HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Giacomo Leopardi
Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl’Italiani
In questo
secolo presente, sia per l'incremento dello scambievole commercio e dell'uso
de' viaggi, sia per quello della letteratura, e per l'enciclopedico che ora
è d'uso, sicchè ciascuna nazione vuol conoscere più a
fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia
per la scambievole comunione di sventure che è stata fra' popoli civili,
sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l'altre nazioni parte per
le vittorie, parte per l'aumento della coltura e letteratura di ciascheduna
sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d'Europa, una specie
d'uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare,
laddove per lo passato da' tempi di Luigi XIV, cioè dall'epoca della diffusa
e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente
ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava[1]; per qualcuna o per tutte
queste cagioni le nazioni civili d'Europa, cioè principalmente la
Germania, l’Inghilterra e la Francia stessa hanno deposto (forse anche pel
progresso dei lumi e dello spirito filosofico e ragionatore che accresce i lumi
e calma le passioni ed introduce uno abito di moderazione; e altresì per
l'affievolimento stesso dell'amore e fervor nazionale, e generalmente di tutte
le passioni degli uomini)[2], hanno, dico, deposto gran
parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri,
dell’animosità, dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo
verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e costumi,
quantunque si voglia differenti dai propri. E cresciuto il gusto di conoscerli
insieme colla stima de’ medesimi e colla equità del giudicarli, infiniti
sono i volumi pubblicati in ciascuna nazione, per informarla delle cose
dell’altre. Fra’ quali sono anche infiniti quelli pubblicati dagli stranieri e
che si pubblicano tutto giorno sopra le cose d’Italia fatta oggetto di
curiosità universale e di viaggi, molto più che ella non fu in
altro tempo, e molto più generalmente, e più ancora che alcun
altro paese particolare. Nei quali libri però gli scrittori incorrono
senza loro colpa e per natura del soggetto in due inconvenienti, l’uno che
spesso errano, essendo impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente
un’altra nazione, massime dopo non lunga dimora, l’altro che dicendo o il
falso, o anche il vero, che sia alcun poco sfavorevole a quelli di cui parlano,
benchè il dicano senz’animosità veruna (non essendo più
mezzo di farsi grato alla propria nazione il dir male dell’altre, ed odiandosi
in tali libri l’animosità, sempre che si scuopre)[3] si concitano (attirano,
ndr) l’odio della nazione di cui scrivono. Il qual secondo male è
più grave che mai ne’ libri che trattano degli italiani, delicatissimi
sopra tutti gli altri sul conto loro: cosa veramente strana, considerando il
poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è
negli altri paesi. Cagione di ciò è sicuramente in gran parte che
gl’italiani misurando gli altri da se medesimi (i quali camminando sempre addietro
degli altri, non sono ancora così lontani da’ pregiudizi e
dall’animosità verso gli stranieri, e certo li conoscono e studiano di
conoscerli cento volte meno che essi non fanno verso loro) attribuiscono sempre
ad odio e malvolenza e invidia ogni parola men che vantaggiosa che sia
profferita o scritta da un estero in riguardo loro. Certo è nondimeno
che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla Corinna (il
romanzo di M.me de Staël, ndr) in poi più opere favorevoli
all’Italia, che non sono tutte insieme quelle pubblicate negli altri tempi, e
nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto appena da noi
medesimi. Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo di
affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente
parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che
fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione
vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro
merito, ed è in molte cose contraria alla verità. E ben si
può dire che oggi, al contrario che nel passato, gli stranieri quando
s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano a favor nostro che
in disfavore. Contuttociò e la Corinna e tutte le altre siffatte opere
sono guardate dagl’italiani con gelosia, e molte cose vere ed utili hanno dette
e scritte gli stranieri sui nostri costumi che per questa e per altre cause non
ci sono di veruna utilità. Gl’italiani stessi non scrivono nè
pensano sui loro costumi, come sopra niun’altra cosa che importi e giovi ad
essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti[4], spirito in gran parte
altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento e certo
poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di
pensare e vedere, benchè questa niente affettata, sì per la sua decisa
inclinazione a sparlare di tutto[5], e il suo carattere aspro
e iracondo verso tutto, il più delle volte alieno dal tutto. Oltre i
costumi e lo stato d’Italia sono incredibilmente cangiati dal suo tempo,
cioè da prima della rivoluzione, al tempo presente. Allora, massime
l’Italia meridionale, era quasi in quello stato di opinioni e di costumi in cui
si è trovata fino agli ultimi anni ed ancora in grandissima parte si
trova la Spagna. Ora per l’uso e il dominio degli stranieri, massime de’
francesi, l’Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli altri
popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di
cognizioni nelle classi popolari. Queste opinioni però operano sullo
stato e sulla vita degl’italiani in maniera diversa che presso gli altri, per
la diversità somma delle sue circostanze, e quindi ne risulta che con
opinioni appresso a poco, e massime in buona parte della nazione, conformi,
essa è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili. Se io
dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale)
colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno
straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani,, perché non lo potranno
imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose
nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno
straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio
con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla
mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?
Non è da dissimulare che
considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli, la quasi universale
estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possano fondare i principii
morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che il
giusto e l’onesto paia ragionevole, e l’esercizio della virtù degno d’un
savio, e da altra parte l’inutilità della virtù e la
utilità decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzionale delle
presenti repubbliche; la conservazione della società sembra opera
piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che
ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e
cercano in tutti i modi di muoversi gli uni agli altri. Il vincolo e il freno
delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga
alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per
insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene.
Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra
parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e
garantiti dalle opinioni. In questa universale dissoluzione dei principii
sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo
pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in
grande incertezza del come elle possano durare a sussistere in avvenire, le
altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la
Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della
società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii
morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo
effetto. Questo principio è la società stessa. Le dette nazioni,
oltre la società generalmente presa, cioè il convitto (consorzio,
ndr.) degli uomini per provvedere scambievolmente ai propri bisogni, e
difendersi dai comuni danni e pericoli, hanno quel genere più
particolare di società che suole essere chiamato con questo medesimo
nome ridotto a significazione più stretta, e consiste in un commercio (rapporto,
ndr) più intimo degl’individui fra loro, e massime di quelli, che
dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll’opera meccanica delle
proprie mani alla loro e all’altrui sussistenza e forniti del necessario alla
vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono naturalmente
nel secondo bisogno, cioè di trovare qualche altra occupazione che
riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave
e intollerabile quando è disoccupata. Questa tal società che
è principalmente fra questi tali uomini, ha per fine il diletto e il
riempire il vuoto della vita cagionato dalla mancanza de’ bisogni primi, e per
causa ha i detti bisogni secondi, come quell’altro più largo e
più comun genere di società ha per origine i primi bisogni e la
naturale necessità. Per mezzo di quella società più
stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi
massimamente, l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono
quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più
strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una
occupazione, un pascolo, un trattenimento alla vita di quelli, che senza
ciò menerebbero il tempo affatto vuoto, e tali sono, rigorosamente
parlando, tutti gli uomini, salvo gli agricoltori e quelli che ci procurano il
vestito di prima necessità. Coll’uso scambievole gli uomini naturalmente
e immancabilmente prendono stima gli uni degli altri: cioè non
già buona opinione, anzi questa è tanto minore in ciascuno verso
gli altri generalmente, quanto il detto uso e quindi la cognizione degli uomini
è maggiore; ma la stretta società fa che ciascuno fa conto degli
uomini e desidera di farsene stimare (questa è propriamente la stima che
si concepisce di loro) e li considera per necessarii alla propria
felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa
soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera
e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde.
Questo desiderio è quello che si chiama ambizione, vincolo e sostegno
potentissimo della società che non d’altronde nasce che da essa
società ridotta a forma stretta, poiché fuor di essa l’ambizione non ha
luogo alcuno nell’uomo, e l’amor proprio naturale non prenderebbe mai questo aspetto,
che pur sembra totalmente suo proprio ed essenziale e sommamente immediato.
