HOME PRIVILEGIA NE
IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Giacomo Leopardi
I - ALL'ITALIA
II - SOPRA
IL MONUMENTO DI DANTE CHE
SI PREPARAVA IN FIRENZE
III - AD
ANGELO MAI QUAND'EBBE
TROVATO I LIBRI DI CICERONE "DELLA
REPUBBLICA"
IV - NELLE
NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA
V - A UN
VINCITORE NEL PALLONE
VII - ALLA
PRIMAVERA O
DELLE FAVOLE ANTICHE
VIII - INNO
AI PATRIARCHI O
DE' PRINCIPII DEL GENERE UMANO
XIII - LA
SERA DEL DÌ DI FESTA
XXIII - CANTO
NOTTURNO DI
UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
XXIV - LA
QUIETE DOPO LA TEMPESTA
XXX - SOPRA
UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE
UNA GIOVANE MORTA
È
RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE, ACCOMIATANDOSI
DAI SUOI
XXXI - SOPRA
IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO
NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA
MEDESIMA
XXXII - PALINODIA
AL MARCHESE GINO CAPPONI
XXXIII - IL
TRAMONTO DELLA LUNA
XXXIV - LA
GINESTRA O IL
FIORE DEL DESERTO
XL - FRAMMENTO
DAL GRECO DI SIMONIDE
I
O
patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e
i simulacri e l'erme
Torri degli avi
nostri,
Ma la gloria
non vedo,
Non vedo il
lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri
antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte
e nudo il petto mostri.
Oimè
quante ferite,
Che lividor,
che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima
donna! Io chiedo al cielo
E al mondo:
dite dite;
Chi la ridusse
a tale? E questo è peggio,
Che di catene
ha carche ambe le braccia;
Sì che
sparte le chiome e senza velo
Siede in terra
negletta e sconsolata,
Nascondendo la
faccia
Tra le
ginocchia, e piange.
Piangi, che ben
hai donde, Italia mia,
Le genti a
vincer nata
E
nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli
occhi tuoi due fonti vive,
Mai non
potrebbe il pianto
Adeguarsi al
tuo danno ed allo scorno;
Che fosti
donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla
o scrive,
Che,
rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica:
già fu grande, or non è quella?
Perché, perché?
dov'è la forza antica,
Dove l'armi e
il valore e la costanza?
Chi ti discinse
il brando?
Chi ti
tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta
possanza
Valse a
spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o
quando
Da tanta
altezza in così basso loco?
Nessun pugna
per te? non ti difende
Nessun de'
tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò,
procomberò sol io.
Dammi, o ciel,
che sia foco
Agl'italici
petti il sangue mio.
Dove sono i
tuoi figli? Odo suon d'armi
E di carri e di
voci e di timballi:
In estranie
contrade
Pugnano i tuoi
figliuoli.
Attendi,
Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di
fanti e di cavalli,
E fumo e polve,
e luccicar di spade
Come tra nebbia
lampi.
Né ti conforti?
e i tremebondi lumi
Piegar non
soffri al dubitoso evento?
A che pugna in
quei campi
L'itala
gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per
altra terra itali acciari.
Oh misero colui
che in guerra è spento,
Non per li
patrii lidi e per la pia
Consorte e i
figli cari,
Ma da nemici
altrui
Per altra
gente, e non può dir morendo:
Alma terra
natia,
La
vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e
care e benedette
L'antiche
età, che a morte
Per la patria
correan le genti a squadre;
E voi sempre
onorate e gloriose,
O tessaliche
strette,
Dove la Persia
e il fato assai men forte
Fu di poch'alme
franche e generose!
Io credo che le
piante e i sassi e l'onda
E le montagne
vostre al passeggere
Con indistinta
voce
Narrin siccome
tutta quella sponda
Coprìr
le invitte schiere
De' corpi
ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e
feroce,
Serse per
l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio
agli ultimi nepoti;
E sul colle
d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da
morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando
l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime
sparso ambe le guance,
E il petto
ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in
man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il
petto alle nemiche lance
Per amor di
costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la
Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne'
perigli
Qual tanto amor
le giovanette menti,
Qual
nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come sì
lieta, o figli,
L'ora estrema
vi parve, onde ridenti
Correste al
passo lacrimoso e duro?
Parea ch'a
danza e non a morte andasse
Ciascun de'
vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea
lo scuro
Tartaro, e
l'onda morta;
Né le spose vi
foro o i figli accanto
Quando su l'aspro
lito
Senza
baci moriste e senza pianto.
Ma non senza
de' Persi orrida pena
Ed immortale
angoscia.
Come lion di
tori entro una mandra
Or salta a
quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la
schiena,
Or questo
fianco addenta or quella coscia
Tal fra le
Perse torme infuriava
L'ira de' greci
petti e la virtute.
Ve' cavalli
supini e cavalieri;
Vedi
intralciare ai vinti
La fuga i carri
e le tende cadute
E correr fra'
primieri
Pallido e
scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi
e tinti
Del barbarico
sangue i greci eroi,
Cagione ai
Persi d'infinito affanno,
A poco a poco
vinti dalle piaghe,
L'un sopra
l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre
nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte,
in mar precipitando,
Spente nell'imo
strideran le stelle,
Che la memoria
e il vostro
Amor trascorra
o scemi.
La vostra tomba
è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri
ai parvoli le belle
Orme del vostro
sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al
suolo,
E bacio questi
sassi e queste zolle,
Che fien lodate
e chiare eternamente
Dall'uno
all'altro polo.
Deh foss'io pur
con voi qui sotto, e molle
Fosse del
sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato
è diverso, e non consente
Ch'io per la
Grecia i moribondi lumi
Chiuda
prostrato in guerra,
Così la
vereconda
Fama del vostro
vate appo i futuri
Possa, volendo
i numi,
Tanto durar
quanto la vostra duri.
Perché le
nostre genti
Pace sotto le
bianche ali raccolga,
Non fien da'
lacci sciolte
Dell'antico
sopor l'itale menti
S'ai patrii
esempi della prisca etade
Questa terra
fatal non si rivolga.
O Italia, a cor
ti stia
Far ai passati
onor; che d'altrettali
Oggi vedove son
le tue contrade,
Né v'è
chi d'onorar ti si convegna.
Volgiti
indietro, e guarda, o patria mia,
Quella schiera
infinita d'immortali,
E piangi e di
te stessa ti disdegna;
Che senza
sdegno omai la doglia è stolta:
Volgiti e ti
vergogna e ti riscuoti,
E ti punga una
volta
Pensier
degli avi nostri e de' nepoti.
D'aria e
d'ingegno e di parlar diverso
Per lo toscano
suol cercando gia
L'ospite
desioso
Dove giaccia
colui per lo cui verso
Il meonio
cantor non è più solo.
Ed, oh
vergogna! udia
Che non che il
cener freddo e l'ossa nude
Giaccian esuli
ancora
Dopo il funereo
dì sott'altro suolo,
Ma non sorgea
dentro a tue mura un sasso,
Firenze, a
quello per la cui virtude
Tutto il mondo
t'onora.
Oh voi pietosi,
onde sì tristo e basso
Obbrobrio
laverà nostro paese!
Bell'opra hai
tolta e di ch'amor ti rende,
Schiera prode e
cortese,
Qualunque
petto amor d'Italia accende.
Amor d'Italia,
o cari,
Amor di questa
misera vi sproni,
Ver cui pietade
è morta
In ogni petto
omai, perciò che amari
Giorni dopo il
seren dato n'ha il cielo.
Spirti
v'aggiunga e vostra opra coroni
Misericordia, o
figli,
E duolo e
sdegno di cotanto affanno
Onde bagna
costei le guance e il velo.
Ma voi di quale
ornar parola o canto
Si debbe, a cui
non pur cure o consigli,
Ma dell'ingegno
e della man daranno
I sensi e le
virtudi eterno vanto
Oprate e mostre
nella dolce impresa?
Quali a voi
note invio, sì che nel core,
Sì che
nell'alma accesa
Nova
favilla indurre abbian valore?
Voi
spirerà l'altissimo subbietto,
Ed acri punte
premeravvi al seno.
Chi dirà
l'onda e il turbo
Del furor
vostro e dell'immenso affetto?
Chi
pingerà l'attonito sembiante?
Chi degli occhi
il baleno?
Qual può
voce mortal celeste cosa
Agguagliar
figurando?
Lunge sia,
lunge alma profana. Oh quante
Lacrime al
nobil sasso Italia serba!
Come
cadrà? come dal tempo rosa
Fia vostra
gloria o quando?
Voi, di ch'il
nostro mal si disacerba,
Sempre vivete,
o care arti divine,
Conforto a
nostra sventurata gente,
Fra l'itale
ruine
Gl'itali
pregi a celebrare intente.
Ecco voglioso
anch'io
Ad onorar
nostra dolente madre
Porto quel che
mi lice,
E mesco
all'opra vostra il canto mio,
Sedendo u'
vostro ferro i marmi avviva.
O dell'etrusco
metro inclito padre,
Se di cosa
terrena,
Se di costei
che tanto alto locasti
Qualche novella
ai vostri lidi arriva,
io so ben che
per te gioia non senti,
Che saldi men
che cera e men ch'arena,
Verso la fama
che di te lasciasti,
Son bronzi e
marmi; e dalle nostre menti
Se mai cadesti
ancor, s'unqua cadrai,
Cresca, se
crescer può, nostra sciaura,
E in sempiterni
guai
Pianga
tua stirpe a tutto il mondo oscura.
Ma non per te;
per questa ti rallegri
Povera patria
tua, s'unqua l'esempio
Degli avi e de'
parenti
Ponga ne' figli
sonnacchiosi ed egri
Tanto valor che
un tratto alzino il viso.
Ahi, da che
lungo scempio
Vedi afflitta
costei, che sì meschina
Te salutava
allora
Che di novo
salisti al paradiso!
Oggi ridotta
sì che a quel che vedi,
Fu fortunata
allor donna e reina.
Tal miseria
l'accora
Qual tu forse
mirando a te non credi.
Taccio gli
altri nemici e l'altre doglie;
Ma non la
più recente e la più fera,
Per cui presso
alle soglie
Vide
la patria tua l'ultima sera.
Beato te che il
fato
A viver non
dannò fra tanto orrore;
Che non vedesti
in braccio
L'itala moglie
a barbaro soldato;
Non predar, non
guastar cittadi e colti
L'asta inimica
e il peregrin furore;
Non degl'itali
ingegni
Tratte l'opre
divine a miseranda
Schiavitude
oltre l'alpe, e non de' folti
Carri impedita
la dolente via;
Non gli aspri
cenni ed i superbi regni;
Non udisti gli
oltraggi e la nefanda
Voce di
libertà che ne schernia
Tra il suon
delle catene e de' flagelli.
Chi non si
duol? che non soffrimmo? intatto
Che lasciaron
quei felli?
Qual
tempio, quale altare o qual misfatto?
Perché venimmo
a sì perversi tempi?
Perché il
nascer ne desti o perché prima
Non ne desti il
morire,
Acerbo fato?
onde a stranieri ed empi
Nostra patria
vedendo ancella e schiava,
E da mordace
lima
Roder la sua
virtù, di null'aita
E di nullo
conforto
Lo spietato
dolor che la stracciava
Ammollir ne fu
dato in parte alcuna.
Ahi non il
sangue nostro e non la vita
Avesti, o cara;
e morto
Io non son per
la tua cruda fortuna.
Qui l'ira al
cor, qui la pietade abbonda:
Pugnò,
cadde gran parte anche di noi:
Ma per la
moribonda
Italia
no; per li tiranni suoi.
Padre, se non
ti sdegni,
Mutato sei da
quel che fosti in terra.
Morian per le
rutene
Squallide
piagge, ahi d'altra morte degni,
Gl'itali prodi;
e lor fea l'aere e il cielo
E gli uomini e
le belve immensa guerra.
Cadeano a
squadre a squadre
Semivestiti,
maceri e cruenti,
Ed era letto
agli egri corpi il gelo.
Allor, quando
traean l'ultime pene,
Membrando
questa desiata madre,
Diceano: oh non
le nubi e non i venti,
Ma ne spegnesse
il ferro, e per tuo bene,
O patria
nostra. Ecco da te rimoti,
Quando
più bella a noi l'età sorride,
A tutto il
mondo ignoti,
Moriam
per quella gente che t'uccide.
Di lor querela
il boreal deserto
E conscie fur
le sibilanti selve.
Così
vennero al passo,
E i negletti
cadaveri all'aperto
Su per quello
di neve orrido mare
Dilaceràr
le belve
E sarà
il nome degli egregi e forti
Pari mai sempre
ed uno
Con quel de'
tardi e vili. Anime care,
Bench'infinita
sia vostra sciagura,
Datevi pace; e
questo vi conforti
Che conforto
nessuno
Avrete in
questa o nell'età futura.
In seno al
vostro smisurato affanno
Posate, o di
costei veraci figli,
Al cui supremo
danno
Il
vostro solo è tal che s'assomigli.
Di voi
già non si lagna
La patria
vostra, ma di chi vi spinse
A pugnar contra
lei,
Sì
ch'ella sempre amaramente piagna
E il suo col
vostro lacrimar confonda.
Oh di costei
ch'ogni altra gloria vinse
Pietà
nascesse in core
A tal de' suoi
ch'affaticata e lenta
Di sì
buia vorago e sì profonda
La ritraesse! O
glorioso spirto,
Dimmi: d'Italia
tua morto è l'amore?
Di': quella
fiamma che t'accese, è spenta?
Di': né
più mai rinverdirà quel mirto
Ch'alleggiò
per gran tempo il nostro male?
Nostre corone
al suol fien tutte sparte?
Né
sorgerà mai tale
Che
ti rassembri in qualsivoglia parte?
In eterno
perimmo? e il nostro scorno
Non ha verun
confine?
Io mentre viva
andrò sclamando intorno,
Volgiti agli
avi tuoi, guasto legnaggio;
Mira queste
ruine
E le carte e le
tele e i marmi e i templi;
Pensa qual
terra premi; e se destarti
Non può
la luce di cotanti esempli,
Che stai?
levati e parti.
Non si conviene
a sì corrotta usanza
Questa d'animi
eccelsi altrice e scola:
Se di codardi
è stanza,
Meglio
l'è rimaner vedova e sola.
Italo ardito, a
che giammai non posi
Di svegliar
dalle tombe
I nostri padri?
ed a parlar gli meni
A questo secol
morto, al quale incombe
Tanta nebbia di
tedio? E come or vieni
Sì forte
a' nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de'
nostri,
Muta sì
lunga etade? e perché tanti
Risorgimenti?
In un balen feconde
Venner le
carte; alla stagion presente
I polverosi
chiostri
Serbaro occulti
i generosi e santi
Detti degli
avi. E che valor t'infonde,
Italo egregio,
il fato? O con l'umano
Valor
forse contrasta il fato invano?
Certo senza de'
numi alto consiglio
Non è
ch'ove più lento
E grave
è il nostro disperato obblio,
A percoter ne
rieda ogni momento
Novo grido de'
padri. Ancora è pio
Dunque
all'Italia il cielo; anco si cura
Di noi qualche
immortale:
Ch'essendo
questa o nessun'altra poi
L'ora da ripor
mano alla virtude
Rugginosa
dell'itala natura,
Veggiam che
tanto e tale
È il
clamor de' sepolti, e che gli eroi
Dimenticati il
suol quasi dischiude,
A ricercar s'a
questa età sì tarda
Anco
ti giovi, o patria, esser codarda.
Di noi serbate,
o gloriosi, ancora
Qualche
speranza? in tutto
Non siam
periti? A voi forse il futuro
Conoscer non si
toglie. Io son distrutto
Né schermo
alcuno ho dal dolor, che scuro
M'è
l'avvenire, e tutto quanto io scerno
È tal
che sogno e fola
Fa parer la
speranza. Anime prodi,
Ai tetti vostri
inonorata, immonda
Plebe successe;
al vostro sangue è scherno
E d'opra e di
parola
Ogni valor; di
vostre eterne lodi
Né rossor
più né invidia; ozio circonda
I monumenti
vostri; e di viltade
Siam
fatti esempio alla futura etade.
Bennato
ingegno, or quando altrui non cale
De' nostri alti
parenti,
A te ne caglia,
a te cui fato aspira
Benigno
sì che per tua man presenti
Paion que'
giorni allor che dalla dira
Obblivione
antica ergean la chioma,
Con gli studi
sepolti,
I vetusti
divini, a cui natura
Parlò
senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi
allegràr d'Atene e Roma.
Oh tempi, oh
tempi avvolti
In sonno
eterno! Allora anco immatura
La ruina
d'Italia, anco sdegnosi
Eravam d'ozio
turpe, e l'aura a volo
Più
faville rapia da questo suolo.
Eran calde le
tue ceneri sante,
Non domito
nemico
Della fortuna,
al cui sdegno e dolore
Fu più
l'averno che la terra amico.
L'averno: e
qual non è parte migliore
Di questa
nostra? E le tue dolci corde
Susurravano
ancora
Dal tocco di
tua destra, o sfortunato
Amante. Ahi dal
dolor comincia e nasce
L'italo canto.
E pur men grava e morde
Il mal che
n'addolora
Del tedio che
n'affoga. Oh te beato,
A cui fu vita
il pianto! A noi le fasce
Cinse il
fastidio; a noi presso la culla
Immoto
siede, e su la tomba, il nulla.
Ma tua vita era
allor con gli astri e il mare,
Ligure ardita
prole,
Quand'oltre
alle colonne, ed oltre ai liti
Cui strider
l'onde all'attuffar del sole
Parve udir su
la sera, agl'infiniti
Flutti
commesso, ritrovasti il raggio
Del Sol caduto,
e il giorno
Che nasce allor
ch'ai nostri è giunto al fondo;
E rotto di
natura ogni contrasto,
Ignota immensa
terra al tuo viaggio
Fu gloria, e
del ritorno
Ai rischi. Ahi
ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce,
anzi si scema, e assai più vasto
L'etra sonante
e l'alma terra e il mare
Al
fanciullin, che non al saggio, appare.
Nostri sogni
leggiadri ove son giti
Dell'ignoto
ricetto
D'ignoti
abitatori, o del diurno
Degli astri
albergo, e del rimoto letto
Della giovane
Aurora, e del notturno
Occulto sonno
del maggior pianeta?
