PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
Novelli
BIBLIOTECA
di Leonardo da
Vinci
Ciò che non ha termine non ha
figura alcuna
Data la causa, la natura opera
l’effetto nel più breve modo che operar si possa
Ogni azione fatta
dalla natura non si pò fare con più brieve modo co’ medesimi
mezzi. Date le cause la natura partorisce li effetti per i più brievi
modi che far si possa.
Sì come ogni
regno in sé diviso è disfatto, così ogni ingegno diviso in
diversi studi si confonde e indebolisce.
A ciascuno strumento
si richiede esser fatto colla esperienza. Ciascuno strumento per sé debbe
essere operato colla esperienza dond’esso è nato.
Perché si vede
più certa la cosa l’occhio ne’ sogni che colla immaginazione stando
desto.
Fuggi e precetti di
quelli speculatori che le loro ragioni non son confermate dalla isperienzia.
… O studianti, studiate le matematiche,
e non edificate sanza fondamenti.
Chi biasima la somma
certezza delle matematiche si pasce di confusione, e mai porrà silenzio
alle contradizioni delle sofistiche scienzie, colle quali s’impara uno eterno
gridore.
Li abbreviatori
delle opere fanno ingiuria alla cognizione e allo amore, con ciò sia che
l’amore di qualunche cosa è figliol d’essa cognizione, e l’amore
è tanto più fervente quanto la cognizione è più
certa; la qual certezza nasce dalla cognizione integrale di tutte quelle parti,
le quali, essendo insieme unite, compongano il tutto di quelle cose che debbono
essere amate.
I’ ho tanti vocavoli
nella mia lingua materna, ch’io m’ho più tosto da dolere del bene
intendere delle cose, che del mancamento delle parole, colle quali io possa
bene espriemere il concetto della mente mia.
Non mi legga chi non
è matematico nelli mia principi.
La idea, over
imaginativa, è e timone e briglia de’ sensi, in però che la cosa
immaginata move il senso.
Chi disputa
allegando l’autorità, non adopra lo ‘ngegno, ma più tosto la
memoria.
La sperienzia,
interprete in fra l’artifiziosa natura e la umana spezie, ne ‘nsegna ciò
che essa natura in fra’ mortali adopra da necessità constretta, non
altrimenti oprar si possa che la ragione, suo timone, oprare li ‘nsegni.
Nessuna azione
naturale si po’ abreviare.
Ogni azion naturale
è generata dalla natura nel più brieve modo che trovar si possa.
È da essere
giudicati e non altrementi stimati li omini inventori e ‘nterpreti tra la
natura e gli uomini, a comparazione de’ recitatori e trombetti delle altrui
opere, quant’è dall’obbietto fori dello specchio alla similitudine
d’esso obbietto apparente nello specchio, che l’uno per sé è qualcosa, e
l’altro è niente. Gente poco obrigate alla natura, perché sono sol
d’accidental vestiti, e sanza il quale potrei accompagnarli in fra li armenti
delle bestie.
Molti mi crederanno
ragionevol mente poter riprendere allegando le mie prove per essere contro
all’alturità d’alquanti omini di gran riverenza apresso de’ loro
inesperti iudizi, non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e
mera sperienza, la quale è maestra vera.
Naturalmente li
omini boni desiderano sapere. So che molti diranno questa essere opra inutile,
e questi fieno quelli de’ quali Demetrio disse non faceva conto più del
vento, il quale nella lor bocca causava le parole, che del vento ch’usciva
dalle parte di sotto; uomini i quali hanno solamente desiderio di corporal
ricchezze, diletto, e interamente privati di quello della sapienza, cibo e
veramente sicura ricchezza dell’anima; perché quant’è più degna
l’anima che ‘l corpo, tanto più
degni fien le ricchezze dell’anima che del corpo. E spesso quando vedo
alcun di questi pigliare essa opra in mano, dubito non si come scimia sel
mettino al naso o che mi domandi’ se è cosa mangiativa
Nessuno effetto
è in natura sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna
sperienza.
La esperienza non
falla, ma sol fallano i nostri giudizi, promettendosi di lei cose che non sono
in sua potestà.
A torto si lamentan
gli omini della isperienza, la quale con somme rampogne quella accusano esser
fallace. Ma lasciàno stare essa sperienza, e voltate tale lamentazione
contro alla vostra ignoranzia, la quale vi fa transcorrere, co’ vostri vani e
instolti desideri, a impromettervi di quelle cose che non sono in sua potenzia,
dicendo quella esser fallace.
A torto si lamentano
li omini della innocente esperienzia, quella accusando di fallacie e di
bugiarde dimonstrazioni.
Chi si promette
dalla sperienza quel che non è in lei si discosta dalla ragione.
La sapienza è
figliola della sperienzia.
La necessità
è maestra e tutrice della natura.
La necessità
è tema e inventrice della natura, e freno e regola eterna.
Fuggi quello studio
del quale la risultante opera more coll’operante d’essa.
O speculatori dello
continuo moto, quanti vani disegni in simile cerca avete creati! Accompagnatevi
colli cercatori dell’oro.
Medicina è
ripareggiamento de’ disequalati elementi; Malattia è discordanza
d’elementi fusi nel vitale corpo.
Muovesi l’amante per
la cos’amata come il senso alla sensibile, e con seco s’unisce e fassi una cosa
medesima. L’opera è la prima cosa che nasce dall’unione. Se la cosa
amata è vile, l’amante si fa vile. Quando la cosa unita è
conveniente al suo unitore, li seguita dilettazione e piacere e sadisfazione.
Quando l’amante è giunto all’amato, lì si riposa. Quando il peso
è posato, lì si riposa. La cosa cognosciuta col nostro
intelletto.
Quattro sono le
potenzie: memoria e intelletto, lascibili e concupiscibili. Le due prime son
ragionevoli e l’altre sensuali.
De’ 5 sensi, vedere,
uldir, odorato sono di poca proibizione, tatto e gusto no.
Scienzia: notizia
delle cose che sono possibile presente e preterite. Prescenzia: notizia delle
cose ch’è possivine che possin venire.
Ogni nostra
cognizione prencipia da sentimenti.
I sensi sono
terrestri, la ragione sta for di quelli quando contempla.
Il moto è
causa d’ogni vita.
Natura non rompe sua
legge.
La natura è
costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive.
E questa sperienza
si faccia più volte, acciò che qualche accidente non impedissi o
falsassi tal prova, che le sperienzia fussi falsa, e ch’ella ingannassi o no il
suo speculatore.
Chi nega la ragion
delle cose, pubblica la sua ignoranza.
Come è
più difficile a ‘ntendere l’opere di natura che un libro d’un poeta.
Aristotile e
Alessandro furono precettori l’un de l’altro. Alessandro fu ricco di stato, il
qual li fu mezzo a osurp[ar]e il mondo; Aristotile ebbe grande scienzia, la
quale li furon mezzo a osurpasi tutto il rimanente delle scienzie composte
dalla somma de’ filosofi.
La natura è
piena d’infinite ragioni, che non furon mai in isperienzia.
D’ogni cosa la parte
ritiene in sé la natura del tutto.
Voi, speculatori,
non vi fidate delli autori che hanno sol co’ l’imaginazione voluto farsi
interpreti fra la natura e l’omo, ma sol di quelli che, non coi cenni della
natura, ma co’ gli effetti delle sue esperienzie hanno esercitato i loro
ingegni. E riconoscere come l’esperienzie ingannano chi non conosce loro
natura, perché quelle che spesse volte paiono una medesima, spesse volte son di
grande varietà, come qui si dimostra.
La scienza è
il capitano, e la pratica sono i soldati.
La proporzione non solamente
nelli numeri e misure fia ritrovata, ma etiam nelli suoni, pesi, tempi e siti,
e ‘n qualunque potenzia sia.
Quando tu metti
insieme la Scienzia de’ moti dell’acqua, ricordati di mettere, di sotto a
ciascuna proposizione, li sua giovamenti, a ciò che tale scienzia non
sia inutile.
De l’error di quelli
che usano la pratica senza scienzia, vedi prima la poetica d’Orazio.
Quelli che
s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio
senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.
O speculatore delle
cose, non ti laldare di conoscere le cose che ordinariamente per sé medesima la
natura conduce. Ma rallegrati di conoscere il fine di quelle cose che son
disegniate dalla mente tua.
Nessuna certezza
è dove non si pò applicare una delle scienze matematiche, over
che non sono unite con esse matematiche.
La Meccanica
è il paradiso delle scienze matematiche, perché con quella si viene al
frutto matematico.
Ma prima farò
alcuna esperienza avanti ch’io più oltre proceda, perché mia intenzione
è allegare prima l’esperienzia e poi colla ragione dimostrare perché
tale esperienzia è costretta in tal modo ad operare. E questa è
la vera regola come li speculatori delli effetti naturali hanno a procedere, e
ancora che la natura cominci dalla ragione e termini nella sperienzia, a noi
bisogna seguitare in contrario, cioè cominciando, come di sopra dissi,
dalla sperienzia, e con quella investigare la ragione.
Nissuna umana
investigazione si pò dimandare vera scienzia s’essa non passa per le
matematiche dimostrazioni, e se tu dirai che le scienzie, che principiano e
finiscono nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si
niega, per molte ragioni, e prima, che in tali discorsi mentali non accade esperienzia,
sanza la quale nulla dà di sé certezza.
Studia prima la
scienzia, e poi seguita la pratica nata da essa scienzia.
Nissuna cosa è che più
c’inganni che ‘l nostro giudizio.
Chi tempo ha e
tempo aspetta, perde l’amico e danari non ha mai.
Il giudizio
nostro non giudica le cose fatte in varie distanzie di tempo nelle debite e
propie lor distanzie, perché molte cose passate di molti anni parranno
propinque e vicine al presente, e molte cose vicine parranno antiche, insieme
coll’antichità della nostra gioventù, e così fa l’occhio
infra le cose distanti, che per essere alluminate dal sole, paiano vicine
all’occhio, e molte cose vicine paiano distanti.
La somma
filicità sarà somma cagione della infelicità, e la perfezion
della sapienza cagion della stoltizia.
Ogni parte ha
inclinazion di ricongiugnersi al suo tutto per fuggire dalla sua imperfezione.
L’anima
desidera stare col suo corpo, perché, sanza li strumenti organici di tal corpo,
nulla può oprare né sentire.
O tempo,
consumatore delle cose, e, o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le
cose, e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco,
con lenta morte. Elena, quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo
viso fatte per la vecchiezza, piagne, e pensa seco perché fu rapita du’ volte.
L’età
che vola discorre nascostamente e inganna altrui, e niuna cosa è
più veloce che gli anni, e chi semina virtù fama raccoglie.
Raro cade chi
ben cammina.
Si come
l’animosità è pericolo di vita, così la paura è la
sicurtà di quella.
L’omo e gli
animali sono propio transito e condotto di cibo, sepoltura d’animali, albergo
de’ morti, facendo a sé vita dell’altrui morte, guaina di corruzione.