L’ambizione può aver varie forme e vari fini. Una volta ella era
desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa
troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo
nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in
angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica (pensiero
razionale, ndr.) e dallo stato politico della società; perch’ella
possa compatire (accordarsi, ndr.) collo stato di freddezza e
mortificazione che risulta universalmente nella vita civile dalle dette cause;
e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché
possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della
verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore
della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è
cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o
è così raro, e dove anche sussiste è così debole e
inefficace che non può esser principio di grandi beni alla
società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran parte
una volta. A’ nostri tempi, presso quelle nazioni che hanno l’uso di quella
società intima definita di sopra, l’ambizione produce un altro sentimento
tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita posteriore alle
grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che
si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima
che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che
rigorosamente parlando, è cosa di niun conto[6]; ma egli è
un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa, che facilmente nasconde anche
agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e
può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte
l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso (considerata,
ndr.) la sua natura, per così dire, fredda e rimessa. Questa illusione
però è potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l’uso
di quella intima società da cui solo ella può nascere. E
particolarmente in Francia, molti sono stati filosofi di opinione fino
all’ultimo grado, e conoscitori intimi del vero in tutta la sua estensione, e
il danno eziandio non piccolo in varie cose. Ma nel fatto e nella vita è
certissimo che nessuno di questi, non che degli altri francesi, dal tempo della
origine della società francese fino al presente, ha mai potuto impetrar
da se stesso, non solo di non curar veramente l’opinione pubblica, ma neppure
di non metterla quanto all’effetto e quanto al fondo del suo animo, nella cima
de’ suoi pensieri e de’ suoi fini, e di non volgere a quella il più
delle sue azioni e delle sue omissioni. Questa stima della opinione pubblica,
così piccola cosa come ella è, è pur da tanto che quasi
basta nelle dette nazioni (ciascuna delle quali ne partecipa a proporzione
delle sue circostanze sociali) a rimpiazzare i principii morali ugualmente
perduti appresso di loro, massime nelle classi non laboriose, e gli altri
vincoli della società, gli altri freni del male e stimoli del bene, in
luogo de’ quali resta si può dire esso solo, ed è pur sufficiente
a servire alla società di legame. Piccolissima e freddissima cosa ella
è, come ho detto, non v’ha dubbio. Gli uomini politi (dotati di un
grado elevato di educazione, ndr) di quelle nazioni si vergognano di fare
il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o
con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e
con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir
le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili,
cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo
stesso principio, non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e
fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente. Qual cosa
è più frivola in sé che il far conto di una buona azione né
più né manco che di un buon motto o di un bell’abito, esser sollecito
della propria probità per la sola ragione per cui si ha cura di
acquistare e conservare la bella maniera, evitare una mala azione come una
brutta riverenza, e il vizio come il cattivo tuono? Ma bisogna pur confessare
(che giova il parlar sempre dissimulatamente, e col linguaggio antico nelle
cose affatto nuove?) che effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni
quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono
è, non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’
buoni costumi, e che i buoni costumi non sono esercitati per altro,
generalmente parlando e delle classi civili, che per le ragioni per cui si
esercita il buon tuono, e che dove il buon tuono della società non
v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la
società d’ogni vincolo, fuor della forza,, la quale non potrà mai
né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi. Così
nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce
la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati che
si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di sé
medesima[7].
Gl’italiani dal tempo della rivoluzione
in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi, cioè ragionevoli
e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi il popolo,
il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non
è quello d’altra nazione alcuna. Voglio dire che quanto alla cognizione
del nudo vero circa i principii morali, quanto alle credenze che a questi
appartengono, quanto all’abbandono delle credenze antiche, la nazione italiana
presa insieme e paragonando classe a classe conforme e corrispondente tra lei e
l’altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque altra
più civile e più istruita d’Europa o d’America. Per conseguenza
da questa parte ella è priva come l’altre d’ogni fondamento di morale, e
d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre di
questo, a differenza delle dette nazioni, ella è priva ancora di quel
genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a
privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl’inclina a vivere gran
parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la
vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli
spettacoli e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente
propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da
ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia; queste cose non sono che
le menome e le più facili a vincere tra le ragioni che producono il
sopraddetto effetto. Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le
Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e
in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente
da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani
non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l’hanno.
Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e
alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni
di tutte le classi non bisognose in Italia.
Conseguenza necessaria di questo
è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o
parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in
nessun senso. Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi
veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e
quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre
nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte
di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri
individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più
nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze
necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di altre
molte cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola
mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi
una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon
tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia
quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni
cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e
maniera da sé.
Non avendovi buon tuono, non possono
avervi convenienza di società (bienséances). Mancando queste, e
mancando la società stessa, non può avervi gran cura del proprio
onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono o lo
mantengono e vi si conformano, è vaga e niente stringente. Ciascuno
italiano è presso a poco ugualmente onorato e disonorato. Voglio dir che
non è né l’uno né l’altro, perché non v’ha onore dove non v’ha
società stretta, essendo esso totalmente una idea prodotta da questa, e
che in questa e per questa sola può sussistere ed essere determinata.
Benché gl’italiani, come ho detto,
sieno incirca a livello delle altre nazioni nella conoscenza generale della
realtà delle cose relativamente ai fondamenti dei principii morali, per
quanto almen basta a influire e dar norma alla condotta pubblica e privata di
ciascheduno; tuttavia è ben certo
e da tutti gli stranieri, non meno che da noi, conosciuto e consentito che
l’Italia in fatto di scienza filosofica e di cognizione matura e profonda
dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia,
all’Inghilterra, alla Germania considerando queste e quella generalmente. Ma
contuttociò è anche certissimo, benché parrà un paradosso,
che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto,
gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior
filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni.
Primieramente dell’opinione pubblica
gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzion degli altri
popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto giorno cento
proverbi in Italia che affermano che non s’ha da por mente a quello che il
mondo dice o dirà di te, che s’ha da procedere a modo suo non curandosi
del giudizio degli altri, e cose tali. Lungi che gl’italiani considerino, come
i francesi, per la massima delle sventure la perdita o l’alterazione
dell’opinion pubblica verso loro, e sieno pronti, come i francesi ben educati,
a soffrire e sacrificar qualunque cosa piuttosto che incorrere anche a torto in
questo inconveniente; essi non si consolano di cosa alcuna più di
leggieri che della perdita eziandio totale (giusta o ingiusta che sia)
dell’opinione pubblica, e stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i
suoi interessi e i suoi vantaggi reali (o quelli che così si chiamano
nel linguaggio della vita), e chi non si cura d’incorrere per amor di quello in
danni o privazioni vere, d’astenersi da piaceri, ancorché minimi, e cose tali.
Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di
mondo a sacrificare all’opinion pubblica, e questi italiani di mondo
che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti
quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova. Non si
può negare che filosoficamente e geometricamente parlando, essi non
abbiano assai più ragione dei francesi e degli altri che pensano e
operano diversamente, e che per conseguenza in questa parte essi non sieno,
quanto alla pratica, assai più filosofi. Al che li porta lo stato delle
cose loro, nel quale in realtà l’opinione pubblica, per la mancanza di
società stretta, pochissimo giova favorevole e pochissimo nuoce
contraria, e la gente per quanta ragione abbia di dir male o bene di uno, di
pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell’uno e dell’altro; si
dimentica affatto delle ragioni che aveva di far questo o quello, benché
certissime e grandissime, e torna a parlare e pensare di quella tal persona con
perfetta indifferenza, e come d’una dell’altre.
Secondariamente, e questa è cosa
molto osservabile, come l’opinion pubblica, così la vita non ha in
Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l’ha neppure
altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante.
Lascio la totale mancanza d’industria, e d’ogni sorta di attività, e
quella di carriere politiche e militari, quella d’ogni altro istituto di vita e
di professione per cui l’uomo miri a uno scopo, e coll’aspettativa, coi
disegni, colle speranza dell’avvenire, rilevi il pregio dell’esistenza, la
quale sempre che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è
ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun
momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli
occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l’importanza
della vita. Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva
di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo
presente. Ma lasciando questo e restringendoci alla sola mancanza di
società, certo è che uno de’ grandissimi e principali mezzi che
restano oggi agli uomini per non avvedersi affatto della nullità delle
cose loro, o per non sentirla, benché conoscendola, per non essere nella pratica
persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni qualunque e della totale
indegnità della vita ad esser con fatiche e con sollecitudini coltivata,
studiata ed esercitata, uno, dico, de’ principali mezzi e forse il principale
assolutamente, è la società. L’uomo è animale imitativo e
d’esempio. Questa è cosa provata. Tale egli è sempre, anche dopo
emancipato (se egli arriva mai ad esserlo) dal giogo delle credenze e del modo
di pensare e di vedere altrui; anche filosofo: egli lo è men degli
altri, ma pure in gran parte. Questa sua imitazione è volta
principalmente a’ suoi simili, questo esempio ch’ei ne prende, da loro principalmente
lo piglia. Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo
della sua condotta, non solo del suo carattere, de’ suoi costumi, non solo del
suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare,
dipende, imita, si regola, è modificata dall’esempio altrui, cioè
precisamente e massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei
convive, sia che ei conviva per mezzo della lettura, sia specialmente colla
persona, sia come si voglia[8]. Or dunque nella
società stretta l’essere continuamente testimonio delle cure che gli
altri si danno (perciocché essa le richiede, e ne impone una necessità,
non paragonabile alle naturali, ma pur molto imperiosa ed efficace), del peso
che essi annettono, o che nell’estrinseco necessariamente e per legge molto
naturale di essa società, mostrano continuamente e totalmente di
annettere alle bagattelle della società medesima e di tutta la vita, fa
che ciascuno dal canto suo, non possa a meno, quanto alla pratica ed anche a
una certa parte del suo intelletto, di non fare una tal quale stima della vita
e delle cose umane, e di contarle per qualche che.
