetti in xi corrisponde egualmente il supino in xum e [3734]quello
in ctum. L'uno e l'altro si troverà insieme in non pochi verbi
che abbiano il perfetto in xi (negli altri nol saprei ora dire). Forse o
da xi direttamente, o poscia da xum, si disse ctum per
accostarsi alla desinenza regolare de' supini che dovrebb'essere universalmente
in tum. Forse xum fu corruzione di ctum, o viceversa, e xum
fu il vero e primo supino de' verbi che fecero il perfetto in xi ec.
Insomma quale di questi due, xum e ctum, sia più antico,
non lo so. Forse ambo sono una cosa stessa (benchè non sempre si
conservino ambedue, o forse non sempre sieno stati messi in uso ambedue),
diversi solo per accidente di pronunzia ec. ec. Ciò si applichi al mio
discorso sopra vexus, avendosi già vectus ec. V. p.3745. Iubeo
ha iussi, anomalo per iubevi iubesi: dunque il suo supino
è iussum, e niun altro, benchè anomalo anch'esso.
Così infiniti: e la corrispondenza fra il perfetto e il supino, e la
formazione e dipendenza di questo da quello, almeno il più delle volte,
ancorchè quello sia anomalo, ancorchè moltiplice, ancorchè
forse talvolta perduto affatto, restando il supino, o perduto quel tal perfetto
restandone un altro o più d'uno, non corrispondente al supino o ai
supini ec. ec.;[178]
tal corrispondenza, dico, è evidente e fuor di controversia. (19. Ott.
1823.).
[3735]Alla p.3732. marg. -
(fuorchè ne' perfetti di luo ec. V. Forc. luo: fui
da fuo è breve), ne' supini in utum è sempre lungo
(dico l'u radicale), fuorchè ne' composti di ruo; dico ne'
composti, ma in ruo no. (V. Forc. in ruo fin. e in Ruta caesa).
Anche l'antico futum di fuo (per fuitum) dovette aver la
prima breve, come l'ha futurus che da esso viene, e che sta per fuiturus.
Vedi la pag.3742. Il che par che dimostri che quell'u radicale in utum
tien luogo di due vocali (ui); altrimenti non avrebbe alcuna ragione di
esser lungo quivi, e in tutto il resto del verbo, breve. E infatti se il supino
si conserva primitivo e non contratto, cioè desinente in uitus,
l'u è breve non men che l'i, come in ruitus (Aeg.
Parnas.) e in fluito, fluitans ec.
(20. Ott. 1823.)
Che fino ad ora sia stata poco bene
osservata la formazione costante de' continuativi e frequentativi da'
participii o supini, me lo persuade fra gli altri il vedere che Forcell. da fluctus
us ec. deduce l'inusitato supino fluctum di fluo (v. Fluo
fin.), ma dal verbo fluito (ch'e' pur chiama frequentativo di fluo)
non si avvisa punto di dedurne l'inusitato fluitum, che n'è
evidentemente dimostrato. Sebbene il medesimo non lascia in parecchi
continuativi o frequentivi di ammonire ch'e' son fatti dal supino de' rispettivi
verbi originali.
(20. Ott. 1823.)
[3736]Alla p.3734. fine. Per es. fusum
di fundo potrebbe mostrare un antico perfetto fusi. Fluitus di fluo
un antico perfetto flui che sarebbe il regolare e corrispondente agli
altri notati p.3706.3732. ec. E così, osservata la corrispondenza tra i
perfetti e i supini in latino, tanto ci possiamo servire de' perfetti noti a
dimostrare o congetturare i supini ignoti, (come abbiam fatto p.3733.) quanto
viceversa ec. (massime quando i supini noti sieno regolari ec. e i perfetti
noti nol sieno, o viceversa ec.). Anzi tanto meglio da' supini si conghiettureranno
i perfetti, quanto che quelli derivano da questi, ma non questi da quelli. Onde
dati i supini par necessario supporre i perfetti; ma non v'è tanta
necessità nel caso inverso. (20. Ott. 1823.).
Participii in us di verbi attivi o
neutri, in senso attivo intransitivo, o attivo transitivo, o neutro ec. Si
esaminino gli esempi d'Indutus e di Exutus nel Forc.
paragonandoli con quelli di Exuo, Induo, e anche coll'uso italiano
antico ed elegante moderno delle voci Spogliare, Vestire, Spogliato (o Spoglio),
Vestito ec.
(20. Ott. 1823.)
[3737]Altrove ho detto che non si
dà reminiscenza senza attenzione, e che dove non fu attenzione veruna,
di quello è impossibile che resti o torni ricordanza. L'attenzione
può esser maggiore o minore e secondo la memoria (naturale o acquisita)
della persona, e secondo la maggiore o minore durevolezza e vivacità
della ricordanza che ne segue. Può essere anche menoma, ma se una
ricordanza qualunque ha pur luogo, certo è che una qualunque attenzione
la precedette. Può essere eziandio che l'uomo non si avvegga, non creda,
non si ricordi di aver fatta attenzione alcuna a quella tal cosa ond'e' si
ricorda, ma in tal caso, che non è raro, e' s'inganna. Forse
l'attenzione non fu volontaria, fors'ella fu anche contro la volontà, ma
ella non fu perciò meno attenzione. Se quella tal cosa lo colpì,
lo fermò, anche momentaneamente, anche leggerissimamente, anche
decisamente contro sua voglia, ancorch'ei ne distogliesse subito l'animo;
ciò basta, l'attenzione vi fu, l'averlo colpito non è altro che
averlo fatto attendere, comunque pochissimo e per pochissimo, comunque obbligandovelo
mal grado suo.
(20. Ott. 1823.)
[3738]Alla p.3409. Similmente la lettura
di que' nostri classici (e son quasi tutti) che hanno arricchita la lingua col
derivar prudentemente vocaboli e modi dal latino, dal greco, dallo spagnuolo o
donde che sia, ci giova sommamente ad arricchirci nella lingua, non in quanto
noi con tale lettura apprendiamo que' vocaboli e modi come usati da quegli
scrittori, e perciò come usabili da noi ancora, per esser quegli
scrittori, autentici in fatto di lingua; chè questa sarebbe maniera di
utilità pedantesca, e nel vero se quei vocaboli e modi riuscissero
nell'italiano latinismi e spagnolismi ec. non dovremmo imitar quelli che gli
usarono, benchè classici ed autentici scrittori, nè
l'autorità loro ci gioverebbe presso i sani, quando noi volessimo usar
di nuovo quelle voci e quei modi. Ma detta lettura ci giova in quanto ella ci
ammonisce per l'esperienza presente che ne veggiamo negli scrittori, la lingua
italiana esser capacissima di quelle voci e maniere; perocchè noi
veggiamo sotto gli occhi, che sebben forestiere di origine, elle [3739]stanno
in quelle scritture come native del nostro suolo, ed hanno un abito tale che
non si distinguono dalle italiane native di fatto, e vi riescono come proprie
della lingua, e così sono italiane di potenza, come l'altre lo sono di
fatto, onde il renderle italiane di fatto non dipende che da chi voglia e sappia
usarle; e per esperienza veggiamo che quegli scrittori, trasportandole
nell'italiano, le hanno benissimo potute rendere, e le hanno effettivamente
rese, italiane di fatto, come lo erano in potenza, e come lo sono l'altre italiane
natie. Or questo medesimo è quello che nello studio delle lingue altrui
dee fare in noi, in luogo dell'esperienza, l'ingegno e il giudizio nostro;
cioè mostrarci, non per prova, come fanno gli scrittori nostri classici,
ma per discernimento e forza di penetrazione, e finezza e giustezza di
sentimento, benchè sprovveduto di prova pratica, che tali e tali vocaboli
e modi sono italianissimi per potenza, onde a noi sta il renderli tali di
fatto, sieno o non sieno ancora stati resi tali dall'uso, o da parlatore, o da
scrittore veruno; chè ciò a' soli pedanti dee far differenza, e
soli [3740]essi ponno disdire o riprendere che tali voci e forme
(greche, latine, spagnuole, francesi, o anche tedesche ed arabe ed indiane d'origine,
di nascita e di fatto) italianissime per potenza, si rendano italiane di fatto,
senza l'esempio di scrittori d'autorità; siccome essi soli ponno
concedere e lodare che mille e mille vocaboli e modi niente italiani per
potenza, (qualunque sia la loro origine), pur si usino, perchè usati da
scrittori classici che infelicemente li derivarono d'altronde, o dalle italiane
voci e maniere, o li inventarono. Questi mai non furono nè saranno
veramente italiani di fatto (se non quando l'uso e l'assuefazione appoco appoco
li rendesse tali ancor per potenza); quelli per solo accidente sono nati in
Francia o in Ispagna o in Grecia ec. piuttosto che in Italia, ma per propria
loro natura non sono manco italiani che spagnuoli ec. nè manco italiani
di quelli che nacquero in Italia (e di quelli che dall'Italia altrove
passarono), e forse talora ancor più di alcuni di questi, che per solo
accidente nacquero tra noi. Siccome per solo accidente e contro la lor natura
vennero tra noi que' vocaboli [3741]e modi che nell'italiano son
latinismi o francesismi ec., o che i classici scrittori, o che i mediocri, o
che i cattivi, o che la corrotta favella gli abbia introdotti e usati,
chè queste differenze altresì sono affatto accidentali, e nulle
per la ragione.
(20. Ott. 1823.)
Della bassa opinione in cui fino nel 500 era
tenuta la lingua italiana (detta allora, quasi per disprezzo, volgare) e la sua
capacità e nobiltà e degnità ed efficacia e ricchezza e
potenza e possibilità di crescere ec. e il suo stato d'allora (ch'era
pur certo assai più potente ed efficace e forte ed espressivo e ricco e
nobile e capace ed idoneo, che non fu prima nè poscia e non è
oggi, dopo sì lungo tempo e tanto accrescimento del numero e
varietà degli scrittori che la trattarono, e delle materie che vi si
trattarono, e delle idee che vi furono e sono, tuttodì in maggior copia
e varietà, significate, non solo rispetto a letteratura, ma a filosofia
e politica, e maneggi e trattati civili, e storie, ed arti e scienze d'ogni
maniera; onde questa lingua in quel tempo fu meno stimata in ch'ella più
valse per ogni verso che in qualsivoglia altra età e ch'ella sia forse
mai per valere), vedi il Dialogo delle Lingue dello Speroni, tutto, ma
particolarmente dal principio del Discorso tra il Lascari e il Peretto, sino al
fine del Dialogo.
(20. Ott. 1823.)
[3742] Mutolo, quasi mutulus,
per muto; diminutivo positivato, restando anche il positivo. Quindi ammutolire
ec. per ammutire ec. che pur si ha.
(20. Ott. 1823.)
Il supino futum dell'antico fuo,
onde futare ec. come altrove, è dimostrato eziandio chiaramente
dal participio futurus. Sicchè non si dubiti che futare non
venisse da futum supino di fuo come tutti gli altri continuativi
benchè oggi non si trovi supino alcuno del difettivo fum, di cui
il difettivo fuo è ausiliare o suppletorio ec. ma non già
il medesimo in origine ec.
(21. Ott. 1823.)
Altrove ho detto che l'antico participio di sum,
desinenza attiva, vi fu, e non fu ens ma sens. Non si creda che potens
possa provare il contrario. Questa voce anch'essa contiene il detto participio,
ma detrattane la s, come l'f in potui ec. ch'è
fatto da potis o pote e fui nientemeno che possum
da potis e sum, e potens da potis e sens.
Del resto è ben vero che, come possum non potum,
così si avrebbe avuto a dire possens anzi che potens.
[3743]Or che diremo che in tutte
tre le lingue figlie si conserva quella verissima pronunzia e forma di potens?
Noi diciamo potente e possente, ma questo è più
proprio antico, perchè ora non sarebbe della prosa (se non in qualche
caso ec.) bensì del verso. E questa antichità fa tanto meglio al
caso nostro. Simile si dica di possanza e potenza, possentemente,
onnipossente ec. E notisi che non è per niente il costume della
lingua o pronunzia di veruna parte d'Italia il mutare in due ss il t,
sia nelle parole italiane, sia da principio nella formazione di nostra lingua,
rispetto alle voci latine ec. Insomma mai in nessun tempo noi non avemmo quest'uso,
e però bisogna riferire in questo caso la detta mutazione da potens
a possente, ad altra cagione, perch'ella non è delle solite, anzi
affatto insolita ec. Qual cagione dunque? Ch'ella non è mutazione ma
vera pronunzia antica latina, anteriore ancora a quella di potens.
Perocch'ella è più regolare, e ci fu trasmessa dal volgo, il
quale certo non la usò per parlar più regolare delle [3744]persone
colte, nè per correggere la falsa pronunzia de' più antichi, ma
anzi per conservar l'uso più antico. I francesi hanno solamente puissant
cioè possens, e non potens. Così puissance
cioè possentia solamente, e non potentia; tout-puissant,
puissamment ec. Gli spagnuoli non hanno il participio di posse,[179]
nè in senso di aggettivo, come i francesi e noi, nè in quello di
participio, come noi talvolta (esser potente di fare una cosa ec.
Speroni spesso), ma hanno pujanza cioè possentia, mutati i
due ss nell'aspirata, come è loro ordinario. Nè i francesi
nè gli spagnuoli sono punto soliti di mutare il t in due ss
o nell'aspirata ec. come ho detto degl'italiani.
Del resto anche potens serve a
mostrar l'esistenza antica del participio attivo di sum ec.
(21. Ott. 1823.)
Il v non è che aspirazione
nell'antico latino ec.: sta in vece dello spirito nelle parole tolte dal greco,
e non pur dell'aspro ma del lene ec. come nella mia teoria de' continuativi Paphlagonia
insignis Roco HENETO, a quo, ut Cornelius [3745] Nepos perhibet,
Paphlagones in Italiam transvecti, mox VENETI sunt nominati. Solin. c.44.
ed. Salmas. 46. al., Plin. l.6. c.2. V.
Menag. ad Laert. II. segm.113, e notate che ivi il greco è
sempre collo spirito lene, benchè nell'addotto luogo si scriva Heneto.
V. anche Cellar. ec. Del resto quelle mie osservazioni potrebbero confermare
questa etimologia e questa storia. (21. Ott. 1823.). V. Forc. in Veneti e
in Velia.
Alla p.3734. marg. Qua spetta futum e
fusum da fundo, confutum e confusum, ec. come altrove in
proposito di confuto; e conferma queste osservazioni, e da queste
può esser confermata notabilmente la derivazione di confuto da fundo
o confundo e l'esistenza di un antico confutum o futum ec.
di che altrove in più luoghi.
(21. Ott. 1823.)
Il piacere è sempre passato o futuro,
e non mai presente, nel modo stesso che la felicità è sempre
altrui e non mai di nessuno, o sempre condizionata e non mai assoluta: e
così è impossibile che altri dica con pieno sentimento di vero [3746]dire,
e con piena sincerità e persuasione, io provo un piacere,
ancorchè menomo, quantunque tutti dicono io n'ho provato e
proverò; quanto è impossibile che alcun dica di cuore io
son felice, o Beato me, quando però tutti dicono beato il
tale o il tal altro, e io sarei felice se mi trovassi tale o
tale, e beato me se ottenessi tale o tal cosa, e se fosse questo
o questo. E le cagioni per cui sono impossibili parimente le due cose
sopraddette, sono appresso a poco le stesse. E come il non esser niuno che dica
me beato, dimostra che tutti s'ingannano quelli che dicono beato te
o lui, e io sarei beato in tale o tal caso (e tutti gli
uomini così parlano e parleranno sempre e di cuore); così il non
esser chi dica di vero animo io provo piacere presentemente, dimostra
che niuno provò nè proverà mai piacere alcuno,
benchè tutti si pensino e moltissimi affermino con sentimento di
verità, di averne provato e di averne a provare.
(21. Ott. 1823.)
[3747]Come la lingua francese
illustre è dominata, determinata e regolata quasi interamente dall'uso,
e certo più che alcun'altra lingua illustre, così,
perocchè l'uso è variabilissimo e inesattissimo, essa lingua
illustre non solo non può esser costante, nè molto durare in uno
essere, come ho notato altrove, ma veggiamo eziandio che la proprietà
delle parole in essa lingua è trascurata più che nell'altre
illustri, e trascurata per regola, cioè presso gli ottimi scrittori costantemente,
non meno che nel parlare ordinario. Voglio dir che gli usi di moltissime parole
e modi ec. anche presso gli ottimi scrittori, sono più lontani
dall'etimologia e dall'origine e dal valor proprio d'esse parole ec. meno
corrispondenti ec. che non sogliono esser gli usi de' vocaboli nell'altre
lingue illustri presso, non pur gli ottimi, ma i buoni scrittori, e in maggior
numero di voci ec. che nelle altre lingue illustri non sono. Che vuol dir
ch'essi usi e significati sono più corrotti ec. E non potrebb'essere
altrimenti perchè l'uso corrente cotidiano e volgare e generalmente la
lingua parlata, anche dai colti, (che è quella cui segue il francese
scritto) corrompe ed altera ogni cosa e non mai non cessa di rimutare e
logorare ec. P.e. per dire il materiale e lo spirituale, o il sensibile e
l'intellettuale, i francesi dicono il fisico e il morale. (le physique et le moral, le physique et le moral de l'homme, le monde
physique et le [3748]monde moral etc.). Qual cosa più impropria
di queste significazioni, o che si considerino in se stesse o nella loro
scambievole opposizione e in rispetto l'una all'altra? Fisico propriamente
significa forse materiale o sensibile? E il fisico, che
vuol dir naturale, è forse l'opposto dello spirituale o intelligibile?
Quasi che questo ancora non fosse naturale, ma fuori della natura, e vi potesse
pur esser cosa non naturale e fuori della natura, che tutto abbraccia e
comprende, secondo il valor di questa parola e di questa idea, e che si compone
di tutto ch'esiste o può esistere, o può immaginarsi ec. E il morale
com'è l'opposto del naturale? Sia che riguardiamo la propria
significazione di morale sia la francese. E che hanno che far l'idee,
l'intelletto, lo spirito umano, gli altri spiriti, il mondo e le cose astratte
ec. coi costumi, ai quali soli propriamente appartiene la voce morale? e
gli appartiene pure anche in francese, e anche nel parlare e scriver francese
ordinario (la morale, moralité, etc.). Così dite degli avverbi physiquement
o moralement ec.
[3749]Di tali esempi se ne
potrebbero addurre infiniti.
La lingua latina illustre fu, non solo tra
le antiche, ma forse fra tutte, la più separata e diversa, e la meno
influita e dominata dalla volgare. Parlo della lingua latina illustre prosaica
(ch'è poco dissimile dalla poetica) rispetto all'altre pur prosaiche
perchè p.e. la lingua poetica greca fu certo (almen dopo Omero ec.) anche
più divisa ec. dalla greca volgare. Ma ciò come poetica, non come
illustre, e qualunque linguaggio appo qualunque nazione è veramente poetico
e proprio della poesia, di necessità e per natura sua è
distintissimo dal volgare; chè tanto è quasi a dir linguaggio
proprio poetico, quanto linguaggio diverso assai dal volgare. S'egli ha ad
esser assai diverso dal prosaico illustre, molto più dal volgare. Fra le
lingue illustri moderne, la più separata e meno dominata dall'uso
è, cred'io, l'italiana, massime oggi, perchè l'Italia ha men
società d'ogni altra colta nazione, e perchè la letteratura fra
noi è molto più esclusivamente che altrove, propria de'
letterati, e perchè l'Italia non ha lingua illustre moderna ec. Per
tutte queste ragioni la [3750]lingua italiana illustre è forse di
tutte le moderne quella che meglio e più generalmente osserva e conserva
la proprietà delle voci e modi. Ciò presso i buoni scrittori,
cioè quelli che ben posseggono e trattano la lingua illustre, i quali
oggi son men che pochissimi, e quelli che scrivono la lingua illustre, i quali
oggi sono in minor numero di quelli che non la scrivano, o il fanno più
di rado che non iscrivono la volgare. Perocchè oggi la lingua più
comunemente scritta e intesa in Italia nelle scritture, non è l'illustre
ma la barbara e corrotta volgare; e però ella non conserva punto la
proprietà delle parole ec. ma sommamente se n'allontana, come fa la
volgare. E p.e. quel fisico e morale, fisicamente e moralmente
ec. nel senso francese, è oggi del volgare italiano, e dello scritto non
illustre, non men ch'e' sia dell'illustre e del volgare francese ec. Ma presso
i nostri buoni scrittori di qualunque secolo (non che gli ottimi), si
vedrà forse più che in niun'altra lingua illustre moderna, [3751]osservata
e conservata la proprietà delle parole e dei modi ec. Cioè l'uso
loro esser totalmente e sempre, o quasi totalmente e quasi sempre, o più
e più spesso che nell'altre lingue illustri, e in assai maggior numero
di parole e modi ec., conforme al significato ch'essi ebbero da principio nella
lingua e ne' primitivi scrittori italiani, ed anche alla loro nota etimologia,
ed al senso ed uso ch'essi ebbero nella lingua onde alla nostra derivarono,
cioè massimamente nella latina, madre della nostra. Certo la proprietà
latina nell'uso e significato delle parole e dei modi, (siccome la forma, lo spirito
ec. della latinità, della dicitura latina, il modo dell'orazione in
genere, del compor le parole, dell'esporre e ordinar le sentenze, dello stile
ec. ec. E quanto a queste cose, anche in ordine alla lingua greca l'italiano
illustre è la lingua più simile ch'esista ec. ec.) è molto
meglio e in assai maggior parte conservata nell'italiano veramente illustre,
per insino al dì d'oggi, che in alcun'altra lingua; e forse più
nell'italiano illustre degli ultimi nostri buoni scrittori, che nel linguaggio
de' più antichi e migliori scrittori francesi, spagnuoli ec.
(21. Ott. 1823.)
Diminutivi positivati. Novello, nouveau,
Novella, rinnovellare ec. ec. V. il Forc. in Novellus (quasi iuvenculus)
e i derivati sopra e sotto la detta voce: gli spagnuoli ec.
(22. Ott. 1823.)
[3752]Alla p.3685. Ho detto il
genitivo ec. Tutti i nomi o verbi o avverbi ec. latini che son fatti
immediatamente da qualche nome, son fatti dal genitivo o da' casi obliqui di
questo nome, non mai dal nominativo (nè dal vocativo s'egli è
conforme al nominativo, nè dall'accusativo come da manum onde
sarebbe manalis non manualis, da tempus accusativo onde
sarebbe tempalis non temporalis ec. ec. Tempestas però
par che venga da tempus accusativo o nominativo). Ciò in moltissimi
casi (come in dominor da dominus i ec.) non si può
conoscere nè distinguere, ma in moltissimi sì. Miles itis -
milito, militia, militaris ec. nomen inis - nomino ec.[180] salus
utis - saluto ec. Imago inis - imagino ec. Virgo inis - virgineus
ec. Magister istri - magistratus ec. Sempre che si può
distinguere, troverete che così è. (V. la p.3006. marg.) Eccezione.
Propago inis - propagare in vece di propaginare (che noi
però abbiamo altresì, e l'ha anche Tertull. V. Forc. e il Gloss.
ec.), se però propagare non è piuttosto fatto da propages
is, o se propago non viene anzi da propagare (il che mi
è molto verisimile, se l'etimologia è da pango, come il
Forcell. in propago inis. Allora propago as per propango is
apparterrebbe a quella categoria di verbi di cui p.2813. sqq. e nelle ivi
richiamate ec. [3753]E in esse pagg. si vedrebbero gli esempi e
l'analogia e la ragione per cui pango in propago as o in propago
inis abbia perduta la n, e perchè mutata coniugazione ec. che
altrimente non son cose facili a dirsi. E certo l'osservazione fatta qui dietro,
persuade che propagare non debba venir da propago inis:
bensì propaginare). E s'altre tali eccezioni si trovano; ma
saranno ben poche, s'io non m'inganno.[181]
Eccettuo ancora quei derivati che piuttosto sono inflessioni ec. de' rispettivi
nomi, che altri nomi fatti da questi, come lapillus, (se questa e simili
non sono contrazioni, v. p.3901) vetusculus dal nominativo di vetus
eris ec. Ma questo diminutivo è di Sidonio. Gli antichi vetulus.
Nigellus potrebb'esser da nigeri non da niger, come puellus
da pueri non da puer. V. p.3909.; nigellus ch'è dal
nominativo di niger, e altri tali diminutivi ec. Se già gli
antichi non dissero magister isteri, niger eri ec. (22. Ott. 1823.). E
così tengo per fermo; ond'è magisterium, ministerium ec.
per magistrium, piuttosto dall'obliquo magìsteri,
magìstero ec. poi contratti, che da magistrium, ministrium
per epentesi della e. Infatti gli antichi dissero magisterare, ma
i più moderni magistrare, onde magistratus us ec., come ministrare
[3754]ec. Insomma queste non mi paiono eccezioni, perchè si
riducono alla regola coll'osservare il modo dell'antichità e lo stato
primitivo delle voci, mutato poscia, e così si potranno risolvere
mill'altre tali eccezioni apparenti. In ogni modo il più delle volte
è vero che i derivati de' nomi vengono da' casi obliqui, come ho detto,
di qualunque declinazione sieno i nomi originali, come si è mostro cogli
esempi, e non solamente se essi nomi son della quarta, chè allora si
potrebbe negare quello che noi affermiamo dei derivati di questi, cioè
che vengano da' casi obbliqui e fra questi derivati da' casi obliqui sono
certamente quelli fatti da' nomi della quarta e notati da noi ec. Il che basta
al caso nostro.
(22. Ott. 1823.)
Alla p.3728. Quest'uso latino di mutare alle
volte il primo n in g, quando concorrerebbero due n, uso
che si vede in agnatus, cognatus, cognosco, ignosco, ignotus, ignobilis,
ignarus, ignavus ec. per annatus, connatus, (che anche si trova), connosco,
innosco, innotus (v. Forc.), innobilis, innarus, innavus (che
sarebbero come innocens, innumerus, innobilitatus) ec. ec.[182]
(p.3695.) corrisponde all'uso della pronunzia spagnuola che suol mutare in gn
il doppio n delle parole latine o qualunque (come año,
caña per canna ec.), e che generalmente [3755]rappresenta
il suo gn col carattere ñ che è il segno di un
doppio n. (Se però i latini pronunziavano ig-navus ec.
come a p.2657., l'uso spagnuolo di dir agno per annus ec. non ha
che far niente col lat. ig-navus per innavus. Tuttavia può
pur avervi che fare, in quanto anche appo gli spagnuoli quell'año
ha sempre una pronunzia di g).
Del resto non solo nel concorso delle due n,
ma anche fuor di questo caso, i latini usavano di preporre o frapporre avanti
la n il g. Come in prognatus per pronatus (che
anche si trova), adgnascor per adnascor, adgnatus per adnatus
ec. (i quali perciò dimostrano un semplice gnascor), e in gnarus,
gnavus, gnavo, gnosco, gnobilis ec. (sicchè forse ignarus ec.
non sono per innarus ec. ma più probabilmente per i-gnarus,
i-gnavus ec. cioè per ingnavus, ingnarus ec.). Onde resta
fermo quel ch'io [ho] detto p.3695. che i latini usavano, come gli Eoli, il g
veramente protatico (perchè anche in pro-gnatus per pro-natus,
in i-gnobilis per in-nobilis ec. ei viene a esser protatico.). E
quest'uso ancora [3756]avrebbe qualche corrispondenza coll'uso spagnuolo
di mutare alle volte, se non erro, anche l'n semplice delle voci latine
ec. in ñ.
(22. Ott. 1823.)
Prolicio, prolecto as ec.
Aggiungansi alle cose dette nella mia teoria de' continuativi (sul principio)
circa i verbi allicio, allecto ec.
(22. Ott. 1823.)
Verbo diminutivo in senso positivo. Nidulor
per nidor aris (che non esiste) da nidulus per nidus. Noi
abbiamo annidare ec.
(22. Ott. 1823.)
Alla p.3706. Senza fallo il nostro verbo fu noo
is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po,
da , il quale
dovette essere poo pois povi potum secondo le ragioni che or si
diranno). 1. Da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi
la p.3709. fine- 10. principio. 2. No non avrebbe fatto nel preterito novi
ma ni (o per duplicazione neni), come suo sui, luo lui ec.
Noo bensì doveva far noi, come suo sui ec. (p.3731.
seg.3706. marg.), poi per evitar l'iato fece novi, come amai amavi,
docei docevi, [3757] lui luvi ec. (p.3706.3732. V. Forc. in luo
verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nitum.[183]
Nè questo si sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni
in novi. Bensì noi in novi nel modo detto; e in notum
il regolare noitum di noo (p.3708. marg.3731-2. 3735.). Anche Nomen,
agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo
non no (onde sarebbe nimen, come da rego, regimen ec.);
secondo, noo da cui esso viene, non da nosco, checchè dica
il Forc. in nomen, princip. e quivi Festo ec. 4. Nobilis non potrebbe
venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis
nel buon latino non si fanno se non da supino in tum (o partic. in tus),
e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. V. p.3825.
Bensì tali supini (o participii) non sono sempre noti, ma dato il
verbale in bilis, e' si possono conoscere mediante l'analogia e la
cognizione dell'antichità e della regola della lingua latina, le quali
anche da se li possono mostrare, e il verbale in bilis li conferma,
sempre ch'egli esista. P.e. Docibilis è da doci-tum.
Questo supino già lo conoscevamo per altra via, benchè inusitato,
cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis
da marcescitus inusitato. Già abbiam detto e sostenuto che il
proprio participio [3758] o supino de' verbi in sco era in scitus.
Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o
non gli s'attribuisce supino alcuno) dimostrato da immarcescibilis. Solu-tum, volu-tum, solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, habilis ec. sono
dai regolari, veri ed interi, benchè inusitati supini, labitum,
nubitum, (habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non
è il primitivo) ec., secondo la regola, fuor solamente ch'e' son
contratti da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di pronunzia accelerata
o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec.[184] Or
dunque da no nitum avremmo nibilis. Nobilis non può essere
che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gnotum, ignobilis
da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis.
Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum
lo è di noitum. Vedi la pag.3832. fine.
Secondo queste osservazioni, nobilis,
gnobilis, ignobilis confermano l'esistenza di un verbo originario di nosco,
al quale è chiaro ch'essi hanno attinenza; ma se venissero da nosco
farebbero noscibilis ec. da noscitum, ed anche il Forc. che certo
non aveva osservata la formazione de' verbali in bilis da' supini in tum,
pur vide che nobilis era quasi noscibilis (vedilo in [3759]
nobilis princip. dove ha vari spropositi, secondo le nostre osservazioni).
Nè da noscibilis sarebbe stata punto naturale nè latina la
contrazione in nobilis ignobilis ec. V. ignoscibilis, antica voce,
nel Forc. la quale conferma il supino noscitum, secondo le presenti
osservazioni, e che da nosco si sarebbe fatto noscibilis, non nobilis,
come anche da marcesco immarcescibilis, non immarcibilis ec. V.
anche nel Forc. noscibilis, agnoscibilis ec. irascibilis. Del resto
nobilis, gnobilis ec. sono voci antichissime, onde ben poterono venire
dall'antichissimo e poscia inusitato noo.
Possibilis (e impossibilis,
possibilitas ec.) dimostra possitus, e quindi il participio o supino
situm di sum, confermando il detto da noi in proposito di sto,
come potens dimostra il participio sens (pag.3742-4.).
Del resto noo, poo e simili
andarono presto in disuso probabilmente per il cattivo suono di quel doppio o
l'un dietro l'altro, onde si preferì l'uso de' verbi lor derivati, i
quali restarono, e quasi o senza quasi nel senso degli originarii (massime nosco
e composti ec.), o anche [3760]in esso senso ec. Nosco
però non restò tutto, nè noo perì tutto, ma
ne restò novi e notum ec. insomma una gran parte (dove non
aveva luogo, o n'era stato scacciato, il cattivo suono), la quale supplì
ai mancamenti e perdite sofferte dal derivato ec. Così di poo
restò potus, epotus, potum, poturus ec. anche più usati di
potatus ec., e potus sum ec.
(22. Ott. 1823.). V. p.3850.
Niente d'assoluto. Qual cosa par più
assoluta e generale, almen fra gli uomini, di quello che la corruzione sia
nauseosa? Or le sorbe e le nespole, perocchè nello stato che per loro
è vera maturità e perfezione, per noi non son buone a mangiare;
bensì nello stato che per loro è vera, non pur vecchiezza, ma
morte e corruzione; perciò mezze e corrotte si mangiano. - Lo schifoso
è interamente relativo. La lumaca non fa schifo a se stessa. Non
è schifoso a noi quello che in noi, o da noi uscito o prodotto ec.
è schifoso agli altri. Il porco si diletta di ravvolgersi nel fango e
lordure ec. E quanti uomini trattano e amano, e mangiano e gustano ec. [3761]cose
che agli altri (a tutti o a più o ad alcuni, nella stessa nazione o in diverse)
riescono schifosissime. - La sorba, la nespola, secondo noi, è perfetta
quando è corrotta, misurando noi la perfezione di queste, come
d'infinite altre cose, dall'uso nostro ec. Ma chi non vede che questa
perfezione è al tutto relativa? e relativa a noi soli, anzi al solo uso
del nostro palato e stomaco, ed in quanto la sorba è atta a divenirci
una volta cibo, cosa a lei affatto accidentale ed estrinseca? E che la sorba
non ne è perciò meno corrotta e degenerata? nè, per se
stessa e per sua natura, meno perfetta allor quando ec. e non in altro tempo
ec.
(23. Ott. 1823.)
Si può applicare all'uomo in generale
avendo riguardo alle illusioni e al modo in che la natura ha supplito coi
felici errori ec. alla felicità reale, anzi può applicarsi ad
ogni genere di viventi, quel verso del Tasso (Gerus. I. 3.) E da l'inganno
suo vita riceve.
(23. Ott. 1823.)
Forte, fortemente, fort, force ec. per
molto, molti ec. . Vedi lo
Scapula, e Arriano nell'Indica e nella Spediz. d'Alessandro ec. E nótisi che per valde
mostra d'essere antichissimo, ond'egli è poetico piucch'altro ec. V. Forcell. Gloss. Diz. franc. spagn. ital. Anche i latini vehementer, vehemens
ec. E valde è contrazione di valide ec. Onde nelle lingue
moderne dicendo fortemente per valde si conserva la etimologia di
questa parola ec.
(23. Ott. 1823.)
A quello che altrove[185] ho
detto di dompter da domitare, aggiungi promtus e promptus,
promsi e prompsi, [3762] promtum e promptum, demsi
e dempsi, demtum e demptum, temptare per tentare (v.
Forcell. e il Cod. Cic. de republ. col Conspectus Orthograph. del Niebuhr), comsi
e compsi, comptum e comtum, comptus e comtus, compte e comte,
ec. ec. V. Forcell. I francesi scrivono anche domter domtable ec. e
forse oggi più frequentemente. Il Richelet non ha che domter,
l'Alberti che dompter. Vedi il Richelet in Compte, compter ec.
che scrivevasi ancora, com'egli dice, comter, comte ec. Notisi peraltro
che compter ec. viene da computare, sicchè il p vi
è naturale e non ascitizio come in dompter ec. Infatti oggi i francesi,
i quali scrivono Comte (da comes itis), comtat ec.
scrivono sempre, ch'io sappia, compte da computus, compter ec.
(23. Ott. 1823.)
A proposito di sylva da , del che altrove. Sulla
e Sylla, Symmachus e nel Cod. Ambros. delle Orazioni Summachus costantemente.
V. Forcell. ec.
(23. Ott. 1823.)
Chi vorrà credere che apto ed (de'
quali altrove) essendo gli stessissimi materialmente, e significando propriamente
la stessissima cosa, non abbiano a far nulla tra loro per origine ec.
converrà supporre un'assoluta casualità che troverà pochi
fautori ec.
(23. Ott. 1823.)
Alla p.2657. marg. E se in Italia, in che
parte, (avendo noi tanti e sì diversi dialetti), come ne' paesi ove la
pronunzia tien più dello straniero, ne' paesi di confine, nel Piemonte
(ove forse è probabile che sia stato scritto il [3763]Cod. de
rep. e così di Frontone ec.) nell'alta Lombardia e Venezia, o
generalmente nella Lombardia o nel Veneziano. E se nel cuor d'Italia, ed anche
in Roma, a che tempo, come ne' vari tempi che vi furono più stranieri, e
più influenti ec. E finalmente da chi, se da italiani o stranieri, e
italiani di che parte d'Italia, e di buona pronunzia o cattiva, e periti
dell'ortografia o no, e vissuti fra gli stranieri o no ec. ec. (23. Ott.
1823.). Puoi vedere la p.3754.
Alla p.3692. Aggiungasi che scivi scitum
di scisco, e de' suoi composti (ascitum, conscitum, plebiscitum)
ec. hanno tutti l'i lungo. Or la desinenza in itum è affatto
improprissima de' verbi della terza. (Lascio quella in ivi, che
n'è parimente impropria, ma altresì quella in ivi il
sarebbe). Che segno è questo, se non che scitum grammaticalmente
non è di scisco, ma di scio, di cui, come verbo della 4.
è propria e debita peculiarmente la desinenza del supino in itum?
Così dicasi di qualunqu'altro verbo in sco che sia fatto da un
verbo della quarta, noto o ignoto: che se tal verbo in sco ha supino, o
se gli si attribuisce, esso è certamente in itum, e però
è certamente tolto in prestito dal suo verbo originale, il quale, se non
esiste, da ciò n'è dimostrato ec. E può vedersi la p.3707.
fine 08. principio.
(23. Ott. 1823.)
[3764]Necessità di nuove o
forestiere voci, volendo trattar nuove o forestiere discipline.
Impossibilità e danno del mutare i termini ricevuti in una disciplina
che da' forestieri sia stata trovata, o principalmente coltivata, o trasmessaci
ec. di sostituire cioè altri termini a quelli con che i forestieri che
ce la tramettono, sono usi di trattare quella disciplina, quando bene fosse
facile alla nostra lingua il trovar termini suoi, novi o vecchi, da sostituir
loro, anzi quando ella già ne avesse degli altri (sian termini sian
vocaboli) con quel medesimo significato ec. V. Speroni Dial. della Retorica,
ne' suoi Diall. Venez. 1596. p.139. a dieci pagg. dal principio, e 23. dal fine.
(23. Ott. 1823.)
Gli spettacoli gladiatorii, così
sanguinarii ec. appartengono a quel diletto delle sensazioni vive, di cui dico
in tanti luoghi. (23. Ott. 1823.). Così le cacce di tori ec. ec.
Disperser da dispergo-dispersus.
(24. Ott. 1823.)
Ai verbi diminutivi o frequentativi italiani
da me altrove raccolti, aggiungi per esempio di quelli in olare, crepolare
da crepare, screpolare ec.
(24. Ott. 1823.)
Quaero is, quaesitum e itus.
Perchè dunque da queror, questus, ch'è verbo differente
sol d'una lettera nella scrittura, e di nulla nella pronunzia? E da quaesitum
e quaesitus che pur restano e son fuori di controversia, [3765]e
non si potrebber dire altrimenti, abbiamo quaestus us e quaestor ec. ec.
L'uso dunque delle contrazioni de' supini che altrove in tanti luoghi io
suppongo, è evidente; perocchè qui restando il supino e il
participio intero, le voci quindi formate sono, le più, contratte al
modo appunto degli altri supini e participi ec. i quali molte volte per lo
contrario son dimostrati da voci derivate o affini ec. non contratte. Come qui
vale l'argomento da quaesitum a quaestus us ec. così
dovrà valere ne' casi contrarii ec.
(24. Ott. 1823.)
Alla p.3557. principio. L'aspetto della
debolezza riesce piacevole e amabile principalmente ai forti, sia della stessa
specie sia di diversa. (forse per quella inclinazione che la natura ha messa,
come si dice, ne' contrarii verso i contrarii). Quindi la debolezza in una donna
riesce più amabile all'uomo che all'altre donne, in un fanciullo
più amabile agli adulti che agli altri fanciulli. E la donna è
più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel rispetto della debolezza
ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non
solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli
riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto altronde amabile
ec. Ed anche per questa causa i militari, e le [3766]nazioni militari
generalmente sono più portate verso le donne, o verso ec. (V. Aristot. Polit. 2. Flor. 1576. p.142.). Le cose
dette della debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto
della timidità in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima
non disconvenga. Piace p.e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai
forti o assolutamente o per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più
coraggiosi, e questo ancora si riferisca a quel che ho detto de' militari. Il
veder che uno teme e ha ragion di temere, e ch'e' non si può difendere,
è cosa amabile, e induce i forti e i coraggiosi, o della stessa specie o
di diversa, a risparmiare quei tali oggetti; quando non v'abbia altra causa che
operi il contrario, come nel lupo verso la pecora ec. Cause indipendenti dalla
timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in parte, deriva che gl'individui
e le nazioni forti e coraggiose sogliono naturalmente essere le più
benigne; e in contrario è stato osservato che gl'individui e i popoli
più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso i viventi
più deboli di loro, verso i loro stessi individui più deboli ec.
Ed [3767]è proposizione costante e generale che la
timidità la codardia e la debolezza amano molto di accompagnarsi colla
crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de' costumi e delle
azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè sommamente
egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi).
Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli altri animali. E
con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si attribuisce al
leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi
ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec.
non lo spinga ad opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso,
o quando la natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo,
chè allora sarà ben difficile ch'ei se ne astenga, o se ne
astenga p. altro che per sazietà. Si applichino queste osservazioni a
quelle da me fatte circa la compassionevolezza naturale ai forti, e la naturale
immisericordia e durezza dei deboli ec. e viceversa quelle a queste (p.3271.
segg.). Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne [3768]divenute
potenti in qualunque modo, sono state e sono generalmente come più furbe
e triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro
nemici, o generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero
stati o sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed
è ben noto che i Principi più deboli e vili sono sempre stati i
più crudeli proporzionatamente alle varie qualità ed al vario
spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e alle varie circostanze in cui
si sono rispettivamente trovati o trovansi, e secondo le varie epoche e vicende
della vita di ciascheduno ec.
(24. Ott. 1823.)
Alla p.3616. fine. Un'altra osservazione
confermante il mio parere, che l'Iliade se cede agli altri poemi in qualche
cosa, ciò possa essere ne' dettagli, ma tutti li vinca nell'insieme, e
nella tessitura medesima e disposizione e condotta, non che nell'invenzione (al
contrario del comun giudizio), si è che nell'Iliade l'interesse cresce
sempre di mano in mano, sin che nell'ultimo arriva al più alto punto. Laddove
nella Gerusalemme egli [3769]è, si può dire, onninamente
stazionario; nell'Eneide assolutamente retrogrado dal settimo libro in poi, e
così nell'Odissea: errore e difetto sommo ed essenzialissimo e contrario
ad ogni arte. Nella Lusiade nol saprei ora dire, nè nella Enriade, dove
però l'interesse non può essere nè stazionario nè
retrogrado nè crescente, essendo affatto nullo, almeno per tutti gli
altri fuor de' francesi. Puoi vedere a proposito del crescente interesse
l'Elogio di Voltaire nelle opp. di Federico II. 1790. tome 7. p.75.
Ho detto in questo discorso come sia
necessario che il soggetto dell'epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe
ch'ei fosse universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra
parte la nazionalità del soggetto limita, quanto a se, l'interesse e il
grand'effetto del poema, a una sola nazione. Non v'è altro modo di
ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri, dopo le tante
mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore delle
nazioni, o de' loro nomi, ch'è tutt'uno, [3770]e loro carattere
nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano
considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi
sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere
l'immaginazion de' lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e
contemporanei de' personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in
quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici
ec. Or tra tutti gli epici quel che meglio l'ha proccurata si è Omero
nell'Iliade, siccome fra tutti gli storici Livio. Vero è che questo
viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da me esposte, le
quali fanno che tutte le nazioni civili in tutti i tempi sieno state e sieno p.
essere connazionali e contemporanee de' troiani, greci antichi romani antichi
ed ebrei antichi. Infatti dopo l'Iliade, il poema epico che meglio proccura la
detta illusione universale, si è l'Eneide, perchè di soggetto
troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le
dette cagioni si riducono alla sola Iliade (ed all'Eneide), [3771]onde
l'illusione ch'essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche,
anzi l'Iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa
principalmente (cioè aiutata dall'Eneide ec.), ha potuto rendere e rende
tutti gli uomini civili d'ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de'
troiani. Questo ella consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec.
le quali l'accompagnano perchè sin da fanciulli conosciamo l'Iliade, o i
fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le
prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in
buona parte composte delle invenzioni d'Omero ec. ec. Ma tutto questo non
sarebbe nè sarebbe stato se l'Iliade non fosse sempre stata così
celebre. Nè così celebre sarebbe stata sempre senza il suo sommo
merito. Vero è che questo non ha che fare in particolare colla condotta
ec. ec.
(25. Ott. 1823.)
Alla p.3729. marg. Trovansi eziandio ne'
nostri antichi parecchie voci o significazioni ec. proprie del latino noto, ma
che ora non potremmo in alcun modo usare, ben sono usate e familiari appo gli
spagnuoli: il che [3772]pare che provi ch'elle fecero parte di quel
volgare che precedette ambo le lingue, del volgar latino ec. se non vogliamo
supporre che l'antico italiano allo spagnuolo, o l'antico spagnuolo all'antico
italiano le comunicasse, che nè l'uno nè l'altro è molto
verisimile.
(25. Ott. 1823.)
Alla p.3488. marg. Trovo in un
cinquecentista spagnuolo, ma di poca autorità, falsar la paz per
rompere frodolentemente la pace, o violar le condizioni della pace, mancare ai
trattati ec. Del resto falsare in questi sensi è quasi un continuativo
di fallere. Falsar la fede nell'esempio dello Speroni è lo stesso
che il fallire, cioè fallere, la promessa
nell'altro esempio. E anche in se stesso, falsare nelle dette
significazioni ha un certo senso d'ingannare, cioè fallere,
benchè forse si vorrà piuttosto dargli quello di mancare.
Ma in questo senso non si vede come nè fallire nè falsare
nè faltar ec. possano essere attivi ec. ec. (25. Ott. 1823.). Falsare
in altri sensi, (come in falsatus e falsatio ap. Forc.) è
bensì da falsus di fallere ma preso in senso di aggettivo;
laddove ne' detti significati falsare sarebbe da falsus in senso
di participio ec.
(25. Ott. 1823.)
[3773]Vogliono che l'uomo per natura
sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men
di tutti, perchè avendo più vitalità, ha più amor
proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio
verso gli altri individui sì della sua specie sì dell'altre, secondo
i principii da me in più luoghi sviluppati. Or qual altra qualità
è più antisociale, più esclusiva per sua natura dello
spirito di società, che l'amore estremo verso se stesso, l'appetito estremo
di tirar tutto a se, e l'odio estremo verso gli altri tutti? Questi estremi si
trovano tutti nell'uomo. Queste qualità sono naturalmente nell'uomo in
assai maggior grado che in alcun'altra specie di viventi. Egli occupa nella
natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli
tiene la sommità fra gli esseri terrestri.
Il fatto dimostra, al contrario di quel che
gli altri lo interpretano, che l'uomo è per natura il più
antisociale di tutti i viventi che per natura hanno qualche società fra
loro. Da che il genere umano ha passato i termini di quella scarsissima e larghissima
società che la natura gli avea destinata, più scarsa ancora e
più larga che non è [3774]quella destinata e posta
effettivamente dalla natura in molte altre specie di animali; filosofi,
politici e cento generi di persone si sono continuamente occupati a trovare una
forma di società perfetta. D'allora in poi, dopo tante ricerche, dopo
tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo. Infinite
forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni,
con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte
quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì. I filosofi lo confessano;
debbono anche vedere che tutti i lumi della filosofia, oggi così
raffinata, come non hanno mai potuto, così mai non potranno trovare una
forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa. Nondimeno
ei dicono ancora che l'uomo è il più sociale de' viventi. Per
società perfetta non intendo altro che una forma di società, in
cui gl'individui che la compongono, per cagione della stessa società,
non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente,
e non immancabilmente; una società i cui individui non cerchino sempre e
inevitabilmente di farsi male gli uni agli altri. Questo è ciò che
vediamo accadere fra le api, fra le formiche, fra i [3775]castori, fra
le gru e simili, la cui società è naturale, e nel grado voluto
dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si
giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in
società; e se l'uno nuoce mai all'altro, ciò non è che per
accidente, nè il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente
e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. E
talora gli uni fanno male ad alcun degli altri, o tutti ad un solo o a pochi,
per lo solo oggetto del ben comune o del ben dei più, come quando le api
puniscono le pigre. Nol fanno già esse per il bene di un solo. Nè
chi 'l fa, lo fa pel solo ben suo, anzi pel bene ancora di chi è punito.
Ed anche questo far male ad alcuno è un cospirare al ben comune. Ma
nelle società umane quello non si trovò mai, questo sempre.
Leggi, pene, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti, coltura,
esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un'altra vita, niente ha
potuto far mai, niente è nè sarà bastante di fare, che
l'individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia,
non dico giovi altrui, ma si astenga dall'abusarsi, o vogliamo dire dal
servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a se col
male altrui, dal cercare di aver più degli altri, di soverchiare, di
volgere in somma quanto è possibile, tutta la società al suo solo
utile o piacere, il che non può avvenire senza disutile e dispiacere
degli altri individui. Infinite e diversissime furono [3776]e sono le
forme dei costumi, delle opinioni, delle istituzioni, de' governi, le
varietà delle leggi ec. infinite e diversissime quelle che i filosofi
ec. in tutti i secoli e nazioni civili hanno immaginato ed immaginano e che non
sono mai state poste in effetto, ma in ciascuna di queste forme è sempre
avvenuto, o certo sempre avverrebbe il medesimo. Quali mezzi, quali artifizi
non si sono immaginati o impiegati per impedirlo? che studio, che dottrina, che
esperienza, che fatica, che forza d'ingegno si è risparmiata per ottener
questo effetto? quanti geni sommi non vi si sono applicati? ma tutto è
stato pienissimamente indarno; e chiunque abbia fior di giudizio dee senza difficoltà
convenire, che tutto lo sarà sempre ugualmente, qualunque affatto nuova
e strana circostanza si possa mai offrire, e qualunque novissima arte e via
ritrovare. Il che insomma vuol dire che una società perfetta, e niente
più perfetta che nel modo spiegato di sopra, senza il quale l'idea della
società è contraddittoria ne' termini; una società, dico,
perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera è
impossibile. Or come può star che sia impossibile, se la natura ce
l'avesse [3777]destinata, e se l'uomo fuor di una tal società non
potesse conseguire la sua perfezione e felicità naturale? Veggiamo pur
che quella società ch'è stata destinata dalla natura ad animali
tanto inferiori a noi, è stata sempre fin dal principio, ed è
costantemente, perfetta nel suo genere, bench'essi non abbiano avuti e non
abbiano nè legislatori, nè filosofi, nè esperienze d'altre
forme di società ec. Veggiamo eziandio ch'ella è perfetta, non
pure nel genere suo, ma rispetto al genere ed all'idea della società
assolutamente, la quale importa, moltitudine maggiore o minore d'individui
cospiranti in una o altra forma al bene di tutta la moltitudine, e ad essa in
niun modo mai, se non accidentalmente, pregiudicanti; del resto poi comunicanti
tra se più o meno, e moltissimo o pochissimo; ciò nulla rileva,
purchè in tanto cospirino al ben comune, in quanto e' comunicano insieme,
poco o molto che ciò sia. Non dobbiamo dunque dedurre da tutto il sopraddetto,
sì ragioni, sì esperienze di tanti e tanti secoli, che il genere
umano per natura, o non è destinato a società veruna tra se, o
(com'è vero) è destinato ad un genere, o per meglio dire, ad un
grado di società diverso affatto da tutti quelli che in esso lui ebbero
luogo dal primissimo principio del suo (così detto) dirozzamento, fino
al dì d'oggi? Cioè ad una scarsissima comunione de' suoi
individui tra loro, nella qual comunione, in quanto ella si stendeva ed
esigeva, ciascuno avrebbe cospirato al comun bene degl'individui in essa
compresi, e niuno, se non [3778]per caso, gli avrebbe nociuto; onde
sarebbe risultata agli uomini una specie di società perfetta in se
stessa e relativamente ai subbietti suoi proprii, e perfetta in ordine all'idea
ed alle condizioni essenziali della società assolutamente considerata.
La quale specie di società essendosi bentosto perduta, niun'altra specie
di società perfetta ha potuto mai rimpiazzarla in non so quante migliaia
d'anni, nè mai la rimpiazzerà, perchè la natura non si
rimpiazza, nè più d'una sola perfezione (cioè del suo
naturale stato) può convenire a niuna specie d'esseri creati, e quindi
non più d'una felicità.
Stante la natura generale de' viventi, e
massime quella dell'uomo in particolare, una società stretta, la quale
è cosa dimostrata che necessariamente produce tra gli uomini la
disuguaglianza di mille generi e intorno a mille beni e mali, non può a
meno di eccitare e di mettere in movimento, com'ella fa in effetto, le passioni
dell'invidia, dell'emulazione, della gara, della gelosia, conseguenze
necessarie, o piuttosto specie e nuances dell'odio verso gli altri,
naturale ad ogni essere che ami naturalmente se stesso. Or qual cosa è
più antisociale di queste passioni? Elle non avrebbero avuto luogo nella
società scarsa e larga destinataci dalla natura, il cui uffizio
sarebbesi limitato al vero fine d'ogni società, quello di soccorrersi
scambievolmente ne' bisogni (che in natura son pochi), e massime in quei
bisogni (che sono anche meno) i quali esiggono la cospirazione di più
individui, come sarebbe il difendersi dagli altri animali nemici, al qual
effetto anche gli animali meno socievoli, si riuniscono e fanno tra loro una
società temporanea, che dura quanto il pericolo, come i cavalli si
stringono insieme in una ruota, ove ciascuno resta co' piedi di dietro al di fuori,
per difendersi dal lupo, ec. Le dette passioni, [3779]ripeto, non
avrebbero avuto luogo, sì per la poca strettezza di quella società,
sì perchè in essa e nello stato naturale dell'uomo, i vantaggi
naturali dell'uno individuo sull'altro sarebbero stati pochi, rari, e piccoli,
e i sociali non vi sarebbero stati affatto. La disuguaglianza tra gli uomini
che la società rende naturalmente somma e di mille generi, sarebbe stata
quasi nulla, e limitata a ben poche cose. Infatti fra gli altri animali, fra
cui la società è scarsa, la disuguaglianza fra gli individui
è rara e sempre scarsissima; così i vantaggi degli uni sugli
altri. Quindi le dette passioni, che sono necessariamente suscitate da'
vantaggi e dalla disuguaglianza ch'è inevitabilmente prodotta da una
società stretta, sono fra gli altri animali rarissime e debolissime. E
quelle che nascono dall'orgoglio naturale di ciascheduno individuo,
necessariamente punto ed afflitto e molestato dal comando, dalle
dignità, dalle preminenze qualunque, dalla stima e dalla gloria degli
altri individui della stessa specie e compagnia, non avrebbero avuto luogo nella
società scarsa in modo alcuno, nè l'hanno tra gli animali i
più socievoli, perchè nè in quella si sarebbero trovati,
nè fra questi si trovano gli oggetti che le suscitano, anzi neppur
l'idea loro, non che il desiderio. E quanto al comando, se ve n'ha vestigio alcuno
tra gli animali, come tra le api, tra' buoi, tra gli elefanti (v. Arriano
Indica), esso viene da superiorità di natura e quasi di specie, intorno
a cui non ha luogo invidia nè emulazione; come le pecore non possono
invidiare al montone che le conduce e quasi governa perch'egli è di
sesso più forte, nè le donne invidiano agli uomini la loro
maggior fortezza, nello stesso modo che noi non l'invidiamo al leone. Oltre di
che il comando [3780]e qualunque specie di preminenza fra gli animali,
come dalla natura fu posta, così da tutti gli altri individui soggetti
è sempre riconosciuta per utile a tutti loro, ed utile non solo in
potenza non solo in destinazione, ma in atto e in effetto continuamente, e come
a tale essi vi si soggettano naturalmente, non pur senza la menoma ripugnanza,
ma con piacere, e molto si dolgono s'ella, per qualche accidente, vien loro a
mancare, come alle api il re ec. Ma in una società stretta, massime
umana, è d'inevitabile necessità che abbiano luogo tutte le dette
preminenze, come altresì è necessario ch'elle sempre offendano
grandemente l'orgoglio naturale degli altri individui. E fra esse preminenze
è d'indispensabile necessità che v'abbia luogo il comando, e
questo fra gli uomini non può esser effetto di superiorità di
natura o di specie, ma è necessario che l'uguale per natura, sia signor
degli uguali. E il comando e la soggezione fra gli uomini è
incontrastabilmente inevitabile che sebbene utili per istituto, il più
delle volte sieno anzi dannosissime in effetto a chi ubbidisce e
sottostà, e per tale siano riconosciute da loro, seguendone naturalmente
un'invidia e un odio sommo verso chi comanda; odio antisocialissimo,
massimamente che il comando è necessario, ec. Ed è ancora
inevitabile che non di rado, (anzi quasi sempre), il comando e la signoria per
l'origine medesima e per istituto sieno dirette al danno de' sottoposti ed al
solo bene de' signori: come sono le signorie acquistate per viva forza o per
arte, contro il volere e l'intenzione de' subbietti, le quali si chiamano tirannie.
E certo è che tutti o la più parte de' principati passati e
presenti hanno avuto principio dalla forza o dall'artifizio, e che tutti i
troni d'Europa [3781]si possono, genealogizzando, far risalire a queste
radici. Insomma, com'egli è cosa certissima che tutto il mondo è
il patrimonio della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale,
cioè ingegno, arte ec. ch'è tutt'uno), e ch'egli è fatto
per li più forti, ne segue che in una società stretta,
inevitabilmente, qualunque forma se gli possa mai dare, i più deboli
individui denno essere, furono sono e saranno la preda, la vittima, il retaggio
de' più forti. Onde non si può assolutamente dare, molto meno fra
uomini, una società stretta, che ottenga il fine della società,
cioè il ben comune degl'individui che la compongono, ed il cui risultato
sia il detto ben comune. Senza di cui la società non può avere
ragione alcuna. In una società larga i più forti non hanno
nè mezzo nè occasione nè desiderio nè stimolo
alcuno di esercitare e porre in opera la superiorità delle loro forze
sopra gl'individui di essa società, se non solamente alcuna volta per
accidente, in modo scarso e passeggero. Ciò ch'ei si propongono di
ottenere, non è a spese della lor società, nè di alcuno
de' suoi individui; esso è fuori di lei; la lor società è
troppo scarsa perchè alcuno possa farci sopra dei disegni, e riporre la
sua felicità in beni dipendenti o appartenenti in alcun modo alla
medesima società, di cui appena si avveggono di esser parte, e che loro
è, per così dire, fuori degli occhi, e quindi anche del pensiero,
almeno il più del tempo. ec. I lupi fanno società per attaccare
un ovile, ma i disegni ch'essi [3782]formano sì nel tempo di
questa passeggera società, sì nel resto, e i vantaggi che essi, e
tra essi massimamente i più forti, si propongono di ottenere, non sono
sopra gli altri lupi, ma sopra le pecore. Se poi nella division della preda,
nasce fra loro qualche discordia, e se in questa i più forti hanno il
più, queste son cose accidentali e poco durevoli, e che non lasciano ne'
più deboli alcun rancore, perchè la società subito si
discioglie, sicchè l'effetto della discordia si limita a quei pochi
momenti, e in ultimo è maggior l'utile che quei lupi hanno riportato da
quella società, senza cui non avrebbero penetrato l'ovile, e maggior
l'utile che i più deboli hanno ricevuto da' più forti che han
combattuto più di loro ec., di quello che sia il danno che quei lupi
hanno riportato da tal discordia, e i più deboli da' più forti.
Ma tutto l'opposto accade nelle società umane: dove i più forti
non servono ad altro che a far male ai più deboli e alla società,
e la superiorità qualunque di forze è sempre dannosa altrui,
perchè sempre (almeno oggidì, e per lo passato il più
delle volte) adoperata in solo bene di chi la possiede.
La società stretta, ponendo
gl'individui a contatto gli uni degli altri, dà necessariamente l'essor
all'odio innato di ciascun vivente verso altrui, il qual odio in nessuno animale
è tanto, neppur verso gl'individui di specie diversa e naturalmente
nemica, quanto egli è negl'individui di una società stretta verso
gli altri individui della medesima società! Perchè ogni [3783]odio
naturalmente si accresce a mille doppi colla continua presenza dell'oggetto
odiato, e delle sue azioni ec. massime quando quest'odio sia naturale, in modo
che, per natura, e' non possa esser mai deposto. Ora, checchè si voglia
dire, e in qualunque modo (anche sotto l'aspetto di amore) si mascheri l'odio
verso altrui (così fecondo in trasfigurazioni come l'amor proprio suo
gemello), egli è così vero che l'uomo è odioso all'uomo
naturalmente, com'è vero che il falcone è odioso naturalmente al
passero. E quindi tanto è consentaneo riunire insieme in una repubblica
sotto buone leggi i falconi e i passeri (quando anche ai falconi si tagliassero
gli artigli, e si operasse in modo che di forza fisica non eccedessero i loro
compagni), quanto riunire gli uomini insieme in istretta società sotto
qualsivoglia legislazione. E quando anche la società stretta non
accrescesse il detto odio, certo non si potrà negare ch'ella lo sveglia
e l'accende, e ch'ella sola somministra le occasioni di esercitarlo, rendendo
così fatalissimo alla specie e mettendo in opera l'odio scambievole innato
negl'individui d'essa specie, il quale senza società o in società
larga, sarebbe stato affatto o quasi affatto innocuo alla specie, ed
inefficace, e per mancanza o insufficienza di occasioni e di stimoli neppur
sentito. Il che sarebbe stato conforme alle intenzioni della natura, ed anche
alla ragione assoluta, non essendo presumibile che la natura abbia voluto che
niuna specie (molto manco l'umana) perisse per le sue medesime mani, o fosse
infelicitata (e per conseguenza impeditagli la perfezione e il fine del suo essere)
da' suoi [3784]propri individui; sicchè ella medesima fosse causa
di distruzione e d'infelicità, e quindi imperfezione, a se stessa, e la
sua medesima esistenza cagionasse direttamente e come propria, non altrui,
opera la sua non esistenza, sia col distruggersi, sia coll'infelicitarsi, che
è privarsi del proprio fine e complemento, e quindi rendersi non esistenza,
e peggio ancora[186].
Queste, essendo contraddizioni evidentissime e formalissime, sono escluse dal ragionamento
assoluto; il principio stesso della nostra ragione, o si riconosce per falso, e
non possiamo più discorrere, o impedisce di supporre queste contraddizioni
nella natura; le quali però vi avrebbero necessariamente luogo s'ella
avesse voluto in qualunque specie una società stretta, siccome sempre in
una società stretta, qualunque sia stata o sia o sia per essere la sua
forma, hanno avuto ed avranno luogo le cose sopraddescritte. Dal che si deduce
efficacissimamente che il supporre nella natura l'intenzione di una
società stretta in qualsivoglia specie, e massime nell'umana (che da una
parte, essendo la prima, doveva esser la più felice e perfetta,
dall'altra, in una società stretta, è necessariamente più
di tutte sottoposta ai detti inconvenienti) ripugna dirittamente al principio
stesso della ragione. La natura non ha posto nel vivente l'odio verso gli
altri, ma esso da se medesimo è nato dall'amor proprio per natura di
questo. Il quale amor proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni
modo nasce per se medesimo dall'esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un
essere che sentisse di essere e non si amasse, come altrove ho dichiarato. Ma
da questo principio ch'è un bene e che la natura non poteva a meno di
porre nel vivente, e che [3785]anzi, senza l'opera diretta della natura,
nasce necessariamente dalla stessa vita (onde la natura medesima, per
così dire, lo aveva e lo ha, verso se stessa, indipendentemente dal suo
volere)[187]
ne nasce necessariamente l'odio verso altrui, ch'è un male,
perchè dannoso di sua natura alla specie, come ne nascono cento altre
conseguenze, che sono mali, e producono di lor natura effetti dannosissimi, non
pure alla specie e agli altri individui, ma all'individuo medesimo. Or questi
effetti non sono stati voluti dalla natura, nè ella n'ha colpa, (come
l'avrebbe), perchè ella ha provveduto che quelle cattive conseguenze
dell'amor proprio fossero inefficaci, e tali sarebbero state nell'esser
naturale di quel tale individuo e specie. Così ella dunque ha provveduto
che l'odio verso gli altri individui della stessa specie fosse inefficace, se
non per qualche assoluto accidente, perchè privo di occasione e di
stimolo e di circostanza ove potesse operare. E ciò ha fatto destinando
agl'individui di una stessa specie, e fra questi agli uomini, o niuna società,
o scarsa e larga.
Una società stretta pone
necessariamente in contrasto gl'interessi degl'individui, rende necessario alla
soddisfazione dei desiderii degli uni, il male degli altri; alla superiorità,
ai vantaggi, alla felicità degli uni, l'inferiorità, gli
svantaggi, l'infelicità degli altri; desta il desiderio di beni che non
si possono conseguire senza il male degli altri, di beni che consistono nel
male altrui, che corrispondono per lor natura ad altrettanti mali [3786]degli
altri individui, ed altrettali, anzi, per lo più, maggiori che quei beni
non sono. Dunque una società stretta nuoce necessariamente a grandissima
parte (e la maggiore, perchè i più deboli sono sempre i
più) de' suoi individui: dunque il suo effetto è il contrario del
fin proprio ed essenziale della società, ch'è il bene comune de'
suoi individui, o almeno dei più: dunque ella è il contrario di società,
e ripugna per essenza non pure alla natura in genere, ma alla natura e alla
nozione stessa della società.
Sì il contrasto degl'interessi,
sì l'altre cose qui dietro esposte, fanno in modo che l'odio naturale
d'ogn'individuo verso gli altri, in una società stretta, non pur si sviluppa
tutto intero, e riceve tanta efficacia e tanto atto quanto egli ha di potenza,
ma fa necessariamente, che, contro le intenzioni della natura e il ben essere
della specie, quell'odio naturale che in potenza e in natura è molto
minore verso i suoi simili che verso gli altri viventi, in atto sia molto
maggiore verso i suoi simili, anzi quasi tutti i suoi atti e i suoi effetti
sieno rivolti contro i soli suoi simili. Perocchè l'individuo di una
società stretta, coi soli suoi simili ha stretto e quotidiano commercio
ed affare. Or l'odio verso altrui non si può sviluppare nè porre
in atto se non quando si abbia o si abbia avuto affare coll'oggetto odioso. E
tanto più si sviluppa ed opera quanto questo affare è o è
stato maggiore, e più frequente, più lungo, più continuo.
E in conformità di questi evidenti principii, veggiamo infatti che
mentre l'individuo umano da principio odiava assai più sì in
potenza sì in atto gli altri viventi, [3787]massime gli a lui
dannosi ec. ora in atto odia senza alcun paragone più i suoi simili che
gli altri viventi qualunque, anche gli a lui più micidiali,
perchè da questi è lontano, o poco affar ci può avere, e
niun commercio di spirito; a quelli è sempre presente, e sempre ha affar
seco loro, e commercio continuo e grandissimo, sì di corpo, sì,
che è molto più, di spirito. Per le quali cose è veramente
un zucchero l'odio che oggidì l'uomo porta a qualsivoglia più misantropo
animale rispetto a quello ch'ei porta a' suoi simili, e ciascun vede quanto
sarebbe ridicolo il farne paragone. Sicchè l'odio verso gli altri,
qualità come naturale, così distruttiva della vera
società, non solo in una società stretta non si scema nulla
rispetto ai suoi simili da quel ch'egli era in natura, ma anzi, se non in potenza,
certo in atto s'accresce a mille doppi, anzi pure svolgendosi da tutti gli
altri viventi, si raccoglie tutto, si termina e si rivolge ne' soli suoi
simili. Onde se il vivente, stante il detto odio, è antisociale per
natura, in virtù della società stretta, non pur diviene
più sociale, ma infinitamente più antisociale che da principio,
perchè da principio egli odiava i suoi simili quasi solo in potenza, e
in atto soli o molto più gli altri viventi, e nella società
stretta il suo odio dimentica quasi affatto gli altri viventi, ed in atto odia,
si può dir, soli i suoi simili, e gli odia più assai che da
principio non fece i dissimili, co' quali ebbe sempre molto meno affare ed intimo
commercio, che non ha ora co' simili suoi.
[3788]Dalle quali cose tutte,
parlando in somma, si raccoglie che il dir società stretta,
massime umana, è contraddizione, non solo rispetto alla natura
ec. ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne' termini, e rispetto alla
nozione di queste parole. Perocchè società importa quello
che disopra (p.3777.) si è definito; e società stretta importa
communione d'individui sommamente nocentisi scambievolmente, e odiantisi in
atto gli uni gli altri sopra ogni altra cosa, giacchè, stante la natura
de' viventi, non vi può essere società stretta i cui individui
non sieno tali, come si è dimostrato.
Quindi non è maraviglia se mai non si
è trovata nè mai si troverà, fra le infinite eseguite,
immaginate, eseguibili e immaginabili, forma alcuna di società perfetta,
da quella primitiva e naturale in fuori. Perocchè gli elementi di tali
forme dovevano ben sempre esser discordi, poichè la idea medesima d'esse
forme è contraddittoria per natura. E quella prima società non
è stata mai potuta nè si potrà mai rimpiazzare,
perchè la natura universale, nè particolare e speciale, non si
rimpiazza, nè si rimpiazza la felicità e la perfezione destinata
a qualsivoglia essere o specie dalla natura, nè veruna specie e veruno
esser creato è capace di più che una sola e determinata
felicità e perfezione, la quale non altrove si può trovare
nè può consistere, che nel suo naturale stato, nè
d'altronde derivare. Nè volle il destino, nè comporta la natura
delle cose che [3789]niuna specie e niuno essere mortale e creato sia
l'autore del sistema e dell'ordine che dee condurlo alla propria
felicità e perfezione (come avverrebbe se l'uomo fosse destinato a
quella società che noi pensiamo, la quale è capace e bisognevole
di una forma, non che eseguita ma immaginata dagli uomini, e infinite ne
può ricevere e n'ha ricevute, tutte parimente buone o cattive, tutte o
quasi tutte a lei ed alla sua idea convenienti, [cioè tutte
contraddittorie e discordevoli in se stesse ec.] e la natura niuna forma le
prescrisse nè potè prescriverle, non avendola voluta; quando però
ella ben ne prescrisse, ed intere, e costanti, a quelle società ch'ella
volle, come a quella de' castori, e delle gru ec.): ma la natura stessa e sola,
o vogliamo dire il Creatore, dovette esser l'autore, come di ciascuna creatura,
così del sistema, ordine e modo che la dovesse condurre alla perfezione
della sua esistenza, vale a dire alla felicità, e render compiuta
l'opera di Lui.
Tutto questo discorso esclude una
società stretta, non solo dalla specie umana, ma da tutte le specie
viventi; tanto però maggiormente, quanto elle sono in maggior grado
viventi, contro quello che si presume, e quindi hanno più vivo amor
proprio, e quindi più vive passioni e più vivo e maggiore odio
verso altrui. Il che vuol dire che il detto discorso esclude la società
stretta, dalla specie umana massimamente. Venendo ora più da presso a
mostrare quanto sia vero che l'odio verso gli altri, specialmente verso i
simili, è [3790]assai maggiore nell'uomo che negli altri animali,
e quindi l'uomo è il più insociale di tutti gli animali,
perchè una società stretta di uomini, al comune degl'individui
che la compongono, nuoce assai più che non farebbe in niun'altra specie;
considereremo la guerra, male affatto inevitabile in una società stretta
di uomini, e niente accidentale, al che dimostrare se non bastasse l'esperienza
di tutte le nazioni e di tutti i secoli, sì dee bastare il riflettere
che siccome una stretta società pone necessariamente in atto l'odio naturale
degl'individui verso gl'individui simili nel modo e per le cagioni mostrate di
sopra, altrettanto ella fa necessariamente fra classe e classe, ceto e ceto,
ordine ed ordine, compagnia e compagnia, popolo e popolo. E come la guerra
nasca inevitabilmente da una società stretta qual ch'ella sia, nótisi
che non v'ha popolo sì selvaggio e sì poco corrotto, il quale
avendo una società, non abbia guerra, e continua e crudelissima. Videsi
questo, per portare un esempio, nelle selvatiche nazioni d'America, tra le
quali non v'aveva così piccola e incolta e povera borgatella di quattro
capannucce, che non fosse in continua e ferocissima guerra con questa o
quell'altra simile borgatella vicina, di modo che di tratto in tratto le
borgate intere scomparivano, e le intere provincie erano spopolate di uomini
per man dell'uomo, e immensi deserti si vedevano e veggonsi ancora da'
viaggiatori, dove pochi vestigi di coltivazione e di luogo anticamente o recentemente
abitato, [3791]attestano i danni, la calamità, e la distruzione
che reca alla specie umana l'odio naturale verso i suoi simili posto in atto e
renduto efficace dalla società. Vedi l'op. cit. da me a p.3795., passim,
e sommariamente nel cap.116. E certo non v'ha nè v'ebbe al mondo
così piccola e remota isoletta, così scarsa d'abitatori, e
così poco di costumi corrotta, dove tra quelle decine d'abitanti umani
stretti in società, non sia stata e non sia divisione, discordia e
guerra mortalissima, e diversità di parti e moltiplicità di
nazioni. Come sia nata e dovesse necessariamente nascere la guerra tra gli
uomini, l'ho detto p.2677. segg. dove si può vedere che la colpa di
questo nascimento è tutta della società stretta, posta la quale,
ei non poteva mancare. E tanto è l'odio dell'uomo verso l'uomo, e tanto
il danno che inevitabilmente ne nasce in una società stretta, che la
divisione in popoli diversi, e la nimistà tra popolo e popolo, posta una
società stretta, è piuttosto utile che dannosa al genere umano,
tenendo lontana la molto più terribile e fiera guerra intestina, sia
aperta, come ho detto nel citato luogo, sia la coperta guerra dell'egoismo, che
infelicita tutti gl'individui d'una stessa nazione, gli uni per opera degli
altri, come lungamente ho disputato parlando dell'utilità dell'amor
patrio e nazionale e quindi dell'odio verso gli estrani, e del danno che nasce
dalla mancanza di nazionalità e dal preteso amore universale ec. Il
tutto, supposta una società stretta, e che questa non si possa
più (come già non puossi) evitare.
Or che la specie umana costantemente e
regolarmente perisca per le sue proprie mani, e ne perisca in questo modo
così gran parte e così ordinatamente come avviene per la guerra,
è cosa da un lato [3792]tanto contraria e ripugnante alla natura
quanto il suicidio, conforme di sopra (p.3784.) si è detto, dall'altro
lato priva affatto di esempio e di analogia in qualsivoglia altra specie
conosciuta, sia inanimata o animata, sia d'animali insocievoli o de' più
socievoli dopo l'uomo. Che una specie di cose distrugga e consumi l'altra,
questo è l'ordine della natura, ma che una specie qualunque (e massime
la principale, com'è l'umana) distrugga e consumi regolarmente se
stessa, tanto può esser secondo natura, quanto che un individuo
qualunque sia esso stesso regolarmente la causa e l'istrumento della propria
distruzione. Cani, orsi e simili animali vengono molte fiate a contesa tra
loro, e fannosi non di rado del male ma rado è che una bestia sia uccisa
dalla sua simile, anzi pur che ne soffra più che un male passeggero e
curabile. E quando pur ne rimanga uccisa, primieramente questo è un di
quei disordini affatto accidentali, non voluti, ma neanche provvedibili dalla
natura, e di cui ella non ha colpa, accadendo e contro le sue intenzioni e
contro le sue provvisioni, che, benchè non in quel caso particolare, nel
generale però riescono sufficienti ed ottengono il loro fine. Questo
caso, rispetto alla natura e all'ordine sì generale delle cose,
sì generale della specie, è così accidentale come se un
animale ammazza un suo simile involontariamente inscientemente ec., o se
ammazza nello stesso modo qualche animale d'altra specie ec., o s'è
ucciso dalla caduta di un albero, o da un fulmine, o da morbo ec. ec. ec.
Secondariamente che proporzione, anzi che simiglianza può aver l'uccisione
di uno o di quattro o dieci animali fatta da' loro simili qua e là sparsamente,
in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con
quella di migliaia d'individui umani fatta in mezz'ora, in un luogo stesso, da
altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o
altrui, o non propria d'alcun di loro, ma comune (laddove niuno [3793]animale
combatte mai per altro che per se solo; al più, ma di rado co' suoi
simili, per li figli, che son come cosa, anzi parte di lui), e che neppur
conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad
un'ora, tornano all'uccisione della stessa gente, e seguono talvolta
finchè non l'hanno tutta estirpata ec. ec.? lasciando gli altri infiniti
mali e infelicità che reca la guerra ai popoli; mali e infelicità
parte reali in ogni caso, e che tali sarebbero anche nello stato naturale del genere
umano (come le mutilazioni ec.); parte che son tali, posta fra gli uomini una
società stretta, e le abitudini, e quindi i bisogni, di questa (come la
devastazione de' campi, e ruina delle città, e le carestie, oltre le
pesti ec. ec.): i quali deono essere riconosciuti per mali massimamente da
quelli che sostengono esser propria dell'uomo una società com'è
la presente, e com'è quella che cagiona la guerra; ma oltre di
ciò eziandio da chi negandola, per così dire, in diritto, dee pur
supporla nel fatto, supponendo la guerra ec. e quindi supporre tutte le abitudini
e i bisogni ch'ella non può a meno di produrre negli uomini ec.
Solamente fra le api, la cui società è naturale, si potrebbe
voler trovare un esempio della nostra guerra, fatta in più persone da
ciascuna parte ec. Ma ben guardando, anche le battaglie dell'api, oltre che son
rarissime e niente regolari e inevitabili (a paragon delle nostre), sono
effetto di passione momentanea, come le battaglie singolari o poco più
che singolari, e inordinate e confuse de' cani, orsi ec. onde per l'una e per
l'altra cagione son da considerarsi per disordini accidentali, [3794]come
di quelle dei cani ec. si è detto. Del combattere in due partiti d'una
stessa specie, fuor dell'api, non si troverà credo altro esempio che
negli uomini, perchè gli altri animali quando anche combattano tra loro
in molti, combattono uno contro un altro confusamente senza veruno amico, o
ciascuno contro tutti, perchè ciascuno combatte per se solo, mosso dalla
propria passione, e a fine del proprio, non dell'altrui nè di commun
bene.
Quanto sia maggiore la facoltà di
odiare che ha l'uomo verso tutti, e posta la società stretta, verso i
suoi simili; maggiore, dico, di quella che ha verun'altra specie di animali,
basti osservare le orribili e smisuratissime crudeltà che l'uomo col
fatto si è mostrato e mostrasi infinite volte capace di esercitare verso
i suoi simili a se nemici, sieno d'altra nazione, e questa nemica o amica, ed
in tal caso esercitate dalle nazioni intere per costume o straordinariamente,
ovver dagl'individui in particolare; sieno della stessa nazione e
società qualunque. Nè l'uomo primitivo verso gli altri animali a
lui più nemici, nè animale alcuno (per feroce, per insociale
ch'ei sia), non pure verso i suoi simili, ma verso l'altre specie a lui
più nemiche, esercitò nè esercita mai (se non per bisogno,
come nel cibarsene ec. ma non per odio, nè a fine di straziarlo,
benchè lo strazi), neppur nel più caldo dell'ira e nello stesso
combattimento crudeltà così grande che sia degna d'esser
comparata a quelle che gl'individui umani di una stessa nazione verso i loro
compagni, le nazioni verso le nazioni nemiche, i governi verso i lor sudditi
colpevoli o supposti tali, i tiranni ec. ec. esercitarono infinite volte ed
esercitano dopo la vittoria, dopo il pericolo, a sangue freddo, spesse volte
senza passione veruna, neppur passata, (come nelle pene de' rei), per [3795]uso,
per regola, per legge, per tradizione de' maggiori ec. ec. ec.
Chi non sa che cosa possa nell'uomo lo
spirito di vendetta? il quale rende eterna l'ira e l'odio verso i suoi simili
cagionato da una piccolissima offesa, vera o falsa, giusta o ingiusta ec. e
dalle altre cagioni che adirano gli uomini verso gli uomini sia nelle nazioni,
sia negl'individui, sia privato sia pubblico ec. Or questo spirito ch'è
inevitabile in qualunque società umana stretta, fu ignoto all'uomo
primitivo, è ignoto a qualunque altro animale, in cui l'ira non dura
più che qualunque altra passione momentanea, e la ricordanza dell'ingiuria
non più dell'ira; e la vendetta o è subito ottenuta e fatta (e
basta ben poco a placarli e soddisfarli), o di poi non è ricercata
niente più che se l'ingiuria non avesse avuto luogo.
Questo spirito di vendetta ec. le
crudeltà sopraddette ec. sono così naturali all'uomo posto in
società stretta, la quale sviluppi il suo odio innato verso i simili
ec., che non v'è bisogno di molta corruzione a cagionarle, anzi elle si
trovano immancabilmente in qualunque più primitiva e più bambina
società. Non si manchi di vedere intorno a questo proposito, e intorno
ad altri orribilissimi costumi, propri solo dell'uomo verso i suoi simili, e
dell'uomo anche mezzo naturale e quasi primitivo, la Parte primera de la
Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon (soldato spagnuolo che fu alla
conquista e scoprimenti di quei paesi, ove visse più di diciassett'anni,[188] e
vide esso medesimo, ed ebbe parte o udì da testimonii di vista e
dagl'indiani stessi, ec. le cose, i costumi, gli avvenimenti, i luoghi ec.
ch'esso racconta; e protesta sì nella [3796]prefazione sì
in altri molti luoghi, e dimostra col suo scrivere semplicissimo e inornato,
anzi incolto e senza niuna arte, di narrare la purissima verità: mostra
ancora molto buon giudizio, eccetto solamente in ordine a superstizioni, dove
manifesta quella credulità che in tali materie è propria della
sua nazione e fu propria del suo secolo e de' passati) en Anvers 1554 en
casa de Jinan Steelsio. Impresso por Juan Lacio. in 8vo piccolo,
cap.12.16. (p.41.) 19. (car.49. p.2.) principalmente, oltre gli altri luoghi
che si trovano notati nell'indice sotto il titolo Indios amigos de comer
carne humana.
Tutte queste cose dimostrano che, come si
è detto di sopra, la società stretta, in luogo di scemare,
accresce per sua natura in mille doppi l'odio naturale dell'uomo verso i di lui
simili, il qual è incompatibile coll'idea, colla nozione, ragione, fine,
natura ec. di qualsivoglia società. Dico, accresce l'odio, non l'ira, se
non in quanto mette anche questa in atto assai più spesso, e le
dà molto più frequenti e maggiori occasioni e cagioni ec. ec. Gli
altri animali verso i lor simili non provano mai o quasi mai, e ben
pochi di loro, odio, ma sola ira (ch'è cosa accidentale, e disordine
accidentale ch'ella si volga sopra i simili ec. ). Eccetto talvolta alcuni di
quelli che noi contra la natura loro stringiamo in società e sforziamo a
vivere insieme: come talora un cane odia abitualmente per invidia un altro cane
suo compagno, e i tori nella mandra si odiano per gelosia ec. E questo stesso
dimostra come la società stretta ponga subito in azione l'odio naturale
anche negl'individui [3797]e specie ec. che fuori di essa società
mai non provano odio, o mai verso i loro simili, e sono anche
mansuetissimi per natura, e verso gli estrani ec. ec.
Io noto che generalmente parlando, le dette
crudeltà ec. tanto sono più frequenti e maggiori, e le guerre
tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono
più vicini a natura. E astraendo dall'odio e dagli effetti suoi, non si
troverà popolo alcuno così selvaggio, cioè così
vicino a natura, nel quale se v'è società stretta, non regnino
costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto
lo stato della lor società ne è più vicino, cioè
più primitivo. Qual cosa più contraria a natura di quello che una
specie di animali serva al mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto
sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo
effettivamente quelle proprie parti di ch'ei si nutrisse. La natura ha
destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l'une
all'altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per
eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo preferisca
agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra
specie che nell'umana. Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che
sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono per
secoli e secoli questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni,
i maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli.[189]
(Veggansi i luoghi citati nella pagina antecedente). [3798]Le superstizioni,
le vittime umane, anche di nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per
timore, come altrove s'è detto, e poi per usanza; i nemici ancora
immolati crudelissimamente agli Dei senza passione alcuna, ma per solo costume;
il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione,
per uso; l'abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le morti de' mariti;
il seppellire uomini e donne vive insieme co' lor signori morti, come s'usava
in moltissime parti dell'America meridionale; ec. ec. son cose notissime. Non
v'è uso, o azione, o proprietà o credenza ec. tanto contraria
alla natura che non abbia avuto o non abbia ancor luogo negli uomini riuniti in
società. E sì i viaggi sì le storie tutte delle nazioni
antiche dimostrano che quanto la società fu o è più vicina
a' suoi principii, tanto la vita degl'individui e de' popoli fu o è
più lontana e più contraria alla natura. Onde con ragione si
considerano tutte le società primitive e principianti, come barbare, e
così generalmente si chiamano, e tanto più barbare quanto
più vicine a' principii loro. Nè mai si trovò, nè
si trova, nè troverassi società, come si dice, di selvaggi,
cioè primitiva, che non si chiami, e non sia veramente, o non fosse, affatto
barbara e snaturata. (o vogliansi considerar quelle che mai non furon civili, o
quelle che poscia il divennero, quelle che il sono al presente ec. ec.). Dalle
quali osservazioni si deduce per cosa certa e incontrastabile che l'uomo non ha
potuto arrivare a quello stato di società che or si considera come a lui
conveniente e naturale, e come perfetto o manco [3799]imperfetto, se non
passando per degli stati evidentemente contrarissimi alla natura. Sicchè
se una nazione qualunque, si trova in quello stato di società che oggi
si chiama buono, s'ella è o fu mai, come si dice, civile; si può
con certezza affermare ch'ella fu, e per lunghissimo tempo, veramente barbara,
cioè in uno stato contrario affatto alla natura, alla perfezione, alla
felicità dell'uomo, ed anche all'ordine e all'analogia generale della
natura. I primi passi che l'uomo fece o fa verso una società stretta lo
conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato
così a lei contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e
l'aiuto di moltissime circostanze e d'infinite casualità (e queste
difficilissime ad accadere) ei si può ricondurre in uno stato, che non
sia affatto contrario alla natura ec.
Or dunque, poichè tutto questo
è certo e dimostrato da tutte le storie e notizie di tutte le nazioni
antiche o moderne ec., poichè da un lato è da tenere per fermissimo
che la società e l'uomo non ha potuto nè può divenir
civile senza divenir prima e durare per lunghissimo tempo, affatto barbaro,
cioè in istato affatto contro natura; e dall'altro lato si vuole che
nello stato di società civile consista la perfezione e felicità
dell'uomo, e la condizione sua propria e vera e destinatagli ed intesa in
principio dalla natura ec.; io domando se è possibile, se è
ragionevole, il credere che la natura abbia destinato ad una specie di esseri
(e massime alla più perfetta) una perfezione e felicità, per
ottener la quale le convenisse assolutamente passare p. uno e più stati
onninamente contrari alla [3800]natura sua ed alla natura universale, e
quindi per uno e più stati di somma infelicità, di somma
imperfezione sì rispetto a se medesima e sì a tutto il resto
della natura. Una perfezione e felicità della quale essa specie per
lunghissimi secoli, e infiniti individui suoi per tutta la vita loro, non solo
non dovessero esser partecipi, ma averne anzi necessariamente tutto il
contrario. Una perfezione e felicità le quali esigessero assolutamente
gli estremi delle cose a loro contrarie, cioè gli estremi dell'imperfezione
e dell'infelicità, senza i quali estremi essa perfezione e
felicità della specie non avrebbero mai potuto aver luogo. Una
perfezione e felicità di cui fosse proprio ed essenziale il dover
nascere dall'estrema imperfezione e infelicità della specie, e il non
poter nascere d'altronde nè senza queste. Una perfezione e felicità
ch'essenzialmente supponesse la somma corruzione e infelicitazione della specie
per moltissimi secoli, e d'infiniti suoi individui per sempre. Conseguentemente
domando se l'estrema barbarie e corruttela ch'ebbe luogo anticamente nelle nazioni
antiche o moderne, spente o superstiti, passate o presenti, che divennero poi
civili; e quella che ancora ha luogo in tanto innumerabile quantità di
popoli ancor selvaggi ec. ec. e che durerà per tempo indeterminabile e
forse per sempre ec. domando, dico, se questa barbarie e corruzione, senza cui
la civiltà non può nè potè nascere, fu voluta e
ordinata dalla natura, la quale, secondo costoro, volle e ordinò la
civiltà dell'uomo. Domando pertanto se tutto ciò che di contrario
alla natura ebbe ed ha luogo nelle società selvagge, primitive ec., fu
ed è secondo natura. Domando se la natura rispetto [3801]all'uomo
ha bisogno del suo contrario, lo esige, lo suppone. Se fu intenzione della
natura, se è cosa naturale che l'uomo divenisse e divenga naturale
(cioè perfetto) mediante l'essere stato sommamente contrario e diverso
dalla natura sua e generale. Se è proprietà dell'uomo
l'acquistare la sua vera proprietà, mediante l'averla affatto deposta e
contrariata ec. ec. Se l'antropofagia, se i sacrifizi umani, se le superstizioni,
le infinite opinioni ed usi barbari ec. ec. le guerre mortalissime che
nell'America, unite all'antropofagia ec., sino agli ultimi secoli, distrussero
innumerabili popolazioni e spopolarono d'uomini molti e vasti paesi, e che una
volta essendo state comuni a tutti i popoli, e ciò quando il genere
umano era ancora scarso, misero necessariamente l'intera specie in pericolo di
scomparire affatto dal mondo per sua propria opera; sono cose secondo natura,
intese dalla natura, supposte, volute, ordinate dalla natura; non accidenti,
non disordini, ma secondo l'ordine, e derivanti dal sistema naturale e da'
naturali principii; necessarie al conseguimento ed effettuamento della
perfezione e felicità della specie. V. p.3882. e vedi la pag.3920.
3660-1.
I Californi, popoli di vita forse unico, non
avendo tra loro società quasi alcuna, se non quella che hanno gli altri
animali, e non i più socievoli (come le api ec.), quella ch'è
necessaria alla propagazione della specie ec. e credo, nessuna o imperfettissima
lingua, anzi linguaggio, sono selvaggi e non sono barbari, cioè non
fanno nulla contro natura (almeno per costume), nè verso se stessi,
nè verso i lor simili, nè verso checchessia. Non è dunque
la natura, ma la società stretta la qual fa che tutti gli altri selvaggi
sieno o [3802]sieno stati di vita e d'indole così contrari alla
natura. La scambievole communione, voglio dire una società stretta, non
può menomamente incominciare in un pugno d'uomini, che ciascheduno di
questi non ne divenga subito, non che lontano e diverso, come siam noi, ma contrario
dirittamente alla natura. Tanto la società stretta fra gli uomini
è secondo natura.
Non è dubbio che l'uomo civile
è più vicino alla natura che l'uomo selvaggio e sociale. Che vuol
dir questo? La società è corruzione. In processo di tempo e di circostanze
e di lumi l'uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s'è allontanato,
e certo non per altra forza e via che della società. Quindi la
civiltà è un ravvicinamento alla natura. Or questo non prova che
lo stato assolutamente primitivo, ed anteriore alla società ch'è
l'unica causa di quella corruzione dell'uomo, a cui la civiltà proccura
per natura sua di rimediare, è il solo naturale e quindi vero, perfetto,
felice e proprio dell'uomo? Come mai quello stato ch'è prodotto dal
rimedio si dee, non solo comparare, ma preferire a quello ch'è anteriore
alla malattia? Il quale già nel nostro caso, voglio dir lo stato
veramente primitivo e naturale, non è mai più ricuperabile
all'uomo una volta corrotto (non da altro che dalla società), e lo stato
civile (socialissimo anch'esso, anzi sommamente sociale) n'è ben diverso.
Bensì egli è preferibile al corrotto stato selvaggio: questa
preferenza è ben ragionevole, e segue ed è secondo il nostro e il
sano discorso: ma non al vero primitivo ec. ec. V. p.3932.
[3803]Dai superiori ragionamenti
appoggiati e accompagnati ai fatti e alle storie degli uomini, e queste
paragonate con quello che avviene negli altri animali ec. si dee dedurre che
dalla società che passa p.e. tra le api e i castori, e gli altri animali
che per natura hanno tra loro più stretta comunione di vita, e dagli
esempi naturali siffatti, ben si può argomentare che agli uomini non si
convenga una società più stretta di quella; ma non già
perch'ella si trovi in parecchie specie naturalmente, si può argomentare
che agli uomini convenga neppure una società altrettanto stretta,
giacchè gli uomini, contro quello che si stima, cioè che sieno
per natura i più socievoli animali, sono anzi i meno socievoli, o certo
manco socievoli di quello che sieno parecchi altri, cioè gli animali che
veramente sono i più socievoli per natura. Onde, non che all'uomo
convenga una società più stretta che all'api ec., come lo
è di gran lunga quella ch'egli ha presentemente, ed ebbe da tempo
immemorabile, si dee concludere che non gliene conviene se non una molto
più larga ec. come ho accennato p.3773. fine, e come risulta dagli
estremi danni dell'umana società stretta (danni verso se stessa e la
specie umana, e verso l'altre specie ancora e l'ordine della natura terrestre,
in quanto egli può essere ed è influito dall'uomo, massime
dall'uomo in società) considerati di sopra, e dall'estrema
insociabilità dell'uomo, dimostrata in tutto il passato discorso.
[3804] - Moltissimi, anzi la
più parte degli argomenti che si adducono a provare la sociabilità
naturale dell'uomo, non hanno valore alcuno, benchè sieno molto persuasivi;
perciocch'essi veramente non sono tirati dalla considerazione dell'uomo in
natura, che noi pochissimo conosciamo, ma dell'uomo quale noi lo conosciamo e
siamo soliti di osservarlo, cioè dell'uomo in società ed
infinitamente alterato dalle assuefazioni. Le quali essendo una seconda natura,
fanno che tuttodì si pigli per naturale, quello che non è se non
loro effetto, e bene spesso contrario onninamente a natura, o da lei diversissimo.
Onde gli effetti della società, quello che sola la società ha
reso necessario, quello che non è vero se non posta la società,
che senza questa non avrebbe avuto luogo ec., si fanno tuttogiorno servire
nelle argomentazioni de' filosofi a dimostrare la naturale sociabilità
dell'uomo, la necessità della società assolutamente e secondo la
nostra natura ec. Di questo genere è quella inclinazione che tutti
abbiamo a far parte ad altrui delle nostre sensazioni vive e non ordinarie,
piacevoli o dispiacevoli ec., inclinazione della quale ho parlato altrove
più volte, ed osservato, che bench'ella sembri affatto spontanea ed
innata, non è che l'effetto dell'assuefazione e del nostro vivere in
società, e nell'uomo posto fuori di essa per qualunque circostanza, e
massime nell'uomo primitivo e veramente incorrotto, non ha luogo e gli è
ignota. Ed infiniti altri sono gli effetti di questo genere che paiono naturalissimi,
e dimostrativi della naturale sociabilità dell'uomo, e che per tali [3805]si
recano tuttogiorno, ma che per vero non sono naturali, se non in quanto naturalmente
hanno luogo, posta la società, e le rispettive circostanze ed
assuefazioni non naturali; e naturalmente nascono da tali cagioni; nè
possono non nascere, supposte queste. È cosa onninamente e naturalmente
difficilissima il discernere tra l'assoluto naturale, e gli effetti
dell'assuefazione, massime dell'assuefazione universale, e contratta o cominciata
a contrarre fin dalla nascita o da' primi momenti del vivere, com'è l'assuefazione
della società, e infinite assuefazioni subalterne da questa dipendenti e
cagionate ec. o parti di lei, o da lei supposte ec.; e massime ancora
nell'uomo, ch'essendo di gran lunga più conformabile e modificabile
d'ogni altro animale, facilissimamente e presto si adatta alle assuefazioni,
per innaturali ch'elle sieno, e se le converte in natura, e le abbraccia ed arripit,
e seco loro s'immedesima in modo che appena l'occhio del più acuto
filosofo è bastante a distinguerle dalle disposizioni naturali, e gli
effetti loro dalle naturali qualità ed operazioni ec. Quindi non
è maraviglia se tanti argomenti ci paiono dimostrativi della naturale
sociabilità dell'uomo, e se di questa quasi tutti sono persuasi
intimamente, e credono assurdo e impossibile il contrario, e stimano questa persuasione
naturalissima, e fondata sopra il più certo ed intimo e spontaneo senso,
ed autenticata dalla più chiara e sincera e manifesta voce della natura;
e mai non deporranno questa credenza. Perocchè [3806]tutti gli
uomini che di queste cose possono discorrere o pensare in qualsivoglia modo,
filosofi o non filosofi o plebei, sono nati, allevati, formati e vissuti sempre
nella società e nelle assuefazioni ad essa appartenenti. Onde, non
veramente per prima natura, ma per seconda natura, essi sono tutti in
verità esseri sociali, ed a cui la società è propria e
necessaria. E s'alcuno è nato e cresciuto fuori della società
esso non discorre nè pensa di queste cose, o non prima che la
società e le sue assuefazioni, coll'abitudine, gli si sieno convertite
in natura. Sicchè nel creder l'uomo naturalmente sociale, e fatto per la
società, e di lei bisognoso assolutamente, e la società natural
cosa e indispensabile all'uomo, i saggi e gl'idioti, i civili e i barbari, gli
antichi e i moderni, e tutte le diversissime nazioni e tutte le classi
dissimilissime di persone, consentono insieme e consentirono e consentiranno
forse più interamente, fortemente, costantemente e per più lungo
tempo, che non fecero non fanno e non sono per fare intorno ad alcun'altra
quistione speculativa. Ma questo consenso quanto vaglia a dimostrar la proposizione
da lui favorita, le cose sopraddette il deggiono fare giustamente e adeguatamente
estimare.
Amongst unequals no society, dice
Milton, cioè fra disuguali non è società ec. ec. Or
quello che si suol dire dell'amicizia e delle secondarie società fra gli
uomini, io lo trasporto, e dee parimente valere circa la società del
genere umano generalmente [3807]considerata.[190] Di
tutte le specie d'animali (così degli altri esseri) l'umana è
quella i cui individui sono, non solo accidentalmente, ma naturalmente,
costante e inevitabilmente, più vari tra loro. Come l'uomo è di
gran lunga più conformabile d'ogni altro animale, e quindi più
modificabile, ogni menoma circostanza, ogni menomo accidente (sia individuale,
sia nazionale ec. sia fisico sia morale ec.) basta a produrre tra l'uno uomo e
l'altro (e così fra l'una nazione e l'altra) notabilissime
diversità. E come è assolutamente inevitabile la menoma
varietà delle menome circostanze e accidenti, così è
inevitabile la diversità degli umani individui ec. che ne deriva.
Inevitabile si è l'una e l'altra in tutte le specie di animali, ma la
seconda è molto maggiore nell'uomo perchè dal poco diverso nasce
in lui il diversissimo, stante la sua somma modificabilità estremamente
moltiplice, e la somma delicatezza e quindi suscettibilità della sua
natura rispetto agli altri animali, come si è detto. Nel modo che la
specie umana è divenuta, per la sua conformabilità, più
diversa da tutte l'altre specie animali e da ciascuna di loro, che non è
veruna di queste rispetto ad altra veruna di esse; e nel modo che l'uomo nelle
sue diverse età, e in diversi tempi, anche naturalmente, è
più diverso da se medesimo che niuno altro animale; più diverso
l'uomo giovane da se stesso fanciullo, che non è niuno animale decrepito
da se stesso appena nato; tanto che un uomo in diverse età o in diverse
circostanze naturali o accidentali, locali, fisiche, morali, ec. di clima ec.
native, cioè di nascita ec. o avventizie ec. volontarie o no ec. appena
si può dire esser lo stesso [3808]uomo, ed il genere umano
universalmente in diverse età, o in diverse circostanze naturali o accidentali,
locali ec. appena si può dire esser lo stesso genere; nel modo stesso
gl'individui di nostra specie sono per natura di essa specie molto più
vari tra loro che non son quelli di verun'altra. Ciò accade ancora, ed
inevitabilmente, e naturalmente, nell'uomo naturale, nel selvaggio ec. Onde
anche considerando l'uomo in natura, si può, eziandio per questa parte,
conchiudere che la sua specie è meno di verun'altra, disposta a
società, perchè composta d'individui naturalmente più diversi
tra loro, che non son quelli d'altra specie veruna. Ma come la società
introduce e porta al colmo tra gli uomini quella disuguaglianza che si
considera negli stati, nelle fortune, nelle professioni ec. così ella
accresce a mille doppi, promuove inevitabilmente e porta per sua natura al
colmo la diversità sì fisica sì morale, di facoltà,
d'inclinazioni, di carattere, di forze, corpo ec. ec. degl'individui, delle
nazioni, de' tempi, delle varie età di un individuo ec. ec. Ella
accresce le diversità naturali ed ingenite di uomo ad uomo, ed altre
infinite e grandissime che nello stato naturale dell'uomo non avrebbero avuto
luogo, necessariamente e per sua natura ne introduce e cagiona. Ella distrugge
mille conformità e somiglianze naturali di uomo ad uomo. La natura
è un canone generale e costante, indipendente dall'arbitrio, poco
soggetta agli [3809]accidenti (rispetto alla dipendenza che hanno dagli
accidenti e circostanze le opere ec. dell'uomo), una da per tutto, una sempre
rispetto a ciascuna specie, consistente in leggi certe ed eterne, ec. La
società, opera dell'uomo, dipendente dalla volontà che non ha
niuna legge certa, altrimenti non sarebbe volontà, arbitraria, incostante,
varia secondo gli accidenti e le circostanze de' tempi, de' luoghi, de' voleri,
delle mille cose che la cagionano e che determinano la sua forma e il modo del
suo essere, non è una in se stessa, perchè ha avuto ed ha
necessariamente infinite forme, e queste sempre variabili e variate; non
è una in nessuna delle sue forme, perchè in ciascuna di queste
v'ha mille varietà che diversificano l'una dall'altra necessariamente le
parti che la compongono, chi comanda da chi ubbidisce, chi consiglia da chi
è consigliato, ec. ec. Nella società l'uomo perde quanto è
possibile l'impronta della natura. Perduta questa, ch'è la sola cosa
stabile nel mondo, la sola universale, o comune al genere o specie, non v'ha
altra regola, filo, canone, tipo, forma, che possa essere stabile e comune,
alla quale tutti gl'individui agguagliandosi, sieno conformi tra loro ec. ec.
La società rende gli uomini, non pur diversi e disuguali tra loro, quali
essi sono in natura, ma dissimili. Onde anche per questo argomento si conchiude
che l'essenza e natura della società, massime umana, contiene
contraddizione in se stessa; perocchè la società umana
naturalmente distrugge il più necessario elemento, [3810]mezzo,
nodo, vincolo della società, ch'è l'uguaglianza e parità
scambievole degl'individui che l'hanno a comporre; o vogliamo dire accresce per
proprietà sua la naturale disparità de' suoi subbietti, e
l'accresce tanto che li rende affatto incapaci di società scambievole,
di quella medesima società che gli ha così diversificati, anzi
d'ogni società, anche di quella che per natura sarebbe stata loro e
possibile e destinata e propria; insomma, per tornare al principio di questo
discorso, rende i suoi soggetti quali son quelli tra' quali naturalmente no
society, anzi fa più, perchè se la società, secondo
Milton, è impossibile tra disuguali, essa li rende dissimili. E in
verità niuno animale meno che l'uomo ha ragion di chiamare suoi
simili gl'individui della sua specie, nè ha più ragione di
trattarli come dissimili, e come individui di specie diversa. Il che egli non
manca di fare. E il farlo, com'ei lo fa ordinariamente, massime nella
società, è ben prova effettiva del sopraddetto ec. ec.
(25-30. Ottobre. 1823.)
Vomito as da vomo is itum. Arguto
as e argutor aris da arguo is utum, o dall'aggett. argutus,
che di là viene ec. V. Forcell. e i due pensieri seguenti.
(31. Ott. 1823.)
Participii in us di verbi attivi ec.
in senso attivo, transitivo o no ec. V. Forcellini in Odi isti osus, Exosus,
Perosus ec. e in Argutus.
(31. Ott. 1823.)
Veri participii passati poi in aggettivi ec.
Argutus.
(31. Ott. 1823.). V. il pensiero precedente.
[3811]Nomi in uosus ualis
ec. V. Forcell. in Cornuatus,
cornuarius.
(31. Ott. 1823.)
Diminutivi positivati. Cornacchia
(poet. cornice), corneja, corneille, per lo positivo cornix.
Cornicula è di Orazio. V. Forcell. in Corniculans e corniculatus
da corniculum diminutivo di cornu, e la Crusca in cornicolare,
cornicolato, corniculato ec. A quel che si è detto altrove di flagellum
aggiungi il verbo da lui fatto, cioè flagello as, mentre da flagrum
non si disse flagrare. Vero è che flagrum si crede anzi
derivato da flagrare ardere ec. Da flabellum flabellare, ma non
da flabrum flabrare, il qual verbo, seppur esiste, è in altro
senso ec.[191]
(31. Ott. 1823.)
Alla p.3797. marg. Cioè mentre la
pigrizia e l'ignoranza dell'agricoltura ec. impediva loro o rendeva difficile
il sostentarsi sufficientemente de' frutti della terra; la pigrizia e la
codardia e la mancanza d'armi sufficienti l'affrontare o l'inseguire, il domare
o il raggiungere gli animali più veloci o più forti dell'uomo, o
più veloci e forti insieme, o anche altrettanto veloci e forti ec. ec.
Alla p.3666. Provano l'unicità di
origine nel genere umano le conformità di tradizioni, di religioni, di
opinioni non naturali, di mitologie, dì certe usanze, di certi dogmi,
riti ec. conformità e corrispondenze che si trovano fra popoli del cui
scambievole commercio non si ha memoria alcuna (fino agli ultimi momenti)
nè se ne vede il come, in popoli affatto disgiunti dagli altri, come in
isole remotissime ec. recentemente scoperte, e non mai, a memoria alcuna d'uomini,
per l'avanti calcate da forestieri, e in cui tutto dà a vedere che non
mai furono calcate da forestieri; [3812]conformità, corrispondenze,
e unicità o medesimezze di origine ora più ora meno patenti, ora
più ora meno svisate, lontane, leggere e difficili a riconoscersi,
com'è naturale in tanti secoli e tanta diversificazione accaduta ne'
vari popoli, ma non però men vere, nè meno atte a dimostrare il
nostro proposito, (poichè basta una menoma conformità, la quale
non possa essere o non si possa credere accidentale, a provare l'unicità
e medesimezza dell'origine ec.) e molte volte incontrastabili ec. Come son
quelle che i critici hanno riconosciuto, e vengono sempre più
riconoscendo tra la mitologia ec. indiana e la greca ec. tra l'egiziana e la
greca ec. e quelle di moltissime altre nazioni antiche ec. V. Annali di Scienze
e lettere di Milano. Gennaio 1811 num.13. vol.5. p.37. ec. Dove troverai
osservazioni concorrenti a dimostrare l'unicità dell'origine di molti
popoli la cui unica radice è generalmente sconosciutissima. Or da questa
unicità, e da quella di altri ivi mentovati, che si dicono di altra
origine dai primi ma comune tra loro (benchè parimente sogliano essere
reputati diversissimi di radice), si può, se non istoricamente e per
certe dimostrazioni o congetture critiche, ben però filosoficamente
argomentare la più remota unicità dell'origine sì de' secondi
popoli rispetto ai primi, sì di tutti i popoli insieme. Alcuni popoli si
diramarono e divisero in tempi a noi più prossimi o di cui ci restano
più monumenti e più noti. Questi popoli son tenuti generalmente
per conformi di origine. Altri in tempi più remoti e di cui ci restano
meno o men noti monumenti, furon tutt'uno. Questi non son tenuti per conformi
di origine se non da' più dotti. Così salendo, si argomenta che
anche [3813]dove l'unicità dell'origine non può (almen
finora) per niun modo apparire, ella non è per tanto men vera,
benchè non apparisca o per maggior lontananza de' tempi, o per mancanza
o scarsezza o oscurità o poca cognitezza di monumenti ec. Il filosofo
da' particolari inferisce i generali, da' simili i simili, dal noto l'ignoto, e
se neppure il critico, molto meno il filosofo ha bisogno di mostrar co' fatti
ogni particolare, ovvero ogni generale con fatti generali o con tutti i particolari
che cadono sotto quel tal generale ec. ma spesso e bene dimostra co'
particolari il generale, e non con tutti i particolari, ma con alcuno, e i
particolari con altri particolari o col generale ec.
(31. Ott. 1823.)
L'amor della vita, il piacere delle
sensazioni vive, dell'aspetto della vita ec. delle quali cose altrove, è
ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza.
Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni
sua operazione alla vita. Perciocch'ella esiste e vive. Se la natura fosse
morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S'ella
tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe
e proccurerebbe contro se stessa. S'ella non proccurasse la vita con ogni sua
forza possibile, s'ella non amasse la vita quanto più si può
amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto
maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se
stessa (vedi la pagina 3785. principio), non proccurerebbe se stessa o il
proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa
impossibile), nè amerebbe il suo maggior [3814]possibile bene, e
non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come
negl'individui e nelle specie ec., così sono impossibili nella natura).
Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l'esistenza,
l'essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi
può esser cosa nè fine più naturale, nè più
naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l'esistenza e la vita,
la quale è quasi tutt'uno colla stessa natura, nè amore
più naturale, nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La
felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato
della vita, secondo la sua diversa proprietà ne' diversi generi di cose
esistenti. Quindi ell'è in certo modo la vita o l'esistenza stessa, siccome
l'infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita,
perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la
natura, ch'è vita, è anche felicità.). E quindi è
necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna
di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è
piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore
e più viva. La vita generalmente è tutt'uno colla natura, la vita
divisa ne' particolari è tutt'uno co' rispettivi subbietti esistenti.
Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può
non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L'essere esistente non
può amar la morte, (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente
parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può
non odiarla il più ch'ei possa, in veruno istante dell'esser suo; per la
stessa ragione per cui egli non può [3815]odiar se stesso,
proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa
e il più ch'ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il
più ch'egli possa onninamente amare. Sicchè l'uomo, l'animale ec.
ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch'egli ama se stesso.
(31. Ott. 1823.)
Al mio discorso sopra avvisare, divisare
ec. aggiungi il franc. Deviser.
(31. Ott. 1823.)
Alla p.2928. fine. Noi abbiamo ancora,
bensì in diversi significati, intenso ed intento. (intensità
ec.). V. i francesi e gli spagnuoli. Nel lat. intensus è ben
raro. V. Forcell. Tensus è de' più moderni. Extensus
ec. e gli altri composti, veggasene il Forcellini.
(1. Nov. 1823.)
Come altrove ho congetturato dalla voce , anche
nel greco, come sì sovente in latino, lo spirito denso si cangia talora
in s. Peresempio, da ec. V. i
Lessici. Così in lat. sal, salum ec. dalla stessa voce.
(1. Nov. 1823.)
A quello che nella teoria de' continuativi
ho detto per mostrare che sector aris è contrazione di secutor,
aggiungi persector aris, che i francesi dicono infatti persécuter,
noi perseguitare, e gli spagnuoli se non fallo, persecutar.
(1. Nov. 1823.)
Alla p.3036. marg. Periurus,
cioè qui peieravit, o periuravit, non sembra essere altro
che contrazione di periuratus (che pur si trova, come anche peieratus,
in senso passivo), siccome coniuratus, qui coniuravit; iuratus, qui iuravit
ec. (iuratus ha pure il senso passivo: non così periurus).
(1. Nov. 1823.)
[3816]Participii in us in
senso attivo o neutro ec. Periurus. V. il pensiero precedente (1. Nov.
1823.). Giurato, juré ec.
Alla p.2779. Al contrario da fur ec.
(1. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Libella (it. livella,
livello, franc. niveau, spagn. se non erro, nivel; livellare
ec., niveler ec., ec.) per libra che pur si dice nello stesso
significato. V. Forcellini. Circulus (circulo
as, circularis ec. ec.) per circus, voce antiquata ec. (benchè
pur si trova) se non nel senso dell'anfiteatro romano ec. ec. V. Forc.
(2 Nov.
1823.)
Mestare, rimestare ec. da misceo-mixtus
o mistus, quasi mistare o mixtare. V. il Gloss. i Diz.
franc. e spagn. ec. (2. Nov. dì de' morti. 1823.). Expulser
franc. da expellere-expulsus, come da pello-pulsus, pulso as ec. V. Forcell. in expulso ed expulsatus.
(2. Nov. dì de' morti. 1823.)
Alla p.3067. Non altrimenti, al tempo di
Voltaire e in quei contorni (quando l'unica letteratura d'Europa era, si
può dir, la francese, benchè già ben decaduta; essendo
spenta l'italiana e la spagnuola; la tedesca non ancor nata, o bambina, o tutta
francese; l'inglese quasi interrotta, o francese anch'essa, ma già priva
de' capi di quella scuola anglo-gallica, cioè Pope, Addison, ec.: e
parlo qui della letteratura non delle scienze e filosofia, dove gl'inglesi
anche allora fiorivano), le epistole e poesie indirizzate o da Voltaire
medesimo o dagli altri poeti francesi ai principi di Svezia, di Russia, d'Alemagna
ec. o composte in loro lode, o su di loro, o sui loro affari, o sugli
avvenimenti ec. si leggevano, si applaudivano, si ricercavano, si diffondevano,
davano materia di discorso nelle rispettive corti e capitali, e nell'altre
corti d'Europa ec. e da' rispettivi principi ec. (lasciando anche da parte il
re e la corte [3817]e capitale, e quasi tutto il regno, di Prussia,
ch'era tutta francese ec.). Così anche l'altre opere in versi o in
prosa, di francesi o scritte in francese, di letteratura e di poesia, non che
di filosofia ec. Sicchè la lingua italiana occupava nel sopraddetto
tempo il grado che la francese non solo occupa presentemente, ma quello ancora
che occupò quando essa letteratura francese era unica; sì per
universalità e diffusione, sì per riputazione, dignità,
gusto e cura diffusane generalmente ec. come si vede anche per questa somiglianza
d'esser ella in quei tempi così e sopra tutte gradita nelle corti, come
lo fu nel 700, oltre la lingua, che ancor lo è sopra tutte, anche la
letteratura francese, che or non lo è più se non di pari
coll'altre moderne (dal qual numero l'italiana d'oggidì è
fuori niente meno che la spagnuola).
(2. Nov. dì de' morti. 1823.)
Alla p.2685. marg. , ec.
significa anche mancare mancante ec., e tale si è appresso appoco
il suo significato nelle dette frasi, onde elle sono le stesse che le addotte
italiane. Similmente il francese falloir vale propriamente mancare
(dal lat. fallere, spagn. faltar, it. fallire, fallare ec.
ed anche in franc. faillir), e riunisce i significati di mancare
e bisognare appunto come il greco , o l'impersonale
.
Simiglianza che non è da trascurare nè dev'esser casuale ec.
Nelle addotte frasi il suo significato è parimente di mancare. In
greco si dice anche semplicemente , , , senza il
verbo per fere,
quasi ec. come noi per poco e di poco senz'altro verbo. V. la Crusca in di
poco e in per §.98. e i Lessici greci. Si dice ancora in greco assolutamente
[3818], , . Ovvero
concordato col subbietto , ec.
Ovvero p.e.
cioè diciotto ec.,
cioè quasi uguale ec. Anche si dice che
risponde precisamente al nostro per poco mancai di far questo: ovvero di
poco ec. V. i Lessici in . Qua si
dee riferire il nostro di gran lunga e d'assai (à
beaucoup près) in quelle frasi: egli non è di gran lunga,
o d'assai, così grande (beaucoup s'en faut). Ovvero ei
non fu ec. (beaucoup s'en
fallut ec.). Dove il verbo mancare o simile, è
soppresso, come nelle frasi greche ovvero , e simili,
dove è taciuto il verbo . così
assoluto non mi par che si dica.
(3. Nov. 1823.)
Alla p.3573. Questa proposizione è
molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per rispetto alla lingua
francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto all'italiana,
dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno insieme le
conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla
latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa
è quasi un'illusione de' sensi. Perchè quei tali suoni latini non
sono nello spagnuolo a quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine
degli s contribuisce, e forse principalmente, a rassomigliare il suon
dell'una lingua a quello dell'altra. Ma lo spagnuolo abbonda di s,
principalmente perchè in essa [3819]lingua tutti i plurali
terminano in quella lettera. Non così in latino. (Vero è
però che in latino la terminazione in s è propria di tutti
gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo Perticari, i nomi latini
trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle
declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagnuolo la terminazione in s
sia caratteristica de' plurali, potrebb'esser preso dal latino, e cosa
anch'essa latina. E quest'osservazione può essere di non poco peso a confermare
l'opinione di Perticari; (sebben ei parla solamente de' singolari, i quali
fatti dall'accusativo latino generano poi i plurali al modo nostro) mentre
altri con più apparenza di ragione, ma forse men verità, vogliono
che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P.e. amore ec. Ma veramente
non si vede perchè, dovendosi perder l'uso degli altri casi, e restare
un solo per tutti, com'è avvenuto nelle lingue moderne, e come, certo in
gran parte, dovette avvenire anche nell'antico latino volgare e parlato, avesse
a prevaler l'uso dell'ablativo. Ben è consentaneo che l'accusativo si
usasse in vece degli altri casi ec. v. p.3907. L'aggiunger sempre la es
ai singolari terminati in consonante non è uso latino, se non in certi
casi, e nella terza declinazione. (Noi per la terminazione de' plurali imitiamo
i nominativi latini della seconda e della prima. Sicchè quanto alla
terminazione de' plurali, la conformità dello spagnuolo col latino,
supposta eziandio e conceduta, come sopra, non si può dire che superi
punto quella dell'italiano. Del resto quel continuo s che si sente nello
spagnuolo fa un suono che tutto insieme considerato è così poco,
o tanto, latino, quanto le continue terminazioni vocali dell'italiano. Il
latino è temperato di queste e di quelle, ed eziandio insieme d'altre
molte terminazioni; sicchè veramente il suo suono, parlando pure in
generale e astrattamente non è nè quello dell'italiano nè
anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello spagnuolo le terminazioni
consonanti sono miste come in latino, alle vocali, laddove in italiano non v'ha
quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè la terminazione in s
sia, almeno tra le consonanti, la più frequente, pur v'ha diverse terminazioni
consonanti, come in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia
propria, credo, anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.),
benchè non sempre, anzi non il più delle volte, ne' casi stessi;
e le terminazioni vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche
come in francese. Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è
veramente più conforme al latino che non è non solo il francese
ma neppur l'italiano. E da queste ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si
possa più facilmente confonderlo col latino che non fa il francese
nè anche l'italiano. E questo effetto, sotto questi aspetti, non
è un'illusione, nè una cosa che non meriti esser considerata, e
che non abbia un principio e una ragione di conformità o simiglianza
reale. La terminazione consonante in d frequente nello spagnuolo
è rara in latino ma pur v'è, come in ad, illud, id, istud, sed
ec.). Del resto anche in francese (bensì nel solo francese scritto) la
terminazione in s (e a' singolari terminati in consonante, si aggiunge
talvolta la es, se non m'inganno) è caratteristica del plurale
(quella in x vien pure a essere in s); sicchè lo spagnuolo
in questa parte non prevarrebbe al francese se non in quanto ei pronunzia
sempre la s, e il francese solo talvolta, e piuttosto per accidente che
per altro. Quanto all'italiano, [3820]anche nelle forme regolari delle
coniugazioni, esso in molte cose [è] assai più conforme al latino
che non è lo spagnuolo. V. p.e. le pag.3699-701. e la mia teoria de'
continuativi dove si parla del digamma eolico in amaℲi ec. E
basti osservare che lo spagnuolo non ha che tre coniugazioni; l'italiano le ha
tutte quattro, e tutte, in molti caratteri, corrispondenti alle rispettive
latine, come negl'infiniti are, ere, ere, ire (lo spagnuolo manca del 3°
e gli altri non gli ha che tronchi), e in altre cose. Anche il francese ha 4.
coniugazioni, ma non corrispondono alle latine (eccetto quella in ir
quanto all'infinito ec.), e la conformità del numero (cioè
l'esser 4. come in latino) sembra, ed è forse, un puro caso; il che non
si può certo dire dell'italiano. E quanto alla conservazione della
latinità in mille e mille altre sì regole, sì voci
particolari materialmente considerate, sì frasi considerate pure materialmente
(chè ora parliamo dell'estrinseco), significati ed usi delle parole e
frasi, anche propri originalmente o sempre del popolo e del parlato, non del
solo illustre ec. dubito assai che lo spagnuolo possa esser preposto, anzi pure
agguagliato all'italiano. Questa e quell'altra voce ec. sarà più
latina in ispagnuolo che in italiano (così avverrà alcune volte
che nello stesso francese una voce ec. sia più latina che nelle due sorelle,
o in una di loro, o che queste o l'una di esse, non abbiano una voce ec. nel
francese conservata, nè pertanto sarà chi dica la latinità
conservarsi più nel francese che nelle sorelle, o che nell'una di esse);
questa e quella voce latina resterà nello spagnuolo, e all'italiano mancherà;
ma, raccolti i conti e computati i casi contrarii, e posto tutto insieme, io
credo che in tutte queste cose l'italiano soverchi lo spagnuolo di grandissima
lunga.
(3. Novembre 1823.)
[3821]Diminutivi positivati. Orbiculatus, orbiculatim, reticulatus,
venniculatus ec. (3. Nov.
1823.) se già non sono frequentativi di significato come altrove generalmente
ho avvertito.
Alla p.3156. - quando eziandio il
sentimentale di Lord Byron, quello che spetta al giuoco delle passioni, al
cuore, all'espressione alla pittura all'imitazione de' caratteri e de'
sentimenti degli uomini, alla scienza e considerazione dello spirito dell'uomo,
dell'uomo interno ec. (del che le poesie di Lord Byron sommamente abbondano, anzi
sono composte) pochissimo si communica a' lettori, e veramente è poco
fatto per comunicarsi agli animi altrui. E ciò appunto perchè
esso pare, e forse è, piuttosto dettato dall'immaginazione che dal
sentimento e dal cuore, piuttosto immaginato che sentito, immaginato che vero,
inventato che imitato o congetturato, creato che ritratto ed espresso, e insomma
ha certamente più dell'immaginoso che del passionato e sentimentale, ed
è per sua natura più atto e disposto ad operare sulla immaginazione
che sul cuore di chi legge. E così parrebbe che Lord Byron avesse
voluto, e così certo accade. E perciò il suo effetto è
debole, cioè poco intimo, e quindi poco durevole, benchè possa
esser fortissimo al primo tratto, il che non è incompatibile col
superficiale. L'effetto delle poesie di Lord Byron, tanto e così perpetuamente
ed estremamente sentimentali, l'effetto del sentimentale di esse, non è
sentimentale per le dette ragioni. Or veggiamo che per ciò è poco
intimo, e poco si comunica il movimento dell'autore e di esse, perchè
questo non essendo quasi proprio ad agire che sull'immaginazione, l'immaginazione
[3822]de' lettori oggidì è generalmente poco atta a
ricevere forti, cioè intime e durevoli impressioni: il che è
quello ch'io diceva, e il proposito di questo discorso. E quel movimento delle
poesie e de' poeti che spetta solamente o principalmente all'immaginazione, sia
che nasca da essa sola nel poeta, e in essa sola abbia avuto luogo, sia che in
essa sola possa agir ne' lettori e ad essa sola comunicarsi, (questo è
più probabilmente il caso nostro, perchè io credo che Lord Byron
veramente senta, non solo imagini, anzi l'eccesso e la straordinaria forza e
qualità de' suoi sentimenti sia quel che gli noccia) difficilmente e in
piccola parte e poco gagliardamente si comunica ai lettori d'oggidì.
Diversamente certo accadeva negli antichi (lo vediamo infatti anche oggi ne'
fanciulli e ne' giovani ancora inesperti del mondo, o nella prima
gioventù, quando ella, in pratica, ancor non filosofa, come tutti fanno
nell'altre età, o dopo l'esperienza; cioè tutti oggi filosofano,
quanto alla vita ec. chi in teoria e in pratica, chi in questa sola). Oggi
anche gli antichi sommi poeti presto ci stancano e lasciano in secco, se e
quando non sono che immaginosi, ancorchè in questo medesimo sommi,
straordinarii e pieni d'arte. Le poesie di Lord Byron molto più e
più presto ci stufano e lascian freddi, per la grande uniformità
che vi si sente, la quale può esser vera, e nascere da mancanza della
vera e sottile arte poetica (sì bene e distintamente conosciuta e
sì eccellentemente e maestrevolmente praticata dagli antichi); e
può anche esser che sia apparente, e nasca solo dal continuo eccesso in
ogni cosa, dalla continua intensità, dal continuo risalto [3823]straordinario
di ciascuna parte. Il che da un lato produce l'effetto dell'uniformità,
e lo è veramente, in quanto è continuo eccesso ec.
benchè variato, quanto si voglia, ne' suoi subbietti, qualità ec.
Dall'altro lato stanca come l'uniformità, perchè troppo affatica
gli animi, che ben tosto non possono più tener dietro all'entusiasmo del
poeta, come la vista presto si stanca di colori tutti vivissimi, benchè
e belli e varii; e perchè il molto ed J, sia pur
bonissimo, presto sazia; come chi bee ad un tratto un boccale di liquore, ha
subito estinta la sete, nè perchè tu gli offra altro liquore diverso
e squisitissimo, ha voglia di gustarlo, ma egli ha perduto per allora la
facoltà di provar piacere dal bere, e da' grati liquori. Come nel corpo
così nell'animo la facoltà la virtù di provar piacere
è scarsa; bisogna risparmiarla, o ch'ella è ben tosto esaurita.
Il corpo e l'animo cede e vien meno al soverchio piacere, come al soverchio
dolore. Ben rare sono le cose piacevoli, e i piaceri ben piccoli. Ma fossero
pur frequentissimi e grandissimi. Nè il corpo nè l'animo umano
hanno la forza di goder più che tanto, e anche indipendentemente
dall'assuefazione che rende indifferenti le sensazioni da principio piacevoli o
dolorose, anche restando ai piaceri e ai dolori la lor forza, manca all'uomo la
facoltà di sentirli, se e' son troppo grandi, o se son troppi ec. La
facoltà di soffrire è assai maggiore nell'uomo. Pur se il dolore
è soverchio, nè il corpo nè l'animo umano non è
capace di sentirlo, e non soffre, o per poco spazio, dopo il quale la sua
facoltà di soffrire vien meno. L'uomo non può molto godere, non
solo perchè pochi e piccoli sono i piaceri, [3824]ma anche
rispetto a se stesso, perchè egli è molto limitatamente capace del
piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano
a vincere di gran lunga la sua capacità. Bacco e Venere sono piaceri, ma
l'uomo dopo un quarto d'ora ec. diviene incapace di gustarli, e soccombe alla
loro forza niente meno che a quella de' tormenti e de' morbi.
(3. Nov. 1823.)
Somma conformabilità dell'uomo ec.
Tutto in natura, e massime nell'uomo, è disposizione. ec. Straordinaria,
ed, apparentemente, più che umana facoltà e potenza che i ciechi,
o nati o divenuti, hanno negli orecchi, nella ritentiva, nell'inventiva,
nell'attendere, nella profondità del pensare, nell'apprender la musica
ed esercitarla e comporne ec. ec. Similmente dei sordi nell'attenzione, nella
contenzione e concentrazione del pensiero, nell'imparar cose che paiono impossibili
ai sordi nati, fino a leggere, a scrivere, a parlare fors'anche ec. come nelle
scuole de' sordi muti ec. Le quali straordinarie potenze delle parti morali,
che si scuoprono nell'uomo per la sola forza delle circostanze, e talora in un
individuo medesimo che dapprima non le aveva, come in uno divenuto cieco a una
certa età, ec.; sono analoghe a quelle, altrettanto straordinarie, delle
parti fisiche, occasionate pur dalle sole circostanze, e che in tanto si credono
possibili fisicamente all'uomo, in quanto solamente si vede in fatti qualche
individuo che per forza delle sue circostanze, è giunto a possederle.
Come quello che nato senza braccia, suppliva co' piedi a tutte le funzioni
delle mani, fino alle più squisite. Delle quali potenze niuno pure
immagina che l'uomo e le rispettive sue parti morali [3825]o fisiche
sieno in alcun modo capaci, se non vede o non conosce i fatti a uno per uno.
Così dico di centomila altre facoltà straordinarie morali o
fisiche possedute oggi o ne' tempi addietro da individui, o da razze, o da
nazioni particolari, per sola forza di circostanze, o di esercizio, o di
costumi ec. Come son quelle de' giocolieri indiani, ed eran quelle de'
giocolieri messicani ec. de' nostri saltatori, giuocatori di forze, ed anche di
lestezza di mano ec. E quel che dico delle facoltà dicasi ancora delle
qualità straordinarie morali o fisiche, de' costumi, delle abitudini
d'ogni sorta ec. straordinarie, o che a noi son tali ec.
(4. Nov. 1823.)
Non solamente in italiano e in francese ec.
(come in châtelet) si diminuiscono i diminutivi positivati, come ho
detto altrove, venuti dal latino o no, positivati nel latino o nelle lingue
moderne ne ec.; ma eziandio nel latino medesimo, come flabellulum,
s'è vera voce, e credo altre parecchie.[192]
Del resto anche i diminutivi non positivati si tornano a diminuire talvolta in
latino come in italiano ec. s'io non m'inganno. Puella, benchè
sia voce esprimente una cosa piccola e da vezzeggiare ec. pur è un diminutivo
positivato in quanto restò solo in uso in vece dell'antiquato suo
positivo puera, di cui v. Forcell. E puella si diminuisce in puellula.
(4. Nov. 1823.)
Alla p.3757. Dagli altri supini, si fanno,
ma son più rari, mutato l'um in ibilis, come da flexum
flexibilis, inflexibilis, ec. passibilis ec. sensibilis,
insensibilis ec. Nel latino barbaro, e nelle lingue moderne s'usa di far
tali verbali [3826]allo stesso modo da' supini in tum impuro,
cioè sostituendo all'um l'ibilis, come fattibile, perfettibile,
indefettibile, ec. da perfectum, defectum, factum. Ma non
così in latino buono, o seppur v'avesse qualch'esempio simile, sarebbe
de' tempi più moderni ec. I buoni latini avrebbero detto facibilis
da facitum, come anche noi diciamo concepibile inconcepibile ec.
(concevable ec.) da concepitum, mentre però diciamo percettibile
impercettibile ec. da perceptum; e diciamo reperibile da reperitum,
non repertibile da repertum ec. Regolarmente e primitivamente
niun supino latino finisce in tum impuro. Sicchè questa formazione
non è latina. V. p.3904.3928.
Del resto, queste osservazioni sopra la
formazione de' verbali in bilis servono anch'esse a confermare le nostre
proposizioni circa l'antico e regolare stato de' supini, sì in generale,
sì per ciascuno di tai verbali in particolare, cioè di quelli che
fanno al proposito ec.
(4. Nov. 1823.)
Alla p.3688. fine. Come il significato di abbia a
fare con quel di nosco, vedi i Lessici. E in ogni modo o che nosco
fosse da , o che
sia da , sarebbe
la stessa cosa, quanto alla ragion del significato ec. perchè e sono lo
stesso verbo. E , che vale
nosco, vien certamente da ec.
(4. Nov. 1823.)
Reperito da reperio-ertum,
ant. reperitum. V. Forcell.
Manto as da maneo-mansum, ant.
manitum regolare, contratto in mantum. Ovvero mantum sta
per mansum mutato l's in t. Vedi ciò che altrove
s'è detto in più luoghi circa tal mutazione ne' supini e
participii, a proposito di vectum e vexum di veho, onde [3827]
vectare e vexare, e ad altri propositi; e quello si riferisca a manto,
e manto a quel che ivi si è detto. Mansum anomalo è
dall'anomalo mansi per manui, secondo il detto altrove della
formazione de' supini da preteriti perfetti, al che si aggiunga anche questo
esempio. Da mansum è mansitare fratello di mantare,
come vexare di vectare ec.
(4. Nov. 1823.)
Alla p.3704. fine. E qualcosa similmente
è più aliena dalla terza coniugazione, e più propria e
caratteristica della prima, che la desinenza in avi nel perfetto e in atum
nel supino? (sero is anomalo ha satum, anomalo come il perfetto sevi;
ma oltre che questo supino è anomalo, ei non è in atum ma
in atum). Or eccovi nascor della terza fa natus participio
e sostantivo e natus sum, e natum, e natu ec. E tutti i
verbi in asco e ascor, o non hanno perfetto nè supino, o
se n'hanno o che se gli attribuiscano, e' sono in avi e in atum.
Qual più chiaro segno che questi non sono proprii loro, ma d'altro verbo,
e questo della prima? Veterasco is ha, o se gli attribuisce, veteravi.
Pare però che lo stesso Forcell. che glielo attribuisce, abbia veduto
ch'e' non può esser proprio suo, ma di un vetero as, il quale ei
segna senz'alcun esempio, rimettendo a veterasco, dove di vetero
non è parola; solo vi sono esempi di veteravi frammisti a quelli
di veterasco. (Trovasi anche veteratus, v. Forc. in questa voce).
Infatti abbiamo inveterasco is fatto evidentemente da invetero as avi
atum, il quale ancora sussiste (tutto intiero), e così inveteratus
(che il Forc. attribuisce giustamente ad invetero, sì come anche
il perfetto inveteravi e il supino inveteratum, segnando [3828]
inveterascere senza perfetto nè supino), e così forse altri
composti di vetero. Dunque se v'invetero, e se a questo spetta inveteravi,
atum, atus, dovette avervi anche vetero, e suo esser veteravi,
atus ec. E così discorrasi di tanti altri verbi originali di quelli
in sco, de' quali mancando il semplice si trovano però i loro
composti, a' quali ordinariamente si attribuiscono i perfetti e supini che loro
convengono, mentre quelli de' semplici, se i semplici non si trovano,
s'attribuiscono ai loro semplici derivati in sco.
Irascor sta nel Forcell. senza
supino nè perfetto. Trovasi iratus. Vero participio,
benchè forse, almeno in certi casi, aggettivato, come tanti altri. Or
donde viene questo participio? Non dimostra egli un verbo della prima? un verbo
onde venga sì egli sì irascor? Cioè un antico iror,
conservato nell'italiano (irare, adirare, airare ec. con lor derivati
ec.), e v. gli spagn.
(4. Nov. 1823.)
Alla p.3710. Da' verbi della 2da
si fanno quelli in esco, dalla terza si fanno in isco,
così dalla quarta, come scisco; dalla prima, in asco; del
che vedi gli esempi nel pensiero precedente, ed aggiungi labasco e labascor
da labo as, e simili. In Labasco nel Forcell. trovo il nome
appellativo e speciale de' verbi in sco. Essi si chiamano presso i
grammatici, verba inchoativa. (4. Nov. 1823.). V. p.3830. fine.
Adito as da adeo
is-itum.
(4. Nov. 1823.)
Al detto altrove del verbo bitere,
aggiungi quello che ha il Forcell. in adito as. E nóta come anche [in]
quell'esempio, [3829]il quale, secondo il Forcell., è appoggiato da
tutte l'ottime edizioni, la coniugazione di bito fu la prima. Si adbites.
Certo questo è presente congiuntivo e non futuro indicativo. Almeno sen
può ben dubitare. E veramente io mi maraviglio come nè per
questo, nè per gli altri esempi, altrove da me esaminati, il Forcellini
(e forse niun altro) si sia avveduto che bito è della prima, o
anche della prima, e l'abbia pur creduto della terza, o della sola terza, oltre
bitio is della 4ta ec. s'è vera voce.[193]
(4. Nov. 1823.)
Lo stato della letteratura spagnuola
oggidì (e dal principio del
Del resto tutto quello ch'io [ho] ragionato
in più luoghi circa la presente (ec.) condizione della letteratura e
lingua italiana; circa il mancar noi di lingua e letteratura moderna, di
filosofia ec.; circa la condizione in cui si troverebbe oggidì un grande
e perfettamente colto ingegno italiano, la necessità che avrebbe di
crearsi una lingua, di creare una letteratura ec., il come e quale gli
converrebbe crearle, e con quali avvertenze ec. ec. tutto, con lievi e
accidentali diversità intendo altresì dirlo degli spagnuoli. E
viceversa la considerazione di questi può e dee molto servire, sì
a noi, sì anche agli stranieri, per giudicare e formarsi una giusta idea
dello stato d'Italia e degl'ingegni italiani (se ve ne fossero) rispetto alla
lingua, letteratura, filosofia ec. Le lingue e letterature italiana e
spagnuola, le più conformi forse del mondo per mille altri titoli, come
ho mostrato altrove (e così le nazioni ec.), lo sono altresì per
la loro storia, e pel loro stato presente e passato ec. Ed altrimenti infatti
non avrebbero avuto fra loro quelle conformità intrinseche che hanno, o
certo non in tal grado, nè così durevolmente ec. ec.
(4. Nov. 1823.)
Alla p.3828. fine. Sicchè di ciascun
verbo in asco si può sicuramente dire che viene da un verbo della
prima, e non d'altra coniugazione, della quale è segno caratteristico l'a
precedente la desinenza in sco; e così rispettivamente dite de'
verbi [3831]in esco ed isco ec. (se pur non v'ha qualche
verbo in sco che non sia incoativo, neppur per origine, (giacchè
per significato ed uso molti nol sono o nol sono sempre, come altrove dico) il
quale sarebbe fuori del nostro discorso). Pasco è certamente da
un antico pare da (e non da
, come
dubita il Forcell. in Pasco princip.) come l'antico poo da , e altri tali di cui altrove
sparsamente ed insieme. Dimostralo sì la sua desinenza in asco,
sì il perfetto pavi, affatto anomalo rispetto a pasco e
rispetto alla sua coniugazione, cioè alla terza, perchè tolto in
prestito da quell'antico verbo della prima, di cui è proprio. Ecco come
le nostre osservazioni scuoprono e illustrano le antichissime voci e radici
della lingua latina, e la sua analogia, e le sue antichissime conformità
colla greca, e la medesimezza di voci greche e latine che non paiono più
aver nulla che fare (e ciò non per stiracchiate etimologie, come tanti
altri han fatto, ma per accurato ed evidente ragionamento, e per mille
confronti ec. e per regole grammaticali ec. trovate, o illustrate nuovamente e
nuovamente applicate, ampliate, meglio stabilite, spiegate ec.), e le origini
della lingua latina, e la proprietà vera e primitiva sua e delle sue
voci, e le sue vere norme e regole, forme ec.; e le ragioni ed origini delle
anomalie sue e delle sue voci ec. Pastum è contrazione di pascitum
dimostrato da pascito. L'uno e l'altro è supino (e participio)
proprio di pasco, non di pao. Nuova prova che il vero e proprio
supino di tutti i verbi in sco è in scitum, benchè
per lo più perduto, e sostituitigli degli altri ec.; e quindi ancora che
il lor proprio perfetto sarebbe in sci, giacchè il supino si fa
dal perfetto, come [3832]altrove. Il composto di pasco, compesco,
s'egli però è veramente composto di pasco, come crede il
Forcell. (vedilo in pasco fin. e in compesco), non fa compavi,
ma compescui, anomalo anch'esso, (v. la pag.3707.) ma, benchè anomalo,
proprio di compesco e di un verbo in sco, non di compao
nè di pao, e che pur serve a mostrare che pavi non
è proprio di pasco. Per supino Prisciano gli dà compescitum,
e a dispesco, dispescitum; nuova prova e di pascitum e della
qualità de' proprii supini de' verbi in sco ec. Prisciano
riconosce anche dispescui. Se dispesco sia composto di pasco,
ne dico quello stesso che di compesco.
Del resto ne' verbi in sco fatti da
quelli della terza, non è essenziale la desinenza in isco. Da noo
is si fa nosco: posco ec. ec. O che queste desinenze sieno
primitive, ovvero, che m'è più probabile, l'i che
dovrebb'esservi, vi è mangiato, e ciò per evitare il concorso
delle vocali, giacchè tali desinenze han luogo quando la desinenza in isco
sarebbe stata preceduta da una vocale. P.e. da noo is, regolarmente
sarebbe stato noisco (intieramente conforme al greco , e
ciò per puro accidente, come a pag.3688.). Ma siccome noo e
simili andarono in disuso per la spiacevolezza del suono, cagionata dal
concorso delle vocali, siccome altrove ho detto, così ne' lor derivati
che restarono in loro luogo, per evitar lo stesso concorso, fu soppresso l'i,
ch'era la vocale più esile. Del resto nosco è per noisco,
come notum per noitum, nobilis per noibilis, potum per poitum,
sutum per suitum ec. ec. come altrove in più luoghi. E questi
sono così ridotti per la detta ragione.
(4. Novembre. 1823.)
[3833]Alla p.3640. marg. Gl'Inca
furono i civilizzatori di quella parte non piccola dell'America meridionale
ond'essi in varie maniere s'insignorirono. Civilizzatori per rispetto alla
barbarie estrema de' popoli di quella parte non soggetti alla loro dominazione,
anche de' confinanti, ed alla barbarie de' popoli da lor soggettati, prima della
soggezione. La civilizzazione operata dagl'Incas, o da essi diffusa, fu
principalmente nelle provincie più vicine alla lor capitale; nell'altre
tanto minore proporzionatamente quanto più lontane, men soggette, e
più recentemente riunite al loro impero. Or gl'Inca adorarono unicamente
o principalmente il sole; e così la lor capitale e le più antiche
provincie del loro regno. Essi introdussero il culto del sole per tutto insieme
col lor dominio. L'altre provincie lor soggette massime le più lontane,
o le men soggette, o le più recentemente, e ne' principii della lor
soggezione tutte o quasi tutte, lo riunirono ai culti lor naturali, ch'erano
d'idoli orribili a vedere, e de' quali avevano formidabili e odiosissime idee
di figure d'animali feroci, o d'idee semplici di qualche essere spaventevole
non rappresentato in niun modo. Le provincie non soggette agl'Inca non ebbero
che questi o simili culti e mai non conobbero quello del sole. Quando gli
Europei scoprirono il Perù e suoi contorni, dovunque trovarono alcuna
parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del
sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che
altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur
provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado [3834]o
vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima
barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i
tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto
del sole, i confini di essa ec.
(5. Nov. 1823.)
Dico altrove che noi sogliamo cangiare l'i
de' participii latini in us, usitati o inusitati, nella lettera u.
Che questa mutazione dell'i in u (mutazione propria della voce umana,
come ho detto altrove in più d'un luogo) ci sia naturale segnatamente in
questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus),
e conceputo (diciamo anche concetto, voce tolta dal latino dagli
scrittori e dalla letteratura). Ma questo secondo è più italiano
ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec. rispetto ad empìto,
compìto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir compiuto
per compito ma questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse
altri ec. Nótisi però che i grammatici distinguono empiere ec. ed
empire (meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere
danno empiuto ec., a concepere conceputo; ad empire
empìto ec.
(5. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Rameau,[194] Taureau.
(5. Nov.
1823.)
Participii affatto aggettivati. Acutus a um. E v. Forc. in Acuo sulla fine.
(5. Nov. 1823.)
Verbi in uo. Tribuo da tribus us;
verbo della terza, siccome [3835] acuo che forse è da acus
us, statuo da status us ec. del che altrove.
(5. Nov. 1823.)
L'esaltamento di forze proveniente da' liquori
o da' cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona,[195]
come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come
diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l'effetto
essenziale di essa, ch'è il desiderio del piacere, perocchè
coll'intensità della vita cresce quella dell'amor proprio, e l'amor
proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità
è piacere.[196]
Quindi l'uomo in quello stato è oltre modo, e più ch'ei non
suole, avido e famelico di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo
desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e
immediatamente al vero fine della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla
vera somma e sostanza ultima della felicità, ch'è il piacere,
poco, o men del suo solito, curando le altre cose, che spesso son fini delle
operazioni e desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si
prendano per primarii e per felicità; perch'essi stessi tendono essenzialmente
ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al piacere.
In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello
che sono sempre i più forti rispetto agli altri, cioè più
sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii,
cioè dal desiderio della propria felicità, e più
immediatamente e specialmente, e in modo più espresso, sensibile e
manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del piacere [3836](al
quale tutti tendono e sempre, ma i più forti più, e più immediatamente
e chiaramente, o ciò più spesso e più ordinariamente degli
altri), perocch'essi sono abitualmente più vivi degli altri.
Similmente, come in generale i più
forti per l'ordinario, così gl'individui in quel punto, sogliono essere
(proporzionatamente alle loro rispettive abitudini e caratteri, età,
circostanze morali, fisiche, esteriori, di fortuna, di condizione e grado
sociale, di avvenimenti ec. costanti, temporarie, momentanee ec.) più
del lor solito disposti alle grandi e generose azioni, agli atti eroici, al
sacrifizio di se stessi, alla beneficenza, alla compassione (dico più
disposti, e voglio dire la potenza, non l'atto, che ha bisogno dell'occasione e
di circostanze, che mancando, come per lo più, fanno che l'uomo neppur
si avveda in quel punto di tal sua disposizione e potenza, ed anche in tutta la
sua vita non si accorga che in quei tali punti egli ebbe ed ha questa
disposizione ec.); perocchè la sua vita in quel punto è maggiore,
e quindi più potente l'amor proprio, e quindi questo è meno
egoista, secondo le teorie altrove esposte. Lasciando le illusioni proprie e
naturali di quello stato, proporzionatamente all'abitual condizione morale
dell'individuo ec.
E così troverassi che gli altri
effetti che accompagnano o seguono la maggiore intensità della vita, la
maggior forza corporale ec., avuta ragione de' vari caratteri e circostanze
morali e fisiche degl'individui ec. da me altrove considerati in più
luoghi ec. hanno tutti luogo proporzionatamente nelle dette occasioni ec.
(5. Novembre 1823.)
[3837]Il giovane che al suo
ingresso nella vita, si trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che
sia modo, ributtato dal mondo, innanzi di aver deposta la tenerezza verso se
stesso, propria di quell'età, e di aver fatto l'abito e il callo alle
contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli uomini, agli
oltraggi, punture, smacchi, dispiaceri che si ricevono nell'uso della vita
sociale, alle sventure, ai cattivi successi nella società e nella vita
civile; il giovane, dico, che o da' parenti, come spesso accade, o da que' di
fuori, si trova ributtato ed escluso dalla vita, e serrata la strada ai
godimenti (di qualsivoglia sorta) o più che agli altri o al comune de'
giovani non suole accadere; o tanto che tali ostacoli vengano ad essere
straordinari e ad avere maggior forza che non sogliono, a causa di una sua non
ordinaria sensibilità, immaginazione, suscettibilità, delicatezza
di spirito e d'indole, vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso se
stesso, maggiore amor proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e
di godimento, maggior capacità e facilità di soffrire, maggior
delicatezza sopra ogni offesa, ogni danno, ogn'ingiuria, ogni disprezzo, ogni
puntura ed ogni lesione del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e
rivolge bene spesso tutto l'ardore e la morale e fisica forza o generale della
sua età, o particolare della sua indole, o l'uno e l'altro insieme,
tutta, dico, questa forza e questo ardore che lo spingevano verso la
felicità, l'azione, la vita, ei la rivolge a proccurarsi
l'infelicità, l'inattività, la morte morale. [3838]Egli
diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico, egli vuol soffrire,
egli vi si ostina, i partiti più tristi, più acerbi verso se
stesso, più dolorosi e più spaventevoli, e che prima di quella
sua poca esperienza della vita egli avrebbe rigettati con orrore, divengono del
suo gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo scegliere uno stato, il
più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia che
reca, il più difficile a sopportarsi perchè più lontano e
men partecipe della vita, è quello ch'ei preferisce, ei vi si compiace
tanto più quanto esso è più orribile per lui, egl'impiega
tutta la forza del suo carattere e della sua età in abbracciarlo, e in
sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua risoluzione, e in continuarlo, e
si compiace fra l'altre cose in particolare nell'impossibilitarsi a poter mai fare
altrimenti, e nello abbracciar quei partiti che gli chiudano per sempre la
strada di poter vivere, o soffrir meno, perchè con ciò ei viene a
ridursi e a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura, il che
piace, come altrove ho detto, e se qualche cosa mancasse e potesse aggiungersi
al suo male, ei non sarebbe contento ec. egl'impiega tutta la sua vita morale
in abbracciare, sopportare e mantenere costantemente la sua morte morale, tutto
il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in sostenere la
monotonia e l'uniformità della vita, tutta la sua costanza in scegliere
di soffrire, voler soffrire, continuare a soffrire, tutta la sua
gioventù in invecchiarsi l'animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed
abbracciare e seguir gl'istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il
pensare, la vita de' vecchi. Come tutto ciò è un effetto del suo
ardore e della sua forza naturale, egli va molto al di là del
necessario: se il mondo a causa di suoi difetti o morali o fisici, o di sue
circostanze, gli nega tanto di godimento, egli se ne toglie il decuplo; se la
necessità l'obbliga a soffrir tanto, egli elegge di soffrir dieci volte
di più; se gli nega un bene ei se ne interdice uno assai maggiore; se
gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti, e rinunzia affatto al
godere.
[3839]Il giovane è in queste
cose così costante, risoluto, forte, durevole, che gli educatori e
quelli che han cura di lui, anche sommamente benevoli, assai spesso e il
più delle volte, stimano tali risoluzioni e tali forme di vita essergli
naturali, nascere dalle sue inclinazioni, esser conformi al suo vero carattere,
al suo vero piacere, e però determinano di non distornelo, non impedirnelo,
di confermarvelo, di secondarlo, e così fanno, anche talora senz'alcun
proprio interesse per sola premura ed affezione verso di lui. E' s'ingannano
sommamente e in tali casi la lor poca cognizione del cuore umano e de' suoi
mirabilissimi accidenti, de' fenomeni dell'amor proprio e delle sue
sottilissime e sfuggevolissime operazioni e modi di agire, e stravagantissimi
effetti e trasformazioni, nuoce grandemente a quei poveri giovani, i quali ben
potrebbero ancora, ma non senza molta forza e molto artifizio, essere strappati
a quelle dure risoluzioni, azioni e abitudini, e riconciliati con se stessi e
con la vita, vero partito che si dovrebbe prendere in tali casi da un prudente
e filosofo e pietoso curatore, e solo mezzo di svolgere il giovane da' tristi
partiti ch'egli ha abbracciati o è per abbracciare, e di sottrarlo dalla
vera infelicità che glien'è per seguire, massime calmato il furore
e intiepidito l'ardore dell'età, che sono appunto quelli che cagionano
quella tal sua pazienza e che l'agghiacciano, e che lo sostengono
e nutrono in quella gelata, sterile, ed arida vita ch'egli ha intrapreso, o
nella risoluzione d'intraprenderla; ma poco potranno durare a sostentarlo, e
consumati o diminuiti, egli sentirà tutta [3840]la pena del suo
stato, e gli mancherà la virtù di soffrirlo, dopo impostasene la
necessità. La qual virtù manca insieme colla compiacenza ch'ei
prova in soffrire o in voler soffrire, la qual compiacenza non può
essere perpetua, e il tempo e l'età, se non altro, l'estingue. Massime
ch'egli non potrà esser consolato e reso indifferente verso le sue
privazioni dal disinganno, non avendo mai provato quello di ch'ei si
privò, e non essendosene privato per disinganno e per dispregio ch'e'
n'avesse, anzi al contrario per inganno, perch'ei ne faceva gran conto,
perchè assaissimo gli costava il privarsene. Chè questa è
la differenza da questa sorta di sacrifizi che or discorriamo, e quella
più facile e più nota, (perchè proveniente da causa
più manifesta e facile a comprendere e a vederne la connessione coll'effetto)
e forse più ordinaria, o altrettanto, che nasce dal disinganno,
dall'esperienza de' godimenti, dal disgusto della vita tutta felice com'ella
può essere.
Quindi accade che tali giovani i quali nella
gioventù son vecchi per lor volontà, e più fortemente
vecchi de' vecchi medesimi, perchè la lor morale vecchiezza viene a
nascere appunto dalla lor gioventù fisica, e dalla forza e ardore di
questa e del loro carattere, nella maturità e nella vecchiezza (posto
che abbiano effettuato quelle loro risoluzioni) sono moralmente giovani, e
più giovani assai de' giovani stessi che abbiano fatta un poco di
esperienza, o che sieno di men fervida e sensitiva natura. Perchè questi
sono in parte disingannati, o meno avidi e smaniosi del godimento. Quelli
continuano e serbano tutto intero e fresco il loro inganno giovanile [3841]e
le loro illusioni, e come frutta l'inverno, conservate nella cera, state sempre
escluse dal contatto dell'aria, sotto la vecchiezza del corpo conservano quasi
intatta ed intera la gioventù dell'anima (mantenuta lungi dall'influenza
esteriore ec. nel ritiro ec.) già vera gioventù, perchè
cessata la gioventù del corpo che li spingeva a soffrire, e ne li facea
compiacere, e gliene dava il valore. Questi tali, bene attempati, sono smaniosi
del godimento, avidi e sitibondi della felicità senza sperarla, ma ben
persuasi, come da principio, ch'ella sia possibile e non difficile nè
rara, hanno ripreso i desiderii proprii dell'uomo, e massime della
gioventù, con tutto il loro ardore ec. Quindi e' vivono e muoiono
disperati e infelici, tanto più quanto e' credono felici gli altri, e
che la loro infelicità, il lor soffrire, il loro non godere, o il non
aver mai goduto e sempre sofferto, sia provenuto da loro, e ch'essi avessero
potuto altrimenti se avessero voluto; la quale opinione e il qual pentimento
è la più amara parte che possa trovarsi in qualunque abituale o
attuale infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo
dell'infelicità.
Spettano a questo discorso e nascono dalle
psicologiche cagioni e principii, e dagl'interni avvenimenti e circostanze sviluppate
di sopra, gran parte delle monacazioni ec. di giovani, e lo sceglier di vivere
in casa o in campagna, e i ritiri dalla società ec. fatti nel principio
della gioventù, massime da persone vive e sensibili ec. e resi poi necessarii
a continuarsi, per l'abitudine, per li rispetti umani, per l'imperizia, che ne
segue, del conversare, per il timor [3842]panico dell'opinione, del
ridicolo ec. che suole accompagnare lo straordinario, la novità, il cominciare,
il mutar proposito e vita in tempo, in età non conveniente, non
ordinaria al cominciare, o al nuovo proposito e vita per se medesima ec. ec.
(5. Nov. 1823.)
Alla p.2779. marg. fine. Che attivo
esistesse una volta confermasi con argomento non solo di analogia, ma di fatto;
cioè che trovasi
anche usato in senso passivo. Dunque s'egli è passivo, ei dovette
nascere da un attivo, ed avere il suo attivo onde egli fosse il passivo. Vedi
Creuzer Meletemata e disciplina antiquitatis, par.2. Lips. 1817. p.55. fin.-56. init.
(6. Nov. 1823.)
Sempre che l'uomo pensa, ei desidera,
perchè tanto quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a
proporzione che la sua facoltà di pensare è più libera ed
intera e con minore impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente
la esercita, il suo desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di
assopimento, di letargo, di certe ebbrietà,[197]
nell'accesso e recesso del sonno, e in simili stati in cui la proporzione, la
somma, la forza del pensare, l'esercizio del pensiero, la libertà e la
facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita,
scarsa ec. l'uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la
forza, la somma di questo, è minore; e perciò l'uomo è
proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell'azione della mente
ch'è inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata [3843]al
grado di questo sentimento, tanto, e sempre proporzionato al di lei grado, si
stende il desiderio dell'uomo e del vivente, e l'azione del desiderare. Ogni
atto libero della mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla
volontà, è in qualche modo un desiderio attuale, perchè
tutti cotali atti e pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall'uomo in
quel punto è desiderato in proporzione dell'intensità ec. di
quell'atto o pensiero, e tutti cotali fini spettano alla felicità che
l'uomo e il vivente per sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera
e non può non desiderare.
(6. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Mamilla o mammilla
diminutiv di mamma (mammella ec.). Papilla diminutivo
di papula, come fabella di fabula e simili, del che
altrove;[198]
e diminutivo in illa, come mammilla che il Forc. chiama diminut.
a MAMMA, atq. idem saepe significans (scil. idem ac mamma).
(6. Nov. 1823.)
Convexo as vedilo nel Forcell. e
applicalo a quello che ho detto altrove di convexus derivandolo da veho,
come vexare, da cui è convexare che vale altrettanto ec.
(6. Nov. 1823.)
La differenza che fa Prisciano tra nectus
e necatus non sussiste. (ap. Forc. in Neco).
Seppur ei non intende di farla ancora tra necui e necavi.
Perocchè nectus è da necui, e necatus da necavi,
secondo il detto da me altrove della formazione [3844]de' supini e
participii passivi da' perfetti. È anche certo che necui onde nectus,
non è che corruzione di necavi onde necatus, sì che
nectus viene a esser non altro che corruzione di necatus. Questo
è almeno quanto all'origine e alla ragione grammaticale. Che l'uso e il
significato de' due detti participii sia diverso si potrebbe credere a
Prisciano quando e' ne recasse esempii idonei, o quando quelli che noi abbiamo
favorissero o non contraddicessero la sua distinzione. Ora, di nectus
non abbiamo esempi certi; ma necatus in un luogo di Ovidio (Forc. in necatus),
detto delle api, non vuol certamente dire ucciso col ferro. E v. nel
Forc. gli esempi di Enecatus e di Enectus. Del resto par
veramente nel cit. luogo del Forcell. cioè in Neco, che Prisciano
faccia anche tra' due (che in origine sono uno solo) perfetti di neco la
stessa distinzione di significato che tra' due participii, i quali
altresì per origine sono un solo, ma mediatamente, cioè in quanto
vengono da perfetti che sono in origine uno stesso.
(6. Nov. 1823.)
A quello che altrove ho detto di asinus-asellus,
fabula fabella, populus-popellus ec. aggiungi pagina-pagella,
Poculum-pocillum, Papula-papilla, Geminus-gemellus, Tabula tabella,
Femina-femella, Baculum o us-bacillum o us, Pulvinus-pulvillus.
E nóta il nostro diminutivo positivato favella, favellare ec. (V. la
pag.3896.) de' quali verbi altrove ad altro proposito. Catulus-catellus.
Anellus (anello ec.) è diminutivo di anulus (il quale
ancora è forse diminutivo di annus, ma di senso diverso dal suo
positivo onde non ha che fare col nostro discorso de' diminutivi positivati).
Sicchè il nostro anello ec. (e v. il Gloss.) è un
diminutivo positivato.
(7. Nov. 1823.)
[3845]Nomi in uosus. V. Forcell. in fetuosus.
(7. Nov. 1823.)
Alla p.3585. I quali testi, e per
conseguenza questi due verbi, sono antichi, cioè l'uno di Catullo,
l'altro di Paolo Diacono da Festo. Del rimanente assulito è per assilito,
mutato l'i in u, per la grande affinità di queste due
vocali, altrove considerata. La quale affinità non è fra l'a
e l'u, nè in composizione nè altrove l'a (ch'io mi
ricordi) si muta mai in u, nè viceversa. Sicchè assulito
non può esser per assalito, nè assulto, resulto ec.
per assalto, resalto ec. ma per resilto, assilto ec. E
così tutti i composti di salto, i quali tutti (ch'io sappia)
fanno in ulto (fuorchè resilito, che sarebbe da salito).
O che essi vengano a dirittura da salto, nel qual caso l'a
sarebbe stato cangiato in u, ma mediatamente, cioè prima in i
(mutazione ordinaria nella composizione, come ho detto altrove in più
luoghi, e come appunto l'a di salio, ne' suoi composti), poscia
l'i in u (sicchè veramente non l'a ma l'i fu
cambiato in u); o, quel ch'è più verisimile, essi vengono
da' participii o supini de' rispettivi composti originali, cioè da assultum,
resultum ec. di assilio, resilio ec. Così facul, difficul,
facultas, difficultas per facilitas, difficilitas ec. mutato l'i
in u, e soppresso l'altro i. V. p.3852. I quali participii o
supini regolarmente sarebbero resilitum, assilitum ec. (e lo dimostra
appunto col fatto il verbo resilito), ma ebbero il primo i
cambiato in u, come maximus maxumus (e in tale stato, cioè
da assulitum, viene assulito, e dimostra la nostra asserzione), e
il secondo i soppresso, come nel semplice salitum-saltum: onde
divennero assultum, resultum ec. onde assultare contratto d'assulitare.
Potrebbe anch'essere che i più antichi, prima di [3846]
assilio ec. pronunziassero assulio, resulio ec., come forse maxumus
ec. ec. e più antica pronunzia o scrittura ec. che maximus; e per
conseguenza assulitum, resulitum (che poi anche nella successiva lor
contrazione conservarono la pronunzia e scrittura ec. dell'u) ec. In tal
caso assulito sarebbe la più antica forma de' composti di salto,
e resilito sarebbe più moderna, dal più moderno resilitum.
(7. Nov. 1823.)
Alla p.3281. La somma e la forza di questo
pensiero si è che la compassionevolezza, la beneficenza, la
sensibilità ec. da tutti (e in particolare da Rousseau) considerate come
proprie generalmente de' giovani (massime uomini), e l'insensibilità, la
durezza ec. considerate come proprie de' maturi, e più, de' vecchi (massime
donne),[199]
non tanto derivano dall'innocenza, inesperienza e poca cognizione mondana degli
uni, e dall'esperienza e scienza mondana, dal disinganno morale ec. degli
altri, come ordinariamente si crede e si dice, quanto dalle altre cagioni
sì fisiche sì morali accennate in questo discorso, o certo da
esse ancora in gran parte, e forse principalmente; se non da ciascuna, posta
per se sola al paragone della suddetta, che certo è grandissima, ed a
cui spetta la differenza di virtù fra gli antichi e i moderni ec. almen
dalla somma di esse. Infatti di un uomo e una donna egualmente giovani e
inesperti e in parità d'ogni altra qualità e circostanza, quello,
perchè più forte, ec. è naturalmente più dell'altra
compassionevole, benefico ec. e più inclinato alla compassione,
all'interessarsi per altrui ec. Così di due giovani, pari in ogni altra
cosa e circostanza, il più forte è più portato a soccorrere
altrui, a compatire, a ben fare ec. ec.
(7. Nov. 1823.)
Sempre che il vivente si accorge
dell'esistenza, e tanto più quanto ei più la sente, egli ama se
stesso,[200]
e sempre attualmente, [3847]cioè con una successione continuata e
non interrotta di atti, tanto più vivi, quanto il detto sentimento
è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in ciascuno istante
ch'egli ama attualmente se stesso, egli desidera la sua felicità, e la
desidera attualmente, con una serie continua di atti di desiderio, o con un
desiderio sempre presente, e non sol potenziale, ma posto sempre in atto, tanto
più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non può mai
conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb'essere infinita,
come s'è spiegato altrove, e tale ei la desidera; or tale in effetto
ella non può essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può
mai ottenere l'oggetto del suo desiderio. Sempre pertanto ch'ei desidera, egli
è necessariamente infelice, perciò appunto ch'ei desidera
inutilmente, esclusa anche ogni altra cagione d'infelicità;
giacchè un desiderio non soddisfatto è uno stato penoso, dunque
uno stato d'infelicità. E tanto più infelice quanto ei desidera
più vivamente. Non v'è dunque pel vivente altra felicità
possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza
d'infelicità; non è, dico, possibile al vivente il mancare
d'infelicità positiva altrimenti che non desiderando la sua
felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la
felicità. Ma sempre ch'ei si ama, ei la desidera; e mentre ch'ei sente
di esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi;
e più ch'ei sente di esistere, più si ama e più desidera.