O dormiente. O
che cosa è sonno? Il sonno ha similitudine con la morte. O perché non
fai adunque tale opra, che dopo la morte tu abbi similitudine di perfetto vivo,
che vivendo farsi col sonno simile ai tristi morti?
Dov’entra la
Ventura, la ‘nvidia vi pone lo assedio e lo combatte, e dond’ella si parte vi
lascia il dolore e il pentimento.
Molti ci
gabbano.
A torto si
lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa
velocità, non s’accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona
memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata
ci pare esser presente.
Le minacce sol
son arme dello imminacciato.
Ecci una cosa,
che quanto più se n’ha di bisogno, più si refiuta; e questo
è consiglio, mal volentieri ascoltato da chi ha più bisogno, cioè
dagli ignoranti. Ecci una cosa che quanto più n’hai paura e più
la fuggi, più te l’avvicini; e questo è la miseria , che quanto
più la fuggi più ti fai
misero e sanza riposo.
Alli ambiziosi,
che non si contentano del benefizio della vita, né della bellezza del mondo,
è dato per penitenzia che lor medesimi strazino essa vita, e che non
possegghino la utilità e la bellezza del mondo.
L’ordinare
è opra signorile, l’oprare è atto servile.
Acquista cosa
nella tua gioventù che ristori il danno della tua vecchiezza. E se tu
intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoprati in tal modo in
gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento.
La pazienza fa
contra alle ingiurie non altrementi che si faccino i panni contro del freddo;
imperò che se ti multiplicherai di panni secondo la multiplicazione del
freddo, esso freddo nocere non ti potrà; similmente alle grandi ingiurie
cresci la pazienza, esse ingiurie offendere non ti potranno la tua mente.
Quando io
crederò imparare a vivere, e io imparerò a morire.
Aristotile nel
terzo dell’Etica: l’uomo è degno di lode e di vituperio solo in quelle
cose che sono in sua potestà di fare e di non fare.
Quando Fortuna
vin, prendila [a] man salva, dinanti dico, perché direto è calva..
Si come il
ferro s’arrugginisce sanza esercizio, e l’acqua si putrefà o nel freddo
s’addiaccia, così lo ‘ngegno sanza esercizio si guasta.
Mal fai se
laldi, e pegio istu riprendi la cosa, quando bene tu no la ’ntendi.
Beata è
quella possessione, che vist’è da l’occhio del padrone.
Amor ogni cosa
vince.
Questo per
isperienza è provato, che chi non si fida mai sarà ingannato.
Non mi sazio di
servire.
Ostinato
rigore. Destinato rigore.
No’ si volta
chi a stella è fisso.
Ogni
impedimento è distrutto dal rigore.
Chi vol essere
ricco in un dì è impiccato in un anno.
Orazio: Iddio
ci vende tutti li beni per prezzo di fatica.
Il foco
è da esser messo per consumatore d’ogni sofistico e scopritore e
dimostratore di verità, perché lui è luce, scacciatore delle
tenebre occultatrici d’ogni essenzia.
La
verità al fine non si cela; non val simulazione. Simulazion è
frustrata avanti a tanto giudice.
L’omo ha
desiderio d’intendere se la femmina è cedibile alla dimandata lussuria,
e intendendo di sì e come ell’ha desiderio dell’omo, elli la richiede e
mette in opera il suo desiderio, e intender nol pò se non confessa, e
confessando fotte.
Salvatico
è quel che si salva.
Da Cornelio
Celso. Il sommo bene è la sapienza, il sommo male è il dolore
del corpo. Imperochè essendo noi composti di due cose, cioè
d’anima e di corpo, delle quali la prima è migliore, la peggiore
è il corpo, la sapienzia è della miglior parte, il sommo male
è della peggior parte e pessima. Ottima cosa è nell’animo la
sapienza. Così è pessima cosa nel corpo il dolore. Adunque
siccome il sommo male è ‘l corporal dolore, così la sapienza
è dell’animo il sommo bene, cioè de l’om saggio, e niuna altra
cosa è da a questa comparare.
La stoltizia
è scudo della vergognia, come la improntitudine della povertà.
Sì come
una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene
usata dà lieto morire.
L’acqua che
tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di
quella che viene. Così il tempo presente.
La vita bene
spesa lunga è.
Lo corpo nostro
è sottoposto al cielo, e lo cielo è sottoposto allo spirito.
Discernere,
giudicare, consigliare sono atti umani.
Un vaso rotto
crudo si può riformare, ma il cotto no.
Molte volte una
medesima cosa è tirata da due violenzie, cioè necessità e
potenzia: l’acqua piove, la terra la sorbisce per necessità d’omore, el
sole l’asciuga non per necessità ma per potenzia.
L’anima mai si
può corrompe[re] nella curuzzion del corpo, ma sta nel corpo a similitudine
del vento ch’è causa del sono de l’organo, che guastandosi una cana no’
resultava per quella, del vento buono effetto.
E questo omo ha
una somma pazzia, cioè che sempre stenta per non istentare, e la vita se
li fugge sotto speranza di godere i beni con somma fatica acquistati.
La natura pare
qui in molti o di molti animali stata più presto crudele matrigna che
madre, e d’alcuni non matrigna, ma piatosa madre.
Io t’ubbidisco,
Signore, prima per l’amore che ragionevolmente portare ti debbo, secondaria ché
tu sai abbreviare o prolungare le vite a li omini.
Ecco alcuni che
non altramente che transito di cibo, e aumentatori di sterco e riempitori di
destri chiamarsi debono, perché per loro non altro nel mondo apare, alcuna
virtù in opera si mette, perché di loro altro che pieni destri non
resta.
Tristo è
quel discepolo che non avanza il suo
maestro.
Tanto è
a dire ben d’un tristo, quanto a dire mal d’un bono.
La memoria dei
beni fatti, appresso l’ingratitudine, è fragile.
Reprendi l’amico
tuo in segreto e laldalo in paleso.
Non esser
bugiardo del preterito.
Chi teme i
pericoli non perisce per quegli.
Lussuria
è causa della generazione.
Gola è
mantenimento della vita.
Paura over
timore è prolungamento di vita.
Dolor è
salvamento dello strumento.
Ogni danno
lascia dispiacere nella ricordazione, salvo che ‘l sommo danno, cioè la
morte che uccide essa ricordazione insieme colla vita.
Nessuna cosa
è da temere quanto la sozza fama. Questa sozza fama è nata da’
vizi.
Il voto nasce
quando la speranza more.
La ‘nvidia
offendo con la finta infamia, cioè col detrarre, la qual cosa spaventa
la vertù.
La fama vola e
si leva al cielo, perché le cose vertudiose sono amiche a Dio.
La infamia
sottosopra figurare si debbe, perché tutte le sue operazioni sono contrarie a
Dio e inverso l’ìnferi si dirizzano.
Facciàno
nostra vita coll’altrui morte.
Ogni cosa per
distirpare il tristo.
Ogni torto si
dirizza.
Cogli la
gremigna perchè le bon’erbe crescino.
Tal fia il
getto qual fia la stampa.
Di lieve cosa
nascesi gran ruina.
Costanzia: non
chi comincia, ma quel che persevera.
Al cimento si
conosce il vero oro.
L’acqua che
trabocca sopra i sua ripari, quegli discalza e ruina dalla opposita parte.
Dimanda
consiglio a chi ben si corregge.
Giustizia vol
potenzia, intelligenzia e volontà, e si assomiglia a’re delle ave .
Chi non punisce
il male, comanda che si facci.
Chi piglia la
biscia per la coda, quella poi lo morde.
Chi cava la
fossa, questa gli ruina addosso.
Chi scalza il
muro, quello gli cade addosso.
Chi taglia la
pianta, quella si vendica con la sua ruina.
Al traditore la
morte è vita, perché se usa lialtà non gli è creduta.
Non si po’ aver
ragione né minor signoria che quella di se medesimo.
Più facilmente
si contasta al principio che alla fine.
Nessun
consiglio è più leale che quello che si dà dalle navi che
sono in pericolo.
Aspetti danno
quel che si regge per giovane in consiglio.
Chi poco pensa
molto erra.
Chi non
raffrena la volontà colle bestie s’accompagni.
Chi non stima
la vita, non la merita.
Sicome il
mangiare sanza voglia fia dannoso alla salute, così lo studio sanza
desiderio guasta la memoria, e no’ ritiene cosa ch’ella pigli.
Non si dimanda
ricchezza quella che si può perdere. La virtù è vero
nostro bene ed è vero premio del suo possessore: lei non si può
perdere, lei non ci abbandona, se prima la vita non ci lascia. Le robe e le
esterne devizie sempre le tieni con timore, ispesso lasciano con iscorno e
sbeffato il loro possessore, perdendo lor possessione.
Tal’è ‘l
mal che non mi noce, quale il bene che non mi giova: li giunchi che ritengono
le pagliucole che l’anniegano.
Chi altri
offende, sé non sicura.
La
verità sola fu figliola del tempo.
La paura nasce
più tosto che altra cosa.
L’uomo ha
grande discorso del quale la più parte è vano e falso, li animali
l’hanno piccolo ma è utile e vero; e meglio è la piccola certezza
che la gran bugia.
Sempre le
parole che non saddisfanno all’orecchio dello alditore li danno tedio over
rincrescimento; e l’segno di ciò vedrai spesse volte tali ulditori
essere copiosi di sbavigli. Adunque tu che parli dinanti a omini di cui tu
cerchi benivolenzia, quando tu vedi tali prodigi di rincrescimento, abrevia il
tuo parlare o tu muta ragionamento; e se tu altrementi farai, allora i’ loco
della desiderata grazia, tu acquisterai odio e nimicizia.
E se vòi
vedere di quel che un si diletta, senza udirlo parlare, parla con lui mutando
diversi ragionamenti; e quel dove tu lo vedi stare intento, sanza
sbavigliamenti o storcimenti di ciglia o altre varie azione, sia certo che
quella cosa di che si parla è quella di che lui si diletta, ecc.
Per lo spino,
insiditoli sopra boni frutti, significa quello che per sé non era disposto a
virtù, ma mediante l’aiuto del precettore dà di sé utilissime
virtù.
Non si debba
desiderare lo impossibile.
[ La Penitenza dell’acqua ]
Trovandosi
l’acqua nel superbo mare, suo elemento, le venne voglia di montare sopra
l’aria, e confortata dal foco elemento, elevatosi in sottile vapore, quasi
parea della sittiglieza dell’aria, e , montato in alto, giunse infra l’aria
più sottile e fredda, dove fu abbandonata dal foco. E piccoli granicoli,
sendo restretti, già s’uniscano e fannosi pesanti, ove cadendo la
super[bia ] si converte in fuga, e cade del cielo; onde poi fu beuta dalla
secca terra, dove, lungo tempo incarcerata, fè penitenzia del suo
peccato.
[ La fiamma e
la candela ]
Il lume, o foco
incordo sopra la candela, quella consumando se consuma.