La perpetua e piena dissimulazione
della vanità delle cose, dissimulazione che tutti fanno verso ciascuno
nelle parole e nei fatti in una società stretta, e che ciascuno è
obbligato nello stesso modo a fare continuamente con tutti gli altri, inganna
in qualche guisa il pensiero, e mantiene come che sia e per quanto è
possibile l’illusione dell’esistenza. In una società stretta anche
l’uomo più intimamente persuaso per raziocinio, ed anche per sentimento,
della vanità di se stesso, della frivolezza altrui, della
inutilità della vita e delle fatiche, della niuna importanza d’essa
società, anche il più perfetto filosofo in ispeculazione, non
può mai fare, non solo di non contenersi in atto come se il mondo
valesse pur qualche cosa, ma nemmeno che una parte del suo intelletto non
combatta coll’altra, affermando che le cose umane meritano pur qualche cura, e
combattendo non vinca il più del tempo, e non persuada confusamente alla
persona la detta cosa in dispetto, per dir così, della sua stessa
persuasione. Se non altro l’immaginativa che per natura ci porta a conceder
qualche valore alla vita, ha pure un pascolo nella società stretta, e
facoltà di conservar qualche parte della sua azione ed influenza
sull’uomo[9]. Tutto ciò non ha
luogo nella solitudine, ma meno ancora in una dissipazione giornaliera e continua
senza società. Nella solitudine anche dell’uomo il più sapiente
esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggetti giova infinitamente a
ingrandirli, apre il campo all’immaginazione per l’assenza del vero e della
realtà e della pratica, risveglia e risuscita sovente le illusioni in
luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’animo dell’uomo torna a creare e a
formarsi il mondo a suo modo; e finalmente la mancanza di occupazioni o
distrazioni vive, e il continuo e non diviso né divagato pensiero che
necessariamente si pone nelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo
che nasce dalla mancanza di sensazioni che la trasportino qua e là, fanno
che all’ultimo si dà peso a menomissimi oggetti, e molto più che
non si dava e che gli altri non danno nel mondo a oggetti molto maggiori (o
così detti), e vi si pone tanta cura che finalmente essi riempiono tutto
il tempo, ed occupano la vita, e alcune volte eziandio d’avanzo. L’esperienza
lo prova a quelli che hanno potuto farla in se o in altri[10]. Ma la detta dissipazione
continua, senza società, quella che forma la vita degl’italiani non
bisognosi, è priva degli aiuti della lontananza, priva delle risorse
interne dell’immaginazione e dell’animo, per esser dissipazione e per aver
sempre la realtà sotto gli occhi; e priva da altra parte de’ soccorsi esterni della immaginazione, e
di cose al di fuori che mantengano o rialzino le illusioni, perché come
trovarle fuor della società?[11] Per queste cagioni
gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono più o
meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri, la vanità
reale delle cose umane e della vita, e ne sono pienamente, più
efficacemente e più praticamente persuasi, benché per ragione la conoscano,
in generale, molto meno. Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e
in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque
filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per dir
così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che
è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della
vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è
piuttosto opinione o sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai
più dell’altre nazioni.
Or da ciò nasce ai costumi il
maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né
più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della
vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità.
Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima
verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi,
de’ caratteri, e della morale. Non si può negare; la disposizione
più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo
disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini,
senza però esser disperato né inclinato alle risoluzioni feroci, ma
quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua cognizione, come son la
più parte degli uomini ridotti in queste due ultime condizioni; la
disposizione, dico, la più ragionevole e quella d’un pieno e continuo
cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e
d’azioni. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la
miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo o
non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene, e
di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro
gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur
vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; - continuare in una vita
che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi
e da nulla – il più savio partito è quello di ridere
indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se
medesimo. – Questo è certamente il più naturale e il
più ragionevole. Or gl’italiani generalmente parlando, e con quella
diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e
individui, trattandosi di una nazione intiera, si sono onninamente appigliati a
questo partito. Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e
con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che
non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per
loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i
caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello
degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti
da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui,
così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le
più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio
italiano è il più cinico di tutti i popolacci. Quelli che credono
superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né
uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale
(maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni
cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società,
che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società
francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è
pieno di riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre
classi, quanto comporta la sua natura. Se gli stranieri non conoscono bene il
modo di trattare degl’italiani, massime tra loro, questo viene appunto dalla
mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il
farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali ordinarie, mancandogli
l’occasione d’esserne facilmente e sovente testimonio, perocchè
d’altronde non siamo soliti a risparmiare i forestieri. Ma nel nostro proprio
commercio, per le dette ragioni, il cinismo è tale che supera di gran
lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna
classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle
conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma
con più vita, e d’altronde con più società, ridono
piuttosto delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei
presenti, perché una società stretta non può durare tra uomini
continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi
continui segni di scambievole disprezzo. In Italia il più del riso
è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie (canzonatura, ndr.)
il persifflage (punzecchiatura, ndr.), cose sì poco proprie della
buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera
conversazione che v’ha in Italia. Quest’è l’unico modo, l’unica arte di
conversare che vi si conosca. Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo
di più mondo, e considerato per superiore agli altri nelle maniere e
nella conversazione, quando altrove sarebbe considerato per il più
insopportabile e il più alieno dal modo di conversare. Gl’Italiani
posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à
bout (spingersi al limite, ndr.) colle parole, più che alcun’altra
nazione. Il persifflage degli altri è certamente molto più
fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una
specie di polissonnerie (licenza, ndr.), ma con tutto questo io
compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un
italiano in genere di raillerie. I colpi di questo, benché poco
artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non
è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere
alla stessa guisa. Così un uomo perito della scherma è sovente
sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in
istato di trasporto. Gl’Italiani non bisognosi passano il loro tempo a
deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il
maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza
di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il
procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la
principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il
mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui,
l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli
più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di
voi.
Sono incalcolabili i danni che
nascono ai costumi da questo abito di cinismo, benché per verità il
più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e
praticamente filosofo, e da tutte le sovraespresse condizioni e maniere del
nostro modo di trattarci scambievolmente. Non rispettando gli altri, non si
può essere rispettato. Gli stranieri e gli uomini di buona
società non rispettano altrui se non per essere ripettati e risparmiati
essi stessi, e lo conseguono. Ma in Italia non si conseguirebbe, perché dove
tutti sono armati e combattono contro ciascuno, è necessario che ciascuno
presto o tardi si risolva e impari d’armarsi e combattere, altrimenti è
oppresso dagli altri, essendo inerme e non difendendosi, in vece d’essere
risparmiato. È anche necessario ch’egli impari ad offendere. Tutto
ciò non si può conseguire prima che uno contragga un abito di
disistima e disprezzo e indifferenza somma verso se stesso, perché non
v’è cosa più nociva in questo modo di conversare che l’esser
dilicato e sensibile sul proprio conto. Oltre che allora tutti i ridicoli
piombano su di voi, si è sempre timido e incapace di offendere per paura
di non soffrire altrettanto e provocarsi maggiormente gli altri, incapace di
difendersi convenientemente perché la passione impedisce la libertà e la
franchezza del pensare e dell’operare e l’aggiustatezza e disinvoltura delle
difese. E basta che uno si mostri sensibile alle punture o abitualmente o
attualmente perché gli altri più s’infervorino a pungerlo e
annichilarlo. Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in
derisione per necessità produce una disistima di se stesso e dall’altra
parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione. La quale
indifferenza chi non sa quanto noccia ai costumi? E certo che il principal
fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la
stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di
conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti
disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio
onore. Un uomo senz’amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice,
è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere,
d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni.
Di più quanto v’ha di
conversazione in Italia (ch’è la più parte ne’ caffè e ridotti
pubblici, piuttosto che appresso i privati, appo i quali propriamente non si
conversa, ma si giuoca, o si danza, o si canta, o si suona, o si passeggia,
essendo sconosciute in Italia le vere conversazioni private che s’usano altrove);
quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una
pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di
quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna
sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli
animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto
per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una
parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso
gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità
dei costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri. Ciascuno
combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare
ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto
egoismo, ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro, il che si
chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo.
Così che le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle
offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo
dall’altra a far male a’ suoi simili co’ fatti. Nel che è riposto
l’esizio (rovina, ndr) e l’infelicità sociale e nazionale. E
questa è la somma della pravità e corruzion de’ costumi. Ed anche
all’amore e spirito nazionale è visibile quanto debbano nuocere tali
modi di conversare per cui trattiamo e ci avvezziamo a trattare e considerar
gli altri sì diversamente che come fratelli, ed acquistiamo o
intratteniamo ed alimentiamo uno spirito ostile verso i più prossimi.
Laddove presso l’altre nazioni la società e conversazione, rispettandovisi
ed anche pascendovisi per parte di tutti l’amor proprio di ciascheduno,
è un mezzo efficacissimo d’amore scambievole sì nazionale che
generalmente sociale; in Italia per la contraria cagione la società
stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e di
disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali
degli uomini contro gli uomini, massime contro i più vicini, che
più importa di amare e beneficare o risparmiare; tanto che al paragone
sarebbe assai meglio che ella non vi fosse affatto, e che gli italiani non
conversassero mai tra loro se non nel domestico, e per li soli bisogni, come
alcune nazioni poco polite e molto bisognose, o molto occupate e industriose.
Certo la società che avvi in Italia è tutta di danno ai costumi e
al carattere morale, senza vantaggio alcuno.