Il discorso dunque della felicità umana e di qualunque vivente si riduce
per evidenza a questi termini, e a questa conclusione. Una specie di [3848]viventi
rispetto all'altra o all'altre generalmente ec., è tanto più
felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d'infelicità
positiva, quanto meno dell'altra ella sente l'esistenza, cioè quanto men
vive e più si accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de'
polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi). Così
un individuo rispetto all'altro o agli altri. (Dunque il più stupido
degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de' Lapponi
la più felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso
allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso;
dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de'
turchi, debolezza non penosa, ec. negl'istanti che precedono il sonno o il
risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è
e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e
privo d'infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita,
cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl'istanti che precedono
la morte, cioè la fine del suo esser di vivente ec. Ciò vuol dire
quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè di
piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora solo
egli è pienamente felice. S'ei desidera la felicità, non
può esser felice; meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola,
non è punto infelice. Quindi l'uomo e il vivente è anche tanto
meno infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della
felicità, mediante l'azione e l'occupazione esteriore o interiore, come
ho spiegato altrove. O distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di
felicità che hanno e possono mai aver gli animali.
(7. Nov. 1823.)
Alla p.3705. marg. Così sino is
fa nel perfetto sivi. Ma [3849]notisi che il primo i quivi
è breve, al contrario di quelle voci di cui or discorriamo, cioè
de' perfetti di cresco, suesco ec. ed anche di sevi e di crevi
da cerno. Sterno is stravi atum. Quest'anomalia forse viene che sterno
è difettivo, e supplito coll'avanzo di un antico stro as
dall'inusitato , onde , ec.
Simile dico de' composti prosterno, insterno ec. Le lettere vocali che
precedono il vi ne' perfetti delle altre coniugazioni sono sempre per
lor natura lunghe (eccetto forse alcune anomalie), dico quelle che lo precedono
regolarmente, cioè l'a nella prima, l'e nella seconda, l'i
nella quarta (perocchè p.e. fovi, cavi da foveo, caveo
sono contrazioni di fovevi, cavevi, sicchè non regolarmente il vi
è preceduto in fovi dall'o, in cavi dall'a:
per altro l'a e l'o di queste e simili voci, sono altresì
lunghi). Insomma la desinenza di sivi non è veramente propria
della 3. ma neanche di verun altra coniugazione. Al contrario di quella de'
perfetti de' verbi in sco, i quali se sono in vi, la vocale che
precede questa desinenza, è sempre (credo) lunga. Cosa affatto impropria
della 3. e chiaro segno che tali perfetti sono propri di verbi d'altre
coniugazioni.
(8. Nov.
1823.). V. p.3852.
Restito (onde restitrix) di
cui v. Forcell. è notabile in quanto egli è continuativo o
frequentativo di un verbo ch'esso medesimo in origine è continuativo,
essendo composto del continuativo sto. Veggasi la p.3298.
(8. Nov. 1823.)
Monosillabi latini. Lax. Mors, onde morior
ec. ec. idee ben primitive. Ius, onde iuro, iniuria ec. ec. tutte
idee primitive nella società. Or la lingua non antecedette la
società. Fraus. Res.
(8. Nov.
1823.)
Nuo di cui altrove, oltre il suo continuativo nutare,
e i suoi composti, annuo, innuo, renuo, abnuo ec. e loro continuativi adnuto,
[3850] renuto ec., è dimostrato ancora sì dagli
altri suoi derivati, sì dal verbale nutus us, ch'è fatto
dal supino di nuo, secondo la regola altrove assegnata della formazione
di tali verbali della 4. declinazione. Del resto, come da si fece
indubitatamente nuo, così da
potè bene e verisimilmente e secondo l'analogia, farsi guo, di
cui altrove. E viceversa nuo da come guo
da . ec.
(8. Nov. 1823.)
Alla p.3760. Similmente a guo andato
in disuso, fu preferito il suo continuativo gusto, de' quali verbi
altrove. Similmente andò in disuso il verbo nuo, restando il suo
continuativo nuto (e i derivati nutus, gustus us ec. ne' quali
non avea luogo l'iato). Restarono ancora i suoi composti (vedi il pensiero
precedente) perchè l'iato nei non monosillabi è men duro e
appariscente che ne' monosillabi, giacchè se in questi v'è
l'iato, essendo essi d'una sillaba sola, son tutti formati d'un iato, e son
quasi un puro iato essi stessi. Infatti l'osservazione della p.3759. fine. -
3760. si verifica principalmente ne' monosillabi, e di questi massimamente si
deve intendere. Dove il tema monosillabo riceve un incremento restando l'iato,
la voce benchè non più monosillaba, ha sempre men sillabe che la
corrispondente ne' verbi composti, e però l'iato in quella apparisce
tuttavia ed offende maggiormente che in questa. Del resto essa talvolta, perito
il tema, si è conservata, come noitum di noo, poitum di poo
ec. bensì in queste e simili fu soppresso l'iato per contrazione,
facendo notum, potum ec.
(8. Nov. 1823.). V. p.3881.
[3851]Alla p.3758. marg. Se non si
volesse che nubi-lis, labi-lis, fossero come doci-lis faci-lis
ec. de' quali verbali in lis, loro formazione ec. mi par che si possa discorrere
come di quelli in bilis, e però trarne gli stessi argomenti ec.
(10. Nov. 1823.)
Participii passivi di verbi attivi o neutri,
in senso attivo o neutro ec. Ho detto altrove dello spagn. parida participio
sovente (o sempre; v. i Diz.) attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo
ancor noi parecchi, e molto elegantemente gli usiamo, in luogo de' participii
veramente attivi di forma, il cui uso è poco grato alla nostra lingua,
non altrimenti che alla francese e spagnuola. Uomo considerato, avvertito,
avvisato vagliono considerante, avvertente ec. cioè che
considera ec. veri attivi di significato, benchè intransitivi. Simili
credo che si trovino ancora nel francese e più nello spagnuolo che se ne
servono parimente in luogo de' participii di forma attiva poco accetti a esse
lingue.[201]
La detta sorta di participii passivi attivati, fatti da' verbi attivi ec. (ed
infatti essi o sempre o per lo più, hanno ancora il proprio lor significato,
cioè il passivo) è massimamente usata da' nostri antichi del 300.
e del 500. che ne hanno in molto più copia che noi oggidì non
sogliamo usare o punto, o solo in senso passivo. La nostra lingua somigliava
anche in questo alla spagnuola la quale mi pare che anche oggidì
conservi quest'uso più [3852]frequente che non facciam noi, accostatici
ora ai francesi, a' quali esso è men frequente che agli altri, siccome
esso pare singolarmente proprio della lingua spagnuola ec. ec.
(10. Nov. 1823.)
Alla p.3845. marg. Non credo, come il
Forcellini, che facultas, difficultas venga da facul, difficul;
ma che sieno contrazioni di facilitas, difficilitas, pronunziati difficulitas,
faculitas. Facul ec. non sono che apocopi di facilis, facile
avverbio ec. (pronunziati faculis ec.) dello stesso genere che volup
ec. (v. Frontone e Forc. in famul, il quale non è già da famel
(v. Forc. in familia) ma da famulus.) (10. Nov. 1823.). E son le
stesse voci identiche che sarebbero facil, difficil, mutata sol la pronunzia.
Alla p.3636. marg. Forse però fourre
valeva fodera, e quindi fourreau, quasi foderetta, per fodero,
onde il diminutivo sarebbe d'un senso distinto dal positivo, e però non
apparterrebbe al nostro discorso che considera i diminutivi usati in iscambio
de' positivi.
(10. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Ladrillo
(diminutivo ladrillejo) con tutti i suoi derivati da later, quasi
latericulus, o laterculus. E vedi appunto il Forc. circa l'uso
positivato di laterculus.
(10. Nov. 1823.)
Contracter franc. per contrarre,
come in contrario lo spagn. traher alle volte nel senso di tractare,
secondo che ho detto nel principio della teoria de' continuativi.
(10. Nov. 1823.)
Alla p.3849. Il vero perfetto di sino
è sini. Questo infatti si trova ancora. Da questo, cred'io, per
soppressione della n (della qual soppressione credo v'abbiano altri esempi),[202] si
fece [3853] sii che ancor si trova eziandio, massime ne' composti
(come desino is ii ed ivi). Da sii per evitar l'iato siℲi,
cioè sivi, come da audii audivi, da amai amavi, da docei
docevi. Questo mi è più probabile che il creder sii
posteriore a sivi, come gli altri fanno, e come fanno eziandio circa i
preteriti perfetti della 4. coniugazione. Il supino nasce, come altrove dico,
dal perfetto. Quindi da sii o sivi, situm (come da audii o
audivi, auditum ec. da ama-vi ama-tum ec.), in luogo del regolare sinitum.
Questo mi è più probabile che il creder situm contrazione
di sinitum, fatto o per soppressione assoluta della sillaba ni,
contrazione, che sappia io, non latina o per soppressione della n, onde siitum,
come da sini sii, poi contratto in situm, nel qual caso l'i
di situm parrebbe avesse ad esser lungo.
(10. Nov. 1823.)
Alla p.3702. La considerazione da me altrove
fatta che i supini vengono dai perfetti, facilmente spiega il perchè l'etum,
propria e regolare desinenza della 2. sia stato per lo più cambiato in itum,
soppresso poi sovente, e forse il più delle volte, l'i. La
cagione si è che l'evi de' perfetti di essa coniugazione fu
cangiato in ui, e il come, si è benissimo dichiarato di sopra.
Con ciò si dichiara facilissimamente e bene, il come l'etum de'
supini (che in molti di essi ancor trovasi) sia passato in itum ec.
mutazione che senza ciò difficilmente si spiegarebbe, non solendo l'e
passare in i ec. Docitum per docetum, (meritum di mereo
e simili che ancor si trovano e sono anche per lo più gli unici supini
superstiti de' rispettivi verbi, o i più usitati ec.) onde doctum,
è da docui per docevi, come domitum per domatum
è da domui per domavi, nè [3854]più
nè meno (v. la p.3715-7. 3723. ec.). E chi vuol vedere la contrazione di
doctum anche ne' supini della prima in itum, fatti dai perfetti
in ui, come è doctum, osservi sectum, nectum da secui,
necui, enecui di secare, necare ec. Se il perfetto de' verbi della
2. si conserva in evi, il supino che ne nasce è in etum e
non altrimenti, come deleo es evi etum Se il supino è in itum
o contratto, mentre il preterito è in evi, come abolitum
di aboleo abolevi, adultum di adoleo evi (comparato con adolesco:
adolesco ha evi, adoleo ha ui), allora esso supino non nasce
certo dal perfetto in evi, ma nasce ed è segno certo di un altro
perfetto noto o ignoto, in ui. Infatti ne' citati esempi, Prisciano
riconosce ad aboleo un abolui, e bene: adolui di adoleo
è noto e usitato; è noto anche adolui di adolesco,
benchè rarissimo, dice il Forcell. V. p.3872.
Mi pare che queste osservazioni sieno
mirabilmente utili a scoprire l'analogia, la ragione, le cause della lingua e
grammatica latina, e delle sue apparenti anomalie ec. ec. e a stabilir regola e
cagione dove gli altri non veggono che capriccio, varietà, disordine,
arbitrio e caso ec.
(10. Nov. 1823.)
Quello che noi chiamiamo spirito nei
caratteri, nelle maniere, ne' moti ed atti, nelle parole, ne' motti, ne'
discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili ec. ci piace, e ciò a
tutti, perch'egli è vita, e desta sensazioni vive sotto qualche
rispetto, o desta sensazioni qualunque, e molte, e spesse, il che è cosa
viva, perchè il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama
anche vivacità ec. o semplicemente, o vivacità di spirito,
di carattere, stile, modi ec. ec. Il suo contrario in certo modo è
morte, e non desta sensazioni, o poche, leggere, [3855]non rapide, non
varie, non rapidamente succedentisi e variantisi, il che è cosa morta.
Noi lo chiamiamo spirito perchè siamo soliti di considerar la
vita come cosa immateriale, e appartenente a cose non materiali, e di chiamare
spirito ciò ch'è vivo e vive e cagiona la vita ec.; e la materia
siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva per se, nè
capace di vita ec.
(10. Nov. ottava del dì de' Morti.
1823.)
Tra le cagioni del mancar noi (e così
gli spagnuoli) di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per
prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta
l'Italia non men che la Spagna dal
Come cagione assoluta, la nullità
politica e militare degl'italiani e spagnuoli ha prodotto il mancar essi di
lingua e letteratura moderna dal
Questa politica condizione dell'Italia e
della Spagna ha prodotto e produce i soliti e immancabili effetti. Morte e privazione
di letteratura, d'industria, di società, di arti, di genio, di coltura,
di grandi ingegni, di facoltà inventiva, d'originalità, di
passioni grandi, vive, utili o belle e splendide, d'ogni vantaggio sociale, di
grandi fatti e quindi di grandi scritti, inazione, torpore così nella
vita privata e rispetto al privato, come rispetto al pubblico, e come il
pubblico è nullo rispetto alle altre nazioni. Questi effetti nati
subito, sono andati dal
Egli è costante, ed io in molti
luoghi l'ho sostenuto, [3861]che crescendo le cose, la lingua sempre si
accresce e vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la
vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com'è avvenuto
infatti dal
(10-11. Nov. 1823.)
A quello che altrove ho detto del latino
diminutivo positivato sella, aggiungi il francese selle, col suo
diminutivo sellette, ec. e v. gli spagnuoli ec.
(11. Nov. 1823.)
Accade nelle lingue come nella vita e ne'
costumi; e nel parlare come nell'operare, e trattare con gli uomini (e questa
non è similitudine, ma conseguenza). Nei tempi e nelle nazioni dove la
singolarità dell'operare, de' costumi ec. non è tollerata,
è ridicola ec. lo è similmente anche quella del favellare. E a
proporzione che la diversità dall'ordinario, maggiore o minore, si
tollera o piace, ovvero non piace, non si tollera, è ridicola ec.
più o meno; maggiore o minore o niuna diversità piace, dispiace,
si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo ora il comparare a questo
proposito le lingue antiche colle moderne, e il considerare come
corrispondentemente [3864]alla diversa natura dello stato e costume
delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e società umana antica
e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più ardite delle
moderne, e sia proprio delle lingue antiche l'ardire, e quindi esse sieno molto
più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra
gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, la singolarità
dell'opere, delle maniere, de' costumi, de' caratteri, degl'istituti delle
persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion
francese, che di tutte l'altre sì antiche sì moderne, è
quella che meno approva, ammette e comporta, anzi che più riprende ed
odia e rigetta e vieta, non pur la singolarità, ma la nonconformità
dell'operare e del conversare nella vita civile, de' caratteri delle persone
ec.; la nazion francese, dico, lasciando le altre cose a ciò
appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto di lingua
poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve
naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità
delle azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere.
Ora il parlar poetico è per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque
esso ripugna per sua natura alla natura della società e della nazione
francese. E di fatti la lingua francese è incapace, non solo di quel
peregrino che nasce dall'uso di voci, modi, significati tratti da altre lingue,
[3865]o dalla sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma
eziandio di quel peregrino e quindi di quella eleganza che nasce dall'uso non
delle voci e frasi sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di
figure, sia di sentenza, sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta,
anche di quelli che non pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come
p.e. nell'italiana, sarebbero rispettivamente de' più leggeri, de'
più comuni, e talvolta neppure ardiri. Questa incapacità si
attribuisce alla lingua; ella in verità è della lingua, ma
è ancora della nazione, e non per altro è in quella, se non
perch'ella è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte
per la sua divisione e costituzion politica, dall'altra pel carattere naturale
de' suoi individui, pe' lor costumi, usi ec. per lo stato presente della lor
civiltà, che siccome assai recente, non è in generale così
avanzata come in altri luoghi, e finalmente per la rigidità del clima
che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e l'abitudine di questa,
è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e abituata alla
società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed
anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la
singolarità delle azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la
qual singolarità appo loro non ha pochi nè leggeri esempi di
fatto, anche in città e corpi interi, come in quello de' fratelli
moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità non
hanno [3866]punto del moderno, e parrebbero impossibili a' tempi nostri,
ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed ammette e loda ec. una
grandissima singolarità d'ogni genere nel parlare e nello scrivere, ed
ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita per sua
natura di tutte le moderne colte, e pari in questo eziandio alla più
ardita delle antiche. La qual lingua tedesca per conseguenza è
poetichissima e capace e ricca d'ogni varietà ec.
(11. Nov. 1823.)
Il pellegrino e l'elegante che nasce
dall'introdurre nelle nostre lingue voci, modi, e significati tolti dal latino,
è quasi della stessa natura ed effetto con quello che nasce dall'uso
delle nostre proprie voci, modi e significati antichi, o passati dall'uso
quotidiano, volgare, parlato ec. Perocchè siccome queste, così
quelle (e talor più delle seconde, che siccome erano, così
conservano talvolta del barbaro della loro origine o dell'incolto di que' tempi
che le usarono ec.) hanno sempre (quando sieno convenientemente scelte, ed atte
alle lingue ove si vogliono introdurre) del proprio e del nazionale, quando
anche non sieno mai per l'addietro state parlate nè scritte in quella
tal lingua. E ciò è ben naturale, perocch'esse son proprie di una
lingua da cui le nostre sono nate ed uscite, e del cui sangue e delle cui ossa
queste sono formate. Onde queste tali voci ec. spettano in certo modo all'antichità
delle nostre lingue, e riescono in queste quasi come lor proprie voci antiche.
Sicchè non è senza ragione verissima, se biasimando l'uso o
introduzione di voci ec. tolte dall'altre lingue, sieno antiche sieno moderne,
(eccetto le voci ec. già naturalizzate) lodiamo quella delle voci ec.
latine. Perocchè quelle a differenza di queste, sono come di sangue,
così di aspetto e di effetto straniero, e diverso [3867]da quello
delle altre nostre voci, e delle nostre lingue in genere, e del loro carattere
ec. La novità tolta prudentemente dal latino, benchè
novità assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto
restituzione dell'antichità che novità, piuttosto peregrino che
nuovo; e veramente (anche quando non sia troppo prudente nè lodevole) ha
più dell'arcaismo che del neologismo. Al contrario dell'altre
novità, e degli altri stranierismi ec. E per queste ragioni, oltre
l'altre, è ancor ragionevole e consentaneo che la lingua francese sia,
com'è, infinitamente men disposta ad arricchirsi di novità tolta
dal latino, che nol son le lingue sorelle. Perocchè essa lingua è
molto più di queste sformata e diversificata dalla sua origine,
degenerata, allontanata ec. Onde quel latinismo che a noi sarebbe convenientissimo
e facilissimo perchè consanguineo e materno ec. alla lingua francese,
tanto mutata dalla sua madre, riescirebbe affatto alieno e straniero e non materno
ec. Meglio infatti generalmente riesce e fa prova e si adatta e s'immedesima e
par naturale nella lingua francese la novità tolta dall'inglese e dal
tedesco (che agl'italiani e spagnuoli sarebbe insopportabile e barbara) che
quella dal latino. Questo può vedersi in certo modo anche ne' cognomi e
nomi propri inglesi, tedeschi, ec. che si nominino nel francese. Paiono sovente
e gran parte di loro molto men forestieri che tra noi, e men diversi ed alieni
da' nazionali.
Quello ch'io dico della novità tolta
dal latino, si può anche dire intorno a quella tolta dalle lingue
sorelle, la quale pure noi difendiamo, condannando gli altri stranierismi. Ma
bisogna però in questo particolare far distinzione tra quello
ch'è proprio delle lingue sorelle [3868]in quanto sorelle, e
quello ch'è proprio loro in quanto lingue diverse dalla nostra; quello
che conviene al carattere generale della famiglia, e quello che al carattere
dell'individuo; quello che spetta in certo modo a tutta la famiglia, e che solo
per caso si trova esser proprietà e possessione di un solo individuo di
essa e non d'altri, o di alcuni sì, d'altro no, e quello che ec.; quello
che spetta a quella tal lingua, in quanto ella si confa colla nostra, come che
sia, e quello che le appartiene in quanto ella dalla nostra si diversifica; ec.
ec. Quello è atto alla nostra lingua, qual ch'esso si sia per origine e
per qualunque cosa, e può presso noi parere un arcaismo, ed avere un
peregrino non diverso da quello de' nostri effettivi arcaismi, e servire
all'eleganza ec.; questo no, e non parrà che un neologismo ec. e un
barbarismo, come se fosse tolto dalle lingue affatto straniere ec. La
novità tolta dalle lingue sorelle dev'esser tale che per l'effetto
riesca quasi un arcaismo, cioè il pellegrino e l'elegante che ne risulta
somigli a quello che nasce dall'uso conveniente dell'arcaismo moderato ec.
(11. Nov. 1823.)
Alla p.3717. marg. V. il Forc. sì ne'
composti di sono, e sì in sono as fine, dalle cose dette
nel qual luogo, e in Tono as ui fine, e in Crepo as fine ec. si
potrebbe forse dubitare che la cagione dell'anomalia di cui discorriamo in tali
verbi della prima, non sia quella che noi supponiamo, ma un'altra, ch'io
però, generalmente almeno, non credo.[203] E
certo quest'anomalia non è in pochi della prima, e nella più
parte di questi, non si trova vestigio alcuno di terza coniugazione se non nel
perfetto ec. e supino. E la desinenza in ui trovasi veramente in molti
verbi della 3a. [3869](p.3707.) ma ella è anche in
essi anomala, e bisognosa essa stessa che se ne renda ragione e se ne assegni
l'origine. E chi sa che anzi per lo contrario tali verbi della terza non
abbiano ricevuto tali perfetti dalla prima o dalla 2da cioè
si coniugasse una volta p.e. coleo es, in vece o non meno che colo is,
e di quello sia il perfetto colui: in luogo di dire che sonui sia
di sono is, crepui e crepitum di crepo is ec. Il qual crepo
is dev'essere stato supposto da quel grammatico del Forcell. per non
essersi ricordato di tanti altri verbi della 1. che fanno in ui itum,
come crepo as.[204]
(12. Nov. 1823.). Lacesso is, ivi ed ii, itum, ere. Senza dubbio
il perfetto e supino di lacessere non è suo, ma in origine
è di un lacessio della quarta. Infatti si ha lacessiri. V.
Forc. in lacesso princ. Così dite di peto is, ivi ed ii,
itum, e s'altri simili ve n'ha. V. p.3900.
Al detto altrove di tosare, tonsito
ec. aggiungi detonso as da detondeo.
(12. Nov. 1823.)
Alla p.3710. I verbi incoativi si formano
da' supini regolari e primitivi, usitati o inusitati, de' verbi positivi noti o
ignoti, cioè da' supini in atum della prima, etum della 2.
itum della 3. ed itum della quarta; mutato il tum in sco.
Quindi dalla prima gl'incoativi fanno in asco, dalla
Del resto la detta regola porta questo
corollario, che non solo gl'incoativi dimostrano i verbi positivi
ancorchè ignoti, cosa confermata da me con tante altre prove, ma ne
dimostrano eziandio la coniugazione. E che se v'ha un verbo positivo il cui
supino regolare e primitivo non sia capace di produrre un incoativo colla desinenza
che si trova in quello ch'esiste, questo incoativo (eccetto le differenze di
pronunzia o qualche irregolarità come sopra) dimostra un altro verbo positivo
diverso da quello che generalmente forse sarà creduto essere il suo
originale, o una diversa forma di questo verbo. Per es. fluesco
parrà venir da fluo. Ma la desinenza in esco e non in isco
(se già non fosse una variazione [3871]di pronunzia al contrario
di callisco ch'è per callesco, variazione che potrebbe
anche avere avuto luogo in vivesco per vivisco; ovvero un error
di codici, come è creduto da alcuni quello di scriver vivesco)
dimostra un flueo-etum, cioè un verbo diverso da fluo d'altro
significato ec. ovvero un'altra forma dello stesso fluo, al qual proposito
v. la pag.3868-9. E vedila ancora per tonesco, se questo non è
errore o varietà di pronunzia per tonisco da tonitum di tono
is o di tono as ui. Io dico che i verbi in sco regolarmente
debbono avere, ed anticamente ebbero, il supino in itum, e il perfetto in
sci. Che regolarmente non possano avere se non questi perfetti e supini,
è chiaro. Che anticamente l'avessero infatti, sebben questo non è
necessario, e la prima proposizione può stare senza questa seconda, e
ben poterono i verbi in sco, tutti o alcuni, esser difettivi anche
anticamente; pure, almen quanto ad alcuni, si è già dimostrato
altrove per quel che tocca al supino. Per ciò che spetta al perfetto gli
esempi di fatto ne son più rari. Vero è che i supini dimostrano i
perfetti, secondo il detto altrove della formazion di quelli da questi. Ma
eziandio un effettivo perfetto in sci vedilo in Callisco appo il
Forcell.
(12. Nov. 1823.)
Alla p.3702. Ben è consentaneo che da
un tema in eo venisse un supino in etum, conservandosi l'e caratteristica
della coniugazione, come s'è detto, p.3699 fine, circa il perfetto in ei
ed evi. E tanto più è consentaneo che il proprio supino
della 2da sia in etum, e questo, lungo, quanto che il suo
proprio perfetto è in ei o evi; atteso [3872]che i
supini si formano dai perfetti, come altrove dimostro. Onde anche viceversa i
supini in etum lungo, dimostrano che il proprio perfetto della 2.
è in ei o evi, ec.
(12. Nov. 1823.). V. p.3873.
Alla p.3854. Nondimeno i supini contratti
della 2. poterono anche direttamente venire dai rispettivi supini in etum
senza passare per la forma in itum, cioè p.e. doctum esser
contratto da docetum, non da docitum, soppressa la e, come
nei perfetti in ui della stessa coniugazione, cioè p.e. docui
ossia docvi, ch'è contrazione di docevi. Onde adultum cioè
adoltum, potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui,
cioè essere una contrazione immediata di adoletum fatto da adolevi.
Anzi siccome per una parte non suole l'e passare in i, dall'altra
non veggo ragion sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della
seconda sì della prima, si debba fare un supino in itum, io dico
che tutti i supini in itum usitati o no della 2. e della 1. vengono
bensì da' perfetti in ui, ma non immediatamente. Da' perfetti in ui
che sono contratti, p.e. domvi da domavi, mervi da merevi,
vennero dei supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi
infatti ancora abbiamo, e i franc. domter ec.), ne' quali era soppresso
l'e e l'a come ne' perfetti. Da questi supini poi, interpostavi
per più dolcezza la lettera i, solita (com'esilissima ch'ella
è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi
tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un
riposo momentaneo e passeggero alla pronunzia, riposo fuor di regola e
originato ed autorizzato solo dalla comodità della pronunzia, onde
quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale affatto, e un
semplice affetto e accidente di pronunzia; vennero i supini in itum,
come domitum, meritum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho detto
per lo passato, [3873]i supini contratti precederono quelli in itum,
e questi vengono da quelli, e li suppongono e dimostrano, ma non viceversa.
Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum,
bensì meritum un mertum; sectum non dimostra un secitum,
bensì domitum un domtum (simile ad emtum ec. onde domter
ec.). Bensì i supini contratti, e per conseguenza anche quelli in itum,
che ne derivano, suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali immediatamente
e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e irregolarmente
quelli in itum (specie di pronunzia de' contratti, e però
contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'a
o e): e non viceversa, come per l'addietro io diceva.
(12. Nov. 1823.). V. p.3875.
Alla p.3872. Secondo queste mie osservazioni
i temi della seconda avrebbero in tutta la coniugazione conservato l'e.
Ed è ben giusto, perocch'ella in essi è radicale. Così l'i
penultimo nella quarta, che si conserva in essa coniugazione tutta intera, ne'
verbi regolari.[206]
Non così l'a nella prima, dove essa lettera non è caratteristica,
benchè propria dell'infinito. Infatti manca nel tema, e nel presente
ottativo ec. ec. Similmente il penultimo e di legere. Ne' temi
de' verbi son radicali tutte le lettere eccetto l'ultima, cioè l'o,
ch'è la desinenza non del tema in quanto tema, ma in quanto voce
presente indicativo singolare prima persona attiva del verbo rispettivo. Or
come la prima e la 3. finiscono per lo più in o impuro, esse coniugazioni
per se stesse non hanno vocale alcuna che sia radicale generalmente in tutti i
temi della coniugazione. [3874]Ma ne' temi della 2. e
(13. Nov. 1823.)
Ho detto altrove che patulus sembra
diminutivo positivato di un patus. Male. Non tutti i nomi in ulus,
nè tutti i verbi in ulare sono diminutivi neppur per origine e regola
di formazione: p.e. iaculum da iacio, speculum e specula
da specio, vehiculum, curriculum, adminiculum, amiculum da amicio,
periculum da , iaculari,
speculari, famulus, famulor ec., retinaculum, miraculum, obstaculum,
stimulus, stimulo, stabulum, stabulo, pabulum, poculum, fabula, fabulor ec.
(v. la p.3844.), crepitaculum, sustentaculum,
baculum, baculus, osculum, ec. Patulus è di questi, fatto a
dirittura da pateo ec. (13. Nov. 1823.). Fors'anche oculus
è di questi, contro il detto altrove. V. Forc. ec.
Alla p.3873. Resta però quello che io
per l'addietro ho sempre detto circa i supini della 3. e 4. E la presente
correzione non riguarda che la 1. e 2. Lectum cioè legtum
è vera contrazione di legitum, è fatto per soppressione
dell'i, suppone e dimostra legitum, gli è posteriore, i
supini veri e regolari e non contratti della 3. e 4. sono in itum e itum
e non altrimenti ec. I contratti della terza e quarta, come lectum, quaestum,
sono contrazioni de' supini in itum e fatti per soppressione
dell'esilissima vocale i o i. I supini in itum della 1. e
2. vengono da' contratti, e son fatti al contrario di quelli per addizione
dell'esilissimo suono i.
(13. Nov. 1823.)
Alla p.3873. marg. - e non contratti. Come venio
is veni. [3876]Perde spesso la i, come in venerunt,
veneram ec. per venierunt venieram ec. che sarebbe il regolare; o
ciò sia anomalia, o contrazione, ch'io piuttosto credo. La qual contrazione
ha principio nella stessa prima voce del perfetto veni per venii.
Anzi da questa nasce il tutto ec. Così ne' composti, come invenio
ec. e in altri molti verbi.
(13. Nov. 1823.). V. p.3895.
Dico che l'uomo è sempre in istato di
pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza
quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena
inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando
meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto
da checchessia e massime da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per
natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più
sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena
è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è
continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita,
non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men
vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri
ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena,
che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste,
e che per conseguenza tanto è maggiore e più sensibile quanto il
desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico,
ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel
tempo [3877]della indifferenza e quiete e ozio dell'animo, e mancanza di
sensazioni o concezioni ec. passioni ec. determinatamente grate o ingrate; e talvolta
maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata
sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e
più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è
punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo
continuamente sospira; dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima,
e fermissima e vivissima anzi si può dir certa speranza e quasi dal
vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo
perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè
il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso
nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere,
nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo
dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può
meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del
naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto
quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza
è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la
felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con assolutamente
eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un
lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento
della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di
felicità e quindi di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile
nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è
infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione [3878]piacevole,
o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto
piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte
occupazione ec. dell'animo, dell'amor proprio, della vita e dello stesso
desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole
effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il
desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo,
e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E
l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del
tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede
sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi
mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera
natura; di radissimo poi nè in quel punto, nè mai, o ch'ei
rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo
consideri ec. rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli
ritroverebbe quelle universali e grandi verità che noi andiamo
osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o
interamente e chiaramente comprese e concepute ec.
(13. Nov. 1823.)
Alla p.3639. marg. Esseri più forti
dell'uomo; ecco i primi Dei adorati dagli uomini, o da loro riconosciuti e
immaginati e considerati per tali; ecco la prima idea della divinità. E
come i più forti per lo più anzi, naturalmente e primitivamente,
sempre si prevalgono di questo, come di ogni altro, vantaggio, in loro proprio
bene, e quindi sovente in danno de' più deboli, e però essi sono,
appunto in quanto più forti, malefici e formidabili ai più
deboli; e come gli stessi individui umani, massime nella società
primitiva e selvaggia (che fu quella in cui nacque [3879]l'idea della
Divinità) così ne usavano e ne usano verso i più deboli
per qualunque lato, sì loro simili, sì d'altre specie; quindi
nell'idea primitiva della Divinità che consisteva nella maggior forza e
soprumana, dovette necessariamente entrare l'idea della maleficenza e della
terribilità, naturali effetti e conseguenze e compagne della maggior
forza. Anche gli uomini ch'erano o erano stati straordinariamente superiori e
più forti degli altri, sia di forza corporale, sia di quella che nasce
da qualunqu'altro vantaggio, ancorchè malefici, temuti e odiati, furono
non di rado nelle società primitive, e lo sono forse ancora nelle
selvagge, divinizzati sì nell'idea, sì talora nel culto, vivi o
morti; e questo si può anche riconoscere presso i critici che indagano
le origini della stessa mitologia greca, men feroce e terribile e odiosa, anzi
più molle ed umana e ridente e amena e vaga e graziosa ed amabile di
tutte l'altre ec.
(13. Nov. 1823.)
Alla p.3715. Sono molte volte che la noia
è un non so che di più vivo, che ha più sembianza
perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi
chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo
in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel
desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè
felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia
comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è noia,
in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che
l'avvicinano all'infelicità così chiamata positivamente, e che
paiono poco convenevoli [3880]alla noia. Ella infatti, benchè del
genere stesso, è più passione è più penosa, che la
noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale
perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente
vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i
giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco
capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai
senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione,[207]
più viva d'essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il
lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell'altre
età, è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di
noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono
ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto p.3835-6.3876-8.
e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a
qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e
dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione,
diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora
io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere
ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e
immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer
così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia per
sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che
posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p.3713-5.
(13. Nov. 1823.)
[3881]Come fra gli antichi le cose
e funzioni sacre fossero in mano de' profani ec. del che altrove, vedi la
Polit. di Aristotele, l.6. fine, Florent. 1576. p.543. massime in fine, e quivi
il Vettori.
(14. Nov. 1823.)
Monosillabi latini. Pluo, secondo le
nostre osservazioni sulla monosillabia antica e volgare di tali dittonghi (come
uo) non riconosciuti da' grammatici.
(14. Nov. 1823.). V. il pens. seg.
Alla p.3850. fine. Buo è
andato in disuso restando il composto imbuo. Se però imbuo
è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e
pronunzia d'imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere,
imbevo che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e
v. i francesi e spagnuoli) - imbiuo - imbuo, come lavo ne'
composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere
noi facciamo piovere, llover ec. E mille esempi in questi propositi si
potrebbero addurre.[208]
Così exbuae sarebbe corruzione o pronunziazione di exbibae,
vinibuae di vinibibae, fors'anche bua (bumba) di biba.
Di tali cangiamenti nati dall'affinità ec. tra il v e l'u,
ho detto altrove. Ovvero Imbuo può esser fatto direttamente da in
e da bua (bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba,
o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo
per usi puerili, sia anche in origine una voce puerile.
(14. Nov. 1823.)
Il vino, il cibo ec. dà talvolta una
straordinaria prontezza vivacità, rapidità, facilità,
fecondità d'idee, di ragionare, d'immaginare, di motti, d'arguzie, sali,
risposte ec. vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati,
sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse,
tenacità [3882]e continuità ed esattezza di ragionamento
anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità
di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente
dall'uno all'altro senza perderne il filo ec. volubilità somma di mente
ec. Questo secondo le condizioni particolari delle persone, ed anche le loro
circostanze sì attuali in quel punto, sì abituali in quel tempo,
sì abituali nel resto della vita ec. Ma quello accrescimento di
facoltà prodotto dal vino, ec. è indipendente per se stesso
dall'assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, d'abito ec.
divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec. V. p.3886. Questo
si applichi alle mie osservazioni dimostranti che il talento e le facoltà
dell'animo ec. essendo in gran parte cosa fisica, e influita dalle cose fisiche
ec. la diversità de' talenti in gran parte è innata, e sussiste
anche indipendentemente dalla diversità delle assuefazioni, esercizi,
circostanze, coltura ec.
(14. Nov. 1823.)
Alla p.3801. Sì nelle nazioni barbare
o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la
società ha prodotto infiniti o costumi o casi fatti ec. particolari,
volontari o involontarii ec. che o niuno può negare esser contro la
natura sì generale, sì nostra, contro il ben essere della specie,
della società stessa ec. contro il ben essere eziandio delle altre
creature che da noi dipendono ec.; ovvero se ciò si nega, ciò non
viene che dall'assuefazione, e dall'esser quei costumi ec. nostri propri: onde
dando noi del barbaro ai costumi e fatti d'altre nazioni e individui, ec. meno
snaturati talora de' nostri, non lo diamo a questi ec. E generalmente noi
chiamiamo barbaro quel ch'è diverso [3883]dalle nostre
assuefazioni ec. non quel ch'è contro natura, in quanto e perciocch'egli
è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi o fatti snaturatissimi
che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè esempio
alcuno in veruna delle specie dell'orbe terracqueo, hanno avuto ed hanno ed
avranno sempre luogo in qualsivoglia società, selvaggia, civile, civilissima,
barbara, dove e quando gli uni, quando gli altri, ma da per tutto cose
snaturatissime. Il che vuol dire che la società gli ha prodotti, e che
non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi e fatti
snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec. P.e. Il
suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali
dell'esistenza, ai principii, alle basi dell'essere di tutte le cose, anche
possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla
società? ec. ec. V. p.3894. Ora in niuna specie d'animali, neanche la
più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai
avessero luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così
snaturati come quelli degl'individui e popoli umani in qualunque società,
ma molto meno. Eccetto solo qualche accidentalissimo disordine, o involontario,
e quindi da non attribuirsi alla specie, o volontario, ma di volontà
determinata da qualche straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma
di questi casi non sarà neppure in una intera specie, contando dal
principio del mondo, comparabile a quella de' casi di tal natura in una sola
popolazione di uomini dentro un secolo, [3884]anzi talora dentro un anno.
Questo prova bene che la naturale società ch'è tra gli animali
non è causa di cose contrarie a natura per se medesima e
necessariamente, ma per solo accidente, e il contrario circa la società
umana. E si conferma che l'uomo è per natura molto men disposto a
società che moltissimi altri animali ec.
(14.
Nov. 1823.)
Les
Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette langue
d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air male et de l'énergie lorsqu'elle
était maniée par cet habile poëte. Così scriveva il principe reale di
Prussia, poi Federico II alla marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9. Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de
Prusse. 1790. tome 16. Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5e
p.307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio
degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material
cognizione ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla
nostra lingua, ma il particolare del Tasso, ch'è un fatto, e che poco si
richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario
del vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il
Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello
stesso Petrarca ec. V. p.3900. (14. Nov.
1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in
comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli arcadici de'
nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del [3885]passato
secolo, insomma di quelli che nè scrissero nè seppero l'italiano;
nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni rimprovero e controversia.
(15.
Nov. 1823.). V. p.3949.
Alla p.3706. Se però, come dubito, fuvi
per fui non è un raddoppiamento dell'u, fatto per
proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili
casi v'hanno molti altri esempi ec. (v. la pag.3881. ec.). Il qual
raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e occasione dal voler
evitare l'iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato interposto il v,
non in quanto semplicemente atto e solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma
in quanto l'una e la più sonante di queste nel nostro caso era l'u,
cioè appunto un altro v, secondo il detto altrove circa la
medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente.
I quali non usavano che un carattere per esprimer l'una e l'altra, cioè
anticamente e nel maiuscolo il V, più recentemente e nel
semimaiuscolo o unciale, o forse in quello ch'era allora, o anche anticamente,
il corsivo e l'usuale, sia tutt'uno coll'unciale, sia diverso, ec. l'u,
come ne' palimpsesti vaticani, ambrogiani, sangallesi, veronesi ec.
(15. Nov. 1823.)
Alla p.3588. marg. Di ciò che io,
sapendo essere vostro servitio, SENZA ALTRI VOSTRI COMMANDAMENTI era tenuto di
fare. Cioè senz'alcun vostro comandamento, di proprio moto.
Bernardo Tasso Lettere. Venetia 1603. appresso Lucio Spineda. Libro primo
car.27. pag.2. in 8vo piccolo.
(17. Nov. 1823.)
[3886]Altrove osservo che il cul
de' latini si cangia assai sovente nell'italiano in chi o cchi (o-cu-lus,
o-cchi-o) o gli (pe-ri-cul-um, peri-gli-o), nello spagnuolo
in i (o-cu-lus, o-j-o) nel francese in ill o il o eil
o eill o ail o aill ec. (péril, abeille, vermeil, ouaille, o-cul-us, o-eil ec.). Nótisi che
tali cangiamenti non sono certo direttamente stati fatti da cul, ma da cl
contratto nella volgar pronunzia latina, come si vede anche non di rado nel
latino illustre e scritto, massime appo i poeti; come seclum, periclum
ec.
(17. Nov. 1823.)
Saltuaris, saltuarius, saltuatim,
saltuensis, saltuosus da saltus us.
(17. Nov. 1823.)
Salitio voce di Vegezio dimostra
l'antico supino salitum di salio pel contratto irregolare, ma
solo superstite, saltum, da cui si farebbe saltio, non salitio,
giacchè tali verbali son fatti da' supini o seguono la forma del supino.
(17. Nov. 1823.)
Alla p.3882. E quelli che per l'ordinario
non dimostrano ingegno nè talento se non per le cose gravi e serie,
allora lo dimostrano non di rado notabilissimo per lo scherzo ec. E gli uomini di
talento profondo ec. ma scarsissimi o alienissimi da quello che si chiama
spirito, e fors'anche tutto l'opposto che spiritosi; tardi, bisognosi di molto
tempo a concepire a inventare ec. freddi, secchi ec. allor divengono
spiritosissimi, prontissimi ec. E gli uomini d'ingegno riflessivo o simile, ma
non inventivo non immaginoso ec. allor dimostrano e veramente acquistano per
quel poco di tempo una notabile facoltà d'invenzione, immaginazione ec.
ec. E così discorrendo sulle diversità dei talenti ec.
(17. Nov. 1823.)
[3887]Alla p.3856. L'Italia
produsse nel 500 ec. molti capitani illustri, come il Trivulzio, il
Montecuccoli ec. sia che questi servissero alle loro rispettive nazioni
italiane, o ad altra nazione italiana diversa dalla propria, come la Repubblica
di Venezia spesso conduceva Generali italiani d'altri stati, a comandar le sue
forze di terra o di mare; o a principi stranieri, i quali in quel tempo si
servirono spessissimo di Generali e uffiziali italiani pel governo de' loro eserciti,
conducendoli, anche con grossi partiti, al loro servizio. Del che è
curiosa a leggere un'osservazioncella di Bernardo Tasso, Lettere citate qui
dietro (p.3885. fine), lib.1. car.29. e tutta quella lettera. Similmente dico
de' politici e ministri ec. italiani, e negoziatori italiani ec. di quel
secolo, e anche de' seguenti, fino agli ultimi tempi, in cui siamo veramente
arrivati all'estremo della nullità politica, e passività, ed
incapacità di ogni sorta di operazione, o certo totale inazione di
fatto, sì in casa sì fuori. Come il Mazarino, l'Alberoni, il
Bentivoglio, ed anche il Lucchesini ec. Il dominio della religione ai tempi
passati, e fino alla rivoluzione, (benchè sempre decrescente, ma non
estinto fino ad essa rivoluzione) ma specialmente prima del 600, e per conseguenza
il credito, l'influenza, e l'importanza del Papa e della Corte di Roma,
contribuirono grandemente, e forse, massime in certi tempi, principalmente, a
tener l'Italia in azione, a darle campo di esercitarsi nella politica e negli
affari, materia e modo di negoziare, importanza e peso, negoziatori,
diplomatici, politici, uomini che ebbero parte attiva negli avvenimenti e ne'
destini d'Europa, e i cui nomi divennero propri della storia. [3888]Sia
nelle materie strettamente religiose, che allora erano strettamente legate
colle politiche, e di grande importanza temporale, sia nelle materie anche
puramente politiche, gl'italiani ebbero allora dalla religione grandi e
continue opportunità occasioni e necessità di agire e di pensare.
Quanta politica ec. non fu dovuta mettere in opera dagl'italiani nel Concilio
di Trento e in tutti gli affari del Luteranismo, Calvinismo ec. Grandi negoziazioni
e trattative e maneggi e grandi e gravi affari furono allora operati dagl'italiani,
o da una Corte italiana, qual era quella del Papa, e da membri che ad una corte
italiana appartenevano; e tra questi brillarono non pochi politici ec.
Cardinali e nunzi e prelati e Vescovi ec. potenti appo i forestieri ec. Negoziazioni
ec. degli stranieri appo noi, che conservavano l'uso e l'esercizio della
politica e degli affari in casa nostra ec. ec. Questa causa di azione e di
qualche vita per l'Italia non si ristringeva ne' suoi effetti alla sola
politica, diplomatica, affari pubblici. Naturalmente i suoi effetti si
stendevano a tutte le parti della società e del civile consorzio. V'era
una vita in Italia. Or dunque tutte le parti della nazione e della
società ne partecipavano, come suole accadere. Quindi lo splendor delle
arti, le grandi imprese di edifizi ec. massime in Roma, sede della più
importante politica italiana ec. la chiesa di S. Pietro, le scolture, le
pitture, le poesie, le orazioni, le storie, il secolo di Leon X, la industria,
il commercio ec. Massime nel 500. ma dipoi ancora, fino alla rivoluzione, [3889]Roma
riunendo e ponendo in azione gli spiriti di conto sì propri, sì
italiani, sì forestieri, e dando materia agl'ingegni di svilupparsi, e
occasione ai già sviluppati di concorrere ad essa e quivi esercitarsi,
stante l'esser sede d'importanti affari; ebbe spirito di società, e conversazioni
ec. sempre decrescenti, fino ad estinguersi, ma pur non estinte affatto fino
agli ultimi anni. ec. ec.
(17. Nov. 1823.)
Come altrove ho dimostrato, il solo perfetto
stato di una società umana stretta, si è quello di perfetta
unità, cioè d'assoluta monarchia, quando il monarca viva e governi
e sia monarca pel ben essere de' suggetti, secondo lo spirito la ragione e
l'essenza della vera monarchia, e secondo che accadeva in principio. Ma quando
l'effetto della monarchia si riduca in somma a questo, che un solo nella
nazione, viva, e tutti gli altri non vivano se non se in un solo e per un solo,
e i suggetti servano unicamente al ben essere del monarca, in vece che questo a
quelli, e che l'effetto e la sostanza dell'unità della nazione sia
questo, che quanto essa unità è più perfetta, tanto la
vita e il ben essere più si ristringa in un solo, o almeno lo spirito
d'essa unità e il proposito della costituzion nazionale miri in
effetto a questo fine; allora è certamente meglio qualsivoglia altro
stato; perocchè senza la perfetta unità, gli uomini in
società stretta non possono veramente godere del perfetto [3890]ben
esser sociale, nè la nazione è capace di perfetta vita; ma egli
è peggio non vivere e non essere (or la nazione sotto una tal monarchia,
non è) che non vivere perfettamente e non essere perfetta. Or, come ho
altresì provato altrove, non può assolutamente accadere che
l'assoluta monarchia non cada nel detto stato, nè che conservi il suo
stato vero per alcuna cagione intrinseca ed essenziale, e per altro che per
caso, il quale è straordinariamente difficile che abbia luogo, e mille
cagioni intrinseche ed essenziali alla monarchia assoluta considerata
rispettivamente alla natura dell'uomo, si oppongono positivamente alla detta
conservazione ec.
(17. Nov. 1823.)
J , , (Victor. splendorem
et ubertatem), (scil. ), . Ω J . , , . , J, J . Aristot.
Polit. l.7. Florent. 1576. p.593. (iis quae
tradita sunt ita ut satis esse possint. Victor.).
(18. Nov. 1823.)
[3891]Quelli che ci dicono che le
cose di questa vita, la gloria, le ricchezze e l'altre illusioni umane, beni o
mali ec. nulla importano, convien che ci mostrino delle altre cose le quali
importino veramente. Finchè non faranno questo, noi, malgrado i loro
argomenti, e la nostra esperienza, ci attaccheremo sempre alle cose che non
importano, perciò appunto che nulla importa, e quindi nulla è che
meriti più di loro il nostro attaccamento e sia più degno di
occuparci. E così facendo, avrem sempre ragione, anche, anzi appunto,
parlando filosoficamente.
(18. Nov. 1823.)
Il carattere ec. ec. degli uomini è
vario, e riceve notabili differenze non solo da clima a clima, ma eziandio da
paese a paese, da territorio a territorio, da miglio a miglio; non parlando che
delle sole differenze naturali. Ne' luoghi d'aria sottile, gl'ingegni sogliono
esser maggiori e più svegliati e capaci, e particolarmente più
acuti e più portati e disposti alla furberia. I più furbi per
abito e i più ingegnosi per natura di tutti gl'italiani, sono i marchegiani:
il che senza dubbio ha relazione colla sottigliezza ec. della loro aria.
Similmente gl'italiani in generale a paragone delle altre nazioni. Mettendo il
piede ne' termini della Marca si riconosce visibilmente una fisonomia
più viva, più animata, uno sguardo più penetrante e
più arguto che non è quello de' convicini, nè de' romani
stessi che pur vivono nella società e nell'uso di una gran capitale.
Così discorrasi delle altre [3892]differenze ec. Gli abitatori
de' monti differiscono notabilmente, se non di corpo, certo di spirito,
carattere, inclinazione ec. da quelli degli stessi piani e valli lor
sottoposte; i littorani da' mediterranei lor confinanti ec. ec. anche parlando
delle sole differenze cagionate dalle diversità naturali de'
luoghi ec. Infinito è il numero delle cagioni anche semplicemente
naturali che producono differenze tra gli uomini, e queste, benchè or maggiori
or minori, sempre notabili, e più notabili assai che in niun'altra
specie di viventi, a causa dell'estrema conformabilità e modificabilità
dell'uomo, e quindi suscettibilità di essere influito dalle cagioni
anche menome di varietà, di alterazione ec. che in altri esseri o non
producono niuna varietà, o piccolissima ec. Le dette cagioni di
varietà s'incrociano per così dir tra loro, perchè il
calor del clima produce un effetto, la grossezza dell'aria un altro contrario,
e ambedue le dette cagioni s'incontrano bene spesso insieme; e così
discorrendo. Esse si temperano, si modificano, si alterano, si diversificano,
s'indeboliscono, si rinforzano scambievolmente in mille guise secondo le infinite
diversità loro, e de' loro gradi, e delle loro combinazioni scambievoli
ec. ec. e altrettante diversità, cioè infinite, e
diversità di diversità, e tutte notabili, ne seguono ne'
caratteri degli uomini. Queste osservazioni si applichino a quelle della
p.3806-10. e a quelle sopra le differenze vere, cioè naturali, de'
talenti, o innate, o acquisite e contratte [3893]naturalmente, e per
cause e circostanze semplicemente naturali e indipendenti nell'esser loro dalle
sociali, dagli avvenimenti ec. e che avrebbero operato ed operano per se stesse
proporzionatamente anche negli uomini primitivi, ne' selvaggi ec. che operano
ancora, benchè infinitamente meno, negli animali, piante ec. ec. a
proporzione, e secondo la loro suscettibilità, e la qualità e il
grado e le combinazioni ec. d'esse cause e circostanze ec. ec.
(18. Nov. 823.)
Tio spagn. Zio ital. J grec.
(19. Nov. 1823.)
A proposito del danno recato al valore
dall'invenzione delle armi da fuoco, vedi il detto di Archidamo appresso il
Vettori ad Aristot. Polit. l.7. Florent. 1576. p.602. il qual detto è
riportato da Senofonte, s'io non m'inganno, nell'Agesilao, ed attribuito forse
a costui; ovvero nella Repubbl. de' Lacedemonii. Oltre le invettive dell'Ariosto
contro l'armi da fuoco in uno de' dieci primi Canti del Furioso, a proposito di
Cimosco ec.
(19. Nov. 1823.)
Gli Americani consideravano per
mostruosità la barba negli europei perocchè quei popoli
naturalmente erano sbarbati, come i mori e altri popoli d'Affrica ec. Si applichi
alle osservazioni sul bello. Solìs, Hist. de
Mexico; De Cieça Chron. del Peru, ec.
(19. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Gesticulor,[209]
ec. Vedi il Forcellini. Franc. gesticuler. Noi ancora volgarmente gesticolare.
[3894]Vedi l'Alberti. ec. (19. Nov. 1823.). Corbeau
da corvus.
Gero-gestum, gesto, gestito.
(19. Nov. 1823.)
Alla p.3883. La superstizione sia speculativa
sia pratica è figlia della società, ed inseparabile da essa
società quanto si voglia civile come dimostrano tutte le istorie. Anzi
par ch'ella, a differenza di tanti altri incomodi e barbarie della società
primitiva, cresca a proporzione della civiltà; e certo si son trovati e
trovano alcuni popoli selvaggi senza superstizione alcuna, almeno efficace e
che influisca sulla vita in niun modo, e che sia causa di veruna
infelicità esteriore nè interiore; ma niun popolo civile si
trovò mai nè si trova nè troverassi in cui la
superstizione più o manco, e in uno o altro modo, non regni, per
civilissimo ch'ei si fosse, o si sia, o che sia per essere.[210] Or
di quanti e quanto gran mali sia stata e sia causa la superstizione per sua
natura sì a' popoli sì agl'individui, sì verso gli altri
sì verso se stessi, travagliandoli sì esternamente sì
internamente, per rispetto ai costumi, agl'istituti, alle azioni, alle opinioni
ec.; quanti beni e quanto grandi abbia impedito e impedisca per sua natura ec.
non accade dilungarsi a mostrarlo, anzi neppure a ricordarlo, essendo
già e provato e notissimo. (19. Nov. 1823.). Certo la superstizione non
ha luogo negli animali anche i più socievoli. Dunque l'uomo per natura
è men sociale che alcun'altra specie ec. V. la p.3896.
Diminutivi positivati. Faisceau da fascis
e per fascis. Similmente fastello, quasi fascettello.
Gocciola, gocciolare sgocciolare ec. diminutivi equivalenti ai positivi goccia,
gocciare, sgocciare ec. da gutta. Questi diminutivi cioè gocciola
(e così frombola [3895]di cui p.3636. marg. benchè fromba
non sia nome latino), ec. e simili altri in olo ec. breve, sono alla
latina; il che è da notare.
(20. Nov. 1823.)
Il sonno e tutto quello che induce il sonno,
ec. è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec. Non
c'è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che
il non sentirla.
(20. Nov. 1823.)
Alla p.3876. Venio ha già
perduto il suo i in veni il cui i non è il
radicale, ma quello della terminazione del perfetto, se già esso non
comprende ambo gl'i, come negli antichi codici e monumenti si trova
assai spesso audi per audii, Tulli per Tullii, anzi
regolarmente Tulli e non Tullii ec. del che vedi il Conspectus
orthographiae cod. vaticani de republica di Niebuhr. In ogni modo è
certo che virtualmente l'i p.e. di Tulli, contiene due i,
come il moderno nostro (e latino) j. Del resto, anomalie che faccian
perdere l'i radicale ai temi della quarta, sono moltissime. P.e. vincio-vinxi
(dove l'i secondo, non è il radicale) sentio-sensi ec.
Contrazioni altresì moltissime, come saltum di salio per salitum
ec. ec. ec. Audisti audistis ec. sono contrazioni, non, cred'io, di audiistis
ec. ma di audivisti, come amasti di amavisti; onde in audisti
audistis ec. l'i radicale non sarebbe perduto, ma sola la sillaba
interposta, vi.
(20. Nov. 1823.)
[3896] D'emblée viene
evidentemente dal greco . Grecismi
del volgare italiano vedine ap. il Vettori Commentar. in Aristot. Polit. Lib.7. fin. Florent. 1576. p.646 fin.-647
princip. Il luogo di Aristot. quivi citato è ib. p.641. fine.
(21. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati: pocillator da pocillum,
invece di dir poculator da poculum, ma collo stesso senso,
cioè di . (21.
Nov. 1823.). Gemellus coi derivati, diminutivo di geminus (come pagella
di pagina. Gemello, iumeau, v. gli spagn. Femelle da femella
per femina, femme, passato in francese al semplice significato di donna.
Così favellare da fabella, in vece e nel senso di fabulare
da fabula, del che vedi la p.3844.
(21. Nov. 1823.)
Monosillabi latini. V. Forcell. in Leo es.
(21. Nov. 1823.)
Alla p.3894. marg. La ragione di cui l'uomo
solo è provveduto (ossia quel grado di facoltà intellettuale che
si chiama ragione, ed a cui il solo intelletto dell'uomo arriva e può
arrivare), come per mille parti è utile, per mille necessaria alla società,
ed origine e cagione effettiva di essa, così per mille altre parti (come
p.e. per la superstizione la qual non sarebbe senza il grado di facoltà
mentale che noi abbiamo, e che le bestie non hanno, e per cento mila altri
effetti) è di sua natura nocevole e anche direttamente contraria alla
società degli uomini, e al lor ben essere e lor perfezione nello stato
sociale ec. ec. Parlo qui di quella facoltà di ragione che l'uomo ha per
natura, anche nello stato primitivo, e dico che questa medesima dimostra che
l'uomo per natura è men disposto a società che gli altri animali,
benchè per altra parte ella sembri invitta e principalissima prova del
contrario ec. ec.
(21. Nov. 1823.)
[3897]La negativa francese ne
è l'antichissima de' latini, i quali dicevano ne e nec per
non, come ho discorso in proposito di nihilum parlando della voce
silva e della sua origine, e mostrato ancora che ne serviva in
composizione di particella privativa, come in greco , , , e per conseguenza sì essa che le
dette greche originariamente dovettero certo essere particelle negative,
cioè assolutamente servienti alla negazione ec.[211] E
v. il Forc. in Ne, Nec ec. e i Lessici greci in ec.
(22. Nov. 1823.)
Febricito as, viene
forse da un febrico as atum, ovvero ui itum (come applico,
explico ec. ui itum ec. e simili, di cui altrove) che sarebbe affine
a febricosus?
(22. Nov. 1823.)
Non solo aggettivi si son fatti da'
participii in us, come altrove più volte, ma spessissimo essi
participii son passati in sostantivi, come factum, actum, iussum ec. ec.
Onde anche da tali sostantivi si può talora argomentare e de' veri
participii, e dell'esistenza di verbi ignoti, di cui questi sostantivi saranno
stati originalmente participii, benchè or non si sappia, ec. ec.
(22. Nov. 1823.)
Alla p.3636. È da notare che quando
il positivo de' diminutivi positivati (come di martello ec.), sieno
latini, sieno moderni, latini di origine, o di origine moderna ec., non si
trova, [3898]o non se ne sa almeno il significato (sia nella stessa lingua,
sia nella latina, o nelle altre ec.), allora può essere che questo fosse
diverso da quello de' loro diminutivi noti, o diverso affatto, o diverso in
quanto più generale, o appartenente ad una specie di cose dello stesso
genere ma pur diversa da quella significata dal diminutivo ec. Onde tali
diminutivi non possono con certezza chiamarsi positivati, con tutto che nella
loro significazione non si vegga causa nè vestigio alcuno di
diminuzione; perocchè positivati si vogliono intendere quei diminutivi
che son giunti ad essere usati in vece de' loro positivi (o coesistenti, o
andati in disuso), e per conseguenza nel medesimo senso di questi. E i
diminutivi de' quali io raccolgo gli esempi, han da esser di questo genere, e
non altro.
(22. Nov. 1823.). V. p.3945.
Alla p.3513. Come le donne naturalmente e
generalmente parlando (e basta all'effetto, che così sia pernatura)
vivono alquanto meno degli uomini, o son destinate ad uno spazio di vita
alquanto più breve, ed infatti il loro sviluppo, e la decadenza ed
estinzione delle loro facoltà e della giovanezza loro, è
certamente più pronto, e la loro carriera fisica generalmente più
rapida; così è ben verisimile che le date quantità di
tempo, ad esse paiono alquanto maggiori che agli uomini, secondo la piccola
proporzione che risulta dal poco svantaggio di lunghezza che ha la lor vita
naturalmente dalla nostra; la qual differenza e proporzione essendo assai
piccola, non è maraviglia se il detto effetto non si nota, [3899]e
se riesce impercettibile, essendo quasi menomo ec. Forse anche simili
differenze impercettibili si potrebbero supporre tra diversi individui di uno
stesso sesso, nazione ec. come derivanti e proporzionate a certe relative
differenze fisiche o morali, ec. che si potrebbe forse notare a questo
proposito, e come atte a cagionare detto effetto ec. ec.
(22.
Nov. 1823.)
Je me
rappelle souvent ce vers anglais: L'homme est fait pour agir, et tu prétends
penser? Frédéric II Lettres à d'Alembert, tome XIII. p.203.
(22. Nov. 1823.). V. p.3931.
Voce comune alle tre lingue: Ciabatta,
zapato, savate (è noto che il nostro c molle, in ispagnuolo
è z, in francese vale s), savaterie, savetier,
zapatero, ciabattino, acciabattare ec. ec. Anche le metafore di tali voci,
come di saveter e acciabattare, di ciabattino e savetier
per mauvais ouvrier ec. ec. sono conformi, almeno tra l'italiano e il
francese, giacchè il significato di ciabatta, savate, zapato,
benchè simile, è alquanto diverso nello spagnuolo ec.
(23. Nov. Domenica. 1823.)
Alla p.3851. marg. Anche tra noi però
avvisato per prudente, può essere participio di avvisarsi,
verbo reciproco, o neutro passivo, in senso di avvedersi ec., e in tal caso
non apparterrebbe al nostro discorso, niente più di quello che gli appartenga
appunto avveduto di avvedersi (che vale lo stesso che avvisato),
accorto di accorgersi (che vale altresì lo stesso: dico
aggettivamente presi accorto, avveduto, avvisato), e gli altri participi
de' neutri passivi o reciprochi.
(23. Nov. 1823.)
[3900]Alla p.3869. marg. Da queste
osservazioni è chiaro che si dee dir vivisco e non vivesco,
anche per regola e analogia e ragion generale. - Es. di verbo incoativo fatto
da verbo della 4. può essere scisco da scio - Hisco da hio-hiatum,
non è che corruzione d'hiasco che pur si trova, e che è
proprio degli antichi; come hieto è corruzione d'hiato,
che pur si trova, del che altrove.
(23. Nov. 1823.)
Al detto altrove sopra il continuativo hietare,
aggiungi quello che puoi vedere nel pensiero precedente.
(23. Nov. 1823.)
Alla p.3869. marg. principio. Arcesso, -
Capesso, - Facesso (v. Forcell. in Facesso princ. e fin.) - is
ivi itum. E credo che anche gli altri tali verbi frequentativi o desiderativi
o come si chiamino (v. Forc. in Facesso princ.), se altri ve n'ha, facciano
allo stesso modo, cioè una mescolanza della 3. e 4. coniugazione Anche Arcesso
fa nell'infinito passivo arcessi e arcessiri. E v. Forcell. in arcesso
princ.
(23. Nov. 1823.). V. p.3904.
Alla p.3884. Se la qualità dello
stile del Tasso, considerato in generale, pecca in qualche cosa, questo si
è più che in altro, nel molle. E certo non di rado esso dà
nel debole, anzi pur nel freddo, e in quel basso che nasce da debolezza, da
mancanza di nervo e di forza per sostenersi in alto e ritto ec. ec., in poca
sostenutezza ec. Questo è molto più frequente nel Tasso che o in
Dante o in Petrarca, e più ancora che in parecchi poeti del 2. ordine.
(23. Nov. 1823.)
Alla p.2843. Che inceptare in questo
senso d'incettare, cioè [3901]come composto di capto,
non sia alieno dall'antica latinità, secondo che ho detto in una delle
pagg. citate in quella a cui questo pensiero appartiene, me lo persuade eziandio
il vedere che detto senso è tutto latino, e alla latina ec. e quasi
è lo stesso che quello del semplice captare, se non che è
determinato ad un certo modo di far quello che si denota col verbo captare.
Del resto che la mutazione dell'a in e ne' composti, e l'altre
tali, usitate regolarmente nell'antico e buon latino, fossero trascurate ne'
composti de' tempi bassi e delle lingue moderne, ne può essere una prova
appunto accattare (acheter). Vedi Glossar. in accaptare.[212]
(23. Nov. 1823.)
Simile esempio a quello di traer
usato talora dagli spagnuoli nel senso di tractare, come nel primo
principio della mia teoria de' continuativi, si è quello di affecter
spesso usato da' francesi nel significato stesso (o simile) di afficere.
V. Forcell. in affecto fin. e inaffector aris; il Gloss., gli
spagn. ec.
(23. Nov. 1823.)
Alla p.3753. marg. - come forse sono
contrazioni quei diminutivi di cui a p.3844. ec., cioè a dire pagella
per paginella, asellus per asinellus, che noi diciamo, fabella
per fabulella ec.
(23. Nov. 1823.). V. p.3992.
Alle cose dette altrove in più luoghi
sopra il g protetico dei latini avanti la n, aggiungi gnatus,
participio o aggettivo, e sostantivo, e gnatula, e v. Forcell. in queste
voci.
(23. Nov. 1823.)
Al detto altrove sopra l'uso dello spagn. luego
simile a quello che i greci fanno degli avverbi significanti statim ec.
aggiungi un esempio di Aristot. Polit. l.8. Florent. 1576 p.615. princip. 652.
fine. p.675. fine, J ec. male inteso dal Vettori
in tutti i tre luoghi, in un de' quali ridonda.
(23. Nov. Domenica. 1823.)
[3902] Andare per essere
del che altrove. Petr. Sestina 1 verso penult. E 'l giorno andrà
(sarà) pien di minute stelle Prima ch'ec.
(24. Nov. dì di San Flaviano. 1823.)
A proposito del diminutivo positivato , di cui
altrove, si può notare che anche in francese il vocabolo che significa
gregge, e particolarmente gregge di pecore (come e ) o di
montoni, è originariamente diminutivo, cioè troupeau per troupe,
la quale seconda voce equivarrebbe a grex che forse propriamente
è generica come troupe, e significa moltitudine, adunanza ec. secondo
che in latino e in italiano tuttogiorno s'adopera.
(24. Nov. 1823.)
Monosillabi latini. Lac: idea
primitiva ec. Gr. , dalla
qual voce gli etimologi derivano la latina.
(24. Nov. 1823.)
Dico altrove che la lingua ebraica non ha
voci composte. Si eccettuino molti nomi propri, come Ab-raham, Ben-iamin,
Mi-cha-el, Ierusalem (non è dell'antico ebraico) ec. e forse anche
alcuni nomi, non propri, ma appellativi o cosa simile.
(24. Nov. 1823.)
L'uomo che ha molta capacità e quindi
facilità, prontezza e moltiplicità di assuefazione, per questa
medesima causa ha altrettanta capacità, facilità ec. di dissuefazione.
Viceversa nel caso contrario. E sempre proporzionatamente, anzi sempre
ugualmente, alla misura dell'una capacità risponde quella dell'altra.
L'una [3903]e l'altra o sono la cosa stessa diversamente considerata, o
due effetti gemelli d'una stessa causa, che non può produr l'uno senza
produr l'altro nel medesimo grado. Dalle medesime cagioni fisiche, morali ec.
che producono l'assuefabilità di un uomo o dell'uomo ec. nasce
altrettanta sua dissuefabilità. E dall'una si può argomentare
all'altra. L'uomo è assuefabile; dunque egli è dissuefabile; o viceversa.
Il tale individuo ha tanta capacità di assuefazione; dunque tanta di dissuefazione
nè più nè meno.
Questo principio, il quale risulta ed
è dimostrato e sviluppato dalle osservazioni da me fatte altrove, si dee
notare diligentemente, perchè nel corso delle nostre teorie sarà
forse suscettibile di molte applicazioni.
(24. Nov. 1823.)
A ciò che ho detto altrove in
proposito di pintar e dell'antico participio latino di pingo e
de' verbi simili, aggiungasi dipinto (non dipitto) sostantivo e
aggettivo o participio, dipintura ec. peint, e quindi peintre,
peinture ec. dépeint ec. Pitto per pinto, non è
che degli scrittori. Abbiamo però pittura, pittore ec. Ma anche pintore,
pintura. Gli spagnuoli pintor ec. Fitto per finto
(universale tra noi) non so se mai fosse del volgo e della lingua parlata. Da finto,
e non da fictus o fitto, finzione, fintamente ec. infinto.
fractus franto infranto, enfreint ec. Abbiamo però anche fizione
ec. I franc. feint ec. Gli spagnuoli fingido (fingitus
primitiva forma) ec. Vinto, non vitto (victus) se non
poeticamente, ed or neanche ben si direbbe in poesia. Gli spagnuoli vencido,
i francesi vaincu, che rispondono al [3904]primitivo vincitus di
vinco, secondo il detto altrove della mutazione dell'itus latino
in u, nella desinenza di molti participii francesi ec.
(24. Nov. 1823.)
Alla p.3900. Incesso is ivi, (frequentativum
ab INCEDO, dice il Forcell.). Quanto al suo preterito incessi (onde
l'incesserint nell'esempio di Tacito hist. 3.77.), vedi il Forcell. in Incedo
ne' due ult. paragrafi, e confrontisi ciò ch'egli dice del perf. facessi
in Facesso.
(24. Nov. 1823.)
Incessare da incedere. V. il
Forcell. in Incesso is, fine, e il pensiero antecedente, se vuoi.
(24. Nov. 1823.)
Alla p.3826. Il barbaro incapabilis
(v. Forcell. e Gloss. ec.) o è voce falsa, o affatto barbara di
formazione e fuor d'ogni regola, (come centomila simili delle latino-barbare, o
delle moderne, anche in bilis), o dimostra un capo as atum, se
non si dee leggere incapibilis da capitum (primitivo per captum),
come io dubiterei.
(24. Nov. 1823.)
Dice per dicono, aiunt,
del che altrove. V. la Crusca in Fitto §.3. esempio ult. e cercalo nel
suo autore. (24. Nov. 1823.). Sta Orl. Innam. c.37. st.1, e non ha che far col
proposito.
(24. Nov. 1823.)
Ho detto che tutte le lingue nascendo dai
volgari, le nostre sono nate dal latino volgare e parlato e non dal latino
scritto. Da questo principio segue, fra gli altri molti, questo corollario che
tutte le voci, frasi, significazioni ec. italiane, francesi spagnuole, e tutte
le proprietà di queste tre lingue, o di qualunque di [3905]esse,
che si trovano ancora, in qualsivoglia modo, nel latino scritto di qualunque
età, e che nelle dette lingue non sono state introdotte dagli scrittori,
dalla letteratura, da' letterati, dalla favella de' dotti o colti ec. nè
passati dall'una di esse lingue nell'altra per qualunque mezzo, dopo essere in
quella stati introdotti dagli scrittori o dal parlar letterato ec., ma che
vengono originariamente dal semplice uso del favellare ec.; furono tutte
proprie del latino volgare e parlato, non meno che dello scritto; e quindi chi
cerca l'antico volgar latino, ha diritto di considerarle come sue parti e
qualità ec.
(24. Nov. 1823.)
Alla p.3835. È da notare però
che l'ubbriachezza ec. anche quando esalta le forze, e cagiona una non
ordinaria vivacità ed attività ed azione esteriore o interiore, o
l'uno e l'altro, sempre però o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo
stesso una specie di letargo, d'irriflessione, d'JhsÛa, ancorchè l'uomo per altra parte sia allora
straordinariamente sensibile, e riflessivo e profondo sopra ogni cosa.[213]
Ella infatti per sua proprietà trae l'uomo più o meno, ed in uno
o in altro modo, fuor di se stesso, e in certa maniera, quando più
quando meno, lo accieca, lo trasporta, lega le sue facoltà, ne sospende
l'uso libero ec. Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole,
perocchè sospendendo o scemando in certo modo il sentimento della vita
nel tempo stesso ch'ella accresce la forza, l'energia, l'intensità, il
grado, la somma, la vitalità d'essa vita, sospende o scema o rende
insensibile o men sensibile l'azione, l'effetto, l'efficacia, [3906]le
funzioni, l'attualità dell'amor proprio, e quindi il desiderio vano
della felicità ec., secondo il detto nella mia teoria del piacere sopra
l'essenziale piacevolezza di qualunque assopimento, in quanto sospensivo del
sentimento della vita, e quindi del sentimento, anzi dell'attuale esistenza
dell'amor proprio, e del desiderio della felicità. L'ubbriachezza e
tutto ciò che le si assomiglia o le appartiene ec. è piacevole
per sua natura, principalmente in quanto ell'è (per sua natura)
assopimento.[214]
Massime che questo nasce allora dall'eccesso medesimo della vita e del
sentimento di lei, il qual eccesso è nella ubbriachezza quello che scema
e mortifica più o meno esso sentimento (secondo che il troppo è
padre del nulla, come altrove) e quasi estingue l'animo. (V. Victor. Commentar. in Aristot. Polit.
Flor. 1576. pag. ult. lin.5.6.).Ond'è sommamente piacevole per se
stesso, astraendo dalle circostanze che possono produrre in qualche parte il
contrario, e dall'altre qualità, ed effetti, anche essenziali,
dell'ubbriachezza ec. ec. fra tutti gli assopimenti quello prodotto
dall'ubbriachezza e simili cause, perch'esso solo include, suppone e porta seco
ed ha per madre l'abbondanza relativa della vita e del sentimento di lei, la
qual vita e sentimento è per natura e necessità supremamente
piacevole al vivente, come altrove in più luoghi, se non che negli altri
casi la maggior vita e il maggior sentimento di essa è
proporzionatamente maggiore amor proprio, e quindi desiderio di
felicità, e questo vano, e quindi maggiore infelicità ec.
(24. Nov. Festa di S. Flaviano 1823.)
Alla lista de' verbi frequentativo-diminutivi,
disprezzativi, vezzeggiativi ec., frequentativi o diminutivi semplicemente ec.
italiani, data da me altrove, aggiungi: in ettare, come da balbo,
balbettare.
(25. Nov. 1823.)
[3907]Alla p.2924. Personale: , ec. ec. Impersonale
(se
così è). Aristot. Polit. Flor. 1576. p.557. fin. p.590
fin. p.595.3
In italiano non credo che avere per essere sia mai veramente impersonale. Ci
ha molti è il singolare pel plurale, come in greco co' nomi neutri,
e in italiano, massimo antico o volgare, assai spesso. Dunque in questa frase
v'è la persona, cioè molti. Ebbevi di quelli che ec. Si
sottintende alcuni. Pur questa frase (e simili) per se stessa è
impersonale, e può chiamarsi così, giacchè in origine in
tutte le frasi impersonali qualche cosa si sottintende, come nelle soprascritte
greche e simile.
(26. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Cultellus (coltello,
couteau ec. V. i Diz. in coutre. Trovo in 2. lett. di Feder. II. coutelet,
per coltellino.) cultellare, cultellatus ec. V. Forcell.
(26. Nov. 1823.)
Alla p.3819. I nomi latini neutri della 3.
che hanno l'accusativo come il nominativo, e ben diverso dall'ablativo, si vede
che nelle nostre lingue non hanno a far niente (in generale) cogli ablativi
latini, ma ben co' nominativi e accusativi Come tempus-tempore, tempo, temps
ec.; semen-semine, seme ec., ec.
(26. Nov. 1823.)
Bisogna notare che i diminutivi positivati
(verbi o nomi ec.) da me raccolti non sieno di senso neanche frequentativo,
nè disprezzativo, nè vezzeggiativo, nè simile, eccetto se
tale non fosse anche quello del positivo, al quale esso deve insomma essere
totalmente conforme. Misculare (a proposito di cui ho preso a discorrere
de' diminutivi [3908]positivati) a principio ebbe forse un senso
frequentativo, che poi perdè, restandogli quello del positivo. E
così gli altri, ciascuno de' quali (nomi o verbi) in origine dovettero
in qualunque modo differire nel senso dai positivi. Del resto i verbi in ulare
ec. propriamente sono diminutivi e perciò spettano al mio discorso.
Hanno però talora un senso simile al frequentativo (come tanti verbi
italiani altrove da me notati), ma non perciò si possono men giustamente
porre fra' diminutivi, giacchè solo dalla diminuzione ricevono quel tal
potere di significar la frequenza ec. il qual significato è come una
specie de' significati diminutivi ec.
(26. Nov. 1823.). v.1823
Alla p.3520. E bene spesso l'irriflessione
de' fanciulli, degl'ignoranti, degl'inesperti ec. fa quello stesso, e
così perfettamente, o assai meglio ancora, che può fare e fa la
riflessione, la prudenza, la provvidenza, l'accorgimento, l'abilità, la
prontezza ec. e la presenza di spirito acquistata a forza di pratica ec. trova
gli stessi partiti che potrebbe abbracciare dopo maturissima considerazione
l'uomo il più riflessivo, e dov'è bisogno di prontezza, con
altrettanta e maggior prontezza li trova e li eseguisce, che possa fare l'abito
della riflessione ec.
(26. Nov. 1823.)
Causare per accusare, accagionare,
del che altrove in proposito dell'antico lat. cuso. Machiavelli Vita
di Castruccio Castracani, non molto avanti il mezzo, tutte le Opere,
1550, parte 2.a p.73. principio. Occorse in questi tempi che il popolo di
Roma cominciò a tumultuare per il vivere caro, causandone l'assenza del
Pontifice che si trovava in Avignone, et biasimavono i governi Tedeschi.
(26. Nov. 1823.)
[3909]Alla p.3753. E forse del
resto, puellus è contrazione di puerulus, che pur si dice;
e allo stesso modo nigellus di un nigerulus, e fratello
è per fraterulus, culter cultri-cultellus, e tutti i simili
similmente.
(26. Nov. 1823.)
Alla p.3310. Quanto influisca sempre
l'immaginazione, l'opinione, la prevenzione ec. sull'amore anche corporale, sui
sentimenti che un uomo prova in particolare verso una donna, o una donna verso
un uomo, è cosa notissima. E in particolare ha forza sull'amore, non
solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale verso gl'individui
particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a rendere poco
noto all'amante l'oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla sua immaginazione
di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò
moltissimo contribuisce all'amore e al desiderio anche corporale, tutto
ciò che ha relazione ai pregi o alle qualità comunque amabili
dell'animo nell'oggetto amabile, e in particolare un certo carattere profondo,
malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere in se più che non
apparisce di fuori. Perocchè l'animo e le sue qualità, e
massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all'altre
persone, e dan luogo in queste all'immaginare, ai concetti vaghi e indeterminati;
i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al natural desiderio
che porta l'individuo dell'un sesso verso quello dell'altro, danno un infinito
risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente [3910]il
piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee misteriose e naturalmente
indeterminate, che hanno relazione all'animo dell'oggetto amato, che nascono
dalle qualità e parti apparenti del suo spirito, e massime se da
qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell'incerto, e che
promettano o dimostrino altre lor parti o altre qualità occulte ed
amabili ec., queste idee dico, congiungendosi alle idee chiare e determinate
che hanno relazione al materiale dell'oggetto amato, e comunicando loro del misterioso
e del vago, le rendono infinitamente più belle, e il corpo della persona
amata o amabile, infinitamente più amabile, pregiato, desiderabile; e
caro quando si ottenga.
Generalmente una delle grandi cagioni che
hanno prodotto il sentimentale, l'amore spirituale ec., oltre quella notata nel
pensiero a cui questo si riferisce, si è che gli uomini civilizzandosi
di più in più, e sempre colla stessa proporzione acquistandone ed
aumentandosene di consistenza, di efficacia, di valore, d'importanza, di estensione,
di attività, d'influenza, forza, e potere, di facoltà, la parte
spirituale ed interna dell'uomo, si è venuto primieramente a riconoscere
e supporre nell'uomo una parte nascosta e invisibile che i primitivi o non
supponevano affatto o molto leggieramente, e poco distintamente dalla parte
visibile e sensibile; poscia a considerarla altrettanto quanto la parte
esteriore; poi più di questa, e di mano in mano tanto più, che
oggimai nell'uomo e in ciascuno individuo umano, se la natura non ripugnasse
(la quale all'ultimo [3911]non può mai totalmente essere
nè spenta nè superata) non altro quasi si considererebbe che
l'interiore, e per uomo non s'intenderebbe in nessun caso altro che il suo
spirito. Ora in proporzione di questa spiritualizzazione delle cose, e della
idea dell'uomo, e dell'uomo stesso, è cominciata e cresciuta quella spiritualizzazione
dell'amore, la quale lo rende il campo e la fonte di più idee vaghe, e
di sentimenti più indefiniti forse che non ne desta alcun'altra
passione, non ostante ch'esso e in origine, e anche oggidì quanto al suo
fine, sia forse nel tempo stesso e la più materiale e la più determinata
delle passioni, comune, quanto alla sua natura, alle bestie, ed agli uomini i
più bestiali e stupidi ec. e che meno partecipano dello spirito. Fino a
tanto che giunta in questi ultimi tempi al colmo la spiritualizzazione delle
cose umane, è, si può dir, nato a nostra memoria, o certamente in
questi ultimi anni si è reso per la prima volta comune quell'amore che
con nuovo nome, siccome nuova cosa, si è chiamato sentimentale;
quell'amore di cui gli antichi non ebbero appena idea, o che sotto il nome di
platonico, apparendo talora in qualche raro spirito, o disputandosene tra'
filosofi e gli scolastici, è stato finora riputato o una favola e un ente
di ragione e chimerico, o un miracolo, e cosa ripugnante alla universal natura,
o un impossibile, o una cosa straordinarissima, o una parola vuota di senso, e un'idea
confusa; e veramente ella è stata, si può dir, tale finora,
cioè confusissima e da' filosofi piuttosto nominata che concepita, e da'
più savi, come tale, derisa e stimata incapace di mai divenir [3912]chiara.
Questa eccessiva moderna spiritualizzazione dell'amore, la quale con proprio vocabolo
chiamiamo amore sentimentale, risponde alla suprema spiritualizzazione delle
cose umane, che in questi ultimi tempi ebbe ed ha luogo.
E come dalla spiritualizzazion delle cose
umane sia nata e dovuta nascere, e seco sempre in esatta proporzione crescere,
e finalmente venire al colmo la spiritualizzazione dell'amore, e quindi il vago
e l'indefinito che ora è proprio di questa passione e de' sentimenti
dell'un sesso verso l'altro, è manifesto e facile a spiegare colle cose
predette. L'uomo da principio, siccome in se stesso e negli altri uomini, così
naturalmente anche nella donna, e viceversa la donna nell'uomo, non
consideravano che l'esteriore. Ma col principiar della civilizzazione, nascendo
l'idea dello spirito, a causa della forza ed azione che la parte interna
incominciava ad acquistare e sviluppare, e di mano in mano, come questa parte
all'esterna, così l'idea dello spirito a quella del corpo, prima
agguagliandosi, e poi appoco a poco strabocchevolmente prevalendo, l'individuo
dell'un sesso in quello dell'altro dovette necessariamente prima incominciare a
considerare anche lo spirito, e poi seguendo, considerarlo quanto il corpo, e
finalmente più del corpo medesimo, almeno in un certo senso e modo.
Sicchè l'oggetto amabile dell'un sesso fu all'individuo dell'altro, non
più un oggetto semplicemente materiale, come in principio, ma un oggetto
composto di spirito e di corpo, di parte occulta e di parte manifesta, e poscia
di mano in mano un oggetto più spirituale che [3913]materiale,
più occulto e immaginabile che manifesto e sensibile, più interiore
che esteriore. E come le idee che hanno relazione alla parte interna ed occulta
dell'uomo, sono naturalmente vaghe ed incerte, quindi l'idea dell'oggetto
amabile, considerato nel detto modo, cominciò necessariamente ad avere
del misterioso, congiungendosi in essa idea la considerazion dello spirito a
quella del corpo; e acquistando di mano in mano la prima considerazione sopra
la seconda, sempre più misteriosa ne dovea divenire l'idea dell'oggetto
amato, sino ad aver finalmente più del mistico, dell'incerto e del vago,
che del chiaro e determinato. Così i sentimenti e le idee che appartengono
alla passion dell'amore, pigliarono sempre più dell'indefinito a
proporzion della civilizzazione (e quindi essa passione divenne, non v'ha
dubbio, incomparabilmente più dilettosa); tanto che, quantunque il
principio dell'amore sia quel medesimo necessariamente oggi che fu ne' primitivi,
che è ne' selvaggi, che è e fu sempre ne' bruti, ed altrettanto
materiale e animale, nondimeno essa passione adunando in se lo spirituale col
materiale, è divenuta così diversa da quelle, che certo l'amor
propriamente sentimentale non sembra aver nulla che fare nè coll'amore
de' selvaggi, nè con quello dei bruti, ma essere di natura e di
principio e di origine affatto diverso e distinto. Ed oggidì anche
l'amore il meno platonico e il più sensuale pur tiene necessariamente
nelle sue idee e ne' suoi sentimenti assaissimo dello spirituale, e quindi dell'immaginoso,
e quindi del vago e dell'indefinito; e nell'oggetto amato [3914]o goduto
o amabile anche la persona più brutale sempre considera alquanto e in
qualche modo una parte occulta di esso oggetto che accompagna ed anima e
strettamente appartiene, abbraccia ed è congiunta a quella parte e a
quelle membra che egli desidera, o ch'ei si gode, o ch'ei riguarda come amabili
e desiderabili; perchè in fatti quella parte vi è, ed ha
grandissima parte nell'essere di quell'oggetto, e l'interno è una
grandissima porzione di questo, per brutale o insensato che anch'esso si sia; e
l'amante il vede assai bene tuttodì. Parlo di oggetti amati e di amanti
che quantunque brutali, o incolti, e poco esistenti per lo spirito, pur sieno
de' civili.
Del resto, tornando al primo proposito, come
l'immaginazione e il mistero particolare ec. influisce sommamente e modifica
ec. l'amore anche il più corporale verso gl'individui particolari
d'altro sesso (o anche del medesimo sesso, secondo l'uso de' greci),
così l'immaginazione e il mistero generale derivante dall'uso delle
vesti, influì nel modo che si è detto nel pensiero a cui questo
si riferisce, e sempre e del continuo influisce generalmente sopra l'amore e i
sentimenti (anche i più materiali per principio, per iscopo ec.) dell'un
sesso verso l'altro, considerato tutto insieme. E come la considerazione dello
spirito che è cosa occulta, influisce su quella del corpo, e rende
misteriosi e vaghi i sentimenti e le idee che da questo naturalmente e
principalmente hanno origine, ed a questo propriamente, benchè or
più or meno apertamente e immediatamente e principalmente si riferiscono;
così la considerazione del corpo divenuto anch'esso cosa, per la maggior
sua parte, occulta e sottoposta all'immaginazione altrui più ch'ai
sensi, rende misteriosi ec. e spiritualizza nel modo il più naturale i
sentimenti e le idee ec.: e da una causa tutta materialissima nasce [3915]un
effetto che ha dello spiritualissimo, del semplicemente spirituale, del
più spirituale ch'alcuno altro ec.
Quanto poi l'immaginazione, l'opinione, la
preoccupazione e cento cause affatto e per lor natura e principio aliene ed
estrinseche ai soggetti medesimi, influiscano e possano sull'amore e sui
sentimenti dell'un sesso verso l'altro ne' casi particolari, mi basti considerarne
fra gl'infiniti, un esempio. Suppongansi un fratello e una sorella, ambo
giovanissimi, bellissimi, sensibilissimi, e per ogni parte dispostissimi, ed
espertissimi eziandio, dell'amore verso gl'individui d'altro sesso.
Supponghiamo che dopo lunga assenza, si riveggano l'un l'altro, e ponghiamo che
ciò sia in tempi o in circostanze che il lor cuore, la loro
sensibilità, la loro facoltà di passione non sieno state per niun
modo blasées, usées, istupidite, indebolite ec. o dal commercio del
mondo o da checchè sia. Certo è ch'essi proveranno l'un verso
l'altro de' sentimenti vivissimi, tenerissimi, amorosissimi, piangeranno di
affetto ec. Ma in questa passione o momentanea o durevole che proveranno l'uno
verso l'altro, benchè certamente v'avrà molto di corporale,
perchè gli ho supposti bellissimi e giovanissimi, oltre sensibilissimi,
non v'avrà però nulla di sensuale, e quel corporale
prenderà forma della più spiritual cosa del mondo; e non per
tanto la detta passione, come dall'amor sensuale di qualsivoglia specie,
così sarà di genere e di natura sensibilissimamente diverso da
qualunque di quegli amori verso un altro sesso, che si chiamano sentimentali,
incominciando [3916]dal più imperfetto, fino al più puro,
spirituale, platonico, ed apparentemente più casto ed angelico, insomma
il più veramente e semplicemente sentimentale che si possa trovare o
pensare. Ed essi medesimi o espressamente o implicitamente si accorgeranno di
questa differenza in modo che non sarà loro possibile di confondere
neanche per un momento quella passione che allor proveranno con nessuna di quelle
altre, le quali pur saranno capacissimi di provare, come ho supposto, e quindi
ben le concepiranno, e di più le avranno effettivamente provate, come ho
anche supposto. Anzi voglio anche supporre che ambedue si trovino attualmente
in una di queste altre passioni, e che sia delle vivissime dall'un lato, e
dall'altro delle più pure e sentimentali possibili. Nè questa
nocerà a quella, nè essi lasceranno di sentire, in modo da non
poter dubitarne, una decisa ed intera differenza di specie dall'una all'altra.
Certo è che tutte queste supposizioni non sono chimeriche, e che generalmente
parlando, si son date e si danno effettivamente nelle nazioni civili delle
passioni di amore vivissime, tenerissime, purissime costantissime, tra fratello
e sorella, belli e giovani; di un padre verso una figlia bellissima, di una
madre ec. e così discorrendo; e che queste passioni possono essere e
furono e sono distintissime da qualunque altra di quelle che si provano o
possono provare verso gl'individui d'altro sesso. Certo è insomma che si
dà un amor fraterno, un amor paterno ec. più o men vivo, ma anche
vivissimo e tenerissimo [3917]tra persone diverse di sesso, il quale
è sensibilissimamente e totalmente distinto da qualunque altro di quegli
amori più propriamente detti, che si provano verso gl'individui d'altro
sesso verso i quali essi non sono vietati da certe leggi, pretese naturali,
cioè dall'opinione ec. Si dà, dico, il detto amore nelle persone
civili, o semicivili ec. cioè in quegli uomini in cui possono le leggi e
quindi le opinioni relative ec. E si dà or più or meno durevole;
più frequentemente però poco durevole (nel suo stato di
così vivo e tenero, e di così distinto nel tempo stesso da quegli
altri amori): ma basta al nostro argomento ch'esso sia e possibile e sovente (e
foss'anche stato una sola volta) reale, eziandio per un solo istante. (Del
resto, tutto ciò non toglie che non si dieno e si sien dati forse anche
più spesso amori o sensuali o sentimentali, ma d'altro genere, tra
fratelli e sorelle, padri e figlie, madri e figli ec. eziandio civilissimi.)
Or da queste osservazioni si deduce 1°
parlando dell'amore tra l'un sesso e l'altro generalmente, come esso dipenda e
sia modificato, senza alcuna influenza della natura propria, dall'immaginazione
e dall'opinione. Poichè quel fratello che alla vista di quella tal persona,
se non fosse stata sua sorella, anzi pur solamente s'esso non lo avesse saputo,
avrebbe certo provata tutt'altra specie di amore, o se non altro, si sarebbe
sentito spinto o capace di tutt'altra specie di sentimenti verso lei; solo per
sapere e pensare quella essere sua sorella, prova un amore e una sorta di
sentimenti di diversissima e distintissima specie. Giacchè che questa
differenza e il provar questi sentimenti e il non provar quelli, sia effetto
dell'opinione e prevenzione ec., e non di un secreto istinto [3918]naturale,
come dicono, per modo che quel fratello, anche non sapendo quella essere sua
sorella, dovesse provare affetto (ancorchè menomo) verso lei, e questo
fraterno, e non provare affetto d'altra sorta, e così un padre verso una
figlia ignota, o verso un figlio del medesimo sesso, e cose simili, sono tutte
stoltezze, e dimostrate per falsissime, oltre dalla ragione, da mille esperimenti.
2. Le dette osservazioni servono d'altro
esempio confermante la prima mia proposizione, cioè quante passioni
sentimenti ec. anche tenerissimi ec. che paiono assolutamente naturali, anzi
pure quante specie di passioni assolutamente e per origine e principio sieno puri
effetti di circostanze, opinioni ec. e di accidenti che in natura non avrebbero
avuto luogo. Infatti questo amor fraterno o paterno ec. verso individui d'altro
sesso, così vivo per una parte, e per l'altra così distinto dagli
altri amori verso il sesso differente, anche da' più puri, sembra
bensì la più natural cosa del mondo, eppure è mero effetto
delle circostanze, delle opinioni, delle leggi, le quali sono le vere madri di
questa sorta di amore, che non par poter essere altro che opera e figlia della
natura, e questa averla messa negli animi di propria mano, laddove senza le opinioni,
costumi e leggi essa sorta di amore non avrebbe esistito, almeno in quel tal
grado ec., e il genere umano ne sarebbe al tutto inesperto, e non saprebbe che
cosa ella si fosse. Siccome accade veramente ne' selvaggi ec. che non abbiano leggi
o costumi relativi ec. i quali non faranno mai difficoltà di usare colle
sorelle, e amandole vivamente ciò non [3919]sarà in altra
guisa che carnalmente (poichè essi non sono capaci nemmeno degli altri
amori sentimentali), altrimenti non le ameranno, o solo leggermente e senza trasporto,
e come e in quanto compagne abituate fin dalla nascita a convivere seco loro,
come accade anche agli altri animali verso i loro abituali compagni, senza
alcuna relazione alla conformità del sangue, e senza che questa abbia
alcuna parte nel produrre quell'affezione, eccetto in quanto ella può esser
causa di somiglianza ec. che serve all'amicizia, e in quanto ad altre
circostanze estrinseche, e in somma diverse dalla semplice e propria
consanguineità per se stessa, benchè sieno anche suoi effetti. E
tale non calda amicizia avrà luogo, come tra gli animali, così
tra' selvaggi (ed anche tra noi), più tra' compagni abituati a vivere insieme,
che tra' fratelli, o tra padri e figli, posto il caso che questi non abbiano
avuto o non abbiano tale abitudine, ed altri ed alieni sì.
Perocchè essa amicizia è tra loro in quanto compagni abituati
(accidente, e cosa i cui effetti appartengono all'assuefazione), non in quanto
consanguinei, o in quanto simili di naturale, di carattere, inclinazioni,
età ec., non in quanto consanguinei ec. ec. Del resto quel che ho detto
dell'amor fraterno o paterno ec. tra individui di sesso diverso si stenda
ancora a quello tra fratello e fratello, padre e figlio ec., chè
anch'esso in grandissima parte è opera ed assoluta creatura, o delle
leggi, costumi, opinioni ec. o dell'assuefazioni, del convitto, della
somiglianza, e di cose diverse insomma dalla consanguineità per se
stessa. Massime un amor vivo, sentimentale, tenero, fervido ec. Il quale
parimente non suol [3920]aver luogo che ne' civili ec. Tra' selvaggi,
come tra gli animali, l'amore, o almeno l'amor vivo tra' genitori e' figliuoli,
anzi de' genitori verso i figliuoli, non dura se non quanto è bisogno
alla conservazione di questi ec.[215] In
quel tempo egli è veramente naturale e d'istinto ec. Ma i selvaggi per
barbarie non lasciano di avere talora anche in costume di abbandonare i figli appena
nati, o poco appresso ec. di esporli ec. ec., come anche usavano molti antichi
civili, e come pur troppo s'usa anche oggi tra noi in mille casi ec. ec.; e
Rousseau espose o tutti o non pochi de' figli che ricevette dalla sua Teresa
Levasseur ec., cose tutte ignote in qualunqu'altra specie di animali, e contro
natura se altra mai, e di cui non è capace se non l'uomo ridotto
comunque in società, cioè corrotto, e perniciose di lor natura
alla specie ec. ec. Puoi vedere Aristot. Polit. Florent. 1576. lib.7. p.638-40.
dove si dà per legge conveniente e necessaria alle repubbliche
l'esposizione dei figli, non solo imperfetti, come in Lacedemone, ma eziandio
generati dopo una certa età ec., e di più dove l'esposizione per
legge non sia permessa, si consiglia e prescrive da quel filosofo l'
artificiale e volontaria, ec. E vedi anche i commentari del Vettori ai detti
luoghi.
(26. Nov. 1823.)
Ortografia italiana peccante per latinismo.
Machiavelli in una dell'edizioni della testina (che sono le originali, e dove
l'ortografia non è rimodernata, come poi, per altre mani) scrive mille
voci difformemente per latinismo, benchè certo al suo tempo non si
pronunziassero così, ma come oggi ec., per esempio Pontifice
(par.2. p.73. principio e in tutta la storia, ec.) e simili.
(26. Nov. 1823.)
[3921]Dico altrove in più
luoghi che gli uomini e i viventi più forti o per età o per
complessione o per clima o per qualunque causa, abitualmente o attualmente o comunque,
avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e quindi
sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono
anche tanto più capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri forti e
vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e di
poter fortemente divertire l'operazione interna dell'amor proprio e del desiderio
di felicità sopra loro stessi e sul loro animo. La qual potenza ridotta
in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi forse il principal mezzo
di felicità o di minore infelicità conceduto ai viventi. (Io considero
quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti alla felicità,
solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor proprio,
(chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così
chiamati, e maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più
viva. I deboli sono incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti,
e men forti sempre che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura
non ha la facoltà o di sentire più che tanto vivamente, o di
sentire piacevolmente quando le sensazioni sieno più che tanto vive.) Se
l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per qualunque cagione, di
piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni vive, e di poter
mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in opera
più che il debole, egli è veramente più infelice che il
debole, e soffre [3922]di più. Perciò, fra le altre cose,
nel presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più
conveniente e buono alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è
meno infelice del debole in uguali dispiaceri e dolori; più infelice
s'egli è privo di piaceri, o di piaceri più vivi e frequenti che
non son quelli del debole. Egli è più atto a soffrire, e meno
atto a non godere; o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più
disadatto all'altro.
Ma oltre di tutto ciò, bisogna
accuratamente distinguere la forza dell'animo dalla forza del corpo. L'amor
proprio risiede nell'animo. L'uomo è tanto più infelice generalmente,
quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama
animo. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se
medesimo non fa ch'egli sia più infelice, nè accresce il suo amor
proprio, se non in quanto il maggiore o minor vigore del corpo è per
certe parti e rispetti, e in certi modi, legato e corrispondente e proporzionato
a quello della parte chiamata animo. Ma nel totale e sotto il più de'
rispetti, tanto è lungi che la maggior forza del corpo sia cagione di
maggiore amor proprio e infelicità, che anzi questa e quello sono
naturalmente in ragione inversa della forza propriamente corporale, sia
abituale sia passeggera. L'amor proprio e quindi l'infelicità sono in
proporzione diretta del sentimento della vita. Ora accade, generalmente e naturalmente
parlando, che ne' più forti di corpo la vita sia bensì maggiore,
ma il sentimento della vita minore, e tanto minore quanto maggiore si è
e la somma della vita e la forza. Ne' più deboli di corpo viceversa. O
volendoci esprimere in altro modo, e forse più chiaramente, ne'
più forti [3923]di corpo la vita esterna è maggiore, ma
l'interna è minore; e al contrario ne' più deboli di corpo.
Infatti è cosa osservata che generalmente, naturalmente, e in
parità di altre circostanze, le nazioni e gl'individui più deboli
di corpo sono più disposti e meno impediti a pensare, riflettere,
ragionare, immaginare, che non sono i più forti; e un individuo medesimo
lo è più in uno stato e tempo di debolezza corporale o di minor
forza, che in istato di forza corporale, o di forza maggiore. Gli uomini
sensibili, di cuore, di fantasia; insomma di animo mobile, suscettibile, e
più vivo in una parola che gli altri, sono delicati e deboli di
complessione, e ciò così ordinariamente, che il contrario,
cioè molta e straordinaria sensibilità ec. in un corpo forte,
sarebbe un fenomeno.[216] La
vita è il sentimento dell'esistenza. Questo è tutto in quella
parte dell'uomo, che noi chiamiamo spirituale. Dunque la maggiore o minor vita,
e quindi amor proprio e infelicità, si dee misurare dalla maggior forza
non del corpo ma dello spirito. E la maggior forza dello spirito consiste nella
maggior delicatezza, finezza ec. degli organi che servono alle funzioni
spirituali. Delicatezza d'organi difficilmente si trova in una complessione non
delicata; e viceversa ec. La delicatezza del fisico interno corrisponde naturalmente
ed è accompagnata da quella dell'esterno. Di più la forza del
corpo rende l'uomo più materiale, e quindi propriamente parlando, men
vivo, perchè la vita, cioè il sentimento dell'esistenza, è
nello spirito e dello spirito. Così le passioni ed azioni, le sensazioni
e piaceri ec. materiali, tanto più quanto sono più forti;
(rispettivamente alla capacità ed agli abiti fisici e morali, ec.
dell'individuo); le attuali attualmente, le abituali abitualmente. Le
sensazioni materiali in un corpo forte, o in un individuo che per esercizio o
per altra [3924]cagione ha acquistato maggior forza corporale ch'ei non
aveva per natura, o in un corpo debole che si trovi in passeggero stato di
straordinaria forza, sono più forti, ma non perciò veramente
più vive, anzi meno perchè più tengono del materiale, e la
materia (cioè quella parte delle cose e dell'uomo che noi più
peculiarmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può esser
vivo, e non ha che far colla vita, ma solo colla esistenza, la quale considerata
senza vita, non è capace nè di amor proprio nè
d'infelicità. Così la materia non è capace di vita, e una
cosa, un'azione, una sensazione ec. quanto è più materiale, tanto
è men viva. Insomma ciascuna specie di viventi rispetto all'altre, ciascuno
individuo rispetto a' suoi simili, ciascuna nazione rispetto all'altre, ciascuno
stato dell'individuo sia naturale, sia abituale, sia attuale e passeggero,
rispetto agli altri suoi stati, quanto ha più del materiale, e meno
dello spirituale, tanto è, propriamente parlando, men vivo, tanto meno
partecipa della vita e per quantità e per intensità e grado,
tanto ha minor somma e forza di amor proprio, e tanto è meno infelice.
Quindi tra' viventi le specie meno organizzate, avendo un'esistenza più
materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le
nazioni umane le settentrionali, più forti di corpo, men vive di
spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl'individui umani i
più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici. Tra'
vari stati degl'individui, quello p.e. di ebbrietà, benchè
più vivo quanto al corpo, essendo però men vivo quanto [3925]allo
spirito (che in quel tempo è obruto dalla materia, e le
sensazioni spirituali dalle materiali, e le azioni stesse dello spirito,
benchè più forti ec., hanno allora più del materiale che all'ordinario),
e quindi la vita essendo allora più materiale, e quindi propriamente men
vita (come in tempo di sonno o letargo, benchè questo sia inerte, e
l'ebbrietà più svegliata ancora e più attiva talvolta
che lo stato sobrio), è meno infelice.
Del resto egli è ben vero, come ho
detto, che la forza del corpo rende il vivente più materiale, e
gl'impedisce o indebolisce l'azione e la passione interna, e quindi scema,
propriamente parlando, la vita. Ond'è che, generalmente parlando, quanto
nel vivente è maggiore la forza e l'operazione e passione e sensazione
del corpo particolarmente detto (sia per natura, o per abito, o per atto),
tanto è minore la vita, l'azione e la passione dello spirito,
cioè la vita propriamente detta. Ma questo si deve intendere, posta una
parità di circostanze nel rimanente. Voglio dire, se il leone ha
più forza di corpo che il polipo, non per questo egli è men vivo
del polipo. Perocchè egli è nel tempo stesso assai più
organizzato del polipo, e quindi ha molto più vita. Onde tanto sarebbe
falso il conchiudere dalla sua maggior forza corporale che egli abbia
più vita, e quindi sia più infelice, del polipo, quanto il
conchiuderne ch'ei sia più infelice dell'uomo, come si dovrebbe conchiudere
se la vita si avesse a misurare dalla forza comunque, o dalla forza estrinseca
(nel che il leone passa l'uomo d'assai) e non dalla organizzazione [3926]ec.
in cui l'uomo è molto superiore al leone. Se la donna è di corpo
più debole dell'uomo, e la femina del maschio, non ne segue che
generalmente e naturalmente la donna e la femmina abbia più vita, e sia
più infelice del maschio. Converrebbe prima affermare che di spirito la
femmina sia o più o altrettanto forte, cioè viva ec., che il
maschio; ed accertarsi o mostrare in qualunque modo, che al minor grado della
sua forza corporale rispetto al maschio non risponda generalmente nel suo spirito
una certa qualità di organizzazione un certo minor grado di delicatezza
ec. ec. da cui risulti che generalmente e naturalmente lo spirito della femmina
sia minore, men vivo, che la femmina abbia men vita interna, e quindi propriamente
men vita, del maschio, con un certo e proporzionato ragguaglio al minor grado
di forza corporale che ha la femmina rispetto al maschio. Io credo onninamente
che sia così e che il maschio in somma viva propriamente (per natura e
in generale) più che la femmina, ed è ben ragione ec.[217]
Similmente discorrasi delle nazioni, degl'individui, e de' vari stati di un
medesimo individuo, avendo riguardo alle lor varie nature, caratteri ed abiti
sì quanto al corpo sì quanto allo spirito,[218] le
quali disparità, e quelle de' loro gradi, e le diverse combinazioni di
questi e di quelle producono in questo nostro proposito, come, si può
dire, in ogni altra cosa, (e in tutta la natura e in tutte le parti di lei similmente
accade), infinite e grandissime diversità di risultati. Tutti i quali però,
benchè impossibile sia lo specificarli e spiegarli a uno a uno, e
benchè, stante la moltiplicità e sfuggevolezza delle cause che
contribuiscono a modificarli in questa e questa e questa forma (una delle quali
che mancasse, o non fosse appunto tale e tale, o in quel tal grado, o in quella
proporzione coll'altre, o [3927]così combinata ec., il risultato
non sarebbe quello) sieno anche bene spesso difficilissimi a spiegarsi, e a rivocarsi
ai principii, ed a conoscerne il rapporto e somiglianza cogli altri risultati,
chi non sia abilissimo, acutissimo e industriosissimo nel considerarli;
nondimeno in sostanza corrispondono ai principii da me esposti, e non se gli
debbono riputare contrarii, come non dubito che potranno parere mille di loro e
in mille casi, alla prima vista, ed anche dopo un accurato, ma non idoneo
nè giusto nè sufficiente esame. Bisogna aver molta pratica ed
abilità ed abitudine di applicare i principii generali agli effetti
anche più particolari e lontani, e di scoprire e conoscere e d'investigare
i rapporti anche più astrusi e riposti e più remoti. Questa
protesta intendo di fare generalmente per tutti gli altri principii e parti del
mio sistema sulla natura. V. p.3936.3977.
L'esistenza può esser maggiore senza
che lo sia la vita. L'esistenza del leone può dirsi maggiore di quella
dell'uomo. La vita al contrario. L'esistenza insieme e la vita del leone
è maggiore rispetto all'ostrica, alla testuggine, alla lumaca, al
giumento, al polipo. La vita del leone è maggiore che non è
quella delle piante anche più grandi, de' globi celesti ec. L'esistenza
al contrario.
Vedi al proposito di questo pensiero le
pagg.3905-6.
(27. Nov. 1823.) e la p.3929. lin.11.12.
Al detto nella teoria de' continuativi sul
principio, circa sectari, seguitare ec. aggiungi il nostro conseguitare,
lo stesso che conseguire [3928]ne' suoi vari sensi. V. la Crusca.
(27. Nov. 1823.)
Participii in us di senso neutro ec.
Al detto altrove di defectus da deficio, aggiungi il suo composto
indefectus, di cui v. Forcell., onde il moderno indefettibile (indéfectible
ec.) in senso non passivo ma neutro, siccome anche indefectivus, defectivus,
defettibile ec.[219] V. Forcell. Gloss. Crus. Diz. franc. e spagn.
(27. Nov. 1823.)
Al detto altrove in più luoghi in
proposito di avvisare, aggiungi ravvisare di cui v. Crusca, e se
raviser, e v. gli spagnuoli.
Nóta ancora che avvedere-avvisare
spettano anch'essi a quella categoria della quale è scorgere-scortare,
assalire-assaltare ec. da me distinta altrove.
(27. Nov. 1823.)
Alla p.3826. E il non esser essa del buon
latino, e l'esserlo al contrario, e costantemente, quell'altra sopraddetta,
cioè facibilis e non factibilis (se i latini antichi avessero
fatto questa sorta di verbale da facio, come da doceo fecero docibilis
e non doctibilis; ora factum e doctum sono la stessa
forma), e simili,[220]
dimostra che la propria forma de' supini fu quale noi la diciamo, e non la
più moderna ec.
(27. Nov. 1823.)
Alla p.3784. La guerra e qualsivoglia
volontario omicidio è contrario e ripugna essenzialmente alla natura non
men particolare degli uomini, che generale degli animali, e universale delle
cose e della esistenza, per gli stessi principii per cui le ripugna
essenzialmente il suicidio. Perocchè, come ciascun individuo,
così ciascuna specie presa insieme è incaricata dalla natura [3929]di
proccurare in tutti i modi possibili la sua conservazione, e tende naturalmente
sopra ogni cosa alla sua conservazione e felicità: quanto più di
non proccurare ed operare essa stessa per quanto, si può dire, è
in lei, la sua distruzione. E questa legge è necessaria e consentanea
per se stessa, e implicherebbe contraddizione ch'ella non fosse, ec. come
altrove circa l'amor proprio ec. degl'individui. L'individuo p.e. l'uomo, in
quanto individuo, odia gli altri membri della sua specie; in quanto uomo, gli
ama, ed ama la specie umana. Quindi quella tendenza verso i suoi simili
più che verso alcun'altra creatura sotto certi rispetti, e nel tempo
stesso quell'odio verso i suoi simili, maggiore sotto certi rispetti che verso
alcun'altra creatura, i quali non men l'uno che l'altra, e ambedue insieme in
tanti modi, con sì vari effetti, e in sì diverse sembianze si
manifestano ne' viventi, e massime nell'uomo, che di tutti è il
più vivente (p.3921-7.). E come il secondo, ch'è non men
necessario e naturale della prima, nuoce per sua natura e alla conservazione e
alla felicità della specie, e d'altra parte questo è direttamente
contrario alla natura particolare e universale, e la specie presa insieme dee
tendere e servir sempre (regolarmente) alla sua conservazione e
felicità, non restava alla natura altro modo che il porre i viventi
verso i loro simili in tale stato che la inclinazione degli uni verso gli altri
operasse e fosse, l'odio verso i medesimi non operasse, non si sviluppasse, non
avesse effetto, non venisse a nascere, e propriamente, quanto all'atto non
fosse, ma solo in potenza, come tanti altri mali, che essendo sempre, o secondo
natura, solamente in potenza, la natura non ne ha colpa nessuna. Questo stato
non poteva esser altro che quello o di niuna società, o di
società non [3930]stretta. E meno stretta in quelle specie in cui
l'odio degl'individui, come individui, verso i lor simili, era per natura della
specie, maggiore in potenza, e riducendosi in atto, ed avendo effetto, avrebbe
più nociuto alla conservazione e felicità della specie: nel che
fra tutti i viventi l'odio degl'individui umani verso i lor simili occupa, per
natura loro e dell'altre specie, il supremo grado. In questa forma adunque la
natura regolò infatti proporzionatamente le relazioni scambievoli e la
società degl'individui delle varie specie, e tra queste dell'umana; e
dispose che così dovessero stare, e lo proccurò, e mise ostacoli
perchè non succedesse altrimenti. Sicchè la società
stretta, massime fra gl'individui umani, si trova, anche per questa via
d'argomentazione, essere per sua essenza e per essenza e ragion delle cose,
direttamente contraria alla natura e ragione, non pur particolare, ma
universale ed eterna, secondo cui le specie tutte debbono tendere e servire
quanto è in loro alla propria conservazione e felicità,
dovechè la specie umana in istato di società stretta necessariamente
(e il prova sì la ragione sì 'l fatto di tutti i secoli sociali)
non pur non serve ma nuoce alla propria conservazione e felicità, e
serve quasi quanto è in lei alla propria distruzione e infelicità
essa medesima: cosa di cui non vi può essere la più contraddittoria
in se stessa, e la più ripugnante alla ragione, ordine, principii,
natura, non men particolare della specie umana e di ciascuna specie di esseri,
che universale e complessiva di tutte le cose, e della esistenza medesima, non
che della vita.
(27. Nov. 1823.)
[3931]Al detto altrove sopra i
dialetti d'Omero, e quello d'Empedocle, che benchè Dorico usò il
dialetto Jonico, aggiungi che nello stesso caso è Ippocrate, e vedi Fabric.
B. G. edit. vet. in Hippocr. §.1. t.1. p.844. lin.4-6. e nott. i. k. (27. Nov.
1823.).
Alla p.3906. marg. L'ebbro ancorchè vivente, operante e
pensante e parlante, non riflette sopra se stesso, nè sulla sua vita,
azioni, pensieri e parole, o men del suo solito e più rapidamente e
correndo via. - Infatti il timido suol divenir franco, sciolto ec. in quel
punto. Segno ch'egli acquista allora una facoltà d'irriflessione, necessaria
e madre della franchezza (anche de' migliori spiriti, e in chicchessia), e la
cui mancanza e il cui contrario, è talor la sola talora la principal
cagione della timidità. Nondimeno egli è nel tempo stesso
più spiritoso, pronto, ingegnoso, ed anche profondo ec. dell'ordinario
suo: il che sembra mostrare per lo contrario una maggior facoltà ed atto
di riflessione. Ma questa è una riflessione non riflettuta e quasi
organica, e un'azione quasi meccanica del suo cervello e della sua lingua,
leggermente influita e guidata appena appena dall'animo e dalla ragione, e un
effetto quasi materiale e spontaneo ed delle abitudini contratte ed
esercitate e possedute fuori di quello stato, le quali agiscono allora con
pochissimo intervento della volontà e dello stesso intelletto, a cui
pure, gran parte di loro, totalmente appartengono, e da cui vengono o in cui si
operano quelle tali azioni, pensieri, parole ec.
(27. Nov. 1823.)
Alla p.3899. L'homme est fait pour agir, non pour philosopher. Frédéric II. Épître I.
à d'Argens, Sur la faiblesse de l'esprit humain. Oeuvres complettes
1790. tome 15. p.9.
(28. Nov. 1823.)
[3932]Verdaderamente yo tengo
que ay muchos tiempos y años que ay gentes en estas Indias (la America
meridional), segun lo demuestran sus antiguedades y tierras tan anchas y
grandes como han poblado; y aunque todos ellos son morenos lampiños, y
se parecen en tantas cosas unos a otros: ay tanta multitud de lenguas entre
ellos que casi a cada legua y en cada parte ay nuevas lenguas. Chronica
del Peru, parte primera (della quale opera vedi la pag.3795-6.) hoja 272. capitulo
116 principio.
(28. Nov. 1823.)
Alla p.3926. - età, condizioni,
malattie, climi, circostanze qualunque morali o fisiche, sì proprie
sì esteriori, nazionali, locali, comuni al secolo, alla nazione, o
particolari e individuali, comuni all'età, o non comuni, naturali, o
acquisite, accidentali, abituali o attuali, durevoli o passeggere ec. ec.
(28. Nov. 1823.)
Alla p.3802. fine. Sebben però quanto
all'animo, alla cognizione della verità, alla spiritualizzazione
dell'uomo (p.3910. segg.) che son tutte cose parte necessarie alla civilizzazione,
parte suoi naturali effetti, parte sostanza e quasi sinonimi di essa, lo stato
dell'uomo civile è indubitatamente di gran lunga inferiore a quello
delle più selvagge e brutali società, e più lontano
incomparabilmente dalla natura, e sotto questo rispetto non meno che per se
medesimo infinitamente più infelice. L'individuo nella società
civile nuoce meno agli altri, ma molto più a se stesso. Ed anche quanto
agli altri, ei nuoce meno al lor fisico ma al morale molto più, ei li
danneggia fisicamente meno, ma moralmente in mille guise e sotto mille
rispetti, molto davantaggio. Ora il morale nell'uomo civile, lo spirito ec.
è per natura dell'uomo in tale stato la parte principale e
dell'uomo, anzi quasi tutto l'uomo, non altrimenti e niente manco [3933]che
nell'uomo primitivo o di società salvatica, la parte principale e quasi
il tutto, sia il corpo. Dunque nella società civile, nuocendo
gl'individui a' lor simili moralmente assai più che nella selvaggia, e
contribuendo alla infelicità dello spirito gli uni degli altri, essi non
si nocciono scambievolmente meno, nè si cagionano l'un l'altro minore
infelicità, nè di questa ne son manco cagione essi, di quel che
avvenga nella società barbara, dove il nocumento scambievole, e
l'infelicità che risulta dalla società stessa è più
fisica che morale, perchè i lor subbietti cioè quegli uomini sono
altresì più materia che spirito nella stessa proporzione. Anzi
quanto e maggiore l'infelicità dello spirito che quella del corpo, tanto
è maggiore il danno morale, o influente principalmente sul morale, e
affliggente il morale, che gli uomini civili si recano scambievolmente (anche
quando offendono in cose e con mezzi fisici); e quindi tanto maggiore è
l'infelicità che gli uni agli altri in tal società si proccurano,
di quella che nelle società barbare, o semibarbare, o semicivili, a
proporzione. E quanto a se stessi, niuno nella società selvaggia nuoce a
se moralmente, come inevitabilmente accade nella civile. Fisicamente già
non può nuocersi il selvaggio se non per accidente. Il civile arriva
fino al suicidio. Insomma si conchiude che tutto compensato, la società
civile per sua natura è cagione all'uomo, benchè di minore
infelicità fisica ed appariscente (o piuttosto di minori sciagure
fisiche, perchè com'ella noccia generalmente al fisico, e
particolarmente colle malattie, che a lei quasi tutte si debbono ec. si
è mostrato in più luoghi), pur di maggiori sciagure morali, e
tutto insieme [3934]di molto maggiore infelicità, che non
è la società selvaggia o mal civile, altresì per sua
natura. E similmente, compensato il tutto insieme, è molto più
lontana dalla natura, benchè le snaturatezze della società
selvaggia diano molto più nell'occhio, non per altro che perchè
sono più materiali e fisiche, siccome gli uomini che compongono tali
società, e siccome le sciagure e la infelicità generale che ne
risulta. Non v'è cosa più contro natura, di quella
spiritualizzazione delle cose umane e dell'uomo, ch'è essenzial
compagna, effetto, sostanza della civiltà. Come le snaturatezze, le
calamità, e la infelicità delle società selvagge, per
esser naturalmente più fisiche, anzi tutte fisiche e materiali, sono
più evidenti e tali che ognuno le può riconoscere per quel che
sono, non v'è uomo il quale non convenisse che se la società
umana non potesse esser altra che la selvaggia, la società nel gener
nostro sarebbe cosa contro natura, e l'uomo non esser fatto per la società,
ed in questa esser necessariamente imperfettissimo e infelicissimo. Ma
perchè i danni e le snaturatezze della società civile sono
più morali e spirituali, il che è ben consentaneo, perchè
tale si è altresì l'uomo civile, ed e' non può esser altrimenti,
perciò, quantunque tali danni sieno molto più gravi veramente e
contro natura, e tali snaturatezze molto maggiori, niuno però conviene
che la società civile sia contro natura, e l'uomo non esser fatto per
lei, e ch'ella sia necessariamente infelice, e molto meno ch'ella per propria
essenza sia più contraria alla natura, e complessivamente più
infelice che la società selvaggia. Questo veramente non è un
ragionare da uomini civili, cioè spiritualizzati, ma appunto da primitivi
o selvaggi, cioè materiali, non avendo riguardo che alle [3935]snaturatezze
e infelicità materiali e sensibili, e che si riconoscono senza
ragionamento, o stimandole sempre assai minori di quelle che il ragionamento
dimostra essere molto maggiori, o negando affatto di riconoscere quelle che in
verità sono molto maggiori, e negandolo perchè solo il ragionamento
può mostrarle per tali e per infelicità e snaturatezze. Gli
uomini anche i più civili e filosofi, così facendo (come quasi
tutti, anche i sommi, fanno), somministrano nello stesso eccesso della lor
civiltà e spiritualizzazione, una forte conferma di questa nostra
proposizione che non vi sia cosa più contraria alla natura che la
spiritualizzazione dell'uomo e di qualsivoglia cosa, e che tutto insomma per natura
è materiale, e che la materia sempre vince, e che quindi essi
così civili e spiritualizzati sono corrottissimi, perchè nello
stesso loro ragionamento con cui vogliono difendere questo loro stato, e che
loro è inspirato da questo, dànno la preferenza alla materia e
non vogliono ragionare che materialmente.
Tout homme qui pense est un animal dépravé. Dunque l'uomo e la società civile lo è più che mai,
e tanto più quanto più civile, non essendo quasi altro che
spirito, ed éssere pensante, o adunanza di tali esseri.
Tutto questo discorso conviene colle
osservazioni e prove che in mille di questi miei pensieri si sono fatte sopra
la snaturatezza e infelicità vera dell'uomo corrispondente in
proporzione alla sua maggior civiltà. Del che vedi in particolare il
pensiero seguente, e quello a cui esso si riporta, come per natura sua, la
civiltà sia supremamente contraria alla natura sì dell'uomo
sì universale, e causa d'infelicità somma più che non
è lo stato selvaggio, per una conseguenza della teoria e delle leggi
universali di tutte le cose, [3936]e dell'esistenza.
(28. Nov. 1823.)
Alla p.3927. Non è difficile il
concepire le per altro grandissime e moltiplici conseguenze che scaturiscono
da' suesposti principii, in ordine al dimostrare che la civiltà la quale
per sua natura rende l'uomo, per così dire, tutto spirito (p.3910.
segg.), ed accresce per conseguenza infinitamente la vita propriamente detta, e
l'amor proprio, accresce anche sommamente per sua natura l'infelicità
dell'uomo e della società. E similmente in mille modi trasportando l'azione
dalla materia allo spirito, l'attività, l'energia, ec. e, mettendo mille
ostacoli all'attuale ed effettiva attività corporale (i governi, i costumi,
la mancanza di bisogni, lo scemamento di forze, il gusto dello studio, ec.
ec.), e scemando il grado e la forza e la frequenza delle sensazioni, passioni,
azioni, e piaceri materiali, e la capacità di essi ec.; riconcentra
orribilmente l'amor proprio, lo rivolge tutto sopra se stesso e in se stesso,
per conseguenza l'aumenta sopra ogni credere, lo spoglia o impoverisce di
distrazione ed occupazione ec. ec. Il selvaggio e per natura del suo corpo e
de' suoi costumi e della sua società, essendo men vivo di spirito,
cioè propriamente men vivo, è meno infelice del civile, senza
paragone alcuno. Così il villano, l'ignorante, l'irriflessivo, l'uom
duro, stupido, è o per natura o per abito, inerte di mente,
d'immaginazione di cuore ec. ec. a paragone dell'uomo ec. La civiltà aumenta
a dismisura nell'uomo la somma della vita (s'intende l'interna) scemando a
proporzione l'esistenza (s'intende la vita esterna). La natura non è
vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella. Perocchè ella
è materia, non spirito, o la materia in essa prevale e dee prevalere
allo spirito (e così accade infatti costantemente in tutte l'altre sue
parti sì animate che inanimate, e [3937]vedesi che tale è
la sua intenzione, e che le cose sono ordinate a questo risultato universalmente
e particolarmente, secondo le loro specie e lor differenze e proporzioni
scambievoli, ma nel tutto il risultato è quello che ho detto), al contrario
di ciò che accade nell'individuo e nel genere umano civilizzato, per
propria natura della civiltà - ec. ec. - Vedi il pensiero precedente.
(28. Nov. 1823.). - Segue ancora da questi principii che la vita attiva, come
più materiale, e abbondante più di esistenza che di vita propria,
la vita ricca di sensazioni ec. è naturalmente, e secondo la natura
sì propria sì universale, più felice che la contemplativa
ec. la qual è il contrario. V. p. seg.
Al detto altrove di possente, puissant,
pujanza ec. aggiungi sobrepujar.
(29. Nov. anniversario della morte di mia Nonna. 1823.)
Ho posto altrove tremolare, trembler,
temblar ec. fra' diminutivi positivati (o fossero frequentativi, o cose
simili, in origine). Se però questi verbi son fatti da tremulus,
e' non sono diminutivi, perchè tremulus è da tremere
come speculum da specere, e nè l'uno nè l'altro
è diminutivo, e tremulare non sarebbe più diminutivo che speculare,
jaculari e simili, del che vedi la pag.3875.
(29. Nov. 1823.)
Ho detto altrove in più luoghi che la
francese per l'estrinseco e per l'intrinseco è di tutte le lingue
sorelle la più lontana dalla madre. Molto più vicina le fu ne' passati
secoli (come nel 500 ec.) per l'intrinseco, siccome per l'estrinseco ancora,
cioè per la pronunzia della loro scrittura (ch'è tanto più
simile al latino che la loro favella) erano più vicini al latino non
solo nel 300 ec. come ho detto altrove, e ne' principii della lingua, ma nel
500 ancora e nel 600 di mano in mano ec.
(29. Nov. 1823.)
[3938]Alla p. antecedente, marg. Or
da ogni parte si vede che la natura avea destinato sì l'uomo, sì
gli animali, nel modo stesso che ha evidentemente ordinato tutte le cose,
all'azione esterna e materiale, e alla vita attiva. ec. E i detti principii
cospirano ottimamente con tutto il corso de' nostri pensieri che da per tutto
preferiscono l'attivo al contemplativo in mille modi ec.
(29. Nov. 1823.)
Alla p.3926. Similmente si ragioni de'
vecchi rispetto ai giovani. Quelli hanno men vigore assai di corpo, ma anche assai
men vigore di spirito, sì che la condizione dell'uno è temperata
e compensata con quella dell'altro, sono men forti di corpo, ma eziandio assai
men vivi di spirito, per ragioni fisiche, cioè decadenza fisica e logoramento
della loro organizzazione e facoltà interne, corrispondente a quello
dell'esterno ec.
(29. Nov. 1823.)
Circa l'usarsi in latino frequentissimamente
i participii sì passivi sì ancora attivi in forma aggettiva, del
che altrove in più luoghi, vedi la mia annotazione alla Canzone VI (Bruto
minore) strofe 3. verso 1. e le osservazioncelle marginali e postille
volanti sopra la medesima annotazione.
(29. Nov. anniversario della morte di mia
Nonna. 1823.)
Monosillabi latini. Lux, idea
primitiva. Gr. , .
(30. Nov. 1823.). Falx.
Al detto altrove di fictus, fixus ec.
aggiungi confitto da configgere o configere (non da conficcare,
come dice la Crusca). Non si dice confisso. Per lo contrario affisso
e non affitto participio. V. però la Crus. in affitto
aggett., se quello non è un luogo male scritto, come pare ec.
(1 Dec. 1823.)
[3939]Al detto altrove circa intentatus
da intento, e in senso di non tentatus, aggiungi inauratus
da inauro e in senso di non auratus.
(1 Dec. 1823.)
Scambio del v col g, di cui
altrove. V. Forc. in erivo. Rigo, irrigo ec. e per rivo, irrivo,
irrivus (per irriguus), come de-rivo ec. E v. il Forc. in tutte
queste voci ec.
(4. Dec. 1823.)
Andare per essere, del che
altrove. V. Virg. Aen. 1. 50. e il
Forc. in incedo.
(5. Dec. 1823.)
Non solamente i verbali in ibilis o in
bilis, come altrove s'è detto, ma anche altri generi di verbali,
come quelli in ilis breve (docilis, facilis, missilis, fissilis, fictilis,
coctilis, versatilis, aquatilis ec.) o lungo (mictilis ed altri
molti), in alis (genitalis ec.), in ivus (defectivus
ec.), in itius o icius (emptitius ec.), in bundus (errabundus,
ludibundus, pudibundus ec.), tutti fatti da' supini regolari o irregolari,
noti o ignoti ec. possono e debbono servire al discorso de' supini e a confermare
le nostre osservazioni su di questi, sì ne' casi particolari, sì
nel generale, osservando la più frequente, comune, antica, regolare,
intera, e propria forma di ciascuno di tali generi di verbali collettivamente
considerato ec.
(5. Decembre. 1823.). V. p.3984.
Al detto altrove sul vero supino di pingo,
fingo ec. aggiungi mingo che fa minctum onde minctio
ec. e pure si trova mictus us ec. corruzioni, come quella accaduta nello
stesso supino di fingo, pingo ec. dove il supino corrotto ha scacciato
affatto il regolare ec. (5. Dec. 1823.). Commingo
inxi ictum inctum, commictus a um, commictilis. E v. gli
altri composti. V. p.3986.
[3940]A proposito dell'antico fuo
di cui altrove, osservisi ch'egli è originariamente lo stesso di fio
da , mutato
l' in i, come in silva,
laddove in fuo è mutato in u. E questa osservazione di fuo
e fio si applichi al detto da me in più luoghi sì circa lo
scambio reciproco delle vocali u ed i, sì circa la
pronunzia latina del greco , la quale
forse, anche antichissimamente, come poi (a' tempi di Cicerone di Marziano ec.)
quella dell'y, fu tra l'i e l'u (cioè pronunzia di u
gallico), come si può congetturare sì dal veder l' greco ora cambiato in u ora in i,
sì dal vederlo talora in una stessa parola cambiato nell'uno e
nell'altro, come in - fuo-fio,
che antichissimamente dovettero esser un sol verbo e per significato e per
tutto, sì dallo stesso scambio reciproco dell'u e dell'i
sì frequente in latino, come appunto tra fuo e fio, e in
mille altre voci. ec. ec.
(5. Dec. 1823.)
Che titillo, come altrove dico,[221]
sia duplicazione (nata nel Lazio, o fatta p.e. dagli Eoli o da altro greco
dialetto, o propria dell'antica lingua madre del latino e del greco, o
dell'antico greco comune ec. ec.) del greco , fatta all'uso
greco, lo conferma l'osservare che la vocale di tal duplicazione cioè l'i
è quella appunto che il greco usa in tali duplicazioni, come in ec. V.
p.3979. Laddove nell'altre duplicazioni latine, come in dedi, cecidi ec.
la vocale della duplicazione è la e. E questo ancora è
all'uso greco, che nella duplicazione de' perfetti usa la . E notisi che come questa, così
quella e è breve, fuorchè in cecidi che molti
scrivono caecidi, dove forse non sarà breve per distinguerlo da cecidi.
Del resto [3941]tal uso affatto conforme al greco ha luogo in molti
verbi latini che non hanno a far niente con alcuna voce greca nota, ed è
un uso antichissimo nel latino, e non introdottovi da' letterati. Il che
conferma l'antica conformità dell'origine, e fratellanza tra il greco e
latino. Dalla quale origine dovette venir quest'uso nell'una e nell'altra lingua,
in quella più conservato e steso, in questa meno, e sì può
dire, perduto, se non in certe voci determinate, di cui si conservò
sempre la forma antica, senza però mai applicar tal forma ad altri
verbi, o a' verbi di mano in mano introducentisi da quegli antichissimi tempi
in poi. ec. Tal uso trovasi ancora nella lingua sascrita, come negli Annali di
Scienze e lettere di Milano, altrove citati in proposito d'essa lingua ec.
(5. Dec. 1823.)
Anche , come
altrove ho detto di , è
doppia alterazione, cioè da , (che
ancor si trova, v. Scap. in ) e poi
(così lo Schrevel.), ovvero da un , e poi .
Così da e , , è
doppia alterazione: sempre però collo stesso senso del primitivo.
Così altri non pochi.
(5. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati. Pretto (puretto)
per puro.
(6. Dec. 1823.)
La facoltà d'imitazione non è
che facoltà di assuefazione; perocchè chi facilmente si avvezza,
vedendo o sentendo o con qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo,
facilmente, ed anche in poco tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni [3942]o
apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o
manco perfettamente, gli divengono come proprie; il che fa ch'egli possa
benissimo e facilmente rappresentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto
che imitandole, poichè il buono imitatore deve aver come raccolto e
immedesimato in se stesso quello che imita, sicchè la vera imitazione
non sia propriamente imitazione, facendosi d'appresso se medesimo, ma
espressione. Giacchè l'espressione de' propri affetti o pensieri o
sentimenti o immaginazioni ec. comunque fatta, io non la chiamo imitazione, ma
espressione. Or come la facoltà d'imitare sia qualità e parte
principalissima e forse il tutto de' grandi ingegni, e così degli altri
talenti in proporzione, è cosa da molti osservata e spiegata. Dunque
riconfermasi che l'ingegno è facoltà di assuefazione.
(6. Dec. 1823.). V. p.3950.
Scambio del g e del v. Nivis-neige-ningit
o ninguit (onde il nostro negnere) e nivit, onde il nostro
nevicare, quasi nivicare, come da vello vellico ec.
frequentativi, di cui vedi la p.2996. marg.: e vedi il Gloss. se vuoi.
(6. Dec. 1823.)
Alla p.3275. marg. Anzi molti di questi
amano più di aver de' nemici che degli amici, son più contenti di
essere odiati che amati, e si attaccano volentieri con chicchessia, non per
sensibilità, neanche per misantropia, per l'odio naturale verso gli
altri ec., ma perchè il loro stato naturale è lo stato di guerra,
ed amano più di combattere che di stare in pace e posarsi, e più
la vita inquieta che la tranquilla. E ciò semplicissimamente, senza
malignità, senza carattere nè passioni nere e odiose. Infatti essi
sono apertissimi, sincerissimi, compassionevolissimi, e beneficano più
degli altri, ma le stesse persone che essi compatiscono o beneficano,
amerebbero più [3943]di averle a combattere e di esserne odiati.
E similmente cogli altri uomini i quali hanno più caro di averli
contrarii che affezionati o indifferenti, e però tuttogiorno, senza passione
alcuna, o ben leggera, e sopra menomissime bagattelle gli stuzzicano e
provocano ed offendono o con parole o con fatti, per avere il piacer di
combatterli e di stare in guerra. E come ciascuno s'immagina ordinariamente
quello che più desidera, così essi ordinariamente si compiacciono
in pensare che gli altri vogliano loro male, e in torcere ogni menoma azione e
parola altrui verso loro a cattiva intenzione ed ostile, e pigliano occasione
da tutto di entrare in lizza con chicchessia, anche coi più familiari, intrinseci,
compagni ed amici. Torno a dire che tutto ciò è con grandissima
semplicità ed anche nobiltà, o certo non doppiezza e non
viltà, di carattere; senza umor tetro e malinconico (anzi questi tali sono
per l'ordinario allegrissimi o tirano all'allegria) senza carattere atrabilare,
nè quella che si chiama e morositas,
carattere acre ec. indole e costume puntiglioso,[222]
anzi tutte queste cose son proprie degli uomini deboli e sfortunati (e quindi
con verità si attribuiscono pariticolarmente a' vecchi, massime donne),
senza incontentabilità, malumore, scontentezza, senza umore
soverchiamente collerico ed accensibile. La forza del corpo e dell'età e
la prosperità delle circostanze, dà a questi tali tanta
confidenza in se stessi, che non che cerchino o curino il favor degli altri,
sono più soddisfatti di averli contrarii, e godono di riguardar gli
altri piuttosto come nemici che come amici o indifferenti, ed anche di averli
veramente nemici più o meno, secondo la qualità delle occasioni [3944]e
la forza fisica di questi tali. La loro conversazione e compagnia e convitto,
massime a lungo andare, è veramente molto difficile e dispiacevole, benchè
essi sieno incapaci di tradimento, e servizievoli e benefici e compassionevoli
e generosi. Essi sono, malgrado questo, poco capaci di amare, e poco fatti per
essere amici, ma essi sono altresì più capaci e desiderosi di
aver de' nemici, che atti ad esserlo, perchè son più buoni all'ira
che all'odio, a combattere che a odiare, a vendicarsi che a perseguitare. Anzi
costoro son quasi incapaci di odiare, e l'ira eziandio propriamente presa in
essi è molto blanda e breve, forse perchè frequentissima.
(6. Dec. 1823.)
La memoria, l'immaginazione e oltre di
queste, anche l'altre facoltà dell'animo e dell'ingegno s'indeboliscono
e talora si estinguono coll'età, anche indipendentemente dalle
circostanze estrinseche della vita, dall'esperienza, e dalle altre cose che
influiscono sul carattere, spirito, ingegno, e lo modificano ec. Il rimbambimento
de' vecchi è cosa molte volte reale, molte volte anche prematuro per malattie,
che rendono radoteurs a 50 anni e poco prima o poco poi. Questi tali
sono facilissimi a piangere come i fanciulli. Ciò può accadere
anche nel fiore e vigor dell'età per debilitamento passeggero o durevole
delle forze fisiche, e con esse delle facoltà mentali. Io n'ho veduto
gli esempi. Tutto ciò si applichi al mio discorso fatto per provare che
v'ha differenze naturali ed ingenite fra' talenti, al qual proposito veggasi
ancora la [3945]p.3891, e 3806-10. e il pensiero seguente.
(6. Dec. 1823.)
Alla p.3923. marg. Similmente i gran talenti
di rado si trovano in corpi forti. In parità di circostanze e d'altro, i
più deboli son più furbi de' più forti, anche per naturale
disposizion fisica, non considerando le abitudini ec. di cui altrove in proposito
delle donne. Difficilmente si troverà gran furberia in uomo pingue (se
la pinguedine non gli è malattia ed accidente ec.) ancorchè
esercitato in tutto quello che più favorisce e più richiede
furberia. Neanche gran talento nè fino in un corpo grosso, e meno in
corpo pingue ec. ec. Le diversità de' talenti si conoscono in gran parte
e sogliono corrispondere, non solo alle varie conformazioni e disposizioni del
cranio ec. interiori o esteriori ec. ma eziandio del resto della persona in
genere, e di parecchie sue parti in particolare. Queste osservazioni si
applichino alla materia del pensiero precedente.
(6. Dec. 1823.)
Alla p.3898. Museau. Niffolo, v. la
Crus. in Niffo. Questa voce è anche del Rucellai, Api, v.990, il
quale scrive nifolo, da nifo, ch'è pur della Crusca. -
Bisogna notare, quando il positivo non si trovi nella lingua a cui spettano i
diminutivi che paiono positivati, se forse anticamente quel positivo vi si
trovò, proprio di essa lingua, o venuto di dove che sia, e trovandovisi
non ebbe lo stesso senso che ha oggi quel diminutivo. E ciò quando anche
in altre lingue si trovi quel positivo col medesimissimo senso di quel tale
diminutivo. P.e. in italiano [3946]si trova muso e vuol dir lo
stessissimo che museau, che certo viene da una voce simile; ma chi sa
che in francese una volta non si trovasse muse in senso diverso? (v. gli
spagnuoli). E veggasi a questo proposito il detto a pag.3152. sulla voce fourreau.
(6. Dec. 1823.).
Alla stessa pag. margine. Alcune di queste
voci potrebbero anche venire dal latino o ignoto, o volgare, o barbaro ec. e se
ne vegga il Gloss. ed anche il Forcell. ec.
(6. Dec. 1823.)
La lingua greca appartiene veramente e
propriamente alla nostra famiglia di lingue (latina, italiana, francese,
spagnuola, e portoghese), non solo perch'ella non può appartenere ad
alcun'altra, e farebbe famiglia da se o solo colla greca moderna; non solamente
neppure per esser sorella o, come gli altri dicono, madre della latina (nel
primo de' quali casi ella dovrebbe esser messa almeno colla latina, e nel
secondo è chiaro ch'ella va posta nella nostra famiglia), ma specialmente
e principalmente perchè la sua letteratura è veramente madre
della latina, la qual è madre delle nostre, e quindi la letteratura
greca è veramente l'origine delle nostre, le quali in grandissima parte
non sarebbero onninamente quelle che sono e quali sono (se non se per un
incontro affatto fortuito) s'elle non fossero venute di là. E come la letteratura
è quella che dà forma e determina la maniera di essere delle
lingue, e lingua formata e letteratura sono quasi la stessa cosa, o certo [3947]cose
non separabili, e di qualità compagne e corrispondenti; e come per
conseguenza la letteratura greca (oltre le tante voci e modi particolari) fu
quella che diede veramente e principalmente forma alla lingua latina, e ne
determinò la maniera di essere, il carattere e lo spirito, di modo che
la lingua e letteratura latina, quando anche fossero nate, formate e cresciute
senza la greca, non sarebbero certamente state quelle che furono, ma altre
veramente, e in grandissima parte diverse per natura e per indole e forma, e
per qualità generali e particolari, e sì nel tutto, sì
nelle parti maggiori o minori, da quelle che furono; stante, dico, tutto
questo, la letteratura greca (oltre lo studio immediato fattone da' formatori
delle nostre lingue, come da quelli della latina) viene a esser veramente la
madre e l'origine prima delle nostre lingue, come la latina n'è la madre
immediata; le quali lingue (anche la francese che insieme colla sua letteratura
è la più allontanata dalla sua origine, e dalla forma latina, e
dall'indole della latina, e quindi eziandio della greca) non sarebbero assolutamente
tali quali sono, ma altre e in grandissima parte diverse sì nello
spirito, sì in cento e mille cose particolari, se non traessero
primitivamente origine in grandissima parte dal greco per mezzo del latino. E
veramente la lingua greca mediante la sua letteratura è prima (quanto si
stende la nostra memoria dell'antichità) e vera ed efficacissima causa
dell'esser sì la lingua e letteratura latina, sì le nostre lingue
e letterature, anche la francese, tali quali elle sono, [3948]e non altre;
chè per natura elle ben potrebbero essere diversissime in molte e molte
cose, anche essenziali ed appartenenti allo spirito ed all'indole ec. e
alquanto diverse più o meno in altre molte cose più o meno
essenziali o non essenziali. E forse non mancano esempi di altre letterature e
lingue antiche o moderne, anche meridionali ec., che non essendo venute dal
greco, sono diversissime, anche per indole ec. e nel generale ec. non meno o
poco meno che ne' particolari, dalla latina e dalle nostrali. E ne può
esser prova il vedere quanto la francese si è allontanata, anche di
spirito, dalla latina e dalla greca alle quali era pur conformissima nel 500
ec. (vedi la p.3937.), senz'aver mutato clima ec. Certo i tempi nostri son diversissimi
da quelli de' greci e de' latini, quando anche il clima sia conforme,
diversissime sono state e sono le nostre nazioni, loro governi, opinioni,
costumi, avvenimenti e condizioni qualunque, sì tra loro, sì
ciascuna di esse da se medesima in diversi tempi, sì dalla greca, e dalla
latina eziandio. Nondimeno le loro lingue e letterature sono state conformi,
massime fino agli ultimi secoli, e tra loro, e tra' vari lor tempi, e colla
greca e latina ec. Sicchè tal conformità non si deve attribuire
nè solamente nè principalmente al clima, nè ad altre circostanze
naturali o accidentali, ma all'accidente di esser derivate effettivamente dal
greco e latino, chè ben potevano non derivar da nessuno, o derivare
d'altronde ec. ec.
Lascio che, come ho detto altrove, le lingue
e letterature italiana e spagnuola, massime antiche, e più quanto
più si considerano nel loro antico ed anche informe stato, e la francese
antica ec., somigliano per l'indole ec. al greco forse più [3949]che
il latino, e quasi senza forse più che al latino, e tengono del greco
ec.
(6. Decembre. 1823.)
Disserto as da dissero
ertum.
(7. Dec. Vigilia dell'Immacolata Concezione della SS. Vergine
Maria)
Alla p.3885. Allora l'italiano era
principalmente noto e considerato dagli stranieri come lingua del Metastasio,[223] e
per li drammi del Metastasio, insomma come lingua dell'Opera. Peggio
sarebbe se Federico avesse pigliato idea dell'italiano, com'è pur
verisimile, da quello del suo Algarotti ec.
(7. Dec. 1823.)
Participii aggettivati ec. di che altrove in
più luoghi. Da molti participii si son fatti de' vocaboli che non son
che aggettivi, perchè non hanno alcun verbo di cui poter essere
participj, come innocens, invictus, intentatus (che non hanno innoceo,
invinco ec.) e cento mila altri. E vedi a proposito d'invictus e
simili, il luogo citato a p.3938. Nondimeno questi tali vocaboli conservano
ancora un senso di participio, eccetto alcuni alcune volte (come illaudatus
per illaudabilis, vedi il Forcell.), che oltre al non essere più
participii perchè non hanno verbo, hanno anche ricevuto un secondo
cangiamento cioè nella significazione.
(7. Dec. Vigilia della Concezione. 1823.)
Participii passivi in senso attivo o neutro
ec. Dañado da dañar per dañante,
cioè nocente, dannoso. S'usa in forma aggettiva, come si deve
anche intendere d'altri moltissimi di tali participii, o latini o moderni,
sempre così usati, o per lo più, o talvolta, dico, in forma
aggettiva.
(7. Dec. 1823.)
[3950]Alla p.3942. Anzi l'uomo, e
lo spirito umano massimamente e i suoi progressi, e quelli dell'individuo, e
delle sue facoltà, manuali o intellettuali ec. e lo sviluppo delle sue
disposizioni, del suo spirito, talento, immaginazione ec. tutto è, si
può dire, imitazione - Viceversa di quel che si è detto
l'assuefazione è una specie d'imitazione; come la memoria è
un'assuefazione, e viceversa ogni assuefazione una specie di memoria e
ricordanza, secondo che ho detto altrove.
(7. Dec. Vigilia dell'Immacolata Concezione.
1823.)
Non si dà ricordanza senza previa
attenzione, ec. come altrove. Questa è una delle principali cagioni per
cui i fanciulli, in principio massimamente, stentano molto a mandare a memoria,
e più degli uomini maturi, o giovani. Perocchè essi sono
distratti e poco riflessivi ed attenti, per la stessa moltiplicità di
cose a cui attendono, e facilità, rapidità e forza con cui la
loro attenzione è rapita continuamente da un oggetto all'altro. Gli
uomini distratti, poco riflessivi ec. non imparano mai nulla. Ciò non
prova la lor poca memoria, come si crede, ma la lor poca o facoltà o
abitudine di attendere, o la moltiplicità delle loro attenzioni, il che
si chiama distrazione. Perocchè la stessa troppa facilità di
attendere a che che sia, o per natura o per abitudine, la stessa
suscettibilità della mente di esser vivamente affetta e rapita da ogni
sensazione, da ogni pensiero; moltiplicando le attenzioni, e rendendole tutte
deboli, sì per la moltitudine, e confusione, sì per la necessaria
brevità di ciascuna, [3951]da cui ogni piccola cosa distoglie
l'animo, applicandolo a un altro, e per la forza stessa con cui questa seconda
attenzione succede alla prima, cancellando la forza di questa, rende nulla o
scarsissima la memoria, deboli e poche le reminiscenze. E così la stessa
facilità e forza eccessiva di attendere produce o include l'incapacità
di attendere, e così suol essere chiamata, benchè abbia veramente
origine dal suo contrario, cioè dalla troppa capacità di attendere
(come sempre il troppo dà origine o equivale e coesiste al nulla o alla
sua qualità o cosa contraria); e l'eccesso della facoltà di
attendere si riduce alla mancanza o alla scarsezza di questa facoltà,
secondo che detto eccesso è maggiore o minore. Ciò ha luogo
principalmente, per regola e ordine di natura, ne' fanciulli. - Laddove una
sensazione ec. una sola volta ricevuta ed attesa, basta sovente alla
reminiscenza anche più viva, salda, chiara, piena e durevole, essa
medesima mille volte ripetuta e non mai attesa non basta alla menoma reminiscenza,
o solo a una reminiscenza debole, oscura, confusa, scarsa, manchevole, breve e
passeggera. Perciò venti ripetizioni non bastano a chi non attende per
fargli imparare una cosa, che da chi attende è imparata talora dopo una
sola volta, o con pochissime ripetizioni estrinseche ec.
(7. Dec. Vigilia della Concezione. 1823.)
[3952]Dal detto altrove circa le
idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad
altre qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte
nell'effetto, massimamente poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne
risulta che necessariamente l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso,
frase, espressione, parte qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è,
massime quanto al poetico, infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori,
e secondo le occasioni e circostanze anche passeggere e mutabili in cui
ciascuno di questi si trova. Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente
ancora affatto dalla parola o frase per se, sono differentissime per mille
rispetti, secondo le dette differenze appartenenti alle persone. Siccome anche
gli effetti poetici ec. di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose, variano
infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze
loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della
natura diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli
spettatori secondo le dette differenze; come dire se quel luogo è natio,
e quella scena collegata colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore
si trova in istato di tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce
impressione alcuna in un tale, al tempo stesso che in un altro la fa
grandissima. Così discorrasi delle parole e dello stile che n'è
composto e ne risulta, e sue qualità e differenze ec. e questa
similitudine è molto a proposito.
[3953]Queste osservazioni si
applichino al detto da me altrove sopra quanto debba naturalmente esser diverso
il giudizio degli uomini circa il pregio ec. delle scritture, siccome è
naturalmente diversissimo l'effetto loro (anche lasciando affatto da parte
l'invidia l'ignoranza e cose tali che variano o falsificano i giudizi per colpa
umana, sebbene anch'esse inevitabili e naturali); e quanto la fama degli
scritti, scrittori, stili ec. dipenda dalle circostanze, e da infinite e
diversississime circostanze, e combinazioni di circostanze. L'arte dello
scrittore si riduce e deve ridurre a osservar qual effetto quali idee, appresso
a poco ed in grosso e confusamente parlando, producano o sogliano produrre tali
o tali parole e combinazioni e usi loro nel più degli uomini o de' nazionali
generalmente considerati, nel più delle circostanze di ciascheduno e
nelle più ordinarie, per natura o per gli abiti più invalsi ec.
ec. E gli scritti, scrittori e stili che sono in maggior fama e pregio, son
quelli che meglio e più felicemente hanno osservato le dette cose e
regolatisi secondo le dette osservazioni e saputo trarne vantaggio ed
applicarle all'uso e conformarvi i loro modi di scrivere; non quelli che a
tutti, neanche a' nazionali, in ogni tempo e circostanza loro, piacciono e
producono lo stesso effetto, e nello stesso grado, o pur solamente producono
effetto qualunque, o una stessa sorte di effetto; chè tutto questo
è impossibile ad uomo nato e di niuno o poeta o scrittore ec. libro,
stile ec. si verifica, nè è per verificarsi mai, [3954]nè
mai si verificò.
Si applichino eziandio le dette osservazioni
alla difficoltà o impossibilità di ben tradurre, a ciò che
perde un libro nelle traduzioni le meglio fatte, all'assoluta impossibilità,
e contradizione ne' termini, dell'esistenza di una traduzione perfetta,
massime in riguardo ai libri il cui principal pregio, o tutto il pregio o buona
parte spetti allo stile, all'estrinseco, alle parole ec. o col cui effetto
queste sieno particolarmente ed essenzialmente legate ec., come debbono esser necessariamente
più o meno tutti i libri di vera poesia in verso o in prosa ec. ec. (7.
Dec. 1823.). - Si estendano ancora le dette osservazioni alla diversità
delle idee concomitanti di una stessa parola ec. e quindi dell'effetto di una
stessa scrittura ec. secondo i tempi, e le nazioni, i forestieri o nazionali,
posteri più o meno remoti, o contemporanei ec. E quindi alla poca
durevolezza ed estensione possibile della fama e stima di una scrittura per
ottima ch'ella sia, almeno dello stesso grado e qualità di fama e stima,
e del giudizio di essa ec., massime essendo impossibili le traduzioni perfette,
o dall'antico nel moderno, o d'uno in altro moderno ec., come di sopra. E le
differenze occasionate ne' lettori da quelle de' tempi, costumi, climi, luoghi
ec. ec. ec.
(7. Dec.
1823.)
Quoi
qu'on en dise, il vaut mieux être heureux par l'erreur que malheureux par
la vérité. Lettres du Roi de [3955]Prusse et de M. d'Alembert. Lettre
101. du Roi, fin. Parla del vantaggio delle illusioni.
(8. Dec. Festa della Concezione Immacolata di Maria Vergine
Santissima. 1823.)
Grazia dal contrasto. Parolacce in bocca di
donne o di forme e maniere maschili, o gentili e delicate ec. Parole, discorsi,
modi, atti, pensieri ec. tiranti al maschile, assennati, dotti ec. in donne di
forme ec. maschili o all'opposto ec. S'intende di donne avvenenti ec. e che la
maschilità non passi i termini del grazioso nello sconveniente ec. V.
p.3961.
(8. Dec. Festa della Concezione. 1823.)
Da chaudron (caldaio), diminutivo di chaudière
(calderone), chaudronnier in senso positivo cioè calderaio.
Infiniti sono e in latino e massime nel latino basso e nelle lingue figlie i
derivati e di questo e d'altri molti generi, e sorte di significati ec. V.
p.4006. ec. che avendo un senso positivo, e corrispondente a quello del
positivo da cui hanno origine, sono però fatti da un diminutivo (usitato
o no, ed anche semplicemente supposto) di esso positivo, sia ch'esso diminutivo
abbia un uso positivato, o no, ec. e che tali voci derivino dal latino, o no,
ec.[224]
Forse la ragione di tali derivativi che in senso positivo sono formati da'
diminutivi, si è che essi e fors'anche i diminutivi da cui derivano, hanno
un senso frequentativo o cosa simile.[225]
Infatti la diminuzione in senso di frequentazione assolutamente e unicamente,
ovvero in compagnia di questo senso, è comunissima nel latino nell'italiano
ec. come altrove in più luoghi. E molti assoluti frequentativi (verbi o
nomi ec.) non sono che per la forma diminutiva che hanno, e questa si è
la sola che in essi indica la frequenza ec. sia che i positivi di senso o di
forma o d'ambedue ec. si trovino ed usino, o no, neanche vi possano essere,
come spesso accade in italiano, ec. p.e. balbettare non ha nè
potrebbe [3956]avere balbare, al quale però equivarrebbe
ec.
(8. Dec. Festa dell'immacolata Concezione di
Maria. 1823.)
Dico altrove che i verbali in us us
derivano da' supini, ec. Osservisi il supino in u. Questo non sembra
esser altro che l'ablativo del verbale in us us. Di modo che io credo
che il supino in um altresì originariamente non sia altro che l'accusativo
singolare del verbale rispettivo in us us, usitato o inusitato che sia,
poichè il supino in u non è altro che l'ablativo di quello
in um, e che il supino in u sembra evidentemente appartenere a un
nome della quarta. ec.
(8. Dec. 1823. Festa della Concezione.
Italianismi nello Spagnuolo, del che
altrove. Quizà (cioè forse) voce che fino ne' Vocabolari
del 600 si dà per antica (bench'io la trovo in uso, anche frequente,
presso i moderni eziandio). Pretto e manifesto italianismo, sì per la forma
(in ispagnuolo si direbbe quien sabe?), sì pel significato,
poichè anche noi, massime nel linguaggio parlato, e questo familiare,
usiamo non di rado chi sa? chi sa che non, chi sa se ec. per forse
o in sensi simili.
(8. Dec. Festa della immacolata Concezione
di Maria. 1823.)
Si dice con ragione, massime delle cose
umane, e terrene, che tutto è piccolo. Ma con altrettanta ragione si
potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è grande, parlando
cioè relativamente, come ancor parlano quelli che chiamano tutto
piccolo, perchè nè piccola nè grande non è cosa
niuna assolutamente. Sicchè non è per vero dire nè
più ragionevole nè più filosofico il considerare qualsivoglia
cosa umana o qualunque, come piccola, che il considerare essa medesima cosa
come grande, e grandissima ancora, se così piace. E ben vi sono quasi altrettanti
aspetti e riguardi, tutti egualmente [3957]degni di filosofo,
altrettanti, dico, per la seconda affermazione che per la prima. Ed anche il
mondo intero e universo e tutta la università delle cose o esistenti o
possibili o immaginabili, a paragone di cui chiamiamo piccole e menome le cose
umane, terrene, sensibili, a noi note, e simili, può nello stesso modo
esser considerata come piccola e menoma cosa, e d'altro lato come grande e
grandissima. Niente manco che mentre delle cose umane si chiamano piccole
verbigrazia quelle degli oscuri privati a paragone di quelle de' vastissimi e potentissimi
regni, e nondimeno queste ancora, grandissime a paragon di quelle, si chiamano
da' filosofi piccolissime e nulle sotto altro rispetto, è ben
ragionevole che sotto diversi rispetti, quelle eziandio de' privati ed
oscurissimi individui, sieno chiamate, anche da' filosofi, grandi e grandissime,
di grandezza niente men vera o niente più falsa che quella delle cose
de' massimi imperii.
(8. Dec. 1823.)
In tutta l'America, abitata certo e
frequentata da tempi remotissimi, poichè non s'ha notizia nè
memoria alcuna del quando incominciasse, non si è trovato alcuna sorta
di alfabeto nè orma alcuna di alfabeto, nè cosa che alla natura
di esso si avvicinasse. Non ostante la molta e maravigliosa coltura, le arti,
manifatture, fabbriche ammirabili, politica squisita e legislazione, ed altre
grandi e numerose parti di civiltà che si trovarono nel paese soggetto
al regno degl'Incas,[226]
cominciato da tre secoli prima della scoperta e conquista d'esso paese
(cioè nel sec.13.); e più ancora nel Messico, la cui
civilizzazione credo che sia ancora più antica. Dico [3958]dell'ultima
e più nota civiltà, poichè s'hanno molti indizi, e di
tradizioni patrie, e d'avanzi d'edifizi e monumenti di gusto e maniera diversa
da quelli dell'ultima epoca di civiltà, e d'altre cose, che dimostrano
esservi state altre epoche in cui questa o quella parte dell'America (in
particolare il Perù) fu, non si sa fino a qual segno, civile o
dirozzata. Massime che l'America fu soggetta a rivoluzioni frequentissime e totali
ne' paesi ov'elle accadevano, trasmigrazioni e totali estinzioni d'interi
popoli e città, e devastazioni e assolamenti d'intere provincie, per la
ferocia e frequenza e quasi continuità delle guerre, come ho detto
altrove in più luoghi (v. la pag.3932. fra l'altre, con quelle ivi
citate, e il pensiero a cui quest'ultime appartengono). La scrittura del regno
degl'incas si faceva con certi nodi (Algarotti Saggio sugl'Incas. opp. Cremona
t.4. p.170-1); quella del Messico consisteva in pitture. Queste osservazioni si
applichino al detto altrove 1. sopra l'unicità dell'invenzione
dell'alfabeto, 2. sopra la difficoltà di questa invenzione tanto
necessaria alla civiltà, e quindi tanto principal cagione dello
snaturamento dell'uomo ec., 3. sopra le differenze essenziali tra lo stato de'
popoli anche civili, che non abbiano avuto relazioni tra loro, 4. sopra l'unicità
di tutte o quasi tutte le invenzioni più difficili, e più
contribuenti alla civiltà, dimostrata dall'esser esse, benchè necessarissime,
state sempre ignote ai popoli, anche fino a un certo segno civili, che non
hanno avuto che fare cogli europei ec. dopo esse invenzioni, o viceversa agli
europei ec. benchè civilissimi, quelle degli altri popoli,
ancorchè molto addietro in coltura, e ciò per lunghissimi secoli,
fino al cominciamento delle relazioni scambievoli degli europei ec. e di tali
popoli.
(8. Dec. Festa della Concezione. 1823.)
[3959]Quanta fosse la
difficoltà e dell'invenzione dell'alfabeto, e della sua applicazione
alla scrittura, e alle diverse lingue antiche successivamente, e quanta dovesse
essere l'irregolarità e falsità delle prime scritture alfabetiche
e delle prime ortografie (difetti che si veggono ancora notabilissimi nelle
più antiche scritture, cioè nell'orientali, come ho detto
altrove, p.e. nell'ebraica, ch'è senza vocali, come molte altre
orientali ec., difetti perpetuati poi in esse scritture, fino anche a' nostri
tempi, in quelle che sono ancora in uso ec.), si può congetturare dalle
cose dette da me altrove in più luoghi circa la difficoltà
dell'applicare primieramente la scrittura alle lingue moderne, e regolarne
l'ortografia, e farla corrispondere al vero suono ec. delle parole, e circa
l'irregolarità e falsità delle ortografie moderne ne' loro
principii, anzi pur fino all'ultimo secolo in Italia, ed altrove, massime in
Francia, sino al dì d'oggi; non ostante e che si avessero modelli
chiarissimi, completissimi e perfettissimi di scrittura e ortografia nel latino
e nel greco; e che l'uso dello scrivere fosse da tanti secoli fino a quel tempo
inclusivamente, così comune; e che gli uomini fossero tanto men rozzi e
più sperti in ogni cosa che non al tempo della prima invenzione ed uso
dell'alfabeto e sua successiva applicazione alle varie lingue; e queste
benchè bambine, pure certamente più formate, e meno incerte,
arbitrarie, istabili, informi che al detto tempo, in cui l'uomo non aveva
ancora mai usato nè conosciuto nè avuto esempio alcuno di lingua
non che perfetta, ma degna del nome di lingua, al contrario di allora che si
conoscevano e s'erano [3960]parlate, scritte ec. ec. sì generalmente
per tanti secoli le lingue greca e latina sì perfette, oltre tante altre
colte; e finalmente non ostante la somma civiltà e il punto di
perfezione a cui sono arrivate e in cui si trovano le cognizioni ec. dello
spirito umano in questi tempi, e la tanta esattezza divenuta sua propria in ogni
cosa, e caratteristica di questi secoli, e la facoltà d'invenzione e di
applicazione ec. e gusto e frequenza di riforme e di perfezionamenti ec. ec. Si
giudichi dunque con queste proporzioni della difficoltà, irregolarità
ec. delle scritture antiche ec. come sopra.
(8. Dec. 1823. Festa della immacolata
Concezione di Maria Vergine Santissima.)
Disperser da dispergo-dispersum.
(8. Dec. 1823. Festa della immacolata Concezione di Maria Vergine Santissima.).
Il v non è che un'aspirazione
ec. Tovaglia it. - toalla, che anche si scrive toballa
(Cervantes, D. Quijote), e toaja spagn.
(9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa. 1823.)
Participii passivi in senso attivo o neutro
ec. Atentado cioè prudente accorto cauto ec. da atentar
cioè tastare. Corrisponde appunto al lat. cautus, voce che
originariamente è participio, e che spetta a questa medesima categoria,
come altrove. Similmente l'ital. avvisato e simili, di cui altrove. V.
ancora i Diz. spagn. in recatado, recatar ec.
(9. Dec. 1823.)
Che mentar, rammentare, ammentare
ec., o se non altro il primo, non venga da mente,[227] ma
dal sup. mentum dell'inusitato meno di cui non sussiste in latino
che il perf. memini, e del quale altrove?
(9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa.
1823.). V. p.3985
[3961]Che recatar ec. sia
quasi recautare da recautum di un recaveo? V. i Diz.
spagn. e il Gloss. ec.
(9. Dec. 1823.). V. p.3964
Altrove ho notato non so qual verbo composto
con preposizione latina inusitata nelle lingue moderne, ch'è usitato
nelle lingue moderne e non si trova nel latino. Di questi tali sì verbi
sì vocaboli qualunque, ve ne sono moltissimi nelle lingue nostre, e
l'argomento da me fatto intorno al suddetto verbo si deve stendere a tutti
questi altri.
(9. Dec. 1823.). V. p.3969.
Alla p.3955. marg. Ovvero che la sua
straordinarietà sia di quelle che producono un bello straordinario (e
quindi grazioso, anzi tale che si chiama piuttosto grazia che bellezza)
cioè un accozzamento di parti ec. che non sogliono riunirsi insieme a
produrre e formare il bello, ma tra cui non v'ha sconvenienza veruna, del qual
genere di bellezza, e di grazia, che può però essere di molte
specie, ho detto altrove, non so se estensivamente a tutte le specie di cui tal
genere è capace.