[ La vendetta
del vino ]
Il vino
consumato dallo imbriaco. Esso vino col bevitore si vendica.
[L’inchiostro e
la carta ]
L’inchiostro
displezzato per la sua nerezza dalla bianchezza della carta, la quale da quello
si vide imbrattare. Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza
dell’inchiostro, di quello si dole; el quale mostra a essa che per le parole,
ch’esso sopra lei compone, essere cagione della conservazione di quella.
[Il fuoco e
l’acqua ]
Il foco
contende l’acqua posta nel laveggio, dicendo che l’acqua no merita star sopra
il foco, re delli elemente, e così vo’ per forza di bollore cacciare
l’acqua del laveggio; onde quella per farli onore d’ubbidienzia discende in
basso e anniega il foco.
[ Lo specchio e
la regina]
Lo specchio si
groria forte tenendo dentro a sé specchiata la regina e, partita quella, lo
specchio riman vile.
[Il ferro e la
lima ]
Il pesante
ferro si reduce in tanta sottilità mediante la lima, che piccolo vento
poi lo porta via.
[La pianta, il
palo e i pruni ]
La pianta si
dole del palo secco e vecchio, che se l’era posto allato, e de’ pruni secchi
che lo circundano: l’un lo mantiene diritto, l’altro lo guarda dalle triste
compagnie.
[ Il ligustro e
il merlo]
I’ rovistrice,
sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti
artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarichio
inverso essa merla, pregando quella che poi che lei li toglieva e sua diletti
frutti, il meno nolle privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai
cocenti razzi del sole, e che coll’acute unghie non iscorticasse [e]
desvestissi della sua tenera pella. A la quale la merla con villane rampogne
rispose: ”O taci, salvatico sterpo. Non sai che la natura t’ha fatti produrre
questi frutti per mio notrimento? Non vedi che se’ al mondo di tale cibo? Non
sai, villano, che tu sarai innella prossima invernata notrimento e cibo del
foco?” Le quali parole ascoltate dall’albero pazientemente non sanza lacrime,
infra poco tempo il merlo preso dalla ragna e colti de’ rami per fare gabbia
per incarcerare esso merlo, toccò, infra l’altri rami, al sottile
rovistrico a fare le vimini della gabbia, le quali vedendo esser causa della
persa libertà del merlo, rallegratosi, mosse tale parole: ”O merlo, i’
son qui non ancora consumata, come dicevi, dal foco; prima vederò te
prigione, che tu me brusiata.
[L’alloro, il
mirto, il pero ]
Vedendo il
lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono:”O pero, ove vai tu?
Ov’è la superbia che avevi quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci
farai ombra colle tue folte chiome”. Allora il pero rispose:” Io ne vo
coll’agricola che mi taglia, e mi porterà alla bottega d’ottimo
sculture, il quale mi farà con su’ arte pigliare la forma di Giove
iddio, e sarò dedicato nel tempio, e dagli omini adorato invece di
Giove, e tu ti metti in punto a rimanere ispesso storpiata e pelata de’ tua
rami, i quali mi fieno da li omini per onorarmi posti d’intorno”.
[ Il castagno e
il fico]
Vedendo il castagno
l’uomo sopra il fico, il quale piegava inverso sé i sua rami, e di quelli
ispiccava i maturi frutti, e quali metteva nell’aperta bocca disfacendoli e
disertandoli coi duri denti, crollando i lunghi rami e con temultevole mormorio
disse:” O fico, quanto se’ tu men di me obrigato alla natura! Vedi come in me
ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia,
sopra la quale è posta la dura e foderata pelle, e non contentandosi di
tanto beneficarmi, ch’ell’ha fatto loro la forte abitazione, e sopra quella
fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell’homo non mi
possino nuocere”. Allora il fico cominciò insieme co’ sua figlioli a
ridere, e ferme le risa, disse:” Conosci l’omo essere di tale ingegno, che lui
ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, tratti infra i tua rami, farti
povero de’ tua frutti, e quelli caduti, peste co’ piedi e co’ sassi, in modo
ch’e frutti tua escino stracciati e storpiati fora dell’armata casa; e io sono
con diligenza tocco dalle mani, e non come te da bastoni e da sassi”.
[La farfalla e
la fiamma della candela ]
Non si
contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per
l’aria, vinto dalla dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in
quella; e ‘l suo giocondo movimento fu cagione di subita tristizia;
imperò che ‘n detto lume si consumorono le sottile ali, e ‘l parpaglione
misero, caduto tutto brusato a piè del candellieri, dopo
molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai bagnati occhi, e
levato il viso in alto, disse:” O falsa luce, quanti come me debbi tu avere,
ne’ passati tempi, avere miserabilmente ingannati. O si pure volevo vedere la
luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello spurco sevo?”
[ La noce e il
campanile]
Trovandosi la
noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una
fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco, pregò esso muro,
per quella grazia che Dio li aveva dato dell’essere tanto eminente e magno e
ricco di sì belle campane e di tanto onorevole sono, che la dovessi
soccorrere; perché, poi che le non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo
vecchio padre, e essere nella grassa terra, ricoperta dalle sue cadenti foglie,
che non la volessi lui abbandonare: imperò ch’ella trovandosi nel fiero
becco della cornacchia, ch’ella si botò, che, scampando da essa, voleva
finire la vita sua ‘n un picciolo buso. Alle quali parole, il muro, mosso a
compassione, fu contento ricettarla nel loco ov’era caduta. E infra poco tempo,
la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle
pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli
in brieve levati sopra lo edifizio e ingrossate le ritorte radici,
cominciò aprire i muri e cacciare le antiche pietre de’ loro vecchi lochi.
Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve
aperto, rovinò gran parte delle sua membre.
[ La scimmia e
l’uccellino]
Trovando la
scimia un nidio di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, e
quali essendo già da volare, ne potè solo pigliare il minore.
Essendo piena di allegrezza, con esso in mano se n’andò al suo ricetto;
e cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e
per lo isvecerato amore, tanto lo baciò e rivolse e strinse ch’ella gli
tolse la vita.
È detta per quelli che, per non
gastigare i figlioli, capitano male.
[ Il salice, la
gazza e i semi della zucca]
Il misero
salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua
sottili rami fare ovver condurre alla desiderata grandezza e dirizzarsi al
cielo – per cagione della vite e di qualunche pianta li era visina,
sempre elli era storpiato e diramato e guasto – e raccolti in sé tutti li
spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla immaginazione; e stando in continua
cogitazione, e ricercando con quella l’universo delle piante, con quale di
quelle esso collegare si potessi, che non avessi bisogni dell’aiuto de’ sua
legami; e stando alquanto in questa notritiva immaginazione, con subito
assalimento li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande
allegrezza, paren[do]li avere trovato compagnia al suo disiato proposito –
imperò che quella è più atta a legare altri che essere
legata – e fatta tal deliberazione, rizzò i sua rami in[v]erso il cielo;
attendea spettare qualche amichevole uccello, che li fussi a tal disiderio
mezzano.
In fra’ quali,
veduta a sé vicina la sgazza, disse inver di quella: “O gentile uccello, per
quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, in e mia rami trovasti,
quando l’affamato falcone crudele e rapace te voleva divorare; e per quelli
riposi che sopra me ispesso hai usato, quando l’alie tue a te riposo chiedeano;
e per quelli piaceri che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne
ne’ tua amori, già hai usato, io ti priego che tu truovi la zucca e
impetri da quella alquante delle sue semenze, e di’ a quelle che, nate ch’elle
fieno, ch’io le tratterò non altrementi che se del mio corpo generate
l’avessi e similmente usa tutte quelle parole che di simile intenzione
persuasive sieno, benché a te, maestra de’ linguaggi, insegnare non bisogna. E
se questo farai, io sono contenta di ricevere il tuo nidio sopra il nascimento
de’ mia rami, insieme colla tua famiglia, senza pagamento d’alcun fitto.”
Allora la
sgazza fatto e fermi alquanti capitoli di novo col salice, e massimo che bissie
o faine sopra sé mai non accettassi, alzato la coda e bassato la testa e
gittatasi del ramo, rendé il suo peso all’ali, e quelle battendo sopra la
fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda
dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto e alquante bone parole,
impetrò le dimandate semenze. E condottele al salice, fu con lieta cera
ricevuta; e raspato alquanto co’ piè il terreno vicino al salice, col
becco, in cerch[i]o a esso, essi grani piantò. Le quali in brieve tempo
crescendo, cominciò collo accrescimento e aprimento de’ sua rami a
occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la
bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male, seguendo le
zucche, cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de’ teneri rami
inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e
indarno crollandosi, per fare da sé esse zucche cadere, e indarno vaneggiando
alquanti giorni in simile inganno, perché la bona e forte collegazione tal
pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello
soffiò forte. Allora s’aperse il vecchio e vòto gambo del salice
in due parti insino alle sue radice, e caduto in due parti, indarno pianse sé
medesimo, e conobbe chi era nato per non aver mai bene.
[La fiamma e la candela ]
Le fiamme,
già uno me[se] durato nella fornace de’ bicchieri e veduto a sé
avvicinarsi una candela ‘n un bello e lustrante candeliere, con gran desiderio
si forzavano accostarsi a quella. Infra le quali una la[s]ciato il suo naturale
corso e tiratasi d’entro a uno voto stizzo, dove si pasceva, e uscita da
l’opposito, fori d’una piccola fessura, alla candela che vicina l’era, si
gittò, e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi
al fine condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno
tentò tornare alla fornace, donde partita s’era, perché fu costretta
morire e mancare insieme colla candela; onde al fine col pianto e pentimento in
fastidioso fumo si convertì, lascian[do] tutte le sorelle in
isplendevole e lunga vita e bellezza.
[ Il vino e i
maomettani]
Trovandosi il
vino, divino licore dell’uva, in una aurea e ricca tazza, e sopra la tavole di
Maumetto, e montato in groria di tanto onore, subito fu assaltato da una
contraria cogitazione, dicendo a sé medesimo: ”Che fo io? Di che mi rallegro
io? Non m'avvedo esser vicino alla mia morte e lasciare l’aurea abitazione
della tazza, e entrare innelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e
lì trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E
non bastando tanto male, ch’io ancora debba sì lungamente diacere in e
brutti ricettacoli coll’altra fetida e corrotta materia uscita dalle
umane interiora?” Gridò inverso al cielo, chiedendo vendetta di tanto
danno, e che si ponessi ormai fine a tanto dispregio, che poiché quello paese
producea le più belle e migliore uve di tutto l’altro mondo, che il meno
esse non fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il beuto vino da
Maumetto elevò l’anima sua inverso il celabro e quello in modo
contaminò, che lo fece matto, e partorì tanti errori, che,
tornato in sé, fece legge che nessuno asiatico beessi vino. E fu lasciato poi
libere le viti co’ sua frutti.