Queste sono le conseguenze della poca
società e della poca vita che avvi in Italia. Dalla poca società
nasce che non v’ha buona società e che quella poca nuoce al morale. E
ciò nasce ancora come s’è detto dal disprezzo della vita che
naturalmente ha luogo più che negli altri in quelli che nulla vi godono,
e per chi niente ella vale, sì stante le altre circostanze come atteso
eziandio la mancanza di buona e non tediosissima società. La poca
società e la poca vita (cioè poca azione) apparisce dalle
sopraddette cose che sono naturalmente sinonimi di società e vita
cattiva e scostumata e noiosa e immorale.
O tutti o gran parte degl’inconvenienti
di sopra specificati[12] hanno luogo
proporzionatamente anche nelle nazioni più sociali e nelle migliori
conversazioni. Da per tutto v’ha inconvenienti, da per tutto la società
e l’uomo, considerato sì in se stesso e come individuo, sì come
sociale, è imperfettissimo. Di più i suoi difetti e quelli della
società e gl’inconvenienti di questa, presi generalmente e capo per capo
all’ingrosso, sono da per tutto i medesimi, massime in questi tempi di grandissimo
commercio d’ogni genere e quindi conformità fra le nazioni civili, anche
le più distanti. È impossibile nominare o descrivere un difetto e
un inconveniente proprio d’una nazione in generale, che non si trovi o al tutto
uguale o con poca differenza e modificazione in ciascun’altra. Io non intendo
dunque di attribuire all’Italia esclusivamente gl’incomodi che ho detti. Sono
ben lontano dall’immaginarmi un mondo diverso e più bello del nostro né
paesi remoti da’ miei occhi. In particolare poi, dovunque v’ha società,
quivi l’uomo cerca sempre d’innalzarsi, in qualunque modo e con qualunque sia
mezzo, colla depressione degli altri, e di far degli altri uno sgabello a se
stesso (o trattisi di parole o di fatti), e l’amor proprio in nessun paese
è scompagnato dall’avversione comunque sentita e dalla persecuzione comunque
esercitata verso i propri simili, e massime verso quelli con cui si convive e
che ci toccano più da presso o con gl’interessi o con l’uso quotidiano.
E questo accade più che mai nei
popoli civili, e oggi più che in qualunque altro tempo, essendo riconosciuto
per caratteristico di questo secolo, e per necessaria conseguenza delle opinioni e dello stato
presente dei popoli, quel genere di amor proprio che si chiama egoismo, il
pessimo di tutti i generi. Ma oltre che
le modificazioni dei difetti e inconvenienti umani e sociali possono essere differenti
come ho detto, vi si dà anche il più e il meno, e di essi altro
può esser dominante e principale in un luogo, ed altro in un altro.
Quello dunque che io intendo di dire si è che gli accennati inconvenienti,
per le cagioni e circostanze nostre specificate, sono maggiori qui che altrove,
sono i dominanti in Italia, di peggior natura, più efficaci, più
gravi, più estesi e frequenti e divulgati, più dannosi,
più caratteristici e distinti nella nostra società e nella nostra
vita che altrove.
Si vede dalle sopraddette cose che
l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti
che forse alcun’altra nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha
fatti nascere ed ora conferma ogni dì più co’ suoi progressi la
civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della
civiltà e dei lumi ha distrutti. Sì per l’una parte è
inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più
sociali, più attive e più vive di lei, per l’altra alle meno
colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al
Portogallo, alla Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’
pregiudizi de’ passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancor qualche garanzia
della morale, benché sien prive di quella che dà alla morale la
società e il sentimento delicato dell’onore. Il quale stato della Spagna
in particolare, fece dire allo Chateaubriand prima della sua rivoluzione, che
quando gli altri popoli rotti e invecchiati dall’eccesso della civiltà e
per conseguenza dalla corruzione avrebbero perduta ogni virtù, e seco
ogni forza, valore ed energia, la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla
natura, si sarebbe trovata in quello stato di vigore che nasce da’ principii e
da’ costumi non corrotti di una nazione serbata lontano e illesa dal commercio
cogli altri popoli; e che quello sarebbe stato il tempo in cui la Spagna
sarebbe tornata a risplendere, e ricomparsa superiore all’altre nazioni in
Europa, come l’unica non corrotta. Nel che lo Chateaubriand, come in molte
altre cose, e per conseguenza necessaria di molti suoi falsi principii,
s’ingannava grandemente. Si potrà forse disputare non poco se l’antica
civiltà sia da preporre o posporre alla moderna, in ordine alla
felicità sì dell’uomo sì de’ popoli ed alla virtù,
valore, vita, energia ed attività delle nazioni. Ma lo stato della
Spagna non ha niente a fare con l’antica civiltà. Tutto quello che la
Spagna (e i popoli che se le assomigliano) si distingue dagli altri d’Europa
(prescindendo dalle differenze di necessità occasionate dal clima e
carattere nazionale: differenze che si trovano fra tutte l’altre nazioni anche
civilissime) appartiene alla barbarie de’ tempi bassi, è una
derivazione, o piuttosto una continuazione di quella. Se la Spagna differisce
dalle altre europee e dalle sue vicine, più che tutte queste altre non
differiscono tra loro anche tra le più lontane ciò non accade
perch’ella abbia nulla d’antico o conservato o racquistato, ma perch’ella ha
conservato della barbarie dell’età media assai più ella sola che
tutte l’altre nazioni civili insieme. Ora i costumi, le opinioni e lo stato
propriamente antico favorivano, conducevano, e generavano il grande, ma quelli
del tempo basso in generale considerandoli, non hanno mai né favorito né prodotto
niente di grande, né sono di natura da poterne produrre o da esser compatibili
colla vera grandezza né dell’individuo né molto meno delle nazioni. È un
falsissimo modo di vedere quello di considerar la civiltà moderna come
liberatrice dell’Europa dallo stato antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente
il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere
umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che
turba e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande
sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano[13]. Il risorgimento è
stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà,
le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno
liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico.
In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque.
Certo ella non fu totalmente conforme alla prima, anzi beaucoup s’en faut (molto
ci manca, ndr.); le circostanze non lo consentirono allora, e ne l’hanno
forse più che mai allontanata in progresso, ed allontanano ogni
dì più, ma in quanto ella ci rende diversi dagli antichi, si
può forse molto dubitare se ella faccia un benefizio agl’individui e alle
nazioni e se giovi alla felicità, virtù e grandezza sì
degli uni separatamente considerati, e sì dell’altre considerate
ciascuna in corpo, e tutte insieme. Il grandissimo e incontrastabile beneficio
della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci
liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura
proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato
che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente
barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de’
fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà e
codardia crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa,
intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale,
dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal
vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare,
dalla mancanza d’ogn’industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla
spopolazione, povertà, fame, peste che seguivano ad ogni tratto da tali
cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e
devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Baroni e
vassalli, città e città, fazioni e fazioni, famiglie e famiglie, dallo
spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai
usata per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor
nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi dal
niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e
amministrazione, incertezza della giustizia, de’ diritti, delle leggi,
degl’instituti e regolamenti, tutto in potestà e a discrezione e piacere
della forza, e questa per lo più posseduta e usata senza coraggio, e il
coraggio non mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per
gloria, ma per danari, per vendetta, per odio, per basse ambizioni e passioni,
o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d’alcun colore, le colpe
non curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche
ne’ più grandi e in quelli eziandio che facean professione di vita e
carattere più santo, guerre di religione, intolleranza religiosa,
inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici,
niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e cose tali. Da questo
stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora
grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi
giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono
proccura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire,
non ancor sono due secoli, e intenta propriamente a terminare e perfezionare il
nostro risorgimento dagli abusi, pregiudizi (peggiori assai che l’ignoranza),
depravazione e barbarie de’ tempi bassi; degna perciò solo di lode e
gratitudine e gloria e favore e coltura, e perciò solo utile o almeno
perciò principalmente. Questo stato e natura di cose, propriamente
parlando, o gli effetti e avanzi suoi, o gli usi, le opinioni e le forme ad
essa appartenenti o corrispondenti, amano, difendono, lodano, cercano di
ritenere e salvare dalla distruzione a cui sono incamminate i nemici della
moderna filosofia, quelli che piangono, condannano, biasimano, oppugnano,
combattono la civiltà moderna o i lumi del secolo e i suoi progressi, e
quelli che fecero il simile ne'’passati secoli, quelli che richiamano o
richiamarono l'’ntico, e se ne chiamano difensori e conservatori e lo prendono
per loro divisa, e gridano e s’indegnano contro la novità; laddove il
vero antico è in gran parte quello appunto che essi combattono, e non
v’è cosa più propriamente antica di moltissime di quelle che essi
chiamano novità e che impugnano come tali e se ne maravigliano
gravemente come cose finora ignote al genere umano, e contrarie all’esperienza,
e però perniciosissime. Vedi i miei pensieri p. 162-163[14].