Ecco svaniro a
un punto,
E figurato
è il mondo in breve carta;
Ecco tutto
è simile, e discoprendo,
Solo il nulla
s'accresce. A noi ti vieta
Il vero appena
è giunto,
O caro
immaginar; da te s'apparta
Nostra mente in
eterno; allo stupendo
Poter tuo primo
ne sottraggon gli anni;
E
il conforto perì de' nostri affanni.
Nascevi ai
dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati
in vista,
Cantor vago
dell'arme e degli amori,
Che in
età della nostra assai men trista
Empièr
la vita di felici errori:
Nova speme
d'Italia. O torri, o celle,
O donne, o
cavalieri,
O giardini, o
palagi! a voi pensando,
In mille vane
amenità si perde
La mente mia.
Di vanità, di belle
Fole e strani
pensieri
Si componea
l'umana vita: in bando
Li cacciammo:
or che resta? or poi che il verde
È
spogliato alle cose? Il certo e solo
Veder
che tutto è vano altro che il duolo.
O Torquato, o
Torquato, a noi l'eccelsa
Tua mente
allora, il pianto
A te, non
altro, preparava il cielo.
Oh misero
Torquato! il dolce canto
Non valse a
consolarti o a sciorre il gelo
Onde l'alma
t'avean, ch'era sì calda,
Cinta l'odio e
l'immondo
Livor privato e
de' tiranni. Amore,
Amor, di nostra
vita ultimo inganno,
T'abbandonava.
Ombra reale e salda
Ti parve il
nulla, e il mondo
Inabitata
piaggia. Al tardo onore
Non sorser gli
occhi tuoi; mercè, non danno,
L'ora estrema
ti fu. Morte domanda
Chi
nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
Torna torna fra
noi, sorgi dal muto
E sconsolato
avello,
Se d'angoscia
sei vago, o miserando
Esemplo di
sciagura. Assai da quello
Che ti parve
sì mesto e sì nefando,
È
peggiorato il viver nostro. O caro,
Chi ti
compiangeria,
Se, fuor che di
se stesso, altri non cura?
Chi stolto non
direbbe il tuo mortale
Affanno anche
oggidì se il grande e il raro
Ha nome di
follia;
Né livor
più, ma ben di lui più dura
La noncuranza
avviene ai sommi? o quale,
Se più
de' carmi, il computar s'ascolta,
Ti
appresterebbe il lauro un'altra volta?
Da te fino a
quest'ora uom non è sorto,
O sventurato
ingegno,
Pari all'italo
nome, altro ch'un solo,
Solo di sua
codarda etate indegno
Allobrogo
feroce, a cui dal polo
Maschia
virtù, non già da questa mia
Stanca ed arida
terra,
Venne nel
petto; onde privato, inerme,
(Memorando
ardimento) in su la scena
Mosse guerra a'
tiranni: almen si dia
Questa misera
guerra
E questo vano
campo all'ire inferme
Del mondo. Ei
primo e sol dentro all'arena
Scese, e nullo
il seguì, che l'ozio e il brutto
Silenzio
or preme ai nostri innanzi a tutto.
Disdegnando e
fremendo, immacolata
Trasse la vita
intera,
E morte lo
scampò dal veder peggio.
Vittorio mio,
questa per te non era
Età né
suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene agli
alti ingegni. Or di riposo
Paghi viviamo,
e scorti
Da
mediocrità: sceso il sapiente
E salita
è la turba a un sol confine,
Che il mondo
agguaglia. O scopritor famoso,
Segui;
risveglia i morti,
Poi che dormono
i vivi; arma le spente
Lingue de'
prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di
fango o vita agogni
E sorga ad atti
illustri, o si vergogni.
Poi che del
patrio nido
I silenzi
lasciando, e le beate
Larve e
l'antico error, celeste dono,
Ch'abbella agli
occhi tuoi quest'ermo lido,
Te nella polve
della vita e il suono
Tragge il
destin; l'obbrobriosa etate
Che il duro
cielo a noi prescrisse impara,
Sorella mia,
che in gravi
E luttuosi
tempi
L'infelice
famiglia all'infelice
Italia
accrescerai. Di forti esempi
Al tuo sangue
provvedi. Aure soavi
L'empio fato
interdice
All'umana
virtude,
Né
pura in gracil petto alma si chiude.
O miseri o
codardi
Figliuoli
avrai. Miseri eleggi. Immenso
Tra fortuna e
valor dissidio pose
Il corrotto
costume. Ahi troppo tardi,
E nella sera
dell'umane cose,
Acquista oggi
chi nasce il moto e il senso.
Al ciel ne
caglia: a te nel petto sieda
Questa
sovr'ogni cura,
Che di fortuna
amici
Non crescano i
tuoi figli, e non di vile
Timor gioco o
di speme: onde felici
Sarete detti
nell'età futura:
Poiché (nefando
stile,
Di schiatta
ignava e finta)
Virtù
viva sprezziam, lodiamo estinta.
Donne, da voi
non poco
La patria
aspetta; e non in danno e scorno
Dell'umana
progenie al dolce raggio
Delle pupille
vostre il ferro e il foco
Domar fu dato.
A senno vostro il saggio
E il forte
adopra e pensa; e quanto il giorno
Col divo carro
accerchia, a voi s'inchina.
Ragion di
nostra etate
Io chieggo a
voi. La santa
Fiamma di
gioventù dunque si spegne
Per vostra
mano? attenuata e franta
Da voi nostra
natura? e le assonnate
Menti, e le
voglie indegne,
E di nervi e di
polpe
Scemo
il valor natio, son vostre colpe?
Ad atti egregi è
sprone
Amor, chi ben
l'estima, e d'alto affetto
Maestra
è la beltà. D'amor digiuna
Siede l'alma di
quello a cui nel petto
Non si rallegra
il cor quando a tenzone
Scendono i
venti, e quando nembi aduna
L'olimpo, e
fiede le montagne il rombo
Della procella.
O spose,
O verginette, a
voi
Chi de' perigli
è schivo, e quei che indegno
È della
patria e che sue brame e suoi
Volgari affetti
in basso loco pose,
Odio mova e
disdegno;
Se nel femmineo
core
D'uomini
ardea, non di fanciulle, amore.
Madri d'imbelle
prole
V'incresca
esser nomate. I danni e il pianto
Della virtude a
tollerar s'avvezzi
La stirpe
vostra, e quel che pregia e cole
La vergognosa
età, condanni e sprezzi;
Cresca alla
patria, e gli alti gesti, e quanto
Agli avi suoi
deggia la terra impari.
Qual de'
vetusti eroi
Tra le memorie
e il grido
Crescean di
Sparta i figli al greco nome;
Finché la sposa
giovanetta il fido
Brando cingeva
al caro lato, e poi
Spandea le
negre chiome
Sul corpo
esangue e nudo
Quando
e' reddia nel conservato scudo.
Virginia, a te
la molle
Gota molcea con
le celesti dita
Beltade
onnipossente, e degli alteri
Disdegni tuoi
si sconsolava il folle
Signor di Roma.
Eri pur vaga, ed eri
Nella stagion
ch'ai dolci sogni invita,
Quando il rozzo
paterno acciar ti ruppe
Il bianchissimo
petto,
E all'Erebo
scendesti
Volonterosa. A
me disfiori e scioglia
Vecchiezza i
membri, o padre; a me s'appresti,
Dicea, la
tomba, anzi che l'empio letto
Del tiranno
m'accoglia.
E se pur vita e
lena
Roma
avrà dal mio sangue, e tu mi svena.
O generosa,
ancora
Che più
bello a' tuoi dì splendesse il sole
Ch'oggi non fa,
pur consolata e paga
È quella
tomba cui di pianto onora
L'alma terra
nativa. Ecco alla vaga
Tua spoglia
intorno la romulea prole
Di nova ira
sfavilla. Ecco di polve
Lorda il tiranno
i crini;
E libertade
avvampa
Gli obbliviosi
petti; e nella doma
Terra il marte
latino arduo s'accampa
Dal buio polo
ai torridi confini.
Così
l'eterna Roma
In duri ozi
sepolta
Femmineo fato
avviva un'altra volta.
Di gloria il
viso e la gioconda voce,
Garzon bennato,
apprendi,
E quanto al
femminile ozio sovrasti
La sudata
virtude. Attendi attendi,
Magnanimo
campion (s'alla veloce
Piena degli
anni il tuo valor contrasti
La spoglia di
tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto
desio. Te l'echeggiante
Arena e il
circo, e te fremendo appella
Ai fatti
illustri il popolar favore;
Te rigoglioso
dell'età novella
Oggi la patria
cara
Gli
antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico
sangue in Maratona
Non
colorò la destra
Quei che gli
atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido
mirò l'ardua palestra,
Né la palma
beata e la corona
D'emula brama
il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome
polverose e i fianchi
Delle cavalle
vincitrici asterse
Tal che le
greche insegne e il greco acciaro
Guidò
de' Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide
torme; onde sonaro
Di sconsolato
grido
L'alto
sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel
che disserra e scote
Della
virtù nativa
Le riposte
faville? e che del fioco
Spirto vital
negli egri petti avviva
Il caduco
fervor? Le meste rote
Da poi che Febo
instiga, altro che gioco
Son l'opre de'
mortali? ed è men vano
Della menzogna
il vero? A noi di lieti
Inganni e di
felici ombre soccorse
Natura stessa:
e là dove l'insano
Costume ai
forti errori esca non porse,
Negli ozi
oscuri e nudi
Mutò
la gente i gloriosi studi.
Tempo forse
verrà ch'alle ruine
Delle italiche
moli
Insultino gli
armenti, e che l'aratro
Sentano i sette
colli; e pochi Soli
Forse fien
volti, e le città latine
Abiterà
la cauta volpe, e l'atro
Bosco
mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta
delle patrie cose
Obblivion dalle
perverse menti
Non isgombrano
i fati, e la matura
Clade non torce
dalle abbiette genti
Il ciel fatto
cortese
Dal
rimembrar delle passate imprese.
Alla patria
infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti
doglia.
Chiaro per lei
stato saresti allora
Che del serto
fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e
fatal. Passò stagione;
Che nullo di
tal madre oggi s'onora:
Ma per te
stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a
che val? solo a spregiarla:
Beata allor che
ne' perigli avvolta,
Se stessa
obblia, né delle putri e lente
Ore il danno
misura e il flutto ascolta;
Beata allor che
il piede
Spinto al varco
leteo, più grata riede.
Poi che
divelta, nella tracia polve
Giacque ruina
immensa
L'italica
virtute, onde alle valli
D'Esperia
verde, e al tiberino lido,
Il calpestio
de' barbari cavalli
Prepara il
fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa
algida preme,
A spezzar le
romane inclite mura
Chiama i gotici
brandi;
Sudato, e molle
di fraterno sangue,
Bruto per
l'atra notte in erma sede,
Fermo
già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno
accusa,
E di feroci
note
Invan
la sonnolenta aura percote.
Stolta
virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete
larve
Son le tue
scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento.
A voi, marmorei numi,
(Se numi avete
in Flegetonte albergo
O su le nubi) a
voi ludibrio e scherno
È la
prole infelice
A cui templi
chiedeste, e frodolenta
Legge al
mortale insulta.
Dunque tanto i
celesti odii commove
La terrena
pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a
tutela? e quando esulta
Per l'aere il
nembo, e quando
Il tuon rapido
spingi,
Ne'
giusti e pii la sacra fiamma stringi?
Preme il
destino invitto e la ferrata
Necessità
gl'infermi
Schiavi di
morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi
lor, de' necessarii danni
Si consola il
plebeo. Men duro è il male
Che riparo non
ha? dolor non sente
Chi di speranza
è nudo?
Guerra mortale,
eterna, o fato indegno,
Teco il prode
guerreggia,
Di cedere
inesperto; e la tiranna
Tua destra,
allor che vincitrice il grava,
Indomito
scrollando si pompeggia,
Quando
nell'alto lato
L'amaro ferro
intride,
E
maligno alle nere ombre sorride.
Spiace agli Dei
chi violento irrompe
Nel Tartaro.
Non fora
Tanto valor ne'
molli eterni petti.
Forse i
travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e
gl'infelici affetti
Giocondo agli
ozi suoi spettacol pose?
Non fra
sciagure e colpe,
Ma libera ne'
boschi e pura etade
Natura a noi
prescrisse,
Reina un tempo
e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni
beati empio costume,
E il viver
macro ad altre leggi addisse;
Quando
gl'infausti giorni
Virile alma
ricusa,
Riede
natura, e il non suo dardo accusa?
Di colpa ignare
e de' lor proprii danni
Le fortunate
belve
Serena adduce
al non previsto passo
La tarda
età. Ma se spezzar la fronte
Ne' rudi
tronchi, o da montano sasso
Dare al vento
precipiti le membra,
Lor suadesse
affanno
Al misero desio
nulla contesa
Legge arcana
farebbe
O tenebroso
ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo
avvivò, soli fra tutte,
Figli di
Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte
ripe,
Se il fato
ignavo pende,
Soli,
o miseri, a voi Giove contende.
E tu dal mar
cui nostro sangue irriga,
Candida luna,
sorgi,
E l'inquieta
notte e la funesta
All'ausonio
valor campagna esplori.
Cognati petti
il vincitor calpesta,
Fremono i
poggi, dalle somme vette
Roma antica
ruina;
Tu sì
placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole,
e gli anni
Lieti vedesti,
e i memorandi allori;
E tu su l'alpe
l'immutato raggio
Tacita verserai
quando ne' danni
Del servo italo
nome,
Sotto barbaro
piede
Rintronerà
quella solinga sede.
Ecco tra nudi
sassi o in verde ramo
E la fera e
l'augello,
Del consueto
obblio gravido il petto,
L'alta ruina
ignora e le mutate
Sorti del
mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà
del villanello industre,
Al mattutino
canto
Quel
desterà le valli, e per le balze
Quella
l'inferma plebe
Agiterà
delle minori belve.
Oh casi! oh
gener vano! abbietta parte
Siam delle
cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati
spechi
Turbò
nostra sciagura,
Né
scolorò le stelle umana cura.
Non io d'Olimpo
o di Cocito i sordi
Regi, o la
terra indegna,
E non la notte
moribondo appello;
Non te,
dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura
età. Sdegnoso avello
Placàr
singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva?
In peggio
Precipitano i
tempi; e mal s'affida
A putridi
nepoti
L'onor
d'egregie menti e la suprema
De' miseri
vendetta. A me dintorno
Le penne il
bruno augello avido roti;
Prema la fera,
e il nembo
Tratti l'ignota
spoglia;
E l'aura il
nome e la memoria accoglia.
Perché i
celesti danni
Ristori il
sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi,
onde fugata e sparta
Delle nubi la
grave ombra s'avvalla;
Credano il
petto inerme
Gli augelli al
vento, e la diurna luce
Novo d'amor
desio, nova speranza
Ne' penetrati
boschi e fra le sciolte
Pruine induca
alle commosse belve;
Forse alle
stanche e nel dolor sepolte
Umane menti
riede
La bella
età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver
consunse
Innanzi tempo?
Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi
al misero non sono
In sempiterno?
ed anco,
Primavera
odorata, inspiri e tenti
Questo gelido
cor, questo ch'amara
Nel
fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi,
o santa
Natura? vivi e
il dissueto orecchio
Della materna
voce il suono accoglie?
Già di
candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo
e specchio
Furo i liquidi
fonti. Arcane danze
D'immortal
piede i ruinosi gioghi
Scossero e
l'ardue selve (oggi romito
Nido de'
venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane
incerte ed al fiorito
Margo adducea
de' fiumi
Le sitibonde
agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti
Pani
Udì
lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e
stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne'
caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea
della sanguigna caccia
Il
niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori
e l'erbe,
Vissero i
boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e
la titania lampa
Fur dell'umana
gente, allor che ignuda
Te per le
piagge e i colli,
Ciprigna luce,
alla deserta notte
Con gli occhi
intenti il viator seguendo,
Te compagna
alla via, te de' mortali
Pensosa
immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini
consorzi e le fatali
Ire fuggendo e
l'onte,
Gl'ispidi
tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto
accolse,
Viva fiamma
agitar l'esangui vene,
Spirar le
foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso
amplesso
Dafne o la
mesta Filli, o di Climene
Pianger
credè la sconsolata prole
Quel
che sommerse in Eridano il sole.
Né dell'umano
affanno,
Rigide balze, i
luttuosi accenti
Voi negletti
ferìr mentre le vostre
Paurose latebre
Eco solinga,
Non vano error
de' venti,
Ma di ninfa
abitò misero spirto,
Cui grave amor,
cui duro fato escluse
Delle tenere
membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli
e desolati alberghi,
Le non ignote
ambasce e l'alte e rotte
Nostre querele
al curvo
Etra insegnava.
E te d'umani eventi
Disse la fama
esperto,
Musico augel
che tra chiomato bosco
Or vieni il
rinascente anno cantando,
E lamentar
nell'alto
Ozio de' campi,
all'aer muto e fosco,
Antichi danni e
scellerato scorno,
E
d'ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato
al nostro
Il gener tuo;
quelle tue varie note
Dolor non
forma, e te di colpa ignudo,
Men caro assai
la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia
che vote
Son le stanze
d'Olimpo, e cieco il tuono
Per l'atre nubi
e le montagne errando,
Gl'iniqui petti
e gl'innocenti a paro
In freddo orror
dissolve; e poi ch'estrano
Il suol nativo,
e di sua prole ignaro
Le meste anime
educa;
Tu le cure
infelici e i fati indegni
Tu de' mortali
ascolta,
Vaga natura, e
la favilla antica
Rendi allo
spirto mio; se tu pur vivi,
E se de' nostri
affanni
Cosa veruna in
ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga
o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma
spettatrice almeno.
E voi de' figli
dolorosi il canto,
Voi dell'umana
prole incliti padri,
Lodando
ridirà; molto all'eterno
Degli astri
agitator più cari, e molto
Di noi men
lacrimabili nell'alma
Luce prodotti.
Immedicati affanni
Al misero
mortal, nascere al pianto,
E dell'etereo
lume assai più dolci
Sortir l'opaca
tomba e il fato estremo,
Non la
pietà, non la diritta impose
Legge del
cielo. E se di vostro antico
Error che
l'uman seme alla tiranna
Possa de' morbi
e di sciagura offerse,
Grido antico
ragiona, altre più dire
Colpe de'
figli, e irrequieto ingegno,
E demenza
maggior l'offeso Olimpo
N'armaro
incontra, e la negletta mano
Dell'altrice
natura; onde la viva
Fiamma
n'increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo
materno, e violento
Emerse
il disperato Erebo in terra.