(9. Dec. 1823.). V. p.3971.
Ippocrate nel libro de aere, aquis et
locis (p.29. class.1 dell'ediz. del Mercuriale. Venet. 1588. fol. ap. Iuntas, in due tomi, ciascuno
diviso in due classi) parla di una nazione che chiama de' Macrocefali, presso i
quali stimandosi quelli
ch'avessero la testa più lunga, era legge che a' bambini ancor teneri,
quanto più presto colle mani si riducesse la figura della testa in modo
che fosse lunga e così si facesse crescere obbligandola con fasce e
altre stretture. Aggiunge ch'al tempo suo questa legge e questo costume non
s'osservavano più, ma che i bambini naturalmente nascevano colla testa
così figurata, perchè prodotti da genitori che tale l'avevano.
Che però negli ultimi tempi già non nascevano e non erano
più tutti [3962]nè tanti, come prima, di lunga testa, per
lo disuso della legge.
Or vedi la par.1. della Cronica del Peru di
Pietro de Cieça (della quale op. v. la p.3795-6.), capitulo 26. car.66. p.2-67.
p.1. e cap.50. car.136. p.2. ed altrove, circa la stessa costumanza di figurar
le teste de' bambini a lor modo, propria di molte popolazioni selvagge
dell'America meridionale. Or che relazione ebbero mai questi coi Macrocefali? E
questo costume è forse cosa che la natura l'insegna, e in cui gli uomini
facilmente, benchè per solo caso, debbano concorrere? Si applichi questa
osservazione a quelle sopra l'unicità dell'origine del genere umano;
l'antica e ignota divisione di popoli già , poi,
fino da quando comincia la memoria delle storie, lontanissimi e separatissimi e
diversissimi; l'unicità delle invenzioni e scoperte, dell'origine di
moltissimi usi o abusi ec. ec. molti de' quali si danno oggi per naturali solo
per esser comuni, e son comuni solo per esser nati prima della divisione del
genere umano, o dello allontanamento delle sue parti, e sua dilatazione ec.[228] E
a questo medesimo proposito si applichi il luogo greco da me citato a pag.2799.
dove si narra un costume simile o conforme a quello di tanti e tanti altri
selvaggi antichi, moderni, presenti, che nulla hanno avuto a far mai (in tempi
che si sappiano) nè cogli Sciti di cui quivi si parla, nè tra
loro. V. p.3967. E quanti altri sono i costumi, credenze ec. affatto conformi
tra selvaggi i quali non si può vedere come abbiano mai potuto aver, non
ch'altro, notizia, gli uni degli altri; isolani, remotissimi. Eppur le dette
conformità sono sovente tali e tante, ed anche così diffuse, e
per altra parte così lontane, contrarie ec. alla natura, che [3963]per
una parte sarebbe stolto l'attribuirle al caso, per l'altra non se [ne]
può trovare cagione alcuna probabile, se non se ec. - Uso delle
settimane ec. ec.
(9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa.
1823.)
Situla-sitella, tabula-tabella. V. la
pag.3844.
(9. Dec. 1823.)
Il Forc. dice che sportella è
diminutivo di sportula, benchè pur si trova sporta, di cui
sportula è diminutivo. Forse si troverà che tutti i
diminutivi in ellus ella ellum sono fatti da nomi (o verbi ec.) in ulus,
noti o ignoti, diminutivi o no, positivati o assoluti ec.[229] In
tal caso sportella sarebbe un sopraddiminutivo di sporta, giusta
l'uso sì frequente in italiano de' doppi e tripli diminutivi, e come ho
detto altrove di anellus da anulus, se non che anulus
è in significato diverso o per natura o per estensione dal suo positivo
ec. Catena-catella. Catus-catulus catellus catellulus (v. il Forc. in
tutte queste voci). Vitulus vitellus. (v. il Forc. in Catellus). Vitellus è
positivato, almeno nelle nostre lingue, ec. Catinus catillus, catinum-catillum, catillo as, catillo
onis, ec. Patina o patena-patella
(positivato; v. il Forc.). Pare che da patina sarebbe piuttosto patilla
che patella. Patellarius ec. vedi la pag.3955. Se fosse vero che i
diminutivi in ellus non fossero che da' vocaboli in ulus (e i
verbi in ellare diminutivo, da quelli in ulare, e così gli
avverbi ec.), catillus e gli altri simili, o sarebbero contrazioni di catinulus
(e allora non deriverebbero, ma sarebbero tutt'uno col nome in ulus) o
vero di catinellus fatto da un catinulus (che pur si trova). (9.
Dec. 1823.). Cistela sarebbe diminutivo di cistula e non di cista
ec. (9. Dec. Vigilia della Venuta della Santa Casa. 1823.). V. p.3968.
[3964]Alla p.3961. principio. Catus per cautus,
v. Forcell. Recatar per recautar sarebbe un grandissimo
arcaismo (quanto alla soppressione dell'u) conservato in una lingua moderna
ec.
(9. Dec. 1823.). V. p.3980.
Dico altrove che bisogna esattamente
distinguere tra' vocaboli e modi latini conservati nelle lingue moderne,
o ricuperati per mezzo della letteratura, scienze, diplomatica,
politica, canoni, giurisprudenza, cose ecclesiastiche, liturgie ec. (o
conservati ancora per questi mezzi, ma non per l'uso della favella ordinaria
ec.). La stessa distinzione bisogna fare circa le forme delle parole ec. atteso
massimamente che le ortografie moderne sono state da principio ed anche in
seguito lungo tempo modellate sul latino, peccarono assai e lungamente per
latinismo che nella rispettiva lingua parlata non si trovava, furono
inesattissime ec. di tutte le quali cose ho detto in più luoghi.
(9. Dec. Vigilia della Venuta. 1823.)
Parlo altrove de' dialetti d'Omero. Posto
che il dialetto Ionico non fosse il comune o il più comune, e
perciò prescelto, l'avere Omero scritto in un dialetto piuttosto che
nella lingua comune, non prova altro se non che questa a' suoi tempi non v'era;
e il non esservi prova che non vera ancora letteratura greca formata,
perchè nè questa poteva esservi senza quella, e la mancanza di
lingua comune è segno certo ed effetto non d'altro che della mancanza di
letteratura nazionale o della sua infanzia, poca diffusione ec. Similmente dico
di Democrito ec. Ctesia è più moderno, ma forse anteriore al
pieno della letteratura ateniese, [di] Erodoto[230] e
degli altri che ne' più antichi tempi scrissero ne' dialetti loro nativi
e non in lingua comune. Del resto se Omero usò e mescolò anche
gli altri dialetti più di quello che poi fosse fatto dagli altri
scrittori greci, anche poeti, prevalendo però in lui l'ionico, il simile
fece Dante, che [3965]usò e mescolò i dialetti d'Italia
molto più che poi gli altri, anche poeti, e a lui vicini, non fecero, e
che oggi niuno farebbe, perchè v'è lingua comune, e questa certa
e formata e determinata, e tutto ciò principalmente a causa della
letteratura. Se poi alcuni, come Empedocle e Ippocrate, non essendo ioni ec.,
scrissero nell'ionico,[231]
ciò fu perchè Omero l'aveva usato e fatto famoso e atto alla
scrittura, e creduto solo o principalmente capace di essere scritto, nel modo
stesso che poi l'abbondanza degli scrittori ateniesi, maggiore che quella degli
altri, rese comune, e per sempre, il dialetto attico, o una lingua partecipante
massimamente dell'attico, e lo ridusse ad essere il greco propriamente detto
sì nell'uso dello scrivere, sì in quello del parlare, massime
delle persone colte;[232] e
nel modo stesso che in Italia per simil cagione è avvenuto rispetto al
toscano, mentre prima, come in Grecia l'ionico invece dell'attico, così
in Italia si era fatto comune ec. non il toscano, ma il siculo ec. per la
coltura di quella corte e poeti ec. e loro abbondanza preponderante ec. Onde
molto s'ingannano, secondo me, quelli sì antichi (vedi i luoghi cit.
alla pagina 3931.) sì moderni (che sono, io credo, non pochi) i quali riconoscono
l'uso o preponderanza del dialetto ionico in Omero, in Ippocrate ec. e nelle
scritture dell'antica Grecia da questo, che il dialetto ionico, secondo loro, o
almen quello di detti scrittori quale egli si è ec. era l'antico
dialetto attico, e usato dagli ateniesi. Il che, se non hanno altri argomenti
per provarlo, certamente non è provato dall'uso di quegli scrittori, poichè
che diritto e che mezzo aveva allora il dialetto ateniese per esser preferito
agli altri nelle scritture? Essi cadono nel solito errore, [3966]sì
comune per sì lungo tempo (e fin oggi) in Italia, anche fra' più
dotti e imparziali, circa il dialetto toscano, cioè di credere che
l'attico prevalesse agli altri dialetti per se (mentre niun dialetto prevale
per se, giacchè quanto all'ordine, forma ec. esso non l'ha prima della
letteratura, quanto alla bellezza del suono materiale ec. questo è un
sogno, perchè a tutti i popoli e parti di essi è più bello
degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello
del dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ec.), e non per causa della
preponderante letteratura e scrittori attici, la qual causa a' tempi d'Omero
ec. non esisteva, anzi Atene non aveva, che si sappia, scrittore alcuno, non
che n'abbondasse particolarmente ec. Neanche era potente, nè
commerciante, nè che si sappia, assai culta, o più culta degli
altri, seppure aveva coltura alcuna notabile. Bensì lo erano gl'ioni ec.
e questo appunto produsse o fece possibile un Omero ec. Se poi hanno altre
prove della detta proposizione, certo ragionano a rovescio pigliando per
effetto la causa, e per causa l'effetto. Poichè se quello fu allora il
dialetto attico, ciò venne appunto perch'esso aveva avuto scrittori e
letteratura, e così fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio e
potenza e della coltura degl'ioni, alla qual coltura non avrà poco contribuito
la stessa letteratura che n'aveva avuto origine ec. Del resto gli attici erano
molto facili ad adottare le voci e modi greci stranieri, e anche i barbari,
almeno ne' tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso
altrove.
(9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della
Santa Casa di Loreto.)
[3967]L'infinito per l'imperativo,
del che altrove. Hippocrates in fine
libri de aere aquis et locis. , JJ, . Sono le ultime parole del libro. (10. Dec.
dì della Venuta della S. Casa. 1823.). Questo modo è
frequentissimo in Ippocrate da per tutto, come precettista ch'egli è.
Diminutivi positivati. Taureau. Molti
de' diminutivi ch'io chiamo positivati potranno ben trovarsi usati alle volte,
più o men sovente, o da' più antichi o da' più moderni ec.
ed usarsi ancora, in senso veramente diminutivo, o pur frequentativo ec. ec. E
sia anche il più delle volte. A me basta che talora abbiano o abbiano
avuto ec. senso positivo, conforme al positivo ec.
(10. Dec. 1823.)
Alla p.3962. È noto che Alboino re
de' Longobardi fece del teschio di Comundo (re de' Zepidi, suo nemico) una
tazza, con la quale in memoria di quella vittoria (sopra i Zepidi) bevea
(Machiav. Istorie fiorent. lib.1. opp. 1550. p.9.), e come da questo ebbe
origine la sua uccisione ordinata da Rosmunda sua moglie e figlia di Comundo,
per mano di Almachilde (id. ib.). Da ciò si vede che questo costume
dovette anche esser proprio de' Longobardi (giacchè io non convengo col
Machiavelli che attribuisce questo fatto in particolare all'efferata natura
di Alboino), popolo settentrionale e forse non estremamente lontano dagli
Sciti, benchè d'altra razza e d'altro genere di lingua a quello ch'io credo.
Poichè gli Sciti spettano alla razza slava. I Longobardi, cred'io, alla
tedesca.
(10. Dec. dì della Venuta della S.
Casa di Loreto. 1823.)
[3968]Alla p.3963. fine. Se i
diminutivi in ellus ec. fossero fatti sempre da voci in ulus, lo
stesso si dovrebbe dire di quelli in illus, illare ec. Quindi p.e. conscribillo
sarebbe da un conscribulo. - Al detto di patella, aggiungi
l'ital. padella, positivato (restando patena pel vaso sacro ec.),
benchè forse quello che oggi si chiama padella non sia
precisamente conforme a quello o quei vasi che si chiamavano in lat. patinae
o patenae o patellae, e quindi il significato di tal diminutivo
positivato padella non sia forse precisamente il medesimo del suo
positivo latino, cosa inevitabile quasi in quelle voci che appartengono a
oggetti di usi ec. sempre variabilissimi più d'ogni altra cosa. Ma in
tal caso la significazion del diminutivo padella non sarebbe neppur la
medesima del diminutivo patella, ch'è pur certamente positivato,
e con cui padella è materialmente una stessa voce. Insomma padella
è certamente un diminutivo positivato. V. i francesi e gli spagnuoli e
il Gloss. ec.
(10. Dec. dì della Venuta. 1823.). V.
p.3971.
Al detto altrove del diminutivo o vezzeggiativo
ec. positivato figliuolo, aggiungi i suoi derivativi ec. pur positivati,
come figliolanza.
(10. Dec. Festa della Venuta. 1823.)
Ho detto, non mi ricordo il dove, di un
diminutivo, mi pare, italiano che la sua inflessione in ol (sia verbo o
sia nome ec. che non mi sovviene) dimostrava lui essere originariamente latino.
Ma si osservi che la diminuzione in olo, olare ec. è non men
propria dell'italiano moderno di quel che sia del latino quella in ulus,
ulare, olus (come in filiolus) ec. Ben è vero ch'essa deriva
onninamente da [3969]questa latina, anzi è la medesima con lei.
Del resto l'aggiunta dell'u in questa nostra inflessione (come in figliuolo
ec.). 1. è una gentilezza della scrittura e ortografia, un toscanesimo,
non è proprio della favella, seppur non lo è della toscana, e in
tal caso, che non credo neanche in Toscana sia troppo frequente e' sarebbe un
accidente della pronunzia. 2. non si trova nelle più antiche scritture,
nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte, anzi
fuorchè nelle moderne, forse nel più delle scritture ella manca,
e credo ancora che manchi regolarmente anche oggidì, almeno secondo
l'ortografia della Crusca, in molte parole dove l'olo è pur
lungo. 3. ella svanisce regolarmente (per la regola de' dittonghi mobili)
sempre che l'accento non è sull'o: quindi da figliuolo
figliolanza ec. 4. essa è veramente una proprietà italiana
onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo,
come suono, buono ec. siccome gli spagnuoli ue, che pur si
risolve, o ritorna, in o sempre che l'accento non è sull'e,
come da volvo buelvo e poi bolver ec. V. p.4008. E anche quando
la desinenza ec. in olus o ulus ec. non è diminutiva, noi
ne facciamo sovente uolo ec. come da phaseolus, fagiuolo ec. 5.
Essa manca sempre in moltissime parole italiane, come in tanti verbi diminutivi
o frequentativi ec. in olare de' quali ho detto altrove, che sarebbe
sproposito scrivere in uolare. Insomma essa giunta non è propria
di questa tale italiana inflessione diminutiva derivante dal latino, ma
è un accidente di pronunzia o di ortografia italiana o toscana, che ha
luogo anche in infiniti altri casi alienissimi da questa inflessione, e che in
questa medesima non ha sempre luogo ec.
(10. Dec. dì della Venuta della S.
Casa di Loreto. 1823.). V. p.3984.3992.3993.
Alla p.3961. Così discorrasi ancora
di cento altri generi di formazioni ec. latine e non proprie delle lingue
moderne, che si trovano in mille parole moderne [3970]ignote nel latino,
o solo note nel latino barbaro, mentre quelle formazioni ec. non sono proprie
di questo e furono assolutamente proprie del buon latino, o speciali del latino
antico ec. ec.
(10. Dec. dì della Venuta della S.
Casa di Loreto. 1823.). V. p. seguente, e 3985.
Ho detto altrove che male nelle
nostre lingue spesso si usa per non, per particella privativa, ec.
Questo è proprio particolarmente dell'antico delle nostre lingue, e fors'anche
più in particolare, dell'antico francese. I francesi ora dicono mal-
ora mé-, ch'è lo stesso (médire, dir male), e così
il nostro mis (misdire, misfare). Le quali particelle corrotte da
mal e destinate alla composizione, ora significano veramente male,
ora sono assolutamente negative o privative, come in mépriser, mépris, miscredente,
misleale ec. Questa particella mis (o simile) collo stesso uso
è anche comune agl'inglesi, il che conferma il sopraddetto, cioè
ch'ella e così mal ec. ond'ella è corrotta, fosse
specialmente propria dell'antico delle nostre lingue, e particolarmente
dell'antico francese. V. gli spagnuoli i quali se ne mancassero, sarebbero
nuova prova di ciò, perchè lo spagnuolo non ha forse tanto tolto
dal provenzale ec. quanto il nostro antico linguaggio, massimamente scritto ec.
ec. Salvo sia sempre che mis ec. non si trovi essere di origine
settentrionale, e di là venuta nell'inglese e nel francese ec.
(10. Dec. Festa della Venuta. 1823.)
Participii passivi in senso neutro. -
Aggettivazione de' participii. Tacitus da taceo per tacens.
Similmente in ispagnuolo callado per callante, zitto (à
todo havia estado suspenso y callado. Cervant. D. Quijote). Bisogna però osservare intorno a
questo e simili participii di verbi neutri delle lingue moderne, usati nel
senso del participio di forma attiva, se quel tal verbo non è o non [3971]fu
neutro passivo, fatto poi assoluto per ellissi del pronome o sempre o talvolta.
Cosa ch'è avvenuta ed avviene infinite volte nelle nostre lingue. P.e. callar
forse si disse ancora o solamente callarse, come in fr. se taire,
e spesso anche in ital. tacersi, si tacque ec. benchè qui
il pronome piuttosto ridonda, per proprietà di nostra lingua, come in
altri assai casi, la qual proprietà non appartiene a questo discorso, e
bisogna notare che un neutro assoluto non si pigli per neutro passivo a causa
di essa, che sarebbe falso, onde tra noi il trovare un neutro col pronome, o
presso gli antichi o presso i moderni non sempre è segno che quello sia
neutro passivo, o lo sia stato ec. e poi soppresso il pronome, callar o
sempre o per lo più. In tal caso callado nel senso suddetto, non
sarebbe che in senso passivo, e non apparterrebbe al nostro discorso.
(11. Dec. 1823.)
Alla p.3968. Se i diminutivi in ellus
ec. o illus ec. son fatti dalle voci in ulus ec. o sempre, o
talvolta (ch'è fuor di controversia il talvolta), essi sono contrazioni
di ulellus ec. ulillus ec.
(11. Dec. 1823.). V. p.3987.
Alla p. anteced. S'intende che tali
composti, derivati ec. non sieno stati formati ec. dagli scrittori ec. ma
propri della favella volgare, e tali che si possano credere conservati;
come infatti ve ne sono, anche propri esclusivamente del solo dir familiare o
parlato ec. o de' più antichi e rozzi scrittori, e quindi certo delle
favelle volgari di allora ec., in assai buon numero.
(11. Dec. 1823.)
Alla p.3961. Spettano a detta categoria la
grazia e l'effetto spesse volte singolare delle bellezze forestiere o
che hanno del forestiero, sia che questo bello spetti alla fisonomia, al
personale ec. ovvero alle maniere ec., ovvero che le maniere sien forestiere e
non il fisico, o viceversa ec. ec. ec.
(11. Dec. 1823.)
[3972]Risulta da quello che in
più luoghi si è detto circa la natura di una lingua atta (massime
ne' nostri tempi) veramente alla universalità, che ella non solo non
può esser più delle altre lingue capace di traduzioni, di assumer
l'abito dell'altre lingue, o tutte o in maggior numero o meglio che
ciascun'altra, di piegarvisi più d'ogni altra, di rappresentare in
qualunque modo le altre lingue; ma anzi ella dev'essere per sua natura
l'estremo contrario, cioè sommamente unica d'indole, di modo ec. e
sommamente incapace d'ogni altra che di se stessa, ed in se stessa minimamente
varia, e da se medesima in ogni caso il men che si possa diversa. E una lingua
che tenga l'estremo contrario è di sua natura, massime a' tempi nostri,
estremamente incapace dell'universalità. Non bisogna dunque figurarsi
che una lingua universale nè debba nè possa portare questa
utilità di supplire alla cognizione di tutte le altre lingue, di esser
come lo specchio di tutte l'altre, di raccoglierle, per così dir, tutte
in se stessa, col poterne assumer l'indole ec.; ma solo di servire in vece
di tutte le altre lingue, e di esser loro sostituita. Anzi ella non
può veramente altro ch'esser sostituita all'uso dell'altre e di ciascuna
altra, e non supplire ad esse ec. Ben grande sarebbe quella utilità, ma
essa è contraria direttamente alla natura di una lingua universale. Tale
si è infatti la francese. Nè i francesi dunque nè gli
stranieri si lusinghino di avere in quella lingua tutto ciò che
potrebbero avere nell'altre, ma una lingua diversissima per sua natura
dall'altre, il cui uso a quello di tutte l'altre possono facilmente sostituire.
Nè stimino che volendo conoscer [3973]l'altre lingue, autori ec.
il possederla francese, li dispensi più che alcun'altra lingua dallo
studio di tutte l'altre, anzi per questo effetto la francese non serve a nulla,
ed i francesi per parlare come nativa una lingua sommamente disposta alla universalità,
si debbono contentare di avere una lingua incapacissima di traduzioni,
inettissima a servir loro di specchio e di esempio, e fin anche di mezzo, per
conoscere qualunque altra lingua, autore ec. Il fatto della lingua francese
dimostra queste asserzioni. Sebbene i francesi coll'estrema trascuranza che
hanno dell'altre lingue mostrano essere persuasi del contrario. La natura della
greca era appunto l'opposto. Ella infatti perciò, anche nel tempo
antico, non potè essere universale che debolissimamente e incomparabilmente
alla possibile universalità di una lingua, ed anche all'effettiva
presente universalità della francese, malgrado le molte qualità,
e massimamente le infinite circostanze estrinseche (potenza, commercio,
letteratura e civiltà unica della nazione che la parlava) che
favorirono, (e per lunghissimo tempo), e quasi necessitarono la sua
universalità, molto più che le circostanze estrinseche della
francese ec.
(11. Dec. 1823.)
Non è dubbio che la civiltà, i
progressi dello spirito umano ec. hanno accresciuto mirabilmente e in numero e
in grandezza e in estensione le facoltà umane, e generalmente le forze
dell'uomo, il quale essendo ora, al contrario che da principio, più
spirito che corpo, come dico altrove, può veramente, anche nelle cose
materiali, infinitamente più che da principio. Ma bisogna vedere se
queste nuove facoltà, questo accrescimento di forze ec. corrisponde ed
era destinato dalla natura [3974]sì generale sì della
specie umana in particolare, e giova o nuoce alla felicità d'essa
specie, chè nocendo, è certo che non corrisponde alla natura ec.
Di quante incredibili abilità vediamo noi col fatto che moltissimi
animali (fino ai pulci addestrati da non so chi a tirare un cocchietto d'oro)
sono capaci, e lo videro gli antichi che ne raccontano maraviglie,
corrispondenti alle moderne, benchè alcune maggiori, per la maggiore
industria degli antichi, in questa come in tante altre cose, manifatture,
lavori d'arte ec. Chi non le avesse udite da testimonii irrecusabili, o vedute
cogli occhi propri o ascoltate co' propri orecchi, neppur le avrebbe
immaginate, nè figuratasene la possibilità, la capacità,
l'attitudine fisica in quella specie di animali, come p.e. elefanti, cani,
orsi, gatti, topi (cosa vera) ec. ec., anche ferocissime, e apparentemente le
più incapaci di disciplina e di mutar costumi ec. e di mansuefarsi e
obbedire agli uomini ec. Or chi dirà che tali abilità le quali
accrescono le facoltà di quelli animali ec. fossero per ciò
destinate dalla natura o generale, o loro particolare ec. giovino alla loro
felicità ec. e che le loro rispettive specie sarebbero più
perfette o meno imperfette, se tali abilità fossero in esse più
comuni, o universali ec.? E senz'andar troppo lontano, quante proprietà
abilità ec. lontanissime dalla sua primitiva condizione, non acquistano
tuttodì sotto i nostri occhi, e tuttodì esercitano, i cavalli da
tiro, da maneggio ec. proprietà ed abilità che non ci fanno
più meraviglia alcuna, a causa dell'abitudine e frequenza, e che l'arte
d'insegnar loro siffatte cose è comunissima e presentemente e da lungo
tempo, facile; ma nè questa nè quelle sono perciò men
degne di maraviglia. [3975]Or con tutto questo, e con tutto che il
numero degl'individui così ammaestrati sia tanto, e così continuo
e successivo ec. chi dirà che ec. come sopra? se non chi stima che tutto
il mondo, e in questo la specie de' cavalli, sia fatta di natura sua per servizio
dell'uomo, e tenda a questo come a suo fine, e non abbia la sua perfezione fuor
di questo, onde sia destinata e disposta naturalmente all'acquisto di quelle
facoltà e qualità che si richiedono o convengono e giovano a tal
servizio, di modo che un cavallo non sia perfettamente cavallo se e fino ch'ei
non sa portare un uomo sul suo dosso, e obbedire a' suoi segni e prevenirli e
indovinarli ec. ec. e far tutto questo perfettamente.
(11. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati. Corbeau, corbin
da corvus.
(11. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati greci. J, , co' loro
derivati. Altri che forse pur sono, almen talvolta, positivati, vedili nella
Gramm. del Weller, Lips. 1756. p.82., co' lor derivati o composti ec.
(12. Dec. 1823.)
In Omero tutto è vago, tutto è
supremamente poetico nella maggior verità e proprietà e nella
maggior forza ed estensione del termine; incominciando dalla persona e storia
sua, ch'è tutta involta e seppellita nel mistero, oltre alla somma antichità
e lontananza e diversità de' suoi tempi da' posteriori e da' nostri
massimamente e sempre maggiore di mano in mano (essendo esso il più
antico, non solo scrittore che ci rimanga, ma monumento dell'antichità
profana; la più antica parte dell'antichità superstite), che
tanto contribuisce per se stessa a favorire l'immaginazione. Omero stesso
è un'idea vaga e conseguentemente poetica. Tanto che si è anche
dubitato e si dubita ch'ei non sia stato mai altro veramente che un'idea. (12.
Dec. 1823.). Il qual dubbio, [3976]stoltissimo benchè d'uomini
gravissimi, non lo ricordo se non per un segno di questo ch'iodico.
(12. Dec. 1823.)
Non è propria de' tempi nostri altra
poesia che la malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra
qualunque subbietto ella possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se
questo sente mai veramente qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco
stesso, o prende a scrivere sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca
detta ispirazione, essa è certamente malinconica, e il tuono che il
poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione
(e senza inspirazione non v'è poesia degna di questo nome) è il
malinconico. Qualunque sia l'abito, la natura, le circostanze ec. del poeta,
pur ch'ei sia di nazione civile, così gli accade, e come a lui
così a un altro che non avrà di comune con lui se non questo
solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale che
rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza della
solennità ec. La poesia loro era tutta vestita a festa, anche, in certo
modo, quando il subbietto l'obbligava ad esser trista. Che vuol dir ciò?
O che gli antichi avevano meno sventure reali di noi, (e questo non è
forse vero), o che meno le sentivano e meno le conoscevano, il che viene a
esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato, cioè che gli antichi
erano dunque meno infelici de' moderni. E tra gli antichi metto anche,
proporzionatamente, l'Ariosto ec.
(12. Dec. 1823.)
[3977]Alla p.3927. Questa
moltiplicità incalcolabile di cause e di effetti ec. nel mondo morale
non deve nè parere assurda o difficile ad ammettersi nè far meraviglia
a chi consideri com'ella si trova evidentemente, e del pari infinita e incalcolabile
nel mondo fisico. Nè la medicina, nè la fisiologia, nè la
fisica, nè la chimica, nè veruna anche più esatta e
più materiale scienza che tratti delle più sensibili e meno
astruse parti ed effetti della natura,[233]
non possono mai specificare nè calcolare nemmeno per approssimazione, se
non in modo larghissimo, nè il numero nè il grado e il più
e il meno, nè tutti i rapporti ec. delle infinite diversità di
effetti che secondo le infinite combinazioni e rapporti scambievoli ec. e
influenze e passioni scambievoli ec. che possono avere ed hanno effettivamente
luogo, risultano dalle cause anche più semplici più poche e
limitate, che dette scienze assegnano; nè le infinite modificazioni di
cui dette cause, secondo esse combinazioni, sono suscettibili, ed a cui sono
effettivamente soggette. E non per tanto, almeno in grandissima parte, esse
cause non si possono volgere in dubbio, e nessuno dalla detta
impossibilità di specificare e calcolare esattamente e pienamente,
risolve ch'esse cause non sieno le vere, e moltissime sono evidenti e sotto gli
occhi, e così il loro modo di agire, le loro relazioni cogli effetti
ec., i quali tuttavia non sono più calcolabili nè numerabili.
Basti solamente osservare le cause e gli effetti che agiscono ed hanno luogo
nel corpo umano, e le infinite diversità ed anche contrarietà che
per differenze, sovente impercettibili, di combinazioni, hanno luogo negli accidenti
e passioni d'esso corpo anche in individui conformissimi,[234] in
un tempo medesimo, in circostanze che possono parere conformissime, [3978]in
un medesimo individuo ec. Nè per tanto si può dubitare di quelle
cause, purchè d'altronde ec. nè se ne dubita, nè si
condannano quei sistemi e quei metodi ec. de' quali in quanto a questo
particolare niuno uomo potrebbe pensarne o usarne un migliore.
(12. Dec. 1823.)
Alla p. antecedente. - niuna parte, niun
sistema di esse scienze, anche il più dimostrato, niun ordine, niun
metodo di trattarle, per efficace, accurato, minutissimo, ordinatissimo,
solertissimo che possa essere; se esse scienze o sistemi non si fingono e
suppongono, determinano, conformano e circoscrivono i subbietti e lor
qualità vere o immaginarie a modo loro, come fanno le matematiche e,
p.e. la meccanica nella considerazione delle forze fisiche e de' loro effetti.
Le scienze e i sistemi non possono andare
che per via di paradigmi e di esempi, supponendo tali e tali subbietti, di tali
e tali qualità in tali e tali circostanze ec. ovvero generalizzando, sia
col salire da questi particolari esempi alla università de' subbietti in
qualche modo diversi, e delle combinazioni diverse, sì nelle cause
sì negli effetti; sia in qualunque altra guisa. E tutte sono obbligate
di fare più o meno come le matematiche, che per considerare gli effetti
delle forze, suppongono i corpi perfettamente duri, e perfettamente levigati, e
l'assenza del mezzo, ossia il vóto, ec.; e così il punto indivisibile
ec.
(12.
Dec. 1823.). V. Thomas Éloge de Descartes, Oeuvres, Amsterdam 1774. t.4. p.47.
seg.
Diminutivi positivati. Grappo-grappolo.
Franc. grappe.
(13. Dec. 1823.)
Fusa e fusi plur. lat.
sostantivi di cui altrove. Così locus-loci e loca. Il che
è segno di un ant. locum. Così fusa di un fusum.
[3979]Così, credo, altri nomi vi sono che hanno diversi generi o
in ambo i numeri o in un solo, senza diversa significazione. Così caelus
onde caeli, e caelum che oggi non ha plurale siccome il singolare
di caelus è antiquato.
(14. Dec. 1823.)
Come la lingua e letteratura italiana si
stimassero nel 500 da molti anche dotti e gravi uomini non dovere nè
potere uscire de' termini in che le posero i 3. famosi trecentisti, anzi
solamente il Petrarca e il Boccaccio, nè delle lor parole e modi e
artifizi e stili, e dell'abito ch'essi avevan dato all'una e all'altra ec. del
che altrove, vedi il Dial. della Rettorica dello Speroni, Diall. Ven. 1596.
p.147-150. p.157. fine. - 158. principio, p.162. verso il fine.
(14. Dec. 1823.)
Alla p.3940. Non sempre però usa l'i.
Alle volte usa la vocale stessa ch'è la prima della parola raddoppiata,
come in da (dove
anche è aggiunto l', ), e credo in molti altri
casi. Fors'anche usa altre vocali, e altri modi di duplicazione. Ma uno di tali
modi è certo il sopraddetto, cioè la prima consonante della voce
raddoppiata, e un i, e questo è regolare, e forse il più
frequente e regolare e uniforme ec. (14. Dec. 1823.). E chi sa anche se quel ha veramente
l'etimologia che gli attribuiscono ec. E la forma della voce raddoppiata,
cioè è
molto irregolare quanto alla sua derivazione da , se
questa è vera ec. Laddove le forme delle voci raddoppiate coll'i
(come ) sono
regolari ec.
(14. Dec. 1823.). V. p.3989.3994.4009.
capoverso 8.
Quanto alla particella negativa o privativa ne
o nec per non, del che altrove, dà un'occhiata nel
Forcellini a tutte le voci [3980]comincianti massimamente per ne,
e così nello Scapula alle voci comincianti massimamente per e . (14.
Dec. 1823.)
Genou sembra esser da genu,
come altrove. Ma agenouiller è da un genouille diminutivo.[235]
Vedi la pag.3955. Trovo nel D. Quijote finojo per ginocchio, voce
che mi par quivi affettatamente antiquata, come molte altre, per contraffare il
linguaggio degli antichi libri di Cavalleria, ed è posta in bocca di
Sancho. In ogni modo mostra che anche l'antico spagnuolo (se già non
prese questa voce dall'italiano) usava il diminutivo di genu nel senso
positivo e in vece del positivo latino. Sta la detta voce nella Parte I. del D.
Quijote, lib.4. cap.31. p.343. ediz. d'Amberes 1697. t.1.
(14. Dec. 1823.). V. p.3983.
Alla p.3964. principio. Catar da cui
è recatar (riguardare), se già non è da captare,
che non credo, sarà da calus, il quale da caveo, e quindi
quasi caular, e continuativo di caveo. Cata (gare,
guardati) equivale propriamente a cave.
(14. Dec. 1823.)
Participii aggettivati. Catus, cautus. V. Forcell.
(14. Dec. 1823.)
L'ortografia francese fu da principio ed
anche per lungo tempo proporzionatamente molto più simile alla scrittura
latina che non è oggi, anzi sempre più se ne va scostando per
accostarsi alla pronunzia. Fu, dico, molto più simile, sì
perchè anche la pronunzia lo era, e sì per l'inesattezza e
latinismo comuni a tutte le ortografie moderne, come altrove in più
luoghi. Ora, se cambiandosi la pronunzia e correggendosi il barbaro latinismo dell'ortografia,
la scrittura francese si è mutata [3981]non poco, perchè
non si dovrà mutarla affatto sin tanto ch'ella si conformi onninamente
alla pronunzia e francese e presente, qual ella è in fatti, e rinunzi
del tutto alla forma latina delle parole scritte in quanto ell'è diversa
da quella di esse parole pronunziate, ed all'aver riguardo in qualunque modo al
latino? Se ciò non si è ancor fatto, e se non si farà,
vuol dire che l'ortografia francese non è ancora o non sarà mai
perfetta, nè interamente rettificata, anzi è imperfettissima e
scorrettissima. Il contrario è avvenuto ed avviene ancor tuttavia
(conformandosi sempre al nuovo modo di pronunziare, o conformandosi alla
pronunzia dove l'antica ortografia non vi si conformava; come p.e. oggi tutti scrivono
ispirare e simili, laddove tutti gli antichi inspirare, sia che
così pronunziassero, sia che latinizzassero in questa scrittura) nell'ortografia
spagnuola e massimamente nell'italiano che perciò sono perfette, o
quasi, e certo assai più della francese vicine alla perfezione. Non
così nell'inglese, nella tedesca ec. perciò imperfette come la
francese, ma forse meno, perch'esse da principio non ebbero occasione nè
modo di guardare al latino, con cui non hanno che fare le loro lingue, massime
il tedesco, o certo di guardarvi meno, e quindi minor cagione d'allontanarsi
dalla pronunzia e dalla forma reale delle voci propria della loro lingua, e
d'uscire dei termini e vera proprietà di questa ec.
(14. Dec. 1823.)
[3982]Alla p.3964. Anacreonte
ionico scrisse nell'ionico, mescolato però, secondo il comun modo di
dire degli eruditi, e temperato cogli altri dialetti, (massime il Dorico), al
modo di Omero. V. il Fabric. e la pref. ad Anacr. del De Rogati ec.
(14. Dec. 1823.). V. p. seg.
Alla p.3965. I posteriori poi (com'Abideno,
Arriano nell'Indica, Teocrito ec.), benchè già nato e stabilito e
formato il dialetto comune e la letteratura nazionale, e prevaluto eziandio
l'Attico, scrissero negli altri dialetti particolari nativi loro o alieni,
perchè nobilitati da autori di grido che gli avevano usati quando ancor
non v'era dialetto comune, o non ben formato nè fermamente applicato e
aggiustato adequatamente alla letteratura. Il qual mal vezzo non ha avuto luogo
in Italia, se non se in qualche scrittorello non mai divenuto (come Teocrito
ec.) nazionale, e di poco giudizio; perchè buoni scrittori non si son
dati a scrivere in altra lingua che nella comune, e ciò a causa che i
dialetti particolari non avevano avuta la sorte di esser nobilitati da veruno
insigne scrittore (benchè molti scrittori avessero) prima della
formazione ec. del linguaggio comune e della letteratura. (Del resto non pare
che opere gravi scritte in dialetti particolari, fuorchè nell'Attico,
dopo la esistenza ec. del comune, avessero gran fortuna nè fama
nè pure in Grecia, nè che veramente grandi o insigni ne fossero
mai gli autori. Luciano de scribenda historia si burla di uno suo contemporaneo
che avea scritto in dialetto ionico, come anche dell'affettato Atticismo di
altri. Dionigi d'Alicarnasso compatriota d'Erodoto scrisse sì la storia
sì il resto nell'attico o comune). [3983]Bensì quanto al
toscano considerato come dialetto particolare, l'Italia si rassomiglia alla
Grecia ed al suo attico proprio, per l'uso che gli autori anche insigni
ne fecero, sì toscani nativi o attici nativi, sì forestieri,
adoprandolo esclusivamente o principalmente ec. Però anche in Grecia
come in Italia questo usare un dialetto, ancorchè nobilitato da molti
scrittori ec. e prevalente ec., invece del comune, e massime l'abuso di esso e
le smorfie, e massime nei non nativi, fu deriso dai più savi ec. benchè
più ragionevole ciò fosse in Grecia che in Italia per molte
cagioni, e fra l'altre che il dialetto attico propriamente detto era stato
usato, e fu usato di mano in mano da autori veramente insigni e sommi, come
Platone ec. Non così, strettamente parlando, il toscano proprio ec. che
non è veramente la lingua neppur de' sommi italiani scrittori, nativi
toscani, Dante, Petrarca e Boccaccio, nè d'altri sommi toscani ec.
(14. Dec. 1823.)
Alla p.3980. Genouil antico, si
trova. Vedi i Diz. e vedi i diversi suoi derivati, che sono parecchi, oltre agenouiller,
incomincianti per genouill-.
(14. Dec. 1823.)
Alla p. anteced. principio. Certo è
però che Anacreonte si accosta assai più di Omero, e forse
più di qualunque altro poeta greco al dialetto comune, anzi pochissimo
se ne scosta nè per accostarsi all'ionico (se già le sue odi in
questa parte de' dialetti e massime nell'ortografia ad essi spettante non sono
alterate) nè ad altro veruno. Segno che al suo tempo benchè molto
antico, il dialetto comune esisteva già, per mezzo della letteratura ec.
o piuttosto che il dialetto [3984]ionico (il quale probabilmente fu
quello che poi divenne il comune, e produsse l'attico ec. come pare a molti eruditi)
era allora per la maggior vicinanza de' tempi (rispetto a quelli d'Omero) quasi
uguale (eccetto nello scioglier de' dittonghi, che in Anacreonte però di
rado si sciogliono, e quando si sciolgono, è manifestamente per la
necessità o comodità del metro, nel qual caso è ben
naturale e in altre cose tali, che si posson chiamar di pronunzia, e in queste
ancora Anacreonte è molto parco, se non dove l'uso del verso l'esige, di
modo ch'egli usa il dialetto suo, e si scosta dal comune piuttosto come poeta
che come scrittore, e come linguaggio e licenze poetiche, non come dialetto) a
quello che poi fu il comune, come si vede in Ippocrate ec. ec.
(15. Dec. 1823.)
Commeto as da commeo per commeato.
V. Forc. e il detto altrove sopra hieto ec.
(15. Dec. 1823.)
Bello non assoluto. Diversissime usanze,
opinioni, gusti ec. circa le chiome, sì sopra l'acconciamento loro, come
sopra il portarle o no, raderle, lasciare crescerle fino a terra, fino agli
omeri, fino al collo, tagliarle all'intorno della testa ec. ec. presso gli
antichi e i moderni e le varie nazioni, selvagge, barbare, civili ec. ec. ec.
in vari tempi ec. anche egualmente colti e di buon gusto ec. ec.
(15. Dec. 1823.)
Alla p.3939. Così anche i verbali
sostantivi formati da' supini come quelli in us us. Così gli
avverbi e tutte le (non poche) voci e sorte di voci che si fanno regolarmente
da' supini regolari o irregolari, usitati o inusitati, de' verbi.
(15. Dec. 1823.)
Alla p.3969. fin. Anche la nostra
diminuzione in ello ellare ec. viene dal latino, ed è latina, e
così la spagnuola in illo, illar (lat. cantillare ec.) ec.
(15. Dec. 1823.). Così la francese in el, eler, o eller
(femin. elle) ec.
(15. Dec. 1823.). V. p.3991. e il pens. seg.
Dico altrove che tutti i nostri verbi
diminutivi frequentativi disprezzativi ec. sono [3985]della 1.
coniugazione come i più di tali generi in latino. Così gli spagn.
e i franc.[236]
V. il pens. preced. ec.
(15. Dec. 1823.). e la pag.3991. capoverso
1.
Alla p.3970. principio. Si trovano ancora
nelle nostre lingue parecchi semplici di cui in latino noto, non si hanno che i
composti (e questi sono, più o meno, evidentemente tali, cioè
composti e non semplici, e più o meno evidentemente formati da un
semplice qual è il nostro ec.), e parecchie voci che nel latino noto non
si hanno, ma se ne hanno le derivative ec. (più o meno evidentemente
derivate, formate ec. da voci quali sono le nostre ec.). L'argomento in questi
casi, massime ne' primi (perchè il composto suppone necessariamente il
semplice) è più forte che mai.
(15. Dec. 1823.)
Alla p.3960. fine. Tali verbi possono essere
o da meno (o da remeno o remino-rementum: v. la pag. seg.
ec.) ovvero da miniscor, reminiscor ec. i quali verbi avranno tolto
facilmente in prestito il supino o participio di meno ec. secondo l'uso
de' verbi incoativi del quale altrove lungamente. Stimo dunque che rammentare
sia quasi rementare da rementus sum di reminiscor (il qual
verbo oggi non ha participio ossia perfetto deponente ma rammentare
può dimostrarcelo) appunto al modo che commento as e commentor
aris è da commentus sum di comminiscor (ovvero da commentum
di ant. commeno, o da mentum di meno, aggiuntaci la prep. cum
ec.). Veggasi il Gloss. Ammentare è da mentare (spagn.),
usitato forse un tempo in italiano come in ispagnuolo aggiuntaci l'a per
vezzo di nostra lingua (v. Monti Proposta in ascendere); ovvero da un Adminiscor
ec. [3986]V. il Gloss. Mentar da meno o da miniscor.
V. il Gloss.
Il qual miniscor è notato da
Festo. Nuova prova del verbo meno da me congetturato altrove.
Mostrerebbe però che si dicesse mino non meno. Ma forse
Festo dedusse miniscor per sola congettura da reminiscor (v.
Forc.), dove l'e deve esser cambiato in i per la composizione, e
così in comminiscor ec. Se vi fu un incoativo semplice da meno,
questo crederei che dovesse essere un meniscor non miniscor. (15.
Dec. 1823.). Vero è però ch'io non ho forse ragione alcuna per
dire meno piuttosto che mino. Memini può esser da meno
(come cecidi da caedo ec.) e da mino ugualmente. Ma pur commentus
(che ben può esser da commino, ma da un commino fatto da meno,
che ripiglia nel participio la sua vocale, come contineo contentum da teneo
non tineo ec.) e memento ec. par che dimostrino un meno. Memento
ec. par che dimostri un memeno per reduplicazione del che p.3940-1. e
altrove. O forse è fatto anomalamente da memini dopo la perdita
degli altri tempi ec. e l'uso presente di questo perfetto venuto a
divenir prima voce e tema del verbo; ovvero anche prima.
(15. Dec. 1823.)
Bito is, di cui altrove. V. Forcell. in Combitere.
(15. Dec. 1823.)
Alla p.3939. fine. Il supino è dal
perfetto come provo altrove. Ma pingo, fingo, mingo ec. fanno pinxi
ec. (e non altrimenti); dunque il lor vero supino è pinctum ec. Mingo
ha veramente mictum.[237]
Così almeno lo segna il Forcell. V. però quivi la varia lezione
all'esempio di Caio Tizio, e i composti di mingo, e i derivati [3987]dal
suo supino come minctio ec. Così i composti di pingo fingo ec.
e lor derivati ec.
(15. Dec. 1823.)
Alla p.3971. Ma che pagella p.e., e catella
e simili sieno contrazioni di catenulella, paginulella (benchè catenula
e paginula pur si trovino) e simili, non mi par credibile; bensì
di paginella, catenella ec. o anche di paginula, catenula ec. E
poi che ragione v'ha per dire che il diminutivo in ellus ec. non si
possa fare che dalle voci in ulus ec.? Forse che essa diminuzione in ellus
ec. non può esser altro che sopraddiminutiva? Ma da tabula,
fabula ec. che non sono diminutivi, benchè in ul, si fa tabella,
fabella ec. che non sono sopraddiminutivi ma diminutivi semplici. O forse
vorremmo che tabella ec. sia contrazione di tabululella ec.? Al contrario
spesso si dice ellulus come asellulus, catellulus ec. Or queste
sarebbero elleno contrazioni di asinulellulus, catululellulus,
cioè ripetizioni dell'ul, e diminutivi tripli? Tenellulus.
Vedi la pag.3753. 3901. 3992. 3994. Agellulus. Impossibile: bensì
di tabulella, come pagella di paginella ec.
(15. Dec. 1823.)
Alla p.3235. Metior o metio
(avverti che questo è verbo della quarta e non della 3.) - metor aris
e meto as, castrametari ec.
(16. Dec. 1823.)
Sella che ho contato altrove fra'
diminutivi positivati, non lo è propriamente, se vien da sedes,
perchè ha un senso molto più speciale di questo, benchè
anch'esso molto esteso e vario.
(16. Dec. 1823.)
A proposito dello spirito denso dei greci
mutato in s ec. si può notare lo spagn. sombra (coi
derivati) cioè ombra da umbra. E forse qua spetta anche il
franc. sombre. V. il Gloss. ec. ec.
(16. Dec. 1823.)
[3988]Bello non assoluto. I greci e
i romani (erano nazioni di buon gusto?) pregiavano, almeno nelle donne, la
fronte bassa, e l'alta stimavano difettosa, per modo che le donne se la
coprivano ec. V. le note del De Rogati alla sua traduzione di Anacr. od.29.
sopra Batillo. Sul coprire o mostrar la fronte il che e la quale ha tanta
parte nel differenziare le fisonomie, nè gli antichi nè i
moderni, nè la moda oggidì è mai d'accordo con se stessa.
Non è dubbio che quella nazione di cui parla Ippocrate (v. la p.3961.),
avvezza a non vedere che teste lunghe, benchè tali essi ed esse a
dispetto della natura, pur contuttociò naturalmente avrebbe e
avrà sentita una mostruosità e bruttezza notabilissima e,
secondo lei, incontrastabile ogni volta che avrà veduto teste, non dico
piatte, ma discrete ec. Così dite degli altri barbari di cui p.3962. E
così di cento mila altri usi contro natura, selvaggi o civili, antichi
(greci, romani ec.) o moderni ec. spettanti alla conformazione o reale o
apparente (come quella de' guardinfanti ec.) del corpo umano.
(16. Dec. 1823.)
Il v non è che aspirazione ec. Del
Digamma eolico v. la Gramm. del Weller, Lips. 1756. p.65.- È uso della
lingua italiana l'omettere o l'aggiungere il v nei nomi, massime aggettivi in ìo.[238]
Nel dire io o ivo spessissimo varia sì la lingua scritta
da se stessa (natio-nativo), sì il volgare dalla scritta (stantio,
volg. stantivo, e viceversa in altri casi) e da se stesso, sì
l'italiano scritto o parlato o entrambo dall'altre lingue, sì dalla
latina o dall'originaria della rispettiva parola (joli giulivo per giulìo,
che [3989]anche si disse anticamente, oggi è perduto affatto)
sì da altri (rétif-rétive-restio), e viceversa queste dalla
nostra, e tra loro, e in se stesse ec.
(16.
Dec. 1823.)
Si dans
un pays on pouvait découvrir tous les talens que la nature se plait à
distribuer au hasard, et qu'on pût employer chacun dans son genre, ce
pays deviendrait bientôt le premier de l'Europe. Mais que de sagacité, de soins
infinis et de patience faudrait-il pour de telles découvertes? Le Fatum s'est
réservé la direction de nos destinées. À bien examiner la chose, nous y
avons moins de part que notre orgueil ne nous en attribue. Lettres du Roi de
Prusse et de M. d'Alembert. Lettre 188. du Roi.
(16. Dec. 1823.)
Sculpter da sculpto-ptum.
(16. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati. Ungula (onde unghia,
ongle, e non da unguis): vedi però il Forcell. in Unguis.
Quanto a unghia è certo ch'egli è positivato. Di ongle
ancora è certo ch'equivale al positivo lat. unguis; non credo
però ad ungula che si dice in franc. corne.[239]
(17. Dec. 1823.)
Alla p.3979. fine. I verbi poi (come J ec.) o
nomi (come ec.) o
altre voci fatte da' perfetti, hanno per lo più e regolarmente nella
duplicazione la e non la , secondo la forma de' perfetti onde son
fatti.
(17. Dec. 1823.)
[3990]Alla p.3977. Basti solamente
notare le infinite circostanze, qualità ec. ec. della persona, sì
nel fisico sì nel morale, del clima, dell'anno, della stagione, degli
avvenimenti ec. ec. che i buoni e veri medici e in particolare Ippocrate prescrive
in molti luoghi di osservare in ciascuna malattia e in ciascun malato, per
poterne fare retto giudizio, e applicare il rimedio, il cui effetto ognuna
delle dette circostanze, ancorchè menoma, male osservata, ec. potrebbe
impedire o render dannoso ec. e altresì falsificare affatto il giudizio
della malattia il prognostico de' suoi effetti e successi ec. ec.
(17. Dec. 1823.)
Tutto è follia in questo mondo
fuorchè il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorchè il
ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorchè le belle illusioni
e le dilettevoli frivolezze.
(17. Dec. 1823.)
Teschio non è certamente
altro che un testulum o testulus da testa per capo,
mutato al solito l'ul in i, e il t in ch per proprietà
della nostra lingua, massime antica e toscana che dice p.e. schiantare e
stiantare, schiacciare e stiacciare, e mastio per maschio
(mutando per lo contrario il ch in t) ec. ec. Come da vetulus,
vecchio, del che altrove,[240]
così da testulum teschio; e se vecchio è da un veculus
o contrazione di vetusculus ec. (e così viejo, vieil)
nello stesso modo da testa potrà essersi fatto tesculum (come
da veTus veCulus) o teschio esser contrazione di testiculum
ec. Testula si trova da testa femmin. Or avvi anche testum
e [3991] testu neutro. V. Forc. E pel latino testa noi
diciamo testo masch. V. il Gloss. i franc. spagn. ec. La parola teschio
par che mostri che la voce testa nel volg. lat. si usava particolarmente
per denotare il cranio ec. e ciò rende tanto più verisimile la
metafora da testa (coccia) a testa (capo) e l'analogia ec. Siccome
viceversa le cose da me dette intorno a testa ec. confermano le
presenti. Da teschio ben si può argomentare a testa e viceversa,
essendosi già dimostrato con tanti esempi l'uso de' diminutivi in vece e
nel senso appunto de' positivi in latino e nelle lingue moderne. Teschio
o testulum dovette forse essere in principio un mero diminutivo
positivato cioè significare il medesimo che testa preso o per capo
o per cranio particolarmente ec. Del resto circa questa voce v. il
Gloss. i francesi e spagnuoli ec.
(17. Dec. 1823.)
Alla p.3984. fine. I francesi hanno anche
de' diminutivi o frequentativi in il ille iller ec. (come grappiller
pétiller ec. ec.) come gli spagnuoli e come i lat. catillus, pusillus,
pocillum, conscribillo, sorbillo, cantillo ec. ec.
(17. Dec. 1823.)
Alla p.3965. marg. È da notare che
molto più antichi di Empedocle, Ippocrate ec. furono Saffo ed altri,
massime poeti, famosi, i quali scrissero ne' dialetti natii diversi
dall'ionico. Mostra dunque che non Omero, ma la preponderante civiltà,
coltura (della quale ne dan chiaro segno e le cose e lo stile e lingua delle
odi di Anacreonte, molto, se non altro, più giovane di Saffo),
commercio, ricchezza, lusso, mollezza ec. e quindi arti, mestieri, scienze,
belle arti, v. p.3995. letteratura ec. degli Ioni rendesse comune il loro
dialetto, e ciò molto dopo Omero, ed essendo [3992]già
sparsa la letteratura per la Grecia, e varia di dialetti, ed altri dialetti
applicati propriamente e per se stessi (non confusamente cogli altri, come in
Omero) alla letteratura, almeno alla poesia. Erodoto fu circa contemporaneo
d'Ippocrate. (18. Dec. 1823.). Simonide contemporaneo all'incirca di
Anacreonte, dice il Fabric. che scrisse in dorico. Si veggano i suoi frammenti,
e più vi si troverà dell'ionico che del dorico; in particolare
poi i suoi giambi ed alcuni altri frammenti sono al tutto o ionici o comuni,
cioè attici: parte l'uno, parte l'altro. Come però Simonide
scrivea per mercede in lode di questo o di quello (v. il Fabr.), è naturale
che in tali casi seguisse i dialetti di chi pagava. Quindi i suoi epigrammi,
fatti pure per mercede o per casi particolari e luoghi ec., erano forse e si
trovano in dorico, e così altri frammenti. V. p.3997.
Alla p.3969. La nostra diminuzione in olo
olare ec., uolo ec. e la lat. in olui ec. (filiolus,
vinolentus, vinolentia ec. ec. per filiulus, vinulentus ec. v. la
p.3955.) sono la stessa che quella in ulus ulare ec. Solito scambio
dell'u ed o (come volgus-vulgus ec.) di cui ho detto in
mille luoghi.
(18. Dec. 1823.)
Lusito da ludo-lusum.
(19. Dec. 1823.)
Alla p.3901. Contrazioni, voglio dire, da lapidillus
e simili. Vetulus potrebb'essere per veterulus, (quanto a questa
voce puoi vedere la p.3990. ec.). Puellus (agellus ec.)
fors'è contrazione di puerulus, che pur si trova, fatto dal genitivo
come gli altri nomi o voci che vengono da' nomi della seconda. Nigellus
potrebb'essere per nigerulus da nigeri genitivo non da niger.
Tenellus (misellus ec.) per tenerulus da teneri genitivo
non da tener ec. ec. Vedi le pp.3963.3968.3971.3987.
(19. Dec. 1823.). V. p.3994.
Diminutivi positivati. Mulet da mulus.
Nel femminino mule.
(19. Dec. 1823.)
Participio passato in senso neutro o attivo.
Avvertito per avvisato, accorto, avvertente da avvertire
in senso di por mente. Così advertido in ispagnuolo dove
credo che advertir abbia pure questo senso come tra noi.[241]
Credo ancora che avvertito nel detto senso sia preso dallo spagnuolo al
quale è più che mai proprio l'usare questi cotali participii
passati in cotali sensi attivi o neutri ec. Trovo advertido così
preso nel D. Quijote. Avisé. V. i Diz. Saputo, Saputello ec. V. la
Crus. e gli spagn. [3993]
(19.
Dec. 1823.)
Il me
semble que l'homme est plutôt fait pour agir que pour connaître. Lettres du Roi
de Prusse et de M. d'Alembert. Lettre CCXXXVII. du Roi.
(19. Dec. 1823.)
Al detto altrove sopra i diminutivi
positivati di acus, aggiungi aiguillon che grammaticalmente
è un sopraddiminutivo, e corrisponde ad aculeus diminutivo semplice.
L'uno e l'altro però differiscono dal positivo nel significato. Del
resto aiguille originariamente e materialmente è lo stesso che aculeus.
(19. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati. Poisson da piscis
per poisse.
(20. Dec. 1823.)
Alla p.3636. Notate che v'hanno in francese
molti diminutivi di questa sorta, positivati ec. non solo in eau, o in el
elle, o in et ette (noisette ec. ec.) [o] in in ine (médecin),
V. la pag.3995. capoverso 1. princip. e quivi il marg. ec. ec. ec. ma in on,[242]
ot ote, otte ec. P.e. oignon dev'essere originariamente un
diminutivo.
(20 Dec. 1823.). V. la fine del pens. seg.
Alla p.3969. fine. La diminuzione
però in olo breve, nei nomi, non par propria dell'italiano. Pur
se ne trovano assai esempi di voci che non possono esser latine, o non
v'è ragione per credere che lo siano. Zufolo, cicciolo, sdrucciolo, gomitolo,
ec. ec. Ne' verbi poi essa diminuzione è assolutamente italiana. (Dico
diminuzione, che ora è in senso diminutivo ora frequentativo ec.). Sventolare
che fa io svéntolo, tu svéntoli ec. Anzi tutti i nostri diminutivi o
frequentativi ec. in olare, mi par che sieno in ol breve. Del
resto mi pare che anche in francese la desinenza in ol [3994]
ole, oler ec. sia non di rado diminutiva o frequentativa o disprezzativa
ec. Prestolet (pretazzuolo) da prestre. Babiole ec. (20. Dec. 1823.).
V. qui sotto.
Alla p.3992. Nigellus (e così
tutti gli altri simili) è da nigri per nigrellus, come flabellum,
flagellum, lucellum da flabrum, flagrum, lucrum. Labrum-labellum, monstrum-mostellum, tenebrae-tenebellae (Claud. Mamert.). Bensì può esser che nigri
sia contrazione di nigeri, e quindi per questo rispetto fors'anche nigellus
di nigerellus, e simili. Tenellus è certamente per tenerellus,
puer per puerellus e simili, soppressa la r come in flabellum
ec.
(20. Dec. 1823.)
Alla p.3979. fine. La duplicazione del
genere di quella di (eccetto
che qui v'è un di
più) è comunissima in greco e si fa col raddoppiare la prima
sillaba della voce, cioè la prima consonante e la prima vocale qual
è, e fors'anche un'altra consonante prima o dopo essa vocale, se la
prima sillaba della voce ha più consonanti ec. Se la consonante è
aspirata, se le sostituisce nella sillaba che si aggiunge la corrispondente non
aspirata. Se la voce comincia per vocale, anche pura, si ripete la prima vocale
e la prima consonante, ancorchè questa spetti a un'altra sillaba. V. lo
Scap. in . Oppure
la o si cambia in , l' in ec. ec.
ec.
(20. Dec. 1823.)
Al pensiero ult. della pag. preced.
Massimamente poi è proprio dell'italiano la desinenza in olo ec.
breve, quando questa è frequentativa o frequentativo-diminutiva come in trottola
ec. In tali casi non ha luogo la desinenza in ólo nè in uólo
ec. [3995]
(20. Dec. 1823.). V. p.4000. fine.
Diminutivi positivati. Comignolo
quasi culminulus. V. il Gloss. ec. Colmigno o è corruzione
di culmine (che pure abbiamo, ma è voce della scrittura), o di culminulus,
o apocope di colmignolo, che fu poi corrotto in comignolo ec.
(20. Dec. 1823.). Capitulum, capitulo, capitolo, chapitre, per articolo
di scrittura ec., s'anche da principio non fu così, oggi valgono lo
stesso che caput, capo nel medesimo senso, nel quale in francese e in
ispagnuolo non sussiste più il positivo (veggansi però i
Dizionarii).
20. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati. Médecin
francese.[243]
Fiaccola quasi facula da fax. V. il Gloss. in facula
ec. e la Crus. in facella. Faccellina vuol dir quasi lo stesso che fascina.
Falcola e falcolotto (che il Monti nella Proposta condanna come voci inaudite,
ma che sono frequentissime nella Marca, come debbono essere in Toscana,
perchè la Crus. le porta senza esempio, ed hanno anche un senso proprio
che non si può totalmente confondere con quello di candela) sono
corruzioni di facula, ma non hanno precisamente il senso del positivo,
ma più ristretto, ed anche indicano cosa piccola a rispetto delle faci
di legno, come di pino ec. (v. Forc. in fax) giacchè falcola
è solo di cera.
(21. Dec. 1823.)
Alla p.3991. marg. fine. Si osservano
dagl'interpreti anche in Anacreonte le espressioni o indicazioni ec. di usanze
ec. che dimostrano l'alto grado in cui si trovava al suo tempo il lusso,
l'opulenza, la mollezza, le arti belle ec. appo gl'Ioni. (21. Dec. 1823.)
[3996]Diminutivi positivati. Menton,
mentonnière da mentum. Puoi ved. p.3993. capoverso 4.
(21. Dec. 1823.)
Al detto altrove di vermiglio ec.
aggiungi il franc. vermillon in quanto significa rosso
(propriamente e originariamente rossetto). Vedi ancora vermiller
che forse è da vermis, vermiculus.
(21. Dec. 1823.)
Al detto altrove in più luoghi di falsus
aggiungi. Falso per menzognero, finto, ingannatore, insomma per qui
fallit, laddove falsus suonerebbe passivamente qui fallitur,
detto di persona, è del latino, dell'italiano, dello spagnuolo (D. Quijote).
V. i francesi. E anche generalmente nel suo significato aggettivo ordinario,
cioè detto di cosa ec. sì falsus, sì falso
ec. ha senso attivo e viene a dire ingannante, laddove parrebbe a causa
della sua forma grammaticale passiva, ch'ei non potesse valer altro che ingannato.
(22. Dec. 1823.)
Circa potus a um aggiungi. Si dice
anche potus sum, in forma deponente come gavisus sum da gaudeo.
V. Forc. in poto ec. Vedilo anche in prandeo fin. e in pransus,
e simili.
(22. Dec. 1823.)
Circa appariculus, apparecchio ec. di
cui altrove, si osservi che non v'è alcuna necessità di crederlo
diminutivo originariamente, malgrado la sua desinenza in ulus, come pure
altrove ec.
(22. Dec. 1823.)
Diminutivi positivati. Chardon da carduus
o da cardus. Noi cardo. Cardone nella Crus. è
dell'Alamanni, forse suo francesismo al suo solito, ovvero è un
accrescitivo indicante la salvaticità della pianta, positivato ec. come
altri molti. Ma in francese al contrario è diminutivo. V. lo spagnuolo.
È da [3997]notare in proposito de' diminutivi positivati, che
anche il contrario de' diminutivi cioè gli accrescitivi si positivano
sovente nell'uso latino italiano spagnuolo francese greco ec. Così anche
i dispregiativi e altri tali generi e modificazioni di nomi, verbi ec.
peggiorativi ec. ec.
(22. Dec. 1823.)
Al detto altrove intorno all'uso dell'avv.
spagn. luego aggiungi un es. d'Ippocr. nel princ. del libello de flatibus.
Verbigrazia[244]
la fame si è un'infermità. Scioccamente la versione emendata
dal Mercuriale: Quare statim ubi fames molestat, morbus fit. E
più scioccamente quanto quel quare non può ragionevolmente
aver relazione a niuna delle cose precedenti.
(22. Dec. 1823.)
Diminutivi greci positivati. , , che alle
volte hanno un senso più circoscritto e particolare ec. che i positivi,
alle volte lo stesso. V. Scapula.
(22. Dec. 1823.)
Alla p.3992. marg. Questo medesimo vale per
gli altri poeti di quelli o de' più antichi o più moderni tempi,
i più de' quali scrivevano o sempre o spessissimo per mercede, e
commissione. Non si può dunque troppo ragionevolmente argomentare dello
stato della lingua e letteratura greca di que' tempi in ordine ai dialetti, dal
dialetto che tali poeti, massime lirici, epigrammatici, elegiaci o trenici seguono
in tali composizioni; ma bensì da quelle che si veggono essere state
fatte per iscelta e genio ec. dell'autore. Tali sembrano esser quelle di
Simonide i cui frammenti sono affatto o quasi affatto (quanto può il
linguaggio greco poetico stringersi a un dialetto ec. ec.) ionici. E per
contrario quelli che son dorici spettano evidentemente all'altro genere
sopraddetto ec.
(23. Dec. 1823.)
[3998]Alla p.3636. - o che
derivando dal latino, non hanno lo stesso significato, uso ec. che in latino ma
diverso affatto come p.e. cintola diminutivo positivato da cinta,
nome. V'è però in lat. cinctus us, e cinctum i,
onde pur noi cinto e il diminutivo (alla latina) positivato cintolo,
con cintolino ec. Forse però cinta per cinto non
è che una corruzione di questo ec. E vedi il Gloss. in cincta ec.
se ha nulla, cioè se fosse latino barbara essa medesima voce.
(24. Dec. Vigilia di Natale. 1823.)
Diminutivi greci positivati. . V. il
Lessico con tutti i suoi composti, derivati ec. (e così i composti,
derivati ec. degli altri diminutivi greci positivati, altrove notati da me). , . . Se questo
è veramente diminutivo come dice la Gramm. di Padova, non solo è
positivato, ma se ne fa un sopraddiminutivo, cioè , e notisi
anche in greco l'uso de' sopraddiminutivi ec. benchè qui una sola delle
due diminuzioni avrebbe vigore ec. Si può credere che moltissime voci
greche in , in , o in
alcuna delle tante forme diminutive usitate in questa lingua (v. il Weller),
sieno diminutivi positivati, benchè non si abbiano i positivi, o questi
non si usino ora che in senso ben diverso, e per tali e simili e qualunque
cagioni quei nomi non sieno considerati dai Gramm. per originariamente
diminutivi (p.e. , o , , ; il
derivato mostra un
posit. di ,
perchè da questo sarebbe ). V. p.4018. ec.). Così accade nel latino nelle lingue
moderne ec. E quel che dico de' nomi si può stendere all'altre voci ec.
(24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.)
Al detto altrove di gozar, aggiungi gozoso,
cioè gaudiosus, quasi gavisosus.
(24. Dec. Vigil. del Santo Natale. 1823.)
Participii passivi in senso attivo o neutro
ec. Agradecido [3999]per agradeciente, e lo trovo anche,
nel D. Quijote, per piacevole, urbano, gentile, cortese.[245]
Del resto questo participio è aggettivato e così tutti o quasi
tutti gli altri tali participii così usati ec., come mi pare aver detto
altrove, ma ciò non toglie ec. ec.
(24. Dec. 1823. Vigilia del Santo Natale)
Che amarillo, voce evidentemente
diminutiva, venga da un amaro (diverso da amargo) e questo da ? Del resto
l'esser voce diminutiva non dee far maraviglia, o che si consideri come voce
significante colore (così rossetto ec. ec. nel qual caso ella
sarebbe positivata, perchè non suona pallidetto ma pallido,
che dovea pur essere il significato di amaro), o come significante mal
essere, stato, colore ed aspetto infermiccio ec. (nel qual caso non sarebbe
positivata ec.). Del resto sì il proprio sì il metaforico di , da
qualunque de' due sensi si voglia derivare amarillo, e qualunque sia il
proprio e primitivo di questa voce, le conviene e corrisponde a maraviglia. Or
la Spagna donde avrebbe avuta mai questa voce greca? Certo, ch'io sappia, ella
non ebbe mai nè colonie greche, nè commercio co' greci ec. e la
sua posizione geografica la rese sempre per così dire ritirata, anche
anticamente, fino alla venuta de' Romani ec. ec.
(24. Dec. 1823. Vigilia del S. Natale.
1823.)
Empujar cioè impellere,
ma viene da un impulsare. V. i suoi derivati. Pousser, (pellere)
da pulsare, co' suoi derivati. Pujar e certi suoi derivati, sobrepujar
parimente, o son fatti da pousser. V. i Diz. spagn. e correggi certe
cose che ne ho dette parlando di [4000] pujanza in proposito di potens.
La qual voce pujanza ha tutt'altra origine, cred'io, nè viene, come
parrebbe a tutti, da pujar, nel modo che puissance, puissant ec.
non ha che far niente con pousser e suoi derivati. (24. Dec. Vig. di
Nat. 1823.)
A proposito della ridondanza del pronome altro
nell'italiano e nel greco, notata altrove, osservivi che altro
presso noi spesso vale semplicemente alcuna cosa, massime nella negazione, onde
senz'altro vale sovente senz'alcuna cosa, cioè senza
nulla, e altri quando si usa al modo del franc. on (e
dell'ital. l'uomo, uno, la persona, si ec.) vale alcuno, che pur
molte volte si dice ne' casi stessi. V'ha un luogo nel Petrarca Canz. Una
donna più bella, stanza 3. v.12. dove altro, ben considerando
il luogo, mi pare (e non credo che niuno fin qui l'abbia inteso) che non
significhi se non alcuna cosa, cioè, poichè sta colla
negazione virtualmente presa, nulla.
(24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.)
Diminutivi positivati. Gomitolo,
aggomitolare ec. da glomus o glomer. V. la Crus. e il
Forcell. col Gloss. ec. e osserva se glomus ec. vale lo stesso.
(24. Dec. 1823.)
Verbi frequentativi o diminutivi ec.
italiani. Penzolare e spenzolare coi derivati. Paiono però
fatti da penzolo, e questo da pendulus che non è
diminutivo. Rotolare, rotolone ec.
(24. Dec. 1823.). Penzigliare,
penzigliante. V. il pens. seg.
Alla p.3995. princ. Coccolone, o coccoloni
da coccare, penzolone o penzoloni (v. il pens. precedente), rotolone
ec. Tutte forme frequentative. E questa forma è usitatissima in cotali
avverbi in one o oni propri della nostra lingua, che equivalgono
a' gerundi [4001]de' rispettivi verbi (sieno frequentativi o diminutivi
ec. in olare o comunque, o non lo sieno punto) da cui sono formati (se
sono formati da verbo). Dunque la forma in ol breve, è ben propria
della nostra lingua, e vi è frequentativa, diminutiva ec. come in latino
ec. Ruotolo o rotolo. Coccola, coccolina. Concola (i romani concolina
sempre, per quello che noi diciamo catino da lavar le mani e il viso)
da conca. V. il Forc. e i Less. gr. dove è
diminutivo. E vedi alla pag.3636. marg. fromba diminuito in frombola,
voci l'una e l'altra, che non hanno a far col latino.[246] V.
il Gloss. Goccia e gocciola, gocciolare e gocciare, sgocciolare
ec. da gutta, del che altrove.[247] Snocciolare
da nócciolo[248]
ec.; v. la Crusca: nócciolo par che sia da nucleus che non
è diminutivo: quindi neanche snocciolare cioè enucleare.
(24. Dec. 1823.). V. p.4003.
A proposito delle divinità benefiche,
che altrove ho detto essere ed essere state venerate, inventate ec. dalle
nazioni civili, e più quanto più civili, si aggiunga che non solo
benefiche, ma graziose, amabili ec. ancorchè non benefiche, o indifferenti
ec. come tante divinità, allegorici personaggi, personificazioni di
qualità o soggetti ec. naturali, umani ec. nella mitologia greca ec. ec.
(24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.)
Delle colonie greche in Italia, Sicilia ec.
e antico commercio ec. greco in Italia, avanti il dominio de' romani, la diffusione
o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo, cioè romana
ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel volgare
latino in quelle parti, e quindi ne' volgari moderni, in quelle parti, e quindi
nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di questo
ebbe principio in Sicilia e nel [4002]regno, come mostra il Perticari
nell'Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel modo che altrove
s'è discorso delle Colonie greco-galliche, di Marsiglia ec. in rispetto
ai grecismi della lingua francese non comuni al latino noto ec.
(24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.)
J J . Menander
ap. S. Maxim. Capit. Theolog.
serm.35. fin.
(24. Dec. 1823. Vigilia del S. Natale.)
Diminutivi greci positivati. . V. lo
Scap. Il luogo d'Ippocrrate quivi cit. è nel principio del lib. de morbo
sacro: . da o da un (come da ,
diminutivo e simili), diminutivo positivato, eccetto che .
(poetico, cioè a dire antico) è forse un po' più generico.
Così forse dicasi di e . V. lo
Scapula.
(25. Dec. dì del Santo Natale. 1823.)
Dico altrove del nostro cangiar talora il cul
latino in gli, coll'es. di periglio ec. Aggiungi spiraglio
da spiraculum che anche si dice spiracolo, come pure pericolo.
(25. Dec. dì del S. Natale. 1823.)
Volere per potere, idiotismo
greco e italiano, di cui altrove. Ippocrate o chiunque sia l'autore del libro de
morbo sacro a lui attribuito, ediz. del Mercuriale Ven. 1588. opp.
d'Ippocr. classe 3. p.347. D. terza pag. del detto libello. J J J, , [4003] J, J (posset) J J J.
Cioè purgaretur et purificaretur magis quam inquinaretur, ovvero posset
purgari ec. L'J si
potrebbe facilmente ommettere risolvendo nell'ottativo colla particella i verbi infiniti che da lui pendono, e il
luogo avrebbe quasi lo stesso valore. Ma la locuzione è elegantissima.
(25. Dec. Festa del S. Natale. 1823.)
Alla p.4001. Nótisi che la desinenza in olare,
dove l'ol è breve ec., sia diminutiva, sia frequentativa ec. si
dà presso noi a moltissime voci che non hanno nè poterono avere a
far col latino. Si unisce eziandio ad altre desinenze e forme affatto italiane
e per nulla latine, come da ballonzare, formazione italiana (o toscana)
da ballare, si fa ballonzolare (anche la forma in olare sembra
essere propriamente o più particolarmente toscana che altro).
Così da pallotta pallottola, e simili. Collottola, frottola.
Viottolo, viottola (questa è veramente una diminuzione in ottolo
tutta italiana tanto è vero che l'olo breve è italiano
ec.) diminutivi di via, e molti simili ec. L'uolo poi accoppiasi in
mille modi ec. non mi par però che possa esser sopraddiminutivo (al
contrario mi par dell'olo), bensì riceverlo ec.
(25. Dec. 1823.). V. qui sotto.
Vedi il pensiero precedente, e osserva che
la formazione in olare è anche oggi, fra l'altre, al discreto
arbitrio dello scrittore, o parlatore ec. e di questo arbitrio se ne prevalgono
anche i volgari, specialmente in Toscana ec. che non conoscono il latino ec.
(25. Dec. 1823. dì del S. Natale.)
Frequentativi italiani ec. Vedi
nell'anteced. pensiero un verbo sopraffrequentativo o sopraddiminutivo ec.,
come anche altri ve ne sono, o ne possiamo formare a piacere e giudizio dello
scrittore parlatore ec.
(25. Dec. 1823.). V. la p. seg.
[4004]Diminutivi greci positivati. . V. Scap.
(25. Dec. 1823.)
Alla p. preced. - In icare, come verzicare
o verdicare (inverzicare attivo a quel che pare) per verdeggiare
ed altri molti (qua spetta dimenticare). Questa forma di frequentativi
è affatto latina. V. la p.2996. marg., ec. Ed altri molti esempi ve
n'hanno, oltre i quivi citati.[249]
Particolarmente poi s'usa nel latino appunto in fatto di colori, come quivi
altresì puoi conoscere. V. appunto nel Forc. viridicans e viridicatus.
Male dice il Forc. che viridicans è per viridans, questo
attivo e quello neutro ed equivalente affatto al nostro verzicante o verdicante
(Crus.), oltre che se viridans fosse anche neutro, non sarebbe
però, come quello, frequentativo ec. V. il Gloss. ec. (25. Dec. Festa
del S. Natale. 1823.). Così da nivo is e da nevare (ital.)
nevicare (volgarmente nevigare, e v. il Gloss.) frequentativo
alla latina, delle quali voci mi pare aver detto altrove. Morsicare; ma
non ha più il senso frequentativo ec. anzi ha quello stessissimo del
positivo mordere, sebben la Crusca lo definisce morsecchiare.
Vedila, e in morsicatura ec. Masticare. V. Forc. e il Gloss. Vedi
la p.4008. capoverso 4. fine. Mordicare co' deriv. Rampicare arrampicare
arpicare da rampare-rampante, o da rampa o da rampo.
Inerpicare, inarpicare. Luccicare, sbarbicare - lucere, sbarbare. Vedi la
pag.4019. capoverso 1. Zoppicare, impetricato, nutrico as e nutricor
di cui altrove.
Tetta tettare - J o J o J (che vale
anche nutrice ed ava: ora in questi sensi si dice anche J) coi
derivati. V. p.4007. J, J ec. per subito
ec. - a dirittura, dirittamente ec. per subito.
(26. Dec. Festa di S. Stefano. 1823.)
Usi familiari del lat. recte
conformissimi a quelli del nostro bene, franc. bien ec. (che
secondo il più comune significato di recte, vagliono lo stesso,
cioè probe ec.), veggansi nel Forc. in recte ne' due
ultimi paragrafi della seconda colonna di detto articolo.
(26. Dec. Festa di S. Stefano. 1823.)
Setola per il lat. seta,
setoloso setoluto per setosus, e v. gli altri derivati di setola,
e il Forc. in setula.
(26. Dec. 1823. Festa di S. Stefano.)
Nivitari pass. da nivo is. Gloss. Cang.
(27.
Dec. 1823. Festa di
S. Giovanni Evangelista.)
[4005]Diminutivi greci positivati. , , da
(27. Dec. 1823.)
Verbi diminutivi positivati. Ringhiare
cioè ringulare da ringere. V. i franc. e spagn. (27. Dec.
1823.). Avvinchiare, avvinghiare, succhiare, succiare (sugo is,
suggere, sucer ec.). e molti altri simili verbi italiani in ghiare e
chiare, iare ec. sono assoluti diminutivi (quasi tutti e per lo
più o tutti e sempre positivati), e diminutivi non in italiano ma in
latino donde mostrano assolutamente esser venuti, cioè da de' rispettivi
verbi in ulare, noti o ignoti. Così molti verbi spagn. in jar,
franc. in iller, ec. Così anche nomi e altre voci ec.[250]
(27. Dec. 1823.). - Possono però tali verbi ec. esser fatti anche da
nomi o latini o italiani ec. noti o ignoti, come p.e. ringhiare da ringhio
(nome usato), il quale quando anche fosse da un ringulus, questo non
sarebbe diminutivo, o da nomi che essendo diminutivi in latino, in ulus,
non lo sieno in italiano ec. (27. Dec. 1823. Festa di San Giovanni Apostolo ed
Evangelista.). Tali sono i verbi rugghiare e mugghiare, mugliare,[251]
mugolare, mugiolare, muggiolare coi derivati ec. di questi e di mugghiare,
rugghiare ec. del quale però mi ricordo aver parlato altrove e
veggasi il detto quivi.
(28. Dec. giorno degl'Innocenti. 1823.). Veggasi la pag.4008.
capoversi 4. e ultimo.
Diminutivi positivati. Vasello. V. la
Crusca, co' suoi derivati, e in Vagello co' derivati.
(28. Dec. 1823.)
Plurali italiani in a. Vasella
plur. di vasello.
(28. Dec. 1823.). Vasa plur. di vaso.
Crus. e Arios. Sat.3.
Participii passivi in senso att. o neut. ec.
Apercibido per fatto inteso, che sta sull'avviso ec. (D.
Quijote). Inteso per informato, intendente, ec. (entendido, entendu.
V. spagn. e franc.: se però in questo senso appartenesse al neut. pass. intendersi,
entenderse ec. non spetterebbe [4006]al nostro proposito.). Discreto
it. spagn. (di cui par che, almeno principalmente sia proprio) e franc. per discernente
ec.[252] V.
il Gloss. ec.
(29. Dec. 1823.)
Alla p.3955. marg. - di questo però
particolarmente. - Coltellinaio ec. ec.
(29. Dec. 1823.)
Avvisato, avisado ec. nel
senso di accorto ec. molto s'ingannerebbe chi lo credesse un significato
passivo dall'attivo di avvisare cioè avvertire ec.
(29. Dec. 1823.)
Participii passati in senso attivo o neutro,
aggettivato. V. Forc. in consultus dove non approvo il modo in ch'egli
spiega l'origine del significato attivo o neutro di questa voce, per non aver
considerato i tanti altri es. che v'hanno di tali participii così usati,
aggettivamente o no, ne' quali non ha punto luogo una simile spiegazione. In
particolare poi v'hanno esempi in significati simili a quello di consultus,
sì nel latino sì nelle lingue moderne, come cautus, avvisato,
avvertito ec. da me sparsamente notati altrove, e consideratus
attivamente nel latino e nell'italiano ec. di cui v. il Forc. la Crus. gli
spagnuoli e francesi. V. ancora i composti ec. di consultus in tal
senso, come jurisconsultus ec. e di consideratus, come inconsideratus
ec. e così degli altri tali participii.
(29. Dec. 1823.)
Appellito as, apellidar ec.
(30. Dec. 1823.)
Diminutivi greci positivati. J ec. J, (come in
lat. mamma e mammilla nello stesso senso, del che altrove), J ec. e J , quasi nutricula
ec.
(30. Dec. 1823.). Vedi la pag. seg.
capoverso 1.
Diminutivi positivati. Sencillo da sincerus.
Così pretto da purus del che altrove, nel medesimo senso,
e ambo diminutivi aggettivi il che è raro ec. Tenellus, tenellulus,
lascivulus, blandulus, misellus ec. ec. miserello ec. ec. ma
è raro che gli aggettivi diminutivi sieno positivati ec. ec. [4007]
Seggiola, seggiolo (v. i derivati sopraddiminutivi, e anche accrescitivi,
come seggiolone, fatti dal diminutivo, il che è notabile,
nè potrebbe ragionevolmente aver luogo se il diminivo non fosse
positivato, o non avesse un senso disgiunto da diminuzione ec. e in tali casi
è frequente) per sedia, seggia, seggio, sebbene hanno forse un
senso più circoscritto ec. e vedi il detto altrove del lat. sella,
e la Crusca ec.
(1. Gen. 1824.)
Alla p.4004. Dicesi anche tettola,
che la Crus. chiama espressamente diminutivo di tetta, come in lat. mamma
e mammilla nel senso stesso, e come appunto in greco J ec. e J, collo
stesso significato. Vedi la pag. anteced. fine. e 4001.
(2. Gen. 1824.)
Diminutivi positivati. Porcello ec.
V. Crus. e nota che questa positivazione è massimamente propria de'
nostri antichi e trecentisti più che del moderno linguaggio. Forc. ec.
(2. Gen. 1824.). V. Forc. in Puera, esemp.1.
Sopraddiminutivi latini. Agellulus. Asellulus ec.
(2. Gen.
1824.). Tenellulus. Vedi la p.3987.
Alle varie alterazioni de' verbi greci
quanto alla forma (sia nel tema, sia altrove ec.) senz'alterar punto il
significato, delle quali altrove, aggiungi in o , come , , ; , , ; che valgono
tutti tre lo stesso, e sono un sol verbo. Lascio poi l'alterazione sì
comune in ,
ch'è pur di tante forme, e sì di regola e proprietà
dell'uso greco ec. ec. e che parimente non muta punto il significato, che moltissime
volte ha fatto dimenticare, disusare, o anche ignorare affatto il vero tema in , che in molti verbi si congettura o si dee
congetturare, benchè espressamente non si trovi, essere stata usata ec.
(2. Gen. 1824.)
Participii passati in senso attivo o neutro
ec. Trascurato, tracutato, tracotato, straccurato ec. V. la Crus. in Tracotare,
sebbene quell'etimologia è falsissima perchè tracotare
è da cuite o cuyte, cuyter ec. provenz. ec. cuita,
cuitar ec. spagn. ant. cuidado cuidar ec. spagn. mod.
(4. Gen. 1824.)
Diminutivi greci positivati. . V. Scap.
(4. Gen. Domenica. 1824.)
[4008]Alla p.3969. Appunto hanno
anche gli spagnuoli il diminutivo in uelo, che come il nostro uolo
vale olo e viene dal latino in olus o ulus.
(5. Gen. Vigilia della Santa Epifania. 1824.)
Diminutivi greci positivati: che ha
cacciato l'uso del posit. V. Scap. . V. Scap.
(5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.)
Participi italiani in ito ed uto,
del che altrove. Apparito e apparuto (Machiav. Istor. l.7.
opp.1550. par.1. p.268. mezzo). Questo secondo però, oltre a non avere,
ch'io sappia, altra autorità che di uno scrittore molto poco diligente
nella lingua, in particolare nella Storia, dov'anche potrebb'esser fallo di
stampa, può essere da apparere (laddove il primo da apparire),
onde anche apparso, come da parere, paruto e parso. Comparere non
si trova, almeno nella Crus., bensì però comparso, oggi
assai più frequente di comparito ch'è di comparire,
da cui però non viene comparso, il quale forse è moderno e
fatto solo per analogia di apparso e parso, che sono oggi i
più usitati.
(5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.)
Verbi frequentativi ec. italiani. Sputacchiare,
stiracchiare da sputare, stirare. Questa forma in acchiare, e
in occhiare, icchiare, ecchiare, ucchiare e in ghiare ec. (v. il
pens. ult. di questa pag.) e simili, han tutte origine dal buon latino (essendo
equivalenti al lat. culare) nel quale ancora, questa forma è
diminutiva o disprezzativa o frequentativa ec., e immediatamente poi hanno
forse origine dal latino barbaro, almeno molte di tali voci, p.e. sputacchiare
da sputaculare ec. Vedi la pag.4005. capoverso 2. - Al detto altrove di crepolare,
aggiungi screpolare ec. - Sghignazzare, ghignazzare da sghignare,
ghignare. (6. Gen. Festa della S. Epifania. 1824.). Ammontare - ammonticare
(vedi la pag.4004. capoverso 2), ammonticchiare, ammonticellare. Raggruzzare
- raggruzzolare.
Al detto altrove d'inopinus, necopinus
ec. aggiungi odorus, il quale non mi sembra altro che contrazione di odoratus,
e in fatti è voce propria de' poeti come le sopraddette ec. V. Forcell.
(6. Gen.
1824.)
Quel che altrove si è detto in
più luoghi, cangiarsi nell'italiano regolarmente il cul de'
latini in chi, dicasi pur del gul in ghi ec. V. la
pag.4005. capoverso 2.
(6. Gen. 1824. dì della S. Epifania.).
V. p.4109.
[4009]Diminutivi positivati. Fragola
da fraga. V. Crus. Forc. Gloss. e franc. spagn. ec. Ugola e uvola
per uva.
(7. Gen. 1824.)
Scambio del v e del g. V. il
pensiero precedente.
(7. Gen. 1824.)
Diminutivi greci positivati. per ed . Notisi
ch'egli è antichissimo, perchè proprio di Omero. O forse
degl'ioni, massime antichi. Arriano imitatore di questi l'usa nell'Indica
29.16, 30.9. Lo Scap. non cita che Omero. È positivato anche presso
Arriano. (7. Gen. 1824.). Lo stesso discorso o dell'antichità o del
dialetto ionico, massime antico, si può fare intorno al diminutivo
positivato ,
ch'è d'Ippocrate, o di chi altro è l'autore del libro ec., e di
cui altrove. La quale osservazione unita con questa della voce , e
coll'altre che si potranno fare, può dar luogo a buone conghietture
circa l'uso de' diminutivi positivati nell'antico greco o ionico ec. (7. Gen.
1824.). . .
(7. Gen. 1824.)
Verbi frequentativi o diminutivi ec. ital. Morsecchiare,
morseggiare (coi derivati ec.) che la Crusca chiama quello diminutivo e
questo frequentativo di mordere. Aggrumolare da aggrumare che non
è della Crus., bensì aggrumato, digrumare ec.
(8. Gen. 1824.)
V aspirazione. Tardivo ital. tardío
spagn. (Cervantes D. Quij. par.1. cap.47. principio, ed. di Madrid ch'io ho.).
(8. Gen. 1824.)
Al detto altrove sopra la frase ec.
aggiungi Arriano Ind. 43. 6. ; e altre
simili frasi dello stesso genere , , (Luc.
Nigrin. opp.1.35.) ec. ec.
(8. Gen. 1824.)
Al detto altrove di juntar aggiungi ayuntar
(aggiuntare) co' derivati ec. e fors'anche coyuntar (v. i
Dizionari) e simili composti, se ve n'ha. Vedi pur la Crus. in giuntare
co' derivati ec.
(8. Gen. 1824.)
Alla p.3979. Al detto di , aggiungi
i suoi derivati, e il composto ec.
(8. Gen. 1824.)
Grecismo. Per parte mia, per la mia parte
ec. ec. V. la seconda annot. del Gronov. al Nigrino di Luciano, opp. Luc. Amst. 1687. t.1. p.1005. init.
(8. Gen. 1824.)
[4010]Participii passati in senso
attivo o neutro ec. Entendido per intendente. Cervantes D. Quij. cap.47. o 48. par.1. V. i Diz. Mirado
per mirante: mal mirado ec. V. i Diz.
(10. Gen. 1824.)
Male per non ec. di cui
altrove. V. il pensiero precedente e gli spagnuoli ec.
(10. Gen. 1824.)
Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra
loro. L'una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l'altra
dall'irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole,
incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello
in cui esso si trova ec.
(10. Gen. 1824.)
Diminutivi greci positivati. , in senso
di capo per o , (da cui
è fatto per
metatesi) o ec. V. Scap. - e per . Appo
Ateneo trovo anche nello
stesso senso per . V. Scap.
E appunto noi abbiamo bietola (onde bietolone) da beta,
diminutivo positivato, in cui luogo poeticamente si dice anche bieta,
come osserva la Crusca ec. V. il Gloss. ec. in betula, se v'è,
ec.
(10. Gen. 1824.)
Al detto altrove circa la ridondanza del
pronome e altro
appo i greci e gl'italiani in molte dizioni, e circa il significato di nulla
o nessuno ec. assoluto o virtuale ec. che ha molte fiate nel nostro
parlare il detto pronome, aggiungi le frasi non ne fece altro, non ne fate
altro e simili, dove altro sta per niente, ed aggiungi eziandio
che anche siffatto uso di questo pronome, oltre all'essere analogo alla
predetta sua ridondanza usitata e nel greco e nell'italiano, è anche
analogo a un uso particolare della voce plur. che i
greci adoprano talora per cose frivole, vane, da nulla, cioè
insomma nulla, come in un luogo di Fenice Colofonio, poeta, appresso Ateneo
l.12. p.530. F. [4011] , che il Dalechampio
traduce frivola non denuntio: bene, ma propriamente sarebbe non enim
nihil (cioè rem o res nihili) denuntio. E
certamente qua spetta quel che dice lo Scapula che appresso Euripide si spiega
per rationi non consentanea. E qua eziandio l'uso dell'avverbio per incassum,
frustra, temere ec.; (del qual uso v. lo Scapula e l'indice greco a Dione
Cassio coi luoghi quivi indicati, ad uno de' quali v'è una nota, dove si
dice che tal uso è stato illustrato, dimostrato ec. dal Perizonio ad
Ælian. ec.)[253] e
in parte ancora l'uso del medesimo avverbio ne' significati da me notati e
illustrati nelle Annotazioni all'Eusebio del Mai, e nelle postille al Fedone di
Platone sul fine ec. (10. Gen. 1824.). Presso Euripide il Tusano spiega per aberrantia
a proposito. Ben può essere che questo sia il proprio senso, e
l'origine di tal uso della voce sì
presso Euripide sì presso Fenice. Con tutto ciò non credo tal uso
alieno dal nostro proposito e dall'analogia col sopraddetto uso italiano ec.
(10. Gen. 1824.)
Diminutivi positivati. Scintilla e
suoi deriv. ec. V. l'etimolog. di scintilla nel Forcell. e nelle note al
Timone di Luciano principio, opp. ed. Amstel.
1687. t.1. p.55. not.7.
(11. Gen. Domenica. 1824.)
Al detto altrove dell'antico meno
(tema di memini) e del nostro rammentare ec. che forse ne deriva
ec. aggiungi mentio, verbale dimostrativo del supino mentum, onde
noi ec. menzionare ec. - Mentovare ec.
(11. Gen. Domenica. 1824.). V. p.4016.
Ayrarse o airarse, airado ec.
airarsi, adirarsi ec. da aggiungersi [4012]al detto altrove in
proposito dell'antico lat. iror aris. E v. il Gloss. in adirari,
irari ec. se ha nulla.
(11. Gen. Domenica. 1824.)
Non mi ricordo a qual proposito, ho detto
altrove che noi siam soliti di usare gli aggettivi singolari mascolini in forma
di avverbi. Così anche gli spagnuoli, p.e. demasiado per demasiadamente
(che credo si dica altresì), infinito (D. Quijote par.1. c.49.)
per infinitamente (che pur credo si dica) ec. Massime l'antico,
cioè il buono e vero, spagnuolo, come pur s'ha a dire circa l'italiano
in cui quest'uso è proprio più particolarmente dell'antico, e
quindi, anche oggi, familiare singolarmente ai poeti ec. Così i francesi
fort per fortement, in senso di molto (come anche noi forte
ec.). Pare però che quest'uso sia molto più frequente
nell'italiano, massime antico, buono, poetico, elegante ec. che nello spagnuolo
qualunque, e massime nel francese.
(12. Gen. 1824.)
Uso di porre i genitivi plurali, in vece de'
nominativi, col pronome alcuni, ovvero di questo pronome co' detti
genitivi, nel qual caso quest'uso verrebbe a essere ellittico. Proprissimo de'
francesi, proprio ancor sommamente degli italiani, non solo moderni e francesizzati,
come si crede, ma antichi, di tutti i tempi, ed ottimi e purissimi. Credo
ancora degli spagnuoli. Mi pare aver detto altrove come quest'uso è un
pretto grecismo. Aggiungici ora l'esempio di Luciano, Nigrin. opp. Amstel.
1687. t.1. p.34. lin.15-6. e vedi i grammatici greci dove parlano della Sintassi,
che certo denno aver qualche cosa sopra questo genere di frasi ec. (12. Gen.
1824.). Nel cit. esempio si
sopprime evidentemente il al nostro
modo e de' francesi.
(12. Gen. 1824.)[254]
Diminutivi greci positivati. da , come da .
(12. Gen. 1824.)
[4013]A proposito del detto altrove
circa il vario modo di significare la probità e bontà degli
uomini usato nelle varie nazioni e lingue e tempi, secondo le differenze de'
costumi, opinioni, caratteri, istituti e vita e costituzione loro, osserva che
come i romani dissero fringi, così i greci oltre J anche che propriamente
vale utile (e s'usa anche in questo senso ec. v. i Lessici), e per lo
contrario che
propriamente è inutile e così per l'ordinario usato, fu
anche detto per cattivo ec. (V. i Lessici, e quivi anche gli altri composti e i
derivati di ). Ed
è ben ragione, perchè l'utilità delle persone doveva esser
valutata anche dai greci sommamente, costituiti, come romani, in istato franco
ec. secondo che ho detto circa la parola frugi al suo luogo.
(12. Gennaio 1824.)
Che i perfetti in ui sien fatti da
quelli in avi o evi o ivi ancorchè ignoti, come ho
detto altrove, e ciò anche nella terza coniugazione, in cui tal
desinenza (come pur quella in ivi, o qualunqu'altra in vi),
è sempre anomala, vedi Forcell. in pono is fin. circa l'antico posivi,
apposivi ec. per posui, apposui ec.
(13. Gen. 1824.)
Al detto altrove di mescolare ec.
aggiungi rimescolare ec. e composti e derivati dell'uno e dell'altro ec.
(13. Gen. 1824.)
Digamma eolico. Levis o laevis
da , come si
osserva nelle note a Luciano opp. t.1. p.113. not.9.
(14. Gen. 1824.)
Verbi italiani frequentativi o diminutivi
ec. Abbrostire abbrostolire, abbrustolare, abbrustiare. (14. Gen.
1824.). Bezzicare.
Diminut. greci positivati. , , J, da .
(14. Gen. 1824.).
[4014] Tacendo Un gran piacer
(cioè, s'egli è taciuto), non è piacer intero. Machiavelli
Asino d'oro, Capitolo 4. verso 86-7.
(14. Gen. 1824.)
Senz'altro puntello per
senz'alcun puntello. Machiav. Asino d'oro, cap.5. v. penult. Di tal modo di
dire, altrove.
(14. Gen. 1824.)
Senz'altra (senz'alcuna) disciplina.
ibid. capitolo 8. verso 4.
(15. Gen. 1824.)
Digamma eolico. Viscum (raro Viscus)
da colla
metatesi delle lettere incluse
nel . Nóta che lo spirito
è lene, e il genere (almeno in viscum) mutato, come in -vinum
ec. Vivo da (Ь). Forcell.
e not. a Lucian. opp.1687. t.1. p.143. not.3.
(15. Gen. 1824.)
A quel che ho detto altrove, che talora il cul
latino si cangia in gli italiano (come periculum-periglio ec.) in
il francese ec. j spagnuolo ec., dicasi ancora del gul.
Vedi, se vuoi la pag.4005. capoverso 2., nel marg. al numero 1.
(15. Gen. 1824.)
Alla p.2779. lin.1. Da o ec. vorax
ec. V. lo Scapula e il Forcell. Da vivo.
V. il capoverso
(15. Gen. 1824.)
Intorno al verbo italiano rotolare
frequentativo o diminutivo ec. di rotare, (rotolone ec.) del
quale mi pare aver detto altrove, osservisi il francese rouler. Se
questo verbo co' suoi molti derivati (o anche voci originarie e anteriori ad
esso) di cui v. il Diz. e colla voce rôle e derivati (ruotolo o rotolo)
non vengono originariamente dall'italiano, come poi noi dal franc. ruolo,
arruolare ec. ne segue che la diminuzione latina in ol o ul
dovesse anche esser propria in certo modo del francese, non solo dell'italiano
come s'è dimostrato altrove, giacchè non pare che queste voci
francesi vengano immediatamente dal latino. V. però Forcell. il Gloss.
ec. Esse sono certo originariamente diminutive o frequentative ec. Rouler
è frequent. anch'oggi in certo modo ec.
(15. Gen. 1824.)
[4015]Come la preposizione sub
nella composizione spesso dinoti sursum, o sia di sotto in su,
del che ho detto altrove in proposito di sustollo ec. vedi nel Forcell.
la definizione e gli esempi di subduco, la prova che risulta dal quale
non può esser più chiara nè piena.
(16. Gen. 1824.)
Errato per errante, come andar
errato ec. V. la Crusca. E in ispagn. ir errado (Cervantes), pensamiento
errado, (ib.) ec. Fra noi però errare è per lo
più neutro, (benchè si dice errar la strada ec.) e
così credo in ispagnuolo. Il Forcell. lo chiama attivo. V. Erratus per
qui erravit appo il medesimo in erro fin. e vedilo pure esso
Forcell. in Certatus a um. (16.
Gen. 1824.). Impransus, incoenatus ec. V. il Forc. Si aggiungano al
detto altrove di pransus, coenatus ec. e così gli altri loro
composti, se ve n'ha.
(16. Gen. 1824.)
Ridondanza del pronome altro, ed , usitata
nell'italiano e nel greco, come altrove. Così otro nello
spagnuolo. Cervant. D. Quij. par.1. capit.51. Cerca de
aqui tengo mi majada, y en ella tengo fresca leche, y muy sabrosissimo queso,
con OTRAS varias y sazonadas frutas, no menos à la vista que al gusto
agradables.
(16. Gen. 1824.). Son le ult. parole del capitolo.
Al detto altrove di avvedere-avvisare
ec. aggiungi divisar spagn. (D. Quij. par.1. cap.51. e v. i Dizionari) e
nóta che noi ec. abbiamo anche divedere. E che il participio visus
da cui è avvisare, divisare ec. (se non sono da viso sost.
o da guisa-visa ec. come altrove) e così avisar, aviser
ec. è proprio solo del latino e non dell'italiano nè dello
spagnuolo[255]
nè del francese. Abbiamo bensì anche avvistare da visto,
nostro participio, o da avvisto pur nostro, se non è da vista sostantivo.
(16. Gen. 1824.). Avvistato (ch'è però in altro senso da avvistare
nella Crus.) par certo venire da vista, come svistare (uso ital.)
da esso vista o da svista ec.
(16. Gen. 1824.)
[4016]Alla p.4011. Rammentare,
ammentare ec. di cui altrove, si paragonino co' verbi latini commentari
e s'altri tali ve n'ha, da meno poi memini, o da miniscor
o da' composti di questo o quello ec.
(16. Gen. 1824.)
Nascere per avvenire,
grecismo proprio anche dell'antico latino, come in quello o fortunatam natam
cioè . V. Forcell. ec. È proprissimo dell'italiano.
Fra i mille esempi, hassi nel Guicciardini lib. 1. t. 1. p.111. ediz. di Friburgo,
1775-6. nata la perdita di S. Germano, cioè accaduta
semplicemente. E in molti altri modi e casi si usa da noi il verbo nascere
come il greco J, p.e. nella
frase di qui o da ciò o quindi nasce che ec. il,
la ec. o . V. i
franc. e gli spagn. e il Gloss. e i Less. greci.
(16. Gen. 1824.). V. per seg.
Non solo in italiano e in latino, come
altrove in più luoghi è detto, ma in ispagnuolo altresì ed
in francese adopransi spessissimo i participii, non solo aggettivamente, ma in
significazione non propria loro, e propria di aggettivi a loro propinqui o
simili, per catacresi o abusione (ch'è l'abuti verbis propinquis,
come dice Cic. ap. Forcell. in Abusio, o l'abuti verbo simili et
propinquo pro certo et proprio, come dice l'Autore ad Herenn. ibid. p.e. l'aedificare
equum di Virgilio Aen. 2. aedificare classem di Cesare, di
Luciano in Timone, opp. Amst. 1687. t.1. p.135. dove vedi la nota 6.) come honrado
per onorevole, uomo d'onore (D. Quij.), (in it. ancora onorato, e
v. i latt. e il Gloss. ec.), simile all'invictus, invitto, invicto o invito
spagn. (v. i Diz. spagn.) per invincibile, che però non
è participio, voglio dire invitto, benchè fatto da
participio.[256]
ec. ec.
(16.
Gen. 1824.)
Bisavolo ec. aggiungasi al detto
altrove di avolo, ayeul, abuelo ec. e v. ancora i francesi e gli
spagnuoli. Trisavolo, terzavolo e terzavo, quintavolo ec.
(16. Gen. 1824.)
[4017]Grecismo dell'italiano.
Lucian. Timon. opp.1687. t.1. p.77-79 J , ,
cioè in questo mezzo. Noi appunto in tanto, fra tanto, in quel
tanto, in questo tanto ec. Vedi gli spagn. e i francesi. Qui viene a
essere () . E di questo genere è
ancora la propria significazione del nostro intanto, secondo i casi, e
tale si è l'origine di questo modo di dire preso nel senso d'interea,
interim. (17. Gen. 1824.). Esempi simili al riferito di Luciano non
mancano. V. p.4022.
Alla p. anteced. capoverso 2. La frase o
fortunatam natam, sembra essere una vera imitazione del modo greco, e
così alcune di quelle dove nasci sta per initium ducere ec.
ap. il Forcell. Non così certo le nostre frasi sopraddette. E re nata,
pro re nata, queste son frasi ben e propriamente latine, (cioè non
de' soli letterati, a quel che pare), e spettano al presente proposito.
(17. Gen. 1824.)
Alla p.3176. marg. fin. Vedi la Storia del
Guicciardini, ediz. di Friburgo, lib. 1. tom.1. p.23. 27-28. 49. 55. 56. 64-5.
105-
(17.
Gen. 1824.). V. p.4025.
Esperimentato per che
ha fatto esperienza, perito. Guicciard. t.1. p.128. mezzo circa, ediz. di
Friburgo, t.2. p.240. principio. e altrove spessissimo e vedi la Crus. Esperimentato
nelle guerre, nel governo, a ec. Sperimentato ib. p.131. mezzo circa
ec.
(17. Gen. 1824.)
Sopraddiminutivi greci. --.
(18. Gen. Domenica. 1824.)
[4018]Spagn. tragar - aor. 2 , onde ec. e
fors'anche .
(18. Gen. 1824. Domenica.)
I participii passivi di verbi transitivi
usati in forma attiva, sì in lat. sì quelli massime delle lingue
moderne, s'usano per lo più (e nelle lingue moderne forse tutti) assolutamente,
o almeno senz'accusativo, insomma intransitivamente, sia che s'usino in forma
aggettiva o di participio o comunque.
(18. Gen. 1824. Domenica.)
Altro per nessuno o alcuno
o ridondante, del che altrove. Non sì ch'io speri averne altra corona.
Macchiavelli, Capitolo della ingratitudine v.7. cioè averne corona,
o averne nessuna o alcuna corona.
(18. Gen. 1824.)
Nascere per avvenire, del che
altrove non molto addietro. Dunque se spesso qualche cosa è vista
Nascere impetuosa ed importuna Che 'l petto di ciascun turba e contrista, Non
ne pigliare ammiration alcuna. (qualche tristo avvenimento). Macchiavelli
Capitolo dell'Ambitione, v.172-5.
(18. Gen. 1824. Domenica.)
Latinismi dell'ortografia italiana nel 500.
del che altrove. Macchiavelli opp. 1550. par.5. p.47. fin. adverso;
p.49. fin. admiration, e cento simili scritture.
(18. Gen. Domenica. 1824.)
Plurali in a. Urla, strida.
(18. Gen. Domenica. 1824.)
Alla p.3998. marg. fine. o catillus
(sebben l'interpretano catinus), patella, trulla, ollula (v.
Scap.) tutte voci diminutive. E forse questa voce greca è veramente
diminutivo anche per significato, ma la sua voce positiva contuttociò
non si trova, il che serve a confermare il nostro sospetto circa gli altri simili
vocaboli, che sono però di senso positivo, cioè positivati,
secondo noi. Lo stesso dico di J
diminutivo forse e di origine e di significato, ma che non trovandosene il
positivo, non si ha per tale, nè quanto alla prima nè quanto al secondo.
Luciano [4019]1.
(19. Gen. 1824.)
Diminutivi positivati. Bouillon da bulla,
bolla. (19. Gen. 1824.). Bouillonnement,
bouillonner. Bulicare è corruzione di bollicare,
dal quale abbiamo infatti bollicamento, e così bulicame
è per bollicame che non si trova, sia che queste voci vengano a
dirittura da bolla come le suddette francesi, sia da bollire (che
vien da bolla), come par voglia la Crusca, che spiega bollicamento
per leggier bollimento (sarebbe dunque diminutivo), e bulicare
per bollire, di cui sarebbe frequentativo o diminutivo o
frequentativo-diminutivo. Bulicame però non ha che far con bollire,
bensì con bolla. Eccetto pigliando bollire, per far
bolle senza fervore: v. Bollire §.4. e il Forcell. Pare però
che bulicame si dica propriamente delle acque bollenti benchè
senza fuoco. ec. (19. Gen. 1824.). Vedi la pag.4004. capoverso 2. Moisson
diminutivo positivato di messis.
(19. Gen. 1824.)
Sufrido per sofferente.
(20. Gen. 1824.)
Diminutivi positivati. Gragnuola. V.
Crus. franc. spagn. Gloss. Forc. ec. (20. Gen.
1824.).
Passava un pescivendolo, con un paniere di
pesci sul capo, vicino a un filare d'alberi che costeggiava la sua strada, e da
un ramo d'olmo che sporgeva in fuori, fugli infilzato un pesce. Piscium et summa genus haesit ulmo. Ecco rinovato questo prodigio, o dimostrato
possibile questo impossibile, di cui vedi Archiloco appo Stobeo nel capitolo
della speranza.
(20. Gen. 1824.)
[4020]Al detto altrove di metari
aggiungi immetatus.
(21. Gen. 1824.)
Della differenza naturale e artificiale del
gusto e del bello presso le varie nazioni e tempi, nelle arti, letterature,
fattezze del corpo ec. ec. vedi il primo capitolo del Saggio sull'epica poesia
del Voltaire ne' suoi opuscoli tradotti e stampati in Venezia appresso il
Milocco colla data di Londra nel 1760 (volumi 3), volume 2° principio.
(21. Gen. 1824.)
Grecismo. Soplandole, le ponìa
(cioè le hazia, lo rendeva) redondo como una pelota,
Cervantes, Prologo al Letor de la segunda parte del Don Quijote, p.3. Frase
familiare agli spagnuoli e tutta greca. Nel latino ponere per efformare
non è col doppio accusativo, cioè sostantivo o pronome ec. e
aggettivo, e non equivale a rendere, far divenire, benchè spetti
a questo genere di significazione ed uso del greco J, e del
resto è una frase tolta a dirittura dal greco e imitata, laddove la spagnuola
è volgare e non è certo imitata dal greco.
(21. Gen. 1824.)
Diminutivi positivati greci. per . Nóta
ch'è proprio di Omero e di Esiodo (antichissimo cioè, o ionico,
come altrove) da' quali, al suo solito, lo piglia Luciano nel Prometheus
sive Caucasus, opp. 1687. Amstelodami, t.1. p.183. e de Sacrificiis
p.363.
(21. Gen. 1824.)
Diminutivi positivati. V. Forcell. in Spatha,
spatula, spathalium, lo Scap. in J, J, J ec. la
Crus. in spatola, spazzola ec. il Gloss. i franc. gli spagn.
(21. Gen. 1824.)
A proposito di fusa lat. ho notato
altrove il plur. loci e loca e simili. Da in plur. et apud
poetas per metaplasmum, dice lo Scapula. E così altri plurali assai,
greci, o doppi (sia neutri e masc. sia fem. e masc. ec.) o diversi dal genere
del sing. ec. de' quali v. i grammatici. (21. Gen. 1824.). Loca in lat.
dal sing. locus, è anche de' prosatori.
[4021] per che
ha gli déi nemici, del che altrove. Luciano de Sacrificiis. t.1.
p.362. init.
(21. Gen. 1824.)
Figliuolo per figlio,
diminutivo o vezzeggiativo positivato, di cui altrove. Credo anche in greco si
dica talora senza
intenzione nè di diminuire nè di vezzeggiare.
(21. Gen. 1824.)
Desapercebido per isprovvisto,
imprudens. Cervant. D. Quij. par.2. cap.1. p.4. ed. di Madrid. V. il detto
altrove di apercebido. E simili altri participii s'intenda che hanno
tali significazioni anche coll'aggiunta del des ec. privativo in ispagnuolo,
dell'in ec. in italiano ec. ec.
(22. Gen. 1824.)
Rinnovellare, innovellare, renouveler,
renovello, lat. (v. gli spagn.) ec. diminutivi positivati; si
aggiungano al detto altrove di novellus ec.
(22. Gen. 1824.)
Quanto allo stile e al bene scrivere,
immensa fatica è bisogno per saper fare, ed ottenuto questo, non meno grande
si richiede sempre per fare. E tanto è lungi che il saper fare tolga la
fatica del fare, che anzi quanto quello è maggiore, con maggior fatica
si compone, perchè tanto meglio si vuol fare e si fa, il che costa tanto
di più a proporzione. Così nelle arti belle e in altre faccende
d'ingegno ec. (23. Gen. 1824.). Non così riguardo all'invenzione
sì nello scrivere sì nelle arti. ec. ec.
Fora plurale di foro (foramen).
(23. Gen. 1824.)
Piacere della vita. Una statua, una pittura
ec. con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito,
ancorchè non bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce
subito gli occhi a se, ancorchè in una galleria d'altre mille, e ci diletta,
almeno a prima vista, più che tutte queste altre, s'elle sono di atto
riposato ec., sieno pure perfettissime. E in parità di perfezione,
quella, anche in seguito, ci diletta più di queste. [4022]Così
non la pensa la Staël nella Corinna dove pretende che sia debito e proprio
della pittura e scultura il riposo delle figure, ma s'inganna, testimonio
l'esperienza. ec. ec.
(24. Gen. 1824.)
Alla p.4017. (intanto)
ec. Luciano
in Necyomantia. t.1. p.331.
(25. Gen. Domenica. 1824.)
Composti spagnuoli. Cariredondo
(facciatonda). D. Quij. par.2. cap.3. principio.
(25. Gen. Domenica. 1824.)
Bobo spagn. co' derivati
aggiungasi, se v'ha punto che fare, al detto altrove di baubari ec.
(26. Gen. 1824.)
I participii passivi di verbi attivi o
neutri usati nelle lingue moderne in senso att. o neutro, sono quelli per lo
più o tutti e questi molte volte nell'italiano, e massime nello spagn.
ec. di senso non passato, ma presente o significante abitudine di quella tal
cosa che è significata dal verbo. Così bien hablado (D.
Quij. par.2. cap.7. principio) per buen hablador ec. Così errato,
errado per errante, di cui altrove. Sudato per sudante
ec. Così pesado per pesante. Così tanti altri
participii neutri, massime spagnuoli, che per questa qualità di
significazione presente o indicante abitudine ec. meritano di esser
considerati, giacchè i participii passivi di verbi neutri in
significazione passata, come caduto, morto ec. sono regolari e ordinarissimi
e infiniti sì nello spagnuolo che nell'italiano e francese ec. (26. Gen.
1824.), come dico altrove.
Al detto altrove di excito, suscito
ec. in più luoghi, aggiungi nel Forc. Procitant e Procitare.
(26. Gen. 1824.)
Sopraddiminut. franc. Feuilleton
(fogliettino).
(27. Gen. 1824.)
Verbi frequentativi o diminutivi o
frequentativi-diminutivi o diminutivi positivati, italiani. Rinfocolare,
rinfocolamento, da rinfocare ec.
(27. Gen. 1824.)
[4023]Diceva il tale che da
giovanetto quando da principio entrò nel mondo aveva proposto di non mai
adulare, ma che presto se n'era rimosso, perchè essendo stato più
tempo senza lodar mai nessuna persona e nessuna cosa, e vedendo che non
troverebbe nulla a lodare se voleva durare nel suo proposito, temette disimparare
per difetto d'esercizio quella parte della rettorica che tratta dell'encomiastica,
la qual cosa, come fresco ch'egli era allora di studi, gli era a cuore che non
succedesse, premendogli di conservarsi coll'esercizio le cose che aveva recentemente
imparate.
(27. Gen. 1824.)
Alla osservazione del Mai sopra il modo in
cui ne' codici è scritto il gn indicante esser più vera la
pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l'italiana,
osservisi, oltre il detto altrove, che molte voci latine o dal latino venute
che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ,
cioè pronunziansi gn all'italiana, come parmi aver detto altrove
coll'esempio di cuñado (cognatus), a cui si può
aggiungere leña (ligna) femin. eccetto se tali voci non
son prese in ispagnuolo dall'italiano o dal francese piuttosto che dal latino a
dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p.e. noi appunto diciamo legna
femmin. nel senso spagnuolo, ed è voce propria nostra (lignum si
dice in ispagnuolo altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois
ec.) e cuñado sta nel senso italiano per fratello o sorella della
moglie o del marito ec. Ed è a notare che la maggior parte forse delle
voci spagnuole derivanti dal latino e che in latino hanno il gn, si
scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come digno, ignorante,
magnifico (però tamaño e quamaño ec.)
ec. ovvero n semplice per ellissi della n, che indica l'antica
pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e non all'italiana. [4024]
(28. Gen. 1824.). Señal co' derivati ec. è
dal latino o dall'italiano?
Frequentativo o diminut. positivato ec. Modulor
da modus, se già questo e gli altri simili, come nidulor
di cui altrove, non sono di formazione in ul non diminutiva, come iaculus,
speculum ec. da cui iaculor, speculor ec. ma modulor sarebbe
a dirittura da modus, del che non so altro esempio, se modulor
è non diminutivo, e così nidulor ec., e se sono da un modulus,
nidulus ec. (v. Forcell.) in tal caso sono diminutivi positivati, o
frequentativi piuttosto.
(29. Gen. 1824.)
I nostri viaggiatori hanno raccolto un
dizionario delle loro parole (degli esquimesi popolo verso la
Groenlandia, il meno stupido di tutti i selvaggi del Nord), che son
più di 500. Quanto ai numeri le loro cognizioni sono molto limitate.
Notizia del secondo viaggio (1821-3.) e ritorno del Cap. Parry, estratta dalla
gazzetta letteraria di Londra del 25. Ott. e dell'1. Nov. 1824. nell'Antologia
di Firenze. num.36. p.120.
(29. Gen. 1824.)
Dice per dicono, ovvero
per un dice (on cioè un dit), l'uom dice, alcun
dice (come hanno buoni autori nello stesso senso), altri dice, la
persona dice (Passavanti usa la persona in questo senso), la
gente dice (buoni autori) si dice;[257]
nel qual caso ella sarebbe un'ellissi, come anche in greco ec. per , sarebbe
ellissi di ec. del che altrove.
Cervantes nel D. Quijote par.1. cap.50. ed. d'Amberes o Anversa 1697. p.584.
tom.1. lin.4. avanti il fine, dove si legge dizen, la mia edizione di
Madrid ha dice.
(30. Gen. 1824.). V. p.4026.
Al detto altrove di despertar
aggiungi che gli spagnuoli hanno anche l'agg. despierto cioè experrectus.
(31. Gen. 1824.)
Gli uomini di natura, costume, o circostanza
ed occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e
compatire, [4025]e i malinconici in contrario, o certo meno. Di
ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo.
(31. Gen. 1824.)
Qual cosa più snaturata che il non
allattare le madri i propri figliuoli? Ma egli è certo per mille
esperienze che le donne civilmente nutrite di radissimo possono sostenere senza
gran detrimento della salute loro, e pericolo eziandio della vita, il travaglio
dell'allattare. Il che è lo stesso quanto a loro che se fossero
impotenti a generare. E questo costume è antichissimo (a quel che
credo), sin da quando incominciarono le donne nobili o benestanti a far vita
sedentaria e non faticata. Raccolgasene se lo stato civile convenga all'uomo.
(1. Feb. 1824.)
Abbraciare, bragia, brage, brace ec. co'
derivati (e v. i franc. spagn. Forc. Gloss.) aggiungansi al detto altrove in
proposito delle lettere br usitate nelle nostre lingue nelle voci
significanti arsione ec.
(2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.)
Alla p.4017. V. pure il Guicc. l.3. p.271.
sopra Massimiliano Imp. in cui quel voler fare l'impresa degl'Infedeli pare fosse
un semplice pretesto, e mostra che questo pretesto o discorso qualunque era
allora e in simili tempi uno degli spedienti della politica, o diplomatica, un
luogo comune, usitato e valevole con tutte le corti o potentati cristiani e con
tutti i popoli cristiani.
(2. Feb. Festa della Purificazione di Maria
SS. 1824.). V. p.4044.
Altro per niuno ec. come
altrove. Guicc. 1. 274. ed. di Friburgo lib.3. senza cercare altra risposta
per senza più cercare la risposta.
(2. Feb. Festa della Purificazione di Maria
SS. 1824.)
Divisato per déguisé, del che
altrove. V. la Crusca in dissimigliato, esempio primo. (2. Feb. Festa
della Purificazione di Maria Santissima. 1824.). Divisar per vedere,
discernere, scorgere cogli occhi. D. Quij.
[4026]Alla p.4024. Del resto anche , aiunt,
dicen, dicono, narrano, vogliono, credono ec. ec. è un'assoluta
ellissi degli stessi nomi o pronomi sopraddetti, o d'altri simili, o diversi,
fatti plurali.
(3. Feb. 1824.)
in modo
simile allo spagn. luego, del che altrove. V. Plat. in Phaedro, opp. ed.
Astii t.1. p.144. E.
(4. Feb. 1824.)
Diminutivi positivati. Gergo-jargon.
V. gli spagn. ec.
(7. Feb. 1824.)
Nascere per J, di che
altrove. V. Guicciardini, ed. Friburgo t.1. p.339. lin.5. a fine.
(7. Feb. 1824.)
Altro per niuno, del che
altrove. V. il med. ib. p.340. lin.13. (7. Feb. 1824.). E notisi il nostro uso
del pronome altri sing. nel significato di cui v. la pag.4024. capoverso
3., significato che spetta a questo proposito, e talora è anche de' francesi,
i quali dicono per es. (credo in linguaggio familiare o burlesco) comme dit
l'autre, parlando, v.g., d'un proverbio ec., cioè comme on dit.
V. i Diz. franc. e spagn.
(9. Feb. 1824.)
La eccessiva potenza di attenzione è
al tempo stesso e per se medesima, potenza di distrazione, perchè ogni
oggetto vi rapisce facilmente e potentemente la attenzione distogliendola dagli
altri, e l'attenzione si divide; sicchè è anche, per se medesima,
impotenza o difficoltà di attenzione, e facilità di attenzione,
cose contrarie dirittamente a lei, onde sembra impossibile ch'ella sia insieme
l'uno e l'altro, ma il troppo è sempre padre del nulla o volge al suo
contrario, come altrove. Quindi principalmente nasce la incapacità di
attenzione ne' fanciulli ec. ec.
(9. Feb. 1824.)
Dico altrove[258]
che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di necessità ne'
secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione l'ordine e
l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente [4027]pronunziato,
non risultava più o niuna, o certo non la stessa armonia di prima.
Aggiungi che anche indipendentemente da questo, gli scrittori, ed anche i poeti
greci de' secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri
ne' tempi di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia
diversa per se ed assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi,
cioè sonante, alta, sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli
esperti si ravvisa a prima vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti
greci di detti secoli, anche de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati
sugli antichi, imitatori, ec. Tanto che questo numero, diverso dall'antico e
della qualità predetta, che quasi in tutti, più o meno, e
più o men frequente, vi si ravvisa, è un certo e de' principali e
più appariscenti segni, almeno a un vero intendente, per discernere
gl'imitatori e più recenti, che spesso sono del resto curiosissimamente
conformi agli antichi, da' classici originali e de' buoni tempi della greca
letteratura. Ora il diverso gusto nell'armonia e numero di prosa e verso (nel
quale aggiungi i nuovi metri, occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia
della lingua) contribuì non poco ad alterare, anche negli scrittori
diligenti ed archeomani i costrutti e l'ordine della lingua, come era necessario,
e come si vede, guardandovi sottilmente, per es. in Longino, perchè vi
trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si conosce
ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe
risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi
dell'alterazione cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa
causa di corruzione è da porsi fra quelle che produssero e producono
universalmente l'alterazione e corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte
(o quasi tutte) i secoli di gusto falso e declinato pigliarono un numero
conforme al descritto di sopra e diverso da quello de' loro antichi. Si [4028]conosce
a prima vista, e indubbiamente, (almen da un intendente ed esercitato) per la
differenza e per la detta qualità del numero, un secentista da un
cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche conforme in
tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il
restante, pecca moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o
apparente, come dico altrove) del numero, alla quale subito si riconosce il suo
stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè
astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e
ai concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto
studiati, e tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del
numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cicerone e di Livio? non
che di Cesare, e de' più antichi e semplici, che Cicerone nell'Oratore
dice mancar tutti del numero, s'intende del colto, perchè senza un
numero non possono essere. V. p. seg. Che dirò di Lucano, dell'autore
del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or
questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una
delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì
latina e italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e
quindi alla frase e frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si
dovettero depravar le semplici parole per servire al numero, e grattar
l'orecchio avido di nuovi e spiccati suoni, o sformando le vecchie, o
inducendone delle nuove e strane, o componendone, come in greco, o troncandole
come tra noi (l'uso de' troncamenti è singolarmente proprio del
Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi), avendo
riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella
composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto altrove su
d'alcuni sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso (conflitto)
delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.). (Riferiscasi ancora a questo proposito
per quanto gli può toccare, il detto altrove sul vario gusto de' greci,
lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso, l'abbondanza ec. delle
vocali). Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto [a] [4029]migliaia
d'altri tali, e scrivente per piacere a essi, nel centro della lingua pel tempo
e pel luogo, fiorente la lingua e la letteratura, nel suo gran colmo ec. ec.
che cosa doveva accadere ne' secoli bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la
più parte, com'era allora non greci di patria, ma dell'Asia, e questa
anche alta, non la minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori,
come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.?
(10. Feb. 1824.)
Alla p. preced. marg. In verità ed
essi, e i greci ripresi da Cicerone ibid. di mancar di numero, che sono molti e
classici, e i nostri trecentisti, e i cinquecentisti, (la più parte non
numerosi, e tutti, [salvo lo Speroni, in ciò affettato e falso, ma
diversamente da' posteri,] poco solleciti del numero) hanno pure un numero benchè
incolto più o meno, e casuale, pur proprio e certo e riconoscibile, o
loro, o della lingua ec. e da questo è diverso quello degl'inferiori
corrotti ec. ec.
(10. Feb. 1824.). V. p.4034.
Grecismo. Colla – e coi
derivati e composti della voce ital. e della greca. E vedi Forc. Gloss. i
franc. gli spagn. Potrebbe però essere stata tolta questa voce a
dirittura dal greco, anche ne' bassi tempi, se si considera come assolutamente
tecnica, ma ella è in verità, almeno oggi, di volgarissimo uso,
come ciò che ella significa.
(11. Feb. 1824.)
Plurali in a. Mantella plur.
di mantello. (11. Feb. 1824.). Peccata. Uscia. (Machiavelli
par.5. p.151.).
Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare o abbarbicarsi.
Al detto altrove sopra i nostri verbi in icare, fatti da verbi originali
usati o no, o pur da nomi ec. (11. Feb. 1824.). Barbare-barbicare.
Diminutivi greci positivati. Vedi svmtion per sÇma senza
niuna causa di diminuzione, in Apollon. Dysc. Mirabil. c.3. ed appresso altri,
e v. lo Scapula.
(11. Feb. 1824.)
[4030] Claquer-claqueter che
l'Alberti chiama frequentativo di quello. Crier-criailler, della qual
sorta di verbi dico altrove.
(12. Feb. 1824.)
Diminutivi positivati. Clientolo.
Maillet-mail, maglio, malleus. Che la et in francese ne' verbi e ne'
nomi sia per se diminutivo o frequentativo ec. come la ett in italiano
vedesi per lo pensiero precedente e per mille altri esempi ec.
(13. Feb. 1824.)
Nascere per accadere. ec. Se
altro di meglio non nasce. Machiav. Clitia
At.5. sc.2. fine.
(13. Feb. 1824.)
Altro per nulla o alcuna
cosa ec. V. il pens. preced. e le molte nostre frasi simili.
(13. Feb. 1824.)
Faventia-Faenza. (14.
Feb. 1824.). Faentini (Guicc. 1. 418. 419. ec. Faventini, come in
lat.). Fayence per Faenza e per una città di Francia, lat.
Faventia.
Immutatus, immixtus
affermativi e negativi. Al detto altrove in proposito d'intentatus.
(14. Feb. 1824.)
Raddoppiamenti greci, del che altrove. , , , , ec. ec.
(14. Feb. 1824.)
Cangiamento del cul lat. in chi
ital. Bernoccolo (voce affatto italiana, v. però il Gloss. e i
vari dizionari) co' suoi derivati bernocchio che vale lo stesso.
(15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.)
Diminutivi greci positivati. . V.
Luciano in principio dell'Erodoto, dove pare che sia positivato, e lo Scapula
ec. se v'ha nulla a proposito.
(15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.)
Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il
dialetto ionico (a proposito del detto altrove), a quanto osservo nella nota
del Palmerio al principio dell'Herodotus sive Aetion di Luciano.
(15. Febbraio. 1824.)
[4031]Certo le condizioni sociali e
i governi e ogni sorta di circostanze della vita influiscono sommamente e
modificano il carattere e i costumi delle varie nazioni, anche contro quello
che porterebbe il rispettivo loro clima e l'altre circostanze naturali, ma in
tal caso quello stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco
contrario al clima, o poco esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si
vede che i principali caratteri o costumi nazionali, anche quando paiono non
aver niente a fare col clima, o ne derivano, o quando anche non ne derivino, e
vengano da cagioni affatto diverse, pur corrispondono mirabilmente alla
qualità d'esso clima o dell'altre condizioni naturali d'essa nazione o
popolo o cittadinanza ec. Per es. io non dirò che il modo della vita
sociale rispetto alla conversazione e all'altre infinite cose che da questa dipendono
o sono influite, proceda assolutamente e sia determinato nelle varie nazioni
d'Europa dal loro clima, ma certo ne' vari modi tenuti da ciascuna, e propri di
ciascuna quasi fin da quando furono ridotte a precisa civiltà e distinta
forma nazionale, ovvero da più o men tempo, si scopre una curiosissima
conformità generale col rispettivo clima in generale considerato. Il
clima d'Italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle lor
parti più meridionali. Ora queste nazioni non hanno conversazione
affatto, nè se ne dilettano: e quel poco che ve n'è in Italia,
è nella sua parte più settentrionale, in Lombardia, dove certo si
conversa assai più che in Toscana, a Napoli, nel Marchegiano, in
Romagna, dove si villeggia [4032]e si fanno tuttodì partite di
piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia
assaissimo, ma non si conversa; in Roma ec. Il clima d'Inghilterra e di
Germania chiude gli uomini in casa propria, quindi è loro nazionale e
caratteristica la vita domestica, con tutte l'altre infinite qualità di
carattere e di costume e di opinione, che nascono o sono modificate da tale
abitudine. Pur vi si conversa più assai che in Italia e Spagna (che son
l'eccesso contrario alla conversazione) perchè il clima è per
tale sua natura meno nemico alla conversazione, poichè obbligandoli a
vivere il più del tempo sotto tetto e privandoli de' piaceri della
natura, ispira loro il desiderio di stare insieme, per supplire a quelli, e
riparare al vôto del tempo ec. Il clima della Francia ch'è il centro
della conversazione, e la cui vita e carattere e costumi e opinioni è
tutto conversazione, tiene appunto il mezzo tra quelli d'Italia e Spagna, Inghilterra
e Germania, non vietando il sortire, e il trasferirsi da luogo a luogo, e
rendendo aggradevole il soggiornare al coperto: siccome la vita d'Inghilterra e
Germania tiene appunto il mezzo, massime in quest'ultimi tempi, per rispetto
alla conversazione, tra la vita d'Italia e Spagna e quella di Francia, e
così il carattere ec. che ne dipende. E già in mille altre cose
la Francia, siccome il suo clima, tiene il mezzo fra' meridionali e
settentrionali, del che altrove in più luoghi. Non parlo delle meno
estrinseche e più spirituali influenze del clima sulla complessione e
abitudine del corpo e dello spirito, anche fin dalla nascita, che pur grandissimamente
[4033]contribuiscono a cagionare e determinare la varietà che si
vede nella vita delle nazioni, popolazioni, individui tutti partecipi (come son
oggi) di una stessa sorta di civiltà, circa il genio e l'uso della
conversazione.
(15. Feb. 1824.)
¢Æ¢ÜÝêèJ, J , J, . Lucian.
pro lapsu inter salutandum. opp. t.1. 502. Amstel. 1687.
(16. Feb. 1824.)
Appartiene al detto altrove sopra lo spagn. luego
ec. la frase J , e la
corrispondente lat. statim ab initio o a principio ec. e quella
di Luciano, loc. sup. cit. p.498. J e J, e simili
che puoi cercare nel Forcell. Scap. ec.
(16. Feb. 1824.)
Fiorito, fleuri ec. per fiorente,
come età fiorita cioè che fiorisce, floret.
(16. Feb. 1824.)
Giuntare per truffare ec.
viene da iungo-iunctum come juntar spagn. in altro senso, poichè
anche giungere si usa per giuntare che in questo senso, tutto
italiano, n'è un continuativo. Pur da iungere viene aggiuntare
per giuntare (Machiav. Mandrag. at.3. sc.9. la Crus. ha il verbale aggiuntatore),
come il nostro volgare aggiuntare e lo spagn. ayuntar ec. in
altro senso. E v. il Gloss. Giunto per giunteria. Crus.
(17. Feb. 1824.)
[4034] Imprenta, imprentare ec. impronta,
improntare ec. quasi imprimita, imprimitare da imprimitum,
supino regolare inusitato, per impressum.
(17. Feb. 1824.)
J per o
piuttosto per , del che
altrove. V. Plat. de Rep. 4. opp. ed.
Ast. t.4. p.200. B.
(18. Febbraio. 1824.)
Diminutivi positivati. Compagnon.
(20. Feb. 1824.)
Bequeter (beccare) frequentativo o
diminutivo. Gresset Ver-vert, Chant premier.
(20. Feb. 1824.). Feuilleter.
Diminutivi positivati. Avorton, menton
mentonnière ec.
(20. Feb. 1824.). Flacon-fiasco.
, (Lucian.
in Harmonide ad. fin.) E massime in quanto, o in quanto che. Grecismo
dell'italiano in questa e molte simili nostre frasi.
(21. Feb. 1824.). V. franc. e spagn. ec.
Alla p.4029. Il numero o suono del periodo
de' trecentisti è un tale proprio loro, e ben diverso generalmente da
quello de' Cinquecentisti; e così non solo tutte le lingue, ma ciascun
secolo di esse, anche quelli in cui non si coltiva il numero, hanno un periodo
loro proprio quanto al suono, e diverso da quello degli altri secoli, anzi
tanto più proprio loro e più diverso dagli altri, quanto il
numero v'è meno studiato, perchè l'arte, sempre la stessa, induce
conformità, onde due secoli studiosi del numero, ancorchè
distanti, possono facilmente rassomigliarsi insieme, più che gli altri:
quando infatti veggiamo anche tra diverse lingue tal somiglianza, come tra
greco e latino e tra latino e italiano negli scrittori che sono studiosi [4035]del
numero.
(21. Feb. 1824.)
Diminutivi positivati. Vallon, coteau,
costola ec.
(21. Feb. 1824.). Rayon, pavot.
Genitivo plurale in vece dell'accusativo col
pronome alcuni o alcuno del che altrove. Luciano in Scytha, opp.
1687. t. I. p.598. init.
cioè ex meis orationibus o doctrinis, il qual luogo
è bene interpretato dal Grevio nella fine del tomo, il quale è da
vedere.
(22. Feb. Domenica. 1824.)
Grecismo dell'italiano. Se non quanto
o in quanto o quanto che, o in quanto che . V.
Luciano loc. cit. qui sopra, ad fin. p.599. e lo Scapula ec. e i franc. e
spagn. ec.
(22. Feb. 1824. Domenica.)
, o si fa
derivare da occhio
. V. Scap.
e Menag. ad Laert. in Timon. IX. 111. Consento che venga da , ma non
che ci abbia a fare il , formazione
d'altronde molto inverisimile. Io credo che sia lo
stesso affatto che in
origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito, benchè lene,
all'uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli usavano il digamma,
ossia il v latino (e quindi i latini il v) in vece anche dello spirito lene,
nel principio delle parole. Veggasi il detto altrove di ch'io
credo essere venuto da un o . Da occhio la
metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse,
come diciamo noi, occhiolino ec. onde sarebbe
quasi far l'occhiolino, in senso però di deridere ec. La metafora
è naturale, perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà
la derisione risiede e si esprime cogli occhi principalmente e molte volte con
essi unicamente.
(22. Febbraio 1824. Domenica di Sessagesima.)
fuorchè
l'orecchie. Luciano opp. 1687. p.580. ad fin. t.1. Di quest'uso del greco conforme all'italiano fuori,
fuorchè, infuori ec. e al francese hors, hormis ec. e allo
spagn. fuera, fuera de que (oltre di che) ec. (anche in greco s'usa, mi
pare, o simil
voce per oltre. V. lo Scap. e il Forcell. ec.) dico altrove, se ben mi ricordo.
(22. Feb. Domenica di Sessagesima. 1824.)
[4036] Accortare, scortare. Al detto
altrove di curto as. (23. Feb. 1824.). Accorciare, scorciare ec.
co' derivati ec. non sono che corruzioni, e vengono pur da curtare.
(23. Feb. 1824.)
Capter, Cattare ec. Al
detto altrove di captare.
(25. Feb. 1824.). Riscattare, rescatar
ec. catar, di cui altrove, è forse da captare?
Faventini, del che altrove. Guicc.
t.2. p.34-36.
(25. Feb. 1824.)
Rilevato per che rileva,
cioè pesa, cioè importa. Nardi spesso nella Vita
del Giacomini.
(25. Feb. 1824.).
Al detto altrove di suppeditare
aggiungi che nel D. Quij. par.2. cap. 18. fine, io trovo supeditar per calpestare.
(28. Feb. 1824.)
L'uso della sinizesi da me altrove in
moltissimi luoghi distesamente notato ne' latini e dimostrata volgare fra loro
e familiare ec. osservisi essere un'altra delle conformità del volgar
latino colle nostre lingue, in cui essa sinizesi non è pur volgare, ma
regolare ec. ec.
(28. Feb. 1824.)
Diminutivi positivati. Struzzo-struzzolo.
(28. Feb. 1824.)
Verbi frequentativi o diminutivi ital. Balzare
balzellare.
(28. Feb. 1824.)
Pelle per donna ec. nostro
modo osceno. V. il Forc. in Scortum e in Pellex ec. e la Crus. se
ha nulla.
(28. Feb. 1824.)
per
ridondante come in italiano, del qual modo italiano corrispondente anche ad un
altro analogo modo greco, ho detto altrove in più luoghi. Luciano nel
fine del libretto (se
però è suo): J; per J. E questo
luogo dimostra l'origine di questa frase ed uso del pronome altri
o altro,
sì quanto al greco, sì quanto all'italiano. Perocchè viene
propriamente a dire: J;
così senz'altro val propriamente senz'altro fuor della cosa
medesima o delle cose di cui si parla. Vedi il detto da me
lungamente circa la frase sulla
fine del Fedone, nelle mie note sopra Platone. E vedi anche il contesto del
cit. luogo di Luciano.
(28. Feb. 1824.). V. la p. seg.
[4037]J . Luciano
opp. 1687. t.1. p.861: del che altrove.
(28. Febbraio. 1824.)
Alla p. preced. Qua spetta quel luogo del
Guicc. lib.6. t.2. ed. Friburgo p.74. Ai Veneziani non pareva piccola grazia
se non fossero molestati dagli altri. Cioè semplicemente non
fossero molestati. Quel dagli altri ha relazione ai Veneziani
medesimi, e vale insomma da nessuno, cioè infine ridonda affatto. Questo
modo è ordinarissimo massime nel dir familiare.[259] E
così credo che sia anche in greco e in latino[260] ed
altresì in francese e spagnuolo le quali due lingue si osservino ancora
circa gli altri modi notati di sopra ed altrove a questo proposito ec.
(29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.)
Halo ai avi atum - halitans, alitare (verbo e
sostantivo ossia infinito sostantivato), haleter. V. gli Spagn. e il
Gloss. ec. (29. Feb. 1824.)
Lino linis, livi, et lini, et levi, litum per linitum.
Osservisi questo verbo quanto alla sua coniugazione che mi par faccia a
proposito d'altri miei pensieri. Ed osservisi ancora insieme con esso il suo
compagno linio is ivi linitum, coi composti ec. dell'uno e dell'altro.
(29. Feb. 1824.). Alo alis alui alitum
altum alere.
Osado o ossado per che
osa, ardito per che ardisce (aggettivati), hardi ec. atrevido
per quien se atreve presente, anch'esso aggettivato: e simili.
(29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.)
Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli
altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi
per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo
sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di
acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del
proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da
questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli
sprezzanti fanno al contrario [4038]per la contraria cagione,
cioè per aver poca cura e poco concetto di se, o desiderio della stima
degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per
natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e
facilmente, o rischiano di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca
cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille
scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo
menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e
ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente
offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per
soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e
infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che
per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche
conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla,
eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di
coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e
inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor proprio, dov'esso riporta
tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per
più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili
e immaginose, le quali restano sovente fanciulle anche in età matura, e
vecchia, sì quanto a molte altre cose, sì quanto a questa della
timidità nel consorzio umano, che in esse è sempre difficile a
vincere più assai che negli altri, e in alcune è assolutamente
invincibile, come fu in Rousseau. La cagione si è l'eccesso dell'amor
proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell'animo; ed insieme
la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta in loro,
nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato
affatto di partorire alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente, [4039]secondo
la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo,
mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e
virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un'invincibile e irrepugnabile
timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non
son tali se non per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e
infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell'anima
(oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilità, della
squisitezza dell'ingegno, della natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè
in essa l'amor proprio essendo eccessivo e però tanto più
bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui e temendo la disistima
molto più che gli altri non fanno, e impedito di conseguire e costretto
ad incontrare quelli che gli altri con molto minor desiderio e bisogno conseguono
facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto minor tema, e che quando
nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero molto meno afflitti e
infelicitati, per la minore vivacità e sensibilità dell'amor
proprio, ed anche della immaginazione, la quale a quegli altri accresce
eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e finzioni la grandezza
delle perdite fatte, di quello che essi desiderano naturalmente di conseguire,
di quello che non ottengono, dei mali successi incontrati nella società,
delle , che anche
bene spesso non son vere affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e
non esistono se non nell'idea di questi tali, e così anche i buoni
successi o gli oggetti che essi si propongono di conseguire che spessissimo
sono vani e immaginari, e da niuno ottenuti nè possibili ad ottenere ec.
ec.
(1. Marzo. penultimo dì di Carnevale. 1824.)
Ciò che ho detto dell'immaginazione,
dico [4040]dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche quando
sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, dispiaceri, punture ec. anzi minore
assai che non è negli altri, e quasi al tutto agghiacciato, addormentato
e spento, è sempre in verità vivissimo assai più che negli
altri anche giovani e principianti, caldissimo, e ancora in istato da esser
chiamato tenerezza di se stesso (come suol essere nella gioventù)
benchè sia in loro più negativo che positivo, più atto a
impedire che a cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale
egli è proporzionatamente anche ne' primi anni di questi tali.
(3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.)
Infundo infusus-infuser.
(3. Marzo. 1824.).
Diminutivi positivati. Lucerta-lucertola,
lucertolone.
(3. Marzo. 1824.). Lacerta-lacertola.
, , .
Alterazione di desinenza collo stesso significato, del che altrove.
(3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.)
Diminutivi positivati. Fou-follet. V.
i Diz. franc. in questa voce, e nóta che questo è un aggettivo. Noi pure
folletto benchè per lo più sostantivato per la soppressione
del nome spirito. E questa nostra voce (come fors'anche folle)
par che venga dal francese o dal provenzale. Del resto v. la Crus. in folletto
esem.2. e §.2. e gli spagnuoli.
(3. Marzo. dì delle S. Ceneri. 1824.)
Spiare-spieggiare. (3.
Marzo, dì delle S. Ceneri. 1824.). Scoppiare, scoppiata
sustantivo - scoppiettare, scoppiettata, scoppiettio.
(4. Marzo. 1824.). Incrociare-incrocicchiare, croce-crocicchio ec.
Al detto altrove di o ec.
aggiungi. Si dice anche assolutamente
(fors'anche )
sottintendendosi il o , in senso
di ec. come
appunto in italiano per poco. Plat. in
Phaedro ec.
(4. Marzo 1824.)
Inadvertido, inavveduto, desconocido per sconoscente,
malaccorto e [4041]simili si aggiungano al detto altrove circa i
participii avveduto ec. aggettivati ec. Condolido per condolente,
participio vero e non in senso d'aggettivo. D. Quij. par.2 cap.21. avanti il
mezzo.
(4. Marzo 1824.)
Senz'altro patto per senza
niun patto. Guicc. l.7. ed. Friburgo t. 2. p.124. principio. ed aggiunge assolutamente
ch'è l'interpretazione espressa dell'anzidette parole.
(5. Marzo 1824.)
L'ulus de' lat. si cambia
ordinariamente dagl'italiani in io (così l'ulum, e in ia
l'ula), raddoppiando la consonante che lo precede, se ella in latino
è pura, come oculus-occhio, nebula-nebbia ec.; se impura non si
raddoppia, come masculus-maschio ec.
(5. Marzo 1824.)
Vischio, succhio sost. e
molti simili, sembrano esser tutti diminutivi positivati, fatti nel modo detto
nel pensiero precedente, e però venuti certo dal latino e probabilmente
stati usati nel volgar latino in luogo de' loro positivi succus, viscum
o viscus ec. ec. (5. Marzo 1824.). Così ho detto altrove de'
nostri verbi in iare ec.
Tomber-tombolare, tombolata ec. (5.
Marzo 1824.). Di tali verbi italiani, oltre diminutivi frequentativi
vezzeggiativi ec. alcuni, anzi forse, almeno in molti casi, non pochi, sono
disprezzativi.
(6. Marzo 1824.)
Al detto altrove di apparecchiare,
aparejar ec. aggiungi sparecchiare e simili composti ec. ital.
spagn. e franc.
(6. Marzo. 1824.)
Diminutivi greci positivati. -
diminutivo assolutamente positivato, e proprio, a quel che sembra, di Omero,
(sopra il che altrove) benchè si trovi anche in Senof. nel Cineg. dove
bisogna però vedere se è veramente positivato, o se essendo, non
è preso da Omero.
(6. Marzo. 1824.)
Gli uomini sarebbono felici se non avessero
cercato e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi
sarebbero ricchi e felici (di felicità nazionale) se il governo, anche
con ottima e sincera intenzione, non cercasse [4042]di farli tali, usando
a questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga
si è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p.e. nel commercio
ch'è più prospero quanto è più libero, e men se ne
impaccia il governo. Similmente dicasi de' filosofi ec. Del resto la vita umana
è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i
filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano
più far la natura.
(7. Marzo. prima Domenica di Quaresima. 1824.)
Altro per nessuno o ridondante.
Guicc. t.2. ed. Friburgo p.144. lin. penult.
(7. Marzo. I. Domenica di Quaresima. 1824.)
J ec.
Questa forma è propria del greco, ed usasi eziandio con molti altri
avverbi o significanti il med. che J, o
d'altro significato, come , (i quali
ricevono anche il participio presente, secondo la natura del loro significato,
ed altri participii, oltre i passati) ec. ed è chiamata, se non erro,
propria degli attici (benchè si trova anche in autori anteriori, per dir
così, all'atticismo, come in Anacr. od. 33. J od. 55 J ec.) - subito
nato, dopo nato, appena nato ec. né à peine (vix natus)
ec. despues de nacido ec. V. i Diz. franc. e spagn. e il Forcell. negli
avv. corrispondenti a subito, dopo ec. simul ec.
(8. Marzo. 1824.)
Indigesto per indigeribile o difficile
a digerire. - Indigesto per che non ha digerito o che non
digerisce.
(8. Marzo. 1824.)
J-minuo,
forse l'uno e l'altro da , alterato
nel greco colla interposizione del J, (cosa usata), conservato purissimo in
latino, eziandio ne' composti: della qual conservazione dell'antichità
appo i latini più che appo i greci, dico diffusamente altrove.
(8. Marzo 1824.)
[4043]-argi-v-us. Orazio e
Ovidio alla greca comune, argeus, l'uno in un luogo, e l'altro in un
altro. Così da , oltre achaeus,
achivus che forse è più proprio latino e più volgare,
e achaeus sarà solamente letterario, come anche argeus
senza fallo; e forse altri simili.
(8. Marzo. 1824.)
Nè la occupazione nè il
divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno.
Nondimeno è certo che l'uomo occupato o divertito comunque, è
manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione
alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto
superiori gli uni agli altri nel godimento e nel piacere, ch'è l'unico
bene dell'uomo? Ciò vuol dire che la vita è per se stessa un
male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce meno, e passa, in
apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o
divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono
però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono
più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per maggioranza
di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità
(apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male
particolare. Il sentir meno la vita, e l'abbreviarne l'apparenza è il
sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d'infelicità,
che l'uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e
l'annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male
nè dolore particolare, (anzi l'idea e la natura della noia esclude la
presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente
sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all'individuo, ed occupantelo.
Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno,
sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o
un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec.
(8. Marzo. 1824.). V. p.4074.
[4044]Forse diminutivo positivato: (spelaeum).
V. i Less.
(9. Marzo. 1824.)
Alla p.4025. Vedilo pure tom.2. lib.7. p.18.
l.8. p.219. analoghi a' quali v'ha diversi altri luoghi nello stesso autore.
(9. Marzo. 1824.). V. qui sotto.
Menare, portare, tirare ec. pel
naso - nello
stesso senso. Lucian. Dial. Deor., Iov. et Iunon. t.1. opp. 1687. p.196. V. i
Less. e la Crus. e il Forcell. e i francesi e gli spagnuoli (9. Marzo. 1824.).
Nóta che Luciano lo usa come proverbio o modo di dire vulgato, colla voce .
- lae-v-us.
(9. Marzo 1824.). - scae-v-us.
Al detto altrove dei verbali in bilis
in ilis ec. ec. si aggiungano quelli formati da essi in ilitas,
bilitas, e altri generi, siano del buono o del barbaro latino o delle
lingue moderne, sia che i verbali da cui essi sono formati sieno individualmente
noti o ignoti ec. ec., sia pure che tali nomi sostantivi verbali, derivino
immediatamente dai verbi, e in tal caso bisogna vedere da che voce dei verbi e
in che modo, secondo i rispettivi generi d'essi verbali.
(10. Marzo. 1824.)
Al capoverso 2. di questa pagina. Anche
nella lega di Cambrai contro i Veneziani fu presa per pretesto, o maggior coonestazione,
secondo l'uso di quelli e de' passati tempi, il voler far guerra contro i
Turchi. V. il Guicc. t.2. p.180. e quivi le note, e p.186. sulla fine. Ed
è notabile in questo caso tanto più questo pretesto, quanto per
distruggere i Veneziani allegavano la necessità di farlo a volere opprimere
i Turchi, de' quali i Veneziani erano i maggiori nemici, e quelli che avevano
avuti seco maggiori guerre (come pur n'ebbero appresso), e fatti loro e riportatine
maggiori danni. (10. Marzo. 1824.). V. p.4073.
Non ne fece altro per non
ne fece nulla; non se ne fece altro; non se ne farà, se ne fa altro;
modi consueti del nostro favellare. Non volle farne altro cioè nulla:
nelle note al Guicciard. t.2. p.183.191.363.
(10. Marzo. 1824.)
In tutta l'Europa (massime in Italia, dove
tutti gli assurdi e gl'inconvenienti sociali sono maggiori che altrove) non
reca infamia l'essere [4045]o essere stato vizioso, nè l'aver
commesso delitti (massime trattandosi di alcuni tali vizi e delitti, certi dei
quali, anche atroci, fanno piuttosto onore, stima, e rispetto, che altro); ma
bensì l'essere o l'essere stato punito di qualsivoglia vizio o misfatto,
anzi pure della virtù o di azioni virtuose e degne di lode e di premio.[261] Negli
Stati Uniti d'America l'opinione pubblica non attacca veruna infamia alla
punizione, e il colpevole che è stato punito e rientra nella
società, v'è tanto più esente da obbrobrio che l'impunito
che in essa si aggira, quanto che 1. si considera ch'egli ha espiato colla pena
subita il suo fallo, e riparato e data soddisfazione del torto fatto alla
società, e pagato il debito contratto seco lei: 2. si giudica, come in
fatti ordinariamente succede, che la pena, la quale colà si considera e
si chiama penitenza (le prigioni si chiamano case di penitenza), e le cure che
nel tempo di essa espressamente si usano per curare con rimedi sì fisici
che morali il morale del colpevole, abbiano corretto e riformato il suo carattere,
i suoi costumi, le sue inclinazioni, i suoi principii, e ridottolo alla buona
strada, con che e di diritto e di fatto e di opinione egli torna intieramente a
paro e a livello degli altri cittadini o forestieri. Vedi il racconto sulle
prigioni di Nuova York nell'Antologia di Firenze num. 37. Gen. 1824. e in
particolare la pag.54.
(11. Marzo. 1824.)
J -J possono
essere esempi o di accrescimenti o di troncamenti fatti da' greci ai loro temi
senz'alterazione di significato. Così p. J, o quella
sia la radice, o un troncamento, del che altrove.
(12. Marzo 1824.)
[4046] Acertado per que
acierta o que suele acertar, tanto di persona, quanto di cosa. D.
Quij. par.2. cap.25. verso il fine, cap.26. un poco sotto il principio. ec.
(12. Marzo. 1824.)
J per ec. del
che altrove. V. Luciano opp. 1687. tom.1. p.222. linea
(12. Marzo. 1824.)
Il nostro pronome si, massime nel dir
toscano, spessissimo ridonda per grazia e proprietà di lingua e per
idiotismo, contro le leggi grammaticali delle favelle. Così fra' latini
il pronome sibi (a cui risponde il nostro si, che ne' detti casi
non so se tutti, è dativo, come in se n'andò e simili),
massime appo gli antichi, e questi, comici, onde siffatto uso dovette esser
proprio del dir volgare o familiare. V. il Forcell. in Sui.
(13. Marzo. 1824.). V. qui sotto.
Essere in se (être en soi
ec. V. i Diz. franc. e spagn.). - V. Luciano
nel Dial. di Nettuno e Polifemo, opp.1687. t.1. p.241. fine. Così esso
ed altri sovente. Il Forcellini non ha nulla in proposito, nè in Sui,
nè in Sum.
(13. Marzo. 1824.)
Carra plur. di carro.
(14. Marzo. 2.a Domenica di Quaresima. 1824.)
Necessitado per que
necessita, cioè ha menester, e si unisce anche col genitivo,
come il suo verbo. D. Quij. in più luoghi. Quanto ad errado, di
cui altrove, notisi che in ispagnuolo si dice anche errarse. D. Quij.
par.2. cap.27. se havia errado (avea sbagliato).
(14. Marzo. 1824.)
Al capoverso 3. di questa pag. Dubito che
anche in franc. e in ispagn. anche più vi sieno usi simili. V. per
esempio il fine del pensiero preced.
(14. Marzo. 1824.)
I nostri nomi diminutivi o disprezzativi ec.
in acchio ecchio ec. e i verbi diminutivi o frequentativi o
disprezzativi ec. in acchiare ecchiare ec. sono di una forma espressamente
originata dal latino, cioè dalla forma diminutiva o frequentativa [4047]ec.
in culus e culare. Lo stesso dico de' nomi e verbi francesi
diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in ail aille ailler iller
eiller (sommeiller) ec. de' quali altrove. E credo che anche lo
spagn. in illo o illar ec. venga da essa forma latina (come periglio
péril ec. da periculum, del che in più luoghi) più
tosto che da quella in illus illare ec.
(15. Marzo. 1824.)
Alle altre barbarie umane da me altrove
notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame che fu pure ed è
comunissima in Oriente (per non dir altro) e non fu solo propria de' barbari ma
di tutta una nazione così civile come la greca, e per tanto tempo
(lasciando i romani), e sì propria che sempre che i greci scrivono
d'amore in verso o in prosa, intendono (eccetto ben rade volte) di parlar di
questo siffatto, voluto fino ridurre in sentimentale da Platone massimamente,
nel Convivio e più nel Fedro, e altrove, e da Senofonte poi nel
Convivio. E Saffo con tanta tenerezza canta la sua innamorata. Quanto noccia
questo infame vizio alla società ed alla moltiplicazione del genere
umano, è manifesto ec. ec. Aggiungansi similmente gli spettacoli de'
gladiatori, e l'altre barbarie romane ec. ec.
(15. Marzo. 1824.)
Diminutivi greci positivati. Luciano nel
Dialogo di Doride e di Teti dice prima e poi
indifferentemente parlando della medesima arca , e poi di
nuovo ed , e
così anche nel Dial. di un Tritone e delle Nereidi parlando
della stessa arca. V. i Lessici ec. Ciò mostra che il significato di
questo diminutivo e di questo positivo era conforme, o che anche in greco si
usava elegantemente il diminutivo pel positivo o a piacere, o come catacresi o
enallage ec., o comunque. Luciano non usa qui il diminutivo se non per variare
o per grazia ed eleganza semplicemente senz'altra cagione, e senz'alcuna
diversità di significato dal positivo che insieme adopera. (15. Marzo.
1824.)
[4048]Duplicazioni greche. -, , , ec. Si
chiamano modi attici, ma sono anche (con certe mutazioni, salvo però il
raddoppiamento) anche degli Joni, dei Dori ec. V. lo Schrevel. e lo Scap.
nell'indice delle voci de' verbi anomali a' piè del Lessico, ec.
(15. Marzo 1824.)
Prolato as in senso di differire
ec. da profero che ha pur questo senso. V. Forcell. in Prolato,
Prolatatio, Prolatatus.
(16. Marzo 1824.)
Luciano nel Dialogo di Menippo Amfiloco e
Trofonio. M. (lego ut contextus
expetit) ; . . J J J. . J , , J, . Rechisi
al detto altrove sopra l'opinione degli antichi circa i semidei, segno
dell'alto concetto che avevano della natura umana.
(16. Marzo 1824.)
Diminutivi greci positivati. -, se
questo non è disprezzativo più di quello.
(20. Marzo 1824.)
Alterazioni de' temi greci, senza mutazione
di significato. (coi
composti), i quali verbi originariamente (come anche poi in parte) dovettero
significare ed essere onninamente gli stessi che . V. i
Lessici. E così si potrà di molti altri tali verbi alterati, che
ora di senso differiscono alquanto dal primo tema, o hanno una significazione
più determinata, o due ec. mentre quello ne ha di più, o
viceversa, ec. ec. ma che in origine forse valsero nè più
nè meno altrettanto che esso.
(20. Marzo. 1824.)
Una nuova prova dell'antica tradizione, di
cui altrove, che la popolazione del mondo, o certo quella d'Europa, venisse
dall'Asia, si deduce dalla favola (o storia) che l'Europa pigliasse il nome da
una donna d'Asia così chiamata. V. il sogno d'Europa nel 2do
idillio di Mosco ec.
(20. Marzo. 1824.). V. ancora i mitologi e
critici ec.
[4049] forse da
principio fu un diminut. di positivo ora ignoto.
(20. Marzo. 1824.)
Troia per scrofa, del che
altrove. In franc. truye o truie. Mi ricordo ancora aver trovato
nella seconda parte del D. Quij. la voce troya, che mi parve dovere aver
questo o simile significato, benchè usata, in tal supposizione, metaforicamente.
(20. Marzo. 1824.)
Fante per uomo adulto con
tutti i suoi derivati e diminutivi ec. (tra' quali è fancello per
fanciullo che n'è forse una corruzione, onde fanciullo
sarebbe propriamente piccolo uomo, seppur non è corruzione d'infanticello,
che non credo; e così dicasi degli altri diminutivi di fante)
opposto d'infante, è proprio non solo de' nostri antichi, (v. la
Crus.) ma eziandio del volgare e familiar moderno, in cui resta ancora per
proverbio lesto fante (il che si trova anche nell'Alberti.). Or questa
voce e questo suo significato è certamente affatto latino, poichè
fante non è che il partic. fans di for faris, verbo
che non si trova nelle lingue moderne, e non dovette neppure esser proprio de'
bassi tempi. Oltre ch'egli è l'opposto d'infans cioè non
parlante (), e
significa parlante, e perciò solo ha forza e ragione di
significare uomo. E nondimeno essa voce non si trova in tal senso negli
scrittori latini, se non solamente in senso molto analogo, in un luogo di
Plauto, il quale può anche servire a dimostrar l'antichità di
questa voce in siffatto senso e come opposta d'infante. Anche in tutti
gli altri suoi sensi essa non è che metafora, o ec. di quel di uomo;
p.e. fante per soldato pedone val propriamente uomo
(così si dice mille uomini, mille bommes ec. per mille
soldati; uomini d'arme, cioè soldati grevi a cavallo ec. ec. gente
o genti per esercito; gente a piè, d'arme ec. gendarmes
ec. ec.). I francesi fantassin, dall'italiano fantaccino
ch'è un diminutivo o disprezzativo positivato. Infanterie non
sembra che una corruzione di fanteria. V. gli spagn. Così dico
del significato di servo o serva, divenuto pur proprio di fante,
nel qual senso ne deriva fantesca ec. V. ancor qui gli spagnuoli ec. V.
pure il Gloss. e l'articolo di Foscolo sopra l'Odissea [4050]di
Pindemonte negli Annali di Scienze e Lettere di Milano 1810.
(21. Marzo. Domenica. 1824.)
Diminutivi positivati. Taurus-taureau.
Fante-fantaccino (forse anche disprezzativo in origine) onde fantassin,
cioè fante. V. il pensiero precedente.
(21. Marzo. 1824.)
Dell'antiche opinioni circa i semidei e gli
eroi, delle quali altrove, vedi ancora il Dialogo di Diogene ed Ercole ne'
Dial. de' morti di Luciano.
(21. Marzo. 1824.)
J , J , . ucian. in Dial. mort. Dial. Diog. et Herculis. Di questo italianismo del greco dico altrove.
(21. Marzo. 1824.). V. p.4054. Vedilo ancora
in Reviviscent. opp. 1687. t.1. p.393.
o J-J. Qui
l'alterazione non solo è nella desinenza, ma eziandio nella omissione
dell', onde J per J dal fut. J donde si
fanno questi verbi in , secondo
il Weller.
(21. Marzo. 1824.)
Delle cause della universalità della
lingua francese, vedi Voltaire delle Lingue, nelle sue opere scelte
Londra (Venezia) a spese del Milocco, tomi
(21. Marzo. 1824.)
Come anticamente i francesi pronunziassero
conforme scrivevano e in parte scrivono, vedi il cit. luogo del Voltaire
p.139-140.
(21. Marzo. 1824.)
Povertà di parole nella lingua
francese appetto all'italiana. V. il cit. tomo di Voltaire p.207. nella nota,
numero 3.
(21 Marzo. 1824.)
Della superiorità della lingua latina
sulla greca per certe parti e qualità, del che ho detto in proposito dei
continuativi di cui i greci mancano, cioè non ne hanno un genere
determinato, si può dire lo stesso [4051]rispetto agl'incoativi,
di cui i greci non hanno un genere e forma così determinata e assegnata
come i latini, sebbene si servono molto spesso, a significar l'incoazione, di
verbi in fatti da
quelli che significano l'azione o passione positiva, o aggiungono a' temi in , ec. il facendone , ec. Ma queste forme non sono
così precisamente determinate alla significazione incoativa,
perchè infiniti verbi così formati ne hanno tutt'altra, infiniti
significano lo stesso che il primo tema (del che altrove, sebben forse in
origine potranno avere avuto diverso senso), infiniti non hanno altro tema, almen
noto, e non significano cosa incoativa ec. sia che questi e i sopraddetti abbiano
perduta col tempo siffatta significazione, e confusala ec. sia che mai non
l'abbiano avuta, il che, di moltissimi almeno, è certo, perchè
molte volte la desinenza in o è frequentativa. Anche de'
frequentativi determinati ec. mancano i greci, mentre gli hanno non solo i
latini ma gl'italiani (e moltissimi generi, come pure in latino ve n'è
più d'uno), i francesi ec. Mancano ancora de' verbi disprezzativi, vezzeggiativi
ec. ec. che i latini e gl'italiani ec. hanno, e più d'un genere.
(21. Marzo. 1824.)
Molti di quelli che io chiamo diminutivi
positivati, si potranno chiamare in vece disprezzativi o vezzeggiativi o frequentativi
ec. positivati, sì verbi che nomi, sì sostantivi che aggettivi
ec. Ma chiamarli generalmente diminutivi non è da potersi riprendere,
perchè tali sono propriamente tutti, e la diminuzione è il mezzo
con cui essi significano disprezzo, vezzeggiamento ec. secondo che ella
è applicata ed intesa.
(21. Marzo 1824.)