Da questa digressione tornando al
proposito, dico che la Spagna in particolare, e seco le nazioni d’Europa o
d’altrove che le somigliano più più o manco, benché sottoposte a
infiniti inconvenienti ed a uno stato in verità non invidiabile, hanno
pur qualche residuo di fondamento alla
morale pubblica e privata, oltre alla forza, ne’ pregiudizi stessi e nella
ignoranza di tante cose rivelate dai lumi moderni, e nell’avanzo non piccolo
della barbarie dell’età media. Il qual fondamento manca all’Italia,
senza che sia compensato da quello che la civiltà moderna istessa offre
alle nazioni d’Europa e d’America più sociali e più vive di lei.
Gl’italiani hanno piuttosto usanze e
abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir
nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono
e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola
assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di
natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato
dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni, e perché quando pur
lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo pericolo realmente non
v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il
prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera
libertà di di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il
pubblico se ne impacci, o impacciandosene sia molto atteso, né se n’impacci mai
in modo da dar molta briga e da far molto considerare il suo piacere o dispiacere,
approvazione o disapprovazione. Gli usi e i costumi in Italia si riducono
generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che
egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto,
se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata
quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella
tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai
maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non
curarsi o non pensare di fare altrimenti o di non farla ( al che basterebbe il
volere); e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi
importanza alcuna, senza che l’animo né lo spirito nazionale, o qualunque, vi
prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il
tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola e non contraffacendole
appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente,
occorrendo con riso e scherno di quel tal uso o costume[15].
Da tutte le cose considerate di sopra
come cagioni della total mancanza o incertezza di buoni costumi in Italia, e
della mancanza eziandio di costumi propriamente italiani (la qual mancanza
è sempre compagna e causa di mali
costumi), segue un effetto reale, che può parere un paradosso, cioè
che (siccome v’ha più propriamente costumi) v’ha migliori o men cattivi
costumi nelle capitali e città grandi d’Italia, che nelle provincie, e
nelle città secondarie e piccole. La ragione si è che in quelle
v’ha un poco più di società, quindi un poco più di cura
dell’opinion pubblica, e un poco più di esistenza reale di questa
opinione, quindi un poco più di studio e spirito di onore,, e gelosia
della propria fama, un poco più di necessità e di cura di esser
conforme agli altri, un poco più di costume, e quindi di buono o men
cattivo costume. Al contrario di quello che può sembrar verisimile, le
città piccole e le provincie d’Italia sono di costumi e di principii
assai peggiori e più sfrenati che le capitali e città grandi, che
sembrerebbero dover essere le più corrotte, e per tali sono sempre state
considerate, e si considerano generalmente anche oggi, ma a torto. In generale
egli è certo che dopo la distruzione o indebolimento de’ principii
morali fondati sulla persuasione, distruzione causata dal progresso e
diffusione dei lumi, si verifica una cosa, che spesso affermata, è stata
forse falsa in ogni altro tempo; cioè che nel mondo civile le nazioni,
le provincie città, le classi, gl’individui più colti, più
politi, sociali, esperimentati nel mondo, istruiti, e in somma più
civili, sono eziandio i meno scostumati e immorali nella condotta, e in parte
ancora ne’ principii, cioè in quei principii di morale che si fondano
sopra discorsi e ragioni al tutto umane. Tutto ciò è esattamente
vero nell’Italia in generale, non solamente quanto alle città e
provincie, ma eziandio quanto agl’individui e quanto alle classi, almeno almeno
a quelle non laboriose, paragonate fra loro. E forse in alcuni luoghi le classi
civili si troveranno più morali, per esempio, di più buona fede,
anche paragonandole alle classi laboriose; tanta è la diffusione de’
principi distruttivi della morale in Italia come altrove. I quali principii non
hanno nelle condizioni basse altra cosa che li compensi, oltre che in esse non
sono accompagnati da quegli altri principii che raffreddano le passioni e i
desiderii degli uomini illuminati e sperimentati sulla natura e il valore de’
beni umani. Onde la distruzione o indebolimento de’ principii morali
(ch’è il più pronto e il più facile effetto della diffusione
dei lumi, perché favorito sommamente dalle inclinazioni naturali, e il lume che
più agevolmente penetra e si abbraccia) è accompagnato in queste
tali condizioni collo stesso ardore di cupidità e di passioni che prima
–vevano, il quale stato è il più pernicioso,, e il più
favorevole, anzi necessario compagno, alla scostumatezza, che mai possa darsi;
oltre alla viltà de’ pensieri, alla bassezza d’animo, alla poca stima di
se stessi, propria di tali condizioni. Così discorrasi
proporzionatamente dell’altre classi, e delle provincie e popolazioni e nazioni
comparativamente l’une all’altre. La società che sotto molti aspetti
è chiamata e veramente è corruzione, pure infondendo lo spirito
di onore mediante l’uso della società, e la stima dell’opinion pubblica
che di là nasce, e la gelosia e cura di quel che gli altri pensino e
dicano di te, o sieno per pensare e per dire, opera oggidì in modo, che
mancando generalmente, più o meno, gli altri principii morali, e gli altri
aiuti e garanti della morale, i costumi dove è minor civiltà,
cioè corruzione, quivi son più corrotti o vogliamo in somma dir
più cattivi. Il che negli altri tempi non poteva aver luogo, perché gli
altri fondamenti della morale pubblica e privata non erano distrutti, né mai
forse furono così indeboliti; e qualunque altro di tali fondamenti
è molto maggiore e più desiderabile e saldo di quel che offre la
civiltà /fondamento ben superficiale, nondimeno da tener carissimo
perché oramai unico possibile); onde dov’era minor civiltà quivi essendo
più di quegli altri fondamenti (che la civiltà ha sempre sapés),
la morale doveva esservi migliore che dove era più civiltà. Del
resto la civiltà ripara oggi quanto ai costumi in qualche modo i suoi
propri danni, quando ella sia in un certo grado: e però non può
farsi cosa più utile ai costumi oramai che il promuoverla e diffonderla
più che si possa, come rimedio di se medesima da una parte, e dall’altra
di ciò che avanza della corruzione estrema e barbarie de’ bassi tempi, o
che a questa appartiene, e corrisponde al di lei spirito, e all’impulso
espresso e ai vestigi lasciati da lei nelle nazioni civili. Parlando
sommariamente e senza dissimulazione, ma cvhiaramente, la morale propriamente
è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora,
né chia fino a quando, e non se ne vede il modo; i costumi possono in qualche
guisa mantenersi e sola la civiltà può farlo ad essere
instrumento a questo effetto, quando ella sia in un alto grado.
Fin qui abbiamo considerato negli
italiani la mancanza di società. A questa si deve anche aggiungere come
altra cagione de’ medesimi o simili effetti la natura del clima e del carattere
nazionale che ne dipende e risulta. È tutto mirabile e simile a
paradosso, quanto vero, che non v’ha né individuo né popolo sì vicino
alla freddezza, all’indifferenza, all’insensibilità e a un grado
così alto e profondo e costante di freddezza, insensibilità e
indifferenza, come quelli che per natura sono più vivaci,più
sensibili, più caldi. Collocati questi tali o popoli o individui in uno
stato e in circostanze o politiche o qualunque, in cui niuna cosa conferisca
all’immaginazione e all’illusione, anzi tutto contribuisca al disinganno,
questo disinganno per la vivacità stessa della loro natura e in ragione
diretta di essa vivacità è completo, totale, fortissimo,
profondissimo. L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima,
costantissima; l’inattività, se si può così dire,
efficacissima; la noncuranza effettivissima; la freddezza è vero
ghiaccio, come accade nel gran caldo che i vapori sono da esso elevati a tanta
altezza che quivi stringendosi nel più duro gelo, precipitano ridotti in
gragnuola. I popoli settentrionali meno caldi nelle illusioni, sono anche meno
freddi nel disinganno. Di più sono meno facili a questo disinganno. Poca
cosa basta ad alimentare la loro immaginazione e conservare le loro illusioni.
Così dico degl’individui poco sensibili. Ma la gran forza del sentimento
e dell’immaginazione ha bisogno di molto pascolo, di aiuti vivi, di qualche sostentamento
nelle cose reali. Altrimenti rivolgendo la sua forza e il suo calore in se
stessa si consuma da se tanto più presto e più completamente
quanto essa forza ed esso calore è più grande ed attivo. Uno
spirito delicato messo a contatto della durezza delle cose reali, e confricato
per così dire con essi, diviene tanto più presto e tanto
maggiormente ottuso quanto era più acuto e più fino, e tanto
più facilmente e profondamente incallisce, quanto era più
delicato tenero e molle. Così accade nel fisico, così nel morale.