Tu primo il
giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti
sfere, e la novella
Prole de'
campi, o duce antico e padre
Dell'umana
famiglia, e tu l'errante
Per li giovani
prati aura contempli:
Quando le rupi
e le deserte valli
Precipite
l'alpina onda feria
D'inudito
fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di
lodate genti
E di cittadi
romorose, ignota
Pace regnava; e
gl'inarati colli
Solo e muto
ascendea l'aprico raggio
Di febo e
l'aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara
e di lugubri eventi,
Erma terrena
sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo,
padre infelice, e quale
D'amarissimi
casi ordine immenso
Preparano i
destini! Ecco di sangue
Gli avari colti
e di fraterno scempio
Furor novello
incesta, e le nefande
Ali di morte il
divo etere impara.
Trepido,
errante il fratricida, e l'ombre
Solitarie
fuggendo e la secreta
Nelle profonde
selve ira de' venti,
Primo i civili
tetti, albergo e regno
Alle macere
cure, innalza; e primo
Il disperato
pentimento i ciechi
Mortali egro,
anelante, aduna e stringe
Ne' consorti
ricetti: onde negata
L'improba mano
al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti
sudori; ozio le soglie
Scellerate
occupò; ne' corpi inerti
Domo il vigor
natio, languide, ignave
Giacquer le
menti; e servitù le imbelli
Umane
vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall'etra
infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi
gioghi equoreo flutto
Scampi l'iniquo
germe, o tu cui prima
Dall'aer cieco
e da' natanti poggi
Segno
arrecò d'instaurata spene
La candida
colomba, e delle antiche
Nubi l'occiduo
Sol naufrago uscendo,
L'atro polo di
vaga iri dipinse.
Riede alla
terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e
le seguaci ambasce
La riparata
gente. Agl'inaccessi
Regni del mar
vendicatore illude
Profana destra,
e la sciagura e il pianto
A
novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre
de' pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i
generosi alunni
Medita il petto
mio. Dirò siccome
Sedente,
oscuro, in sul meriggio all'ombre
Del riposato
albergo, appo le molli
Rive del gregge
tuo nutrici e sedi,
Te de' celesti
peregrini occulte
Beàr
l'eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia
Rebecca, in su la sera,
Presso al
rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di
lieti ozi frequente
Aranitica
valle, amor ti punse
Della vezzosa
Labanide: invitto
Amor, ch'a
lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio
all'odiata soma
Volenteroso
il prode animo addisse.
Fu certo, fu
(né d'error vano e d'ombra
L'aonio canto e
della fama il grido
Pasce l'avida
plebe) amica un tempo
Al sangue
nostro e dilettosa e cara
Questa misera
piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca
età. Non che di latte
Onda rigasse
intemerata il fianco
Delle balze
materne, o con le greggi
Mista la tigre
ai consueti ovili
Né guidasse per
gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma
di suo fato ignara
E degli affanni
suoi, vota d'affanno
Visse l'umana
stirpe; alle secrete
Leggi del cielo
e di natura indutto
Valse l'ameno
error, le fraudi, il molle
Pristino velo;
e di sperar contenta
Nostra
placida nave in porto ascese.
Tal fra le
vaste californie selve
Nasce beata
prole, a cui non sugge
Pallida cura il
petto, a cui le membra
Fera tabe non
doma; e vitto il bosco,
Nidi l'intima
rupe, onde ministra
L'irrigua
valle, inopinato il giorno
Dell'atra morte
incombe. Oh contra il nostro
Scellerato
ardimento inermi regni
Della saggia
natura! I lidi e gli antri
E le quiete
selve apre l'invitto
Nostro furor;
le violate genti
Al peregrino
affanno, agl'ignorati
Desiri educa; e
la fugace, ignuda
Felicità
per l'imo sole incalza.
Placida notte,
e verecondo raggio
Della cadente
luna; e tu che spunti
Fra la tacita
selva in su la rupe,
Nunzio del
giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote
mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli
occhi miei; già non arride
Spettacol molle
ai disperati affetti.
Noi l'insueto
allor gaudio ravviva
Quando per
l'etra liquido si volve
E per li campi
trepidanti il flutto
Polveroso de'
Noti, e quando il carro,
Grave carro di
Giove a noi sul capo,
Tonando, il
tenebroso aere divide.
Noi per le
balze e le profonde valli
Natar giova
tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi
sbigottiti, o d'alto
Fiume alla
dubbia sponda
Il
suono e la vittrice ira dell'onda.
Bello il tuo
manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida
terra. Ahi di cotesta
Infinita
beltà parte nessuna
Alla misera
Saffo i numi e l'empia
Sorte non
fenno. A' tuoi superbi regni
Vile, o natura,
e grave ospite addetta,
E dispregiata
amante, alle vezzose
Tue forme il
core e le pupille invano
Supplichevole
intendo. A me non ride
L'aprico margo,
e dall'eterea porta
Il mattutino
albor; me non il canto
De' colorati
augelli, e non de' faggi
Il murmure
saluta: e dove all'ombra
Degl'inchinati
salici dispiega
Candido rivo il
puro seno, al mio
Lubrico
piè le flessuose linfe
Disdegnando
sottragge,
E
preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai,
qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi
il natale, onde sì torvo
Il ciel mi
fosse e di fortuna il volto?
In che peccai
bambina, allor che ignara
Di misfatto
è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza,
e disfiorato, al fuso
Dell'indomita
Parca si volvesse
Il ferrigno mio
stame? Incaute voci
Spande il tuo
labbro: i destinati eventi
Move arcano
consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il
nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al
pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si
posa. Oh cure, oh speme
De' più
verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene
sembianze eterno regno
Diè
nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira
o canto,
Virtù
non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il
velo indegno a terra sparto
Rifuggirà
l'ignudo animo a Dite,
E il crudo
fallo emenderà del cieco
Dispensator de'
casi. E tu cui lungo
Amore indarno,
e lunga fede, e vano
D'implacato
desio furor mi strinse,
Vivi felice, se
felice in terra
Visse nato
mortal. Me non asperse
Del soave licor
del doglio avaro
Giove, poi che
perir gl'inganni e il sogno
Della mia
fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di
nostra età primo s'invola.
Sottentra il
morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida
morte. Ecco di tante
Sperate palme e
dilettosi errori,
Il Tartaro
m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria
Diva,
E l'atra notte,
e la silente riva.
Tornami a mente
il dì che la battaglia
D'amor sentii
la prima volta, e dissi:
Oimè,
se quest'è amor, com'ei travaglia!
Che gli occhi
al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei
ch'a questo core
Primiera
il varco ed innocente aprissi.
Ahi come mal mi
governasti, amore!
Perché seco
dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?
E non sereno, e
non intero e schietto,
Anzi pien di
travaglio e di lamento
Al
cor mi discendea tanto diletto?
Dimmi, tenero
core, or che spavento,
Che angoscia
era la tua fra quel pensiero
Presso
al qual t'era noia ogni contento?
Quel pensier
che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva
nella notte, quando
Tutto
queto parea nell'emisfero:
Tu inquieto, e
felice e miserando,
M'affaticavi in
su le piume il fianco,
Ad
ogni or fortemente palpitando.
E dove io
tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al
sonno chiudea, come per febre
Rotto
e deliro il sonno venia manco.
Oh come viva in
mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce
imago, e gli occhi chiusi
La
contemplavan sotto alle palpebre!
Oh come
soavissimi diffusi
Moti per l'ossa
mi serpeano, oh come
Mille
nell'alma instabili, confusi
Pensieri si
volgean! qual tra le chiome
D'antica selva
zefiro scorrendo,
Un
lungo, incerto mormorar ne prome.
E mentre io
taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o
mio cor, che si partia
Quella
per che penando ivi e battendo?
Il cuocer non
più tosto io mi sentia
Della vampa
d'amor, che il venticello
Che
l'aleggiava, volossene via.
Senza sonno io
giacea sul dì novello,
E i destrier
che dovean farmi deserto,
Battean
la zampa sotto al patrio ostello.
Ed io timido e
cheto ed inesperto,
Ver lo balcone
al buio protendea
L'orecchio
avido e l'occhio indarno aperto,
La voce ad
ascoltar, se ne dovea
Di quelle
labbra uscir, ch'ultima fosse;
La
voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.
Quante volte
plebea voce percosse
Il dubitoso
orecchio, e un gel mi prese,
E
il core in forse a palpitar si mosse!
E poi che
finalmente mi discese
La cara voce al
core, e de' cavai
E
delle rote il romorio s'intese;
Orbo rimaso
allor, mi rannicchiai
Palpitando nel
letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi
il cor con la mano, e sospirai.
Poscia traendo
i tremuli ginocchi
Stupidamente
per la muta stanza,
Ch'altro
sarà, dicea, che il cor mi tocchi?
Amarissima
allor la ricordanza
Locommisi nel
petto, e mi serrava
Ad
ogni voce il core, a ogni sembianza.
E lunga doglia
il sen mi ricercava,
Com'è
quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente
e i campi lava.
Ned io ti
conoscea, garzon di nove
E nove Soli, in
questo a pianger nato
Quando
facevi, amor, le prime prove.
Quando in
ispregio ogni piacer, né grato
M'era degli
astri il riso, o dell'aurora
Queta
il silenzio, o il verdeggiar del prato.
Anche di gloria
amor taceami allora
Nel petto, cui
scaldar tanto solea,
Che
di beltade amor vi fea dimora.
Né gli occhi ai
noti studi io rivolgea,
E quelli
m'apparian vani per cui
Vano
ogni altro desir creduto avea.
Deh come mai da
me sì vario fui,
E tanto amor mi
tolse un altro amore?
Deh
quanto, in verità, vani siam nui!
Solo il mio cor
piaceami, e col mio core
In un perenne
ragionar sepolto,
Alla
guardia seder del mio dolore.
E l'occhio a
terra chino o in sé raccolto,
Di riscontrarsi
fuggitivo e vago
Né
in leggiadro soffria né in turpe volto:
Che la
illibata, la candida imago
Turbare egli
temea pinta nel seno,
Come
all'aure si turba onda di lago.
E quel di non
aver goduto appieno
Pentimento, che
l'anima ci grava,
E
il piacer che passò cangia in veleno,
Per li fuggiti
dì mi stimolava
Tuttora il sen:
che la vergogna il duro
Suo
morso in questo cor già non oprava.
Al cielo, a
voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non
m'entrò bassa nel petto,
Ch'arsi
di foco intaminato e puro.
Vive quel foco
ancor, vive l'affetto,
Spira nel
pensier mio la bella imago,
Da
cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non
ebbi, e sol di lei m'appago.
D'in su la
vetta della torre antica,
Passero
solitario, alla campagna
Cantando vai
finché non more il giorno;
Ed erra
l'armonia per questa valle.
Primavera
dintorno
Brilla nell'aria,
e per li campi esulta,
Sì ch'a
mirarla intenerisce il core.
Odi greggi
belar, muggire armenti;
Gli altri
augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero
ciel fan mille giri,
Pur
festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in
disparte il tutto miri;
Non compagni,
non voli,
Non ti cal
d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e
così trapassi
Dell'anno
e di tua vita il più bel fiore.
Oimè,
quanto somiglia
Al tuo costume
il mio! Sollazzo e riso,
Della novella
età dolce famiglia,
E te german di
giovinezza, amore,
Sospiro acerbo
de' provetti giorni,
Non curo, io
non so come; anzi da loro
Quasi fuggo
lontano;
Quasi romito, e
strano
Al mio loco
natio,
Passo del viver
mio la primavera.
Questo giorno
ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si
costuma al nostro borgo.
Odi per lo
sereno un suon di squilla,
Odi spesso un
tonar di ferree canne,
Che rimbomba
lontan di villa in villa.
Tutta vestita a
festa
La
gioventù del loco
Lascia le case,
e per le vie si spande;
E mira ed
è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in
questa
Rimota parte
alla campagna uscendo,
Ogni diletto e
gioco
Indugio in
altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria
aprica
Mi fere il Sol
che tra lontani monti,
Dopo il giorno
sereno,
Cadendo si
dilegua, e par che dica
Che
la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo
augellin, venuto a sera
Del viver che
daranno a te le stelle,
Certo del tuo
costume
Non ti dorrai;
che di natura è frutto
Ogni vostra
vaghezza.
A me, se di
vecchiezza
La detestata
soglia
Evitar non
impetro,
Quando muti
questi occhi all'altrui core,
E lor fia
vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì
presente più noioso e tetro,
Che
parrà di tal voglia?
Che di
quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi,
e spesso,
Ma sconsolato,
volgerommi indietro.
Sempre caro mi
fu quest'ermo colle,
E questa siepe,
che da tanta parte
Dell'ultimo
orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e
mirando, interminati
Spazi di
là da quella, e sovrumani
Silenzi, e
profondissima quiete
Io nel pensier
mi fingo; ove per poco
Il cor non si
spaura. E come il vento
Odo stormir tra
queste piante, io quello
Infinito
silenzio a questa voce
Vo comparando:
e mi sovvien l'eterno,
E le morte
stagioni, e la presente
E viva, e il
suon di lei. Così tra questa
Immensità
s'annega il pensier mio:
E il naufragar
m'è dolce in questo mare.
Dolce e chiara
è la notte e senza vento,
E queta sovra i
tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e
di lontan rivela
Serena ogni
montagna. O donna mia,
Già tace
ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la
notturna lampa:
Tu dormi, che
t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete
stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e
già non sai né pensi
Quanta piaga
m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io
questo ciel, che sì benigno
Appare in
vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica
natura onnipossente,
Che mi fece
all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse,
anche la speme; e d'altro
Non brillin gli
occhi tuoi se non di pianto.
Questo
dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo;
e forse ti rimembra
In sogno a
quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te:
non io, non già ch'io speri,
Al pensier ti
ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver
mi resti, e qui per terra
Mi getto, e
grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così
verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge
il solitario canto
Dell'artigian,
che riede a tarda notte,
Dopo i
sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi
si stringe il core,
A pensar come
tutto al mondo passa,
E quasi orma
non lascia. Ecco è fuggito
Il dì
festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede,
e se ne porta il tempo
Ogni umano
accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli
antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi
famosi, e il grande impero
Di quella Roma,
e l'armi, e il fragorio
Che
n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è
pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e
più di lor non si ragiona.
Nella mia prima
età, quando s'aspetta
Bramosamente il
dì festivo, or poscia
Ch'egli era
spento, io doloroso, in veglia,
Premea le
piume; ed alla tarda notte
Un canto che
s'udia per li sentieri
Lontanando
morire a poco a poco,
Già
similmente mi stringeva il core.
O graziosa
luna, io mi rammento
Che, or volge
l'anno, sovra questo colle
Io venia pien
d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi
allor su quella selva
Siccome or fai,
che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e
tremulo dal pianto
Che mi sorgea
sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto
apparia, che travagliosa
Era mia vita:
ed è, né cangia stile,
O mia diletta
luna. E pur mi giova
La ricordanza,
e il noverar l'etate
Del mio dolore.
Oh come grato occorre
Nel tempo
giovanil, quando ancor lungo
La speme e
breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar
delle passate cose,
Ancor che
triste, e che l'affanno duri!
Era il mattino,
e tra le chiuse imposte
Per lo balcone
insinuava il sole
Nella mia cieca
stanza il primo albore;
Quando in sul
tempo che più leve il sonno
E più
soave le pupille adombra,
Stettemi allato
e riguardommi in viso
Il simulacro di
colei che amore
Prima
insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi
parea, ma trista, e quale
Degl'infelici
è la sembianza. Al capo
Appressommi la
destra, e sospirando,
Vivi, mi disse,
e ricordanza alcuna
Serbi di noi?
Donde, risposi, e come
Vieni, o cara
beltà? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse
e duol: né mi credea
Che risaper tu
lo dovessi; e questo
Facea
più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per
lasciarmi un'altra volta?
Io n'ho gran
tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
Sei tu quella
di prima? E che ti strugge
Internamente?
Obblivione ingombra
I tuoi
pensieri, e gli avviluppa il sonno,
Disse colei.
Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta,
or son più lune. Immensa
Doglia
m'oppresse a queste voci il petto.
Ella
seguì: nel fior degli anni estinta,
Quand'è
il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda
com'è tutta indarno
L'umana speme.
A desiar colei
Che d'ogni
affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortal;
ma sconsolata arriva
La morte ai
giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme
che sotterra è spenta.
Vano è
saper quel che natura asconde
Agl'inesperti
della vita, e molto
All'immatura
sapienza il cieco
Dolor prevale.
Oh sfortunata, oh cara,
Taci, taci,
diss'io, che tu mi schianti
Con questi
detti il cor. Dunque sei morta,
O mia diletta,
ed io son vivo, ed era
Pur fisso in
ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e
tenerella salma
Provar dovesse,
a me restasse intera
Questa misera
spoglia? Oh quante volte
In ripensar che
più non vivi, e mai
Non
avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
Creder nol
posso. Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte
s'addimanda? Oggi per prova
Intenderlo
potessi, e il capo inerme
Agli atroci del
fato odii sottrarre.
Giovane son, ma
si consuma e perde
La giovanezza
mia come vecchiezza;
La qual
pavento, e pur m'è lunge assai.
Ma poco da
vecchiezza si discorda
Il fior
dell'età mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue;
felicità non rise
Al viver
nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri
affanni. Or se di pianto il ciglio,
Soggiunsi, e di
pallor velato il viso
Per la tua
dipartita, e se d'angoscia
Porto gravido
il cor; dimmi: d'amore
Favilla alcuna,
o di pietà, giammai
Verso il misero
amante il cor t'assalse
Mentre vivesti?
Io disperando allora
E sperando
traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano
dubitar si stanca
La mente mia.
Che se una volta sola
Dolor ti
strinse di mia negra vita,
Non mel celar,
ti prego, e mi soccorra
La rimembranza
or che il futuro è tolto
Ai nostri
giorni. E quella: ti conforta,
O sventurato.
Io di pietade avara
Non ti fui
mentre vissi, ed or non sono,
Che fui misera
anch'io. Non far querela
Di questa
infelicissima fanciulla.