Imperfezione dell'ortografia italiana ne'
passati secoli. È noto che [4052]i manoscritti originali anche
de' più dotti uomini de' migliori secoli, e in particolare e nominatamente
quelli dell'Ariosto e del Tasso, che son pur tanto ripieni di correzioni,
presentano una stortissima e scorrettissima ortografia, con errori tali che
oggi non commetterebbe il più imperito scrivano o fanciullo
principiante, e una stessa voce v'è scritta ora con una ora con altra
ora con altra ortografia. (21. Marzo. Domenica terza di Quaresima. 1824.)
La ricchezza e varietà e potenza e
fecondità della lingua italiana non solo s'ha a considerare nella copia
de' suoi vocaboli e modi e nella gran facoltà di formarne, ma eziandio
nella gran moltitudine e varietà di tipi per così dire o coni che
ella ha per poter formare voci e modi di uno stesso genere di significazione.
(formati già moltissimi, e da potersene formar con giudizio, sempre che
si voglia e bisogni). Servano di esempio le tante desinenze frequentative o
diminutive o disprezzative ec. de' verbi, da me annoverate altrove. Le tante
diminutive de' nomi ec. ec. Nella quale abbondanza di coni la lingua nostra
vince d'assai, non che le lingue sorelle, ma la latina e la greca, e forse
qualunque lingua del mondo antica o moderna. Nè questa abbondanza
produce confusione nè indeterminazione, perchè detti coni sebbene
sommamente moltiplici in ciascun genere, sono però di qualità e
di valore ben determinato ed applicato e appropriato al suo genere di significazione.
(21. Marzo. 1824.)
, - , , ,
diminutivi positivati in certe significazioni. V. lo Scapula.
(22. Marzo. 1824.)
Diminutivi positivati. Limon, limoneux-limus.
(23. Marzo. 1824.). V. la p. seg. capoverso 1.
Lixi-v-ia, lixi-v-ium - lexia o legia
spagn.
(23. Marzo. 1824.)
Tomber, tumbar spagn.
co' derivati e composti ec. - tombolare coi medesimi.
(23. Marzo. 1824.)
[4053] Tomba da , del che
altrove. Spagn. tumba, franc. tombeau, ch'è
originariamente lo stesso, cioè ne è un diminutivo positivato
come tanti altri. (23. Marzo. 1824.). I francesi hanno anche tombe ant.
e poet. ed ora con un significato alquanto diverso. V. i Diz. V. p.4076.
Venire per essere a modo di
verbo ausiliare, congiunto co' participii passivi degli altri verbi, s'usa non
solo in italiano, anche antico, del che mi pare aver detto altrove, ma anche in
ispagn., forse a imitazione dell'italiano. Vedi D. Quij. par.2. (la qual parte
è straordinariamente sparsa di manifestissimi italianismi, più
assai che la prima ec.) cap.32. ed. Madrid 1765. tomo 3. p.370.
(23. Marzo. 1824.)
La galanteria degli antichi italiani
può esser dimostrata dall'etimologia del nome generico di donna,
etimologia che in nessun'altra lingua cred'io, nè moderna nè
antica si troverà nel corrispondente nome.
(24. Marzo. Vigilia della SS. Annunziata. 1824.). V. p.4067.
Al detto altrove di sencillo
diminutivo positivato, aggiungi sencillamente, e considerinsi siffatti
avverbi anche negli altri nomi ec.
(24. Marzo. 1824.)
Origliare, origliere da auricula.
Nuova prova del cangiarsi spesso il cul de' latini in gli
italiano benchè per auricula noi diciamo orecchia, non oreglia,
come i francesi. (25. Marzo. dì della SS. Annunziata 1824.). Diciamo
anche, ed oggi meglio, orecchiare.
Speculum-speglio antico e
poetico.
(26. Marzo. 1824.)
Discursos entretenidos per entretenientes,
cioè di trattenimento, di passatempo. D. Quij.
(26. Marzo. ultimo Venerdì. 1824.)
Continuo per continuamente. D.
Quij. Nome aggettivo in luogo d'avverbio, del che altrove.
(26. Marzo. 1824.)
Participii in us di verbi neutri. Licitus,
licitum est o fuit dall'impersonale licet, come gavisus
e gavisus sum dal personale gaudeo. Vedi il Forc. in Licitus,
licet ebat, liceor, liceo, licito avverbio fatto da questo participio, ec.
(27. Marzo. 1824.)
[4054]Alla p.4050. Noi diciamo eccetto
se non, se pure non, se però non, fuorchè se o se non,
quando non, salvo se non ec. E queste frasi e la greca rispondono alla
latina nisi o nisi si. Il non sì nel greco che
nell'italiano vi sta fuor di ragione e per comun proprietà d'ambe le
lingue.
(28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.)
Ri-v-us, ri-u-o - ri-g-agnolo ec. - rio
ital. e spagn.
(28. Marzo. 1824.)
Diminutivi positivati Rivus - ruisseau
e ruscello che sono in parte e sovente positivati. Ascia lat. ascia
e asce ital. hâche franc. ec. - accetta quasi ascetta,
spesso positivato ec. perchè s'usa promiscuamente ascia e accetta,
l'uno in cambio dell'altro, benchè forse abbiano differenza di
significato proprio, che non ebbero però in origine, eccetto quanto alla
diminuzione.
(28. Marzo. 1824.)
Dormido per dormiente
(fors'anche durmido). Voz algo dormida. D. Quij. E in altre
maniere. Se però dormir non è anche neut. pass.
(28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima.
1824.)
Diminutivi greci positivati. . Luciano
in Reviviscent. t.1. opp. 1687. p.418. Notisi in proposito di questo e altri
diminutivi positivati di Luciano, da me altrove segnati, che Luciano usa il
linguaggio in gran parte familiare. Nel detto luogo si parla del muro
dell'acropoli o cittadella di Atene. In due di Omero (Odiss. V. 165.343) si unisce
con . Parrebbe
ridicolo l'interpretarlo parvus murus, come fa lo Scapula, e sembrerebbe
che non si potesse trovar luogo dove fosse più evidente la positivazione
di voci diminutive greche. Nondimeno (oltre che v'ha varietà di lezione,
o dubbio degli eruditi sulla voce , almeno
nel primo di questi luoghi, come rilevo dall'Indice delle voci omeriche), si
potrà forse dire che è
detto da Omero a differenza dei muri di città, e simili, detti [4055]
,
poichè egli quivi parla dei muri di un cortile, e che si riferisca
alla grandezza di que' muri in quanto muri di cortile. Non per tanto il luogo
di Luciano e altri di Tucidide appo lo Scap. mostrano che si diceva
anche de' muri di città fortezza ec. (moenia), e possono servire a
illustrare quelli d'Omero, confermar la lezione, (massime il luogo di Luciano
che è evidente), e provando che quivi sta
semplicemente per ,
benchè unito con , aggiungere
una insigne prova alla mia opinione circa la positivazione di molti diminutivi
greci, in particolare nel dir poetico, o piuttosto antico o ionico ec.
(28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima.
1824.)
menar
pel naso proverbio greco conforme all'italiano, del che altrove, con un
luogo di Luciano, ove vi si aggiunge il . Aggiungi
lo stesso Luciano in Reviviscentibus opp. 1687. t.1. p.396. V. il Forcell. i Lessici
e gli scrittori di adagi e proverbi ec.
(29. Marzo. 1824.). Lucian. ib. 556. 560.
Plurali in a. Martella. Crusca in Asce.
(29. Marzo. 1824.)
Diminutivi positivati. Lens-lenticula
(lente, lenticchia ec.).
(31. Marzo. 1824.)
Dita plur. di dito. Nota
che il corrispondente nome latino non è neutro ma mascolino.
(1. Aprile. 1824.). Nocca, Uova.
Come in italiano l'uomo per on
franc., per si ec., del che altrove, così anche in ispagn. el
hombre nel modo stesso. D. Quij. par.2. cap.40. ed. Madrid. 1765. tomo 3.
p.446.
(1. Apr. 1824.)
La lingua spagnuola è già
conformissima all'italiana per indole (oltre all'estrinseco) quanto possa esser
lingua a lingua. Ma più conforme sarebbe, se ella fosse stata egualmente
coltivata, formata e perfezionata, cioè avesse avuto ugual numero e
varietà e capacità di [4056]scrittori che ebbe l'italiana.
Dalla piega che ella prese effettivamente si raccoglie che quando avesse
progredito, la forma e l'indole che avrebbe avuta in uno stato di perfezione
non sarebbe stata punto diversa dall'italiana, alla quale per conseguenza la
lingua spagnuola sarebbe stata tanta più conforme che ora per la maggior
conformità di grado e di perfezione, perchè ora la maggiore, anzi
forse unica differenza che passi tra il genio o piuttosto la forma intrinseca
di queste due lingue, si è che l'una è molto meno formata e
perfezionata dell'altra, e anche men ricca, il che con la copia degli scrittori
e delle materie non sarebbe stato.
(1. Aprile. 1824.)
Moveo - moto, motito.
(1. Aprile. 1824.)
Cessatus partic. di cesso
verbo neutro. V. Forc. in Cessatus e in particolare il secondo es.
paragonandolo col secondo §. di Cesso.
(3. Aprile 1824.)
Al detto di acquistare in proposito
di quisto, quaesitus ec. aggiungi lo spagn. aquistar. D. Quij. V.
i Dizionari.
(4. Aprile. Domenica di Passione. Nevica. 1824.)
Grandissima, e forse la maggior prova e
segno del progresso che ha fatto negli ultimi tempi lo spirito e il sapere
umano in generale e le scienze fisiche in particolare, è che per ispazio
di quasi un secolo e mezzo, quanto ha dalla pubblicazione de' Principii
matematici di filosofia naturale a' dì nostri (1687), non è sorto
sistema alcuno di fisica che sia prevaluto a quello di Newton, o quasi niun
altro sistema di fisica assolutamente, almeno che abbia pur bilanciato nella
opinione per un momento quello di Newton, benchè questo sia tutt'altro
che certo [4057]e perfetto, anzi riconosciuto ben difettoso in molte
parti, oltre alla insufficienza generale de' suoi principii per ispiegare
veramente a fondo i fenomeni naturali. Nondimeno i fisici e filosofi moderni,
anche spento il primo calor della fama e della scuola e partito di Newton, si sono
contentati e contentansi di questo sistema, servendosene in quanto ipotesi
opportuna e comoda nelle parti e occasioni de' loro studi che hanno bisogno, o
alle quali è utile una ipotesi. Ciò nasce e dimostra che gli
spiriti e nella fisica e nell'altre scienze e in ogni ricerca del vero e in
ogni andamento dell'intelletto si sono volti all'esame fondato dei particolari
(senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e
alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all'immaginazione,
all'incerto, allo splendido, ai generali arbitrarii, tanto del gusto de' secoli
antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e
si spegnevano, e succedevansi e distruggeansi l'un l'altro.
(4. Aprile 1824. Domenica di Passione.
Nevica.)
Altro per alcuno o
ridondante, del che altrove. Aggiungasi quell'uso dell'avv. altrimenti o
altramente ec., uso frequentissimo appresso i nostri, massime de' buoni
secoli, e non raro neanche oggidì, nel qual uso quell'avverbio sembra un
assoluto pleonasmo, quando cioè egli è congiunto alla negazione,
p.e. così: non v'andò altrimenti, cioè non
v'andò. (In altro modo egli può esser congiunto alla
negazione con significati diversi, come quando si dice non altrimenti
per parimente, non altrimenti che per come.) Par ch'esso avv. in
tali casi equivalga al punto, al guari e simili italiani e
francesii ec. aggiunti sì spesso alla negazione senz'alcuna maggior
forza. In fatti spesso, o il più [4058]delle volte esso avverbio
in questo caso non importa nulla, ma originariamente e veramente, e forse
talvolta effettivamente massime presso gli antichi, vale in alcun modo.
Gli altri l'usarono e l'usano senza certo aver mai neppure immaginato o
sospettato quel che ei significhi in tali casi. Nei quali egli ha alcun
chè a fare con quell'uso dell'avverbio , di cui
altrove.
(5. Aprile. 1824.)
È un grand'errore di quelli che hanno
a congetturare o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d'altri, sia nelle
cose private sia nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con
dati o senza dati, il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza
quello che sia più utile a quei tali di risolvere o di fare, più
conveniente, più secondo lo stato loro e delle cose, più giusto,
più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o determineranno, ovvero
fanno e determinano appunto questa o queste cose o l'una di queste in ogni
modo. Diamo uno sguardo all'intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli
uomini, e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le
fanno, ve n'ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime,
dannosissime a essi medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a
quello che avrebbe risoluto o fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel
caso loro. Vedremo che gli uomini il più delle volte non deliberano
maturamente quando v'ha bisogno di maturità, non conoscono l'importanza
delle cose che hanno a risolvere o a fare, non sospettano nemmeno che sia loro
utile o necessario di consultare intorno ad esse, e non entrano affatto in
alcuna consulta. Parlo egualmente de' grandi e de' piccoli, [4059]delle
cose pubbliche e delle private, piccole relativamente e grandi. È
certissimo che gli affari degli uomini qualunque, che vanno male, non vanno
così (se non di rado) senza loro colpa o insufficienza; or come dunque
dovrà essere regola per indovinare le opere o risoluzioni loro, il cercare
quello che lor sia più utile e conveniente? Il numero o degli sciocchi
assolutamente, o degl'inetti ai carichi e alle cose che hanno a maneggiare,
benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro carico sono
adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle azioni mal prese
e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese, sconvenienti al caso,
o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le migliori; il numero
dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha sempre soverchiato
di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed uomini loro contrarii,
come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì civili sì
militari sì private, e dall'osservazione della vita e avvenimenti
giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla
probabilità dell'indovinare, conduce chi la segue ad avere cento
probabilità per una, contro quella o quelle cose che egli sceglie e quel
giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando,
è falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel
caso proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti
fuori di esso, e pensino e sentano e sieno disposti allo stesso modo. Onde
ancorchè pognamo in due persone perfetta parità di prudenza, di
esperienza, insomma di attitudine a risolvere e fare in un dato caso quello che
si conviene, è certissimo che se di queste due persone l'una [4060]si
troverà nel caso e l'altra fuori considerandolo senza comunicare con
quella, il più delle volte la risoluzione o il modo dell'azione dell'una
sarà diversissima più o meno da quello che all'altra parrà
si fosse convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle
abitudini e di mille altre cose anche minime che diversificando gli spiriti
(giacchè non si dà spirito perfettamente uguale ad un altro,
più che si dieno due fisonomie al tutto conformi), diversificano
altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni di uno da quelle di un
altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e parità di
caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa in casi
uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni e circostanze
del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e sovente
cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre che
l'altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia
fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno
possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si
può il carattere, le abitudini, le qualità della data persona,
applicarle al caso di cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi
ne' piedi di quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar
quello ch'egli è per fare o risolvere, anzi risolvere, per così
dire, in vece sua, come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un
dato carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in
persona di esso.
(5. Aprile. 1824.). V. il Guicc. ed.
Friburgo. t.4. p.106.
L'uomo (per l'amor della vita) ama
naturalmente e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque
purchè sia vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere
senza positivo diletto, nè sensazione indifferente [4061]veramente).
Sì il sentire dispiacevolmente come il non sentire sono cose
assolutamente penose per lui. E talora è men penosa, anzi più
grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazion di
sensazioni. Se l'uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si
fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento
sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo
(non dispiacevole in se) è piacevole all'uomo per se stesso e qualunque
ei sia. Dunque l'uomo proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella
sensazione, benchè d'altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito,
quindi perfetto, quindi l'uomo ne saria pago, quindi felice.
Segue dal sopraddetto che universalmente non
si dà sensazione indifferente. Questo pensiero si sviluppi. (5. Aprile
1824.). Una sensazione (interna o esterna) è necessariamente per se e in
quanto sensazione, o piacevole o dispiacevole, e in quanto sensazione
senz'altro, è necessariamente e insitamente ed essenzialmente piacere.
(5. Aprile 1824.)
Diminutivi positivati. Ghiotto-glouton
co' derivati, e anche noi ghiottoneria ec. forse dal francese se
viceversa glouton non è da ghiottone che noi pur diciamo
per ghiotto e potrebbe anche ghiottone venir dal francese. V. gli
spagnuoli ec.[262]
Nota che questo diminut. positivato (se è tale) è aggettivo.
(6. Aprile. 1824.)
In tanto, gr. , del che
altrove. Aggiungi intantochè, fra tanto, tra tanto (Guicc.) infra
tanto, in quel tanto ec. E lo spagn. en tanto que (Don Quij.), entre
tanto ec. v. i Diz. spagn. V. pur la Crus. e i Diz. franc.
(7. Aprile. 1824.). V. p. seg. En este entretanto. D. Quij. Madrid 1765. t.4. p.244.
Moggia plur. Lat. modius
masc.
(7. Aprile. 1824.)
Al detto di moisson, diminutivo
positivato di messis, aggiungi i derivati ec. come moissonner, e
così ad altri simili diminutivi positivati.
(7. Aprile. 1824.)
[4062]Chiunque gode molta fama e la
merita, è stimato più dagli altri che da se stesso. E così
tutti quei che già furono, e lasciarono degnamente agli uomini la lor
gloria, sono più stimati che essi non si stimarono.
(7. Apr. 1824.)
Alla p. preced. Finattanto,
finattantochè, fin tanto, infinoattantochè ec. - . Lucian. opp. 1687. t.1. p.505. V. Forcell. Crus. franc. spagn. Gloss. ec.
(7. Apr. 1824.)
per praeter,
del che altrove. Lucian. opp. 1687. t.1. p.566. .
(7. Aprile. 1824.)
Il costume latino di servirsi de' participii
in us de' verbi neutri e anche attivi in significato neutro o attivo,
aggettivato, e ridotto anche a dinotar consuetudine e qualità abituale
nel soggetto, come tacitus per qui tacet, cautus, qui solet cavere
ec. ec., è se non altro una prova che il corrispondente costume tanto
proprio della lingua spagnuola e frequente ancora nell'italiana, e non
improprio forse della francese, ha esempio nella latina scritta, e quindi
probabilmente viene affatto dal latino parlato e volgare, e di lui fu proprio e
familiare.
(8. Aprile 1824.)
La vita degli orientali e di coloro che
vivono ne' paesi assai caldi è più breve di quella dei popoli che
abitano ne' paesi freddi o temperati. Ma ciò non impedisce che la somma
della vita di quelli non sia, non che uguale, ma superiore alla somma della
vita di questi. Anzi non per altro è più breve la vita degli
orientali se non perchè ella è molto più intensa, tanto
che in pari spazio di tempo è maggiore la somma della vita che provano
gli orientali che non è quella che provano [4063]gli altri
popoli. Ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest'ordine che la
durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in
ragione inversa della sua intensità ed attività. La testuggine,
l'elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita. I più
veloci ed attivi, ancorchè più forti degli altri (come è
per es. il cavallo rispetto all'uomo) hanno vita più corta. Ed è
ben naturale, perchè quell'attività e intensità di vita
importa maggiore rapidità di sviluppo della medesima, e quindi di
decadenza. Infatti lo sviluppo sì degli uomini, sì degli animali,
sì delle piante ne' paesi assai caldi è molto più rapido
che negli altri. Or dunque considerando queste condizioni fisiche della vita
per rapporto al morale, si può ragionevolmente affermare che la sorte di
quelli che vivono ne' paesi assai caldi è preferibile quanto alla
felicità a quella degli altri popoli. Primieramente la somma della loro
vitalità, quantunque minore nella durata, è però assolutamente
maggiore di quella degli altri, presa l'una e l'altra nel totale. Secondariamente,
posto ancora che ella fosse uguale, a me par molto preferibile il consumare
p.e. in 40 anni una data quantità di vita che il consumarla in 80. Ella
riempie i 40, e lascia negli ottanta mille intervalli, gran vuoto, gran
freddezza, gran languore. La vita assolutamente non ha nulla di desiderabile
sicchè la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la
meno infelice, e la meno infelice è la più viva. Or la vita degli
orientali, pognamola di 40 anni, è molto più viva che quella
degli altri, pognamola di 80, quando bene la somma della vivacità
dell'una vita e dell'altra sia la stessa. Or questo paragone di [4064]climi
io lo applico ai tempi, e mettendo gli antichi in luogo de' popoli di clima
caldo e i moderni in cambio de' popoli di clima freddo, dico che sebben la vita
degli antichi era forse generalmente più breve che quella dei moderni,
per le turbolenze sociali e i continui pericoli dello stato antico, nondimeno
perchè molto più intensa, ella è da preferirsi, contenendo
nella sua minore durata maggior somma di vitalità, o quando anche in
minore spazio contenesse ugual somma che la moderna in ispazio maggiore. Del
che, senza il surriferito esempio, ho discorso particolarmente in altro pensiero.
(8. Aprile 1824.). V. p.4092. e v. la
pag.4069.
Ciascuno, e massimamente gli spiriti
più delicati, sensibili e suscettibili, pervenuto a una certa età
ha fatto esperienza in se stesso di più e più caratteri. Le
circostanze fisiche, morali e intellettuali, cambiandosi continuamente nello
spazio della vita di un uomo, e nelle sue diverse età, cambiandosi,
dico, per rispetto a lui, cambiano continuamente il suo carattere, di modo che
di tempo in tempo egli è uomo veramente nuovo di spirito, come dicono i
fisici che di sette in sette anni (se non erro) egli è rinnovato di
corpo. Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano carattere e
più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente acquistano
caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si
sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a
quello che il primo potè in loro esser chiamato carattere. La coltura
dell'intelletto fra l'altre cose cagiona in una persona stessa a proporzione
de' suoi progressi, e coll'andar del tempo, una [4065]variazione singolarmente
rapida e singolarmente grande. Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le
persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini? Ora ciascuno individuo
quando nasce è precisamente, quanto all'intelletto nello stato medesimo
in cui fu il primo uomo. Quegl'individui che coll'andar del tempo si sono posti
a livello delle cognizioni del nostro tempo, sono necessariamente passati per tutti
quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal principio del mondo
fino al dì d'oggi (almeno per quei gradi per cui egli è passato
progredendo e avanzando), e ha sperimentato in se tutti gli avvenimenti
dell'intelletto che il genere umano ha sperimentato in tanti secoli quanti sono
corsi dalla sua origine insino a ora. La storia del suo intelletto è
quella appunto di tutti questi secoli ristretta e compresa in venti o
trent'anni di tempo. Laonde da tutti i cambiamenti che il suo intelletto ha provati,
cambiamenti che più volte l'hanno portato a persuasioni e stati
contrarissimi ai passati, e in ultimo a un sistema di persuasioni ed a uno
stato contrarissimo al suo primitivo; da tutti questi cambiamenti, dico,
deggiono di necessità essere risultate in lui tante diversità e
successivi cambiamenti di carattere, quanti ne sono stati prodotti nelle
nazioni e nel genere umano in generale dai diversi principii e opinioni e dal
diverso progresso e stato di cognizioni in tutto il tempo che ci è
bisognato per portarlo dal suo primitivo stato al presente. (8. Aprile. 1824.).
Onde questo tale individuo rinchiude e compendia in se, non solo la storia
dello spirito umano, ma quella eziandio de' caratteri successivi delle nazioni,
in quanto essi ebbero origine e dipendenza dalle opinioni e conoscenze, che
certo è grandissima e forse la massima parte.
(8. Aprile. 1824.)
[4066]La maniera familiare che come
più volte ho detto, fu necessariamente scelta da' nostri classici
antichi, o necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola,
può ora in parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso
poco acuto, e a quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento
e nel gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto
dire a quasi tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose,
perchè quello che allora fu familiare nella lingua, or non lo è
più, anzi è antico ed elegante, ovvero è arcaismo. Non per
tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto vero,
che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la
capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e
dall'usuale, si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel
presente secolo da molti cultori e amatori dello scriver classico, a usare una
maniera familiare, sovente non avvedendosene o non intendendo bene la
proprietà e qualità della maniera che sceglievano e usavano, e
sovente anche intendendo, credendo di usare una maniera elegante. E ciò
si è fatto in due modi. O adoperando le stesse forme antiche, le quali
oggi non sono più familiari, anzi eleganti, onde n'è risultata
opinione di eleganza a tali stili ed opere modellate sull'antico, ma veramente
esse hanno del familiare, perchè il totale dello stile antico da essi
imitato necessariamente ne aveva anche indipendentemente dalle forme,
bensì per cagion loro e per conformarsi e corrispondere ad esse forme
che allora erano necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme
familiari moderne a esempio e imitazione degli antichi, e della
familiarità che nelle forme e nello stile loro si scorgeva,
benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì la
familiarità imitata sì quella [4067]che adoperavano ad
imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale,
perciò appunto che la familiarità in genere non era e non
è più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli
antichi. Il terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e
tutte le risorse della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e
una maniera nè familiare nè antica, ma elegante in generale,
nobile, maestosa, distinta affatto dal dir comune, e proprio di una lingua che
è già atta allo stile perfetto, quale è appunto quello di
Cicerone nella prosa e di Virgilio nella poesia (stile usato quando la lingua
latina era appunto in quelle circostanze e quello stato di capacità in
cui è ora la lingua nostra); questo terzo modo non è stato non
che usato, ma concepito nè inteso da quasi niuno, comechè egli
è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e convenevole a una
lingua e letteratura già perfetta.
(8. Aprile. 1824.)
Bien o mal mirado per que
bien o mal mira. Anche noi diciamo in simil senso riguardato, mal
riguardato, poco riguardato, ec. e così pur gli spagnuoli altri tali
participii in simil senso, notati altrove. Così i latini circumspectus
in senso att. o neut. da circumspicio, e cautus da caveo
att. ec.
(9. Aprile. 1824.)
J . Lucian.
opp. 1687. t.1. p.515.
(9. Aprile, Venerdì di Passione.
Festa di Maria SS. Addolorata. 1824.)
Alla p.4053. Vedi però i Diz. spagn.
buoni, alla voce dueña che mi pare in un luogo del D. Quij.
significhi donna, e il Gloss. lat. in domina o domna, e il
Forcell. e l'antico francese se hanno nulla in proposito. Del resto non solo
etimologicamente ma anche presentemente donna significa pur signora
in italiano, e donno, signore, padrone.
(10. Aprile. 1824. Sabato di Passione.)
[4068] Divertido cuento ec. per que
divierte.
(13. Apr. 1824.)
Al detto di quisto, chiesto ec.
aggiungi requête, ant. requeste.
(13.
Apr. 1824.)
Couper-, aor. 2. , co'
derivati, ne' più de' quali si omette il .
(13. Apr. 1824.)
Conforme per conformemente,
avv. e preposiz. spagn. e italiano, forse di origine spagnuola. Al detto degli
aggettivi usati avverbialmente.
(13. Apr. 1824.)
Honrado per onorevole, come
in ital. onorato, del che altrove.
(13. Apr. 1824.)
Diminutivi positivati. Laurel-laurus.
Laurel non è diminutivo in spagnuolo per la forma, ma lo è in
lat. V. il Forc. se ha Laurellus.
Abortus-avorton franc.
(14. Aprile. Mercordì Santo. 1824.)
Al detto altrove d'ignotus (per innotus)
aggiungi ignotitia p. innotitia, di cui v. il Forcell. Vedilo
anche in innotus.
(15. Aprile. Giovedì Santo. 1824.)
A un giovane sventatello che per iscusarsi
di molti errori e cattive riuscite e vergogne e male figure fatte nella
società e nel mondo, diceva e ripeteva sovente che la vita è una
commedia, replicò un giorno N.N., anche nella commedia è meglio
essere applaudito che fischiato, e un commediante che non sappia fare il suo mestiere
(professione), all'ultimo si muor di fame.
(17. Aprile 1824.)
Le persone avvezze a versarsi sempre al di
fuori, esclamano naturalmente anche quando sono solissime, se una mosca le
punge, o si versa loro un vaso o si spezza; quelle assuefatte a convivere con
se medesime, e ritenersi tutte al di dentro, anche in grande [4069]compagnia,
se si sentono cogliere da un accidente non aprono bocca per lamentarsi o
chiedere aiuto.
(17. Aprile. Sabato Santo. 1824.)
Comidos y hebidos, como suele decirse. D. Quij. par.2. ed. Madrid. 1765. tom.4. p.169.
cioè que han comido y bebido. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.)
Non molto addietro ho notato in questi
pensieri p.4062. segg. la maggior disposizione naturale alla felicità
che hanno i popoli di clima assai caldo e gli orientali, rispetto agli altri.
Notisi ora che in verità questi erano i climi destinati dalla natura
alla specie umana, come si dimostra quanto all'oriente, dalle antiche
tradizioni che provano l'origine del genere umano essere stata in quei paesi,
secondo il detto da me altrove in più luoghi, e quanto ai climi assai
caldi in generale, dall'essere essi i soli in cui l'uomo possa viver nudo, come
la natura lo ha posto, e senza altri soccorsi contro gli elementi, di cui la
natura l'ha lasciato sfornitissimo, e che in altri paesi gli sono di prima
necessità e non pochi nè facili a procacciare, nè insegnati
dalla natura, ma bisognosi di molte esperienze, casi ec. La costruzione ec.
degli altri animali qualunque, e delle piante, ci fa conoscere chiaramente la
natura de' paesi, de' luoghi, dell'elemento ec. in cui la natura lo ha
destinato a vivere, perchè se in diverso clima, luogo, ec. quella
costruzione, quella parte, membro ec. e la forma di esso ec. non gli serve, gli
è incomoda ec. non si dubita punto che esso naturalmente non è
destinato a vivervi, anzi è destinato a non vivervi. Ora perchè
simili argomenti saranno invalidi [4070]nell'uomo solo? quasi ei non
fosse un figlio della natura, come ogni altra cosa creata, ma di se stesso,
come Dio.
(17. Aprile. Sabato Santo. 1824.)
Gli uomini governati in pubblico o in
privato da altri, e tanto più quanto il governo è più
stretto, (i fanciulli, i giovani ec.) accusano sempre, o tendono naturalmente
ad accusare de' loro mali o della mancanza de' beni, delle noie e scontentezze
loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è
evidentissima l'innocenza di questi, e la impossibilità o d'impedire o
rimediare a quei mali o di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e
irrelazione di queste cose con loro. La cagione è che l'uomo essendo
sempre infelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non la
natura delle cose e degli uomini, molto meno ad astenersi dall'incolpare alcuno,
ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa particolare in cui possa sfogar
l'amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che egli possa per cagione di
questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali sarebbero assai men dolci
di quello che sono a chi soffre se non cadessero contro alcuno riputato in
colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera poi che il misero si
persuade anche effettivamente di quello che egli immagina, e quasi desidera che
sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le persone
di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì
sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in
mancanza d'altri [4071]oggetti, rivolgiamo seriamente l'odio e le
querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed
è a' moderni l'incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro
uomo, non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di
persuaderci della sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più
ancora perchè l'odio e le querele sono più dolci quando si
rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere testimoni, e sottoposte
alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane querele intendiamo
fare di loro. Massimamente poi è dolce l'odio e il lamento quando
è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì
perchè la colpa non può veramente appartenere se non a esseri
intelligenti. Quelli che ci governano sono da noi facilmente scelti a far
questa persona di rei de' nostri mali, che non hanno altro reo manifesto o
accusabile, e a servir di soggetto e scopo della vana vendetta che ci è
dolce fare de' medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più
adattati, e quelli di cui ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con
più di verisimilitudine. Quindi è che chi governa in pubblico o
in privato è sempre oggetto d'odio e di querele de' governati. Gli
uomini sono sempre scontenti perchè sono sempre infelici.
Perciò sono scontenti del loro stato, perciò medesimo di chi li
governa. (Essi sentono e sanno bene di essere infelici, di patire, di non godere,
e in ciò non s'ingannano. Essi pensano aver diritto di esser felici, di
godere, di non patire, e in ciò ancora non avrebbero il torto, se non
fosse che in fatto questo che essi pretendono è, non che altro,
impossibile.) [4072]E come non si può fare che gli uomini sieno
mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così niun
governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a'
soggetti, qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o
sollevarli dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai
ragionevolmente sperare che essi non l'odino e non lo querelino, anche i
più savi, perchè è natura nell'uomo il lagnarsi di
qualcuno, quasi altrettanto che l'essere infelice, e questo qualcuno è
per l'ordinario e molto naturalmente quello che li governa. Però circa
il governare non v'ha pur troppo che due partiti veramente savi, o astenersi
dal governo, sia pubblico sia privato, o amministrarlo totalmente a vantaggio
proprio e non de' governati.
(17. Aprile. 1824. Sabato Santo.)
Diminutivi positivati. Piscis-poisson.
Notisi che de' diminutivi positivati delle lingue moderne altri hanno la
diminuzione latina e questa o sonante diminuzione anche nelle lingue moderne o
no, altre la diminuzione moderna affatto e non latina (18. Aprile. Pasqua. 1824.)
e questa talora è diminuzione in quella tal lingua, talora in essa no,
ma in altre moderne o in altra, sia sorella sia straniera, e sia che quella tal
parola si trovi veramente in quest'altra lingua o non vi si trovi più, almeno
con quella diminuzione. P.e. potrebb'essere che alcune voci francesi in in
ine ec. in cui questa desinenza è additizia, perchè esse
parole si trovano senza tal desinenza in latino o in italiano ec. sieno originariamente
diminutivi positivati presi dall'italiano, quando [4073]bene in questo
non si trovino più, almeno colla diminuzione, nè positivata
nè veramente diminutiva.
(19. Aprile 1824.). Così dicasi de' verbi, ec.
Alla p.4044. Ferdinando il Cattolico non
solamente al tempo della lega di Cambrai, ma anche più anni dopo, e
sciolta già la lega, seguitò sempre a spacciare di volere andar
contro gl'infedeli, non pur Mori d'Affrica, come diceva altresì, ma
eziandio contro i turchi a Gerusalemme. Vedi Guicc. t.3. p.109.
(19. Aprile. Lunedì di Pasqua.
1824.). Del resto v. ancora ivi p.128. fine. V. p.4081.
Senza per oltre (vedi i
franc. e gli spagn. i quali dicono anche nel senso stesso a men de, oltre di,
e viene a essere il medesimo). V. p.4081. - Così i greci . V. Lucian.
Ver. Hist. l.1. opp. 1687. p.647. t.1 e lo Scap. in e ne'
suoi sinonimi e il Forcell. in absque che si usa per eccetto, ma
ciò non è precisamente il medesimo.
(19. Aprile 1824. Lunedì di Pasqua.)
Diminutivi positivati. , co' suoi composti e derivati, i
quali vedi nello Scap. che dice per essere attico. In tal caso la
positivazione de' diminutivi sarebbe anche propria dell'attico in particolare.
I latini dicono rhaphanus. Che sia veramente positivato, v.
Luciano Ver. Hist. l.1 opp. 1687. t.1. p.649. J. E notabile che noi che abbiamo preso dal latino rafano,
e più volgarmente benchè corrottamente ravano, l'abbiamo
anche come gli attici diminuito e positivato, facendone ravanello, che
vale in tutto lo stesso che le due voci suddette, ed è molto più
comune di ambedue loro, anzi ormai il solo in uso, almeno nel dir familiare e
parlato. V. gli spagnuoli e i francesi.
(19. Apr. 1824.)
[4074]Alla p.4043. Qualunque poesia
o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co' sentimenti,
il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co' sentimenti
formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di
dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente non v'ha altro mezzo che questo ad
esprimere la voluttà! Tant'è, il piacere non è che un
abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere
è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un
sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione
della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa
allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la
vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l'esserne privato in
quanta parte si può, senza dolore e senz'altro patimento che nasca o sia
annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere,
non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione
semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i
maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri.
Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche
turbamento, e ciò annesso cagionato e dipendente essenzialmente da loro.
(19. Aprile Lunedì di Pasqua 1824.). Dunque la vita è un male e
un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si
può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente
uno stato violento, poichè naturalmente priva del suo sommo e naturale [4075]bisogno,
desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando
mai questa violenza, non v'è un solo momento di vita sentita che sia
senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile.
Martedì di Pasqua. 1824.). Massimamente poi quando da una parte colla
civilizzazione è accresciuta la vita interna, la finezza delle
facoltà dell'anima e del sentimento, e quindi l'amor proprio e il
desiderio della felicità, da altra parte moltiplicata l'impossibilità
di conseguirla, i mali fisici e morali, e finalmente diminuita l'occupazione,
l'azione fisica, la distrazione viva e continua.
(20. Apr. 1824.)
Percussare da percutio. Crusca.
V. il Gloss.
(20. Apr. 1824.)
Quelli che non hanno bisogni sono
ordinariamente molto più bisognosi di coloro che ne hanno. Uno de'
grandissimi e principalissimi bisogni dell'uomo è quello di occupare la
vita. Questo è altrettanto reale quanto qualunque di quelli a' quali
occupandola si provvede; anzi è più reale, e maggiore eziandio
assai, perchè il soddisfare a questo bisogno è l'unico o il
principal mezzo di far la vita meno infelice che sia possibile, laddove il
soddisfare a qualsivoglia di quegli altri per se, non è che un mezzo di
mantenere la vita, la qual per se stessa nulla importa. Importa sibbene la
felicità, o posta la vita, il menarla meno infelicemente che si possa.
Ora al detto massimo bisogno, che è continuo ed inseparabile dalla vita
umana, quelli che non hanno bisogni, o che per dir meglio non sono necessitati
di provvedere essi medesimi a' bisogni che hanno, gli suppliscono molto
più difficilmente, [4076]e più di rado, e per lo
più per molto minore spazio della loro vita, e in generale molto
più incompletamente di quelli che hanno a provvedere da se a' propri
bisogni naturali e della vita.
(20. Aprile. Martedì di Pasqua.
1824.)
Cuerpo mal sustentado y peor COMIDO. D. Quij.
ed. Madrid 1765. t.4. p.220. Muger parida cioè que ha parido. ib.
p.226.
(21. Apr. 1824.)
Alla p.4053. Nel Secolo di Luigi 14. di
Voltaire ed. della Haye 1752. tome 2. fine del cap.33. du jansénisme, p.254. trovo
tombeau e subito dopo tombe due volte, collo stessissimo senso di
tombeau.
(21. Apr. 1824.)
A proposito del detto altrove circa i
semidei dimostranti l'alta opinione che gli antichi avevano della natura umana,
osservisi con quanta facilità si divinizzavano appresso i romani
gl'imperatori o altri della loro famiglia, o loro liberti e favoriti, o vivi
ancora, o morti al tempo e sotto gli occhi di quelli che li divinizzavano, anzi
allora allora.[263]
Non dirò già io che nè quelli che li divinizzavano,
nè le altre persone intelligenti, nè forse anche la più
ignorante feccia del popolo e la più superstiziosa, massime in quei
tempi già illuminati e disingannati in tante cose (sebbene anche a quei
tempi v'aveano persone, eziandio tra' nobili e senatori, di maravigliosa
superstizione, come e più che non fu Senofonte, spirito sì colto
e istruito, fra' greci in tempi simili) credessero veramente alla
divinità di quei tali imperatori o parenti o favoriti di essi, vivi o
morti. Ma quest'uso solo di divinizzare delle persone [4077]contemporanee,
cosa che poichè era tanto ricercata da un canto dall'ambizione,
dall'altro dall'adulazione, non doveva essere al tutto senza qualche effetto di
persuasione in qualche parte del popolo, dimostra quanto poca distanza e
diversità di natura ponessero gli antichi fra il divino e l'umano, senza
di che non sarebbe stato possibile che una tale assurdità fosse pur
venuta loro nella mente. Certo nè anche a' più barbari, ignoranti
e superstiziosi tempi del Cristianesimo, niuno pensò nè avrebbe
potuto pensare o di far credere ad alcuno o solamente di dire per adulazione o
per altro qualunque motivo che una persona non solo contemporanea, non solo
viva, ma morta ed antica e famosa pure per santità e per qualsivoglia
virtù o dignità, potenza ed opere vere o credute, fosse stato
trasformato o dovesse trasformarsi, non dirò nella natura divina, ma
neanche nell'angelica. E qual Cristiano avrebbe osato fare sopra qualsivoglia
Principe Cristiano o no, fosse stato anche molto più grande e formidabile
e più despotico di Augusto, ed esso molto più adulatore e
più vile di tutti gli uomini di quel secolo, un distico simile a quello
attribuito a Virgilio: Nocte pluit tota ec.? Qual Principe Cristiano
sarebbesi fatto rappresentare cogli attributi non dirò dell'Eterno Padre
o del Figliuolo, ma d'un Angelo o di un Apostolo, come gl'Imperatori, i loro
parenti, i loro favoriti, si facevano scolpire, dipingere ec. o erano dipinti e
scolpiti per adulazione, non pur dopo morte, ma in vita, cogli attributi e
sotto la forma di Ercole, (anche una donna è nel Museo Vaticano
rappresentata in istatua sotto questa forma, cioè con clava, pelle di
leone ec.) di Venere, di Mercurio e simili. Lascio i templi, gl'idoli ed altari
eretti a' viventi appo i Romani, con culto sacrifizi e onori regolari e
giornalieri al tutto divini, con flamine apposta [4078]destinato al particolar
culto di quella divinità ancor vivente (flamen augustalis ec.), le pene
decretate ed eseguite contro i bestemmiatori o violatori qualunque d'esse
divinità morte o vive, come rei di religione, non di politica, le accuse
e giudizi contro gl'incolpati di tali delitti ec. ec. Anche Alessandro si fece
passare per figlio di Giove Ammone, e pare che da qualche parte del popolaccio
fosse creduto, non solo de' barbari, ma de' greci e macedoni, ed è ben
verisimile, o certo egli usò questa finzione come un mezzo politico per
farsi rispettare e temere ec. e tenere in dovere ec. onde mostra che egli
giudicò dovergli essere creduto, e ciò dai greci principalmente e
dai macedoni, poichè i barbari non riconosceano gli stessi déi. Vedi in
Luciano tra i Diall. de' Morti, quello di Alessandro e Diogene, Alessandro e
Filippo, Alessandro, Annibale, Scipione e Minosse. (21. Aprile. 1824.). E certo
la Grecia allora non era una sciocca nè meno illuminata che fosse Roma
al tempo degl'Imperatori.
(21. Apr. 1824.)
Diminutivi positivati. Non solo in franc. pistolet
per pistola, ma anche in ispagn. pistolete, forse dal franc.
poichè in ispagn. ete non è diminuzione. (22. Aprile.
1824.). Si dice anche in ispagn. pistola. D. Quij. ed. Madrid 1765. t.4.
p.237-238. dove poco avanti, p.235. trovi pistolete.
(23. Aprile 1824.)
Alla p.3106. Niuna cosa è forse
più atta di questa a mostrare la differenza del pensar moderno e del
pensare antico (massime molto antico, al qual tempo appartiene Frinico e
più che mai Omero) intorno a questi punti di cui qui discorriamo,
differenza che tiene strettamente alla diversità generale dello stato
dello spirito umano a' tempi antichi e a' moderni. Quando negli ultimi anni,
dopo [4079]il ritorno de' Borboni, fu rappresentata a Parigi la Tragedia
del Vespro Siciliano, tragedia che ebbe un successo distinto, qual mai o
francese o straniero, pensò ad accusare il poeta di poco amor nazionale
o di mancamento alcuno verso la patria, per aver commosso o cercato di
commuovere sopra una sventura de' suoi nazionali seguìta per opera di
stranieri? Anzi chi non riputò e questo proposito e la scelta del
soggetto nazionalissima e degnissima quanto qualunque altra di un buon
cittadino? perocchè il poeta non volle far piangere sopra i nemici della
Francia, ma sopra i Francesi sventurati. Or questo appunto fece Frinico, il
quale non commosse le lagrime sopra i barbari nè per li barbari, ma
sopra i greci e per li greci. E per questo medesimo fu condannato, e sarebbe
stato applaudito per lo contrario, e stimato buon cittadino, se avesse fatto
piangere e rivolta la compassione e pietà degli uditori sopra i nemici
della nazione, come fece Eschilo ne' Persiani tragedia che ha per soggetto e
per materia unica di pietà e di terrore i mali de' nemici della Grecia,
nè però fu condannata da alcuno, nè stimata altro che
nazionalissima. Tale appunto nè più nè meno si è il
caso della Iliade, che fa piangere quasi unicamente o certo principalmente
sopra e per li troiani nemici de' suoi.
(23. Aprile. 1824.)
Nel Dialogo della Natura e dell'Anima ho
considerato come la ragione e l'immaginazione e in somma le facoltà
mentali eccellenti nell'uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno
causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di
tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e [4080]senza
difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi
hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da
solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al
contrario di tutte l'altre infermità. Non è egli chiaro che
ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare
tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri,
solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri
non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal
che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti
dell'uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute
l'uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per
essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più
forte l'uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi
lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più
robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell'uomo a
corpo a corpo. L'ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio
negativamente per l'uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza
un'assoluta mancanza o sospensione di quest'uso, niuno uomo nè anche
irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè
anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno o
piuttosto mostrano di avere a proporzione molta più forza de' loro
contrari), non usa, nè anche ne' maggiori bisogni, ne' maggiori
pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in
tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano
infinitamente minor parte delle loro [4081] forze, anche ne' menomi
pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l'uomo, anche il
più disperato ec., ne' maggiori.
(23. Apr. 1824.). Il detto de' pazzi dicasi
proporzionatamente de' disperati. V. p.4090.
Alla p.4073. capoverso 2. Così i
franc. à moins que... ne, che vale eccetto se... non ec.
V. i Diz.
24. Aprile. Sabato in Albis. 1824.)
Alla p.4073. capoverso 1. È noto che
per lunghissimo tempo, almeno sino alla fine del 400 e ai principii del 500, si
continuò in Ispagna, in Germania, e credo in tutta la Cristianità
(che allora era o tutta o quasi tutta Cattolica) a fare questue annue per le
crociate da farsi quando che fosse, le quali questue si chiamavano anche crociate,
e montavano a grossissime somme (considerata specialmente la maggiore
rarità della moneta a quei tempi), che i Pontefici, a cui disposizione pare
che esse rimanessero, concedevano talvolta, ma con grandissime difficultà
(e non di rado lo negavano) ai rispettivi Re di potere usare ne' loro bisogni,
massime quando erano loro collegati aperti od occulti, favoriti, per qualche
impresa che premeva al Pontefice ec.[264]
Così il Guicc. più volte, e fra l'altre t.3. p.143. (24. Aprile.
Sabato in Albis. 1824.). Io non so però bene se fossero questue o taglie
determinate, e forzose, con obblighi di coscienza, o altro. V. gli Storici.
(24. Aprile. 1824.). V. p.4083.
A proposito dei verbi in are fatti da
quelli della 3., del che altrove, v. il Meurs. t.5. opp. p.419. dove
però erra deducendo da vellicare che v'abbia a essere stato un vellare,
mentre quello è frequentativo di vellere (o diminutivo ec.) ed
è della prima, perchè tutti i frequentativi o diminutivi di
questo genere, da qualunque congiugazione di verbi sieno fatti, sono della 1ma
.
(24. Apr. Sabato in Albis. 1824.)
[4082]Diminutivi positivati. Perpétuel,
perpétuellement. Continuel, continuellement. Si dice anche continuement
o continûment, e continu. V. i Diz. Nota che questi sono
diminutivi aggettivi. Struzzo-struzzolo. Struffo strufolo.
(25. Apr. 1824. Domenica in Albis.)
Apprendre
plusieurs langues médiocrement, c'est le fruit du travail de quelques années;
parler purement et éloquemment la sienne c'est le travail de toute la vie. Così
dice Voltaire, la cui lingua pur non era che la francese, riputata la
più facile delle lingue antiche e moderne. Histoire du Siècle de Louis XIV. chap.36. Écrivains, art. de
Longueruë. (à la Haye 1752-3. t.3. dans les additions. p.195-196.).
(26. Aprile. 1824.)
per intanto,
del che altrove. Luciano opp. t.1 p.686. verso il fine. Simile è la
frase J, ib.
p.692. ed. Amst. 1687.
(26.
Apr. 1824.). En tanto que. D. Quij. Madrid 1765. t.4. p.281.
Anche i latini nominavano be ce ec.
non bi ci, come confessa il Corticelli nel principio della Gramm.
Toscana, il qual vedi, e v. anche il Buommattei e gli altri grammatici latini
italiani francesi spagnuoli ec.
(26.
Apr. 1824.)
Ser-v-ente - ser-g-ente. V. la Crus. Ser-v-ant
- ser-g-ent. V. i Diz. franc.
(26. Apr. 1824.)
, della
qual frase (simile all'italiana) altrove Luciano, opp. 1687. t.1. p.700. mezzo
circa.
(27. Aprile. 1824.). p.701. princ.
Compagnon, di cui altrove è
anche antico italiano e spagnuolo (D. Quij.) per compagno, forse l'uno e
l'altro dal francese.
(28. Aprile 1824.)
[4083] Exhaustare. Forc. in
Exhaustant.
(28. Apr. 1824.)
per nondimeno,
con tutto ciò, al contrario, vedilo in Luciano nel Tirannicida, poco
sotto il principio, opp. 1687. t.1. p.694. fine. Questo significato è ignoto
allo Scapula. L'interprete lo traduce interim, che è il suo
proprio, ma qui non ha che fare. Interim Interea non hanno mai questo
senso nel Forcell. Puoi vedere il Gloss. Certo è che in franc. cependant
cioè si adopra
appunto nel senso ancora di nondimeno. Onde corrottamente gl'italiani
moderni dicono e scrivono intanto, frattanto per nondimeno. V.
gli Spagnuoli.
(29. Apr. 1824.)
Alla p.4081. V. pure il Guicc. 3. 216. e che
cosa fosse la decima di cui quivi parla, vedilo ib. p.96. 209. 254.
(30. Aprile 1824.). V. pure il Guicc. 3. 248-53. 395. 397./4. 154.
172-4.
J. Lucian.
opp. 1687. t.1. p.728.
(30. Apr. 1824.)
Al detto altrove circa il nostro uso
italiano di adoperare pleonasticamente e per idiotismo e grazia di lingua il
pronome si, mi, ti, dativo, uso che abbiamo pur trovato nell'antico e
familiare latino, aggiungi che noi italiani adoperiamo detto pronome in molti
verbi neutri, o attivi, che quando sono congiunti con esso, mal si chiamano da'
grammatici e vocabolaristi, neutri passivi, come dimenticare che anche
si dice dimenticarsi col genitivo o accusativo o col che ec., immaginare
che anche si dice immaginarsi coll'accusat. o col che ec. Questi
verbi col si che sono moltissimi, non sono punto neutri passivi, [4084]perchè
il si in essi non è accusativo, e però non indica passione
nè transizione dell'azione nel suggetto stesso che la fa, ma è
dativo e assolutamente ridondante per grazia di lingua, come in lat. il sibi,
onde essi verbi col si, restano quali sono senza di esso, neutri
assoluti o attivi, e non sono neutri passivi più di quello che sia
neutro passivo andarsi o andarsene, starsi o starsene e
simili. E però quando i detti verbi sieno attivi, accoppiati col si,
non debbono, p.e. nel più che perfetto, fare io me l'era immaginato,
come è regola de' neutri e de' neutri passivi, ma io me lo aveva
immaginato, io me lo aveva dimenticato, perchè quivi il verbo
è tanto attivo quanto se senza il pronome si, mi, ti, che nulla
altera e nulla vale in questi casi, si dicesse io l'aveva dimenticato
ec. E così in fatti scrivono i buoni scrittori, cioè io me lo
aveva immaginato ec. e così si dee scrivere, nè più
nè meno che in quei verbi attivi in cui il pronome si, ti, mi ha
vero significato, come p.e. io mi avea fabbricata una casa, cioè avea
fabbricata una casa a me. Ma moltissime e forse le più volte
sbagliano in questo anche gl'intendenti, scrivendo io me l'era immaginato.
E non è maraviglia, perchè similmente sogliono per lo più
scrivere io m'era fabbricata una casa, come se fabbricarsi fosse
qui neutro passivo, quando è manifesto e fuori di controversia, che
è assolutissimo attivo come fabbricare, essendo il mi
dativo non accusativo, e lo stesso che si dicesse io gli avea fabbricata una
casa, [4085]che certo niuno direbbe nè dice, nemmeno i
più idioti, io gli era fabbricata. Del resto la detta ridondanza
del si, mi, ti, dativo, credo sia anche comune in genere ai francesi e
agli spagnoli.
(30. Aprile 1824.). V. p.4098.
Come la fisonomia degli uomini, e animali
sia determinata dagli occhi, secondo il detto altrove, osserva che se tu disegni
un volto umano o animalesco e non vi poni gli occhi, tu non vedi punto che
fisonomia abbia quel volto, e appena senti (se ben conosci) che sia un volto.
Così i ritratti levati dall'ombra in profilo non paiono ritratti finchè
non vi si aggiunga convenientemente quello che dall'ombra non si può
ricavare, dico l'occhio. Al contrario se ponendovi gli occhi, lasci qualche
altro membro, tu senti benissimo che quello è un volto e ne comprendi la
fisonomia; solamente ti parrà mostruosa, ma sempre ti riuscirà un
volto e una fisonomia. E così dico a proporzione, del disegnare o
accennar gli occhi più o meno imperfettamente, paragonando l'effetto di
questa imperfezione in ordine al determinar la fisonomia, coll'effetto di una
simile imperfezione in altra qualunque parte del volto. (30. Aprile 1824.).
, fere
Lucian. opp. 1687. t.1. p.718. V. i Less. per poco nel senso stesso.
(1. Maggio. 1824.)
Ignominia per innominia. Come ignotus
per innotus ec. del che altrove.
(2. Maggio. 1824. Domenica.)
Nascere per accadere del che
altrove. 3 Guicc. 3. 255.
(2. Maggio. 1824. Domenica.)
[4086] Implicito as. Vedi
Forc.
(2. Mag. 1824.)
Che da' partic. pass. della prima si
facciano i continuativi o frequentativi in itare piuttosto che in atare,
non dee parer maraviglia quando si consideri l'uso lat. di scambiare per regola
l'a in i breve, in tante altre cose, come ne' composti (facio
jacio - conficio, conijcio ec.) ec. Oltre che anche nella prima v'ha molti
supini e participii passati in itus, de' quali altrove, come domitus
ec.
(2. Mag. Domenica. 1824.). Anche l'ae
in i. Ae-quus in-i-quus.
En tanto que. D. Quijote
ed. Madrid 1765. t.4. p.325. 334. più volte.
(4. Maggio. 1824.)
Il verbo stare, che ha tanta
relazione al verbo esse per l'uso, pel significato, alcune volte sinonimo
ec. che in italiano supplisce col suo participio al difetto del verbo essere,
e spesso si usa altresì, come anche più nello spagnuolo, in luogo
di questo verbo, ec. non ha tuttavia nessunissima relazione grammaticale con
lui, senza la mia osservazione che lo fa derivare da un antico participio o
supino di sum. Similmente in greco , , ec. che
in se, e ne' loro composti e derivati, e nel lat. sisto che ne deriva, e
suoi composti, come exsisto, subsisto, exsistentia ec. e nella voce (substantia,
subsistentia ec.), ha tanta relazione col verbo essere, non ha
alcuna attinenza grammaticale con lui, senza la mia osservazione che lo fa
derivare dal lat. sto, derivato da sum. Anche i composti e
derivati di sto (come exsto, exstantia, substantia, substantivus,
substo ec. ec.) manifestano nel significato ec. grandissima relazione col
verbo essere.
(4. Maggio. 1824.)
[4087] Comire-Vomire. Crus.
(6. Maggio. 1824.). Golpe co' derivati, composti ec.
Gomita plur. di Gomito.
(6. Maggio. 1824.)
Fello-fellico as, fellito as.
(7. Maggio. 1824.)
En tanto que. D. Quij.
Madrid. 1765. t.4. p.315. titolo.
(9. Maggio. Domenica. 1824.). . Lucian. opp. 1687. 1.777. fin.
Enquérir, s'enquérir (inquirere,
enquirir, inchiedere) - enquêter, s'enquêter (quasi inquisitare,
inchiestare), enquête (inchiesta, come requête
richiesta), enquêteur (inquisitor, inchieditore), enquérant,
enquis participio. Riferiscasi al detto altrove in proposito di quaeritare,
quaesitus, quisto ec.
(10. Maggio. 1824.)
Non è forse cosa che tanto consumi ed
abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte
la vita non è fatta che per il piacere, poichè non è fatta
se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso
è imperfetta la vita, perchè manca del suo fine, ed è una
continua pena, perch'ella è naturalmente e necessariamente un continuo e
non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di
piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?
(11. Maggio. 1824.)
L'infinito in luogo dell'imperativo, del che
ho detto altrove, si usa in greco massimamente colla negazione, il che è
al tutto conforme all'uso italiano. Vedi per es. alcuni pseudoracoli in versi
nel Pseudomantis di Luciano, opp. 1687. t.1 pag.765. lin.14. 28. 778. fin. in
due de' quali luoghi notisi il nominativo coll'infinito, come in italiano.
(12. Maggio. 1824.)
[4088] Bien razonado,
cioè que razona bien. Cervantes
Novelas exemplares. Milan. p.2.
(13. Maggio. 1824.)
Malheureux per scellerato e peggio
ancora, cioè aggiuntovi il disprezzo. Aggiungasi al detto altrove in
questo proposito.
(14. Maggio. 1824.)
Affidé cioè fidato
per fido, fedele. Aggiungasi al detto altrove sui participii aggettivati
o sostantivati, come anche affidé talora è sostantivo.
(14. Maggio. 1824.)
Ai frequentatativi in esso altrove notati,
aggiungi petesso o petisso da peto, del quale v. Forcell.
aggiungendo a' suoi esempi due che si trovano nel lungo frammento di Cicerone
de suo Consulatu, che sta nel primo de Divinat., i quali esempi dimostrano pur
la forza frequentativa di petesso.
(15. Maggio. 1824.)
Nei frammenti delle poesie di Cicerone
massime in quelli delle sue traduzioni di Arato, che si trovano principalmente
citati da lui, come nei libri de Divinat. ec., sono abbondantissimi i composti,
e in particolare quelli fatti di più nomi, alla greca (come mollipes),
gran parte de' quali, se non la massima, non debbono avere esempio anteriore, e
mostrano essere coniati da lui ad esempio del greco, e forse per corrispondere
a quelli appunto che traduceva.
(15. Maggio. 1824.)
J . Lucian.
opp. 1687. t.1. p.887.
(15. Maggio. 1824.)
Diminutivi positivati. Ranunculus
(onde ranocchio, grénouille ec. di cui altrove). Vedine la definizione
nel Forcell. (15. Maggio. 1824.)
[4089]Ai composti di jugare
notati altrove, aggiungi seiugare, cioè seiungere.
(17. Maggio. 1824.)
Clepo is psi ptum - , quasi clepto
as da cleptum di clepo. Il caso è al tutto simile a
quel di apo-aptum-apto-, di cui
lungamente altrove, eccetto che clepto lat. non si conosce (è però
ben verisimile), e viceversa clepo è più noto e certo di apo
benchè parimente antiquato. Avvi anche clepso is, se è
vero. Vedi Forcell.
(17. Maggio. 1824.). V. pag.4115.
Il diminuimento spagnuolo in ico ica
dee venire dal lat. iculus, icula, iculum, come ho detto altrove di
altre diminuzioni spagnuole italiane francesi.
(17. Maggio. 1824.)
Cosa cioè causa per
res. Uso proprio di tutte tre le lingue figlie. V. Forc. in Causa
se ha nulla; il Gloss. ec. Anche causa si dice in italiano e in francese
ec. spessissime volte per res, come la causa pubblica, in causa
propria, giovava alla sua causa (rei suae o rebus suis), e nel Guicciardini
è frequente questo parlare.
(17. Magg. 1824.). Vedi la pag.4294.
Premo-pressum-presser, pressare co'
derivati. Aggiungilo al detto altrove de' composti oppressare, soppressare
ec. e v. gli spagnuoli.
(17. Magg. 1824.)
Marceo, ant. marcitum; marcire
marcito; marchito spag. - marchitarse, marchitable.
(18. maggio. 1824.)
nel modo
e senso dello spagnuolo luego, del che altrove. Luciano opp. 1687. t.1.
p.897. J ib.
(18. Maggio. 1824.)
[4090] Altro per niuno,
del che altrove. Senz'altro mezzo. Speroni Dialoghi, Ven. 1596. p.275.
verso il fine. (20. Maggio. 1824.). Nel Petrarca Canz. Una donna più
bella ec. strofe 3. Altro volere o disvoler m'è tolto; altro
sta per alcuna cosa, nulla, quidquam.
(20. Maggio 1824.)
Si riprende l'uomo che non sia mai contento
del suo stato. Ma in vero questo non è che la sua natura sia
incontentabile, ma incapace di esser felice. Se fossero veramente felici, il
povero, il ricco, il Re, il suddito si contenterebbero egualmente del loro
stato, e l'uomo sarebbe contento come possa essere qualunque altra creatura,
perch'egli è altrettanto contentabile.
(20. Maggio. 1824.)
Rodo-rosum-rosicchiare, rosecchiare,
rosicare (volg.). Frequentativo o diminutivo.
(20. Maggio. 1824.)
Alla p.4081. L'uomo sarebbe onnipotente se
potesse esser disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo,
cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare.
(21. Maggio. 1824.)
S'è veduto altrove come la
irregolarità e i vizi palpabili delle ortografie straniere vengano in
gran parte dall'aver voluto accomodare le loro scritture alla latina. Ora egli
è pur curioso che gli stranieri vogliano poi pronunziare la scrittura
latina nel modo in cui pronunziano la propria. Questa non corrisponde alla
parola pronunziata perchè l'hanno voluta scrivere alla latina, e le
parole latine le vogliono poi pronunziare [4091]colla stessa differenza
dalla scrittura, che usano nel pronunziar le loro parole, perchè sono
male scritte. Ma se esse sono male scritte, le latine sono scritte bene;
però s'hanno a pronunziar come sono scritte e non altrimenti; e gli
stranieri mostrano di non ricordarsi che essi non pronunziano diversamente da
quel che scrivono, se non perchè vollero scrivere alla latina, e che
l'origine di questa differenza tra il loro scritto e il parlato, e della loro
scrittura falsa, fu l'aver voluto scrivere alla latina mentre parlavano in
altro modo, e l'aver voluto seguitare materialmente la scrittura latina, non
falsa ma vera. Ora avendola malamente voluta prendere per modello, e con
ciò falsificata la loro scrittura, pretendono poi per questa cagione
medesima che quella sia falsa come la loro, e perchè la loro è
falsa perciocchè segue quella; il che è ben lepido. (21. Maggio.
1824.). Quelli poi che non hanno tolta l'ortografia loro da' latini (sebben
tutti in parte l'han tolta o immediatamente o mediatamente), e quelli che l'han
tolta, in quelle cose in cui la loro non deriva da quella, ma è pur
viziosa manifestamente perchè ripugna al lor proprio alfabeto, tralascia
lettere e sillabe che s'hanno a profferire, ne scrive che non s'hanno a pronunziare;
come mai, dico, questi tali hanno da credere che l'ortografia latina sia e
viziosa perchè la loro lo è, e macchiata di quei vizi appunto che
ha la loro, diversissimi poi in ciascuna, di modo che ciascuna nazione
straniera pronunzia il latino diversamente?
(21. Mag. 1824.)
[4092]Alla p.4064. Da questo
ragionamento segue che la maggior parte degli altri animali (poichè la
vita naturale dell'uomo è delle più lunghe, e il suo sviluppo corporale
è de' più tardi)[265]
sono anche per questa parte naturalmente più felici di noi, tanto
più quanto il loro sviluppo è più rapido, al che
corrisponde in ragion diretta la brevità della vita, perchè il
Buffon osserva ch'ella è tanto più breve quanto più rapida
è la vegetazione dell'animale (s'intende del genere, e spesso anche
degl'individui rispetto al genere) l'accrescimento del suo corpo e
facoltà, le sue funzioni animali per conseguenza, e il giungere allo
stato di perfezione e maturità; e viceversa. Questo si osserva per lo
meno in quasi tutti i generi anche vegetali. (Buffon, nel capitolo, se non
erro, della Vecchiezza). Ond'è che p.e. i cavalli e poi di mano in mano
gli altri di sviluppo più rapido, sino a quegl'insetti che non vivono
più d'un giorno (v. il mio Dial. d'un Fisico e di un Metafisico) sieno
tutti di mano in mano più e più disposti naturalmente alla
felicità che non è l'uomo, nonostante che la brevità della
vita loro sia nella stessa proporzione; la qual brevità o lunghezza non
aggiunge e non toglie nè cangia un apice nella felicità d'alcun
genere di animali (nè anche negl'individui), come ho dimostrato nel
Dial. succitato e nel pensiero a cui questo si riferisce.
(21. Maggio. 1824.)
[4093] Le mulina. Crus. e
Guicc. t.3. p.361. bis.
(23. Maggio. Domenica. 1824.)
Diminutivi positivati. Sciurus-écureuil
(ant. escureuil da sciuriculus o altro simile), schiratto (Pozzi
nel Bertoldo; noi volgarmente schiriatto) diminutivo o disprezzativo, scoiatto
(Pulci nella Crus.), scoiattolo sopraddiminutivo, o sopraddisprezzativo.
Gli spagnuoli harda, hardilla.
(23. Maggio. Domenica. 1824.)
En tanto in ispagnuolo (del che
altrove) o spesso o sempre vuol dire infino a tanto, come nelle Novelas
exemplares di Cervantes p.79. ediz. citata alcuni pensieri più
sopra.
(23. Maggio. Domenica. 1824.). Così
noi mentre per finchè.
Retinere per ricordarsi, come
in ital. ec. ritenere. Così anche il suo continuativo retentare
sta espressamente per ricordarsi in un luogo di Cic. de Divinat. l.2.
c.29. tradotto da Omero, il quale vedi, Il. 2 v.301.
(23. Maggio. 1824. Domenica.)
Inconsideratus per non
considerans, qui considerare non solet. Vedi Forcell. e Cic. de Divinat. 2.
c.27. Così consideratus nel senso contrario. V. Forcellini.
(23. Maggio. Domenica. 1824.)
Cieo cies civi citum (diverso
da cio iis ivi itum)[266]
co' suoi composti, aggiungasi ai verbi della seconda che hanno il perfetto in vi,
e il supino in itum breve, de' quali altrove. E v. il Forcell. in cieo
fine.
(27. Maggio. Festa dell'Ascensione. 1824.)
[4094] Periurus sembra
esser contrazione di periuratus o peieratus che pur si trovano,
benchè in altro senso (per peiero si disse anche periero e
periuro). Così iuratus, coniuratus ec. in sensi analoghi. Exanimus
e inanimus debbono esser contrazioni di exanimatus e inanimatus,
che pur si trovano. Similmente semianimus di un semianimatus dal
semplice animatus. Innumerus debb'esser contrazione di un innumeratus
dal semplice numeratus, con significato d'innumerabilis, come invictus
per invincibilis e tanti altri simili, di cui altrove, e v. il Forc. in illaudatus.
Queste contrazioni aggiungansi al detto d'inopinus necopinus ec. dove si
prova che anche in latino vi fu il costume di contrarre il participio della
prima colla detrazione delle lettere at, costume frequentatissimo
nell'italiano anche in voci per niente latine di origine.
(27.-28. Maggio. 1824.)
Non solo gli antichi avevano tanto alta idea
della natura umana che la stimavano poco inferiore alla divina, come ho detto
altrove parlando de' semidei, ma credevano ancora le anime nostre parenti,
emanazioni, parti della divinità, divine esse stesse, e quasi dee ( J). Della
quale opinione non già volgare, anzi propria de' filosofi, e questi
molti e diversi, vedi fra i mille luoghi degli antichi, Cic. de Divin. l.1.
c.30.
(28. Maggio. 1824.). Cic. de nat. deor. l.1. c.11. 12. Vedilo
anche ib. 2. c.53. fin. 62. principio.
[4095]Diminutivi greci positivati. -, . V. Scap.
e Luciano in Lexiphane p.2.
(29. Maggio. 1824.)
Il tale rassomigliava i piaceri umani a un
carcioffo, dicendo che conveniva roderne prima e inghiottirne tutte le foglie
per arrivare a dar di morso alla castagna. E che anche di questi carcioffi era
grandissima carestia, e la più parte di loro senza castagna. E
soggiungeva che esso non volendosi accomodare a roder le foglie si era contentato
e contentavasi di non gustarne alcuna castagna.
(30. Maggio. Domenica. 1824.)
Rassomigliava qualunque (Comparava ogni)
piacere umano a un carcioffo dicendo che ne bisogna rodere e trangugiare tutte
le foglie volendo arrivare a dar di morso nella castagna, e che di questi
carcioffi è carestia grandissima, ed anche la maggior parte di loro
è sole foglie senza castagna. E soggiungeva che esso non si potendo
accomodare a ingoiarsi le foglie ec.
(31. Maggio. 1824.)
ci mancherebbe questo. Idiotismo
comune al greco e italiano. Lucian. opp. 1687.
t.1. p.787. init. V. Crus. e Forcell. in supersum se hanno nulla. –
in
quanto che. V. Lucian. ib. 786. e lo Scap. ec. modo pur comune, e del quale
o cosa simile ho detto anche altrove.
(31. Maggio. 1824.)
Diminutivi positivati. Vedi Creuzer
Meletemata e Disciplina antiquitatis Lips. 1817. sqq. par.3. p.112. lin.28.
p.130. lin.23-24. dove però s'inganna quanto al supporlo necessario,
perchè non sempre [4096]questi tali sono diminutivi, come ho
provato altrove coll'esempio di iaculum, speculum ec.
(1. Giugno. 1824.)
Sisto in vece di venire dal greco , come si
crede e ho detto altrove, ben potrebbe venire da sto per duplicazione,
non ignota neppure ai latini (come usitatissimo fra i greci), massime antichi,
come ho mostrato altrove coll'es. di titillo da , e dei
perf. cecidi ec. ec. E la mutazione della coniugazione dalla prima nella
terza, sarebbe appunto come nei composti di do (del che pure altrove) anch'esso
monosillabo come sto. E quanto al significato e all'uso ec. chi non vede
l'analogia fra sto e sisto?
(1. Giugno. 1824.)
Il tale diceva non esser ben detto quel che
si afferma comunemente che basta l'apparenza p.e. a un letterato per essere
stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l'apparenza non solo basta,
ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola
necessaria. Perocchè la sostanza senza l'apparenza non fa effetto alcuno
e nulla ottiene, e l'apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente
di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il
tutto stare nella sola apparenza. (1. Giugno. 1824.)
Chi vuol vedere la differenza che passa tra
l'antica filosofia e la moderna, e quel che di questa ci possiamo promettere,
le consideri ambedue sul trono, cioè [4097], la quale
non hanno i filosofi privati. Ora se egli è vero che la qualità
d'ogni cosa non d'altronde si conosca meglio e più veramente che dagli
effetti, da quelli de' principi filosofi si dovrà giudicare delle due
filosofie meglio che da' privati, i quali hanno per necessità più
parole che effetti, o effetti più deboli, e più desiderii e
progetti che esecuzioni, perchè quel che vogliono, massime in cose
grandi e rilevanti, nol possono. Paragoninsi dunque fra loro Marcaurelio e Federico,
ambedue, si può dire, perfetti nella rispettiva filosofia, ambedue
filosofi in parole e in opere, e corrispondenti ne' loro fatti alle loro massime.
E si troverà quello in un secolo inclinante alla barbarie essere stato
il padre de' suoi popoli ed esempio di virtù morali d'ogni genere anche
a' privati ed a tutti i tempi. Questo in un secolo sommamente civile essere
stato il maggior despota possibile, il più freddo egoista verso i suoi
popoli, il più indifferente al loro bene e curante del proprio, e solito
e determinato ad antepor questo a quello, il maggior disprezzatore dico ne'
fatti e in parte eziandio ne' detti, della morale in quanto morale, della
virtù in quanto virtù, e del giusto come giusto; in somma, se non
il più vizioso (chè egli non l'era per calcolo), certo il men
virtuoso principe del suo tempo, e forse di tutti i tempi, perchè non
avendo niuna delle virtù che vengono, o vogliamo dir venivano dalla
forza della mente, mancava anche di quelle che nascono dalla debolezza (come
n'erano in Luigi XV.). Fu anche disaffezionato stranamente alla sua patria,
come gli è stato [4098]agramente rimproverato dai Tedeschi e fra
gli altri da Klopstock, decisamente vago delle cose straniere, e solito
d'antepor gli stranieri ai suoi nell'affetto, nella inclinazione e nei fatti.
(1. Giugno. 1824.)
Alla p.4085. Qua si dee riferire il nostro
elegante uso di aggiungere il pronome pleonastico nelle frasi indeterminate,
coll'ottativo, come, che che egli si voglia, comunque ciò si accada,
per quanto egli si dica, non meno che me le sia servitore Caro, lettera a
nome del Guidiccioni lett.35. o neutri o attivi che sieno i verbi. Ne' quali
casi il pronome è sempre dativo ed accidentale al verbo, e s'inganna a
partito chi sopra alcuno esempio sì fatto, battezza quel tal verbo per
neutro passivo, come par che voglia fare il Rabbi o il Bandiera ne' Sinonimi v.
Affermare, dove allegando il Bocc. Nov. 19. quantunque tu te
l'affermi (cioè per quanto tu te lo affermi, maniera
indeterminata) e chiamandolo modo toscano, ne cava il verbo affermarselo,
verbo nullo, perchè in tale e simili frasi indeterminate tutti o quasi
tutti i verbi attivi o neutri passivi possono ricevere questa forma e ricevonla
elegantemente (sia ciò proprietà toscana o altrimenti), ma fuor
di tali casi in niun modo si direbbe affermarselo o affermarsi,
come io mi affermo che tu ec. o egli se lo afferma asseverantemente,
(1. Giugno. 1824.); e il luogo del Boccaccio non prova che ciò si possa
dire. Chi che si fosse, qual o qualche se ne fosse la cagione, qual si
sia o qualsisia, non so chi si fosse che ec. non so [4099]
che o quello che si faccia o si voglia ec.
(2. Giugno. 1824.). V. p.4103.
Pesado per pesante, que pesa,
tanto nel proprio come nel figurato.
(2. Giugno. 1824.)
Non si può meglio spiegare l'orribile
mistero delle cose e della esistenza universale (v. il mio Dialogo della Natura
e di un Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche
falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi
fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il
quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e
la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio.
Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso
quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L'essere
effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per
impotenza innata e inseparabile dall'esistenza, anzi pure il non poter non essere
infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all'uomo
e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri
principii e la nostra esperienza. Or l'essere, unito all'infelicità, ed
unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria
dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la
sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque l'essere
dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se [4100]medesimo.
La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione
dell'esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere
infelice, e compresa in lei); cioè nell'essere, ed essere per
necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria.
Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e
principio di essere malamente, come può stare, se il male per sua natura
è contrario all'essenza rispettiva delle cose e perciò solo
è male? Se l'essere infelicemente non è essere malamente,
l'infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè
contraria e nemica al suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè
tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente
dev'essere un bene per quell'ente. Chi può comprendere queste
mostruosità? Intanto l'infelicità necessaria de' viventi è
certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza
nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l'essere. Ma
questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non
è, sia meglio di qualche cosa? L'amor proprio è incompatibile
colla felicità, causa della infelicità necessariamente, se non vi
fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la
felicità non può aver luogo senz'amor proprio, come ho provato altrove,
e l'idea di quella suppone l'idea e l'esistenza di questo.
Del resto e in generale è certissimo
che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e
di mille qualità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i
lumi e l'esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e
tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione
Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare
alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla
nostra ragione. (2. Giugno. 1824.). - Vedi un'altra evidente contraddizione
della natura, e si può dire, in cose fisiche, [4101]notata alla
p.4087. e anche nel citato dialogo.
(3. Giugno. 1824.)
J in senso
simile all'italiano in quanto o in quanto che, del che, e simili
altre frasi, ho detto altrove. Luciano opp. 1687. t.1. p.800.
(3. Giugno. 1824.)
J per primum.
Luciano ib. p.805.
(3. Giugno 1824.)
Diminutivi positivati. Radium-rayon.
(4. Giugno. 1824.)
Oficio descansado,
cioè donde el hombre descansa. Cervantes Novelas exemplares, Milan 1615. p.192.
(4. Giugno 1824.)
A proposito di quel che ho scritto altrove
sopra un luogo di Donato ad Terent. relativo al digamma, dove si parla di Davus,
anticamente DaℲus ec.
notisi che i Greci dicevano infatti , o o o , e v.
Lucian. opp. 1687. t.1. p.797. e not. e p.996.
(4. Giugno. 1824.)
En el entretanto que.
Cervantes loc. cit. qui sopra, p.195.
(5. Giugno. 1824.)
Divido-diviser.
(7. Giugno. 1824.)
In quanto per poichè
alla greca, del che altrove in più luoghi. Vedi Bembo opp. t.3. p.129.
col.2. fine e Rabbi Sinonimi v. poichè, e Crusca se ha nulla.
(9. Giugno. 1824.)
Altro per nulla ec. V. Caro
Lettera a nome del Guidiccioni, lett. 15. fine. finchè non ho altro
in contrario (modo comunissimo: avere o non avere altro in contrario,
coll'interrogazione o positivo ec.), lett. 7. fine. senza darne altra
(niuna) notizia al Padrone.
(10. Giugno. 1824.)
Rilevato per rilevante, e
così relevado in Cervantes Novelas [4102]exemplares. Milan
1615. p.252.
(11. Giugno. 1824.)
Hasta tanto come in
ital. fino a tanto ec. di cui altrove. Cervantes loc. cit. qui sopra,
p.263.
(11. Giugno. 1824.)
Illustratus per illustris,
il participio per l'aggettivo. V. l'index
latinitatis a Cic. de rep. e il Forcell.
(12. Giugno. 1824.)
Il tale negava che si potesse amare senza
rivale. E domandato del perchè, rispondeva: perchè sempre l'amato
o l'amata è rivale ardentissimo dell'amante (del proprio amante).
(13. Giugno. Domenica della SS. Trinità. 1824.)
. Lucian.
op. 1687. t.2. p.28. verso il fine. p.31. princip.
(14. Giugno. Vigilia di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.)
Al detto altrove della somma facoltà
e fecondità della lingua greca, non ancora esaurita nè spenta,
aggiungi che oggidì chi vuol sostituire al suo proprio qualche nome
finto espressivo di qualche cosa, o dar nome significativo a qualche personaggio
immaginario, come Moliere nel Malato immaginario, nei nomi de' medici, o
nominar qualche nuovo essere allegorico, o nuovamente nominare i già
consueti ec. ec. non ricorre ordinariamente ad altra lingua (qualunque sia la
sua propria, in tutta l'Europa e America civile) che alla greca.
(15. Giugno. Festa di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.)
J. Luciano
opp. 1687. t.1. p.41-42.
(16. Giugno. Vigilia della Festa del Corpus-Domini. 1824.)
quanto, per ciò
che spetta alla navigazione. Luciano loc. cit. qui sopra. p.34.
(16. Giugno. Vigilia della Festa del Corpus-Domini.
1824.)
[4103] Tutto quanto, tutti quanti - , , , , , ec. ec.
V. lo Scapula ec. ec.
(20. Giugno. Domenica. 1824.)
Alla p.4099. Qua spetta il nostro idiotismo
sempre comune tra noi, massime nello scritto, dal
(21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.)
Ficulneus - ficulnus appo
Orazio, e nóta che l'us vi è breve.
(21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga.
1824.)
Experimentado per esperto,
come noi sperimentato ed esperimentato, del che altrove. Cervantes Novelas exemplares. p.354. Milan
1615. 432.
(22. Giug. 1824.)
Altro per nulla, cosa alcuna.
Guicc. t.4. p.50. ediz. di Friburgo: innanzi tentasse altro: e non aveva
ancora tentato niente.
(23. Giugno. Vigilia di S. Giovanni Battista. 1824.)
Il est
aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque (celle du Christianisme)
dut produire dans les moeurs. Les femmes, presque toutes d'une imagination vive
et d'une ame ardente, se livrèrent à des vertus qui les
flattoient d'autant plus, qu' elles étoient pénibles. Il est presqu'égal pour
le bonheur de satisfaire de grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est
heureuse par ses efforts; et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer
son activité contre elle-même. Thomas Essai sur les Femmes. Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4. p.340.
(24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista. 1824.)
[4104] Agnomen, cognomen, coi
derivati ec. aggiungansi al detto altrove circa il g premesso a varie
voci latine, come nosco agnosco ec. Anche nomen viene da nosco.
(25. Giug. 1824.)
Il tale diceva che noi venendo in questa
vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi
star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte
da ogni parte, e proccura in vari modi di appianare, ammollire ec. il letto,
cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno,
finchè senz'aver dormito nè riposato vien l'ora di alzarsi. Tale
e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e
giusta scontentezza d'ogni stato; cure, studi ec. di mille generi per
accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o
almen di riposo, e morte che previen l'effetto della speranza.
(25. Giugno. 1824.)
- intanto,
del che altrove. Luciano opp. 1687. t.2. p.48. principio, 51. dopo il mezzo. 64.
(25.
Giugno. 1824.)
Plus le
lien général s'étend, plus tous les liens particuliers se relâchent. On paroît
tenir à tout le monde, et l'on ne tient à personne. Ainsi la
fausseté s'augmente. Moins on sent, plus il faut paroître sentir. Thomas,
loc. cit. qui dietro, p.448. Questo ch'ei dice dei legami di società
sostituiti a quei di famiglia, di ristrette amicizie ec. ben puossi applicare
all'amore universale sostituito al patrio al domestico ec.
(27. Giugno. Domenica. 1824.)
Callado per tacente, come tacitus
da taceo-itum, del [4105]che altrove. Cervantes Novelas exemplares, Milan 1615. p.431.
(27. Giugno. 1824.)
Dilettare-dileticare coi
derivati ec. frequentativo o diminutivo alla latina, e può anche
aggiungersi agli esempi delle forme frequentative italiane di verbi, da me altrove
raccolte.[267]
Avvertasi però che ha un significato diverso da dilettare, e
forse è corruzione di solleticare, e così diletico,
che altrimenti sarà un diminutivo o frequentativo di diletto.
(29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.)
L'infelicità abituale, ed anche il
solo essere abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor
proprio, estingue a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione,
ogni virtù di sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi
ogni facoltà. La cagione è che una tale anima, dopo quella prima
inutile disperazione, e contrasto feroce o doloroso colla necessità,
finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha altro espediente per
vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il tempo, che un
abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio, perchè
l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma.
Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che
è possibile. Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle
sue facoltà. L'uomo che non s'interessa a se stesso, non e capace
d'interessarsi a nulla, perchè nulla può interessar l'uomo se non
in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e di qualunque
sorte ella sia. Le bellezze della [4106]natura, la musica, le poesie
più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o tragici, le sventure o le
fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno in lui nessuna
impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli destano
immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere
nè dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano
a mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e
della sua immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di
tutto, inutile a se e agli altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è
finita quando l'amor proprio ha perduto il suo ressort. Ogni potenza
dell'anima si estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida,
perchè la furiosa è pienissima di speranza, o almeno di
desiderio, ed anela smaniosamente alla felicità nell'atto stesso che
impugna il ferro o il veleno contro se medesimo. Ma il desiderio è
più spento che sia possibile in un'anima avvezza a vederli sempre contrariati,
e ridotta o per riflessione o per abito o per ambedue a sopirli e premerli.
L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono
agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le azioni che
gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si
riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in
un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non
d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra
di se. Ora [4107]senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè
rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, quell'anima già
poco prima sì tenera è insensibile alle lagrime, inaccessibile
alla compassione. Si moverà anche a soccorrere, ma non a compatire.
Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea di dovere o piuttosto
di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un piacere che gliene venga.
La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto, e
quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima la più
grande e fertile per natura.
Questo medesimo effetto che produce la
infelicità, lo produce, come ho detto, l'abito di non provare o non
vedersi d'innanzi alcuna apparenza di felicità, alcun dolce futuro,
alcun piacere grande o piccolo, alcuna fortuna della giornata o durevole,
alcuna carezza e lusinga degli uomini o delle cose. L'amor proprio non mai
lusingato, si distacca inevitabilmente dalle cose e dagli uomini (fosse pur
sommamente filantropo e tenero), e l'uomo abituandosi a non veder nella vita e
nel mondo nulla per se, si abitua a non interessarvisi, e tutto divenendogli
indifferente, il più gran genio diventa sterile e incapace anche di
quello di cui sono capacissimi gli animi per natura più poveri,
infecondi, secchi ed inetti. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio
natalizio. 1824.). Il che sempre più privandolo d'ogni illusione e
successo dell'amor proprio, sempre più conferma in lui l'abito di
noncuranza, e d'inettitudine e spiacevolezza. Trista condizione del genio,
tanto più facile a cadere in questo stato (che certo [4108]non
è strettamente proprio se non di lui), quanto da principio il suo amor
proprio è più vivo, e quindi più avido e bisognoso di
lusinghe e piaceri e speranze, meno facile ad apprezzare e soddisfarsi di
quelle e quelli che agli altri bastano, e più sensibile alle offese e
punture che i volgari non sentono.
(29. Giugno. Festa di S. Pietro. dì
mio natalizio. 1824.). V. p.4109.
o -frissonner.
Notinsi in questo verbo due cose. La derivazione manifesta dal greco, e la
forma diminutiva o frequentativa.
(30. Giugno. 1824. Anniversario del mio Battesimo.)
Della lingua universale, o piuttosto
scrittura universale progettata da alcuni filosofi, vedi Thomas Éloge de
Descartes, Oeuvres, Amsterdam 1774, t.4. p.72.
(2. Luglio, Festa della Visitazione di Maria Vergine Santissima.
1824.)
Come tutte le facoltà dell'uomo siano
acquisite per mezzo dell'assuefazione, e nessuna innata, fin quella di far uso
de' sensi, da' quali ci vengono tutte le facoltà; insomma, come l'uomo
impari a vedere, e nascendo non abbia questa facoltà, benchè egli
non si accorga mai d'impararla, e naturalmente creda che ella sia nata con lui,
vedi fra gli altri il Thomas loc. cit. qui sopra, p.59-60.
(2. Luglio. dì della S. Visitazione
di Maria. 1824.)
C'est
ainsi que les grands Hommes découvrent, comme par inspiration, des vérités que
les hommes ordinaires n'entendent quelquefois qu'au bout de cent ans de pratique
et d'étude; et celui qui démontre ces vérités après eux, acquiert encore
une gloire immortelle. Thomas [4109]loc. cit. qui dietro, p.37. Sa
géometrie étoit si fort au dessus de son siècle qu'il n'y avoit
réellement que très peu d'hommes en état de l'entendre. C'est ce qui
arriva depuis à Newton; c'est ce qui arrive à presque tous les
grands hommes. Il faut que leur siècle coure après eux pour les
atteindre. Id. ib. not.22.
p.143.
(2. Luglio. Festa della Visitazione di Maria
Santissima. 1824.)
Alla p.2811. marg. E così anche
potrà esser fatto da un preterito di o , da ec.
(2. Luglio. Festa della Visitazione della
Beatissima Vergine Maria. 1824.)
Alla p.4008. fine. Così il bul
in bbi, (nebula, nebbia), ec. Insomma generalmente l'ul in
i, con duplicazione della consonante precedente, se la sillaba in latino
è pura come in ne-BU-la, e non impura, come in misculare (mi-SCU-lare),
onde si fa mi-SCHI-are, e non mis-CCHI-are.
(3. Luglio. 1824.)
Alla p.4108. Come l'uomo non è capace
d'imprender nulla che non abbia in qualunque modo per fine se stesso,
così i cattivi successi continui in quanto a se stesso, o la continua
mancanza di successi qualunque dell'amor proprio, scoraggisce naturalmente
l'uomo dall'intraprender più nulla, nè anche il sacrifizio di se
stesso, e lo rende incapace e inabile a tutto per la mancanza di coraggio. Lo
scoraggimento è proprio e facile sopra tutto agli animi dilicati e
grandi. (3. Luglio. 1824.). V. p. seg.
Anche tra i greci fu in uso in certi luoghi
lo spettacolo di combattenti mercenarii. V. Luciano sulla fine del Toxaris sive
de Amicitia, opp. 1687. t.2. p.72. Furono poi introdotti a' tempi romani in
alcune città greche (d'Asia o d'Europa) i circhi e i ludi gladiatorii [4110]usati
in Roma. E forse di questi tempi intende Luciano di parlare, anzi certo,
poichè dal resto del Dialogo apparisce che egli finge il Dialogo a'
tempi romani. Del rimanente, v. Fusconi Dissertat. de Monomachia Rom. 1821.
p.9. not.43. (4. Luglio. Domenica. 1824. infraottava della Visitazione di Maria
Vergine Santissima.). V. anche Luciano 2. 111.
Calcagna
(4. Luglio. 1824.)
Alla pag. antecedente. Un tal uomo ha tanto
coraggio a operare o a risolversi di operare quanto chi è certo o quasi
certo di non conseguire il fine di una operazione particolare.
(4. Luglio. Domenica infraottava della
Visitazione. 1824.)
Il titolo di divino (divinamente
ec.) solito darsi in greco, in latino e nelle lingue moderne per una
conseguenza dell'uso di quelle, agli uomini e alle cose singolari, eccellenti
ec. ancorchè in niente sacre nè appartenenti alla
Divinità, non avrebbe certamente avuto mai principio nè luogo nel
Cristianesimo. Esso uso è un residuo dell'antica opinione che innalzava
gli uomini poco più sotto degli Dei ec., del che altrove in più
luoghi.
(6. Luglio. 1824.)
Al detto altrove circa l'uso latino conforme
all'italiano di usare pleonasticamente il pronome dativo sibi, v. anche
il Forcell. in mihi, tibi, nobis e simili altri dativi di pronomi
personali.
(7. Luglio. infraottava della Visitazione di Maria Vergine
Santissima. 1824.)
Diminutivi positivati. Sommolo. V. la
Crusca.
(7.
Luglio. 1824.)
[4111] Expérimenté (instruit par l'expérience) inexpérimenté (qui
n'a point d'expérience).
(11. Luglio. Domenica. 1824.)
Diminutivi positivati. Myrtus, - mortella
(se è però la stessa pianta). V. franc. spagn. ec. ec.
(11. Luglio. Domenica. 1824.)
Quando noi diciamo che l'anima è
spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo
in sostanza una negazione, non un'affermazione. Il che è quanto dire che
spirito è una parola senza idea, come tante altre. Ma perocchè
noi abbiamo trovato questa parola grammaticalmente positiva, crediamo, come accade,
avere anche un'idea positiva della natura dell'anima che con quella voce si
esprime. Nel metterci però a definire questo spirito, potremo bene accumulare
mille negazioni o visibili o nascoste, tratte dalle idee e proprietà
della materia, che si negano nello spirito, ma non potremo aggiungervi niuna
vera affermazione, niuna qualità positiva, se non tratta dagli effetti
sensibili, e quindi in certa guisa materiali, (il pensiero, il senso ec.) che
noi gratis ascriviamo esclusivamente a esso spirito. E quel che dico
dell'anima dico degli altri enti immateriali, compreso il Supremo. (11. Luglio.
Domenica. 1824.). - Tanto è dire spirituale, quanto immateriale;
questa, voce affatto negativa grammaticalmente, quella ideologicamente.
(11. Luglio. Domenica. 1824.)
Diminutivi greci positivati. o - o V.
Scapula e Luciano opp. Amsterdam 1687. t.2. p.98.99. più volte.
(12. Luglio. 1824.)
[4112] Sensato per sentito
o per sensibile (come invitto per invincibile ec. del che
altrove) quasi da un senso as continuativo di sentio sensum,
vedilo nella Crusca. Vedi ancora Forcell. Gloss. ec.
(14. Luglio. 1824.)
Al detto altrove che i derivativi latini si
formano dagli obbliqui e non dal retto dei nomi originali, aggiungi una prova
evidente più che mai Jovialis e simili da Juppiter Jovis.
(Vi saranno ancora altri simili esempi da simili nomi). Così in greco da . (Plat. in Phaedro ec.) (14. Luglio. 1824.). Anche in
greco i derivativi sono sempre, se non erro, dal genitivo (o noto o ignoto, o
di un dialetto o comune ec.) non
è da (gen. ) ma o da (genit.),
o piuttosto è come da ec. ec.
(15. Luglio. 1824.)
Diminutivi positivati. . (V.
Lucian. opp. 1687. 2. 83.) .
Così ginocchio è diminutivo positivato di genu.
(14. Luglio. 1824.)
Descansado, che ha riposato, detto di persona.
Cervantes, Novelas exemplares, Milan. p.580.
(15. Luglio. 1824.)
Adultus o venga da adolesco o
da adoleo è originariamente participio neutro passato, di un
verbo neutro.
(15. Luglio. 1824.)
Diminutivi positivati. Muscus-muschio.
Desatentado. Cervantes
loc. cit. qui sopra p.605.
(16. Luglio. 1824.)
[4113] Entreabrir, entre oscuro
(Cervantes loc. cit. qui dietro, p.588.) e simili (v. il Diz. spagnuolo in entre...)
aggiungasi al detto altrove dell'antico uso d'inter per fere ec.,
conservato ne volgari moderni. Così in franc. entrevoir ec. ec.
(16. Luglio. 1824.)
Apercebido, di cui altrove, notisi che
non è participio di verbo neutro, ma attivo, ed è participio
passivo.
(17. Lugl. 1824.)
Del bello esterno come sia relativo vedi un
luogo insigne di Cicerone De Natura Deorum 1. 27-29.
(19. Luglio. 1824.)
Diminutivi greci positivati. .
(20. Luglio 1824.)
Frequentativo. Tâter - tâtonner coi
derivati.
(20. Lugl. 1824.)
Diminutivi positivati. Capella, capretta
coi derivati, metafore ec. Così oveja (ovicula) per ovis.
Così ouaille ec. Così vitello per vitulus.
Così agnello, agneau per agnus. Così mulet
per mulus. Così asellus per asinus. Così femelle
per femina di bestie. (v. Forc. in Femella). Così catellus
per catulus. Così uccello, augello ec. oiseau, per avis.
Così poulet per pullus. Così noi muletto,
muletta. (V. la Crusca.) Così usignuolo, rosignuolo ec. rossignol
franc. (v. gli spagnuoli e Forcellini in Lusciniola) per luscinia.
Così cardellino, cardelletto, calderugio, caderino, calderello
(v. gli spagnuoli e i francesi) per carduelis. Così poisson
per piscis. Così taureau per taurus. (v. la Crus.
in torello se ha niente a proposito). ec. ec. (22. Luglio. 1824.).
Così chiocciola ec. Così allodola, lodola ec. (v.
spagnuoli e francesi) per alauda. Così , ec.
Così hirondelle, pecchia, abeille ec. struzzolo, passereau,
passerculus, J ec. [4114]Così
forse anche nei nomi di piante, come bietola ec., e d'altri generi di
cose naturali, usuali ec.
(22. Luglio. 1824.). V. p.4115.
Diminutivi greci positivati. . V. Scap.
(22. Luglio 1824.)
Al detto altrove delle porpore ec. in
proposito di vermiglio, aggiungi che
è quel donde si fa il colore, come vermis, e
diminutivo che è quel che si tinge, come vermiglio. V. lo
Scapula.
(22. Luglio. 1824.)
Coltare, coltato da colo-cultum.
V. la Crusca, e il Gloss. Forcellini, Dizionari franc. e spagn.
(23. Luglio. 1824.)
Immensus, smisurato ec. per immensurabile.
(24. Lugl. 1824.)
Amaricare frequentativo alla latina,
come fodicare ec. V. Crus. Forcell. ec. ec.
(24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo
Apost.)
Diminutivi greci positivati. o o o , . V. i
Lessici, e Luciano opp. 1687. init. Galli, t.2. p.158. fine.
(24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo
Apostolo, mio omonimo.)
J ec. Luciano ib. p.165.
(24. Luglio. 1824. Vigilia di San Giacomo
Apostolo.)
Absortar da absorbeo. Cervantes Novelas exemplares. Milan 1615
p.733.
(27. Lugl. 1824.)
Verbo diminutivo. Rado-rasum-raschiare.
(27. Luglio. 1824.)
Diminutivi positivati. Chorea, carola,
caroletta, quasi choreola. V. il Forc. e gli etimologisti, e nóta
che carola è propriamente ballo tondo, com'era quello dei cori,
onde , , e chorea
ec.
(27. Luglio. 1824.)
[4115]Un notabile esempio di verbo
continuativo usato in senso affatto continuativo ec. vedilo in Cic. de Nat. Deor. 2. 49. fine, ut in pastu circumspectent.
(29. Luglio. 1824.)
Alla p.4114. principio. Così cornacchia,
corneille ec. per cornix; araneola, araneolus (v. gli spagnuoli) per
aranea, araneus; ; ranocchio,
grénouille ec. per rana.
(29. Luglio. 1824.)
- , - . Lucian.
opp. 1687. t.2. p.189. fine.
(29. Luglio. 1824.)
Inauditus per qui non audit. V. Forc. Odorus, inodorus per qui odoratur
ec. (odorus ec. è lo stesso che odoratus ec.) in senso
abituale. V. Forcellini.
(2. Agosto, secondo dì del Perdono. 1824.)
- mi
rincuoro, mi assicuro, ec. di fare una cosa, cioè confido di poterla
fare. V. Lucian. opp. 1687. 2. 226. lo Scap. ec. Un altro italianismo vedilo
ib. p.884. fin. dove credo ben
che sia la vera lezione ma falsissima la interpretazione del Grevio, e tengo
che significhi al cabo de los trabajos, come noi pur diciamo in capo
a o di, cioè in termine, alla fine di.
(5. Agos. 1824.)
Percussare. Crusca.
(6. Agosto. 1824.)
Alla p.4089. Clepo-cleptum onde clepso
is, ben potrebbe esser esso l'origine del gr. in vece
che viceversa, come apo di ec. O se
ciò in clepo non si ammette, neppure in apo, sebbene di
questo veggiamo anche in latino il continuativo apto, laddove clepto,
onde , non
sarebbe stato conservato dai latini. [4116]Del resto clepso is potrebb'essere
un continuativo anomalo di clepo da clepsum per cleptum,
come vexo da vexum per vectum ec. del che altrove.
(10. Agos. 1824.)
Dell'amor dei vecchi alla vita v. il capo
118. di Stobeo (ed. Gesn.) Laus vitae, e massime il luogo di Licofrone.
(10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire.
1824.)
J, (in quanto che, cioè
poichè ) . Lucian.
opp. 1687. t.2. p.236.
(10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire.
1824.)
Vinciturus. Forc. in Vinco fin.
(12. Agosto. 1824.)
Dissimulatus in senso
attivo. Forcell.
(12. Agos. 1824.)
Reconocido per riconoscente. Omisso
per que omite, trascurato. Nota che il participio di omitir, se
vi ha questo verbo in ispagnuolo, è omitido. Idea de un Principe
politico Christiano representada en cien empresas por Don Diego de Saavedra
Faxardo. Amstelodami. Apud Joh. Janssonium iuniorem 1659. p.115. lin.23. Trascurato,
straccurato ec. per che suol trascurare, negligente ec.
(13. Agosto. 1824.)
diminutivo positivato per . Lucian.
opp. 1687. p.263. t.2. Anzi è aggiunto all'aggettivo . Forse
però è disprezzativo, e così, o come un diminutivo
positivato di J, intendo
nella per antecedente verso il fine la parola J, piuttosto
che nel senso distinto che lo Scap. le attribuisce, il quale non debbe esser
proprio se non degli Scrittori militari, se pur nello Scap. lorica sta
per arma di uomo, e non per riparo murale ec. Vedilo. non
è dello Scapula, nè del Tusano, Budeo, Schrevelio. (13. Agosto.
1824.). . V. lo
Scap., Longino sect.9. p.24. e quivi il Toup. p.174. ec.
(14. Agos. Vigilia dell'Assunta. 1824.)
[4117] ... J, , J , J J. Longin.
sect.9. ed. Toup. Oxon. 1778.
p.21.
(14. Agos. Vigilia dell'Assunzione di Maria Santiss.
1824.)
S'enquérir (inquirere). Al detto di quaerito.
(17. Agos. 1824.)
Vermiglione, vermillon. Al detto
di vermiglio.
Verbo diminutivo o frequentativo. Trembloter.
(17. Agos. 1824.)
J. Lucian.
init. lib. De Gymnas.
(17.
Agos. 1824.). J . t.2.
p.536.
Scappare-scapolare.
Uomo ben considerato, per
savio, prudente ec. Tacit. Davanz. Stor. l.3. c.3.
(18. Agos. 1824.)
J. Lucian.
opp. 1687. t.2. p.280.
Della pretesa J degli
ateniesi ed attici, v. Luciano l.c. e quivi la nota.
(19. Agosto. 1824.)
Retinere per ricordarsi, del
che altrove, è anche dei francesi, e vedi gli spagnuoli.
(24. Agos. Vigilia di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.)
Delle idee concomitanti annesse a certe
parole, del che dico altrove, v. Thomas, Essai sur les Éloges, chap.7. fin.
p.78. oeuvres t.1. Amst. 1774. Dell'influenza della letteratura e filosofia
sulla lingua, e della formazione della lingua latina ib. p.112-6. chap.10.
(25. Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e p.214-215.
[4118] Resabido,
spagnuolo, saputo, saputello ec. per saccente, cioè sapiente, che
sa, ec. V. la Crus. ec.
(25. Agos. 1824.)
Compassione nata dalla bellezza anche verso
chi per molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che
si stima esser sempre un giudice giusto. Vedi Thomas loc. cit. qui dietro,
chapitre 26. p.46-47.
(26. Agos. 1824.)
Delle vicende della lingua francese, v.
Thomas l.c. chap.28. p.85-97.
(26. Agosto. 1824.)
. Lucian.
opp. 1687. t.2. p.306. principio.
(28. Agosto. 1824.) p.516.
se non
quanto per se non che ec. V. un luogo di Eliodoro nelle Var. Lez.
del Mureto l.9. c.4. Il luogo è delle Etiopiche lib.3.
(28 Agos. 1824.)
J .
Senofonte l.1.
cap.2. §.39.
(29. Agosto. Domenica. 1824.). Luciano 2. p.545.
Pendo-penso as, pesare, pesar, peser.
Declamitare.
(31. Agosto. 1824.).
in
questo, in questa (avverbio), en esto. Senof. loc. sup. cit. l.2. c.1. §.27.
init. Lucian. t.2. p.638. 652.
(1. Sett. 1824.)
J per luego,
ib. c.6. §.32. luogo notabile, non inteso dal Leunclavio.
(1. Sett. 1824.)
Perpétuel, éternel ec. non
sono diminutivi positivati, come dico altrove, ma vengono da perpetualis,
aeternalis ec.
(2. Sett. 1824.)
J per J ec. V.
Senofonte l.3.
cap.12. §.8. fin. del capo.
(3. Settembre. 1824.)
Dispettare, rispettare, respecter ec. da despicio
despectum ec.
(3. Settembre. 1824.)
Osservato per osservante. V. la
Crusca.
(5. Sett. 1824. Domenica.)
[4119] Observito as.
Forcellini.
(5. Sett. Domenica. 1824.)
Ω , J . Socrates
ap. Xenoph. . IV. 3.7.
(7. Sett. Vigilia della Natività di Maria Vergine SS.
1824.)
per primum
o verbigratia, luogo notabile. Senof.
. IV. 7. 2
(7. Sett. Vigilia della Natività di Maria
Vergine Santissima. 1824.)
A quello che ho detto altrove sul proposito
che tra gli antichi felicità e bontà si stimavano per lo
più o sempre congiunte, e per lo contrario infelicità e
malvagità, v. fra l'altre cose Senofonte nel fine dei Memorabili e
dell'Apologia dove prova che Socrate fu fortunato nella morte, mostrando che il
provare la sua felicità anche a' suoi tempi era parte e forma di apologia
e di lode. E mille altri esempi se ne trovano negli antichi, chi ha pratica di
loro ed osserva bene.
(7. Sett. 1824.)
Cura spagn. per curato. V.
un es. simile di Ovid. e altri nel Forcell. in Cura fine.
(11. Sett. 1824.)
Curato, curé per qui
curat, curator.
(11. Sett. 1824.)
ec. - la
lunghezza di lei di poco non aggiugne a cento miglia. Porzio Congiura de'
Baroni ec. Lucca 1816. lib.1. p.35.
Luciano
opp. 1687, t.2. p.338. mezzo.
(15. Sett. 1824.)
Della stolta opinione che negli animali la
natura sia stata più larga di bellezza a' maschi che alle femmine, come
è ragione, ma negli uomini per lo contrario, il che è assurdo, e
nasce questa opinione dalla idea del bello assoluto, e dal credere che
assolutamente sia bellezza maggiore quella che a noi per cagioni relative par
tale, onde il donnesco è chiamato il bel sesso, laddove se le sole donne
giudicassero, o chi non fosse donna nè uomo, chiamerebbe senza dubbio
bello il sesso degli uomini maschi, come negli altri animali, vedi il Tasso
Dial. del Padre di famiglia, opp. Venezia 1735. ec. vol.7. p.379. che è
prima del mezzo del Dialogo.
(15. Sett. 1824.)
. Luciano
opp. 1687. t.2. p.342.
(16. Sett. 1824.)
Diminutivi greci positivati. J - J. V. ib.
350. e notisi che Luciano è solito usare tali positivazioni.
(16. Sett. 1824.)
[4120] per primum.
Luciano ib. 363. fine (19. Sett. Festa di Maria Vergine Santissima Addolorata.
1824.) 666. 669. Plato Lugd. 1590. p.745. B.
Sentimenta.
(20. Sett. 1824.). Vizia, moggia.
Sedeo es, sido is - sedo as.
(21. Sett. 1824.)
Necessitado per bisognoso,
que necessita.
(22.
Sett. 1824.)
Verberito as.
(22. Sett. 1824.)
Lucian. 2. 385. - se
non quanto, eccetto che. Male l'interprete. Bene p.559. nisi
quod.
Diciamo volgarmente quanto per solo,
come un po' d'acqua quanto per estinguere la sete ec. Così in
greco , e non
solo.
(25. Sett. 1824.)
J. Luciano
2. 389.
- in
breve, brevemente, (cioè in una parola, uno verbo, e non brevi
temporis spatio, come l'interprete) ogni cosa. Luciano 2. 390. 361.
567. e ivi not. Di tal frase greco-italiana, altrove.
(25. Sett. 1824.)
Turbo-tourbillon,
diminutivo positivato.
(29. Sett. Festa di S. Michele Arcangelo. 1824.)
Simulato, dissimulato, disimulado ec. per che
simula ec. V. Forcell. e i Diz. spagnuoli e francesi.
(30.
Sett. 1824.)
For, fatum-fator fataris.
(1. Ott. 1824.)
se non
quanto, eccetto che. Lucian. 2.455. fine.
- bastasiare,
bastaggiator oris. Voci latino-barbare usitate negli annali antichi e carte
antiche pubbliche di Recanati, per facchino ec. Basto sost. viene
dalla stessa fonte. V. Forc. Gloss.
Crus. ec.
(3. Ott.
Festa di Maria
Vergine Santissima del Rosario. Domenica. 1824.)
J . Lucian.
2. 496.
(4. Ott. 1824. Festa di San Francesco di Assisi.). J . ib. 500. fine.
, - in
quanto, poichè. Lucian. 2.510.512.
- intanto.
Luciano 2. 507.
(6. Ottobre. 1824.). 536.557.640.
Storno-stornello, étourneau -
(sturnus). V. gli spagnuoli.
(8. Ottobre. 1824.)
probabilmente diminutivo positivato - ride (franc.).
(10. Ott. 1824.)
Non solo, come ho detto altrove, nessun
secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede
essere il non plus ultra dei progressi dello spirito umano, e che le sue
cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civilizzazione difficilmente o in
niun modo possano essere superate dai posteri, certo non dai passati. (10. Ott.
Domenica. 1824.). V. la p.4124. Così non v'è nazione nè
popoletto così barbaro e selvaggio che [4121]non si creda la
prima delle nazioni, e il suo stato, il più perfetto, civile, felice, e
quel delle altre tanto peggiore quanto più diverso dal proprio. V.
Robertson Stor. d'America, Venez. 1794. t.2. p.116. 232-33. Così le nazioni
mezzo civili, o imperfette, anche in Europa ec. E così sempre fu.
(15. Ottobre. Festa di Santa Teresa di Gesù. 1824.)
Sfidato per diffidente.
Crusca. (22. Ottobre. 1824.). Provveduto per provvido, provvidente.
Pandolfini, Mil. 1811. p.114. 169. e altrove, sebbene non così formalmente
o evidentemente. V. la Crusca. (22. Ott. 1824.). Biasimato per biasimevole.
Pandolfini p.194.
(24. Ottobre. Domenica. 1824.)
-.
(25. Ott. 1824.).
J J. Luciano,
o di chiunque è il Dialogo, in Fugitivis, t.2. opp. p.595.
(26. Ott. 1824.)
ridondante,
nel significato e modo che noi pur diciamo, massime toscanamente così,
del che mi pare aver detto anche altrove; vedi Luciano, o chiunque è l'autore,
nei Fuggitivi, t.2. opp. p.598.
Presumido per presuntuoso.
(28. Ott. 1824.)
Della pretesa J degli
Ateniesi vedi Goguet Origine ec. ed. di Lucca 1761. p.52. not. a. tom.1.
(7. Novembre. Domenica. 1824.)
Della invenzione dell'uso del fuoco, della
quale ho parlato altrove, quanto fosse difficile e tarda ec. v. Goguet loc.
cit. qui sopra, p.58-60.
(7. Nov. Domenica. 1824.)
Diminutivi positivati. Succus,
succo-succhio.
(10. Nov. 1824.)
Risentito, sentito in senso
neutro. V. la Crus.
ec. - massime in quanto o
in quanto che ec. Luciano 2. 634.
(12. Nov. 1824.)
Issuto, essuto, antichi
participii italiani per stato del verbo essere. Aggiungansi al
detto altrove di suto, sido ec.
(14. Nov. Festa della B. Vergine del Patrocinio. 1824. Domenica.)
Diminutivi positivati. Rastrum-rastello
ec.
(14. Nov. Festa del Patrocinio di Maria
Santissima. 1824. Domenica.)
Scossare da scuotere.
Poliziano Orfeo atto I, ed. dell'Affò, verso 14.
Esoso in senso attivo. Guicciard. 4. p.373. V. Forc. ec.
(17. Nov. 1824.)
[4122] Altro per niuno.
Guicciard. 4. 378. 389. Casa Galateo capo 1. fine. opp. Ven. 1752. t.3. p.239.
Deficere-difettare.
(19. Nov. 1824.)
-fodero,
usato, in senso di provvisione di città o piazza per assedio, anche dal
Botta nella Storia d'Italia libro 7. Ital.
1824. tom.1. p.514.
(19. Nov. 1824.)
Abundado, voce antica spagnuola per abbondante.
Saavedra Faxardo, Idea de un principe politico Christiano, Amsterdam
(20. Nov. 1824.)
Implicitus, implicatus.
Implicito as.
(24. Nov. Festa di San Flaviano Protettore di Recanati. 1824.)
Diminutivi positivati. Nepeta lat. - nepitella
ec. ital., aratrum-aratolo.
Altro per nessuno o
ridondante. Guicc. 4.398. Di quella altra (cioè niuna) dichiarazione
v. la pag. preced. di esso Guicc.
Privus per privatus,
participio. V. Forc. in privus fine.
(30. Nov. Festa di S. Andrea. 1824.)
Vilipeso per disprezzabile.
Crusca. Contemtus nello stesso senso. V. Forcell.
Liceor-licitor.
(5. Dic. Domenica. 1824.). Solito as.
Dell'italianismo , ec. dove
il ridonda,
vedi Luciano, Soloeicist. opp. 1687. t.2. p.748. nota 1. del Grevio.
(6. Dic. 1824. ottava dell'anniversario della morte di mia nonna.)
Gli occhi infra 'l mare sospinse (stando
sul lido), cioè nel mare. Bocc. Novella di Mad. Beritola e dei
cavriuoli. 30. nov. scelte, Ven. 1770. p.68.
Andava disposto di fargli vituperosamente
morire. Bocc. loc. cit. p.76.
Trasandato per negligente, che
trasanda.
(8. Dic. Concezione di Maria V. Santiss. 1824.)
-,
diminutivo positivato, (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto.
1824.), poetico. -.
(10. Dic. Festa della Venuta. 1824.)
Pseudo-Luciano nella fine del Philopatris.
p. .
Italianismo.
(13. Dic. 1824.). V. la p.4163. capoverso 5.
Altro per alcuna cosa o per
nulla in senso di aliquid. V. la Crus. in Altro §.1. e
Bocc. 30. nov. scelte Ven. 1770. p.173. principio.
(18. Dic. 1824.)
Diminutivi positivati. Germen-germoglio,
germogliare ec. V. gli spagnuoli e il Gloss. ec. Rejet-rejeton ec.
(23. Dic. Antivigilia di Natale. 1824.)
[4123]-, , .
Diminutivi positivati. per in
Luciano, Tragopodagr. p.812. lin.14. se non è sbaglio di per , come
pare in fatti che voglia il metro, (25. Dic. dì di Natale. 1824.),
poichè non credo che ivi sia
aggettivo ed
sostantivo.
Sfondare-sfondolare coi
derivati ec.
(30.
Dic. 1824.)
Conviso is.
Soverchiare, soperchiare, quasi superculare,
da supero as che vale lo stesso. V. il Glossario ec.
(2. Gen. 1825.)
Pesado per pesante. E v. la
Crus. in pesato.
(3. Gen. 1825.)
Honoratus, honorate per onorevole,
onorevolmente, come in italiano.
Honorus per honoratus in
senso di honorabilis honorificus.
(10. Gen. 1825.)
Che gli uomini siano più inclinati al
timore che alla speranza, o provino almeno assai più spesso quello che
questa, si può anche dedurre dal considerar la grande abbondanza di
parole che hanno le lingue (almeno quelle che io conosco, e in particolare il
greco, il latino lo spagnuolo l'italiano e l'inglese) per esprimere il timore,
il temere, lo intimorire, lo spaventoso, il timoroso, ec. e i suoi diversi
gradi qualità ec. laddove esse lingue non hanno che una parola o al
più due per esprimere la speranza, lo sperare ec. e queste stesse voci
sono originariamente di significato comune anche al timore, perchè
significano solo l'aspettazione del futuro, e però anche del male, in
latino in greco, in italiano in ispagnuolo (anche nello spagnuolo moderno) e
credo anche in francese e forse pure in inglese antico, del che ho detto altrove.
(21. Gennaio. 1825.)
Corpusculum per corpus,
come per . V.
l'indice dei Papiri diplomatici del Marini.
(22. Gennaio. 1825.). V. anche Longin. sect.9. e ivi il Toup.
Diminutivi positivati. Caudillo. J . Longin.
sect.9. 38.
(3. Feb. 1825.)
Digiuna (ieiunia), cioè le 4
tempora (v. Crus. in Digiune). Dino Compagni Cron. [4124]ed.
Pisa. 1818. p.98.
(6. Feb. Domenica penultima di Carnevale. 1825.)
per eccetto.
Longino sect.34.
(8. Feb.
1825.). . Plat. Gorg. p.328. D. opp. ed. Astii.
per luego
ec. Procopio Gazeo Proem. scholior. in 1. Reg. in Meurs. opp. t.8.
(11. Feb. 1825.). Platone Gorg. p.322. D. 354. D. opp. ed. Astii.
Corpusculum per corpus,
sebbene con qualche significanza diminutiva o dispregiativa. S. Girolamo ap. Menag. ad Laert. VI. 38.
(13. Feb. ultima Domenica di Carnevale. 1825.)
A proposito di quello che altrove ho detto (p.4120-1.)
della opinione avuta da tutti i secoli (e così dalle nazioni) anche i
più barbari, di essere superiori in civiltà, in perfezione, anche
in letteratura (benchè ignorantissimi), a tutti i secoli precedenti, e a
ciascun d'essi, anche civilissimo e letteratissimo, vedi un bel luogo del Petrarca,
citato e tradotto elegantemente da Perticari nel Trattato degli Scrittori del
300, lib.1. capit.16. p.92.93.
(14. Feb. 1825.)
per rursus,
appunto come noi da capo (che altrimenti si disse ). V. Flegone de Mirabil. c.1. ap. Meurs. opp. t.7. col.81.
lin.32-3. 62. Dissero i nostri antichi anche di ricapo. V.
anche Arrian. Alexand. l.5. c.27. §.14.
Dissero ancora J , come ha
lo stesso Arriano l.5. c.26. §.6. ovvero unito,
come in Demost. J . Tusano.
(15. Feb. ultima di Carnevale. 1825.). V.
le mie Observationes a Flegone loc. cit.
Altro ridondante. Ricordano
Malespini Cronica o Storia Fiorentina ed. Fir. 1816. di Vincenzio Follini,
p.219. nota 2. al capitolo 12. Ora incomincieremo a dire delle divisioni
grandi le quali vennono in Roma tra il popolo minuto e gli ALTRI maggiori
(cioè i grandi, i potenti, gli ottimati, i reggenti) di Roma.
Appunto alla greca.
(17. Feb. primo Giovedì di Quaresima 1825.)
per . Apollon.
Dyscol. Histor. commentit. c.3. due volte, dove anche 2 volte
indifferentemente e col senso stesso.
(17. Feb. 1825.)
Anche i greci dissero (almeno in tempi
alquanto bassi) auricula
per auris.
V. Apollon. Dysc. l.c. c.28. ex Aristot. V. anche
lo Scap. in e . Vedi
pure il Gloss. se ha nulla.
(17. Feb. 1825.)
Le prime sillabe di chri-stianisme e
di cry-pte si pronunziano al modo stessissimo. Perchè dunque
sì diversamente scrivonsi? Ciò non accade certo in italiano
(dove, eccetto alcuni pochissimi casi in cui si scrive diversamente per distinzione,
come ho, - o, quel che è diversamente scritto, diversamente
sempre si pronunzia, e viceversa) e non è da credersi che accadesse
nè in latino nè in greco. Questo è un altro dei principali
difetti [4125]che può avere un'ortografia, che le parole o sillabe
ugualmente pronunziate, diversamente si scrivano; e viceversa che le ugualmente
scritte si pronunzino diversamente. Il che per ambe le parti accade spessissimo
in francese in inglese ec. e anche in ispagnuolo.
(18. Feb. 1. Venerdì di Quaresima 1825.)
Trovasi nella storia commentizia d'Apollonio
Discolo cap.24. un tratto il quale fa credere che anche gli antichi conoscessero
quella razza d'uomini detti mori bianchi, della quale v. Voltaire opere
scelte, Londra (Venezia)
(18. Feb. 1825.)
diminutivo per Scap.
Così in Apollon. loc. sup. cit. c.44. , dove
forse s'ha a leggere da
diminutivo V. i grammatici i Lessici e Aristotele nel luogo quivi cit.
dall'aut. e dal Meurs.
Verbi attivi richiedenti l'accusativo, usati
col genitivo al modo italiano, francese ec. (come mangiar del pane, prendere
della tersa). V. Antigono Caristio. Hist. mirabil. c.40.41.44.56.fine.
Nel detto Antigono c.56. pare che si trovi usato
avverbialmente per di nuovo. Il luogo è corrotto e bisogna vederlo
nelle ult. edizioni.
(20. Feb. Domenica. 1825)
iminutivi positivati -. V. Meurs. ad Antig. Caryst. Mirabil. cap.115. -. Scap. . V. Scap. et Antigon. l.c. cap.174.
J per efficere,
reddere, come in ispagnuolo poner, del che altrove, v. Plat. Gorgia,
opp. ed. Astii, tom.1. p.360. lin.24.
(27. Feb. 1825.)
Mille-mila plur. da millia: e
così miglio-miglia.
Gerere - belli-gerare, fami-gerare ec.
Altro ridondante. Ricordano
Malispini Stor. Fior. Firenze 1816. c.96. fine. Il Villani nel luogo parallelo
lib.5. c.33. omette altri.
(3. Marzo. 1825.)
, il
genitivo per l'accusativo. Herodian. Histor.
lib.1. ed. Lugd. 1611. p.50.
(5. Marzo. 1825.)
Diminutivi positivati. - . Scap. ed
Erodiano l.c. p.13. fin. -.
per (come
dice poco dopo). Erodiano Histor. l.2. init.
[4126], per oltre,
praeter, come il nostro senza, e il franc. sans, e à
moins e lo spagn. sin e a men (o amen) de ec.
V. Forcell. se ha nulla ec.
(8. Mar. 1825.)
Ferramenta, vasellamenta, e
simili, da' nomi in ento. Comandamenta.
Dalla mia teoria del piacere séguita che
l'uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera
non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha,
cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente maggior piacere,
perocchè egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere
infinito. E che l'uomo in ciascuno istante della sua vita pensante e sentita
desidera infinitamente di più o di meglio di ciò ch'egli ha.
(12. Marzo. 1825.)
Discordato per discordante, discorde.
Cinta plurale di cinto.
Ricordano Malespini c.162.
Circa l'origine, se non della religione
(cioè dell'opinione della divinità), almeno del culto, dal timore
v. nell'Abrégé de l'origine de tous les cultes, par Dupuis. Parigi 1821.
chap.4. p.86-93. come quasi tutti i popoli avendo ammesso due principii, due
generi di divinità, le une buone e benefiche, le altre cattive e malefiche,
i più selvaggi riducevano o riducono del tutto o principalmente il loro
culto alle seconde, ed alcuni anche le stimavano più potenti delle
prime, laddove i più civilizzati, (come i Greci nella favola dei Giganti)
hanno supposto il principio cattivo vinto e sottomesso dal buono.
(19. Marzo. 1825. Festa di S. Giuseppe.)
Improvviso per qui non providit,
o non providet, sprovvisto (e questo ancora è piuttosto per chi
non ha provvisto che per chi non si è o non è
provvisto, e così sprovveduto). Ricordano Malespini. Fir.
1816. c.49. p.44. fine. c.168. p.134. non provveduto nello stesso senso.
Ricordano c.198. G. Vill. l.7. c.24. V. Forc. Crusca ec.
(21. Marzo. 1825.)
Gioia-gioiello, jewel (ingl.).
Vedi Franc. Spagn. ec. Bush (ingl.) - buisson. V. i Diz.
franc.
Porfiado per que porfia. Profuso
per che profonde. V. Crus. Forc. spagn.
franc. ingl.
Obliviscor da un perduto verbo oblivio-obbliare
per obbliviare, mangiato il v al solito, e congiunti i due i
in uno, come obblio da oblivium. V. Forc. ec.
Sporgere - sportare. (23.
Marzo. 1825.). Che porto as venga da [4127] porrigo,
contratto il suo porrectus in portus (v. Forcell. ec.) come
appresso di noi (porgere - pórto, sporgere - spórto), e come perrectus
è contratto in pertus nel despierto e despertar
spagn. da espergiscor, del che abbiamo detto altrove?
(24. Marzo. Vigilia dell'Annunziazione di Maria SS. 1825.)
Bollito per bollente. Fiorito
per fiorente: florido spagn. fleuri.
Particolare, particulier ec. (come
chose particulière ec.) si dice spesso per singolare,
straordinario, non comune ec. V. questo medesimo uso del greco nelle mie
osservazioncelle sugli autori greci de mirabilibus meursiani, p.9. linea
6. di esse osservazioni e la giunta fattavi in un polizzino.
(27. Marzo 1825. Domenica delle Palme.)
Detenido per que se detiene,
cunctator (otro detenido Fabio), e così ritenuto ec.
Reprimo is - repressar spagn.
Ciascun vizio per se senza altra cagione
(cioè senza estrinseca cagione, senza cagione alcuna di fuori di lui).
Casa Galat. c.28. opp. Ven. 1752. t.3. p.298.
(29. Marzo. Martedì Santo. 1825.)
Diminutivi positivati. Vallon franc.
Senza altro pane o biada per senza
punto di pane o biada. G. Villani l.7. c.7.
Arrojado hombre, Uomo avventato.
(2. Apr. Sab. Santo. 1825.)
D. Le
plaisir est-il l'objet principal et immédiat de notre existence, comme l'ont
dit quelques philosophes? R. Non: il ne l'est pas plus que la douleur; le
plaisir est un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement
à mourir. D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits
palpables: l'un, que le plaisir, s'il est pris au-delà du besoin,
conduit à la destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de
manger ou de boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L'autre, [4128]que
la douleur conduit quelquefois à la conservation: par exemple un homme
qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la douleur, et c'est afin de
ne pas périr tout entier. Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen
français, chap.3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou Méditation sur
les Révolutions des Empires, par le même auteur, 4me édition. Paris
1808. p.359-360. Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello
della umana, il fine dell'esistenza universale, e quello della esistenza umana,
o per meglio dire, il fine naturale dell'uomo, e quello della sua esistenza. Il
fine naturale dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza
sentita, non è nè può essere altro che la felicità,
e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il fine unico del
vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine
della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel
modificargliela, come anche nel modificare l'esistenza degli altri enti, e in
somma il fine dell'esistenza generale, e di quell'ordine e modo di essere che
hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente
in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi, non solo
perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere),
ma anche perchè sebbene la natura nella modificazione di ciascuno
animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la
mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose sono un nulla rispetto a
quelle nelle quali il modo di essere di ciascun vivente, e delle altre cose
rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere;
sicchè e la somma e la intensità del dispiacere nella vita intera
di ogni animale, passa senza comparazione [4129]la somma e
intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun
modo per fine il piacere nè la felicità degli animali; piuttosto
al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura
per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità,
e così ciascuna specie presa insieme, e così la università
dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell'ordine delle cose e nel
modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men
vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il
mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in
certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et
non esse. Un'altra contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere
gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e per natura
universale, infelici (essere - infelicità, cose contraddittorie),
si è da me dichiarata altrove.
Del resto l'argomento di Volney vale
egualmente contro quello che egli dice essere le but immédiat et direct de
la nature (intenderà, credo, la natura dell'uomo), cioè la
conservation de soimême, (negando espressamente che le bonheur
sia le but immédiat et direct de la nature, bensì un objet de
luxe, surajouté à l'objet NÉCESSAIRE ET FONDAMENTAL de la conservation).
Poichè, dato ancora, che è falsissimo, che la propria
conservazione sia l'oggetto immediato e necessario della natura dell'animale,
certo essa non lo è della natura universale, nè di quella degli
altri animali rispetto a ciascuno di loro (il che dee servire anche per il
detto [4130]di sopra). Anzi il fine della natura universale è la
vita dell'universo, la quale consiste ugualmente in produzione conservazione e
distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra
nel fine della detta natura almen tanto quanto la conservazione di esso, ma
anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono
più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale
che non quelle che favoriscono la sua conservazione; in quanto naturalmente
nella vita dell'animale occupa maggiore spazio la declinazione e consumazione
ossia invecchiamento (il quale incomincia nell'uomo anche prima dei trent'anni)
che tutte le altre età insieme (v. Dial. della natura e di un Islandese,
e Cantico del Gallo silvestre), e ciò anche in esso animale medesimo
indipendentemente dall'azione delle cose di fuori; in quanto finalmente lo
spazio della conservazione cioè durata di un animale è un nulla
rispetto all'eternità del suo non essere cioè della conseguenza e
quasi durata della sua distruzione. Similmente mille cose e mille animali che
non hanno in niun modo per fine la conservazione di un tale animale, hanno
bensì una tendenza assoluta a distruggerlo, o per la conservazione
propria o per altro. E ciò s'intenda di individui e di specie. E il
numero di tali individui o specie animali o no, tendenti naturalmente alla
distruzione di una qualsisia specie o individuo di animale (siccome di quelle
tendenti al suo dispiacere) è maggiore di quello tendente alla sua
conservazione (siccome al suo piacere).
Del resto che il fine naturale dell'animale
non sia la propria conservazione direttamente e immediatamente cioè per
causa di se medesima, [4131]si è dimostrato nel Dial. di un
Fisico e un Metafisico. L'uomo ama naturalmente e immediatamente solo il suo
bene, e il suo maggior bene, e fugge naturalmente e immediatamente solo il suo
male e il suo maggior male: cioè quello che per tale egli giudica. Se
gli uomini preferiscono la vita a ogni cosa, e fuggono la morte sopra ogni
cosa, ciò avviene solo perchè ed in quanto essi giudicano la vita
essere il loro maggior bene (o in se, o in quanto senza la vita niun bene si può
godere), e la morte essere il loro maggior male. Così l'amor della vita,
lo studio della propria conservazione, l'odio e la fuga della morte, il timore
di essa e dei pericoli d'incontrarla, non è nell'uomo l'effetto di una
tendenza immediata della natura, ma di un raziocinio, di un giudizio formato da
essi preliminarmente, sul quale si fondano questo amore e questa fuga; e quindi
l'una e l'altra non hanno altro principio naturale e innato, se non l'amore del
proprio bene il che viene a dire della propria felicità, e quindi del
piacere, principio dal quale derivano similmente tutti gli altri affetti ed
atti dell'uomo. (E quel che dico dell'uomo intendasi di tutti i viventi).
Questo principio non è un'idea, esso è una tendenza, esso
è innato. Quel giudizio è un'idea, per tanto non può
essere innato. Bensì egli è universale, e gli uomini e gli
animali lo fanno naturalmente, nel qual senso egli si può chiamar
naturale. Ma ciò non prova che egli sia nè innato nè vero.
P.e. l'uomo crede e giudica naturalmente che il sole vada da oriente a
occidente, e che la terra non si muova: tutti i fanciulli, tutti gli uomini che
veggano da prima il fenomeno del [4132]giorno e che vi pongano mente,
(se non sono già preoccupati dalla istruzione) concepiscono questa idea,
formano questo giudizio, ciò immantinente, ciò immancabilmente,
ciò con loro piena certezza: questo giudizio è dunque naturale e
universale, e pure non è nè innato (perocchè è
posteriore alla esperienza dei sensi, e da essa deriva), nè vero,
perocchè in fatti la cosa è al contrario. Così di mille
altri errori e illusioni, mille falsi giudizi, in cose fisiche, e più in
cose morali, naturali, universali, immancabilmente concepiti da tutti, e
ciò con piena certezza di persuasione, e la cui naturalità e
universalità non per tanto non prova per niente la loro verità
nè il loro essere innati. Conchiudo che l'amore e studio della propria
conservazione non è nell'uomo una qualità ec. immediata, ma derivante
dall'amore della propria felicità (che è veramente immediato), e
derivantene per mezzo di un'idea, di un giudizio (e questo falso), il quale
mancando o cangiandosi, l'uomo manca dell'amore della propria conservazione, lo
converte in odio della medesima, fugge la vita, segue la morte; il che egli non
fa nè può fare mai, nè pure un momento, verso la sua
propria felicità, ossia piacere, da un lato, e la sua propria
infelicità dall'altro; nè anche quando egli sia pazzo e furioso;
nel quale stato bene egli talvolta volontariamente si uccide, ma non lascia mai
di amare sopra ogni cosa e proccurare altresì quello che egli giudica
essere sua felicità, e sua maggiore felicità.
(5-6. Aprile. 1825.)
Sa-v-ona. Molti antichi, come G.
Villani (per es. l.7. c.23.) Sa-ona, come Faenza anche oggi per Faventia,
dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino,
del che altrove.
(6. Aprile. 1825.)
[4133]Diminutivi positivati. -. V. Du Cange Gloss. graec. e Fabric. B. G. ed.
vet. t.7. p.682. not. a. Probabilmente corrotto da Domna (siccome il Nonne
dei Francesi), come stima il Du Cange, Gloss. lat. in Nonnus, e non
venuto dall'egiziano, come dice il Fabricio, se pure anche in Egitto non si
usò questa medesima corruzione, o se ella non fu fatta originariamente
in Egitto, cioè nella lingua copta, ma sempre però dalla voce
latina Domnus e Domna. (6. Aprile. 1825.). I francesi hanno anche
Nonnette, ma Nonne e Nonnette sono ambedue burleschi e
disprezzativi al presente, sicchè tra l'uno e l'altro vi ha poca o niuna
differenza di significato. (6. Apr. 1825.). - -. V.
l'indice graecitatis di Dione Cassio.
(8. Apr. 1825.)
Tutta la natura è insensibile,
fuorchè solamente gli animali. E questi soli sono infelici, ed è
meglio per essi il non essere che l'essere, o vogliamo dire il non vivere che
il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili
(ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta,
e l'ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla
felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario.
Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l'ordine eterno del
loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una
parte essenzialmente souffrante dello universo. Poichè essi
esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello
necessario alla gran catena degli esseri, e all'ordine e alla esistenza di
questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poichè la loro
esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance.
Quindi questa loro necessità è un'imperfezione della natura, e dell'ordine
universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però
la souffrance d'una menoma parte della [4134]natura, qual
è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata
un'imperfezione. Almeno ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella
natura universale nell'ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè
gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla
immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la
parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e
perciò come una parte non minima, anzi massima, perchè grande per
valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo
di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di
estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi
che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero,
nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè conveniente
colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo
così) di pensare della natura universale, nè corrispondente
all'andamento del mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di
questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono
per necessità souffrants, e tanto più sempre, quanto
più sensibili. Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la
sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero
gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà e dignità
nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose.
(9. Aprile. Sabato in Albis. 1825.). V. p.4137.
Sentido de la perdita per que
siente (senziente, che si duole) la perdida. Penato per penante.
Crus. in penato e in penare es. ult.
Halo as-halitans.
(10. Apr. Domenica in Albis. 1825.). Alitare.
, forse in
origine diminutivo, poscia positivato.
Più tempo per del
tempo, frase frequente presso i nostri (p.e. Ricordano, [4135]cap.178.
Villani l.6. c.88. principio) sì del 300, sì del 500. - nello
stesso senso. V. le mie osservazioni a Flegonte de mirabil. c.1. col.81. lin.2.
(14. Aprile. 1825.)
Calza-calzetta, calzino. Bruzzo-bruzzolo.
Filo-fila. Uova.
Senza altra
(cioè niuna) considerazione avere dei suoi meriti. Casa Galateo
c.14. opp. Ven. 1752. t.3. p.261. fine.
, ,
sottinteso , per , . V. Toup.
ad Longinum sect.2. init. sect.9. init. sect.29. fin. 44. p.234. fin. dove non
approvo le sue emendazioni.
La società contiene ora più
che mai facesse, semi di distruzione e qualità incompatibili colla sua
conservazione ed esistenza, e di ciò è debitrice principalmente
alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa veramente non ha fatto quasi
altro, massime nella moltitudine, che insegnare e stabilire verità
negative e non positive, cioè distruggere pregiudizi, insomma torre e
non dare. Con che ella ha purificato gli animi, e ridottigli quanto alle
cognizioni in uno stato simile al naturale, nel quale niuno o ben pochi
esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come dunque può ella
aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l'assenza di questo
o di quell'errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche
verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l'esser
purificato da un errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino
non ha? Rispondo: l'uomo in natura non ha nemmeno società stretta.
Quegli errori che non sono necessari all'uomo nello stato naturale, possono ben
essergli necessari nello stato sociale; egli non gli aveva per natura;
ciò non prova nulla; mille altre cose egli non aveva in natura, che gli
sono necessarie per conservar lo stato sociale. Ritornare gli uomini alla
condizione naturale [4136]in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso
nella società, può non esser buono, può esser
dannosissimo, perchè quella parte della condizione naturale può
essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì
non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in
natura quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch'elle sieno convenienti
all'uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non
naturali, ha distrutto l'amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi
è nato, anzi rinato, uno universale egoismo. L'egoismo è
naturale, proprio dell'uomo: tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono
pretti egoisti. Ma l'egoismo è incompatibile colla società.
Questo effettivo ritorno allo stato naturale per questa parte, è
distruttivo dello stato sociale. Così dicasi della religione,
così di mille altre cose. Conchiudo che la filosofia la quale sgombra
dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti
nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce gl'intelletti
della moltitudine alla purità naturale, e l'uomo alla maniera naturale
di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente
è, dannosa e distruttiva della società, perchè quegli
errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e
conservazione della società, la quale per l'addietro gli ha sempre avuti
in un modo o nell'altro, e presso tutti i popoli; e perchè quella
purità e quello stato naturale, ottimi in se, possono esser pessimi
all'uomo, posta la società; e questa può non poter sussistere in
compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in fatti al
presente.
(18. Aprile 1825.)
per luego.
V. Toup. ad Longin. sect.23.
init.
. V. ib. p.229. fine. Diminutivo
positivato.
(27. Apr. 1825.)
[4137]Alla p.4134. Siccome la
felicità non pare possa sussistere se non in esseri senzienti se
medesimi, cioè viventi; e il sentimento di se medesimo non si può
concepire senza amor proprio; e l'amor proprio necessariamente desidera un bene
infinito; e questo non pare possa essere al mondo, resta che non solo gli uomini
e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere nè sia felice,
che la felicità (la quale di natura sua non potrebb'essere altro che un
bene ossia un piacere infinito) sia di sua natura impossibile, e che l'universo
sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene a essere
un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d'altronde
l'assenza della felicità negli esseri amanti se medesimi importa
infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza
divisa fra tutti gli esseri dell'universo, sia di natura sua, e per virtù
dell'ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt'uno
colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice
sieno quasi sinonimi.
(3. Maggio. Festa della Invenzione della Santa Croce. 1825.). V.
p.4168.
Una corona d'oro, che, secondo una
tradizione degli Ungheri era discesa dal cielo, e che conferiva a chi la
portava un diritto incontrastabile al trono. Robertson Stor. del regno
dell'Imp. Carlo V. lib.10. traduz. ital. dal franc. Colonia 1788. t.5. p.440. Ecco
pur finalmente il vero fondamento dei diritti al trono e della legittimità
di tutti i Sovrani antichi e moderni. Esso consiste nella corona che portano. E
chiunque la toglie loro e se la può mettere in capo, sottentra ipso
facto nella pienezza dei loro diritti e legittimità.
(3. Mag. 1825.)
[4138] Pauso as forse da
un antico pauo o pavo (, ), pausum.
(7. Mag. 1825.)
Quanto più l'uomo cresce (massime di
esperienza e di senno, perchè molti sono sempre bambini), e crescendo si
fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive
e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa
età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza)
hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le più
terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una lagrima.
Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l'uomo di farsi
familiare il dolore.
(12. Maggio 1825.)
Ad ogni filosofo, ma più di tutto al
metafisico è bisogno la solitudine. L'uomo speculativo e riflessivo,
vivendo attualmente, o anche solendo vivere nel mondo, si gitta naturalmente a
considerare e speculare sopra gli uomini nei loro rapporti scambievoli, e sopra
se stesso nei suoi rapporti cogli uomini. Questo è il soggetto che lo
interessa sopra ogni altro, e dal quale non sa staccare le sue riflessioni.
Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste
in sostanza molto limitate, perchè alla fine che cosa è tutto il
genere umano (considerato solo nei suoi rapporti con se stesso) appetto alla
natura, e nella università delle cose? Quegli al contrario che ha
l'abito della solitudine, pochissimo s'interessa, pochissimo è mosso a
curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di se cogli uomini;
ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario
moltissimo l'interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono
per lui il primo luogo, come per chi vive nel mondo i più interessanti e
quasi soli interessanti rapporti sono quelli cogli uomini; l'interessa la
speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte
dell'universo; della [4139]natura, del mondo, dell'esistenza, cose per
lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti
relativi alla società. E in somma si può dire che il filosofo e
l'uomo riflessivo coll'abito della vita sociale non può quasi a meno di
non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.)
coll'abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico. E se da prima
egli era filosofo di società, da poi, contratto l'abito della
solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e
finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il più favorito
e grato.
(12. Maggio. Festa dell'Ascensione. 1825.)
Tetta, tettare ec. - J ec.
Diminutivi positivati. Brachium - quasi da
un o o ec.
perduto.
(21. Maggio Vigilia della Pentecoste. 1825.)
J. Joseph.
de vita sua §.59.
(27. Mag. 1825.). §.68. J c. Apion. 2.37. p.493. lin.7.
.
Italianismo. Lo prendono (cioè lo colgono, lo soprapprendono) alle
spalle. Joseph. de vita sua §.72.
Senz'altro (niun) fine. Casa
Istruz. al Card. Caraffa. opp. t.2. p.4. lin.19. ed. Ven. 1752.
per
primum, luego ec. Pseudo-Joseph. de
Maccabeis §.1. fin. §.3. p.499. lin.4. ante fin.
(31. Maggio 1825.)
Grado-gradino. Pisum-pisello.
Struffo-strufolo ec. V. Crus.
Monosillabi latini. Flo.
Arrischiato (Baldi
Vita di Federigo di Montefeltro, Roma 1824. tom.1. p.89. princ.), arrisicato
(Crus.) per che suole arrischiarsi, che si arrischia.
Disonorato, Inonorato, Inhonoratus ec. per
disonorevole.
Honorus, inhonorus per honoratus, inhonoratus.
per praeter.
Isocr. Paneg. ed. Cantabrig. 1729.
p.175. lin.1.
[4140] Stella quasi astella
o astellum da o da .
(12. Luglio. dì di S. Gio. Gualberto. 1825.)
Tanto è necessaria l'arte nel viver
con gli uomini che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla
seco loro con artificio.
(Milano. 22. Sett. 1825.)
Spasimato per spasimante. Crus. Entendu per
intendente. Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che 'l dolce riso.
v. penult. e Canz. Poi che per mio destino, stanza 5. v.9.
Sì ch'io vo già della
speranza altiero. Petr. Son. Quando fra l'altre dame. V. anche Sestina A
qualunque animale, v. penult. e Canz. Sì è debile il filo, stanza
6. v.2 e Canz. Lasso me, st.4. v.9.
Gaio, gai franc. ec. - .
Miglio, milium ec. - millet,
diminutivo positivato. Entrailles - ,
interiora ec. Ladrillo spagn. Laterculus ec. - later. Scalino - scala,
scaglione ec.
Tra via, per in via. Petr. Son. A piè
de' colli. e altrove spessissimo fra via, e tra via, esso
Petrarca, ed altri, prosatori e poeti.
Poi per ,
cioè nondimeno ec. del che altrove. Petr. Son. Perch'io t'abbia
guardato.
J . Eupolis Comicus ap. Stob. . . p.32. ed. princeps Gesneri, Tiguri 1543.
J .
Thucydid. ap. Stob. serm.6. . (Milano.
22. Sett. 1825.) lib.2. in concione Phormionis. V. Plat. ed. Astii. t.4. p.228.
lin.12. p.236. lin.30. p.358. lin.20.23.
Se Dio facesse altro di me, vale, facesse
alcuna cosa, nulla. Così, Machiavelli, Commedia in prosa senza
titolo, opp. Italia 1819. vol.e 6° at.2. sc.1. p.328. Io guarderei molto ben
chi egli fusse, prima ch'io facessi altro, cioè nulla,
cioè cosa alcuna. Senza pensare altro, io mi avvierò là.
ib. 2. 7. 337-8. E del vecchio eramo come certissimi che prestatomi
indubitata fede, ne dovesse andar la senza pensare altro. Cioè
nulla. 3. 1. 340. La padrona subito si spoglia, e senza pensare ad altro
(a nulla) nel letto si corica. ib. 341. (Milano.).
[4141]AGGRESSER, v. a.
(verbe actif). Attaquer, être
aggresseur. Jean Molinet, Dicts
et faits notables, p.125. Articolo dell'Archéologie française par
Charles Pougens, appendice à la suite de la lettre a. Paris 1821-25.
tom. I. p.48.
(Bologna. 6. Ottobre. 1825.)
Dissimulato, Simulato, Dissimulé ec. per
dissimulatore ec. V. Forcellini.
Nel corso del sesto lustro l'uomo prova tra
gli altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è
che laddove egli per lo passato era solito a trattare per lo più con
uomini di età o maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini
più giovani di se, perchè i più giovani di lui non erano
che fanciulli, allora spessissimo si trova a trattare con uomini più
giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età, che
non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il
mondo dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere
riguardato da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di
loro, cosa tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un
certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi
generalmente o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli
soleva, e con verità, per l'addietro.
(Bologna. 8. Ottobre. 1825.)
Chi di noi sarebbe atto a immaginare, non
che ad eseguire, il piano dell'universo, l'ordine, la concatenazione,
l'artifizio, l'esattezza mirabile delle sue parti ec. ec.? Segno certo che
l'universo è [4142]opera di un intelletto infinito. - Ma sapete
voi che dalla estensione e forza dell'intelletto dell'uomo, a un'estensione e
forza infinita ci corre uno spazio infinito? L'intelletto umano non è
atto a immaginare un piano come quello dell'universo. Ma un intelletto mille
volte più forte ed esteso dell'umano, potrà pure immaginarlo. Non
vi pare che possa? Dite dunque un intelletto maggiore dell'umano un millone di
volte, un bilione, un trilione, un trilione di trilioni. Non arriverete mai ad
un intelletto infinito, e però mai ad un intelletto grande, se non
relativamente (giacchè un intelletto anche un trilion di volte maggior
del nostro, non sarebbe già un intelletto grande per se, ma solo
relativamente al nostro, e sarebbe infinitamente minore di un intelletto
infinito), e però mai ad un intelletto divino. Lo stesso dico della
potenza. L'uomo non può fare il mondo. Non però il farlo richiede
una potenza infinita, ma solo maggiore assai dell'umana. Deducendo dalla esistenza
del mondo la infinità e quindi la divinità del suo creatore, voi
mostrate supporre che il mondo sia infinito, e d'infinita perfezione, e che
manifesti un'arte infinita, il che è falso, e se ciò è
falso, niente d'infinito si dee attribuire all'autore della natura. V. p.4177.
Lascio anche stare le innumerabili imperfezioni che si ravvisano, non pur
fisicamente, ma metafisicamente e logicamente parlando, nell'universo.
Del resto quello che nella struttura ec. del
mondo e delle sue parti, p.e. di un animale, a noi pare ammirabile, e di estrema
difficoltà ad essere immaginato, non fu infatti niente difficile. Le
cose [4143]sono come sono perchè così debbono essere,
stante la natura loro assoluta, o quella delle forze e dei principii (qualunque
essi sieno) che le hanno prodotte. Se questa natura fosse stata diversa, se le
cose dovessero essere altrimenti, altrimenti sarebbero, nè però
sarebbero men buone e men bene andrebbero (o vogliamo dir più cattive e
camminerebbero peggio) di quel che fanno ora che sono così come noi le
veggiamo. Anzi allora questo che noi chiamiamo ordine e che ci pare artifizio mirabile,
sarebbe (e se noi lo potessimo concepire, ci parrebbe) disordine e inartifizio
totale ed estremo. Niuno artifizio insomma è nella natura, perchè
la natura stessa è cagione che le cose vadan bene essendo ordinate in un
tal modo piuttosto che in un altro, e questo modo non è necessario assolutamente
all'andar bene, ma solo relativamente al tale e non altrimenti essere della
natura, la quale se altrimenti fosse, le cose non andrebbero bene, non
potrebbero conservarsi ec., se non con altro modo ec.
(Bologna. 8. Ottobre. 1825.)
J per
primum. Epictet. Enchirid. Cap.V.
(para, acquire, compara tibi), , . Epictet. Enchirid. cap.31.
J J, . E se
con queste cose, cioè con tutto questo, ti conviene andare, porta
in pace quel che ti accadrà, che te ne accade. Così il
Bartoli nel Mogol, con essere, per con tutto l'essere, non ostante
l'essere. Italianismo di Epitteto, Enchiridio, cap.52.
(Bologna. 9. Ott. Domenica. 1825.). La stessa frase col senso
medesimo si trova anche cap.39. fin.
[4144] ( p. ) . M.
Antonin. VI.2. Del resto amant stoici extenuandarum rerum causa, deminutiva
(Simpson not. in Epictet. c.12.): e in Arriano et Epicteto diminutiva
significant extenuationem et vilitatem ipsius rei, non autem parvitatem
(id. ad c.24.). V. p.4145.
Museau - muso. Goupil o golpil, e per la
femmina goupille, quasi vulpilla, cangiato al solito il v
in g; antica voce francese per renard, appresso Pougens, Archéologie
française, art. Goupil, con parecchi derivati, cioè goupiller
verbo neutro, goupillage e goupilleur, dei quali pur si hanno
esempi loc. cit. t.1.
(Bologna. 10. Ott. 1825.)
Si sa quanto poco fossero considerate le
donne presso i Greci e i Romani, e come il servirle e trattarle quasi superiori
agli uomini, come si fa oggi, non avesse origine, secondo il Thomas (Essai sur
les femmes), se non nei tempi cavallereschi dai costumi dei settentrionali
conquistatori di Europa, i quali avevano un'antica loro superstizione che
riguardava le donne come tante deità. Nondimeno pare che a tempo
degl'Imperatori romani la condizione delle donne fosse già molto simile
alla presente. Lascio le odi di Orazio e i libri di Ovidio, Tibullo, Properzio
ec. Epitteto Enchirid. cap.62. J . , J , J . Dove trovo nelle note: V. Serv. ad. Virg. En. 6.397. Suet. in Claud. c.39.
(Bologna. 1825. 10. Ottobre.). V. p.4246.
Somiglianza di costumi antichi e moderni,
ovvero antichità di costumi che si credono moderni. - La lucerna di
terra cotta (fittile) [4145]di cui si era servito Epitteto, fu venduta
per 3000 dramme. V. p.4166. fin. I ricchi
Ateniesi per lusso usavano di tener servi negri. Teofrasto Caratteri cap.21. Terenz. Eunuch. 1. 2. 85. Auctor ad Herenn. IV. 50.
Visconti Museo Pio Clem. t.3. fig. 35. rappresentante la statua di un Negro
servente al bagno. Negli spettacoli antichi si gridava da capo (J) come da
noi. V. le mie noterelle latine sul Simposio di Senofonte. Similmente di tenere
in casa una scimmia o più d'una ancora. Ib. c.5. V. p.4170.4298.
Alla p.4144. capoverso
E comandolle che senza altro (nulla)
dire, per sua propria l'allevasse. Caro Gli Amori pastorali di Dafni e Cloe di
Longo Sofista, ragionamento primo, p.6. ediz. di Crisopoli (Pisa) 1814. nel
volume 2do della Collezione degli Erotici greci tradotti in
volgare.
MORDILLER.
Mordre légèrement et frequemment; faire un grand nombre de petites
morsures. Pougens Archéologie française art. mordiller, Paris 1821-5.
tom.2. p.29. Antica voce francese, adoperata anche da Scarron e dalla
Sévigné, e inserita anche nel Dizionario dell'Accademia francese nell'ediz. del
1798.
Ella è cosa forse o poco o nulla o
non abbastanza osservata che la speranza è una passione, un modo di
essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita,
cioè dalla vita propriamente detta, come il pensiero, e come l'amor di
se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è
un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno
ec. Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed è
così impossibile a ogni [4146]vivente, come l'odio vero di se
medesimo. Chi si uccide da se, non è veramente senza speranza, non
più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz'amor di se
stesso. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento
è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto
di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benchè si
possa sempre distinguere logicamente, nondimeno in pratica è
ordinariamente un tuttuno, quasi, coll'atto di desiderio, e la speranza una
quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio. (Bologna. 18. Ottobre.
1825.).
Voleter per volitare. Gill.
Durant antico poeta francese, ap. Pougens
Archéolog. franç. art. oiselet, tom.2. p.63. ed. Ét.
Pasquier ap. lo stesso, t.2. p.162. art. Pucette.
(Bologna. 19. Ott. 1825.)
Diminutivi greci positivati. -, ; o vero -, .
Il genitivo per l'accusativo. Teofrasto
Caratteri, cap.16. : , preso
del lauro in bocca.
Faux-faucille. Clientolo. Truogo-truogolo-trogolo. Grillon. V. i
Diz. francesi.
PILLOTER,
verbe actif et neutre. Exercer de petits pillages multipliés; piller de côté
et d'autre par petites portions. Antico verbo francese, col suo derivato pilloterie,
ap. Pougens, Archéologie française,
art. pilloter, tom.2. p.119-120.
(21. Ottobre. 1825. Bologna.)
Contemptus, contemptior ec. per contemptibilis
ec. Infamato per infame. V. Crus.
Profusus per che profonde. (Sallust.
Catil. 5. alieni appetens, sui profusus). V. Forcell. Ital. profuso. Spagn. profuso.
Franc. antico profus, ap. Pougens, Archéologie
française tom.2. p.152. art. profus. Inglese, profuse.
Tutti nello stesso senso attivo.
(Bologna. 23. Ott. Domenica. 1825.)
Vivuola-vivola viola: strumento musico, e
fiore. Spagn. viHuela. V. la giunta L. nella Crus. Veron. all'articolo
H. e la Crus. V. vivuola e gargagliare.
,
probabilmente diminutivo positivato.
[4147] Réviser, raviser franc. da
aggiungersi al detto da me sopra divisare avvisare ec.
Rétentive per faculté de
retenir, mémoire, substantif fém. antica voce francese presso Pougens
Archéol. franç. tom.2. p.203. Appendice à la suite de la lettre R.
art. Rétenteur. Retentiva spagn. e retentive ingl. col senso
stesso. Da aggiungersi al detto altrove di retinere ec.
per che
non conosce, attivo, come in lat. ignotus, del che altrove.
Teofrasto, Caratt. cap.23. mezzo, dove male il Coray cogli altri interpreti lo
spiega passivamente, inconnu. La
Bruyere des gens qu'il ne connoît point et dont il n'est pas mieux connu.
(Bologna. 26. Ottobre. 1825.)
Trafelato per che trafela,
trafelante. Scialacquato v. Crus. §.1. e 2.
Moscolo, muschio-muscus, musco.
Lucerta-lucertola, lucertolone ec.
Posidippe,
rival de Ménandre, reproche aux Athéniens comme une grande incivilité leur
affectation de considérer l'accent et le langage d'Athènes comme le seul
qu'il soit permis d'avoir et de parler, et de reprendre ou de tourner en
ridicule les étrangers qui y manquoient. L'atticisme, dit-il à cette
occasion, dans un fragment cité par ce Dicéarque, ami de Théophraste, dont j'ai
parlé plus haut (credo, nei Geografi greci minori si trova il pezzo di
Dicearco),[269] est le langage d'une des villes de la Grèce;
l'hellénisme celui des autres. I. G. Schweighaeuser, note 24. sur le Discours
de La Bruyere sur Théophraste. Les Caractères de Théophraste, traduits
par La Bruyere, avec des additions et des notes nouvelles par I. G. Schweighaeuser.
Paris Renouard. 1856. tome 3e des oeuvres de La Bruyere, p. LIII-IV.
(Bologna. 26. Ottob. 1825.).
[4148] Verba plur.
Autore del poema La Passione di Cristo N. S. attribuito al Boccaccio,
presso il Perticari, opp. Lugo 1823. vol.3. p.453. - Calcagna. Lineamenta.
Sacca.
Ogli si disse anticamente per occhi
(come periglio da periculum) (e quindi forse anche oglio
per occhio), benchè manchi ne' Vocabolari, e ciò con tre
esempi provò il Perticari in una sua lettera, opp. Lugo 1823. vol.3.
p.577. nota.
(Bologna. 1825. 27. Ott.)
Ronzino, ronzone,
probabilmente diminutivi positivati. Così
sillon, sillonner ec.
TROTTINER,
trotter à petits pas. Antico verbo francese, portato anche nel
Diz. di Richelet e in quello di Trévoux, e usato anche da Piron. Pougens, Archéol. franç. art. trottiner, t.2.
p.249. - Sautiller.
Tance-tançon. Parole sinonime,
francesi antiche, significanti action de tancer, de réprimander; gronderie,
dispute, querelle. Id. ib. Appendice à la suite de la lett. T. art. Tanceur,
t.2. p.251.
(Bologna. 1825. 28. Ott.)
Pouvoir - francese antico pooir,
sostantivo, come si vede ib. art. Triplication, t.2. p.248. Gengia
gengiva.
Rado, rasum-raser francese,
raschiare frequentativo-diminutivo quasi rasculare, raschiatura
ec.
Adulater, antico verbo franc. per adulare,
usato da Brantôme, Dam. gal., t.1. p.322. ap. Pougens, Archéol. franç. Additions et corrections du tome premier, page
8. art. Aduler, tom.2. p.274.
(Bologna. 1825. 29. Ottob.).
Tournoyer frequentativo ec. come flamboyer
ec. Numéroter.
Voglioloso, vogliolosamente. Freddoloso.
Nonpareil, o non pareil (v. i
Diz. franc.) - Teofr. Caratt. cap.28. (il man.
Vaticano ha ). La
sua spilorceria, miseria (così va qui spiegato ) è
cosa senza uguale, senza pari.
Enfantiller. Faire des
enfantillages, jouer d'une manière enfantine. Antico
verbo franc. ap. Pougens Archéol. franç.
Appendice à la suite de la lettre E, art. [4149] Enfantiller
tom.1. p.194. - Fendiller (se). Se gercer, s'entr'ouvrir par de petites
fentes ou crevasses. Antico verbo franc. ap. le même, même ouvrage,
art. Fendiller p.202. tom.1. et dans les Additions et corrections
du tome premier, page 202. ligne 16. tom.2. p.300.
(Bologna. 1825. 30. Ott.).
Strascinare - strascicare, strascico ec. Biasciare
biascicare.
Nota il Coray (Notes sur les
Caractères de Théophraste, ch.26. note 9. à Paris 1799. p.314.)
che GROS
signifie au figuré RICHE, citando appiè di pagina Schol.
Aristoph. Vesp. 287 e però nel 26. capo dei Caratteri di Teofrasto,
rende par PAUVRE le mot qui
signifie au propre MINCE ou MAGRE, in quelle parole cioè di
Teofrasto sopra il partisan de l'oligarchie ( ), (dice di se
medesimo) J (pauvre,
mal mis et sale. Coray). V. i Lessici in .
Similmente appunto noi diciamo grosso mercante, possidente grosso, famiglia
grossa e simili, per ricca. (Bologna. 31. Ottobre. 1825.). V. i francesi e
spagnuoli.
Soletto diminutivo positivato
aggettivo, e così nell'antico francese, seulet. Timon, cest insigne et beau haysseur d'homme, qui, tant
envieusement, mangea son pain seulet. Noël Dufail. Cont. d'Eutrapel (gros débat entre Lupold etc.) fol. 154. V.
ap. Pougens Archéol. franç. Additions et correct. tom.2. p.302. à la
page 243, ligne 6. du tome 1r.
Coccola. Rastro-rastrello ec. Fraga-fragola.
Cocuzzolo o cucuzzolo. Razzare-razzolare. Curata o corata
coratella o curatella o coradella ec. V. la Crusca.
Fiasco-flacon. Pila-pilon. V. i
Diz. franc. Radium rayon.
Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro
ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo
che più non sente ec.
(Bologna. 3. Nov. 1825.)
[4150] Satollo
diminutivo positivato aggettivo da satur, quasi saturellus, o satullus,
formandosi dalla desinenza in ur la diminutiva in ullus, collo
stesso andamento con cui da quella in er si forma la diminutiva in ellus
(puer-puellus) e forse da quella in ir quella in illus,
del che per ora non mi sovvengono esempi. V. Forc. e Gloss. in satullus
se hanno nulla.
(Bologna. 3. Novembre. 1825.)
J fortemente,
cioè molto, erta. Senofonte 1. 2. 21.
Arrampicare, rampicare, arpicare (forse
piuttosto da , come inerpicare
ec.) - rampare, ramper ec. Biancicare. Luccicare.
Variato o vaiato, svariato,
disvariato, divariato per vario o vaio (Bologna. 4. Nov. 1825.)
o svario, agg.
Uva-ugola. Notisi, oltre alla
positivazione del diminutivo il cambiamento del v in g. I nostri
antichi dissero anche uvola.
Scalprum, scalpro-scarpello coi
derivati. V. i francesi e gli spagnuoli.
Rinfocolare. Razzare-Razzolare. Brancolare.
Ruzzare ruzzolare.
Anche i verbi desiderativi (o comunque li
chiamino) si formano dai supini. Edo-esum-esurio, pario-partum-parturio,
mingo-mictum-micturio.
Agiato, agiatamente, disagiato ec. aisé,
aisément, mal-aisé ec. per agevole cioè agibilis (che
corrisponde a facilis, cioè fattibile), non sono altro che
participii in luogo di aggettivi, cioè actus in cambio e in senso
di agibilis ec.
(Bologna. 6. Nov. 1825.). Inexoratus per inexorabilis.
Burchio-burchiello. Marco, marca-marchio;
marcare marchiare. Sarda-sardella, e noi volgarmente sardone.
Tratteggiare
frequentativo. Atteggiare. Tasteggiare. Aleggiare.
Adombrato neutro, per che adombra.
V. la Crus. e anche aombrato. Trasognato per che trasogna.
Ghignare, sghignare - ghignazzare,
sghignazzare. Svolazzare. Ammalazzato. Strombazzare.
[4151] Germer, germinare lat. e
ital. - germogliare quasi germiculare o germuculare, o germinuculare.
Così germoglio, quasi germiculus o germuculus, diminutivo
positivato di germen, germe. - Spiccare-spicciolare, spicciolato ec. Abbrustolare,
abbrustolire ec. Aggrumolare. Aggroppare-aggrovigliare.
Strida, grida, pera, mela plur. V.
la Crus. Staia (sextaria).
Scricchio-scricchiolo. Nubes, nube-nuvola,
nuvolo, nugolo ec. V. Crus.
Scricchiolare. Suggere-succhiare, succiare ec. Disgocciolare.
Visco, viscoso, vesco, viscus o viscum-vischio,
vischioso, veschio. Lens-lenticula; lente-lenticchia, lentille franc. V.
gli spagn. Inviscare - invischiare ec. invescare - inveschiare.
Prezzolare. Trombettare e strombettare,
coi derivati.
Sacrato per sacro, e
così sacré e sagrado per sacer. V. Forc. in sacratus.
Tero is tritum-tritare ital. (V.
Forcell.) - stritolare.
Al detto altrove di dicere-dicare
aggiungansi i composti praedicare, dedicare ec. E notisi che sedare
sebbene è della stessa famiglia che sedere, nondimeno non appartiene
al nostro discorso più che fugare - fugere. Gli uni (sedare-fugare)
sono attivi, gli altri (sedere-fugere) neutri.
(Bologna. 13. Nov. 1825. Domenica.). Così placere-placare.
Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare.
( non porta
di ciò alcuna prova. Eratostene. Catasterismi cap.37.
(Bologna. 14. Nov. 1825.)
Più tempo per del
tempo come più anni per parecchi anni (plures anni)
frase di classici. - V. le giunte alle mie osservazioni sui taumasiografi
greci, cioè al cap.1. col.81. lin.2. di Flegone; ec.
(Bologna, 14. Nov. 1825.). Similmente i più, le più ec. - p. . V. le
cit. osservaz. ad Antigono, cap.127.
[4152] J J (idcirco,
luego, non statim, come rende il Gesnero) . Archytas Pythagoreus, de viro bono et beato ap. Stob.
serm.1. ed. Gesner. Basileae 1549. p.13.
per áncora. Socrate
ap. Stob. loc. cit. p.21. e c.2. p.33.
Bozzo volg. - bozzolo; e bozzolo
in altri significati, coi derivati. V. Crus.
Una delle maggiori difficoltà ec. consiste
nella soppressione delle vocali e nel non essersi scoperta sin ad ora la
regola costante per poterle supplire, dice il Ciampi parlando della
lingua etrusca in generale nell'Antologia di Firenze N.58. Ottobre 1825. p.55. Quali
regole sicure abbiamo, non per la lezione letterale ma per la grammaticale?
(della scrittura etrusca). È certo che le vocali spesso son
tralasciate; ma ciò facevasi egli a capriccio degli scarpellini, o per
seguitare la pronunzia, ovvero per qualche regola stenografica od ortografica,
come la scrittura massoretica degli Ebrei? Nulla ne sappiamo; e molto meno
sappiamo in qual modo si abbiano da supplire. Ib. p.57. Ciò serva
per il mio discorso sopra la cagione della soppression delle vocali nelle
scritture più antiche e più rozze e imperfette.
(Bologna. 15. Nov. 1825.)