[Il topo e la
donnola]
Stando
il topo assediato in una piccola sua abitazione, dalla donnola, la quale con
continua vigilanza attendea alla sua disfazione, e per uno piccolo spiraculo
ragguardava il suo gran periculo. Infrattanto venne la gatta e subito prese
essa donnola, e immediate l’ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a
Giove d’alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua
deietà; e uscito fori dalla sua busa a possedere la già persa
libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu dalle feroci unglia
e denti della gatta privato.
[ Il cedro
superbo]
Il cedro,
insuperbito della sua bellezza, dubita delle piante che li son d’intorno, e
fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò
per terra diradicato.
[ La formica e
il seme di miglio]
La formica
trovato uno grano di miglio, il grano sentendosi preso da quella gridò:”
Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti
renderò cento me medesimi”. E così fu fatto.
[Il ragno e il
grappolo d’uva]
Trovato il
ragno uno grappolo d’uve, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da
ave e diverse qualità di mosche, li parve aver trovato loco
molto comodo al suo inganno. E calatosi giù per lo suo sottile filo, e
entrato nella nova abitazione, lì ogni giorno, facendosi alli spiraculi
fatti dalli intervalli de’ grani dell’uve, assaltava, come ladrone, i miseri
animali, che da lui non si guardavano. E passati alquanti giorni, il
vendemmiatore còlta essa uva e messa coll’altre, insieme con quelle fu pigiato.
E così l’uva fu laccio e ‘nganno dello ingannatore ragno, come delle
ingannate mosche.
[ La vitalba
scontenta]
La vitalba, non
istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare co’ sua rami la
comune strada e appiccarsi all’opposita siepe; onde da’ viandanti poi fu
rotta.
[L’asino e il
ghiaccio]
Addormentatosi l’asino sopra il diaccio
d’un profondo lago, il suo calore dissolvé esso diaccio, e l’asino sott’acqua,
a mal suo danno, si destò, e subito annegò.
[La neve umile
]
Trovandosi
alquanta poca neve appiccata alla sommità d’un sasso, il quale era
collocato sopra la strema altezza d’una altissima montagna, e raccolto in sé la
maginazione, cominciò con quella a considerare, e infra sé dire: ”Or non
son io da essere giudicata altera e superba, avere me, piccola drama di neve,
posto in sì alto loco, e sopportare che tanta quantità di neve
quanto di qui per me essere veduta pò, stia più bassa di me?
Certo la mia poca quantità non merta quest’altezza, ché bene posso, per
testimonianza della mia piccola figura, conoscere quello che ‘l sole fece ieri
alle mia compagne, le quali in poche ore dal sole furono disfatte; e questo
intervenne per essersi poste più in alto che a loro non si richiedea. Io
voglio fuggire l’ira del sole, e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla
mia parva quantità.”
E gittatasi in
basso, e cominciata a discendere, rotando dall’alte spiagge su per l’altra
neve, quando più cercò loco basso, più crebbe sua
quantità, in modo che, terminato il suo corso sopra uno colle, si
trovò di non quasi minor grandezza che ‘l colle che essa sostenea: e fu
l’ultima che in quella state dal sole disfatta fusse. Detta per quelli che
s’aumiliano: son esaltati.
[Il falcone
impaziente]
Il falcone non
potendo sopportare con pazienza il nascondere che fa l’anitra fuggendosele
dinnanzi e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e,
bagnatosi le penne, rimase in essa acqua, e l’anitra, levatasi in aria,
schernia il falcone che annegava.
[Il ragno e il
calabrone ]
Il ragno,
volendo pigliare la mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone
crudelmente morto.
[L’aquila e il
gufo ]
Volendo
l’aquila sche[r]nire il gufo, rimase coll’alie impaniate, e fu dall’omo presa e
morta.
[Il cedro
ambizioso ]
Avendo il cedro
desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella sommità di sé, lo
mise a seguizione con tutte le forze del suo omore, il quale frutto, cresciuto,
fu cagione di fare declinare la elevata e diritta cima.
[Il pesco
invidioso ]
Il persico,
avendo invidia alla gran quantità de’ frutti visti fare al noce suo
vicino, diliberato fare il simile, si caricò de’ sua in modo tale, che
‘l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana terra.
[Il noce e i
viandanti ]
Il noce
mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de’ sua frutti, ogni omo
lo lapidava.
[ Il fico]
Il fico stando
sanza frutti nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere
laldato da li omini, fu da quelli piegato e rotto.
[ Il fico e
l’olmo]
Stando il fico
vicino all’olmo, e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere
ardimento di tenere il sole a’ sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: “O
olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta ch’e mia figlioli sieno
in matura età, e vedrai dove ti troverai”. I quali figlioli poi
maturati, capitandovi una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua
fichi, tutto lacerato e diramato e rotto. Il quale stando poi così
storpiato delle sue membra, l’olmo lo dimandò dicendo:” O fico, quanto
era il meglio a stare sanza figlioli, che per quelli venire in sì
miserabile stato”.
[Il fuoco
superbo e il paiolo]
Uno poco di
foco, che in un piccolo carbone infra la tiepida cenere remaso era, del poco
omore, che in esso restava, carestiosa e poveramente sé medesimo notrìa,
quando la ministra della cucina, per usare con quello l’ordinario suo cibario
offizio, quivi apparve, e, poste le legne nel focolare, e col solfanello,
già resucitato d’esso, già quasi morto, una piccola fiammella, e
infra le ordinate legne quella appresa, e posta di sopra la caldara, sanz’altro
sospetto, di lì sicuramente si parte.
Allora,
rallegratosi il fo[co] delle sopra sé poste secche legne, comincia a elevarsi,
[c]acciando l’aria delli intervalli d’esse legne, infra quelle con ischerzevole
e giocoso transito, se stessi tesseva. Cominciato a spirare fori dell’
intervalli delle legne, di quelli a se stessi dilettevoli finestre fatto avea;
e cacciato fori di lucenti e rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre
della serrata cucina; e col galdio le fiamme già cresciute scherzavano
coll’aria d’esse circundatrice e con dolce mormorio cantando creava[n] suave
sonito.
Vedutosi
già fortemente essere sopra delle legne cresciuto e fatto assai grande,
cominciò a levare il mansueto e tranquillo animo in gonfiata e
incomportabile superbia, facendo quasi a sé credere tirare tutto el superiore
elemento sopra le poche legne. E cominciato a sbuffare, e empiendo di scoppi e
scintillanti sfavillamenti tutto il circunstante focolare, già le fiamme
fatte grosse, unitamente si dirizzavano inverso l’aria, quando le fiamme
più altiere percosse[r] nel fondo della superiore caldara.
[I tordi e
la civetta]
I tordi si
rallegrarono forte vedendo che l’omo prese la civetta e le tolse la
libertà, quella legando con forti legami ai sua piedi. La qual civetta
fu poi, mediante il vischio, causa non di far perde[re] la libertà ai
tordi, ma lo loro propia vita.
Detta per
quelle terre, che si rallegran di vedere perdere la libertà ai loro
maggiori, mediante i quali poi perdano soccorso e rimangono legati in potenzia
del loro nemico, lasciando la libertà e spesse volte la vita.
[La pulce]
Dormendo il
cane sopra la pelle di un castrone, una delle sue pulci, sentendo l’odore della
unta lana, giudicò quello doversi essere loco di migliore vita e
più sicura da’ denti e unglia del cane che pascersi del cane, e sanza
altro pensieri, abbandonò il cane, e, entrata intra la folta lana,
cominciò con somma fatica a volere trapassare alle radici de’ peli. La
quale impresa, dopo molto sudore, trovò esser vana, perché tali peli
erano erano tanto spessi che quasi si toccavano, e non v’era spazio dove la
pulce potessi saggiare tal pelle; onde, dopo lungo travaglio e fatica, cominciò
a volere ritornare al suo cane, il quale essendo già partito, fu
costretta, dopo lungo pentimento, amari pianti, a morirsi di fame.
[Il rasoio
vanitoso e borioso]
Uscendo un
giorno il rasoio di quel manico col quale si fa guaina a sé medesimo, e postosi
al sole, vide lo sole ispecchiarsi nel suo corpo: della qual cosa prese somma
groria, e rivolto col pensiero indirieto, cominciò con seco medesimo a
dire:” Or tornerò io più a quella bottega, della quale novamente
uscito sono? Certo no. Non piaccia agli Dei, che sì splendida bellezza
caggia in tanta viltà d’animo! Che pazzia sarebbe quella la qual mi
conducessi a radere le insaponate barbe de’ rustichi villani e fare sì
meccaniche operazione? Or è questo corpo da simili esercizi? Certo no.
Io mi vogli[o] nascondere in qualche occulto loco, e lì con tranquillo
riposo passare la mia vita”.
E così,
nascosto per alquanti mesi, un giorno ritornato all’aria, e uscito fori della
sua guaina, vide sé essere fatto a similitudine d’una rugginente sega, e la sua
superficie non ispecchiare più lo splendente sole, Con vano pentimento
indarno pianse lo inreparabile danno, con seco dicendo:” O quan[to] meglio era
esercitare col barbiere il mi’ perduto taglio di tanta sottilità.
Dov’è la lustrante superfizie? Certo la fastidiosa e brutta ruggine l’ha
consumata”.
Questo medesimo
accade nelli ingegni, che ‘n iscambio dello esercizio, si dànno
all’ozio, i quali, a similitudine del sopradetto rasoio, perde la tagliente sua
suttilità e la ruggine dell’ ignoranzia guasta la sua forma.
[La pietra
scontenta della sua vita solitaria]
Una pietra
novamente per l’acque scoperta, di bella grandezza, si stava sopra un certo
loco rilevata, dove terminava un dilettevole boschetto sopra una sassosa
strada, in compagnia d’erbette, di vari fiori di diversi colori ornata, e vedea
la gran somma delle pietre che nella a sé sottoposta strada collocate erano. Le
venne desiderio di la giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:” Che fo
qui con queste erbe? Io voglio con queste mie sorelle in compagnia abitare”. E
giù lassatosi cadere infra le desiderate compagne, finì il suo
volubile corso; e stata alquanto cominciò a essere da le rote de’ carri,
dai piè de’ ferrati cavalli e de’ viandanti, a essere in continuo
travaglio; chi la volta, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezzo,
quando stava coperta dal fango o sterco di qualche animale, e invano riguardava
il loco donde partita s’era, innel loco della soletaria e tranquilla pace.
Così
accade a quelli che nella vita soletaria e contemplativa vogliano venir a
abitare nelle città, infra i popoli pieni d’infini[ti] mali.