Per le sventure
nostre, e per l'amore
Che mi strugge,
esclamai; per lo diletto
Nome di
giovanezza e la perduta
Speme dei
nostri dì, concedi, o cara,
Che la tua
destra io tocchi. Ed ella, in atto
Soave e tristo,
la porgeva. Or mentre
Di baci la
ricopro, e d'affannosa
Dolcezza
palpitando all'anelante
Seno la
stringo, di sudore il volto
Ferveva e il
petto, nelle fauci stava
La voce, al
guardo traballava il giorno.
Quando colei
teneramente affissi
Gli occhi negli
occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di
beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o
sfortunato, indarno
Ti scaldi e
fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere
menti e nostre salme
Son disgiunte
in eterno. A me non vivi
E mai
più non vivrai: già ruppe il fato
La fe che mi
giurasti. Allor d'angoscia
Gridar volendo,
e spasimando, e pregne
Di sconsolato
pianto le pupille,
Dal sonno mi
disciolsi. Ella negli occhi
Pur mi restava,
e nell'incerto raggio
Del Sol vederla
io mi credeva ancora.
La mattutina
pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta
nella chiusa stanza
La gallinella,
ed al balcon s'affaccia
L'abitator de'
campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli
rai fra le cadenti
Stille saetta,
alla capanna mia
Dolcemente
picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i
lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli
susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti
piagge benedico:
Poiché voi,
cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi
assai, là dove segue
Odio al dolor
compagno; e doloroso
Io vivo, e tal
morrò, deh tosto! Alcuna
Benché scarsa
pietà pur mi dimostra
Natura in
questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me
più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo
sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e
gli affanni, alla reina
Felicità
servi, o natura. In cielo,
In terra amico
agl'infelici alcuno
E
rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido
in solitaria parte,
Sovra un
rialto, al margine d'un lago
Di taciturne
piante incoronato.
Ivi, quando il
meriggio in ciel si volve,
La sua
tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o
foglia non si crolla al vento,
E non onda
incresparsi, e non cicala
Strider, né
batter penna augello in ramo,
Né farfalla
ronzar, né voce o moto
Da presso né da
lunge odi né vedi.
Tien quelle
rive altissima quiete;
Ond'io quasi me
stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto;
e già mi par che sciolte
Giaccian le
membra mie, né spirto o senso
Più le
commova, e lor quiete antica
Co'
silenzi del loco si confonda.
Amore, amore,
assai lungi volasti
Dal petto mio,
che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente.
Con sua fredda mano
Lo strinse la
sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli
anni. Mi sovvien del tempo
Che mi
scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil
tempo, allor che s'apre
Al guardo
giovanil questa infelice
Scena del
mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al
garzoncello il core
Di vergine
speranza e di desio
Balza nel
petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita
come a danza o gioco
Il misero
mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te
m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea
già rotto, ed a questi occhi
Non altro
convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta
per le piagge apriche,
Su la tacita
aurora o quando al sole
Brillano i
tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga
donzelletta il viso;
O qualor nella
placida quiete
D'estiva notte,
il vagabondo passo
Di rincontro
alle ville soffermando,
L'erma terra
contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di
sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle
romite stanze
L'arguto canto;
a palpitar si move
Questo mio cor
di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo
sopor; ch'è fatto estrano
Ogni
moto soave al petto mio.
O cara luna, al
cui tranquillo raggio
Danzan le lepri
nelle selve; e duolsi
Alla mattina il
cacciator, che trova
L'orme
intricate e false, e dai covili
Error vario lo
svia; salve, o benigna
Delle notti
reina. Infesto scende
Il raggio tuo
fra macchie e balze o dentro
A deserti
edifici, in su l'acciaro
Del pallido
ladron ch'a teso orecchio
Il fragor delle
rote e de' cavalli
Da lungi
osserva o il calpestio de' piedi
Su la tacita
via; poscia improvviso
Col suon
dell'armi e con la rauca voce
E col funereo
ceffo il core agghiaccia
Al passegger,
cui semivivo e nudo
Lascia in breve
tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade
cittadine il bianco
Tuo lume al
drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le
mura e la secreta
Ombra seguendo,
e resta, e si spaura
Delle ardenti
lucerne e degli aperti
Balconi.
Infesto alle malvage menti,
A me sempre
benigno il tuo cospetto
Sarà per
queste piagge, ove non altro
Che lieti colli
e spaziosi campi
M'apri alla
vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente
io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar
negli abitati lochi,
Quand'ei
m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani
aspetti al guardo mio.
Or sempre
loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra
le nubi, o che serena
Dominatrice
dell'etereo campo,
Questa flebil
riguardi umana sede.
Me spesso
rivedrai solingo e muto
Errar pe'
boschi e per le verdi rive,
O seder sovra
l'erbe, assai contento
Se core e lena
a sospirar m'avanza.
Presso alla fin
di sua dimora in terra,
Giacea
Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo
destino; or già non più, che a mezzo
Il quinto
lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato
obblio. Qual da gran tempo,
Così giacea
nel funeral suo giorno
Dai più
diletti amici abbandonato:
Ch'amico in
terra al lungo andar nessuno
Resta a colui
che della terra è schivo.
Pur gli era al
fianco, da pietà condotta
A consolare il
suo deserto stato,
Quella che sola
e sempre eragli a mente,
Per divina
beltà famosa Elvira;
Conscia del suo
poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un
detto d'alcun dolce asperso,
Ben mille volte
ripetuto e mille
Nel costante
pensier, sostegno e cibo
Esser solea
dell'infelice amante:
Benché nulla
d'amor parola udita
Avess'ella da
lui. Sempre in quell'alma
Era del gran
desio stato più forte
Un sovrano
timor. Così l'avea
Fatto
schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin
la morte il nodo antico
Alla sua
lingua. Poiché certi i segni
Sentendo di
quel dì che l'uom discioglie,
Lei, già
mossa a partir, presa per mano,
E quella man
bianchissinia stringendo,
Disse: tu
parti, e l'ora omai ti sforza:
Elvira, addio.
Non ti vedrò, ch'io creda,
Un'altra volta.
Or dunque addio. Ti rendo
Qual maggior
grazia mai delle tue cure
Dar possa il
labbro mio. Premio daratti
Chi può,
se premio ai pii dal ciel si rende.
Impallidia la
bella, e il petto anelo
Udendo le si
fea: che sempre stringe
All'uomo il cor
dogliosamente, ancora
Ch'estranio
sia, chi si diparte e dice,
Addio per
sempre. E contraddir voleva,
Dissimulando
l'appressar del fato,
Al moribondo.
Ma il suo dir prevenne
Quegli, e
soggiunse: desiata, e molto,
Come sai,
ripregata a me discende,
Non temuta, la
morte; e lieto apparmi
Questo feral
mio dì. Pesami, è vero,
Che te perdo
per sempre. Oimè per sempre
Parto da te. Mi
si divide il core
In questo dir.
Più non vedrò quegli occhi,
Né la tua voce
udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in
eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu
donarmi? un bacio solo
In tutto il
viver mio? Grazia ch'ei chiegga
Non si nega a
chi muor. Né già vantarmi
Potrò
del dono, io semispento, a cui
Straniera man
le labbra oggi fra poco
Eternamente
chiuderà. Ciò detto
Con un sospiro,
all'adorata destra
Le
fredde labbra supplicando affisse.
Stette sospesa
e pensierosa in atto
La bellissima
donna; e fiso il guardo,
Di mille vezzi
sfavillante, in quello
Tenea
dell'infelice, ove l'estrema
Lacrima
rilucea. Né dielle il core
Di sprezzar la
dimanda, e il mesto addio
Rinacerbir col
niego; anzi la vinse
Misericordia
dei ben noti ardori.
E quel volto
celeste, e quella bocca,
Già
tanto desiata, e per molt'anni
Argomento di
sogno e di sospiro,
Dolcemente
appressando al volto afflitto
E scolorato dal
mortale affanno,
Più baci
e più, tutta benigna e in vista
D'alta
pietà, su le convulse labbra
Del
trepido, rapito amante impresse.
Che divenisti
allor? quali appariro
Vita, morte,
sventura agli occhi tuoi,
Fuggitivo
Consalvo? Egli la mano,
Ch'ancor tenea,
della diletta Elvira
Postasi al cor,
che gli ultimi battea
Palpiti della
morte e dell'amore,
Oh, disse,
Elvira, Elvira mia! ben sono
In su la terra
ancor; ben quelle labbra
Fur le tue
labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision
d'estinto, o sogno, o cosa
Incredibil mi
par. Deh quanto, Elvira,
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
Non ti fu
l'amor mio per alcun tempo;
Non a te, non
altrui; che non si cela
Vero amore alla
terra. Assai palese
Agli atti, al
volto sbigottito, agli occhi,
Ti fu: ma non
ai detti. Ancora e sempre
Muto sarebbe
l'infinito affetto
Che governa il
cor mio, se non l'avesse
Fatto ardito il
morir. Morrò contento
Del mio destino
omai, né più mi dolgo
Ch'aprii le
luci al dì. Non vissi indarno,
Poscia che
quella bocca alla mia bocca
Premer fu dato.
Anzi felice estimo
La sorte mia.
Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte.
All'una il ciel mi guida
In sul fior
dell'età; nell'altro, assai
Fortunato mi
tengo. Ah, se una volta,
Solo una volta
il lungo amor quieto
E pago avessi
tu, fora la terra
Fatta quindi
per sempre un paradiso
Ai cangiati
occhi miei. Fin la vecchiezza,
L'abborrita
vecchiezza, avrei sofferto
Con riposato
cor: che a sostentarla
Bastato sempre
il rimembrar sarebbe
d'un solo
istante, e il dir: felice io fui
Sovra tutti i
felici. Ahi, ma cotanto
Esser beato non
consente il cielo
A natura
terrena. Amar tant'oltre
Non è
dato con gioia. E ben per patto
In poter del
carnefice ai flagelli,
Alle ruote,
alle faci ito volando
Sarei dalle tue
braccia; e ben disceso
Nel
paventato sempiterno scempio.
O Elvira,
Elvira, oh lui felice, oh sovra
Gl'immortali
beato, a cui tu schiuda
Il sorriso
d'amor! felice appresso
Chi per te
sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al
mortal, non è già sogno
Come stimai
gran tempo, ahi lice in terra
Provar
felicità. Ciò seppi il giorno
Che fiso io ti
mirai. Ben per mia morte
Questo
m'accadde. E non però quel giorno
Con certo cor
giammai, fra tante ambasce,
Quel
fiero giorno biasimar sostenni.
Or tu vivi
beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col
tuo sembiante. Alcuno
Non l'amerà
quant'io l'amai. Non nasce
Un altrettale
amor. Quanto, deh quanto
Dal misero
Consalvo in sì gran tempo
Chiamata fosti,
e lamentata, e pianta!
Come al nome
d'Elvira, in cor gelando,
Impallidir;
come tremar son uso
All'amaro
calcar della tua soglia,
A quella voce
angelica, all'aspetto
Di quella
fronte, io ch'al morir non tremo!
Ma la lena e la
vita or vengon meno
Agli accenti
d'amor. Passato è il tempo,
Né questo di
rimemorar m'è dato.
Elvira, addio.
Con la vital favilla
La tua diletta
immagine si parte
Dal mio cor
finalmente. Addio. Se grave
Non ti fu
quest'affetto, al mio feretro
Dimani
all'annottar manda un sospiro.
Tacque: né
molto andò, che a lui col suono
Mancò lo
spirto; e innanzi sera il primo
Suo dì
felice gli fuggia dal guardo.
Cara
beltà che amore
Lunge m'inspiri
o nascondendo il viso,
Fuor se nel
sonno il core
Ombra diva mi
scuoti,
O ne' campi ove
splenda
Più vago
il giorno e di natura il riso;
Forse tu
l'innocente
Secol beasti
che dall'oro ha nome,
Or leve intra
la gente
Anima voli? o
te la sorte avara
Ch'a
noi t'asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti
omai
Nulla spene
m'avanza;
S'allor non
fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle
a peregrina stanza
Verrà lo
spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia
giornata incerta e bruna,
Te viatrice in
questo arido suolo
Io mi pensai.
Ma non è cosa in terra
Che ti somigli;
e s'anco pari alcuna
Ti fosse al
volto, agli atti, alla favella,
Saria,
così conforme, assai men bella.
Fra cotanto
dolore
Quanto
all'umana età propose il fato,
Se vera e quale
il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse
in terra, a lui pur fora
Questo viver
beato:
E ben chiaro
vegg'io siccome ancora
Seguir loda e
virtù qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi
farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo
conforto ai nostri affanni;
E teco la
mortal vita saria
Simile
a quella che nel cielo india.
Per le valli,
ove suona
Del faticoso
agricoltore il canto,
Ed io seggo e
mi lagno
Del giovanile
error che m'abbandona;
E per li poggi,
ov'io rimembro e piagno
I perduti
desiri, e la perduta
Speme de'
giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi
sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro
e in questo aer nefando,
L'alta specie
serbar; che dell'imago,
Poi
che del ver m'è tolto, assai m'appago.
Se dell'eterne
idee
L'una sei tu,
cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno
senno esser vestita,
E fra caduche
spoglie
Provar gli
affanni di funerea vita;
O s'altra terra
ne' supremi giri
Fra' mondi
innumerabili t'accoglie,
E più
vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e
più benigno etere spiri;
Di qua dove son
gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto
amante inno ricevi.
Questo
affannoso e travagliato sonno
Che noi vita
nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di
che speranze il core
Vai
sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o
moleste opre dispensi
L'ozio che ti
lasciàr gli avi remoti,
Grave retaggio
e faticoso? È tutta,
In ogni umano
stato, ozio la vita,
Se quell'oprar,
quel procurar che a degno
Obbietto non
intende, o che all'intento
Giunger mai non
potria, ben si conviene
Ozioso nomar.
La schiera industre
Cui franger
glebe o curar piante e greggi
Vede l'alba
tranquilla e vede il vespro,
Se oziosa
dirai, da che sua vita
È per
campar la vita, e per sé sola
La vita all'uom
non ha pregio nessuno,
Dritto e vero
dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio
il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle
officine, ozio le vegghie
Son de'
guerrieri e il perigliar nell'armi;
E il mercatante
avaro in ozio vive:
Che non a sé,
non ad altrui, la bella
Felicità,
cui solo agogna e cerca
La natura
mortal, veruno acquista
Per cura o per
sudor, vegghia o periglio.
Pure all'aspro
desire onde i mortali
Già
sempre infin dal dì che il mondo nacque
D'esser beati
sospiraro indarno,
Di medicina in
loco apparecchiate
Nella vita
infelice avea natura
Necessità
diverse, a cui non senza
Opra e pensier
si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto
non può, corresse il giorno
All'umana
famiglia; onde agitato
E confuso il
desio, men loco avesse
Al travagliarne
il cor. Così de' bruti
La progenie
infinita, a cui pur solo,
Né men vano che
a noi, vive nel petto
Desio d'esser
beati; a quello intenta
Che a lor vita
è mestier, di noi men tristo
Condur si
scopre e men gravoso il tempo,
Né la lentezza
accagionar dell'ore.
Ma noi, che il
viver nostro all'altrui mano
Provveder
commettiamo, una più grave
Necessità,
cui provveder non puote
Altri che noi,
già senza tedio e pena
Non adempiam:
necessitate, io dico,
Di consumar la
vita: improba, invitta
Necessità,
cui non tesoro accolto,
Non di greggi
dovizia, o pingui campi,
Non aula puote
e non purpureo manto
Sottrar l'umana
prole. Or s'altri, a sdegno
I vòti
anni prendendo, e la superna
Luce odiando,
l'omicida mano,
I tardi fati a
prevenir condotto,
In se stesso
non torce; al duro morso
Della brama
insanabile che invano
Felicità
richiede, esso da tutti
Lati cercando,
mille inefficaci
Medicine
procaccia, onde quell'una
Cui
natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti
e delle chiome il culto
E degli atti e
dei passi, e i vani studi
Di cocchi e di
cavalli, e le frequenti
Sale, e le
piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e
cene e invidiate danze
Tengon la notte
e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si
parte il riso; ahi, ma nel petto,
Nell'imo petto,
grave, salda, immota
Come colonna
adamantina, siede
Noia immortale,
incontro a cui non puote
Vigor di
giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di
rosato labbro,
E non lo
sguardo tenero, tremante,
Di due nere
pupille, il caro sguardo,
La
più degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a
fuggir volto la trista
Umana sorte, in
cangiar terre e climi
L'età
spendendo, e mari e poggi errando
Tutto l'orbe
trascorre, ogni confine
Degli spazi che
all'uom negl'infiniti
Campi del tutto
la natura aperse,
Peregrinando
aggiunge. Ahi ahi, s'asside
Su l'alte prue
la negra cura, e sotto
Ogni clima,
ogni ciel, si chiama indarno
Felicità,
vive tristezza e regna.
Havvi chi le
crudeli opre di marte
Si elegge a
passar l'ore, e nel fraterno
Sangue la man
tinge per ozio; ed havvi
Chi d'altrui
danni si conforta, e pensa
Con far misero
altrui far sé men tristo,
Sì che
nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o
sapienza ed arti
Perseguitando;
e chi la propria gente
Conculcando e
l'estrane, o di remoti
Lidi turbando
la quiete antica
Col mercatar,
con l'armi, e con le frodi,
La
destinata sua vita consuma.
Te più
mite desio, cura più dolce
Regge nel fior
di gioventù, nel bello
April degli
anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel,
ma grave, amaro, infesto
A chi patria
non ha. Te punge e move
Studio de'
carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro
e scarso e fuggitivo
Appar nel
mondo, e quel che più benigna
Di natura e del
ciel, fecondamente
A noi la vaga
fantasia produce
E il nostro
proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui
che la caduca
Virtù
del caro immaginar non perde
Per volger
d'anni; a cui serbare eterna
La
gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma
e nella stanca etade,
Così
come solea nell'età verde,
In suo chiuso
pensier natura abbella,
Morte, deserto
avviva. A te conceda
Tanta ventura
il ciel; ti faccia un tempo
La favilla che
il petto oggi ti scalda,
Di poesia
canuto amante. Io tutti
Della prima
stagione i dolci inganni
Mancar
già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose
immagini, che tanto
Amai, che
sempre infino all'ora estrema
Mi fieno, a
ricordar, bramate e piante.