In questo (in questa) in quello
(in quella) ec. avverbi di tempo. - grec. . J .
Senofonte, Memorab. nella favola dell'Ercole di Prodico.
Stobeo, sermone 7. de
Fortitudine, ed. Gesner. Basilea 1549. p.91. In margine: Agatarsidae
(sic) Samii in 4. rerum Persicarum. Nel testo: X [4153] . J , (in marg.
) (in marg.
) . J , , . J (Gesn. a
satellitibus) J. J , J , , JJ J , J. J , J . Il fatto
di Regolo è stato condannato per favola; quello di Muzio Scevola
potrà esserlo parimente, se non altro, col confronto di questo luogo,
forse non osservato finora.
(Bologna. 19. Nov. 1825.). V. p.4193.
J J Herodot.
l.7. c.50. ap. Stob. serm.7. . In
Erodoto si legge J J.
(Bologna. 9 Nov. 1825.)
Exhaustare ec. V. Forcell. Coltare
da colo. Crus.
Inhonorus - inhonoratus. V. Forcell.
per
verbigrazia ec. Eschine, Dial. 2. cioè , sect.24.
bis.
Il mezzo più efficace di ottener fama
è quello di far creder al mondo di esser già famoso.
(Bologna. 21. Nov. 1825.)
Analogo e confermativo [4154]di
questo detto è quello di Labruyère, che più facile
è far passare un'opera mediocre in grazia di una riputazione dell'autore
già ottenuta e stabilita, che l'ottenere o stabilire una riputazione con
un'opera eccellente.
Stefano Bizantino in dice che
la città d'Itone fu anche detta Sitone.
Eschine, Dialogo 3. Assioco, sezione 8.
parlando dei mali della vita nelle diverse età:
(rispetto, appetto a) , J . Il Wolfio
stampò , e disse
che in vece di si poteva
anche supplire o . Il
Fischer, not. 52. ed. Lips. (Aeschin. Socrat. Diall. tres) 1766. non approva il
Wolfio, e dice nam Dativus ille quidni pendere a verbo possit?
Fatto è che questo è un italianismo, cioè il dativo solo
in vece di rispetto o appetto a. V. Forcell. in ad se ha
nulla a proposito.
(Bologna. 1825. 22. Nov.)
To look for. - aspettare (ad-spectare).
Rubacchiare. Scrivacchiare. Sforacchiare.
Schiamazzare. Mormoracchiare.
Crocire-crocitare. V.
Forcellini. Sorbire-sorsare. V. Crus. e Forc. e Gloss.
Vagina-gUaina, eVaginare-sgUainare ec.
Spagn. vayna ec.
Sopracciglia.
- (bevanda
d'orzo, birra) diminutivo positivato. Significano ambedue le voci lo stesso.
Esichio.
(Bologna. 27. Nov. 1825.)
Juxta meam sententiam et idem
verbum est, ut et , , , et
alia. Ignatius Liebel ad Archilochi fragm.5. p.70. ed. Vindobon. 1818.
Freno-Frenello. V. Crusca.
Plutarch.
de Exil. t.8. p.383. ed. Reiske: [4155] , , .
.
(Taso
era nome di un'isola aggiacente alla Tracia.) A questo frammento di Archiloco
il Jacobs fa questa osservazione. . Propter
montium iuga poeta sic appellasse videtur insulam. Plurimas partium corporis
appellationes ad terrarum situm et conditionem significandam translatas
diligenter collegit Eustath. ad. Il. p.233. seqq. quaedam schol. Sophocl. in Oed. Col.691. conf. Wesseling ad
Herod. 1. p.35. 86. Promontorium Laconiae J appellatum commemorat Pausanias III. 22. p.431.
edit. Facii. Nec hoc tam Archilocho proprium fuisse puto, quam potius
montosarum regionum appellationem. Jacobs, Animadverss. in Antholog. vol.1.
par.1. p.165. seq. ap. Liebel loc. cit. qui dietro, fragm.9. p.79. Or notisi il
nostro schiena d'asino o a schiena d'asino, detto di strade ec.
(Bologna 27. Nov. 1825. Domenica.)
i. e. Odyss. . 439. J . Chariton
l. 3 c.5. p.52. 10. , ubi vid.
Dorvillium, qui ostendit hoc ve saepe pro cum
emphasi adhiberi, ut stare apud Latinos p.303. Sic Horat l.2. od.9. 5. Nec stat glacies iners Menses
per omnes. Cfr. ibi Mitscherlich (interprete ossia commentatore di Orazio)
Liebel, loc. cit. qui sopra.
Mercari, it. mercare-mercatare,
(spagn. se non fallo, mercatar), onde mercatante particip.
sostantivato, e quindi mercatantare, mercatanzia ec. e mercadante
ec.
[4156] Sfallare, sfalsare, sfallire,
aggiungansi al mio discorso sopra falsare ec.
Calcagna.
Sorbillo as. V. Forc.
Frega-fregola.
per ma su, coraggio.
Omero Il. V. 247.
Odyss. . 13. (su)
J . Eurip.
in Troasi, v.98. (Liebel, l. sup. cit. p.105. fragm.32.) - Su, orsu ec.
J (fece) , . Archiloch. ap. Stob. serm. CIX. , ap. Liebel. fragm.31. p.100., loc. sup. cit.
, dice Archiloco (fragm.34. p.110. loc. sup. cit.
ap. Galen. Dion. Schol. Theocr.
ec.) che dev'essere un Generale, e noi diremmo, pien di cuore. Italianismo.
V. i Lessici.
Dolore antico. Era frase usitata per
esprimere le sventure ec. il dire che il tale giaceva in terra,
cioè si voltolava tra la polvere, e Archiloco (ap. Stob., serm.20. ,
fragm.32. p.103. loc. sup. cit.) dice: () , J .
Aristofane, Nub. v.126. i.e. J (Liebel,
loc. sup. cit. p.106. ad fragm.32.) Archiloco medesimo (fragm.33. p.107. ap.
Stob. serm.103.) volendo dire uomini sventurati e calamitosi, dice: J. Presso
Omero (Il. 26.)
Achille udita la morte di Patroclo si gitta in terra, e così Priamo per
quella di Ettore; ed Ecuba (nell'Ecuba di Sofocle o di Euripide v.486.496.) sta
prostesa in terra piangendo le sventure sue e dei suoi, e Sisigambe madre di
Dario, udita la morte di Alessandro, si gittò in terra. Curt. X. 5. p.4243.
[4157] (ratio docet) (con tutto questo, ciò non ostante, con
questo) J . Epictet. Enchirid. c.39. (e se contuttociò) J J, . Ib. cap.52.
(Bologna 3. Dic. Festa di S. F. Saverio. 1825.)
Roma, la prima e più potente
città che sia stata al mondo, è stata anche l'unica destinata e
quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista
nè per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi,
sotto gl'Impp. (Traiano, Massimino ec. ec.), e ciò di nuovo ne' moderni
sotto i Papi (moltissimi dei quali furono non italiani), e l'una e l'altra
volta ciò passò in costumanza ed ordine fondamentale dello Stato,
cioè che il Principe di Roma potesse essere non romano e non italiano.
Così la prima città del mondo, e così l'Italia, prima
provincia del mondo, pare per una strana contraddizione e capriccio della
fortuna essere stata (nel tempo medesimo del maggior fiorire del suo impero,
sì del temporale e sì dello spirituale) condannata a differenza di
tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e
quasi conquista.
(Bologna 1. Dec. 1825.)
Onestato per onesto. Crus. Curato,
curè ec. per che cura, participio sostantivato.
Causado per que causa. Divertido
per que divierte.
Laurus-laurel.
(spagn.).
o ec. - . -. J-J.
[4158]Eustathius Odyss. t.3. p.1542. ed. rom. ubi docet in
compositis multitudinem , ,
significare, ad quod illustrandum Archilochi hunc locum adfert ( ), et per explicat.
Item t.1. p.725. Sic et Virgil. O ter quaterque beati. Et poeta Germanus: O dreymal glückliches Land! Liebel, loc. sup. cit.
fragm.92. p.202. Così , ec. ec.
(Bologna, 6. Dic. 1825.). Francesismo.
Perocchè (l'uomo) non era servo se
non di Dio, il quale doveva amare con tutto il cuore, senza altro
compagno. Cavalca Specchio di croce, capit.4. verso il fine, ediz. di Brescia,
1822. p.13.
Uomo pesato
cioè considerato ec. Crus. e v. la Crus. veron. in posato. Riposato,
posato. V. la Crusca. Riserbato ib. Perversato per perverso.
Spiare-spieggiare. Sortire-sorteggiare.
Stormeggiare, stormeggiata.
Divenire-diventare (da ventum
sup. di venio). Cupio cupitum-cupitare, covidare, convitare
(Crus.), convoiter ec. v. gli spagn. Pervertire-perversare. V.
Crus. in perversare e perversato.
FaVola-faola-fola.
Invaghire-invaghicchiare.
Notasi che gli antichi greci diedero spesso il nome di a regioni e paesi. , , . Steph. Byz. voc. .
Insulas et regiones etiam ab
auctoribus dictas esse, observat Strabo l.8. p.546. , . J . .
quae vid. Cf. ibid. Casaub. not.2. Sic et insula Cos Il. ,
676. et Lemnus, Od. J [4159]284. ab Homero nominatur. Ipse
Archilochus fragm.92. ( , ap. Eustath. Od. t.3. p.1542. ed. Rom.) insulam Thasum dicit. Lysias contra Andocid. . , , . . .
Aristides de Neptuno t.1. p.20. ed. Jebbii Oxon. 1722. J, Aeschil. . 75. insulas vocat. Sic Propert. l.3. el.9.16. observante Huschke Miscell. philol. P. 1. p.24. Praxitelem Paria
vindicat urbe lapis. - Liebel loc. sup. cit. fragm.76. p.179-80. Simili cause,
simili effetti: tempi simili, costumi simili, e lingua e parole sempre analoghe
ai costumi. Questo chiamar città i paesi, probabilmente derivò
dal modo in cui vivevano gli uomini prima delle prime città; già
bastantemente civili, bastantemente riuniti insieme, ma non però tanto
da far città in corpo, bensì borghi, e villette in gran numero,
occupanti gran tratto di paese. Tutto questo tratto si dovette da principio
chiamar , onde poi fu trasferita la
significazione a città (quando cioè le città vi
furono), e non già viceversa. Questi erano i tempi in cui Atene non era
altro che quattro (Plutar. in Thes. Euripid. Heraclid. 81.), o 11. (Steph. Byz.
J) o 12. (Theophr.
Charact. c.26. fin. in addition. ex ms. Vat.) borgate sparse per l'Attica, poi riunite da Teseo, (v.
Meurs. in Theseo) e chiamate con un solo nome Atene; e Mantinea similmente in
Arcadia ec. Ora sappiamo dalla storia che lo stesso modo di abitare a borgate
si usò nei bassi tempi; allo stesso modo poi, crescendo la nuova
civiltà, le città si formarono (v. Robertson, introduz. alla [4160]Stor.
di Carlo V), ed appunto allo stesso modo, troviamo negli antichi fino al 500,
ec. le città chiamate generalmente con nome di terre, voce
significativa propriamente di paesi, nel qual modo si chiamano anche oggi nello
scrivere con eleganza, eziandio le città grandi, in volgar comune e
favellato, i castelli, e i così detti paesi. Così in
francese anche oggi pays per città, benchè proprio nome di
regione. (V. del resto i Diz. franc. e spagn. e ingl. ec. in Terra ec. e
nei nomi di città, e così Forcell. Gloss. ec. Da terra
per città, terrazzano p. cittadino. ec.) Cosa che anche conferma
la mia opinione sopra il vero primitivo significato di .
(Bologna. 1825. 9. Dec. Vigilia della Venuta della Santa Casa.)
Tiglio-tilleul.
Selva per albero
cioè per lauro. Petr. Sestina 1. stanza 6. E per legno, ib.
chiusa.
Sentido per que siente,
(così risentito ec.), e quindi sostantivato per sentimento,
senso. Esclarecido. V. i Diz. spagn. Pausar spagn.
Sentimenta.
Aerugo o rubigo o robigo-rouille.
J , J . Severus Sophista Alexandrinus
in Ethopoeiis editis a Galeo in libello cui tit. Rhetores selecti nempe cum
Demetrio ec. Oxon.
1676., Ethop. 3. pag.221. Il genitivo per l'accusativo.
(Bologna. 16. Dic. 1825.)
Summittere per mandare in alto; o vero submittere.
V. Forcell.
Marceo o marcesco, marcitum;
marcire, marcito marchitar spagn.
Siccome ad essere vero e grande filosofo si
richiedono i naturali doni [4161]di grande immaginativa e gran
sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la
più antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all'uso della
filosofia nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure,
fredde e antifilosofiche teste sono di natura le più disposte
all'esercizio pratico della filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso pei suoi tempi
quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per natura alla pratica
della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle dottrine
più illusorie, di quelle dell'entusiasmo ec.? E infatti chi meno filosofo
di lui nella pratica, e nell'effetto che gli accidenti della vita producevano
nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi spensierati e
imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella pratica sono
il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica? Veramente, siccome
la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più filosofi per
teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla filosofia
teorica, sono i più filosofi nell'effetto. E si potrebbe anzi dire che
la mira, l'intenzione e la somma della filosofia teorica e de' suoi precetti
ec. non consiste effettivamente in altro che nel proposito di rendere la vita e
il carattere di quelli che la posseggono, conforme a quello di coloro che non
ne sono capaci per natura. Effetto che ella difficilmente ottiene.
(Bologna. 20. Dic. 1825.)
Bebido per que ha bebido. Estar
reñidos. Lucido per luciente, spagn.
ProVidens-prUdens.
J [4162] , J . Demetr. de Elocut. sect.76.
ed. Gale p.53. (Bologna. 22. Dic. 1825). J . Ib. sect.137. p.85.
(24. Dic. 1825.)
Gradito, aggradito ec. per gradevole,
grato.
(25. Dic. dì del S. Natale. 1825.)
Favorito per favorevole. V. le
Giunte Veron. alla Crus. in Favoritissimo, e la Crus. in Favorato
per prospero. Scaltrito da scaltrire per scaltro. Scalterito;
scalteritamente o scaltritamente per scaltramente ec.
Degnò mostrar del suo lavoro in
terra. Petr. Canz. Gentil mia donna, l'veggio, stanza 2. v.3.
(27. Dic. Festa di S. Giovanni Evangelista. 1825. Bologna.)
Comparatus per par, comparabilis.
V. Forc. Crus. ec.
Demetrio , sect.240. ed. Gale, Oxon.
1676. p.134. (vuol essere,
cioè dev'essere) . Id.
sect.2. p.2. (vogliono cioè debbono)
(Bologna. 28. Dic. 1825.). V. la per seg. capoverso 8. e qui sotto
e p.4224.
Al detto di J o J per potere ha attinenza
il nostro malvolentieri per difficilmente (Crus.) e volentieri
per facilmente (Giunte Veronesi).
(vuole cioè dee) J. Demetr. de
elocut. sect.28. p.22.
(Bologna. 31. Dic. 1825.)
Onde per dove, quo. Petr.
Son. Occhi piangete, v.6.
(Bologna 1. del 1826.)
Crates, grata, grada-graticcio, graticcia,
gradella, graticola, ingraticolato, craticcio (Crus. Veron.) ec. V. Forc.
in craticula, i franc. spagn. ec.
Éploré per qui plorat da s'épleurer.
Zélé per qui zèle, zelante. Homme réfléchi o irréfléchi.
Così avestu riposti De'
bei vestigi sparsi. Petr. Canz. Se 'l pensier che mi strugge. Stanz. 5. v.7. 8.
Smoccare (Crus. Veron.) - Smoccolare,
coi derivati.
Boves, bovi - buoi.
Che cosa è la vita? Il viaggio di un
zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne
ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo,
alla pioggia, al vento, all'ardore del sole, cammina senza mai riposarsi
dì e notte uno spazio di molte giornate [4163]per arrivare a un cotal
precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere.
(Bologna. 17. Gen. 1826.)
Homme réservé. Riservato. V. gli spagn. Enjoué.
Cabalgado per que cabalga o que està a caballo.
Torso-torsolo. Bitorzo-bitorsolo,
bitortolato, bitortoluto.
Incrociare-incrocicchiare ec.
Segnalato, señalado, signalé per da
segnalarsi o che si segnala o si è segnalato ec. coi
derivati. Valido per que vale appresso qualcuno ec. V. i Diz. Desvalido.
(cavendum) J (pares casus) (anceps, dubium) J, a chi riferire i detti casi.
Theo sophist. Progymnasm. 2. hoc est
de narrat. ed. Basileae
1541. p.36. L'infinito usato in modo affatto italiano.
(Bologna. 24. Gen. 1826.). V. p. seg. capoverso 3.
Hombre o cosa arriesgada,
arrischiato, arrisicato ec. per rischioso o che si arrischia.
V. i francesi in hasardé ec. Agiato per pigro, cioè
che opera ad agio, che si adagia ec.
Affettato, affecté ec. per che
affetta, o che ha affettazione.
Alla p.4162. capoverso 5. , (in loco communi) (absolute) , . In laudando et vituperando,
ne exordia quidem negligenda, loci vero huiusmodi quaedam est consideratio, ut
amputatum quiddam videatur, atque pars orationis alterius iam habitae.
(versio Joachimi Camerarii). Theo sophista, Progymnasm. 5. de loco communi, ed.
Basileae 1541. p.71.
(30. Gen. 1826. Bologna.). V. p.4212. fin.
Gli spagnuoli dicono mas ridondante o
vero per niuno come noi altro. Sin mas oro ni mas seda,
cioè senza punto d'oro nè di seta. Augustin de Roxas, Viage entretenido.
(Bologna. 1. Feb. 1826.)
Il genitivo per l'accusativo Epitteto cap.70. , piglia una boccata d'acqua
fresca.
[4164] Avenido, estar avenidos ec. per
conveniente, concorde, avvenente ec. V. i Diz. Visto spagn. per avveduto
ec. Terencio fuè mas visto en los preceptos (poco sotto dice: Porque
en esto Terencio fuè mas CAUTO). Lope de Vega, Arte nuevo de hacer comedias. Négligé, Desabrido. Consigliato,
sconsigliato, bene o mal consigliato.
Spessissimo noi, come un malato, un
convalescente, che si cura, un povero che si procaccia il vitto con gran
fatica, usando una infinita pazienza per solo conservarci la vita, non facciamo
altro che patire infinitamente per conservarci, per non perdere, la
facoltà di patire, ed esercitar la pazienza per preservarci il potere di
esercitarla, per continuarla ad esercitare. (Bologna. 4. Feb. 1826.).
Alla p.4163. capoverso 5. Analogo è questo luogo del
medesimo Teone, Exempl. progymnasm. chria 1. p.116. , (ubi) J V. p.4190.4299.
Homme mésuré, misurato, smisurato, mesurado,
desmedido ec. V. i Diz.
Affidato, sfidato per che
si affida o sconfida ec. Confiado, desconfiado ec. Desasosegado.
Resentido.
Coyuntar, descoyuntar da coniunctus,
come juntar ec. V. i Diz. Compulser, expulser.
J (monitorum) , (così ridondante,
della qual frase, altrove) , (). Theo
sophist. Exempl. progymnasm. chria 3. sub init. ed. Basil. 1541. p.129-30.
J J J (primum ante cetera veritatem huius sententiae Isocratis). Theo, loc.
sup. cit. p.130.
J ( ), J J. Ib.
p.137.
Dilatado per latus,
v. p.4167. come éloigné per lontano: dénué, assuré, rapproché,
reculé, varié, prématuré, approfondi, élevé, prolongé, rembruni, azuré, rafiné,
arrondi, infecté, participii in luogo di aggettivi.
, J.Ib. sentent. 2. p.151.
Malinteso per male, cioè poco, intendente. V. i franc. ec. Homme
etc. recherché.
( ) ( ) () . Theo
loc. sup. cit. Destruct.
p.152. V. p. seg. e p.4166.
, , che erano periti, per la
sua parte, cioè per quanto era in lui. Ib. Assert. 1. p.158 V.
p.4166.
[4165] Sperimentato, experimentado,
expérimenté, inexpérimenté, esperimentato, inesperimentato ec. per che
ha o non ha sperimentato. V. anche provato nella Crusca. Circospetto
per qui circumspicit. V. Forc. Gloss. i francesi spagnuoli ec.
Risentire-risensare. V.
Crusca.
Ω , J. Theo, loc. sup. cit. Assert.
2. p.164. Alla prima. per da prima, da principio
ec. è usato dallo stesso anche Loc. commun. 1 p.171. V. p.4211.4226.
(Bologna 16. Feb. 1826.)
(andando, procedendo,
cioè governandosi, adoperando) (prudentemente, saviamente) , ( ). Ib. p.162. Itaque
considerate progressus rex, supplicationem illam despexit. (Versio Camerarii.). V. p.4464.
Alla p.4164. capoverso penult. Così
anche Loc. commun. 1. p.172. lin.2.
Sbadato coi derivati per che non
bada, non suol badare. Accorto, avveduto, malaccorto, malavveduto, inaccorto
ec. disavveduto. Saporito per saporoso.
Mulina plur. V. le Giunte Veronesi
alla Crusca. Le fata, le fondamenta, le pera ec. le prestigia. V.
Monti Proposta, in questa voce. Le uova.
Ω
.
( . Simonid. ap. Stob.).
(18. Feb. 1826.)
Diminutivi positivati. Chiovo-chiovello
coi derivati, chiavo-chiavello coi derivati, chiavare-chiavellare
ec. Sommeil, soleil, (somniculus, soliculus), e simili.
Spe-cu-lum - spe-gli-o - spe-cchi-o.
Ventricolo - ventriglio.
Ratto per rapido è
il lat. raptus da rapio (v. questi pensieri p.2789.), e vale qui
rapit in senso att. o neutro, ed è un participio aggettivato.
Idolum aliquandiu RETRO
(qualche tempo addietro) non erat. Tertull. de Idololat. c.3. V. Forc. ec.
(Bologna 19. Feb. Domenica 2. di Quaresima. 1826.)
[4166] Vinco-vinciglio. Avvincere - avvinchiare, avvinghiare,
avvincigliare.
Alla p.4164. capoverso ult. J , , ; (non esistono più,
cioè sono periti). V. p.4211.
J vale a un tempo infelice,
e malvagio, del che altrove.
Non solo noi (Tanto è lungi che ec.)
non possiamo sapere nè anche sufficientemente congetturare tutto quello
di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in
universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro,
noi non possiamo sapere esattamente nè congetturare quanta estensione,
in circostanze appropriate, avessero potuto o pur potranno acquistare le sue
facoltà. (Bologna. 21. Feb. 1826.).
in principio di periodo ec. del
che altrove. Teone Sofista, loc. sup. cit. Comparat.
2. h. e. Achillis et Diomedis, initio, p.204. lin.1.
(Bologna. 22. Feb. 1826.)
Scempio-scempiato, coi
derivati.
Fugio-fugito. V.
Forcell.
Diminutivi greci positivati. - (come in ital. agnello,
e agneau ec.).
Alla p.4164. capoverso penult. Così in Proposito p.221.
lin.4 a fin. e 225. lin.3. per moglie semplicemente.
Ventolare att. e neutro. Sventolare.
Bezzicare. Bazzicare.
Altro per alcuno, niuno. V.
Crus. in Fare contrappunto.
Conto, sincope di cognitus,
per conoscente, ammaestrato ec. V. la Crus. ed anche acconto. Sparuto
per sparvente poichè in origine non è che il contrario di parvente,
appariscente, vistoso ec.
Fondamenta.
Concordato per concorde, o concordante,
coi derivati. Accordato, discordato, scordato per che scorda,
scordante. V. Crus. Riguardato per che ha riguardo.
Frettoloso. Freddoloso. Meticulosus. Formidolosus. Fraudulentus. Frauduleux. Turbulentus.
Truculentus. Succulentus.
Tigna, tinea-tignuola. Aranea-araneola ec.
Alla p.4145. lin.1. Ciò è
riferito da Luciano adversus indoctum plures libros ementem, dove narra
anche di un'altra compera simile, che fa anche più al caso di esser
paragonata con quelle che fanno i curiosi inglesi di oggidì.
[4167] Voveo-votum-votare, ital. V. Forcell. spagn. ec. Transire-transitare.
Senza altrimenti
(cioè punto, in niun modo) ordinare sua famiglia. Vit. SS. PP.
nelle Giunte Veronesi v. In trasatto.
Cutretta-cutrettola. Costa lat. e ital.
costola. Ragnolo, ragnuolo.
Indefessus, indefesso ec. per
infaticabile. V. anche Forcell. in
indefatigatus, infatigatus ec. (Bologna. 4. Marzo. 1826.). Rilevato,
relevé per alto. Inexhaustus ec.
Alla p.4164. capoverso 9. Così étendu
nello stesso senso; disteso, distesamente ec. E v. l'es. di Dante e del
Tasso nella Crusca in Dilatato.
Sbevazzare.
Fare
con accusativo di tempo, per passare, vedi la Crusca. - Schol. Euripid. ad Hippolyt. v.35. J (ob caedem patratam) (exulantibus)
. V. p.4210. fin.
Serpere lat. e ital. - serpeggiare.
Pasteggiare cioè far pasti ec.
Riferisce Cicerone de Divinat. un
detto di Catone che egli si maravigliava come l'uno aruspice scontrandosi
coll'altro si tenesse dal ridere. Applichisi questo detto ai Principi nei loro
congressi, e massimamente in quelli degli ultimi tempi.
(Bologna. 6. Marzo. 1826.)
Scappare-scapolare.
Curvatus per curvus.
Virgil. nella descrizione del turbo giuoco dei fanciulli. V.
Forcell.
Molti divengono insensibili alle lodi, e
restano però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che
essi perdono assai più tardi o non mai. E ben più difficilmente
si perde questa sensibilità che quella. Certamente poi niuno si trova
che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile ai biasimi, alle censure, alle
male voci o calunnie, ai motteggi; bensì viceversa si trovano molti.
Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la facoltà di provar piacere
è nell'uomo più caduca e più limitata che quella di sentir
dispiacere.
(Bologna. 9. Marzo. 1826.)
[4168] Pece-pegola, impegolare ec.
Maledetto, esecrato, odiato, abbominato,
abborrito ec. per degno di maledizione ec., o che suole
essere maledetto ec. e v. Forcell. E per contrario amato, desiderato,
sospirato ec.
Alla p.4137. L'uomo tende ad un fine
principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d'opera è
indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo sommo bene. E
questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i
filosofi sono d'accordo, antichi e moderni. Ma che è, ed in che
consiste, e di che natura è la felicità conveniente e propria
alla natura dell'uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per
verità unicamente, dall'uomo, cercata e procacciata continuamente
dall'uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell'uomo, il fine
dell'uomo? Qui non v'è setta, non v'è filosofo, nè tra gli
antichi nè tra i moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni
che si maravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta
loro concordia nel rimanente. Ma che maraviglia? Come trovare, come
determinare, quello che non esiste, che non ha natura nè essenza alcuna,
ch'è un ente di ragione? Il fine dell'uomo, il sommo suo bene, la sua felicità,
non esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente
queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano,
nè mai lo saprà, perchè infatti queste cose non esistono,
benchè per natura dell'uomo sieno il necessario fine dell'uomo. Ecco
spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo bene è voluto,
desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi
unicamente, dall'uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai
saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie
medesime ne sono prova); e ciò perchè il suo sommo bene non
esiste in niun modo. Il fine della natura dell'uomo esisterà forse in
natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato [4169]dalla natura
dell'uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura.
E questo discorso debbe estendersi al sommo bene di tutti gli animali e
viventi.
(11. Marzo. Vigil. della Domenica di Passione. 1826. Bologna.)
L'uomo (e così gli altri animali) non
nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad
altri che gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita,
nè oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al
contrario esso è tutto per la vita. - Spaventevole, ma vera proposizione
e conchiusione di tutta la metafisica. L'esistenza non è per
l'esistente, non ha per suo fine l'esistente, nè il bene dell'esistente;
se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l'esistente
è per l'esistenza, tutto per l'esistenza, questa è il suo puro
fine reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l'individuo
esistente nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l'esistenza
si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal
vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle
specie, e non la conservazione nè la felicità degl'individui; la
qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per gl'individui
nè per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo
grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra.
(Bologna 11. Marzo. 1826.)
Negletto, contemptus (v.
Fedro, fab. Calvus et musca), spregiato, dispregiato o disprezzato
ec. ec. per dispregevole. Implacato per implacabile. V. Forc. ec.
Provvisto per che provvede o ha provveduto, del che
altrove. V. Monti Proposta, in provvisto, dove nel 2do
esempio trovi anche avvisato in senso simile.
Puretto diminutivo positivato,
aggettivo per puro, come pretto. V. Crusca.
[4170]Inconcusso per inconcutibile.
V. Forc. ec. Inaccessus, inaccesso ec. per inaccessibile. Rampare;
radice di rampicare, di cui altrove. V. Monti Proposta, v. rampare. Fastello,
affastellare ec. diminutivi positivati da fascio per peso. Cespo-cespuglio.
Vituperato per vituperoso, ec. o degno di vitupero, di esser vituperato,
vituperevole ec. V. la Crus. non solo nel
§.2. ma in tutti gli altri esempi.
Poco restò per poco
mancò o manca ec. V. Monti Proposta, in Restare.
-, -, -, -.
Corona-corolla, lat.
diminut. come da asinus, asellus, ec.
Abbreviato per breve.
Febbricare o febricare per febricitare. V.
Crus. in febbricare, febbricante, febricante ec. Sembra esser la radice di febricito.
V. Forc. Erpicare per inerpicare o inarpicare. Crus.
Per poco è o fu
ec. che non. V. Dante Inf. c.30.
Rocco-Rocchetto. V. Monti
Proposta, v. Rocco. Pelliccia da pellicula per pelle di
animali ec. V. i franc. spagn. ec. Benda - bandeau. Floccus-flocon. Linon.
Infamato per infame. Crus. Incolpato per
incolpabile o per colpevole ec. V. Crus. e Monti Proposta v. Incolpato, e nella
Bibliot. ital. Dial. di Matteo, Taddeo ec. Temuto, formidatus, paventato
ec. per formidabile, massime in poesia.
p. . Ateneo
l.4. p.178 E. ed. Commelin. 1598.
Praetexo, praetextum-prétexter. Eximo, exemptum exempter.
Alla p.4145. lin.4. Quin et factitii canes ad fores collocati; quales illi quos ex auro et
argento fabricarat Vulcanus Odyss. 7. 93. Domum ut custodirent magnanimi Alcinoi. Quod Romanis etiam in more fuisse docet Petronius Arbiter, c.29.
p.104. ed. Burman. Non longe, inquit, ab ostiarii cella canis ingens
catena vinctus in pariete erat pictus, superque quadrata litera scriptum:
Cave, Cave Canem. Feithius, Antiquitat.
Homericar. lib.3. c.11. §.2. Uso conservato dai moderni. V. p.4364.
(20. Marzo. Lunedì Santo. Bologna. 1826.)
Rinegato, renegado ec. per
che ha rinegato. Homme déterminé. Pensées, o idées suivies, per qui se suivent, conséquentes,
conseguenti le une dalle altre. [4171] Raisonnement suivi etc.
La civiltà moderna non deve esser
considerata come una semplice continuazione dell'antica, come un progresso
della medesima. Questo è il punto di vista sotto cui e gli scrittori e
gli uomini generalmente la sogliono riguardare; e da ciò segue che si
considera la civiltà degli Ateniesi e dei Romani nei loro più
floridi tempi, come incompleta, e per ogni sua parte inferiore alla nostra. Ma
qualunque sia la filiazione che, istoricamente parlando, abbia la
civiltà moderna verso l'antica, e l'influenza esercitata da questa sopra
quella, massime nel suo nascimento e nei suoi primi sviluppi; logicamente
parlando però, queste due civiltà, avendo essenziali differenze
tra loro, sono, e debbono essere considerate come due civiltà diverse, o
vogliamo dire due diverse e distinte specie di civiltà, ambedue
realmente complete in se stesse. Sotto questo punto di vista, diviene
più che mai utile e interessante il parallelo tra l'una e l'altra. E veramente
l'uomo e le nazioni sono capaci, come di stato selvaggio, di barbarie, di
civiltà, tutti stati ben distinti tra loro per genere, così di diverse
specie di civiltà, distinte non solo per semplici nuances, come
quelle che distinguono ora la civiltà presso le diverse nazioni colte,
ma per caratteri speciali, essenziali, determinati dalle circostanze, e spesso
e in gran parte dal caso. Ed è quasi impossibile, come il trovare due
fisonomie perfettamente uguali, benchè tutti sieno generati in uno
stesso modo, così il trovare in due popoli qualunque, (o in due tempi)
che non abbiano avuto grande ed intima relazione scambievole, una
civiltà medesima, e non due [4172]distinte di specie. - Intendo
per civiltà antica, e per termine di comparazione colla moderna, la civiltà
dei Greci e dei Romani, e dei popoli antichi da essi governati e civilizzati, o
ridotti ai loro costumi. - Può servir di preliminare ad una Comparazione
degli antichi e dei moderni.
(Bologna. Martedì Santo. 1826. 21. Marzo.)
Mando, mansum-mansare corrotto
in mangiare, manger, manjar. V. Forc. e Gloss. Manducare (che noi
dicemmo anche manicare, quasi mandicare) sembra un frequentativo
di mandere, come fodicare di fodere ec. Credo però
che l'u di manduco sia lungo. Del resto dello scambio dell'u
coll'i, ho detto altrove.
Colpire-colpeggiare.
En
métaphysique, en morale, les anciens ont tout dit. Nous nous rencontrons avec
eux, ou nous les répétons. Tous les livres modernes de ce genre ne sont que des
redites. Voltaire, Dict. philosoph. art. Emblème. (Bologna.
Giovedì Santo. 1826. 23. Marzo.).
Eruca-ruchetta, roquette ec. Falco-faucon,
falcone ec. Nepita o nepeta lat. nepitella, nipitella.
Entortiller. Naziller. Bouillir-bouillonner.
Maereo o moereo - moestus o maestus
per maerens.
Attorcere - attorcigliare, attortigliare,
intorticciato. Squartare-écarteler.
Et qui
rit de nos moeurs ne fait que prévenir Ce qu'en doivent penser les
siècles à venir. M. de Rulière, Discours en vers sur les
Disputes, rapporté par Voltaire Dict. phil. au mot Dispute.
Dieu
puissant! permettez que ces tems déplorables Un jour par nos neveux soient mis
au rang des fables. Ibidem.
Corata-coratella, curatella, coradella ec.
Grattare-grattugiare. Sciorinare verbo
diminut. V. Monti Proposta.
Macinare, macerare, macina-maciullare,
maciulla. Spilluzzicare (da spelare).
Sarmata, stando all'etimologia del
nome, significa carrettiere da , che in
greco vuol dir carro, ed aggiuntavi l'aspirazione sarma. Dal non
aver usato que' popoli (dell'alto ed ultimo settentrione dell'Europa e
dell'Asia) abitazioni fisse, per aver avuto case traslocabili come specie di
carri, [4173]furono da' Greci chiamati Sarmati. Ciampi,
nell'Antolog. di Firenze. Febbraio 1826. num.62. p.28. not.6.
(30. Marzo. 1826. Bologna.)
Piaggia, spiaggia,
diminutivi positivati di plaga, da plagula, come nebbia da
nebula, ec. ec.
Elevato, sollevato, per alto.
V. Crus. in Elevatissimo e Sollevatissimo.
A voler che uno possa esser buon comico o
buon satirico, è di tutta necessità che questo tale sia, o sia
stato degno di satira e di commedia, e ciò per non poco tempo, e in
quelle cose medesime che egli ha da porre in riso.
(Bologna. Domenica in Albis. 2. Aprile. 1826.)
Homme emporté per qui s'emporte, che
è solito s'emporter. Empressé.
Accuratus, accurato ec. per qui curat, o qui
accurat.
Sappiamo da Plinio che chiamavansi pernae
dalla lor forma di presciutto alcune conchiglie frequentissime nelle isole Ponticae,
o come altri leggono Pontiae. Da esse traevasi la madre perla: e
questo nome italiano di perla non viene certamente da altro che da perna
o pernula. (Diminutivo positivato.) Amati, Iscrizioni antiche scoperte
da non molto tempo, e meritevoli di esser poste a notizia de' dotti. (Articolo
del Giornale arcadico, Roma Dicembre 1825. N.84. tom.28.) num.25. p.358.
(Bologna 7. Aprile. 1826.)
Testis-testiculus, testicolo, testicule ec. Citrus citron. Hirundo-hirondelle.
Magnum
videlicet illis (Athenaei) temporibus videbatur, duabus linguis posse loqui:
quod in nescio quo habitum loco miraculi refert Galenus:
, inquit,
,
J
, J
,
. Bilinguis olim quidam dicebatur: eratque res miraculo
mortalibus, homo unus duas exacte linguas tenens. Haec Galenus in secundo de
Differentiis pulsuum. Casaub. Animadv. in Athenae. lib.1. cap.2.
(Bologna 14. Aprile. 1826.)
[4174] J per non potere, , vedilo nel Casaub. loc. sup.
cit. cap.5. in un verso di Filosseno.
(Bologna 17. Aprile. 1826.)
Tutto è male. Cioè tutto
quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male;
ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata
al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi,
l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, nè diretti
ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha
altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le
cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono;
l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza,
per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità,
una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa,
un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto
grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di
numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone
di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente
è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir
così, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benchè urti le nostre
idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse
più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto
è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo
esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo
così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti
della possibilità?
[4175]Si potrebbe esporre e sviluppare
questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico,
indiano ec.
Cosa certa e non da burla si è che
l'esistenza è un male per tutte le parti che compongono l'universo (e
quindi è ben difficile il supporre ch'ella non sia un male anche per
l'universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come
fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne. Non si comprende
come dal male di tutti gl'individui senza eccezione, possa risultare il bene
dell'universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e
non d'altro, possa risultare un bene.) Ciò è manifesto dal veder
che tutte le cose al lor modo patiscono necessariamente, e necessariamente non
godono, perchè il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò
essendo, come non sì dovrà dire che l'esistere è per se un
male?
Non gli uomini solamente, ma il genere umano
fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano
solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri
esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i
globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di
fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione
dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi
troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di
souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa
è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue,
appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape,
nelle sue parti più sensibili, più vitali. [4176]Il dolce
mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza
indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di
teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro
da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella
scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è
offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche;
quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato
nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce,
troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova
ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi,
o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella
sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal
vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore,
vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella
pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le
stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella
donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli.
Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle
unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante
vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre
perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali
altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di
tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di
qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in
verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è
quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e
se questi esseri [4177]sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo
è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.
(Bologna. 22. Apr. 1826.)
Avisé per accorto ec. Être osé per oser.
Voltaire.
Il piacere delle odi di Anacreonte è
tanto fuggitivo, e così ribelle ad ogni analisi, che per gustarlo,
bisogna espressamente leggerle con una certa rapidità, e con poca o ben
leggera attenzione. Chi le legge posatamente, chi si ferma sulle parti, chi
esamina, chi attende, non vede nessuna bellezza, non sente nessun piacere. La
bellezza non istà che nel tutto, sì fattamente che ella non
è nelle parti per modo alcuno. Il piacere non risulta che dall'insieme,
dall'impressione improvvisa e indefinibile dell'intero.
(Bologna. 22. Aprile. 1826.)
Poi che s'accorse chiusa dalla spera
Dell'amico più bello. Petrar. Son. 79. della I. Parte: In mezzo di duo
amanti onesta, altera. Grecismo manifesto. Notisi che il Petrarca non sapeva il
greco.
Transgredior, transgressus-transgresser.
Réviser (rivedere): al detto altrove
di avvisare ec.
Frango is - nau-fragor aris.
Alla p.4142. Niente infatti nella natura
annunzia l'infinito, l'esistenza di alcuna cosa infinita. L'infinito è
un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e
della nostra superbia. Noi abbiam veduto delle cose inconcepibilmente maggiori
di noi, del nostro mondo ec., delle forze inconcepibilmente maggiori delle
nostre, dei mondi maggiori del nostro ec. Ciò non vuol dire che esse
sieno grandi, ma che noi siamo minimi a rispetto loro. Or quelle grandezze (sia
d'intelligenza, sia di forza, sia d'estensione ec.) che noi [4178]non
possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite; quello che era
incomparabilmente maggior di noi e delle cose nostre che sono minime, noi
l'abbiam creduto infinito; quasi che al di sopra di noi non vi sia che
l'infinito, questo solo non possa esser abbracciato dalla nostra concettiva,
questo solo possa essere maggior di noi. Ma l'infinito è un'idea, un
sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di
esso, neppur per analogia, e possiam dire di essere a un'infinita distanza
dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche
disputare non poco se l'infinito sia possibile (cosa che alcuni moderni hanno
ben negato), e se questa idea, figlia della nostra immaginazione, non sia contraddittoria
in se stessa, cioè falsa in metafisica. Certo secondo le leggi dell'esistenza
che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che
noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l'infinito cioè una
cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe cosa ec. (Bologna 1.
Maggio. Festa dei SS. Filippo e Giacomo. 1826.). Pare che solamente quello che
non esiste, la negazione dell'essere, il niente, possa essere senza limiti, e
che l'infinito venga in sostanza a esserlo stesso che il nulla. Pare
soprattutto che l'individualità
dell'esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo
che l'infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno
contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia
limiti.
(2. Maggio 1826.). V. p.4181. e p.4274. capoverso ult.
Tetta-teton (come da mamma,
mammella ec.).
[4179]Fammi sentir di
quell'aura gentile. Petr. Canz. Amor, se vuo' ch'i' torni al giogo antico.
v.31. cioè stanza 3. v.1. Il genitivo per l'accusativo. V. ancora Canz.
Quando il soave, stanza 4. v.4 e Son. S'io fossi, v. ult.
(3. Maggio. Festa della S. Croce. Vigilia dell'Ascensione. Bolog.
1826.)
Scorto per accorto, da scorgere
per vedere ec. ovvero da scorgere per guidare, avvisare ec. come avisé
ec. V. la Crusca.
(confabulationis) (i.e. potatio) J. Ap.
Athenaeum. Vid. Casaub. Animadvers. l.1. cap. ult. init. Volere per dovere.
(Bologna. 6. Maggio. 1826.). Non vogliono per non
debbono. V. Rucellai, Api v.621.
Già è gran tempo che nè
i principi nominano, nè ai principi si nomina, sia lodandoli, sia
consigliandoli, sia in qualsivoglia discorso, la loro patria. È gran
tempo che le città e le nazioni hanno cessato di esser le patrie dei
principi. Esse sono i loro stati, o nativi o no che i principi sieno.
Ciò è tanto vero che anche in Inghilterra, anche in Francia,
dove, ed esiste una patria, ed i principi, vogliano o non vogliano, sono per li
sudditi, e non i sudditi pel principe, pure nè essi nè altri parlando
o scrivendo ad essi (e di raro anche, di essi), chiamano o l'Inghilterra o la
Francia, loro patria. Si crederebbe abbassarli, offenderli, se si pronunziasse
loro questo nome che mostra di avere una certa superiorità sopra di
essi. I principi già da gran tempo si stimano, e da molti sono stimati
essere, la patria essi medesimi. Distinguendoli dalla patria, si crederebbe
oltraggiarli. Non così gli antichi. I Neroni e i Domiziani con nome falso,
e di più superbo, ma che pur conservava l'idea della patria,
s'intitolavano P. P. pater patriae (nelle medaglie, iscrizioni ec.).
(Bologna 10. Maggio. 1826.).
[4180]Del digamma eolico vedi
Casaubon. animadv. in Athenae. lib.2. cap.16.
Picus-picchio, da un piculus,
e non dal picchiare come dice la Crusca e stimasi comunemente. V. i
franc. spagn. ec.
Tre stati della gioventù: 1.
speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e
renitente: 3. disperazione rassegnata.
(Bologna. 3. Giugno. 1826.)
Che guadagno fa l'uomo perfezionandosi?
Incorrere ogni giorno in nuovi patimenti (i bisogni non sono per lo più
altro che patimenti) che prima non aveva, e poi trovarvi il rimedio, il quale
senza il perfezionamento dell'uomo non saria stato necessario nè utile,
perchè quei patimenti non avrebbero avuto luogo. Proccurarsi nuovi
piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1.
comuni, 2. durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più,
difficilissimi, perchè, se non altro, esigono una studiatissima
educazione, e una lunga formazione dell'animo, e per ciò stesso non
possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed
alcuni a certi individui. Nel tempo stesso distruggere in se la facoltà
di provare, almeno durevolmente, i piaceri naturali. Lo stato naturale
dell'uomo ha veramente dei piaceri, facili, comuni a tutti, durevoli, che non
sono men veri perciò che noi non li possiamo più sentire, e
però non concepiamo come sieno piaceri. Il solo stato di quiete e d'inazione
sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è
certamente un piacere, non vivo, ma atto e sufficiente a riempiere una grande e
forse massima parte della vita del selvaggio. Vedesi ciò anche negli
altri animali. Vedesi (tra i domestici, e più a portata della nostra
osservazione) nei cani, che se non sono turbati o forzati a muoversi, passano
volentierissimo [4181]le ore intiere, sdraiati con gran placidezza e
serenità di atti e di viso, sulle loro zampe. (Bologna. 3. Giugno.
1826.). Moltissimi patimenti poi, massime morali, che senza la civilizzazione
non avrebbero luogo, quantunque abbiano il loro rimedio, proccurato dalla
stessa civilizzazione, p.e. la filosofia pratica, è ben noto che sono
senza comparazione più facili, più frequenti, più comuni
essi, che l'applicazione effettiva e l'uso efficace di tali rimedi.
(Bologna. 3. Giugno. 1826.)
Alla p.4178. fine. L'ipotesi
dell'eternità della materia non sarebbe un'obbiezione a queste
proposizioni. L'eternità, il tempo, cose sulle quali tanto disputarono
gli antichi, non sono, come hanno osservato i metafisici moderni, non altrimenti
che lo spazio, altro che un'espressione di una nostra idea, relativa al modo di
essere delle cose, e non già cose nè enti, come parvero stimare
gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni. La materia sarebbe eterna,
e nulla perciò vi sarebbe d'infinito. Ciò non vorrebbe dire
altro, se non che la materia, cosa finita, non avrebbe mai cominciato ad
essere, nè mai lascerebbe di essere; che il finito è sempre stato
e sempre sarà. Qui non vi avrebbe d'infinito che il tempo, il quale non
è cosa alcuna, è nulla, e però la infinità del
tempo non proverebbe nè l'esistenza nè la possibilità di
enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla,
infinità che non esiste nè può esistere se non nella
immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria
ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può
essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o [4182]alla
lingua.
(Bologna. 4. Giugno. 1826. Domenica.)
- . V.
Casaubon. ad Athen. l.3. c.4. init.
Litterato per letterario. Petr. Tr.
della Fama, cap.3. v.102. V. Crusca. Tasso opp. ed. del Mauro, tom.4. p.304.
t.10. p.297. t.9. p.419.
Oreglia, origliare, origliere, per orecchia,
orecchiare, orecchiere.
(scriba)
- greffier (se non viene da grief.).
Fallir la promessa. Petr.
Tr. d. Divinità. v.4-5.
Senz'altra pompa, per
senza niuna. ib. V. 120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v.7. e Canz. Una
donna più bella, st.3. v.12.
Mantua, Genua, Mantuanus ec. - Mantova,
Genova, ec.
Vergheggiare. V. Crus. Vagheggiare.
Burchiellesco. Genere burchiellesco, Frottole, in uso anche tra i
greci. Demetr. de elocut., sect.153. , , , , , , J .
sect. 154. J J, J J J ( J ). . I
versi di Aristofane sono i 53. 54. della scena 2. atto 1. delle Nubi, edit. Aureliae Allobrogum
1608. Gli Scoli antichi però, dànno loro un senso, e gli spiegano
come il resto. Simili ai commentatori della frottola del Petrarca. (Bologna. 5.
Luglio. 1826.). Dei grifi v. Casaub. ad Athenae. indice delle materie.
[4183]Esempio curioso di costanza spartana mista di bêtise.
Lacone dignum est apophthegma illius Spartani, qui in os iniecto per summam
rerum imperitiam, echino (pesce) cum omnibus spinis, , inquit, , J, J . O cibe impure, neque nunc
ego te prae mollitie animi dimittam, neque iterum posthac sumam. (sono
parole riferite da Ateneo.) Putavit homo durus suae constantiae interesse, ne
vinci ab echini aculeis videretur. Casaub. ad Athenae. l.3. c.13.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.).V. p.4206.
Il mangiar soli, , era infame presso i greci e i
latini, e stimato inhumanum, e il titolo di si dava ad alcuno per vituperio,
come quello di , cioè di ladro. V.
Casaub. ad Athenae. l.2. c.8. e gli Addenda a quel luogo. Io avrei
meritata quest'infamia presso gli antichi.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione,
perchè essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e
nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione,
ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl'inglesi,
e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per
destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe
più allegria, più brio, più spirito, più buon
umore, e più voglia di conversare e di ciarlare.[270] Ma
nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso
l'uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando.
Ora io non posso mettermi nella testa che quell'unica ora [4184]del
giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della
favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale
importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione
dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi
anche mentale e morale dell'uomo, e la digestione non può esser buona se
non e ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico),
abbia da esser quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare;
giacchè molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per
qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e
sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io
che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in
quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto
più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio
bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno
altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non
segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in
compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli
antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi
facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a
mangiar da me.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.). V. p.4245.
4248. 4275.
[4185]La barbarie suppone un
principio di civiltà, una civiltà incoata, imperfetta; anzi
l'include. Lo stato selvaggio puro, non è punto barbaro. Le tribù
selvagge d'America che si distruggono scambievolmente con guerre micidiali, e
si spengono altresì da se medesime a forza di ebrietà, non fanno
questo perchè sono selvagge, ma perchè hanno un principio di
civiltà, una civiltà imperfettissima e rozzissima; perchè
sono incominciate ad incivilire, insomma perchè sono barbare. Lo stato
naturale non insegna questo, e non è il loro. I loro mali provengono da
un principio di civiltà. Niente di peggio certamente, che una
civiltà o incoata, o più che matura, degenerata, corrotta. L'una
e l'altra sono stati barbari, ma nè l'una nè l'altra sono stato
selvaggio puro e propriamente detto.
(Bologna. 7. Luglio. 1826.)
Pare affatto contraddittorio nel mio sistema
sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione,
l'attività, l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo
stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più
felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i
più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di
vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra
tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è
compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano
molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze
necessarie non meno l'una [4186]che l'altra. Riconosciuta la
impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di
desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza
della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che
l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro
nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa
raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità
universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale,
quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo
possibile della felicità, ossia il minor grado possibile
d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza.
Le specie e gl'individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro,
hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato,
e quindi di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno
infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio.
Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato
ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell'animo, è impossibile
il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl'individui che nei popoli,
l'impedirne il progresso. Gl'individui e le nazioni d'Europa e di una gran
parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo
stato primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo [4187]sviluppo
e dalla vita del loro animo, segue una maggior sensibilità, quindi un
maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità.
Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma
possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate
facoltà e la vita dell'animo. Per tal modo il sentimento della detta
tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata
la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall'equivalere allo
stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso
produce è il miglior possibile, da che l'uomo è incivilito. -
Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P.e. il più felice
italiano è quello che per natura e per abito è più
stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per
natura o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare
o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare
quanto può più la sua sensibilità. - Da questo discorso
segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all'attività, allo
spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti
a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini
sempre più attivi e più occupati, gli è anzi direttamente
e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e
quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di
movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi),
non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio,
l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior
condizione possibile [4188]per la felicità umana.
(Bologna 13. Luglio 1826.)
Tabacco. Sua utilità. Suoi piaceri: più
innocenti di tutti gli altri al corpo e all'animo; meno vergognosi a
confessarsi, immuni dal lato dell'opinione; più facili a conseguirsi, di
poco prezzo e adattati a tutte le fortune; più durevoli, più replicabili.
(Bologna 13. Lug. 1826.)
Ser-g-ius - Ser-v-ius.
Smiris - smeriglio.
Lampare-lampeggiare.
Volgere-voltare-volteggiare, voltiger.
Avvolticchiare. Smiracchiare. V. Monti
Proposta p. XXXIV. v. not.
Malastroso, cioè infelice, per ribaldo.
V. Monti Proposta t.6. p. XLIX. not.
Caro Eneide l.4. v.452. E più non
disse, Nè più (nè altra, cioè nè
alcuna) risposta attese; anzi dicendo, Uscìo d'umana forma e dileguossi.
(Bologna. 15. Luglio. 1826.)
Propterea dicebat Bion , : non posse aliquem vulgo
omnibus placere, nisi placenta fieret aut vinum Thasium. Casaub. ad Athenae. l.3. c.29.
(Bologna. 17. Luglio. 1826.)
-.
V. e suoi composti usati per
biasimare, sparlare ec. ap. Casaub. ad Athenae. l.3. c.32. modo analogo al
nostro lavare il capo ec.
(Bologna. 20 Luglio. 1826.)
Tero-tritum-tritare-stritolare, triturare.
Sclamare-schiamazzare.
E ciò che forse potrebbe sorprendere
si è che l'insalubrità dell'aria è quasi sempre sicuro
indizio di straordinaria fertilità del suolo. Gioia, [4189]Filosofia
della statistica, Milano 1826. tom.1. ap. l'Antologia di Fir. Giugno 1826.
N.66. p.84. Narra (il Gioia) dell'Harmattan, vento soffiante sopra una parte
della costa d'Affrica fra il capo Verde e il capo Lopez, pestifero a'
vegetabili e saluberrimo agli animali. Quelli che sono travagliati dal flusso
di ventre, dalle febbri intermittenti, guariscono al soffio dell'Harmattan.
Quelli le cui forze furono esauste da eccessive cavate di sangue, ricuperano le
loro forze a dispetto e con grande sorpresa del medico. Questo vento discaccia
le epidemie, fa sparire il vaiuolo affatto, e non si riesce a comunicarne il
contagio neanche col soccorso dell'arte. Tanto è vero che ciò che
nuoce alla vita vegetativa è utilissimo alla vita animale, ed
all'opposto. (Journal des voyages t.19,
p.111.) Ivi, p.85. Questa opposizione tra due regni così analoghi,
così vicini, anzi prossimi, nell'ordine naturale; e così necessarii
reciprocamente; così inevitabilmente, per dir così, conviventi;
è una nuova prova della somma provvidenza, bontà, benevolenza
della Natura verso i suoi parti.
(28. Luglio. 1826. Bologna.)
Nominiamo francamente tutto giorno le leggi
della natura (anche per rigettare come impossibile questo o quel fatto) quasi
che noi conoscessimo della natura altro che fatti, e pochi fatti. Le pretese
leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. - Oggi, con
molta ragione, i veri filosofi, all'udir fatti incredibili, sospendono il loro
giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità.
Così accade p.e. nel Mesmerismo, che tempo addietro, ogni filosofo
avrebbe rigettato come assurdo, senz'altro esame, come contrario alle leggi
della natura. Oggi si sa abbastanza generalmente che le leggi della natura non
si sanno. Tanto è vero che il progresso [4190]dello spirito umano
consiste, o certo ha consistito finora, non nell'imparare ma nel disimparare
principalmente, nel conoscere sempre più di non conoscere,
nell'avvedersi di saper sempre meno, nel diminuire il numero delle cognizioni,
ristringere l'ampiezza della scienza umana. Questo è veramente lo
spirito e la sostanza principale dei nostri progressi dal
(Bologna. 28. Luglio. 1826.)
Insatiatus per insatiabilis. Stazio
Thebaid. l.6. nel luogo cit. alla nota 7. del mio Inno a Nettuno.
Smerletto, diminutivo positivato di smerlo
o forse di merlo. Folgore da S. Geminiano, Corona 1. di Sonetti, Sonetto
di Settembre, v.2. nei Poeti del primo secolo della lingua italiana, Firenze
1816. ap. il Monti, Proposta, vol. ult. p. CXCIX.
(Bologna 31. Luglio. 1826.)
Concordanza delle antiche filosofie pratiche
(anche discordi) nella mia; p.e. della Socratica primitiva, della cirenaica,
della stoica, della cinica, oltre l'accademica e la scettica ec.
(Bologna 1. Agosto, Giorno del Perdono. 1826.)
Offensus per qui offendit
neutro. V. Catullo l.1. eleg.3. v.20.- e Forcell. Similmente inoffensus,
come inoffenso pede ec.
Le destina, plur. V. Monti Proposta
vol. ult. p. CCXIV. col.2. lin.3.
Alla p.4164. capoverso 3. Luogo notabile di
Fazio degli Uberti presso il Monti loc. cit. qui sopra, p. CCXVII. col.2.
lin.6. Che mi vendrei se fosse chi comprare, cioè chi mi
comperasse. Parla Roma, che riferisce il detto di Giugurta sopra di lei: urbem
venalem, et mature perituram si emptorem invenerit. (Bologna 13. Agosto.
1826. Domenica; tornato questa mattina or ora da Ravenna.).
intanto. Vetus argument.
Ranarum Aristophanis, circa medium, et Argument. Pacis Aristophan.
per potius, come noi prima,
anzi, innanzi ec. Aristophan. Nub. v.24. (Act.1. sc.1.). Dio
Chrysost. Orat. 1. de Regno, init., p.2. A. ed. Lutet. 1604. Morell.
[4191] ( , ), J . Phot. Biblioth. Cod.209. ed.
gr.-lat. 1611. col.533.
(Bologna. 18. Agosto. 1826.)
Tacheté, Marqueté. Déchiqueter.
Immotus, immoto ec. per
immobile.
Altro è che una lingua sia
pieghevole, adattabile, duttile; altro ch'ella sia molle come una pasta. Quello
è un pregio, questo non può essere senza informità, voglio
dire, senza che la lingua manchi di una forma e di un carattere determinato, di
compimento, di perfezione. Questa informe mollezza pare che si debba necessariamente
attribuire alla presente lingua tedesca, se è vero, come per modo di
elogio predicano gli alemanni, che ella possa nelle traduzioni prendere tutte
le possibili forme delle lingue e degli autori i più disparati tra se,
senza ricevere alcuna violenza. Ciò vuol dire ch'ella è una pasta
informe e senza consistenza alcuna; per conseguente, priva di tutte le bellezze
e di tutti i pregi che risultano dalla determinata proprietà, e
dall'indole e forma compiuta, naturale, nativa, caratteristica di una lingua.
La pieghevolezza, la duttilità, la elasticità (per così
dire), non escludono nè la forma determinata e compiuta nè la
consistenza; ma certo non ammettono i vantati miracoli delle traduzioni
tedesche. La lingua italiana possiede questa pieghevolezza in sommo grado fra
le moderne colte. La greca non possedeva quella vantata facoltà della tedesca.
(Bologna 26. Agosto. 1826.)
Felicità non
è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere,
soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato
si sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa [4192]sola
definizione si può comprendere che la felicità è di sua
natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per
natura tutti i viventi, soli capaci d'altronde di felicità. Un amor di
se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è
incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di
cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore,
perchè il suo amor proprio non cesserà, e perchè quel
bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio
non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete
voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore.
Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto
amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete
mai e non potete esser felice, (30. Agosto. 1826. Bologna.) nè in questo
mondo, nè in un altro.
Il detto del Bayle, che la ragione è
piuttosto uno strumento di distruzione che di costruzione, si applica molto
bene, anzi ritorna a quello che mi par di avere osservato altrove, che il
progresso dello spirito umano dal risorgimento in poi, e massime in questi
ultimi tempi, è consistito, e consiste tutto giorno principalmente, non
nella scoperta di verità positive, ma negative in sostanza; ossia, in
altri termini, nel conoscere la falsità di quello che per lo passato, da
più o men tempo addietro, si era tenuto per fermo, ovvero l'ignoranza di
quello che si era creduto conoscere: benchè del resto, faute de bien
observer ou raisonner, molte di siffatte scoperte negative, si abbiano per
positive. E che gli antichi, in metafisica e in morale principalmente, ed anche
in politica (uno de' cui più veri principii è quello di lasciar
fare più che si può, libertà più che si
può), erano o al pari, o più avanzati di noi, unicamente
perchè ed in quanto anteriori alle pretese [4193]scoperte e
cognizioni di verità positive, alle quali noi lentamente e a gran
fatica, siamo venuti e veniamo di continuo rinunziando, e scoprendone,
conoscendone la falsità, e persuadendocene, e promulgando tali nuove
scoperte e popolarizzandole.
(Bologna 1. Settembre. 1826.)
( ) , . ec. Photius, Biblioth.
cod.128. - Dare a vedere, dare a conoscere, ad intendere ec. V.
p.4196. fin.
Alla p.4153. Questo passo di Agatarchide
è un nuovo esempio di quello che la critica osserva o deve osservar
nella storia, cioè che spessissimo la storia d'una nazione s'è
appropriata i fatti, veri o finti, narrati dagli storici di un'altra. Tale
è ancor quello di Suetonio, Octav. Caes. Augustus, cap.94. Auctor est
Julius Marathus, ante paucos quam (Augustus) nasceretur menses, prodigium Romae
factum publice, quo denuntiabatur regem populo romano naturam parturire; senatum
exterritum censuisse ne quis illo anno genitus educaretur; eos qui gravidas
uxores haberent, quod ad se quisque spem traheret, curasse ne senatusconsultum
ad aerarium referretur (que le décret ne passât et ne fût mis dans les
archives. La Harpe). Questa istorietta è visibilmente sorella di quella
d'Erode e degl'innocenti, qualunque delle due sia l'ainée. Nè
mancano esempi simili nelle più moderne storie, anzi abbondano
più che mai. Tra mille, si può citare l'avventura del pomo attribuita
dagli storici svizzeri a Guglielmo Tell, benchè già narrata da un
Saxo Grammaticus, Danese, morto del 1204, che scrisse in latino una
storia della sua nazione, più di un secolo prima della nascita di Tell,
e attribuì la detta avventura ad un Danese, ponendola in Danimarca, con
altri nomi di persone; e che probabilmente non fu neppur esso l'inventore di
tal novella, nè la storia di Danimarca fu la prima ad attribuirsela. [4194]La
sua storia danica è stampata. (Des dragons et des serpens monstrueux
etc. trattatello di Eusebio Salverte nella Rivista Enciclopedica di
Parigi, tom.30. Maggio e Giugno, 1826. degno di esser veduto al nostro
proposito).
(Bologna. 1826. 3. Settembre. Domenica.). V. p.4209.
4264. fin.
La condotta di Tiberio nell'impero, da
principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma
più che civilis (v. Sueton. Tiber. c.24-33), le sue
difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla seguente condotta
tirannica, si attribuiscono a profonda politica, dissimulazione e simulazione.
Io non vi so veder niente di finto, nè di artifiziale. Tiberio era
certamente, a differenza di Cesare, di natura timida. A differenza poi e di
Cesare che fin da giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando
successivamente l'animo e il carattere a grandezze sempre maggiori; e di
Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari; Tiberio,
nato privato, vissuto la gioventù e l'età matura in sospetto di
Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto anni
passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non aveva l'animo
nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in mano.
Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato
da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c.26.); v. p.4197. capoverso
6. nè qui v'era dissimulazione: io non ci veggo altro che un uomo
avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di offendere, che ridotto a
soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di tale evitamento. Egli lo
perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo potere, e della
soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è smascherarsi;
questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze. [4195]Tiberio
era certamente cattivo, perchè vile, e debole. V. p.4197. capoverso 7.
Questo fu causa che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura
era tale che l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di
principe. Ma qui non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe
nè cattivo. Pur disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi
matura; vedutomi poi per le circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni;
da principio benignissimo
ed umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, un poco
intollerante, , , ed anche cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a
perdonare un'ingiuria, una piccola mancanza, più risentito, più
facile a concepir qualche seme di avversione, più desideroso, se non
altro, di vendettucce, ec. Se la mia natura fosse stata cattiva, io sarei
divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi sono pervenuto
alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi
siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o
presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte,
una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che
v'è al mondo assai meno politica, assai meno finzione, assai meno
tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte, e più di sincerità
e di vero che non si crede. 1. Gli uomini di talento (indispensabile fondamento
a simil condotta) sono assai più rari che non si stima. 2. Anche gli
uomini i più persuasi della necessità o utilità dell'arte
nel consorzio umano, e i più disposti ad essa per volontà, non
hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di fingere, di nascondere e
dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e dirette costantemente a
qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è
natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii,
opinioni, in tutto; di esser contraddittorio [4196]ed incoerente nelle
sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii; di operare
contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per combattuta che sia,
per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed opera nel mondo,
assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto dell'arte:
la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni momento, in
dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina. (Bologna. 3.
Sett. Domenica. 1826.). Del resto le atrocissime crudeltà usate
scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza nessuna
utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e
dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia
per sua natura, e col regno era divenuta più malvagia che politica.
(Bologna 4. Sett. 1826.)
Dove parlo di repo, repto, inerpicare
ec. osservisi che i Latini hanno anche erepo. Sueton. Tiber. cap.60. V.
Forcellini. Irrepo, subrepo, adrepo ec.
Gerere-belligerare, morigerare, famigeratus
ec. Laevo as - laevigo.
() J , (per quae sensus ipsi atque
sententiae dulcedo fluit. Schott.), (convenientem ita Photius
usurpare solitus hanc vocem, et ita reddit Schott.) , J J J J , J (digressionibus). Phot.
Biblioth. cod.60.
(Bologna. 5. Sett. 1826.)
Egesta-Segesta. V.
Forcellini.
Alla p.4193. ( ) , J , . Phot. Biblioth. cod.61. V.
p.4208.
[4197] Subire Tiberim, remonter
le Tibre. Sueton. Claud. cap.38.
Diminutivi positivati aggettivi. Bimulus, trimulus, quadrimulus. V. Forcell.
Conspiratus per qui conspiravit,
o conspirat, Sueton. Galba, c.19. Domitian. c.17.
Rasitare. Sueton. Otho, c. ult.
i.e. 12.
da capo, per di nuovo
ec. Di ciò altrove. Si dice anche J . Vedi. per es. Sueton. Vespas.
c.23. J, J . Menander ap. Stob. serm.104. .
Alla p.4194 - il quale frattanto attribuisce
anch'esso a politica e simulazione la sua moderazione nel principio del suo
governo (cap.57.).
Alla p.4195. Teodoro Gadareno, suo maestro di rettorica in
fanciullezza, subinde in obiurgando appellabat eum . Sueton. cap.57. E Suetonio
stesso chiama la sua indole saeva ac lenta natura. (ib. init.)
Che gli uomini abbiano trovate e pongano in
opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il
resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che
abbiano trovato ed usino arti e regole per combattere e vincere gli uomini
stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le
apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha dell'assurdo;
perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte
a ciascuno de' due? che superiorità ne riceve l'uno sopra l'altro? non
sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o
che tutti e due combattessero alla naturale? V. p.4214. Un libro, una scoperta
di Tattica o di strategica o di poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all'uso
comune, a che giova? se l'amico e il nemico l'apprendono del pari, ambedue con
più arte e più fatica di prima, si trovano nella stessissima
condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste tali arti, o scienze che si
vogliano dire, il proccurarne l'incremento, [4198]e molto più il
diffonderne la coltura e la conoscenza, è la più inutile e strana
cosa che si possa fare; è propriamente il metodo di ottener con fatica e
spesa quello che si può ottenere senza fatica nè spesa; di
eseguire artificialmente e di render necessaria l'arte laddove la natura
bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo vantaggio
sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le
ruote e le molle di un orologio, e di far con più quel medesimo che si poteva
fare e già si faceva con meno. Il simile dico della politica, del
macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i
nostri simili.
(Bologna. 10. Sett. 1826.)
Se una volta in processo di tempo
l'invenzione p.e. dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto
poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione,
diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più
generale; se i palloni aereostatici, e l'aeronautica acquisterà un grado
di scienza, e l'uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora
è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni,
come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni
e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile,
come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati
concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille
anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi
vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere
come si potesse menare e sopportar la vita essendo di continuo esposti ai
pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di
sommergersi, commerciare [4199]e comunicar coi lontani essendo
sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l'uso dei telegrafi ec., considereranno
con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro
incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta
impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà
attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai
facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine
di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che
altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l'uso del fuoco, della
navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, specialmente in questo secolo, con
magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli,
continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come
continuamente palpitanti e tremanti dalla paura, e tra perpetui patimenti ec. E
credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta
soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere
gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal
altra invenzione.
(Bologna. 10. Settembre. Domenica. 1826.)
Paragrandini, parafulmini ec. Fozio, Biblioteca, cod.72. analizzando , e parlando di una fonte che
Ctesia diceva esser nell'India, senz'altra indicazione di luogo, dice fra
l'altre cose: ( ) J , , ( J), ( ). , , [4200] , . De ferro, quod in huius fontis
fundo reperitur; ex quo duos se habuisse aliquando gladios ipse Ctesias
commemorat; unum a rege, (in marg. Artaxerxe, Mnemone), alterum a
Parysatide regis ipsius matre sibi donatum. Ferri autem huius eam esse vim, ut
in terram depactum nebulas, et grandines, turbinesque avertat. Hoc semel se
iterumque vidisse, cum rex ipse eius rei periculum faceret. Versio Andreae
Schotti.
(Bologna. 1826. 12. Settembre.)
Inesorato ec. per inesorabile.
( ) , J . Tropos ad haec praeter modum
adhibet, quod historiae lex vetat (Schott.) Phot.
Biblioth. Cod.77.
Il genitivo per l'accusativo. Petr. Sestina
6. Anzi tre dì, v.3. Di state vi sono DE' papaveri,
DELLE pere e DI quante mele si trovano (genitivo pel nominativo).
Caro, Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, lib.2. non lungi dal principio, p.8.
ediz. di Pisa 1814. Presentando loro per primizia della vendemmia a ciascuna
statua il suo tralcio con DI molti grappoli e con DE' pampini
suvvi. (genitivo per l'ablativo). ib. p.27. E così assai spesso il
medesimo ed altri classici. V. p.4214.
È stato negli eserciti e provveduto
capitano e coraggioso guerriero. ib. p.41.
Riavere per ricreare, ristorare, fare riavere. Vedi Crus. §.1. Caro l.c.
lib.2. p.38. poichè col cibo l'ebbe alquanto confortato, con
saporitissimi baci ed altre dolcissime accoglienze tutto lo riebbe.
Cioè lo ristorò, non come dice il Monti nella Proposta, lo fece
tornare nei sensi, chè Dafni non era punto venuto meno, ma percosso,
battuto e malconcio da alcuni giovani. - Similmente dicono i greci J, per J , come molto elegantemente Fozio
Bibliot. cod.83. parlando delle Antichità Romane di Dionigi
d'Alicarnasso: (digressionibus utitur non
raro), , (reficiens). V. p.4217.
[4201] Volere per .
Anguillara, Metam. l.4. st.105.
(Bologna. 16. Sett. 1826.)
Incespitare per incespicare
di cui altrove. Caro loc. sup. cit. lib.2. p.48. fin.
Risicato per che si arrischia, che si suole
arrischiare. Caro. ib. l.3. p.53. 59.
Arreticato (irretitus, preso nella rete).
ib. p.54. Sanicare, sanicato. V. Crus. Affumicare.
Insertare ghirlande. Caro. ib. l.1. p.25.a
ed ult. Con le foglie tessute e consertate in modo che facevano come una
grotta. ib. l.3. p.53. I rami si toccavano e s'inframmettevano insieme
insertando le chiome. lib.4. principio. p.77.
Grufare, grufolare. Caro l.c. lib.4. p.80.
Mele appie - Mele appiole, o appiuole.
Diminutivo aggettivo. V. Crus. in Mela, Appio, Appiola. Mele appiole,
Caro l.c. lib.1. p.20. mele appiuole, l.3. fin. p.74.
J, J, ec. bonitas, bonus vir ec. bonhomme, bonhomie ec. dabben uomo,
dabbenaggine ec. Parole il cui significato ed uso provano in quanta stima dagli
antichi e dai moderni sia stato veramente e popolarmente (giacchè il
popolo determina il senso delle parole) tenuta la bontà. E in vero io mi
ricordo che quando io imparava il greco, incontrandomi in quell'J ec., mi trovava sempre imbarazzato, parendomi che siffatte parole
suonassero lode, e non potendomi entrare in capo ch'elle si prendessero in mala
parte, come pur richiedeva il testo. Avverto che io studiava il greco da
fanciullo.
(Bologna. 18. Sett. 1826.)
-oublie.
V. Casaub. ad Athenae. l.3.
c.25.
Spesse volte in occasioni di miei
dispiaceri, anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi
di questa cosa? E l'esperienza avutane già più volte, mi sforzava
a risponder di sì, che io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro
ragione: non vedi tu il male come è grave, come è serio e vero? -
Lasciamo star che nessun male è vero per se, poichè se uno non lo
conosce o non se ne affligge, ei non è più male. Ma
l'affliggertene può forse rimediarvi o diminuirlo? - No. - Il non affliggertene
può forse nuocerti? - No certo. - E non è meglio assai per te il
non pensarne, il non pigliarne dolore, che il pigliarlo? - Meglio assai. - Come
dunque sarà contro ragione? Anzi sarà ragionevolissimo. E se egli
è ragionevole, se utile, [4202]se tu lo puoi, perchè non
lo fai? che ti manca se non il volerlo? - Io vi giuro che queste considerazioni
mi giovavano veramente, ed avevano reale effetto, sicchè io ricusando di
affliggermi di una mia sventura, per notabile ch'ella fosse, non me ne
affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai poco.
(Bologna 25. Sett. 1826.). V. p.4225.
La ricchezza della lingua greca, e la decisa differenza di stili
che ella ammetteva, differenza così grande, che faceva quasi di ciascuno
stile una lingua diversa, si può conoscere anche dal veder che gli
antichi ebbero dei lessici voluminosi dedicati a un qualche stile in
particolare, come noi potremmo far lessici a parte per la nostra lingua poetica
o prosaica (due divisioni che la nostra lingua ammette, ma la greca assai
più). Eccovi in Fozio Bibliot. i capi o codici 146. 147. J (cioè styli simplicis
o cosa simile). J J , , 147. J J , (solemnis Photio vox hoc sensu)
J J J. 146. Lexicon Purae Ideae.
Lexicon legi Ideae purae litterarum ordine. Magnus est
hic liber, ut multi potius, quam unus esse videatur. Utilis autem, si quis
alius, iis est, qui hanc Ideam tractant. 147. Lexicon Gravis styli. Legi Ideae
gravioris Lexicon, quod ipsum quoque in immensum crevit, ut legentibus aptius
fore arbitrer, si in duos opus illud, aut tres tomos distribuatur. Digestum item est litterarum
ordine, patetque utile esse iis, qui sublimi tumidoque dicendi genere excellere
studio habent (Schotti versio.).
(Bologna. 22. Settembre. 1826.)
[4203]Ebbero i Greci, come i moderni, anche delle voluminose storie
teatrali e drammatiche (come ne ebbero delle filosofiche, geometriche,
pittoriche, statuarie, e d'ogni genere di discipline). Fozio nella Bibliot.
cod.161. dando conto dei libri di Ecloghe o Estratti di Sopatro sofista, dice
che il quarto suo libro contiene degli estratti, fra gli altri, , J , , J . E che il quinto libro . (Tragicor. ac Comicor.
Schott.) J J J , (epithalamiorumq. carminum et
hymenaeorum atq. cantilenarum in chorea enumerationem. Schottus) J J , J J (quinam etiam singulorum
auctores ac principes studiorum exstiterint. Schott.), .
, J, . J. , ( ) . () . , . , (huius narrationis partem [4204]efficiunt.
Schott.) . E segue dicendo di altri libri
di altri scrittori dai quali era estratto il sesto libro di Sopatro. E
l'undecimo dice essere estratto, fra gli altri, (Iubae) J , della quale opera fa menzone
anche Ateneo, lib.4.
(Bologna. 1826. 24. Sett. Domenica.). V. p.4238.
Contraddizioni innumerabili, evidenti e
continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente,
ma anche materialmente. La natura ha dato ai tali animali l'istinto, le arti,
le armi da perseguitare e assalire i tali altri, a questi le armi da
difendersi, l'istinto di preveder l'attacco, di fuggire, di usar mille diverse
astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni la tendenza a distruggere,
agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha dato ad alcuni animali
l'istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante, frutta ec., ed ha
armato queste tali piante di spine per allontanar gli animali, queste tali
frutta di gusci, di bucce, d'inviluppi d'ogni genere, artificiosissimi e diligentissimi,
o le ha collocate nell'alto delle piante ec. La natura ha creato le pulci e le
cimici perchè ci succino il sangue, ed a noi ha dato l'istinto di
cercarle e di farne strage. L'enumerazione di tali ed analoghe
contrarietà si estenderebbe in infinito, ed abbraccierebbe ciascun
regno, ciascuno elemento, e tutto il sistema della natura. Io avrò torto
senza dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine,
qual è il voler sincero e l'intenzione vera della natura? Vuol ella che
il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì,
perchè l'ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, [4205]perchè
ha dato ai tali animali l'istinto e l'appetito e forse anche il bisogno di
procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità
ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale
o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere.
Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali
offese? che essa medesima è l'autrice unica delle difese e delle offese,
del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel
modo di vedere della natura, non si sa. Si sa ben che le offese non sono meno
artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese; che il
nibbio o il ragno non è meno sagace di quel che la gallina o la mosca sia
amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli ascetici esaminando le
anatomie de' corpi organizzati, andranno in estasi di ammirazione verso la
provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza delle difese di
cui li troverà forniti, io finchè non mi si spieghi meglio la
cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il
quale mi trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era
molto debilitato, mi ordinava l'uso di decozioni di china e di altri attonanti
per fortificarlo e minorare l'azione dei purganti, senza però
interromper l'uso di questi. Ma, diceva io umilmente, l'azione dei purganti non
sarebbe minorata senz'altro, se io ne prendessi de' meno efficaci o in minor dose,
quando pur debba continuare d'usarli?
(Bologna. 25. Sett. 1826.). V. p. seg.
-. Phot. Biblioth. cod.166.
col.360. , .
[4206]Relativo ai Mori bianchi, dei quali dico altrove, può
essere anche quel luogo dell'antico romanziere Antonio Diogene (Fozio lo crede
non molto posteriore ad Alessandro), il quale presso Fozio cod.166. col.357.
introduce la viaggiatrice Dercillide a raccontare () J , , .
(Bolog. 25. Sett. 1826.)
Alla p. preced. Si ammiri quanto si vuole la
provvidenza e la benignità della natura per aver creati gli antidoti,
per averli, diciam così, posti allato ai veleni, per aver collocati i
rimedi nel paese che produce la malattia. Ma perchè creare i veleni?
perchè ordinare le malattie? E se i veleni e i morbi sono necessari o
utili all'economia dell'universo, perchè creare gli antidoti?
perchè apparecchiare e porre alla mano i rimedi?
(Bologna. 1826. 26. Sett.)
Alla p.4183. Questa novelletta,
poichè per tale io la tengo, mi fa ravvisare una nuova somiglianza tra i
costumi antichi e i moderni; cioè mi fa credere che i greci antichi
inventassero degli esempi di ridicola e bestiale costanza da apporre agli
spartani, come noi ne inventiamo di bêtise e di sciocchezza da
apporre ai tedeschi e agli svizzeri (addietro tu e muro); come altri ne
inventano di scelleraggine vile, feroce, traditrice e coperta, da apporre
agl'italiani, ec.: in somma che gli Spartani fossero per gli antichi belli spiriti,
ed anche popolarmente nella opinione della Grecia, il soggetto di motteggi e di
novelle, al quale si riportassero anche degli esempi veri, ma appartenenti ad
altre persone; come noi italiani siamo il tipo della ferocia traditrice per
altre nazioni ec.
(Bologna. 26. Sett. 1826.). V. p.4217.
È chiaro e noto che l'idea e la voce spirito
non si può in somma e in conclusione definire altrimenti che sostanza
che non è materia, giacchè niuna sua qualità positiva
possiamo noi nè conoscere, nè nominare, [4207]nè
anco pure immaginare. Ora il nome e l'idea di materia, idea e nome anch'essa
astratta, cioè ch'esprime collettivamente un'infinità di oggetti,
tra se differentissimi in verità (e noi poi non sappiamo se la materia
sia omogenea, e quindi una sola sostanza identica, o vero distinta in elementi,
e quindi in altrettante sostanze, di natura ed essenza differentissimi,
com'ella è distinta in diversissime forme), l'idea dico ed il nome di materia
abbraccia tutto quello che cade o può cader sotto i nostri sensi, tutto
quello che noi conosciamo, e che noi possiamo conoscere e concepire; ed essa
idea ed esso nome non si può veramente definire che in questo modo, o
almeno questa è la definizione che più gli conviene, in vece
dell'altra dedotta dall'enumerazione di certe sue qualità comuni, come
divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili. Per
tanto il definire lo spirito, sostanza che non è materia,
è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di
quelle che noi conosciamo o possiamo conoscere o concepire, e questo
è quel solo che noi venghiamo a dire e a pensare ogni volta che diciamo spirito,
o che pensiamo a questa idea, la quale non si può, come ho detto,
definire altrimenti. Frattanto questo spirito, non essendo altro che quello che
abbiam veduto, è stato per lunghissimo spazio di secoli creduto
contenere in se tutta la realtà delle cose; e la materia, cioè
quanto noi conosciamo e concepiamo, e quanto possiamo conoscere e concepire,
è stata creduta non essere altro che apparenza, sogno, vanità
appetto allo spirito. È impossibile non deplorar la miseria
dell'intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo
poi che questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo 19°
risorge da tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo,
forse anche più spirituale, per dir così, che in addietro; che i
filosofi più illuminati della più illuminata nazione moderna, si
congratulano di riconoscere per caratteristica di questo secolo, l'essere esso éminemment
[4208]religieux, cioè spiritualista; che può fare
un savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle
menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita dalla terra per sempre,
nel momento che gli uomini incominciarono a cercarti. Giacchè è
manifesto che questa e simili innumerabili follie, dalle quali pare ormai
impossibile e disperato il guarire gl'intelletti umani, sono puri parti, non
mica dell'ignoranza, ma della scienza. L'idea chimerica dello spirito non
è nel capo nè di un bambino nè di un puro selvaggio.
Questi non sono spiritualisti, perchè sono pienamente ignoranti. E i
bambini, e i selvaggi puri, e i pienamente ignoranti sono per conseguenza a
mille doppi più savi de' più dotti uomini di questo secolo de'
lumi; come gli antichi erano più savi a cento doppi per lo meno,
perchè più ignoranti de' moderni; e tanto più savi quanto
più antichi, perchè tanto più ignoranti.
(Bologna. 26. Sett. 1826.). V. p.4219.
Ovidio Metam. l.4. parlando delle anime che
sono nell'Eliso: Pars alias artes, antiquae imitamina vitae, Exercent
ec. Vedilo. V. p.4210. capoverso 4.
Alla p.4196. fin. J ( ) (superstitiosus) . J, J J, (simulate). Phot. cod.180. fin.
v. qui sotto. (Apollodori Bibliotheca) , J (i. e. J etc.) .
Ib. cod.186. fin. V.
p.4210.
Conone appresso Fozio, Bibliot. cod.186. narrat.10. chiama J (J) il re del Chersoneso di Tracia
padre di Pallene, il quale da Stefano Biz. v. è chiamato col sigma
iniziale J (J), e così da Partenio, cap.6. (J).
(Bolog. 30. Sett. 1826.)
[4209] Plat, sost. e aggettivo, piatto, (ingl. flat.) (v. gli
spagn.) - , . Phot. Biblioth. cod.186. ed.
gr. lat. col.444. J , , lo cacciava innanzi per
forza, non volendo egli andar oltre, battendogli la schiena COLLA SPADA
PIATTA, COL PIATTO DELLA SPADA, A FORZA DI PIATTONATE, BATTENDOLO COLLA SPADA
DI PIATTO.
(Bologna 2. Ott. 1826.). V. p. seg.
Alla p.4194. Fozio, Bibliot. cod.186. dando
il sommario delle ® o Narrazioni
di Conone, ed. grec. lat. col.449-52. alla narrazione 43. dice così: . Þ° è° ¡
(effuderunt) è Û, ñ °Å ÛÛ (ñ¢. SÛ²) ¦¯¦JJ°ñ. Û ææ ÅÞߢ, ߢ÷æ¡æ°°
(subsidium in exsilio allatura). Û¢ÛÛ ÜçÝç÷¢Ü çË° J¡¦. Û ç¢ ² ¢è, ¦J. çç¢ÛJç, ÛË° ¢»Ü ñÜçç Ç¢¡. èßSÇñÇ ¢Ý, éÇÅ¢ ÜJÛÞñ¢ çÇÇÇÇÛ (in monumento), JÛ¢ÜJß ¦ (Schott.,
suppl. testes), ¡J(Strabo
lib.6. Sicil. in Catana. Seneca
de benefic. lib.3. c.37. Silius, lib.14. et auctor Aetnae in
Catalect. Virgil..[271] Nota
marginale dello Schotto alle parole Anapias et Amphinomus). Qual
è plagio di queste due favole; la presente, o quella di Enea? (Bologna
1826. 2. Ottobre.). Del resto simili plagi, racconti, tradizioni, favole
parallele sono frequentissime nelle istorie greche, massime in quel che spetta
alle origini o ai fasti delle [4210]diverse città della Grecia o
greche. V. p.4213.4224.4225. fin.
Alla p.4208. fin. © (parla di un'opera di Tolomeo Efestione) èÝñ¡ Ü¡, ÜÇÛ¡ñ¡, òÛñ. Brevi enim tempore,
collecta simul, cognoscenda suppeditat quae nonnisi longo temporis intervallo
quispiam per libros passim dispersa laboriose comportare possit. (Schott.) Ib. cod.190. init., col.472. V. p. seg.
Tè, voce popolare per tieni,
prendi. V. Crusca. - °. Hom. Odyss. 9.347.
Alla p. qui dietro. Che questo sia il valor
della frase Ý tÒ Ûæ è
manifestissimo dal contesto, nel quale essa viene ad essere opposta ad ÝÒÛ, ed a ®(cioè
ferita) ¢ÝÒ per fine
di ammazzare. Lo Schotto traduce gladii lamina verberans: non so se
intese bene il senso, non avendo forse posto mente all'italianismo, francesismo
ec. della locuzione di Fozio (o di Conone, che Fozio quivi compendia).
Alla p.4208. capoverso 1. Nè
ciò solo; ma credevano anche che le anime s'innamorassero, e usassero
insieme e avessero figliuoli. Tolomeo Efestione nel quarto libro Ü° ÞJ ° ßÛ (Novae ad variam eruditionem historiae)
appresso Fozio, cod.190. ed. gr. lat. col.480., dice É¡ ¡¢ ®Ýòñ (cum alis) ùò°Å ë
(fertilitatem), éÛÈñ. ÜÉ¢æ, ÜÅ, (minime potiens) Ý ¢»®Æñ. Üæ, ÷J, çñ, Þ¡.
(Bologna. 3. Ott. 1826.)
Juillet.
Alla
p.4167. Aristides, Orat. Þ¡ (M.
Aurel.), ed. Canter., t.I. p.114-5. Jæ°ý çè(¡), Üñ [4211] ¡ (cum Agamem. vixisset. Canter.)
Fare per giovare, servire.
Phot. cod.190. fin. col.493. ed. gr. lat. ¤æ(ÒÞJèó) ÛJêJ(ÜÝõÛ) òÛ, ÷Þ´J¡, J (incendi) Ý¢ÜòÛ. (valere
etiam ad philtrum. Schottus.) V.
p.4225.
Così,
ridondante. ܲéÒÇ¡éÞòÜ¡ ®J ìÜÛ. Dove lo Schotto assai male trasporta la voce ì più sotto, per non avere inteso qui il
senso di essa, nè quello del periodo seguente, nel quale va letto ÷¤çperõ¤ç, e non come corregge lo Schotto. Phot. Cod.192.
col.501. ed. graec. lat. V. p.4224.
è¢, ÞÜòÜ·®¡, ÷Þ¯¯Ý ÛôÆÇß. Questi otto libricciuoli, o vero sermoncini,
(ñÜ di un tal Marco Monaco),
tutti, sebben colla differenza tra loro del più e del meno,
conducono, sono conducenti, all'esercizio della filosofia pratica (intende
delle virtù cristiane ed ascetiche). Fozio, cod.200. verso il fine. col.522.
ed. grec.-lat. Male lo Schotto: Qui quidem octo libri, etsi plus minusve
sint inter se diversi; omnes tamen ad operantem sapientiam quasi manu
ducunt.
(Bologna 4. Ott. Festa di S. Petronio. 1826.). V. p. seg.
Alla p.4165. capoverso 5. Similmente da
Aristide Orat. Þ¡, cioè in lode di M. Aurelio, ed.
Canter. t.1. p.106. lin. penult.-ult.
Alla p.4166. Usasi la stessa locuzione, òéè¡, nello
stesso senso e modo, da Fozio, Cod.219. col.564. ed. gr.-lat. V. Plat. ed. Astii, t.1. p.192. lin.11.
Alla p. qui dietro. Così cod.240.
col.993. Û¤Ý V. p.
4213.
L'autor greco della Vita di S. Gregorio
Papa, detto il Magno, avendo parlato delle opere di questo Santo, e particolarmente
de' suoi Dialoghi, [4212]soggiunge (appresso Fozio. cod.252. col.1400.
ed. grec. lat. Credo però che questa Vita si trovi stampata intera, e
sarà in fronte alle opp. di S. Gregorio): ¡¡Ü¥®Ü¥ò¦ß¯=Û¯¡°¤ÇõéèÈÛ ñ ®. ¢, ùèèò ¤Ûñì ÝÞ¡ ¡, ¯¤»=ó»ñ¡Ç ÜÈ¡ Þ¯ Ç ¤Å, òò¢»Þ¡JJÅ ¢®. é ñ¢, ¡ñ, Üéèññ¤Û¦¦J. Ma per ispazio di 165 anni,
solamente quelli che parlano latino godettero della utilità delle sue
opere. Poi Zacaria, che in capo al detto spazio di tempo successe a
quell'apostolico uomo (nel papato), trasportati in lingua greca i colui
scritti, fece cortesemente comune a tutta la terra la notizia e la
utilità di quelli, ristretta fino allora ai soli Latini. E non solo i
così detti dialoghi, ma prese anche a voltare in greco altri scritti del
medesimo degni di considerazione. - Testimonianza insigne della universalità
della lingua greca eziandio ai tempi dello scrittore di questa Vita,
cioè, credo, nel sesto secolo, se costui fu contemporaneo o poco
posteriore al detto Zaccaria papa.
(Bologna. 5. Ott. 1826.)
Alla p. qui dietro. Proclo nella Crestomazia,
appresso lo stesso Fozio, cod.239. init. col.981., dice É (che) ßéÛÞÜñÜ® (della
prosa e del verso), ¢ (differiscono) ¤ÒÜ· nel
più e nel meno. Lo Schotto: in eo, quod plus, minusve est.
(Bologna. 6. Ottobre. 1826.)
Alla p.4163. Phot. cod.279. col.1588. ex
Helladii Besantinoi Chrestomathiis, ed. gr.-lat., ñJÝJ¡ perocchè ogni preposizione
vuole (cioè dee) finire in sillaba breve. V. p.4226.
[4213]Dell'uso del verbo J¡ per fare, come in
ispagnuolo, poner. Elladio Besantinoo ne' libri delle Crestomazie,
appresso Fozio, cod.279. col.1588. ed. gr. lat.õ Jè æJ¯ Ý µòJÝ, ùÝòܤJÜÝ(ÜÝÝ¡¦Jò¦J¤ÜèÜ,ÉÜ Å´è¡Yæ).µJ. Anche
Orazio per grecismo: nunc hominem PONERE (cioè facere, fabricare,
fabrefacere) nunc deum.
(Bologna. 8. Ott. Domenica. 1826.)
che vale
ora laborioso, infelice ec. ed ora malvagio, del che altrove, ha
diversa accentazione secondo il diverso significato. Veggansi i Lessici.
õÛ,Jñ ec.; èÛ, ÷÷.
Alla p.4210. Il fatto riferito da
Agatarchide presso Stobeo, trovasi anche presso Plutarco nel principio del
Parallelo dei fatti greci e romani (operetta da consultarsi al nostro
proposito), il qual Plutarco lo paragona a quello di Muzio Scevola, e cita
Agatarchide Samio¢ÇÇ.
(Bolog. 9. Ott. 1826.)
Diluere-diluviare activ. V. Forcell.
Alla p.4211. E cod.224. col.708.¢ÛÝõÇ¢Ý.
ß=®ßòéÝ¢ñêݤJ®,Ü»ÇÝ (phrasieximia).¢æò÷ܯ¡Üò æñ:Ç¢ ÷à ¯Üé®(significativa
et venusta),åÜ¢ñ²ææ J
(compositio). ¢æéÝܯòçÞŤÜòÝÛJ (ex hoc enim se praestituros vulgo
loquentium). Cecilio rettorico siciliano, parlando di Antifonte, uno dei 10. Oratori
Greci, ap. Phot. cod.259. col.1452. ed. graec. lat.
[4214]Alla p.4197. In inghilterra
vi sono da qualche tempo scuole di pugilato (boxing), e vi vanno ad apprender
l'arte, non già solo quelli che hanno intenzione di fare il mestier di boxer
per guadagno, ma galantuomini d'ogni condizione in gran numero, per servirsene
nell'uso della vita, la quale in quel paese offre assai spesso l'occasione di
adoperar le pugna; e per difendersi dalle pugna degli altri.
Alla p.4200. Solevano portar le donne
intorno al collo e alle maniche de' bottoncelli d'ariento indorato.
Franc. da Buti ap. la Crus. in Bottoncello.
I francesi non hanno lingua poetica
perchè hanno rigettata la lingua antica, perchè non sopportano
l'antico nel verso niente più che nella prosa: e senza l'antico non vi
può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità
di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e
che rigettarono, ad eccezione di pochissime e piccolissime parti conservate nel
verso, quella poca antichità che avevano, non ebbero lingua poetica propriamente,
nè avrebbero avuto dicitura e stile poetico se non avessero usato nella
poesia costruzioni ardite, e nuovi significati e metafore di parole, che i
francesi non sopportano nella loro. Del resto l'avere i latini e i francesi a
differenza dei greci e degl'italiani, rigettata ne' loro buoni e perfetti
secoli l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver
essi avuto nelle loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza
dei greci, che ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e
degl'italiani, ch'ebbero Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma (come i greci) la
letteratura già stabilita, fissata e formata prima della lingua e della
maturità della civilizzazione.
(Bolog. 12. Ott. 1826.)
Istoria naturale. Curioso è l'osservare
da quanto piccole, quanto disparate e lontane cause sieno determinate le assuefazioni
e le [4215]idee degli uomini le più costanti, e le più
universali. La così chiamata istoria naturale è una vera scienza,
perocch'ella definisce, distingue in classi, ha principii e risultati. Se la si
dovesse chiamare storia perch'ella narra le proprietà degli animali,
delle piante ec., il medesimo nome si dovrebbe dare alla chimica, alla fisica,
all'astronomia, a tutte le scienze non astratte. Tutte queste scienze narrano,
cioè insegnano quello che si apprende dall'osservazione, la quale
è il loro soggetto, come altresì della istoria naturale. Solo le
arti possono dispensarsi dal narrare, bastando loro il dar precetti. Anche
l'ideologia narra, benchè scienza astratta. Oltre che il nome di storia,
secondo la sua generale accezione, significa racconto di avvenimenti successivi
e susseguenti gli uni agli altri, non di quel che sempre accadde ed accade ad
un modo. Questo racconto appartiene alle scienze. Esso è insegnamento.
Or tale è il raccontar che fa la storia naturale. Perchè dunque
si dà a questa scienza il nome di storia? Perocch'essa fu fondata da
Aristotele: il quale la chiamò istoria, perchè questo nome in
greco viene da istor (conoscente, intendente dotto), verbale fatto dal
verbo isémi (scio) e vale conoscenza, notizia, erudizione, sapere,
dottrina, scienza, , notizia
della natura. Così la Varia istoria d'Eliano, non è altro che
Varia erudizione; così i libri d'altri
scrittori greci, opere filologiche. E istoria equivale in certo modo in
greco a filosofia, e spesso si prende per questa, specialmente da' più
antichi, o da' sofisti-arcaisti. Quindi Aristotele intitolò anche istoria
degli animali altra sua opera di zoologia, Teofrasto istoria delle
piante opera di fitologia ec. Plinio Istoria naturale opera
enciclopedica e non ristretta nei termini della Scienza così nominata.
V. p.4234. Ma noi che annettiamo tutt'altra idea al nome istoria, avremmo
dovuto tradurlo [4216], massime trattandosi del nome di una scienza;
chè se nelle scienze ogni termine dev'esser preciso e non dar luogo ad
equivoco, molto più il nome suo stesso. Nondimeno l'abbiamo adottato tal
quale; e per effetto di questa disparatissima causa, il nome di questa scienza,
nome che le è stato e sarà sempre e universalmente fisso e
inseparabile, produce in tutti un'idea equivoca, che mescola le nozioni di
storia a quella di scienza; che fa dare ai cultori e scrittori di questa il
nome di storici della natura, il quale niun pensò mai di dare a
Lavoisier nè a Volta, nè di chiamar Cassini o Galileo storici
degli astri o del cielo. Confusione e imprecisione di idea, da cui niuno si
potrà difendere finchè sarà conservato alla detta scienza
il detto nome, che non le potrà essere mai tolto presso nazione alcuna sino
all'estinzione della presente civiltà, (Bolog. 13. Ott. 1826.) e al
sorgimento di un'altra che non derivi da questa.
Rettorica. Citiamo qui un esempio di
acutezza e di filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più stimati)ܤÛ, della elocuzione, sezione 67. parlando
delle figure della dizione (®°¡ opposte a
®°Û sententiarum o sententiae: ¡ verborum),
le quali non sono altro che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso
ec. sgrammaticature, direbbe l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non
in troppa abbondanza,[272]
chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa
disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. Gli antichi, i quali
usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro
più familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza
figure. La cagione è che quelli le adoperano con arte (°J¡Ý®¯Ý: ñÜÝñ [4217]èñ Û. ßèÝ, ® ¢ ÝñJ¡, J¡Ç ÛÞÛ, ò¢¡J¡). L'osservazione è
verissima in tutte le lingue; la causa, proprio il contrario di quel che dice
Demetrio. Gli antichi usavano le figure naturalmente, senz'arte, e per non
saper bene le regole generali della grammatica: i moderni le pescano negli antichi,
le usano a posta, sono irregolari per arte. Perciò paiono, come sono,
artifiziati, affettati, stentati, diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non
ogni buon effetto o successo è da attribuirsi all'arte. Concedete
qualche coserella alla natura, ed anche all'ignoranza, benchè voi siate
un maestro di arte rettorica. V. p.4222.
Alla p.4206. Quell'altra storiella nota,
dello Spartano: quo fugis, anima bis moritura; sarà parimente
inventata ad esaggerazione e derision di goffaggine, e di coraggio materiale e
stupido.
M¡dv, ¡, ®, ®, ¡v ec. (dei quali verbi dico altrove, parlando di medeor,
meditor ec.) debbono originariamente essere stati un verbo solo e medesimo,
non pur tra di loro, ma eziandio con ¡¡¡¡¡, distinti
solamente per la pronunzia, começç e come in
ispagn. dexar (oggi si scrive dejar coll'iota, che risponde al
nostro sci e al franc. ch) da Laxare, lasciare, laisser,
lâcher. - lacrima.
Alla p.4200. Dicono anche i greci nello
stesso senso. Ménnone
storico, Istoria della città di Eraclea pontica cioè di Ponto,
ap. Foz. cod.224. col.724. ed. gr. lat.ÜÛéæ, ßò°ÛÝÞò¡.
Trovandosi in iscarsezza di vittovaglie, quelli di Eraclea li riebbero,
mandando del frumento in Amiso. (Bologna 14. Ott. 1826.). Id. [4218]ap.
eund. l.c. col.732. ÜÛò¯ÛçJñÝÅæ. et tunc
quidem, large rebus necessariis suppeditatis, reficiunt Chiotas (gli
Sciotti). Id. col.736. L梤ÜèSÛèæÜJÆòJñJ®çÅ. Lucullo che era accampato
in riva al Sangario fiume, inteso il sinistro della rotta, confortò con
parole i suoi soldati caduti d'animo. Simile frase usa il med. col.753. dopo il
mezzo.
Nuovamente, novellamente, di novello, di
nuovo, per di fresco, di poco, poco innanzi, poco fa - W÷¡æþÆòÛ¦¡ß¡. Odiss. t., .518-9 Ç
cioè ¦- anno nuovo per
prossimo venturo.
(Bologn. 14. Ott. 1826.)
Spicio o specio, conspicio
ec. - conspicor, auspicor ec. suspicor.
Sperno - aspernor, aris.
Non ha molti anni (1823) che si è
udito parlare nelle gazzette, di persone che emettevano scintille dal loro
corpo, le cui mani o altre membra ardevano senza abbruciarsi, nè potersi
estinguere il fuoco coll'acqua ec. E si ricordò a quel proposito il caso
della celebre Bandi. Ora, qualunque fede meritassero ed ottenessero quei racconti,
eccone dei paralleli presso gli antichi. Damascio, nella vita d'Isidoro
filosofo, appresso Fozio, cod.242. colonna 1040. ediz. graec. lat. scrive: æ (S®) Ûõá, Ù¢°, ñ
(tractatus), J° (scintillas)
ò èÅæܱÛ, §éÒò¡Þ¯ê¯¯ (alla quale esso Severo fu assunto) ¢‘PÅæJ. ÜÛÄ(Imp.) ö, Å æõçÛ (nella Vita di Tiberio, perduta) ¦ÛÄöÜ¢ ñÄ¤Ü ñ=ÝÛ, colonna
1041, ¯Ûè éèJ®®. Üò (leggo Ç) Ü®§ö ò¡ (Balemerin,
unum ex Attilae aulicis. Scott.) pò toè ÞÛÅ [4219] J°. õ ¢¸, õÛ(sic) YÛ¯, ùèò ¡¦‘. ¡¢ÜÜ¥õç(Damascio)
ÉÜ¤Ü ¢¡Äܤ¡ÞÜèÛ Û’ï J° ˜¢Û(ingentes),
¦J÷Üæ¡:¤Û¢Üñ÷(integras)
ò ß (vestem),
¯¡æ:Üò¡ÝÞ÷®(Il buon
Damascio si aspettava forse tra se e se un imperiuccio, o almeno almeno un consolato,
sebbene non ardisca dirlo) ÞÝ¢¡ÜJñò°°¡J°, Üñ, ÷ æ, ßÛÄÜÝ(veste
superiore) ¡. (nempe °êè°).
(Bolog. 16. Ott. 1826.)
Alla p.4208. Damascio nel luogo citato nel
pensiero antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro
filosofo: ‘P¯Ü¯JÛ´, Þ¢¯J¡Û ¤Å¯ ’¡Ç ¢ æÒÛĵÒÞÛÄ (proprio, privato,
individuale) Ò æ, ܯ¢ßÇä, ò¢¦Jµòç ¡,ôßÜæõ‘Û ¢±ñ. ɢǢê , é¡Û¯Ûñ, É¦Û (Olimpiade,
od. 1, et od. 3, fine; Pyth., od. 3) ¡¦³ ß°ÛàÇæJÛÛÝ (sic), ÜòæÄ (in margine corrigitur ) õéÒñ¤¡°°.
Rhetoricas, poeticasque artes parum attigit: sed ad sanctiorem Aristotelis
philosophiam se convertit, vidensque illam necessariis ratiocinationibus magis
quam proprio sensui credere, et ut via ac ratione procedat, divinis autem
imaginationibus non adeo uti, parum etiam de hac sollicitus fuit: ubi autem
Platonis sententias gustavit, non iam aspicere, ut ait Pindarus, dignatus est
ulterius. Sed finem consecuturum speravit (dic, perfectionem, vel quid simile)
si in Platonis sententiarum adyta penetrare potuisset, et eo omne suum studium
impetumque convertit. Versio Andreae Schotti. Ç¢ [4220]Û,
soggiunge Fozio, JñÜJ
(cioè Damascio)… ÇÜ¢æÜÜSòÜñÜ¢¤¡èñçJò¡¡¤®Jè.ç¡JÜJÅ¡, colonna
1036, µ¡ô¡µJÝä¡, 颡 æ Þ ¯ J°ÜÛ.ÇÇ ‘¡Üæ, é ¡, ÜJñ, ¦¢Üñ, é° ÷¯÷. Ç¡ ‘¡Üà÷, 颢¢Û ÞJÛ®, Ç¢Û °Ç ¢Ý ¡Û. Y vuol dire esalta,
divinizza, loda a cielo, voce e senso usitato a Fozio. Antiquissimos etc. De recentioribus etc., et alios mediae
aetatis, magnum thesaurum collegisse divinae scientiae dicit. Eos autem
qui in caducis, et humanis studiis libenter occupantur, vel qui intelligere
acute (cito), ac scire multa volunt, non magnopere conferre ad sublimem ac
divinam sapientiam. Antiquorum enim Aristotelem et Chrysippum ingeniosissimos,
et discendi cupidissimos, quin etiam laboriosos, nec tamen omnino ad summum
ascendisse. Recentium vero Hieroclem, et similes, scientiis humanis nulli
quidem fuisse inferiores, sed in divinis notionibus non admodum fuisse versatos
tradit. Schott. Più sotto nella stessa colonna 1036. dice Damascio
d'Isidoro: ¤Û’ ·éÒçÜèñ:é¯æ Ý ñ ë¥ëçñ, ¤JÝ» JÛ¯õ¡ Û õòæJ ¡êòèñ, åèòôJ¯¥ (in margine ¥) Û: ÛJ¤æÜ, Üö¤J¡»», ¢¢JÛ. Luogo
corrotto, di cui però s'intende appresso a poco il senso. Hoc etiam a
ceteris philosophis distabat Isidorus, quod non sola syllogismorum vi se at
suos vellet adhaerere veritati: cumque veritas non una videatur via, nolebat
eos ratione, veluti caeca in rectam viam ductrice, impelli. Sed persuadere
semper adnisus est, et oculos ad animam referre (dic, visum, speciem
intromittere): aut si inessent, [4221]repurgare. - Ridete? Or traducete
queste che vi paiono stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e
voi vedrete accadere quello che dice il Dutens, cioè quante
verità (qui però si tratterà di errori) si troverebbero
negli antichi, credute moderne, se si sapessero tradurre i loro detti nella
lingua modernamente adottata per la filosofia. Queste scempiaggini del filosofo
mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di quello e dei vicini
secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro
sono se non, con solo diverse parole, le misticherie di quei moderni, che
quando non ci possono provare con ragioni quello che vogliono, quando sono
obbligati a confessare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi
abbondano gli argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento,
e pretendono che questo debba esser l'unica guida, canone, maestro della
verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi
passi di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e
magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine
(propriamente il nome e non altro) de te fabula. Che altro è
questo sentimento, questa sensibilità, questo entusiasmo, queste ispirazioni,
che non tutti hanno da natura, o chi più chi meno, ma che ci si
dà per il principal mezzo di conoscere il vero, ed a cui si debba
subordinare ogni altro mezzo, compresa la ragione; che altro è, dico, se
non quello che Isidoro chiamava éÛ in quest'altro luogo (che ci fa ridere) di
Damascio ap. lo stesso Fozio, colonna 1034?. ÛÜôæõÛ, Û (), ¦é¯éÛÛ, 颯¯éý, é¢ñ (ÅÞJ¡) ëÜñJÛ:é äæÞÛ, »ÞÛ&æÞñ. ¯¢äJÛ¯ (in margine corrigitur ¯), ±¡Û ÜêJÛ°°ö, ÜÒÒÜ, ÞJ¡ ÜÅèJèÜèè. éÛæ¢ÝÈñ. ÜÉ颡’ ö éÛ, Éé¢òJÇêñ ö èéÛò, Û. [4222]Sollertiam
et acrimoniam Isidorus dixit esse imaginationem non facile mobilem, neque
ingenium facile opiniones comminiscens, neque solam, ut aliquis putarit, intelligentiam
volubilem et gignentem veritatem. Neque enim has esse caussas, sed ad
intelligendum caussae servire: divinum vero esse instinctum, sedate aperientem
et repurgantem animae oculos, et intelligibili lumine illustrantem, ad verum falsumque
et videndum et cognoscendum. Bonam constitutionem ipse appellavit, nullumque
sine ea esse emolumentum, neque oculorum sanorum commodum sine coelesti lumine
asseveravit. - Del resto, ho detto che questi principii erano comuni e
dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire, ¢Û’·éÒ ec. e di
fare Isidoro singolare dagli altri, perchè pochi filosofi anteriori o
contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente
ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all'entusiasmo,
all'ispirazione; disprezzare il senso universale per esaltar l'individuale;
deprimere e condannare Aristotele, appunto perchè seguace èÛ cioè dei metodi esatti di conoscere
il vero, di ragionare, di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze
necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone Pitagora ec. perchè non
ragionatori, perchè æ al libero
sentimento e all'immaginario, che Isidoro chiama divino. ec.
(Bologna. 17. Ottobre. 1826.)
Alla p.4217. Lo stesso Demetrio ha nondimeno
una bella osservazione sect.197. ‘Å (apta
contentionibus. Gale.). ¢ïಡ¡(la
dicitura senza congiunzioni, æ): ²é¯Üê¯
(histrionica. Gale.) Ý. Ýêñ²æ. ¯ (idonea
scriptonibus. Gale) ¢¡²é: (quae facile legi potest.) 졤 ²¡Ü䱡 (connexa et tanquam munita) Ý ¡. è¢Ü¡êÛ (in
Menandro actorum opera utentur), ¡¤Ý Û. ²¢Å.
Veramente ci sono alcuni scrittori, libri, o passi, che leggendoli, massime ad
alta voce, pare che chiamino il gesto, e ci vuol tutta la forza dell'assuefazione
e delle regole di civiltà francese per astenersene. E questi tali passi
sono appunto, almeno [4223]il più delle volte, o forse sempre
slegati. Ma però la causa del detto effetto non è mica la
slegatura, ma quella che lo stesso Demetrio accenna più sotto,
cioè la passione. Perocchè alle riferite parole egli
immediatamente soggiunge, sect.198. ¢êò (accommodata actori res) ²æ, ¢ÛJõ. E qui
recato un esempio che fa poco o nulla al caso (¤, ¦, ¦¡Û), come sono quasi tutti gli esempi di cui
Demetrio si serve (talora ei n'adopra un medesimo per due osservazioni, casi o
precetti contrarii), ripiglia: ì¡ Üò¢J¡, êÛJ (actu adiuvare), ¯æÞ¢®à, ‘ܦܦ¡, ¯J
(vacuitatem ab actione) Ý¡ (insieme
colle congiunzioni) Ý. ¢òJ¢, ñ (remotum
ab actione). Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena osservata e
accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non sia
una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di
notabile v'ha nel suo libro.
(Bolog. 17. Ott. 1826.). V. p.4224.
Bella proprietà della lingua
italiana, massime antica, proprietà in mille casi utilissima al dir
breve, anzi all'evitare un lunghissimo circuito di parole, proprietà d'altronde
comune anche al francese (nonchalance, nonchaloir, v. Pougens, Archéologie
française), all'inglese (nonsense, nonsensical ec.) ec., è quella di
certi negativi, sia nomi, sia verbi, avverbi ec. fatti dal positivo, premessavi
la non, congiunta o disgiunta da essa voce; come noncuranza, non
cale, non calere ec. V. la Crusca in Non... e la Proposta del Monti,
se non erro, in Non, o in Non... - Damascio nella Vita d'Isidoro
filosofo (Damascio fu molto studioso dell'eleganza della lingua in essa opera e
ricercatore di modi antichi e di voci) appresso Fozio, cod.242. parlando di un
certo Asclepiodoto, il quale per moltissimi tentativi che facesse a tal uopo,
non potè ritrovare il genere di musica detto enarmonio (ò¤ñ¡) l'uso e la conoscenza del
quale era perduta, dice, colonna 1054. lin.1. ediz. grec. lat., ࢰ¯ê¡ò, la
causa della non invenzione, cioè del non averlo egli potuto
ritrovare, fu ec.
(Bologna. 17. Ottobre. 1826.)
[4224]Alla p.4162. Id. sect.240.
p.134. fin. ñæ䲤¯æ.
Expressio enim quaedam amoris debet esse epistola, concisa. Gale.
Tondeo, tonsum-detonsare, tosare ec.
Alla p.4223. Demetrio, ib. sect.285. Jñ¢°¡®Ü õÜ Ç¡ò¡, ò¡. Ad summam (generalmente)
autem figurae verborum et actionem et contentionem praebent dicenti: in
primisque dissolutum. Gale.
(Bolog. 20. Ottobre. 1826.)
Alla p.4211. Arato, Fñ v.108.
parlando degli uomini della età d'oro: ÷¡ñÛ±Û, é¢Û, ¢è, ì, (così,
come si sia, ) ’¦:¯’ ¡J, ÜÛë°ñJ±Û, E v. 179.
’°ò¡ ‘Ûì (ridondante) = (taciuto,
oscuro, ignoto ec.) Û. ’ÜÇéòÞö’ ·J, ¤Üò¤æJ·. E
così altrove più volte nello stesso poema usa l'avverbio ì. E
così ancora altri poeti; e prima di tutti probabilmente Omero. V.
l'indice delle parole omeriche.
Alla p.4210. lin.1. Questa inclinazione e
quest'uso di applicare a luoghi e persone ben note e prossime i racconti (veri
o finti) appartenenti a persone e luoghi lontani, ed anche di rimodernarli,
cioè applicar de' racconti vecchi, e talora vecchissimi, a tempi e
persone moderne, ha mille esempi, che si possono notare anche giornalmente: ed
io ho udito in città d'Italia, molto tra se distanti, raccontare varie
novellette, varie pretese origini di proverbi, varie goffaggini insigni ec.
come accadute nominatamente ad una tal persona di quella tal città; e
così in ciascuna città; e per tutto la stessa novelletta con nome
diverso; e molte di tali novellette io le aveva già sin dalla puerizia
sentite raccontare nella mia patria e da' miei, sotto i nomi di persone della
mia città stessa o della provincia: ed alcune ne ho anche trovate negli
antichi novellieri italiani, sotto altri nomi, le quali ora si raccontano come
di poco tempo addietro, e di persone conosciute dagli stessi che le raccontano,
o da quelli da cui essi le hanno udite. (Bolog. 23. Ottob. 1826.). Altra
conformità degli antichi coi moderni, poichè anche gli antichi
ebbero lo stesso vezzo, come si è veduto.
[4225]Alla p.4202. Spesse volte in
occasioni di gran travaglio e afflizione d'animo, io mi sono consolato
così. Ho dimandato a me stesso: Certo questa è una sventura
grande: ma posso io non affliggermi di questa cosa? L'esperienza mia propria,
di più altre volte, mi obbligava a risponder di sì, che io
poteva: ma il non affliggersene sarebbe cosa irragionevole: la sventura
è grande e vera. - Lasciamo star che sia vera: ma affliggendomene la
posso io dissipare o scemare? - Nulla. - Non affliggendomene, crescerà
ella punto, o me ne verrà punto di danno? - Punto. - Dunque come
sarà irragionevole il non affliggermene? E se questo è ragionevole,
se mi è utilissimo (il che è manifesto), se io lo posso,
perchè non lo vorrò? - Vi giuro che questo discorso era efficace;
che la mia volontà si determinava secondo esso, ed otteneva il suo
effetto; e che io mi consolava e non pativa.
(Bologna. Domenica, 29. Ottob. 1826.)
Alla
p.4211. Nicias de Lapidibus, ap. Stob. serm.98. Üñ, dice di una certa pietra
della Tracia: Ý’ ôÛ fa benissimo. Callisthenes Sybarita
libro 13. rerum Galaticarum, ib. ’ ¤»»éè (di un
certo pesce) ÛJ, ñÄñò(grumo salis),
ùÝòÛñ (ad
quartanas. Gesner.). Archelaus lib.1. de
fluviis, ib. ’¢éÒ (in un fiume dell’Etolia) ¡, ññèòÛ. Ctesias Cnidius lib.2.
de Montibus, ib. ’¤éÒ (in un monte della Misia) ÛJÛJ¯ñ, ùÝòê (vitiligines) Ü¡. Clitophon Rhodius lib.1. Indicorum, ib. dice di
un'erba dell'India: Ý’òÞ¡ (ad morbum regium).
(Bologna 30. Ottobre. 1826.)
Alla p.4210. lin.1. Timica, donna
Pitagorica, fatta tormentare da Dionigi tiranno di Siracusa, perchè
rivelasse i secreti o misteri della [4226]sua setta, si tagliò
co' denti la lingua, e la sputò in faccia al tiranno. Giamblico, Vita di
Pitagora, cap.31. Imitazione della storia di Leena amica di Armodio e
Aristogitone, come osserva il Menagio, il quale vedi, Hist. Mulier. philosopharum, segm.94-98. E molte di
siffatte narrazioni parallele si debbono interamente agli scrittori imitanti in
altra materia le tradizioni e storie antiche ec.
(Recanati 16. Nov. 1826.)
ÛƦéÝ. Fragm. Teletis ex commentario de comparatione divitiarum et
paupertatis ap. Stob. serm.95. æÛÜæ, ed. Basil. 1549. p.522. V. Mannuccii Adagia, Venet. 1609. col.469.
- Una rondine non fa Primavera. V. la Crus. Proverbio greco passato nel
volgare e popolare italiano.
Alla p.4212. fin. Perictyones
Pythagoricae ex libro de Mulieris concinnitate, ap. Stob. serm.83. ÞñS°(corpus) ¢J¡ (raquirit) ¯=¡, ¢òä, éÛ: ¢ò®. Parla
biasimando la sontuosità del vestire.
Alla p.4165. È usato pur da Hierocles,
lib. de Amore fraterno ap. Stob. serm.82. ÷²Û, p.475. verso il fine, ed. Basil. 1549.
(Recanati. 15. Nov. 1826.)
Bellissima è l'osservazione di
Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. etc. 84.
Grot. 82. Gesner. che essendo la vita umana come una continua guerra, nella
quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i
fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec. E io,
trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè circondato da persone
benevole, e benchè senza inimici, pur mi ricordo di esser vissuto in una
specie di timore [4227]o timidezza continua, rispetto ai mali
indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed
abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non
perchè io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in
mano alla nemica natura, senza alleati, per la lontananza de' miei; (Recanati.
16. Nov. 1826.) e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un vivo e
manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al pensiero, all'aspettativa,
al sopravvenirmi di avversità, malattie ec.
Û diminutivo positivato per ñ. V. Casaub. ad Athenae. l.4. c.16.
Faquin, facchino ec. - . V. Casaub. ad Athenae. l.4. c.16.
Indulgeo indultum-indultar spagn.
Senza porvi altro studio (cioè
alcuno). Varchi, Ercolano, Venez. Giunti 1570. p.94. verso la fine.
Io ho veduto delle Commedie
più sporche e più disoneste che quelle d'Aristofane; ho veduto de'
Sonetti disonestissimi e sporchissimi; ho veduto delle Stanze che si posson
chiamare la sporchezza e disonestà medesima. Id. ib. p.245. E gran parte della lingua spagnuola ritiene
ancora oggi della lingua de' Mori. Ib. p.260.
(Recanati. 26. Nov. Domenica. 1826.)
I Francesi, per qualificare un uomo che
stimino, soglion dire c'est un homme extrêmement aimable,
gl'Inglesi he is a very sensible man, gl'Italiani, è un uomo
di garbo; segno manifesto, pare a me, di quanto i primi pongano sopra ogni
altra cosa i piaceri della conversazione, e la scienza della urbanità; i
secondi la ragionevolezza e il buon senso; gli altri la compostezza delle maniere,
e l'accortezza di condursi nella vita. Algarotti, Lettere varie, Lettera al
Sig. Barone N. N. a Hertzogenbrück. Berlino 10. Marzo 1752. fine. Opp. ed.
Cremona, Manini 1778-84. tomo 9. 1783. p.69.
(28. Nov. 1826.)
[4228]Molto impropriamente la
questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine
dell'uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se medesimo: un
piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non
sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto.
Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè poi non si
possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere perfetto,
niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual natura
sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la
voluttà del corpo, o altre cose tali, possano proccurare all'uomo il
piacere perfetto; o qual di loro più; o in somma donde possa o debba
l'uomo conseguire il piacer perfetto che egli desidera, e che è il suo
fine, questo può ben cadere e cade in questione; ma tal questione
è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il mezzo
s'ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione,
dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai
ottenuto, non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci
possa o debba dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è
un'immaginazione, come lo è questo piacer perfetto esso stesso, quanto
alla sua natura; e che infine l'uomo sa e saprà ben sempre che cosa
desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioè che mezzo che cosa possa
soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioè che cosa
sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua felicità.
(Recanati. 28. Nov. 1826.)
Ritorta-ritortola. Primulus a um, e primulum
per
primus e primum avv.
Osservisi che son voci dei Comici,
cioè del dir volgare.
Anticato per antico. V. Crusca.
Far le corna a uno - ¡Ý, detto
della moglie. Artemidoro de somniis cap.12. che lo chiama òñ. V.
Tassoni Varietà di pensieri, lib.9. cap.30.
[4229]Datti de' polli,
latte, capretti, giuncate, e delle altre delizie, che tutto l'anno ti
serba. Pandolfini Tratt. del governo della famiglia, ed. Milano 1811. p.81. (Recanati
30. Nov. Festa di S. Andrea. 1826.). Vi si allegheranno degli altri.
Caro Apologia, Parma 1558. p.26. In Esiodo non sono delle voci che non
sono in Omero? Ib. p.26-27. E così spessissimo.
Senza fargli altra risposta,
cioè niuna. Sannazz. Arcadia, prosa 11. fine.
Observe the French people, and mind how easily and
naturally civil their address is, and how agreeably they insinuate little
civilities in their conversation. They think it so essential, that they call an
honest man and a civil man by the same name, of honnête homme; and
the Romans called civility humanitas, as thinking it inseparable from
humanity. Chesterfield Letters to his son, lett.95.
È naturale all'uomo, debole, misero,
sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il
fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un
intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla
propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito,
si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata
o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra ragione; spessissimo
eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si
consola e fa cuore, solo per la buona speranza e opinione, ancorchè
manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o
s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o
ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella
età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato
solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor
mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il
giudizio che [4230]egli portava della cosa; nè più
nè meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo o veramente
o nell'apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d'animo sopra
modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o
fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato
frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di
tal rifugio. Ed è cosa mille volte osservata e veduta per prova come gli
uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei
pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni,
dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane
e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o
credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo
o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo,
e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da
temere o dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una
delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è
abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente,
cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga
ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza
possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta
della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura
più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di
continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che
hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e
tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo
in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene
pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime
ai deboli ed infelici, un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual
conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno
acquetamento, ed una confidenza [4231]cieca nell'autorità, nel
senno, e nel provvedimento altrui.
(9. Dic. 1826.)
Dilettare-dileticare, co'
derivati.
Intermittenza morale. Passioni e
qualità morali intermittenti. - Aggiungerò che quest'odiosa
passione (l'avarizia) provenendo sovente dalla debolezza della nostra costituzione,
avviene che le infermità corporali talvolta la sviluppino. Una dama che
per sei mesi dell'anno era soggetta ai vapori e alla malinconia, era pur anche
durante quel tempo d'una sordida parsimonia; ma come appena le funzioni corporee
ripigliavano la loro armonia, ella si faceva adorare per la sua grande generosità.
Alibert, Physiologie des passions, nel N. Ricoglitore di Milano, quaderno 23.
p.788. - Questa osservazione si può sommamente estendere. Ciascuno di
noi, se bene osserva, troverà in se questa sì fatta intermittenza.
Io, inclinato all'egoismo, perchè debole e infermo, sono mille volte
più egoista l'inverno che la buona stagione; nella malattia, che nella
buona salute, e nella confidenza dell'avvenire; più aperto alla
compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro
soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o
lieto, che quando avvilito, o melanconico. - Quante cose poi non si potrebbero
dire sopra questa medesima intermittenza, considerata, non nelle
qualità, ma nelle facoltà intellettuali e sociali, sia ingenite,
sia acquisite!
(Recanati. 10. Dic. Festa della Venuta. 1826.)
Assai meglio scrisse (il Boccaccio) quando
si lassò guidar solamente dall'ingegno ed instinto suo naturale, senza altro
studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si
sforzò d'esser più culto e castigato. Castiglione prefaz. del
Cortegiano. Senza altro (cioè alcuno) impedimento. Ib.
lib.2. ed. Venez. 1541. carta 79. p.2. principio, ed. Venez. 1565. p.198. fin.
E così il medesimo autore nella citata opera altre più volte.
Senz'altro strepito (cioè niuno). Ib. lib.3. carta 126.
principio. - p.310.
Pare che la fanciullezza e la
gioventù abbia ingenita e naturale una inclinazione a distruggere, e la
età matura e avanzata, a conservare. Nè voglio io dedur questo
dal vedere che i giovani sogliono scialacquare e mandare a [4232]male i
patrimoni, dove che i provetti gli accumulano, conservano e accrescono;[273] la
qual cosa facilmente si spiega, e nasce perchè i giovani sono
confidenti, e poco riflettono, nè pensano all'avvenire, in vece che i vecchi
sono timidi, cauti, e sempre solleciti del futuro. Ma vedesi quel che io ho
detto, eziandio in cose dove non ha luogo alcuno nè il timore o la fiducia,
nè la provvidenza o la improvvidenza dell'avvenire. Un fanciullo e un
giovane spessissime volte si piglierà piacere di uccidere una mosca o
altro animaletto, cacciandolo anco con fatica, senza altra ragione o altro fine
che di prendersi gusto; rarissime volte si compiacerà, o gli
verrà pure in capo, di salvar qualche animale, vedendolo in pericolo, e potendolo
salvar senza affaticarsi. Un uomo maturo o un vecchio rare volte si
piglierà diletto di uccidere, spesso si compiacerà di salvare
tali creature, vedendole in qualche pericolo di perdersi, e potendo
massimamente soccorrerle senza suo disagio. E ciò faranno gli uni e gli
altri, come per instinto, e senza ragionarvi sopra. È manifesto poi come
i giovani tendano alla novità, e non solo sieno vogliosi d'innovar propriamente,
ma eziandio semplicemente di spegner l'antico, o di vederlo spento; e i provetti,
per lo contrario, gelosi della conservazione delle cose che sono. Onde si
potrebbe dire che la natura, sempre intenta e studiosa non meno a distruggere
che a conservare o produrre, avesse dato stimolo e incarico a quelli che
crescono e vengono innanzi nel mondo, di distruggere, quasi per farsi luogo; e
a quelli che declinano, e si avviano alla partenza, di conservare e produrre,
quasi per lasciar pieno il luogo loro, per lasciar cose che restino in loro
scambio, per supplire il posto che essi son per lasciare.
(Recanati. 12. Dic. 1826.)
Fare e dire ciò che lor occorre, così,
senza pensarvi. Castiglione Cortegiano lib.2. ed. Ven. 1541. carta 69. ed. Ven. 1565. p.174.
Reperito as. V.
Forcellini.
Cielo detto di camere, di carrozze
ec. - Così in greco éò, éÛ per volta
ec. V. Casaubon. ad Athenae. V c.6., libro IV c.5. Aristot. l'usa per palato.
Scapula.
[4233]Il tempo non è una
cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla
esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa
esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle
cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo
sono un'ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e
non esiste, nè da se medesima, nè nel tempo, come membro di esso,
non più di quel che ella esistesse prima dell'invenzione dell'oriuolo.
In somma l'esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir
così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono,
o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il
nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla
è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi
venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una
proprietà del nulla l'esser luogo: proprietà negativa, giacchè
anche l'esser di luogo è negativo puramente e non altro.
Sicchè, come il tempo è un modo o un lato del considerar la
esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un
lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi
è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto
è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell'universo
esistente, v'è spazio, poichè nulla v'è. E se qualche cosa
potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini,
troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la
impedisse di andarvi o di starvi. La conclusione si è che tempo e spazio
non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense
quistioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici
d'ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da
malintesi, e da poca chiarezza d'idee e poca facoltà di analizzare il
nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come
tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e sian
qualche cosa.
(Recanati. 14. Dic. 1826.)
[4234]¡ cambiata in S® nei primi
secoli della nostra era. V. Maffei Arte magica annichilata, lib.3. cap.5. § .3
opp. ed. del Rubbi t.2. p.205.
Uso di porre il g avanti la n
(come in cognosco, agnosco, agnatus, da nosco e natus),
del quale in questi pensieri altrove. V. Maffei Appendice all'Arte magica annichilata,
opp. ed. del Rubbi, vol.2. p.320.
Quanta fosse fin nel principio del secolo
addietro la fama della letteratura italiana, e lo studio che vi mettevano gli
stranieri si può conoscere anche da questo fatto, poco noto
oggidì, che come nel fine di detto secolo si pubblicò in Ginevra
il famoso Giornale della Bibliothèque britannique, espressamente
per far conoscere e tenere al corrente l'Europa, dei progressi ec. della
letteratura inglese, così nel principio di esso secolo, usciva a Ginevra
altresì, un Giornale intitolato Bibliothèque italique, ou
histoire littéraire de l'Italie, il quale aveva lo stesso scopo, rispetto
all'Italia. Di tanto ancora era stimata degna la nostra letteratura. V. le opp.
del Maffei ed. del Rubbi vol.4. p.7. segg. dove questo Giornale è
chiamato un'opera che nacque in Francia con sommo credito, perchè
composta da sette sapienti, e se ne citano gli estratti della Verona
illustrata presi dal tomo 15. 16. e 17. di esso giornale; e il tomo 21.
p.8. dove si cita l'anno 1728. del medesimo Giornale. V. p.4264. fin.
Alla p.4216. marg. Così il Maffei
intitolò Storia diplomatica, o piuttosto, come voleva egli, Storia
de' Diplomi (v. le sue opp. ed. del Rubbi, t.21. p.7. fin.), la sua opera
contenente la scienza o notizia de' diplomi.
La poesia, quanto a' generi, non ha in
sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il
lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia;
più nobile e più poetico d'ogni altro; vera e pura poesia
in tutta la sua estensione; proprio d'ogni uomo anche incolto, che cerca di
ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo,
e coll'armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben
sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo questo e da questo; non è in
certo modo che un'amplificazione del lirico, o vogliam dire il genere lirico
che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha assunta [4235]principalmente
e scelta la narrazione, poeticamente modificata. Il poema epico si cantava
anch'esso sulla lira o con musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi
lirici. Esso non è che un inno in onor degli eroi o delle nazioni o
eserciti; solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio
d'ogni nazione anche incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i
canti di selvaggi in gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto
dell'epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli.
Ma essi son veramente dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e
circostanziati, di materia guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti
il primordio, la prima natività dell'epica dalla lirica, individui del
genere epico nascente, e separantesi, ma non separato ancora dal lirico. Il
drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso
non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non
della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi,
più che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a
contraffar la voce, le parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che
tale imitazione, ben fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in
dialogo, molto meno con regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto,
n'esclude affatto l'armonia; giacchè il pregio e il diletto di tali
imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di
modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi
è amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto
è amico della verità, che non è armonica. Oltre che la
natura propone per lo più a tali imitazioni i soggetti più
disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze, i difetti.
E tali imitazioni naturali poi, non sono mai d'un avvenimento, ma d'un'azione
semplicissima, voglio dir d'un atto, senza parti, senza cagioni, mezzo,
conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo rispetto. Dalle quali cose
è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura, è per
essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio
delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della
civiltà e dell'ozio, un trovato [4236]di persone oziose, che
vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come
tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non
ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e
onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale
bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come
è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è
sua vera nepote. - Gli altri che si chiamano generi di poesia, si possono tutti
ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti per poesia, ma per metro
o cosa tale estrinseca. L'elegiaco è nome di metro. Ogni suo soggetto
usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti lugubri, che
furono spessissimo trattati dai greci lirici, massime antichi, in versi lirici,
nei componimenti al tutto lirici, detti , quali
furon quelli di Simonide, assai celebrato in tal maniera di componimenti, e
quelli di Pindaro: forse anche , come
quelle che di Saffo ricorda Suida. Il satirico è in parte lirico, se
passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che
ha di vera poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente
precettivo, non ha di poesia che il linguaggio, il modo e i gesti per dir
così. ec.
(Recanati. 15. Dic. 1826.)
Alla p.3177. Noterò qui, come cosa
solamente poco nota oggidì, e curiosa da sapersi che lo stesso argomento
della Gerusalemme, nello stesso tempo del Tasso fu trattato in un poema latino
di 12 libri, intitolato la Siriade, da un altro Italiano, cioè da Pietro
Angelio, o degli Angeli, da Barga (Castello di Toscana
Dice (aiunt) che un certo poeta greco,
per nome Simonide diceva di tenere appresso di se due cassette. A. M. Salvini
nelle prose fiorentine, parte 3. vol.1. lettera 99. (lett. al Signore Antonio
Montauti) ediz. di Venez., Occhi, 1730-35. tomo 5. parte I. p.152.
Tenacità dei greci verso la loro
lingua, e loro ignoranza delle altre, in ispecie della latina. V. Dati, pref.
alle prose fiorentine, nella Raccolta di prose ad uso delle regie scuole di
Torino, Torino 1753. p.620. segg.
Universalità della lingua greca
anticamente. V. Dati, loc. citato qui sopra, p.627. fin. e segg.
Studio e pregio in cui era la lingua
italiana presso gli stranieri nel Secolo 17° V. Dati, loc. citato qui sopra,
p.630: e nella medesima Raccolta cit. qui sopra, v. le Orazioni del Lollio e
del Buommattei e del Salvini in lode della lingua toscana.
(Recanati. 20. Dic. 1826.)
Defectus per qui defecit o deficit.
V. Forcellini.
Zocco-zoccolo. Fagus-fagulus (v. Forcell. Gloss.
ec.) - faggio.
Scultare da sculptum, come in
franc. sculpter. V. Crusca.
Sminuzzare-sminuzzolare.
Quell'idiotismo nostro e latino del sibi,
o mihi ec. e del si, mi, ti, ci ec. ridondante, in vero o in
apparenza, notato da me altrove, nell'uso dei verbi, anche attivi, ha molta
corrispondenza coll'uso del verbo greco medio, nei quali verbi spessissimo a
prima vista non si scorge ombra di azione reciproca, e paiono usati a puro
capriccio, in vece dell'attivo; benchè poi, attentamente guardando,
sempre o il più delle volte, massime ne' buoni autori, vi si scuopra la
cagion di usarli piuttosto che gli attivi, e un non so che di reciproco nella
significazione. (Vigilia di Natale. Domenica. 1826. Recanati.).
[4238] o , come
appunto in latino patina-patella.
Senz'altro fiato
(cioè nessuno). Galilei, Saggiatore, opp. ed. di Padova, t.2. p.284.
luogo molto insigne e notabile al proposito.
Alla p.4204. Bellissimo, e da vedersi e
leggersi attentamente, è il capo 7. del libro VI. di Casaubono ad
Athenaeum, dove parla degli antichi libri intitolati Û o ÜÇ (che potremmo
tradurre delle Esposizioni dei drammi), libri che contenevano le istorie
o croniche delle opere drammatiche, in quanto alle circostanze dei tempi,
occasioni, modi, in cui furono esposte sulla scena. Intorno a tale argomento si
affaticarono i primi letterati, incominciando da Aristotele, e massime i
Critici. Erano libri, come bene osserva il Casaubono, utilissimi alla
cronologia da una parte, e dall'altra alla storia sì delle vicende
politiche e sì dei costumi, tanto generali della Grecia o di Atene (dove
si esponevano i drammi), quanto individuali delle persone più cospicue e
famose di ciascun tempo. Giacchè mille volte le vicende politiche davano
occasione, e argomento intero, a questo o quel dramma, e vi erano figurati i
caratteri dei principali personaggi dell'attuale repubblica. Tali erano le
istorie teatrali dei greci; libri, dove quasi senz'avvedersene, s'imparava la
storia politica, la storia più intima delle opinioni e dei costumi
nazionali, civili, individuali della Grecia, anno per anno. Che cosa di comune
potrebbero avere con queste le nostre istorie teatrali, le istorie, se ne
avessimo, delle nostre esposizioni di arti; e simili libri? Quando presso di
noi nè drammi, nè opere d'arte, nè cosa alcuna d'ingegno,
suol rappresentare le circostanze dei tempi, nè essere occasionata e
figlia legittima del tempo? In fatti quale interesse hanno le nostre istorie
teatrali, se non forse per le compagnie degl'istrioni?
(Recanati. 29. Dic. 1826.). V. p.4294.
Differenza tra le antiche e le più
recenti, le prime e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie
(individui o popoli) non cercavano l'oscuro per [4239]tutto, eziandio
nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano
ancora. Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini
dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro,
volevano spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e
non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose
chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non
avevano misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i
misteri della natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e
superiore alla intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano,
quello dove, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il
diverso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso
carattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del
fine o tendenza con cui furono create. Le une gaie, le altre tetre ec.
(Recanati 29. Dic. 1826.)
Vi-g-ore coi derivati - vi-v-ore
coi derivati. V. Crusca.
Violato per violaceo, violetto, o
appartenente a viole. V. Crusca. Lanatus (v. Forcell.), lanuto
per lanosus, lanoso.
Violetto. Diminutivo aggettivo
positivato.
Misceo, mixtus, misto-mestare (quasi da
mesto per misto, come meschio per mischio, e meschiare,
mescolare ec.) rimestare mesticare (noi marchegiani diciamo
più alla latina misticare, misticanza ec.); coi derivati.
Per il Manuale di filosofia pratica.
Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più
sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale;
cosa sperimentata e osservata da me in quell'assalto nervoso al petto, sofferto
ai 29 di Maggio
(30. Dic. 1826. Recanati.). V. p.4267.
Circa la stima che gli antichi facevano
della felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro
eroi, e come soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come
Giorgio Gemisto Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte
della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta Ipomone, pubblicata da
Mustoxidi e Scinà nella loro , ,
cioè quaderno , imitando nelle altre cose, e molto
felicemente, gli antichi, gl'imiti anche in questo, di lodar principalmente
quella donna per li favori della fortuna; sentimento alieno da' suoi tempi.
(Recanati. ultimo del 1826.)
Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la
perfezion dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni
dell'arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi
perfettissimi degli antichi, si può dir con tutta verità, che
scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o
di chi usasse il greco antico. Tanto è oggi (e sarà forse in
futuro) cercare con quanto si sia successo, la perfezion dello stile nelle
lingue vive, quanto cercarla ed anco trovarla nelle morte, come facevano molti
illustri italiani del cinquecento nella latina.
(2. 1827.)
[4241]Brancicare. Zoppicare.
Spruzzolare. Avvolticchiare. Svolticchiare.
Magalotti Lett. familiari, lett.8. circa fin. par.1.
Non so s'io m'inganno, ma certo mi par di
scorgere nella maniera sì di pensare e sì di scrivere del Galilei
un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà
di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata, la stessa non
disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono
una certa magnanimità, una fiducia ed estimazion lodevole di se stesso,
una generosità d'animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma
quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della vita, e nata dalla
considerazione altrui riscossa fin da' primi anni ed abituata. Io credo che
questa tale magnanimità e di pensare e di scrivere, dico questa tale, e
che non sia nè feroce, nè satirica, o mista dell'uno e
dell'altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati
nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene. Vi si troverà
sempre una differenza. Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla
ricchezza, che suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse
scialacquo. Simili intorno alla potenza, dignità, fortuna. Simili
intorno ai contrarii. Vedi Alfieri Vita sua, capo 1. principio. Messala
nitidus et candidus, et quodammodo prae se ferens in dicendo nobilitatem suam.
Quintiliano 10.1. (6. 1827. Epifania.). Forse Galileo non riusciva, come fece,
il primo riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non
così libero, se la fortuna non lo facea nascere di famiglia nobile. V.
p.4419.
Dispetto e despetto,
cioè disprezzato, per dispregevole.
Egli è pur certo che l'ordine antico
delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e
querela comune che i mezzi tempi non vi son più, e in questo smarrimento
di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito
dire a mio padre che in sua gioventù a Roma, la mattina di pasqua di
resurrezione ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d'impegnar
la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della
minima [4242]cosa di quelle ch'ei portava nel cuor dell'inverno.
Magalotti, Lettere familiari, parte I. lett.28. Belmonte 9.
Febbraio 1683. (cento e quarantaquattr'anni fa!!). (7. 1827. Recanati.). Se i
sostenitori del raffreddamento progressivo ed ancor durante del globo, se il
bravo Dott. Paoli (nelle sue belle e dottissime Ricerche sul moto molecolare
dei solidi) non avessero avuto o avessero da assegnare altre prove di
questa loro opinione, che la testimonianza dei nostri vecchi, i quali affermano
la stessissima cosa che quello del Magalotti, allegando la stessa pretesa
usanza, e fissandola allo stesso tempo dell'anno; si può veder da questo
passo, che non farebbero grand'effetto con questo argomento. Il vecchio, laudator
temporis acti se puero, non contento delle cose umane, vuol che anche le
naturali fossero migliori nella sua fanciullezza e gioventù, che dipoi.
La ragione è chiara, cioè che tali gli parevano allora; che il
freddo lo noiava e gli si faceva sentire infinitamente meno, ec. ec. Del resto
non ha molt'anni che le nostre gazzette, sulla fede dei nostri vecchi, proposero
come nuova nuova ai fisici la questione del perchè le stagioni a' nostri
tempi sieno mutate d'ordine ec. e cresciuto il freddo; e ciò da alcuni
fu attribuito al taglio de' boschi del Sempione ec. ec. Quello che tutti noi
sappiamo, e che io mi ricordo bene è, che nella mia fanciullezza il
mezzogiorno d'Italia non aveva anno senza grosse nevi, e che ora non ha quasi
anno con nevi che durino più di poche ore. Così dei ghiacci, e
insomma del rigore dell'invernata. E non però che io non senta il freddo
adesso assai più che da piccolo.
L'amor della vita e il timor della morte non
sono innati per se: altrimenti niuno s'ammazzerebbe. Innato è l'amor di
se, e quindi del proprio bene, e l'odio del proprio male: e però niun
può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec. È
però naturale che ogni vivente giudichi la vita il suo maggior bene e la
morte il maggior male. E infatti così egli giudica infallibilmente, se
non è molto allontanato dallo stato di natura. Ecco dunque che la natura
ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error
di giudizio; benchè non abbia ingenerato [4243]un amor della
vita. Esso è un ragionamento, non un sentimento: però non
può essere innato. Sentimento è l'amor proprio, di cui l'amor
della vita è una naturale, benchè falsa conclusione. Ma di esso
altresì è conclusione (bensì non naturale) quella di chi
risolve uccidersi da se stesso.
(8. 1827.)
Senza più oltre o più
avanti o innanzi pensare, e simili, vagliono spesse volte
semplicemente senza punto pensare. Così senza pensar
più là. Così senza più, o solo, o
accompagnato con verbi (senza più pensare) o con nomi, equivale
spesso a senza nulla o niuno, appunto come in ispagn. mas
per niuno, del che altrove. Senza pensar più oltre. V.
Firenzuola Ragionam. ed. Classici ital. p.229. cioè penult. Bembo
Asolani p.10. col.1. fin., nelle sue opp.
Della diffusione della lingua italiana
presso gli stranieri nel 500. v. anche Speroni Oraz. in lode del Bembo. Tasso
opp. ed. del Mauro, t.9. p.148. lett.238. Lettere di Principi o a Principi Ven.
1573. carta 226. versa.
Disprezzo e ignoranza dei greci per la
letteratura latina. V. Speroni Diall. ed. Ven. 1596. p.420. - Si potrebbero in
ciò i greci assomigliare ai francesi.
Trovasi anco in inglese lo scambio della s
coll'aspirazione. Salle franc. - hall ingl.
Altro per niuno o niente.
Firenzuola Ragionamenti, ed. dei Classici ital. p.89. lin.2. p.230. cioè
ult.
Tu profferisti chiunque con due
sillabe; la qual parola non mi voglio ricordare che si truovi se non con
tre. Firenzuola loc. cit. qui sopra, p.84. Vuol dire non mi vuol venire alla
mente, non mi posso ricordare. Grecismo. Simile alla p.162. Lucrezia,
chè così mi voglio ricordar che fusse il nome della
vedova. Cioè così mi vuol dire, così mi dice, la
memoria; così mi pare, mi vien fatto, di ricordarmi.
(Domenica 14. 1827.)
Mia, tua, sua plurali
fiorentini, e antichi.
Alla p.4156. A noi non pare che così
fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli,
gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle
sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle
genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e [4244]veramente
a noi non sarebbero, perchè non ci siamo più inclinati e portati
dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente,
sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto è mutata,
vinta, cancellata in noi la natura dall'assuefazione. Ma egli è però
certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si
può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto
grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella
resistenza che l'animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il
più penoso che abbiano le disavventure, è il maggior dolore che
prova l'uomo. Quando l'animo è domato, ogni calamità, per grave
che sia, è tollerabile. Questo domar l'animo, questo ridurlo a cedere
alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose,
lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma
lo fa con lunghezza; e quella prima resistenza, oltre al durar di più,
ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita
contro di noi stessi; ella è dell'animo all'animo. Laddove nei selvaggi
e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per
così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così
ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però
travaglia assai meno l'animo; bensì perchè col corpo anco l'animo
è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si
trovano aversi domato l'animo e ridotto, per dir così, alla dedizione,
da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei
furori, da quelle smanie, hanno già l'animo accomodato a sopportar la
sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però
coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei
il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte.
Sicchè quegli sfoghi sono veramente una medicina quasi un narcotico preparata
dalla [4245]natura medesima, perchè l'uomo potesse sopportare i
suoi mali più leggermente. E noi siamo ridotti a non saper nè
pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo
esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà,
che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a
noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di
mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha
privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più
efficace di qualsivoglia dei loro. V. p.4283.
(Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.)
Alla p.4184. Molte cose si trovano presso
gli antichi, come sarebbe questa opinione sopraddetta, che appartengono e fanno
fede ad una squisita umanità, molto superiore ad ogn'idea moderna. Di
tal genere era l'uso di quegli¦ tanto
famosi presso i greci, e tanto usitati, fino a nascerne, come di ogni buona e
umana istituzione o usanza, abusi che oggi paiono stranissimi. Veggansi nel
Casaubono, ad Atenae. libro 7. capo 5. fin. (v. p.4469.) E veggansi pure nel medesimo,
libro 6. capo 19. princip. l'umanità con cui erano trattati i servi,
cioè schiavi, dagli Ateniesi, e gli strani diritti che erano loro dati
per le leggi di quella repubblica. V. la p.4280, capoverso 3. (15. 1827.). V.
p.4286.
Melato, mellitus, per melleus o dulcis.
Spedito, espedito, expeditus ec. Spigliato. Sforzato, sforzatamente
(esforzado). Crusca.
Strascicare.
Attero, attritum-attritare, contritare. Crusca. V. Forcell. Gloss. ec.
Taranta. Speroni Dial. ed. Ven. 1596. p.135.
- Tarantola. Tarantella. Salvini. V. Diz. dell'Alberti. Tarande-tarantule.
Tarantolato. V. gli spagn. ec.
Ü. v. i
Lessici e Casaub. ad Athenae. Nome di pesce. ÛÜ. v.
Casaub. ib. lib.7. c.10. init. c.20. fin. ¦¤¡ ib. c.12. med.
In proposito del Sassetti, primo
notificatore della lingua sascrita, come ho detto altrove, osservo che anche
qui si verifica quella osservazione, che agl'italiani par destinato il trovare,
e il lasciar poi agli altri l'usare e il perfezionare, e il raccoglier la
gloria e l'opinione ancora della scoperta.
(19. 1827.)
ð-gli
antichi è, æ ec. V.
Ateneo, e i Lessici, coi composti e derivati ec.
[4246]Superstiziosa imitazione e
venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove ec. V. nelle opp. del
Tasso le Opposizioni al Sonetto Spirto, leggiadre rime ec. e la Risposta
del Tasso. (ed. del Mauro, t.6.). V. ancora il Guidiccioni nelle Lett. di div.
eccellentiss. uom. Ven. Giolito. 1554. p.43-48.
Sevum, sevo-sego. Rovo-rogo.
Trasognato per trasognante. Straboccato,
traboccato per traboccante, o che suol traboccare.
æ²Ûæ
(cioè ¡, debet
ec.) Ý¥ñÜæ (vuole,
tende per sua natura a fare) Plutar.Üß de
amicorum multitudine, p.95. A. V. Casaubon. ad Athenae. l.7. C.16. Volere
assolutamente per dovere, vedilo nelle Giunte Veronesi.
(Recanati. 25. 1827.)
Preciado spagn. per prezioso, come
noi pregiato. Continuato o continovato per continuo, e
così continué ec.
Vittuaglia, vittuaria-vittovaglia,
vettovaglia, vettuvaglia. Vettuaglia, Ricordano cap.125.
Auto, riceuto ec. negli
antichi, come Ricordano ec. omesso il v, per avuto ec.
Monte Guarchi, in Ricordano spesso, per
Montevarchi.
Da mutolo per muto, ammutolare,
ammutolire per ammutare, ammutire disusati.
Nutrire per avere (io nutro
speranza ec.). V. Crus. franc. spagn. ec. -¡ appunto per¦. Casaub.
ad Athenae. l.7. c.18. fin.
Disguizzolare. Parlottare. Borbottare.
Digiuna plur. per quattro tempora.
Dino Comp. lib.3. princip. La Crus. ha Digiune.
Ragionato per ragionevole, ragionatamente
ec. v. Crusca. Minutus, minuto ec. da minuo, per piccolo.
Svagato, divagato, distratto, distrait ec. per che suole essere svagato ec.
Dissipito cioè non saputo per dissipiente, che non sa, non
ha sapore. Dissapito. Dissaporito.
Sfondare-sfondolare, sfondolato. Aratro
arato voce antica - aratolo.
Alla p.4144. Io credo certo ch'Epitteto (il
quale viveva in Roma) alluda in questo luogo al costume romano di chiamar le
donne dominae, costume che certo ci dovette essere, e passare in
consuetudine grandissima poichè nel nostro volgare domina (donna)
è restato sinonimo, anzi vicario, di mulier. V. il Ducange in Domina,
[4247]§ .6. e il Forcell. che dice così chiamate le madri di
famiglia e le mogli, e queste, cioè le maritate, sono propriamente in
ital. le donne. Questa è però, secondo me, la vera
interpretazione del luogo di Epitteto, cioè che le femmine, appena
maritate, divengono di nome donne, che val padrone. Del resto noi
diciamo similmente le non maritate, donzelle, cioè padroncine.
V. Ducange in Domicellus, ed anche vedilo in Domnus. I mariti
ancora si chiamavano particolarmente domini. Forcell.
(Recanati. 2. Feb. Festa della Purificazione di Maria Vergine
Santissima. 1827.)
Magistrato[274] da
bene. Magistrato malvagio. Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le
altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto,
non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso,
severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà
vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti
privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore,
odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione.
Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi,
complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere. Se vi
sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l'altro o gli altri lo condannano; se
nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo. Così
dell'ambizione; ec. ec. Ma quanto all'astinenza o all'appetenza dell'altrui o
del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino
nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell'interpretarlo. E questo è
quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno
acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo. Da bene è sinonimo
di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec. Da
ciò parrebbe che gli uomini non fossero d'accordo se non nel concetto
della roba, e che l'ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita,
dell'onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini,
purchè rispettasse i danari e le possessioni.
(4. Feb. Domenica. 1827.)
Cano is, con-cino is ec. - Vati-cinor
aris, ec. buccinare ec. V. Forc.
[4248]¤ J¡ per æJ. V. Casaub. ad Athenae. l.8. c.10. sulla
fine. Plat. ed Astii t.4. p.104. lin.23. p.200. lin.9.
J ha
diverso accento quando si scrive per infelice e quando per malvagio;
ñJ o Jò; come ho
notato altrove di . Puoi
vedere Casaub. ad Athenae. l.8. c.10. titul. et init.
Del digamma eolico v. Casaub. ad Athenae.
l.8. c.11. due volte.
Al detto altrove di curtus, cortar,
scortare, scorciare, accorciare ec. aggiungi accortare.
Metior iris-metor aris. Ed anche metio (Lattanz. ha metiebantur
passiv.) e meto.
Capperi. Origine greca di questa
esclamazione. V. Menag. ad Laert.
l.7. segm.32.
‘PÛ-racaille. V. Casaub. ad Athenae.
l.9. c.5.
Sottosopra, sossopra, sozzopra ec. - .
Assegnato per parco ec. V.
Crusca, e Caro. Lett.175. vol.1.
Certo molte cose nella natura vanno bene,
cioè vanno in modo che esse cose si possono conservare e durare, che
altrimenti non potrebbero. Ma infinite (e forse in più numero che
quelle) vanno male, e sono combinate male, sì morali sì fisiche,
con estremo incomodo delle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono
potute combinar bene. Pure perch'elle non distruggono l'ordine presente delle cose,
vanno naturalmente e regolarmente male, e sono mali naturali e regolari. Ma noi
da queste non argomentiamo già che la fabbrica dell'universo sia opera
di causa non intelligente; benchè da quelle cose che vanno bene crediamo
poter con certezza argomentare che l'universo sia fattura di una intelligenza.
Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono;,
benchè non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno
misteri, e che ci paiano beni e non siano. Queste considerazioni confermano il
sistema di Stratone da Lampsaco, spiegato da me in un'operetta a posta.
(18. Febbraio. Domenica di Sessagesima. 1827.)
ridondante. V. Casaub. ad Athenae. l.9. c.10. dopo il mezzo, dove il Casaub.
non pare avere atteso a questa proprietà del grecismo, nè
compresala bene.
Alla p.4184. Del resto io posso per la mia
inclinazione alla monofagia, esser paragonato all'uccello che i greci chiamavano
porfirione, se è vero quel che ne raccontano Ateneo ed Eliano, che
quando esso mangia, abbia a male i testimoni. V. Casaub. ad Athenae. 9. c.10. sotto il principio. V. p.4422.
[4249]GIUOCO
DI MANO, GIUOCO DI VILLANO, is a very true saying, among the few true
sayings of the Italians. Chesterfield Letters to his son, lett.259. Il conte
di Chesterfield era veramente molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari
e minuti detti usuali nel nostro parlar familiare. Nè io disapproverei molti de' suoi giudizi circa
la letteratura e le cose nostre, come p.e. quello circa il Petrarca
(lett.217.), simile al parer del Sismondi: PETRARCA is, in my mind, a
sing-song love-sick Poet; much admired, however, by the Italians: but an
Italian, who should think no better of him than I do, would certainly say, that
he deserved his LAURA better than his LAURO (alludendo alla
coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned
an excellent piece of Italian wit. Io, con licenza di Milord, non credo che sia
vera quest'ultima cosa, nè che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della
sua opinione in quanto al Petrarca. V. p.4263. Il qual giudizio troverà
pochi approvatori in Italia fuori di me. Ma quello dei nostri detti e proverbi,
è certamente falso ec. (Può servire per un articolo sopra i
proverbi).
(Recanati 27. Feb. ult. di Carnovale. 1827.)
Ultimatamente per ultimamente, Crusca. L'usa
anco il Bembo nelle Lettere.
Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari
è un Bembo dell'800. Simili negli effetti che hanno operati, e nelle
circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e nelle opinioni,
cioè nella divozione al 300. ec. Ma similissimi anco nell'esser loro
naturale (lasciando l'esser vicini di patria, e d'una provincia stessa). Molta
lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso, acquistata
per l'arte. Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, di felice vena, ne'
loro scritti. Aridità, sterilità, nudità e deserto
universalmente. Pochi o niuno de' nostri autori e libri che hanno avuto fama e
che si stampano ancora, furono mai così poveri per questa parte, come il
Bembo e gli scritti suoi.
(27. Feb. 1827.)
Pel Manuale di filosofia pratica. Desiderio
naturale, necessario, e perpetuo [4250]nell'uomo, di un futuro miglior
del presente, per buono che il presente possa essere. Importanza quindi
dell'avere una prospettiva e una speranza, per esser felice. Importanza del
sapersi fare, comporre e propor da se stesso tal prospettiva. Non sempre le circostanze,
l'età ec. permettono una prospettiva di miglioramento e di avanzamento
nello stato ec. Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti grandi
sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la speranza,
restiamo turbati. Utilità somma del sapersi proporre di giorno in giorno
un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono d'ora in
ora; godimenti giornalieri, di cui non v'ha condizione che non sia fornita o capace:
il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria espettativa, prospettiva
e speranza, ora per ora: questo è ufficio di filosofo, ed è
pratica incomparabilmente utile al viver felice.
(Recanati. 1° dì di Quaresima. 28. Feb. 1827.)
Ho detto altrove che nella primavera l'uomo
suole sentirsi più scontento del suo stato, che negli altri tempi.
Così ancora nella state più che nel verno. La cagione è
che allora l'uomo patisce meno. Però desidera più il godimento e
il piacere diretto. Nella primavera poi tanto più sensibile è
questo desiderio, quanto è più sensibile la privazione del
patimento e dell'incomodità che reca il freddo, la qual cessa allora
appunto. La infermità, il timore, il patimento di qualunque sorta volgono
l'amor del piacere nell'amor del non patire, o del fuggire il pericolo. l'animo
in quello stato, è meno esigente. Il non patire è più
possibile ad ottenersi che il godere. Però nell'inverno si sente meno la
scontentezza del proprio essere, che nella buona stagione. Nella quale l'animo
ripiglia la sua avidità del piacere; e, come è naturale, nol
ritrova mai.
(Recanati 2. Marzo. 1827. I. Venerdì di Marzo.)
A vóto per frustra. - Þò V. Casaubon. ad Athenae. l.11. c.6. sul mezzo.
Parrebbe che tutta quella infinita cura che
pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione,
non ad altro l'avesse egli posta, [4251]fuorchè a proccurare la
più perfetta, la più squisita, la maggior possibile, la
più singolare chiarezza. Questa dote non si osserva negli altri autori
che l'hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si
sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva,
perchè non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo
piacere. Negli altri ella è qualità negativa, in questo è
positiva; ha un certo senso, un sapore proprio. Quel piacere che dà in
molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando
facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo
dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di
sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e
volontà di far moto, si cammina speditamente per una strada, non pur
piana, ma lastricata. Io non credo che si trovi autor così chiaro e
facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni)
nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua,
che è pur la più difficile (se non prevale in ciò la
tedesca) di tutte le lingue del mondo. Tanto più mirabile in questo,
quanto che si sa bene con quanto studio Isocrate cercasse gli altri pregi della
dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; (il che egli ha
fatto effettivamente e conseguito quasi da per tutto ed interamente) difficoltà
certo grandissima, ed inceppamento; come ognun vedrebbe provandovisi; il quale
però non ha punto impedito quella maravigliosa facilità.
(7. Marzo. Mercordì di quattro tempora. 1827.)
Grispignolo. Lappa-lappula. lat., lappola.
ital.
Parrebbe che secondo ogni ragione, secondo
l'andamento naturale dell'intelletto e del discorso, noi avessimo dovuto dire e
tenere per indubitato, la materia può pensare, la materia pensa e
sente. Se io non conoscessi alcun corpo elastico, forse io direi: la
materia non può, in dispetto della sua gravità, muoversi in tale
o tal [4252]direzione ec. Così se io non conoscessi la
elettricità, la proprietà dell'aria di essere instrumento del
suono; io direi la materia non è capace di tali e tali azioni e
fenomeni, l'aria non può fare i tali effetti. Ma perchè io
conosco dei corpi elastici, elettrici ec. io dico, e nessuno me lo contrasta;
la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali
fenomeni. Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi;
cioè uomini ed animali; che io non veggo, non sento, non so nè
posso sapere che sieno altro che corpi. Dunque dirò: la materia
può pensare e sentire; pensa e sente. - Signor no; anzi voi direte: la
materia non può, in nessun modo mai, nè pensare nè
sentire. - Oh perchè? - Perchè noi non intendiamo come lo faccia.
- Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili
effetti dell'elettricità, come l'aria faccia il suono? anzi intendiamo
forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di
elasticità; che cosa sia elettricità; che cosa sia forza della
materia? E se non l'intendiamo, nè potremo intenderlo mai, neghiamo noi
per questo che la materia non sia capace di queste cose, quando noi vediamo che
lo è? - Provatemi che la materia possa pensare e sentire. - Che ho io da
provarlo? Il fatto lo prova. Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e
voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. -
Quei corpi non sono essi che pensano. - E che cos'è? - È un'altra
sostanza ch'è in loro. - Chi ve lo dice? - Nessuno: ma è
necessario supporla, perchè la materia non può pensare. -
Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare. - Oh la cosa
è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra di
se: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più.
In fatti noi non possiamo giustificare
altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti,
fabbriche in aria, sopra lo spirito e l'anima, se non riducendoci a questo: che
la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un
principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove. [4253]Noi
siamo effettivamente partiti dalla supposizione assoluta e gratuita di questa impossibilità
per provare l'esistenza dello spirito. Sarebbe infinito il rilevare tutte le
assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato
metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra
questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza.
Qui davvero che il povero intelletto umano si è portato da fanciullo
quanto mai in alcuna cosa. E pur la verità gli era innanzi agli occhi.
Il fatto gli diceva: la materia pensa e sente; perchè tu vedi al mondo
cose che pensano e sentono, e tu non conosci cose che non sieno materia; non
conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire, altro che
materia. Ma non conoscendo il come la materia pensasse e sentisse, ha negato
alla materia questo potere, e ha spiegato poi chiarissimamente e compreso
benissimo il fenomeno, attribuendolo allo spirito: il che è una parola,
senza idea possibile; o vogliam dire un'idea meramente negativa e privativa, e
però non idea; come non è idea il niente, o un corpo che non sia
largo nè profondo nè lungo,[275] e
simili immaginazioni della lingua piuttosto che del pensiero.
Che se noi abbiamo conchiuso non poter la
materia pensare e sentire, perchè le altre cose materiali, fuori
dell'uomo e delle bestie, non pensano nè sentono (o almeno così
crediamo noi); per simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della
elasticità non possono esser della materia, perchè solo i corpi
elastici sono atti a farli, e gli altri no; e così discorretela.
(9. Marzo. 1827. 2° Venerdì di Marzo.)
Il bambino, quasi appena nato, farà
dei moti, per li quali si potrebbe intender benissimo che egli conosce l'esistenza
della forza di gravità dei corpi, in conseguenza della qual cognizione
egli agisce. Così di moltissime altre cognizioni fisiche che tutti gli
uomini hanno, e che il bambino manifesta quasi [4254]subito. Forse che
queste cognizioni e idee sono in lui innate? Non già: ma egli sente in
se ben tosto, e nelle cose che lo circondano, che i corpi son gravi. Questa esperienza,
in un batter d'occhio, gli dà l'idea della gravità, e gliene
forma in testa un principio: del quale di là a pochi momenti gli parrebbe
assurdo il dubitare, e il quale ei non si ricorda poi punto come gli sia nato
nella testa. Il simile accade appunto nei principii e morali e intellettuali.
Ma le idee fisiche ognun concede e afferma non essere innate: le morali, signor
sì, sono. Buona pasqua alle signorie vostre.
(9. Marzo. 1827. Recanati.)
Pregiudicato, spregiudicato. Volgare ital.