[La farfalla
e il lume ad olio]
Andando il
dipinto parpaglione vagabundo, e discorrendo per la oscurata aria, li venne
visto un lume, al quale subito si dirizzò, e, con vari circuli quello
attorniando, forte si maravigliò di tanta splendida bellezza, e non
istando contento solamente al vederlo, si mise innanzi per fare di quello come
delli odoriferi fiori fare solìa. E, dirizzato suo volo, con ardito
animo passò per esso lume, l’elettrone quale gli consumò li
stremi delle alie e gambe e altri ornamenti. E caduto a’ piè di quello,
con ammirazione considerava esso caso donde intervenuto fussi, non li potendo
entrare nell’animo che da sì bella cosa male o danno alcuno intervenire
potessi. E restaurato alquanto le mancate forze, riprese un altro volo, e,
passato attraverso del corpo d’esso lume, cadde subito bruciato nell’olio che
esso lume notrìa, e restogli solamente tanta vita, che potè
considerare la cagion del suo danno, dicendo a quello:
” O maladetta
luce, io mi credevo avere in te trovato la mia felicità; io piango
indarno il mio matto desiderio, e con mio danno ho conosciuto la tua
consumatrice e dannosa natura”. Alla quale il lume rispose:” Così fo io
a chi ben non mi sa usare”. E immediate ito al fondo finì la sua vita.
Detta per
quelli i quali, veduti dinanzi a sé questi lascivi e mondani piaceri, a
similitudine del parpaglione, a quelli corrano, sanza considerare la natura di
quelli; i quali, da essi omini, dopo lunga usanza, con loro vergogna e danno
conosciuti sono.
[La pietra
focaia e l’acciarino]
La pietra,
essendo battuta dall’acciarolo del foco, forte si maravigliò, e con
rigida voce disse a quello:” Che presunzio ti move a darmi fatica? Non mi dare
affanno, che tu m’hai colto in iscambio. Io non dispiacei mai a nessuno”.Al
quale l’acciarolo rispose:” Se sarai paziente, vedrai che maraviglioso frutto
uscirà di te”. Alle quale parole la pietra, datosi pace, con pazienza
stette forte al martire, e vide di sé nascere il maraviglioso foco, il quale,
colla sua virtù operava in infinite cose.
Detta per
quelli i quali spaventano ne’ prencipi delli studi, e poi che a loro medesimi
si dispongano potere comandare, e dare con pazienza opera continua a essi
studi, di quelli si vede resultare cose di maravigliose dimostrazioni.
[Il ragno]
Il ragno credendo trovar requie nella
buca della chiave, trova la morte.
[Il giglio e
la corrente del fiume]
Il ligio si pose sopra la ripa di
Tesino, e la corrente tirò la ripa insieme col lilio.
[L’ostrica,
il topo e la gatta]
Sendo l’ostriga insieme colli al[tri]
pesci in casa del pescatore scaricata vicino al mare, priega il ratto che al
mare la conduca. Il ratto, fatto disegno di mangiarla, la fa aprire e
mordendola, questa li serra la testa e sì lo ferma. Viene la gatta e
l’uccide.
[Il
contadino e la vite]
Vedendo il villano la utilità
che resultava dalla vite, le dette molti sostentaculi da sostenerla in alto, e,
preso il frutto, levò le pertiche e quella lasciò cadere, facendo
foco de’ sua sostentaculi.
[La triste
morte di un granchio]
El granchio
stando sotto il sasso per pigliar e pesci che sotto a quello entravano,
venne la piena con rovinoso precipitamento di sassi, e collo rotolarsi
sfracelloron tal granchio.
[Il ragno e
l’uva]
Il ragno, stante infra all’uve,
pigliava le mosche che in su tale uve si pasceva[n]. Venne la vendemmia, e fu
pesto il ragno insieme coll’uve.
[La vite e
l’albero vecchio]
La vite,
invecchiata sopra l’albero vecchio, cadde insieme con la ruina d’esso albero, e
fu per la trista compagnia a mancare insieme con quello.
[Il torrente]
Il torrente
portò tanto di terra e pietre nel suo letto, che fu po’ constretto a
mutar sito.
[La rete e i
pesci]
La rete, che
soleva pigliare li pesci, fu presa e portata via dal furor de’ pesci. [Ar. 42
v.]
[La palla di
neve]
La palla della neve quanto più
rotolando discese delle montagne della neve, tanto più moltiplicò
la sua magnitudine.
Il salice
Il salice, che per li sua lunghi
germinamenti cresce da superare ciascuna altra pianta, per avere fatto
compagnia colla vite, che ogni anno si pota, fu ancora lui sempre storpiato.
[La penna e
il temperino]
Necessaria compagnia ha la penna col
temperatoio e similmente utile compagnia, perché l’una sanza l’altro non vale
troppo.
[Il vecchio e il
giovane]
Dispregiando
uno vecchio pubblicamente un giovane, mostrando aldacemente non temer quello,
onde il giovane li rispuose che la sua lunga età li faceva migliore
scudo che la lingua o la forza.
[L’artigiano e
il signore]
Uno artigiano
andando spesso a vicitare un signore, sanza altro proposito dimandare, al quale
il signore domandò quello che andava facendo. Questo disse che venia
lì per avere de’ piaceri che lui aver non potea; perocchè lui
volentieri vedeva omini più potenti di lui, come fanno i popolari, ma
che ‘l signore non potea vedere se non omini di men possa di lui: e per questo
i signori mancavano d’esso piacere.
[L’uomo con la
spada]
Uno vede una
grande spada allato a un altro e dice:” O poverello! Ell’è gran tempo
ch’io t’ho veduto legato a questa arme: perché non ti disleghi, avendo le mani
disciolte e possiedi libertà?”
Al quale costui rispose:” Questa
è una cosa non tua, anzi è vecchia.” Questo, sentendosi mordere,
rispuose:” Io ti conosco sapere sì poche cose in questo mondo, ch’io
credevo che ogni divulgata cosa a te fussi per nova.
[Due viandanti
nella notte]
Due camminando
di notte per dubbiosa via, quello dinanzi fece gran strepido col culo; e disse
l’altro compagno: “ Or veggo io ch’i son da te amato”. “Come?” disse l’altro.
Quel rispose;” Tu mi porgi la correggia perch’io non caggia, né mi perda da
te”.
[Il gioco delle
brache]
Uno
disputandosi e vantandosi di sapere fare molti vari e belli giochi, un altro
de’ circustanti disse:” Io so fare uno gioco il quale farà trarre le
brache a chi a me parirà”. Il primo vantatore, trovandosi sanza brache:
“Che no”, disse, “che a me non le farai trarre! E vadano un paro di calze”. Il
proponitore d’esso gioco, accettato lo ‘nvito, impromutò più para
di brache e trassele nel volto al mettitore delle calze. E vinse il pegno.
[Gli occhi dallo
strano colore]
Uno disse a un
suo conoscente: “Tu hai tutti li occhi trasmutati in istrano colore”. Quello li
rispose intervenirli spesso. “Ma tu non ci hai posto cura? E quando t’addivien
questo?” Rispose l’altro: “Ogni volta ch’e mia occhi veggono il tuo viso
strano, per violenza ricevuta da sì gran dispiacere, subito e’
s’impallidiscano e mutano in istran colore”.
[La stessa]
Uno disse a un
altro: “Tu hai tutti li occhi mutati in istran colore”. Quello li rispose:
“Egli è perché i mia occhi veggono il tuo viso strano”.
[Il paese in cui
nascevano le cose più strane]
Uno disse che
in suo paese nasceva le più strane cose del mondo. L’altro rispose: “Tu
che vi se’ nato, confermi ciò esser vero, per la stranezza della tua
brutta presenza”.
[La lavandaia e
il prete]
Una lavava i
panni e pel freddo aveva i piedi molto rossi, e, passandole appresso, uno prete
domandò con ammirazione donde tale rossezza dirivassi; al quale la
femmina subito rispuose che tale effetto accadeva, perché ella aveva sotto il
foco. Allora il prete mise mano a quello membro, che lo fece essere più
prete che monaca, e, a quella accostatosi, con dolce e sommessiva voce pregò
quella che ‘n cortesia li dovessi un poco accendere quella candela.
[Il prete e il pittore]
Andando un
prete per la sua parrocchia il sabato santo, dando, com’è usanza,
l’acqua benedetta per le case, capitò nella stanza d’un pittore, dove
spargendo essa acqua sopra alcuna sua pittura, esso pittore, voltosi indirieto
alquanto scrucciato , disse, perché facessi tale spargimento sopra le sue
pitture.
Allora il prete disse essere
così usanza, e ch’ era suo debito il fare così e che faceva bene,
e chi fa bene debbe aspettare bene e meglio, che così promettea Dio, e
che d’ogni bene, che si faceva in terra, se n’arebbe di sopra per ogni un
cento. Allora il pittore, aspettato ch’elli uscissi fori, se li fece di sopra
alla finestra, e gittò un gran secchione d’acqua addosso a esso prete,
dicendo: “Ecco che di sopra ti viene per ogni un cento, come tu dicesti che
accaderebbe nel bene, che mi facevi colla tua acqua santa, colla quale m’hai
guasto mezze le mie pittura”.
[Un frate e il
mercante]
Usano i frati
minori, a certi tempi, alcune loro quaresime, nelle quali essi non mangiano
carne ne’ lor conventi; ma in viaggio, perché essi vivano di limosine, hanno
licenzia di mangiare ciò che è posto loro innanzi. Onde,
abbattendosi in detti viaggi una coppia d’essi frati a un’osteria in compagnia
d’un certo me[r]cantuolo, il quale, essendo a una medesima mensa, alla quale
non fu portato, per la povertà dell’ostieri, altro che un pollastro
cotto, onde esso mercantuolo, vedendo questo essere poco per lui, si volse a
essi frati, e disse: “Se io ho ben di ricordo, voi non mangiate in tali
dì ne’ vostri conventi d’alcuna maniera di carne”. Alle quali parole i
frati furono costretti, per la loro regola, sanza alt[r]e gavillazioni, a dire
ciò essere la verità: onde il mercantetto ebbe il suo desiderio;
e così si mangiò essa pollastra, e i frati feciono il meglio
poterono.
Ora, dopo tale desinare, questi
commensari si partirono tutti e tre di compagnia; e dopo alquanto di viaggio,
trovati un fiume di bona larghezza e profondità, essendo tutti tre a
piedi – i frati per povertà e l’altro per avarizia -, fu necessario, per
l’uso della compagnia, che uno dei frati, essendo discalzi, passassi sopra i
suoi omeri esso mercantuolo: on[de] datoli il frate a serbo i zoccoli, si caricò
di tale omo.
Onde accadde che, trovandosi esso frate
in mezzo del fiume, esso ancora si ricordò de la sua regola; e
fermatosi, a uso di San Cristofano, alzò la testa inverso quello che
l’aggravava, e disse: “Dimmi un poco, hai tu nessun dinari addosso?”.“Ben sai”,
rispose questo,” come credete voi che la mia pari mercatante andassi altrementi
attorno?” “Oimè!”, disse il frate, “la nostra regola vieta che noi non
possiano portare danari addosso.” E subito lo gettò nell’acqua. La qual
cosa, conosciuta dal mercatante facetamente la già fatta ingiuria essere
vendicata, con piacevole riso, pacificamente, mezzo arrossito per vergogna, la
vendetta sopportò.