Or quando al
tutto irrigidito e freddo
Questo petto
sarà, né degli aprichi
Campi il sereno
e solitario riso,
Né degli
augelli mattutini il canto
Di primavera,
né per colli e piagge
Sotto limpido
ciel tacita luna
Commoverammi il
cor; quando mi fia
Ogni beltate o
di natura o d'arte,
Fatta inanime e
muta; ogni alto senso,
Ogni tenero
affetto, ignoto e strano;
Del mio solo
conforto allor mendico,
Altri studi men
dolci, in ch'io riponga
L'ingrato
avanzo della ferrea vita,
Eleggerò.
L'acerbo vero, i ciechi
Destini
investigar delle mortali
E dell'eterne
cose; a che prodotta,
A che d'affanni
e di miserie carca
L'umana stirpe;
a quale ultimo intento
Lei spinga il
fato e la natura; a cui
Tanto nostro
dolor diletti o giovi:
Con quali
ordini e leggi a che si volva
Questo arcano
universo; il qual di lode
Colmano
i saggi, io d'ammirar son pago.
In questo
specolar gli ozi traendo
Verrò:
che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti
il vero. E se del vero
Ragionando
talor, fieno alle genti
O mal grati i
miei detti o non intesi,
Non mi
dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria
antico in me fia spento:
Vana Diva non
pur, ma di fortuna
E del fato e
d'amor, Diva più cieca.
Credei ch'al tutto fossero
In me, sul fior
degli anni,
Mancati i dolci
affanni
Della mia prima
età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor
profondo,
Qualunque cosa
al mondo
Grato
il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo
stato,
Quando al mio
cor gelato
Prima il dolor
mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L'amor mi venne
meno,
E irrigidito il
seno
Di
sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la
vita
La terra
inaridita,
Chiusa in
eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte
più sola e bruna;
Spenta per me
la luna,
Spente
le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine
Era l'antico
affetto:
Nell'intimo del
petto
Ancor viveva il
cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca
fantasia;
E la tristezza
mia
Era
dolore ancor.
Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu
spento,
E di più
far lamento
Valor non mi
restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai
conforto:
Quasi perduto e
morto,
Il
cor s'abbandonò.
Qual fui! quanto dissimile
Da quel che
tanto ardore,
Che sì
beato errore
Nutrii
nell'alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre
intorno
Cantando al
novo giorno,
Il
cor non mi ferì:
Non all'autunno pallido
In solitaria
villa,
La vespertina
squilla,
Il fuggitivo
Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto
calle,
Invan
sonò la valle
Del
flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
Sguardi
furtivi, erranti,
Voi de' gentili
amanti
Primo,
immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda
mano,
Foste voi pure
invano
Al
duro mio sopor.
D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non
turbato,
Ma placido il
mio stato,
Il volto era
seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver
mio;
Ma spento era
il desio
Nello
spossato sen.
Qual dell'età decrepita
L'avanzo ignudo
e vile,
Io conducea
l'aprile
Degli anni miei
così:
Così quegl'ineffabili
Giorni, o mio
cor, traevi,
Che sì
fugaci e brevi
Il
cielo a noi sortì.
Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi
ridesta?
Che
virtù nova è questa,
Questa che
sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error
beato,
Per sempre a
voi negato
Questo
mio cor non è?
Siete pur voi quell'unica
Luce de' giorni
miei?
Gli affetti
ch'io perdei
Nella novella
età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il
guardo mira,
Tutto un dolor
mi spira,
Tutto
un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il
bosco, il monte;
Parla al mio
core il fonte,
Meco favella il
mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto
obblio?
E come al
guardo mio
Cangiato
il mondo appar?
Forse la speme, o povero
Mio cor, ti
volse un riso?
Ahi della speme
il viso
Io non
vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i
dolci inganni.
Sopiro in me
gli affanni
L'ingenita
virtù;
Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la
sventura;
Non con la
vista impura
L'infausta
verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella
discorda:
So che natura
è sorda,
Che
miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma
dell'esser solo:
Purché ci serbi
al duolo,
Or d'altro a
lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non
trova;
Che lui,
fuggendo, a prova
Schernisce
ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le
virtudi;
Che manca ai
degni studi
L'ignuda gloria
ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio
sovrumano,
So che
splendete invano,
Che
in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi
non brilla:
Non chiude una
favilla
Quel bianco
petto in sé.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre
in gioco;
E d'un celeste
foco
Disprezzo
è la mercè.
Pur sento in me rivivere
Gl'inganni
aperti e noti;
E, de' suoi
proprii moti
Si maraviglia
il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e
l'ardor natio,
Ogni conforto
mio
Solo
da te mi vien.
Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e
pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la
beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi
al fato,
Non
chiamerò spietato
Chi lo spirar
mi dà.
Silvia,
rimembri ancora
Quel tempo
della tua vita mortale,
Quando
beltà splendea
Negli occhi
tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e
pensosa, il limitare
Di
gioventù salivi?
Sonavan le
quiete
Stanze, e le
vie dintorno,
Al tuo perpetuo
canto,
Allor che
all'opre femminili intenta
Sedevi, assai
contenta
Di quel vago
avvenir che in mente avevi.
Era il maggio
odoroso: e tu solevi
Così
menare il giorno.
Io gli studi
leggiadri
Talor lasciando
e le sudate carte,
Ove il tempo
mio primo
E di me si
spendea la miglior parte,
D'in su i
veroni del paterno ostello
Porgea gli
orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man
veloce
Che percorrea
la faticosa tela.
Mirava il ciel
sereno,
Le vie dorate e
gli orti,
E quinci il mar
da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal
non dice
Quel
ch'io sentiva in seno.
Che pensieri
soavi,
Che speranze,
che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci
apparia
La vita umana e
il fato!
Quando
sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi
preme
Acerbo e
sconsolato,
E tornami a
doler di mia sventura.
O natura, o
natura,
Perché non
rendi poi
Quel che
prometti allor? perché di tanto
Inganni
i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe
inaridisse il verno,
Da chiuso morbo
combattuta e vinta,
Perivi, o
tenerella. E non vedevi
Il fior degli
anni tuoi;
Non ti molceva
il core
La dolce lode
or delle negre chiome,
Or degli
sguardi innamorati e schivi;
Né teco le
compagne ai dì festivi
Ragionavan
d'amore.
Anche peria fra
poco
La speranza mia
dolce: agli anni miei
Anche negaro i
fati
La giovanezza.
Ahi come,
Come passata
sei,
Cara compagna
dell'età mia nova,
Mia lacrimata
speme!
Questo è
quel mondo? questi
I diletti,
l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto
ragionammo insieme?
Questa la sorte
dell'umane genti?
All'apparir del
vero
Tu, misera,
cadesti: e con la mano
La fredda morte
ed una tomba ignuda
Mostravi di
lontano.
Vaghe stelle
dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor
per uso a contemplarvi
Sul paterno
giardino scintillanti,
E ragionar con
voi dalle finestre
Di questo
albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie
mie vidi la fine.
Quante immagini
un tempo, e quante fole
Creommi nel
pensier l'aspetto vostro
E delle luci a
voi compagne! allora
Che, tacito,
seduto in verde zolla,
Delle sere io
solea passar gran parte
Mirando il
cielo, ed ascoltando il canto
Della rana
rimota alla campagna!
E la lucciola
errava appo le siepi
E in su
l'aiuole, susurrando al vento
I viali
odorati, ed i cipressi
Là nella
selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci
alterne, e le tranquille
Opre de' servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni
mi spirò la vista
Di quel lontano
mar, quei monti azzurri,
Che di qua
scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava,
arcani mondi, arcana
Felicità
fingendo al viver mio!
Ignaro del mio
fato, e quante volte
Questa mia vita
dolorosa e nuda
Volentier
con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il
cor che l'età verde
Sarei dannato a
consumare in questo
Natio borgo
selvaggio, intra una gente
Zotica, vil;
cui nomi strani, e spesso
Argomento di
riso e di trastullo,
Son dottrina e
saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non
già, che non mi tiene
Maggior di sé,
ma perché tale estima
Ch'io mi tenga
in cor mio, sebben di fuori
A persona
giammai non ne fo segno.
Qui passo gli
anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor,
senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol
de' malevoli divengo:
Qui di
pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli
uomini mi rendo,
Per la greggia
ch'ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo
giovanil; più caro
Che la fama e
l'allor, più che la pura
Luce del
giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un
diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno
disumano, intra gli affanni,
O
dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento
recando il suon dell'ora
Dalla torre del
borgo. Era conforto
Questo suon, mi
rimembra, alle mie notti,
Quando
fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui
terrori io vigilava,
Sospirando il
mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o
senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un
dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé;
ma con dolor sottentra
Il pensier del
presente, un van desio
Del passato,
ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia
colà, volta agli estremi
Raggi del
dì; queste dipinte mura,
Quei figurati
armenti, e il Sol che nasce
Su romita
campagna, agli ozi miei
Porser mille
diletti allor che al fianco
M'era,
parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io
fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror
delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre
sibilando il vento,
Rimbombaro i
sollazzi e le festose
Mie voci al
tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle
cose a noi si mostra
Pien di
dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel,
come inesperto amante,
La sua vita
ingannevole vagheggia,
E
celeste beltà fingendo ammira.
O speranze,
speranze; ameni inganni
Della mia prima
età! sempre, parlando,
Ritorno a voi;
che per andar di tempo,
Per variar
d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non
so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e
l'onor; diletti e beni
Mero desio; non
ha la vita un frutto,
Inutile
miseria. E sebben vòti
Son gli anni
miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato
mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben
veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso,
o mie speranze antiche,
Ed a quel caro
immaginar mio primo;
Indi riguardo
il viver mio sì vile
E sì
dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta
speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi
il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non
so del mio destino.
E quando pur
questa invocata morte
Sarammi allato,
e sarà giunto il fine
Della sventura
mia; quando la terra
Mi fia
straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà
l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi;
e quell'imago ancora
Sospirar mi
farà, farammi acerbo
L'esser vissuto
indarno, e la dolcezza
Del
dì fatal tempererà d'affanno.
E già
nel primo giovanil tumulto
Di contenti,
d'angosce e di desio,
Morte chiamai
più volte, e lungamente
Mi sedetti
colà su la fontana
Pensoso di
cessar dentro quell'acque
La speme e il
dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto
della vita in forse,
Piansi la bella
giovanezza, e il fiore
De' miei poveri
dì, che sì per tempo
Cadeva: e
spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio
letto, dolorosamente
Alla fioca
lucerna poetando,
Lamentai co'
silenzi e con la notte
Il fuggitivo
spirto, ed a me stesso
In
sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar
vi può senza sospiri,
O primo entrar
di giovinezza, o giorni
Vezzosi,
inenarrabili, allor quando
Al rapito
mortal primieramente
Sorridon le donzelle;
a gara intorno
Ogni cosa
sorride; invidia tace,
Non desta
ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata
maraviglia!) il mondo
La destra
soccorrevole gli porge,
Scusa gli
errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella
vita, ed inchinando
Mostra che per
signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni!
a somigliar d'un lampo
Son dileguati.
E qual mortale ignaro
Di sventura
esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga
stagion, se il suo buon tempo,
Se
giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! e di
te forse non odo
Questi luoghi
parlar? caduta forse
Dal mio pensier
sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di
te la ricordanza
Trovo, dolcezza
mia? Più non ti vede
Questa Terra
natal: quella finestra,
Ond'eri usata
favellarmi, ed onde
Mesto riluce
delle stelle il raggio,
È
deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce
sonar, siccome un giorno,
Quando soleva
ogni lontano accento
Del labbro tuo,
ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi?
Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce
amor. Passasti. Ad altri
Il passar per
la terra oggi è sortito,
E l'abitar
questi odorati colli.
Ma rapida
passasti; e come un sogno
Fu la tua vita.
Iva danzando; in fronte
La gioia ti
splendea, splendea negli occhi
Quel confidente
immaginar, quel lume
Di
gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi
Nerina! In cor mi regna
L'antico amor.
Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze
io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina,
a radunanze, a feste
Tu non ti
acconci più, tu più non movi.
Se torna
maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti
recando alle fanciulle,
Dico: Nerina
mia, per te non torna
Primavera
giammai, non torna amore.
Ogni giorno
sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io
miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or
più non gode; i campi,
L'aria non
mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio:
passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago
immaginar, di tutti
I miei teneri
sensi, i tristi e cari
Moti del cor,
la rimembranza acerba.
Che fai tu,
luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa
luna?
Sorgi la sera,
e vai,
Contemplando i
deserti; indi ti posi.
Ancor non sei
tu paga
Di riandare i
sempiterni calli?
Ancor non
prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste
valli?
Somiglia alla
tua vita
La vita del
pastore.
Sorge in sul
primo albore;
Move la greggia
oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane
ed erbe;
Poi stanco si
riposa in su la sera:
Altro mai non
ispera.
Dimmi, o luna:
a che vale
Al pastor la
sua vita,
La vostra vita
a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar
mio breve,
Il
tuo corso immortale?
Vecchierel
bianco, infermo,
Mezzo vestito e
scalzo,
Con gravissimo
fascio in su le spalle,
Per montagna e
per valle,
Per sassi
acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla
tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando
poi gela,
Corre via,
corre, anela,
Varca torrenti
e stagni,
Cade, risorge,
e più e più s'affretta,
Senza posa o
ristoro,
Lacero,
sanguinoso; infin ch'arriva
Colà
dove la via
E dove il tanto
affaticar fu volto:
Abisso orrido,
immenso,
Ov'ei
precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna,
tale
È
la vita mortale.
Nasce l'uomo a
fatica,
Ed è
rischio di morte il nascimento.
Prova pena e
tormento
Per prima cosa;
e in sul principio stesso
La madre e il
genitore
Il prende a
consolar dell'esser nato.
Poi che
crescendo viene,
L'uno e l'altro
il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con
parole
Studiasi fargli
core,
E consolarlo
dell'umano stato:
Altro ufficio
più grato
Non si fa da
parenti alla lor prole.
Ma perché dare
al sole,
Perché reggere
in vita
Chi poi di
quella consolar convenga?
Se la vita
è sventura
Perché da noi
si dura?
Intatta luna,
tale
E` lo stato
mortale.
Ma tu mortal
non sei,
E
forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu,
solinga, eterna peregrina,
Che sì
pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver
terreno,
Il patir
nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo
morir, questo supremo
Scolorar del
sembiante,
E perir dalla
terra, e venir meno
Ad ogni usata,
amante compagnia.
E tu certo
comprendi
Il perché delle
cose, e vedi il frutto
Del mattin, della
sera,
Del tacito,
infinito andar del tempo.
Tu sai, tu
certo, a qual suo dolce amore
Rida la
primavera,
A chi giovi
l'ardore, e che procacci
Il verno co'
suoi ghiacci.
Mille cose sai
tu, mille discopri,
Che son celate
al semplice pastore.
Spesso quand'io
ti miro
Star
così muta in sul deserto piano,
Che, in suo
giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la
mia greggia
Seguirmi
viaggiando a mano a mano;
E quando miro
in cielo arder le stelle;
Dico fra me
pensando:
A che tante
facelle?
Che fa l'aria
infinita, e quel profondo
Infinito seren?
che vuol dir questa
Solitudine
immensa? ed io che sono?
Così
meco ragiono: e della stanza
Smisurata e
superba,
E
dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto
adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste,
ogni terrena cosa,
Girando senza
posa,
Per tornar
sempre là donde son mosse;
Uso alcuno,
alcun frutto
Indovinar non
so. Ma tu per certo,
Giovinetta
immortal, conosci il tutto.
Questo io
conosco e sento,
Che degli
eterni giri,
Che dell'esser
mio frale,
Qualche bene o
contento
Avrà
fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia
che posi, oh te beata,
Che la miseria
tua, credo, non sai!
Quanta invidia
ti porto!
Non sol perché
d'affanno
Quasi libera
vai;
Ch'ogni stento,
ogni danno,
Ogni estremo
timor subito scordi;
Ma più
perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi
all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e
contenta;
E gran parte
dell'anno
Senza noia
consumi in quello stato.
Ed io pur seggo
sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio
m'ingombra
La mente, ed
uno spron quasi mi punge
Sì che,
sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace
o loco.
E pur nulla non
bramo,
E non ho fino a
qui cagion di pianto.
Quel che tu
goda o quanto,
Non so
già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo
ancor poco,
O greggia mia,
né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar
sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché
giacendo
A bell'agio,
ozioso,
S'appaga ogni
animale;
Me,
s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse
s'avess'io l'ale
Da volar su le
nubi,
E noverar le
stelle ad una ad una,
O come il tuono
errar di giogo in giogo,
Più
felice sarei, dolce mia greggia,
Più
felice sarei, candida luna.
O forse erra
dal vero,
Mirando
all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual
forma, in quale
Stato che sia,
dentro covile o cuna,
È
funesto a chi nasce il dì natale.
Passata
è la tempesta:
Odo augelli far
festa, e la gallina,
Tornata in su
la via,
Che ripete il
suo verso. Ecco il sereno
Rompe là
da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la
campagna,
E chiaro nella
valle il fiume appare.
Ogni cor si
rallegra, in ogni lato
Risorge il
romorio
Torna il lavoro
usato.
L'artigiano a
mirar l'umido cielo,
Con l'opra in
man, cantando,
Fassi in su
l'uscio; a prova
Vien fuor la
femminetta a còr dell'acqua
Della novella
piova;
E l'erbaiuol
rinnova
Di sentiero in
sentiero
Il grido
giornaliero.
Ecco il Sol che
ritorna, ecco sorride
Per li poggi e
le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e
logge la famiglia:
E, dalla via
corrente, odi lontano
Tintinnio di
sonagli; il carro stride
Del
passeggier che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra
ogni core.
Sì
dolce, sì gradita
Quand'è,
com'or, la vita?
Quando con
tanto amore
L'uomo a' suoi
studi intende?
O torna
all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali
suoi men si ricorda?
Piacer figlio
d'affanno;
Gioia vana,
ch'è frutto
Del passato
timore, onde si scosse
E
paventò la morte
Chi la vita
abborria;
Onde in lungo
tormento,
Fredde, tacite,
smorte,
Sudàr le
genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle
nostre offese
Folgori,
nembi e vento.
O natura
cortese,
Son questi i
doni tuoi,
Questi i
diletti sono
Che tu porgi ai
mortali. Uscir di pena
È
diletto fra noi.