Gratito, as, avi, atum. Mutito. Mutuito. V.
Forcell.
Ho notato che i continuativi dai verbi della
prima coniugazione si fanno in ito, e possono perciò essere
insieme o parimente frequentativi, come mussito ec. Similmente i
continuativi formati da' verbi che hanno i supini in itum (usitati o antichi),
come domito, agito ec. Ma non so s'io abbia notato che dai verbi della
quarta, supini in itum, si fanno i continuativi in ito (non ito),
i quali perciò non si possono confondere coi frequentativi, malgrado la
desinenza in ito. Come p.e. dormito as.
I know, by my own experience, that the more one works,
the more willing one is to work. We are all, more or less, des animaux
d'habitude. I remember very well, that when I was in business, I wrote four
or five hours together every day, more willingly than I should now half an
hour. Chesterfield, Letters to his son, lett.318. I have so little to do, that
I am surprised how I can find time to write to you so often. Do not stare at
the seeming paradox; for it is an undoubted truth, that the less one has to do,
the less time one finds to do it in. One yawns, one procrastinates; one can do
it when one will, and therefore one seldom does it at all; whereas those who
have a great deal of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it;
and then they always [4255]find time enough to do it in. Lett.320. It is
not without some difficulty that I snatch this moment of leisure from my
extreme idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state
of affairs here. Lett.321.
(12. Marzo. 1827.). V. p.4281.
Uomo ordinato e assegnato in
ogni cosa. Guicciard. ed. Friburgo, t.4. p.67.
Brevetti d'invenzione non ignoti alle
antiche repubbliche. V. Casaub. ad
Athenae. l.12. cap.4.
‘JòJJJÝ.
Casaub. ad Athenae. l.12. c.7.
Androcoto e Sandrocoto (nome proprio)
appresso i greci. V. Casaub. ibid.
¤Û, Û, Û ec. per ùeÝ, t Ý ec. - urgentissimo per necessarissimo,
Guicciard. ed. Friburgo, p.238. t.2. V. Crus. in urgenza, urgente
ec. che noi usiamo realmente per necessità necessario ec. V.
anche Forcell. in urgeo ec. se ha nulla, e i franc. e spagn. V. Toupio ad Longin. sect.43. fin.
Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi,
Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie
loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun
moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga
generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un'altissima
stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che
verso l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e
grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in
questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il
modo di scriverne del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d'animo
forte, d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò
un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato.
Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel
Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente,
atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie [4256]e vane del tutto le
sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi
senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto
più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). (Si può applicare all'epopea,
drammatica ec.).
È molto notabile nella considerazione
comparativa delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono
tutte quante di situazione meridionali. Dell'Italia non era ben civile che la
parte meridionale. Del resto dell'Europa, la Grecia sola. Dell'Asia, solo il
mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì l'India, la
Persia ec. Dell'Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta. Or
questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima differenza,
sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle instituzioni
pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della
civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà
moderna. Perchè, secondo quella verissima osservazione già fatta
da altri, che la civiltà è andata sempre, e va tuttavia
progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello; i popoli civili moderni
sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli antichi; o certo
risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel settentrione
(ciò si vede anche in America), il resto dei popoli più o manco
civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor civiltà. E in
somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra
è una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima
vista si riconosce per verissima moralmente, così nè più
nè meno è vera letteralmente presa, e geograficamente. Differenza
del resto grandissima e sostanzialissima, se non principale, e includente in se
tutte le altre. L'antichità medesima e la maggior naturalezza degli
antichi, è una specie di meridionalità nel tempo.
(14. Marzo. 1827. Recanati.)
Alla p.4253. Appunto, se noi diciamo un corpo
che non sia nè largo nè lungo nè profondo, noi non ci
pensiamo punto di avere perciò una menoma idea, nè chiara
nè oscura, di tal cosa. Cambiamo la parola; diciamo uno spirito;
a noi par di avere un'idea. E pur che altro abbiamo che una parola?
[4257]Formica-formicola. Crusca.
Segneri, Incred. senza scusa, par.1. c.5. §.5. V. Forcell.
Caprea-capreolus ec. Caprio cavrio (Segneri, ib.
c.13. §.1.) cavriuolo, capriuolo,
capriatto ec.
Inviolato per inviolabile. V. Forcell.
Efferatus, efferato, per fiero.
Undatus - undulatus. Ondato - ondeggiato,
ondare - ondeggiare, coi derivati ec. ondazione (Segneri ib. c.16. §.2.) ondulazione,
undulazione (Alberti). Ondoyer, ondoyé.
Ondulation.
Osservate in qualunque letteratura, antica o
moderna, quali sieno le opere più insigni e più grandi, e
troverete sempre che sono quelle che furono fatte in tempo che la nazione non
aveva ancora una letteratura; quelle che furono dagli autori immaginate e
composte con tutt'altra mira, con tutt'altro spirito (almen principale) che il
desiderio di fama letteraria (non ancora in uso, nè desiderata), o pur
di altre ricompense letterarie; il desiderio di fare una bella opera di
letteratura, di arte di scrivere.
(Recanati. 17. Marzo. 1827.)
Sugo is - sugare. Crus. V. Forcell.
Uomo o cosa aggiustata, aggiustatamente,
aggiustatezza ec.
Falco-faucon, falcone ec. V. spagn. Forcell. ec. Mugir meugler, meuglement; o beugler, beuglement. Flocon.
Violette.
Uscia, plurale.
Noi diciamo rondinella (o rondinetta)
per vezzo, e in verso e in prosa: così i nostri antichi scrittori: e val
quanto rondine nè più nè meno. Non è ancor
positivato, cioè non ha perduto il suo sentimento vezzeggiativo: ma
può esser esempio di come l'hanno perduto gli altri diminutivi di
animali e di piante, a forza di usarsi così semplicemente in cambio del
positivo, andato a poco a poco, bene spesso, in disuso.
(19. Marzo. Festa di S. Giuseppe. 1827.). Così pecorella
ec. ec. i francesi dicono già hirondelle positivo, anticamente aronde.
Lodasi senza fine il gran magisterio della
natura, l'ordine incomparabile dell'universo. Non si hanno parole sufficienti a
commendarlo. Or che ha egli, perch'ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali,
quanti beni; almen tanto di cattivo, quanto di buono; tante cose che vanno
male, quante che camminan bene. Dico [4258]così per non offender
le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io son persuaso, e si
potrebbe mostrare, che il male v'è di gran lunga più che il bene.
Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole?
Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto
che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare
dei fini, nè aver dati sufficienti per conoscere se le cose
dell'universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene,
se quel che male sia male; perchè vorremo noi dire che l'universo sia
buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in
vista di quanto ci par malo, ch'è almeno altrettanto? Astenghiamoci
dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo
è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che
per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e
ciascuno di noi per questo conto l'avria saputo far meglio, avendo la materia,
l'onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre
creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perchè
tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch'è
peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali
particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal
essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non
esiste altrimenti nè altrove che nelle parti; poichè la sua esistenza,
altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura,
o ente, o specie di enti, a cui quest'ordine sia perfettamente buono; se esso
sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà
assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere;
che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende nè pur verisimili, non
che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest'ordine, questo universo: io
lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità,
che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza,
che egli non sia il pessimo dei possibili. - Quel che ho detto di bontà
e di cattività, dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine
ec.
(21. Marzo. 1827.)
A [4259]veder se sia più il
bene o il male nell'universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il
bello o il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente
adunata. Ognun sa e dice che i belli son rari, e che raro è il bello.
Graziato, aggraziato, disgraziato ec. per
grazioso, mal grazioso ec. Purgato, épuré ec. per puro.
Scappare-scapolare. Saltabellare.
Scartabellare.
¡Û. V.
Casaubon. ad Athenae. l.14. c.20. init.
Entro a pochi dì, per fra
pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed. Roma 1714. p.72.
Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.
Pel manuale di filosofia pratica. A voler
vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio nel voler
fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser
quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni
estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per
chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una
sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che turbasse
il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali
minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e sollecitudini,
per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione,
le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i
timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e
dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran differenza dalla
tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa
immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella
vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël
nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto
tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e della società, e
alla solitudine; [4260]s'ingannano in ciò grandemente. Esse hanno
più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se
stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur
con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e con
angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe
loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore,
metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della solitudine, della
quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle
co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo
aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi
umani. Ma certo un uom d'affari (senz'ombra di filosofia) ha l'animo più
tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle faccende; e
un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di
quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e
nell'ozio estrinseco.
(Recanati. 24. Marzo. 1827.)
Quanto più, in questo tal modo, si
fuggono le sollecitudini e i dispiaceri, tanto più vi s'incorre:
perchè mancandone le cause reali (o vogliamo dir di momento) e che sopravvengono
di fuori, noi ce ne fingiamo e facciamo da noi medesimi e, per così
dire, del nostro capitale proprio, assai più, ed infinite. E queste
sollecitudini e questi dispiaceri così prodotti, non solo sono per noi
di ugual momento che sarebbero i reali; ma si sentono, e travagliano molto
più, per la mancanza di distrazioni e la monotonia della vita, di quel
che fanno i grandissimi e sommi, nella vita agitata e attiva. Che è
quanto dir che sono maggiori assai. E si sentono tutti, dove che nella vita
attiva, moltissimi non si sentono, e però non sono nè pur
dispiaceri.
(Recanati 25. Marzo. Domenica. Festa dell'Annunziazione di Maria.
1827.)
Quanto, in quanto, per poichè,
perocchè ec. – ’÷, ovvero ÷ ec. V. un
[4261]esempio di ÷ in questo senso, usato da
Ateneo, ap. Casaubon. ad Athenae. l.15. c.2. verso il fine, e dallo scoliaste
di Pindaro, ap. eumd. ib. c.19. fin.
Dimonia. Demonia. Mulina. plurali.
Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar
noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali,
maggiori di ogni comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito
proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione. Questo è natura
universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente d'orgoglio
e di disistima altrui, sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l'assuefazione
incominciata sin dall'infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl'Inglesi
la stima della propria nazione. Tant'è: il più umano e ben
educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che
trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi
con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non
disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche
modo, più o meno, non dimostri esteriormente questa sua opinione di
superiorità. Questa è una molla, una fonte ben distinta di
orgoglio, e di stima di se, in pregiudizio o abbassamento d'altrui della quale
niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono
avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto
diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal
non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi,
i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli
Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente
questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e
gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno,
l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli
Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl'italiani forse l'ebbero
(e par veramente di sì) nei secoli 15° e 16° e parte del precedente e
del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano,
e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d'Europa.
Degl'italiani d'oggi non parlo; non so ben se ve n'abbia.
[4262]Questo sentimento della
inferiorità dei forestieri, questo riguardarli e trattarli come d'alto
in basso, è ai francesi e agl'inglesi, per l'abitudine, così
naturalizzato e immedesimato, come è ad un uomo nato nobile e ricco, il
parlare e trattare co' poveri e co' plebei, come con gente naturalmente
inferiore: che anche l'uomo del più buon cuore del mondo, e il
più filosofo, essendo nella detta condizione, li tratterà
così, se non attenderà e non si sforzerà di proposito per
fare altrimenti: perchè quell'opinione di sua superiorità sopra
questi tali, è in lui non dipendente dal raziocinio, nè dalla
volontà.
Molto utile può essere ed è
senza fallo questa opinione che hanno i francesi e gl'inglesi di se. Sarebbe
utile anche a chi l'avesse senza ragione. La stima grande di se stesso è
il primo fondamento sì della moralità, sì delle mire ed
azioni nobili e onorate. Pure, perchè il conoscere in altri un'opinione
della inferiorità propria, e un certo disprezzo di se in qualunque cosa,
è sempre dispiacevole; non è dubbio che il veder questo tale
orgoglio nazionale nei francesi e inglesi, non riesca assai dispiacevole e
odioso ai forestieri. E perchè la civiltà e la creanza comandano,
e sopra tutto, che si nasconda il sentimento della superiorità propria,
e il disprezzo di quelli con cui trattiamo, per ragionevole e fondato che ei
sia; pare che i francesi e gl'inglesi dovrebbero nascondere quel lor sentimento
tra forestieri. Gl'inglesi non si piccano di buona creanza; piuttosto di non
averla, piuttosto di mala creanza: però di loro non ci maraviglieremo. I
francesi non solo se ne piccano, ma vogliono essere, credono essere, e certo
sono, la meglio educata gente del mondo. Anzi in questo fondano per gran parte
quella loro opinione di superiorità. Perciò pare strano che al
più ben creato francese non riesca o non cada in mente di tenersi,
parlando o scrivendo a forestieri, dal dar loro ad intendere in qualche modo
(ma chiaro), che esso li tiene senza controversia per da meno di se. Molto meno
poi negli scritti che pubblicano.
Anco pare strana questa cosa, considerata la
gran sensibilità e paura che hanno i francesi del ridicolo.
Perchè se quella lor pretensione riesce ridicola a chi la stima giusta,
e d'altronde utile e lodevole, come sono io; quanto non dovrà parere a
quei che non pensano più che tanto, o che la stimano assolutamente vana,
esagerata ec.? Il che dee [4263]naturalmente accadere con molti, ma con
gl'inglesi accade di necessità. E già ogni pretension che si
dimostra, ancorchè giusta, è soggetta a ridicolo, perchè
il mostrar pretensione è ridicolo. E manco strano sarebbe che eglino non
si guardassero co' forestieri da questo ridicolo in casa propria; dove essi
sono i più forti, perchè l'opinion comune è per loro, la
lor superiorità è ricevuta come assioma, e l'uditorio è
tutto dalla lor parte. Ma che non se ne guardino (come non se ne guardano
punto) in casa dei medesimi forestieri, viaggiando tra loro, co' loro medesimi
ospiti? Questo veramente è strano assai ne' francesi; ma molto
più strano, che alla fin de' fatti, essi viaggiano tra noi
trionfalmente, dimostrandoci il lor disprezzo, mettendoci in ridicolo in faccia
nostra propria e parlando a noi (non che tornati che sono a casa); e che da noi
non ricevono il menomo colpo, il più piccolo spruzzo, di ridicolo
nè in parole, quando noi trattiamo qui con loro, nè in lettere,
nè in istampa. Da che vien questo? da bontà degl'Italiani, o da
dabbenaggine, o da paura, o da che altro?
(25. Marzo. 1827.)
Pennelleggiare. Tratteggiare.
Alla p.4249. fin. Il medesimo Chesterfield
nota più volte come pregi distintivi e dei principali della letteratura
nostra, e come di quelli che principalmente la possono far degna della
curiosità degli stranieri, l'aver degli eccellenti storici, e delle
eccellenti traduzioni dal latino e dal greco, mostrando poi di aver l'occhio
particolarmente a quelle della Collana. Va bene il primo capo. Il
secondo non può servire ad altro che a mostrar l'ignoranza grande dei
forestieri circa le cose nostre. Perchè se la nostra letteratura
è povera in alcuno articolo, lo è certamente in quel delle buone
traduzioni dal latino e dal greco. Di quelle specialmente della Collana
non ve n'è appena una che si possa leggere, quanto alla lingua e allo stile,
e per se; e che non dica poi, almeno per la metà, il rovescio di quel
che volle dire e disse l'autor greco e latino. Tutte le letterature (eccetto
forse la tedesca da poco in qua) sono povere di traduzioni veramente buone: ma
l'italiana in questo, se non si distingue dall'altre come più povera,
non si distingue in modo alcuno. Solamente è vero che noi cominciammo ad
aver traduzioni dal latino e dal greco classico (non buone, ma traduzioni
semplicemente), molto [4264]prima di tutte le altre nazioni. Il che
è naturale perchè anche risorse prima in Italia che altrove, la
letteratura classica, e lo studio del vero latino, e del greco. E n'avemmo
anche in gran copia. E queste furono forse le cagioni che produssero tra gli
stranieri superficialmente acquainted with le cose nostre quella opinione,
che ebbe tra gli altri il Chesterfield. Nondimeno in quel medesimo tempo, anzi
alquanto innanzi, avveniva al Maffei in Baviera, dov'ei si trovava, quel
ch'egli scrive nella prefazione[276]
de' suoi Traduttori italiani ossia notizia de' Volgarizzamenti d'antichi
scrittori latini e greci, che sono in luce indirizzata a una colta Signora,
da lui frequentata colà. Vostro costume era d'antepor la (lingua)
francese alle altre, per l'avvantaggio di goder per essa gli antichi autori
latini e greci, della lettura de' quali sommamente vi compiacete, avendogli
traslatati i francesi. Qui io avea bel dire, che questo piacere potea
conseguirsi ugualmente con l'italiana, e che già fin dal felice secolo
del 1500 la maggior parte de' più ricercati antichi scrittori era stata
in ottima volgar lingua presso di noi recata, che suscitandomisi contra tutti
gli astanti, e gl'italiani prima degli altri, restava fermato, che solamente in
francese queste traduzioni si avessero.
Ed ecco dagli stranieri negato agl'italiani
formalmente, e trasferito alla letteratura francese quel medesimo pregio (e circa
il medesimo tempo) che altri stranieri come il Chesterfield attribuivano alla
italiana. Nella qual prefazione il Maffei afferma aver gl'italiani tradotto
prima, più, e meglio delle altre nazioni. Per provar la qual
proposizione, assunse di comporre, e compose quel suo catalogo dei nostri
volgarizzatori. E quanto a me concedo e credo vere le due prime parti di essa
proposizione, almen relativamente al tempo in cui il Maffei la scriveva. Concederò
anche la terza, relativamente allo stesso tempo, purchè quel meglio
delle altre, non escluda il male e il pessimamente assoluto.
(Recanati. 27. Marzo. 1827.). V. p.4304. fine.
Alla p.4234. V. ancora la lettera del
Manfredi, nelle Considerazioni sopra la Maniera di ben pensare ec. dell'Orsi, Modena
1735. tom.1. p.686. fin. e l'Orazione di Girolamo Gigli in lode della toscana
favella, che sta colle sue Lezioni di lingua toscana, Ven. 1744. 3a
ediz.
Alla p.4194. A questo genere appartiene,
cred'io, quell'aneddoto della femmina [4265]spagnuola di Buenos-Ayres in
America, per nome Maldonata (avrà voluto dir Maldonada) alimentata lungo
tempo, e poi casualmente salvata da una leonessa, da lei già beneficata,
nel secolo decimosesto. Benchè questa istorietta sia riferita seriamente
e con belle riflessioni filosofiche dal Raynal (Leçons de littérature et de
morale, cioè Antologia francese, par MM. Noël et Delaplace, 4me édit. Paris 1810. tome 1.
p.16-18.) Ma essa, mutatis mutandis, è la stessissima che
quella (ben più antichetta) dello schiavo fuggitivo per nome Androdo, alimentato
in Numidia, e poi salvato da morte in Roma, da un leone, da lui beneficato. (Gell. N. Att. l.5. c.14. Aelian. hist. animal. l.7. c.48.) Nè
ardisco già dire che questa sia stata il primo e original tipo di questa
favola. (Anzi ella mi ha sembianza di esser d'origine greca. Vedi altre simili
storielle, appunto greche, in Plinio, l.8. c.16. che sono come primi abbozzi di
questa.) Dico poi favola, sì per il sospetto, troppo fondato,
d'imitazione; e sì perchè si sa molto bene che in America non
sono e non furono mai leoni: e però, s'io non erro, nè anche
leonesse; (Recanati. 29. Marzo. 1827.) dico di quelle nate quivi da se, e
viventi nelle foreste e nelle caverne, come era quella; non trasportate
d'altronde, e mantenute in gabbie e in serragli.
Noi italiani siamo derisi per le nostre
cerimonie e i nostri titoli (che noi abbiamo avuti dagli spagnuoli)
specialmente dai francesi, che hanno fama d'essere in ciò i più disinvolti.
Frattanto noi non abbiamo il costume che hanno i francesi, che il Monsieur
sia, per così dire, inseparabile da tutti i nomi di persone; che gli
autori lo aggiungano al lor nome proprio nei frontespizi delle loro opere; che
esso vi si conservi perpetuamente, o vi sia posto, anche quando gli autori son
morti; e simili.
(Recanati. 29. Marzo. 1827.)
ÛÜ, Û o ÛÜ. V. Casaub. ad Athenae. l.15. c.18. æ. àà.
¡. V. ibid.
Se era intenzione della natura, facendo
l'uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben
essere suo coll'ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè
tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell'America, dell'Africa,
dell'Asia dell'Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno fatto alcun [4266]passo
per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in
niun modo (o non sarebbero mai state), se noi non ve li ridurremo (o non ve gli
avessimo ridotti)? Le quali nazioni sono pure una buona metà, e
più, del genere umano in natura. Perchè dato ancora che le
popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d'uomini la somma delle
non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle
è posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce
la moltiplicazion della specie e l'aumento della popolazione. È stata
dunque la natura così sciocca, e così mal provvidente, che ella
abbia missed il suo intento per più della metà?
(Recanati 30. Mar. ult. Venerdì. 1827.)
In qualunque cosa tu non cerchi altro che
piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna,
per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche
altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia
pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne
potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole
e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si
annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova
diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente
egli non legge per dilettarsi. V. p.4273. E forse per questa ragione gli
spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze,
sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè
non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si
aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non
ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può
dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e
colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel
bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla
speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto
e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar
qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata [4267]la
freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a disperare omai del piacere. (30.
Marzo. 1827.). Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale
quanto più si cerca e si desidera per se e da se sola, tanto si trova e
si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro. Il desiderio
stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile
seco lei.
Alla p.4240. La sopraddetta utilità
della pazienza, non si ristringe al solo dolore, ma si stende anche ad altre
mille occasioni; come se tu hai da aspettare, da fare un'operazione lunga,
monotona e fastidiosa; da soffrire una compagnia noiosa, mentre hai altro da
fare; ascoltare un discorso lungo di cosa che nulla t'importa, un poeta o
scrittore che ti reciti una sua composizione; e così discorrendo: dove
l'impazienza, la fretta, l'ansietà di finire, l'inquietudine ti
raddoppiano la molestia. In somma si stende a tutte le occasioni e stati dove
può aver luogo quello che noi chiamiamo pazienza e impazienza; a tutti i
dispiaceri; o sieno dolori o noie.
(Recanati. 31. Marzo. 1827.)
Quegli tra gli stranieri che più
onorano l'Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra
classica, non considerano l'Italia presente, cioè noi italiani moderni e
viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci
hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che
noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii per così dire, delle
diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec.
(31. Marzo. 1827.)
The ancients (to say the least of them) had as much
genius as we; they constantly applied themselves not only to that art, but to
that single branch of an art, to which their talent was most powerfully bent;
and it was the business of their lives to correct and finish their works for
posterity. If we can pretend to have used the same industry, let us expect the
same immortality: Though, if we took the same care, we should still lie under a
farther misfortune: They writ in languages that became universal and
everlasting, while ours are extremely limited both in extent and in duration. A
mighty foundation for our pride! when the utmost we can hope, is but to be read
in one island, and to be thrown aside at the end of an age. Pope
Prefazione generale [4268]alla Collezione delle sue Opere giovanili
(Collezione pubblicata nel 1717.) data Nov. 10. 1716. Pope era nato del
1688.
The muses are amicae omnium horarum; and, like
our gay acquaintance, the best company in the world, as long as one expects no
real service from them. Ibid.
We spend our youth in pursuit of riches or fame, in
hopes to enjoy them when we are old; and when we are old, we find it is too
late to enjoy any thing. Ibid.
(31. Marzo. 1827.)
ææ.
Vespa - guêpe, antic. gUespe.
Serpyllum, serpillo, serpollo-sermollino,
serpolet. Tubo, tube-tuyau. Benda,
bande-bandeau.
È notabile ancora e caratteristico
delle antiche nazioni il modo come essi nominavano l'opposto dell'uomo di
garbo, cioè il malvagio. ò timido, codardo, vale anche malvagio
presso gli antichissimi (Casaub. ad Athenae. l.15. c.15. poco dopo il mezzo).
Viceversa ò malvagio è usato
continuamente e con proprietà di lingua, per codardo, o da nulla;
ignavus. Così ò ed ¤Jò e simili,
per valoroso, utile, prode, strenuus. Similmente bonus e malus
presso i latini. Fè da
nulla, da poco, spesso è il medesimo che tristo, cattivo
(come vaurien in franc.), tanto di uomo, quanto di cosa. ò è utile e buono (similmente
ñ); inutile
e cattivo.
È osservazione antica che quanto
decrescono nelle repubbliche e negli stati le virtù vere, tanto crescono
le vantate, e le adulazioni; e similmente, che a misura che decadono le lettere
e i buoni studi, si aumentano di magnificenza i titoli di lode che si danno
agli scienziati e a' letterati, o a quelli che in sì fatti tempi sono
tenuti per tali. Il somigliante par che avvenga circa il modo della pubblicazione
dei libri. Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più
incolto, più é¯, di meno spesa; tanto cresce l'eleganza, la
nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle
edizioni. Guardate le stampe francesi d'oggidì, anche quelle delle semplici
brochures e fogli volanti ed efimeri. Direste che non si può dar
cosa più perfetta [4269]in tal genere, se le stampe
d'Inghilterra, quelle eziandio de' più passeggeri pamphlets, non
vi mostrassero una perfezione molto maggiore. Guardate poi lo stile di tali opere,
così stampate; il quale a prima giunta vi parrebbe che dovesse esser
cosa di gran valore, di grande squisitezza, condotta con grand'arte e studio.
Disgraziatamente l'arte e lo studio son cose oramai ignote e sbandite dalla
professione di scriver libri. Lo stile non è più oggetto di
pensiero alcuno. Paragonate ora e le stampe dei secoli passati, e gli stili di
quei libri così modestamente, così umilmente, e spesso (vilmente,
abbiettamente) poveramente impressi; colle stampe e gli stili moderni. Il
risultato di questa comparazione sarà che gli stili antichi e le stampe
moderne paion fatte per la posterità e per l'eternità; gli stili
moderni e le stampe antiche, per il momento, e quasi per il bisogno.
(Anche le stampe italiane d'oggi,
benchè non possano sostenere il paragone delle francesi e inglesi, non
temono pero quello di tutte l'altre, anzi sono sicure di uscirne vittoriose; e
molte stampe italiane che oggi non paiono più che ordinarie, sarebbono
parute splendide nel secolo passato, magnifiche e principesche nei precedenti.)
Noi però abbiamo buonissima ragione
di non porre più che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso
la brevità della vita che essi in ogni modo (non ostante la bontà
della stampa) sono per avere. Se mai fu chimerica la speranza dell'immortalità,
essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa è la copia dei libri o
buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità
fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti. Tutti i
posti dell'immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli
antichi classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o
almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla
ora, accrescere il numero degl'immortali; oh questo io non credo che sia
più possibile. [4270]La sorte dei libri oggi, è come
quella degl'insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono
poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni.
Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra:
veramente caduchi: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti,
o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi
che la memoria di noi. Oggi si può dire con verità maggiore che
mai: áæ¯, ®ÜÇ (Iliad.
6. v.146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le professioni
è fatta impossibile l'immortalità, in tanta infinita moltitudine
di fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell'uomo civile,
e la ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra. Io non dubito punto
che di qua a dugent'anni non sia per esser più noto il nome di Achille,
vincitor di Troia, che quello di Napoleone, vincitore e signore del mondo civile.
Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello
sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il
piedestallo, il rialto, che ha già occupato da tanti secoli.
Del resto, come la impossibilità di
divenire immortali, giustifica la odierna negligenza dello stile nei libri;
così questa negligenza dal canto suo, inabilita, e fa impossibile ai
libri, il conseguimento della immortalità. Notabili e vere parole di Buffon (Discours de réception à
l'Académie française): Les ouvrages bien écrits seront les seuls qui passeront
à la postérité; la quantité des connaissances, la singularité des faits,
la nouveauté même des découvertes ne sont pas de sûrs garants de
l'immortalité. Si les ouvrages qui les contiennent ne roulent que sur de petits
objets, s'ils sont écrits sans goût, sans noblesse et sans génie, ils
périront, parceque les connaissances, les faits et les découvertes s'enlèvent
aisément, se transportent, et gagnent même à être mis en
oeuvre par des mains plus habiles. Ces choses sont hors de l'homme, le style
est l'homme même. Le style ne peut donc ni s'enlever, ni [4271]se
transporter, ni s'altérer. S'il est élevé, noble, sublime, l'auteur sera
également admiré dans tous les temps. Al che aggiungo io, che quando anche le mani
qui enlèvent i pensieri, non sieno più habiles in
materia di stile, (come certo oggi e in futuro è difficile che sieno),
nondimeno il libro perira egualmente; perchè in esso non si
troverà nulla di più che nelle sue copie; probabilmente assai
meno (dico per il fondo, non per lo stile); e così i libri nuovi faranno
dimenticare e sparire il vecchio: appunto, se non altro, perchè essi
nuovi, e vecchio quello: del che abbiamo l'esperienza quotidiana per
testimonio. (Anche intorno a libri bene scritti; quando si tratta di
verità e di scienze; come sono quelli di Galileo, che da quale
scienziato sono letti oggidì?).
E con questa osservazione di Buffon chiudo
questo discorso non troppo lieto, e piuttosto malinconico che altrimenti.
(Recanati 2. Aprile. 1827.)
(Similmente poi, per altra parte, la
negligenza universale intorno allo stile, rende inutile la diligenza
individuale, se alcuno sapesse e volesse usarne, intorno al medesimo.
Perchè, in sì fatti generi, le cose quanto sono più rare,
tanto meno si apprezzano. Il pubblico, appunto perchè in ciò
negligente, ed assuefatto a trascurar tale studio, non ha nè gusto
nè capacità nè per sentire nè per giudicare le bellezze
degli stili, nè per esserne dilettato. Perchè certi diletti, e
non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non
innato; di una capacità di sentirli acquisita. A chi non l'ha, non sono
diletti in niun modo. L'arte più sopraffina non sarebbe conosciuta:
l'ottimo stile non sarebbe distinto dal pessimo. Così l'eccellenza
medesima dello stile non sarebbe più una via all'immortalità, che
senza essa, tuttavia, non si può dai libri conseguire.).
(Recanati. 2. Aprile. 1827.)
(Molti libri oggi, anche dei beni accolti,
durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli
e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello
stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur
proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più
che mai simili [4272]agli efimeri, che vivono nello stato di larve e
di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre
affaticandosi per arrivare a quello d'insetti alati, nel quale non
durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e
alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre
non più di una, di due o di tre ore). (Encyclopéd. art. éphémères).
(2. Apr. 1827.)
Pavot non sembra essere che un
diminutivo positivato di papaver; contratte, per corrotta e precipitata
pronunzia, le due prime sillabe pa, in una sola.
Un uomo disarmato, alle prese con una bestia
di corporatura e di forze uguale a lui, p.e. con un grosso cane, difficilmente
resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli
bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa
superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi
mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo
riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno
di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa
prudenza. L'uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale
egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli
si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi,
non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli
sperasi di fuggire; quello che, se non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E
che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il
quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore
in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo
talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, e più il
bambino, adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo
lato io non trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino,
strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente
che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre
armi che le sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de'
serpenti.
(3. Aprile. 1827.)
Fouiller probabilmente è da fodere,
e quindi fratello di fodicare.
[4273]Metrodoro epicureo ap. Ateneo
l.12. p.546. f.õæßñ che CAMMINA, PROCEDE,
secondo natura. Il qual luogo è spiegato dal Casaubono negli Addenda
Animadversionibus, al capo 12.
Nella version latina di quel passaggio del
Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della toilette,
fatta dal D. Parnell (versione assai bizzarra, e che parrebbe piuttosto fatta
nell'ottavo secolo che nel decimottavo, poichè consiste di versi dei
quali ogni mezzo verso rima coll'altro mezzo, p.e. Et nunc dilectum speculum,
pro more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide densa, che sono i
primi), trovo questi due versi, di séguito: Induit arma ergo Veneris
pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore crescens, dove,
come si vede, ergo fa rima con virgo, e praesens con crescens.
Che dicono gl'italiani di questa pronunzia?
(Recanati. 5. Aprile. 1827.). V. p.4497.
Tricae-tracasserie, tracasser, tracassier ec.
Aerugo, o rubigo o robigo,
ruggine-rouille, coi derivati.
Alla p.4266. Io stesso, che pur non ho
maggior piacere che il leggere, anzi non ne ho altri, ed in cui il piacer della
lettura è tanto più grande, quanto che dalla primissima
fanciullezza sono sempre vissuto in questa abitudine (e l'abitudine è
quella che fa i piaceri) quando talvolta per ozio, mi son posto a leggere
qualche libro per semplice passatempo, ed a fine solo ed espresso di trovar
piacere e dilettarmi; non senza maraviglia e rammarico, ho trovato sempre che
non solo io non provava diletto alcuno, ma sentiva noia e disgusto fin dalle
prime pagine. E però io andava cangiando subito libri, senza però
niun frutto; finchè disperato, lasciava la lettura, con timore che ella
mi fosse divenuta insipida e dispiacevole per sempre, e di non aver più
a trovarci diletto: il quale mi tornava però subito che io la ripigliava
per occupazione, e per modo di studio, e con fin d'imparare qualche cosa, o di
avanzarmi generalmente nelle cognizioni, senza alcuna mira particolare al
diletto. Onde i libri che mi hanno dilettato meno, e che perciò da
qualche tempo io non soglio più leggere, sono stati sempre quelli che si
chiamano [4274]come per proprio nome, dilettevoli e di passatempo.
(6. Aprile. 1827.)
Radiatus per radians ec. V.
Forcellini.
Pel manuale di filosofia pratica. A me
è avvenuto di conservare per lo più ogni amicizia contratta una
volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare si
disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per quello che io
posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue
negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se
non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un
animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che
in verità è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri
comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non
per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui
mirano nell'amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano
le occasioni di rompersi coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali
che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar
l'amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni
probabilità, non venne da volontà determinata di offenderli.
(7. Apr. 1827.)
Perchè l'esistenza dell'universo
fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe
provare che l'universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza
infinita l'avesse potuto creare. La quale infinità dell'universo,
nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a
congetturare probabilmente. E quando poi l'universo fosse infinito, la
infinità sarebbe già nell'universo, non sarebbe più
propria esclusivamente del creatore, di quell'essere unico e perfettissimo;
allora bisognerebbe provare che l'universo non fosse quello che lo credono i
panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che
l'universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di
tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non
avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre
ignoto e nascosto: dove che l'universo è palese [4275]e
sensibile. (7. Apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.). Chi vi ha poi detto
che esser infinito sia una perfezione?
Alla p.4245. Un'altra cagione per la quale
io amo la è
per non avere (come necessariamente avrei se mangiassi in compagnia) dintorno
alla mia tavola, assistenti al mio pasto, d'importuns laquais, épiant nos
discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un oeil
avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un
trop long dîner. (Rousseau, Émile.) Disgraziatamente non mi è mai
riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia
certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere
come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii,
l'occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto
quelli detti di sopra. Anche gli antichi a tavola si facevano servire, ma da
schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno
uomini che essi. Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere
le loro railleries e disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri
uguali. Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo
ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in
altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in
quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno
di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a
sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si
trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti
dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e pienamente senza disturbo
alcuno, i piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro
schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non
curarsi dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano
necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che
ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel [4276]luogo dei nostri
servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la
cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono
abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire,
e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo
disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il
vostro cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non
è molto umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non
esserne afflitto o turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri
diletti. Ma il dilettarsi tranquillamente e a tutto suo agio, finchè
n'è capace il corpo e lo spirito, avendo, non lontane, ma presenti, non
nel pensiero, ma negli occhi, persone uguali a noi, che manifestamente (e con
tutta ragione) soffrono, e non per altra causa, ma pel nostro stesso godere,
quanto sarà umano? Io confesso che non mi è riuscito mai di
provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma che pur
sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi
è mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla
mente. E ciò, quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona
il darsene quella molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per
non aver servitori intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar
piacere: e mangiando solo, non voglio averne che mi assistano. Tanto più
che io per bisogno, e con molta ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con
lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impiegato in
questo, come par che stimino molti, che si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e
di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare);
la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da chi mi servisse, sarebbe trovata
estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7. Apr. 1827.)
To pant inglese - panteler
francese.
[4277]Allegano in favore della
immortalità dell'animo il consenso degli uomini. A me par di potere
allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di
ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per dire, è un effetto
della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o
vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un'opinione. Se
l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti
dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo
a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che in
questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo
danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non
piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno,
mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi
naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della
ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per
misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi;
presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere
la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non
s'ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così
i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre
sarà. Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli
infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso
già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione:
in tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe
reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa
per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè
misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal
genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli
estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare,
che essi abbiano perduto la vita [4278]e l'essere; le quali cose, pur
senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente
per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo
naturalmente all'immortalità dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno
morti veramente e non vivi; e che colui ch'è morto, non sia più.
Ma se crediamo questo, perchè lo
piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è
più? - Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo
quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo
perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è.
Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta
quest'ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita
e dell'essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto
della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi
piangiamo la sua memoria, non lui.
In verità se noi vorremo
accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell'animo
nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il
pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato,
egli non è più, io non lo vedrò più. E qui
ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra
il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno
mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo
ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento
della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente
e c'intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch'io ho notato altrove; che
il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime
per noi, noi pensiamo: questa è l'ultima volta: ciò non
avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o
vero: questo è passato per sempre. V. p.4282. Di modo che nel dolore che
si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla
rimembranza e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana.
Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè concorde a
quello della nostra immortalità. [4279]Alla quale noi siamo
così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora
a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io
non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai
più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai
più; noi non piangeremmo mai per morti. Ma venga pure innanzi chi
che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta,
accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall'aspettativa di
rivedere una volta il suo caro defonto: che pur ragionevolmente, poste le
opinioni che abbiamo della immortalità dell'uomo, e dello stato suo dopo
morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla
mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni,
la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso
o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato
del tutto e per sempre.
Concludo che per quanto permette la infinita
diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle
opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla
morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice
natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono
in credere la estinzione totale dell'uomo, che la immortalità
dell'animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità, io
pretenda che tal consentimento sia di gran peso.
(Recanati. 9. Apr. Lunedì Santo. 1827.)
Embrasé per ardente. Ses regards embrasés. Barthélemy, Voyage d'Anacharsis, dove parla di Omero. Raffiné
spesso per fin semplicemente.
, abbaco.
V. Forcell. ec.
Congetture sopra una futura civilizzazione
dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli
uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito
molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno
ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma
la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, [4280]e a far sempre
nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun
termine, massime in quanto all'estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili,
e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli
esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti.
Può servire per la Lettera a un giovane del 20° secolo.
Il vedersi nello specchio, ed immaginare che
v'abbia un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una
smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens,
intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p.215-6.
Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di
16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!!
(Recanati. 13. Apr. Venerdì Santo. 1827.). V. p.4419.
Badare-badigliare, sbadigliare ec.;
badaluccare, badalucco ec. V. N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p.162-3.
Rosecchiare, rosicchiare.
Presso gli Spagnuoli, i quali si dicono
essere quelli che nelle colonie meglio trattano gli schiavi, i Neri nell'isola
di Cuba hanno diritto di forzar per giudizio i loro padroni a venderli ad
altri, in caso di mali trattamenti. V. il N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra,
p.175. Così appunto gli schiavi aveano il diritto èÞÝ presso
gli Ateniesi, dov'erano meglio trattati che in alcun'altra parte di Grecia. V.
Casaubon. ad Athenae. l.6. c.19. init.
(Recanati. 15. Apr. dì di Pasqua. 1827.)
Dico altrove che la moderna pronunzia
francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che aveva il suono della
parola in latino, e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.
Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue
che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler, miaulement parole
espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però
primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane?
Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià
e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare (o
sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'uno [4281]e l'altro
nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc. miauler,
miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare,
e non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar,
maullido, maullamiento, mau.
(16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.)
Miauler franc. maullar o mahullar
spagn. - mia-g-olare.
Upupa lat. e italiano - bubbola.
Hamus-hameau.
Alla p.4255. principio. Vir gente et fama
nobilis, dice il Reimar, Praefat. ad Dion. §.6, di Giovanni Leunclavio,
famoso erudito tedesco del secolo 16°, quem merito admiratur Marquardus
Freherus in epistola dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco-Romanum quod inter
varias peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis
occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et quanta quis
otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in lucem. Le soprascritte osservazioni
del Chesterfield spiegano questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e
notato colla stessa ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente
non raro. Esse spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli
antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali. A segno
che sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde
ozioso e disoccupato, che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di
quello che un letterato che, occupato d'altronde, abbia prodotto molte e
studiate opere. Certo di questi non è difficile a trovarne, e ciò
conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le stesse occupazioni
di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della moltitudine e
dell'accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia, mostrandole occasionate
da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse occupazioni; attività
tanto maggiore e più viva ed acuta, quanto la copia e la folla e
l'assiduità di esse occupazioni era più grande. (Recanati. 17.
Aprile. Martedì di Pasqua. 1827.). Esempio mio, [4282]per lo
più ozioso, ed inclinato all'inerzia, o per natura o per abito; pure in
mezzo a questa inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di
adoperarmi, e molte cose da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me
ne avanza, e in quell'avanzo, io provo (e m'è avvenuto più volte)
un vero bisogno, una smania, di far qualche cosa, un orrore del non far nulla,
che mi pare incomportabile, come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per
così dire i mesi, nella mia stanza colle braccia in croce.
(Recanati. 17. Apr. Martedì di Pasqua. 1827.)
Uomo, viso, contegno, stile (ec.) sostenuto.
Volg. ital. Onde è sostenutezza, usato dal Salvini, e registrato
dalla Crusca.
Consummatus per summus.
V. Forcellini.
Anche i francesi nel dir familiare usano autre
per aucun, o ridondante. Così sans
autre examen senz'altro esame, per sans aucun examen, in certi versi
del modernissimo Andrieux, appresso MM. Noël e Delaplace, Leçons de littérature
et de morale, 4me édit. Paris
1810. tome 2. p.58. Così ancora autrement per guère,
o ridondante, pure nello stil familiare. V. Alberti, e Richelet, Dizz.
(Recanati. 18. Apr. 1827.)
Homme,
esprit, dissipé. Disapplicato.
êÄ (cioè in questa, in questo, in
questo mezzo). Dione Cass. ed. Reimar,
p.65. lin.98. p.192. lin.5.
(Recanati. 20. Apr. 1827.)
Nae-v-us
- Ne-o. V. franc. spagn. ec.
Amouracher,
s'amouracher. Flamboyer.
Culter, cultrum-cultellus, coltello, couteau
ec. ec. V. Forcell., gli Spagnuoli ec.
Alla p.4278. Il qual dolore si prova anche
lasciando uno stato penoso, e il fine del quale sia stato da noi
desideratissimo, e ci sia attualmente oltremodo caro. Il carcerato posto in
libertà, piangerà nell'uscir della sua prigione, non per altro
che pensando alla fine del suo stato passato: Filottete, partendo per l'assedio
di Troia, dà un addio doloroso all'isola disabitata e all'antro de' suoi
patimenti.
L'estate, oltrechè liberandoci dai
patimenti, produce in noi il desiderio de' piaceri, [4283]ci dà
anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità
e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell'aria.
Dalla qual sicurezza d'animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della
magnanimità, della inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare;
siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l'egoismo, l'indifferenza
per gli altri ec.
Alla p.4245. Aggiungi a queste cose la
voluttà (ben conosciuta e notata dagli antichi) del piangere, del
gemere, dello stridere, dell'ululare nelle disgrazie; della quale noi siamo
privati.
(Recanati. Domenica in Albis. 22. Aprile. 1827.)
Il primo fondamento del sacrificarsi o
adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in
pregio; siccome il primo fondamento dell'interessarsi per altrui, è
l'aver buona speranza per se medesimo.
(Firenze. 1. Luglio. 1827.)
Anticipare, posticipare, participare ec. da capere.
Summittere o submittere
per sursum mittere o de subtus mittere. Subiectare, simile.
Bucherare. Spicciolato.
Fra giorno, cioè di giorno,
nel giorno, dentro giorno, dentro il corso del giorno.
Innumerato per innumerabile. Palmieri
(scrittore del sec.15.), Della vita civile. V. Crus. Forcell. ec.
Che la vita nostra, per sentimento di
ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, male che bene,
si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero
stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla
nè più nè meno quale la prima volta. L'ho dimandato anco
sovente a me stesso. [4284]Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e
tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e
piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io a me stesso) mi hanno
risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima età, che per
se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla
fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor
vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s'ignora quel della vita che ci
resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata
e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e
che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò
non è che per l'ignoranza del futuro, e per una illusione della
speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere,
come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.
(Firenze. 1. Luglio. 1827.)
È ben trista quella età nella
quale l'uomo sente di non ispirar più nulla. Il gran desiderio
dell'uomo, il gran mobile de' suoi atti, delle sue parole, de' suoi sguardi,
de' suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di
communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori.
(Firenze. 1. Luglio. 1827.)
Una delle cause della imperfezione e
confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi
interamente ristrette all'alfabeto latino, avendo esse molto più suoni,
massime vocali, che non ha quell'alfabeto. Ciò si vede specialmente
nell'inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora
uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni. I
caratteri dell'alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente
si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue
sono più [4285]distanti per origine e per proprietà dal
latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono
architettate.
Le contrazioni greche (sì quelle in
uso ne' vari dialetti, e sì quelle attiche, e passate nel greco comune)
non sono che modi di pronunziare certi dittonghi o trittonghi ec.: come appunto
in francese au, ai ec. che si pronunziano o, e ec.; in inglese ea,
ee ec. che si pronunziano i, e ec. ec. Così in greco si contrae, cioè si pronunzia ; si
pronunzia ec. ec.
Ma non per questo i greci pronunziando (cioè contraendo) scrivevano ec., benchè questa seconda fosse la
pronunzia e la scrittura regolare; ma scrivevano come pronunziavano.
E non solo il greco comune, ma ciascun dialetto con tutte le irregolarità
e idiotismi di pronunzia, si scriveva come si pronunziava. Perchè in
francese, in inglese ec. (i quali anticamente e regolarmente pronunziarono
certo au, ai, ea, ee ec. come ora scrivono) non si scrivono i dittonghi
ec. come si pronunziano?
(Firenze. 1. luglio. 1827.)
Successus particip. da succedo.
V. Cic. Ep. ad. fam. l.16.
ep.21.
Avvengachè tra gli scrittori che io
ho visti, non si trovi in maniera alcuna chi altrimenti (ridondante)
costui si fosse. Giambullari, Istoria dell'Europa, lib.7. principio, Pisa,
Capurro. 1822. t.2. p.173.
Sull'orlo d'un laghetto, ch'era vicino a
certe balze sopra le coste di Agnano, stavano una testuggine, e due altri uccelli
pur d'acqua. Firenzuola, Discorsi degli animali.
(Firenze. 1. Luglio. 1827.)
L'amore e la stima che un letterato porta
alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle
volte in ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato
porta a se stesso.
(Firenze. 5. Luglio. 1827.)
[4286]Alla p.4245. Di tal genere
è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con
tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ec. quei
diritti d'ospizio ec. affinità d'ospizio ec. Ben diversi in ciò
dai moderni.
(5. Luglio. 1827.)
Cuna, cunula, culla.
Favonius-Faunus. V. The Monthly Repertory of english
literature, Paris, N.51. June 1811. vol.13. p.331.
Vino. Il piacer del vino è misto di
corporale e di spirituale. Non è corporale semplicemente. Anzi consiste
principalmente nello spirito ec. ec.
(Firenze. 17. Luglio. 1827.)
Uno che costretto dai debiti, aveva venduto
per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto,
diceva (e certo con altrettanta verità) di aver comperato cinquantamila
scudi.
(Firenze. 19. Luglio. 1827.)
Memorie della mia vita. Cangiando spesse
volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi
o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai
naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè
io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove
io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non
consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti
mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà
stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva
importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di
ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con
successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre
tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava [4287]sempre
divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio.
1827.). Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.
Veramente e perfettamente compassionevoli,
non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti
che gli altri, quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni
cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di
sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea
sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni,
o certo come accidenti d'un altro mondo, perchè essi non hanno negli
occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire.
Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non
patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle
facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro
non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per
ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d'altronde
meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se
stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell'appassimento
del fiore de' giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua
cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.)
Vagheggiare,
bellissimo verbo.
Naufragato, naufragé ec. per
che ha naufragato. V. Forcell. ec. Scappato si dice
volgarmente, anche in Toscana, di un giovane licenzioso ec. Osé.
Rempli per plein. Foncé
per profond.
Béqueter. Nutrire, nodrire-nutricare nodricare. V. Forc.
Frigere-fricasser.
Fra, infra, tra, intra tanto; entre tanto, per in
tanto, en tanto.
Embraser co' derivati. Aggiungasi al
detto altrove, che le lettere br sogliono entrare nella composizione di
voci dinotanti arsione ec.
[4288]Come ignotus, o notus
per conoscente, così viceversa conoscente spesso per conosciuto;
come: il dolor della morte degli amici e de' conoscenti ec. ec.
(Firenze. 17. Sett. 1827.)
La materia pensante si considera come un
paradosso. Si parte dalla persuasione della sua impossibilità, e per
questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo
problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e
che per lo innanzi era lor sempre paruto, un'assurdità enorme. Diversamente
andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia
non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la
facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or
così appunto dovrebbe esser disposto l'animo degli uomini verso questo
problema. Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi
pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere,
concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le
modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato
del nostro fisico; che l'animo nostro corrisponde in tutto alle varietà
ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo
corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è
nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale
di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co' suoi occhi,
di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si
dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia
nega un fatto, contrasta all'evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante
paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di
strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che
è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più
ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su
tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi [4289]spiritualisti
di questo e de' passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor
difficoltà ed assurdità nel materialismo.
(Firenze. 18. Sett. 1827.)
Ci resta ancora molto a ricuperare della
civiltà antica, dico di quella de' greci e de' romani. Vedesi appunto da
quel tanto d'instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son
rinnovati: le scuole e l'uso della ginnastica, l'uso dei bagni e simili. Nella
educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della
virilità e d'ogni età dell'uomo, in ogni parte dell'igiene
pratica, in tutto il fisico della civiltà, v. p.4291. gli antichi ci
sono ancora d'assai superiori: parte, se io non m'inganno, non piccola e non di
poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al
miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime
cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e
dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il
presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento;
consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto.
(18. Sett. 1827.)
Addolcendosi i costumi, diffondendosi le
cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà,
veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari. Se
mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi
virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l'effetto e l'esperienza
della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. - Parlando con
un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a
trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del
Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile
piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l'immaginazione,
una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da
quei medesimi delitti), che esaltano l'anima la più fredda (come
è la mia). Certo niente o ben poco di simile nelle parti men barbare
dell'Italia, e [4290]nel resto d'Europa, nè per l'una nè
per l'altra parte.
(Firenze.
18. Sett. 1827.)
C'est en
conséquence de ces cruelles opinions, que l'on a vu enseigner publiquement,
à la honte du Christianisme, que l'on ne devoit pas garder la foi aux
hérétiques; sentiment que Clément VIII, qui d'ailleurs étoit assez
honnête homme pour un Pape, approuvoit, ainsi que s'en plaint
amèrement le Cardinal d'Ossat. L'inhumaine décision du concile de
Constance, sur le mépris des saufs-conduits, est aussi le fruit de cette
pernicieuse doctrine. (Hist. du concile de Constance, préface de Lenfant.
P.47.) Examen critique des Apologistes de la religion chrétienne, par M.
Fréret, chap.10. édit. de 1766. p.188-9.
(Firenze, 19. Sett. 1827.)
Io non credo vero quel che dicono i critici
che gli antichi, p.e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle
loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo
che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau
o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto
per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u;
ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v
nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua.
Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor
manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente
pe, e il greco
è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, e considerata come doppia o
composta, cioè di e di , ossia come un aspirato), esso v, per
l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio,
giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su
cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della
favella. Perciò da [4291]principio esso non fu scritto in niun
modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione,
digamma ec. p.e. amaƑi ec.;
finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo
segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo
il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino
minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano
fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si
vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi
come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da
fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante,
distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il
simile dirò dell'f ec. ec.
(20. Sett. 1827. Firenze.)
Alla p.4289 - nella civiltà insomma
del corpo, per dir così, o vogliamo dire, che spetta al perfezionamento
o alla perfezione del corpo, -
Dice la Staël che la lingua tedesca è
una scienza, e lo stesso si può, e con più ragione ancora, dir
della greca. Quindi è accaduto che siccome le scienze si perfezionano, e
i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più numerose e accurate
osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del greco, dal
rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e che
i moderni sono in essa d'assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e forse
in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così
favolosamente trattata da Platone), agli stessi greci antichi; anzi, che gli
scolari di greco oggidì, ne sappiano più de' maestri de' passati
tempi. E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse arrivabili,
e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto
accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende,
nè si può conoscere se e quando arriverà al non plus
ultra, nè [4292]basta l'avere spesa tutta la vita in questo
studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto.
(Firenze. 20. Sett. 1827.)
Il credere l'universo infinito, è
un'illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa
dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che
egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che
l'analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell'universo
non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi
diceva uno, e penso che al di là di que' corpi ch'io veggo, ve ne sono
altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi
conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là,
ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o
all'ignorante, che guarda intorno da un'alta torre o montagna, o che si trova
in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v'è ancor
terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o
conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito. Ma come poi
si è trovato per esperienza che il globo terracqueo, il qual pare
infinito, e certamente per lungo tempo fu tenuto tale, ha pure i suoi limiti,
così, secondo ogni analogia, si dee credere che la mole intera dell'universo,
l'assemblage di tutti i globi, il qual ci pare infinito per la stessa
causa, cioè perchè non ne vediamo i confini e perchè siam
lontanissimi dal vederli; ma la cui vastità del resto non è assoluta
ma relativa; abbia in effetto i suoi termini. - Il fanciullo e il selvaggio
giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il mare non hanno
confini; e si sarebbono ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le
stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite
di numero.
(20. Sett. 1827.)
[4293]L'estrema imperfezione
dell'ortografia francese è confessata in modo très-éclatant
dagli stessi francesi con que' loro dizionari che contengono la prononciation
figurée, cioè rappresentata in modo più conforme all'alfabeto
ed alla ragion naturale. Che si dee pensare della scrittura di una nazione, la
quale scrittura ha bisogno di essere scritta in un altro modo, di essere
rappresentata con un'altra scrittura, e ciò alla stessa nazione,
acciò che questa intenda ciò che quella significa? giacchè
l'intendere come essa vada pronunziata, non è altro che intendere il suo
valore.
(Firenze. 21. Sett. 1827.)
Se fosse possibile che io m'innamorassi,
ciò potrebbe accadere piuttosto con una straniera che con un'italiana.
Quel tanto o di nuovo o d'ignoto che v'ha ne' costumi, nel modo di pensare,
nelle inclinazioni, nei gusti, nelle maniere esteriori, nella lingua di una
straniera, è molto a proposito per far nascere o per mantenere in un
amante quella immaginazion di mistero, quella opinione di vedere e di conoscere
nella persona amata assai meno di quello che essa nasconde in se stessa, di
quel ch'ella è, quella idea di profondità, di animo recondito e
segreto, ch'è il primo e necessario fondamento dell'amor più che
sensuale. Oltre alla grazia che accompagna naturalmente ciò ch'è
straniero, come straordinario.
(Firenze, 21. Sett. 1827.)
Doucereux.
Una voce o un suono lontano, o decrescente e
allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un'apparenza di vastità
ec. ec. è piacevole per il vago dell'idea ec. Però è
piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in
una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de'
buoi ec. nelle medesime circostanze.
(21. Sett. 1827.)
[4294]La differenza tra le voci di
origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie
della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima
voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa
una cosa; in un altro modo, un'altra, tutta differente, e si considera come un
altra voce da tutti, salvo solo i pochissimi che s'intendono delle origini
della lingua. P.e. causa lat., corrotta di forma e di significato dall'uso
volgare, significa res (cosa: v. la pag.4089.); usata
incorrottamente nella letteratura e scrittura, significa, come nel buon latino,
cagione. Ed è certo che causa ital. è voce,
benchè ora volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di
origine letteraria; poichè nel 300 non si trova, o è così
rara, che i fanatici puristi de' passati secoli dicevano ch'ella non è
buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di
forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera
forma e senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in origine
sia la stessa. Franc. chose - cause, Spagn. cosa - causa ec.
(Firenze. 21. Sett. 1827.). Leale, loyal,
leal (spagn.) legale, légal, legal.
Diluvium - déluge.
Alla p.4238. Ebbero i Greci ancora, come i
moderni, degl'Itinerari, delle Descrizioni di città e di provincie,
anche con dettagli appartenenti a storia, arti, monumenti, costumi, prodotti,
statistica insomma (come quella di Pausania, e la Descriz. della Grecia di
Dicearco, contemporaneo di Teofrasto, della quale son da vedere i frammenti nei
Meletemata del Creuzer); delle Relazioni di Viaggi per mare e per terra
(come i Peripli, il Viaggio di Nearco, di Arriano nell'Indica, quello di
Megastene all'India, ed altri simili sotto titolo di ‘ÞJ ec.): e
in fine non v'è quasi ricchezza letteraria fra' moderni, di cui non si
trovi fornita anche la Bibliografia greca.
(Firenze. Domenica 14. Ottob. 1827.)
Persone la cui compagnia e conversazione ci
piaccia durevolmente, e si usi volentieri con [4295]frequenza e
lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle
quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d'essere
stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la compagnia e conversazione
delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non
si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro
stima.
(Firenze. Domenica 14. Ottobre. 1827.)
Peut-être
que, si l'on examinait avec impartialité les moeurs de toutes les nations de la
terre, on trouverait qu'il n'y a point de peuple si grossier qui n'ait quelques
règles de politesse, et point de peuple si poli qui ne conserve quelque
reste de barbarie. Franklin. Traduit de l'anglais. (Mélanges de Morale,
d'Économie et de Politique, extraits des ouvrages de Benjamin Franklin. 2e
édition. Paris, chez Jules Renouard. 1826. tom.2. p.1-2. Observations sur les
Sauvages de l'Amérique du Nord. 1784.).
(Firenze. 1827. 25. Ottobre.)
Bisogna guardarsi dal giudicare
dell'ingegno, dello spirito, e soprattutto delle cognizioni di un forestiere,
da' discorsi che si udranno da lui ne' primi abboccamenti. Ogni uomo, per
comune e mediocre che sia il suo spirito e il suo intendimento, ha qualche cosa
di proprio suo, e per conseguenza di originale, ne' suoi pensieri, nelle sue
maniere, nel modo di discorrere e di trattare. Massime poi uno straniere,
voglio dire uno d'altra nazione, [4296]ne' cui pensieri, nelle parole,
nei modi, è impossibile che non si trovi tanta novità che basti
per fermar l'attenzione di chi conversa seco le prime volte. Ogni uomo poi di
qualche coltura, ha un sufficiente numero di cognizioni per somministrar lauta
materia ad uno o due entretiens; ha i suoi discorsi, le sue materie
favorite, nelle quali, se non altro per la lunga assuefazione ed esercizio,
è atto a figurare, ed anche brillare; ha qualche suo motto, qualche
tratto di spirito, qualche osservazione piccante o notabile ec. familiari e
consueti. Per poca di abilità che egli abbia nel conversare, per poca di
perizia di società, di arte della parola, facilissimamente egli tira e
fa cadere il discorso, ne' suoi primi abboccamenti, sopra quelle materie dove
consiste il suo forte, dov'egli ha qualche bella o buona o passabile cosa da
dire; e facilissimamente trova modo di metter fuori e di déployer tutta
la ricchezza della sua erudizione e della sua dottrina, di qualunque genere
ella sia. Ad un letterato di professione massimamente, è difficile che
manchi l'arte necessaria per questo effetto. Quindi è che chi lo sente
parlare per la prima volta, resta sorpreso dell'abbondanza delle sue cognizioni,
de' suoi motti, delle sue osservazioni; lo piglia per un'arca di scienza e di
erudizione, un mostro di spirito, un ingegno vivacissimo, un pensatore consumato,
un intelletto, uno spirito originale. Ciò è ben naturale,
perchè si crede che quel che egli mette fuori, sia solamente una mostra,
un saggio di se e del suo sapere; non sia già il tutto. Così
è avvenuto a me più volte: trovandomi con persone nuove, specialmente
con letterati, sono rimasto spaventato del gran numero degli aneddoti, delle
novelle, delle cognizioni d'ogni sorta, delle osservazioni, dei tratti, ch'esse
mettevano fuori. Paragonandomi a loro, io m'avviliva nel mio animo, mi pareva
impossibile di arrivarvi, mi credeva un nulla appetto a loro. Ciò
avveniva non già perchè la somma del mio sapere e del mio spirito
non mi [4297]paresse bastante ad uguagliar quella che tali persone
mettevano fuori e spendevano attualmente meco: se io avessi creduto che la loro
ricchezza non si stendesse più là, essa mi sarebbe paruta ben
piccola cosa, anche a lato alla mia; ma io credeva che quello non fosse che un
saggio del capitale, un argent de poche, corrispondente ad una ricchezza
proporzionata. Ne' miei pochi viaggi, spesso ho avuto di tali mortificazioni,
specialmente con letterati stranieri. Ma poi qualche volta ha voluto il caso
che io m'abbattessi a sentire qualche colloquio di alcuna di tali persone con
altre a cui esse erano parimente nuove. Ed ho notato che esse ripetevano
puntualmente, o appresso a poco, gli stessi pensieri, motti, aneddoti, novelle,
che avevano dette ed usate meco. ec. L'effetto in quegli uditori era lo stesso
che era stato in me. Ammirazione, interesse, entusiasmo. Che vastità di
sapere, che notizia d'uomini e d'affari, che profondità, che erudizione
immensa, che fecondità e vivacità di spirito!
Da
queste osservazioni si possono cavar parecchie riflessioni utili, ma fra
l'altre, due ben diverse, ed utili a due ben diversi generi di persone. La
prima: che i viaggiatori, per quanto sieno intendenti e di buona fede, debbono
restar facilmente ingannati nel giudicar dello spirito, ingegno, erudizione e
dottrina delle persone che vedono. Questa sarà utile per chi legge le
Relazioni di Viaggi fatti in Europa, che ora sono tanto alla moda. L'altra: che
un viaggiatore, per poco capitale ch'egli abbia di spirito e di sapere,
dev'essere ben povero d'arte conversativa, se dovunque egli passa, non
si fa passare per un grand'uomo. E questa sarà utile a chi
viaggia. Come anche sarà utile per un altro lato a chi viaggia, l'esempio
dell'accaduto a me, come ho detto di sopra ec.
(Pisa. 13. Novembre. 1827.)
[4298]Cratero (nome di medico, e
vuol dire in generale al medico) magnos promittere montes. Persio,
Sat.3. vers.65. - Prometter mari e monti.
Alla p.4115. Persio Sat.1. v.112-14. Hic,
inquis, veto quisquam faxit oletum. Pinge duos angues: pueri, sacer est
locus, extra Mejite. Discedo. Traduz. di Monti. Niun qui, dici, a sgravar
l'alvo si butti: E tu due serpi vi dipingi, e al piede: Pisciate altrove,
è sacro il loco, o putti. Me la batto. Nota del medesimo. Angues.
L'antica superstizione aveva consecrato i serpenti come immagine del genio tutelare,
e simbolo dell'eternità. Solevano quindi dipingerli al muro ne' luoghi
pubblici che volevansi mondi d'ogni bruttura, onde gli adulti per riverenza, i
fanciulli per paura non vi si accostassero a far puzza. - Vedi gli altri
commentatori. Paragonisi questa usanza colla nostra di far dipingere, ed anche
scolpire in pietra, delle croci ne' luoghi che si vogliono salvare dalle
brutture, e che d'altronde vi sarebbero assai esposti e comodi. Usanza che
dà più che mai nell'occhio a Firenze, dove non solo ne' luoghi
tali, ma non v'è canto di edifizio e di strada sì pubblica e
frequentata, dove non si veggano, non dico croci, ma lunghe file di croci
dipinte nel muro a basso, in modo di siepi. Il che è ben ragionevole in
quella sporchissima e fetidissima città, per li cui amabili cittadini
ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro
bisogni, e soprattutto ogni cominciamento o entrata di viottolo o di via (due
cose poco diverse in Firenze): onde nessun luogo è sicuro da tali
profanazioni senza tali ripari ed antemurali, e conviene moltiplicarli senza fine.
Non entrerei però garante della validità di siffatti ripari per
l'effetto desiderato, nè in Firenze nè altrove.
(Pisa. 22. Novembre. 1827.). V. la p. seg. e p.4300. e p.4305.
Cader dalla padella nella brace ec. V.
Crusca. - Platone nel fine del libro 8. Û (ed. Astii, t.4. p. ult.) parlando della
democrazia cangiata in tirannide, e della eccessiva libertà cangiata in
servitù, dice: kaÜ, ñ, ô° æòÛ¢J¡ (cioè ricusando
l'obbedienza de' magistrati [4299]liberi), Üèæ Û (della dominazione dei servi, cioè
de' satelliti del tiranno ec.) ¢Æà.
(Pisa. 2. Dic. 1827.)
Alla p. qui dietro. Del resto, questo
scompisciamento generale di Firenze procede da quell'eccessiva libertà
individuale che vi regna, per la quale Firenze potrebbe molto bene paragonarsi
ad Atene del tempo il più democratico, ed applicarsi a lei quello che,
alludendo ad Atene, dice di una città eccessivamente democratica Platone
nell'ottavo della Repubblica, opp. ed. Astii,
tom.4. p.478.
(Pisa. 5. Dic. 1827.)
Alla p.4164. capoverso 3. Epicuro Epist. ad Herodot., ap. Laert. X. segm.37.
÷ñµæ³ æ¦Þù¤Û. Quest'uso dell'infinito, è proprio, del resto,
anche della lingua franc. spagn. ec.
D'Alembert nel Discours préliminaire de
l'Encyclopédie, avendo parlato delle cure, delle fatiche prese, e delle
grandissime difficoltà incontrate dagli enciclopedisti, e
particolarmente da Diderot per acquistare intorno alle arti, mestieri e
manifatture i lumi e le notizie necessarie a trattarne nella enciclopedia, soggiunge:
C'est ainsi que nous nous sommes convaincus de l'ignorance dans laquelle on est
sur la plûpart des objets de la vie, et de la difficulté de sortir de
cette ignorance. C'est ainsi que nous
nous sommes mis en êtat de démontrer que l'homme de Lettres qui sait
le plus sa Langue, ne connoît pas la vingtieme partie des mots; que quoique
chaque Art ait la sienne, cette langue est encore bien imparfaite; que c'est
par l'extrême habitude de converser les uns avec les autres, que les
ouvriers s'entendent, et beaucoup plus par le retour des conjonctures que par
l'usage des termes. Dans un attelier, c'est le moment qui parle, et non l'Artiste.
(Pisa. 17. Dic. 1827.)
[4300]S'andrà schernendo il
giovinetto altero Senz'altra (alcuna) pena l'amoroso foco, Chi
sarà poi che 'l tuo schernito impero, Voto d'ogni timor non prenda in
gioco? Alamanni, Favola di Narcisso, stanza 17. (30. Dic. 1827. Domenica.).
Altronde per altrove. Angelo
di Costanzo, Sonetto 44. Mancheran prima ec.
Avale-aguale.
Tallo-J.
Frugare - Frugolare. Malm. racq. 10mo
cantare, stanza 44. Spruzzo - Spruzzolo. Menzini, Satira 9. verso 48.
Cosa curiosa, e notabile per chi vuol
conoscere la storia, e dalla storia inferire il valore, delle opinioni degli
uomini intorno ai diritti e ai doveri, si è che ne' secoli passati, i
Negri erano creduti d'una origine e quindi d'una famiglia stessa co' bianchi, e
pur quei medesimi che li tenevano per tali, sostenevano la ineguaglianza
naturale di diritti tra i bianchi e loro, la inferiorità dei Negri, e la
giustizia della loro servitù, anzi schiavitù ed oppressione: oggi
i Negri sono conosciuti di origine, e però di famiglia, onninamente
diversa dai bianchi, e quelli che gli hanno per tali, sostengono la loro uguaglianza
sociale rispetto a noi, e la parità de' loro diritti, e la totale
ingiustizia del farli schiavi, o maltrattarli, o dominarli, e
l'assurdità dell'opinione antica in tal proposito. (Pisa 14. Gen.
1828.).
Alla p.4298. Oh gente santa, Che non piscia
lì dove vede impresso Segno di croce! Menzini, Sat. 9. vers.56-8.
Al detto altrove di non pareil per senza
pari, grecismo; e di pareil, parejo, apparecchiare ec. diminutivi
positivati ec. aggiungi. Chiabrera Canzonette, canzonetta 8va
al Sig. Luciano Borzone pittore (principio: Se di bella, che in Pindo
alberga, musa) stanza 6 ed ult. versi 50-54 ed ultimi. Ah sciocchezza
infinita Di qualunque sia core, E follia NON PARECCHIA! (senza pari) Pianger
perchè si more, E non perchè s'invecchia. (Pisa. 15. Gennaio.
1828.).
Altronde per altrove. Giusto
de' Conti, Bella Mano, Canz.
[4301] Infamato per
infame. Id. ib. Capit.3. v.88. Dannata (per dannevole) vista, e di
mirarsi indegna. Chiabr. Canz. Cosmo, sì lungo stuol, lieto in
sembianza. v.25. stanz.4. v.1. Patito. Viso patito. Uomo, cavallo,
panno patito ec. Si dice anche in Toscana.
Memorie della mia vita. La privazione di
ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu
causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate,
risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta
più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec.
(Pisa. 19. 1828.)
V'è di quelli ostinati, Che per un blittri
(della qual voce, derivata dal greco, dico altrove: vuol dire per un nulla)
categorematico Lascerian stare la broda e 'l companatico. Magalotti, Sonetto
colla coda; che incomincia: Acciò conosca ognun quanto diverso.
vers.27-29. Parla de' fanatici scolastici e peripatetici del suo tempo.
(Pisa. 22. 1828.)
Raperonzo - raperonzolo. Cotogno - cotognolo.
V. Crus.
Û - trebbiare,
forse da tribulare, che forse è un frequentativo di un inusitato tribere
da Û.
(Pisa. 28. 1828.)
E disse fra suo core: l'ho mal fatto.
Pulci Morg. maggiore, XII. 28.
Disse Rinaldo: A te, sanza altre
scorte, (nessuna scorta) Venuti siam per l'oscura foresta. Ib. canto
E disse fra suo cor: costui fia
quello. Ib. c.22. st.228.
Sottosopra fu buon sempre l'ardire: Ha la
fortuna in odio un uom da poco, Ed è nimica de gli sbigottiti
(soliti a sbigottirsi ec.). Berni, Orl. inn. c.35. st.3.
Oramai si può dire con verità,
massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori
(giacchè gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive).
Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In
Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non
pensa che a se, ec.
(Pisa. 5. Feb. 1828.)
[4302]Uno de' maggiori frutti che
io mi propongo e spero da' miei versi, è che essi riscaldino la mia
vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in
quella età, e provar qualche reliquia de' miei sentimenti passati, messa
quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di
commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in
leggere poesie d'altri: (Pisa. 15. Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il
riflettere sopra quello ch'io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il
piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da
se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con
altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non
sia conosciuta per tale da altrui.
(Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.)
Pelo matto, pasta matta ec. -.
Ciascuna stella negli occhi mi piove Della
sua luce e della sua vertute. Dante Rime, lib.2. Ballata 3. Io mi son
pargoletta bella e nova.
(Pisa. 19. Marzo Festa di S. Giuseppe. 1828.)
Ý - bombire.
A. di Costanzo, Stor. del R. di Napoli, lib.6. nella traduzione della lettera
del Petrarca sopra il terremoto di Napoli.
(Pisa. 12. Apr. Sabato in Albis. 1828.). V. Crusca.
Prolato as.
M.
Newton avoit donné la solution de ce problême...; e M. Fatio de Duillier
venoit d'en publier une solution très embarassée... M. Bernoulli,
effrayé des calculs de M. Fatio, se mit à cercher par une autre voie le
solide de la moindre résistance, et ne fut pas long-tems à le trouver.
Les grands Géometres connoissent certe éspece de paresse qui préfere la peine
de découvrir une vérité à la contrainte peu agréable de la suivre dans
l'ouvrage d'autrui; en général ils se lisent peu les uns les autres, (Nota.
Nous ne disons [4303]point qu'ils ne se lisent pas, mais qu'ils se
lisent peu: en ce genre un coup d'oeil jetté sur un ouvrage suffit aux maîtres
pour le juger. Il n'en est pas de même en Littérature.) et
peut-être perdroient-ils à lire beaucoup: une tête pleine
d'idées empruntées n'a plus de place pour les siennes propres, et trop de lecture
peut étouffer le génie au lieu de l'aider. Si elle est plus nécessaire dans
l'étude des Belles-Lettres que dans celle de la Géométrie, la différence de
leurs objets er des qualités qu'elles exigent, en est sans doute la cause. La
Géométrie ne veut que découvrir des vérités, souvent difficiles à atteindre,
mais faciles à reconnoître dès qu'on les a saisies; et elle ne
demande pour cela qu'une justesse et une sagacité qui ne s'acquierent point. Si
elle n'arrive pas précisément à son but, elle le manque
entièrement; mais tout moyen lui est bon pour y arriver; et chaque
esprit a le sien, qu'il est en droit de croire le meilleur: au contraire, le
mérite principal de l'éloquence et de la Poësie, consiste à exprimer et
à peindre; et les talens naturels absolument nécessaires pour y réussir,
ont encore besoin d'être éclairés par l'étude réfléchie des excellens
modeles, et, pour ainsi dire, guidés par l'expérience de tous les
siècles. Quand on a lu une fois un problême de Newton, on a vu
tout, ou l'on n'a rien vu, parce que la vérité s'y montre nue et sans réserve;
mais quand on a lu et relu une page de Virgile ou de Bossuet, il y reste encore
cent choses à voir. Un bel esprit qui ne lit point, n'a pas moins
à craindre de passer pour un écrivain ridicule, qu'un Géometre qui lit
trop, de n'être jamais que médiocre. D'Alembert, Éloge de M. Jean
Bernoulli. [4304]Non si potrebbe dire della metafisica
appresso a poco il medesimo che della Geometria, e così scusare chi in
metafisica amasse più di pensare che di leggere; chi pretendesse di essere
metafisico senz'aver letto o inteso Kant; chi si contentasse talvolta di
conoscere i risultati e le conclusioni delle speculazioni e ragionamenti de'
metafisici celebri, per poi trovarne da se stesso la dimostrazione, o
convincersi della loro insussistenza? La metafisica ha colle matematiche non
poche altre somiglianze: anche in metafisica una proposizione dipende spesso da
una serie di proposizioni per modo ch'è impossibile vederne colla mente
la dimostrazione tutta in un punto; e spesso chi è salito per questa
serie fino a quell'ultima verità, ne acquista la convinzione, e ne vede
allora perfettamente le ragioni, che d'indi a poco non saprebbe più
rendere nemmeno a se stesso, benchè la convinzione gli duri. Anche in
metafisica, come in affari di calcolo, moltissime proposizioni e verità
si credono sulla sola fede di chi ha fatto il lavoro necessario per iscoprirle
e renderle certe; lavoro troppo lungo e difficile per essere rinnovato e
rifatto, o seguito a passo a passo da altri, anche uomini della professione.
(Pisa. 17. Aprile. 1828.)
- (Il
cui genio (di Laplace) è per me come quei Veri che pochi veggono, ma che
son creduti da tutti, perchè uno spirito superiore li vede e li mostra.
Daru, Risposta al discours de réception di Royer-Collard all'Accad.
Franc. nell'Antologia di Firenze, n.86. p.138.).
Alla
p.4264. De toutes les langues cultivées par les gens de lettres, l'italienne
est la plus variée, la plus flexible, la plus susceptible des [4305]formes
différentes qu'on veut lui donner. Aussi n'est-elle pas moins riche en bonnes
traductions, qu'en excellente musique vocale, qui n'est elle-même qu'une
éspece de traduction. D'Alembert, Observations sur l'art de traduire, premesse
al suo Essai de traduction de quelques morceaux de Tacite.
Les
taches qu'on peut faire disparoître en les effaçant, ne méritent presque pas ce
nom; ce ne sont pas les fautes, c'est le froid qui tue les ouvrages; ils sont
presque toujours plus défectueux par les choses qui n'y sont pas, que par celles
que l'auteur y a mises. Id. ib.
(Pisa. 8. Maggio. 1828.)
Alla p.4298. fine. In Pisa, su un canto
della piazza dello Stellino, oltre la croce dipinta, v'è la
leggenda: Rispetto alla Croce. V.
p.4307.
Nous
n'acquérons guere de connoissances nouvelles que pour nous désabuser de quelque
illusion agréable, et nos lumieres sont presque toujours aux dépens de nos
plaisirs. D'Alembert, Réflexions sur l'usage et sur l'abus de la philosophie
dans les matieres de goût, lues à l'Académie Françoise le 14 mars
1757.
E molte forti a Pluto alme d'eroi
Spinse anzi tempo, abbandonando i corpi Preda a sbranarsi a' cani ed
agli augelli. Foscolo. Molte anzi tempo all'Orco Generose travolse alme
d'eroi, E di cani e d'augelli orrido pasto Lor salme abbandonò.
Monti. E così gli altri. Ma Omero dice le anime () ed essi
(éç),
cioè gli eroi, non i loro corpi. Differenza non piccola, e
secondo me, non senza grande importanza a chi vuol conoscere veramente Omero, e
i suoi tempi, e il loro modo di pensare. Questa infedeltà, non di stile
e di voci solo, ma di sostanza [4306]e di senso, nata dall'applicare
alle parole d'Omero le opinioni contemporanee a' traduttori; questa
infedeltà, dico, commessa nel primo principio del poema, anche da'
traduttori più fedeli, dotti ed accurati, e in un caso in cui le parole son
chiare e note, mostra quanto sia ancora imperfetta l'esegesi omerica (e in generale
degli antichi), e quanto spesso si debba trovare ingannato, quanto spesso insufficientemente
informato, chi per conoscere Omero, e gli antichi, e i loro tempi, costumi,
opinioni ec. si vale delle traduzioni sole, e fonda su di esse i suoi discorsi
ec. come per lo più i più eruditi francesi d'oggidì ec.
ec.
(Pisa. 10. Maggio. 1828. Sabato.)
Il est
sans doute des lecteurs qui ne sont difficiles ni sur le fond ni sur le style
de l'histoire; ce sont ceux dont l'ame froide et sans ressort, plus sujette au
désoeuvrement qu'à l'ennui, n'a besoin ni d'être remuée, ni
d'être instruite, mais seulement d'être assez occupée pour jouir en
paix de son existence, ou plutôt, si on peut parler ainsi, pour la dépenser
sans s'en appercevoir. D'Alembert, Réflexions sur l'histoire. I
più degli oziosi sono piuttosto disoccupati che annoiati. Si dice male
che la noia è un mal comune. La noia non è sentita che da quelli
in cui lo spirito è qualche cosa. Agli altri ogni insipida occupazione
basta a tenerli contenti; e quando non hanno occupazione alcuna, non sentono la
pena della noia. Anche gli uomini sono, la più parte, come le bestie,
che a non far nulla non si annoiano; come i cani, i quali ho ammirati e
invidiati più volte, vedendoli passar le ore sdraiati, con un occhio
sereno e tranquillo, che annunzia l'assenza della noia non meno che dei
desiderii. Quindi è, che se voi parlate della noia inevitabile [4307]della
vita ec. ec. non siete inteso ec. ec.
(Pisa. 15. Maggio. Ascensione. 1828.)
On peut
dire en un sens de la Métaphysique que tout le monde la sait ou personne, ou
pour parler plus exactement, que tout le monde ignore celle que tout le monde
ne peut savoir. Il en est des ouvrages de ce genre comme des pieces de théatre;
l'impression est manquée quand elle n'est pas générale. Le vrai en Métaphysique
ressemble au vrai en matiere de goût; c'est un vrai dont tous les esprits
ont le germe en eux-mêmes, auquel la plûpart ne font point d'attention,
mais qu'ils réconnoissent dès qu'on le leur montre. Il semble que tout
ce qu'on apprend dans un bon livre de Métaphysique, ne soit qu'une éspece de
réminiscence de ce que notre ame a déjà su; l'obscurité, quand il y en
a, vient toujours de la faute de l'auteur, parce que la science qu'il se
propose d'enseigner n'a point d'autre langue que la langue commune. Aussi
peut-on appliquer aux bons auteurs de Métaphysique ce qu'on a dit des bons
écrivains, qu'il n'y a personne qui en les lisant, ne croie pouvoir en dire
autant qu'eux. D'Alembert, Essai sur les élémens de philosophie, article 6. È
facile il vedere che tutti questi periodi sono traduzioni l'uno dell'altro; ma
la proposizione ch'essi contengono, è molto vera e notabile.
(Pisa. 19. Maggio. 1828.)
Alla p.4305. Pietro Aretino dice in una
delle sue commedie: un cavalier senz'entrata è un muro senza croci,
scompisciato da ognuno. [4308]Ginguené, t.6. p.229. not.
(Pisa. 19. Maggio. 1828.)
Corpusculum per corpus.
M. Aurelio in Frontone (ad Marcum Caesarem et invicem, lib.5. ep.47. 55. ed.
Rom. 1823. p.135-37.). Notisi che M. Aurelio era stoico.
Expergitus per experrectus.
Fronto Princip. histor. ed. Rom. p.319. v.9.
Arcus intenditus per intentus.
Ib. De Feriis alsiensibus, ep.3. p.208. v.15.
Il codice frontoniano ha dilibutus, e
3 volte dilectus per delibutus e delectus. Così noi dilicato,
e di preposiz. per de. Al che spettano que' verbi latini digredior,
diverto, diminuo, distillo, distringo, divello (e simili): tutti i quali
nel detto codice si trovano scritti per de.
M. Aurelio nelle lett. a Frontone chiama
costantemente Faustina sua moglie, domina mea (la mia donna). V. il
luogo di Epitteto di cui altrove.
Leggendo la curiosa lettera di Vero a
Frontone (ad Ver. imp. ep.3. ed. Rom.) in cui lo prega di scrivere la storia
delle gesta di esso Vero nella guerra partica, mi par proprio di leggere una
lettera di qualche moderno scrittore a un giornalista sopra qualche sua opera.
Lo stesso amor proprio, esagerazione, noncuranza del vero ec. E in verità
quella lettera (v. anche quella di Cic. a Lucceio) ci mostra quanto dobbiamo
fidarci di storie, anche contemporanee. Ma che differenza tra gli antichi e i moderni
ancor qui! Questi raccomandano 1. delle operucce,
(Firenze. 21. Giugno, anniversario del mio primo arrivo a Firenze.
1828.)
[4309]Tanto è vero che tra
gli antichi la prima lode era quella della felicità, che noi vediamo
nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Oratori dovendo lodare, p.e. de'
soldati morti per la patria, cominciar dal mostrare che essi non sono stati
infelici, che la loro morte non è stata una sventura. Oggi al contrario:
si cercherebbe d'intenerir gli uditori sopra il loro caso: il muover la
compassione in tali circostanze era cosa al tutto ignota, era un vero
controsenso presso gli antichi. Le loro Oraz. fun. sono tutte consolatorie.
Dionigi D'Alic. nei giudizi sopra gli
scrittori antichi biasima Tucidide per aver preso un argomento di storia che
conteneva le sventure della sua patria (Atene), e loda al paragone Erodoto per
aver preso a tema le vittorie de' greci sui barbari. Anche nelle storie questi
rispetti, e a' tempi di Dionigi.
(Firenze 29. Giugno, dì di S. Pietro, e mio natalizio.
1828.)
Solone appo Erodoto 1. c.32. parlando a
Creso della costui prosperità chiama la divinità invidiosa Jݤò
(cioè øJñ).
(29.
Giu. 1828.)
Paul-Louis
Courier, Lettre à M. Renouard, libraire, sur une tache faite à un
manuscrit de Florence, parlando del Longo di Amyot, da lui corretto nei luoghi
dove la traduzione non rispondeva al testo, e supplito colla traduzione nuova
del frammento fiorentino: Mais ce n'est pas seulement le grec et le français
qui m'ont servi à terminer cette belle copie (la traduzione d'Amyot),
après avoir si heureusement [4310]rétabli l'original (cioè
completato il testo colla scoperta del supplemento fiorentino); ce sont encore
plus les bons auteurs italiens, d'où j'ai tiré (per questo lavoro) plus
que des nôtres, et qui sont la vraie source des beautés d'Amyot; car il
fallait, pour retoucher et finir le travail d'Amyot, la réunion assez rare des
trois langues qu'il possédait et qui ont formé son style.
(Fir. 30. Giug. 1828.)
Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse
più d'attraits, più d'illecebre, ed è più atta
a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno
è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù:
così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma veramente una
giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti
ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia
il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave,
vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di
gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e
negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria
d'innocenza, d'ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel
fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza
innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un'impressione così
viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di
guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace
di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea
d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto [4311]questo,
ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder
quell'oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in
certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore
alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne
troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi
più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare
una corrispondenza seco. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e
contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti
che l'aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto
quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della
indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze;
si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di
compassione per quell'angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte
umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente),
ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa
immaginarsi.
(Fir.
30. Giu. 1828.)
DANSKE
FOLKEEVENTYR. Contes populaires des Danois; recueillis per M. Winther. 1re
part.; Copenhague; 1823. Récemment M. Thiele a publié 2 volumes de traditions
et croyances populaires des Danois. Le recueil de M. Winther est à peu
près du même genre. L'auteur a recueilli les contes qui amusent le
paysan pendant les longues soirées d'hiver; il est assez remarquable que les
Danois se soient appropriés de bonne heure les contes et [4312]fables
des anciens, en transportant la scène sur leur territoire; c'est ainsi
que le héros du conte d'Apulée, l'Âne d'or, est devenu un bondekard,
ou jeune paysan danois, sous le nom de Hans: le principal personnage de la
fable d'Amour et Psyché s'est transformé en prince Hvidbjaern (ae) dans lequel
les Grecs auraient de la peine à reconnaître leur Amour. Les contes des
Fées qui, dans l'ouvrage de Perrault, ont presque tous un caractère
français, deviennent également danois sur les bords de la Baltique: Cendrillon
est transformée en Kokketoes (oe), etc. D-G. (Depping). Bulletin
Universel des sciences et de l'industrie, publié sous la direction de M. le B.on
de Férussac. 7me Section. Bulletin des sciences historiques, antiquités,
philologie. 1re année; 1824; Avril. tome 1r article 241.
p.209-10.
(Firenze. 23. Luglio. 1828.)
M.
Bredsdorff (Om Rune skriften oprindelse. i.e. Sur l'origine des
caractères runiques; par Jacq. Hornemann
Bredsdorff. In-4. 19 pag. Copenhague 1822.) pense
que l'alphabet runique est dérivé de l'alphabet moesogothique (oe), dont on
attribue l'invention à l'evêque Ulphilas, qui s'en servit pour
écrire sa traduction du Nouveau-Testament, au 4e siècle.
Bulletin de Férussac, lieu cité ci-dessus, art.243. 244.
p.211.
(23. Luglio. 1828.). V. p.4362.
De
invidia, diis ab Herodoto et aequalibus attributa, pauca commentatus est P.
M”ller. 31. p. In-4. Copenhague. Bulletin de Férussac, l.c. art.279. p.240.
(24. Luglio. 1828.)
Da applicarsi alle mie riflessioni sopra
Omero e l'epopea. [4313]Avant de passer aux ouvrages d'Homère, l'auteur
(Ideen über Homer, etc. Idées sur Homère et sur son époque; par C. E.
Schubarth. In-8° de 364 pag.; Breslau; 1821.) dépeint (p.108-134.) le
caractère et les moeurs des deux nations qui combattent devant Troie. Il
résulte de ce parallèle que les Grecs ont tous les vices des peuples sauvages;
ils cédent a toutes les impulsions; la violence, l'indiscipline, les terreurs
superstitieuses règnent dans leur camp. Ce n'est pas parmi eux, c'est
chez les Troyens, que l'on trouve l'ordre, l'union, l'amour de la patrie, et
ces sentimens généreux, qui font croire à une civilisation naissante, ou
même déjà avancée. C'est sous ce point de vue, qui est conforme
à ce que nous lisons dans Homère, que M. Schubarth envisage
l'Odyssée et l'Iliade. Dans l'Iliade, Homère a chanté une guerre qui
doit se terminer par la destruction de Troie, mais dont l'auteur laisse
à peine entrevoir l'issue funeste placée avec art dans une perspective
vague et lointaine. L'Odyssée retrace les suites malheureuses de cetre lutte.
Les Troyens sont pour le lecteur l'objet d'une tendre pitié et de ce sentiment
d'admiration, que font naître les actions nobles et généreuses, le patriotisme
et le dévouement; toutefois ils doivent succomber après dix ans d'une défense
héroïque, car ils sont inférieurs en nombre, et le Destin leur est
contraire. Par opposition à certe peinture, Homère nous montre
les Grecs animés d'un esprit de vengeance, vains, présomptueux, en proie
à la discorde, toujours prêts à abuser de leur force. Le
sort veut la ruine de Troie, et les Troyens supportent avec résignation ce
malheur, [4314]qu'ils n'ont pas mérité, mais que les dieux leur
envoient; tandis que les Grecs ne doivent qu'à eux-mêmes, à
leur propres fautes, aux vices grossiers auxquels ils s'abandonnent, les justes
punitions que ces mêmes dieux leur infligent.
C'est
par des inductions semblable que M. Schubarth (p.139-238.), s'ecartant de
l'opinion reçue, essaie de démontrer que l'auteur des deux épopées grecques est
né sur le sol de Troie (cioè dov'era stata Troia). Il faut convenir,
en effet, que le poëte (car M. Schubarth n'admet pas avec Wolf que l'Iliade et
l'Odyssée soient des productions dues à plusieurs rhapsodes), s'il
eût été Ionien, aurait choisi pour la première de ses épopées un
sujet bien étrange, bien peu propre à flatter les Grecs, auxquels il
n'accorde d'autres avantages que ceux qui naissent de la supériorité des forces
physiques. Tant que dure la guerre, la discorde les divise, et ils ne déploient
d'autre vertu que leur courage; mais ce courage est sauvage et vindicatif.
Sortis enfin victorieux de la lutte, c'est par de nouveaux désordres et de
sanglantes querelles qu'ils signalent ce retour à la paix.
Il est
très-remarquable que le poëte ait interrompu son chant au moment
même où il n'aurait pu éviter de parler de la prise de la ville,
et de tracer le tableau de sa destruction. Est-il vraisemblable qu'il se
fût arrêté si brusquement, et eût négligé de célébrer un
événement favorable aux Grecs, s'il s'avait eu à coeur de faire [4315]oublier
aux Troyens, ses compatriotes, l'instant malheureux de leur chute?[277] On
voit partout, dans l'Odyssée comme dans l'Iliade, que le poëte porte de l'affection
aux Troyens. Énée, roi futur de Troie, ce héros favorisé des dieux, est sauvé
par Neptune, le plus puissant dieu des Grecs. Leur plus dangereux ennemi,
Hector, est peint sous des couleurs toujours favorables. Hector a le sentiment
de la justice de sa cause; il n'est pas même soutenu par l'espoir du succès;
mais il est pénétré de ses devoirs envers la patrie; il s'arrache aux
affections les plus tendres, et s'immole sans hésiter. Sa mort est une
expiation volontaire d'un seul instant d'oubli, d'une faute qui n'est pas la
sienne. Mais les dieux, qui l'ont mal récompensé pendant sa vie, viennent
eux-mêmes assister à ses funérailles, tandis qu'Achille vainqueur
est tourmenté du pressentiment et des angoisses d'une mort prochaine.
Les
bornes de ce journal ne nous permettent pas de donner plus d'étendue à
cette analyse. Nous ne pouvons qu'engager nos lecteurs à lire dans
l'ouvrage même ce que dit M. Schubarth pour appuyer une hypothèse
qui nous paraît admissible, et qu'il développe avec un talent remarquable. (Cavato e
tradotto dall'Jena. allg. Lit. Zeit. Gazzetta letteraria di Iena,
Settemb. 1823.). Bulletin de Férussac, ec.
loc. sup. cit. Juillet. tome 2.
art.54. p.45-47.
Dalle mie riflessioni sopra Omero ec. si
vede quanto male dai costumi [4316]fieri e selvaggi, dallo spirito di
vendetta, dai vantaggi puramente fisici attribuiti da Omero ai Greci, e dalla
compassione attaccata alla sorte dei Troiani, si arguisca che l'Iliade e
l'Odissea furono composti in ispirito troiano e non greco, e quindi apparentemente
per li Troiani, o nati sul suolo troiano, e non per li Greci di Jonia. Anzi si
vede che appunto da queste cose medesime si dee concludere il contrario.
(24 6. Lug. 1828.). V. p.4447.
Da applicarsi pure alle mie riflessioni
sopra Omero e l'epopea. Homerische Vorschule,
etc. Introduction à l'étude de
l'Iliade et de l'Odyssée; par W. Müller. 192. p.
in 8. Leipzig; 1824. Élève du
philologue Wolf, M. Müller annonce dans la préface qu'il est intimement
persuadé de la vérité et de la solidité des opinions développées par son maître
dans ses fameux Prolégomènes de l'Iliade, et qu'ayant médité sur
ce sujet après avoir suivi les cours de Wolf, il croit devoir présenter
une suite de considérations que cette matière lui a suggérées. Il
avertit, en passant, le public de se mettre en garde contre les
hypothèses trop hasardées que quelques savans cherchent à faire
accréditer; il rappelle notamment les opinions de Payne Knight, savant anglais,
mort récemment, et de Bernard Thiersch, qui n'est pas l'auteur de la Grammaire
grecque publiée par M. Thiersch à Munich. M. Müller s'étonne que la
nouvelle société littéraire de Londres ait couronné récemment un mémoire dans
lequel on fait d'Homère le copiste de Moïse. (Dissertation on the age of Homer, his writings
and bis genius. Londres; 1823.).
[4317]Pour bien comprendre la
manière dont l'Iliade et l'Odyssée ont été composées, il faut se
pénétrer de l'esprit et des moeurs du peuple ionien. Ces colons grecs, amis des
arts et de la poésie, avaient l'esprit vif et mobile, et s'interessaient avec
la candeur de l'enfance aux événemens. Un poëte était chez eux le compagnon constant
de tous les plaisirs. Partout où l'on se rassemblait, dans les banquets
comme dans les assemblées publiques, la lyre du poëte faisait partie des réjouissances.
Le poëte, ainsi que le ménestrel au moyen âge, exerçait un état généralement
honoré, et était accueilli avec hospitalité partout où il faisait résonner
sa lyre. Il ne chantait sans doute que ses inspirations particulières, qui
souvent étaient des improvisations. (I menestrelli cantavano ben cose d'altri, e
non solo d'altri, ma scritte espressamente dai dotti del tempo, in versi, per
esser cantati o recitati da quelli. V. l'articolo del Perticari sopra il
poemetto della Passione di Cristo attribuito al Boccaccio.) Ces morceaux n'étaient probablement pas très-longs,
car dans les usages anciens nous ne voyons jamais les chants du poëte que comme
des intermèdes. (Quando il poeta o il cantore cantava nelle
piazze ec. in mezzo al popolo, come s'usa anche oggi, come a Napoli un del
volgo legge alla plebe il Furioso o il Ricciardetto ec. e lo spiega in
napoletano; allora i canti non erano intermezzi, erano come furon poi gli
spettacoli ed acroamata.)[278] La guerre de Troie, qui, sous tous les rapports, était
un sujet propre à la poésie, était à peine finie, que dans les
villes d'Ionie la lyre accompagnait déjà les vers composés sur cet événement
[4318]national. Homère se distinguait parmi eux; mais il est
évident qu'avant ce poëte l'usage des chants lyriques sur les événements
publiques existait, et qu'il n'a point été le premier chantre national. (Femio,
Demodoco ec.) Le rhythme de sa poésie
prouve que ses vers étaient chantés et accompagnés de la lyre, peut-être
aussi de la danse, du moins de mouvemens rhythmiques. (Il nome
di ¦, di epico, di epopea, di ¤ò applicato con particolarità ai
versi, poemi, e poeti narrativi, prova, secondo me, sì per la sua etimologia,
o senso primitivo, di parola (¦), dire (¦à) ec., sì per la distinzione da ¡òò ec. che le poesie narrative non avevano alcuna
melodia, non erano cantate ma recitate, o al più cantate a recitativo,
come poi i versi non lirici de' drammi, e come si canterebbero i nostri endecasillabi
sciolti. Il verso epico (quasi parlativo) era la prosa di que'
tempi, ne' quali non si componeva se non in versi. Omero, dice assai bene il
Courier, nella pref. al Saggio di traduz. di Erodoto, fu uno storico, a que'
tempi che le storie non si solevano nè sapevano ancora narrare in prosa.
Non credo dunque ben dette liriche le sue poesie, sebben forse accompagnate
da qualche strumento, come i recitativi de' drammi. V. p.4328. capoverso 1. e
p.4390. fin.).
Il est
ridicule de chercher dans les poësies homériques de savantes allégories et un
sens profond: les poëtes ioniens rendaient naturellement les impressions faites
sur leur imagination par les actions des héros, et ne se livraient point
à des combinaisons étudiées; c'est la vie publique et
particulière de leur temps qu'ils nous retracent et rien de plus. Ils
n'écrivaient point, ils chantaient, et leurs inspirations [4319]se
transmettaient par la tradition comme chez des peuples modernes à moitié
barbares. (Le conseiller aulique Thiersch a lu ensuite (à la séance publique
de la classe de philologie et d'histoire, de l'Académie des sciences de Munich,
le 14 août, 1824.) un mémoire sur les poésies épiques transmises de
bouche en bouche par le peuple. Ce qui a donné lieu à ce mémoire, c'est
un écrit du professeur Vater à Halle, sur les longues poésies
héroïques serviennes récemment publiées, et comparées à celles
d'Homère et d'Ossian. Bull. de Férussac etc. Novemb. 1824. t.2. art.302. p.321.) (V. p.4336. fine.)
On a
voulu voir un art savant dans les divers dialectes qui se trouvent dans Homère.
Ce prétendu mélange des dialectes n'est point l'ouvrage du chantre: de son
temps les Ioniens parlaient ainsi, et ce n'est que plus tard que la langue
grecque se modifia, et que diverses provinces telles que l'Éolie, l'Ionie et la
Doride conservèrent des restes de l'ancien idiome, restes qui alors
furent considérés comme autant de dialectes divers.
Il
paraît qu' Homère a vécu au 2e siècle après la
destruction de Troie. L'éclat de son génie a fait oublier les noms des autres
poëtes qui chantaient comme lui les hauts-faits des Grecs. Mais sans doute il a
chanté comme eux des chants lyriques détachés, et il n'a probablement jamais
songé à composer un poëme épique, et encore moins à en écrire un.
De là ce qu'on dit de sa cécité et de son indigence, il aura passé dans
la suite pour aveugle parce qu'il n'avait rien écrit; il aura passé pour
indigent parce qu'il allait d'une ville a l'autre. Après sa mort, la
réputation de ses chants alla toujours en [4320]croissant; les poëtes,
perdant d'ailleurs le génie inventif, chantèrent les poésies
d'Homère; il y eut alors des homérides. Pour flatter la vanité des
villes dans lesquelles ils chantaient, ils intercalaient dans ces vers de leur
prédécesseur, des éloges de villes et de peuples. On prétend que Lycurgue fut
le premier qui fit rassembler et rédiger les poésies d'Homère. Mais ce législateur
qui ne fit pas écrire ses propres lois, comment se serait-il occupé à
faire écrire des vers dans Sparte ville pauvre et grossière? Solon régla
l'ordre dans lequel les chantres dans les fêtes publiques (in queste,
tali poésie non erano, apparemment, intermezzi, tanto più se si
cantavano in ordine) devaient chanter les diverses poésies homériques,
et Pisistrate les fit diviser ensuite en deux grands poëmes, l'Iliade et l'Odyssée.
Aristarque les subdivisa en 24 livres d'après le nombre des lettres de
l'alphabet grec. Alors se présenta une classe d'hommes, les diaskeuastes, espèce
de censeurs ou de critiques qui cherchèrent à mettre de
l'harmonie et de l'accord dans ces chants ainsi réunis et coordonnés; ils
lièrent des parties détachées, levèrent des contradictions,
supprimèrent des vers, des passages interpolés, etc. Mais ce travail ne
fut pas fait avec assez d'art pour qu'on ne découvre des traces de leurs
soudures; et leur jugement ne fut pas toujours assez sain pour qu'ils sussent
distinguer ce qui appartenait à Homère d'avec les interpolations
de ses successeurs. À l'exemple de Wolf, M. Müller signale plusieurs passages
qui paraissent prouver que l'Iliade et l'Odyssée [4321]n'avaient point
cette unité que ces poëmes presentent aujourd'hui, et qu'ils n'étaient dans
l'origine que des chants lyriques détachés. Cependant Aristote ne les considéra
que sous la forme qu'on leur avait donnée à Athènes, et célébra
Homère comme poëte épique. Depuis, on ne vit plus dans l'Iliade et l'Odyssée
que deux poëmes épiques. Assurément il règne une sorte d'unité dans
chacun de ces deux poëmes; mais c'est la même qu'on trouve, par exemple,
dans les romances espagnoles sur le Cid, lorsqu'on les lit de suite. Dans
l'Odyssée on pourrait enlever les 4 premiers chants et la moitié du 15e
sans nullement faire tort à la marche de l'action; c'est que le poëte ne
les vivait jamais reunis et n'avait jamais pensé faire un grand poëme. D'un
autre côté l'Iliade et l'Odyssée ont des lacunes que les diaskeuastes n'ont pas
été capables de cacher. Dans l'Iliade le 1er et le 5e
chants commencent par les mêmes récits: dans le 5e les
événemens sont racontés comme si le poëte n'en avait jamais parlé. Les débuts
des deux poëmes paraissent avoir été ajoutés par les diaskeuastes. Suivant
l'usage de l'ancien temps, les homérides faisaient précéder leurs chants d'une
invocation religieuse. Ce sont-là les prétendus hymnes homériques qui
n'ont de commun avec le grand poëte que d'avoir été chantés pour le début de
ses morceaux liriques. D. G. (Depping.) Bulletin de Férussac, loc. cit. alla p.4312. Octobre, 1824. tome 2. art.239. p.231-234.
In questa ipotesi, che è quasi una
transazione coll'opinion comune, poichè riconosce l'esistenza di Omero,
ed ammette in qualche modo [4322]l'unità di autore dell'Iliade e
dell'Odissea, a differenza di Wolf che attribuisce quei poemi a vari autori, e
di B. Constant, che li attribuisce a due; io ammetto assai volentieri che
Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico,
nè anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di
fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che
formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque
circoscritta e determinata unità. Credo che incominciasse le sue narrazioni
dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le
terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno
scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, nè di aver
esaurita la materia o de' fatti, o del suo piano, che nessuno egli n'ebbe.
Aggiungo che credo ancora che i suoi versi
fossero ritmici, non metrici, fatti cioè ad un certo suono, non ad una
regolata e costante misura; alla quale (mediante però l'ammissione di
quelle loro infinite irregolarità ed anomalie, che furono chiamate e si
chiamano eccezioni, licenze, ed ancora regole) fossero ridotti in séguito dai
diascheuasti ec. Così è probabile che originalmente e
nell'intenzione dell'autore fossero ritmici i versi di Dante, ridotti poi per
lo più metrici nello stesso secolo, 14°. E così, come ha provato
un loro dotto editore, il Dott. Nott, che mi ha eruditamente parlato di questa
materia, furono puramente ritmici i versi dell'inglese Chaucer. Lo furono
ancora certamente quelli de' più antichi verseggiatori nostri,
provenzali, spagnuoli, francesi. V. p.4334.4362.
[4323]Ma quello in cui la mia
ragione non può trovare una probabilità, non solo nel caso di
Omero, ma nè anche in quelli di Ossian e di qualunque altro si possa addurre
in proposito, è che dei canti, certo in ogni modo assai lunghi, improvvisati
p.e. a un convito o ad una festa pubblica, in mezzo a gente ubbriaca o dal vino
o dalla gioia ec., da un poeta, forse ancor esso é ®in quel
momento, e ciò in un secolo privo di stenografi e di tachigrafi; dei
canti che, secondo ogni verisimiglianza, dovevano esser dimenticati dal poeta
stesso un momento dopo, anzi di mano in mano che li proferiva; si sieno, non
solo quanto al soggetto, ma quanto alle parole, conservati nella memoria
semplice degli ascoltanti in maniera, che trasmessi poi fedelmente di bocca in
bocca per più secoli, distinti ben bene ne' loro versi (ritmici o
metrici poco vale), ora dopo 30 secoli si leggano begli e stampati in milioni
d'esemplari, che li conserveranno ai futuri secoli in perpetuo. Apparentemente
il Müller, che pone Omero nel secondo secolo dalla guerra troiana, (v. p.4330.
capoverso 3.) non riconosce nelle cose e nelle parole dell'Iliade e
dell'Odissea, quei segni di avanzatissima civiltà e letteratura ionica o
greca, che a tanti altri (come ultimamente a G. Capponi) sono sembrati
così evidentissimi, certissimi ed innumerabili. Altrimenti come si
potrebbe credere che quei poemi, da Omero o da altri, non fossero scritti
subito? che l'uso della scrittura fosse ignoto o sì scarso in una
letteratura e civiltà innoltratissima? come supporre sopra tutto una
fiorente letteratura non scritta?
Ma se il Müller vuol persuadermi che i poemi
d'Omero non [4324]fossero scritti (al che non farò resistenza,
tanto più che è conforme alla tradizione ricevuta fra gli antichi
stessi, a quel che si dice di Licurgo ec.), mi trovi qualche altro mezzo
probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli
d'inspirazioni e d'improvvisazioni; mi dica almeno che Omero prima di cantare i
suoi versi, li componeva; che li cantava poi più e più
volte (a diversi uditorii, o in varie occasioni), colle stesse parole, e quali
gli aveva composti e cantati; che gl'insegnava ad altre persone, fossero del
volgo, o fossero cantori e genti del mestiere, che solessero impararne da
altri, non sapendo farne del loro, e col cantarli si guadagnassero il vitto.
Allora, considerata anche la superiorità della memoria avanti l'uso
della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e
confermata dall'esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la
conservazione di canti non scritti, sieno d'Omero o de' Bardi ec.
Ma posto che Omero componesse veramente e
meditatamente i suoi canti, in modo da ricordarsene esso poi sempre, e da
insegnarli altrui, allora, esclusa anche ogn'idea di piano, non sarà poi
fuor di luogo il supporre tra questi canti una certa tal qual relazione; il
pensare che Omero nel compor gli uni, si ricordasse degli altri che aveva composti,
e intendesse di continuarli, o vogliamo dire, di continuare la narrazione,
senza (torno a dire) tendere perciò ad una meta. Anzi questa
supposizione è più che naturale, trattandosi di canti che hanno
un argomento comune: è certo che Omero nel compor gli uni di mano in
mano, si ricordava de' precedenti. E non è egli verisimile che li
cantasse sovente tutti ad uno [4325]stesso uditorio, oggi un canto,
domani un altro? che l'uditorio s'invogliasse di ascoltar domani la
continuazione della storia d'oggi? (ricordiamoci che allora non v'erano altre
storie che in versi) che Omero nel cantare i suoi diversi componimenti seguisse
un ordine, quello de' fatti? (sia il medesimo o altro da quello che si trova
oggi ne' suoi poemi) che seguisse anche quest'ordine nel comporli, cioè,
che dopo aver cominciato dove il caso volle, andasse avanti immaginando e narrando,
soggiungendo oggi al racconto di ieri, senza (ripeto ancora) mirar mai ad
altro, che a tirare innanzi la narrazione?
Così sarà spiegata
plausibilmente quella tal quale unità, quanto si voglia larga, ma sempre
unità, che si trova ne' suoi poemi, e massime nell'Odissea, nella quale
bisogna pur convenire che è ben difficile il non riconoscere un legame
qualunque tra le parti, una continuità nel racconto, un insieme, ed
anche un principio e fine, nelle avventure romanzesche di quell'eroe. Ed
osservo di più, che nell'uno e nell'altro poema, ma più
nell'Iliade, moltissimi sono quei tratti di considerabile lunghezza, ai quali
non si potrebbe mai dare un titolo a parte, che non fosse frivolo; staccati dal
rimanente, non hanno nessuna ragionevole importanza, e riuscirebbero
noiosissimi; essi non possono interessare che dipendentemente dalla relazione e
connessione che hanno col resto del racconto, come accade ne' poemi scritti con
piano determinato; e in se stessi non offrono un argomento che potesse mai
parer degno d'esser cantato isolatamente. Questi tratti sono troppo numerosi,
troppo lunghi, e formano troppo gran parte [4326]de' due poemi,
perchè si possano credere interpolati appostatamente da' diascheuasti
per mettere de la liaison tra i canti di Omero.
Le ripetizioni, le cose inutili, le
contraddizioni, oltre che a niuno potrebbero far meraviglia in poemi fatti,
com'io dico, senza intenzione e senza piano, non annunziano che l'infanzia
dell'arte, e non possono parere obbiezioni valevoli, anzi appena obbiezioni, a
chi ha pratica e familiarità cogli scrittori antichi; dico assai meno
antichi, assai più artifiziosi e dotti che non fu Omero; dico non solo
poeti, ma prosatori. Quanto, e come spesso, debbono sudar gli eruditi
commentatori per conciliare e por d'accordo seco stesso p.e. qualche antico
storico, la cui opera fu certamente scritta, e con piano, e con materiali di
fatti scritti da altri, o conservati da tradizione! V. p.4330.
L'infanzia dell'arte in Omero, è
annunziata ancora p.e. dalla sterile soprabbondanza degli epiteti, usati fuor
di luogo, senza causa o proposito, e spessissimo, com'è noto, a
sproposito. Lo stesso per l'appunto fanno i fanciulli quando scrivono i loro
esercizi di rettorica: essi non sono mai semplici, anzi più lontani che
alcun altro dalla semplicità. Così la maniera di Omero ha una
certa naturalezza, ma non semplicità. Quella era effetto del tempo, non
dell'autore: i fanciulli non l'hanno, perchè hanno letto, hanno che
imitare, ed imitano. Ma la semplicità, come ho detto e sviluppato
altrove, è sempre effetto dell'arte; sempre opera dell'autore e non del
tempo. Chi scrive senz'arte, non è semplice. Omero anzi cercava
tutt'altro che il semplice, cercava l'ornato, e quella sua naturalezza che noi
sentiamo, fu contro sua voglia. I poeti greci posteriori hanno abbondanza di
epiteti per imitazione di Omero: i più antichi però ne hanno
meno, e più a proposito. V. p.4328. capoverso 2., e la pag.4350. fin.
[4327]Questa mia ipotesi, come si
vede, sarebbe una nuova transazione fra l'opinione di Wolf e di Müller, e la
comune. Secondo ambe le ipotesi, la mia e quella de' due tedeschi, Omero
sarebbe stato poeta epico senza volerlo; e sarebbe interessante e curioso il
notare il modo della nascita del genere epico, nascita che verrebbe ad essere
immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori
epici in che hanno speso la vita eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il
Tasso: non sarebbe questo il solo caso ridicolo che sarebbe stato originato
dalla inclinazione dell'uomo a imitare, ed a sottomettere a regole e a forme il
proprio genio. Del resto, ammessa la mia ipotesi, riman sempre luogo a qualche
degna lode dell'arte di Omero per l'effetto dell'insieme dell'Iliade, benchè
composta senza piano preliminare; l'effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni
sul poema epico. Ammessa però, in vece, l'ipotesi di Wolf o di Müller,
tutta la lode sarà dovuta al solo caso, e risulterà dalle
predette mie riflessioni che il caso è molto meglio riuscito nel formare
e ordinare un corpo di poema epico, che l'arte de' successori. E al caso si
attribuiranno quelle lodi che io ho date all'arte di Omero per l'insieme del
suo poema. Altra circostanza umiliante per lo spirito umano.
(Firenze. 26 31. Luglio. 1828.). V. p.4354. fine.
C'est
par Aristote que commencent les écrivains qui emploient ce qu'on appelle le
dialecte commun (®), et Démosthène lui-même n'est plus aussi
pur (così puro scrittore attico) que Xénophon et Platon. Bull. de
Féruss. loco cit. alla p.4312. Juillet, 1824. t.2. art.13. p.12. [4328]Sui
pretesi dialetti d'Omero, v. la p.4319. capoverso 1.
(Fir. 31. Lugl. 1828.)
Alla p.4318. Infatti Femio e Demodoco
nell'Odissea cantano i loro versi narrativi accompagnandosi colla lira. Del
resto queste mie osservazioni tendono a rivendicar come antica la differenza
ora e da gran tempo riconosciuta fra le poesie lodative, passionate ec. dette
liriche, meliche ec. e le narrative, dette epiche.
(31. Lug. 1828.)
Alla p.4326. La mancanza dell'arte
necessaria per ottenere il semplice, fu una delle cause che ritardarono nella
letteratura greca, già ricca di versi, la produzione di buone prose. Chi
non voleva scriver plebeo, chi non era affatto ignorante, sapeva scrivere
ornatamente (come sta bene in poesia), ma non (come vuolsi alla prosa)
pianamente. La lingua de' numi, dice il Courier (pref. al Sag. dell'Erodoto),
era benissimo posseduta, mentre la lingua degli uomini non si sapeva ancora
usare. I primi saggi di prosa greca, come quelli di Ecateo Milesio e di Ferecide,
peccano principalmente, come osserva esso Courier, per il poetico che hanno,
anche nella dizione. Lo stile riusciva gonfio, non se ne sapevano guardare: in
poesia si trovavan più a loro agio, perchè quivi non era
gonfiezza quel che lo era nella prosa. Anche Erodoto, a ben guardarlo, ha del
poetico e del gonfio in mezzo alla naturalezza propria del tempo. Così
noi avevamo Dante, e nessuna prosa di conto fino al Boccaccio. Le migliori
erano le più plebee, scritte da' più ignoranti, senza
pretensione, senza neppure intenzione (per dir così), di scrivere. Ma i
prosatori che volevano scrivere, riuscivano stranamente gonfi (in mezzo alla
naturalezza effetto del tempo e della pochissima lettura), come Dino Compagni,
similissimi per la meschina gonfiezza e declamazione, ai fanciulli di
rettorica.
(31. Lug. 1828.)
[4329]Se un buon libro non fa
fortuna, il vero mezzo è di dire che l'ha fatta; parlarne come di un
libro famoso, noto all'Italia ec. Queste cose diventano vere a forza di
affermarle. Molti che l'affermino e lo ripetano, lo rendono vero senz'alcun
dubbio. Se, per qualunque ragione, questo mezzo non si può usare, il
miglior partito è di tacere, dissimulare, e aspettare se il tempo
facesse qualche cosa. Ma niente di peggio che de se fâcher avec le public,
gridare all'ingiustizia, al cattivo gusto de' contemporanei, perchè non
fanno caso del libro. Siano giustissime queste querele, sia classico il libro;
dal momento che il suo cattivo esito è confessato e pubblicato, la
miglior sorte che gli possa toccare è di essere riguardato come quei
pretendenti che, privi di baionette, non hanno per se che i diritti e la legittimità.
(Firenze. 10. Agosto. 1828. S. Lorenzo.)
Alfabeti. Ortografia. Difficoltà ed
imperfezioni della scrittura de' dialetti p. es. italiani, abbondanti di suoni
mancanti all'alfabeto nazionale scritto ec. Arbitrario dell'applicazione dei
segni di questo alfabeto ai detti suoni: due persone che si ponessero a scrivere
uno stesso dialetto senza saper l'uno dell'altro, nè seguire un metodo
già ricevuto, si può scommettere che non iscriverebbero una
parola sola nello stesso modo. La più parte dei nostri dialetti hanno un
alfabeto di suoni più ricco assai del comune.
(Fir. 10. Agos. 1828.)
In letteratura, tutto quello che porta
scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza.
Verità fecondissima, e ricchissima di applicazioni, che occorrono ad
ogni ora.
(Fir. 10. Agos. 1828.)
[4330]Alla p.4326. e il cui soggetto
fu il vero, e non in gran parte il finto, come in Omero e ne' poeti.
(10. Agos. 1828.)
Dalle mie osservazioni su quel passo di
Agatarchide comparato alla storiella di Muzio Scevola, si può dedurre
che una delle principali fonti del favoloso trovato, massimamente dal Niebuhr,
nella storia romana de' primi tempi, sia l'avere i primi storici romani
(seguiti poi dagli altri) copiato nella narrazione delle origini e de' tempi oscuri
di Roma, le storie o le favole de' Greci, mutando i nomi. Così hanno
fatto i primi storici di quasi tutte le nazioni, anche più recentemente,
e ne' bassi tempi ec. fra' quali è insigne esempio quel Saxo nella Historia
Danica.
(10. Agos.)
Alla p.4323. La presa di Troia, secondo i
marmi di Paro, la cui cronologia è ora la più, anzi la
generalmente seguìta, si pone nell'anno 108 avanti l'era Cristiana.
Bull. de Féruss. ec. loc. cit. alla p.4312. tom.3. art.235. p.275. fin.
(10. Agos. 1828.). V. p.4378.
Tutti dicono che la buona gente è
rara assai. Questo in generale. Ma quando si viene al particolare, niente di
più comune che il sentirsi dire di una famiglia: è buona gente,
di un individuo: è un buon uomo, un buonissim'uomo. Rare volte il
contrario: non sarà appena come uno a dieci. E nella pratica, io ho
trovato buona gente da per tutto, anche per convivere: tanto che ora, di
niente sono meno in pena che di trovar buona gente quella con cui debbo o
dovrò avere a fare. Io credo che la bontà negli uomini sia men [4331]rara
assai che non si crede: anzi, che abitualmente quasi tutti sieno buona gente. E
credo che per trovar buona gente da per tutto, e senz'altri esami, non bisogni
altro che esser buon uomo esso, ed aver buone maniere.
(10. Agos. 1828. dì di S. Lorenzo.
Firenze.). V. p.4333.
Esse erano ancora in età ben
giovanile, ma l'amore era scancellato dal loro volto; si vedeva che la
gioventù n'era sparita per sempre. (M.lles Busdraghi).
(10.
Agos. 1828.)
Sur
l'idiome moldave; extrait d'un manuscrit de M. le C.te d'Hauterive (Wilkinson,
Tableau de la Moldavie et de la Valachie; traduit par M. de La Roquette, 2e
édit., appendix, n.9.) Cette langue, rude et grossière, est évidemment
d'origine romaine; mais à ce sujet l'auteur établit une hypothèse
particulière. Il suppose qu'il existait d'abord à Rome une langue
populaire qui avait des articles, des verbes auxiliaires et toutes les formes
embarrassantes qui, selon l'auteur, annoncent l'enfance de la civilisation.
Pendant que les orateurs et les écrivains créèrent la langue classique,
remarquable par sa précision et son élégance, la langue du peuple se propagea
dans les provinces de l'empire et s'y modifia dans la suite d'après le
génie, ou les relations des habitans. Ainsi, selon le comte d'Hauterive, le
français, l'italien, l'espagnol, le moldave, ne sont pas dérivés de la langue de
Cicéron et d'Auguste: ces idiomes ont une origine plus ancienne; ils viennent
d'une langue antérieure, celle des premiers habitans de Rome. Le moldave
surtout lui paraît être un reste de ce langage grossier. À l'appui
de cette hypothèse l'auteur donne 6 tableaux, [4332]dont les deux
premiers font connaître les temps des verbes auxiliaires être et avoir,
en français et en moldave. On y voit que le moldave a des temps composés comme
le français. Le troisième tableau comprend le verbe moldave iou laud,
je loue. Le quatrième tableau tend à prouver que les 4 langues
romaines vivantes, c'est-à dire le français, l'italien, l'espagnol
et le moldave ont plus de rapport l'une avec l'autre qu'avec le latin. Il
semble pourtant que ces exemples ne sont pas tous bien choisis; par exemple, le
mot moldave zoon est aussi éloigné du mot français jour que du
latin, et le mot moldave pugn ressemble encore plus au latin pugnus
qu'au français poing. Dans le cinquième tableau l'auteur a
rassemblé des mots communs aux quatre langues modernes, et qui, bien que romains,
ne s'accordent pas avec le latin classique: par exemple ignis, se rend
dans les quatre langues par feu, fuoco, fuego et fuoc; ensis
par sabre (il fallait dire epée), sciabla, espada, sabbia;
humerus par épaule, spale (sic), espala (sic), espal.
Ces exemples ne prouvent pourtant pas que les 4 langues aient puisé dans un
idiome plus ancien que le latin classique, car les mots cités par l'auteur
peuvent tout aussi bien dater du temps de la décadence de l'empire et de la langue
latine; ainsi feu, fuoco, fuego et fuoc sont du temps de la basse
latinité, lorsque les mots anciens étaient déjà détournés en partie de
leur véritable acception, et lorsque le mot de foyer (focus), qui
désignait d'abord le lieu du feu, fut employé par les barbares pour exprimer le
feu même. Enfin, dans le dernier tableau, l'auteur a voulu rassembler des
mots [4333]communs au latin et moldave, et manquant aux trois autres
langues, afin de prouver que le moldave ne dérive pas des langues modernes. Parmi
ces exemples se trouvent verbum, verbe; magis, moi (sic). Cependant
verbe et mais (autrefois dans le sens de magis) sont aussi
français. Ces exemples ne peuvent donc servir de preuve. D-G. (Depping.) Bull. de Féruss. loc. cit. alla p.4312. Févr. 1825. t.3. art.152. p.118-9.
(10-11. Agos. 1828.)
Alla p.4331. E credo che i cattivi
sieno assai più rari che i buoni uomini, purchè non si
chiamino cattivi (come si fa sempre) quelli che trattano male noi perchè
noi trattiamo male o indiscretamente loro; perchè non vogliamo, o non sappiamo
(cosa frequentissima), trattarli bene.
La salute è considerata generalmente
dalla società come il minimo de' beni umani, se pur ne è fatto
conto in modo veruno. Fra le mille prove (e non parlo qui d'individui, ma di
corporazioni), osservate che non troverete mai un luogo, una città che
sia cominciata ad abitarsi, che cresca giornalmente di popolazione, per
rispetto della salubrità del sito, e neanche della clemenza dell'aria.
Opportunità di commercio, vicinanza di mare, centralità, presenza
della corte, mille cose fanno e che si scelga a principio un luogo per
popolarlo, per fondarvi una città, e che una città cresca via via
d'abitanti: ma la salubrità non mai. Non v'è città che
debba la sua nascita a questa causa, nessuna che le debba il suo accrescimento.
Troverete spesso un [4334]sito saluberrimo, con aria comodissima,
affatto deserto, in vicinanza d'una o di più città, pessimamente
situate e popolatissime. Tra Livorno e Firenze (di scellerata situazione)
vedete un sito che par quasi miracolosamente favorito dalla natura; ci trovate
anche una città, che è Pisa; una città che fu anche
popolatissima. Livorno pel suo mare, Firenze per cento altri vantaggi, si
accrescono ogni giorno prodigiosamente di popolo; e sulle loro porte, Pisa, da
che ha perduto la sua potenza, il commercio, i vantaggi estranei alla salubrità,
si spopola, divien sensibilmente deserta ogni giorno più.
(Firenze. 11. Agos. 1828.)
Alla p.4322. fin. Io per me sono persuaso
che questo sia il vero e solo modo di render ragione delle irregolarità
di misura che malgrado tutte le regole e sopraregole ed eccezioni
arbitrariamente stabilite dagli antichi e dai moderni grammatici, malgrado
tutti i sistemi, come quello del digamma eolico ec., si trovano sempre ne'
versi omerici. - Richard Bentley est le premier qui, s'étant aperçu de quelques
irrégularités dans la mesure des vers d'Homère, supposa que ces irrégularités
ne provenaient que de ce qu'on avait négligé le Digamma, dont sans doute
la prononciation était tombée en désuétude quand on copia pour la
première fois l'Iliade et l'Odyssée. Du Digamma dans les Poésies homériques. (Extrait d'un Nouveau
Commentaire sur Homère); par M. Dugas-Montbel. Bull. de Féruss. loc.
cit. Janv. 1825. art.7. p.9. - Le fait est que, malgré l'adoption du Digamma,
on ne résout pas toutes les difficultés, et que M. Knight lui-même (Payne
Knight, il quale nel 1820 pubblicò in Inghilterra un'edizione intera [4335]dell'Iliade
e dell'Odissea col digamma, et avec une orthographe particulière qu'il
suppose avoir été dans le principe celle d'Homère; dopo che Upton e
Salter avevano dato degli specimen di edizioni d'Omero col digamma, e
che Heyne già nel suo Omero del 1802, au bas de son texte, où
il suit l'orthographe ordinaire, aveva placé les mots avec le Digamma,
in cui favore egli si è dichiarato) a laissé subsister des passages qui
blessent son système (cioè, come si spiega in una nota, de' passi
dove una sillaba che dovrebb'esser breve, diventa lunga pel digamma;°îùFÛ ec.), tant il est
difficile de rétablir la véritable orthographe sur de simples conjectures, et
dans la privation absolue de tout monument écrit. Certainement quelque
système qu'on adopte, il n'en est point qui ne présente des objections,
parce que dans ces premiers âges de la poésie, où les lois de la
prononciation n'étaient point encore soumises au frein de l'écriture qui les
rend plus invariables, il devait y avoir une foule d'anomalies qu'on ne pouvait
expliquer que par l'usage, plus fort que le raisonnement, et même que les
règles de l'analogie; parce qu'enfin sous Pisistrate, quand on
transcrivit pour la première fois les vers d'Homère, la
prononciation avait déjà subi des altérations notables qu'il est impossible
de déterminer précisément aujourd'hui. Ibidem, p.13. - Ora con una pronunzia varia,
incerta, e non ancora fissata, come supporre, come trovar possibile una misura
di versi esatta e costante? - Payne Knight era morto già prima del 1824,
o in quell'anno.
(12. Agos. 1828.)
[4336]Sopra il digamma eolico, si
trovano delle curiose e non inutili notizie nella breve Memoria di
Dugas-Montbel citata nel pensiero precedente. Egli crede che le Digamma devait tenir de la prononciation du V
consonne et de l'U voyelle des latins que nous prononçons ou... Si l'on
observe que dans le midi de la France il n'est pas rare qu'on prononce le
monosyllabe oui en faisant légèrement sentir le son du V (voui),
peut-être aurait-on quelque chose d'analogue à la prononciation du
Digamma. (Viceversa in Toscana spessissimo si sopprime il v,
o si cambia in un'aspirazione: pióe o piohe per piove, doe
per dove, ec. ec., e questo lo trovo anche scritto ne' rusticali ec. V.
p.4365.) M. Dawes (gran partigiano del digamma ap. Omero; erudito inglese) veut que le Digamma se prononce et
s'écrive comme le W anglais (Dawesii Miscellan. §.4. p.190. et seqq. édit. de
1817.) Je ne crois pas que certe forme ait jamais été connue de l'antiquité,
cette lettre est toute du nord. Quant à la prononciation elle rentre
à peu près dans celle que j'ai indiquée. p.13-14.
(12. Agos.)
Altra difficoltà enorme
dell'invenzione della scrittura alfabetica: l'infinita varietà ed
incertezza della pronunzia orale di qualunque lingua e parola: infinita sempre,
ma più che mai avanti l'invenzione della scrittura alfabetica. La pronunzia
non riceve qualche fissità se non dalla scrittura alfabetica, e
viceversa l'invenzione di questa non par possibile senza una pronunzia
già fissata. V. la p. qui dietro.
(12. Agos.)
Alla p.4319. Chants populaires des peuples grecs. À l'occasion de l'annonce des
chants populaires de la Grèce moderne, par M. Fauriel, les Annales
littéraires de Vienne, t.26, font observer que ce recueil [4337]peut
faire suite à un recueil semblable de chants serviens, publié récemment
par Wuk Stephanowitsch; mais qu'il reste encore à recueillir les chants
populaires de trois peuples, pour que l'on possède toute la poésie
populaire de la nation grecque. Ces trois peuples sont: les Albanais, les
Valaques et les Bulgares. Les Albanais, qui paraissent descendre des anciens Illyriens,
doivent avoir beaucoup de chants. Il doit en être de même des
Valaques de Macédoine. Quant aux Bulgares, Wuk assure positivement qu'ils ne
cédent aux Serviens ni en poésies lyriques, ni en chants épiques.
D'après le même auteur la langue bulgare forme une sorte de langue
romane parmi les langues des 5 peuples grecs: ce que le latin a été pour les peuples
d'Italie et de France, le Slave l'est encore pour les Bulgares. D-G. (Depping.) Bull. de Féruss. l.c. Janvier 1825. t.3. art. II. p.16-17. - Kleine serbische Grammatik. Petite grammaire servienne par
Wuk Stephanowitsch, trad. en allem. avec une préface de J. Grimm, et des
observations sur les chants héroïques des Serviens; par J. S. Varer
(allora professore a Halla, morto a Halla 1826, linguista tedesco, famoso per
aver continuato il Mithridates di Adelung, oltre ad altre opp.) Berlin; 1824. La langue servienne, trop prodigue de
consonnes, est parlée par environ 4 millions d'individus, en Servie, en
Croatie, en Esclavonie et en Monténégro. Elle a une quantité de poésies intéressantes
dont il sera question dans un autre article. Cette langue mérite donc
l'attention des savans. Wuk, auteur de la petite grammaire qui vient de
paraître, a, de plus, fair imprimer à Vienne, en 1817-18, un dictionnaire
[4338]servien,
Faeroeiscke
quaeder om Sigurd Fofnersbane og hans aet. Chansons des îles Foeroeer (oe, oe)
sur Sigurd Fofnersbane, et sur sa race; recueillies et traduites en danois par
H. C. Lyngbye, avec une introduction du prof. P.E. Müller; 592 pag. in-8°.
1822. Dans les îles Foeroeer (oe, oe) s'est conservé un dialecte particulier de
l'ancien scandinave, et dans ce dialecte le peuple conserve plus de 150 chansons
qui se chantent pour la plupart sur des airs de danse, et servent en effet
à accompagner celles des paysans. M. Lyngbye a recueilli onze de ces
chansons; elles ont un caractère épique, et chantent Sigurd, héros
célèbre dans tout le nord, et dans les romans allemands du moyen âge.
Les insulaires des îles Foeroeer (ae, oe) chantent ces poésies dans leurs
réunions, et se les transmettent oralement de père en fils; il est probable
qu'elles sont fort anciennes. Quoique le sujet ressemble à celui de
divers passages de l'Edda, il ne paraît pourtant pas qu'elles soient imitées de
l'islandais; du moins l'Edda n'a point cette forme de chanson sous laquelle le
roman de Sigurd est presenté dans les chants foeroeériens; en Islande, en
Norvège et en Danemark, [4340]on n'a pas d'ailleurs la coutume
d'accompagner la danse de vieilles chansons en petits vers tels que ceux de
Foeroeer (oe, oe). Le style de ces poésies est simple et naïf; les images
y sont moins hardies que dans les poésie islandaises; quelquefois on y trouve
des comparaisons relatives à la nature locale de cet archipel; des yeux
bleus y sont comparés avec le plumage des pigeons sauvages, qui sont de cette
couleur aux Foeroeer (ae, oe). M. Lyngbye a fait de ces poésies épiques une
traduction en vers, et il a expliqué dans les notes les termes qui pourraient
être difficiles pour les Danois. Dans le supplément l'éditeur a inséré
d'autres chansons qui n'ont pas de rapport à Sigurd, et un vieil air
noté de ces îles. Il resterait maintenant à publier les autres chansons
des Foeroeer (ae, oe), et peut-être aussi le vocabulaire foeroeérien (oe,
oe) faisant partie d'une description de cet archipel, composée vers 1782 par M.
Svaloe, et conservée en 7. vol. in-4°. parmi les manuscrits de la bibliothèque
royale de Copenhague. Ib. art.21. p.16-17.
(12-13.
Agos. 1828.). V. p.4352.4361.
Wertheidigung
des Wilhelm Tell. Defense de Guillaume
Teli, par X. Zuraggen; nouv. édit. in-8°. Fluelen, dans le canton d'Uri; 1824.
La vérité de l'histoire de Guill. Tell ayant souvent été mise en doute, et
notamment dans une brochure qui a paru en 1760, intitulée, Guillaume Tell,
conte danois; l'auteur cherche à venger la mémoire du héros, et
à démontrer son existence par des documens authéntiques. (Journ. gén.
de la littérat. étrang., septembre 1824, p.264.) Bull. de Féruss. Mai,
(13.
Agos.). V. p.4362.
[4341]On attribue l'invention
de l'alphabet mongol à Bogdo-Khotokhtou-Tchoidja-Bandida, appelé du
Thibet en Mongolie par le Khan Khoubilaï-Tsétsèn-Khan, petit-fils
de Gengiskhan; et sa correction au lama Tchoïdja-Ostyr, qui vivait du
temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, mort au commencement du 14 siècle,
et sous le règne duquel cet alphabet fut introduit parmi les peuples
mongols. Selon les écrivains mongols on n'employa jusqu'au temps de
Khaïssyn-Kouloug-Khan, à la cour des souverains de ce pays, que les
lettres thibétaines, alors appelées Oïgoures (étrangères).
Les Chinois prétendent dans l'histoire que, jusques à l'introduction
d'un alphabet particulier, les Mongols s'étaient servis des caractères
chinois ou ouvouitsk.
(Così moltissimi libri giapponesi
sono scritti in caratteri cinesi, e questi sono anco della letteratura
giapponese, i più noti, anzi quasi i soli noti agli Europei. Bulletin ec. t.4. art.197. Al qual proposito il Bull. di Féruss. ib. p.175, osserva: L'emploi d'une
écriture syllabique (la scrittura propria giapponese, composta di 47 sillabe
primitive) dérivée de l'écriture figurative des Chinois, et l'usage qu'on fait
de cette dernière en l'appliquant à une langue pour laquelle elle
n'avait pas été formée (alla lingua giapponese), sont deux phénomènes
capables d'intéresser les hommes qui font de l'étude des langues, un sujet de
méditations philosophiques.)
Les
Mongols écrivent de gauche à droite comme nous, mais perpendiculairement
du haut en bas, comme on pourra le voir par l'alphabet comparé Mongol et Kalmouk.
Malgré les traits qui changent [4342]souvent la forme des lettres, il
est impossible de ne pas remarquer qu'elles viennent presque toutes des
caractères grecs et syriaques, et par conséquent elles sont
peut-être un des monumens les plus anciens qui servent à prouver
la liaison des peuples qui les ont adoptées avec les peuples de l'Occident.
Outre l'alphabet élète ou Kalmouk, celui des Mongols a encore donné
naissance aux lettres mantchouriennes qui n'en diffèrent que par
quelques légers changemens. Les Mongols avaient encore un autre alphabet inventé
du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan par un certain Lama-Pakba, dont les
lettres ont été nommées carrées en raison de leur forme; mais on n'a rien pu découvrir
d'écrit en ce genre. Au contraire nombre d'anciens livres mongols sont écrits
en lettres de Tchoïdja-Bandida. Bull. de Féruss. ec. l.c. t.4. art.238.
p.242-3. septembre 1825.
(13.
Agos. 1828.)
Quibus
actus uterque Europae atque Asiae fatis concurrerit orbis. Virg. Aen.
7. 223. Il pieno senso di questo luogo e di quell'uterque non credo sia
stato mai bene inteso nè si possa intendere senza ricordarsi dell'antica
divisione del mondo in due sole parti, Europa ed Asia; divisione di cui
è da vedersi una dotta nota di Letronne al v.3. dell'Iscrizione greca
metrica scoperta nell'isola di Philae da Hamilton (nel Bull. de Féruss. l.c.
t.3. p.403-2. art.499. intitolato: Explication d'une inscription grecque en
vers, découverte dans l'île de Philae par M. Hamilton. Extraite de la suite des Recherches pour servir à l'histoire de
l'Égypte pendant la domination des Grecs et des Romains; par M. Letronne,
de l'Institut.): il qual Letronne dice ch'ella tiene [4343]evidentemente
alla geografia omerica, e mostra come fosse propria della geografia poetica
greca e latina. Fu anche seguita da vari scrittori dell'una e dell'altra
lingua, in prosa; e fino da Procopio, il quale comprende l'Affrica nell'Asia,
laddove gli antichi la mettevano nell'Europa. V. anche Berkel. ad Steph. Byz. p.383., ed Uckert, Geograph. der Griechen und Roemer,
t.1, parte 2. p.280. richiamati in nota dal Letronne. (Fir. 13. Agos. 1828.)
Dalle bellissime ed acutissime osservazioni
del Wolf (Prolegom. ad Homer. §.17. Halis Saxonum
1795, vol. I. p. LXX-LXXIII.) dalle quali risulta che, secondo ogni
verisimiglianza, il principio della cultura della prosa e le prime opere di
prosatori appresso i greci, furono contemporanee all'epoca in cui la scrittura
appresso i medesimi divenne di comune uso, e tale da poterne far de' volumi;
anzi che scripturam tentare et communi usui aptare plane idem videtur fuisse, atque
prosam tentare et in ea excolenda se ponere (p. LXXII.), il che accadde sul
principio del 6. sec. av. G. C. (p. LXX.); da queste osservazioni, dico, si
raccoglie la vera causa del fenomeno, in apparenza singolare, che presso tutte
le nazioni, nel loro primo ingresso alla civiltà, la letteratura poetica
ha preceduto la prosaica: fenomeno osservato da moltissimi, da nessuno,
nè prima nè dopo Wolf, bene spiegato, e tuttavia naturalissimo,
ovvio e semplicissimo. Chi potea mai pensare a comporre in prosa prima dell'uso
(facile, comune, in carta o simili materie portabili, non in bronzo o marmo o
legno) della scrittura? come conservare tali composizioni? Parlare in prosa,
anche a lungo, si poteva, e parlavasi, raccontavasi in [4344]prosa,
arringavasi, e simili, ancora in pubblico; ma nè i parlatori nè
gli altri pensavano a desiderare non che a proccurar durazione a tali prose,
stantechè nessuno neppur sospettava la possibilità che tali prose
si conservassero, perchè la memoria non le potea ritenere. Da altra
parte, gli uomini inclinati naturalmente alla poesia ed al canto, come
apparisce dal vedere che quasi tutte le nazioni selvagge hanno delle poesie,
poetavano e componevano in versi: da prima senza speranza nè disegno che
questi si conservassero, non più che i discorsi in prosa; poi, visto che
la memoria potea ritenerli, si pensò, si provvide alla loro conservazione:
quando il conservarli e l'impararli fu divenuto cosa comune, quando vi furono
degli uomini che ne fecero un mestiere (i rapsodi appo i greci), allora naturalmente
anche la composizione de' versi divenne una specie d'arte; fu più accurata,
più colta; infine v'ebbe una letteratura poetica; e ciò senza
scrittura, e mentre che la prosa, non ancora coltivata in niun modo
perchè non conservabile, era affatto lontana dal poter far parte di
letteratura. Quindi è naturale che quando la scrittura fu divenuta
comune e però si potè comporre in prosa, questa fosse infante,
mancasse l'arte, mentre la poesia era già molto avanzata; e la lingua
poetica fosse già formata da più secc. mentre la prosaica era
anco informe. Vedi la p.4238. capoverso 2. V'ebbe una letteratura assai prima
della scrittura, cioè del comune uso di essa ma tal letteratura non fu e
non poteva essere che poetica. V. p.4354.
Tutto ciò accadde naturalmente e non
già per disegno. Ridicolo è l'attribuire a popoli bambini nella
civiltà, l'acutezza di conoscere, e il desiderio di provvedere che la
cognizion delle cose si trasmettesse alla posterità pel solo mezzo che
allora ci aveva; versi consegnati alla memoria; e di compor versi apposta per
questo fine. V. p.4351. princip.
[4345]In quella letteratura
antiscritturale, il solo modo di pubblicare i propri componimenti, era il
cantarli esso, o insegnarli ad altri che li cantassero. Fuitque diu haec (ars
rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii (Wolf §.23. p. XCVIII) Queste
furono per più secoli le edizioni de' greci. Tanto che anche dopo reso
comune l'uso della scrittura, etiam Xenophanem poëmata sua ipsum=Ä° legamus,
osserva il Wolf (ib.) citando il Laerzio, IX. 18. male inteso da altri. E forse
ancora di qui venne che Erodoto, un de' primi scrittori di prosa, anche la sua
prosa (se è vero quel che si racconta; e forse questa osservazione
potrebbe farlo più probabile) volle recitare in pubblico. (V. p.4375.)
Stante l'uso delle passate età, e l'assuefazione, non pareva pubblicato,
edito, quello che non fosse comunicato veramente e di viva voce al popolo.
Lascio che per lungo tempo dopo il detto uso della scrittura, si
continuò appresso i greci la recitazione pubblica o canto de' versi
d'Omero e degli altri poeti antichi. Ac primo quidem tempore et paene ad
Periclis usq. aetatem Graecia Homerum et ceterosç suos
adhuc auditione magis quam lectione cognoscebat. Paucorum etiam tum erat cura
scribendi, lectio operosa et difficilis; itaque rhapsodis maxime operam dabant
captique mira dulcedine cantus ab illorum ore pendebant. In clarissimis huius
saeculi (secolo di Pericle) rhapsodis memoratur circa Olymp. 69. Cynaethus, Pindaro
aequalis, qui Chio commigravit Syracusas, vel ibi maxime artem factitavit. (Wolf §.36. p. CIX.) Noti sono
i rapsodi del tempo di Socrate, di Platone, (ib. p. CLXI. not.22.) e di
Senofonte, §.23. p. XCVI. e l'autore [4346]dell'Ipparco, dialogo che va
tra le opere di quest'ultimo, dice che anche al suo tempo si recitavano da'
rapsodi alle feste de' Panatenei quinquennali, i versi di Omero, con quell'ordine
che, secondo lui, da Ipparco figlio di Pisistrato era stato ingiunto ai rapsodi
da osservarsi nel recitarli. E durò fino agli ultimi tempi della Grecia
l'uso di recitare a memoria ne' conviti e nelle conversazioni colte, degli
squarci di poesia, or d'uno or d'altro autore; il che si chiamava =°ÞÝ e simili;
v. p.4438. e vedine il Comento del Coray a' Caratteri di Teofr. e del Casaubono
ad Ateneo. Possono considerarsi come una continuazione dell' antica usanza
rapsodica quei tanti componimenti di genere letterario ed epidittico che i
sofisti e retori a' tempi romani, e massime nel 2° secolo, andavano declamando
pubblicamente per le città della Grecia, dell'Asia, della Gallia, ora in
lode di esse città, ora degl'imperatori ora degli Dei o eroi ec. del
paese, or sopra argomenti di morale, di filologia nazionale ec. V. p.4351.
Noi ridiamo di quell'antico modo di
pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. Certo non
potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera
pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam
fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche
centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la
nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla.
Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero
alle nostre edizioni. Come già Plato (Phaedr. p.274. E) atque
alii veteres philosophi iudicaverunt inventas litteras profuisse disciplinis,
sed obfuisse discentibus, adeo ut quae inventio medicamen memoriae dicta esset,
eadem non [4347]immerito noxa ejus et pernicies diceretur (Wolf, §.24.
p. CI-CII), così non sarebbe men paradosso e forse più vero il
dire che la scrittura, celebrata per aver popolarizzata l'istruzione, è
stata al contrario per una parte la causa di depopolarizzar la letteratura, la
quale una volta non poteva vivere che presso il popolo, e di separar dal popolo
i letterati, i quali già ne fecero necessariamente parte. La scrittura
sola ha reso possibile una letteratura più colta, polita e perfetta, la
quale di sua natura non può essere, e non sarà mai, popolare.
(Oggi siamo a un punto, che per farla tale, bisogna sperfezionarla, tornarla a
una specie d'infanzia, a una rozzezza, sacrificando il bello all'utile.) V.
p.4367. Nè solo la prosa, e le scritture dottrinali, ma la poesia, che
da prima, come si è veduto, ebbe per suoi propri uditori il popolo; che
costituì tutta la letteratura quando la letteratura fu popolare; che
anche oggi si grida, e per tutti i secoli antichi e moderni, si è gridato,
dover esser popolare, esserlo già essa di sua natura; la poesia ancora
è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è
il genere più lontano dal popolare, e il più difficile ad esser
tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e
letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una
in tutto e per tutto nuova. V. p.4352.
Componendo senza scrivere, non fidando i
propri componimenti che alla memoria (ex eo Musarum, memorum dearum, diligens
et in Iliade enixe repetita invocatio: Wolf. §.20. p. LXXXIX.), Omero e i poeti
di que' tempi erano ben lungi dall' aspirare all'immortalità. Quid? quod ne nominis quidem immortalitas tum quenquam
impellere potuit ut ei duraturis monumentis prospiceret; idque de Hom. credere,
optare est, non fidem [4348]facere. Nam ubi is tali studio se
teneri significat? ubi professionem eiusmodi, ceteris poëtis tam frequentem,
edit, aut callide dissimulat? (§.22. p. XCIV.) Non si era ancora concepita
l'idea dell'immortalità, molto meno il desiderio. Ben desideravasi la gloria,
cioè l'onore e la lode de' contemporanei, cioè de' conoscenti e
de' cittadini o compatrioti, in vita e ne' primi dì dopo la morte:
stimolo ben sufficiente alle più grandi azioni. Omnino autem satis habuit
illa aetas, quasi sub nutrice ludendo et divini ingenii impetum sequendo, res
pulcherrimas experiri et ad aliorum oblectationem prodere: mercedem si quam
petiit, plausus fuit et laus aequalium auditorum, dice il Wolf (§.22. p.
XCIV-V. e cita Oraz. Ep. II. I. 93.). E quel ch'ei dice de' poeti di que' tempi
dee dirsi parimente de' guerrieri, magistrati, uomini forti, giusti, virtuosi.
V. p.4352. Altro vantaggio anche questo de' tempi Omerici, ignorare l'immortalità
del nome: 1° non erano tormentati da un desiderio sì difficile ad
adempire, 2o molto più filosoficamente e ragionevolmente di
noi (come sono sempre più filosofi di noi i primitivi) limitavano i lor
desiderii a quel che è sensibile, e naturale a desiderarsi, la lode dei
presenti; non estendevano le loro viste al di là di quel che è
concesso all'individuo, al di là dello spazio assegnatogli dalla natura,
cioè della vita; in fine non si curavano di quello che nulla ci
può veramente nè giovare nè nuocere, nè piacere,
nè dispiacere, di quel che si penserà di noi dopo la nostra
morte.
E qui è curioso e filosofico, egualmente che tristo,
il riflettere che Omero senza desiderare nè aspirare
all'immortalità, l'ha ottenuta; e noi che la desideriamo, noi per
effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tal desiderio, [4349]non
l'otterremo. I versi e gli eroi di Omero, fidati alla sola memoria, han varcati
quasi 30 secoli, e dureranno quanto, per dir così, la presente stirpe
umana, quanto la presente cronologia; i nostri componimenti ed i nostri eroi,
fidati alla scrittura, che avrebbe oramai de' milioni di componimenti e di eroi
da conservare, non giungeranno appena alla generazione futura. Altro paradosso
verissimo: la scrittura che sola o principalmente ha prodotto l'idea e 'l
desiderio della immortalità, la scrittura considerata come istrumento di
essa immortalità, la medesima moltiplicando a dismisura gli oggetti consegnati
alla tradizione, sola o principalmente, ha reso a quest'ora impossibile il conseguirla.
Anche i sommi uomini, scrittori e fatti si pérdono ora necessariamente nella
folla: consegnati alla sola memoria, non si confondevano in gran moltitudine, e
quell'istrumento in apparenza sì debole, dico la memoria semplice,
sapeva ben conservarli a perpetuità. Il che non può più la
scrittura. Essa nuoce alla fama, di cui è creduta il fonte e l'organo
principalissimo e necessario. V. p.4354.
Quanto alle letterature moderne in cui la
poesia precedè la prosa, come l'italiana e l'inglese, la ragione di
ciò è d'un altro genere. E prima bisogna distinguere. Se si
tratta di versi e di prose qualunque, il fatto non è vero. Noi abbiamo
prose, anche di quelle destinate e fatte perchè durassero, e che
compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino ec.),
leggende ec., tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o
sarà ben difficile il provare ne' versi un'anteriorità. Se si
tratta di classici, certo Dante p.e. precedette ogni nostro classico prosatore.
La ragione è che le lingue moderne in principio [4350]furono
credute inette alla letteratura. E ciò è naturale: prima ch'esse
fossero colte, la letteratura era considerata risiedere nella lingua colta, in
quella lingua semimorta e semiviva, in cui sola si avevano buoni libri e dottrine.
V. p.4372. Quindi i prosatori che aspiravano ad esser colti, scrivevano nella
lingua colta, benchè diversa da quella ch'essi parlavano. Ma il poeta ha
bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, e
trova ogni altra lingua incapace di renderli. Si dice che Dante per compor la
D. Commedia tentasse prima il latino, ma dovè poi naturalmente ridursi
al volgare. Del Petrarca è noto. Ma essendo allora comune l'uso della
scrittura, la prosa colta non poteva star troppo a tener dietro alla colta
poesia. Il Boccaccio fu pochi anni dopo Dante, e solo più giovane del
Petrarca; dove che le prime prose culte che si vedessero in Grecia, non si
videro che 400 anni dopo l'epoca omerica. Nè questa era stata forse la
prima che producesse alla Grecia delle poesie culte. Anzi tutto persuade il
contrario. Quum Homerica dictio longe longeque reducta sit ab eo sono, quem in
infantia gentium horror troporum et imaginum inflat, atq. in verbis et
locutionib. castigata admodum, aequabili verecundoque tenore suo quasi
praenunciet pedestrem dictionem proxime secuturam, quam tamen amplius tria
saecula a nemine tentatam reperimus (il Wolf pone Om. 950 an. av. G. C. V.
p.4352. capoverso 2.); ita mea fert opinio, ut non cultum ingeniorum, sed alia
quaedam maximeq. difficultatem scribendi arbitrer in mora fuisse, quo minus
poëticam prosa eloquentia tam celeri, quam natura ferret gradu sequeretur
(Wolf, §.17. p. LXXXI-II.).
(21-22. Agos. 1828.). V.
p.4352. princ.
[4351]Alla p.4344. fin. Quanto
pensasse Omero alla conservazione della memoria de' fatti, e a far le veci di
storico, come lo chiama il Courier (v. la pag.4318.), vedesi dalle favole di
divinità, che egli senza necessità alcuna di superstizione, ma
per bellezza, e manifestamente di sua invenzione, mescola a' suoi racconti,
sino a comporli di favole per buona parte. V. p.4367.
Alla p.4346. Sempre, o certo maggiormente e
più a lungo d'ogni altra, la letteratura e i letterati greci ricercarono
il popolo, lo ebbero in vista nel comporre, mirarono al suo utile e piacere, e
si nutrirono all'aura del suo favore; a differenza soprattutto di quel che
fece, anche nel suo più bel fiore, la letteratura di una nazione il cui
stato politico pur non fu niente men popolare che quel della Grecia. Dico la
letteratura romana, la quale in punto di perfezione d'arte superò la
stessa greca, e forse supera tutte le letterature conosciute; ma del resto non
divenne ma fu sempre essenzialmente impopolarissima. Effetto della sua stessa
arte e perfezione e dell'esser essa non nata nel Lazio, ma importata. Siccome
per lo contrario non è dubbio che la perpetua popolarità della
letteratura greca non derivasse in gran parte da una quasi memoria della sua
origine, da un'influenza esercitata da questa continuamente, dall'impulso
primitivo, dallo spirito originario e non mai spento, dall'andatura presa in
principio. V. p.4354. La letteratura greca, dice il Courier (préf. du
Prospectus d'une nouv. traduct. d'Hérodote) è la sola che sia nata da se
nel proprio terreno, dagl'ingegni stessi de' nazionali, non da altra
letteratura. Il che non è vero parlando in universale, perchè
molti altri popoli ebbero o hanno letterature autoctone, e queste appunto, come
la primitiva greca, consistenti in sole poesie, e poesie non mai scritte, o
scritte più secoli dopo composte [4352](v. la p.4319 e le ivi
richiamate.). È vero però il detto del Courier rispetto alle
letterature a noi più note, cioè la latina e le più colte
delle moderne.
Alla p.4350. fin. Vedi la p.4326, capoverso
2. - Quanto ad altre nazioni, come quelle accennate nella fine della p. qui
dietro, di esse non è esatto il dire che la poesia ha preceduto la
prosa, ma che non hanno altra letteratura che poetica.
(22. Agos. 1828.)
Alla medesima margine. Primam aetatem
(Carminum Homeric.) ponimus ab origine ipsorum, h.e. tempore cultioris poësis
Ionum, (circiter ante Chr. 950.) ad Pisistratum, etc. Wolf. §.7. p. XXII.
(22. Agos. 1828.)
Alla p.4348. Nè credo io ancora che
Milziade a Maratona, nè che i 300 alle Termopoli, aspirassero alla
immortalità del nome, come poi, divulgato l'uso delle storie e de'
libri, vi aspirarono Filippo ed Alessandro.
Alla p.4347. Quegli antichi potrebbero dire
con gran ragione, che i loro versi, semplicemente cantati, erano pubblicati, e
che i nostri libri, stampati, sono sempre inediti. V. la p.4317, e la p.4388.
capoverso ultimo.
Alla p.4340. Atqui tales fere ordines
hominum (per totam vitam huic uni arti vacantium, ut vel pangerent Carmina,
quae mox canendo divulgarent, vel divulgata ab aliis discerent) in aliis quoque
populis reperimus (oltre i greci), apud Hebraeos scholas, quas dicunt, Prophetarum,
tum cognatiores nobis Bardos, Scaldros (sic), Druidas. De his
quidem postremis Caesar et Mela referunt (Ille B. G. VI, 14. hic III, 2. -
not.), propriam eorum fuisse disciplinam, in qua nonnulli ad vicenos annos
permanserint, ut magnum numerum versuum ediscerent, litteris non mandatorum.
(Simile quiddam et alias saepe et nuperrime de natione Ossiani narratum est a
G. Thorntono in Transactt. of the Americ. philos. [4353]Society
at Philadelphia vol.III. p.314. sqq. In illa natione etiam nunc senes esse qui
tantam copiam antiquorum Carminum memoria custodirent, ut velocissimum scribam
per plures menses dictando fatigaturi essent. - not.) Quam vellem tantillum nobis Graeci tradidissent de vatibus et rhapsodis
suis! Nam et horum propriam quandam disciplinam et singulare studium artis
fuisse, pro comperto habendum arbitror. (Frid. Aug. Wolf. loc. cit. alla
p.4343. §.24. p. CII-CIII.) - Haec quum ita sint, sub imperio Pisistratidarum
Graecia primum vetera Carmina vatum mansuris monumentis consignari vidit. Talemque aetatem sub incunabula litterarum et maioris
cultus civilis apud se viderunt plures nationes, quarum comparatio accurate
instituta iis, quae hic disputamus, multum lucis afferre possit. Nam, ut duas
obiter tangam, et inter se et Graecis omni parte dissimillimas, constat inter
doctos, in Germania nostra, quae domestica bella et principum ducumque suorum
gesta iam ante Tacitum Carminibus celebraverat[279], has primitias rudis ingenii a Carolo M. tandem collectas
esse et libris mandatas; itemque Arabes non ante VII. saec. inconditam poësin
priorum aetatum memoria propagatam collectionibus (Divanis)
comprehendere coepisse, ipsumque Coranum diversitate primorum textuum similem
Homero fortunam fateri. Praeter hos et alios populos comparandi erunt Hebraei,
apud quos litterarum et scribendorum librorum usus mihi quidem haud paullo
recentior videtur, quam vulgo putatur, et minus adeo genuinum corpus
scriptorum, praesertim antiquiorum. Sed de his et Arabicis illis collectionibus
viderint homines eruditi litteris Orientis. (§.35. p. CLVI.)
[4354]Alla p.4351. Per quanto le
cose col progresso si alterino, corrompano, sformino e travisino, sempre
conservano qualche segno della loro origine, e qualche poco dello spirito e
stato loro primitivo. In Roma dove la letteratura fu impopolare in origine,
anche le orazioni al popolo, che certo si pronunziavano in istile e lingua popolare,
erano scritte (a differenza delle attiche) in maniera impopolarissima,
perchè quando si scrivevano, entravano nel dominio della letteratura, e
si scrivevano non pel popolo ma pei letterati.
(23. Agos.)
Sinizesi. Dittonghi. - Dittonghi greci e
vocali lunghe, avanti a vocali brevi, spesso divengono brevi perchè si
suppone elisa la 2a vocale del dittongo, e l'una delle due vocali componenti la
lunga. Così presso Virg. Te,
Corydon, O Alexi. Pelio Ossam. Ilio alto. Ne'
quali due ultimi esempi l'o non resta eliso interamente in forza della
sua duplicità, come vocale lunga. Dugas-Montbel, loc. cit. alla p.4334.
in nota. V. p.4467.
Alla p.4344. Divulgato l'uso della
scrittura, è ben naturale che si pensasse a comporre e a scrivere nel
modo il più naturale, cioè in prosa. Forse però non
subito, perchè è anche naturale che le cose e i modi più
semplici ed ovvi non si trovino al più presto: massime essendo
inveterata, come nel nostro caso, un'usanza diversa. Del resto, riman fermo che
le prime composizioni del mondo, e per gran tempo le sole, furono in
versi, non per altro, se non perchè si compose assai prima che si scrivesse.
V. p.4390.
Alla p.4349. Oggi più che mai bisogna
che gli uomini si contentino della stima de' contemporanei, o per dir meglio,
de' conoscenti; e i libri, della vita di pochi anni al più. (Oggi
veramente ciascuno scrive solo pe' suoi conoscenti.)
Alla p.4327. Sarebbe questo il caso del
Gialiso di Protogene (o di Apelle), dove l'azzardo fece meglio, anzi fece
quello, che l'arte non aveva [4355]potuto. Del resto, o che Pisistrato,
o che alcun altro per suo ordine, o che il suo figlio Ipparco, o che parecchi
letterati di quel tempo, amici e aiutatori di questi due o dell'un d'essi
(Wolf. p. CLIII-V.), fossero quei che raccolsero i versi omerici, li disposero
in quell'ordine che ora hanno, e li dividessero ne' due corpi dell'Iliade e dell'Odissea,
ad essi forse si apparterrebbe tutta la lode dell'effetto che risulta dall'insieme
di questi due corpi, e la creazione del poema epico, se non fosse manifesto che
anch'essi crearono il poema epico senza saperlo, e non ebbero altra intenzione
che di porre quei canti in ordine, di classarli e dividerli secondo i loro argomenti.
IÜ d'Omero furono politori e
limatori, che emendarono probabilmente il metro e la dizione in assai luoghi, aggiunsero,
tolsero, mutarono quello che parve lor necessario, per dare unità,
insieme, liaison scambievole, e continuità a quei canti. Diversi
dai Critici, il cui officio fu cercare quel che il poeta avesse scritto in
fatti, non quello che stesse meglio; emendare i testi, non limarli. (Wolf. CLI-II.) Onde è diversa cosa ¯ e recensio, sì in queste e
sì nelle altre opere antiche. (p.
CCLVI. not.) Il Wolf crede (p. CLII.) che i Ü, ch'egli interpreta exactores
seu politores, travagliassero alla riduzione de' canti omerici una cum
Pisistrato vel paulo post. Non ne ha però alcuna prova; non si
trovano menzionati che negli scoliasti; io li credo molto più recenti
(perchè così mi par naturale), benchè molto anteriori,
com'ei pur dice, ai critici alessandrini. Ad essi un poco più
propriamente si dee dunque parte dell'effetto dell'insieme di que' due corpi,
atteso ch'in essi v'ebbe l'intenzione. V. p.4388.
[4356]In somma il poema epico nelle
nostre letterature, non è nato che da un falso presupposto. Omero, e i
poeti greci di quello e de' seguenti secoli non conobbero in tal genere che
degl'inni. Quippe vocabulumì latius patet, et saepe omne genusÇ complectitur. Unde illud in fine trium Hymnorum (homericor.),
manifestum istius moris vestigium: Sè¥Æ®¢ì (Wolf. §.25. p. CVII. not.)
Cioè passerò a qualcuno de' canti omerici, a cui gl'inni
sacri servivano di proemii, perciò dagli antichi sovente chiamati
ÛÛñ, Ûñ etc. I
rapsodi componevano o cantavano or l'uno or l'altro di tali proemii secondo il
luogo e l'occasione del recitare gli squarci omerici, il nume protettor del
paese, la solennità ec. Vedi le mie osservazioni sui 3. generi di
poesia, lirico, epico, drammatico; le quali riceveranno luce altresì
dalle presenti. V. p.4460.
E in fatti il poema epico è contro la
natura della poesia. 1° Domanda un piano concepito e ordinato con tutta
freddezza: 2° Che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda
più e più anni d'esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un
impeto. È anche contro natura assolutamente impossibile che
l'immaginazione, la vena, gli spiriti poetici, durino, bastino, non vengano
meno in sì lungo lavoro sopra un medesimo argomento V. p.4372. È
famosa, non meno che manifesta, la stanchezza e lo sforzo di Virgilio negli
ultimi 6. libri dell'Eneide scritti veramente per proposito, e non per impulso
dell'animo, nè con voglia. V. p.4460. - Il Furioso è una
successione di argomenti diversi, e quasi di diverse poesie; non è fatto
sopra un piano concepito e coordinato in principio; il poeta si sentiva libero
di terminare quando voleva; continuava di spontanea volontà, e con una
elezione, impulso, õ¯ primitiva ad ogni canto; e
certo in principio non ebbe punto d'intenzione a quella lunghezza. - I lavori
di poesia vogliono per natura esser corti. E tali furono e sono tutte le poesie
primitive (cioè le più poetiche e vere), di qualunque genere, [4357]presso
tutti i popoli.
Si obbietterà la drammatica. Direi
che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l'epica. Essa è cosa
prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, nè le danno natura
poetica. Il poeta è spinto a poetare dall'intimo sentimento suo proprio,
non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un carattere ch'ei non ha
(cosa necessaria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; non meno
che l'osservazione esatta e paziente de' caratteri e passioni altrui. Il
sentimento che l'anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del
vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere. Quanto più
un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più
avrà de' sentimenti suoi propri da esporre, tanto più
sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui,
d'imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il
bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico. In fatti i
maggiori geni e poeti che hanno coltivata la drammatica, (coltivata perchè
l'hanno creduta poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico
perchè credè che Omero ne avesse fatto), peccano sempre in questo,
di dar se stessi più che altrui. V. p.4367. L'estro del drammatico
è finto, perch'ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si
sente mosso che dal bisogno d'esprimere de' sentimenti ch'egli prova veramente
V. p.4398. Noi ridiamo delle Esercitazioni de' sofisti: che avrà
detto Medea ec. che direbbe uno il quale ec. Così delle
Orazioni di finta occasione, come tante nostre del 500, cominciando dal Casa.
Or che altro è la drammatica? meno ridicola perchè in versi? Anzi
l'imitazione è cosa prosaica: in prosa, come ne' romanzi, è
più ragionevole: così nella nostra commedia, dramma in prosa, ec.