[L’amico e il
maldicente]
Uno
lasciò lo usare con uno suo amico, perché quello spesso li diceva male
delli amici sua. Il quale lasciato l’amico, un dì, dolendosi collo
amico, e dopo il molto dolersi, lo pregò che gli dicesse quale fusse la
cagione che lo avessi fatto dimenticare tanta amicizia. Al quale esso rispose:
“Io non voglio più usare con teco perch’io ti voglio bene e non voglio
che, dicendo tu male ad altri di me tuo amico, che altri abbiano a fare, come
me, a fare trista impressione di te, dicendo tu a quelli male di me tuo amico;
onde non usando noi più insieme, parrà che noi siamo fatti nimici
e per il dire tu male di me, com’è tua usanza, non sarai tanto da essere
biasimato, come se noi usassimo insieme”.
[La putta e il
prete]
Una putta
mostrò il cuno d’una capra ‘n cambio del suo a un prete, e prese un
grosso, e così lo beffò.
[La donna e il
“triste passo”]
La femmina nel
passare uno tristo e fangoso, tre verità. Ella nell’alzarsi colle mani i
panni dirieto e dinnanzi si tocca la potta e l’culo e dice: “Questo è
uno triste passo!”
[Il seguace di
Pitagora]
Uno volendo
provare colla alturità di Pitagora come altre volte lui era stato al
mondo, e uno non li lasciava finire il suo ragionamento, allo costui disse a
questo tale: “E per tale segnale che io altre volte ci fussi stato, io mi
ricordo che tu eri mulinaro”. Allora costui, sentendosi mordere colle parole,
gli confermò essere vero, che per questo contrassegno lui si ricordava
che questo tale era stato l’asino, che li portava la farina.
[Un pittore dai
brutti figli]
Fu dimandato un
pittore, perché facendo lui le figure sì belle, che eran cose morte, per
che causa avessi fatto i figlioli sì brutti. Allora il pittore rispose
che le pitture le fece di dì e i figlioli di notte.
[Il viaggiatore
e la gabella]
Uno andando a
Modana ebbe a pagare cinque soldi di gabella della sua persona. Alla qual cosa,
cominciato a fare gran cramore e ammirazione, attrasse a sé molti circunstanti,
i quali domandando donde veniva tanta maraviglia, ai quali Maso rispose: “O non
mi debbo io maravigliare con ciò sia che tutto un omo non paghi altro
che cinque soldi, e a Firenze io, solo a metter dentro el cazzo, ebbi a pagare
dieci ducati d’oro, e qui metto el cazzo e coglioni e tutto il resto per
sì piccol dazio? Dio salvi e mantenga tal città e chi la
governa!”
[Il malato e la
madonna Bona]
Sendo uno
infermo in articulo di morte, esso sentì battere la porta e domandato
uno de’ sua servi chi era che batteva l’uscio, esso servo rispose essere una
che si chiamava Madonna Bona. Allora l’infermo, alzato le braccia al cielo,
ringraziò Dio con alta voce, poi disse ai servi che lasciassino venire
presto questa, acciò che potessi vedere una donna bona innanzi che esso
morissi, imperocchè in sua vita ma’ ne vide nessuna.
[Il dormiglione]
Fu detto a uno
che si levasse dal letto, perché già era levato il sole, e lui rispose:
“Se io avessi a fare tanto viaggio e faccende quanto lui, ancora io sarei
già levato, e però, avendo a fare sì poco cammino, ancora
no mi vo’ levare”.
[L’arciprete e
lo sparviero]
Facezia
dell’arciprete di Sancta Maria del Monte, che sta a Varese, che fu mandato legato
al Duca ‘n iscambio d’uno sparviere.
[L’illegittimo]
Uno
rimproverò a uno omo da bene che non era legittimo. Al quale esso
rispose esser legittimo nelli ordini della spezie umana e nella legge di
natura, ma che lui nell’una era bastardo, perch’egli aveva più costumi
di bestia che d’omo, e nella legge delli omini non avea certezza d’esser
ligittimo.
[Il ladro e il
merciaio]
Sapiendo un
ladro che ‘n suo cognoscente merciaio avea assai danari ‘n una cassa in sua
bottega, fece pensiero di rubarliele, e di mezzanotte, entrato in bottega
d’esso merciaio, cominciato a dare ordine alla sua intenzione, fu sopraggiunto,
la bottega dischiavata dal gran catenaccio. E con grande spavento, posto li
occhi alle fessure donde spirava il lume del ladro, subito serrò di fori
il catenaccio; e serrato il ladro in bottega, corse per la famiglia del
rettore. Allora il ladro, trovandosi dentro serrato, ricorse a un subito scampo
della salute sua, e, accesi due candelieri del merciaio e cavato fori un paio
di carte da giucare, parte ne gittò per terra, dov’era tristo giuoco, e
altrettante ne serbò in mano con gioco bono, e così
aspettò la famiglia del rettore. La quale subito che giunse col
cavalieri, costui ch’era in bottega, sentendo dischiavare l’uscio,
gridò: “Alla fede di Dio, tu m’hai serrato qui per non mi pagare li
danari che io t’ho vinti. E io ti giuro che tu mi farà ‘l dovere. E non
si vole giuocare, chi non vuol perdere. Tu m’hai fatto mezzo giucar per forza e
poi, quando perdi, ti fuggi for di bottega co’ tua danari e co’ mia, e mi serri
dentro, perché io non ti corra dirieto”. E così detto, li cacciò
la mano alla scarsella per ispiccarliela dal lato. Allora il cavalieri,
parendoli esser stato giuntato, fece che ‘l merciaio li diede i danari che
colui dimandava ch’eran sua.
[Il povero e il
signore]
Uno povero omo
fece intendere a uno usceri d’un gran signore come e’ dovessi dire al suo
signore, che quivi era venuto un suo fratello, il quale avea gran bisogno di
parlarli. Il quale usceri, avendo riferita tale imbasciata, ebbe comessione di
dare l’entrata a tale fratello. Il quale giunto al cospetto del signore, li
mostrò come, essendo tutti discesi dal gran padre Adam, ch’elli era suo
fratello, e che la roba era mal divisa, e che lo pregava che cacciassi da lui
tale povertà, perché a gran pena potea vivere di limosine. Allora il
signori rispose ch’elli era ben lecito tale richiesta e domandò il
tesorieri e feceli donare un soldo. Allora il povero ebbe grande ammirazione e
disse che quel non si richiedea a tal fratello. Allora il signore disse ch’egli
avea tanti simili fratelli, che a dar tanto per ciascuno, che non li rimanea
niente a lui, e che tal soldo era bastante a tal divisione di roba. E
così con lecita licenzia lo divise da tal redità.
[Il tavolaccio e
la lancia]
Uno, vedendo una femmina parata a tener
tavola in giostra, guardò il tavolaccio e gridò, vedendo la sua
lancia: “Oimè, quest’è troppo picciol lavorante a sì gran
bottega!”
V. INDOVINELLI
FANTASTICI O PROFEZIE
Vederassi la
spezie leonina colle ungliate branche aprire la terra, e nelle fatte
spelonche seppellire sé insieme co’ li altri animali a sé sottoposti
Uscirà della terra animali
vestiti di tenebre, i quali, con maravigliosi assalti, assaliranno l’umana
generazione, e quella da feroci morsi fia, con fusion di sangue, da essi
divorata.
Ancora: scorrerà per l’aria la
nefanda spezie volatile, la quale assaliranno li omini e li animali, e di
quelli si ciberanno con gran gridore: empiranno i loro ventri di vermiglio
sang[u]e.
Vedrassi il sangue uscire dalle
stracciate carni, rigare le superfiziali parte delli omini.
Verrà alli omini tal crudele
malattia, che colle proprie unghie si stracceranno le loro carni.
Sarà la rogna.
Vedrassi le piante rimanere sanza
foglie e i fiumi fermare i loro corsi.
L’acqua del mare si leverà sopra
l’ alte cime de’ monti verso il cielo e ricaderà sopra alle abitazione
delli omini.
Cioè per nugoli.
Vederà i maggiori alberi delle
selve essere portati dal furor de’ venti dall’oriente all’occidente.
Cioè per mare.
Li omini gitteranno via le propie
vettovaglie.
Cioè seminando.
Verrà a tale la generazione
umana che non si intenderà il parlare l’uno dell’altro.
Cioè un tedesco con un turco.
Vedrassi ai padri donare le lor
figliole alla lussuria delli omini e premiarli e abbandonare ogni passata
guardia.
Quando si maritano le putte.
Usciranno li omini delle sepulture
convertiti in uccelli, e assaliranno li altri omini tollendo loro il cibo delle
propie mani e mense.
Le mosche.
Molti fien quegli che scorticando la
madre, li arrovescieranno la sua pelle addosso.
I lavoratori della terra.
Felici fien quelli che presteranno
orecchi [al]le parole de’ morti.
Leggere le bone opere e osservarle.
Le penne leveranno li omini, siccome li
uccelli, inverso il cielo.
Cioè per le lettere fatte da
esse penne.
L’umane opere fien cagione di lor
morte.
Le spade e le lance.
Li omini perseguiranno quella cosa
della qual più temano.
Cioè saran miseri per non venire
in miseria..
Le cose disunite s’uniranno e
riceveranno in sé tal virtù che renderanno la persa memoria alli omini.
Cioè i palpiri che sono fatti di
peli disuniti e tengano memoria delle cosse e fatti delli omini.
Vedrassi l’ossa de’ morti, con veloce
moto, trattare la fortuna del suo motore.
I dadi..
I boi colle lor corna difenderanno il
foco della sua morte.
La lanterna.
Le selve
partoriranno figlioli che fian causa della lor morte
Il manico della scura.
Li omini batteranno aspramente chi fia
causa della lor vita.
Batteranno il grano.
Le pelle delli animali removeranno li
omini con g[r]an gridori e bestemmie dal lor silenzio.
Le balle da giucare.
Molte volte la cosa disunita fia causa
di grande unizione.
Cioè il pettine, fatto della
disunita canna, unisce le file nella tela
Il vento passato per le pelli delli
animali farà saltare li omini.
Cioè la piva che fa ballare.
De noci battuti
Quelli che aranno fatto meglio saranno
più battuti e e sua figlioli tolti e scortica’ ovvero spogliati, e rotte
e fracassate le sue osse.
Delle scolture
Omè! Chi vedo il Salvatore di
nuovo crocefisso.
De la bocca
dell’omo ch’è sepoltura
Uscirà gran romori de le
sepolture de quelli che so’ finiti di cattiva e violente morte.
Delle pelle
delli animali che tengono il senso del tatto che v’è su le scritture
Quanto più si parlerà
colle pelle, veste del sentimento, tanto più s’acquisterà
sapienzia.
De’ preti che
tengano l’ostia in corpo
Allora tutti quasi i tabernacoli, dove sta
il Corpus Domini, si vederanno manifestamente per se stessi andare per diverse
strade del mondo.
E quelli che pascan l’er[b]e, faran
della notte giorno.
Sevo.
E molti terrestri e acquatici animali
monteranno fra le stelle.
E i pianeti.