Or dunque se noi consideriamo da una parte questa proprietà inseparabile
dagli spiriti vivaci e sensibili, cioè di cadere tanto più facilmente
e altamente nelle qualità contrarie (proprietà comune a tutti gli
eccessi sempre proclivi e vicini ai loro opposti), e ciò anche in
parità delle altre circostanze rispetto agli spiriti riposati e
temperati o freddi e insensibili per natura; e dall’altra parte che non solo
questa parità di circostanze nel nostro caso non ha luogo, ma che
l’Italia è in uno stato, quanto alle cose reali che favoriscono
l’immaginazione e le illusioni, molto inferiore a quello di tutte l’altre
nazioni civili (parlo delle circostanze
della vita e non di quelle del clima e naturali, che anzi nocciono per le dette
ragioni); non ci maraviglieremo punto che gl’italiani la più vivace di
tutte le nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora
per assuefazione e per carattere acquisito la più morta, la più
fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta,
indifferente, insensibile, la più difficile ad esser mossa da cose
illusorie, e molto meno governata dall’immaginazione neanche per un momento, la
più ragionatrice nell’operare e nella condotta, la più povera,
anzi priva affatto di opere d’immaginazione (nelle quali una volta, anzi due
volte, superò di gran lunga tutte le nazioni che ora ci superano), di
poesia qualunque (non parlo di versificazione), di opere sentimentali, di
romanzi[16] e la più
insensibile all’effetto di queste tali opere e generi (o proprie o straniere).
E d’altra parte non farà maraviglia che i popoli settentrionali e
massime i più settentrionali sieno oggi i più caldi di spirito, i
più immaginosi in fatto, i più mobili e governabili dale illusioni,
i più sentimentali e di carattere e di spirito e di costumi, i
più poeti nelle azioni e nella vita, e negli scritti e letterature.
Questa è una verità di fatto che salta agli occhi, sebben sembra
singolare e mostruosa. E per recare un esempio, dove mai si potrebbe se non in
Germania e nel fondo del settentrione, mantenere e sussistere a’ tempi nostri e
in tanto dissipamento d’illusioni, la società dei Fratelli Moravi e
molti altri simili stabilimenti e costumi fondati sopra la sola forza
dell’opinioni? e opinioni certo non conformi all’esatta, secca e fredda filosofia
geometrica-moderna. Che dirò del quakerismo che ancora dura? e di cento
simili cose d’Inghilterra, Germania, e degli altri popoli del nord. Né mi si
oppongano simili pratiche religiose o qualunque degl’italiani, perché queste in
Italia, come ho detto, sono usi e consuetudini, non costumi, e tutti se ne
ridono, né si trovano più in Italia veri fanatici di nessun genere,
appena tra quelli che per istato hanno interesse alla conservazione di questa o
quella specie di fanatismo e d’illusioni. Certo le dette pratiche de’
settentrionali sanno affatto di antico e niente di moderno, e paiono
incompatibili co’ tempi nostri, e quasi innesti dell’antichità in essi
tempi. E notisi che esse pratiche sono in gran parte, e forse le più, di
origine modernissima, anzi nate dalle moderne rivoluzioni di opinioni e di
politica, e giornalmente ne nascono di simili[17].
Tutto questo, torno a dire, sembra
mostruoso e contraddittorio, se non si spiega colle considerazioni fatte sopra.
Ma tant’è. I popoli meridionali superarono tutti gli altri nella
immaginazione e quindi in ogni cosa, a’ tempi antichi; e i settentrionali per
la stessa immaginazione superano di gran lunga i meridionali a’ tempi moderni.
La ragione si è che a’ tempi antichi lo stato reale delle cose e delle
opinioni ragionate favoriva tanto l’immaginazione quanto ai tempi moderni la sfavorisce.
E però in pratica l’immaginazione de’ popoli meridionali era tanto
più attiva di quella de’ settentrionali quanto è ora al
contrario, perché la freddezza della realtà ha tanta più forza
sulle immaginazioni e sui caratteri quanto essi sono più vivi e
più caldi. E certo le nazioni settentrionali, e massime il popolo, sono
molto più paragonabili e simili oggidì alle antiche che non sono
le nazioni, e massime il popolo, del mezzogiorno, laddove è pur certo
che dovendo sceglier tra i climi e tra i caratteri naturali dei popoli una
immagine dell’antichità niuno dubiterebbe di scegliere i meridionali, e
i settentrionali viceversa per immagini del moderno.
A proposito delle quali osservazioni,
sia detto di passaggio che io non dubito di attribuire in gran parte la decisa
e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle
meridionali, sì in politica, sì in letteratura, sì in ogni
cosa, alla superiorità della loro immaginazione. Né questa, né quella
per conseguenza sono da considerarsi per cose accidentali. Sembra che il tempo
del settentrione sia venuto. Finora ha sempre brillato e potuto nel mondo il
mezzogiorno. Ed esso era veramente fatto per brillare e prepotere in tempi quali
furono gli antichi. E il settentrione viceversa è propriamente fatto per
tenere il disopra ne’ tempi della natura de’ moderni. Ciò si vide in
parte, per circostanze simili de’ popoli civili nelle età di mezzo. E
come la detta natura e disposizione de’ tempi moderni non è accidentale
né sembra potere essere passeggera, così la superiorità del
settentrione non è da stimarsi accidentale né da aspettarsi che passi,
almeno in uno spazio di tempo prevedibile. L’abbondanza e l’eccesso della vita
cede alla mediocrità ed anche alla scarsezza della medesima, da poi che
quella non ha più come alimentarsi nella realtà delle cose e
dello stato sociale, e che le opinioni ragionate contrastano seco e l’opprimono[18].
Come la vita e la forza interna e dello
spirito è naturalmente maggiore ne’ meridionali, e negl’individui
sensibili e ne’ fini ingegni, che non è negli altri, perciò essi
sono nelle loro azioni e nel loro carattere più determinati e governati,
per dir così, dall’animo, e meno macchinali che gli altri popoli e
individui. Quindi è che quando i principii e le persuasioni loro sono
contrarie alle illusioni, fredde, conducenti all’indifferenza,
all’aridità, al puro calcolo, anche i caratteri e le azioni loro sono al
tutto e costantemente fredde, calcolate, indifferenti, insensibili, più
assai che negli altri popoli e individui anche più istruiti, più
filosofi, più fondati e provveduti di principii contrarii alle illusioni
e all’immaginoso, e conducenti alla freddezza, indifferenza, insensibilità.
La corrispondenza tra i principii e la pratica è molto maggiore e
più costante in quelli che non è negli altri.
[1] - In vece che adesso la Francia stessa per le dette cagioni è fatta tollerante e disposta a render giustizia agli stranieri fino a un certo segno, e che questa sua disposizione, perocch’ella segue ancora in parte a dare il tuono all’Europa civile, ne cagiona una simile nelle altre nazioni.
[2] - Oltre a tutto il resto, la vita, l’immaginazione, e nella letteratura l’originalità e novità, insomma tutto quello che serve a pascere la vita umana e a scacciar la noia, ed occupare in qualche modo chi non ha bisogni, benché sia inegualmente distribuito, è però così scarso presso le nazioni ancora che più ne abbondano, che tutte sono ora rivolte a raccogliere sarmenti per così dire da ogni parte onde riparare alla freddezza che occupa generalmente la vita moderna civile, e a formare delle poche fiamme sparse qua e là e insufficienti a ciascuno, come un fuoco comune che sia manco inferiore al bisogno che tutti hanno di calore, e adunare insieme tutto quel po’ di vita che in tutte le parti si trova. E perciò oltre il ricorrere a tutti i generi e parti del sapere umano, onde si forma quello che è detto enciclopedico, ed è oggi tanto in uso, oltre i viaggi a’ più lontani climi, ed il commercio d’ogni genere, più vivo che fosse mai, tra le nazioni le più disgiunte e diverse, ciascuna nazione è ora intenta e desiderosa di conoscere i costumi, le letterature, tutto ciò che appartiene alle altre nazioni,, e partecipare il più che l’è possibile, ovvero occuparsene. Si traducono, si compendiano, si divulgano opere straniere antiche e moderne, non mai finora conosciute in quella tal nazione, e che mai non lo sarebbero state in altre circostanze, e forse appena meritevoli di esser conosciute da’ nazionali non che di passare i confini delle loro nazioni; si studiano tutte le lingue colte; si moltiplicano i giornali che rendono conto delle cose ed opere straniere, e la esattezza, estensione e minutezza loro in far questo. Così dicasi dei costumi e di tutto il resto appartenente agli stranieri, del che non si è meno solleciti in mille modi, che delle letterature per mezzo dello studio. Dal che dee necessariamente seguire che quel che v’è di buono da per tutto (ché già tutto non può esser cattivo), meglio conosciuto, corregga le sinistre opinioni che si avevano del totale, e che generalmente nulla si disprezzi, tutto passi, e per poco di buono, di nuovo, d’interessante che si trovi, di tutto si sia contenti. La novità se non altro o il poco comune, che nella ricerca delle cose straniere non può mancar di trovarsi relativamente, è un gran requisito in un tempo così scarso di novità come è il nostro (dopo tanti secoli di esperienze e studi), e così avido della medesima, come furono tutti i tempi, e massime un secolo sì disoccupato d’altronde. Oltre lo spirito di moderazione, e di giudizio ragionato e spassionato , necessaria conseguenza dello spirito filosofico e giusto, universale in questo tempo, e maggiore che fosse mai in alcun popolo particolare; la disposizione comune di render giustizia a se stesso e giudicar delle cose proprie colla minor prevenzione possibile, tanto più che elle son meglio conosciute, dalla qual disposizione segue quella di render giustizia all’altre nazioni, e di non condannarle facilmente perché elle sieno diverse in che che sia e quanto che sia dalla propria. – Realmente (parlando della letteratura in particolare) fuor di una scintilla di fuoco che ancora si conserva in Germania a causa della giovanezza della sua letteratura, e che presto sarà spenta, l’originalità, l’immaginazione e l’invenzione sono estinte in tutta l’Europa: tutto il mondo imita, raccoglie, compila, disserta sopra le cose trovate da altri, o antichi o stranieri. La creazione è finita, o così scarsa che nulla più, da per tutto. Quindi nasce che non solo si accolgono con piacere le cose straniere qualunque sieno, e si rende giustizia a letterature prima disprezzate, ma anche si apprezzano che non meritano e che erano disprezzate giustamente, o quegli autori che lo erano; o almeno si apprezzano più che non valgono, vi si trovano pregi e bellezze che non vi sono; insomma nel giudizio delle letterature e classici e scrittori stranieri si eccede nella stima forse quanto già si eccedeva nella disistima, o certo si eccede piuttosto in quella che in questa. Tale è particolarmente il caso della letteratura e degli autori italiani appresso gli stranieri oggidì. E il simile dico de’ costumi, opinioni, e cose tali.