Pene tu spargi
a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge
e di piacer, quel tanto
Che per mostro
e miracolo talvolta
Nasce
d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli
eterni! assai felice
Se respirar ti
lice
D'alcun dolor:
beata
Se te d'ogni
dolor morte risana.
La donzelletta
vien dalla campagna,
In sul calar
del sole,
Col suo fascio
dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di
rose e di viole,
Onde, siccome
suole,
Ornare ella si
appresta
Dimani, al
dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le
vicine
Su la scala a
filar la vecchierella,
Incontro
là dove si perde il giorno;
E novellando
vien del suo buon tempo,
Quando ai
dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e
snella
Solea danzar la
sera intra di quei
Ch'ebbe
compagni dell'età più bella.
Già
tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro
il sereno, e tornan l'ombre
Giù da'
colli e da' tetti,
Al biancheggiar
della recente luna.
Or la squilla
dà segno
Della festa che
viene;
Ed a quel suon
diresti
Che il cor si
riconforta.
I fanciulli
gridando
Su la piazzuola
in frotta,
E qua e
là saltando,
Fanno un lieto
romore:
E intanto riede
alla sua parca mensa,
Fischiando, il
zappatore,
E
seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando
intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro
tace,
Odi il martel
picchiare, odi la sega
Del legnaiuol,
che veglia
Nella chiusa
bottega alla lucerna,
E s'affretta, e
s'adopra
Di
fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette
è il più gradito giorno,
Pien di speme e
di gioia:
Diman tristezza
e noia
Recheran l'ore,
ed al travaglio usato
Ciascuno
in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta
età fiorita
È come
un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro,
sereno,
Che precorre
alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo
mio; stato soave,
Stagion lieta
è cotesta.
Altro dirti non
vo'; ma la tua festa
Ch'anco tardi a
venir non ti sia grave.
Dolcissimo,
possente
Dominator di
mia profonda mente;
Terribile, ma
caro
Dono del ciel;
consorte
Ai
lùgubri miei giorni,
Pensier
che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura
arcana
Chi non
favella? il suo poter fra noi
Chi non
sentì? Pur sempre
Che in dir gli
effetti suoi
Le umane lingue
il sentir proprio sprona,
Par
novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
Come solinga
è fatta
La mente mia
d'allora
Che tu quivi
prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno
intorno al par del lampo
Gli altri
pensieri miei
Tutti si
dileguàr. Siccome torre
In solitario
campo,
Tu stai solo,
gigante, in mezzo a lei.
Che divenute son, fuor di te solo,
Tutte l'opre
terrene,
Tutta intera la
vita al guardo mio!
Che intollerabil
noia
Gli ozi, i
commerci usati,
E di vano
piacer la vana spene,
Allato a quella
gioia,
Gioia
celeste che da te mi viene!
Come da' nudi
sassi
Dello scabro
Apennino
A un campo
verde che lontan sorrida
Volge gli occhi
bramoso il pellegrino;
Tal io dal
secco ed aspro
Mondano
conversar vogliosamente,
Quasi in lieto
giardino, a te ritorno,
E
ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Quasi
incredibil parmi
Che la vita
infelice e il mondo sciocco
Già per
gran tempo assai
Senza te
sopportai;
Quasi intender
non posso
Come d'altri
desiri,
Fuor
ch'a te somiglianti, altri sospiri.
Giammai d'allor
che in pria
Questa vita che
sia per prova intesi,
Timor di morte
non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un
gioco
Quella che il
mondo inetto,
Talor lodando,
ognora abborre e trema,
Necessitade
estrema;
E se periglio
appar, con un sorriso
Le
sue minacce a contemplar m'affiso.
Sempre i
codardi, e l'alme
Ingenerose,
abbiette
Ebbi in
dispregio. Or punge ogni atto indegno
Subito i sensi
miei;
Move l'alma
ogni esempio
Dell'umana
viltà subito a sdegno.
Di questa
età superba,
Che di vote
speranze si nutrica,
Vaga di ciance,
e di virtù nemica;
Stolta, che
l'util chiede,
E inutile la
vita
Quindi
più sempre divenir non vede;
Maggior mi
sento. A scherno
Ho gli umani
giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri
infesto,
E
degno tuo disprezzator, calpesto.
A quello onde
tu movi,
Quale affetto
non cede?
Anzi qual altro
affetto
Se non
quell'uno intra i mortali ha sede?
Avarizia,
superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor,
di regno,
Che sono altro
che voglie
Al paragon di
lui? Solo un affetto
Vive tra noi:
quest'uno,
Prepotente
signore,
Dieder
l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha,
non ha ragion la vita
Se non per lui,
per lui ch'all'uomo è tutto;
Sola discolpa
al fato,
Che noi mortali
in terra
Pose a tanto
patir senz'altro frutto;
Solo per cui
talvolta,
Non alla gente
stolta, al cor non vile
La
vita della morte è più gentile.
Per còr
le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli
umani affanni,
E sostener
molt'anni
Questa vita
mortal, fu non indegno;
Ed ancor
tornerei,
Così
qual son de' nostri mali esperto,
Verso un tal
segno a incominciare il corso:
Che tra le
sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai finor
sì stanco
Per lo mortal
deserto
Non venni a te,
che queste nostre pene
Vincer
non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai,
che nova
Immensità,
che paradiso è quello
Là dove
spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar!
dov'io,
Sott'altra luce
che l'usata errando,
Il mio terreno
stato
E tutto quanto
il ver pongo in obblio!
Tali son,
credo, i sogni
Degl'immortali.
Ahi finalmente un sogno
In molta parte
onde s'abbella il vero
Sei tu, dolce
pensiero;
Sogno e palese
error. Ma di natura,
Infra i
leggiadri errori,
Divina sei;
perché sì viva e forte,
Che incontro al
ver tenacemente dura,
E spesso al ver
s'adegua,
Né
si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo,
o mio pensier, tu solo
Vitale ai
giorni miei,
Cagion diletta
d'infiniti affanni,
Meco sarai per
morte a un tempo spento:
Ch'a vivi segni
dentro l'alma io sento
Che in perpetuo
signor dato mi sei.
Altri gentili
inganni
Soleami il vero
aspetto
Più
sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco
ragionando io vivo,
Cresce quel
gran diletto,
Cresce quel
gran delirio, ond'io respiro.
Angelica
beltade!
Parmi ogni
più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta
imago
Il tuo volto
imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra
leggiadria,
Sola
vera beltà parmi che sia.
Da che ti vidi
pria,
Di qual mia
seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu?
quanto del giorno è scorso,
Ch'io di te non
pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana
imago
Quante volte
mancò? Bella qual sogno,
Angelica
sembianza,
Nella terrena
stanza,
Nell'alte vie
dell'universo intero,
Che chiedo io
mai, che spero
Altro che gli
occhi tuoi veder più vago?
Altro
più dolce aver che il tuo pensiero?
Muor giovane colui ch'al cielo è caro
Menandro
Fratelli, a un
tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò
la sorte.
Cose
quaggiù sì belle
Altre il mondo non
ha, non han le stelle.
Nasce dall'uno
il bene,
Nasce il piacer
maggiore
Che per lo mar
dell'essere si trova;
L'altra ogni
gran dolore,
Ogni gran male
annulla.
Bellissima
fanciulla,
Dolce a veder,
non quale
La si dipinge
la codarda gente,
Gode il
fanciullo Amore
Accompagnar
sovente;
E sorvolano
insiem la via mortale,
Primi conforti
d'ogni saggio core.
Né cor fu mai
più saggio
Che percosso
d'amor, né mai più forte
Sprezzò
l'infausta vita,
Né per altro
signore
Come per questo
a perigliar fu pronto:
Ch'ove tu porgi
aita,
Amor, nasce il
coraggio,
O si ridesta; e
sapiente in opre,
Non in pensiero
invan, siccome suole,
Divien
l'umana prole.
Quando
novellamente
Nasce nel cor
profondo
Un amoroso
affetto,
Languido e
stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di
morir si sente:
Come, non so:
ma tale
D'amor vero e
possente è il primo effetto.
Forse gli occhi
spaura
Allor questo
deserto: a sé la terra
Forse il
mortale inabitabil fatta
Vede omai senza
quella
Nova, sola,
infinita
Felicità
che il suo pensier figura:
Ma per cagion
di lei grave procella
Presentendo in
suo cor, brama quiete,
Brama raccorsi
in porto
Dinanzi al fier
disio,
Che
già, rugghiando, intorno intorno oscura.
Poi, quando
tutto avvolge
La formidabil
possa,
E fulmina nel cor
l'invitta cura,
Quante volte
implorata
Con desiderio
intenso,
Morte, sei tu
dall'affannoso amante!
Quante la sera,
e quante,
Abbandonando
all'alba il corpo stanco,
Sé beato
chiamò s'indi giammai
Non rilevasse
il fianco,
Né tornasse a
veder l'amara luce!
E spesso al
suon della funebre squilla,
Al canto che
conduce
La gente morta
al sempiterno obblio,
Con più
sospiri ardenti
Dall'imo petto
invidiò colui
Che tra gli
spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta
plebe,
L'uom della
villa, ignaro
D'ogni
virtù che da saper deriva,
Fin la donzella
timidetta e schiva,
Che già
di morte al nome
Sentì
rizzar le chiome,
Osa alla tomba,
alle funeree bende
Fermar lo
sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e
veleno
Meditar
lungamente,
E nell'indotta
mente
La gentilezza
del morir comprende.
Tanto alla
morte inclina
D'amor la
disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il
gran travaglio interno
Che sostener
nol può forza mortale,
O cede il corpo
frale
Ai terribili
moti, e in questa forma
Pel fraterno
poter Morte prevale;
O così
sprona Amor là nel profondo,
Che da se
stessi il villanello ignaro,
La tenera
donzella
Con la man
violenta
Pongon le
membra giovanili in terra.
Ride ai lor
casi il mondo,
A
cui pace e vecchiezza il ciel consenta.
Ai fervidi, ai
felici,
Agli animosi
ingegni
L'uno o l'altro
di voi conceda il fato,
Dolci signori,
amici
All'umana
famiglia,
Al cui poter
nessun poter somiglia
Nell'immenso
universo, e non l'avanza,
Se non quella
del fato, altra possanza.
E tu, cui
già dal cominciar degli anni
Sempre onorata
invoco,
Bella Morte,
pietosa
Tu sola al
mondo dei terreni affanni,
Se celebrata
mai
Fosti da me,
s'al tuo divino stato
L'onte del
volgo ingrato
Ricompensar
tentai,
Non tardar
più, t'inchina
A disusati
preghi,
Chiudi alla
luce omai
Questi occhi
tristi, o dell'età reina.
Me certo
troverai, qual si sia l'ora
Che tu le penne
al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte,
armato,
E renitente al
fato,
La man che
flagellando si colora
Nel mio sangue
innocente
Non ricolmar di
lode,
Non benedir,
com'usa
Per antica
viltà l'umana gente;
Ogni vana
speranza onde consola
Se coi
fanciulli il mondo,
Ogni conforto
stolto
Gittar da me;
null'altro in alcun tempo
Sperar, se non
te sola;
Solo aspettar
sereno
Quel dì
ch'io pieghi addormentato il volto
Nel tuo
virgineo seno.
XXVIII
A SE STESSO
Or poserai per
sempre,
Stanco mio cor.
Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi
credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari
inganni,
Non che la
speme, il desiderio è spento.
Posa per
sempre. Assai
Palpitasti. Non
val cosa nessuna
I moti tuoi, né
di sospiri è degna
La terra. Amaro
e noia
La vita, altro
mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai.
Dispera
L'ultima volta.
Al gener nostro il fato
Non donò
che il morire. Omai disprezza
Te, la natura,
il brutto
Poter che,
ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita
vanità del tutto.
Torna dinanzi
al mio pensier talora
Il tuo
sembiante, Aspasia. O fuggitivo
Per abitati
lochi a me lampeggia
In altri volti;
o per deserti campi,
Al dì
sereno, alle tacenti stelle,
Da soave
armonia quasi ridesta,
Nell'alma a
sgomentarsi ancor vicina
Quella superba
vision risorge.
Quanto adorata,
o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed
erinni! E mai non sento
Mover profumo
di fiorita piaggia,
Né di fiori
olezzar vie cittadine,
Ch'io non ti
vegga ancor qual eri il giorno
Che ne' vezzosi
appartamenti accolta,
Tutti odorati
de' novelli fiori
Di primavera,
del color vestita
Della bruna
viola, a me si offerse
L'angelica tua
forma, inchino il fianco
Sovra nitide
pelli, e circonfusa
D'arcana
voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice,
fervidi sonanti
Baci scoccavi
nelle curve labbra
De' tuoi
bambini, il niveo collo intanto
Porgendo, e lor
di tue cagioni ignari
Con la man
leggiadrissima stringevi
Al seno ascoso
e disiato. Apparve
Novo ciel, nova
terra, e quasi un raggio
Divino al
pensier mio. Così nel fianco
Non punto
inerme a viva forza impresse
Il tuo braccio
lo stral, che poscia fitto
Ululando portai
finch'a quel giorno
Si
fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino
al mio pensiero apparve,
Donna, la tua
beltà. Simile effetto
Fan la bellezza
e i musicali accordi,
Ch'alto mistero
d'ignorati Elisi
Paion sovente
rivelar. Vagheggia
Il piagato
mortal quindi la figlia
Della sua
mente, l'amorosa idea,
Che gran parte
d'Olimpo in sé racchiude,
Tutta al volto
ai costumi alla favella
Pari alla donna
che il rapito amante
Vagheggiare ed
amar confuso estima.
Or questa egli
non già, ma quella, ancora
Nei corporali
amplessi, inchina ed ama.
Alfin l'errore
e gli scambiati oggetti
Conoscendo,
s'adira; e spesso incolpa
La donna a
torto. A quella eccelsa imago
Sorge di rado
il femminile ingegno;
E ciò
che inspira ai generosi amanti
La sua stessa
beltà, donna non pensa,
Né comprender
potria. Non cape in quelle
Anguste fronti
ugual concetto. E male
Al vivo
sfolgorar di quegli sguardi
Spera l'uomo
ingannato, e mal richiede
Sensi profondi,
sconosciuti, e molto
Più che
virili, in chi dell'uomo al tutto
Da natura
è minor. Che se più molli
E più
tenui le membra, essa la mente
Men
capace e men forte anco riceve.
Né tu finor
giammai quel che tu stessa
Inspirasti
alcun tempo al mio pensiero,
Potesti,
Aspasia, immaginar. Non sai
Che smisurato
amor, che affanni intensi,
Che indicibili
moti e che deliri
Movesti in me;
né verrà tempo alcuno
Che tu
l'intenda. In simil guisa ignora
Esecutor di
musici concenti
Quel ch'ei con
mano o con la voce adopra
In chi
l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta
Che tanto amai.
Giace per sempre, oggetto
Della mia vita
un dì: se non se quanto,
Pur come cara
larva, ad ora ad ora
Tornar costuma
e disparir. Tu vivi,
Bella non solo
ancor, ma bella tanto,
Al parer mio,
che tutte l'altre avanzi.
Pur quell'ardor
che da te nacque è spento:
Perch'io te non
amai, ma quella Diva
Che già
vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai
gran tempo; e sì mi piacque
Sua celeste
beltà, ch'io, per insino
Già dal
principio conoscente e chiaro
Dell'esser tuo,
dell'arti e delle frodi,
Pur ne' tuoi
contemplando i suoi begli occhi,
Cupido ti
seguii finch'ella visse,
Ingannato non
già, ma dal piacere
Di quella dolce
somiglianza un lungo
Servaggio
ed aspro a tollerar condotto.
Or ti vanta,
che il puoi. Narra che sola
Sei del tuo
sesso a cui piegar sostenni
L'altero capo,
a cui spontaneo porsi
L'indomito mio
cor. Narra che prima,
E spero ultima
certo, il ciglio mio
Supplichevol
vedesti, a te dinanzi
Me timido,
tremante (ardo in ridirlo
Di sdegno e di
rossor), me di me privo,
Ogni tua
voglia, ogni parola, ogni atto
Spiar
sommessamente, a' tuoi superbi
Fastidi
impallidir, brillare in volto
Ad un segno
cortese, ad ogni sguardo
Mutar forma e
color. Cadde l'incanto,
E spezzato con
esso, a terra sparso
Il giogo: onde
m'allegro. E sebben pieni
Di tedio, alfin
dopo il servire e dopo
Un lungo
vaneggiar, contento abbraccio
Senno con
libertà. Che se d'affetti
Orba la vita, e
di gentili errori,
È notte
senza stelle a mezzo il verno,
Già del
fato mortale a me bastante
E conforto e
vendetta è che su l'erba
Qui neghittoso
immobile giacendo,
Il mar la terra
e il ciel miro e sorrido.
Dove vai? chi
ti chiama
Lunge dai cari
tuoi,
Bellissima
donzella?
Sola,
peregrinando, il patrio tetto
Sì per
tempo abbandoni? a queste soglie
Tornerai tu?
farai tu lieti un giorno
Questi
ch'oggi ti son piangendo intorno?
Asciutto il
ciglio ed animosa in atto,
Ma pur mesta
sei tu. Grata la via
O dispiacevol
sia, tristo il ricetto
A cui movi o
giocondo,
Da quel tuo
grave aspetto
Mal s'indovina.
Ahi ahi, né già potria
Fermare io
stesso in me, né forse al mondo
S'intese ancor,
se in disfavore al cielo,
Se cara esser
nomata,
Se
misera tu debbi o fortunata.
Morte ti
chiama; al cominciar del giorno
L'ultimo
istante. Al nido onde ti parti,
Non tornerai.
L'aspetto
De' tuoi dolci
parenti
Lasci per
sempre. Il loco
A cui movi,
è sotterra:
Ivi fia d'ogni
tempo il tuo soggiorno.
Forse beata
sei; ma pur chi mira,
Seco
pensando, al tuo destin, sospira.
Mai non veder
la luce
Era, credo, il
miglior. Ma nata, al tempo
Che reina
bellezza si dispiega
Nelle membra e
nel volto,
Ed incomincia
il mondo
Verso lei di
lontano ad atterrarsi;
In sul fiorir
d'ogni speranza, e molto
Prima che
incontro alla festosa fronte
I
lùgubri suoi lampi il ver baleni;
Come vapore in
nuvoletta accolto
Sotto forme
fugaci all'orizzonte,
Dileguarsi
così quasi non sorta,
E cangiar con
gli oscuri
Silenzi della
tomba i dì futuri,
Questo se
all'intelletto
Appar felice,
invade
D'alta
pietade ai più costanti il petto.