[4358]L'imitazione tien sempre
molto del servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte
imitativa, metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l'immaginazione vede
il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge,
inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non
imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta. Quum philosophus ille (Plato),
primus, ut nobis videtur, ex aliquot generibus, MAXIME SCENICO, poëticae
arti naturam affingeretÛ etc. Primariam
illius sententiam de arte poëtica suscepit Aristoteles in celebratiss. libello,
correctam quidem passim a se, verum ne sic quidem explicatam, ut cuique generi
Carminum satis conveniret; adeo didascalicum genus ab eo prorsus excluditur. Neque post Aristot. quisquam philosophor. veram vim illius
artis aut historicam interpretationem recte assecutus videtur. (Wolf. 36. p.
CLXIV-V.). Questa definizione di Platone, definizione di quel
genere dialettico, esercitativo, anzi ludicro, secondo cui egli metteva p.e. la
rettorica colla® ec. (v. il Gorgia, e il
Sofista, specialmente in fine.), è la sola origine di questa sì
inveterata opinione che la poesia sia un'arte imitativa. V. p.4372. fine.
Ma, lasciando questo discorso ad altra
occasione, basta ora rispondere che in origine e presso i greci (come tutte le
cose in origine sono più ragionevoli), i drammi furono assai più
brevi componimenti che ora, e quasi senza piano, cioè con intreccio
semplicissimo. Omnino vero utilissimum esset, undecumque collecta unum in locum
habere, quae in libris veterum vel praecepta de arte poëtica, vel iudicia de
poëtis suis sparsim leguntur. [4359]Docerent ea, ni fallor, cum optimis,
quae exstant, Carminibus comparata, quam sero Graeci in poeti didicerint
TOTUM PONERE, ac ne Horatium quidem, qui illud praecipit, eius praecepti eosdem
fines ac nostros philosophos constituisse. Erunt ei praecipue haec disquirenda,
qui dramata Graecorum ad antiquae artis leges exigere volet. Quodsi in his
saepius ab historica ratione deflexit Aristoteles, tanto magis admiranda est
viri perspicacitas, qua saeculum suum praecucurrit. V. p.4458. (Wolf §.29. p. CXXV. not.)
Del resto, vedesi insomma che l'epica, da
cui apparentemente derivò la drammatica[280]
(anzi piuttosto da' canti, non ancora epici, ma lirici, de' rapsodi: Wolf.), si
riduce per origine alla lirica, solo primitivo e solo vero genere di poesia: solo,
ma tanto vario, quanto è varia la natura dei sentimenti che il poeta e
l'uomo può provare, e desiderar di esprimere.
(29.
Agos. 1828.). V. p.4412. fine.
Quanti errori, assurdi, contraddizioni per
aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le instituzioni
moderne o più note, ed applicarle a' suoi poemi! Si è supposta in
lui una mostruosa mescolanza di dialetti, perchè il dialetto o lingua
ch'egli usò, si divise poi in più dialetti diversi. V. p.4405. Si
è creduto ch'egli fosse esattissimo pittore de' costumi eroici, greci e
troiani, quando in fatti egli non ha dipinto che i costumi de' suoi propri
tempi, ed ai troiani ha dato nomi e costumi greci. V. p.4408. fin. (Necesse haberem longam disputationem
ingredi de omni ratione qua Homerus in descriptione heroicae vitae versari
solet. Non enim apud illum nisi bis terve hoc genus reperio eruditae artis,
quod poëtae [4360]cultiorum aetatum affectant, quum superiorum fabulosa
gesta scenae reddentes cavent sedulo, ne priscam sinceritatem novis moribus
infucent, quo facilius lectorib. vel spectator., propter antiquitatis peritiam
incredulis, imponant, eosque rebus ac personis, quibus cummaxime volunt, interesse
et tota mente quasi cum illis vivere cogant. Wolf. loc. cit. alla p.4343. §.1.
p. XCII. arte non posseduta neanche dai drammatici greci. Scilicet, ut nihil
dicam de more Tragicorum (graec.), novas consuetudines in heroicum aevum
transferendi, ec. §.19. p. LXXXIII. not.): e poi nel tempo stesso, come se
Omero avesse avuto e descritto opinioni caratteri e costumi moderni, egli
è stato ripreso per le assurdità, le inumanità ec. che a
giudicare i suoi poemi secondo queste opinioni e costumi, vi si ritrovano. (V.
le mie osservazioni sopra il dritto delle genti a que' tempi, la compassione,
il patriotismo ec. ec.) Altro di questi errori vedilo p.4383-4. Finalmente gli
si è attribuita un'intenzione e un'arte di poema epico, ch'egli non ha
mai avuta, e che gli è d'assai posteriore; e poi egli è stato
straziato, deriso ec. perchè i suoi poemi in mille cose si son trovati
lontanissimi dal rispondere alle regole di quest'arte, che noi dicevamo aver
cavate da essi; a quel piano, che noi abbiamo formato ed attribuito loro; a
quell'unità che noi abbiam fatto l'onore di prestar loro ec. (31. Agos.
1828.). Ma ben in cose più gravi di queste, ad errori ed assurdi ben
più dannosi, ci ha tratti e trae di continuo la nostra frenesia di
volere accomodare ogni cosa al nostro modo di vedere, e spiegare ogni cosa
secondo le nostre idee.
(30. Agosto. 1828.)
M. Bilderdijk, poeta il più riputato
degli Olandesi viventi, ed anche famoso erudito e scienziato (viveva 1826.), in
una memoria van het Letterschrift [4361](sur les caractères
d'écriture), in- 8°. Rotterdam 1820.,
adhère à l'opinion que les anciens alphabets ne contenaient que
des consonnes. (Bull. de Féruss. loc. cit. alla p.4312. t.6. 1826.
art.152. p.183.) Questo però per ragioni e spiegazioni diverse da quelle
da me addotte altrove.
(31. Agosto 1828.)
Alla p.4340. Il a paru cette année (1824.) à Leipzig un livre qui doit attirer
l'attent. des amat. de la littér. slavonne. C'est un recueil de chansons
serviennes en 3. vol. publié par Vouk Stéphanovitch littérateur servien
très connu et auteur d'une grammaire et d'un lexique servien. Voici le
compte qu'en a rendu le journal des savans de Goettingue (1823. n.177. et 178.)
«Ces chants serviens n'ont point été émpruntés aux vieilles chroniques; ils ont
été recueillis de la bouche même du peuple. Comme ils ne furent jamais
écrits, jamais non plus ils n'ont ni vieilli ni ne sauraient vieillir». Ib. t.5. Janv. 1826. art. 24. p.26.
(31. Agos. 1828.). V. p.4372.
Vouk
Stéphanovitch et quelques autres littérateurs serviens modernes ont cru bien
faire d'introduire de nouvelles lettres ainsi qu'une orthographe
étrangère tout-à-fait barbare chez les Slaves. Pourquoi ne pas
s'en tenir à l'ancien alphabet cyrillien? (V. il pensiero precedente e
quelli a cui si riferisce). Ib. extrait du Fils de
la patrie (Giorn. russo), n.26, p.241, 1824.
(31.
Agos. 1828.)
Commentatio
historico-critica de Rhapsodis. in 4°. de 22 pag. Vienne 1824. Cet opuscule
contient, en premier lieu, l'étymologie du mot =ò. òè=¯Ó¯, ou òè¤Ü=Ä. L'Auteur [4362]expose ensuite les raisons qui
lui font adopter cette étymologie. ‘PÓ¯ est expliqué d'après Wolf (§.23. p. XCVI. not.
dei Prolegom. ec.): Carmina modo et ordine publicae recitationi apto
connectere. V. p.4366. ‘Ü et ‘Û sont désignés comme synonymes dans le sens de =Ü. Viennent ensuite des obss. historiques sur l'art des
rhapsodes grecs, divisées en 4 périodes. La 1. va jusqu'à Homère;
la 2. comprend l'âge d'or des rhapsodes, jusqu'à Pisistrate; la
(Agos. 1828.)
Alla p.4312. Plusieurs peuplades de l'Afrique, de l'Amérique ou de la Polynésie, chez
lesquelles une écriture tout-à-fait étrangère s'est introduite
avec la prédication du christianisme, lorsque leur langage avait été élaboré,
dans l'absence de toute écriture, pendant une longue suite de siècles,
pouvaient etc. Ib. 1826. t.5. p.338-9.
art.485.
Alla p.4340 fin. Dissertatio, histor. inaug. de Guilielmo Tellio,
libertatis Helveticae vindice, quam examini submittet J.-J. Hisely. In 8° VIII
et 69. pag. Groningen, 1824. (Bek's Allg. Repertor., 1825., 1r vol.,
p.213.)... Dans le chap.2. l'aut. examine les
faits historiques attaqués par Freudenberger. Il résulte de cet examen que G.
Tell est injustement accusé d'homicide. Ib.
1826. t.6. art.138. p.162. V. p.4372.
Alla p.4322. fin -. M. Granville Penn donne lecture (à la séance du 21 juin 1826, de
la Société royale de Littérature de Londres) d'une notice intéressante sur le
mètre du premier vers de l'Iliade. Des éditeurs et commentat. modernes
se sont efforcés de démontrer que ce vers pouvait être [4363]rendu
métrique (chi ne dubita, alterandolo a piacere?); cependant une grande autorité
classique (Plutarque, de Profect. virtut. sentiend. c.9,) le déclare non-métrique
(). (E così chiamano gli antichi molti
altri de' versi d'Omero. V. p.4414.) Pour le
rendre métrique, dans leur sens, suivant la construction ordinaire du vers, ils
ont contracté ó, du mot ®Ûó, (sic) en . Dans un autre passage
Plutarque, expliquant dans quel sens il appelle ce vers non-métrique, avance que
le 1.r. vers de l'Il. contient le même nombre de syllabes que le 1.r.
vers de l'Odyssée, et qu'il en est de même du dernier vers de Il.
à l'égard du dernier vers de l'Od. (Sympos., l.9., c.3.) Or, le 1r vers
de l'Odys. se compose de 17 syllabes; savoir de 5 dactyles et d'un spondée,
nombre exact contenu dans le vers, °YÛ°. C'est pourquoi M. Penn pense que le poëte, en
articulant le vers, fit une pause au pentamètre, qui se termine par Y, et renouvela l'arsis sur la syllabe suivante: |Y|||ó|. L'auteur soutient qu'il y a, malgré la transgression des lois du
mètre, dans la réplétion et la volubilité du vers exordial, une
magnificence d'images semblable à la première irruption des eaux
d'une rivière, au moment où l'on ouvre l'écluse qui les retient,
et avant que ces eaux, reprenant leur pente naturelle, coulent d'un cours
uniforme et régulier; ce qui paraît beaucoup plus analogue au début de ce poëme
majestueux, que le mètre rigoureusement mesuré qu'on lui a imposé. Bull. etc.
1826. t.6. art.207. p.239. Il principio [4364]dell'Iliade, secondo
Müller (v. la p.4321. lin.16.) non è di Omero, ma aggiunto da' Ü. Se ciò è
vero, che dir de' versi dell'eta omerici, se si trovano ametri anche quelli di
tempi posteriori a Pisistrato?
Alla p.4170. fin. La casa delle pitture, c'est ainsi qu'on
nomme une maison découverte à Pompéi à cause des fresques quelle
offre, les plus belles et les mieux conservées de toutes celles qu'on a
trouvées jusqu'en ce moment. Le 12 février 1825, on commença à
débarrasser l'entrée de cette maison. On trouva sous la porte un fragment de
mosaïque d'un travail médiocre. Il représente un grand chien, la chaîne au
cou, dans la position de défendre l'entrée de la maison. Au bas se trouvent les
mots suivans: CAVE CANEM. Bull. de Féruss. loc. cit. alla p.4312. janv. 1826.
t.5. art.4°. p.45.
(2. Sett. 1828.)
M.
Letronne (Nouvel examen de l'inscription grecque déposée dans le temple de
Talmis en Nubie par le roi nubien Silco. (iscrizione illustrata
già innanzi da Niebuhr Inscription. Nubiens. Romae 1820.) Journal
des Savans, 1825.) examine ensuite pourquoi la langue grecque est employée dans
l'inscription; ce qu'il explique par l'introduction (parmi les Nubiens) des
livres saints et des liturgies écrites en cette langue. En effet, le style
même de l'inscription, ces tournures bibliques, byzantines et d'une
moderne grécité, prouvent assez clairement que l'usage de la lang. gr. n'a eu
lieu dans ces contrées qu'après, ou plutôt à cause de
l'introduct. de la rel. chrétienne. ... De toutes les inscriptions grecques
païennes examinées [4365]par M. Letronne, il ne s'en est trouvé
aucune au delà des limites de l'empire romain; une fois cette ligne
franchie, tout ce qui est écrit en grec exprime des idées chrétiennes. Ainsi M.
Letronne, après avoir prouvé (contro l'opin. di Niebuhr) par une foule
de rapprochemens philologiques sur le style de l'inscript., qu'elle appartenait
à un roi chrétien, prouve ensuite que... ce n'est qu'au christianisme
qu'on doit la connaissance de la lang. grecq. dans ces contrées. Bull. de
Féruss. l.c. alla p.4312. janv. 1826. t.5. art.36. p.40-41. Altro
mezzo di universalità per la lingua greca a quei tempi. L'iscrizione
secondo Letronne non è più antica della metà circa del 6°.
sec. Niebuhr, che la fa pagana, la mette alla fine del sec.3°.
(2. Sett. 1828.). V. p.4471.
Alla p.4336. marg. Trovo anche ne' Rusticali
caallo, portaa per portava, e infiniti simili, sempre. Di qui
viene ancora l'imperf. dicea, sentia ec. per diceva ec. adottato
nella lingua scritta, ma che non si ode mai se non in Toscana. Va'hia
per vai via, cioè va via (imperativo,): volgo toscano.
(2. Sett. 1828.)
Chi suppone allegorie in un poema, romanzo
ec.; come sì è tanto fatto anticamente e modernamente nell'Iliade
e Odissea; come fece il Tasso medesimo nella sua Gerusalemme; come ora il
Rossetti nel comento alla Divina Commedia che si stampa in Londra, la vuol
tutta allegorica, allegorico il personaggio di Francesca da Rimini, allegorico
Ugolino ec.; distrugge tutto l'interesse del poema ec. Noi possiamo
interessarci per una persona che sappiamo interamente finta dal poeta,
drammatico, novelliere ec.; non possiamo per una che supponghiamo allegorica.
Perchè allora la falsità è, e si [4366]vede da noi,
nell'intenzione stessa dello scrittore.
(2. Sett. 1828.). V. p.4477.
Togliendo dagli studi tutto il bello (come
si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de' pregi e
de' piaceri di essi ec. ec., non si torrà dagli studi ogni diletto,
perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque
intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una
parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di
moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo
trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno
reale (e non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile.
Alla p.4362. Alterum errorem iam sublatum
puto (cioè già riconosciuto generalmente dagli eruditi), quo ex
falsa notatione nominis =Äè
collegerunt quidam, versatam esse operam eorum in versib. passim excerpendis et
consarcinandis ad modum Centonum, quales ex Hom. a sanctis animis facti extant
ridiculae ineptiae in summa gravitate rerum. Wolf. §.23. p. XCVI-II. Tolto questo errore (che per altro è
ancora comune nel volgo degli studiosi), il solo nome di rapsodi e di rapsodie
sarebbe dovuto bastare ad avvertirci che le poesie omeriche non furono che
canti staccati; siccome la tradizione costante dell'antichità che da
Pisistrato, o per suo ordine, fossero primieramente raccolti e ordinati
come ora sono i versi d'Omero, (Wolf. §.33.), doveva bastare a mostrarci
sì la suddetta cosa, e sì che Omero e gli altri non lasciarono
scritte quelle poesie. Pure per iscoprir queste verità ci è
voluto acume grande, per avanzarle ardire, e fino a Wolf è avvenuto in
questa ciò che avviene ancora in mille altre cose, e talune più
gravi assai, che gli uomini non hanno alcuna difficoltà di conciliare, o
piuttosto di congiungere ciecamente insieme credenze e nozioni [4367]incompatibili.
Alla p.4347. È cosa dimostrata che il
piacer fino, intimo e squisito delle arti, o vogliamo dire il piacere delle
arti perfezionate (e fra le arti comprendo la letteratura e la poesia), non
può esser sentito se non dagl'intendenti, perch'esso è uno di
que' tanti di cui la natura non ci dà il sensorio; ce lo dà
l'assuefazione, che qui consiste in istudio ed esercizio. Perchè il
popolo, che non potrà mai aver tale studio ed esercizio, gusti il piacer
delle lettere, bisogna che queste sieno meno perfette. Tal piacere sarà
sempre minore assai di quello che gl'intendenti riceverebbero dalle lettere perfezionate
(altrimenti non sarebbe in verità un perfezionamento quello che le mette
a portata de' soli intendenti); e quindi ci sarà perdita reale; ma a
fine che la moltitudine riacquisti il piacere perduto, e del qual solo ella
è capace. V. p.4388.
Alla p.4357. Il romanzo, la novella ec. sono
all'uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è il
più alieno di tutti i generi di letteratura, perchè è quello
che esige la maggior prossimità d'imitazione, la maggior trasformazione
dell'autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più
intero spoglio della propria individualità, alla quale l'uomo di genio
tiene più fortemente che alcun altro.
Alla p.4351. È anche insufficiente il
dire che la lingua dell'immaginazione precede sempre quella della ragione. Nel
nostro caso, cioè nella Grecia a' tempi di Solone, ed anche a' tempi
stessi d'Omero, già molto colti, (e similmente in tutti i casi dove
trattasi di poesia e di prosa colta e letteraria), l'immaginazione avea
già dato alla ragione tutto il luogo [4368]che bisognava
perchè questa potesse avere una sua lingua.
(5. Sett. 1828.)
Col perfezionamento della società,
col progresso dell'incivilimento, le masse guadagnano, ma
l'individualità perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi
di felicità: e questo è il caso de' moderni considerati rispetto
agli antichi. Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni,
anche i più partigiani della civiltà. Or dunque il
perfezionamento dell'uomo è quello de' cappuccini, la via della
penitenza.
(5. Sett. 1828.)
I detti, risposte ec. che Machiavelli
attribuisce a Castruccio Castracani (nella Vita di questo), sono tutti o quasi
tutti gli stessissimi che il Laerzio ec. riferiscono di filosofi antichi,
mutati solo i nomi, i luoghi ec. Machiavelli del resto non sapeva il greco,
poco o nulla il latino, ed era poco letterato. Non sarebbe maraviglia ch'egli
avesse seguito una tradizione popolare che avesse conservati que' motti mutando
i nomi, e attribuendoli al personaggio nazionale di Castruccio, noto per singolare
acutezza e prontezza d'ingegno. Il popolo fiorentino racconta ancora di Dante e
dello stesso Machiavello vari tratti che si leggono negli antichi greci e latini,
come quello di Esopo che diede un asse a chi gli tirò una sassata ec.,
il qual tratto (con modificazioni accidentali e non di sostanza) si racconta
dal volgo in Firenze di Machiavelli. (Tengo queste cose da Forti e da Capei).
Così non solo le nazioni, ma le città, tirano alla storia ed a'
personaggi propri, e in somma alle cose ed alle persone a se più
cognite, i fatti delle storie altrui, noti al volgo per antiche tradizioni
orali. A Napoli resta ancora in proverbio la sapienza e dottrina di Abelardo: [4369]
ne sa più di Pietro Abailardo (Capei). In ogni modo quel libro di
Machiavelli farebbe sempre al mio proposito molto bene. V. p.4430.
Ed allo stesso proposito spetta quell'uso
antichissimo e continuato perpetuamente, di attribuire agli autori più
celebri le opere di autori anonimi, o sconosciuti, o di nome poco famoso; le
opere, dico, appartenenti a quel tal genere in cui quegli autori hanno
primeggiato; e ciò specialmente quando quegli autori sono i modelli e i
capi d'opera nel genere loro. Quindi i tanti poemi attribuiti falsamente ad Omero,
dialoghi morali ec. a Platone, opere filosofiche ad Aristotele, orazioni a
Demostene, omelie, comenti scritturali ec. a S. Crisostomo S. Agostino ec. V.
p.4414. 4416. Quanto un autore è più celebre e primo nel suo
genere, tanto è più copiosa la lista de' suoi libri apocrifi.
Raro fra gli antichi o ne' bassi tempi quell'autore celebre, o riconosciuto per
primo nel suo genere o nel suo secolo, che non abbia oppure spurie apocrife, esistenti
o perdute. I detti Padri ne hanno quasi altrettante quante sono le genuine.
Così Platone ec. Di molte di queste la critica non può scoprire i
veri autori; altre si trovano o citate, o anche in alcuni loro esemplari, coi
veri nomi, e nondimeno comunemente vanno sotto i nomi falsi, perchè i
veri son di persone poco note.
- Dans
le ms. de Paris, qui, suivant les critiques, est le plus ancien et le meilleur,
l'ouvrage a pour titre Û ÛÜì; mais dans l'index, qui est écrit de la même
main, comme le reste du ms. (qui contient en outre les problèmes
d'Aristote), on le qualifie de Û ³ ÛÜì. Le cod. vaticanus que Amati appelle praestantissimus,
donne dans cette dernière forme le nom de l'auteur; et dans le ms. de la
bibl. laurentiane, l'inscript. porte [4370]’æÜì. Bull. de Férus. l.c. alla p.4312. tom.8.
p.11. art.12. 1827. juill. - Essendo incerto Å l'autore
di quel trattato, fu detto: egli è di Dionisio d'Alicarnasso o di
Longino: non per altro se non perchè nella media grecità questi
furono i retori tecnici più conosciuti, i capi del genere rettorico. Esempio
insigne del modo con cui si procedeva in simili attribuzioni: di Dionisio o di
Longino: quasi vi fosse alcuna analogia fra lo scrivere di Dionisio, autore del
1. secolo, e quel di Longino ch'è del 3. Intanto la Critica riconosce
manifestamente e senza molta fatica che quel trattato non può essere
nè dell'uno nè dell'altro. (Bull. ec. ibidem.) - Weiske e
l'autore di un libro pubblicato a Londra 1826. intitolato Remarks on the
supposed Dionysius Longinus, riportano quel trattato al secolo d'Augusto. Amati
l'attribuisce veramente a Dionisio d'Alicarnasso, non avendo osservata (come
non l'ha nessun altro) la vera ragione per cui i mss. parig. e vatic. hanno il
nome di Dionisio; e che, oltre la totale differenza dello stile, quel trattato
è contro Cecilio Calattino, il quale fu amico di Dionisio Alicarnasseo,
cosa parimente non osservata da altri. V.
p.4440.
Les
amours de Cydippe et d'Acontius nous sont connues, surtout par les lettres
qu'Ovide leur attribue dans ses Héroïdes. Callimaque fut la source
où puisa Ovide: M. Buttmann (Ueber, die Fabel der Kydippe. Sur la fable
de Cydippe, par Philippe Buttmann. Mémoir. de l'Acad. de Munich; to. 9.
ann. 1823-1824., partie philologiq., p.199-216.) rassemble et discute les
fragmens de ce dernier [4371]poëte, où il est question de
Cydippe. Cette fable, si nous en croyons le savant professeur, est identique
avec l'histoire de Ctesylla (sic) et d'Hermochares, rapportée par
Antoninus Liberalis et Nicander Bull. etc. juill. 1827. t.8.
art.34. p.35. - E quante altre favole, o racconti appartenenti a tempi mitici o
eroici, si trovano ripetuti con diversi nomi e luoghi in diversi scrittori, non
solo greci e latini, ma anche greci solamente! - Codro, Eretteo ec. I Deci ec.
Le
combat de trente Bretons contre trente Anglais, publié d'après les
manuscrits de la Bibliothèque du roi, par M. Crapelet, imprimeur. Paris,
1827. Long-temps l'authenticité de ce combat fut contestée, et on n'avait pu
produire jusqu'ici qu'un seul ms. de 1470, conservé dans la bibl. de Rennes.
L'heureuse découverte du récit en vers du Combat des Trente, faite dans
un recueil de pièces mss. de la Bibl. du Roi, par le chev. de
Fréminville, donna lieu, en 1819, à une première publication d'un
nouveau document; mais il était important que le texte fût reproduit avec
la plus scrupuleuse exactitude. M. Crapelet a complété tout ce que laissait
désirer à cet égard la 1. édit. Il a fait suivre cette publication d'une
traduct. littérale du poëme et d'une autre relation du combat, extraite des
chroniques de Froissart. L'ouvrage est orné d'une planche représentant le
monument élevé en mémoire de ce combat, et les armoiries des 30 chevv. bretons,
dessinées d'après les armoriaux de la Bibl. du Roi, et d'autres
armoriaux particuliers et inédits. (Ib.
t.8. p.389-90. art.407. octob. 1827.) - V. nel Guicciardini [4372]ec.
il famoso combattimento dei 10 italiani e 10 francesi all'assedio di Barletta
sotto il Gran Capitano; e quello di un Bavaro e di un italiano nel Giambullari,
riferito nella mia Crestomazia, p.23. - Orazi e Curiazi ec.
(9. Sett. 1828.)
Hordeum
- fordeum. V. Forcellini.
Alla p.4350. marg. I sonetti, canzoni ec. ed
anche lunghi poemi in istile e forma puerile, di cui abbondavano prima di Dante
le lingue volgari, non solo italiana ma francese spagnuola ec., non
costituivano e non erano considerati costituire una letteratura. V. p.4413.
Alla p.4356. L'entusiasmo l'ispirazione,
essenziali alla poesia, non sono cose durevoli. Nè si possono troppo a
lungo mantenere in chi legge.
Alla p.4361. Di queste poesie serviane sono
state fatte, dopo la pubblicazione di Wuk, delle traduzioni ed imitazioni in
tedesco. Ib. févr. 1827. art.156. p.124.
t.7. V. p.4399.
Alla p.4362. Guillaume-Tell et la Révolution de 1303; ou Histoire des 3 premiers
cantons jusqu'au traité de Brunnen, 1315, et réfutation de la fameuse brochure Guillaume-Tell,
fable danoise (répétée dans cet ouvrage); par J.-J. Hisely, D.r en
philosophie et belles-lettres. In 8° Delft 1826. (Ib.
févr. 1827. t.7. art.210. p.182.)
Alla p.4358. Il poeta non imita la natura:
ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I'
mi son un che quando Natura parla, ec. vera definizione del poeta.
Così il poeta non è imitatore se [4373]non di se stesso.
(10. Sett. 1828.). Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo,
quella propriamente non è più poesia, facoltà divina;
quella è un'arte umana; è prosa, malgrado il verso e il
linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non
intendo di condannarla.
(10. Sett. 1828.)
L'auteur
(M. Faber. Synglosse, oder Grundsaetze der
Sprachforschung. Synglose, ou Principes
des recherches sur les langues, par Junius Faber. 213. p. in-12°. Carlsruhe,
1826.) a été amené par tous ces rapprochemens à conclure qu'il n'y a
qu'une seule langue, et que ce que l'on nomme ordinairement langues, ne sont
que les dialectes de cet idiome unique, dans lequel la forme, et non pas le
fond ou l'essence des mots s'est modifiée; enfin, que cette essence des mots
est contenue dans les racines qui ont existé dès le commencement, et
dont on peut prouver l'origine par des raisonnemens physiologiques. Depping. Bull. etc. l. cit. alla p.4312. Mars, 1827. t.7. art.231. p.202.
- M. Kärcher ne doute pas que
les langues connues ne proviennent toutes d'une langue primitive; il se propose
etc. encouragé par le suffrage de M. Goulianof, qui se propose, dit-il, de
démontrer la certitude de cette dérivation universelle des idiomes d'un seul
qui fut la souche de tous. Il se pourrait que des critiques d'une autorité au
moins égale à celle de M. Goulianof, fussent d'un avis tout opposé. Quoi
qu'il en soit, et M. Kärcher est bien le maître [4374]de préférer son
opinion à celle des autres, etc. Champollion-Figeac. Ib. Décem. 1827.
t.8. art.430. p.410.
(10. Sett. 1828.)
M.
Lindemann (Novus thesaurus latinae linguae prosodiacus. in 8° Zittaviae et Lipsiae,
1827.) s'est aussi attaché à la vieille prosodie (latine), à
celle qui précéda Ennius, et qui est bien différente de celle que l'on nous
enseigne aujourd'hui, ainsi que l'ont démontré des critiques modernes, et
surtout M. Hermann. Bull. de Féruss. l. cit. alla p.4312. mars, 1827. t.7.
art.253. p.221. È dunque ragionevole quel ch'io dico altrove
della mutata pronunzia prosodiaca greca a' tempi romani, de' sofisti ec. e della
sua influenza sulla struttura de' periodi ec.
(11. Sett. 1828.)
Observations
sur le meilleur système d'orthographe portugaise; par Rodr. Ferreira
da Costa. (Memor. da Acad. real das
scienc. de Lisboa, tom.8, part.1, p.102.) En
(11. Sett. 1828.)
Alla p.4345. Quaestiones Herodoteae; par le docteur C.-G.-L. Heyse. Part.1. De vitâ et
itineribus Herodoti; in 8° de 141. p.; Berlin, 1827. - sect.2. De recitatione,
quam Olympiae habuisse fertur Herodotus ol. 81. sect.3. Vitae decursus
usque ad ol. 84, de recitatione Athenis habitâ, deque ec. Bull. etc. Déc.
1827. t.8. art.425. p.408.
(11. Sett. 1828.). V. p.4400.
Lingua universalis communi omnium nationum
usui accommodata; per A. Rethy. In 8°. de 144. pag. Vienne, 1821. (Leipzig. Liter. Zeitung; avr.
1827, p.758.) Bien que ce projet, de
créer une langue universelle, contienne plusieurs bonnes idées, il n'offre
cependant qu'une nouvelle preuve en faveur de l'opinion que la solution de ce
grand problème restera inexécutable, tant que les sciences philosophiques
ne seront point portées à un plus haut degré de perfection. L'auteur
s'étant attaché à reporter la construction de sa langue à celle
de la langue qu'il affirme primitive, a fait violence à l'histoire des
langues afin d'appuyer son système. D'après lui, la langue
primitive n'a été composée que de mots monosyllabiques, destinés à
désigner les idées les plus générales, et qui, au moyen de leurs diverses
combinaisons, suffisaient, dit-il, pour faire entendre toutes les idées
combinées. D'après la nature de cet aperçu fondamental, on peut se
dispenser de suivre l'auteur dans ses applications. Ib. juillet, [4376]1827. t.8. art.2. p.3.
(11. Sett. 1828.)
Alphabet
phonométrique; découverte de huit lettres nouvelles; par Virard. In 8°.
Grenoble,
(13. Sett.)
-
Journal grammatical et didactique de la langue française. rédigé par M. Marle.
In 8., n.11 à 22. Paris, 1827 et 1828... L'esprit d'innovation gagne
aussi la Société grammaticale (i compilatori di quel Giornale). Voilà
qu'on veut réformer l'orthographe de la langue française pour la soumettre plus
directement à l'influence de la prononciation. Nous répéterons ici ce
que nous avons dit ailleurs, que l'orthog. et la prononc. sont réciproquement
représentatives l'une de l'autre, mais à droits inégaux, c. à d.
que l'orth. a des titres primitifs inviolables, qui sa compagne doit d'abord
respecter, et devenir ensuite belle et euphonique, si elle le peut, tout en
rendant hommage aus droits de son aînée. Ces droits primitifs de l'orth. procèdent
de l'origine même des mots, ou de l'étymologie: corrompre l'orth. de ces
mots aux dépens de l'étymologie et au bénéfice d'une manière d'écrire
plus commode, pour l'ignorance surtout, c'est introduire la barbarie dans la
langue, lui ouvrir une voie sans fin de corruption (l'es. dell'italiano
dimostra il contrario), et faire de tous les mots de la langue ce qu'une femme
célèbre disait d'un peuple qui reniait ses notabilités historiques, une
famille d'enfans trouvés. La Société grammaticale doit renoncer à une [4378]entreprise
que rien ne peut justifier. (Voir le n.21. du journal)... Champollion - Figeac.
Ib. Mars, 1828. t.9 p.231 art.206.
(14. Sett. Domenica. 1828. Firenze.)
Alla
p.4330. La 2e partie du travail de M. Petit-Radel (Examen analytique
et tableau comparatif des synchronismes de l'histoire des temps héroïques
de la Grèce, par L. C. F. Petit-Radel, de l'Institut royal de France. 1
vol. in-4° de 296 pages. Paris 1827.) est précédée d'une note de M.
Saint-Martin, dans laquelle ce savant académicien fournit un extrait des
raisons qui ont engagé son confrère à adopter, pour époque de la
prise de Troie, l'an 1199 avant J. C., et à faire partir de cette base
tous les calculs ascendans des dates portées sur le tableau. Ib. Avril. 1828. t.9. art.301. p.329.
(16.
Sett. 1828.)
I SS. Cirillo e Metodio, fratelli, monaci greci,
chiamati Apostoli degli Schiavoni, nel nono secolo, introducendo nella Moravia
e nella Pannonia la liturgia schiavona, (la lithurgie slavonne), cioè
gli uffici divini in lingua schiavona (le service divin en langue slavonne), inventarono
per iscriverla l'alfabeto schiavone (l'alphabet slavon), che è ancora in
uso comune, e che porta il nome di alfabeto cirilliano. Bull. de Féruss. ec. passim, e specialmente février, 1828. t.9. p.163-7.
art.141.
(17. Sett. 1828.)
(cioè J¡. Hesych.) - sella. §§ ec. - sedeo.
§§ ec. - sedes.
(17. Sett. 1828.)
Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni
diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia
di Dante. - Prospetto (cioè sommario) del Discorso. L'abuso delle minime
[4379]date d'anni, (cioè de' minimi indizi di tempo ne' libri
antichi), rannuvola più che non illustra la storia letteraria; e il rigettarle
tutte, o fondare sistemi sopra le incerte, ha diviso novellamente i tre critici
maggiori della età nostra, in Epicurei, Pirronisti, e Stoici. Payne
Knight, critico stoico. - Discorso, §.15. Un verso del libro sesto dell'Iliade
basta a Wolfio, non solo a dare corpo, forza ed armi alla ipotesi del Vico, che
Omero non abbia scritto poemi, ma inoltre a desumere in che epoca della
civiltà del genere umano fosse incominciata la Iliade, e in quanti
secoli, e per quali accidenti fosse continuata e finita, forse per confederazione
del caso e degli atomi d'Epicuro. (apparentemente Foscolo non avea letto
Wolfio). Heyne disponendo fatti, tempi e argomenti a cozzar fra di loro, forse
per investire la filologia del diritto di asserire e negare ogni cosa, indusse
il pirronismo nell'arte critica; e chi lo consulta,
mussat rex ipse Latinus
Quos generos vocet aut quae sese ad foedera
flectat.
(Vuol dir che Heyne intorno alle questioni
sopra Omero, non si decide, e tiene il metodo dell'Accademia, in utramque
partem disputandi.) Al caso e agli atomi di Wolfio e al pirronismo di Heyne si
aggiunse con alleanza stranissima lo stoicismo affermativo di Payne Knight
illustratore recente di Omero; e incomincia: Octogesimo post Trojam captam
anno, Mycenarum regnum tenente Tisameno Orestis filio jam sene, magna et
infausta mutatio rerum toti Graeciae oborta est ex irruptione Dorum
(Carmina Homerica a Rhapsodorum interpolationibus [4380]repurgata et in
pristinam formam, quatenus recuperanda esset, tam e veterum monumentorum fide
et auctoritate, quam ex antiqui sermonis indole ac ratione, redacta. Nota.
È il titolo dell'Om. di Knight col digamma, Lond. 1820.) - e dalla
irruzione de' Doriesi, i quali costrinsero molto popolo Greco a rifuggirsi nell'Asia
minore, la storia critica della lingua e della poesia omerica, e l'epoca e l'indole
e la fortuna finor ignotissime del poeta, sono dedotte con arte e dottrina e
perseveranza, e affermate con la dignità d'uomo che sente di avere
trovato il vero. Onde taluni che non possono persuadersi mai della
probabilità di que' fatti, si sentono convinti alle volte dagli
argomenti, e ascoltano con riverenza lo storico (sic) al quale non possono prestar
fede. (questo è il sistema esposto e seguito da Capponi, Lez. 2.a sulla
lingua, Antologia, maggio 1828.) §.16. Questo Payne Knight era uomo di forte
intelletto; di non vaste letture, ma che parevano immedesimate ne' suoi
pensieri e raccolte non tanto per nudrire i suoi studi, quanto per essere
nudrite dalla sua mente. Era nuovo e luminosissimo in molte idee; e quantunque
ei potesse dimostrarne alcune e ridurle a principj sicuri, intendeva che tutte
fossero assiomi ai quali non occorrono prove; e dalle conseguenze ch'ei ne traeva
escludeva inflessibile qualunque eccezione, ond'erano inapplicabili, e sembravano
assurde: ma quantunque ei parlasse energicamente ad esporle, non pareva o non
voleva essere eloquente a difenderle; e quando s'accorse d'avere errato, lo
confessò. (Ob multos errores in libro de hac re Anglice scripto
piacularem esse profiteor. Prolegom. in Homerum, sect. CLI. Nota.) Aveva [4381]signorili
costumi, e animo libero e sdegnoso d'applausi; nè fra molti avversarj
gli mancarono nobili lodatori: ed Heyne non lo cita che non lo esalti. E certo
se molti seppero notomizzare la poesia e la lingua Greca meglio di lui, pochi
hanno potuto conoscerne l'indole al pari di lui; e nessuno lo ha mai preceduto,
e pochi potranno seguirlo a investigarle nelle loro remotissime fonti. Studiando
le reliquie dell'antichità ad illustrare i tempi omerici ne
radunò molte a grandissimo prezzo, e sono da vedersi nel Museo
Britannico ov'ei per amore di letteratura e di patria, e con giusta ambizione
di nome le lasciò per legato. Venne, pochi mesi addietro, a visitarmi; e
discorrendo egli intorno agli eroi più o meno giovani dell'Iliade, io notai
che stando a' suoi computi, Achille sarebbe stato guerriero imberbe. Risposemi,
ch'ei non si dava per vinto; ma ch'ei cominciava a sentire la vanità
della vita, e non gl'importava oggimai di vittorie. Nè la poesia
nè la realtà delle cose giovavano più a liberarlo dal
tedio che addormentava in lui tutti i sentimenti dell'anima; e dopo non molti
giorni, morì: ed io ne parlo perchè i suoi concittadini ne
tacciono. §.17. Or quando scrittori di tanta mente per via di date congetturali
prestano forme e certezza a nozioni vaghe e oscurissime, e le fanno risplendere
come vere, ei costringono l'uomo, o alla credulità ed al silenzio, o a
meschine fatiche e al pericolo di controversie, e per cose di poco momento al
più de' lettori.
(Firenze. 19. Sett. 1828.)
[4382]Ivi, §.150. Senza ritoccare
la questione (e ne discorro altrove (forse nell'articolo sull'Odissea di
Pindemonte), e la tengo oggimai definita) se i due poemi sgorgavano da un solo
ingegno nella medesima età, (Payne Knight, Carmina Homerica,
Prolegomena, sect. LVIII. - e il
volumetto, "A History of the text of the Iliad." Nota.) chi
non vede che sono dissimili in tutto fra loro, e che tendevano a mire diverse?
Perciò nell'Iliade la realtà sta sempre immedesimata alla
grandezza ideale, sì che l'una può raramente scevrarsi
dall'altra, nè sai ben discernere quale delle due vi predomini; e chi
volesse disgiungerle, le annienterebbe. Bensì nell'Odissea la natura reale
fu ritratta dalla vita domestica e giornaliera degli uomini, e la descrizione
piace per l'esattezza; mentre gli incanti di Circe, e i buoi del Sole, e i
Ciclopi,
Cetera quae vacuas tenuissent carmine mentes,
compiacciono all'amore delle meraviglie: ma
l'incredibile vi sta da sè; e il vero da sè.
(19. Sett. 1828.)
Ivi, §.201. Ma quale si fosse il tenore
della lingua e della verseggiatura di Dante, non è da trovarlo in codice
veruno; e in ciò la Volgata con la dottrina e la pratica dell'Accademia
predomina sempre in qualunque edizione ed emendazione. Avvedendosi "Che
per difetto comune di quell'età" - e chi mai non se ne avvedrebbe
quand'è più o meno difetto delle altre? - "l'ortografia era
dura, manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante, e finalmente senza
molta ragione" (Salviati, Avvertim. vol.1. lib.3. cap.4. Nota) - anzi [4383]vedendola
migliore di poco nel miracoloso fra' testi del Decamerone ricopiato dal
Mannelli (Discorso sul Testo del Decam. p. XI. seg. pag. CVI. Nota) - parve
agli Accademici di recare tutte le regole in una, ed è: - "che la
scrittura segua la pronunzia, e che da essa non s'allontani un minimo
che". (Prefazione al Vocabolario, sez. VIII. Nota). Guardando ora agli
avanzi della Volgata Omerica di Aristarco, parrebbe che gli Accademici de'
Tolomei fossero di poco più savj, o meno boriosi de' nostri. La prosodia
d'Omero, per l'amore di tutte le lingue primitive alla melodia, gode di
protrarre le modulazioni delle vocali. L'orecchio Ateniese, come avviene ne'
progressi d'ogni poesia, faceva più conto dell'armonia, e la congegnava
nelle articolazioni delle consonanti; e tanto era il fastidio delle troppe
modulazioni, chiamate iati dagli intendenti, che ne vennero intarsiate fra
parole e parole le particelle che hanno suoni senza pensiero. Quindi gli
Alessandrini alle strette fra Omero e gli Attici, e non s'attentando di svilupparsene,
emendarono l'Iliade così che ne nasceva lingua e verseggiatura la quale
non è di poesia nè primitiva, nè raffinata. I Greci ad
ogni modo s'ajutavano tanto quanto come i Francesi e gl'Inglesi; ed elidendo
uno o più segni alfabetici nel pronunziare, non li sottraevano dalla
scrittura; così le apparenze rimanevano quasi le stesse. Ma che non
pronunziassero come scrivevano, n'è prova evidentissima che ogni metro
ne' poeti più tardi, e peggio negli Ateniesi, ridonderebbe; nè
sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse le vocali quanto il [4384]metro
desidera ne' libri Omerici: e l'esametro dell'Iliade s'accorcerebbe di
più d'uno de' suoi tempi musicali, se avesse da leggersi al modo de'
Bisantini, snaturando vocali, o costringendole a far da dittonghi. Però
i Greci d'oggi a' quali la pronunzia letteraria venne da Costantinopoli, e
serbasi nel canto della loro Chiesa, porgono le consonanti armoniosissime; ma
non versi, poichè secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti
aspri, e soavi - come che non ne aspirino mai veruno - ed apostrofi ed
espedienti parecchi moltiplicatisi da que' semidigammi ideati in Alessandria,
talor utili in quanto provvedono alla etimologia e alle altre faccende della
grammatica. Non però è da tenerne conto in poesia, dove la guida
vera alla prosodia deriva dal metro; e il metro dipendeva egli fuorchè
dalla pronunzia nell'età de' poeti? Ad ogni modo i grammatici Greci
sottosopra lasciarono stare i vocaboli come ve gli avevano trovati, sì
che ogni lettore li proferisse o peggio o meglio a sua posta. Ma i Fiorentini
non ricordevoli di passati o di posteri, uscirono fuor delle strette medesime
con la regola universale - Che la scrittura non s'allontani dalla pronunzia
un minimo che; e non trapelando lume, nè cenno di pronunzia certa
dalle scritture, pigliarono quella che udivano. Però mozzando vocali, e
raddoppiando consonanti, e ajutandosi d'accenti e d'apostrofi, stabilirono
un'ortografia, la quale facesse suonare all'orecchio non Io, nè lo
Imperio, o lo Inferno; ma I', lo 'Mpero, lo 'Nferno:
e con mille altre delle sconciature [4385]del dialetto Fiorentino de'
loro giorni, acconciarono versi scritti tre secoli addietro.
§.202. Queste loro squisitezze erano
favorite dalla dottrina, che la lingua letteraria d'Italia fioriva tutta quanta
nella loro città. Lasciamo che ove fosse vera s'oppone di tanto alle
dottrine di Dante, che non sarebbe mai da applicarla ad alcuna delle opere sue.
Ma avrebb'essa potuto applicarsi se non da critici ch'avessero udito recitare i
versi di Dante a' suoi giorni? L'occhio umano, paziente, fedelissimo organo,
è agente più libero e più intelligente degli altri, perchè
vive più aderente alla memoria; ma non per tanto non può fare che
passino cent'anni e che le penne tutte quante non si divezzino dalle forme
correnti dell'alfabeto. Così ogni età n'usa di distinte e sue
proprie; onde per chiunque ne faccia pratica bastano ad accertarlo del secolo
d'ogni scrittura. Ma sono divarj permanenti nelle carte; arrivano a' posteri; e
si lasciano raffrontare dall'occhio. Non così l'orecchio; capricciosissimo,
perchè raccoglie involontario, istantaneo e di necessità tutti i
suoni; e gli organi della voce gli sono connessi, cooperanti passivi, e
meccanici imitatori; e però niun uomo cresce muto se non perchè
nasce sordissimo. Di quanto dunque più preste e più varie e
più impercettibili che la scrittura non saranno le alterazioni della
pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non pure le forme delineate,
come ne' vocaboli scritti, ma nè una lontana reminiscenza. Or chi mai
fra' posteri potrà rintracciarle se non con l'orecchio? e dove le
troverà egli? [4386]Ridomandandole all'aria, che se le porta? o
al tempo che torna a ingombrare l'orecchio di nuovi suoni? ALLAGHERI, com'ei
scrivevalo, e poscia ALIGIERI, ALLEGHIERI, ALLIGHIERI, era lungo o breve nella
penultima? or è ALIGHIERI; ma in Verona s'è fatto sdrucciolo,
ALIGERI. Certo se gli arcavoli risuscitassero in qualunque città
penerebbero ad intendere i loro nepoti.
§.203. ed ult. Ma perciò che i
Fiorentini di padre in figlio continuarono a ingoiare vocali o rincalzarle
raddoppiando consonanti, l'Accademia ideò che quel vezzo fosse nato a un
parto co' loro vocaboli. (Avvertim. della Lingua, Vol.2. p.129-160. ed. Mil.
de' Classici. Nota.) Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune
ed inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l'andare degli anni
per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè sono
molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e
spedite. De' Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono
gli Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di consonanti:
ma chi ne' loro poeti antichi leggesse all'uso moderno, non troverebbe versi
nè rime. Nè credo che altri possa additare poesia di gente veruna
ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che
non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando. Anche
nella prosodia latina, che era meno primitiva e tolta di pianta da' Greci, e in
idioma più forte di consonanti finali, regge l'osservazione; ed anche
nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute de' ventiquattro tempi
dell'esametro [4387]su le vocali per via d'iato sono moltissime; e
spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più
di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, nè
forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano e
gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo
strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la divina commedia sia stata
verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle
articolazioni de' versi, avveniva più presto in Italia che altrove;
perchè il Petrarca aveva temprato l'orecchio alla prosodia Provenzale
sonora di finali tronche più che la Siciliana che a Dante veniva fluida
di melodia. La lingua nondimeno per que' suoi fondatori fu scritta, nè
mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie,
gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all'occhio. Il danno della
parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un
tempo (cioè la francese l'inglese ec.), è minore della sciagura
che toccò alla Italiana, destinata anzi all'arte degli scrittori, che
alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, nè scritta
pel popolo). A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo,
provvederanno. Per ora il potersi scrivere così che ogni segno
alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo,
rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da' giorni di Dante. Onde mi
proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e
alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, [4388]si
rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de' suoni
accidentali e mutabili d'età in età nelle lingue popolari
(francese inglese ec.), e ne' dialetti municipali. Forse così la lezione
della divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta
e Italiana. Fine del discorso.
(Firenze. Domenica. 21. Sett. 1828.). V. p.4487.
Nel principio, e nel risorgimento degli
studi, si credeva impossibile un'ortografia volgare, un'ortografia che non
fosse latina, nel modo stesso che una letteratura volgare e non latina; e le
lingue moderne si credevano incapaci di ortografia propria, così appunto
come di letteratura.
(21. Sett. Domenica. 1828.)
Alla p.4367. Ci sarebbe ancora un altro
partito, e ragionevolissimo. Avere due poesie e letterature, l'una per
gl'intendenti, l'altra pel popolo. Così quelli non perderebbero, mentre
questo ricupererebbe; non isparirebbero dal mondo i piaceri squisiti e divini
(per chi gli può gustare) delle leterature perfezionate; ci potrebbe
ancora essere chi provasse de' trasporti di piacere leggendo Virgilio, come ci
sono e saranno intendenti che ne provino mirando un quadro di Raffaello ec. ec.
(21. Sett. 1828.)
Alla p.4355. Sorte simile ad Omero ebbe
anche in ciò il nostro Dante, il quale fino nello stesso sec. 14. ebbe
forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno
arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de' suoi
codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca. V. p.4412.
Alla p.4317. marg. Si legge così a
Napoli anche l'Orlando innamorato del Berni e soprattutto la Gerusalemme del
Tasso, e il popolo prende partito chi per l'uno di quegli eroi, chi per
l'altro, e con tanto ardore, che dopo la [4389]lettura, discorrendo tra
loro sopra quei racconti, e quistionando, talora vengono alle mani, e fino si uccidono.
Una notte al tardi, due del volgo di Napoli che disputavano caldamente fra
loro, andarono a svegliare il famoso Genovesi per saper da lui chi avesse
ragione, se Rinaldo o Gernando (Gerusalemme del Tasso). Tengo tutto ciò
dall'Imbriani padre, il quale mi dice che il popolo napoletano non ha bisogno
che il lettore gli traduca quei poemi, ma che gl'intende da se. In questo modo
quei poemi si possono dir veramente pubblicati.
(22. Sett. 1828.). V. p.4408.
Si dice con ragione che quasi tutta la
letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo
non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun
poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come
propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra' poeti e' prosatori)
fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica. (22. Sett.
1828.). Però, chi dice che la letteratura greca fiorì
principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere
che la poesia al contrario. ec.
(22. Sett. 1828.)
Chi presentandomi o raccomandandomi o
parlando di me a qualcuno, uomo o donna, ha detto: mio grandissimo amico,
grande ingegno, dotto ec. ec., non ha fatto nulla. Ci mancava la gran parola.
Chi ha detto: uomo celebre, mi ha proccurato accoglienze e distinzioni e
ricerche. Fama ci vuole, e non merito. Anche qui si verifica quello che ho
detto altrove, la sola fortuna fa fortuna. Celebre equivale [4390]a
ricco, nobile, potente, dignitario, ed altre fortune simili.
(22. 7.bre 1828.)
L'eroismo ci strascina non solo
all'ammirazione, all'amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli
uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella
virilità maggior della nostra, c'innamora. I soldati di Napoleone erano
innamorati di lui, l'amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e
ciò malgrado quello che aveano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui
taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l'amato,
infiammano l'amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone.
Così Achille c'innamora per la virilità superiore, malgrado i
suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste.
(22. Sett. 1828.)
Alla p.4354. marg. Potrebbe anco essere che
i primi libri fossero in prosa, la prima applicazione della scrittura alla letteratura
fosse alla prosa, continuando forse intanto a comporsi in versi senza
scriverli, e consegnandoli solamente alla memoria, sì per l'inveterata
abitudine, e sì per considerarsi la scrittura come non necessaria, anzi
inutile, alla conservazione dei versi, e solo utile e necessaria a quella della
prosa. In tal modo potrebbe esser passato molto tempo dopo che si scriveva in
prosa, prima che si avessero versi scritti, nel qual tempo non si sarebbero
avuti libri che in prosa. In tal caso, che mi par naturale, la prosa à
son tour avria preceduto la poesia, come scritta, come opera di letteratura
consegnata in libri.
(22. Sett. 1828.). V. p. seg.
Alla p.4318. marg. Ciclo epico, che
comprendeva in varie poesie, [4391]incluse quelle d'Omero, la storia
tutta del mondo, dalle Origini delle cose, cioè dalla teogonia ec. fino
ad Ulisse; ciclo raccolto, secondo un critico tedesco, forse vivente (Bull. de
Féruss. ec.) che ha fatto sopra di esso ciclo una dissertazione particolare,
poco dopo il tempo de' Pisistratidi. Le poesie comprese in questo ciclo, e i
loro argomenti, non erano certamente epici nel senso che noi diamo a questa
parola: nondimeno il ciclo si chiamava epico, cioè storico o
narrativo. La poesia epica fu distinta dalla lirica, benchè anche¦ si
cantassero sulla lira. ec.
(23. Sett. 1828.)
Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa,
anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione,
in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi
rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno,
resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi
guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia
verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità
sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful
è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone
degli altri, come chi ha il coraggio di morire.
(23. Sett. 1828.)
Alla p. qui dietro. Tutto ciò in
quanto a possibilità o verisimiglianza. Ma in quanto a tradizione, par
ch'ella provi che i libri in prosa o non precedettero, o solo di poco tempo,
quegli in versi; poichè essa tradizione mette le prime prose greche nel
principio del [4392]sec. 6. av. G. C., tempo di Pisistrato che raccolse
i versi Omerici, e tempo abbondante di altri poeti, i quali non pare al Wolf
che potessero mancar di scrittura. Certo che di essi la tradizione non porta,
come di Omero, che i loro versi fossero raccolti e scritti posteriormente.
Nondimeno, benchè la tradizione non porti ciò neppur di Esiodo
(V. p.4397) (onde il Vico, lib.3. p.400. Talchè Esiodo, che lasciò
opere di sè scritte, poichè non abbiamo autorità che da'
Rapsodi fusse stato, com'Omero, conservato a memoria, si dee porre dopo de' Pisistratidi),
pure il Wolf pone anche Esiodo fra que' poeti che non iscrissero, e le poesie
esiodee (che egli reputa di vari autori) fra quelle che furono conservate
lungamente per sola memoria. - Certior quidem historia adhuc saeculo VI. et V.
ante Chr. Simonidi Ceo atque Epicharmo Siculo, antiquae Comoediae principi, satis
insignes partes tribuit in litteris complendis et inveniendis novis, quas
deinde cum prioribus in aptam seriem collectas a Callistrato quodam, ante alios
Jonica Samos publice usurpavisse fertur. Atq. hoc Jonicum alphabetum 24
litterarum a populo Atheniensi tandem Euclide archonte, Olymp. 94, 2. ante Chr. 403 receptum, nec ibi ante hoc tempus
usum duarum longar. vocalium publicatum tradunt plures et ex probatis
auctoribus. Adeo sero litteratura Graecorum absoluta est et redacta in ordinem,
primum, ut multis de causis coniicio, in iis civitatibus quae Sicil. et Magn. Graeciam
tenebant, tum in illa posthac litterarum conficientissima urbe, Athenis. Sed
cavendum est rursus ne tam serum usum scribendi credamus, aut in omni Graecia
eodem tempore institutum. Jones quidem quum tot aliis rebus [4393]Europae
cognatae exemplum nitidioris cultus darent et humani et civilis, matureque
variis artibus et commerciis florerent, vel tacente historia verisimile esset,
eos huius quoque praeclarae rei utilitatem primos animadvertisse et ad eam
studium et ingenium contulisse suum. Quippe illis expectandus non fuit
Callistratus Samius, ut aliquid scripto consignare tentarent: iam ante hunc
papyro usi sunt; immo ante Simonidem et Epicharmum fuerunt lyrici poëtae, et
Ionici et Aeolici, qui illo adminiculo faciendorum carminum carere vix possent.
Deniq. in ea civitate (Athen.) quae antiq. alphabetum diutissime retinuit,
Olymp. 39. minor numerus litterarum suffecit Draconis legibus ponendis. Quidni
idem numerus suffecerit maximis voluminibus, si modo ea tum usitata fuerunt,
sive ex pellibus, sive ex papyro Aegyptia? Wolf. §.16. p. LXII-V. Certe Atticorum scriptorum non ante Persica
tempora mentio fit aut signicatio cui non fidem deroget illius aevi et rei publicae
facies et gravissimor. auctorum silentium. Sed non persequar quod tenere sine
longis ambagibus non possum; ultro etiam concesserim, aliquanto ante Solonem
Athenis hanc artem paullatim privato studio (del pubblico, in bronzo, marmo
ec., non si dubita) usurpari coeptam: neque adeo dubito, quin id saeculis 8. et
(25. Sett. 1828.)
Il Wolf conosce e cita per averlo preceduto
nell'opinione che le poesie omeriche non fossero scritte, se non dopo, oltre
Giuseppe ebreo, il Wood (inglese), il Rousseau e il Mairan; per l'opinione [4395]che
esse da principio non costituissero poemi epici, ma non fossero che canti
separati, raccolti poi da altri e ridotti nella presente forma, conosce e cita
il Casaubono, il Bentley e l'abate Hedelin d'Aubignac, il cui libro,
Conjectures académiques ou Dissertation sur l'Iliade, Paris 1715. 8°.
egli disprezza altamente. Ma non nomina punto mai il nostro Vico, il quale de'
cinque libri de' suoi Principj di Scienza nuova, 3a ediz.
Napoli 1744. ne ha uno, cioè il 3° intitolato Della discoverta del
vero Omero, tutto dedicato alle quistioni Wolfiane. Nel qual libro, con
minore abbondanza e sviluppamento di prove che il Wolf, ma pure con buone e
forti ragioni, alcune delle quali non toccate da esso Wolf, asserisce e
dimostra che Omero non lasciò scritto niuno de' suoi poemi
(p.399.), poichè infin'a' tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di
lui non si era ritrovata ancora la Scrittura Volgare (p.394.); "che
perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria, e 'l
vollero quasi tutti lor cittadino, perchè essi popoli greci furono
quest'Omero (p.404.);" "che perciò varjno cotanto l'oppenioni
d'intorno alla di lui età, perchè un tal'Omero veramente egli
visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla Guerra Trojana
fin'a' tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocentosessant'anni
(p.404.)" (cioè che gli autori de' versi omerici vivessero e
componessero successivamente dalla guerra troiana fino a Numa) che "la
cecità, e la povertà d'Omero furono de' Rapsodi; i quali essendo
ciechi, onde ogniun di loro si disse Omero (÷ in lingua
[4396]ionica), prevalevano nella memoria; ed essendo poveri, ne
sostentavano la vita con andar cantando i poemi d'Omero per le città
della Grecia; de' quali essi eran'Autori; perch'erano parte di que' popoli, che
vi avevano composte le loro Istorie;" (p.404.) "che quest'Omero sia
egli stato un'Idea, ovvero un Carattere Eroico d'uomini greci, in quanto essi
narravano cantando le loro storie;" (p.403.) "l'Omero Autor
dell'Iliade avere di molt'età preceduto l'Omero Autore dell'Odissea;"
(p.405.) "che quello fu dell'Oriente di Grecia verso Settentrione, che
cantò la Guerra Trojana fatta nel suo paese: e che questo fu dell'Occidente
di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch'aveva in quella parte il
suo Regno;" (p.405.) e, dicendo l'autorÜì che Omero
compose giovane l'Iliade e vecchio l'Odissea, che "Omero compose giovine
l'Iliade, quando era giovinetta la Grecia; e 'n conseguenza ardente di sublimi
passioni, come d'orgoglio, di collera, di vendetta; le quali passioni non
soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille
Eroe della Forza: ma vecchio compose poi l'Odissea, quando la Grecia aveva
alquanto raffreddato gli animi con la riflessione: la qual'è madre
dell'accortezza; onde ammirò Ulisse Eroe della Sapienza. Talchè
a' tempi d'Omero giovine a' popoli della Grecia piacquero la crudezza, la
villania, la ferocia, la fierezza, l'atrocità: a' tempi d'Omero vecchio
già gli dilettavano i lussi d'Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri
di Circe, i canti delle Sirene, i passatempi de' Proci, e di, nonchè
tentare, assediar'e combattere le caste Penelopi [4397]i quali costumi
tutti ad un tempo sopra ci sembrarono incompossibili" (p.404-5.) Finalmente
"che i Pisistratidi Tiranni d'Atene eglino divisero, e disposero, o fecero
dividere, e disponere i Poemi d'Omero nell'Iliade, e nell'Odissea: onde
s'intenda quanto, innanzi, dovevan'essere stati una confusa congerie di cose;
quando è infinita la differenza che si può osservar degli
stili dell'uno, e dell'altro Poema Omerico." (p.399.)
(26. Sett. 1828.)
Ecco l'Eroe (Achille), che Omero con
l'aggiunto perpetuo d'irreprensibile canta a' Greci popoli in esempio
dell'Eroica Virtù! il qual'aggiunto, acciocchè Omero faccia
profitto con l'insegnar dilettando, lo che debbon far'i Poeti, non si
può altrimente intendere, che per un'huomo orgoglioso, il qual'or
direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e
sì predica la Virtù puntigliosa; nella quale a' tempi barbari
ritornati tutta la loro Morale riponevano i Duellisti: dalla quale uscirono le
leggi superbe, gli ufizj altieri, e le soddisfazioni vendicative de' cavalieri
erranti, che cantano i Romanzieri. Ib. lib.2. p.322-3. dopo avet descritto
l'eroismo dell'Achille omerico, quanto sia lontano dalle idee nostre, ed anche
antiche civili, circa il carattere eroico.
(26. Sett. 1828.)
Alla p.4392. marg. Dice per altro il Wolf p.
XCVII-III. §.23: Neque enim unius Homeri, sed et Hesiodi et aliorum Carmina,
omneque epicum genus, mox lyricum quoque et iambicum, complexa est ars
rhapsodorum. E in nota, p. XCVIII: Vide Plat. de Legg. [4398]II. p.658.
D., in Jone p.530. B. (ed. Steph.) Athen. XIV.
p.620. C. Quanto ad Esiodo, ecco le sue parole. Sed Hesiodum quum dico, omne
illud tempus intelligo, in quod Hesiodeorum quae nunc feruntur operum confectio
incidit. Non uni enim illa tribuenda esse patet; et multo plura nomine eius ferebantur
apud veteres. In
loci sunt
multiÛÄ venerandae vetustatis signati. Theogonia autem
et Scutum Herc. et maxima pars eorum, quorum brevia fragmenta supersunt,
Homerum toto certe saeculo subsequuntur. Huius
rei argumento est, quod in iis plures notiones novae exstant et imitationes
locorum Homericorum, in primis terrarum et populorum auctior et explicatior
notitia. §.12. not. p. XLII-III.
Alla p.4357. L'imitazione drammatica non
può essere spontanea e veramente secondo natura, se non in quanto a un
solo personaggio, o 2 al più, e solo in alcune scene, cioè in
quelle che corrispondano alla situazione attuale dell'animo del poeta. Ma qui
è sempre il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto
altro nome; e quella non è veramente imitazione, ma quasi un travestimento.
In tutti gli altri personaggi ed altre scene, la poesia è necessariamente
sofistica. Del resto, tali scene, dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti,
passioni ec. attuali sotto nome di qualche personaggio storico, se si
componessero staccate, potrebbero esser buona poesia: il poeta può aver
buone ragioni per nascondersi sotto nome altrui; può trovarvisi, se non
altro, più a suo agio; ed è anche poetico in qualche modo quel
rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione [4399]attuale, e
quella d'alcun personaggio storico ec.
(28. Sett. 1828.)
Alla p.4372. Servian Popular Poetry. Poésies populaires des Serviens, traduites en vers anglais par M.
Bowring. Londr. 1827. in- 12. Ces poésies, dont il doit paroître bientôt une
traduction française, sont extraites d'un recueil publié à Vienne en
1824 par Stephanovich Vuk, auteur d'une grammaire servienne. Journ. des savans,
1827. p.445. Juillet.
(29. Sett. 1828.)
La
Civilisation considérée sous le rapport du feu et relativement à la
supériorité de l'homme sur le reste des animaux. Paris, Baudouin frères,
in 8° de 63 pages. Prix 1. fr. 50 cent. Ib. p.445. 1826. Juillet, Livres
nouveaux.
(2. Ottob. 1828.)
Il reconnoît (M. Poirson, autore di un
compendio di storia romana stampato a Parigi, 1825 e segg., e difensore per
altro della verità della storia de' primi secoli di Roma) qu'il y a de
fortes présomptions contre la vérité des aventures d'Horatius Coclès, de
Mucius Scaevola et de Clélie. Ib.
1826, août, p.466.
(3. Ott. 1828.)
Les
Kirkis (nazione nomade, al Nord dell'Asia centrale) ont aussi des chants historiques
(non scritti) qui rappellent les hauts faits de leurs héros; mais
ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de profession, et M. de
Meyendorff (barone, viaggiatore russo, autore d'un Voyage d'Orenbourg à
Boukhara, fait en 1820. Paris 1826; dal quale sono estratte queste notizie) eut
le regret de ne pouvoir en entendre un seul. Ib. septemb. p.518. Plusieurs
d'entre eux (d'entre les Kirkis), dice M. de Meyendorff, ib., [4400]passent
la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser
des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins.
(3. Ottobre. 1828.)
Grammatica Daco-romana, sive Valachica,
latinitate donata et in hunc ordinem redacta a J. Alexi. Vindobonae 1826. in-
8° Ib. Septemb. 1826. p.573.
Alla p.4375. Il Wesselingio nella Pref. all'Erodoto, in
quella parte che riguarda la vita e gli scritti di questo, riportata dallo
Schweighaeuser, con sue noterelle, appiè della propria sua pref.
all'Erodoto, Argentorati 1816, t.1., dice, a pag. XXII-III. di questa edizione:
Tum patriam reliquit, inque Graeciam tetendit. Huc pertinent Luciani ista (In
Herodoto cap.1. p.832. [T. IV. ed. Bipont. p.116.]), difficilia quibusdam
intellectu visa,æà J Herodatus ¢°ÛéJç°¤Ý,
videlicet, qua tandem ratione et minimo labore insignis ac celebris evaderet.
Instabat per illi conmodum, Olympiorum tempus sollemne: properavit ad illud certamen,
atque in magno Graecorum consessu recitavit Historias suas. Namque ea non
docent, absolvisse Herodotum historiarum libros Halicarnassi, sed compositos in
Samo insula, quod ex Suida adsciscendum, ex Caria ad Olympicum conventum
secum portasse, et Graecis, ut illis innotesceret, praelegisse. Eligunt ad eam
recitationem Olympiadem LXXXI. viri docti, quippe aetati Herodoti egregie
congruam: neque mihi refragari animus est, eoque [4401]minus, quod
pueriles Thucydidis anni Elidensem hanc Olympiadem sibi postulent. Aderat
Thucydides una cum patre Oloro admodum adolescens (Suidas in YÛ), ¨ÝÌ, in summo Graecorum plausu recitanti,
illacrymavitque, aemulatione quadam iam tum ad consimile laudis studium
accensus; quo Herodotus animadverso, ad Olorum (Marcellinus, Vit. Thucydid.
p.9.), ô˜² æèßèèòJ®, optime
de puero XV. annorum, et gloriae desiderio lacrymante. Atque hic non obliviscor secundae recitationis, Athenis
Olymp. LXXXIII. anno tertio institutae; quam Thucydidem auscultare potuisse,
certum quidem est, sed iam virili aetate, non puerum. Erudite hoc H.
Dodwellus exsecutus (Apparat. ad Annales Thucydid. p.23.), adprobavit Ed.
Corsino (Fast. Attic. T. III.
p.203. et p.213.), sihi tamen non constanti, et eandem praelectionem in Olymp.
LXXXIV. coniicienti. ... Certius habetur, Athenis suos eum libros legisse in
consilio, uti Hieronymus scribit, et honoratum fuisse, idque
festo Panathenaeorum die anni tertii Olympiadis LXXXIII., quae elegans ill. Scaligeri (Ad Eusebii
Chronic. p.104.) doctrina. Lo Schweighaeuser non ha a tutto questo passo alcuna
sua nota. - Questa tradizione intorno ad Erodoto sembra provare almeno l'usanza
che le prime prose fossero lette al popolo, e così edite, al modo de'
versi; o, se non altro, dee derivare dall'antico [4402]uso di recitare o
cantare in pubblico i componimenti poetici.
(7. Ottob. 1828.)
Il Wesselingio l.c. p. XXVI. In more ipsi
(Herodoto) fuit (vid. lib.5,
Dialetti greci. Nec vero putandum est,
cunctis eis in locis, ubi etiam nunc formae verborum communes praeeuntibus libris
omnibus supersunt (nell'Erodoto), quum alibi in eisdem verbis formâ jonibus
propriâ usum esse videamus Scriptorem, per librariorum aut temeritatem aut
socordiam esse illas invectas. Licitum fuit ionico scriptori communibus verborum
formis promiscue atq. illis uti quae Jonibus propriae erant: et haud dubiis
document. intellexisse mihi videor, ut olim Homerum, sic etiam Herodotum, si
quis alius, hanc sibi veniam [4405]sumsisse et ... variationem
consulto esse secutum. Quo minus caussae esse equid. iudicavi, cur perspicua in
hanc partem Hermogenis verba (de formis orationis l.2. p.513. coll. p.406.), non
pura sed mixta dialecto scripsisse Herod. docentis, cum doctis. Wesselingio
nostro (Diss. Herodotea, p.147. seq.) aliam in partem interpretaremur. Schweighaeuser, praef. ad Herodot. p. VIII-IX. E ib. p.
IX. in nota: Schaeferum, virum de Script. nostro praeclare merit., postquam in
edendis Musis coepisset, expulsis ubiq. formis verbor. communib., jonic.
substituere formas, mox meliora edoctum abiecisse novimus istud consilium.
(11. Ott. 1828.)
Alla p.4359. Il luogo riportato nel pensiero
qui anteced., mostra che tale opinione (oggi però rigettata comunemente
dagli eruditi) fu tenuta fino nel 1816. (epoca dell'ed. Argentoraten.
d'Erodoto) da un uomo come lo Schweighaeuser.
(11.
Ott. 1828.)
Enfin,
l'objet de notre sympathie la plus habituelle (dans l'Iliade), c'est Hector: et
si d'un côté nous sommes entraînés par le talent du poète à
désirer la prise de Troie, nous éprouvons de l'autre une sensation constamment
pénible, en voyant dans le défenseur de cette cité malheureuse, le seul
caractère auquel tous nos sentimens délicats et généreux se puissent
allier sans mélange. Ce défaut, car c'en serait un, si le poète avait eu
pour but de former un tout consacré seulement à célébrer la gloire
d'Achille; ce défaut, disons-nous, [4406]a tellement frappé des
critiques, qu'ils ont attribué à Homère l'intention d'élever les
Troyens fort au-dessus des Grecs; et la pitié qu'il cherche à exciter
pour le malheur des premiers leur a paru confirmer cette opinion. B. Constant,
de la Religion, liv.8. ch.1. t.3. Paris 1827. p.430-1. Notisi che anche il
Constant (il quale assolve del resto la Iliade da questo difetto, sostenendo
ch'essa non è in origine un poema unico), riconosce però in
questo passo che l'eccitare la compassione ec. per Ettore ec. e le lodi che
sembrano darsi ai Troiani ec., sieno tali anche nel senso del poeta, e sarebbero
state contrarie all'unità dell'interesse per Achille ec.: benchè
in quel medesimo lib. e nel precedente egli osservi e dimostri la differenza
grande dai costumi e dalle idee de' tempi civili a quelle de' tempi
dell'Iliade.
(12. Ottob. 1828.). V. p.4413.
Alla p.4404. Ecco dunque storico,
prosatore, e scrittore o compositore in iscritto (ç);storia,
prosa, libro, e scrittura o composizione in iscritto (æ¯: v.
l'indice greco dell'Anabasi di Arriano, in ¯), usati
spesso in un medesimo senso. Qual maggior conferma dell'osservazione acutissima
del Wolf?
(12. Ottob.). V. p.4431.
Les
Sagas, ou traditions des Scandinaves, qui, de père en fils, avaient
conservé dans leur mémoire des récits assez étendus pour qu'on en ait rempli
des bibliothèques lorsque l'art d'écrire est devenu commun en
Scandinavie, servent à nous faire concevoir la possibilité d'une
conservation orale des poèmes homériques. L'histoire [4407]entière
du Nord, dit Botin (Histoire de Suède, ch.8.), était rédigée en
poèmes non écrits. (Il y a encore de nos jours, dans la Finlande, des
paysans dont la mémoire égale celle des rhapsodes grecs. Ces paysans composent
presque tous des vers, et quelques-uns récitent de très-longs
poèmes, qu'ils conservent dans leur souvenir, en les corrigeant, sans
jamais les écrire. (Rühs, Finnland und
seine Bewohner). (Ed è ben naturale che de' rozzi paesani per cui
la scrittura non è ancora in uso o in possesso, coincidano co' Greci di
que' tempi in cui la scrittura non era usata neppure dalle classi più
colte). Bergmann (Streifereyen unter den
Calmucken, II, 213. V. p.4412.), parle d'un
poème Calmouk, de 360 chants, à ce qu'on assure, et qui se
conserve depuis des siècles dans la mémoire de ce peuple. Les rhapsodes,
qu'on nomme Dschangarti, savent quelquefois vingt de ces chants par coeur,
c'est-à-dire un poème à peu près aussi étendu que
l'Odyssée; car par la traduction que Bergmann nous donne d'un de ces chants,
nous voyons qu'il n'est guère moins long qu'une rhapsodie homérique. [Ora
sarebbe egli credibile che tutto questo poema fosse stato composto da un solo,
quando anche i Calmucchi lo affermino per tradizione?]) Notre vie sociale, observe M. de Bonstetten (Voy. en Ital. p.12.),
disperse tellement nos facultés, que nous n'avons aucune idée juste de la
mémoire de ces hommes demi-sauvages, [4408]qui, n'étant distraits par
rien, mettaient leur gloire à réciter en vers les exploits de leurs
ancêtres. B. Constant, de la Relig. liv.8. consacrato a provare
che l'Iliade e l'Odissea sono d'autori e d'epoche differenti, e che questa
è posteriore a quella, chap.3. t.3. Paris 1827. p.443-4. (12. Ottobre.
1828.).
Alla p.4389. Simile entusiasmo, del resto,
producevano nel popolo greco, anche a' tempi colti e dopo l'uso della scrittura,
e quindi in condizione similissima a quella del popolo napoletano, le poesie
recitate da' rapsodi. V. il dialogo platonico Ione.
(13. Ott.)
A. W.
Schlegel pense que l'Iliade est composée de 3 poèmes, dont le 1r
finit avec le 9e livre, le second avec le dix-huitième, et
dont le 3e comprend la mort de Patrocle, celle d'Hector. Il regarde
comme des composit. à part la Dolonéide et le 24e livre. Les
derniers chants, dit-il, sauf les 30. vers qui terminent le tout, se rapprochent
déjà de la pompe et de la majesté préméditée de la tragédie. Constant,
l.c. ci-dessus, p.462. not.
(13.
Ott. 1828.)
On ne
peut lire les chants d'Ossian sans être frappé de leur uniformité, et néanmoins
Ossian n'a certainement pas été un seul et même barde. Ib. 457-8.
(13. Ott.)
Alla p.4359. Mais toutes ces différences entre les deux races (dorienne et ionienne)
sont bien postérieures aux âges homériques: ceux même qui les ont le
mieux observées ont reconnu cette vérité. Les Grecs d'Homère, remarque
M. Heeren, se ressemblent [4409]tous, quelle que soit leur origine. Il
n'y a nulle distinction à faire entre les Béotiens, les Athéniens, les
Doriens, les Achéens que nous rencontrons dans ses poèmes. Les héros de
ces diverses peuplades n'ont rien de local. Les contrastes qui les séparent,
proviennent de leur caractère individuel et de leurs qualités
personnelles. (Heeren, Ideen. Grecs,
(sic) pag.117.). Il en est de même
des dieux. Bien que Junon soit la divinité spéciale de l'Argolide, Jupiter de
l'Arcadie, de la Messénie et de l'Élide, Neptune de la Béotie et de l'Égialée,
Minerve de l'Attique, toutes ces spécialités disparaissent dans la mythologie
homérique. Ib. l.7. ch.3. p.286-7. Questa mancanza di
località ne' caratteri ec. de' Greci omerici, non verrebbe ella da
difetto d'arte nel poeta, piuttosto che da reale uniformità di tutti i
Greci di quel tempo (uniformità affatto inverisimile, trattandosi di
tanti popoli, divisi di governo, e formanti in certa maniera tante diverse
nazioni), come l'hanno creduto questi scrittori? (14. Ott. 1828.). In tal caso
però i poemi omerici sarebbero o di un solo autore, o di autori tutti
d'un medesimo paese, cosa non improbabile. Infatti essi non erano appena
conosciuti nel Peloponneso al tempo di Licurgo, che li portò a Sparta,
cioè portò seco rapsodi che li cantavano, dalla Ionia.
(14. Ott. 1828.)
[4410]Les dieux sont jaloux,
dit Homère (Il. 7.455.), non seulement du succès, mais de
l'adresse et du talent. Toute prospérité mortelle fait ombrage à
l'orgueil divin. On trouve chez les Grecs mod. un vestige assez curieux de
cette anc. idée, que les dieux sont jaloux de tout ce qui est distingué. Ils
considèrent la louange comme pouvant attirer les plus grands malh. sur
la pers. qui en est l'objet, ou qui est propriétaire de la chose qu'on admire;
et ils demand. avec instance au panégyriste indiscret de détourner l'effet de
ses éloges par quelque signe de mépris qui désarme le corroux céleste. (Pouqueville,
Voy. en Morée). Ib. ch.6. p.344-5. testo e note. L'origine di ciò
potrebbe però essere anco il timore delle concussioni turche, e la
schiavitù.
(14. Ott. 1828.)
La morte consideravasi dagli antichi come il
maggior de' mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i
loro morti non avevano altro conforto che d'imitar la vita perduta; il
soggiorno dell'anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia,
un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec. Sopra
tutte queste cose da me osservate altrove, v. Constant, ib. liv.7. ch.9. t.3.
(14. Ott. 1828.)
Gli antichi déi della Grecia ec. erano
nell'immaginazione de' greci, ec. e ne' loro simulacri, ec. di figura mostruosa
e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà:
segno che l'origine della religione fu il timore ec., come dico altrove. V. ib. ch.5.
(14. Ott. 1828.)
[4411]Il y a chez tous les
peuples, comme le remarque un érudit célèbre (Wolff (sic), Prolegom.,
p.69.), un fait qui constate l'époque à laquelle l'usage de l'écriture
devient général; c'est la composition d'ouvrages en prose. Aussi longtemps
qu'il n'en existe point, c'est une preuve que l'écriture est encore peu usitée.
Dans le dénûment de matériaux pour écrire, les vers sont plus faciles
à retenir que la prose, et ils sont aussi plus faciles à graver.
La prose naît immédiatement de la possibilité que les hommes se procurent de se
confier, pour la durée de leurs compositions, à un autre instrument que
leur mémoire. Ib. l.8. ch.3.
p.441-2.
(15.
Ott. 1828.)
Dans la Grammaire
comparée des langues de l'Europe latine avec celle des troubadours, page
302, j'ai prouvé que le présent de l'infinitif, précédé de la négation, tenoit
parfois lieu de l'impératif; que cette forme se retrouvoit dans l'ancien
français ainsi que dans l'italien: mais il faut nécessairement que le verbe
soit précédé de la négation, comme le verbe l'est ici, NE t'accompagner
MIE À home de malvese vie. Raynouard. - J. des Savans, 1825. p.184. Mars.
(15. Ott. 1828.)
Sopra l'uso di ¯ (greco
mod. ñ) p. ¦, è
da vedersi M. Letronne nel Nouvel Examen critique et historique de
l'Inscription grecque du roi nubien Silco, articolo 1. alla linea 12.
dell'Iscriz., nel J. des Savans, 1825. p.108. Février.
(15.
Ott. 1828.)
[4412]Alla p.4364. Il vero
modo di citare questa Memoria di M. Letronne, è: Nouvel Examen critique
et historique de l'Inscription grecque du roi nubien Silco. Partie historique.
Sect. II. - Journ. des Savans, 1825, Mai (3me article, et dernier.).
(15. Ott. 1828.)
Alla p.4407. Il vero titolo è:
Nomadische Streifereien unter den Kalmüken: (cioè Promenades nomades
chez les Kalmuks.) Riga 1804. 4. vol. in 8°. op. tradotta da M. Moris in
francese: Voyage de Benjamin Bergmann chez les Kalmuks (fatto nel 1802 e 1803);
Châtillon-sur-Seine, 1825. I. vol. in 8°. (esso non
comprende i 2. ult. vol. dell'op. tedesca, che contengono delle traduzioni dal
mongolico ec.) (Journ. des Savans,
1825. p.363. sqq. Juin.).
Utilità della pazienza ec. Una
faccenda noiosa o penosa, un viaggio ec., quando è sulla fine, riesce
più molesto che mai, le ultime miglia paiono le più lunghe ec.,
non già perchè l'uomo allora è più stanco, ma
perchè l'impazienza si accresce per quella smania di arrivare, che nasce
dal vedere il termine da vicino.
(17. Ottob. 1828. Firenze.)
Alla p.4388. Questo es. potrebbe far credere
vero che i diascheuasti omerici fossero di poco posteriori a Pisistrato, del
che a p.4355.
(17. Ottob. 1828.)
Alla p.4359. L'epica, non solo per origine,
ma totalmente, in quanto essa può esser conforme alla natura, e vera
poesia, cioè consistente in [4413]brevi canti, come gli omerici,
ossianici ec., ed in inni ec., rientra nella lirica. V. p.4461.
Alla p.4372. Infatti la lingua italiana tra
le moderne è considerata per aver la più antica letteratura,
perchè ha i più antichi libri veramente letterarii, e che abbiano
esercitata ed esercitino ancora un'influenza perpetua sulla lingua e
letteratura nazionale; mentre quanto all'antichità semplicemente di
scrittura, cioè di versi e prose scritte in lingua volgare (anche lunghi
poemi, lunghe Cronache ec.), la lingua italiana cede di gran lunga alla
francese e spagnuola ec., per non parlare della tedesca ec. (anzi in ciò
la lingua italiana è delle più moderne, se non la più.)
Nondimeno è sempre vero che la letteratura italiana è la
più antica delle viventi, perchè Dante, Petrarca Boccaccio sono i
più antichi classici fra' moderni, i più antichi che si
leggano e nominino, non solo fra gli eruditi nazionali, ma fra tutti i colti
d'Europa.
Quando io dico: la natura ha voluto, non ha
voluto, ha avuto intenzione ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza
o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l'occhio a vedere,
l'orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali
che nel mondo sono evidenti.
(20. Ott. 1828.)
Alla p.4406. Chi dicesse che i Persiani
d'Eschilo sono di un persiano, o composti nel senso e spirito persiano,
perchè l'interesse e la compassione quivi è tutta per i Persiani,
direbbe bene nel senso de' moderni, e pure avrebbe torto nel fatto. Essi sono
di un greco, nazionale degli autori di quelle disgrazie, ec. (anzi se non erro,
Eschilo militò contro i Persiani), e fatti per essere rappresentati [4414]ai
greci. I Persiani, considerati in questo aspetto, sono propriamente il pendant
dell'Iliade (e il comento), e il rovescio della ® di
Frinico.
Umbra, ombra - sombra (spagn.), sombre
(franc.)
Alla p.4363. marg. Perocchè i
grammatici, diascheuasti ec. non sono giunti di gran lunga a render metrici
tutti i versi omerici.
Alla p.4369. Così ad Ossian si
attribuirono tutte le poesie caledonie: ad Omero tutte quelle che compongono
oggi l'Iliade e l'Odissea; tra le quali, supposta per vera la persona di
quest'Omero, è però ben difficile, come appunto nelle ossianiche,
il determinare quali sieno sue, quali d'altri; ed anche se ve ne sia alcuna di
sue; anzi è veramente impossibile. Taccio poi delle tante altre poesie
epiche attribuite ad Omero (e ad Esiodo), compresa la Batracomiomachia,
sì manifesta parodia dell'Iliade: e ciò fin dal tempo di Erodoto,
che nomina t æ¦ come
opera attribuita ad Omero, a cui egli però la nega (l. II. c.117.
Schweigh.), e gliÛ
parimente, de' quali pure egli dubita se sieno d'Omero (l.4. c.32. Schweigh.).
(21. Ott.)
Il vedere che Omero (per usare, come dice
Constant, questo nome collettivo) parlando della sua poesia, non dice mai di scrivere,
ma sempre cantare o dire, è prova assai maggiore che non
si crede, che i suoi versi in fatto non furono scritti. Noi, quantunque i
nostri versi si scrivano, diciamo di cantarli, perchè la lingua antica,
cioè la lingua di Omero, ha usata questa espressione per il poetare. Ma
nella lingua di Omero, non vi poteva essere altra ragione [4415]per
usarla e per non parlar mai di scrittura, se non, che le poesie in fatti si
cantavano senza scriverle. Ho dimostrato altrove che dovunque esiste una lingua
poetica formata, questa lingua non è altro che lingua antica. Ma i tempi
d'Omero non potevano avere una lingua poetica (se non per lo stile, come i
francesi), perchè non avevano antichità di lingua. E in fatti non
avevano lingua poetica a parte: e Omero nomina tutti gli usi di que' tempi,
nomina le città, i popoli, i magistrati ec. co' loro nomi propri e prosaici.
Così accade in tutte le poesie primitive, e così Dante è
pieno di nomi propri e prosaici, spettanti a geografia (Montereggione ec. ec.),
costumi de' suoi tempi, dignità ec., nomi che ora o sono sbanditi dalla
lingua poetica, o non vi sono ammessi se non come usati da Dante. V. p.4426. Se
dunque l'uso del tempo omerico fosse stato che le poesie si scrivessero, Omero
avrebbe detto francamente di scriverle. Il veder che nol dice mai,
nemmen per perifrasi o metafora (come fa l'autore della Batracomiomachia subito
nel bel principio, nell'invocazione; il quale dice il Wolf come cosa provata,
essere stato verisimilmente circa i tempi d'Eschilo),[281]
è prova quasi parlante che non le scriveva.
(21. Ott. 1828. Firenze.)
Perchè il moderno, il nuovo, non
è mai, o ben difficilmente romantico; e l'antico, il vecchio, al
contrario? Perchè quasi tutti i piaceri dell'immaginazione e del sentimento
consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi
che nel presente.
(22. Ottobre. 1828. Firenze.)
[4416]Qu'on jette une poultre
entre ces deux tours de Notre-Dame de Paris, d'une grosseur telle qu'il nous la
fault à nous promener dessus, il n'y a sagesse philosophique de si
grande fermeté qui puisse nous donner courage d'y marcher comme si elle estoit
à terre. Montaigne, Essais, livre 2. chap.12. Pascal
(Pensées) si è appropriato questo pensiero. Le plus grand philosophe du monde, sur une planche plus large qu'il ne
faut pour marcher à son ordinaire, s'il y avoit au-dessous un précipice,
quoique sa raison le convainque de sa sûreté, son imagination prévaudra. I
funamboli fanno più ancora; ma ciò non distrugge la convenienza
dell'osservazione soprascritta.
(Firenze. 23. Ottobre. 1828.)
La grazia in somma per lo più non
è altro che il brutto nel bello. Il brutto nel brutto, e il bello puro,
sono medesimamente alieni dalla grazia.
(Firenze. 25. Ott. 1828.)
Alla p.4369. Le nom d'Ésope étoit d'ailleurs devenu dans la Grèce une
espèce de sceau banal, qu'on attachoit à tous les apologues
utiles et ingénieux, comme ceux de Pilpay, de Lockman, de Salomon, dans
l'Orient. (Così tutti i Salmi attribuiti a David, ec.). Charles Nodier, Questions de littérature légale, 2.de
édit. Paris 1828. §.8.p.68-
(Firenze. 26. Ottob. 1828.)
Ho preso un poco di vino, quanto per
dormire ÷Jæ o òòJæ ec.
(3. Nov. 1828.)
ä - vicus.
De' diascheuasti italiani e latini v.
Perticari (Scritt. del 300) dove parla della pessima ortografia
autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova che i latini del buon secolo,
copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li riducevano in gran parte alla
moderna.
(3. Nov. 1828.)
La Divina Commedia non è che una lunga
Lirica, dov'è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti.
(Firenze. 3. Novembre. 1828.)
‘W¦, Ŧ¡, Üð¦, ¡ e simili;
frasi frequentissime di Erodoto, nel semplicissimo senso del francese comme
je vais dire ec.
(Firenze. 8. Nov. 1828. Sabato.)
Fratta -,ò ec.
(Recanati. 30. Nov. 1828. Domenica.)
Non saprei come esprimere l'amore che io ho
sempre portato a mio fratello Carlo, se non chiamandolo amor di sogno.
(30. Nov.)
Memorie della mia vita. - Felicità da
me provata nel tempo [4418]del comporre, il miglior tempo ch'io abbia
passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch'io vivo. Passar
le giornate senza accorgermene; parermi le ore cortissime, e maravigliarmi
sovente io medesimo di tanta facilità di passarle. V. p.4477. - Piacere,
entusiasmo ed emulazione che mi cagionavano nella mia prima gioventù i giuochi
e gli spassi ch'io pigliava co' miei fratelli, dov'entrasse uso e paragone di
forze corporali. Quella specie di piccola gloria ecclissava per qualche tempo
a' miei occhi quella di cui io andava continuamente e sì cupidamente in
cerca co' miei abituali studi.
(30. Nov.)
All'uomo sensibile e immaginoso, che viva,
come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo
e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una
torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel
tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna,
udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il
bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la
vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici,
quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione.
(30. Nov. I.a Domenica dell'Avvento.). V.
p.4502.
È cosa notata che il gran dolore
(come ogni grande passione) non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne
ha neppure interno. Vale a dire che l'uomo nel grande dolore non è
capace di circoscrivere, di determinare a se stesso nessuna idea, nessun
sentimento relativo al suggetto della sua passione, la quale idea o sentimento
egli possa esprimere a se medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare,
per dir così, il pensiero nè dolor suo. Egli sente mille sentimenti,
vede [4419]mille idee confuse insieme, o piuttosto non sente, non vede,
che un sentimento, un'idea vastissima, dove la sua facoltà di sentire e
di pensare resta assorta, senza potere, nè abbracciarla tutta, nè
dividerla in parti, e determinar qualcuna di queste. Quindi egli allora non ha
propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli
è in una specie di letargo; se piange (e l'ho osservato in me stesso),
piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che.
Quei drammatici, e simili, che in circostanze di grandi passioni introducono
de' soliloqui, fondandosi sulla convenzione che permette a' suoi personaggi di
dire alto quello che essi direbbero tra se medesimi se fossero reali, sappiano
che in tali circostanze l'uomo tra se non dice nulla, non parla punto neppur
seco stesso. E fra tali drammatici ve n'ha de' sommi (Shakespeare medesimo), se
non son tali tutti.
(30. Nov. 1828. Recanati.)
Alla p.4280. Ho veduto io stesso un canarino
domestico e mansuetissimo, appena presentato a uno specchio, stizzirsi colla
propria immagine, ed andarle contro colle ali inarcate e col becco alto.
Alla p.4241. Vedesi l'uomo nato nobile nella
critica libera, franca, spregiudicata ed originale, ed anche nella ragionevole
e spregiudicata morale teologica del marchese Maffei; nello stile originale,
nel modo individuale di pensare e di poetare, nel tuono ardito e sicuro, nella
stessa fermezza e forza d'opinion religiosa e superstiziosa del Varano.
(1. Dicembre. 1828. Recanati.)
[4420]Memorie della mia vita. -
Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di
fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto
internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna,
senza perciò divenir più atto all'esterna. Io era allora incapace
di conciliar l'una vita coll'altra; tanto incapace, che io giudicava questa
riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti
a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch'io
provava allora, e che i più non l'avessero mai conosciuta. La sola
esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo. Ma quello
stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia
passato nella mia vita; perch'io, divenuto così inetto all'interno come
all'esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni
speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita.
(1. Dic. 1828.)
Il giovane, per la stessa veemenza del
desiderio che ne sente è inabile a figurare nella società. Non
diviene abile se non dopo sedato e pressochè spento il desiderio, e il
rimovimento di quest'ostacolo ha non piccola parte nell'acquisto di tale abilità.
Così la natura delle cose porta che i successi sociali, anche i
più frivoli, sieno impossibili ad ottenere quando essi cagionerebbero un
piacere ineffabile; non si ottengano se non quando il piacere che danno
è scarso o nessuno. Ciò si verifica esattamente: perchè se
anco una persona arriva ad ottener de' successi nella prima gioventù,
non vi arriva se non perchè il suo animo percorrendo rapidamente lo
stadio della vita, [4421]è giunto assai tosto (come spesso
accade) a quello stato nel quale i successi sociali si desiderano leggermente,
e poco o niun piacere cagionano.
(1. Dic. 1828.)
Nelle mie passeggiate solitarie per le
città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la
vista dell'interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro
finestre aperte. Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi
stando dentro. Non è questa un'immagine della vita umana, de' suoi
stati, de' beni e diletti suoi?
(1. Dicembre. 1828. Recanati.)
La Natura è come un fanciullo: con
grandissima cura ella si affatica a produrre, e a condurre il prodotto alla sua
perfezione; ma non appena ve l'ha condotto, ch'ella pensa e comincia a
distruggerlo, a travagliare alla sua dissoluzione. Così nell'uomo,
così negli altri animali, ne' vegetabili, in ogni genere di cose. E
l'uomo la tratta appunto com'egli tratta un fanciullo: i mezzi di preservazione
impiegati da lui per prolungar la durata dell'esistenza o di un tale stato, o
suo proprio o delle cose che gli servono nella vita, non sono altro che quasi
un levar di mano al fanciullo il suo lavoro, tosto ch'ei l'ha compiuto,
acciò ch'egli non prenda immantinente a disfarlo.
(2. Dic. 1828.)
Memorie della mia vita. - Sempre mi
desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l'Olimpia Basvecchi riprendendomi
del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere
alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io
concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di
queste parole. Credo [4422]però nondimeno che non vi sia giovane,
qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli
anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole.
(2. Dicembre. 1828. Recanati.)
La lingua spagnuola pare e parrà
sempre ridicola agl'Italiani per la stessa ragione per cui la scimmia riesce un
animale ridicolo all'uomo: estrema similitudine con gravi differenze. Ma questo
ridere dello spagnuolo, assolutamente parlando, è per lo meno
così irragionevole come il ridere della scimmia; e di più,
è soggetto a reciprocità; giacchè è naturale che
l'italiano riesca, e con altrettanta ragione, altrettanto ridicolo agli Spagnuoli.
Lo spagnuolo ci riesce ridicolo nel modo e per la ragione che ci riesce tale un
dialetto dell'italiano. Similmente l'italiano dee riuscire ridicolo agli
spagnuoli come un dialetto della lingua spagnuola. Egli è dunque un vero
pregiudizio negl'Italiani il considerar lo spagnuolo come lingua o pronunzia
che abbia qualcosa di ridicolo in se, argomentando dall'effetto che essa fa in
noi.
(2. Dic. 1828.). Vedi la pag.4506.
Alla p.4248. fine. I greci molto
ragionevolmente, checchè ne dica Cicerone, che preferisce la voce latina
convivio, chiamavano il convito simposio, cioè compotazione,
perchè in esso non era veramente comune, e fatto in compagnia, se non
solo il bere, cosa ragionevolissima, e non il mangiare, come forse tra' Romani
ec. (V. il luogo di Cic. nel Forcell. in Convivium, o Sympos. o Compotat.
ec.).
(2. Dic. 1828.)
Guadagnoli recitante in mia presenza
all'Accademia de' Lunatici in Pisa, presso Mad. Mason, le sue Sestine burlesche
sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con
quello dei gesti e della recitazione. Sentimento doloroso che io provo in casi
simili, vedendo un uomo giovane, ponendo in burla se stesso, la propria
gioventù, le [4423]proprie sventure, e dandosi come in
ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara speranza, al pensiero
d'ispirar qualche cosa nell'animo delle donne, pensiero sì naturale ai
giovani, e abbracciare e quasi scegliere in sua parte la vecchiezza
spontaneamente e in sul fiore degli anni: genere di disperazione de' più
tristi a vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad un
riso sincero, e ad una perfetta gaieté de coeur.
(Recanati. 3. Dic. festa di S. Fr. Saverio. 1828.)
Io abito nel bel mezzo d'Italia, nel clima
il più temperato del mondo; esco ogni giorno a passeggiare nelle ore
più temperate della giornata; scelgo i luoghi più riparati,
più acconci ed opportuni; e dopo tutto questo, appena avverrà due
o tre volte l'anno, che io possa dire di passeggiare con tutto il mio comodo
per rispetto al caldo, al freddo, al vento, all'umido, al tempo e simili cose.
E vedete infatti, che la perfetta comodità dell'aria e del tempo
è cosa tanto rara, che quando si trova, anche nelle migliori stagioni,
tutti, come naturalmente, sono portati a dire: che bel tempo! che buon'aria
dolce! che bel passeggiare! quasi esclamando, e maravigliandosi come di una
strana eccezione, di quello che, secondo il mio corto vedere, dovrebbe pur
esser la regola, se non altro, nei nostri paesi. Gran benignità e
provvidenza della natura verso i viventi!
(3. Dic. 1828.)
L'esclusione dello straniero e del suddito
dai diritti (quantunque naturali e primitivi) del cittadino e della nazion dominante,
esclusione caratteristica di tutte le legislazioni antiche, di tutte le
legislazioni appartenenti ad una mezza civiltà; esclusione fondata
implicitamente in una opinione d'inferiorità di natura delle [4424]altre
razze d'uomini alla dominante o cittadina, ed esplicitamente basata sopra
questo principio, e ridotta a teoria e dottrina scientifica e filosofica per la
prima volta che si sappia (come tante altre opinioni e cognizioni del suo
tempo) da Aristotele nella Politica (opera citata spesso da Niebuhr nella
Storia Romana come genuina d'Aristotele); questa esclusione, dico, è
manifestissima in tutte le legislazioni de' bassi tempi, nelle quali il favor
della legge in difesa delle proprietà o delle persone, ed ogni altro
diritto, era quasi esclusivamente per li soli nobili. In Francia un nobile che
uccidesse un ignobile, non aveva altra pena che di gettare cinque soldi sulla
sepoltura dell'ucciso: tale era la legge. (Courier.) Così di tutti gli
altri diritti. Ed è ben noto che le legislazioni moderne non sono ancora
ben purgate di questo lor vizio originale di distinguere due razze d'uomini, nobili
e ignobili ec. Ora i nobili, com'è osservato da' giurisconsulti e
storici, sono per lo più e quasi totalmente, in quelle semibarbare
legislazioni, sinonimo di liberi, d'ingenui, di cittadini, di burghers
in Germania, (Niebuhr, Stor. rom. p.283.) nazionali, appartenenti alla
nazion dominante, e per la quale son fatte le leggi; e gl'ignobili non sono in
origine che stranieri, sudditi, servi, membri della nazione vinta e conquistata.
Tutte le deplorate perversità delle legislazioni de' bassi tempi e moderne,
relative alla nobiltà (sinonimo d'ingenuità,
nazionalità) provengono da quel principio di distinzione tra cittadino e
straniero relativamente ai diritti dell'uomo, che abbiamo spesso considerata
ne' più antichi popoli. Qua pure appartiene la legislazione turca relativamente
ai raja, cioè schiavi, cioè greci, vinti e conquistati, uomini considerati
diversi da' turchi.
(4. Dic. 1828.)
[4425]Conservare la purità
della lingua è un'immaginazione, un sogno, un'ipotesi astratta, un'idea,
non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso di una nazione che, sia
riguardo alla letteratura e alle dottrine, sia riguardo alla vita, non abbia
ricevuto nulla da alcuna nazione straniera. La greca, per una stranissima
combinazione di circostanze, si trovò, dopo la formazione della sua
lingua e letteratura, per lunghissimo spazio di tempo, nel detto caso. Essa
nazione greca (se non vogliamo associarvi la chinese) è fra le nazioni
civili la cui storia sia conosciuta, il solo esempio reale di un caso siffatto,
e la lingua greca è altresì la sola lingua colta che abbia per
lungo spazio conservata una vera ed effettiva purità. La lingua latina
fu impura tosto che divenne colta e letteraria. L'italiana fu impurissima nel
suo stesso nascere come lingua scritta, piena di provenzalismi e di francesismi:
poi, per la rara circostanza che l'Italia, divenuta maestra e lume e fonte alle
altre nazioni, si trovò, come la Grecia, nel caso di non ricever nulla
di fuori, essa lingua conservò una certa purità; finchè
mutata (anzi ridotta all'opposto) la circostanza, essa divenne nuovamente, e
rimane, impurissima. Alle nazioni presenti e future (e all'italiana
soprattutto) durando il presente stato reciproco delle nazioni e delle
letterature, la purità della lingua, presupposto che di questa lingua le
nazioni vogliano far uso, è cosa immaginaria e impossibile.
(5. Dic. 1828.)
Novem - (noundinae) nundinae: quasi novendiales,
mercati o fiere che si tenevano ogni nono giorno, cioè ogni otto giorni
(ch'era l'antica settimana degli Etruschi) una volta. (Niebuhr, Stor. rom.).
(11. Dic. 1828.)
[4426]Alla p.4415. Dante, dal quale
egli (il Monti) tolse l'arte di ben fissare la fantasia del lettore sul luogo
della scena, verseggiando la Geografia spesse volte assai più
maestrevolmente che Dante stesso non faccia; e l'arte più notabile ancora,
che in Dante stimava Rousseau, di chiamare le cose coi nomi lor propri. Antolog.
di Fir. Ottob. 1828. vol.32. num.94. p.177.
(Recanati 13. Dic. 1828.)
Un oggetto qualunque, p.e. un luogo, un
sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non
è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto
qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La
rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per
altro, se non perchè il presente, qual ch'egli sia, non può esser
poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel
lontano, nell'indefinito, nel vago.
(Recanati. 14. Dic. Domenica. 1828.). V. p. seg. e p.4471.
Iovis - Iuppiter,
cioè Iovis pater (Iouppiter). L'etimologia data da qualche
antico, juvans pater (v. Forcellini), mostra che già anticamente
era poco nota o dimenticata la contrazione dell'ov, o ou, in u,
propria dell'antico latino siccome di molte altre lingue.
(21. Dic. Domen. festa di S. Tommaso. 1828.)
Il fut
reçu (M. Charles le Beau, auteur de l'Hist. du Bas Empire) à l'académie
des belles lettres, en 1759 ayant cette même année remporté le prix, dont
le sujet étoit cette question importante et vraiment philosophique: Pourquoi
la langue grecque s'est-eile conservée si long-temps dans sa pureté, tandis que
la langue latine s'est altérée de si bonne heure. Encyclop. méthodique.
Histoire: art. Beau (Charles le).
(24. Dic. Vigil. di Natale. 1828.)
[4427]Alla p. preced. Il piacere
che ci danno un certo stile semplice e naturale (come l'omerico), le immagini
fanciullesche, e quindi popolari, circa i fenomeni, la cosmografia ec.; in
somma il piacere che ci dà la poesia, dico la poesia antica e
d'immagini; tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la
principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che
ci è destata da tal poesia. La qual rimembranza è, fra tutte, la
più grata e la più poetica; e ciò, principalmente forse,
perchè essa è più rimembranza che le altre, cioè a
dire, perchè è la più lontana e più vaga.
(1. del 1829.)
L'uso, comune a tante antiche (e moderne)
nazioni e religioni, di conservare con grandissima gelosia il fuoco ne' templi,
e con tanta cura che non si spegnesse mai; non avrebb'egli per sua origine
(come tante altre pratiche religiose dell'antichità, derivate, quali
evidentemente, e quali in modo che oggi la loro origine appena si può indovinare,
da bisogni o utilità sociali, da tradizioni scientifiche ec.) la
rimembranza e la tradizione della difficoltà provata primitivamente per
accender fuoco al bisogno, per conservarlo o rinnovarlo a piacere; e la tema di
non perdere il fuoco affatto, cioè non poterlo riavere, se si fosse
lasciato spegnere?
(1. del 1829.)
Usarono gli antichi latini di aggiungere un d
alla fine delle voci per evitare l'iato, o ne' versi l'elisione ec.
Anche nel mezzo delle voci composte; come in prosum: pro-d-es, pro-d-esse
ec. - prodire, prodigere, redire, redigere ec. ec. (V. Forcell. in D littera). Così
i nostri, specialmente antichi, od, ned, ad, sed, ched ec., uso certamente
non derivato da' libri di quegli antichi latini. Segno che quest'uso
conservossi per via del latino volgare ec.
(1. del 1829.)
[4428]La mia filosofia, non solo non
è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda
superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la
misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore,
quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non
sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi,
portano però cordialmente a' loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni
particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti
gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la
natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il
lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi.
ec. ec.
(Recanati. 2. Gennaio. 1829.). V. pag.4513.
Quanto male, dal vedere che le radici di
certe lingue non hanno somiglianza alcuna con quelle di certe altre, si
concluda (come fa il Niebuhr, Stor. rom. p.44. ediz. ingl.) e contro
l'affinità istorica di esse lingue, e contro l'unità di origine
dei linguaggi umani; si può raccogliere dal considerare le radici di
quelle lingue le cui relazioni ci sono note. Figuriamoci che la lingua latina e
la francese ci fossero quasi sconosciute; che si sapesse però che
nell'una di quelle il giorno si chiamava dies, nell'altra jour:
vi sarebbe egli alcuno che, non dico scoprisse, ma immaginasse, sospettasse
solamente, la menoma analogia fra queste due voci? le quali non hanno comune
neppure una lettera? E pur la francese deriva immediatamente dalla latina,
essendo una semplice corruzione di diurnus o diurnum (sottinteso tempus),
che nel latino basso o rustico si usò in vece della voce originale dies.
V. p.4442. E malgrado che il latino e il francese e la derivazione dell'una
dall'altra sieno [4429]conosciutissimi, pure è probabile che
neppure i dotti avrebbero indovinato l'etimologia della parola jour se
non si fosse anche conosciuta la corrispondente e identica parola italiana giorno,
che quantunque niente abbia anch'essa di comune con dies, serba
però più somiglianza a diurnum (giorno per diorno,
come viceversa i toscani diaccio, diacere ec. coi derivati, per ghiaccio,
giacere ec.). Dimando io: se del francese e del latino non si conoscessero
se non queste due voci (che son pure istoricamente quasi identiche), verrebbe
egli in mente ad alcuno che quelle due lingue fossero analoghe? che l'una fosse
figlia genuina dell'altra? Non si affermerebbe anzi confidentemente che esse
lingue fossero di diversissime famiglie ec.? (3. Gen. 1829.). Ora se questo ci
accade in lingue di cui abbiamo cognizione intera, viventi, derivate immediatamente
l'una dall'altra, con milioni di mezzi per iscoprire l'etimologia delle loro
radici; che ci accadrà in lingue remotissime, quasi ignote,
antichissime, non figlie, non sorelle, ma bisnipoti, parenti lontanissime ec.
ec.? chi ardirà di dire con sicurezza che una tal voce, perchè
non ha somiglianza alcuna con un'altra di altra lingua, non abbia con essa
niuna affinità istorica? E notate che la voce jour, dies ec.
esprime un'idea quasi delle primitive, e delle più usuali nel discorso
ec. V. p.4485. Così, è provato che equus è la
stessa voce che á (Niebuhr,
Stor. rom. p.65. not.223. t.1.), ì che somnus,
ec. ec.
Quanto presto e facilmente arrivi il
fanciullo a cavar conclusioni dal confronto de' particolari, a generalizzare,
ad astrarre, e ad acquistar da se stesso la cognizione di principii e di
astrazioni che paiono di acquisto difficilissimo (e certo è mirabile il
conseguirlo), si può vedere, fra l'altre, da questa considerazione. Io
ho notato, e tutti possono notare, bambini di due anni, profferire i verbi
irregolari della lingua colle inflessioni che essi [4430]avrebbero
dovuto avere se fossero stati regolari: p.e. dire io teno, io veno, io poto,
per tengo, vengo, posso. Certamente, da nessuno sentivano essi dire io
teno ec.; non dicevano dunque così per imitazione, ma per riflessione,
per ragionamento; concludevano essi che se da sentire p.e. si fa io
sento, da vedere, io vedo, la prima persona di tenere, potere,
doveva essere io teno, io poto; di venire, io veno. E
sbagliavano per esattezza di raziocinio e di generalizzazione. Avevano dunque
già trovate da se le regole generali delle inflessioni de' verbi, e
formatosi già in mente il tipo, il paradigma, delle loro diverse
coniugazioni: ritrovamento che esige tanta infinità di confronti, tanto
acume di mente, e che pare uno sforzo dello spirito metafisico de' primi
grammatici: ai quali non è punto inferiore un tal bambino. ec. ec.
Quest'osservazione merita grand'attenzione dagli psicologi e ideologi. V.
p.4519.
(4. del 1829.)
Alla p.4369. Socrate ancora appartiene a
questo discorso. Dico ciò, avendo riguardo, non tanto ai Dialoghi di
Platone, o platonici, ed ai Memorabili di Senofonte, quanto alla gran
moltitudine di sentenze, similitudini o comparazioni, apoftegmi e detti morali,
che sotto nome di Socrate, tratti da diversi autori e compilatori che li riferivano,
si leggono nelle collezioni o florilegii di Stobeo, d'Antonio, di Massimo.
(4. del 1829.). V. p.4469. fin.
Al nostro da capo è anche
analogo il greco J per di nuovo, (quasi da cima,
che noi diremmo anche appunto da capo). Socrate, ap. Stobeo, cap.123. : ed.
Gesner., Tigur. 1559. ÛÜ ¦õÝË °ñÛJòÝç ¢JÝ é¢ J¡J ¯°. Aleae
ludo similis est vita: et quicquid evenit, veluti quandam tesseram disponere
oportet. Non enim denuo jacere licet, neque tesseram aliter ponere (versio
Gesneri.) Al [4431]qual luogo Io. Conradus
Orellius, Opusc. Graecorum veterum sententiosa
et moral. t.1. p.455-6. Lips. 1819., fa questa annotazione.
J (Ý) J, denuo,
iterum, wieder von vorne an. Sic et Paulus Apostolus
Gal. IV. 9. ä (questa voce è forse una glossa) Jæ¢J¡. et Josephus Antiquitt. Lib. I. Cap. XVIII. §.3. ÛJÝòéñ. quem locum apposite
citat Schleusner. in Lex. N. Test. h.v.
(5. del 1829.)
Pitagora ap. Jamblich. de vit. Pyth. cap.18. p.183. ed. Kiesslingii (editio novissima,
la chiama l'Orelli nel 1819): Jòßñ:ߢ²Ü¢òññ. Benissimo:
ma che dire di quella o intelligenza o cieca necessità che ha ordinate
così le cose? e a che pro le fatiche, se il piacere, che è il
solo fine possibile, è sempre male?
(6, 1829.)
Alla p.4406. Giuliano, ep.22. p.389. B. Spanhem.
òõJæ
(Erodoto). Strab. l. XIV. p.656. e Diodoro, l. II p.262 (Fabricius) chiamano Erodoto
¡. - Anche nelle lingue moderne, le prime
prose scritte, voglio dire, i primi libri in prosa, sono ordinariamente
storici, cioè cronache e simili.
(6, 1829.). V. p.4464.
Alla p.4353. poemata etc. duntaxat decantata
voce, perinde ut: apud veteres Germ. ac Getas carmina antiqua, quae Tac. in
lib. de morib. etc. et Jornandes cap.4 et 5 de reb. Geticis, celebrat. Fabric. B. G. I. I. p.3-4.
(6. 1829.)
Digamma. The history of Rome by B. G. Niebuhr,
translated by Julius Charles Hare, M. A. and Connop Thirlwall, M. A. fellows of
Trinity college, Cambridge. the first volume. Cambridge, 1828. sezione
intitolata : Ancient Italy; p.17. not.33. Micali [4432]with great plausibility explains the
Oscan Viteliu on the Samnite denary of the same age (the age of the
Marsic war) to be the Sabellian form of Italia. T. I. p.52. The analogy
of Latium Samnium, gives Italium, or with the digamma Vitalium,
Vitellium; and Vitellio is like Samnio. Vitalia is mentioned
by Servius among the various names of the country: on Aen. VIII. 328. - p.18.
In the Tyrrhenian or the ancient Greek (not.36. In the former, according to
Apollodorus Bibl. II. 5. 10.; in the latter, according to Timaeus quoted by Gellius
XI. 1. Hellanicus of Lesbos cited by Dionysius, I. 35, does not determine the
language. Tyrrhenian however here does not mean Etruscan, but Pelasgic, as in
the Tyrrhenian glosses in Hesychius.) italos or itulos meant an
ox. The mythologers connected this with the story of Hercules driving the
Geryon's herd (not.37. Hellanicus and Apollodorus in the passages just referred
to) through the country: Timaeus, in whose days such things were no longer
thought satisfactory, saw an allusion to the abundance of cattle in Italy.
(not.38. Gellius XI. 1. Piso, in Varro de re r. II. 1, borrowed the explanation
from the Greeks.)... In the Oscan name of the country (dell'antica Italia),
which, as we have seen, was Vitellium, there is an evident reference to
Vitellius, the son of Faunus and of Vitellia, a goddess worshipt in many parts
of Italy. (not.39. Suetonius Vitell. I.) - Altrove l'autore nota che Vitulus,
cognome di una famiglia romana, non è che Italus; preso, come
tanti altri, dal paese originario della famiglia.
(7.
1829.)
[4433]Ib.
sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p.38-
(9.
1829.)
Ib. p.40. not.127. Salmasius saw that Maleventum or
Maloentum, in the heart of what was afterward Samnium would in pure Greek have
been Maloeis or Malus. E l'autore lo dimostra con altri esempi di
nomi latini neutri in entum derivati da nomi greci mascolini in o , genitivo
. Vedi nel
Cellar. e nel Forc. le sciocche etimologie di Maleventum date dagli antichi
latini, le quali dimostrano la loro ignoranza o inavvertenza circa il digamma.
(9. 1829.). Anzi da tale ignoranza sembra nato il nome di Beneventum dato a
quel che prima fu Maleventum.
Ib. p.50-1. We may observe a magical power exercised by
the Greek language and national character over foreign races that came in
contact with them. The inhabitants of Asia Minor hellenized themselves from the
time of the Macedonian conquest, almost without any settlements among them of
genuine Greeks: Antioch, though the common people spoke a barbarous language,
became altogether a Greek city; and the entire transformation of the Syrians
was averted only by their Oriental inflexibility. Even the Albanians, who have
settled as colonies in modern [4434]Greece, have adopted the Romaic by
the side of their own language, and in several places have forgotten the
latter: it was in this way only that the immortal Suli was Greek; and the noble
Hydra itself, the destructions of which we shall perhaps have to deplore before
the publication of this volume, is an Albanian settlement... Calabria, like
Sicily, continued a Grecian land, though Roman colonies were planted in the
coasts: the Greek language only began to give way there in the 14th century;
and it is not three hundred years since it prevailed (dominava) at Rossano, and
no doubt much more extensively; for our knowledge of the fact as to that little
town is merely accidental: indeed even at this day there is remaining in the
district of Locri a population that speaks Greek. (not.163. For the assurance
of this fact, which is stated in several books of travels in a questionable
manner, I am indebted to the Minister Count Zurlo; whose learning precludes the
possibility of his having confounded the natives with the Albanian colonies.).
(10.
1829.)
Ib. sezione intitolata The Opicans and Ausonians,
p.57. Olsi, as it stands in the Periplus of Scylax (not.190. Ü. Peripl. 3.), is no errour of the transcriber; it
is Volsi dropping the Digamma; hence Volsici was derived, and then contracted
into Volsci... I have no doubt that the Elisyci or Helisyci, mentioned by
Herodotus (VII. 165.) among the tribes from which the Carthaginians levied
their army to attack Sicily in the time of Gelon, are no other people than the
Volsci. – .
(10. 1829.)
Dispersar spagn. (Quintana).
[4435]Discorso sopra Omero, ec.
Ateneo, l.14. p.619. E. F.
(11. 1829. Domenica.)
Orelli, loc. cit. p.4431. princip.; p.519.éÛ. Exempli gratia, verbi causa, ut
saepius. V. Ernesti ad Xenoph. Mem. IV. c.7, 2. Ruhnken.
ad Timaei Lex Plat. p.56. ed.2. et Fischer in Indice ad Aeschin. Socr. hac
voce.
(11. 1829.)
Considerazioni sopra Omero ec. Non solo le
poesie omeriche, ma molti altri scritti, e forse tutti quelli della più
alta antichità, non solo poesie ma prose ancora, esistenti in oggi o
perdute, ebbero probabilmente i loro diascheuasti, che ridussero la loro
ortografia e dicitura a forma più moderna e meno rozza ed irregolare: e
in tal forma soltanto, cioè diascheuasmenoi più o meno, passarono
essi scritti alla posterità. Ed io non posso tenermi dal credere che
anche Erodoto, e anche quel che abbiamo di genuino d'Ippocrate, non ci sia
pervenuto alterato e riformato da' diascheuasti (che possiamo tradurre riformatori).
[4436]Essi hanno ancora nella sintassi, e nella maniera, molta di quella
irregolarità e di quella mancanza d'arte che si può aspettare dal
loro tempo, ma non tanta: Senofonte ed altri del buon tempo ne hanno forse non
meno: e in genere io trovo la costruzione e la dicitura loro molto più
formata ed artifiziale di quel che mi paia verisimile in quell'età. Non
vi è abbastanza visibile l'infanzia della prosa, sì manifesta nei
nostri, non dico Ricordano o suoi coetanei, ma i Villani ec. (Così negli
spagnuoli del 13. sec., ne' francesi ec.) L'infanzia della prosa si vede
bensì manifestissima in alcuni dei frammenti che restano di Democrito,
contemporaneo all'incirca di Erodoto (morì di più di 100 anni
nell'Ol. 94. Erod. fiorì Ol. 84. 440 anni circa av. G. C. Ippocrate
morì circa l'Ol. 100: ne' suoi scritti è citato Democrito).
Veggansi specialmente nella collezione (manchevole però ed imperfetta)
datane dietro Enrico Stefano dall'Orelli (loc. cit. p.4431. princip.) p.91-131.
i frammenti morali 43. 50. 70. 73. 121. fisici 1. Una stessa cosa si ripete in
uno stesso periodo, non vi è quasi sintassi, parole necessarie, ed
intere frasi o periodi, si omettono e sottintendono, l'un membro del periodo
non ha corrispondenza coll'altro, il discorso procede per via di quelle forme
che i greci chiamano anacoluti (o anacolutie), cioè inconseguenti,
che è quanto dire senza forme. Tali frammenti, cioè luoghi échappés
(come di molti è naturale che accadesse) alla diascheuasi, possono
servir di saggio della vera prosa di quell'età; sono similissimi al fare
p.e. del nostro Gio. Villani; e paragonati col dir di Erodoto, possono servir
di prova della mia opinione. Dico échappés ec. perchè certo, se
Erodoto, anche Democrito subì la diascheuasi, e ¡ corse fra gli antichi; negli
altri suoi frammenti per la più parte, non si trova niente di simile; e
Democrito passò fra gli antichi per egregio anche nello stile. (Cic. in
Oratore c.20. (67.) Itaq. video visum esse nonnullis, Platonis et Democriti
locutionem, etsi absit a versu, tamen, quod incitatius feratur, [4437]et
clarissimis verbor. luminibus utatur, potius poema putandum quam comicorum
poetar.; ap. quos, nisi quod versiculi sunt, nihil est aliud quotidiani
dissimile sermonis. De Orat. I. 11. (49.)
Si ornate locutus est, sicut fertur, et mihi videtur, physicus ille Democr.;
materies illa fuit physici, de qua dixit; ornatus vero ipse verbor., oratoris
putandus est.) Cicerone lo loda anche di chiarezza. (de Divin. II. 64. (133.) valde Heraclitus obscurus;
minime Democritus). I frammenti sopra notati s'intendono solamente per
discrezione. È ben vero che questa discrezione tutti l'hanno, e malgrado
la forma perplessa e intricata, tutti gl'intendono alla prima. E in
verità son chiari. Così i nostri antichi, così quasi tutti
i libri di siffatti tempi e stili, primitivi, ingenui, con poca arte, quasi
come natura détta: natura parla al lettore, come ha dettato allo scrittore;
essa serve d'interprete. Del resto quei costrutti e quella maniera di dire,
poichè l'uso dello scrivere in prosa fu divenuto comune, sparirono quasi
affatto; non si trovano nè anche nelle scritture greche che si leggono
su' papiri venuti d'Egitto, tutte, benchè oscure, intricate, rozze,
senz'arte, pure più logiche, più grammaticali, più
regolari e formate, benchè fatte da persone ignoranti e prive dell'arte:
come tra noi, anche un ignorante notaio, benchè scriva assai male,
schiva le sgrammaticature de' nostri storici e filosofi del 200, e 300. V.
pag.4466. Nella letteratura (greca) non saprei citarne altri esempi: se non che
si trovano in buona parte de' libri de' primi Cristiani, sì de' libri
canonici, e sì di quelli detti apocrifi[282] e
nei frammenti ercolanesi di Filodemo, monumenti d'ignoranza singolare in tal
genere, e di negligenza. V. p.4470. - Ma in vero non ci son giunti ¡ in qualche modo tutti, si
può dire, i libri antichi? non è provato che Cicerone, p.e., non
iscrisse [4438]con quella ortografia colla quale i suoi libri sono
stampati? nè con quella de' mss. che ne abbiamo? la quale è anche
diversa da quella usata, e introdotta ne' libri antichi, da' grammatici latini
del 4. secolo? (Niebuhr, Conspectus Orthographiae codicis vaticani Cic. de
repub., in fine) V. p.4480.
(12. Gen. 1829. Recanati.)
Cleobulo (un de' 7. sapienti) ap. Stobeo,
c.3. Ü® ed. Gesn.
Tigur. 1559. ¯¤ÛJÒ Å:J¯¦Ý: Sed ¤ÛJ multo est exquisitius: amore alicujus
quasi deperire. Vid. Hemsterhus. ad
Lucian. Dial. Marin. I. t.2. p.346. ed. Bipont.
(Orell. loc. sup. cit., p.529.) (15. Gennaio. 1829.).
alios subsannanti ne subrideas, invisus enim fies quibus illuditur. Id. ap. Laert. I. 93. ¯¤˜Ý ¡:J®Jæ. Per il Galateo morale.
(14.
1829.)
Alla p.4346. ñèè (fratris filio) çè (Sñ) ¡ÜSè, ³JÒ¡(õ Sñ), Ü¡ÒÛÄçñ (volle che quel ragazzo,
cioè il nipote, glielo insegnasse.) Stobeo, c.29. ÜÛ. ediz. Gesn. Tigur. 1559.
(15. 1829.)
È più penoso il distrarre per
forza la mente da un pensiero acerbo o terribile che si presenti, di quello che
sia il trattenervisi.
(17. 1829.)
Vivere senza se stesso al mondo, goder cosa
alcuna senza se stesso, è impossibile. Però chi si trova senza
speranza, chi si vede disprezzato da' conoscenti e da tutti coloro che lo
circondano, e quindi necessariamente è privo della stima di se medesimo,
non può provar godimento alcuno, non può vivere, [4439]a
dir proprio: perchè questo tale veramente manca di se medesimo nella
vita.
(17. 1829.). V. p.4488.
N. N. legge di rado libri moderni;
perchè, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci,
venti, trent'anni; e i moderni, un mese o due. Ma per leggere, tanto tempo ci
vuole a quel libro ch'è opera di trent'anni, quanto a quello ch'è
opera di trenta giorni. E la vita, da altra parte, è cortissima alla
quantità de' libri che si trovano. Onde ec. (17. 1829.)
I forti, i fortunati, sentono e
s'interessano per altrui ¤èè delle
loro facoltà e forze: i deboli ed infelici non ne hanno abbastanza per
se medesimi. Il sentimento per altrui non è veramente altro che un
superfluo, un eccesso delle proprie facoltà misurate coi bisogni e colle
occorrenze proprie.
(17. 1829.)
In questo secolo sì legislativo,
nessuno ha pensato ancora a fare un codice di leggi, civile e criminale,
utopico, ma in tutte forme, e tale da servir di tipo di perfezione, al quale si
dovessero paragonare tutti gli altri codici, per giudicare della loro bontà,
secondo il più o meno che se gli assomigliassero; tale ancora, da potere,
con poche modificazioni o aggiunte richieste puramente dalle circostanze di
luogo e di tempo, essere adottato da qualunque nazione, almeno sotto una data
forma di governo, almeno nel secolo presente, e dalle nazioni civili ec.
(17. Gennaio. 1829.)
Tomber, tumbar (spagn.) - tombolare. Tumbo
(spagn.) tombolo ec.
[4440]Muggine-mugella.
Machiavellismo di società. Chi si
crede un coglione al mondo, lo è, e lo comparisce. - Le leggi ec.
contenute in questo trattato, non sono già passeggere ec.; sono eterne,
almeno quanto le leggi fisiche ec.
(18. 1829.)
Alla p.4370. Dionysio Halicarnass. (Caecilius) usus est familiarissime. V. Dionys. Hal. in Epist. ad Cn. Pompeium. Toup.
ad Longin. sect.1. p.153. Aequalis et amicus
(Caecil.) Dionysio Halicarnasseo. Casaub. ad Athen. VI. 21. init.
- Del resto, è falso però quel che crede l'Amati, che un nome
greco unito e preposto ad un cognome romano, come sarebbe in questo caso,
Dionisio Longino, sia cosa senza esempio. Ella non è sì frequente
come un nome greco unito e posposto a un nome romano gentile, p.e.
Claudio Tolomeo, Claudio Galeno, Pedanio Dioscoride, Elio Aristide, Cassio
Dione ec.; ma nondimeno esempi non ne mancano; e ne abbiamo, fra gli altri, uno
famoso, Musonio Rufo, filosofo stoico del tempo di Nerone, del quale v. Reimar.
ad Dion. l.62. c.27. p.1023. sq. §. (cioè nota) 143. (18. Gennaio. 1829.
Domenica.). E il Lambecio, Commentar. de Biblioth. Vindob. lib.8., congetturava
che la traduzione greca che abbiamo del Breviarium d'Eutropio, e che porta nome
di Peanio o Peania, fosse chiamato Peania Capitone: il primo nome greco, e
l'altro romano.
(19. 1829.). V. p.4442.
Come in moltissime altre cose, il nostro
tempo si riavvicina al primitivo anche in questo: che esso ha in poco pregio la
poesia di stile,[283] la
poesia virgiliana, oraziana ec., anzi non questa sola, ma anche quella p.e. del
Petrarca, ed ogni poesia che abbia
stile e richiede poesia di cose, d'invenzione, d'immaginazione; non ostante
che ad un secolo sì eminentemente civile, questa paia del tutto aliena,
quella del tutto propria.
(19. 1829.)
[4441]Al discorso della eccellente
umanità degli antichi paragonati ai moderni, (del che altrove),
appartiene ancora il gius d'asilo che avevano presso loro non pure i templi o
altri luoghi pubblici, ma eziandio il focolare d'ogni casa privata; e ch'era
tanto più venerato che non è da noi. Orelli, loc. sup. cit.,
p.542. ‘ÛÛ (precetto d'alcuno de' 7. sapienti ap.
Stob. c.3.). Sensus est: Jus foci sanctum haheas, vel: Supplicem
honorato qui foco assidet. (‘¡¢¡ supra in
Periandro Ald.) De supplicum more assidendi foco vel arulae illi aut larario,
quod ad focum excitari solitum erat, ubi jus erat Û, v.
Casaub. ad Dionys. Hal. Ant. Rom. l.8.
p.1504. Reisk. et intpp. ad Thucyd. l.1. c.136. p.227. ed. Bauer. -
Così la misericordia verso i supplichevoli, anche nemici, offensori ec.,
protetti da Nemesi ec. e v. la nota favola delle Preghiere ec. ap. Omero. -
Così l'onore singolare che si aveva ai vecchi ec. - Così il
rispetto ai morti, anche nel parlare. òJñÜÇ¡. Legge di Solone, ap. Plut. in Solon. p.89.
ed. Francof. - Chi vuol vedere quasi compendiata, e ammirare, l'umanità
degli antichi (anche antichissimi), vegga le sentenze e i precetti che
correvano sotto nome dei 7. sapienti, (e sono di grande antichità certamente)
e che, raccolti già in antico (ap. Stob. si nominano per autori di
quelle due collezioni ch'esso riporta, dell'una Demetrio Falereo, dell'altra
Sosiade) (19. 1829.) si trovano riportati da Stob. c.3. Ü®, ed.
Gesn. Tigur. 1559. (vedili nell'Orelli l.c., p.138-156.).
(19. Gen. 1829.)
Alonso, spagn. moderno - Al-f-ons,
spagn. antico (in una scrittura del 13° sec. ec.). Ulh -
sil-v-a.
(20. 1829.)
[4442]Cerebrum - cervello.
Alla 4440. Non parlo dei Disticha de
moribus assai noti e certamente antichi, che corrono sotto nome di Dionisio
Catone; nome che non è fondato in alcuna probabile autorità.
(22. Gen. 1829.)
Consulere-consilium ec. Exsul,
exsulium-exsilium ec.
Alla p.4428. fine. Così matutinum
(tempus), il mattino, le matin, per mane; matutina (hora),
la mattina, la mañana. Vespertinum, serum (le soir), sera
(la sera), spagn. la tarde, per vespera. V. il Gloss.
E ciò anche presso gli antichi: v. Forc. in queste voci. Così
nelle Ore canoniche Matutinum, Prima, Tertia, Sexta, Nona. Hibernum,
l'inverno, l'invierno (spagn.), l'hiver, per hiems. Aestivum
(spagn. estío), per aestas. V. Gloss. e Forcell. anche in diurnus.
Similmente Infernus (locus) negli scrittori Cristiani, e forse
anche in Varrone. E tali altri aggettivi sostantivati.
(24. 1829.). V. p.4465.4474.
- Avernus.
Niebuhr (loc. cit. p.4431. fine), sezione intitolata The
Opicans and Ausonians, p.55. Apulus and Opicus are according to all
appearance the same name, only with different terminations. That in ulus
acquired the meaning of a diminutive only in the language of later times; in
earlier such a sense must be entirely separated from it; as is evident from
Siculus and Romulus, as well as from the words uniting the two terminations
(quella in icus e quella in ulus), which is the commoner case,
Volsculus (contratto da Volsiculus), Aequiculus, Saticulus; and even Graeculus.
- Ib. sez. intit. Iapygia, p.126. The Poediculians (such was the Italian
name of the Peucetians) were etc. (not.419. The simpler [4443]forms,
Poedi and Poedici, have not been preserved in books.) - Ib. sez. intit. Various
traditions about the Origin of the City p.174. It was natural for them (the
inhabitants of Rome) to call the founder of their nation Romus, or, with the
inflexion so usual in their language, Romulus. - Ib. sez. intit. The
Beginning of Rome and its Earliest Tribes, p.251. Romus and Romulus are
only two forms of the same name (not.698. Like Poenus and Poenulus and others
mentioned above p.55); the Greeks on hearing a rumour of the legend about the
twins (Romolo e Remo), chose the former (cioè ‘PÇ) instead of the less sonorous name Remus.[284] - L'uso di
questa terminazione in ulus senza alcuna forza diminutiva, uso proprio
del latino sì antico, si è conservato perfettamente (e non men frequentemente)
nell'italiano; specialmente in Toscana, e specialmente appresso quel volgo, il
quale continuamente, per mero vezzo di linguaggio, aggiunge un lo
appiè delle voci italiane, dicendo, p.e. ricciolo invece di riccio,[285] e
così mille altre, che con tal desinenza non son registrate nel
Vocabolario; oltre le tante registrate. E che questo medesimo uso (unita anche
sovente, come nell'antico, la terminazione in icus a quella in ulus)
si conservasse perpetuamente nel latino volgare, apparisce dai tanti e tanti,
non solo nomi, ma verbi, della bassa latinità, o derivati evidentemente da
essa, da me notati passim, che la portano, senz'ombra di significazione diminutiva;
come pariculus (parecchi, pareil ec.), appariculare (apparecchiare,
aparejar ec.), superculus (v. la p.4514. fin.) ec. ec.; nomi anche
aggettivi ec. Non ardirei però di affermare col Niebuhr che questa
inflessione in origine non fosse punto diminutiva. Il vederla senza questa
significanza, non prova; apparendo da [4444]tanti, quasi infiniti,
esempi (sì del greco, sì del latino basso sì dell'antico,
sì delle lingue figlie della latina; e in queste, sì in forme
venute dal latino, e sì in altre forme diminutive proprie loro e non
latine) che sempre fu ed è vezzo di linguaggio, specialmente popolare,
il profferire le voci con inflessione diminutiva, quasi per grazia, quantunque
il caso sia alieno dal richieder diminuzione, e la significanza diminutiva sia
affatto lontana da tal pronunzia. (25. Gennaio. 1829. Domenica quarta.). Del
resto ho notato altrove quando l'ul... è semplice desinenenza di
voci derivative, come in speculum, iaculum ec. e così ne' verbi,
come fabulor ec. V. p.4516.
Non solo le storie o storielle d'una nazione
furono spessissimo, come ho detto altrove in più luoghi, trasportate ed
applicate ad un'altra; ma quelle eziandio d'una nazione medesima, cambiati i
nomi delle persone, e le circostanze di luogo, tempo, e simili, furono sovente
trasportate e applicate da un'epoca della sua storia ad un'altra. Questa cosa
è notata negli annali di Roma dal Niebuhr in più e più casi;
ed egli ripete tale osservazione in più e più luoghi della sua
storia. Fra gli altri, sezione intitolata
The War with Porsenna, p.484 seg., dice: It is a peculiarity of the
Roman annals, owing to the barren invention of their authors, to repeat the
same incidents on different occasions, and that too more than once. Thus the history
of Porsenna's war reflects the image of that with Veii in the year (di Roma)
277, which after the misfortune on the Cremera brought Rome to the brink of destruction.
In this again the Veientines made themselves masters of the Janiculum; and in a
more intelligible manner, after a victory in the field: here again the city was
saved by a Horatius (come dal Coclite nella guerra con Porsenna); the consul
who arrived [4445]with his army at the critical moment by forced marches
from the land of the Volscians: the victors, encamping on the Janiculum, sent
out foraging parties across the river and laid waste the country; until some
skirmishes, which again took place by the temple of Hope and at the Colline
gate, checked their depredations: yet a severe famine arose within the city.
(26. Gen. 1829.)
Niebuhr,
ib. sez. intit. The Patrician Houses
and the Curies, p.268. Each house
(ciascuno dei ¡ gentes nei quali era anticamente
distribuito il popolo ateniese) bore a peculiar name resembling a patronymic in
form; as the Codrids, the Eumolpids, the Butads: which produces an appearance,
but a fallacious one, of a family affinity (perchè quelle gentes,
come ap. i Romani, erano una mera divisione politica; ciascuna gens o casa
era composta di più famiglie senz'alcun riguardo ad affinità scambievole).
These names may have been
transferred from the most distinguished among the associated families to the
rest: it is more probable that they were adopted from the name of a hero, who
was their eponymus. Such a house was that of the Homerids in Chios;
whose descent from the poet was only an inference drawn from their name,
whereas others pronounced that they were no way related io him (not.747.
Harpocration v. ‘Û. It may be warrantably assumed that a hero named
Homer was revered by the Ionians at the time when Chios received its laws. See
the Rhenish Museum (Museo Renano) I. 257.) In Greek history what appears to be
a family, may probably often have been a house of this kind; and this system of
subdivision is not to be confined to the Ionian tribes alone.
(27. 1829.)
[4446]Ib. sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium, p.166-7. These wars Virgil describes, effacing
discrepancies and altering and accelerating the succession of events, in the
latter half of the Aeneid. Its contents were certainly national; yet it is
scarcely credible that even Romans, if impartial, should have received sincere
delight from these tales. We feel but too unpleasantly how little the poet
succeeded in raising these shadowy names (degli eroi di quelle guerre), for
which he was forced to invent a character, into living beings, like the heroes
of Homer. Perhaps it is a problem that cannot be solved, to form an epic poem
out of an argument which has not lived for centuries in popular songs and tales
as common national property, so that the cycle of stories which comprises it,
and all the persons who act a part in it, are familiar to every one. V. p.4475
- Assuredly the problem was not to be solved by Virgil, whose genius was barren
for creating, great as was his talent for embellishing. That he felt this
himself, and did not disdain to be great in the way adapted to his endowments,
is proved by his very practice of imitating and borrowing, by the touches he
introduces of his exquisite and extensive erudition, so much admired by the
Romans, now so little appreciated. He who puts together elaborately and by
piecemeal, is aware of the chinks and crevices, which varnishing and polishing
conceal only from the unpractised eye, and from which the work of the master,
issuing at once from the mould, is free. Accordingly Virgil, we may be sure, felt
a misgiving, that all the foreign ornament with which he was decking his work,
though it might enrich the poem, was not his own wealth, and that this would at
last be perceived by posterity. That [4447]notwithstanding this fretting
consciousness, he strove, in the way which lay open to him, to give to a poem,
which he did not write of his own free choice, the highest degree of beauty it
could receive from his hands; that he did not, like Lucan, vainly and blindly
affect an inspiration which nature had denied to him; that he did not allow
himself to be infatuated, when he was idolized by all around him, and when
Propertius sang: Yield, Roman poets, bards of Greece, give way, The Iliad
soon shall own a greater lay; that, when death was releasing him from the
fetiers of civil observances, he wished to destroy what in those solemn moments
he could not but view with melancholy, as the groundwork of a false reputation;
this is what renders him estimable, and makes us indulgent to all the
weaknesses of his poem. The merit of a first attempt is not always decisive:
yet Virgil's first youthful poem shews that he cultivated his powers with incredible
industry, and that no faculty expired in him through neglect. But how amiable
and generous he was, is evident where he speaks from the heart: not only in the
Georgics, and in all his pictures of pure still life; in the epigram on Syron's
(così, in vece di Sciron's) Villa: it is no less visible in his
way of introducing those great spirits that beam in Roman story.
(29-30.
1829.)
Alla p.4316. Ben d'altra qualità e d'altro peso
è la congettura del Niebuhr fondata in profondissima dottrina, e scienza
dell'antichità, that the Teucrians and Dardanians, Troy and Hector,
ought perhaps to be considered as Pelasgian:... that they were not Phrygians
was clearly [4448]perceived by the Greek philologers, who had even a
suspicion that they were no barbarians at all. (loc. cit. p.4431. fin.,
sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p.28.) Egli reca i
fondamenti di questa sua propria e particolare opinione, ib. Nella sez.
intit. Conclusion di quella parte della sua storia che concerne gli
antichi popoli d'Italia, p.148, ripete questa sua congettura: In the very
earliest traditions they (the Pelasgians) are standing at the summit of their
greatness. The legends that
tell of their fortunes, exhibit only their decline and fall: Jupiter had
weighed their destiny and that of the Hellens; and the scale of the Pelasgians
had risen. The fall of Troy was the symbol of their story. (L'autore
riguarda la guerra di Troia come un mito. Sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium,
p.151. Let none treat this inquiry with scorn, because Ilion too was a fable...
Mythical the Trojan war certainly is...: yet it has an undeniable historical
foundation; and this does not lie hid so far below the surface as in many other
poetical legends. That the Atridae were Kings of the Peloponnesus, is not to be
questioned.) Altrove (sez. cit. nella parentesi qui sopra, p.160-61.)
egli reca di nuovo i fondamenti di questa opinione, e mette anco innanzi
un'altra sua congettura, che la tradizione della venuta d'Enea nel
Lazio, dell'avervi egli fondata una colonia donde Roma derivasse, e dell'essere
i romani di origine troiana, non fosse altro che un effetto ed un'espressione
della national affinity esistente fra i Troiani e i Romani, in quanto questi
erano, secondo l'autore, di origine in parte Pelasgica. - I Pelasghi, [4449]secondo
il Niebuhr (ed una delle parti più insigni ed eminenti e più
originali della sua Storia consiste nelle nuove vedute e nei nuovi lumi ch'ei
reca sopra questa misteriosa razza, com'ei la chiama; e nella nuova luce
in che egli l'ha posta), furono una nazione distinta, e di origine e di costumi
diversa, da quella degli Elleni, che noi co' Latini chiamiamo Greci; e nel
tempo medesimo grandemente affine: e parlarono una lingua peculiar and not
Greek, e nondimeno grandemente affine alla greca; più affine della
Latina, il cui elemento affine al linguaggio greco, quello elemento which is
half Greek sembra, dice il Niebuhr, unquestionable che sia d'origine
pelasgica. Tuttavia Pelasghi e Greci non s'intendevano insieme, come non
s'intendono italiani e francesi ec. (p.23, e passim).
(31. Gen. 1. Feb. 1829.). V.
p.4519.
A viver tranquilli nella società
degli uomini, bisogna astenersi non solo dall'offendere chi non ci offende,
cosa ordinaria; ma eziandio, cosa rarissima, dal proccurare (dal cercare) che
altri ci offenda. - Desiderio sincero di viver tranquilli nella società
degli uomini, rarissimi sono che l'hanno veramente: avendolo, il conseguire
l'effetto è cosa molto più facile che non si crede.
(1. Feb. 1829.)
Tutti, cominciando dal Pindemonte nella sua
Epistola, hanno biasimato l'introduzione di Ettore e delle cose troiane nel
Carme dei Sepolcri; e tutti leggono quell'episodio con grande interesse, e
segretamente vi provano un vero piacere. Certo, quell'argomento è
rancido; ma appunto perch'egli è rancido, perchè la nostra acquaintance
con quei personaggi dàta dalla nostra fanciullezza, essi c'interessano
sommamente, c'interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone
degli altri, [4450]produrre altrettanto effetto.
(1. Feb. 1829.)
Della lettura di un pezzo di vera,
contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione
è quella de' versi), si può, e forse meglio, (anche in questi
sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa
aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per
così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i
pezzi di questa sorta.
(1. Feb. 1829.). Nessuno del Monti è
tale.
¯per ¦. V.
Orelli (loc. cit. p.4431.) tom.2. Lips. 1821. p.529-30.
Grus (grue) - spagn. grulla,
quasi grucula o gruicula. - Sol - soleil, quasi soliculus.
- Legnaiuolo, armaiuolo ec. quasi lignariolus e simili.
(2. Feb. 1829.)
Mirado (ammirato) per
maravigliato; en la noche callada per tacente. Francisco de Rioja, Cancion
(cioè sobre) las ruinas de It lica, strofa
ultima.
Chi non sa circoscrivere, non può
produrre. La facoltà della produzione è scarsa o nulla in
quell'ingegno dove le altre facoltà sono troppo vaste e soprabbondano.
(3. Feb. 1829.). Vedi la pag.4484.
Niebuhr (loc. cit. p.4431. fine) sezione intitolata Beginning
and Nature of the Earliest History, p.216. segg. The
greater is the antiquity of the legends: (dei miti ec. intorno ai fatti dei re
di Roma, e ai primi tempi della città): their origin goes back far
beyond the time when the annals (gli annali pontificali di Roma) were restored
(furono rinnovati, dopo che gli antichi annali erano periti nell'incendio di
Roma al tempo della presa della città fatta dai Galli). That they were transmitted from generation to
generation in lays, that their contents cannot be more authentic than those of
any other poem on the deeds of ancient times which is preserved by song, is not
a new notion. A century and a half will soon have elapsed, since Perizonius
(not.627. In [4451]his Animadversiones Historicae, c.6.) expressed it,
and shewed that among the ancient Romans it had been the custom at banquets to
sing the praises of great men to the flute; (not.628. The leading passage in
Tusc. Quaest. IV. 2. Gravissimus auctor in Originibus dixit Cato, morem apud majores
hunc epularum fuisse, ut deinceps, qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum
virorum laudes atque virtutes. Cicero laments the loss of these songs; Brut.
18. 19. Yet, like the sayings of Appius the blind, they seem to have
disappeared only for such as cared not for them. Dionysius knew of songs on
Romulus [É¢ÝÛì êò‘PÛ¦Üè , dice Dionisio 1. 79. della nota favola circa
la nascita di Romolo e Remo, e la vendetta da loro presa di Amulio]) a fact
Cicero only knew from Cato, who seems to have spoken of it as an usage no
longer subsisting. The guests
themselves sang in turn; so it was expected that the lays, being the common
property of the nation, should be known to every free citizen. According to
Varro, who calls them old, they were sung by modest boys, sometimes to the
flute, sometimes without music. (not.629. In Nonius II. 70. stessa voce:
(aderant) in conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus
laudes erant majorum, assa voce, ei cum tibicine.) The peculiar function of the Camenae was to sing the
praise of the ancients; (not.630. Fest. Epit. v. Camenae, musae, quod canunt
antiquorum laudes.) and among the rest those of the kings. For never did
republican Rome strip herself of the recollection of them, any more than she
removed their statues from the Capitol: in the best times of liberty their
memory was revered and celebrated. (not.631. Ennius [4452]sang of them,
and Lucretius mentions them with the highest honour.).
We are so thoroughly dependent on the age to which we
belong, we subsist so much in and through it as parts of a whole, that the same
thought is at one time sufficient to give us a measure for the acuteness,
depth, and strength of the intellect which conceives it, while at another it
suggests itself to all, and nothing but accident leads one to give it utterance
before others. Perizonius knew of heroic lays only from books; that he should
ever have heard of any then still current, or written down from the mouth of
the common people, is not conceivable of his days: he lived long enough to
hear, perhaps he heard, but not until a quarter of a century had passed since
the appearance of his researches, how Addison (sic) roused the stupefied senses
of his literary contemporaries, to join with the common people in recognizing
the pure gold of poetry in Chevychase (v. The Speciator's n.70.74.) For us the
heroic lays of Spain, Scotland, and Scandinavia, had long been a common stock:
the lay of the Niebelungen had already returned and taken its place in
literature: (l'autore, p.196. the German national epic poem, the Niebelungen
lay.) and now that we listen to the Servian lays, and to those of Greece,
(raccolti da Fauriel, che l'autore cita più volte), the swanlike strains
of a slaughtered nation; now that every one knows that poetry lives in every
people, until metrical forms, foreign models, the various and multiplying interests
of every-day life, general dejection or luxury, stifle it so, that of the
poetical spirits, still more than of all others, very few find vent: while on
the contrary spirits without poetical genius, but with talents so analogous to
it that they may serve as a [4453]substitute, frequently usurp the art;
now the empty objections that have been raised no longer need any answer.
Whoever does not discern such lays in the epical part of Roman story, may
continue blind to them: he will be left more and more alone every day: there
can be no going backward on this point for generations.
One among the various forms of Roman popular poetry was
the nenia, the praise of the deceased, which was sung to the flute at funeral
processions, (not.632. Cicero de legib. II. 24.) as it was related in the funeral orations. We
must not think here of the Greek threnes and elegies: in the old times of Rome
the fashion was not to be melted into a tender mood, and to bewail the dead;
but to pay him honour. We must therefore imagine the nenia to have been a
memorial lay, such as was sung at banquets: indeed the latter was perhaps no
other than what had been first heard at the funeral. And thus it is possible
that, without being aware of it, we may possess some of these lays, which
Cicero supposed to be totally lost: for surely a doubt will scarcely be moved
against the thought, that the inscriptions in verse (not.633. On the coffin of
L. Barbatus the verses are marked and made apparent by lines to separate them:
in the inscription on his son they form an equal number of lines, and may be
recognized with as much certainty as in the former from the great difference in
the length of them) on the oldest coffins in the sepulcre of the Scipios are
nothing else than either the whole nenia, or the beginning of it [4454](not.634.
The two following inscriptions are of this kind: I transcribe them, because it
si probable many of my readers never saw them.
Cornélius Lúcius Scípio Barbátus,
Gnáivo
(patre) prognátus, fortis vír sapiénsque,
Quoius fórma vírtuti paríssuma fuit,
Consúl,
Censor, Aédilis, qúi fuit apúd vos:
Taurásiam,
Cesáunam, Sámnio cépit,
Subicit omnem Lúcánaam, (cioè Lucaniam)
Obsidésque abdúcit.
The second is:
Hunc únum plúrimi conséntiunt Románi
Duonórum optumum fúisse virúm,
Lúcium Scipiónem, fílium Barbáti.
Consúl,
Censor, Aédilis, híc fuit apúd vos.
Hic
cépit Córsicam, Alériamque úrbem
Dédit
tempestátibus aédem mérito.
I have softened the rude spelling, and have even
abstained from marking that the final s in prognatus, quoius, and
the final m in Taurasiam, Cesaunam, Aleriam, optumum, and omnem,
was not pronounced. The short i in Scipio, consentiunt, fuit, fuisse,
is suppressed, so that Scipio for instance is a disyllable; a kind of
suppression of which we find still more remarkable instances in Plautus. In the
inscription of Barbatus, v.2, patre after Gnaivo is beyond doubt
an interpolation: and in that on his son, v.6, it is to be observed that the
last syllable [4455]of Corsicam is not cut off.) These epitaphs
present a peculiarity which characterizes all popular poetry, and is strikingly
conspicuous above all in that of modern Greece. Whole lines and thoughts become
elements of the poetical language, just like single words: they pass from older
pieces in general circulation into new compositions; and, even where the poet
is not equal to a great subject, give them a poetical colouring and keeping. So
Cicero read on the tomb of Calatinus: hunc plurimae consentiunt gentes
populi primarium fuisse virum: (not.635. Cicero de Senectute 17.) we read
on that of L. Scipio the son of Barbatus: hunc unum plurimi consentiunt
Romani bonorum optumum fuisse virum.
The poems out of which what we call the history of the
Roman Kings was resolved into a prose narrative, were different from the nenia
in form, and of great extent; consisting partly of lays united into a uniform
whole, partly of such as were detached and without any necessary connexion. The
history of Romulus is an epopee by itself: on Numa there can only have been
short lays. Tullus, the story of the Horatii, and of the destruction of Alba,
form an epic whole, like the poem on Romulus: indeed here Livy has preserved a
fragment of the poem entire, in the lyrical numbers of the old Roman verse.
(not.636. The verses of the horrendum carmen I. 26.
Duúmviri pérduelliónem júdicent.
Si a duúmviris provocárit,
Provocátióne certáto:
Si víncent, caput óbnúbito:
[4456]Infélici
arbore réste suspéndito:
Vérberato íntra vel éxtra pomoérium.
The description of the nature of the old Roman
versification, and of the great variety of its lyrical metres, which continued
in use down to the middle of the seventh century of the city, and were carried
to a high degree of perfection, I reserve, until I shall publish a chapter of
an ancient grammarian on the Saturnian Verse, which decides the question.) On
the other hand what is related of Ancus has not a touch of poetical colouring.
But afterward with L. Tarquinius Priscus begins a great poem, which ends with
the battle of Regillus; and this lay of the Tarquins even in its prose shape is
still inexpressibly poetical; nor is it less unlike real history. The arrival
of Tarquinius the Lucumo at Rome: his deeds and victories; his death; then the
marvellous story of Servius; Tullia's impious nuptials; the murder of the just
king; the whole story of the last Tarquinius; the warning presages of his fall;
Lucretia; the feint of Brutus; his death; the war of Porsenna; in fine the
truly Homeric battle of Regillus; all this forms an epopee, which in depth and
brilliance of imagination leaves every thing produced by Romans in later times
far behind it. Knowing nothing of the unity which characterizes the most
perfect of Greek poems, it divides itself into sections, answering to the adventures
in the lay of the Niebelungen: and should any one ever have the boldness to
think of restoring it in a poetical form, he would commit a great mistake in selecting
any other than that of this noble work (del poema of the Niebelungen).
[4457]These
lays are much older than Ennius, (not.637.
-Scripsere alii rem
Versibu' quos olim Fauni vatesque canebant:
Quom neque Musarum scopulos quisquam superarat,
Nec dicti studiosus erat.
Horace's annosa volumina vatum may have been old poems
of this sort: though perhaps they are also to be understood of prophetical
books, like those of the Marcii; which, contemptuously as they are glanced at,
were extremely poetical. Of this we may judge even from the passages preserved
by Livy (XXV. 12.): Horace can no more determine our opinion of them than of
Plautus.) who moulded them into hexameters, and found matter in them for three
books of his poem; Ennius, who seriously believed himself to be the first poet
of Rome, because he shut his eyes against the old native poetry, despised it,
and tried successfully to suppress it. Of that poetry and of its destruction I
shall speak elsewhere: here only one further remark is needful. Ancient as the
original materials of the epic lays unquestionably were, the form in which they
were handed down, and a great pary of their contents, seem to have been
comparatively recent. If the pontifical annals adulterated history in favour of
the patricians, the whole of this poetry is pervaded by a plebeian spirit, by
hatred toward the oppressors, and by visible traces that at the time when it
was sung there were already great and powerful plebeian houses. The assignments
of land by Numa, Tullus, Ancus, and Servius, are [4458]in this spirit:
all the favorite Kings befriend freedom: the patricians appear in a horrible
and detestable light, as accomplices in the murder of Servius: next to the holy
Numa the plebeian Servius is the most excellent King: Gaia Cecilia, the Roman
wife of the elder Tarquinius, is a plebeian, a Kinswoman of the Metelli: the
founder of the republic and Mucius Scaevola are plebeians: among the other
party the only noble characters are the Valerii and Horatii; houses friendly to
the commons. Hence I should be inclined not to date these poems, in the form
under which we know their contents, before the restoration of the city after
the Gallic disaster at the earliest. This is also indicated by the consulting
the Pythian oracle. The story of the symbolical instruction sent by the last
King to his son to get rid of the principal men of Gabii, is a Greek tale in
Herodotus: so likewise we find the stratagem of Zopyrus repeated (dal figlio di
Tarquinio a Gabii): (anche la storia di Muz. Scev. è greca, cosa
non notata dall'autore neppure a suo luogo, e da me osservata altrove; e greche
sono quelle tante raccolte da Plutarco nel libro da me citato altrove in tal
proposito) we must therefore suppose some knowledge of Greek legends, though
not necessarily of Herodotus himself.
(5-8. Feb. 1829.)
Alla p.4359. Niebuhr (loc. cit. p.4431. fin.) sezione intitolata The
Beginning of the Republic and the Treaty with Carthage, not.1078. p.456-7.
This play (the Brutus of L. Attius) was a praetextata, the
noblest among the three kinds of the Roman national drama; all which assuredly,
and not merely the Atellana, might be represented by well-born Romans without
risking their franchise. [4459]The praetextata merely bore an analogy to
a tragedy: it exhibited the deeds of Roman Kings and generals (Diomedes III.
p.487. Putsch.); and hence it is self-evident, that at least it wanted the
unity of time of the Greek tragedy; that it was a history, like Shakspeare's. I
have referred above (p.431.) to a dialogue between the King (Tarquinio superbo)
and his dream-interpreters in the Brutus (dialogo citato da Cic. de Divinat.
I. 22.), the scene of which must have lain before Ardea: the establishment of
the new government (del governo repubblicano a Roma), which must have been the
occasion of the speech, qui recte consulat, consul siet (nel Brutus:
parlata citata da Varrone de L. L. IV. 14. p.24.), occurs at Rome: so that the
unity of place is just as little observed. The Destruction of Miletus by
Phrynichus and the Persians of Aeschylus were plays that drew forth all
the manly feelings of bleeding or exulting hearts, and not tragedies: for the
latter the Greeks, before the Alexandrian age, took their plots solely out of
mythical story. It was essential that their contents should be known
beforehand: the stories of Hamlet and Macbeth were unknown to the spectators:
at present parts of them might be moulded into tragedies like the Greek; if a
Sophocles were to rise up.
(8. Feb. Domenica. 1829.)
Albino, antico autore, ap. Macrob. II. 16.
Stultum sese brutumque faciebat. (Bruto l'antico). Si faceva,
cioè si fingeva. Vecchissimo italianismo del latino. V. Forcell. ec.
(8. Feb. Domenica. 1829.)
Storie o storielle trasportate da una
nazione a un'altra. Vedi la pag. precedente, lin.10-17.
(8. Feb. Domenica. 1829.)
[4460]Affatto greco è l'uso
che noi abbiamo di parecchi aggettivi neutri in significato di sostantivi astratti:
lo scarso (ò) per la
scarsità, il caro per la carestia o la carezza,
e simili. Uso tutto italiano, cioè non comune, che io mi ricordi, alle
lingue sorelle; nè potuto derivare dal latino, al quale, pel difetto che
ha di articoli, sarebbe mal conveniente.
(11. Feb. 1829.)
Svariato per vario.
Gnaivus per Gnaeus. Vedi la pag.4454. lin.4.
- Achivus p. Achaeus (Ý) è
certamente da un Ý, come Argivus
da Ý.
Sinizesi. Dittonghi ec. Elisione dell'm
finale in latino. Vedi la pag.4454. lin.17. segg. V. p.4465.
Gli antichissimi scrivevano fut, fusse
per fuit, fuisse. Vedi la pag.4454. lin.20. Quindi anche fussem ec.
per fuissem. E certamente così anco pronunziavano. Or questa
antichissima pronunzia si è conservata nell'italiano: fu (fut.
Anche in franc. fut) fusti, fuste, fummo (fumus per fuimus:
franc. fûtes, fûmes), fussi ec. pronunzia de' nostri
antichi scrittori, ed oggi del popolo di più parti d'Italia, e del
toscano costantemente.
(15. Febb. Domenica. 1829.)
Alla p.4356. Dionisio d'Alicarnasso (vedi la
p.4451. lin.9.), chiama inni gli antichi canti epici de' Romani in lode
de' loro eroi.
Alla stessa pag. lin. ult. Gli antichi poemi
epici de' Romani non consistevano che in pezzi, in canti, di argomenti diversi,
benchè coincidenti in un solo fino ad un certo segno. Così il poema
epico antico nazionale tedesco, the lay of the Niebelungen. Vedi di
sopra il pensiero che comincia p.4450. capoverso ult. e specialmente le
pagg.4455.4456.
[4461]Alla p.4413. E vedi, a tal
proposito, particolarmente la pag.4356. capoverso 1. Gli antichi canti
nazionali e poemi epici de' Romani, epici per l'argomento e la forma, erano in
metri lirici. Vedi il pensiero citato nella pag. preced. capoverso ult., e
specialmente la p.4455. e la seguente. Anche il poema della guerra punica di
Nevio (libri o carmen belli punici) era in versi lirici di
diverse misure, come può vedersi ne' frammenti di esso poema appresso
Hermann, Elementa doctrinae metricae, III. 9. 31. p.629. sqq. (Niebuhr, Stor. rom. p.162. not.507.
p.176., not.535.).
(16. Febbraio. 1829.)
Nelle razionali speculazioni circa la natura
delle cose, è da aver sempre avanti gli occhi questo assioma
importantissimo: che dal vedere che da certe disposizioni poste dalla natura in
certi esseri, facilmente e frequentemente (o anche sempre) nascono certe
qualità; che certe qualità, pur date dalla natura, facilmente e
frequentemente ricevono certe modificazioni; che certe cause facilmente e
spesso producono certi effetti; dal vedere, dico, queste cose, non si
può dedurre che ciò segua naturalmente; che quelle
qualità, quelle modificazioni, quegli effetti sieno voluti dalla natura;
che la intenzione della natura sia stata che essi avessero luogo,
allorchè ella pose in quegli esseri quelle disposizioni, qualità
o cause. Se uno fa una spada e un altro se ne serve a fettare il pane, non
segue che l'intenzione del fabbricatore fosse che quello strumento fettasse il
pane, benchè quella spada possa servire, e benchè serva attualmente,
a quest'uso. Infiniti sono i disordini nel corso delle cose, non solo possibili,
ma facilissimi ad accadere; moltissimi tanto facili, [4462]che quasi
sono certi ed inevitabili: nondimeno son disordini manifesti, nè si
possono attribuire ad intenzione della natura. Per un esempio fra mille: niente
è più facile nè più frequente in certe specie di
animali, che il veder le madri o i padri mangiarsi i propri figliuoli, bersi le
proprie uova o quelle della compagna. Questo disordine orribile, che fa
fremere, tende dirittamente e più efficacemente d'ogni altro alla
distruzione della specie: è impossibile attribuire ad intenzione della
natura, la cui tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti,
è una delle cose più certe che di lei si possono affermare, e che
in lei sembrino manifestarci un'intenzione; attribuirle dico un disordine per
cui il produttore stesso distrugge il prodotto, il generante il generato. Se la
natura procedesse intenzionalmente in tal modo, già da gran tempo
sarebbe finito il mondo. Da queste considerazioni segue, che per quanto il
fenomeno dell'incivilimento dell'uomo sia possibile ad accadere; per quanto,
considerate le disposizioni e le qualità poste in noi dalla natura e
costituenti l'esser nostro, esso fenomeno possa parer facile, inevitabile; per
quanto sia comune; noi non abbiamo il diritto di giudicarlo naturale, voluto
intenzionalmente dalla natura. Grandissimi e vastissimi avvenimenti, fecondi di
conseguenze sommamente moltiplici, importantissime, possono aver luogo a mal
grado, per così dire, della natura.
(16. Febb. 1829.) V. p.4467. 4491.
L'autore anonimo della vita d'Isocrate
pubblicata dal Mustoxidi nella S¯¡Çñ, Venez. 1816. (quaderno
3); e ristampata dall'Orelli loc. cit. p.4431., t.2. Lips. 1821. - p.10. del , ed.
Mustox.; p.5. ed. Orell. - ¡¢²Ýæ÷¢è¢ [4463]èÝ (e' non fa nulla, il ne fait
rien) Þ䯯°òæÛ (’). ¦¡÷.
L'Orelli, l.c., p.525. fa questa nota: ÷¢é¢èÝ i.e. hoc nullius fere vel
perquam exigui momenti est. ut nos dicimus: es macht nichts pro es
hat nichts zu sagen, es hat nicht viel auf sich.
(17. Feb. 1829.)
Meride nell'ƒ¯. G¡, ñ, Ç. Ý, ¡, ¥Ç. E
così sogliono i grammatici antichi, non solo in generale, ma anche ne'
casi particolari, distinguere costantemente dall'attico al greco comune, e
riconoscere l'esistenza del secondo.
(17. Feb. 1829.)
Rufino nella version latina dell'Enchiridion
o Annulus aureus che porta il nome di Sesto o Sisto, num.372. ed.
Orell., loc. cit. p.4431., t. I. p.266. Quod fieri necesse est, voluntarie
SACRIFICATO. Nè il Forcell. nè il Du Cange non hanno esempio di sacrificare,
sacrificium ec. in questo senso metaforico, sì comune nelle lingue
figlie, specialmente nel francese.
(17. Feb. 1829.)
S. Nilo vesc. e mart. µ¡ Capita
seu praeceptiones sententiosae, num.199., ed. Orell. ib. p.346. æòÒñ (conscientia) ¡:èÛ (p. : quali-quali: italianismo) ¢¢ÛÄJ (scil. ), Û¢êÛ.
(17. Feb. 1829.)
Il medesimo ap. Io. Damasc. Parallel. Sacr.,
Opp. ed. Lequien. t.2. p.419. et ap. Orell.
ib. p.362. lin.6. Û per , carne, cioè corpo (, all'uso stoico.).
(17.
Feb. 1829.)
[4464]Lysis in Epistola ad
Hipparchum p.52. edit. Epistolarum Socratis et Socraticorum, Pythagorae et
Pythagoreorum, Io. Conr. Orellii, Lips. 1815. ¢Jè®(Jñ) JÛÜÇ, ¢°JÛJÝéö (nemmen per sogno per in niun modo, niente
affatto) J¡ (Orell. ib. p.600.).
(18. Febbr. 1829.). V. p.4470.
Alla p.4165. Così Callimaco, ìÜæ’ÞÅ, nel noto epigramma sopra il tor moglie di
condizione pari, verso ult. Vedilo nell'Orelli ib. p.176. e le note a quel
luogo, ib. p.555., e del Menag. ad Laert. ec., e nelle opp. di Callimaco. Il
luogo di Teone citato nel pensiero a cui questo si riferisce, conferma la
lezione æ’ÞÅçÛ, ed è qui assai notabile e prezioso.
- Così noi diciamo anche andamenti, procedimenti, per azioni,
o per modi di operare, di governarsi. ec.
(18. Febbr. 1829.)
Gratari - gratulari. Trembler (tremulare).