Vedrassi i morti portare i vivi in
diverse parti.
I carri e navi.
A molti fia tolto il cibo di bocca.
A’ forni.
Del forno
E que’ che si imboccheranno per
l’altrui mani fia lor tolto il cibo di bocca.
Il forno.
De crocifissi
venduti
I’ vedo di nuovo venduto e crocifisso
Cristo e martirizzare i sua santi.
I medici che
vivan de’ malati
Verranno li omini in tanta
viltà, che aran di grazia che altri trionfi sopra i lor mali, ovver
della perduta lor vera ricchezza.
Cioè la sanità.
Delle religion
de’ frati che vivano per li loro santi, morti per assai tempo
Quelli che saranno morti, dopo mille
anni, fien quelli che daranno le spese a molti vivi.
De sassi
convertiti in calcina, de’ quali si mura le prigioni
Molti, che fien disfatti dal foco,
innanzi a questo tempo torranno la libertà a molti omini.
De’ putti che
tettano
Molti Franceschi, Domenichi e Benedetta
mangeranno quel che da altri altre volte vicinamente è stato mangiato,
che staranno molti mesi avanti che possino parlare.
De’ nicchi e
chiocciole, che son rebuttati dal mare, che marciscano dentro a lor gusci
O quanti fien
quelli che, poi che fien morti, marciranno nelle lor propie case, empiendo le
circustante parti piene di fetulente puzzo.
Tutte le cose,
che nel verno fien nascoste e sotto la neve, rimarranno scoperte e palese nella
state.
Detta per la bugia che non può
stare occulta
Delle taccole e
stornelli
Quelli che si fideranno abitare
appresso di lui, che saranno gran turbe, quasi tutti moriranno di crudele
morte. E si vedrà i padri colle madri d’insieme colle sue famiglie esser
da crudeli animali divorati e morti.
De’ villani in
camicia che lavorano
Verrà tenebre di verso l’oriente
le quali con tanto di oscurità tigneranno il cielo che copre l’Italia.
De’ barbieri
Tutti li omini si fuggiranno in Africa.
[Pronostico]
[Metti per ordine e mesi e le
cirimonie che s’usano, e così fa del giorno e della notte.
De’ segatori
Saranno molti,
che si moveran l’uno contra l’altro, tenendo in mano il tagliente ferro. Questi
non si faranno infra loro molto nocimento che di stanchezza, perché quanto
l’uno si caccerà inanti, tanto l’altro si ritirerà indirieto. Ma
trist’a chi si inframmetterà in mezzo, perché al fine rimarrà
tagliato a pezzi.
Il filatoio da
seta
Sentirassi le
dolenti grida, le alte strida, le rau[ch]e e infiocate voce di quei che fieno
con tormento ispogliati e al fine lasciati ignudi e sanza moto: e questo fia
causa del motore che tutto volge.
Del mettere e
trarre il pan della bocca del forno
Per tutte le città e terre e
castelle, ville e case si vedrà per disiderio di mangiare trarre il
proprio cibo di bocca l’uno all’altro sanza poter fare difesa alcuna.
Le terre
lavorate
Vedrassi voltare la terra sotto sopra,
e risguardare li oppositi emisperii e scoprire le spilonche a ferocissimi
animali.
Del seminare
Allor in gran
parte delli omini, che restaran vivi, gitteran fori de le lor case le serbate
vettovaglie in libera presa delli uccelli e animali terrestri, sanza curarsi
d’esse in parte alcuna.
Delle piove,
che fan ch’e fiumi intorbidati portan vie le terre
Verrà di verso il cielo che
trasmuterà gran parte dell’Africa, che si mostra a esso cielo in verso
l’Europa, e quella di Europa in verso l’Africa, e quelle delle provincie si
mischieranno insieme con gran revoluzione.
De’ legnami che
bruciano
Li alberi e
albusti delle gran selve si convertiranno in cenere.
Delle fornaci
di mattoni e calcina
Al fine la terra si farà rossa
per lo infocamento di molti giorni, e le pietre si convertiranno in cenere.
E pesci lessi
Li animali
d’acqua moriranno nelle bollenti acque.
L’ulive che
caggian de li ulivi e dannoci l’olio che fa lume
Discenderà
con furia di verso il cielo chi ci darà notrimento e luce.
Delle civette e
gufi con che s’uccella alla pania
Molti periranno
di fracassamento di testa, e salterà loro li occhi in gran parte della
testa, per causa di animali paurosi usciti dalle tenebre.
Del lino che fa
la carta de’ cenci
Sarà
riverito e onorato e con referenzia e amore ascoltato li sua precetti, di chi
prima fu splezzato, straziato e martorizzato da molte e diverse battiture.
De’ libri che
‘nsegnan precetti
I corpi
sanz’anima ci daranno con lor sentenzie precetti utili al ben morire.
De’ battuti e
scorreggiati
Li omini si nasconderanno sotto le
scorze delle iscorticate erbe, e quivi, gridando, si daran martiri, con
battimenti di membra a sé medesimi.
Della lussuria
E s’infurieranno delle cose più
belle, a cercare, possedere e operare le parte lor più brutte, dove poi,
con danno e penitenzia ritornati nel lor sentimento, n’aran grande ammirazion
di se stessi.
Dell’avaro
Molti fien quelli che con ogni studio e
sollecitudine seguiranno con furia quella cosa che sempre li ha spaventati, non
conoscendo la sua malignità.
Delli omini che
quanto più invecchiano più si fanno avari
chè,
avendoci a star poco, doverebbon farsi liberali
Vedrassi a quelli che son giudicati di
più sperienzia e giudizio, quanto egli hanno men bisogno delle cose, con
più avidità cercarle e riservare.
Della fossa
(Dilla in forma di frenesia o
farnetico, d’insania di cervello)
Staran molti occupati in esercizio a
levar di quella cosa, che tanto cresce, quanto se ne leva e quanto più
vi se ne pone, più diminuisce.
Del peso posto
sul piumaccio
E mo[l]ti corpi nel vedere da lor levar
la testa, si vedrà manifestamente crescere, e, rendendo loro la levata
testa, immediate diminuiscan lor grandezza.
Del pigliare
de’ pidocchi
E saran molti
cacciatori d’animali che quanto più ne piglieranno manco n’aranno; e
così, de converso, più n’aran quanto men ne piglieranno.
Dell’attigner
l’acqua colle due secchie a una sola corda
E rimarranno occupati molti che quanto
più tireranno in giù la cosa, essa più ne sfuggirà
in contrario moto.
La salsiccia
ch’entra nelle budella
Molti si faran casa delle [bude]lle e
abiteranno nelle loro propie.
Le lingue de’
porci e vitelle nelle budella
O cosa spurca,
che si vedrà l’uno animale aver la lingua in culo all’altro.
De’ crivelli
fatti di pelle di animali
Vedrassi il cibo degli animali passar
dentro alle lor pelli per ogni parte salvo che per la bocca e penetrare
dall’opposita parte insino alla piana terra.
Delle lanterna
Le feroce corna de’ possenti tori
difenderanno la luce notturna dall’impetuoso furor de’ venti.
Delle piume ne’
letti
Li animali
volatili sosterran l’omini colle loro propie penne.
Li omini che
van sopra li alberi andando in zoccoli
Saran sì
grande i fanghi, che li omini andranno sopra li alberi de’ lor paesi.
Della sola
delle scarpe che son di bue
E si
vedrà in gran parte del paese camminare sopra le pelli delli
grand’animali.
Del navicare
Sarà gran venti per li quali le
cose orientali si faranno occ[iden]tali e quelle di mezzo dì, in gran
parte miste col corso de’ v[en]ti, seguiranno per lunghi paese.
Delle pitture
ne’ santi adorati
Parleranno li omini alli omini che non
sentiranno; aran gli [occhi] aperti e non vedranno; parleranno a quelli e non
fie lor risposto; chiederan grazie a chi arà orecchi e non ode; faran
lume a chi è orbo [parleran] a’ sordi con gran [romo]re.
Del sognare
Andranno li omini e non si moveranno,
parleranno con chi non si trova, sentiranno chi non parla.
Dell’ombra che
si move coll’omo
Vedrassi forme e figure d’omini o
d’animali, che seguiranno essi animali e omini, du[v]unche fuggiranno; e tal
fia il moto dell’un quant’è dell’altro, ma parrà cosa mirabile
delle varie grandezze in che essi si trasmutano.
Delle ombre del
sole e dello specchiarsi nell’acqua ‘n un medesimo tempo
Vedrassi molte volte l’uno omo
diventare tre, e tutti lo seguano; e spesso l’uno, più certo,
l’abbandona.
Delle casse che
riservano molti tesori
Troverassi dentro a de’ noci e de li
alberi e altre piante tesori grandissimi, i quali lì stanno occulti.
Dello spegnere
el lume a chi va [a] letto
Molti, per mandare fori il fiato con
troppa prestezza, perderanno il vedere e in brieve tutti e sentimenti.
Delle
campanelle de’ muli che stan presso a’ loro orecchi
Sentirassi in
molte parte dell’Europa strumenti di varie magnitudine far diverse
armonie, con grandissime fatiche di chi più presso l’ode.
Delli asini
Le molte fatiche saran remunerate di
fame, di sete, di disagio e di mazzate e di punture.
De soldati a
cavallo
Molti saran veduti portare da grandi
animali con veloce corso alla ruina della sua vita e prestissima morte. Per
l’aria e per la terra saran veduti animali di diversi colori portarne con
furore li omini alla distruzione di lor vita.
Delle stelle
delli sproni
Per causa delle stelle si vedrà
li omini esser velocissimi al pari di qualunche animal veloce.
Il bastone
ch’è morto
Il movimento de’ morti farà
fuggire con dolore e pianto, con grida molti vivi.
Dell’esca
Con pietra e con ferro si
renderà visibile le cose che prima non si vedeano.
De’ boi che si
mangiano
Mangeranno e padron delle possessioni e
lor propi lavoratori.
Del battere il
letto per rifarlo
Verranno li omini in tanta
ingratitudine, che chi darà loro albergo sanza alcun prezzo, sarà
carico di bastonate in modo che gran parte delle interiora si spiccheranno del
loco loro e s’andranno rivoltando per suo corpo.
Delle cose che
si mangiano, che prima s’uccidano
Sarà morto da loro il lor
nutritore, e fragellato con dispietata morte.
Dello
specchiare le mura delle città nell’acqua de’ lor fossi
Vederassi l’alte mura delle gran
città sottosopra ne’ loro fossi. [Atl. 370 r.a.]
Dell’acqua che
corre torbida e mista con terra, e della polvere e nebbia mista
coll’aria, e
del foco misto col suo caldo con ciascuno
Vedrassi tutti li elementi insieme
misti con grande revoluzione, transcorrere ora inverso il centro del mondo, ora
inverso il cielo, e quando dalle parti meridianali scorreran con furia inverso
il freddo settantrione, a[l]cu[n]a volta dall’oriente inverso l’occidente, e
così di questo in quell’altro emisperio.