Madre temuta e
pianta
Dal nascer
già dell'animal famiglia,
Natura,
illaudabil maraviglia,
Che per uccider
partorisci e nutri,
Se danno
è del mortale
Immaturo perir,
come il consenti
In quei capi
innocenti?
Se ben, perché
funesta,
Perché sovra
ogni male,
A chi si parte,
a chi rimane in vita,
Inconsolabil
fai tal dipartita?
Misera ovunque
miri,
Misera onde si
volga, ove ricorra,
Questa sensibil
prole!
Piacqueti che
delusa
Fosse ancor
dalla vita
La speme
giovanil; piena d'affanni
L'onda degli
anni; ai mali unico schermo
La morte; e
questa inevitabil segno,
Questa,
immutata legge
Ponesti
all'uman corso. Ahi perché dopo
Le travagliose
strade, almen la meta
Non ci
prescriver lieta? anzi colei
Che per certo
futura
Portiam sempre,
vivendo, innanzi all'alma,
Colei che i
nostri danni
Ebber solo
conforto,
Velar di neri
panni,
Cinger d'ombra
sì trista,
E spaventoso in
vista
Più
d'ogni flutto dimostrarci il porto?
Già se
sventura è questo
Morir che tu
destini
A tutti noi che
senza colpa, ignari,
Né volontari al
vivere abbandoni,
Certo ha chi
more invidiabil sorte
A colui che la
morte
Sente de' cari
suoi. Che se nel vero,
Com'io per
fermo estimo,
Il vivere
è sventura,
Grazia il
morir, chi però mai potrebbe,
Quel che pur si
dovrebbe,
Desiar de' suoi
cari il giorno estremo,
Per dover egli
scemo
Rimaner di se
stesso,
Veder d'in su
la soglia levar via
La diletta
persona
Con chi passato
avrà molt'anni insieme,
E dire a quella
addio senz'altra speme
Di riscontrarla
ancora
Per la mondana
via;
Poi solitario
abbandonato in terra,
Guardando
attorno, all'ore ai lochi usati
Rimemorar la
scorsa compagnia?
Come, ahi,
come, o natura, il cor ti soffre
Di strappar
dalle braccia
All'amico
l'amico,
Al fratello il
fratello,
La prole al
genitore,
All'amante l'amore:
e l'uno estinto,
L'altro in vita
serbar? Come potesti
Far necessario
in noi
Tanto dolor,
che sopravviva amando
Al mortale il
mortal? Ma da natura
Altro negli
atti suoi
Che nostro male
o nostro ben si cura.
Tal fosti: or
qui sotterra
Polve e
scheletro sei. Su l'ossa e il fango
Immobilmente
collocato invano,
Muto, mirando
dell'etadi il volo,
Sta, di memoria
solo
E di dolor
custode, il simulacro
Della scorsa
beltà. Quel dolce sguardo,
Che tremar fe',
se, come or sembra, immoto
In altrui
s'affisò; quel labbro, ond'alto
Par, come
d'urna piena,
Traboccare il
piacer; quel collo, cinto
Già di
desio; quell'amorosa mano,
Che spesso, ove
fu porta,
Sentì gelida
far la man che strinse;
E il seno, onde
la gente
Visibilmente di
pallor si tinse,
Furo alcun
tempo: or fango
Ed ossa sei: la
vista
Vituperosa
e trista un sasso asconde.
Così
riduce il fato
Qual sembianza
fra noi parve più viva
Immagine del
ciel. Misterio eterno
Dell'esser
nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
Pensieri e
sensi inenarrabil fonte,
Beltà
grandeggia, e pare,
Quale splendor
vibrato
Da natura
immortal su queste arene,
Di sovrumani
fati,
Di fortunati
regni e d'aurei mondi
Segno e sicura
spene
Dare al mortale
stato:
Diman, per
lieve forza,
Sozzo a vedere,
abominoso, abbietto
Divien quel che
fu dianzi
Quasi angelico
aspetto,
E dalle menti
insieme
Quel che da lui
moveva
Ammirabil
concetto, si dilegua.
Desiderii
infiniti
E visioni
altere
Crea nel vago
pensiere,
Per natural
virtù, dotto concento;
Onde per mar
delizioso, arcano
Erra lo spirto
umano,
Quasi come a
diporto
Ardito notator
per l'Oceano:
Ma se un
discorde accento
Fere
l'orecchio, in nulla
Torna
quel paradiso in un momento.
Natura umana,
or come,
Se frale in
tutto e vile,
Se polve ed
ombra sei, tant'alto senti?
Se in parte
anco gentile,
Come i
più degni tuoi moti e pensieri
Son così
di leggeri
Da sì
basse cagioni e desti e spenti?
Il sempre sospirar nulla rileva.
Petrarca
Errai, candido
Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga
errai. Misera e vana
Stimai la vita,
e sovra l'altre insulsa
La stagion
ch'or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la
mia lingua alla beata
Prole mortal,
se dir si dee mortale
L'uomo, o si
può. Fra maraviglia e sdegno,
Dall'Eden
odorato in cui soggiorna,
Rise l'alta
progenie, e me negletto
Disse, o mal
venturoso, e di piaceri
O incapace o
inesperto, il proprio fato
Creder comune,
e del mio mal consorte
L'umana specie.
Alfin per entro il fumo
De' sigari
onorato, al romorio
De' crepitanti
pasticcini, al grido
Militar, di
gelati e di bevande
Ordinator, fra
le percosse tazze
E i branditi
cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei
la giornaliera luce
Delle gazzette.
Riconobbi e vidi
La pubblica
letizia, e le dolcezze
Del destino
mortal. Vidi l'eccelso
Stato e il
valor delle terrene cose,
E tutto fiori
il corso umano, e vidi
Come nulla
quaggiù dispiace e dura.
Né men conobbi
ancor gli studi e l'opre
Stupende, e il
senno, e le virtudi, e l'alto
Saver del secol
mio. Né vidi meno
Da Marrocco al
Catai, dall'Orse al Nilo,
E da Boston a
Goa, correr dell'alma
Felicità
su l'orme a gara ansando
Regni, imperi e
ducati; e già tenerla
O per le chiome
fluttuanti, o certo
Per l'estremo
del boa. Così vedendo,
E meditando
sovra i larghi fogli
Profondamente,
del mio grave, antico
Errore,
e di me stesso, ebbi vergogna.
Auro secolo
omai volgono, o Gino,
I fusi delle
Parche. Ogni giornale,
Gener vario di
lingue e di colonne,
Da tutti i lidi
lo promette al mondo
Concordemente.
Universale amore,
Ferrate vie,
moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra
i più divisi
Popoli e climi
stringeranno insieme:
Né maraviglia
fia se pino o quercia
Suderà
latte e mele, o s'anco al suono
D'un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de'
lambicchi e delle storte,
E le macchine
al cielo emulatrici
Crebbero, e
tanto cresceranno al tempo
Che
seguirà; poiché di meglio in meglio
Senza fin vola
e volerà mai sempre
Di
Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non
ciberà certo la terra
Però, se
fame non la sforza: il duro
Ferro non
deporrà. Ben molte volte
Argento ed or
disprezzerà, contenta
A polizze di
cambio. E già dal caro
Sangue de' suoi
non asterrà la mano
La generosa
stirpe: anzi coverte
Fien di stragi
l'Europa e l'altra riva
Dell'atlantico
mar, fresca nutrice
Di pura
civiltà, sempre che spinga
Contrarie in
campo le fraterne schiere
Di pepe o di
cannella o d'altro aroma
Fatal cagione,
o di melate canne,
O cagion qual
si sia ch'ad auro torni.
Valor vero e
virtù, modestia e fede
E di giustizia
amor, sempre in qualunque
Pubblico stato,
alieni in tutto e lungi
Da' comuni
negozi, ovvero in tutto
Sfortunati
saranno, afflitti e vinti;
Perché
diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in
fondo. Ardir protervo e frode,
Con
mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar
sortiti. Imperio e forze,
Quanto
più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà
chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome.
Questa legge in pria
Scrisser natura
e il fato in adamante;
E co' fulmini
suoi Volta né Davy
Lei non
cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine
sue, né con un Gange
Di politici
scritti il secol novo.
Sempre il buono
in tristezza, il vile in festa
Sempre e il
ribaldo: incontro all'alme eccelse
In arme tutti
congiurati i mondi
Fieno in
perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio
e livor: cibo de' forti
Il debole,
cultor de' ricchi e servo
Il digiuno
mendico, in ogni forma
Di comun
reggimento, o presso o lungi
Sien
l'eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se
al gener nostro il proprio albergo
E
la face del dì non vengon meno.
Queste lievi
reliquie e questi segni
Delle passate
età, forza è che impressi
Porti quella
che sorge età dell'oro:
Perché mille
discordi e repugnanti
L'umana
compagnia principii e parti
Ha per natura;
e por quegli odii in pace
Non valser
gl'intelletti e le possanze
Degli uomini
giammai, dal dì che nacque
L'inclita
schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia né
possente, al secol nostro
Patto alcuno o
giornal. Ma nelle cose
Più
gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal
felicità. Più molli
Di giorno in
giorno diverran le vesti
O di lana o di
seta. I rozzi panni
Lasciando a
prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in
coton la scabra pelle,
E di castoro
copriran le schiene.
Meglio fatti al
bisogno, o più leggiadri
Certamente a
veder, tappeti e coltri,
Seggiole,
canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni
altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua
beltà gli appartamenti;
E nove forme di
paiuoli, e nove
Pentole
ammirerà l'arsa cucina.
Da Parigi a
Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a
Liverpool, rapido tanto
Sarà,
quant'altri immaginar non osa,
Il cammino,
anzi il volo: e sotto l'ampie
Vie del Tamigi
fia dischiuso il varco,
Opra ardita,
immortal, ch'esser dischiuso
Dovea,
già son molt'anni. Illuminate
Meglio ch'or
son, benché sicure al pari,
Nottetempo
saran le vie men trite
Delle
città sovrane, e talor forse
Di suddita
città le vie maggiori.
Tali dolcezze e
sì beata sorte
Alla
prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color
che mentre io scrivo
Miagolanti in
su le braccia accoglie
La levatrice! a
cui veder s'aspetta
Quei sospirati
dì, quando per lunghi
Studi fia noto,
e imprenderà col latte
Dalla cara
nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di
sal, quanto di carni,
E quante moggia
di farina inghiotta
Il patrio borgo
in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno
partoriti e morti
Scriva il
vecchio prior: quando, per opra
Di possente
vapore, a milioni
Impresse in un
secondo, il piano e il poggio,
E credo anco
del mar gl'immensi tratti,
Come d'aeree
gru stuol che repente
Alle late
campagne il giorno involi,
Copriran le
gazzette, anima e vita
Dell'universo,
e di savere a questa
Ed
alle età venture unica fonte!
Quale un
fanciullo, con assidua cura,
Di fogliolini e
di fuscelli, in forma
O di tempio o
di torre o di palazzo,
Un edificio
innalza; e come prima
Fornito il
mira, ad atterrarlo è volto,
Perché gli
stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo
lavorio son di mestieri;
Così
natura ogni opra sua, quantunque
D'alto
artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta,
ch'a disfarla imprende,
Le parti
sciolte dispensando altrove.
E indarno a
preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo,
la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il
mortal seme accorre
Mille virtudi
oprando in mille guise
Con dotta man:
che, d'ogni sforzo in onta,
La natura
crudel, fanciullo invitto,
Il suo
capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e
formando si trastulla.
Indi varia,
infinita una famiglia
Di mali
immedicabili e di pene
Preme il fragil
mortale, a perir fatto
Irreparabilmente:
indi una forza
Ostil,
distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da
ogni lato, assidua, intenta
Dal dì
che nasce; e l'affatica e stanca,
Essa
indefatigata; insin ch'ei giace
Alfin
dall'empia madre oppresso e spento.
Queste, o
spirto gentil, miserie estreme
Dello stato
mortal; vecchiezza e morte,
Ch'han
principio d'allor che il labbro infante
Preme il tenero
sen che vita instilla;
Emendar, mi
cred'io, non può la lieta
Nonadecima
età più che potesse
La decima o la
nona, e non potranno
Più di
questa giammai l'età future.
Però, se
nominar lice talvolta
Con proprio
nome il ver, non altro in somma
Fuor che
infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne'
civili ordini e modi,
Ma della vita
in tutte l'altre parti,
Per essenza
insanabile, e per legge
Universal, che
terra e cielo abbraccia,
Ogni nato
sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio
ritrovàr gli eccelsi
Spirti del
secol mio: che, non potendo
Felice in terra
far persona alcuna,
L'uomo
obbliando, a ricercar si diero
Una comun
felicitade; e quella
Trovata
agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri
tutti, un popol fanno
Lieto e felice:
e tal portento, ancora
Da pamphlets,
da riviste e da gazzette
Non
dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh
senno, oh sovrumano acume
Dell'età
ch'or si volge! E che sicuro
Filosofar, che
sapienza, o Gino,
In più
sublimi ancora e più riposti
Subbietti
insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e
tuo! Con che costanza
Quel che ieri
schernì, prosteso adora
Oggi, e domani
abbatterà, per girne
Raccozzando i
rottami, e per riporlo
Tra il fumo
degl'incensi il dì vegnente!
Quanto estimar
si dee, che fede inspira
Del secol che
si volge, anzi dell'anno,
Il concorde
sentir! con quanta cura
Convienci a
quel dell'anno, al qual difforme
Fia quel
dell'altro appresso, il sentir nostro
Comparando,
fuggir che mai d'un punto
Non sien
diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno
si opponga il tempo antico,
Filosofando
il saper nostro è scorso!
Un già
de' tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar
maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti
e facoltadi umane,
E menti che fur
mai, sono e saranno,
Dottore,
emendator, lascia, mi disse,
I propri
affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile
età, volta ai severi
Economici
studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche
cose. Il proprio petto
Esplorar che ti
val? Materia al canto
Non cercar
dentro te. Canta i bisogni
Del secol
nostro, e la matura speme.
Memorande
sentenze! ond'io solenni
Le risa alzai
quando sonava il nome
Della speranza
al mio profano orecchio
Quasi comica
voce, o come un suono
Di lingua che
dal latte si scompagni.
Or torno
addietro, ed al passato un corso
Contrario
imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai
ch'al secol proprio vuolsi,
Non contraddir,
non repugnar, se lode
Cerchi e fama
appo lui, ma fedelmente
Adulando
ubbidir: così per breve
Ed agiato
cammin vassi alle stelle.
Ond'io, degli
astri desioso, al canto
Del secolo i
bisogni omai non penso
Materia far;
che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i
mercati e le officine
Già
largamente; ma la speme io certo
Dirò, la
speme, onde visibil pegno
Già
concedon gli Dei; già, della nova
Felicità
principio, ostenta il labbro
De'
giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o
segno salutare, o prima
Luce della
famosa età che sorge.
Mira dinanzi a
te come s'allegra
La terra e il
ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle,
e per conviti e feste
Qual de'
barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci
alla patria, o maschia certo
Moderna prole.
All'ombra de' tuoi velli
Italia crescerà,
crescerà tutta
Dalle foci del
Tago all'Ellesponto
Europa, e il
mondo poserà sicuro.
E tu comincia a
salutar col riso
Gl'ispidi
genitori, o prole infante,
Eletta agli
aurei dì: né ti spauri
L'innocuo
nereggiar de' cari aspetti.
Ridi, o tenera
prole: a te serbato
È di
cotanto favellare il frutto;
Veder gioia
regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e
gioventù del par contente,
E le barbe
ondeggiar lunghe due spanne.
Quale in notte
solinga,
Sovra campagne
inargentate ed acque,
Là 've
zefiro aleggia,
E mille vaghi
aspetti
E ingannevoli
obbietti
Fingon l'ombre
lontane
Infra l'onde
tranquille
E rami e siepi
e collinette e ville;
Giunta al
confin del cielo,
Dietro Apennino
od Alpe, o del Tirreno
Nell'infinito
seno
Scende la luna;
e si scolora il mondo;
Spariscon
l'ombre, ed una
Oscurità
la valle e il monte imbruna;
Orba la notte
resta,
E cantando, con
mesta melodia,
L'estremo albor
della fuggente luce,
Che dianzi gli
fu duce,
Saluta
il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua,
e tale
Lascia
l'età mortale
La giovinezza.
In fuga
Van l'ombre e
le sembianze
Dei dilettosi
inganni; e vengon meno
Le lontane
speranze,
Ove s'appoggia
la mortal natura.
Abbandonata,
oscura
Resta la vita.
In lei porgendo il guardo,
Cerca il
confuso viatore invano
Del cammin
lungo che avanzar si sente
Meta o ragione;
e vede
Che a sé
l'umana sede,
Esso
a lei veramente è fatto estrano.
Troppo felice e
lieta
Nostra misera
sorte
Parve
lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben
di mille pene è frutto,
Durasse tutto
della vita il corso.
Troppo mite
decreto
Quel che
sentenzia ogni animale a morte,
S'anco mezza la
via
Lor non si
desse in pria
Della terribil
morte assai più dura.
D'intelletti
immortali
Degno trovato,
estremo
Di tutti i
mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza,
ove fosse
Incolume il
desio, la speme estinta,
Secche le fonti
del piacer, le pene
Maggiori
sempre, e non più dato il bene.
Voi, collinette
e piagge,
Caduto lo
splendor che all'occidente
Inargentava
della notte il velo,
Orfane ancor
gran tempo
Non resterete;
che dall'altra parte
Tosto vedrete
il cielo
Imbiancar
novamente, e sorger l'alba:
Alla qual
poscia seguitando il sole,
E folgorando
intorno
Con sue fiamme
possenti,
Di lucidi
torrenti
Inonderà
con voi gli eterei campi.
Ma la vita
mortal, poi che la bella
Giovinezza
sparì, non si colora
D'altra luce
giammai, né d'altra aurora.
Vedova è
insino al fine; ed alla notte
Che l'altre
etadi oscura,
Segno poser gli
Dei la sepoltura.
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19
Qui su l'arida
schiena
Del formidabil
monte
Sterminator
Vesevo,
La qual
null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi
solitari intorno spargi,
Odorata
ginestra,
Contenta dei
deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli
abbellir l'erme contrade
Che cingon la
cittade
La qual fu
donna de' mortali un tempo,
E del perduto
impero
Par che col
grave e taciturno aspetto
Faccian fede e
ricordo al passeggero.