Alla p.4431. Tucidide, nel proemio, chiama
gli storici ¡ è usato per iscrivere istoria, narrare,
raccontare; Û per historiae
scriptio; ²¯ da
Eustazio per prosa, soluta oratio; ed anche si dice semplicemente per prosatore.
per istorico
da Senofonte. S pur si dice particolarmente per ÝJ, cioè ne' significati qui sopra
detti di ¡. Isocrate nell'epilogo del ñ ¡, distingue espressamente ® e (æ ÜÇÜÇ ec.); ed Ammonio de Diff.
Vocab. definisce ilæõÛ¡ñ, õññ. Appunto come se ® non
fossero ¡, cioè scritti; o come se non
valesse [4465]anche, come vale, semplicemente scrivere, conscribere.
Sç per istorico
passim: Ý poeti
e scrittori, cioè prosatori, passim, e in Laerz. VI. 30. ¯ per istoria,
narrazione, opera o composizione istorica, ap. Pausan. (¡é¢¢¯¡ñ) e
specialmente Arriano (Alexand. praef. 5. ¯: I. 12. 7.
IV. 10. 2. V. 4. 4. V. 6. 12. VI. 16. 7. VII. 30. 7. Indic. 19. 8. ¯). prosa oratione, prosaice.
Plutar. ÜÇ¢¡ÜÇ: Isocr. nell'esord. o Û dell'ad
Nicocl.. (Scapula, Tusano, Budeo: i quali non citano Arriano; e il solo
Tusano Ammonio, ad altro oggetto, e non riporta le parole.).
(19. Febbr. 1829.)
Alla p.4440. (la quale, del resto, è
anch'essa d'imaginazione, come ho detto altrove, ec.).
(19. Feb. 1829.)
ñÛ.
Tardivo (ital.) - tardío (spagnuolo.).
Segnalato, señalado, signalé, per
degno di essere segnalato, cioè notato; notevole.
Alla p.4460. In the epitaph of L. Cornelius Scipio
Barbatus, Lucanaa - The doubling the vowel belongs to the Oscan and old
Latin: in the Julian inscription of Bovillae we find leege. Niebuhr,
sezione intitolata The Sabines and Sabellians, not.248. p.72-3.
(24. Feb. 1829.)
Alla p.4442. Verano spagn. non
è altro che vernum: verno per verno tempore o vere
è assai frequente anche nel buon latino (Forcell.). Secondo l'Amati, nel
Giornale arcad. tom.39., 3zo del 1828, p.240. l'appellazione di
PREIVERNUM o PRIVERNUM (oggi Piperno, antica città de'
Volsci), tiensi per gli uomini più istruiti di fabbrica latina; da
PREIMUM, o PRIMUM, e VERNUM, sottinteso TEMPUS: essendo
la posizione del paese, in monti aprici e non molto elevati, [4466]
attissima ad anticipata primavera.
(24. Feb. 1829.)
Primavera, cioè primum ver
o vernum, pel semplice ver. Anche questo è d'antichissimo
uso latino. Vedi il pensiero precedente, e il Forcell. in Ver.
(24. Feb. 1829.)
Alla p.4437. Ben sono frequentissimi gli
esempi di tal genere, non solo quanto a voci, inflessioni e simili, non proprie
della lingua scritta, e solamente volgari, ma quanto a sintassi e dicitura
affatto sgrammaticata, anzi strana, nelle iscrizioni di gente popolare,
sì greche, e sì massimamente latine; come è fra le mille,
quella ritrovata in Ostia, e pubblicata ultimamente dall'Amati. Giorn. arcad.
t.39., 3zo del 1828., p.234.
Hic iam
nunc situs est quondam praestantius ille
Omnibus in terris fama vitaque probatus
Hic fuit ad superos felix quo non felicior
alter
Aut fuit
aut vixit simplex bonus atque beatus
Nunquam
tristis erat laetus gaudebat ubique
Nec
senibus similis mortem cupiebat obire
Set
timuit mortem nec se mori posse putabat
Hunc
coniunx posuit terrae et sua tristia flevit
Volnera quae sic sit caro biduata marito.
Vivo specchio del dir di Democrito, e di
quel che, secondo ogni verisimiglianza, furono le prime prose greche. E quell'altra,
edita dal med. ib. p.236-7. Dis manibus Meviae
Sophes C. Maenius (sic) Cimber coniugi sanctissimae et conservatrici desiderio
spiritus mei quae vixit mecum an. XIX. menses III. dies XIII. quod vixi cum ea
sine querella nam nunc queror aput manes eius et flagito Ditem aut et me
reddite coniugi meae quae mecum vixit tan concorde [4467]ad fatalem
diem. Mevia Sophe impetra si quae sunt manes ni (cioè ne) tam
scelestum discidium experiscar diutius. Hospes ita post obitum sit tibe terra
levis ut tu hic nihil laeseris aut si quis laeserit nec superis comprobetur nec
inferi recipiant et sit ei terra gravis.
(24. Feb. 1829.)
Alla p.4354. Probabilissimamente nella
primitiva e vera scrittura, nella quale le vocali oggi dette lunghe, erano veramente
doppie, cioè 2 vocali brevi, in tali casi si scriveva omettendo la 2da
breve: p. es. in vece d'¢Æsi
scriveva ¤, ovvero ¤,
giacchè la scrittura ordinaria di ¢Æ era ¢ò, di ³¤¡ ec. In
somma le vocali ora dette lunghe, eran veri dittonghi, due suoni brevi; l'uno
de' quali si poteva elidere ec.
(25. Febbr. 1829.). V. p.4469.
Alla p.4403. Senofonte nell'Anabasi, al
principio dei libri 2. 3. 4. 5. 7., riepiloga brevissimamente tutto il
narrato prima, e dice: queste cose ¢ÒñJ (lib.2 ¦J) ñÄ®,
cioè, non già nel libro precedente, il quale non contiene tutta
quella narrazione ch'egli dice ed epiloga (e la divisione dell'Anabasi in libri
forse è più recente di Senofonte), ma nella parte precedente
di questa istoria, appunto come è usato ñ da
Erodoto. Il Leunclavio male traduce, lib.2. e 3. superiore libro, men
male lib.4. superioribus commentariis, bene lib.5. hactenus hoc
commentario, e lib.7. superiore commentario. Il lib.6. comincia ex
abrupto come il primo, e senza epilogo, nè proemio di sorta.
(25. Feb. 1829.)
Alla p.4462. E già le destinazioni,
le cause finali della natura, in molte anco di quelle cose in cui è
manifesta la volontà intenzionale di essa natura come loro autrice, o
non si possono indovinare, o sono (se pur veramente vi sono) affatto diverse e
lontane da quelle che parrebbono dover essere. Per un esempio [4468]a
che servono in tante specie d'animali quegli organi che i naturalisti chiamano rudimenti,
organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all'uso dell'animale; in
certe specie di serpenti due, in altri quattro piedicelli, che non servono a camminare,
anzi non toccano nè pur terra, benchè sieno accompagnati da tutto
l'apparato per camminare, cioè pelvi, scapule, clavicole, e simili cose?
in certe specie di uccelli, ale che non servono per volare? e così
discorrendo. Il sig. Hauch, professore di storia naturale in Danimarca, in una
sua dissertazione "Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni
animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità
riguardo la storia naturale", composta in italiano, e pubblicata in Napoli
1827. (Giorn. arcad. t.38., 2do del 1828. p.76-81.), crede che
siffatti organi servano di nesso tra i diversi ordini di animali (p.e.
quei piedicelli, tra i serpenti e le lucerte), di scalino o grado intermedio,
per evitare il salto; e che essi sieno quasi abbozzi con cui la natura si provi
e si eserciti per poi fare simili organi più sviluppati e perfetti di
mano in mano in altri ordini vicini di animali. Non so quanto quest'oggetto,
questa causa finale, possa parere utile, e degna della natura e della cosa. V.
p.4472. Ma ricevuta tale ipotesi (ch'è l'argomento e lo scopo di quel
libro), vedesi quanto le cause finali della natura sarebbero in tali casi lontane
da ogni apparenza, e da tutto il nostro modo di pensare. Giacchè chi di
noi non tiene per evidente che i piedi sono fatti per camminare? (come
l'occhio per vedere). E pure quei piedicelli con tutto il loro apparato da
camminare, non sarebbero fatti per camminare, nè poco nè punto;
ma per un tutt'altro fine. E in fatti non camminano; perchè vi sono
insufficienti. E quelle ali non volano, benchè per altro perfettamente
organizzate (Hauch: il quale nota ancora che in alcuni di quegli uccelli [4469]esse
non bastano nè anche nè servono punto a bilanciarli ed aiutare il
corso, come si dice di quelle dello struzzo): and so on.
(26. Feb. giovedì grasso. 1829.)
Per un Discorso sopra lo stato attuale della
letteratura ec. - Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la
letteratura amena, è come toglier dall'anno la primavera, dalla vita la
gioventù.
(6. Marzo. 1829.)
ÒÛ
(Boristenita, filosofo) ݯòäÝÝ¡, Þ¯èñ µY. Dio
Chrys. Orat. 66. de gloria. p.612. ed. Reisk. Bione diceva: non è
possibile piacere ai più, se tu non divieni un pasticcio o un vin dolce.
(8. Marzo. Domenica. 1829.). Può servire al Galateo morale,
o al Macchiavellismo.
Alla p.4245. Di questi ¦ discorre
(mi pare) di proposito, e può vedersi, il Coray, Notes sur les
Caractères de Théophraste.
(8. Marzo. 1829.)
Sinizesi. V. Forcell. ec. in Suavis e
simili voci.
Sperno is - aspernor aris.
Contemtus,
despectus, neglectus ec. per contemnendus, contemnibilis ec. E
così in italiano francese e spagnuolo. - Scitus, scite, scitulus,
scitule ec. saputo, saputello ec.
Alla p.4467. E così i dittonghi. I
quali altresì, quando eran fatti brevi, si doveano scrivere senza
l'ultima vocale: ë' ñ¤Ü, per ë, come
oggi si scrive. E similmente nel mezzo delle parole, i dittonghi e le vocali
dette lunghe, quando eran fatte brevi, doveano scriversi semplici: per , ec.; per , ec. ec.
(8. Marzo. 1829.)
Alla p.4430. Similmente quei tanti motti che
sotto nome di Diogene cinico si trovano nel Laerzio, e nello Stobeo, Antonio e
Massimo, ed altri, raccolti dall'Orelli, loc. cit. p.4431., t.2. Lips. 1821.;
moltissimi de' quali si trovano attribuiti in altri luoghi ad altri
diversissimi personaggi; mostrano che a Diogene si riferivano popolarmente [4470]tutti
i detti mordaci, arguti ec. non solo morali o filosofici, ma qualunque.
(8. Marzo. 1829.)
Il luogo del Laerz. ap. l'Orelli, loc. cit.
nel pensiero preced., p.84. num.111. da nessuno inteso, e peggio dal Kuhnio (la
cui spiegazione è data per ottima dall'Orelli, ib. p.585-6. dove chiama
questo luogo difficilissimo), secondo il quale (v. l'Orelli p.586.)
avremmo dei galli Û¢Üñ caduti boccone, cioè sul
becco, cosa finora non mai veduta; a me par chiarissimo, e contiene una satira
contro i medici (dei quali Esculapio è il dio), che finiscono di ammazzare
chi cade malato. Quel ® non era
gallo, ma uomo, un lottatore, non reale, ma figurato, probabilmente in cera,
secondo l'uso degli antichi, specialmente poveri, in tali J®. V. un
luogo analogo, e confermante questa spiegazione, ib. p.102. n.216.; e la nota,
p.595.: anche questo luogo spetta a Diogene. Il gallo promesso da Socrate ad
Esculapio, è venuto in mente al Kuhnio in questo proposito assai male a
proposito, e l'ha indotto nell'errore.
(9. Marzo. 1829.)
Alla p.4464. Filone giudeo ha un luogo
simile (éö) ap.
Orell. ib. t.2. p.116. num.269. Del resto, v. il Forcell. ec.
(9. Marzo. 1829.)
Alla p.4437. fin. Non per ignoranza
nè per negligenza, ma volutamente e a bello studio, si accostò a
quel dir perplesso ec. a quella maniera democritea anzi senz'ordine o regola
alcuna di frase, e ciò esageratamente e fuor di misura, l'autore di
quelle cinque ¡ (Orell. Dissertationes,
Fabric. Disputationes) in dialetto dorico, d'argomento morale, che si
trovano appiè di parecchi mss. delle opp. di Sesto Empirico, e che furon
pubblicate da E. Stefano, dal Gale, dal Fabricio, e ultimamente da Gio. Corrado
Orelli (loc. cit. nella pag. qui dietro, fin.): il quale autore, certo non
molto antico, ma che intese di farsi creder tale, volle usare quel modo per
contraffare anche in questo l'antichità.
(10. Marzo. 1829.). V. p.4479.
[4471]Se gli scrittori conoscessero
personalmente a uno a uno i lor futuri lettori, è credibile che non si
prenderebbero troppa pena di proccurarsi la loro stima scrivendo accuratamente,
nè forse pure scriverebbero. Il considerarli coll'immaginazione confusamente
e tutti insieme, è quello che, presentandoli loro sotto il collettivo e indefinito
nome e idea di pubblico, rende desiderabile o valutabile la loro lode o
stima ec.
(10. Marzo. 1829.)
Alla p.4426. Notano quelli che hanno molto
viaggiato (Vieusseux parlando meco), che per loro una causa di piacere
viaggiando, è questa: che, avendo veduto molti luoghi, facilmente quelli
per cui si abbattono a passare di mano in mano, ne richiamano loro alla mente
degli altri già veduti innanzi, e questa reminiscenza per se e
semplicemente li diletta. (E così li diletta poi, per la stessa causa,
l'osservare i luoghi, passeggiando ec., dove fissano il loro soggiorno.)
Così accade: un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per se,
che non ha nulla di ciò, ma perchè ci desta la memoria di un
altro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci troveremo attualmente,
non ci riescirà (nè mai ci riuscì) punto romantico
nè sentimentale.
(10. Marzo. 1829.)
Alla p.4365. Certo, siccome la letteratura e
le scienze greche, la filosofia ec., passando in Italia, furono causa che moltissime
parole greche, appartenenti a tali rami, acquistassero cittadinanza latina, e
di là sien divenute proprietà delle lingue moderne, non solo
scritte, ma eziandio parlate; così anche la religione cristiana: e non dico
delle voci tecniche della teologia, ma di tante altre voci proprie del
cristianesimo traspiantate nel latino, e di là passate nelle lingue
moderne (anche non figlie della latina), e in esse volgarissime d'uso, tanto
che molte di loro sono sfiguratissime (o di forma o di significato) e appena
lasciano scorgere la loro etimologia: come (in italiano) chiesa, clero,
chierico, prete, canonico, vescovo, papa, battesimo, battezzare, cresima,
eucaristia, catechismo, parroco, parrocchia, epifania, pentecoste, elemosina
(limosina, limosinare ec.), accidia ec. (10. Marzo. 1829.), angelo, arcangelo,
demonio, diavolo, [4472]patriarca, profeta, profezia, apostolo, martire,
martirio, martìre, martoro, martoriare ec., cattolico, eretico, eresia
(resia ec.), evangelo (vangelo), monaco, monastico, monasterio, eremo (ermo ec.
eremita, romito, romitorio, ec.) anacoreta, mistero (trasportato anche ad ogni
sorta di cose ignote, e fuor della religione), ec. Molte anche tradotte, come æ, , compungo,
compunctio, prese nel senso morale; ò tentatio; ed altre tali infinite,
non pur voci, ma frasi e frasario della scrittura (gran fonte di
grecismo al basso latino e alle lingue moderne) o de' padri greci, passate
nelle nostre lingue, e coll'andar del tempo applicate anco a sensi ed usi
affatto profani.[286]
(12. Marzo. 1829.)
Alla p.4468. Tale osservazione potrà
parere soddisfacente come spiegazione del fenomeno, non del fine di esso.
(12. Marzo.)
¢äÒ frammento
di Archita, o sotto nome di Archita, ap. Orelli,
l.c. p.4469. fine, p.248. lin.13. - à l'égal de. La
Bruyère, e contemporanei - locuzione avverbiale, in senso di aeque ac.
(12. Marzo. 1829.)
Galateo morale. Il y a des ménagements que l'esprit même et l'usage du monde
n'apprennent pas, et, sans manquer à la plus parfaite politesse, on
blesse souvent le coeur. Corinne, liv.3. ch. I. 5me éd. Paris 1812. t. I. p.92. Les Anglais sont les hommes
du monde qui ont le plus de discrétion et de ménagement dans tout ce qui tient
aux affections véritables. liv.6. chap.4. t. I. p.281.
(13. Marzo. 2do Venerdì. 1829.)
Mille piacer non vagliono un tormento. Or come
può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la
vita.
(14. Marzo. 1829.). Questo verso racchiude una sentenza capitale
contro la vita umana, e contro chi consente a vivere, cioè tutti i
viventi.
Monosillabi latini. Nix.
¡. V.
Orelli, loc. cit. qui sopra, p.279. fine, il qual luogo, come si dice nelle
note, è copiato da Aristotele.
[4473]é J¡ o éJç, come luego,
per dunque, però, iccirco, conseguentemente, necessariamente V. Orelli
ib. p.312. lin.8-9., e la nota p.697. Luogo notabile. Così, spesso,
colla negazione: p.e., éÞ ec. èéJçÜ, ovvero omesso il è.
(23. Marzo. 1829.)
, coi
derivati e composti (v. Scapula in Ç, e Orell.
ib. p.752. fin.) - se moquer coi derivati ec. E notisi la forma neutra
passiva, ossia reciproca, dell'uno e dell'altro verbo ec.
(25. Marzo. 1829.)
Ûñ.
cauneas-cave ne eas.
Tenebrosus-tenebricosus. Nel dialetto
popolare di Viterbo (Patrimon. di S. Pietro), menicare e trenicare,
frequentativi di menare e tremare. (Orioli nell'Antologia di
Firenze.)
per . Procop. Hist. arcan. p.31.
ed. Alemanni. (I Lessici e Gloss. nulla.)
da ÞÝ sembra
essere stato considerato, e chiamato così, come un grado, un genere
medio tra ñ, da ¡, orazione,
prosa; e ¡.
(27. Marzo. 1829.)
¯, ¢¯, usati in proposito
d'istrumenti musici, ap. Orell. ib. p.292. lin.3., p.302, lin.13. 18. 23.,
p.336. lin.19. - tocco, toccare, toucher ec. nello stesso senso.
In generale la forma diminutiva (o
disprezzativa o vezzeggiativa ec.) spagnuola in illo, e ico, ecillo,
ecico, cillo, cico, e l'italiana in glio e chio (icchio,
ecchio, acchio ec.), e la francese in il, ill; ail, aill; eil, eill
ec.; sì de' nomi, che de' verbi (ne' quali suol esser chiamata
frequentativa), non è altro (anche nelle voci di origine non latina) che
la mera latina in aculus, iculus, culus, iculare, culare, uscul. ec.
contratta prima in clus, clum, iclus, clare ec.
(27. Marzo. 1829.). V. p.4486.
Fama rerum. Tac. Vit. Agric. in fine.
Frase che desta un'idea [4474]vastissima, o una moltitudine di idee, e
nel modo il più indefinito. Di tali frasi, e, in generale, della
facoltà di esprimersi in siffatta guisa, abbondano le lingue antiche; la
latina specialmente, anche più della greca: e quindi è che la
prosa latina, per l'espressione e il linguaggio (non per le idee, e lo stile,
come la francese) è sovente più poetica del verso, non pur
moderno, ma greco; benchè il latino non abbia lingua poetica a parte.
(28. Marzo. 1829.)
Monosillabi lat., opposti alle voci greche corrispondenti.
DoÛ, dal disusato
ñ.
Sufficiente detto di
uomo, sufficienza ec. - ßò, ßñ ec.
Alla p.4442. Eremo sostant. da ¤ò agg. sottint. ñ. Deserto.
V. Forcell. Nulla (res) per nihil. E per via di tali
sottintendimenti, infiniti altri aggettivi, non sol di tempo o luogo, ma d'ogni
genere, son passati, in ogni lingua, ad essere sostantivi, in vece de'
sostantivi originali loro corrispondenti. Del resto anche il greco abbonda di
tali ellissi negli aggettivi di tempo o luogo.
(28. Marzo. 1829.)
Error grande, non meno che frequentissimo
nella vita, credere gli uomini più astuti e più cattivi, e le
azioni e gli andamenti loro più doppi, di quel che sono. Quasi non
minore nè meno comune che il suo contrario.
(28. Marzo. 1829.)
Tanto, inquit, melius. Fedro. - tant mieux, tant pis.
Ce que
les intérêts particuliers ont de commun (nella società) est si peu
de chose, qu'il ne balancera jamais ce qu'ils ont d'opposé. Rousseau, Pensées,
Amsterdam 1786. 1re part. p.23.
(28.
Marzo. 1829.)
On n'a
de prise sur les passions, que par les passions; c'est par leur empire qu'il
faut combattre leur tyrannie, et c'est toujours de la nature elle-même
qu'il faut tirer les instrumens propres à la régler. ib. p.46.
Strascicare e strascinare,
sono certamente frequentativi corrotti da trahere.
[4475]Alla p.4446. Verissima
osservazione, siccome l'altra analoga, p.4459., sopra i drammi. Ma tali
memorie, leggende e canti, non possono trovarsi se non in popoli che abbiano
attualmente una vita e un interesse nazionale; dico vita e interesse che
risieda veramente nel popolo: e però non possono trovarsi se non che in
istati democratici, o in istati di monarchie popolari o semipopolari, (come le
antiche e del medio evo), o in istati di lotta nazionale con gente forestiera odiata
popolarmente (come, al tempo del Cid, degli spagnuoli cogli arabi), o finalmente
in istati di tirannie combattute al di dentro (come nella Grecia moderna, e in
più provincie ed epoche della Grecia antica e sue colonie). Ma nello
stato in cui le nazioni d'Europa sono ridotte dalla fine del 18° secolo, stato
di tranquilla monarchia assoluta, i popoli (fuorchè il greco) non hanno
potuto nè possono avere di tali tradizioni e poesie. Le nazioni non hanno
eroi; se ne avessero, questi non interesserebbero il popolo; e gli antichi che
si avevano, sono stati dimenticati da' popoli, da che questi, divenendo
stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla propria
storia. Se però si può chiamare lor propria una storia che non
è di popolo ma di principi. In fatti nessuna rimembranza eroica, nessuna
affezione, perfetta ignoranza della storia nazionale, sì antica,
sì ancora recentissima, ne' popoli della moderna Europa. In siffatti
stati, gli eroi delle leggende popolari non sono altri che Santi o innamorati:
argomenti, al più, di novelle, non di poemi o canti eroici, nè di
tragedie eroiche.
Quindi apparisce che il poema epico, anzi
ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta, e sia classico o romantico,
è quasi impossibile alle letterature moderne. Il vizio notato da Niebuhr
nell'Eneide, è comune alle moderne epopee, al Goffredo particolarmente.
Meglio, per questo capo, i Lusiadi; i cui fatti anco, benchè
recentissimi, abbondavano di poetico popolare, per la gran lontananza,
ch'equivale [4476]all'antichità, massime trattandosi di regioni
oscure, e diversisime dalle nostrali. Meglio ancora l'Enriade, il cui
protagonista vivea nella memoria del popolo, non veramente come eroe, ma come
principe popolare.
Oltracciò quelle tradizioni di cui
parla Niebuhr, dubito che possano aver luogo se non in tempi di civiltà
men che mezzana (come gli omerici, quei de' romani sotto i re, de' bardi, il
medio evo); nei quali hanno credito i racconti maravigliosi che corrono
dell'antichità, e il moderno diviene antico in poco tempo. Ma in giorni
di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l'antico, per lo
contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre
leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno
più, non pur dell'eroiche, ma di sorta alcuna; e non v'hanno luogo altre
poesie fondate in narrative popolari, se non del genere del Malmantile.
(29. Mar. 1829.)
Da queste osservazioni risulterebbe che dei
3 generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il
lirico; (e forse il fatto e l'esperienza de' poeti moderni lo proverebbe);
genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè
proprio dell'uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia;
la quale consistè da principio in questo genere solo, e la cui essenza
sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed
è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono
poesie se non in quanto son liriche.
(29. Marzo 1829.)
- Ed
anco [4477]in questa circostanza di non aver poesia se non lirica,
l'età nostra si riavvicina alla primitiva. - Del resto quel che della
poesia epica e drammatica, è anche della storia. Che importerebbe, che
impressione, che effetto farebbe al popolo di Milano, di Firenze o di Roma, se
oggi un nuovo Erodoto venisse a leggergli la storia d'Italia?
(30. Mar.)
Alla p.4418. Anche qui, come in tante altre
cose della nostra vita, i mezzi vagliono più che i fini.
(29. Mar. 1829.)
La felicità si può onninamente
definire e far consistere nella contentezza del proprio stato: perchè
qualunque massimo grado di ben essere, del quale il vivente non fosse
soddisfatto, non sarebbe felicità, nè vero ben essere; e
viceversa qualunque minimo grado di bene, del quale il vivente fosse pago,
sarebbe uno stato perfettamente conveniente alla sua natura, e felice. Ora la
contentezza del proprio modo di essere è incompatibile coll'amor
proprio, come ho dimostrato; perchè il vivente si desidera sempre per
necessità un esser migliore, un maggior grado di bene. Ecco come la
felicità è impossibile in natura, e per natura sua.
(30. Marzo. 1829.)
Alla p.4366. Quindi l'aridità, il
nessun interesse, la noia delle novelle, narrazioni, poesie allegoriche, come
il Mondo morale del Gozzi, la Tavola di Cebete ec. Non parlo delle
personificazioni ed enti allegorici introdotti come macchine in poemi, come
nell'Enriade: perchè a quelli il poeta mostra di credere veramente, come
farebbe ad altri enti favolosi e fittizi, umani o soprumani ec.
(30. Marzo. 1829.)
Piombato, plombé (del color del piombo), per
plumbeo.
Dépiter,
se dépiter.
Vouloir per potere e per dovere.
V. Alberti in vouloir fine.
Errori popolari degli antichi. - Parlerò
di quegli errori che furono, o si può creder che fossero, propri de'
volgari, e di quella sorta di persone [4478]che in tutte le nazioni
vanno considerate come appartenenti al volgo; non già di quegli errori
che il popolo ebbe comuni coi saggi; molto meno di quelli che furono proprii
de' saggi; materia che sarebbe infinita. Gli errori de' saggi, antichi e
moderni, sono innumerabili. Il popolo ha pochi errori, perchè poche
cognizioni, con poca presunzion di conoscere. Oltre che la natura, voglio dir
la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte più
rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata. E
però non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di
molte cose opinioni migliori o più ragionevoli che i sapienti; e non
è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in
tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da
esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla
somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni: se non in quanto i moderni,
quando scientemente e quando senza avvedersene, sono tornati in queste cose
all'antico.
(31. Marzo. 1829.)
On ne
s'égare point parce qu'on ne sait pas, mais parce qu'on croit savoir. Rousseau,
pensées, II. 219. V. p.4502.
Il dogma dell'invidia degli Dei verso gli
uomini, celebrato in Omero, e soprattutto in Erodoto e suoi contemporanei,
sembra essere di origine orientale, o divulgato principalmente in oriente.
Poichè esso tiene alla dottrina del principio cattivo, ed a quelle idee
che rappresentavano le divinità come malefiche e terribili; dottrina e
idee aliene dalla religione della Grecia a' tempi omerici ed erodotei, come ho
osservato altrove. Ed esso è l'origine de' sacrifizi, e delle penitenze,
sì comuni in oriente, quasi ignote in Grecia. L'atto di Policrate samio
(ap. Erodoto) che getta in mare il suo anello per proccurare a se medesimo una
sventura, non è che una penitenza.
(31. Marzo. 1829.)
[4479]Scherzava sul poetar suo in
questa forma: diceva ch'egli seguia Cristofaro Colombo, suo cittadino; ch'egli
volea trovar nuovo mondo, o affogare. Chiabrera, Vita sua. Questo motto pare
oggi una smargiassata, e ci fa ridere. Che grande ardire, che gran
novità nel poetar del Chiabrera. Un poco d'imitazione di Pindaro, in
luogo dell'imitazione del Petrarca seguita allora da tutti i così detti
lirici. E pur tant'è: a que' tempi questa novità pareva somma,
arditissima, facea grand'effetto. Oggi par poco, e basta appena a far
impressione poetica tutta la novità e l'ardire che è nel Fausto o
nel Manfredo. - Può servire a un Discorso sul romanticismo.
(1. Aprile. 1829.)
L'imaginazione ha un tal potere sull'uomo
(dice Villemain, Cours de littérature française, Paris 1828. nell'Antolog.
N.97. p.125. in proposito del generale entusiasmo destato dai canti ossianici
al lor comparire, ed anco al presente), i suoi piaceri gli sono così
necessari, che, anche in mezzo allo scetticismo di una società
invecchiata, egli è pronto ad abbandonarvisi ogni volta che gli sono
offerti con qualche aria di novità. - Verissimo. Il successo delle
poesie di Lord Byron, del Werther, del Genio del Cristianesimo, di Paolo e
Virginia, Ossian ec., ne sono altri esempi. E quindi si vede che quello che si
suol dire, che la poesia non è fatta per questo secolo, è vero
piuttosto in quanto agli autori che ai lettori.
(1. Aprile. 1829.)
Alla p.4470. Pur quelle ¡,
così imposture come sono, le quali quantunque non antichissime, pur sono
certamente antiche (l'Orelli, al quale però io non consento, nelle note,
p.633, le crede anteriori a Pirrone e agli Scettici; e nella pref. del vol.,
scritta dopo le note, p. X. le stima poco posteriori al filosofo Crisippo, [4480]anzi,
p. XI. sospetta che sieno più antiche di Crisippo e dello stesso
Platone; benchè le riconosca indubitatamente per imposture nelle note, e
per opera di un sofista nella pref.: e il Visconti, Mus. Pio-Clem. t.3. p.97.
ed. Mil., nelle note all'imagine di Sesto Cheronese filosofo del tempo degli
Antonini, le fa pluribus seculis antiquiores (Orell.), di esso Sesto),
possono ben servire a darci un'idea dell'antichissima prosa greca, a noi
necessariamente sì poco nota; poichè quell'impostore, per mentir
l'antichità, giudicò servirsi di un linguaggio di quella forma.
Nei frammenti, sì morali e politici, e sì matematici e fisici,
che portano il nome di Archita pitagorico (i quali io non so se sieno di
Archita (Orell. pref. p. XI.), nè di quale Archita (ib. p.672.); ma in
parecchi di loro credo veder caratteri e segni certi di molta
antichità), l'arte dello esprimere i pensieri in prosa, si vede non
più bambina; non però adulta; ma quasi ancora fanciulla: un
aggirarsi, un confondersi spesso, uno stentare (un sudare in) a darsi ad
intendere, a disporre e congiungere insieme gl'incisi e i periodi.
(2. Aprile. 1829.)
Stentato, stentatamente ec.
Alla p.4438. E che altro che una diascheuasi
era quella onde o libri interi, o passi e frammenti d'autori greci, dal
dialetto in che erano scritti originalmente, venivano ridotti al parlar greco
comune, e talora anche a qualche altro dialetto? (Orelli, ib. t.2. p.720. fin.)
cosa frequentissima. Così il moderno editore del libro Ü°èòæ che porta
il nome di Ocello lucano, Rudolph (Rudolphus), crede quel libro e dorica
dialecto in communem conversum (Orell. ib. p.670. fin. p.671. lin.9.): e in
fatti, che che sia dell'autenticità, certo assai sospetta, di quel libro
(Orell. ib. Niebuhr Stor. roman. ec.), la quale il Rudolph si sforza di
sostenere contro il Meiners (che la combatte in Geschichte der Wissenschaften
in Griechenland und Rom), certo è che, mentre il libro si legge ora
in lingua comune, se ne trovano ap. Stob. (colla citazione del titolo di esso
libro) alcuni passi in dialetto dorico. (Libellus Ü°èòæ etiamnum
exstat integer: quanquam non Dorica dialecto qualis primum scriptus ab Ocello
fuerat, ut ex fragmentis a Stob. servatis perspicue apparet: sed a Grammatico aliquo
ut facilius a lectoribus intelligeretur, in ¯ dialectum transfusus... Loca ex hoc Ocelli
libro ap. Stob. Eclog. phys. p.44.45.
(lib. I c. 24., ed. Canter.). Vide et p.59. - Fabric. B. G. t.1. p.510. seq.)
(2. Aprile. 1829.). Così nei florilegi di Stobeo, d'Antonio e
di Massimo, e in questi ultimi due specialmente, molti frammenti di diversi
autori, sono mutati dall'ionico, o da altro de' dialetti greci, nel dir comune.
(Orell. ib. p.729. [4481]num.6., e t.1. p.114.
lin.26., p.515. lin.14-16., ec.) (2. Aprile. 1829. Recanati.)
Odio verso i nostri simili. Galateo morale.
Umanità degli antichi. - Da che viene quel fenomeno sì
incontrastabile, sì universale senza eccezione; che è impossibile
essere spettatori di un piacer vivo, provato da altri (non solo uomini, anche
animali), massime non partecipandone, senza sperimentare un irresistibile senso
di pena, di rabbia, di disgusto, di stomaco? - piaceri sì morali,
sì fisici. - piaceri venerei, insoffribili a vedere in altri, sì
uomini, sì anche animali: insoffribili anche agli animali, sì in
quei della propria specie, sì in altri. - Perchè sì
spiacevole in natura la vista del piacer d'altri? - Il Casa nel Galateo
prescrive che non si mangi o beva in compagnia o presenza altrui con dimostrazione
di troppo gran piacere: Cleobulo ap. Laerz., notato da me altrove, che non si
faccia carezze alla moglie in presenza d'altri. V. p. seg. - In fatto di donne
generalmente, in fatto di galanteria, la cosa è notissima; insoffribile
non solo la vista, ma i discorsi, i vanti, di fortune altrui. Il y a toujours dans les succès d'un homme
auprès d'une femme quelque chose qui déplaît, même aux meilleurs [4482]amis
de cet homme. Corinne, liv.10. ch.6., t.2. p.161. 5me édit.
Paris 1812. - Può servire anco al Galateo morale - e al Trattato de'
sentimenti umani (3. Apr. 1829.) - e al pensiero sulla monofagia, massime in
proposito de' servitori ec.
Alla p. preced. (V. Orell. Opusc. graec.
moral. t.1. p.138, e le note) e ciò è anche oggi di creanza
universale, e quasi naturale.
(3. Apr. 1829.)
Dal pensiero precedente apparisce (e
l'esperienza lo prova) che vera amicizia difficilmente può essere o
durare tra giovani, malgrado il candore, l'entusiasmo ec. proprio
dell'età. E ve ne sono anche altre ragioni. Più facile assai l'amicizia
tra un giovane e un vecchio o un provetto. - L'odio verso i simili, che essendo
di ogni vivente verso ogni vivente, è maggiore verso quei della specie,
ancor nella specie stessa è tanto maggiore, quanto un ti è
più simile. - Hanno gli Ebrei in un loro libro di sentenze e detti varii
(che si dice tradotto di lingua arabica, ma verisimilmente è pur di
fattura ebraica) (Orell. Opusc. graec. moral. t.2. Lips. 1821., praef. p. XV.),
che non so qual sapiente, dicendogli uno: io ti sono amico, rispose: che potria
fare che non mi fossi amico? che non sei nè della mia religione,
nè vicino mio, nè parente, nè uno che mi mantenga?
(sentent. 269. Apophthegm. Ebraeor. et Arabum ed. a Io. Drusio: Franequerae
1651.) - Quodam dicente, Amo te, Cur, inquit, me non amares? Non enim es
ejusdem mecum religionis, nec propinquus meus, nec vicinus, nec ex iis, qui me
alunt. Orell. ib. p.506-7.
(4. Apr. 1829.)
Il più certo modo di celare agli
altri i confini del proprio sapere, è di non passarli mai.
(4. Apr. 1829.)
Moestus da moereo (moeritus,
moesitus, moestus, come torreo - tostus, questus, quaestus ec.) 1.
participio in us con senso neutro e presente. 2. participio aggettivato.
3. non più riconosciuto per participio. Vedi Forcell. ec.
(4. Apr.). Se non è da maereor.
[4483]Alla p.4437. (dove la
sgrammaticatura continua e il balbettare, viene dall'esser gli autori
forestieri, grecizzanti non greci, o dall'affettare il dir non greco, l'imitazione
del linguaggio scritturale dei 70 ec.).
L'imperfetto indicativo pel congiuntivo. Se
io sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec. Ch'ogni
altra sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea. Petr.
Canz. Vergine bella. Anche il più che perfetto. S'io era ito ec., non mi
succedeva ec. E in francese si j'étais (s'io fossi) ec. ec. - Pretto
grecismo.
(4. Apr. 1829.)
Ebbero anche i greci de' libri di Mémoires
secrets. Tali sono gli Aneddoti o Storia Arcana di Procopio, e
gli altri mentovati dal Fabric. a questo proposito. Vedilo, B. Gr. t.6. p.253.
sqq. e specialmente p.255. not. (n.).
(4. Apr. 1829.)
Sinizesi. Dittonghi ec. Deesse dissillabo.
Cesare ap. Donat. Vit. Terent.
Alla p.4415. á°ˆ¡¢¡¤Ý¤ÜæJ°. gratia
carminis Quod nuper in libellis meis (meglio mea, cioè genua)
super genua posui. Batracom. v.2. 3. E la Batracomiomachia è pure una
parodia omerica. Eschilo fu nel 5to sec. av. G. C., nato circa il
525. (4 Aprile. 1829.). ¡ pugillares
qui forma litterae
plicabantur: postea quivis liber. Scap.
L'interesse nell'epopea, nel dramma, non
nasce dal nazionale, ma dal noto, dal familiare. Se le cose e le persone
antiche e straniere ci sono (come sono in fatti) tuttavia più note,
più familiari, più ricche di rimembranze che le nazionali e le
moderne, anzi se le nazionali non ci sono nè familiari nè
cognite; la conseguenza è chiara, quanto alla scelta dei soggetti,
volendo cercare il piacere. I nazionali nostri sono i Greci, i Romani, gli
Ebrei ec. coi quali siamo convissuti fin da fanciulli. (5. Aprile. Domen. di
Passione. 1829.). Volendo poi mirare
all'utile, è un altro affare; ma in tal caso non bisogna dimenticare
quel detto della Staël (Corinne, liv.7. ch.2): Il (Alfieri) a voulu marcher par
la littérature à un but politique: ce [4484]but était le plus
noble de tous sans doute; mais n'importe, rien ne dénature les ouvrages d'imagination
comme d'en avoir un. (5me édit. Paris 1812. t. I. p.317.).
Errori popolari degli antichi.
Parlerò di questi errori leggermente, come storico, senza entrare a
filosofare sopra ciascuno di essi e sopra la materia a cui appartengono; cosa
che mi menerebbe in infinito, e vorrebbe non un Trattatello, ma un gran
Trattato. In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che
hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto
facilissimamente diviene vastissimo. Tanto più è necessario,
volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente
a circoscrivere il proprio argomento, sì nell'idea de' lettori, e sì
massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare
i termini stabilitisi. (Chi non sa circoscrivere, non sa fare: il circoscrivere
è parte dell'abilità negl'ingegni, e più difficile che non
pare. Vedi p.4450. capoverso 6.) Altrimenti seguirà o che ogni libro
sopra ogni tenuissimo argomento divenga un'enciclopedia, o più
facilmente e più spesso, che un autore, spaventato e confuso dalla
vastità di ogni soggetto che gli si presenti, dalla moltitudine delle
idee che gli occorrano sopra ciascuno, si perda d'animo, e non ardisca
più mettersi a niuna impresa. Il che tanto più facilmente
accadrà, quanto la persona avrà più cognizioni e
più ingegno, cioè quanto più sarà atto a far libri.
(6. Aprile. 1829.). - Io non presumo con questo libro istruire, solo
vorrei dilettare.
[4485]Alla p.4429. Però io
per me, se uno mi chiedesse p.e.: credi tu che ²¡ abbia a far nulla con dies?
risponderei: non so... Oh come? che nè pure una lettera hanno comune? -
Così dies e giorno, replicherei, non han comune una lettera,
e pur questa voce nasce da quella.
(6. Apr. 1829.)
Sinizesi, Dittonghi ec. Le contrazioni e
circonflessioni de' greci, che altro sono che sinizesi ec. ec.?
(6. Apr. 1829.)
Penato per penante. Crus. volg. marchegiano.
àÛ, coi
derivati ec. V. Scapula ec.
Seccare, seccatore ec. V.
Scapula in Sñ, coi
derivati.
Merlo. merlotto. Scricchiolare,
scricchiolata.
Rattenuto per cauto ec. Affermi,
mal affermi per fermo, mal fermo.
Del Saggio sopra l'origine unica delle cifre
e lettere di tutti i popoli, per M. De Paravey, Paris, 1826., Dissertazioni tre
del P. Giacomo Bossi. Torino
(11. Apr.)
Chi ha viaggiato, gode questo vantaggio, che
le rimembranze che le sue sensazioni gli destano, sono spessissimo di cose
lontane, e però tanto più vaghe, suscettibili di fare illusione,
e poetiche. Chi non si è mai mosso, avrà rimembranze di cose
lontane di tempo, ma non mai di luogo. Quanto al luogo (che monta pur tanto,
che è più assai che nel teatro la scena), le sue rimembranze
saranno sempre di cose, per così dir, presenti; però tanto men
vaghe, men capaci d'illusione, men soggette all'immaginazione e men
dilettevoli.
(11. Apr. 1829. Recanati.)
La natura, per necessità della legge
di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell'universo,
è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica [4486]mortale
di tutti gl'individui d'ogni genere e specie, ch'ella dà in luce; e
comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò,
essendo necessaria conseguenza dell'ordine attuale delle cose, non dà
una grande idea dell'intelletto di chi è o fu autore di tale ordine.
(11. Aprile.)
Delle cognizioni enciclopediche degli
antichi (massimamente greci), e del loro scrivere sopra ogni ramo dello scibile,
del che altrove, possono dare un'idea, e sono un esempio, anche gli scritti di
Cicerone (fra superstiti e perduti) imitatore in ciò, come in tante
altre cose, de' greci: il quale a molte delle sue opere (filosofiche, rettoriche
ec.) fu mosso, non da alcuna ispirazione õ¯
particolare, da impulso, da affezione verso quegli argomenti, da trovarsi aver
pensato con particolarità su di essi, ma dalla sola voglia, dal
desiderio (che però la morte o gli affari gl'impedirono di soddisfare)
di compire il ciclo (come Niebuhr chiama quello delle opere di
Aristotele) de' suoi scritti sopra ogni dottrina enciclopedica ec. V. la pref. de Officiis.
(12. Apr. 1829.)
Alla p.4473. Così i nostri diminutivi
o disprezzativi o frequentativi ec. in accio acciare[287]
- uccio, ucciare (succiare - succhiare, per suggere); azzo, azzare -
uzzo, uzzare; aglio agliare - uglio ugliare (plebaglia, plebacula,
germoglio, germogliare ec.). Tutti dal lat. acu - ucu - lus - a - um - lare;
ulus, ulare. Gli spagn. in illo, illar ec. (se non forse pochi) non
vengono già dal latino in illus (quantillus, tantillus, pusillus,
tigillum, pulvillus, catilla, cioè cagnuola), illare (cantillare
ec.), nè ci hanno punto che fare. Anche i greci hanno in . Anche i
franc. in ache, acher (s'amouracher, amoraculari) ec. V. p.4496. E in âche
ec.
Frequentativi o diminutivi italiani, verbi e
nomi.[288]
V. il pensiero precedente e suoi annessi prima e poi.
Coccolone, penzolone ec. ec.
(13. Apr.)
[4487] Oscillo as. freq. -
Serva ancora per i miei pensieri sui verbi latini comincianti in sus,
essendo da cillo e ob, interposta la s. Così oscillum
ec. V. anche Forc. in obscenus; e in Obs... Os... Sus... Subs...
Alla p.4388. E pure veggiamo che da 3 secoli
che la presente ortografia italiana fu a un di presso introdotta, la pronunzia
de' parlanti è ancora la stessa: dico in chi parla bene, e la cui
pronunzia fu voluta con siffatta ortografia rappresentare. Vale a dir che un
Toscano parla oggidì e legge la nostra lingua com'ella sta nelle buone
stampe del sec.16., e come la scrivevano allora i corretti scrittori; eccetto
gli h inutili, e non mai pronunziati, ed altre tali
particolarità, che non rappresentavano la pronunzia neppur d'allora. Del
resto, se quel che dice il Foscolo fosse vero, e d'altronde l'ortografia dovesse
sempre star ferma, e lasciare andar la pronunzia, ne seguirebbe che prestissimo
la lingua parlata e la scritta sarebbero 2. lingue affatto distinte; e la
difficoltà dell'imparare a leggere sarebbe enormissima, come è
già grande ai francesi inglesi ec., e maggiore senza comparazione che agl'italiani
e spagnuoli. Non so che popolarità saria questa: la popolarità di
quando la lingua scritta era latina, e la parlata volgare. Fatto sta che non fu
ragione, non fu un principio di conservazione di stabilità, di
etimologia, quel che produsse e mantenne la pessima e falsissima ortografia
francese inglese ec., ma fu solo l'ignoranza e la mala abilità de' primi
che posero in iscrittura i volgari, i quali scrissero la lingua più, per
così dire, in latino che in inglese ec.; e il non essersi rimediato poi
a questo errore in Inghilterra in Francia ec., come si è [4488]fatto
in Italia Spagna ec., anzi averlo seguitato. Le discrepanze delle nostre prime
ortografie che Foscolo cita, non provano che l'inabilità di que' primi a
rappresentar la parola e la pronunzia stessa d'allora.
(13. Apr.)
La vera (e naturale) perfezione
dell'ortografia è che 1. ogni segno, come si pronunzia nell'alfabeto,
così nella lettura sempre; 2. e nell'alfabeto esprima un suono solo. 3.
non si scriva mai carattere da non pronunziarsi, nè si ometta lettera da
pronunziarsi.
(13. Apr.)
Alla p.4439. Quando io mi sono trovato
abitualmente disprezzato e vilipeso dalle persone, sempre che mi si dava occasione
di qualche sentimento o slancio di entusiasmo, di fantasia, o di compassione, appena
cominciato in me qualche moto, restava spento. Analizzando quel ch'io provava
in tali occorrenze, ho trovato, che quel che spegneva in me immancabilmente
ogni moto, era un'inevitabile occhiata che io allora, confusamente e senza
neppure accorgermene, dava a me stesso. E che, pur confusamente, io diceva: che
fa, che importa a me questo (la bella natura, una poesia ch'io leggessi, i mali
altrui), che non sono nulla, che non esisto al mondo? V. p.4492. E ciò
terminava tutto, e mi rendeva così orribilmente apatico com'io sono
stato per tanto tempo. Quindi si vede chiaramente che il fondamento essenziale
e necessario della compassione, anche in apparenza la più pura, la
più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da
ogni confronto con esso, è sempre il se stesso. E certamente senza il
sentimento e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa al
mondo, è impossibile provar mai compassione; anche escluso affatto ogni
pensiero o senso di alcuna propria disgrazia speciale, nel qual caso la cosa
è notata, ma è ben distinta da ciò ch'io dico. E al detto [4489]sentimento
e coscienza, come a suo fondamento essenziale, la compassione si riferisce dirittamente
sempre; quantunque il compassionante non se n'accorga, e sia necessaria
un'intima e difficile osservazione per iscoprirlo. Quel che si dice dei deboli,
che non sono compassionevoli, cade sotto questa mia osservazione, ma essa
è più generale, e spiega la cosa diversamente Ciò che dico
del sentimento di se stesso, e della considerazione e stima propria, vale
ancora per la speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce; anch'egli
dice: che importa a me la vita? Fate qualche atto di considerazione a chi si
trova spregiato, dategli una speranza; una notizia lieta; poi porgetegli
un'occasione di sentire, di compatire: ecco ch'egli sentirà e
compatirà. Io ho provato, e provo queste alternative, e di cause e di
effetti, sempre rispondenti questi a quelle: alternative attuali, o momentanee;
ed alternative abituali e di più mesi, come, da città grande
passando a stare in questa infelice patria, e viceversa. Il mio carattere, e la
mia potenza immaginativa e sensitiva, si cangiano affatto l'uno e l'altra in
tali trasmigrazioni.
(Recanati. 14. Aprile. Martedì santo. 1829.)
Possibilis da possitum, secondo
che ho mostrato altrove della formazione in bilis dai supini: nuova
prova del sup. situm di esse.
(14. Aprile.)
Lattato per latteo. E simili
altri aggettivi di colori.
Lacteolus per lacteus. aggett.
V. Forc. in aureolus, argenteolus ec. e negli altri aggettivi di colori.
Che l'antico bito sia un continuativo
di vio as? onde viator, viaticus ec.
Vinciglio (vinculum), avvincigliare
(avvinculare, altrimenti avvinchiare, avvinghiare.).
[4490]Romoreggiare. Pavoneggiare.
Atteggiare. Veleggiare.
Il nostro favorare par dimostrato nel
latino da favorabilis, favorabiliter, giusta il detto da me altrove
della formazione in bilis dai supini de' verbi. E così, da simili
prove d'ogni genere, note generalmente o non note, altre infinite voci. E
certo, che infinite voci volgari, anche radici ec., non superstiti nel latino
noto, e che noi non sappiamo donde derivare, e cerchiamo forse nel settentrione
ec., sieno pure e prette latine (latino scritto o solamente parlato, voglio dire
non letterario), si conferma coll'osservazione d'ogni giorno. Borghesi ha
trovato nelle lapidi (e dee stare nella nuova edizione del Forcell.) la voce drudus
i, (17. Aprile. Venerdì Santo. 1829.) la cui origine, non che essa
medesima, nessuno avrebbe cercato nell'ant. latino
(18. Apr.)
Babil, babiller, babillard ec. Gaspiller, gaspillage ec. Gazouiller ec. Plumasserie,
plumassier.
Observito as.
Beccare - bezzicare. Piccare - pizzicare.
Piovizzicare (marchigiano), e pioviccicare (id.). Piluccare - spilluzzicare. Appiccare
- appicciare, appiccicare.
Scioperato,
désoeuvré. Homme répandu. (Rousseau, pensées I. 202.). Dissipé.
Erto (erectus), participio
aggettivato.
Perdonare, pardonner, perdonar, voce di
forma ed apparenza affatto latina e antica: per, omnino, penitus, ad
extremum, come in pereo, perdo, perimo, perdomo, perduro, ec. ec. e donare
cioè condonare.
I participii in us de' verbi neutri
ec. sono comprovati da quelli di forma e senso corrispondente, che hanno i
medesimi verbi in italiano francese spagnuolo.
Ci paiono poetichissime, ed amiamo a
ripetere, moltissime frasi scritturali, che non sappiamo che significhino, anzi
che rapporto abbiano quelle voci tra loro, (come l'abominazione della
desolazione, ec. ec.): e ciò per quel vago, e perchè appunto
non sappiamo precisare a noi stessi, e non intendiamo se non confusissimamente
e in generalissimo, che cosa si voglian dire.
(19. Aprile. Pasqua.)
[4491]Amitié, amistà,
amistad - amicitas, nell'ignoto latino. V. Forc. Gloss. ec. Così nimistà
ec.
Altra circostanza che muta alternamente il
carattere, è il passare da città grande a piccola, da
città forestiera alla patria, e viceversa. In quelle il carattere
è più franco, aperto, benevolo; in queste al contrario, per la
collisione degl'interessi, invidie de' conoscenti, amor proprio continuamente
punto ec. Esperienza mia propria ec. Quindi, come per tante altre cagioni (v.
il mio Discorso sui costumi presenti degl'Italiani) più dabbene
generalmente i privati nelle città grandi che ne' luoghi piccoli ec. ec.
Pensiero da molto stendersi e spiegarsi.
(19. Apr. Pasqua. 1829.). V. p.4520.
Alla p.4462. Neanche per rapporto allo stato
sociale sarebbe possibile di credere che tutte le qualità degli uomini
sieno destinate dalla natura a svilupparsi. Lascio le cattive (come noi
diciamo) e visibilmente dannose alia società (che sono infinite): neppur
le buone ed utili. Vedi circa i talenti,
Rousseau, Pensées, part. I. p.197. fin. ep. 198. Amsterd. 1786. (19. Apr.
1829.)
Continuo - continovo, coi derivati e gli
altri simili. Manuale - manovale, Mantua - Mantova.
Altro ostacolo alla durata della fama de'
grandi scrittori, sono gl'imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire
le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell'originalità
del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v'è frase che non si
sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que' suoi
tanti pensierini pieni di grazia o d'affetto, quelle tante espressioni
racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri
e nuovi, ora paiono trivialissimi, perchè sono in fatti comunissimi.
Interviene agl'inventori in letteratura e in cose d'immaginazione, come
agl'inventori in iscienze e in [4492]filosofia: i loro trovati divengono
volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito.
(20. Apr. 1829.)
L'on
n'est heureux qu'avant d'être heureux. Rousseau, Pensées, I. 204. Cioè
per la speranza.
La seule
raison n'est point active; elle retient quelquefois, rarement elle excite, et
jamais elle n'a rien fait de grand. Ib. 207.
Famulus
ec. - familia ec.
Follico as.
Foetus a um, evidente
participio senza verbo noto. V. Forc. Da foetus foeto as, evidente
continuativo del verbo originale. Effoetus ec.
Fabula, fabulor ec. - favella, favellare:
diminutivi ec. Prezzolare.
Il nostro antico fante per parlante,
e di qui per uomo, co' suoi diminutivi, come fanciullo (cioè
uomicciuolo) che ancor s'usa, senza conoscerne la forza e l'etimologia, fantoccio
ec. ec. non è egli evidentemente l'antico, e negli scritti perduto o
disusato, fans, da for; di cui anche in-fans fa fede, e
quasi nello stesso senso? Vedi Forcell. Gloss. ec. e Foscolo sopra l'Odissea di
Pindemonte (21. Apr.). I marchegiani (gran conservatori del latino) ancor oggi:
un lesto fante ec. in parlar burlesco.
Tympanus - timballo, diminut. V. franc.,
spagn.
La ricordanza del passato, di uno stato, di
un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato,
è dolorosa, quando esso è considerato come passato, finito,
che non è, non sarà più, fait. Così o detto altrove
del licenziarsi da persone anco indifferenti ec.
(21. Apr. 1829.)
Specio-speculor.
Alla p.4488. Ancora: che ardisco io formar
de' pensieri nobili, che da tutti son tenuto per uom da nulla. Il primo fondamento
di qualunque o immaginazione o sentimento nobile, grande, sublime
(e tali sono i poetici e sentimentali [4493]di qualunque natura: anche i
dolci, teneri, patetici ec.: tutti inalzano l'anima), è il concetto di
una propria nobiltà e dignità. Anzi la facoltà e
l'efficacia di esse immaginazione e sentimento, sì abitualmente e
sì attualmente sono in proporzione sempre del detto concetto, sì
abituale, e sì attuale. Ogni sentimento o pensiero poetico qualunque
è, in qualche modo, sublime. Poetico non sublime non si
dà. Il bello, e il sentimento morale di esso, è sempre sublime.
Ora il concetto di una propria nobiltà, sembra ridicolo, è
respinto con dolore, come una illusione perduta, quando uno si trova disprezzato,
abitualmente o attualmente, da quei che lo circondano. Però in questi
casi, il provar quella quasi tentazione a sentire ec., è penoso,
perchè vi rinnuova il pensiero della vostra abiezione. Certo, egli
è proprietà ed effetto essenziale d'ogni immaginazione e sentimento
di natura poetica, l'inalzar l'anima: al che si oppone direttamente quello
stato di spregio ec., quel concetto, quel sentimento di se stessa, che la
deprime.
(22. Aprile. 1829, Recanati.). V. p.4499.4515.
Indulgenza nelle città grandi verso
le persone mediocri in qualunque genere, e verso i difetti e ridicoli (pur
d'ogni genere) di queste e delle insigni (difetti che si perdonano in grazia
de' pregi, ed anche della semplice compagnia che quelle persone fanno) maggiore
assai che ne' luoghi piccoli; appunto al contrario di ciò che in questi
si crede. ec. ec.
(23. Aprile)
Affumare, affummare - affumicare. Arsiccio,
arsicciare, abbruciacchiare ec. Pallare-palleggiare. Che pallare per quassare,
venga da ?
Pigna, dialetto marchegiano - pignatta,
pignatto, pignattino ec. V. la p.4498. Il diminut. pignatta dimostra il
suo positivo pigna.
Homme
ec. distingué. Arrondi per rond.
Agli uomini paghi in buona fede e pieni di
se, gli altri uomini sono quasi tutti amabili; li veggono volentieri, ed amano
la lor compagnia. Perocchè si credono stimati, ammirati, ¡
generalmente dagli altri; chè senza [4494]ciò non
sarebbero nè pieni nè paghi di se. Ora è naturale che chi
è creduto ammiratore, sia amabile agli occhi di chi si crede ammirato.
Perciò questi tali (che parrebbe dovessero essere sommi egoisti) bene
spesso sono benevoli, compagnevoli, servizievoli molto, buoni amici. Talvolta
anche modesti, per la piena e tranquilla certezza (la certa e riposata
credenza) che hanno del loro merito (o di loro vantaggi qualunque, come
nobiltà, ricchezza, potenza e simili.) (Rosini).
(26. Aprile.)
Coraggio propriamente detto non si dà
in natura, è una qualità immaginaria e di speculazione. Chi nel
pericolo non teme, non pensa al pericolo, o abituato a non riflettere, o
avvezzo a quei tali casi, o distratto da faccende o da altri pensieri in quel
punto. Chi pensa al pericolo, teme; eccetto se la morte, o quel qualunque danno
imminente, nell'opinion sua non è male. In tal caso, quel pericolo non
è pericolo a' suoi occhi. Ma creder male una cosa, conoscersi in
pericolo d'incorrervi, aver presente al pensiero il pericolo, e non temere;
questo è il vero coraggio; e questo è impossibile alla natura. I
così detti coraggiosi, rimangono maravigliati quando ne' pericoli
veggono altri che temono; e dimandano perchè. Essi non si erano accorti
del rischio, o vi avevano fatto piccolissima attenzione. V. un tratto di Carlo
12 re di Svezia, assediato in Stralsund, ap. Voltaire, liv.8. ed. Londr. 1735.
t.2. p.160-1.
(26. Aprile. 1829.)
[4495]ÛéÛ¡ ec. Noi non abbiamo che invidiare
invidiabile ec. (e così i francesi porter envie, digne d'envie,
ec.), voci assai dure e incivili. Più umana, o per dir meglio,
più civile in ciò, come in tante altre cose, anche la lingua dei
Greci. (26. Apr.). Féliciter franc. si accosta talvolta a Û, per
metafora, specialmente nel senso reciproco.
Ventare, sventare - ventolare, sventolare,
ventilare (lat. ventilo), venteggiare.
Pargoleggiare ec. Vanare - vaneggiare. Per esser
vano v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del Tempo: E vedrai 'l vaneggiar
di questi illustri.
(26. Apr.)
Tinea (noi tigna), teigne, intignare
ec. - tignuola. V. Forcell.
Gringotter. Parlottare. Cantacchiare. Vezzeggiare.
Bamboleggiare. Boursiller.
Acutus da acuo, participio aggettivato, e
non più riconosciuto per participio. Argutus, cioè qui arguit.; e
participio aggettivato. Desolato per solo (uomo o luogo). V. Crus., Forcell.
Parvulus,
parvolo. pargolo. Pluvia, piova - pioggia.
Pargolo è diminutivo. Pur
è già antiquato, e nella prosa non si usa più che il sopraddiminutivo
pargoletto. Tanta è la tendenza del popolo a diminuire.
Così in Toscana oggi non odi più piccolo, ma piccino.
(27. Apr.). In lat. pusillus per l'antiquato pusus.
Pina - pinocchio. V. Crus. Innamoracchiare,
innamorazzare, amoreggiare.
Gravato per grave. Petr. L'aere gravato e
l'importuna nebbia.
Ci piace e par bella una pittura di paese,
perchè ci richiama una veduta reale; un paese reale, perchè ci
par da dipingerci, perchè ci richiama le pitture. Il simile di tutte le imitazioni
(pensiero notabile). Così sempre nel presente ci piace e par bello
solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono
in percezion di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze.
(Recanati. 27. Aprile. 1829.)
Life. to live. E simili innumerabili.
[4496]Folâtre, folâtrer.
Folleggiare, pazzeggiare ec. V. Crus.
Dives,
divitis, divititae ec. - dis, ditis, Dis Ditis, ditare ec.
Recupero - recipero. V. Forc.
Recisamentum par che
indichi un recisare. V. Gloss.
Trouble, troubler (turbula, turbulare).
Fustigo, remigo, navigo, laevigo, fatigo,
litigo.
Remotus, secretus, occultus, riposto ec.
participii aggettivati.
Covaccio - covacciolo (accovacciare ec.). E
simili altri in accio-acciolo, acciare - acciolare. Così in acchio
acchiolo ec. Vedi la p.4473. capoverso 9, coi pensieri annessi, anteriori o
posteriori al presente. Notisi che la desinenza in ulus a um, ulare ec.
già era compresa nella forma in accio, acchio, aglio ec. (come
qui in covaccio, che è un cubaculum) acciare ec.;
sicchè nella forma in acciolo, acchiolo, acciolare ec. viene ad essere
ripetuta.
Alla p.4486. Anche la forma in as asse
(crevasse crevasser ec.)[289] asser
(frigo, fricasser)[290] ace
acer spesse volte, non è altro che la latina in acul..., la
nostra in accio acciare, azzo azzare ec. Così la spagnuola in azo
aza azar. Minae, minor, minaccia, minacciare, menace ec., amenaza ec.
Così fors'anco in êche, eche, ec. ec. esse, isse,
ec. oisse, ousse ec. isser ec.; e in ezo, izo (granizo)
ec. izar ec. acho, echo ec. achar ec. Così talvolta
la nostra in asso, assare, esso ec. Similmente le nostre in olo,
olare, olo (gragnòla) ec. uolo uolare, icciuolo, o a-ucciuolo
(filiolus, figliuolo) ec. tutte dal latino ul..., o talvolta ol...
V. p.4498. - Così la francese analoga in eul, euil ec. ec.
(linceul). Tutte queste forme vengono, dico, dall'unica latina, o che questa
abbia forza diminut. ec., o che sia semplice desinenza, del che vedi la
pag.4442-4. - V. ancora il pensiero qui precedente. (30. Apr.). Anche sovente
la spagnuola allo allar - ullo ullar; e forse la francese al [4497]
alle, aller - uller. Così forse spesso anche la nostra in allo (timballo
per timpano) allare - ullo ullare (culla da cunula, cullare, colla,
collare, da chordula, fanciullo (v. la p.4492. capoverso 7.), maciulla,
maciullare). Notandum però che anco i latini hanno la forma diminutiva
ec. in ill..., ell... oll... (corolla, v. p.4505.), ull...,
fors'anche all..., sì in verbi sì in nomi. - Mirabil cosa
in quante maniere diverse si è corrotta la pronunzia latina, anche
dentro una stessa nazione; cosa notabile assai nella scienza delle etimologie.
E da ciò in gran parte deriva la tanta superiorità dell'italiano
sul latino in abbondanza e varietà di forme frequentative, diminutive
ec., superiorità notata da me altrove, parlando de' frequentativi latini.
- Vedi anche la p.4490. capoverso 5.
(1. Mag.). V. p.4500.
Piovegginare. Piovigginare. Gergo - jargon.
Frego - fregacciolo, sfregacciolo, fregacciolare. Impiastrare - impiastricciare.
Ram-mentare - di-menticare, s-menticare ec.
Masticare: da un mansitum - mastum (pinsitus
- pistus) di mandere, come da mixtum misticare.
Dello stesso secolo è mancare di
poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l'utile, il linguaggio del
popolo; bandirne l'eleganza; privarla della maggior parte del bello,
ch'è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il
bello (e quindi il sublime, il grande ec. V. la p.4492. fin. e sq.) al vero, o
al così detto vero. È naturale e conseguente che un secolo
impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch'ei può; anzi
una poesia non poesia.
(2. Mag.)
Alla p.4273. Così gli stranieri, dopo
avere snaturata la loro scrittura per voler esprimer con essa piuttosto la
pronunzia latina che la volgare, abituati poi a questo snaturamento, anzi
dimenticatolo, e pigliando [4498]per naturale e per logico il loro modo
di scrivere, vengono a snaturare la pronunzia latina, facendo dal latino
scritto al pronunziato quella differenza che sono usati e necessitati a fare
dalla pronunzia alla scrittura de' loro volgari. (2. Mag. 1829. Recanati.).
È naturale e conseguente, che chi scrive male la propria lingua, legga
male le altre. Massime quelle che non gli sono note se non per iscrittura.
(2. Mag.)
Alla p.4496. Come parvolus per parvulus: e
regolarmente dopo vocale, come lacteolus, flammeolus, bracteola, lanceola,
Tulliola, filiolus ec., e così ne' verbi. - Fors'anche la nostra forma
in atto attare (attolo attolare), probabilmente da acchio ec.
piuttosto che da asso. E quindi anche la diminuzione ec. in etto
ettare, otto, utto ec. ec. E quindi anco la francese in et ette etter
eter, ot ote (barbote) otte otter oter ec. (becqueter, piquer -
picoter.): e la spagnuola in ito ecito ec. oto ec. Certo poi la
spagnuola in ico ecico ec. ec.
(3. Maggio. 1829.)
Che libertar sia un liberatare
o liberitare (meritare - mertare), è provato anche da libertus,
participio aggettivato, mera contrazione di liberatus.
L'assenza di ogni special sentimento di male
e di bene, ch'è lo stato più ordinario della vita, non è
nè indifferente, nè bene, nè piacere, ma dolore e male.
Ciò solo, quando d'altronde i mali non fossero più che i beni,
nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia
della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l'uomo
non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale
l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si
chiama noia.
(4. Maggio. 1829.)
[4499]Al detto altrove delle bestie
e de' pazzi, che metton fuori tutte le loro forze per ottenere i loro fini, a
differenza degli uomini, aggiungi i fanciulli, i quali perciò alle volte
vincono di vera e viva forza gli uomini fatti ec.
(4. Maggio. 1829. Recanati.)
Alla p.4493. Nessuna dolce e nobile ed alta
e forte illusione può stare senza la grande illusione dell'amor proprio,
l'illusione della stima di se stesso e della speranza. Togliete via questa,
tutte le altre verranno meno immantinente, e potrete conoscere allora che
questa era il fondamento e la nutrice, per non dir la radice e la madre di
tutte l'altre. - Supponete uno nella più profonda estasi di sentimento o
di entusiasmo: fategli un motto, un gesto solo di spregio, o ch'egli interpreti
come tale; o ponete che qualche cosa gli richiami alla mente alcun dispregio sofferto
altra volta: tutte le illusioni di quel punto spariscono come un lampo, l'entusiasmo
si spegne, la persona resta di ghiaccio.
(5. Mag. 1829.)
Scheda.
schedola. V. Crus. Forcell. Viola, lat. ital.
ec. - violette, franc.
Vos - os, spagn. Pluvia -
pluie. Esca - vescor, vescus ec. Vedi Forcell.
Homme
outré, soumis. Sommesso. Rimesso. Rassegnato ec.
Talus -
talon, tallone. Cipolla, cebolla, forse da cepucula o cepulla (v. la
p.4497. princip.), diminutivo come tanti altri nomi d'erbe, piante, animali ec.
del che altrove. Anche in francese ha forma diminutiva oignon: anche ciboule,
ciboulette, cive (cepe), civette. V.
Forcell. ec. Ceniza spagn.,[291]
cinigia (v. Alberti),[292] e
noi marchigiani ciniscia, o ceniscia: forse da ciniscula o cinisculus, come
pulvisculus.
(6. Maggio.). V. Forc. ec.
[4500]Alla p.4497. Fors'anche
talvolta le nostre forme in a-u-gio, ggio, cio-are. Corrottamente scio
ec. Forse talvolta dal lat. ascul.... - uscul... Cinigia. V. la p. qui
dietro, fin. V. p.4504.
Si la
tristesse attendrit l'ame, une profonde affliction l'endurcit. Rousseau, pensées,
II. 205.
Le pays
des chimeres est en ce monde le seul digne d'être habité, et tel est le
néant des choses humaines, que hors l'être existant par lui-même,
il n'y a rien de beau que ce qui n'est pas. ib. 206-7.
La stupenda conformità radicale tra i
nomi della più parte de' 10 primi numeri nelle lingue le più
disparate, sembra provare unità d'invenzione e d'origine de' nomi numerali,
e conseguentemente della numerazione.
(7. Maggio.)
La formazione incoativa de' verbi, sì
bella, e di tanto uso in latino, manca essa pure alla lingua greca.
(7. Mag.)
Aisé, agiato, agiatamente ec. per agevole,
agibilis. Falcato, quadrato, carré, quadratus ec., e simili altri participii
aggettivati o aggettivi di forma participale, senza verbo; come saranno forse
altri dei notati da me in tal proposito esprimenti figura.
Uomo ec. ordinato.
(7. Mag.). Prolongé.
Bacherozzo-bacherozzolo. E simili infiniti
in azzo-uzzo.
Les
anciens politiques parloient sans cesse de moeurs et de vertus; les nôtres ne
parlent que de commerce et d'argent. Rousseau, pensées, II.230.
Plus le
corps est foible, plus il commande; plus il est fort, plus il obéit. Rousseau,
ib. 223.
Il n'y a
point de vrai progrès de raison dans l'éspece humaine, parce que tout ce
qu'on gagne d'un côté, on le perd de l'autre; que tous les esprits partent
toujours du même point, et que le temps qu'on [4501]emploie
à savoir ce que d'autres ont pensé, étant perdu pour apprendre à
penser soi même, on a plus de lumieres acquises, et moins de vigueur
d'esprit. Nos esprits sont comme nos bras exercés à tout faire avec des
outils, et rien par eux-mêmes. ib. 221. V. p.4507.
Machiavellismo di società. La véritable politesse consiste à marquer de la
bienveillance aux hommes. (ib.222.) Ma con questa non fate che evitare
di procurarvi la malvolenza loro. Per affezionarveli bisogna la falsa e finta
politezza, che consiste in mostrare a tutti della stima. Un uso ordinario e
mediocre di questa politezza vi fa gli altri benevoli, un uso eccellente e
più che ordinario ve li fa amanti. Gli uomini si curano assai meno di
essere benvoluti che stimati, ed hanno più gratitudine e più amore
a chi gli stima, che, non solamente a chi gli ama, ma a chi li benefica. On peut résister à tout hors à la
bienveillance, et il n'y a pas de moyen plus sûr d'acquérir l'affection
des autres que de leur donner la sienne. (ib. 224.) Questo detto è molto
più vero, applicato alle dimostrazioni di stima. La benevolenza,
l'affetto, l'amore stesso, non che sieno sempre corrisposti, spessissimo generano
noia, nausea, avversione verso l'amante. Gli esempi ne sono frequentissimi, non
solo tra' due sessi, ma tra padri e figliuoli, e tra altri parenti, massime di
età e di generazioni diverse: tra' quali non è raro trovare amore
da una parte, vero odio costante, invincibile, dall'altra. Ma non è
possibile conservare avversione nè indifferenza, resistere, non
riconciliarsi, non voler bene a chi mostra di stimarci; massime se
costui (cosa facilisima) ce lo persuade.
(8. Maggio.)
[4502]Alla p.4478. marg. Pour ne rien donner à l'opinion il ne faut rien
donner à l'autorité, et la plupart de nos erreurs nous viennent bien moins
de nous que des autres. ib. 228.
Machiavellismo
sociale. Tout est plein de ces poltrons adroits qui cherchent, comme un dit,
à tâter leur homme; c'est-à-dire à découvrir quelq'un qui
suit encore plus poltron qu'eux et aux dépens duquel il puissent se faire
valoir. ib. 227. (Condulmari. Galamini.) Oggi, e in Italia, che tutti
sono poltroni, qui consiste tutta la società, e la vita sociale, e il
mio Machiavellismo.
(8.
Mag.)
Je n'ai
jamais vu d'homme ayant de la fierté dans l'ame en montrer dans son maintien.
Cette affectation est bien plus propre aux ames viles et vaines. ib. 232.
Manuale di filosofia pratica. Par-tout où l'un substitue l'utile à
l'agréable, l'agréable y gagne presque toujours. ib. 231. Serva a
que' miei pensieri ove dico che le occupazioni ec. il cui fine è il solo
piacere, non danno mai piacere ec.
(9. Mag.)
Alla p.4418. L'existence des êtres finis est si pauvre et si bornée, que quand
nous ne voyons que ce qui est, nous ne sommes jamais émus. Ce sont les chimeres
qui ornent les objets réels, et si l'imagination n'ajoute un charme à ce
qui nous frappe, le stérile plaisir qu'on y prend se borne à l'organe,
et laisse toujours le coeur froid. ib. 242
Guardare per aspettare ec. del che altrove.
Aguato, agguato, aguatare, agguatare ec. per insidiare, vagliono propriamente
aspettare al passo, e in proprio senso equivalgono all'aguardar spagnuolo.
Navita - nauta; navis - naufragium ec.; e
simili.
[4503]Forma diminutiva italiana in astro.
Pollastro, vincastro ec. Disprezzativa. Giovinastro, medicastro, poetastro. ec.
Fors'anche frequentativa, e in astrare. Così in francese:
folâtre, folâtrer ec.
(9. Maggio.). Verdastro, verdâtre per
verdigno; e simili. Padrastro ec.
Torreo-tostum-tostar, spagn. Elixus, assus,
forse participii; e quindi assare, elixare, forse continuativi. Livio VII. 10.
linguam exserere, laddove l'antico annalista Quadrigario, ap. Gell. IX. 13., al
quale allude lo stesso Livio, linguam exsertare: benissimo Quadrigario: e non
è frequentativo, ma continuativo, perchè, come ho detto altrove,
il frequentativo indica il soler fare (a non certi intervalli e tempi) una
cosa, e il non farla continuamente di séguito e ripetutamente in un dato e
piccolo spazio di tempo. Così considerati, anche i verbi in ico,
e gli altri che si chiamano frequentativi, oltre quelli in ito, si
vedranno essere più propriamente continuativi.
(10. Maggio. 1829.)
Dal detto altrove sulla poesia di stile,
quanta immaginazione richieda ec., apparisce che i veramente poeti di stile, sarebbero
stati poeti d'invenzione, o per meglio dire, d'invenzion di cose, in altri
tempi; e ch'essi sono i veri poeti de' loro secoli. ec.
(10. Mag.)
Per molto che uno abbia letto, è ben
difficile che al concepire un pensiero, lo creda suo, essendo d'altri; lo
attribuisca all'intelletto, all'immaginazione propria, non appartenendo che
alla memoria. Tali concezioni sono accompagnate da certa sensazione che
distingue le originali dalle altre; e quel pensiero che porta seco la sensazione,
per così dire, dell'originalità, verisimilissimamente non
sarà stato mai concepito ugualmente da alcun altro, e sarà
proprio e nuovo; dico, non quanto alla sostanza, ma quanto alla forma, che
è tutto quel che si può pretendere. Giacchè è noto
che la novità della più parte de' pensieri [4504]degli
autori più originali e pensatori, consiste nella forma.
(10. Mag.)
Similis - simulare, ec. ec.
Carduus, cardo ital. - chardon franc., cardone ec. Juillet.
Debolezza amabile al più forte (come
la forza al debole, il maschio alla femmina). Su ciò è fondata in
gran parte la tenerezza naturale de' genitori verso i figliuoli, la quale negli
animali finisce affatto colla debolezza di questi. Anche l'amabilità de'
fanciulli agli uomini, delle femine ai maschi, degli animaletti piccini e
teneri, (uccelli ec.), di tutto ciò (anche piante ec.) dove il senso o
l'immaginazione percepisce un'idea di tenerezza, debolezza, inferiorità
di forze ec. Anche la malattia, il pallore; e poi l'infelicità ec. ec. e
tutto quel ch'è oggetto di compassione, si può ridurre a questo
capo. La compassione è fonte d'amore ec. ec. V. p.4519. fine.
(11. Mag.)
Nel secolo passato le scienze si collegarono
alle lettere; il secolo ebbe una letteratura filosofica (vera letteratura, e veramente
propria di esso): nel nostro le hanno ingoiate; letteratura del secolo 19°, a
parlar propriamente, non v'è. Non è l'Italia sola che patisca
oggi questo difetto di letteratura contemporanea; esso è comune a tutte
le nazioni colte. Solo la Grecia, ed altri tali paesi ancor mezzo civili,
avranno forse una letteratura del secolo 19°: se l'influenza inevitabile delle
nazioni convicine non uccide le lettere ancor presso quelli, e prima che si
maturino.
(11. Mag.)
Alla p.4500. Calderugio per calderino,
diminutivo di carduelis (chardonneret), del che altrove. - Raperugiolo -
raperino. Fors'anco in cco-are. Piluccare, éplucher. Badalucco. Balocco.
E simili disprezzativi o frequentativi - E in onzo-are, dal lat. unculus-are
(avunculus, homunculus, latrunculus). V. p.4513. Mediconzo-lo (quasi medicunculus),
ballonzare, (ballonzìo, volg. tosc.) ec. E similmente in oncio-are.
Baroncio ec. E in agno-ugno are, dal lat. nulus, o ngulus,
o unculus, o simili. Verdognolo, (viridunculus), verdigno, rossigno,
vecchigno ec. V. Crus. Ugna - ungula. E così in ñ...
spagnuolo [4505]. E così le forme francesi e spagnuole analoghe a
ciascuna di queste italiane. - Senza poi contare le desinenze in cui l'ul...
lat. si trasforma nei volgari, e che in questi non hanno nessun valore
diminutivo disprezzativo ec. ec. Come (oltre alcune forse delle sunnotate) la nostra
in io, iare (unghia, nebbia, bacchio ec. ec.), e in lo, lare
(isola, manipolo, accumulare, tumulo ec. ec.) la francese in ... le ...ler
(combler, comble, accumuler, île, disciple, ridicule, oncle, ongle, fable ec.);
la spagn. in lo, lar (habla, hablar, isla ec. ec.). Dico l'ul...
lat., o che questo sia diminutivo o no, o che il diminutivo latino sia noto o
no; come piaggia, spiaggia, dall'ignoto plagula per plaga,
trembler da un tremulare ec. Del resto, tutte queste desinenze sono
notabili per l'osservazione etimologica fatta a p.4497. lin.5. 7.
(11.
Mag.). V. p. seg.
Ala, mala, velum, palus - axilla, maxilla,
vexillum, paxillus. Di questi forse diminutivi positivati, e loro simili, v. Forcell.
in dette voci, e in X littera. Similmente paucus -
paulus, o paullus-pauxillus.
Alla p.4497. Contrazione di coronula, come
patena - patella, catena - catella, catinum, catinus - catillum, catillus; e come
appunto il nostro culla per cunula. Anche paullus o paulus a um, per
pauculus-pauclus, se non è contrazione di pauxillus. V. il pensiero
precedente.
Audeo ausum - osare, oser ec. Pulso as,
detto di porte, strumenti ec., è ancora continuativo, al modo spiegato
p.4503. capoverso 2: pello sarebbe affatto improprio.
La facoltà di sentire è
ugualmente e indifferentemente disposta a sentir piaceri e dolori. Or le cose
che producono le sensazioni del dolore, sono incomparabilmente più che
quelle del piacere. Dunque la facoltà di sentire è un male, per
lo stato esistente delle cose, quando pur nol fosse per se. E quanto essa
è [4506]maggiore, nella specie o nell'individuo, tanto quella o
quello è più infelice: e viceversa. Dunque l'uomo è
l'ultimo nella scala degli esseri, se i gradi si calcolano
dall'infelicità ec. ec.
Becqueter. Picoter. Pulta, lat. polta, ital.
- poltiglia. V. Forc. ec. Pungere - punzecchiare, marcheg. puncicare. Sputacchio,
sputacchiare.
Alla p.4505. Fors'anco in co-are, e que
quer franc. (claquer ec.). Anche in ico icare, se lungo
(perchè nelle nostre pronunzia l'icul... lat. è lungo
nell'i); massime contratto in icl... ec., come sarebbe in questi
casi se breve, è dal lat. ico as ec. V. p.4509.
Parole greche possono esser venute in
italiano ne' bassi tempi, pel commercio e le conquiste de' Veneziani, le
Crociate, i Greci del Regno di Napoli e di Sicilia, e simili altri mezzi (esse
sono, del resto, anteriori molto alla presa di Costantinopoli); ma non
già le frasi, i costrutti, gl'idiotismi, vere proprietà di
lingua, comuni all'italiano e al greco, da me spesso notate.
(13. Mag.)
Una cosa, fra l'altre, che rende impossibile
agli stranieri il gustar la poesia delle lingue sorelle alla loro propria, o
affini (come sarebbe l'inglese alle nostre che vengono dal latino), si è
che il linguaggio poetico di tali idiomi essendo, come il prosaico, composto di
voci e modi che si ritrovano ancora nelle lingue sorelle, moltisime di tali
voci e maniere che lo compongono, e che sono poetiche in quel tale idioma,
cioè nobili, eleganti, pellegrine, e così discorrendo; nell'idioma
dello straniero che legge, sono o basse, o familiari, o triviali, o prosaiche
almeno, spesso ridicole e da beffe; hanno significati analoghi ma diversi;
richiamano idee alienissime dalla poesia generalmente, o dal soggetto in particolare.
Ciò è soprattutto notabile fra italiani e spagnuoli (v. la
p.4422.). (Un qualunque pezzo di poesia spagnuola potria servirmi di esempio
chiarissimo). Ed è applicabile anco alla prosa elevata, oratoria,
storica e simili.
(13. Mag.)
[4507]Alla p.4501. Non solo della
ragione, ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle
cognizioni umane, si può dubitare se facciano progressi reali. Pel
moderno si dimentica e si abbandona l'antico. Non voglio già dir l'archeologia,
ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degli uomini insigni,
la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienze stesse degli antichi.
Si apprende, si sa quel che sanno i moderni; quel che seppero gli antichi (che
forse equivaleva), si trascura e s'ignora. Nè voglio dir solo i greci o
i latini, ma i nostri de' secoli precedenti, non escluso pure il 18°. Guardate
i più dotti ed eruditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come
qualche Tedesco) che conoscono egualmente l'antico e il moderno, la scienza
degli altri enciclopedica, immensa, non si stende, per così dire, che
nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale, che non
può servire a nulla. In vece di aumentare il nostro sapere, non facciamo
che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stesso genere (senza che poi
uno studio prevale in una età a spese degli altri). Ed è cosa
naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lo spazio della vita non cresce,
ed esso non ammette più che tanto di cognizioni. Anche le scienze
materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa. Bastando
appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da'
contemporanei, quanto si può profittare di quelle d'un tempo addietro? I
materiali non crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornalmente,
che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava
più. Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de' recenti.
Un'occhiata a' Dizionarii biografici, agli scritti, alle osservazioni, alle
scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o [4508]appena noti, e pur
vissuti pochi lustri o poche diecine d'anni sono: si avrà il comento e
la prova di queste mie considerazioni Gli uomini imparano ogni giorno, ma il
genere umano dimentica, e non so se altrettanto.
(13. Mag.)
Ciondoli, ciondolare ec., dondolare,
cinguettare, linguettare, bredouiller, barbouiller, barboter, imbrodolare ec.
Trebbiare (tribulare. V. Forc. Gloss. ec.) -
Û.
Un mio fratellino, quando la Mamma ricusava
di fare a suo modo, diceva: ah, capito, capito; cattiva Mamà. Gli
uomini discorrono e giudicano degli altri nella stessa guisa, ma non esprimono
il loro discorso così nettamente (Ðw).
(14. Mag.)
Quanto può l'autorità
(come in ogni altra passione, p.e. la tristezza, la speranza, il timore,
così) nel piacere! Dico ne' piaceri realistici ec. In galanteria: donne amate
da qualcun altro, famose per bellezza, spirito ec., quantunque a voi d'altronde
non piacerebbero. In letteratura: se leggete un libro che il pubblico vi dica
esser bello, classico ec., ci provate incomparabilmente maggior piacere, che se
da voi stesso dovete avvedervi de' suoi pregi. Il piacer dell'inaspettato, che
si può provare in questo secondo caso, non ha nulla di comparabile a
quello che nel primo caso ci deriva dall'autorità degli altri. Nè
trattasi qui di rimembranze, lontananza, antichità venerabile, voto di
secoli ec.; anche un libro nuovo, uscito pur ora ec. Il credito poi
dell'autore, benchè vivente, quanto importa al piacere! È
classico il detto di La Bruyere: è molto più facile il far
passare un libro mediocre al favor di una riputazione già fatta, che
acquistarsi una riputazione con un libro eccellente. Ed io ardisco dire che piace
veramente più a leggere un libro mediocre (nuovo o antico) d'autor famoso,
che un libro eccellente di scrittore non rinomato.
(14. Mag.)
[4509]Barbio, barbo (Alberti) -
barbeau. Tâtonner, ec., bourdonner. Brontolare
ec., ec. -
brontolare.
Alla p.4506. Nutricare però è
da nutrico. Mendicare da mendico as ec. Del resto, anche le forme in chio
chiare, co care, cio-zo-are, precedute da consonante (mischiare,
bufonchiare, ballonchio anche questi, e simili, dal lat. uncul... ec.
ec.). E così dicasi delle altre sunnotate forme italiane, ed anche
francesi e spagnuole, ed anche latine: non solamente precedendo vocale. La
forma in onzo, di cui sopra, è veramente in onzo (onzare
ec.), e non solamente in onzolo (v. la Crusca in Romitonzolo), ed
è corrotta da quella in oncio, e però, come questa, racchiude
tutta intera la forma lat. in unculus. (Vedi la pag.4496. capoverso 8. e
la p.4443.) Rapulum (cioè piccola rapa, parvum rapum) - raperonzo,
raperonzolo - raiponce. V. spagn. ec. Raponzolo o ramponzolo; volg. marcheg. e
Fr. Sacchetti nella Caccia. - E la forma franc. in ce cer, je jer, ye
yer (côtoyer, guerroyer antico, ec.), in ie ier ec. ge, ger
(bagage-bagaglio), precedendo consonante o vocale. Raiponce. V. qui sopra. (15.
Maggio.). Sucer (succiare), della 1a coniug., mentre sugo is
è della 3a. E in bro, brare, e simili, cangiata la l
lat. in r. Sembrare da simulare o similare. Assembrare (assembler)
assimulare, da simul. Così anche in ispagnuolo ec. - E in a-u-io-iare.
(16. Mag.). V. p.4511.
Odio verso i nostri simili. È proprio
ancora, ed essenziale a tutti gli animali. Non si può tenerne due d'una
stessa specie (se non sono di sesso diverso) in una medesima gabbia ec., che
non si azzuffino continuamente insieme, e che il più forte non ammazzi
l'altro, o non lo strazi. Uccelli, grilli ec. E v. il detto altrove, degli animali
che si specchiano.
(15. Mag.)
Ballonzare ballonzolare (Alberti.).
Buffoneggiare. Bucacchiare. Bucherare. Fo-sfo-racchiare. Lampeggiare. Torreggiare.
Criailler. Rimailler. Rioter.
Aguzzo - auzzo ec., sciaura, reina, reine
franc. ec. magister-maestro ec.
Manco-mancino, diminut. aggett. Pisello.
Fagiuolo. V. lat. franc. spagn. Asio, lat. - assiuolo.
[4510]Quel che si dice degli
stupendi ordini dell'universo, e come tutto è mirabilmente congegnato
per conservarsi ec., è come quel che si dice che i semi non si depongono,
gli animali non nascono, se non in luogo dove si trovi il nutrimento che lor
conviene, in luogo che loro convenga per vivere. Milioni di semi (animali o
vegetabili) si posano, milioni di piante o d'animali nascono in luoghi dove non
hanno di che nutrirsi, non posson vivere. Ma questi periscono ignorati; gli
altri, e non so se sieno i più, giungono a perfezione, sussistono, e
vengono a cognizione nostra. Sicchè quel che vi è di vero si
è, che i soli animali ec. che si conservino, si maturino, e che noi
conosciamo, sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ec.
Ovvero, che gli animali che non capitano, ec. non vivono ec. Questo è il
vero, ma questo non vale la pena di esser detto. Or così discorrete del
sistema della natura, del mondo ec. ap. a poco secondo le idee di Stratone da
Lampsaco.
(16. Mag.)
Trève-tregua.
Continuato, continuatamente ec. per continuo
ec. V. franc. spagn. lat. ec.
Homme,
ne cherche plus l'auteur du mal; cet auteur c'est toi-même. Il n'existe
point d'autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l'un et l'autre
te vient de toi. Le mal général ne peut être que dans le désordre, et je
vois dans le système du monde un ordre qui ne se dément point. Le mal particulier
n'est que dans le sentiment de l'être qui souffre; et ce sentiment,
l'homme ne l'a pas reçu de la Nature, il se l'est donné. La douleur a peu de
prise sur quiconque, ayant peu réfléchi, n'a ni souvenir ni prévoyance. Ôtez
nos funestes progrès, ôtez nos [4511]erreurs et nos vices, ôtez
l'ouvrage de l'homme, et tout est bien. Rousseau, pensées, II. 200. - Anzi appunto
l'ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell'ordine,
che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l'esistenza di questo
inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d'altre specie. Invidia ed odio
ingenito de' viventi verso i loro simili: v. la p.4509. capoverso 4. Altri mali
anche più gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema
della natura ec. Noi concepiamo più facilmente de' mali accidentali, che
regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero
straordinarii, accidentali; noi diremmo: l'opera della natura è
imperfetta, come son quelle dell'uomo; non diremmo: è cattiva. L'autrice
del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente
maraviglia; poichè il mondo stesso (dal qual solo, che è l'effetto,
noi argomentiamo l'esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma
che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell'ordine,
che fonda l'ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è
vario, mutabile; se oggi v'è del male, domani vi potrà esser del
bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario?
dico, in un ordine ove il male è essenziale?
(17. Mag.)
Amaricare, ital. V. Forc. Amareggiare.
Armeggiare. Pareggiare. Corteggiare.
Cumbo is, conservato ne' suoi composti -
cubo as, coi composti ec. Posticipare.
Alla p.4509. fin. Alla forma in olo,
olare ec. aggiungi in giolo, ggiolo, ccolo, colo, e specialmente in ucolo
(carrucola ec.). Anche occo ec. di cui sopra, è per lo più
dal lat. ucul... (anitrocco, anitroccolo, bernoccolo, bernoccoluto ec.)
siccome occhio (ranocchio, ginocchio ec.). V. p.4513. In franc. cle,
cler, gle, gler ec. E in ispagnuolo ec. - Aggiungi pure in giuolo,
ggiuolo, zuolo ec. - La forma in ezzo [4512]ezzare può
essere non solo da ecci..., ma da eggi... Careggiare carezzare.
V. Crus. in amarezzare, marezzare ec. E così l'altre in zo ec. Libycus
- libyculus - libeccio (Lebesche franc.); corticula - corteccia, scortecciare
ec.; cangiato l'i lat. in e al solito, e come in tante altre
diminuzioni (orecchia, pecchia ec., oveja ec. abeille ec. ec.), frequentazioni
ec., nominatamente quella in ecchi... (e le corrispondenti franc. e
spagn.) sì abbondante. Così, e secondo il detto a p.4500. princ.,
la nostra forma frequentativa ec., sì usitata, in eggio eggiare sarebbe
pur dalla forma latina. - In tutte tali forme, se esse comprendono intera la
forma latina, il lo lare, se vi si trova, è una giunta toscana. -
Del resto, per forme ed esempi ec. v. l'indice di questi pensieri in Frequentativi,
Diminutivi ec.
(17. Magg.)
In una lingua assai ricca, non solo è
povera, o limitata, quella di ciascuno scrittore, come dico altrove, ma anche
quella del popolo, e generalmente la parlata. P.e. l'italiano parlato, ancora
in Toscana, non è punto più ricco del francese, nominatamente in
fatto di sinonimi ec.
(18. Mag.)
A rivederla: solito
saluto de' Toscani, anche passando, senza punto fermarvi, o da lungi.
Assurdità di queste nostre adulazioni dette complimenti.
(18. Maggio.)
Troppe cure assidue insistenti, troppe
dimostrazioni di sollecitudine, di premura, di affetto, (come sogliono essere
quelle di donne), noiosissime e odiose a chi n'è l'oggetto, anche
venendo da persone amorosissime. Ûñ¡ÛI¡ò. -
Galateo morale.
(18.
Mag.)
Pullus -
pollone; rejet - rejeton; surgeon (surculus). Poulet. Poitrine. Vagolare, svagolare
(v. Alberti). Guerreggiare, gareggiare, serpeggiare, tratteggiare (v. Alberti),
pennelleggiare, parteggiare, costeggiare, pompeggiare, pavoneggiare,
patteggiare, osteggiare, campeggiare, aspreggiare, mareggiare.
Recondito. Uomo onorato, disonorato; azione
disonorata ec.
Verbi in to da nomi femin. in tas.
Nobilitas - nobilito. Debilito, mobilito.
Morve - morveau. Spia - espion, spione (la
Crus. lo crede accrescitivo: male: e [4513]così d'altri tali, ec.
ec.)
Misceo - mixtum - mestare, coi composti ec.
Aggiungasi al detto altrove di meschiare ec.
Canto as, nel Forc., potrà
somministrare esempi di uso continuativo.
Il detto intorno ai verbali in bilis,
dicasi ancora circa quelli in ivus (nativus ec.), e gli altri tali.
Alla p.4511. marg. - e in occio:
figlioccio (filiuculus, non filiolus), moccio (muculus), bamboccio,
femminoccia, fantoccio, santoccio, casoccia, ec. - Filleul (filiolus, in altro
senso.).
Certe idee, certe immagini di cose
supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano
sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci
richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza,
nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e
ordinarie. E i poeti che più hanno di tali concetti (supremamente
poetici) ci sono più cari. V. p.4515. Analizzate bene le vostre
sensazioni ed immaginazioni più poetiche, quelle che più vi
sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che
esse, e il piacer che ne nasce, (almen dopo la fanciullezza), consistono
totalmente o principalmente in rimembranza.
(21. Mag.)
Alla p.4428. Chi pratica poco cogli uomini,
difficilmente è misantropo. I veri misantropi non si trovano nella
solitudine, si trovano nel mondo. Lodan quella, sì bene; ma vivono in
questo. E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella
solitudine.
(21. Mag.)
Alla p.4504. Furunculus, carbunculus
(carbonchio, carbunco, carboncolo, carbuncolo, carbunculo: in una sola terminazione
d'una sola voce, quanta varietà di pronunzie! escarboucle) ec.: per lo
più da voci che abbiano la n, nel nominativo o nel genitivo, se
sono nomi. (21. Mag.). - Del [4514]resto, la contrazione di cul...
in cl..., deve estendersi a tutte l'altre desinenze in ul...,
specialmente in gul... ec. Dico, quanto alla corruzione subìta da
tali desinenze nelle forme volgari. (22. Maggio. 1829. Recanati.). - Vannozzo,
Vannoccio. Cerviatto, o cerbiatto. - Le voci in cul..., specialmente
precedendo consonante, sono contratte da icul..., come tuberculum da
tubericulum, laterculus da latericulus, onde lo spagn. ladrillo; mangiata la i
come in tanti altri casi. - Che la desinenza acul... particolarmente,
nel latino basso, o volgare ec., avesse forza disprezzativa, come accio
acciare, as asse asser franc., azo azar spagn., rilevasi non solo
dal consenso di queste 3 lingue figlie circa cotal forma e significato, ma
anche dai nostri collettivi disprezzativi in aglia (marmaglia,
plebaglia, canaglia, ciurmaglia, giovanaglia ec.), e così, mi pare,
spagnuoli; e dalle voci francesi pur disprezzative in ail aille ailler
(canaille, rimailler, rimailleur ec.). Non a caso queste 2 forme in aglio
ed accio (e lor corrispondenti), che d'altronde nei nostri idiomi considerati
da se non hanno niente di comune, si abbattono ad essere ugualmente disprezzative:
esse derivano da una stessa forma latina la loro origine grammaticale: è
naturale che da questo principio comune derivino anche la loro significazione
disprezzativa. (23. Mag.). - Vittuaglia ec. Foraggio-are, fourrage-er: v.
spagn. Bitorzo (bitorcio, quasi bitorculus), bitorzolo ec. Santocchieria.
Foeniculum - (foenuculum) - finocchio - fenouil. - La desinenza in gn...
ñ ec. è per lo più da neus ec.; p.e. castanea-castagna.
- Aveugle, aveugler - aboculus. Muraglia. Pagliuca (Alberti). Molliccio,
molliccico. v. p.4515.
Minuto, participio aggettivato, coi derivati
ec. V. lat. franc. spagn.
Soperchio soperchiare, superculus
superculare: dello stesso genere che parecchio apparecchiare, pariculus
appariculare, di cui altrove; dove la desinenza in cul... è
semplice desinenza e non diminuzione. Puoi vedere la p.4443. ec.
Ruina-rovina ec.
[4515]Alla p.4513. Similmente molte
immagini, letture ec. ci fanno un'impressione ed un piacer sommo, non per se,
ma perchè ci rinnuovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o
da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella
fanciullezza o nella prima gioventù. Questa cosa è frequentissima:
ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono
di questo genere, benchè noi non ce ne accorgiamo, perchè non vi
riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse.
Quindi ancora è manifesto che una poesia ec. dee parere ad un tale assai
più bella che un'altra, indipendentemente dal merito intrinseco. ec. ec.
Zoppicare. Medeor - medico as.
Alla p.4493. Com'è notato, una gran
parte del piacere che i sentimenti poetici ci danno e ci lasciano, consiste in
ciò, ch'essi c'ingrandiscono il concetto, e ci lasciano più
soddisfatti, di noi medesimi. Appunto come i sentimenti, come le azioni,
nobili, magnanime, pietose; come i sacrifizi ec. (e come la conversazione di
chi ha la vera arte di esser amabile). E appunto come questi non cadono se non
in chi sia felice, contento di se, in chi si stimi ec., così nè
più nè meno i sentimenti poetici.
(24. Mag.)
Alla p.4514. Lucigno-lo. - In
uomicci-uolo, omici-atto, omici-attolo, e simili, la solita moltiplicazione
della forma latina in ulus. - Coraggio, per cuore (corazon, coraje,
courage): v. Crus., quasi coraculum. Incorare-incoraggiare. Visage, envisager,
ombrage, ombrager, language, usage, ouvrage ec. ec. Questa forma in age ager,
è tutta francese, provenzale ec. Di là la nostra, sì
abbondante anch'essa, in aggio, aggia, aggiare; e grandissima parte almeno
delle voci che hanno questa desinenza (viaggio-are ec. Piaggia non è,
come dico altrove, [4516]da plagula, ma da plage; e così
spiaggia.) Però in ispagnolo tali nomi finiscono per lo più in e
(viaje, mensaje ec. ec.). - V. ancora il pensiero seg. - V. p.4518.4521.
Alla p.4444. Vedi nella p.4473. capoverso
penult. e suoi annessi, l'immenso e svariatissimo uso fatto nel latino volgare
o de' bassi tempi, di questa medesima forma in icul... cul... ul... or
con forza diminutiva frequentativa ec., or positivata, or come semplice
desinenza. (25. Mag.). V. qui al fine della p. uso manifesto per le quasi
infinite forme che ne derivarono nei nostri volgari. Dal che si vede che l'uso
antichissimo di quella forma, non cessò mai, nè fu men frequente
negli ultimi tempi del latino che nei primitivi.
Il detto altrove dell'incontrastabilmente
maggior numero di suoni nelle lingue settentrionali che nelle nostre, causa, in
parte della lor mala ortografia, per la scarsezza dell'alfabeto latino da loro
adottato; è applicabile ai dialetti dell'Italia superiore, perciò
difficilissimo ancora a bene scriversi. Mezzofanti diceva che al bolognese bisognerebbe
un alfabeto di 40 o 50 o più segni. Non è questa la sola conformità
che hanno que' dialetti colle lingue settentrionali. Del resto, i dialetti generalmente
sono più ricchi che l'alfabeto comune. Il toscano parlato ha anch'esso
un po' più suoni che le lettere, ma pochi più. Il marchigiano e
il romano quasi nessuno: esse sono veramente (in ciò come in mille altre
cose) l'italiano comune e scritto, o il volgare più simile a questo, che
sia possibile.
(25. Mag.)
Gracchiare (da gra gra: v. Forc. in
graculus), scorbacchiare, scornacchiare, spennacchiare. Gorgheggiare.
Al capoverso 1. Anche qui i toscani
abbondano più che gli altri, e spesso dove questi usano il positivo
(nome o verbo), essi il diminutivo [4517]o frequentativo ec., benchè
senza differenza di senso. Noi amiamo p.e. spennare, i toscani spennacchiare
ec. ec.
(26. Mag.)
La natura non ci ha solamente dato il
desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di
cibarsi. Perchè chi non possiede la felicità, è infelice,
come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha
dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la
felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il
patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno.
(27. Mag.)
Bollito per bollente. Patito. Indigesto per
non digeribile, e per che non ha digerito.
Umanità degli antichi ec. Vecchi.
Cosa lacrimevole, infame, pur naturalissimo, il disprezzo de' vecchi, anche
nella società più polita. Un vecchio (oggi, in Italia, almeno) in
una compagnia, è lo spasso, il soggetto de' motteggi di tutta la brigata.
Nè solo disprezzo: trascuranza, non assisterli, non prestar loro quegli
uffizi, quegli aiuti, il cui commercio è il fine e la causa della
società umana, de' quali i vecchi hanno tanto più
necessità che gli altri. I giovani sono serviti, i vecchi conviene che
si servan da se. In una medesima stanza, se ad una giovane cadrà di mano
il fuso, il ventaglio, sarà pronto chi lo raccolga per lei; se ad una vecchia,
a cui il levarsi in piedi, l'incurvarsi, sarà penoso veramente, la
vecchia dovrà raccorselo essa. E così ancora in casi di malattie
ec. ec. Spesso i vecchi, anco in uguaglianza di condizione, hanno ad [4518]aiutare
e servire i giovani. E parlo d'aiuti e di servigi corporali. Ci scandalizziamo
di quei Barbari che si fanno servir dalle donne: ma il fatto nostro è lo
stesso, se non peggiore. E viene dallo stesso spietato e brutale, ma naturale
principio, che il forte sia servito, il debole serva.
(27. Mag.)
Alla p.4516. La forma aiuolo e aiólo
in legnaiuolo, erbaiuolo, vignaiuolo, stufaiuolo o stufaiolo, fruttaiuolo o
fruttaiolo, calzaiuolo, pesciaiuolo, armaiuolo e simili, è
altresì originariamente diminutiva da ariolus (lignariolus ec.).
Così in aruolo, arólo (che è di noi marchegiani), eruolo:
pizzicaruolo, pizzicarolo, (Alberti), pizzicheruolo. - Inguina - (inguinacula
plural.). anguinaglia, anguinaia. V. franc. spagn. Ventraia.
Tombereau.
Doucereux. Fiocco - flocon.
Manuale di filosofia pratica. Memorie della
mia vita. Come i piaceri non dilettano se non hanno un fine fuori di essi,
secondo dico altrove, così neanche la vita, per piena che sia di
piaceri, se non ha un fine in totale ec. Bisogna proporre un fine alla propria
vita per viver felice. O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera
in somma. Io non ho potuto mai concepire che cosa possano godere, come possano
viver quegli scioperati e spensierati che (anche maturi o vecchi) passano di
godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza aversi mai posto uno
scopo a cui mirare abitualmente, senza aver mai detto, fissato, tra se
medesimi: a che mi servirà la mia vita? Non ho saputo immaginare che
vita sia quella che costoro menano, che morte quella che aspettano. Del resto,
tali fini vaglion poco in se, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la
speranza, l'immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione, di pensare ad
essi e di procurarli. L'uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso
stesso de' beni in tal modo.
(31. Mag.)
[4519]Sfilare - sfilacciare -
sfilaccicare (v. Crus. in Spicciare): filaccica (plural.).
Anche i verbi lat. in urio si formano
da' supini.
Alla p.4449. Per altro, la conformità
di costumi, governo, religione, riti, lingua ec. fra troiani e greci, che
apparisce nelle poesie omeriche, nelle tradizioni ec. (e che par favorire la
congettura del Niebuhr, la quale ha però altri fondamenti), può
essa ancora essere ingannevole, e non significare che la poca arte e istruzione
di que' vecchi poeti, come dico altrove. Simili a quei pittori o artefici de'
tempi bassi, e ad alcuni anche de' buoni secoli, che rappresentavano personaggi
antichi e stranieri vestiti all'uso moderno e nazionale. Fra' moderni, il
Pontedera (Julii Pontederae Antiquitatum lat. graecarumque enarrationes atq.
emendatt. praecipue ad veteris anni rationem attinentes; Patav. 1740.; praefat.
libro che mi pare non conosciuto dal Niebuhr), fondandosi parte in detta
conformità, parte in altri argomenti, congetturò Trojanos
Graecorum quondam fuisse coloniam.
(2. Giugno.)
Pésolo, pesolone. (pensulus per penzolo,
pendulo ec.).
Sentito per sensibile, vivo; o per sensato. V. Crus.
Lego is - lego as, coi composti.
Spigolare, ruzzolare. Mugolare, mugghiare.
Alla p.4430. Di tal genere è anco una
grandissima parte degli errori e sgrammaticature (sien d'uso generale o
individuale) del parlar plebeo, rustico, de' dialetti ec.
Monofagia. Convivium, ñ, coena
(se è vera l'etimologia da ®), tutti nomi significativi
di comunanza. ec.
Alla p.4504. marg. Anche il nemico,
l'offensore, ridotto all'inferiorità all'impotenza, è, non pur
compassionevole, ma amabile, allo stesso offeso. [4520]Par che la natura
abbia dato alla debolezza l'amabilità come una sorta di difesa e
d'aiuto.
(17.Giugno.)
Beatus, participio aggettivato.
Trambasciato, trangosciato ec. Trasognato. Moderato ec., smoderato, immoderato
ec. Invisus per odioso.
S¯ ozio
chiamavano gli antichi i luoghi, i tempi ec. degli studi, e gli studi medesimi
(onde ancora diciamo, senza intendere all'origine, scuola, e scolare per istudente,
e gl'inglesi scholar per letterato, che dall'etimologia sonerebbe ozioso) che
per gran parte di noi sono il solo o il maggior negozio.
(7. Luglio.)
Succhio (succulus) per succo.
Ý,
dius-divus.
Ieiunus 1. participio contratto, a
quanto pare, da ieiunatus (così fors'anche festinus);
Mordeo, morsum - morsicare, (corrottamente
mozzicare, smozzicare), morsecchiare.
Simus costantemente per sumus. Augusto ap.
Sveton. in Aug. c.87.; Messala, Bruto ed Agrippa ap. Mario Vittorino de Orthographia
p.2456. Manibiae per manubiae pur costantemente nelle iscrizioni Ancirane
composte pur da Augusto. Contibernali in un antico monumento ap. Achille Stazio
ad Sveton. de Cl. Rhetoribus.
Bubulcitare.
Alla p.4491. In un luogo piccolo vi sono
partiti, amicizia non v'è. Vale a dire, che delle persone, per trovarsi
ciò convenire ai loro interessi, saranno unite e collegate insieme per
certo tempo (per lo più contro altre); ma non mai amiche. Amicizia
non può essere che in città grandi, o pur fra persone
lontane.
(8. Luglio.). V. p.4523.
[4521]. Alla p.4512. La forma in
accio acciare, azzo azzare, e le corrispondenti francesi e spagnuole (e
così in eccio, iccio ec.), vengono veramente, almeno per lo più,
dalla latina in aceus, iceus ec. Gallinaceus, gallinaccio.
Che fosse proprio del volgare latino il dar
questa desinenza ai positivi, nomi o verbi, e ciò senz'alterazione di
significato, e che da ciò venga il tanto uso della forma in accio ec.
nelle lingue figlie, massime dove essa non altera la significazione (come in
minae minacce, minari minacciare), può congetturarsi, fra l'altro, dal
riferito da Svetonio (Aug. c.87.) che Augusto soleva scrivere pulleiaceus in
vece del positivo pullus. Augusto nelle singolarità delle sue voci ed
ortografia riferite da Svetonio (ib. et c.88.), si accostava al dir volgare: il
suo baceolus è il nostro baggeo. Quest'osservazione dunque serva
particolarmente pel Tratt. del Volg. lat. - La forma in ezzare, onde (e non
viceversa) eggiare, e le corrispondenti francesi e spagnuole, sono dalla greca
frequentativa in Û, e dalla
lat. issare, che di là viene. Il betissare di Augusto ap.
Sveton. (87.), da noi si direbbe bietoleggiare. Cambiato, al solito l'i
in e.
(9. Luglio.)
- Se
però ezzare è per ecciare, allora apparterrà al detto qui
sopra. E viceversa se azzo, izzo ec. è per aggio ec., allora non
cadrà sotto il qui sopra detto.
(10. Luglio.)
-
Incumulare - encumbrar - ingomberare.
Molti avverbi e preposizioni delle lingue
nostre sono fatte coll'aggiunta di un de affatto pleonastico alle
corrispondenti latine. De retro: diretro, dirietro, dreto, dietro (il
volgo marchegiano appunto latinamente: de retro); e poi, [4522]raddoppiato
ancora il di, di dietro; derrière, detras. De ubi: dove. De unde:
donde. De ante: delante, dianzi, dinanzi, davanti, devant.
De post: di poi, dopo, da poi, depuis, despues. De mane: dimani ec. demain.
(11. Lugl.)
Così di sopra, di sotto, da presso,
da lungi, da vicino, da o di lontano. Quest'uso par fosse proprio del volgar
latino 1° perchè comune a tutte 3 le lingue figlie, 2° perchè si
trova già in parte nel latino scritto. Desuper, desubito, derepente;
dove il de ridonda: dehinc, deinde; dove il de (come in donde)
è ripetuto; perchè già il semplice hinc vale de hic,
inde è de in (dein).
Iuvi per iuvavi, ad-iutum ec. per
ad-iuvatum.
La prosa in verità, parlando
assolutamente, precedette da per tutto il verso, come è naturale; ma il
verso conservato precedette quasi da per tutto la prosa conservata.
(11. Luglio.)
L'uso degli antichi filosofi greci, di
abbracciar col circolo dei loro Trattati tutte le parti dello scibile (uso
notato da me altrove), onde esso circolo veniva ad essere un'enciclopedia, fu
seguito anche, ne' bassi tempi, da' latini: dico da quelli che scrissero, o in
più opere separate o in una sola, de 4r o de 7m
disciplinis (come Boezio, Cassiodoro, Marziano Capella, Beda,
Alcuino) ec.; piccole enciclopedie, dove però si copiavano per lo
più tra loro. E dico tra loro: i più antichi o non conoscevano,
o non avevano, o non leggevano, o non potevano intendere.
(11. Lugl.)
[4523]Alla p.4520. fin. Chi non
è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi,
così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare dell'amicizia,
la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o
della storia, che nella vita reale e giornaliera non s'incontrano mai (e certo
egli non si aspetta d'incontrarne mai nella sua). E s'inganna. Non dico Piladi
e Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e
non è rara.
Del resto, i servigi che si possono
attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di
fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l'uomo avvertito e prudente non ne
dee richiedere di sì fatti (di tal fatta).
(21. Luglio.)
Insatiatus per insatiabilis. Citus,
particip. aggettivato.
Naevus-neo.
Frigus - frio (spagn.). Ragunare - raunare.
Nego - nier. Raggi - rai.
Il vescovo Ulfila, se non fu il primo
introduttore dell'alfabeto presso la sua nazione (i Goti), gli diede almeno
quella forma che noi conosciamo. Castiglioni ap. la B. Ital. Maggio 1829. t.54
p.201.
Non solo noi diveniamo insensibili alla
lode, e non mai al biasimo, come dico altrove, ma in qualunque tempo, le lodi
di mille persone stimabilissime, non ci consolano, non fanno contrappeso al
dolore che ci dà il biasimo, un motteggio, un disprezzo di persona
disprezzatisima, di un facchino.
(29. Lug.)
In un trattenimento, chi si vuol divertire,
propongasi di passare il tempo. Chi vi cerca e vi aspetta il divertimento, non
vi trova che noia, e passa quel tempo assai male.
(29. Lug.)
[4524]Est Dicaearchi liber de
interitu hominum, Peripatetici magni et copiosi, qui collectis ceteris causis,
eluvionis, pestilentiae, vastitatis, beluarum etiam repentinae multitudinis,
quarum impetu docet quaedam hominum genera esse consumta; deinde comparat
quanto plures deleti sint homines hominum impetu, id est bellis aut seditionihus,
quam omni reliqua calamitate. Cic. de Off. II. 5. (16.).
(5. Sett. 1829.)
Luccicare. Albico as.
Rue - ruga (ital. antico).
Despicere - despicari: e simili.
Burrone, burrato, borro, botro - ñJ.
(12. Aprile. 1830. Lunedì di Pasqua.)
È curioso a vedere, che gli uomini di
molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici
sono prese per indizio di poco merito.
(Firenze 31. Maggio 1831.)
Eccellente umanità degli antichi. Quid enim est aliud, erranti viam non monstrare, quod
Athenis exsecrationibus publicis sancitum est, si hoc non est? etc. Cic. de
off. l.3. alquanto innnanzi il mezzo.
(Roma 14. Dic. 1831.)
Û l'ubbriaco,
appellativo di un Sileno in un vaso antico. Muséum étrusque du prince de Canino, n.1005. (Roma 14. Dic. 1831.)
÷¢è¢à (vada, cioè eveniat) ÷ÒJÒÛ. Plat. Apolog. Socr. haud procul ab init. ed. Ast. opp. t.8. p.102. (in
marg.
æéÛê® (tutto il contrario). ib. 138. (
é¦J÷ÎJÝìÉ ec. [4525](in
vece di µ), ib. 144. (36. D.) -
nessuna cosa più... quanto ec. idiotismo nostro, usato anche da'
buoni e antichi.
ö§ÜÞÛÉSñ. ib. 148.
(
(Roma 6. Gennaio 1832.)
Uomini originali men rari che non si crede.
Gli uomini verso la vita sono come i mariti
in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli benchè sappiano
il contrario. Così chi dee vivere in un paese, ha bisogno di crederlo
bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa.
Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco, e tenero della sua moglie.
(Firenze 23. Maggio. 1832.)
Cosa rarissima nella società, un uomo
veramente sopportabile.
Due verità che gli uomini
generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser
nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver
nulla a sperare dopo la morte.
Grande studio (ambizione) degli uomini
mentre sono immaturi, è di parere uomini fatti, e quando sono uomini
fatti, di parere immaturi.
(16. Settem. 1832.)
La cosa più inaspettata che accada a
chi entra nella vita sociale, e spessisimo a chi v'è invecchiato,
è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli
lo conosce già e lo crede in teoria. L'uomo resta attonito di vedere verificata
nel caso proprio la regola [4526]generale.
(Firenze. 4. Dic. 1832.)
FINE
[1] Vedi a questo proposito la pag. 3441.
[2] Non ha niente, e però questo significato è nuovo e da aggiungersi ai vocabolari latini, cioè rodere per pruire. (non è neutro però giacchè n'abbiamo veduto il passivo) quantunque si potrebbe disputare pro e contra. Nota ancora che rodere per erodere è bensì raro, appo Celso, pur si trova l. 7. c. 2. verso il fine. Nel lib. 7. c. 23 c'è il vocabolo rosio che non ha significato chiaro e si può spiegare in un modo e nell'altro, sebbene appena si può prendere anzi non si può per l'azione del corrodere, ma per il senso di ciò, vale a dire di un prurito veemente: fereque a die tertio spumans bilis alvo cum rosione redditur. E questo mi pare anzi il significato suo certo in questo luogo, come apparisce dal contesto dove nè prima nè dopo non si parla punto nè d'effetti nè di rimedi o altro analogo a corrosione. Rodere si trova anche in significato dubbio 3. volte nel l. 7. c. 26. sect. 4. circa il fine e c. 27 dopo il mezzo.
[3] Idion, strano. V. le mie osserv. sui Taumasiografi greci. Mirum hoc videri potest, quod etc.
[4] DÛkaiow. Dabbene, uomo probo.
[5] Sukofnthw. Calunniatore, delatore, spione. Non sono nomi propri.
[6] Osservate in questo proposito che essendo certo non potersi perfezionare il corpo dell'uomo, anzi deperire nella civiltà, e quindi non darsi perfettibilità dell'uomo in quanto al corpo, (la quale infatti niuno asserì nè asserirebbe), tuttavia si sostiene la sua perfettibilità infinita in quanto all'animo (quanto intorno al corpo, volendo anche prendere per perfezioni quelle che oggi si credono tali, e in natura sono la maggior parte il contrario, certo però la perfettibiltà sarebbe finitissima).
[7] Articolo del Monthly Magazine nello Spettatore di Milano 15. Ottob. 1816. Quaderno 62. p. 78-79. intitolato Lingua Persiana. Parte Straniera.
[8] Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p. 2166. fine.
[9] Intorno ai participi in tus de' verbi neutri o attivi latini, come essendo di desinenza passiva, avessero spesso la significazione attiva o neutra, v. le note del Burmanno al Velleio l.2. c.97. sect.4. Infatti il lat. secondo l'opin. volgare mancherebbe di participi passati significanti azione, fuorchè deponenti. V. Forcellini voc. Musso. fine. e v. Partusa a um, e Pransus, e Coenatus, e p. 2277.2340.
[10] V. in questo proposito p. 1240-42. e nota che i verbi in eggiare, par che almeno talvolta abbiano un valore effettivamente continuativo, come fronteggiare, scarseggiare e molti, ma molti altri, e in diversi sensi continui, ben distinguibili dal frequente e dal diminutivo: biancheggiare, rosseggiare, neutri ec.
[11] Secondo il Forcellini il verbo obligari si trova in Ovidio nel significato espresso di cogi iuberi, come in italiano si dice essere obbligato a fare ec. Ma il Forcellini s'inganna. Ecco il passo di Ovidio con necessario accompagnamento de' versi circostanti, laddove il Forcellini riporta un verso solo (Trist. 1. el. 2. v. 81. seqq.)
Quod faciles opto ventos, (quis credere
possit?)
Sarmatis est tellus quam mea VOTA petunt.
OBLIGOR, ut
tangam laevi fera litora Ponti;
Quodque sit
a patria tam fuga tarda queror.
Obligor qui non significa cogor, iubeor come dice il Forcellini. e come pare, se si recita questo verso solo, conforme fa egli; ma vuol dire fo voti, mi obbligo io stesso con voti, e non già sono costretto; ed è come dire obligor votis (giacchè questo apparisce dal contesto, e dalla parola vota del verbo antecedente), locuzione dello stesso genere di quelle di Cic. obligare militiae sacramento, obligare sempiterna religione, obligare scelere; e di Livio obligari foedere; e di Orazio obligare caput suum votis. in Oraz. però la significazione di devovere ec. Vedilo 2. 8. v. 5. Od. V. p. 2246.
[12] Notate in questo proposito che da principio si contrastarono la preminenza il dialetto Veneziano e il Toscano, appunto perchè Venezia era pure insigne pel commercio. V. Monti, Proposta ec. vol. 2. par. 1 p. 191. ed anche p. 168. fine.
[13] Altri meglio, flumine.
[14] Quasi si verifica in questo senso e modo ciò che quel vecchio disse a Pico, della stupidità dei vecchi stati spiritosi straordinariamente da fanciulli.
[15] Si può qui recare l'es. del verbo sustentare vero continuativo, non di tenere (onde il continuativo tentare) ma del suo composto sustinere. V. il Forc. in sustento. ex meis angustiis illius sustento tenuitatem, egestatem lenocinio sustentavit ec. ec. Non avrebbe potuto dire sustineo, sustinuit. Sostentar la vita in italiano va benissimo; non però in vece sostenere per mantenere, evidente azione continuata.
[16] Il fine della letteratura è principalmente il regolar la vita dei non letterati; è insomma l'utilità loro, ed essi se n'hanno a servire. Ora io non ho mai saputo che la condizione di chi è servito, fosse peggiore e inferiore che non quella di chi serve.
[17] Contrariamente. Non si trovano forse mille contrarietà fra le indoli, opinioni, costumi, di diversi tempi, nazioni, climi, individui, popoli civili fra loro, e rispetto ai non civili, e questi fra se medesimi, ec.? Pur tutti hanno i medesimi principii elementari costituenti la natura umana.
[18] Puoi vedere la p. 3075.
[19] V. p. 3469.
[20] Le scienze al tutto esatte nel loro modo di dimostrare e nelle loro cognizioni, proposizioni, parti e dogmi, insegnam. soggetti ec. come sono le matematiche, lo Speroni (Dial.i Ven. 1596. p. 194. mezzo) le chiama scienze certe. Generalmente però quelle che io qui intendo, le chiama dimostrative (p. 160. mezzo. 161 princ. ec. e così ragioni dimostrative p. 181. opposte alle probabili persuasive o congetturali); il qual nome abbraccia sì le esatte sì le men certe, speculative e morali o materiali ec. che sieno.
[21] Veggasi la p. 3673-5.
[22] Forse a questo discorso appartengono eziandio suspicor o suspico, ed auspico o auspicor, da specio, seppur quello non viene piuttosto da suspicio onis, e questo da auspicium o da auspex auspicis. Forse ancora, qua si dee riferire plico da plecto, de' quali verbi mi pare aver ragionato altrove in altro modo. Da plecto-plexus si fanno anche i continuativi amplexor o complexo. E notare che si trova anche amplector aris in luogo di amplector eris, il che per altra parte confermerebbe che plecto is fosse in continuat. anomalo di plico, come mi pare aver detto altrove. V. p. 2903.
[23] Salvo ne' continuatt. d' temi monosill. p. e. dato, flato, nato ec. come altroveA questo proposito molto che betere o bitere o bitire sia in continuat. anomalo (come viso is) di un bo dal gr. bv, come no da n¡v, do da dñv, e altri tali temi monosill. latt. fatti da tali verbi greci così contratti. Ebito sarebbe ¤kbaÛnv ex-eo. V. Forc. in Beto. V. p. 3694.
[24] Chi sa che lo stesso stipare non venga appunto da stæfv piuttosto che da steÛbv? V. Forcellini in stipa, stipo, stuppa ec. Certo s'egli ha che fare con stupa o stipa, esso viene da questa voce, e non al contrario come vuol Servio.
[25] Anche gli antichi e primi scrittori latini hanno sapore e modo tutto familiare, sì poeti, come Ennio e i tragici, di cui non s'hanno che frammenti, Lucrezio ec.; sì prosatori, come Catone, Cincio ed altri Cronichisti, di cui pur s'hano frammenti, ec.
[26] V. p. 3351.
[27] Seppure però la lingua ebraica ha genio, o altra indole come quella di non averne veruna. E certo la lingua ebraica per essere informe, può forse esser bene rappresentata e imitata con una traduzione in qualsivoglia lingua, che per esser troppo esatta sia anch'essa informe. Il che non accadrebbe in verun caso. Vedi la pag. 2909.2910 fine-2913. Vedi anche una giunta a questa pagina nella p. 2913.
[28] V. p. 2989.
[29] Veggasi la p. 2929.
[30] Così Virg. Georg. 4. 116.7.
[31] Veggasi la p. 2998. e 3007.
[32] Non solo gli scrittori ebraici o le varie materie in lingua ebraica, ma neppur essa la lingua ha uno stile, cioè un modo determinato, come l'ha bene, anzi troppo determinato, la francese: perocchè la lingua ebraica è troppo informe per avere uno stile proprio; e precisamente ella è l'estremo contrario della francese quanto all'informità. V. la p. 2853. margine. V. p. 3564.
[33] V. la pag. 2841. fine. Potus us è da po, non da poto, come motus us è da moveo, non da moto as, e puoi vedere in questo proposito la p. 2975. principio.
[34] Lo comprova anche il significato rispettivo, sì per l'affinità, sì per la continuità ec. Similm. da sello muovere, senso analogo a quel di veho, si fa procello, onde procella, che è quasi vexo, e percello; ec. ec. ec.
[35] Similmente noi figgere-fisso e fitto, del che puoi vedere p. 3284. e p. 3283. dove hai fixare affatto analogo di vexare. Veggasi la p. 3733. seg.
[36] Veggasi la p. 3035. segg.
[37] Parlo di quelle idee che avanzano decisamente lo spirito umano e l'intelletto. Avvi molte idee nuove, che non son tali se non perchè nuovamente composte d'altre idee già note (al contrario delle idee nuove di cui qui si parla). Ma queste appartengono la più parte all'immaginazione, e spetta al poeta il proccurarcele. E l'intelletto non ci guadagna. Altre nuove idee vengono dirittamente dai sensi, quando vediamo o udiamo ec. cose non più vedute o udite, le quali idee non si può ora determinare quando siano più semplici e quando più composte delle già possedute. Ma queste nuove idee non derivano dall'intelletto, del quale adesso ragioniamo.
[38] Notisi che i nomi delle lettere ebraiche (onde derivano quei delle greche, che in greco non significano niente) hanno tutti una significazione indipendente affatto dal suono della rispettiva lettera, e son parole della lingua, né hanno relazione alcuna tra loro, né colla rispettiva lettera altro che il cominciare appunto per essa, come alèf, dottrina; beth, casa ec.
[39] Da queste osservazioni si deduce quanto la natura e l'ingegno son più ricchi dell'arte e come l'imitatore è sempre più povero dell'imitato. V. Algarotti Pensieri. Opp. Cremona, t.8. p.79.
[40] V. Chateaubriand, Génie. Paris 1802. Par.
[41] Si può vedere la p. 3252. sg. 3400 sgg.
[42] Appo Oraz. Sat. II. I. V. ult. tu missus abibis è lo stesso che missus, cioè absolutus eris, cioè mitteris o absolveris. I greci oàxesJai con participio: uso analogo al nostro ec. ec.
[43] Si può vedere la p. 3036.
[44] Disguisare mi par nostro antico V. Crus.
[45] Come fornicare da fornix fornicis, ad altri assai; duplico da duplex, triplico ec. frutico da frutex, rusticor da rusticus. Veggasi la p. 3752-4.
[46] Propago as da pango is. Vedi la p. 3752-3.
[47] Vedi p. 3041.
[48] Veduto sarebbe appunto il regolarissimo viditus, secondo il detto a pag. 3074. sqq. 3362-3. Così da fundo regolarm. funditus dimostrato da funditare; da medeo, meditus dimostrato da meditare, come altrove dico, cioè p. 3352-60.
[49] Censeo-censitus e census a um, onde census us, secondo l'osservaz. da me fatta circa tali verbali della 4a. Notabile è che censitus intero negli scrittori latt. è più raro e più moderno che il contratto census. Cosa simile alla presente di visus p. visitus. V. p. 3815. fine.
[50] Notate però che similim. si dice populus (onde populo o populor) e popellus. In Fedro IV. 7. V. 22. fabella è vero diminutivo di fabula, come popellus lo è di populus. In tal caso favella e favellare che i lat. dicevano fabula e fabulare. appartengono alla classe de' nostri diminutivi presi in vece de' positivi. Abbiamo anche favola positivo, ma in altro senso, pur latino però. V. p. 3062.
[51] Spagn. asar. It. lessare ec.
[52] V. p. 3816.
[53] Parido o parida partic. di terminaz. passiva, s'usa dagli spagn. attivam. p. che ha partorito. Estar parida, esser puerpera, ec.
[54] Così l'h è accidentale in dich'io in giuochi ec. ec.
[55] Puoi vedere la p. 3544.
[56] Veggasi la p. 3452 fine-58.
[57] V. la p. 3448. segg. e in particolare 3450-1.
[58] Veggasi la p. 3451-2.
[59] Petr. Tr. della Fama cap. 2. terzina 48.
[60] Erano allora i politici privati più di numero in Italia che altrove, l'opposto appunto di oggifì, perchè pure al contrario di oggidì, era in quel secolo maggiore in Italia che altrove e più comune e divulgata nelle diverse classi, la coltura, e l'amor delle lettere e scienze ed erudizione per una parte (le quali cose tra noi si trattavano in lingua volgare, e tra gli altri p. lo più in latino, fuorchè in Ispagna), e per l'altra una turbolenta libertà fomentata dalla molteplicità e piccolezza degli Stati, che dava luogo a poter facilmente trovar sicurezza e impunità, col passare i confini e mutar soggiorno, chi aveva o violate le leggi, o troppo liberam. parlato o scritto, o offeso alcun principe o repubblica nello stato italiano in ch'ei dapprima si trovava.
[61] Nótisi che il Tasso proccurò eziandio di render nazionale l'argomento della Gerusalemme col dare tra' Cristiani le maggiori parti del valore a due italiani; Tancredi di Campagna nel Napoletano il qual era patria del Tasso, e Rinaldo d'Este progenitore del Duca a cui il Tasso indirizzava il poema. E Rinaldo si è propriamente, non pure il secondo, ma l'altro Eroe della Gerusalemme con Goffredo, come ho detto a suo luogo, e, secondo l'intenzione del Tasso, a parti uguali, ma in effetto e' riesce maggior di Goffr.
[62] V. p. 3173. Vedi ancora particolarm. lo Speroni Oraz. Ven. 1596. p. 23. e p. 56. 109. e Castiglione, Cortegiano e. Ven. 1541. carta 173; ed. Ven. 1565. p. 423-24, libro 4.
[63] Veggasi la p. 3451-2.
[64] p. 3125.
[65] Argante, Clorinda, Solimano. Questi ed Argante sono anche espressam. emuli, ma tutti tre pari di valore. Altri eroi degl'infedeli non v'ha nella Gerus. V. p. 3535.
[66] Di questi interessi accidentali vedi la pag. 2645-8.
[67] Anche Omero e Dante hanno assai che fare per ridestar la nostra immaginaz. Contuttociò, quantunque la fantasia di L. Byron sia certo naturalm. straordinaria, nondimeno è pur vero che anch'ella è in grandiss. parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede chiaram. che il più delle poesie di L. Byr. vengono dalla volontà e da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispiraz. e da fantasia spontaneam. mossa.
[68] Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l'Iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è, dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente dell'antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.
[69] Veggasi la p. 3289-91.
[70] V. Tasso, Gerus. 17. 93-4, dove parla d'Alfonso II. di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p. 3132. marg. princip. V. p. 4017.
[71] Può vedersi la p. 3491-4. circa la timidità che è propria di questo secondo genere e che affatto impedisce di essere stimato nella società, distrugge qualunque stima si potesse esser conceputa di un individuo prima di conoscerlo ec. Ella è sovente comune anche al primo genere, ma solo con quelli di cui hanno soggezione, laddove nel secondo con tutti, perchè questi tali hanno soggezione di se stessi. Ella è affatto esclusa dal genere intermedio, e questo è il solo che ne sia sempre esente e al tutto sicuro.
[72] L'abitudine di sempre pensare, e di poco parlare; di raccor tutto dentro e poco versar di fuori; di trattenersi con se stesso, di stare raccolto come un devoto, di poco agire, poco conversar nelle cose del mondo, poco trattare, per attendere agli studi; spendere tutte le sue facoltà nel proprio interno ec. ec. tutte queste cose rendono l'individuo incapace di portarsi bene nella società quanto un altro che sia pur di molto meno talento; perocchè a lui manca l'esercizio dell'operare, del conversare, di parlare (massime di cose frivole, come bisogna ec.) e le dette sue qualità ed abitudinipositive escludono anche positivamente la capacità di contrarre le abitudini e di aquistare le qualità sociali. Così la gravità a cui un tale individuo è neccessariam. abituato, la serietà, il pigliar le cose per l'importante, e se non importano lasciarle, esclude la possibilità di aquistar la leggerezza, l'abito di dar peso naturalm. alle cose minime, di scherzare, d'interessarsi con verità p. le bagattelle, di trovar materia di discorso dove assolutam. non ve n'ha ec. ec. tutte cose necessarissime in società: pigliar le cose, le materie, anche importanti e serie, da lato non importante e non serio, o trattarle non seriamente, superficialmente, scherzevolmente ec. ec. e come bagattelle ec. ec. e le profonde a fior d'acqua ec. ec.
[73] V. p. 3386. fine.
[74] Maggiormente sconvenevole però si è questo nella musica che nella poesia. Perocchè la scienza musicale, in ordine alla musica è di più basso e ben più lontano rango, che non è la poetica in ordine alla poesia. Il contrappunto è al musico quel che al poeta è la grammatica. La musica non ha un'arte che risponda a quel ch'è la poetica alla poesia, la rettorica all'oratoria. Ben potrebbe averla, ma niuno ancora ha pensato a ridurre a principii e regole le cagioni degli effetti morali della musica e del diletto che da lei deriva, e i mezzi per produrli ec.
[75] Vedi la pref. di Timeo al suo Lessico Platonico appo il Fabric. B. G. edit. vet. 9.419.
[76] Così anche parecchi inglesi, e generalmente tutti coloro che non sono assuefatti e non conoscono altro che studi e cose esatte. Ma certo è che di tali filosofi, metafisici, politici-matematici, ed aridi, ve n'ha più copia fra' ted. e dipoi fra' gl'ingl. che altrove, come in Francia o in Italia.
[77] Similm. dicasi di nex, onde neco, eneco ec.
[78] Puoi vedere le pagg. 3084-90.
[79] Pendendo però più al sud.
[80] Puoi vedere la p. 2989-91.
[81] Veggansi le pagg. 3765-8.
[82] Ciò per la varietà de’dialetti, o per altro, in modo però che le voci formate per tali alterazioni sono generalmente proprie degli scrittori greci o de’ poeti; onde a noi partoriscono la stessa difficoltà, qual se ne fosse la cagione e l’origine e quando questa pur fosse particolare, la difficultà che a noi viene è ordinaria e generale ec.
[83] Da kfv o da ôfeilv Þfl skknv, doppia alterazione.
[84] Che l'amor proprio sia maggiore ne' fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e coll'uso della vita proporzionatam. si scema, e in fine si suol perdere.
[85] Da queste teorie séguita che le bestie, avendo meno vita dell'uomo, perocchè hanno meno spirito e più del materiale, e di ciò ch'esiste e non vive ec., debbano aver meno amor proprio, e più egoismo; e così è infatti: e che tra loro la specie men viva, come il polipo, la lumaca ec. dev'esser la più egoista: e che scendendo ai vegetabili e quindi per tutta la catena delle creature, si può dir che più scema la vita più cresca l'egoismo, onde l'éssere il più inorganizzato, sia in certo modo il più egoista degli esseri. ec.
[86] Anche i climi, anche le stagioni, come influiscono sul più e sul meno della vita o vitalità, attività interna o esterna ec. debbono anche influire sul più e meno dell'amor proprio, e quindi anche dell'egoismo, e quindi anche della disposizione naturale alla misericordia, alla benevolenza ec. Veggansi le pagg. 2752.-5, 2926. fine-28.
[87] Secondo questi discorsi una donna vecchia, massime vivuta nella gran società, dev'essere la più egoista persona umana (p. natura, e regolarmente parlando) che possa concepirsi.
[88]
Puoi vedere il Dialogo Delle Lingue dello Speroni dalla p.
[89] Perocchè anche altri istituti egli seguì, ed altri fini si propose, tutti bellissimi e savissimi, ma che non appartengono al nostro proposito.
[90] Osservisi che instigo propriam. è continuativo p. la significaz., perocchè instinguo propriamente significa l'atto del pungere, e quindi dello spingere, dell'indurre, ma instigo significa lo stimolare, lo stare attorno, il far ressa p. indurre. L'instinguere è lo scopo dell'instigare.
[91] È però più verosimile che venga insidiare (cui v. p. 3350.). Altrimenti farebbe piuttosto insidor aris, come sedo as da sedeo (o da sido is) del che altrove.
[92] Lo dice Svetonio nello stesso cit. luogo: vulgo canebantur.
[93] Nel freddo si ha la forza di agire, ma non senza incomodo. La temperatura dell'aria che vi circonda, opponendosi à ce que voi possiate uscir di casa e di camera senza patimento, vi consiglia l'inazione e l'immobilità nel tempo stesso che vi dà la forza dell'azione e del moto. Si può dir che se ne sente la forza e la difficoltà nel tempo stesso. Nel caldo tutto l'opposto. Si sente la facilità dell'azione e del moto nel tempo stesso che se ne scarseggiano le forze. L'uomo prova espressamente un senso di libertà fisica che viene dall'amicizia dell'aria e della natura che lo circonda, un senso che lo invita al movimento e all'azione, ch'egli talora confonde con quello della forza, ma che n'è ben differente, come l'uomo si può avvedere, quando cedendo all'inquietezza che quel senso gl'ispira, e dandosi all'azione, la totale mancanza di forze che gli sopraggiunge, gli toglie quel senso di libertà, e l'obbliga a desiderare e cercare il riposo. Anche per se medesima la debolezza e il rilasciamento prodotto da causa non morbosa, come dal caldo, dà una certa facilità di determinarsi all'azione al movimento al travaglio, più che la tensione prodotta dal freddo. Può parere un paradosso, ma l'esperienza anche individuale lo prova. Pare che il corpo rilasciato sia più maneggiabile a se medesimo. Bensì la sua capacità di travagliare è poco durevole. ec.
[94] Si trova anche pammed¡vn e pammed¡ousa.
[95] Il detto passaggio è direttam. contrario all'imitazione, che dev'essere l'immediato scopo e l'ufficio della musica, come dell'altre belle arti e della poesia, che dovrebb'essere inseparabile dalla musica (e così viceversa), e tutt'una cosa con essa ec. Di ciò di altrove.
[96] Il latino si stabilì in Inghilterra a un di presso come il greco nell'alta Asia, e l'italiano in Dalmazia, nell'isole greche e siffatti dominii de' Veneziani: cioè come lingua di qualunque persona colta e della scrittura, ma non parlata dal popolo, benché fosse intesa. Così il turco in Grecia ec.
[97] Vell. II. 90. 2. 3. Flor. II. 17. 5. Liv. 28. 12.
[98] Petr. Son. La gola, il sonno.
[99] Puoi vedere le pagg. 2979-80. e 3717-20.
[100] V. p. 3728.
[101] Massimam. modi e significati.
[102] La
storia offrirà molte prove di fatto della conformità fra l'indole
spagnuola e italiana (e greca). Fra l'altre cose, l'abuso pubblico e privato
della religion cristiana fatto nella Spagna, non ha nella storia moderna altro
più simigliante che quello fatto in Italia, e quanto all'opinioni, e
quanto alle azioni, e quanto alle istituzioni, leggi, usi, costumi ec. e tutto
ciò ch'è influito dalla religione. Veggansi le pp. 3572-84, e
massime dalla
[103] Veggasi fra l'altre, la p. 2906. segg.
[104] Massime ne' prosatori: quanto a' poeti vedi la p. 3419.
[105] Veggasi la p. 2989.
[106] Molto meno io vorrei consigliare che la lingua o lo scrittore italiano si modellasse sulla lingua spagnuola, molto alla nostra inferiore in perfezione, benchè conforme in carattere. Oltre che una lingua già perfetta non si dee modellare, anzi dee fuggir di modellarsi sopra alcuna altra, sia quanto si vuole perfettissima. E così a proporz. discorrasi della letteratura ec.
[107] Questo viene a essere, se così vogliamo chiamarlo, un latinizzare, grecizzare ec. l'italiano, ma affatto insensibilmente, e indistinguibilm. dall'italianizzare; un latinizzare non diverso dall'italianizzare ec.
[108] V. p. 3738.
[109] Intendo per occupaz.i gli spassi ec.
[110] V. p. 3561.
[111] V. p. 3428.
[112] Puoi vedere la pag. 3429.
[113] Secondo il detto a p. 3397-9. e 2906.
[114] Veggasi a questo proposito la Parte de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon. e Anvers 1554. 8.vo piccolo. cap. 53. fine. a car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.
[115] V. ancora la Correspond. du Prince royal de Prusse et de Voltaire dans le oeuvres complettes du Roi de Prusse 1790. t. 10. lettre 96. de Voltaire p. 422. et suiv.
[116] Quel che si è detto della durevolezza, dicasi ancora della grandezza e magnificenza.
[117] A pag. 30-1.
[118] Veggasi la pag. 3122.
[119] O sistemi di repubblica o di legislazione, praticabili o non praticabili, ma certo non praticati, e solo immaginati e composti da' rispettivi autori. V. Aristot. Polit. 1. 2. p. 74. 171. 179. fine. 116.1.4. p. 289-92. p. 358. fine.
[120] Pare
che anche Eraclide Pontico scrivesse de optimo statu civitatis, senza
però aver mai trattato le cose pubbliche. V. Cic. ad Quint. fratr. 3. ep. 5. Victor. ad Aristot. Polit. p. 171. Meurs. t. 5. p. 114. B-C.
t. 6 p.
[121] Così le politeÝai di Diogene Cinico e di Zenone. V. il Laerz. e la pref. del Vettori alla politica d'Aristot. p. 3. verso il fine. Qua spettas ancora la Ciropedia. V. ivi. p. 5.
[122] Ed Aristotele era pur de' più devoti all'osservazione, tra' filosofi antichi.
[123] Aristotele p.e. non la cercò, ne Teofrasto ec.
[124] Esempi analoghi di frasi vediki nell'Alberti in faillir.
[125] Veggansi le pagg. 3186-91.
[126] daÛmonew, genii, lares, penates, manes ec.V. Forcell. in tutte queste voci.
[127] V. p. 3544.
[128] L'uomo non desidera la felicità assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in margine.
[129] Nella rimembranza è molte volte il contrario, che più corto pare il tempo passato senza occupazione e uniformemente, perchè allora nella memoria l'una ora l'un dì si confonde e quasi sovrappone coll'altro, in modo che ,olti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro, nè moltitudine di azioni o passioni che si possa numerare, l'idea della qual moltitudine si è quella che produce l'idea della lunghezza del tempo, massime passato ec. Ma di questo pensiero altrove s'è scritto.
[130] Se non è, può essere, e al nostro caso tanto è il poter essere quanto l'essere in fatto. Immaginiamo, se non è, che sia, e come di un'ipotesi discorriamo di quello che necessariam. seguirebbe se così fosse. Essendo l'ipotesi possibiliss.a e similiss.a al vero, l'argomento avrà la medesima forza, e tanto nel caso presente varrà e proverà l'immaginazione e la supposizione, quanto la verità, tanto il supposto e l'immaginato quanto il vero ed effettivo.
[131] V. p. 3989.
[132] Parecchi, pareil, onde appareiller, sono da pariculus ec. V. Gloss. ec. parejo (cioè par) parejura ec. Pelleja, pellejo, pellico; pelliccia; pelisse; spag. mod.no pellìz, da pellicula ec. Lo spag. ha anche il positivo, piel. Semilla. Soleil, Ouaille da ovicula ec., come oveja spag.
[133] Puoi vedere la p. 3846.
[134] V. p. 3571.
[135] Di un'altra qualità che sommamente contribuisce allo stesso effetto vedi le pagg. 3564-8.
[136] P. 3074 segg.
[137] geæv propriam. è gustare facio. Trovasi però in Erodoto p. gusto ch'è (o dicesi da' Lessicografi) il proprio geæomai. Così ázv e ßznv co' composti loro, che propriam. sono attivi, e valgono sedere facio ec. s'usano a ogni tratto in senso neutro, p. sedere ec. che è proprio de' loro passivi. E così, credo, avviene in altri tali verbi. Onde guo in lat. potè bene essere propriam. gusto neut.
[138] Puoi vedere la p. 2814-5. e 3715-7.
[139] Manuarius, Manuatus sum (da manuo o manuor), Mortualia, Mortuarius, Mortuosus, Flexuosus, Flexuose. Portuosus, saltuosus, flatoso.
[140] Anche ne' nostri antichi scrittori questo uso di sperare ec. non sembra esser che volgare.
[141] Altrettanto dicasi del greco, lat. spagn. franc. antico nelle quali lingue altresì sperare ec. non istà mai propriam. per temere, come dicono, ancorchè sia detto di male, ma solo p. aspettare. V. Forcell. in Spero.
[142] V. p. 3818.
[143] È naturale agli organi degli spagn. di non amare la pronunzia del t, onde nelle voci venute dal lat. spessissimo lo mutano in d ch'è più dolce (come fanno anche gl'italiani in alcuni luoghi intorno alle voci italiane), spessissimo lo tralasciano, come in questo nostro caso fanno, in parte anche gl'ital. e i franc.
[144] Sicchè amamos p. amamus non si dee neppure chiamar mutazione quanto allo spagnuolo, non essendo stata fatta da esso ma nel latino medesimo, anzi non essendo stata neppur in latino altro che un accidente, una qualità, una maniera di pronunzia. Insomma amamos è latino; e lo spagn. in questa voce è puro (ed antico e non men che moderno) latino conservato nel lat. volgare. ec.
[145] V. p. 3638.
[146] Divenire-diventare fa a questo proposito.
[147] Dicono i precettisti che le persone d'ugual merito possano esser più, purchè l'interesse sia un solo (così ne' drammi, così nell'epopea ec.). E si pregiano molto di questa distinzione, come acuta e sottile e ben giudiziosa. Ora i due suddetti termini non possono stare insieme.
[148] Certam. l'eccesso della pazienza, massime nella conversazione e nelle tenui relazioni giornaliere degli uomini si può dir che sia odiosa, o certo dispiacevole, o almen dispregevole, e lo spregevole è non solo inamabile, ma quasi odioso, e chi è disprezzato, oltre che non può essere amato nè interessare, difficilmente è senza un certo odio o avversione. La pazienza è di tutte le virtù forse la più odiosa o la meno amabile, e ciò massimamente doveva essere presso gli antichi, e presso noi ancora, quando la consideriamo in personaggi e circostanze antiche, come in Ulisse.
[149] Queste considerazioni hanno tanto maggior forza in favore di Omero, e in favore della nostra opinione che vuol che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la natura, e vizio grandiss. e dannosiss. anzi distruttivo d'ogni buono effetto, e contraddittorio in lei, si è il preferire alla nat. la ragione. La mutata qualità dell'idea dell'Eroe perfetto ne' poemi posteriori l'Iliade, proviene da quello stesso principio che poi crescendo, ha resa la poesia allegorica, metafisica ec. e corrottala del tutto, e resala non poesia, perchè divenuta seguace onninam. della ragione, il che non può stare colla sua vera essenza, ma solo col discorso misurato e rimato ec. Puoi vedere la p. 2944. sgg.
[150] Minutus a um particip. tanto aggettivato che se n'è fatto anche il diminut. minutulus ec. Quietus. Lautus il quale ha anche variato la significaz. in modo che in questa non si potrebbe mai riconoscere p. partic. ed essa è diversiss. da quella che lautus ancora ha, propria sua, come participio. Certus. V. Forc.
[151] V. p. 3635.
[152] Exerceo, coerceo ec. es ui itum. Mentre che arceo, ch'è il semplice di questi verbi, fa arctum, come si dimostra dall'aggett. arctus, secondo il detto altrove in proposito. placeo-taceo-noceo es ui itum. Perchè nocitum e non docitum? Se non per pura casualità d'uso nel pronunziare?
[153] Fromba e frombola, coi derivati dell'uno e dell'altro. Puoi vedere la p. 3968-9. 3992. capoverso 1.3993. capov. ult. 3994. fin. 4000. fin. - 4001. 4003. pauget empaqueter ec. Noi volgarm. pacco e pacchetto. V. l'Alberti e gli spagnuoli.
[154] Perocchè amor vero cioè che abbia effettivamente per proprio fine l'oggetto amato, o vogliamo dire il suo bene e la sua felicità, non si dà in alcuno essere, neppure in Dio, se non verso lo stesso amante.
[155] Questo suppone lo stato di società ch'io combatto.
[156] V. p. 3811.
[157] V. p. 3708.
[158] Secondo ch'e' sono neutri o attivi ec. di senso, e così i rispettivi verbi originali ec.
[159] Posco ha poposci, cioè, tolta la duplicazione (ch'è un accidente), posci, regolare, e non povi. Perchè dunque nosco novi? Posco non ha il supino oggidì. Perchè scisco scivi, suesco evi, e non suesci, nosci ec.?
[160] Che novi novisti spetti ad altro verbo che a nosco, provasi e dal suo significato del presente (or perchè ciò s'e' fosse il proprio perfetto di nosco? il quale ha pure il presente ec.) e dell'imperf. nel piuccheperf. ec.; e dal vedere che i grammatici, sebbene da un lato l'appropriano a nosco, dall'altro lato tutti, antichi e mod.ni lo considerano e chiamano difettivo, come memini, nè più nè meno. Dunque gli suppongono un altro tema, e questo ignoto, come a memini, odi ec.
[161] V. p.e. la definiz. di tremisco nel Forcell.
[162] Vi sono anche molti altri esempi simili di molti generi di verbi che p. negligenza degli scrittori, o per dimenticanza del loro primo destino ec. escono sovente de' termini del modo e proprietà generali del loro significato ec. ec.
[163] V. Forc. in oleto.
[164] Neo-nevi, flevi ec. ec.
[165] V. p. 3708.
[166] Tutti i nostri perf. in etti sono primitivam. e veram. in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta p. evitar l'iato, come etti. E qui ancora si osservi la conservaz. dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei. Puoi vedere la p. 3820.
[167] Impleo (compleo ec.) - deleo (v. la p. 3702) es evi etum. Perchè dunque p.e. dolui e non dolevi? come delevi che v'è sola lettera di svario. Perchè dolitum e non doletum? O se dolui, perchè delevi e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.
[168] Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo-Diluo ec. lui. Veggasi la p. 3732. Assuo assui ec. e gli altri composti di suo.
[169] V. p. 3885.
[170] Puoi vedere il pensiero seg. e p. 3710. capoverso 1. ec. ec.
[171] Così sutum da suo è contraz. di suitum. V. la fine del pensiero precedente. Ablutum da abluo. Dilutum ec. Lautum (onde lotum) è contraz. di lavitum, e dimostra quel che ho detto della confusione tra l'u e 'l v. V. p. 3731.
[172] Fors'anche da quei della prima, come p.e. se consanesco fosse fatto da consano as neutro (v. Forc. in consano) nel qual caso anche sanesco sarebbe fatto da un sano neutro.
[173] Puoi vedere p. 2814-5. e 3570.
[174] V. p. 3723.
[175] Certus: qui crevit. Certa mori: quae crevit, cioè decrevit, mori, senso attivo, anzi in certo modo, transitivo ec. E qui in simili moltiss. casi, certus è adoperato in senso di participio, non di aggettivo, come in altri molti casi, massime quando si dice di cose. Ma quando di persone, dubito ch'e' sia mai altro che participio, onde anche certior può forse fare al caso nostro ec. ec.
[176] Anzi gli u in iuvavi sarebbero tre, giacchè tanto era p. gli antt. l'u che il v ec., onde p. es. in pluvi si chiamava duplex u ec. V. Forc. in Luo fine, in U ec. e l'Encyclopédie in U ec. e l'Hofman in U ec.
[177] P. 2928-30.
[178] V. p. 3736.
[179] Gli spagn. hanno veram. anche pujante. Hanno pure potente, potencia, potentem. ec. ma questi probabilm. sono tolti poi dal latino: pujante e pujanza ec. sono i propri spagnuoli: bensì torti alquanto di significaz. cioè usati, almeno comunem., p. forte, robusto, forza, robustezza ec..
[180] Nomenclator p. nominclator ec. non è che l'alteraz. di pronunzia, e così mille casi simili. (come quello di cui nel marg. della pag. seg. cioè imaguncula).
[181] Imaguncula, incuncula, homuncio, homunculus, latrunculus è lo stesso che imagincula (v. la p. 3007. fra l'altre), e però fatto dagli obliqui d'imago, e non dal retto, come parrebbe a prima vista. E così dicasi dell'altre simili voci.
[182] Agnomen, agnomentum ec. cognomen ec. ignotitia (p. innotitia), tutti derivati da noo. Ignoro ec.
[183] Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnitum (cognitum ec.) fuorchè in ignotus nome, e in ignotus partic. e supino. V. anche agnotus ec.
[184] V. p. 3851.
[185] V. p. 3071.
[186] Come il suicidio, o il tormentar se stesso per odio, quello è, questo, se potesse essere, sarebbe evidentemente contro natura, così la guerra tra gl'individui d'una specie medesima, le uccisioni scambievoli, e i mali qualunque proccurati da' simili ai simili, sono cose evidentemente contro natura, mentre pur sono assolutamente inevitabili, e non accidentali (se non a una per una, non generalmente e tutte insieme), ma essenziali e costanti in qualsivoglia società stretta. V. p. 3928.
[187] Vedi la pag. 3813.
[188]
Terminò questa prima parte nel Perù l'anno
[189] L'antropofagia era e fu p. lunghissimi secoli propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d'America, sì meridionale che settentrionale (escludo il paese comandato dagl'incas, i quali tolsero questa barbarie, e l'impero messicano e tutti i paesi un poco colti ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani. L'antropofagia fu ben conosciuta da Plinio e dagli altri antichi ec. ec. E forse tutti i popoli ne' loro principii (cioè p. lunghissimo tempo) furono antropofagi. V. p. 3811.
[190] Puoi vedere la p. 3891.
[191] Fuseau. Figliuolo (filiolus), figliuolanza ec. Al detto altrove di scabellum, sgabello ec. aggiungi il franc. escabeau ed escabelle.
[192] Sellula. Asellulus.
[193] Anche in adbito (che veggasi) il Forc. ha adbito is con questo solo es. di Plauto.
[194] Anche tra noi ramoscello ec. molte volte è positivato, massime nel dir moderno.
[195] Puoi vedere la p. 3842. seg.
[196] V. p. 3905.
[197] V. la pag. 3835. seg. e 3846. fine-8.
[198] V. la p. seg.
[199] Vedi la pag. 3520-5.
[200] Puoi vedere p. 3835. seg. 3842. seg.
[201] Avisado p. prudente, accorto, e anche dello spagn. ma dubito che in ispagn. avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto ec., il quale egli ha tra noi. V. p. 3899.
[202] V. p.e. Forcell. in fruniscor p. fruiscor, qualunque de' due sia anteriore. E chi sa che prima non fosse sio, interposta poscia la n p. evitare l'iato, come in greco nel fine delle voci, e come forse v'hanno altri es.i in latino, e fra questi forse il predetto fruniscor.
[203] Detonat uit. Intono avi ed ui ec.
[204] Vedi la pag. 3871.
[205] V. p. 3900.
[206] V. p. 3875. fine.
[207] Se non in quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentem. che agli altri p. molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.
[208] Puoi vedere la p. 3885.
[209] Questo però, se non viene da gesticulus /ch'è voce moderna e solo di Tertulliano) può essere piuttosto frequentativo che diminut. o un misto dell'uno e dell'altro, come tanti nostri verbi italiani, di cui altrove ex professo.
[210] Puoi vedere le Lettere di Federico II. e d'Alembert, Lett. 49. p. 125. seg. paragonandola colla lett. 45. p. 117. e lettera 47. p. 120. fine - 121. e lett. 53. p. 135. fin e lett. 70. p. 185. fine.
[211] Ne quidem p. nec quidem, nequam ec. dove il ne è privativo, ec.
[212] Anche abbiamo accettare (accepter ec.) da acceptare, ma non di capto bensì di accipio-acceptus ec.
[213] Veggasi la pag. 3921-27.
[214] L'ubbriachezza accrescendo la vita e il sentimento di essa, fa nel med. tempo che l'individuo non rifletta (naturalmente), non consideri questa vita e questo sentimento, che il suo spirito consideri e s'interessi a questo sentimento accresciuto, assai meno ancora ch'ei non suole al sentimento ordinario e minore, e tanto meno quanto egli è più cresciuto. V. p. 3931.
[215] Puoi vedere a questo proposito le pagg. 3797-802. e sopra alcune anche più orribili barbarie, uno o due de' luoghi del Cieça citati a p. 3796.
[216] V. p. 3945.
[217] V. p. 3938.
[218] V. p. 3932.
[219] V. Forc. fisus, confisus, diffisus, ec.
[220] Impercettibile ec. (da perceptum) -concepibile ec. da concepitum.
[221] Puoi vedere la p. 3986.
[222] Chi sia accorto, facilmente distingue e nella speculazione e nella pratica, e in ciascuna persona e caso particolare, e nel generale, il carattere e costume puntiglioso, e i fatti puntigliosi, dal carattere ec. ch'io qui descrivo (il quale non è neppur lo stesso che quello del Burbero benefico di Goldoni) che certo in realtà sono cose molto diverse e distinte.
[223] Puoi ved. La lett. 101 del Re di Pruss. a d'Alembert, onde apparisce che il Metastasio s'avea fuor d'Italia pel principale ingegno italiano di que' tempi.
[224] Vedi la pag. 3963. lin. 18. 3980. lin 3.4.
[225] Purulentus, purulentia ec.; esculentus, virulentus, vinolentus v. la pag. 3968-9. 3992. temulentus ec. nidulor, se non è freq. o frequen-dimin.
[226] V. il Saggio di Algarotti sugl'Incas.
[227] V. il Gloss. ec. Ramentevoir franc. Antico.
[228] Puoi ved. la p. 3988. Si può applicare al discorso sopra le barbarie della società umana ec. (p. 3797-802.).
[229] Capsula, parva capse; capsella, parva capsula. Forc. Pare che, se non altro, il Forc. creda che il diminut. in ellus ec. dinoti maggior diminuz. che quello in ulus ec., quando anche ei non lo creda sempre o non mai un sopraddiminutivo. Oculus-ocellus (oculus, come dico altrove, non è diminut. come altrove io aveva detto, o è positivato ec. sicchè ocellus non è sopraddiminutivo ec.).
[230] V. p. 3982.
[231] V. p. 3982.
[232] Del resto l'uso dell'ionico fatto anticam. dagli non ionici prova con certezza che il ionico o era il greco comune, o il più comune, o il solo o il più applicato e quindi atto alla letteratura e al dir colto ec. o il più famoso ec. V. p. 3991.
[233] V. p. seg.
[234] V. p. 3990.
[235] Diminutivo non in franc. Ma fatto da una forma non diminut. lat.a Vedi però la p. 3991. capoverso 1. e 3985. princip.
[236] P. e molti verbi in ailler, come ferrailler, tirailler, rimailler, grappiller, folâtrer ec. (puoi ved. la p. 3980. capoverso 1.) babiller.
[237] mungo, pungo, iungo ec. -nctum.
[238] Così in latino: p.e. v. Forcell. in Dium. E certo da dÝow dev'essere divus; e v. Forc. in Divus.
[239] V. ancora i derivati ec. di ungula, unghia, ongle.
[240] Puoi ved. la p. 3992. capoverso 3. e la p. 3753. marg.
[241] Così è infatti: advertid que ec. D. Quijote.
[242] V. il pens. precedente e p. 3996. capoverso 1. 2. e ult. ec. questa desin. in on è comune cioè tanto masc. che fem. o l'uno e l'altro insieme ec. Se il nome in on, essendo aggettivo ha il femm. in one o onne, non è diminut. anzi dubito che un aggett. in on sia mai de' diminut. - Compagnon (fem. compagne) sostantivo.
[243] Dubito però che in franc. la desinenza in in ine ec. nè abbia ora, nè abbia mai avuto la forza diminutiva in nessun modo. V. la pag. 3993. capoverso 4. marg.
[244] In simil senso di verbigrazia ec. o analogo a questo, mi par che si usi eziandio lo spagn. luego.
[245] Altra volta ve lo trovo per benigno, favorevole (fue mas agradecida y liberal la natura que la fortuna). Desagradecido p. ingrato. D. Quij Leido p. che ha letto, alletterato (ib. leido en cosas de Caballeria andantesca, cioè, che ha letto romanzi di Cavalleria, come quivi si vede).
[246] Così grappo e grappolo, di cui altrove; e v. il Gloss.
[247] Seggia, seggio e seggiolo, co' derivati ec. del che altrove. Cuccio e cucciolo, ciotto e ciottolo coi derivati, composti ec. Ciccia e cicciolo o sicciolo. Chiappole, bruscoli, pappolate, ec. Frotta e frottola. Tetta e tettola: v. la pag. 4007.
[248] Così scrive l'Alberti, nócciolo. Così da cochlea, chiócciola: noi marchegiani cuccióla.
[249] Voltolare, rivoltolare, avvoltolatamente. Vagellare (Crus.), vagolare e avagolare (Alberti), da vagari.
[250] Morchia (noi marchigiani morca) - amurca.
[251] Veggasi la p. 4014. capoverso 4.
[252] Conocido, desconocido, p. conoscente, cioè grato, e sconoscente, come diciamo noi l'uno e l'altro, come anche disconoscente. V. la Crusca in disconosciuto esempio 2. dove vale che non conosce, ch'è privo di conoscimento, e nota ch'è di Guittone, cioè antichissimo.
[253] llvw p. falso, frusta in luogo di Alessi Comico ap. Ateneo l. 13. p. 562. D. fin. male inteso dal Dalechampio.
[254] V. Ancora lo stesso Luc. l. 178. lin. 25.26. dove pur sottintendesi tÜ o tin.
[255] Desaguisar, desaguisado, aguisado ec.
[256] Pregiato p. prezioso o pregevole, immensus p. immetibilis.
[257] Veggasi la p. 4026. capoverso 5.
[258] P. 3827.
[259] Così diciamo l'amicizia altrui, la conoscenza altrui, le offese altrui e simili frasi dove l'altrui ha relazione a colui solo di cui si parla, sia persona o cosa, cioè in somma ridonda. E così mill'altre frasi.
[260] V. per es. Lucrez. l. 2. v. 9.
[261] Certo la puniz. porta seco più infamia che la colpa.
[262] Spagn. gloton, glotoneria, glotonear ec.
[263] Anche Cesare Dittat. fu divinizzato, con flamine ec. ec., dopo la morte almeno. V. gli storici e Sveton. in fine della sua vita.
[264] V. Saavedra Idea de un Principe politico Christiano, Amst. 1659. ap. Iansson Iuniorem. empresa 25. p. 225-6.
[265] Similm. discorrasi delle donne, in proporzione ec.
[266] Neo nes nevi netum.
[267] Farneticare.
[268] V. Hist. de l'Acad. des Sciences, an. 1734. p. 20-23. t. 1. ed. d'Amsterdam in 12.°
[269] V. Creuzer, Meletemata, dov'è il framm. di Dicearco.
[270] Così appunto la pensavano gli antichi. V. Casaub. ib. l. 8. c. 14. init.
[271] V. anche Eliano Var. Ist.
[272] Non bisogna tuttavolta usar le figure a man piena: gosa goffa e che ec.
[273] Inconsideranza e spensieratezza del futuro.
[274] Ministro, funzionario qualunq.
[275] V. p. 4256. fin.
[276] Scriveva il Chester. quelle cose circa il 1750: il Tradutt. ital. del Maff. furon pubblicati del 1720.
[277] (M. Schubarth n'a donc par remarqué qu'Homère ne chante qua la colère d'Achille et non la guerre entière de Troie? N. du R.)
[278] V. p. 4388.
[279] V. p. 4431.
[280] V. la pag. 4408. capoverso 2.
[281] V. p. 4483.
[282] V. p. 4483.
[283] V. p. 4465.
[284] Fauto e Faustolo, il pastore che salvò Romolo e Remo bambini.
[285] Così anco de' verbi in are, alla qual terminaz. aggiungono un ol. (sfondare- sfondolare, sfondolato). V. la pag. 4496. capoverso 8. e 4509. capoverso 3. e 4512.
[286] Prossimo (õ plhsÛon, õ p¡law), p. simile ec., viene anche dal greco p. mezzo del Cristianes., quantunq. in Forc. abbia qualcosa di simile in qutori pagani.
[287] Pare che i lat., almeno de' bassi tempi, usassero come disprezzativa la forma in Acul.
[288] I verbi, tutti della Ia.
[289] Crever, se crever, - crevasser.
[290] Intrico as, tricae-tricasserie, tracasser, tracas ec. (tricaculae) coutelas, freddiccio, rossiccio, e simili aggettivi.
[291] V. la p. 4496. capoverso 9.
[292] V. il pensiero seg.