[3] - E veramente oggi l’odio e il disprezzo verso l’altre nazioni sì ne’ libri che altrimenti, sono cose fuor di moda.
[4] - Anche il Gozzi, il Parini, il Goldoni e gli altri pochi comici italiani che meritano questo nome e per conseguenza hanno studiato i costumi della propria nazione e di questi parlano e questi descrivono, non gli stranieri, come tanti nostri drammatici, e i presenti costumi, non gli antichi; anche questi, dico, si possono contare fra gli scrittori de’ nostri moderni costumi sebbene non filosofici né ragionati, ché tale non fu l’instituto e la natura de’ loro scritti.
[5] - Onde egli, anche scientemente, sacrifica spesso a questa sua voglia, e a questo instituto e carattere de’ suoi libri, la verità.
[6] - L’opinion pubblica è di niun conto per se stessa e perché poco o nulla influisce sulla persona, sulla fortuna e sui beni o mali, sulla felicità o infelicità dell’individuo, ed è cosa di niuna sostanza, e sta più nell’immaginazione che nel fatto. Ma oltre a ciò, filosoficamente, è da esser disprezzata sopra ogni altra cosa, perch’è posta fuori della potestà dell’individuo, perch’è regolarmente incerta e senza regola; incostante nei principii e nelle applicazioni; varia e mutabile ogni giorno intorno a uno stesso individuo, a una stessa azione, o qualità; le pià volte ingiusta favorevole al male e a’ mali, contraria al bene e a’ buoni; sempre incapace di essere preveduta, proccurata con mezzi sicuri, e fissata ancor dopo ottenuta. – Del resto l’opinione pubblica ha men sostanza anche in effetto laddove ella è meno stimata, e viceversa, e niuna dov’ella non ha niuna stima. Dove n’è fatto conto, si ha ragione, anche filosoficamente parlando e fuor d’illusioni, di farne conto, perch’ella in tal luogo influisce veramente più o meno su molti beni e molti mali reali (o così detti) della vita dell’individuo. Ella ha tanta realtà di peso quanto peso gli uomini le danno, il che non accade nelle altre cose, che più o men peso che gli uomini dieno loro, hanno per la più parte la stessa somma e qualità di valore effettivo.
[7] - Gli uomini politi delle dette nazioni si astengono dal fare il male e fanno il bene, non mossi dal dovere, ma dall’onore. Osservo qui di passaggio che oggidì la solitudine, contro quello che si è sempre detto e creduto, ed oggi si crede e si dice né più né meno, piuttosto nuoce alla morale dell’individuo, e massime di chi abbia lo spirito filosofico, di quello che giovi. Le illusioni sociali cessano nella solitudine, l’onor sparisce, perché tolto dagli occhi quello che le dava apparenza e una specie di realtà, se ne vede l’irragionevolezza, la vanità e la frivolezza. Sparisce l’onore, e il dovere non gli sottentra. (Sopra quali considerazioni e quali principii sarebbe egli fondato? Che cosa ne può rinnuovare o far nascere l’idea in un animo abbandonato a se stesso, e però più riflessivo che mai, e in grado di andar più al fondo delle cose, e di non ammettere senza prove certe, come spessissimo succede nel tumulto e dissipazione del mondo, né anche quello che è approvato per vero e per certo dal’universale?) Mancano nella solitudine gli stimoli delle passioni e le occasioni di fare il male, ma anche quelli e quelle di fare il bene, sicché per questo lato appena si può dire se il carattere morale guadagni o perda. E d’altra parte, mancati generalmente i principii e i fondamenti stabili della morale, che nella solitudine non risorgono, (anzi all’opposto), si perdono anche, o s’indeboliscono e si riconoscono riposatamente per frivoli quei ritegni e quegl’incitamenti dal male e dal bene che la società stessa produce. Or questo è in pura perdita e danno del carattere morale dell’individuo, quando anche non guasti i suoi disegni e le sue opere, per mancanza di occasioni, naturale nella solitudine.
[8] - Anche gli uomini più duri, ostinati, inflessibili, indipendenti, renitenti ai consigli, ai desideri, alle opinioni altrui, nell’operare o nel pensare, nei sistemi di vita o di credenze, fanno però grandissima e forse la maggior parte di quel che fanno, credono la maggior parte di quel che credono, perciò solo che gli altri lo credono, lo fanno, lo costumano, lo gradiscono. L’uomo il più singolare, il più libero, il più brusco e selvatico, sia nella condotta, sia nelle opinioni e giudizi di qualunque sorta (se egli vive in società) non lo è veramente se non in piccola parte della sue azioni e de’ suoi pensieri. In tutto il resto egli è determinato e modificato dagli altri. Letto o leggendo un libro, anche sciocco o stimato tale da chi lo legge, anche dirittamente contrario alle più care e più radicate e confermate opinioni di questo, non è possibile che chi lo legge, o lo ha letto, sia pure un filosofo assolutissimo e liberissimo, non pensi, almeno per una mezz’ora, anche suo malgrado, in maniera, per certa guisa, conforme allo scrittore del libro, non prenda il suo spirito, non sia mosso dalla sua autorità, e non le dia qualche peso. Così nel parlare o aver parlato con una persona, anzi allora anche più, perché sembra che la viva voce, e l’esempio vivo dia più autorità e più peso alle opinioni e al modo di vedere o pensare, ai gusti e alle inclinazioni di chicchessia. Se non altro un’ombra di dubbio, non fondato punto sulla ragione, ma sul puro esempio e sulla pura autorità, non è possibile che non entri e per qualche spazio di tempo non rimanga nell’animo di chi ha letto o parlato come ho detto, ancorché liberissimo.
[9] - Dalla tendenza dell’uomo a imitare, massimamente i suoi simili, nasce in parte quella sua inclinazione a seguire l’autorità sì nel risolvere e nell’operare che nel giudicare e nel credere, inclinazione incontrastabilmente propria dell’uomo, non solo dell’uomo debole, ma di tutti gli uomini più o meno, posti che sieno in relazione cogli altri. La quale inclinazione ha fatto per tanto tempo che l’autorità prevalesse alla ragione non pure universalmente, ma eziandio presso i migliori ingegni, i quali e gli altri si movevano non tanto forse per l’autorità di quei maestri o precettori che essi seguivano, quanto per quella de’ loro contemporanei e maggiori che gli avevano seguiti e seguivangli. Né si dee credere che il progresso della ragione abbia ora distrutto né sia mai per distruggere l’imperio dell’autorità né sugli animi né sugl’intelletti non solo de’ volgari o timidi o irriflessivi, ma neanche de’ grandi spiriti, de’ più liberi e arditi nel pensare e nel risolvere circa l’azione o la credenza e il giudizio, de’ più riflessivi, de’ più autognomoni. L’autorità ha sempre e e inevitabilmente qualche o maggiore o minor parte nelle determinazioni qualunque di qualunque mente, e massime di quelli che vivono in società, e massime l’autorità di quelli con cui più prossimamente e quotidianamente si conversa, sia per mezzo de’ libri, sia nella vita; e ciò quando anche questi tali sieno pochissimo stimati dalla persona. Veggasi quel che dice la Staël nell’Histoire di Corinne sopra l’influenza di quelli che ci circondano sui nostri giudizi e risoluzioni, anche quando un grande ingegno vive tra piccolissimi e incolti spiriti. Tanta è l’influenza dell’autorità, che quella delle persone che ci circondano in qualunque modo, e che da noi per ragione sono disprezzate, prevale sempre in qualche parte a quella delle persone lontane che da noi per ragione sono stimatissime, quella dell’ultimo libro che si è letto a quella delle passate letture, e così discorrendo: o certo è molto difficile l’impedire che in qualche parte non prevalga. Ciò nasce anche dalla natural debolezza sì dell’intelletto, sì della facoltà elettiva di qualunque uomo, le quali hanno sempre bisogno come di un appoggio, come di una sicurtà e di un garante delle loro determinazioni. L’uomo anche il più risoluto, e il più libero nel pensare, è sempre sottoposto in qualche parte e all’irresoluzione e al dubbio, l’uno e l’altra molestissimi alla natura umana. Il rimedio più pronto e forse unico contro questi due mali è l’autorità, ed è impossibile che l’uomo rifiuti del tutto questo rimedio. Egli prova un certo piacere, un senso di riposo, un’opinione o una confusa immaginazione di sicurezza, ricorrendo all’autorità, assidendosi sotto l’ombra sua, e pigliandola come per ischerno delle determinazioni sì del suo intelletto che della sua volontà, nella tanta incertitudine delle cose e della vita. La ragione che gli dimostra la vanità ed insufficienza di questo schermo, non basta a fare che egli in qualche modo non se ne prevaglia quasi sempre. E per lo contrario essa ragione di rado può fare in qualsivoglia grande e forte spirito che una credenza o una risoluzione presa contro l’avviso degli altri, e massime de’ più prossimi e presenti, non che de’ più stimati, non sia sempre accompagnata da un qualche sospetto e timore di avere errato e di errare, non ostante che ella si riconosca per ragionevolissima quanto arriva a vedere il proprio pensiero e giudizio, e il contrario avviso per falsissimo e privo di fondamento e cattivissimo. L’uomo preferisce sovente l’avviso degli altri al consiglio proprio, o trovando quello conforme a questo, è più mosso e riposa più sopra quello che sul proprio giudizio, anche nelle cose dov’egli riconosce gli altri per molto inferiori a se d’intelligenza di pratica e simili. Ciò nasce che le cause che determinano se stesso si veggono interamente, le altrui non così bene, onde si stimano di più. L’uomo ha bisogno in tutto dell’illusione; e della lontananza od oscurità degli oggetti per valutarli.