In ogni punto
si può fare divisione de’ due emisperi
Li omini tutti scambieranno emisperio
immediate.
In ogni punto
è divisione da oriente a occidente
Moveransi tutti li animali da oriente a
occidente, e così da aquilone a meridio.
Del moto
dell’acque, che portano e legnami che son morti
Corpi sanz’anima per sé medesimi si
moveranno, e porteran con seco innumerabile generazione di morti, togliendo le
ricchezze a’ circunstanti viventi.
Dell’ova, che
essendo mangiate, non possan fare e pulcini
O quanti fien quelli ai quali
sarà proibito il nascere!
De pesci che si
mangiano ovati
Infinita generazione si perderà
per la morte delle gravide.
Delli animali
che si castrano
A gran parte della spezie masculina,
pell’esser tolti loro e testiculi, fia proibito il generare.
Delle bestie
che fanno il cacio
Il latte fia tolto ai piccoli figlioli.
Delle sommate
fatte delle troie
A gran parte delle femmine latine fia
tolto e tagliate lor le tette insieme colla vita.
Del pianto
fatto il venerdì sancto
In tutte le parti d’Europa sarà
pianto da gran popoli la morte d’un solo omo.
Delle
maniche de coltegli fatte di corna di
castrone
Nelle corna delli animali si
vedrà taglienti ferri, colli quali si torrà la vita a molti della
loro spezie.
Della notte,
che non si cognosce alcun colore
Verrà a tanto che non si
cognoscerà differenzia in fra i colori, anzi si faran tutti di nera
qualità.
Delle spade e
lance, che per sé mai nociano a nessuno
Chi per sé è mansueto e sanza
alcuna offensione, si farà spaventevole e feroce mediante le triste
compagnie, e torrà la vita crudelissimamente a molte genti, e più
n’ucciderebbe, se corpi sanz’anima, usciti dalle spilonche, non li
difendessimo.
Cioè le corazze di ferro
De’ laccioli e
trappole
Molti morti si moveran con furia e
piglieranno e legheranno e vivi, e serberangli a lor nemici [a] cercar la lor
morte e distruzione. [Atl. 370 r.a.]
De’ metalli
Uscirà delle oscure e tenebrose
spelonche chi metterà tutta l’umana spezie in grandi affanni, pericoli e
morte; a molti seguaci lor dopo molti affanni darà diletto; e chi non
fia suo partigiano morrà con istento e calamità. Questo
commetterà infiniti tradimenti, questo aumenterà e
persuaderà li omini tristi alli assassinamenti e latrocini e le
servitù, questo terrà in sospetto i sua partigiani, questo
torrà la vita a molti, questo travaglierà li omini infra lor co'
molte flalde, inganni e tradimenti. O animal mostruoso, quanto sare’ meglio per
li omini che tu tornassi nell’inferno! Per costui rimarran diserte le gran
selve delle lor piante, per costui infiniti animali perdan la vita.
Del fuoco
Nascerà di piccol principio chi
si farà con prestezza grande. Questo non istimerà alcuna creata
cosa, anzi colla sua potenzia quasi il tutto sarà in potenzia di
transformare di suo essere in un altro.
De’ navili
ch’annegano
Vedrassi grandissimi corpi sanza vita
portare con furia moltitudine d’omini alla distruzione di lor vita.
Dello scrivere
lettere da un paese a un altro
Parleransi li
omini di remotissimi paese l’uno all’altro e risponderansi.
Degli emisperi
che sono infiniti e da infinite linie
son divisi in modo che sempre
ciascuno omo
n’ha una d’esse linie infra l’un piede e l’altro.
Parleransi e toccheransi e
abbracceransi li omini, stanti dall’uno all’altro emisperio, e [‘n]tenderansi i
loro linguaggi.
De preti che
dican messa
Molti fien quelli che, per esercitare
la loro arte, si vestiran ricchissimamente; e questo parrà esser fatto
secondo l’uso de’ grembiuli.
De’ frati [che]
confessano
Le sventurate donne di propia
volontà andranno a palesare a li omini tutte le loro lussurie e opere
vergognose e segretissime.
Delle chiese e
abitazion de’ frati
Assai saranno che lasceranno li
esercizi e le fatiche e povertà di vita e di roba, e andranno abitare
nelle ricchezze e trionfanti edifizi, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico
a Dio.
Del vendere il
Paradiso
Infinita moltitudine venderanno
pubblica e pacificamente cose di grandissimo prezzo, sanza licenza del padrone
di quelle, e che mai non furon loro, né in loro potestà, e a questo non
provvederà la giustizia umana.
De morti che si
vanno a sotterrare
O umane sciocchezze, o vive pazzie! I semplici popoli porteran
gran quantità di lumi per far lumi ne’ viaggi a tutti quelli [ch]e
integralmente han perso la virtù visiva.
Della dote
delle fanciulle
E dove prima la gioventù
femminina non si potea difendere dalla lussuria e rapina de’ maschi, né per
guardie di parenti, né per fortezza di mura, verrà tempo che
bisognerà che padri e parenti d’esse fanciulle paghin di gran prezzi chi
voglia dormire con loro, ancora che esse sien ricche, nobili e bellissime.
Certo e’ par qui che la natura voglia spegnere la umana spezie, come cosa
inutile al mondo e guastatrice di tutte le cose create.
Della
crudeltà dell’omo
Vedrassi animali sopra la terra, i
quali sempre combatteranno infra loro e con danni gravissimi e spesso morte di
ciascuna delle parte. Questi non aran termine nelle loro malignità; per
le fiere membra di questi verranno a terra gran parte delli alberi delle gran
selve dell’universo; e poi ch’e saran pasciuti, il nutrimento de’ lor desideri
sarà di dar morte e affanno e fatiche e paure e fuga a qualunche cosa
animata. E per la loro ismisurata superbia questi si vorranno levare inverso il
cielo, ma la superchia gravezza delle lor membra gli terrà in basso. Nulla
cosa resterà sopra la terra, o sotto la terra e l’acqua, che non sia
perseguitata, remossa o guasta; e quella dell’un paese remossa nell’altro; e ‘l
corpo di questi si farà sepoltura e transito di tutti i già da
lor morti corpi animati.
O mondo, come
non t’apri? e precipita nell’alte fessure de’ tua gran balatri e
spelonche, e non mostrare più al cielo sì crudele e dispietato
monstro.
Del navicare
Vedrassi li alberi delle gran selve di
Taurus e di Sinai, Apennino e Talas scorrere per l’aria da oriente a occidente,
da aquilone a meridie, e portarne per l’aria gran moltitudine d’omini. O quanti
voti, o quanti morti, o quanta separazion d’amici e di parenti, o quanti fien
quelli che non rivedranno più le lor provincie, né le lor patrie, e che
morran sanza sepoltura, colle loro ossa sparse in diversi siti del mondo!
Dello
isgombrare l’Ognisanti
Molti abbandoneranno le propie
abitazioni, e porteran con seco tutti e sua valsenti, e andranno abitare in
altri paese.
Del dì
de’ morti
E quanti fien
quelli che piangeranno i lor antichi morti, portando lumi a quelli!
De’ frati che
spendendo parole ricevano di gran ricchezze, e danno il Paradiso
Le invisibile
monete faran trionfare molti spenditori di quelle.
Degli archi
fatti colli corni de’ buoi
Molti fien
quelli che per causa delle bovine corna moriranno di dolente morte.
[Divisione
della profezia]
[ Prima delle cose degli animali
razionali, seconda delli inrazionali, terza delle piante, quarta delle
cirimonie, quinta de’ costumi, sesta delli casi ovvero editti ovver quistioni,
settima de’ casi che non possono stare in natura, come dire:”di quella cosa
quanto più ne levi, più cresce”, e riserva i gran casi inverso il
fine e deboli dal principio, e mostra prima e mali e poi le punizioni; ottava
delle cose filosofiche.
De’ cristiani
Molti, che
tengono la fede del figliolo, e sol fan templi nel nome della madre.
Del cibo stato
animato
Gran parte de’
corpi animati passerà pe’ corpi degli altri animali; cioè, le
case disabitate passeran in pezzi per le case abitate, dando a quelle un
[u]tile, e portando con seco i sua danni.
Quest’è cioè: la vita
dell’omo si fa delle cose mangiate, le quali portan con seco la parte dell’omo
ch’è morta
Delli omini che
dorman nell’asse d’albero
Li omini
dormiranno e mangeranno e abiteranno infra li alberi, nati nelle selve e
campagne.
Del sognare
Alli omini parrà vedere nel
cielo nove ruine, parrà in quelli levarsi a volo e di quello fuggire con
paura le fiamme, che di lui discendano, sentiran parlare li animali di
qualunche sorte di linguaggio umano, scorreranno immediate colla lor persona in
diverse parte del mondo sanza moto, vedranno nelle tenebre grandissimi
sprendori. O maraviglia delle umane spezie, qual frenesia t’ha sì
condotto? Parlerai cogli animali di qualunche spezie e quelli con teco in
linguaggio umano, vedrai cadere di gran altura sanza tuo danno, i torrenti
t’accompagneranno …
Delle formiche
Molti popoli fien quelli che
nasconderan sé e sua figlioli [e] vettovaglie dentro alle oscure caverne; e
lì, nelli lochi tenebrosi, ciberan sé e sua famiglia per molti mesi,
sanza altro lume accidentale o naturale.
Dell’ape
E a molti altri saran tolte le
munizioni e lor cibi, e crudelmente da gente sanza ragione saranno sommerse o
annegate. O giustizia di Dio, perché non ti desti a vedere così
malmenare e tua creati?
Delle pecore,
vacche, capre e simili
A innumerabili
saran tolti e loro piccoli figlioli, e quelli scannati e crudelissimamente
squartati.
Delle noci e ulive
e ghiande e castagni e simili
Molti figlioli
da dispietate bastonate fien tolti delle propie braccia delle lor madri e
gittati in terra e poi lacerati
De fanciulli
che stanno legati nelle fasce
O città marine, io veggo in voi
i vostri cittadini, così femmine come maschi, essere istrettamente dei
forti legami colle braccia e gambe esser legati da gente che non intenderanno i
vostri linguaggi, e sol vi potrete isfogare li vostri dolori e perduta
libertà mediante i lagrimosi pianti e li sospiri e lamentazione infra
voi medesimi, chè chi vi lega non v’intenderà, né voi loro
intenderete.
Delle gatte che
mangiano e topi
A voi, città dell’Africa, si
vedrà i vostri nati essere squarciati nelle propie case da crudelissimi
e rapaci animali del paese vostro.
Delli asini
bastonati
O natura
instaccurata, perché ti se’ fatta parziale, facendoti ai tua figli d’alcuni
pietosa e benigna madre, ad altri crudelissima e dispietata matrigna? Io veggo
i tua figlioli esser dati in altrui servitù sanza mai benefizio alcuno;
e in loco di remunerazione de’ fatti benefizi, esser pagati di grandissimi
martiri; e spender sempre la lor vita in benefizio del suo malefattore.