Or ti riveggo
in questo suol, di tristi
Lochi e dal
mondo abbandonati amante,
E d'afflitte
fortune ognor compagna.
Questi campi
cosparsi
Di ceneri
infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata
lava,
Che sotto i
passi al peregrin risona;
Dove s'annida e
si contorce al sole
La serpe, e
dove al noto
Cavernoso covil
torna il coniglio;
Fur liete ville
e colti,
E
biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito
d'armenti;
Fur giardini e
palagi,
Agli ozi de'
potenti
Gradito
ospizio; e fur città famose
Che coi
torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea
bocca fulminando oppresse
Con gli
abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina
involve,
Dove tu siedi,
o fior gentile, e quasi
I danni altrui
commiserando, al cielo
Di dolcissimo
odor mandi un profumo,
Che il deserto
consola. A queste piagge
Venga colui che
d'esaltar con lode
Il nostro stato
ha in uso, e vegga quanto
È il
gener nostro in cura
All'amante
natura. E la possanza
Qui con giusta
misura
Anco estimar
potrà dell'uman seme,
Cui la dura
nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto
in un momento annulla
In parte, e
può con moti
Poco men lievi
ancor subitamente
Annichilare in
tutto.
Dipinte in
queste rive
Son dell'umana
gente
Le
magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui
ti specchia,
Secol superbo e
sciocco,
Che il calle
insino allora
Dal risorto
pensier segnato innanti
Abbandonasti, e
volti addietro i passi,
Del ritornar ti
vanti,
E procedere il
chiami.
Al tuo
pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor
sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando,
ancora
Ch'a ludibrio
talora
T'abbian fra
sé. Non io
Con tal
vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo
piuttosto che si serra
Di te nel petto
mio,
Mostrato
avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io
sappia che obblio
Preme chi
troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal,
che teco
Mi fia comune,
assai finor mi rido.
Libertà
vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il
pensiero,
Sol per cui
risorgemmo
Della barbarie
in parte, e per cui solo
Si cresce in
civiltà, che sola in meglio
Guida i
pubblici fati.
Così ti
spiacque il vero
Dell'aspra
sorte e del depresso loco
Che natura ci
diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente
rivolgesti al lume
Che il fe'
palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui
segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé
schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin
sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero
stato e membra inferme
Che sia
dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé
né stima
Ricco d'or né
gagliardo,
E di splendida
vita o di valente
Persona infra
la gente
Non fa risibil
mostra;
Ma sé di forza
e di tesor mendico
Lascia parer
senza vergogna, e noma
Parlando,
apertamente, e di sue cose
Fa stima al
vero uguale.
Magnanimo
animale
Non credo io
già, ma stolto,
Quel che nato a
perir, nutrito in pene,
Dice, a goder
son fatto,
E di fetido
orgoglio
Empie le carte,
eccelsi fati e nove
Felicità,
quali il ciel tutto ignora,
Non pur
quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che
un'onda
Di mar
commosso, un fiato
D'aura maligna,
un sotterraneo crollo
Distrugge
sì, che avanza
A gran pena di
lor la rimembranza.
Nobil natura
è quella
Che a sollevar
s'ardisce
Gli occhi
mortali incontra
Al comun fato,
e che con franca lingua,
Nulla al ver
detraendo,
Confessa il mal
che ci fu dato in sorte,
E il basso
stato e frale;
Quella che
grande e forte
Mostra sé nel
soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor
più gravi
D'ogni altro
danno, accresce
Alle miserie
sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor,
ma dà la colpa a quella
Che veramente
è rea, che de' mortali
Madre è
di parto e di voler matrigna.
Costei chiama
inimica; e incontro a questa
Congiunta esser
pensando,
Siccome
è il vero, ed ordinata in pria
L'umana
compagnia,
Tutti fra sé
confederati estima
Gli uomini, e
tutti abbraccia
Con vero amor,
porgendo
Valida e pronta
ed aspettando aita
Negli alterni
perigli e nelle angosce
Della guerra
comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar
la destra, e laccio porre
Al vicino ed
inciampo,
Stolto crede
così qual fora in campo
Cinto d'oste
contraria, in sul più vivo
Incalzar degli
assalti,
Gl'inimici
obbliando, acerbe gare
Imprender con
gli amici,
E sparger fuga
e fulminar col brando
Infra i propri
guerrieri.
Così
fatti pensieri
Quando fien,
come fur, palesi al volgo,
E quell'orror
che primo
Contra l'empia
natura
Strinse i
mortali in social catena,
Fia ricondotto
in parte
Da verace
saper, l'onesto e il retto
Conversar
cittadino,
E giustizia e
pietade, altra radice
Avranno allor
che non superbe fole,
Ove fondata
probità del volgo
Così
star suole in piede
Quale
star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in
queste rive,
Che, desolate,
a bruno
Veste il flutto
indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte;
e su la mesta landa
In purissimo
azzurro
Veggo dall'alto
fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan
fa specchio
Il mare, e
tutto di scintille in giro
Per lo
vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli
occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor
sembrano un punto,
E sono immense,
in guisa
Che un punto a
petto a lor son terra e mare
Veracemente; a
cui
L'uomo non pur,
ma questo
Globo ove
l'uomo è nulla,
Sconosciuto
è del tutto; e quando miro
Quegli ancor
più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di
stelle,
Ch'a noi paion
qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra
sol, ma tutte in uno,
Del numero
infinite e della mole,
Con l'aureo
sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote,
o così paion come
Essi alla
terra, un punto
Di luce
nebulosa; al pensier mio
Che sembri
allora, o prole
Dell'uomo? E
rimembrando
Il tuo stato
quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io
premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora
e fine
Credi tu data
al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti
piacque, in questo oscuro
Granel di
sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion,
dell'universe cose
Scender gli
autori, e conversar sovente
Co' tuoi
piacevolmente, e che i derisi
Sogni
rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente
età, che in conoscenza
Ed in civil
costume
Sembra tutte
avanzar; qual moto allora,
Mortal prole
infelice, o qual pensiero
Verso te
finalmente il cor m'assale?
Non
so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor
cadendo un picciol pomo,
Cui là
nel tardo autunno
Maturità
senz'altra forza atterra,
D'un popol di
formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle
gleba
Con gran
lavoro, e l'opre
E le ricchezze
che adunate a prova
Con lungo
affaticar l'assidua gente
Avea
provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia,
diserta e copre
In un punto;
così d'alto piombando,
Dall'utero
tonante
Scagliata al
ciel profondo,
Di ceneri e di
pomici e di sassi
Notte e ruina,
infusa
Di bollenti
ruscelli
O pel montano
fianco
Furiosa tra
l'erba
Di liquefatti
massi
E di metalli e
d'infocata arena
Scendendo
immensa piena,
Le cittadi che
il mar là su l'estremo
Lido aspergea,
confuse
E infranse e
ricoperse
In pochi
istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e
città nove
Sorgon
dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte,
e le prostrate mura
L'arduo monte
al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura
al seme
Dell'uom
più stima o cura
Che alla
formica: e se più rara in quello
Che nell'altra
è la strage,
Non avvien
ciò d'altronde
Fuor
che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed
ottocento
Anni
varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea
forza, i popolati seggi,
E il villanello
intento
Ai vigneti, che
a stento in questi campi
Nutre la morta
zolla e incenerita,
Ancor leva lo
sguardo
Sospettoso alla
vetta
Fatal, che
nulla mai fatta più mite
Ancor siede
tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed
ai figli ed agli averi
Lor poverelli.
E spesso
Il meschino in
sul tetto
Dell'ostel
villereccio, alla vagante
Aura giacendo
tutta notte insonne,
E balzando
più volte, esplora il corso
Del temuto
bollor, che si riversa
Dall'inesausto
grembo
Su l'arenoso
dorso, a cui riluce
Di Capri la
marina
E di Napoli il
porto e Mergellina.
E se appressar
lo vede, o se nel cupo
Del domestico
pozzo ode mai l'acqua
Fervendo
gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie
in fretta, e via, con quanto
Di lor cose
rapir posson, fuggendo,
Vede lontan
l'usato
Suo nido, e il
picciol campo,
Che gli fu
dalla fame unico schermo,
Preda al flutto
rovente,
Che crepitando
giunge, e inesorato
Durabilmente
sovra quei si spiega.
Torna al
celeste raggio
Dopo l'antica
obblivion l'estinta
Pompei, come
sepolto
Scheletro, cui
di terra
Avarizia o
pietà rende all'aperto;
E dal deserto
foro
Diritto infra
le file
Dei mozzi
colonnati il peregrino
Lunge contempla
il bipartito giogo
E la cresta
fumante,
Che alla sparsa
ruina ancor minaccia.
E nell'orror
della secreta notte
Per li vacui
teatri,
Per li templi
deformi e per le rotte
Case, ove i
parti il pipistrello asconde,
Come sinistra
face
Che per
vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il
baglior della funerea lava,
Che di lontan
per l'ombre
Rosseggia e i
lochi intorno intorno tinge.
Così,
dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama
antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i
nepoti,
Sta natura
ognor verde, anzi procede
Per sì
lungo cammino
Che sembra
star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e
linguaggi: ella nol vede:
E
l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta
ginestra,
Che di selve
odorate
Queste campagne
dispogliate adorni,
Anche tu presto
alla crudel possanza
Soccomberai del
sotterraneo foco,
Che ritornando
al loco
Già
noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli
foreste. E piegherai
Sotto il fascio
mortal non renitente
Il tuo capo
innocente:
Ma non piegato
insino allora indarno
Codardamente
supplicando innanzi
Al futuro
oppressor; ma non eretto
Con forsennato
orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto,
dove
E la sede e i
natali
Non per voler
ma per fortuna avesti;
Ma più
saggia, ma tanto
Meno inferma
dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non
credesti
O dal fato o da
te fatte immortali.
Lungi dal
proprio ramo,
Povera foglia
frale,
Dove vai tu? —
Dal faggio
Là
dov'io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando,
a volo
Dal bosco alla
campagna,
Dalla valle mi
porta alla montagna.
Seco
perpetuamente
Vo pellegrina,
e tutto l'altro ignoro.
Vo dove ogni
altra cosa,
Dove
naturalmente
Va la foglia di
rosa,
E la foglia
d'alloro.
Quando
fanciullo io venni
A pormi con le
Muse in disciplina,
L'una di quelle
mi pigliò per mano;
E poi tutto
quel giorno
La mi condusse
intorno
A veder
l'officina.
Mostrommi a
parte a parte
Gli strumenti
dell'arte,
E i servigi
diversi
A che ciascun
di loro
S'adopra nel
lavoro
Delle prose e
de' versi.
Io mirava, e
chiedea:
Musa, la lima
ov'è? Disse la Dea:
La lima
è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di
rifarla
Non vi cal,
soggiungea, quand'ella è stanca?
Rispose: hassi
a rifar, ma il tempo manca.
Odi, Melisso:
io vo' contarti un sogno
Di questa
notte, che mi torna a mente
In riveder la
luna. Io me ne stava
Alla finestra
che risponde al prato,
Guardando in
alto: ed ecco all'improvviso
Distaccasi la
luna; e mi parea
Che quanto nel
cader s'approssimava,
Tanto crescesse
al guardo; infin che venne
A dar di colpo
in mezzo al prato; ed era
Grande quanto
una secchia, e di scintille
Vomitava una
nebbia, che stridea
Sì forte
come quando un carbon vivo
Nell'acqua
immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come
ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva
annerando a poco a poco,
E ne fumavan
l'erbe intorno intorno.
Allor mirando
in ciel, vidi rimaso
Come un
barlume, o un'orma, anzi una nicchia,
Ond'ella fosse
svelta; in cotal guisa,
Ch'io
n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.
MELISSO
E ben hai che
temer, che agevol cosa
Fora cader la
luna in sul tuo campo.
ALCETA
Chi sa? non
veggiam noi spesso di state
Cader le
stelle?
MELISSO
Egli ci ha
tante stelle,
Che picciol
danno è cader l'una o l'altra
Di loro, e
mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna
in ciel, che da nessuno
Cader fu vista
mai se non in sogno.
Io qui vagando
al limitare intorno,
Invan la
pioggia invoco e la tempesta,
Acciò
che la ritenga al mio soggiorno.
Pure il vento
muggìa nella foresta,
E muggìa
tra le nubi il tuono errante,
Pria
che l'aurora in ciel fosse ridesta.
O care nubi, o
cielo, o terra, o piante,
Parte la donna
mia: pietà, se trova
Pietà
nel mondo un infelice amante.
O turbine, or
ti sveglia, or fate prova
Di sommergermi,
o nembi, insino a tanto
Che
il sole ad altre terre il dì rinnova.
S'apre il ciel,
cade il soffio, in ogni canto
Posan l'erbe e
le frondi, e m'abbarbaglia
Le luci il
crudo Sol pregne di pianto.
Spento il diurno
raggio in occidente,
E queto il fumo
delle ville, e queta
De'
cani era la voce e della gente;
Quand'ella,
volta all'amorosa meta,
Si
ritrovò nel mezzo ad una landa
Quanto
foss'altra mai vezzosa e lieta.
Spandeva il suo
chiaror per ogni banda
La sorella del
sole, e fea d'argento
Gli
arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.
I ramoscelli
ivan cantando al vento,
E in un con
l'usignol che sempre piagne
Fra
i tronchi un rivo fea dolce lamento.
Limpido il mar
da lungi, e le campagne
E le foreste, e
tutte ad una ad una
Le
cime si scoprian delle montagne.
In queta ombra
giacea la valle bruna,
E i collicelli
intorno rivestia
Del
suo candor la rugiadosa luna.
Sola tenea la
taciturna via
La donna, e il
vento che gli odori spande,
Molle
passar sul volto si sentia.
Se lieta fosse,
è van che tu dimande:
Piacer prendea
di quella vista, e il bene
Che
il cor le prometteva era più grande.
Come fuggiste,
o belle ore serene!
Dilettevol
quaggiù null'altro dura,
Né
si ferma giammai, se non la spene.
Ecco turbar la
notte, e farsi oscura
La sembianza
del ciel, ch'era sì bella,
E
il piacere in colei farsi paura.
Un nugol torbo,
padre di procella,
Sorgea di
dietro ai monti, e crescea tanto,
Che
più non si scopria luna né stella.
Spiegarsi ella
il vedea per ogni canto,
E salir su per
l'aria a poco a poco,
E
far sovra il suo capo a quella ammanto.
Veniva il poco
lume ognor più fioco;
E intanto al
bosco si destava il vento,
Al
bosco là del dilettoso loco.
E si fea
più gagliardo ogni momento,
Tal che a forza
era desto e svolazzava
Tra
le frondi ogni augel per lo spavento.
E la nube,
crescendo, in giù calava
Ver la marina
sì, che l'un suo lembo
Toccava
i monti, e l'altro il mar toccava.
Già
tutto a cieca oscuritade in grembo,
S'incominciava
udir fremer la pioggia,
E
il suon cresceva all'appressar del nembo.
Dentro le nubi
in paurosa foggia
Guizzavan
lampi, e la fean batter gli occhi;
E
n'era il terren tristo, e l'aria roggia.
Discior sentia
la misera i ginocchi;
E già
muggiva il tuon simile al metro
Di
torrente che d'alto in giù trabocchi.
Talvolta ella
ristava, e l'aer tetro
Guardava
sbigottita, e poi correa,
Sì
che i panni e le chiome ivano addietro.
E il duro vento
col petto rompea,
Che gocce
fredde giù per l'aria nera
In
sul volto soffiando le spingea.
E il tuon
veniale incontro come fera,
Rugghiando
orribilmente e senza posa;
E
cresceva la pioggia e la bufera.
E d'ogn'intorno
era terribil cosa
Il volar polve
e frondi e rami e sassi,
E
il suon che immaginar l'alma non osa.
Ella dal lampo
affaticati e lassi
Coprendo gli
occhi, e stretti i panni al seno,
Gìa
pur tra il nembo accelerando i passi.
Ma nella vista
ancor l'era il baleno
Ardendo
sì, ch'alfin dallo spavento
Fermò
l'andare, e il cor le venne meno.
E si rivolse
indietro. E in quel momento
Si spense il
lampo, e tornò buio l'etra,
Ed
acchetossi il tuono, e stette il vento.
Taceva il
tutto; ed ella era di pietra.
Ogni mondano
evento
È di
Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo
talento
Ogni cosa
dispone.
Ma di lunga
stagione
Nostro cieco
pensier s'affanna e cura,
Benché l'umana
etate,
Come destina il
ciel nostra ventura,
Di giorno in
giorno dura.
La bella speme
tutti ci nutrica
Di sembianze
beate,
Onde ciascuno
indarno s'affatica:
Altri l'aurora
amica,
Altri l'etade
aspetta;
E nullo in
terra vive
Cui nell'anno
avvenir facili e pii
Con Pluto gli
altri iddii
La mente non
prometta.
Ecco pria che
la speme in porto arrive,
Qual da
vecchiezza è giunto
E qual da morbi
al bruno Lete addutto;
Questo il
rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago
rapisce; altri consunto
Da negre cure,
o tristo nodo al collo
Circondando,
sotterra si rifugge.
Così di
mille mali
I miseri
mortali
Volgo fiero e
diverso agita e strugge.
Ma per sentenza
mia,
Uom saggio e
sciolto dal comune errore,
Patir non
sosterria,
Né porrebbe al
dolore
Ed al mal
proprio suo cotanto amore.
Umana cosa
picciol tempo dura,
E certissimo
detto
Disse il veglio
di Chio,
Conforme ebber
natura
Le foglie e
l'uman seme.
Ma questa voce
in petto
Raccolgon
pochi. All'inquieta speme,
Figlia di
giovin core,
Tutti prestiam
ricetto.
Mentre è
vermiglio il fiore
Di nostra etade
acerba,
L'alma vota e
superba
Cento dolci
pensieri educa invano,
Né morte aspetta
né vecchiezza; e nulla
Cura di morbi
ha l'uom gagliardo e sano.
Ma stolto
è chi non vede
La giovanezza
come ha ratte l'ale,
E siccome alla
culla
Poco il rogo
è lontano.
Tu presso a
porre il piede
In sul varco
fatale
Della plutonia
sede,
Ai presenti
diletti
La breve
età commetti.