Però ne’ dubbi e nelle irresoluzioni, tanto volentieri e quasi per necessità o per istinto di natura ricerchiamo il consiglio, anche, non potendo altro, di persone poco stimate da noi, o stimate meno di noi, e le quali sappiamo o che non sapranno consigliarci bene, o che intenderanno il negozio e scopriamo il partito conveniente meno di quello che possiamo far da noi stessi.
[10] - La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe e indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato interissimo e profondissimo. Ella rinnuova la vita intera. In somma, bench’ella sembri compagna indivisibile e quasi sinonimo della noia, nondimeno per un animo che vi abbia contratto una certa abitudine, e con questa sia divenuto capace di aprire e spiegare e mettere in attività nella solitudine le sue facoltà, ella è più ampia a riconciliare o affezionare alla vita, che ad alienare, a rinnovare o conservare o crescere la stima verso gli uomini e verso la vita stessa, che a distruggerla o diminuirla o finir di spegnerla. E ciò non per altro se non perché gli uomini e la vita sono lontani da lei, giacché ella affeziona o riconcilia propriamente e più particolarmente non alla vita presente, cioè a quella che si mena in essa solitudine, ma a quella del mondo che s’è abbandonata intermessa con disgusto. V. i miei pensieri pag 678-83, 717, capoverso 3.
[11] - Oltre di ciò questa tal dissipazione naturalmente annoia sopra ogni cosa (forse più della stessa solitudine disoccupata, perché è priva della vita interna dell’animo che in questa si trova): e certo nella vita disoccupata e senza grandi fini o interessi, come senza bisogni, non v’è cosa più capace di riempire il tempo senza noia, o con meno noia che la società stretta, e massime la buona società, sì per se stessa in se stessa, sì per gl’infiniti e grandissimi effetti ch’ella produce fuor di se, per gli studi e le cure ch’ella rende necessarie o promuove, capaci non pur di dare da passare il tempo, ma di occupare totalmente e veramente la vita. Perciò gli stranieri non bisognosi e non occupati s’annoiano assai meno di noi, e gl’italiani dello stesso genere s’annoiano sopra tutto gli altri viventi per quasi tutta la loro vita. È dunque chiaro che essi debbono far conto d’essa vita assai men degli altri, praticamente parlando, ed esserle meno affezionati, poiché in sostanza essa non è per loro assolutamente altro che pura, infinita, profondissima e pesantissima noia, sbadiglio e letargo.
[12] - Dico segnatamente di quelli relativi al modo di conversare, e stare in società di trattenimento e simili.
[13] - Nondimeno questo modo di vedere è molto comune, anzi universale, anche tra’ filosofi, almeno per l’ordinario e abitualmente.
[14] - Come nelle arti e nelle letteratura lo spirito del risorgimento non è stato di allontanarci dall’antico, né anche di portarci più oltre che non giunsero gli antichi (il che forse è impossibile, e forse assolutamente male e dannos, e corruzione per se medesimo), ma di liberarci dal gotico, come egli ha fatto, e nondimeno né le arti né la letteratura moderna malgrado ancora il grandissimo studio che i cultori dell’auna e dell’altre han fatto e fanno continuamente degli antichi esempi, sono però né mai sono state conformi alle antiche, ma più e men diverse secondo l’epoche e i generi e gli scrittori e gli artefici, benché l’antico sia riconosciuto per maestro sommo e specialissimo in tali faccende; così dee discorrersi quanto ai costumi e allo stato moderno delle nazioni, benché questi e la moderna civiltà non sia né mai sia stata conforme all’antico.
[15] - Vedi i miei pensieri pag. 3546, seg.
[16] - Di questi tali generi, per esser nati dopo la fine della nostra vita nazionale reale, la nostra letteratura ne manca affatto e di essi e qualunque che loro possa equivalere.
[17] - Il sopraddetto si dimostra perfino nella letteratura, ed evidentissimamente. Se v’ha letteratura nella quale a’ tempi nostri (e ne’ prossimi passati) sieno ancora in uso i sistemi e i romanzi di opinione, questa è l’inglese, e molto più la tedesca, perché propriamente fra’ tedesci si può dire che non v’ha letterato di sorta alcuna che o non faccia o non segua un deciso sistema, e questo è per lo più, come è il solito e l’antico uso dei sistemi, un romanzo. I più pazienti ed assidui osservatori, che sono senza fallo i tedeschi, i più studiosi ed applicati a imparare e informarsi, sono per una curiosa contraddizione i più romanzeschi. In Germania e in parte anche in Inghilterra v’ha continuamente sistemi e romanzi in ogni letteratura, in filosofia qualunque, in politica, in istoria, in critica, in ogni parte di filologia, fino nelle grammatiche, massime di lingue antiche. Da gran tempo non esiste in Europa alcuna setta né scuola particolare di una tal filosofia, molto meno metafisica, fuorché in Germania negli ultimissimi tempi, e credo anche oggi, la setta e scuola, appunto metafisica, di Kant, suddivisa ancora in diverse setta, e prima di Kant quella di Wolf. Il sistema del romanticismo, che ha reso sistematica anche la poesia, non appartiene che a’ settentrionali, e massime a’ tedeschi. Le visioni, anche in fisica, se sono proprie di alcuna nazione oggidì, lo sono dei tedeschi, testimonio la fortezza e le belle strade scoperte nella luna dal prof. Gruithuisen di Monaco, e la coltivazione mensuale scoperta pur nella luna dal medesimo e dallo schrotes e dall’Herschel. In somma i tedeschi, non ostante le diversità de’ tempi, e la decisa inclinazione presente dello spirito umano alla pura osservazione e all’esperienza, sono ancora in letteratura e in filosofia ed in iscienze quel che erano gli antichi appunto, sistematici, romanzieri, settari, immaginatori, visionari. Ed accoppiano queste qualità ad una somma e infaticabile diligenza ed inclinazione e abitudine di osservazione e di esperienza e di apprendere. Lascio che i miracoli già da un pezzo obbliati, anche ne’ popoli che passano per li più superstiziosi, come l’Italia e la Spagna, si sono in questi ultimi anni rinnovellati e solennizzati nelle gazzette e nelle corti medesime, dove? in Germania. Lascio che non ha molti anni si parlò nelle gazzette di un filosofo cinico, di che nazione? tedesco; e di certe maghe o indovine tedesche, e cose simili, che non lasciano di udirsi di tempo in tempo da quella parte, e sebben derise da’ savi tedeschi (né però forse da tutti), non lasciano di manifestar lo spirito di quella nazione, mentre nelle altre anche il popolo le deride, o non ci pensa, e non ne è capace.
[18] - Del resto tutte le istorie, dimostrano che i popoli superiori agli altri nelle grandi illusioni, lo sono sempre eziandio nella realtà delle cose, nella letteratura, nella felicità, ricchezza e industria nazionale, nella preponderanza e dominio diretto o indiretto sopra gli altri. Ed ora è notabilissima la situazione di alcuni popoli settentrionali, che conservano l’immaginazione in mezzo alla crescente civiltà. Unione fatta onninamente per rendere un popolo superiore a tutti gli altri. Perocché ne’ tempi bassi la immaginazione non mancò ma fu congiunta alla barbarie. Nei moderni, massime al mezzogiorno, la civiltà non manca, ma bensì l’immaginazione posta in attività. L’uno e l’altro stato è contrario alla grandezza e superiorità nazionale. L’unione della civiltà coll’immaginazione è lo stato degli antichi, e propriamente lo stato antico, e non accade dire di qual grandezza ei fosse cagione.